Alessandra Casarico e Paola Profeta
Promuovere la presenza delle donne nell’economia e nella politica non è solo una questione di equità e pari diritti. È anche un buon investimento.
Secondo una recente indagine del World economic forum, i Paesi in cui il differenziale di genere è inferiore hanno migliori performance economiche, misurate in termini di Prodotto interno lordo pro-capite e di competitività del sistema. Il differenziale di genere misura le disparità tra uomini e donne secondo quattro dimensioni: la partecipazione e le opportunità nel mercato del lavoro, i risultati nel campo dell’istruzione, l’accesso alle cariche politiche e le condizioni di salute. Come richiamato dalla stampa negli ultimi mesi, l’Italia, in Europa, è tra i Paesi con i risultati peggiori in termini di differenziali di genere, in particolare con riferimento a lavoro e politica. Questo evidenzia, specialmente per l’Italia, un potenziale di crescita che un maggiore e migliore impiego delle capacità femminili consentirebbe di mettere a frutto. O, visto da un’altra angolazione, un costo che sarebbe bene ridurre.
Gli studi economici concordano sui principali fattori che determinano il livello del Pil e la sua crescita. Il numero di ore lavorate e la loro produttività sono cruciali. L’Italia, tra i Paesi Ocse, soffre di un mancato utilizzo della sua forza lavoro potenziale, perdendo così almeno il 10% del Pil (calcolato rispetto a quello statunitense). Gran parte della forza lavoro inutilizzata è donna: il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i
64 anni è stato pari, nel 2006, al 46% contro il 70,7% per gli uomini (e contro un obiettivo fissato per il 2010 dal Consiglio Europeo di Lisbona del 60%).
Nelle coorti più giovani, il tasso di occupazione femminile è più elevato ed è pari al 58,8% (per il gruppo 25-34 anni), suggerendo una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne. Tuttavia il divario con gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di età è superiore all’ 80%, resta significativo.
Dato il limitato utilizzo della forza lavoro femminile, un suo maggiore coinvolgimento è, per l’Italia, la soluzione più naturale a cui pensare se l’obiettivo è la crescita.
Non è nostra intenzione in questa sede elaborare una misura rigorosa del costo associato alle mancate pari opportunità. Vogliamo però proporre, in modo suggestivo, un esempio che illustri il costo della (parziale) assenza delle donne valutando l’incremento di Pil che il loro ingresso sul mercato del lavoro genererebbe.
Consideriamo il valore aggiunto per unità standard di lavoro nei quattro
settori: agricoltura, industria in senso stretto, costruzioni e servizi.
Guardiamo inoltre alla distribuzione della forza lavoro femminile in ciascun
settore: nel 2005, più del 78% delle donne è occupato nel settore dei servizi, circa l’1% nelle costruzioni, il 16,5% nell’industria in senso stretto e il rimanente nell’agricoltura. Immaginiamo l’ingresso di 100mila donne sul mercato del lavoro – un incremento di poco più dell’1% nel tasso di occupazione femminile – che si ripartiscono tra i vari settori secondo la distribuzione attuale e calcoliamo il valore aggiunto prodotto, nell’ipotesi che ognuna contribuisca in misura pari ad una unità standard di lavoro nel proprio settore di attività. Questa ipotesi implica che, non solo le donne entrino nel mercato del lavoro, ma, per cogliere a pieno i vantaggi del loro ingresso, siano trattate sul piano salariale e occupazionale come un lavoratore medio, cioè senza discriminazione. Come vedremo in un secondo articolo, questo è un auspicio, più che un dato di fatto della realtà lavorativa italiana, fortemente discriminatoria.
I nostri calcoli ci dicono che il maggior valore aggiunto ammonterebbe allo 0,28% del Pil corrente. Non è poco: potrebbe da solo finanziare un incremento del 30% della spesa pubblica italiana per la famiglia e così innescare un circolo virtuoso di maggiori opportunità e crescita. Circolo ancora più promettente se si considera che 100mila donne sono un numero irrisorio rispetto ai quasi tre milioni di ingressi che ci separano da Lisbona. Numero piccolo anche solo in confronto alle quasi 900mila donne che mancano per eguagliare il tasso di occupazione femminile e maschile nelle coorti più giovani.
Ovviamente flussi di ampie dimensioni richiederebbero necessariamente aggiustamenti sulla struttura produttiva, salari, capitale e fattori fissi che potrebbero attenuare l’impatto positivo sopra evidenziato. D’altra parte un ulteriore effetto benefico sul valore aggiunto può derivare dall’aumento nella domanda di servizi domestici e di servizi per l’infanzia, pubblici e privati, tipicamente svolti dalle donne e non valutati nelle stime del Pil.
Se questi sono i guadagni che possono generare, perché le donne allora hanno un ruolo così marginale nel mercato del lavoro italiano?
alessandra.casarico@uni-bocconi.it
paola.profeta@uni-bocconi.it
Gent.me, ho visitato il vostro sito e mi è venuta voglia di scrivervi per raccontarvi alcune cose.
Mi chiamo Margherita, ho 41 anni e vivo a Milano da sempre. Ho una bimba di 3 anni e mezzo e lavoro per una grande azienda nel settore comunicazioni da 9 anni. Ho un contratto a tempo indeterminato ma sono riuscita, praticamente “elemosinando”
anche tramite un amico della Cisl, ad ottenere dall’ufficio del personale un part time a 6 ore continuative (senza pausa pranzo) con rinnovi semestrali. Quest’ultimo rinnovo scade il 31/12 e dal 1 gennaio dovrei rientrare a 8 ore perché, dicono, in azienda non ci sono posizioni per concedere un part time definitivo.
A parte questo modo di fare che da parte di una grande e solida azienda è veramente assurdo, c’è il grandissimo problema di COME vengono trattate e considerate le MAMME che vanno in maternità e poi rientrano al lavoro!
Veniamo mobbizzate, spostate da una direzione all’altra, a volte non troviamo nemmeno la scrivania, i ruoli che ci vengono assegnati sono marginali perché si sa…una mamma non è come una giovane single rampante che ha una disponibilità totale nei confronti del “capo” e dell’azienda!
Ci stiamo muovendo col sindacato ma è molto, molto difficile risolvere i problemi e alla fine ci rendiamo conto, io e tante amiche mamme che lavorano qui, che c’è una chiusura totale da parte dell’ufficio del personale, dei responsabili delle direzioni e di fondo dell’azienda stessa.
Credo comunque che il problema sia a livello nazionale. Una mia amica separata con due figli a carico che lavorava presso un importante Tour Operator ed è stata licenziata perché, chiesto il part time più volte e ricevuto più volte il rifiuto da parte dell’azienda, faceva spesso malattia per la fatica di sopportare ritmi così stressanti e adesso è entrata in causa con l’azienda.
Parlando con tutte queste donne mi è venuto in mente: ma non si potrebbe cominciare a sollevare questa grave problematica organizzando che so una manifestazione, un banchetto davanti al Comune di Milano o altrove, scusate magari risulto ridicola ma non mi intendo di queste cose…..Mi piacerebbe chiamare i media, i giornali, far sentire un po’ di voce perché comunque una donna che diventa mamma non si “rincoglionisce” , non diventa uno scarto della società da mettere in
una buia scrivania senza niente da fare….a me è successo l’esatto contrario!! Dopo la gravidanza e la nascita di mia figlia sono RINATA, ho ritrovato me stessa e ogni giorno faccio dei passi avanti verso una nuova consapevolezza di me e della mia forza.
La forza delle donne!
Rosanna Santonocito
In Italia solo il 45,2% delle donne lavora. Nell’Europa dei 15 le occupate sono il 56,7%, un tasso inferiore dii5 punti a quello maschile. In Svezia il tasso è del 71%, in Germania circa il 60, mentre la Francia tiene il passo dell’Europa con il 56,6% di lavoratrici. Secondo i più recenti dati dell’Ocse (relativi al 2004) anche la Spagna ci supera di quattro punti percentuali. Allo scarto del dato italiano rispetto a tutti i Paesi Uè – eccettuata la Grecia – si aggiunge anche la distanza rispetto all’obiettivo del 60% di donne italiane con un lavoro dettato da Lisbona, da raggiungere entro il 2010.
Le ragioni di un ritardo che non si recupera stanno nella scarsa “accoglienza sociale” – è la definizione della sociologa Marina Piazza di Gender – che il lavoro delle donne trova nel nostro Paese. Difficile è conquistarlo e più difficile ancora mantenerlo. Pesano culture aziendali, orari e tempi che, dentro e fuori dalle organizzazioni, non tengono conto del doppio impegno impiego-famiglia, carriera ardua e retribuzioni più basse. E se non c’è un solo fattore responsabile non ci può essere nemmeno una soluzione unica. “È necessaria – suggerisce Marina Piazza – una trasversalità delle analisi e delle politiche”. Significa che, per far crescere il tasso delle italiane occupate e farcela a tagliare il traguardo del 60% servono più risposte e su più campi d’azione: la formazione, i tempi dentro e fuori al lavoro, le politiche, il modo in cui ruoli e compiti sono vissuti da donne e uomini.
Poche donne lavorano? Nemmeno questo è vero: le italiane attive sono molte di più dei quelle che le statistiche registrano. Il lavoro delle donne è ancora, in molti casi, nascosto o irregolare. “Gli studi sul sommerso di- cono che gran parte di esso riguarda manodopera femminile” commenta la sociologa.
Le donne sono più presenti nei lavori atipici (come le co.co.co), che riguardano la fascia delle più giovani. La flessibilità delle forme contrattuali si scontra invece con una rigidità persistente dell’organizzazione delle città e dei servizi. Anche la flessibilità “amica” del part time è scarsamente praticata: “se ne fa poco, riguarda solo il 12% di cui il 25% sono le donne, mentre l’alta percentuale di lavoro a tempo parziale è l’elemento che fa alzare i tassi altrove: un esempio è il 25% dell’Olanda”, aggiunge Marina Piazza. L’accoglienza sociale verso la volontà di lavorare delle donne interferisce soprattutto sul- la quota di madri attive. Entro il primo anno di vita del figlio, esaurite le possibilità dei congedi di legge, con difficoltà ad accedere al part time, senza la disponibilità di asili nido o in mancanza di nonni collaborativi “il 29% delle madri, abbandona il lavoro, e questo accade soprat- tutto nelle basse qualifiche. Al contrario, i Paesi europei dove nascono più bambini hanno anche tassi più alti di occupazione femminile”. Il paradosso “meno lavoro uguale meno figli” appare confermato anche dall’ultimo dato Istat secondo cui anche regioni del sud come Campania e in Sardegna evidenziano tassi di natalità in discesa. Ai livelli professionali alti, sul lavoro femminile pesa la mancata gratificazione della carriera e della retribuzione. Più si avanza nella scala aziendale, più la differenza tra le retribuzioni di uomini e donne (che in media è del 20%) aumenta, a scapito, naturalmente, delle seconde. “Se ai livelli bassi i con- tratti proteggono – spiega l’esperta – avanzando nella gerarchia, scelte come quella del part time o del congedo parentale rallentano la carriera. Chi investe sulla professione deve farlo “bilanciando” sulla famiglia, perché in Italia il lavoro di cura pesa molto di più che negli altri Paesi europei e c’è l’idea che, in fondo, i figli siano un problema solo nostro”. E una questione di cultura che rischia di perpe- tuarsi senza interventi appro- priati: siamo l’unico Paese, suggerisce la sociologa, dove non si fanno campagne di opinione sulla condivisione del lavoro in casa e l’identità di genere. Uomini e donnne restano schiacciati sui propri ruoli tradi- zionali, anche se qualcosa si è mosso almeno dal punto di vista dell’identità e della formazione. L’occupazione femminile si alza in relazione all’istruzione: più le donne sono istruite e qualificate più facilmente trovano lavoro. Solo nella fascia oltre i 40 anni le donne sono leg- germente inferiori agli uomini per scolarizzazione, non tra i diplomati e i laureati. “Nelle fasce di età più giovani, quella tra i 25 e i 40 anni, la partecipazione al lavoro – nota Marina Piazza – è molto più rilevante rispetto alle generazioni precedenti, e non siamo inferiori alla media europea. La precentuale del 42,5% è data in realtà dalle donne oltre i 45-50 anni che scontano il fatto di essere meno scolarizzate e di avere radicata una cultura della “casalinghità”. Ma, in generale le italiane han- no identità personali ben stabi- lizzate sui due pilastri lavoro e vita familiare, ed è una via sen- za ritorno”.
Intervista a Dorothée Ramaut, medico del lavoro in un ipermercato di Parigi
Anna Maria Merlo – Parigi
Quando Engels ha scritto sulla situazione della classe operaia in Inghilterra, nel 1848, c’erano più domestici che lavoratori delle manifatture, ma aveva capito che la novità era qui. Così oggi, anche se i dipendenti degli ipermercati o dei call center non sono maggioranza, è in questi luoghi che si configurano le condizioni di lavoro che il nuovo capitalismo vorrebbe generalizzare. Pressione delle gerarchie, sui lavoratori precari e su se stesse, solitudine del lavoratore a causa della progressiva debolezza sindacale, paura di perdere il posto: questa situazione viene interiorizzata, si ripercuote sulla salute. Per questo lo sguardo di un medico del lavoro può oggi aiutare a capire come si configurano le nuove sofferenze sul lavoro.
Dorothée Ramaut da vent’anni è medico del lavoro in un ipermercato della periferia parigina. Ha appena pubblicato un diario della sua esperienza, Journal d’un médecin du travail. Témoignage (Le Cherche Midi, 174 pagine, 10 euro), dal giugno 2000 al marzo 2006, che sta sollevando in Francia grande interesse.
Come si è resa conto che i lavoratori, anche i quadri, vivevano la sofferenza che lei descrive?
Non me ne sono resa conto subito. L’azienda, quando qualcuno non stava bene, aveva sempre la stessa giustificazione: è un cattivo elemento. Ma quando ho avuto di fronte a me uno di questi cattivi elementi, che lavorava nel supermercato da più di 15 anni, mi sono interrogata, mi sono detta : ma qui c’è qualcosa che non va. Il problema è che i quadri sono inseriti in un sistema dove sono contemporaneamente protagonisti e vittime.
Lei sottolinea la solitudine dei lavoratori.
Non c’è più solidarietà, ma regna la paura. I sindacati sono paralizzati, perché sono costituiti da esseri umani, che vivono nella paura. Tutti sanno cosa succede quando qualcuno sta male, lo sanno i quadri dirigenti, lo sanno i clienti dell’ipermercato, che osservano la situazione, lo sanno le istanze esterne, come l’ispettorato del lavoro, i controllori della Sécurité sociale, i comitati di igiene e sicurezza. Ma nessuno dice niente. La gente accetta il sistema perché non può fare altrimenti. Nelle imprese della grande distribuzione c’è molto precariato, molto subappalto e molti sono alla ricerca di un posto. Le persone si sentono rivali tra loro, le solidarietà non funzionano più, le strategie professionali e di difesa non funzionano più. I più deboli diventano vittime, ma la mia esprienza mi ha mostrato molti casi in cui uno che si credeva forte, che era un capo, da un giorno all’altro si ritrova debole a sua volta, senza capire perché.
Le malattie che queste persone sviluppano sono soprattutto psichiche o anche fisiche?
Ci sono malattie fisiche, mal di schiena, mal di testa, ipertensioni arteriose, eczemi, psoriasi, fino all’infarto, con la morte come conclusione, ulcere, diarree. E’ difficile quantificare. Poi ci sono le malattie mentali, depressione, incubi, persone che si svalorizzano, che perdono la stima di sé, cosa che può arrivare fino al suicidio. E’ l’identità dell’individuo che viene toccata e questo lascia sempre delle tracce. Queste persone dall’identità demolita, demoliscono a loro volta quella degli altri. La sera, a casa, si sfogano sulla famiglia. C’è da chiedersi come fanno a trasmettere dei valori ai figli, quale valore del lavoro possano tramandare. Ma ogni volta che ho osservato un caso di malattia del genere, la direzione mi ha sempre risposto: non è il lavoro, è perché il dipendente ha dei problemi privati. Questa risposta evita così di fare un’analisi del lavoro. Anche stamattina, la stessa cosa: un’impiegata con problemi di salute, “è la menopausa” mi ha detto il capo. Tutto viene addebitato all’individuo, evitando così di rimettere in causa il lavoro. Mentre tutti gli studi dicono che quando il lavoro non va ci sono ripercussioni sulla vita privata, mentre il contrario non è vero, anzi. Almeno c’è il lavoro, si dice quando ci sono problemi privati. Un tempo i lavoratori erano fisicamente stanchi. Ma c’era lo spazio per recuperare. Oggi non è più possibile, quando il lavoratore è ferito nell’identità personale. Nel mio supermercato i dipendenti non vengono criticati per sbagli fatti sul lavoro, cosa che può essere compresa, ma toccati nell’identità : a chi ha più di 35 anni, chiamati “italiano”, “portoghese”, invece che per nome, “di gente come te sono piene le pattumiere”, ecc. E’ destabilizzante.
Lei scrive che i medici del lavoro hanno oggi la responsabilità di denunciare la situazione, per non farsi accusare, come è stato con l’amianto, di aver chiuso gli occhi?
E’ la stessa cosa. Noi sappiamo, ma poi non riusciamo a farci ascoltare. Mai viene chiesto il parere a un medico del lavoro nello spazio pubblico. Per questo ho scritto questo libro. Ma non pensavo che avesse un impatto del genere: la situazione è quindi più grave di quello che pensassi.
Eppure le leggi di protezione dei lavoratori esistono, come mai non funzionano?
Certo, l’arsenale giuridico esiste. Ma quando un lavoratore denuncia un caso di molestia sul lavoro, è molto difficile trovare delle testimonianze. Siamo sempre di fronte alla stessa questione: domina la paura, le solidarietà sono scomparse, conta solo la redditività, i profitti a breve. La riscossa deve partire a livello di ogni impresa, secondo me, per ritroavre il rispetto reciproco, per ristabilire il dialogo. Anche le imprese devono capire che l’essere umano deve essere rimesso al centro. Oggi in Francia si parla molto di rimettere al lavoro le persone di più di 50 anni. Ma se le trattano così, nessuno accetterà. Io sono costretta a consigliare a qualcuno che soffre di andarsene, di licenziarsi. Quando c’è stata la rivolta delle banlieues, l’anno scorso, è stato detto: è colpa del fatto che non hanno lavoro. Ma se poi, sul lavoro, c’è un’estrema violenza, come se ne esce?
Lo sciopero inglese che fece scoprire gli stranieri
Si fermarono per due anni, ma la loro lotta venne sconfitta. Erano lavoratrici asiatiche, dipendenti di un’azienda di sviluppo fotografico a nord di Londra, che per la prima volta osavano opporsi al padrone
Orsola Casagrande
Arthur Scargill, Billy Jenkins, Tyrone O’Sullivan, Anne Jones, Jayaben Desai. Sono nomi (e ce ne sono molti altri) che evocano battaglie epiche. Nomi di lavoratori e sindacalisti che in Gran Bretagna tutti conoscono. Al pari di Lady D o Al Fayet, il padrone dei magazzini Harrods. Sono nomi di minatori, di portuali, di «picchetti», di stampatori, di lavoratrici del tessile, metalmeccanici.
Le categorie sindacali britanniche, riunite nel Tuc (Trade Union Congress), non sono state sempre attente alla memoria. Ci hanno però pensato i lavoratori e le lavoratrici stesse a mantenere vivo il ricordo di lotte davvero epiche, com’è stata quella del grande sciopero dei minatori del 1984-85, o quella dei dockers di Liverpool del 1995-97, o quella dei tipografi che seguì quella dei miners nel 1986. Ci sono poi lotte meno conosciute ma altrettanto epiche che grazie ai loro protagonisti e a sezioni sindacali particolarmente attente continuano a rimanere ben stampate nella memoria.
Luglio 1976
Una di queste lotte è quella di Grunwick. Due anni di scioperi e picchetti, dal luglio 1976 all’estate del 1978, in una vertenza che per la prima volta fece emergere dal buio i lavoratori migranti. Anzi, in questo caso le lavoratrici, visto che nella fabbrica di sviluppo fotografico di Willesden (nord est di Londra) lavoravano soprattutto donne, per lo più di origini asiatiche.
L’estate del 1976 è ricordata come particolarmente calda. Grunwick aveva due stabilimenti, uno in Chapter Road e uno in Cobbold Road. Il sindacato nella fabbrica era soltanto un miraggio. I dipendenti, quasi tutte donne di origine asiatica o east africana. Le condizioni di lavoro erano terribili, soprattutto nel dipartimento ordini postali (le foto sviluppate venivano spedite via posta ad un ritmo frenetico). Le donne venivano pagate salari diversi, a seconda della loro mansione, e non solo. Le lavoratrici bianche infatti erano pagate molto di più di quelle non bianche. Lo straordinario era obbligatorio e veniva imposto senza ampi preavvisi. Lo stipendio più basso era di 28 sterline per una settimana di quaranta ore. La media nazionale era di 72 sterline la settimana. I licenziamenti erano selvaggi e il turn over annuale del 100%. Quattro giovani lavoratori avevano cominciato a discutere della necessità di far entrare il sindacato in fabbrica, specie nel dipartimento ordini postali. Come forma di protesta cominciarono a lavorare a ritmi molto lenti. La risposta dei padroni non si fece attendere: un lavoratore venne licenziato. Gli altri tre proclamarono uno sciopero spontaneo in solidarietà con il compagno. L’estate si faceva sempre più calda e non solo per la crescente temperatura.
Quando i capi dissero a Jayaben Desai che doveva fare dell’altro straordinario, la donna protestò dicendo al suo capo che gestiva l’azienda come uno zoo e non come un posto di lavoro. In una frase che diventò un po’ lo slogan della vertenza, Jayaben disse che lei in quello zoo non era una scimmietta obbediente, ma una leonessa.
Madre e figlio
La donna e il figlio Sunil si unirono alla protesta dei quattro dipendenti contro il licenziamento di qualche giorno prima. Cominciarono a presidiare i cancelli della fabbrica. Chiesero aiuto e consiglio alle unions e tornarono ai cancelli con poster scritti a mano e con una petizione con cui chiedevano il riconoscimento del sindacato. La protesta si propagò all’interno della fabbrica in un attimo e nel giro di una settimana 137 dipendenti su 480 erano in sciopero. La maggioranza donne di origini asiatiche. Molte si iscrissero al sindacato Apex. La lotta che seguì fu dura e anche violenta. Oggi, trent’anni dopo quei picchetti le cui foto fecero il giro del paese conquistando la solidarietà di tantissimi lavoratori di altre categorie, quello sciopero saranno commemorati in grande stile. Ci sarà Jayaben Desai, naturalmente, leader indiscussa e carismatica di quella vertenza. Nata a Gujarat, in India, Desai ha vissuto prima in Tanzania e poi nel 1969 è arrivata in Gran Bretagna. In una lunga video intervista questa donna minuta ma determinata ricorda le emozioni di quella lotta. “E’ stato incredibile. Avevo le lacrime agli occhi davanti a quelle donne in lotta. La polizia le caricava con i cavalli e loro rimanevano immobili davanti ai cancelli”. La vertenza fu durissima. I picchetti quotidianamente bastonati dalla polizia. “Nei giorni più tesi della lotta – ricorda Desai – c’erano anche 20mila persone al picchetto”. Un giorno, nel novembre del 1977 c’erano ottomila persone davanti ai cancelli. “Quel giorno – ricorda Desai – 243 persone furono ferite assai gravemente, 12 si ritrovarono con il naso rotto e 113 vennero arrestate”. Anche Desai, divenuta portavoce delle lavoratrici in lotta, fu arrestata (l’accusa era di aver assalito un poliziotto) ma venne rilasciata subito per insufficienza di prove.
Come spesso è accaduto nelle lotte dei lavoratori britannici, i vertici sindacali non avevano dato il loro appoggio alle donne di Grunwick. E’ accaduto lo stesso con i minatori, e anche con i portuali di Liverpool, anni dopo. Ma la lotta di Grunwick aveva anche un altro connotato. Era guidata da lavoratori migranti e donne. Le discriminazioni di cui parlavano queste lavoratrici erano sì legate al loro sesso ma anche al colore della loro pelle, come non si stancarono mai di denunciare. Le unions avevano avuto fino al ’76 una pessima nomea: raramente, infatti, avevano appoggiato scioperi dei lavoratori non bianchi contro lo sfruttamento razzista di tanti datori di lavoro. Ma quello era l’anno in cui il governo Labour (premier James Callaghan) si stava apprestando a varare una nuova legge sulle relazioni tra le razze e questo convinse le unions (molto in ritardo va detto) ad appoggiare, seppur con riluttanza, la lotta di Grunwick. Naturalmente lo fecero tentando di sminuire la valenza razziale di quella lotta. E quando il comitato per lo sciopero chiese al Tuc di boicottare alcuni servizi esterni essenziali per il funzionamento di Grunwick, questo rifiutò e per disperazione Desai e altri tre lavoratrici cominciarono uno sciopero della fame. La Apex, spinta dai vertici del Tuc arrivò perfino a sospendere le lavoratrici che si erano iscritte durante la vertenza.
Le licenziate
La lotta durò ancora diversi mesi, nonostante al padrone si fosse aggiunto anche il sindacato come nemico, e fu dichiarata conclusa il 14 luglio 1978. Fu una sconfitta: le lavoratrici licenziate non vennero reintegrate e il sindacato non fu riconosciuto dal datore di lavoro. Ironicamente i salari, durante i due anni di sciopero, aumentarono del 25%.
Trent’anni dopo quella dura vertenza suscita ancora aspre discussioni. E non potrebbe essere altrimenti. Accade lo stesso quando si parla dello sciopero dei minatori del 1984 o di quello dei portuali. Il ruolo del sindacato, dei vertici sindacali, è stato per molti lavoratori decisivo nella sconfitta di quelle lotte. La solidarietà dei lavoratori invece non mancò mai alle donne di Grunwick. Spontaneamente (il sindacato infatti non li sostenne) molti lavoratori dei servizi postali organizzarono il boicottaggio degli ordini destinati alla fabbrica. Lavoratori di altre categorie andarono a dare man forte alle donne nei picchetti davanti ai cancelli. C’erano metalmeccanici, minatori, dipendenti delle poste. Che furono arrestati, fermati, denunciati. Il governo annunciò una inchiesta pubblica sulla vertenza che ormai era diventata un caso politico. Nonostante l’inchiesta stabilisse che i lavoratori erano giustifcati nella loro azione di lotta non fece nulla per imporre, o anche solo suggerire, cambiamenti alla direzione di Grunwick. Le conseguenze furono disastrose per il Labour e per il movimento sindacale: un anno dopo la fine della vertenza alla Grunwick sarebbe salita al potere Margaret Thatcher che avrebbe dato il colpo di grazia alle già deboli e divise unions. Ovviamente la Lady di Ferro incontrò molta resistenza nella sua guerra contro i lavoratori, a partire dai minatori. Ancora oggi comunque il new Labour non ha del tutto eliminato le legge antisindacali varate dai governi Tories che l’hanno preceduto.
Per discutere di questo e ricordare la lotta di Grunwick trent’anni fa, il sindacato organizza al Tricycle Theatre domenica 17 settembre una serie di eventi. Sarà un’occasione per riascoltare non solo Jayaben Desai, ma anche Arthur Scargill, il leader dei minatori che la signora Thatcher proclamò, assieme ai suoi energici miners ‘public enemy number One’. Ci sarà anche l’allora leader del Tuc, Jack Dromey e molte delle lavoratrici protagoniste di quella lunga lotta. Ci saranno mostre e filmati dell’epoca. Il tutto in uno dei luoghi, il teatro Tricyle nel quartiere londinese di Kilburn, più interessanti e ‘militanti’ di Londra.
CONVEGNO “TEMPOPERMETTENDO”, A MODENA UNA DUE GIORNI SULLE AZIONI PER LA CONCILIAZIONE DEI TEMPI DI VITA E DI LAVORO
Il 29 e 30 settembre prossimi si svolgerà a Modena, presso la Sala Conferenze di
via Canaletto 88, il convegno organizzato dal Centro documentazione donna
“Tempopermettendo”.
Il convegno intende affrontare il tema della conciliazione dei tempi di vita e
di lavoro da differenti punti di osservazione, per comprendere come il concetto
di tempo modelli le nostre esperienze di vita sociale e come gli orari ed i
ritmi del quotidiano condizionino i nostri comportamenti. Verrà presentata
inoltre la “Rete regionale per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”,
(costituita da oltre 40 partner tra soggetti istituzionali e non che lavorano
insieme per sperimentare nuove politiche sui tempi e buone prassi) e gli
interventi concreti realizzati. In particolare saranno presentate diverse
sperimentazioni in corso sull’utilizzo del voucher di cura, un contributo
economico per l’acquisto di servizi a sostegno della conciliazione.
Nella giornata di sabato, presso il Centro MoMo, avrà luogo un laboratorio di
sensibilizzazione rivolto a coppie di genitori sulla condivisione del lavoro di
cura familiare. Sono previste attività ricreative e di baby sitting per i bimbi.
Il programma completo dell’iniziativa è visualizzabile su Tempopermettendo, il
sito della Conciliazione, all’indirizzo:
www. tempopermettendo.info.
Il convegno è realizzato all’interno del Progetto “Conciliazione: Rete regionale
di sostegno della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”(rif. PA 2004
801/RER Ob.3 E1), promosso dal Centro Documentazione Donna.
per informazioni:
Gabriella Delizzos – Coordinatrice del progetto
Centro Documentazione Donna
Via Canaletto 88 – 41100 Modena
tel. 059/451036 – Fax 059/451612
e-mail: gabriella.cddonna5@comune.modena.it
http://www.tempopermettendo.info
Il superconsulente Tom Peters: «E per le aziende la missione è promuovere sogni, puntare sulle donne»
Enzo Riboni
«Le aziende si assomigliano tutte sempre di più, vivono un surplus di omologazione. Devono capire che ormai la parola d’ ordine è secca e definitiva: ‘ Differenziarsi, reimmaginare tutto oppure morire». Tom Peters, assieme a Michael Porter e allo scomparso Peter Drucker uno dei massimi guru mondiali del management, autore di bestseller che hanno venduto 6 milioni di copie in tutto il mondo, lancia la sua sfida a chi pensa di gestire le aziende «nella sopravvivenza» e non osa fare «ciò che non è mai stato fatto prima». Dunque non basta migliorarsi, bisogna «andare controcorrente, nella direzione opposta»? «Servono nuovi modelli di business, nuove idee su come fare carriera in assenza di sicurezza lavorativa, nuovi approcci all’ educazione in un’ epoca in cui il valore è basato sul capitale intellettuale e sulla creatività. Da sempre chi arriva ai vertici è chi va controcorrente, chi credeva nell’ automobile quando ancora si andava a cavallo o chi ha puntato sul personal computer mentre ancora si utilizzava il mainframe. Oggi il punto è: le grandi aziende possono andare controcorrente o dobbiamo aspettare l’ arrivo di nuovi competitori? Ibm è ancora in piedi e non se la passa male, dopo che ha saputo cambiare di 180 gradi: dietro al suo marchio non c’ è più una macchina, ma una società di consulenza. E anche Microsoft e Google devono continuamente cercare nuove strade per restare in piedi. Come disse una volta il fondatore di Visa, Dee Hock, il problema non è mai di come farsi venire in testa nuovi e innovativi pensieri, ma come sbarazzarsi di quelli vecchi». Secondo lei è il momento del «dreamketing», il marketing dei sogni. Cosa vuol dire vendere sogni? «Il 95% delle scelte della mente umana è spinto dall’ inconscio. Per questo bisogna cercare di proporre un’ esperienza unica e inimitabile di acquisto ad ogni compratore. Il dreamketing è l’ arte di raccontare storie, di intrattenere, di promuovere il sogno e non il prodotto, di creare brusio, farne una droga e un culto. Perché i “prodotti da sogno” danno ritorni agli azionisti molto superiori a quelli dei prodotti “comuni”. Occorre quindi regalare grandi esperienze oltre a offrire un prodotto o un servizio. Pensiamo a Starbuck’ s che non è solo una catena di bar, ma è un “terzo luogo” in cui andare all’ infuori di casa e ufficio. O ad Harley Davidson, dove nessuno al suo interno ritiene di vendere moto, bensì il sogno di un 45enne che può sfilare in pelle nera per la sua cittadina e spaventare le persone. Ma penso anche a eBay, ad Apple, a Bmw (ma ora anche Fiat sta tornando a vendere sogni), a Ferragamo e Armani nella moda, al design italiano». Lei insegna che, senza le donne tra i propri clienti di riferimento, le aziende non possono prosperare. Perché sono così importanti? «Le donne tendono a comprare virtualmente di tutto, eppure la maggior parte degli addetti al marketing si concentra ancora sugli uomini e così il 90% delle donne dichiara che i pubblicitari non le capiscono. Le donne sono responsabili dell’ 83% degli acquisti di tipo consumer e, tra l’ altro, danno l’ avvio all’ 80% dei progetti di ristrutturazione delle case. Per esempio, negli Usa, Lowès lo ha capito e ha sottratto quote di mercato a Home Depot, rendendo l’ esperienza di acquisto più adatta alle donne, con luci più vivaci e corridoi più larghi. E proprio perché sono decisori d’ acquisto in diversi ambiti, sono stupide quelle aziende che non hanno donne ai vertici dell’ organizzazione. Le donne ricorrono all’ improvvisazione in modo molto più sciolto degli uomini, sono più determinate e si affidano parecchio all’ intuito. Sono naturalmente portate per la responsabilizzazione più che per il potere gerarchico e comprendono e sviluppano relazioni con molta più facilità. Non a caso la mia società di consulenza, la Tompeters company, ha come ceo una donna, Juli Ann Reynolds». Il vero leader, lo ha scritto lei, «fa le persone», promuove i talenti. Cosa significa essere leader? «In questi tempi folli e caotici ci affidiamo ancora a un modello di leadership tipo “comando e controllo”, che non si accorda più al modo in cui i leader dinamici operano attualmente. Cerchiamo leader che abbiano tutte le risposte, ma in un’ epoca in cui il valore viene dalla creatività e dall’ iniziativa dobbiamo scegliere un modello di leadership libera, aperta ed eternamente innovativa. Un’ azienda forte deve affidarsi a un team di vertice bipolare, composto da un innovatore senza limiti che insegua le menti aperte e da un potente maniaco del controllo». Esiste uno stile di gestione italiano? «Sì e no. Uno stile italiano si può definire solo per rapporto allo stile tedesco o, poniamo, cinese, perché esistono differenze culturali. Si possono quindi utilizzare schemi motivazionali diversi a seconda del contesto culturale, ma l’ obiettivo è sempre lo stesso: fare in modo che le persone amino ciò che fanno. Perché gli affari riguardano passione, creatività, energia, entusiasmo, capacità di sorprendere e sbalordire». il personaggio Considerato il «padre dell’ azienda post moderna», Tom Peters ha raggiunto la notorietà internazionale nel 1982 con la pubblicazione del suo primo bestseller: «In search of excellence». Sono poi seguiti numerosi altri successi editoriali, da «Thriving on chaos» a «The circle of innovation», fino all’ ultimo: «Re-Imagine! Business excellence in a distruptive age». Oggi è presidente della Tom Peters Company, società di consulenza. Peters sarà in Italia il 26 e 27 ottobre per partecipare al «World Business Forum Milano 2006». Per le sue idee rivoluzionarie sulle organizzazioni, «Business Week’ s» l’ ha indicato come «il miglior amico e il peggior incubo per le aziende».
Esther Batalla Edo
(Traduzione di Clara Jourdan)
Ho letto sul n. 29/2005 di Duoda, Rivista di Studi Femministi del Centro de Ricerca di Donne dell’Università di Barcellona che porta il medesimo nome (Duoda), un articolo di Marina Terragni intitolato Asistenta y señora de la casa: ahí hay mucha política, che è la traduzione di María-Milagros Rivera Garretas di Colf e padrona di casa. Lì c’è molta politica, pubblicato su “Via Dogana. Rivista di pratica politica” n. 70 (settembre 2004).
L’articolo offre un punto di vista critico, partendo dal criterio sostenuto da Barbara Ehrenreich, criterio che si riassume nell’idea che le donne occidentali si emancipano grazie alle straniere che vengono qui a farsi carico della nostra quota di lavoro di cura. L’autrice segnala che l’argomento di Ehrenreich non è nuovo, e lo circoscrive al sensazionalismo sociologico-giornalistico che ha fatto il successo del suo libro Global woman: mannies, madis and sex workers in the new economy (Donne globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli, 2004).
Partendo dal criterio di Ehrenreich, dunque, Terragni ci offre la sua opinione al riguardo, una opinione che, a quanto riferisce l’articolo, fu presentata anche in un programma televisivo italiano, L’infedele, e fu poi oggetto di discussione alla Libreria delle donne di Milano, dove venne messa in risalto principalmente la singolarità del rapporto tra la datrice di lavoro domestico e la colf o curatrice del focolare e dei suoi membri, una relazione professionale che sfugge al classico circolo dello scambio monetario, soldi in cambio di lavoro. E venne messa in risalto anche la qualità politica di tale relazione.
Terragni afferma che nella relazione tra colf e datrice di lavoro non vale il distinguo tra l’incombenza propria di un lavoro qualsiasi, cioè quello che si definisce e realizza “per conto d’altri e nell’ambito organizzativo e di direzione di un’altra persona”, e il contenuto del lavoro in sé, impregnato in questo caso di un rapporto di legame, di cura e di amore, che di fatto fa parte dell’oggetto di scambio. E fa notare inoltre quanto sia interessante e paradigmatico questo rapporto di lavoro, perché mette l’accento su un argomento decisivo della politica delle donne: la centralità della relazione nel lavoro, che l’autrice estende a ogni tipo di lavoro in cui sia arrivata tale politica.
Condivido questa impostazione, e anche come tratta l’argomento di Ehrenreich, mettendolo in discussione, nel senso che non c’è contrapposizione assoluta tra la “emancipata pura” – la datrice di lavoro – e la “oppressa pura” – la straniera – che resta alla cura della casa e dei suoi membri, ma che piuttosto ci sono diversi gradi di coinvolgimento tra loro, e che nessuna delle due può liberarsi del tutto della propria quota di lavoro di cura. Ma non sono d’accordo con una delle opinioni suscitate dal tema, come riferisce l’articolo: che sia la miseria sia la ricchezza siano presenti in noi – occidentali – come in loro; “loro, che sono povere e anche ricche del denaro che noi gli diamo e dell’occasione di emancipazione che noi rappresentiamo, offrendo loro i nostri modelli di libertà spesso in cambio dei loro, che pure esistono”.
Chiarisco il mio dissenso. Personalmente ho difficoltà a capire che le donne straniere guadagnino libertà, amando se stesse, quando lasciano le loro case per venire da sole nei nostri paesi occidentali, tuttavia potrei integrare l’idea nel mio ragionamento e fino a un certo punto anche condividerla. Ma non la condivido più quando Terragni considera che questo guadagno di libertà può essere più grande del dolore della separazione.
Si tratta naturalmente di un rapporto di lavoro molto speciale, dove – con parole dell’autrice – “emancipazione e pratica della cura si intrecciano strettamente”. Ma penso che occorra molta prudenza quando si tratta di generalizzare il beneficio che comporta il guadagno di libertà di queste donne immigrate di cui parla Terragni.
L’articolo mi ha fatto venire in mente lo schema di funzionamento di tale emancipazione/lavoro di cura da parte delle donne occidentali e straniere. La falsariga del comportamento delle une e delle altre potrebbe benissimo avvicinarsi a questo circuito: la figlia maggiore di una famiglia povera, generalmente numerosa, si occupa della cura dei suoi fratelli, mentre la madre lavora come colf di un’altra donna che, a sua volta, è emigrata in un paese ricco (1), permettendo così a quest’ultima di “conciliare” diversi usi o spazi del suo tempo.
Le donne con maggior potere d’acquisto sono, certamente, più facilitate – in linea di principio – nell’ottenere l’emancipazione materiale necessaria alla realizzazione del proprio desiderio in scenari molteplici, molti dei quali disegnati ancora in modo patriarcale; e possono così continuare con il modello della “doppia presenza” a delegare a queste donne immigrate parte dell’impegno domestico; un modello che tuttavia è in corso di superamento. Però, che cosa c’è dietro a questo andare e venire di donne straniere? Il contenuto dell’articolo della Terragni, a mio modo di vedere, non può essere considerato isolandolo dal contesto, deve essere considerato nella sua globalità.
Nel contesto, dunque, c’è un grave problema di convivenza, con il nostro di sé e con l’altro da sé, un vero problema di organizzazione degli usi del nostro tempo; generalmente chiamato problema di “conciliazione della vita familiare, lavorativa e personale”. E il fatto di ricorrere a una o un colf non cessa di essere una pseudosoluzione che, inoltre, non è possibile per la donna senza risorse economiche – come le stesse immigrate – e che si sta consolidando a prezzo della destrutturazione di altre famiglie. Dubito molto, allora, che il guadagno di libertà della donna immigrata possa compensare lo sradicamento familiare e personale di queste donne (per lo meno in modo generalizzato e finché non siano portati a termine i processi di ricongiungimento familiare, che possono durare anni), né credo che contribuisca al cambiamento di simbolico del nostro sistema economico, che è il cambiamento di cui abbiamo davvero bisogno.
Questo cambiamento non è di ostacolo al riconoscere allo stesso tempo la singolarità della relazione professionale tra la colf e la datrice di lavoro domestico, a causa della grande dose di relazione femminile, generatrice di politica, che media tale scambio, oltre al denaro. Ma insisto anche nell’idea che mantenere il circuito in questo tipo di relazioni non ci porta alla soluzione dei nostri problemi quotidiani di conciliazione, perché in molti casi non rende possibile la realizzazione del proprio desiderio, né quello delle occidentali né quello delle straniere.
Pertanto, e benché io condivida completamente con l’autrice la singolarità di quella relazione, non mi dimentico che ci troviamo, in fin dei conti, di fronte a un rapporto di lavoro; inserito in un quadro economico che, per quanto ci piaccia dimenticarlo e, di fatto, lo facciamo, penso che neanche possiamo ignorare. In quei termini, dunque, che non ci piace udire ma a cui alludo e con disagio, bisogna dire che quando la “produzione di beni e servizi” ha luogo dentro i confini della casa, e proprio perché è molto difficile separare l’elemento relazionale dall’attività materiale considerata di per se sola, la colf non può sostituirci in quegli aspetti puntuali e selettivi che noi abbiamo scelto come intrasferibili, perché risalgono all’origine del nostro partire da sé, alla fonte dell’amore più intimo di nostra madre.
Non metto in dubbio che la colf sia pienamente consapevole del compito che comporta l’affidarle la cura dei nostri cari, rendendola partecipe della nostra intimità; possiamo affidare a lei persino noi stesse e noi stessi, ma nel suo “fare” lei si vedrà limitata a badare a questi aspetti molto concreti – non altri, aspetti che abbiamo deciso di delegarle per fiducia, naturalmente – e non per mancanza di abilità o volontà da parte di questa professionista, amica o collaboratrice, ma perché i nostri cari desiderano – e anche noi – che siano soddisfatti unicamente da parte nostra.
Una madre o un padre cercherà di praticare il rapporto con suo figlio o sua figlia nello spazio di tempo che considera più adeguato, in funzione delle sue capacità, preferenze o circostanze. Questo spazio di tempo, insostituibile, per alcuni e alcune sarà, forse, portare i figli a scuola, o andare con loro al parco, o dargli la cena. Sono aspetti che “loro” sanno, di cui hanno bisogno o che non desiderano sostituire, e che “alcune di loro” – si tratta, molte volte, di cure alle nostre stesse madri biologiche – ci hanno lasciato in eredità, per di più, come riferimento simbolico, poiché siamo noi che adesso desideriamo rendere loro la nostra più intima gratitudine senza delegarla a nessuno. Anche questo fa parte della nostra libertà, e del nostro bisogno di proteggerla di fronte al peso della legge che obbliga a permanenze lavorative inflessibili, o ben poco flessibili.
Cioè, l’attività che ogni membro della famiglia ha scelto per intervenire in una relazione personale e affettiva è “quello” che non ha un sostituto nella colf, né nel mercato. E questo desiderio che abbiamo, uomini e donne, madri e padri, e figli e figlie, deve avere la possibilità di esprimersi ugualmente in libertà, senza nessun tipo di costo aggiuntivo: di spreco energetico, economico, personale o derivato dalla legge.
Non molti giorni fa, mi raccontavano che in un consiglio scolastico di madri e padri dove si discuteva proprio del tempo o, meglio, della mancanza di tempo per stare con i figli e le figlie, un padre spiegò che lui non poteva vedere suo figlio durante la settimana, dato che quando andava al lavoro il bambino dormiva e al suo ritorno pure. Questa situazione non gli andava e gli è venuta questa idea: quando arrivava a casa, la prima cosa che faceva era andare nella stanza del figlio, e affinché il figlio sapesse che lui era stato lì, faceva un nodo nel lenzuolo. Quando il bambino si svegliava cercava il nodo, e attraverso il nodo sapeva che il suo papà gli aveva dato un bacio.
Nella storia raccontata, di nuovo l’amore burla il potere a cui il padre si vede sottomesso. Ma… a prezzo di quanta sofferenza? Questo padre (o madre) molto probabilmente aveva una colf e tuttavia la colf non era la soluzione al suo desiderio. Guadagnare emancipazione a prezzo di sradicamento e destrutturazione della propria e delle altrui famiglie non è, penso io, la soluzione di cui abbiamo bisogno per i nostri problemi di coordinamento dei diversi usi del tempo, che si riducono, in definitiva, a un unico problema di relazione, di “vivere con”. Sostenere o incoraggiare questo tipo di rapporti di lavoro, con tutta la loro qualità politica indiscutibile, ma isolati dal panorama più ampio che comporta la necessità di una nuova organizzazione del nostro tempo, a mio avviso contribuisce a consolidare un nuovo modello di relazioni umane, che sono ancora conseguenza del sistema capitalista di mercato, più che della nostra genuina libertà.
Praticarle, sì, inevitabilmente; ma all’interno della politica femminile che cambi il contesto.
Che fare, allora? Educare, educare e educare nella differenza sessuale e nella capacità di critica e di giudizio: uomini e donne, bambine e bambini, e la pratica politica verrà data, e con essa il cambiamento di simbolico (2) che è già iniziato nelle nostre relazioni quotidiane in negozio, in ufficio, in palestra, nel supermercato…, portando l’amore della politica delle donne alla politica dei partiti in modo che anche il diritto cambi il proprio simbolico (3), e smetta di voler significare tutto con il suo maschile universale, senza timore di rappresaglie e sanzioni.
(1) Amoroso, M.; Bosch, A.; Carrasco, C.; Fernández, H.; Moreno, N.: Malabaristas de la vida. Mujeres, tiempos y trabajos. Icaria, Barcelona 2003.
(2) Chiara Zamboni si riferisce ad esso con l’espressione “rivoluzione simbolica” (La universidad pública y el materialismo del alma), “DUODA Revista d’Estudis Feministes”, núm. 9-1995.
(3) Maria Milagros Rivera Garretas, La diferencia sexual en la historia, Publicacions de la Universitat de València, 2005.
ANTOLOGIE In «Nate a lavorare» trentanove scrittrici raccontano la fatica femminile nella storia e oggi, tra esclusioni, disconoscimenti e discriminazioni
Adele Cambria
«Con le due mani, nati a lavorare». A questo verso di Edoardo Sanguineti, tratto dalla Ballata del Lavoro del poeta genovese, Maria Jatosti, curatrice,insieme a Rosetta Berardi, del libro Nate a lavorare (Edizioni del Girasole, pp. 287, euro 18,00), si riferisce, nella sua introduzione, per spiegarne il titolo ed il tema: il volumetto colleziona infatti, sul tema del lavoro femminile, i racconti inediti di trentanove scrittrici italiane. Ma la prima osservazione, impertinente e/o pedante, che m’è venuta da fare, a proposito del titolo, e della sua «legittimazione», (da poeta a poeta, essendo infatti Maria Jatosti una poeta), è che la condanna biblica al lavoro fu indirizzata ad Adamo e non ad Eva: «Con il sudore del tuo volto, mangerai il pane», dice infatti il Signore Iddìo ad Adamo. Ed invece ad Eva: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai…». (O anche: non-partorirai se non con dolore. Versione biblica aggiornata alla proibizione, in Italia, della pillola RU486).
Riflessioni irriverenti, ma che proprio nella scrittura e nei contenuti dei 39 racconti mi sembra trovino conferma. Voglio dire: qui le autrici svelano, forse inconsapevolmente, quanto risulti ambigua e quasi «innaturale» la parola «lavoro» coniugata al femminile. Il lavoro «naturale» delle donne, anzi, per citare Carlo Marx, «il lavoro spontaneo delle donne e dei fanciulli», all’interno delle quattro mura domestiche, è stato ridefinito «accudimento» o «produzione e riproduzione della specie» dal femminismo degli Anni Settanta: che ne ha svelato, per la prima volta, il valore economico. In quanto al lavoro femminile fuori casa, a lungo è stato considerato fatica bruta, servaggio, degradazione, assimilazione al maschile ai suoi livelli più bassi. (Di nuovo Marx, che riporta senza commenti i giudizi dei Blue Books inglesi a proposito del lavoro delle donne in miniera: «È avvilente per il loro sesso… Portano vestiti da uomo… Ogni pudore è soppresso…»). E segnalo subito, nel libro curato da Jatosti e Berardi, La ballata di Francesca, l’uomo-donna, di cui è autrice Maria Attanasio. Sono versi di violenta bellezza, scritti in dialetto siciliano e tradotti dalle curatrici: «Alberi e vigne, carrubi e stoppie/Nella campagna nera che non dorme… Francesca chiama dal fondo del mare della morte/Non sono donna di oro e di sete/sono donna di alberi ed agavi/Non ho soldi, non ho da mangiare/Mi travesto da uomo per campare».
Ma le trentanove autrici che sono state chiamate a raccontare il lavoro femminile – il proprio, quello delle altre… i soggetti qui si contaminano felicemente, e nel testo di Biancamaria Frabotta, Il complesso della sguattera, addirittura si sdoppiano, illustrando la schizofrenia della casalinga-insegnante/pendolare – sono delle privilegiate: sia pure «minimali». Infatti,oltre al loro lavoro «primordiale» – dove però si introduce a volte la delega, almeno nella cura degli anziani, con l’affiorare della figura della «badante» etnicamente straniera e quindi nuova, ma tuttavia, nelle mansioni, antica – tutte lasciano intravedere, all’interno del proprio quotidiano, un lavoro di routine: che svaria dal precariato alla scuola, e, in un unico caso, ad un percorso da donna in carriera. E poi c’è il terzo lavoro, ed qui che si annida il «privilegio»: il terzo lavoro, perseguito con amore, ambìto, inseguito con tenacia e devozione, è la scrittura. In un solo caso, nel racconto intitolato Fiore di cactus di Anna Maria Pugliese, è principalmente l’arte, intesa come arte visiva, pittura. Ma il tramite per dirlo è ovviamente la parola, e la stessa cosa accade con il bel racconto L’acrobata, all’attrice Patrizia Zappa-Mulas: che del resto nell’appendice destinata a fornire Notizie biografiche delle autrici, si definisce «scrittrice e interprete, che vive a Roma dividendosi tra pagina scritta e palcoscenico».
Insomma, per tutte o quasi, il lavoro «creativo» – uso un aggettivo che nacque nel movimento femminista, ma è stato ormai colonizzato dalla pubblicità – è un lavoro a mezzo servizio. O, addirittura, se così si potesse dire, «un lavoro a un quarto di servizio».
Fin qui l’analisi sociologica dei contenuti del libro: che si potrebbe anche sottotitolare, in quest’ottica, «Vite di donne a mezzo servizio». Almeno a proposito di quei racconti, e sono la gran parte, la cui connotazione si indovina autobiografica. (E ricordiamoci che alla scrittura autobiografica è stata data dignità letteraria proprio dal e nel femminismo di fine Novecento).
Ma c’è chi si maschera, narrando, ed assume per sé il «maschile»: se non come protagonista del racconto, come osservatore/interlocutore ed infine ritrattista di una peraltro magnifica figura di donna. È il caso di Cristina Annino, che si definisce «scrittrice e pittrice», e dipinge, questa volta con le parole, una sorta di Grande Madre della guerra civile spagnola: Henriette, da lei incontrata (spiega in una nota al testo) alla fine degli Anni Settanta. Henriette, ex partigiana, aveva partecipato insieme al marito alla fondazione del partito comunista francese. L’autrice del racconto la raffigura vecchissima e vigile nella sua villa settecentesca di Clermont Ferrand, dove aveva cresciuto, protetto, fatto studiare, un manipolo di orfani di una Rivoluzione fallita – la guerra di Spagna – e via via nei decenni era andata avanti accogliendo altri orfani di altre catastrofi, di altre guerre endemiche del nostro pianeta. Bellissimo racconto – si intitola Una magnifica giovinezza – con quel refrain della vecchia signora comunista: «Il faut batir, il faut batir», bisogna costruire…
Ma perché Cristina Annino s’è mascherata nei panni di un giovanotto italiano per consegnare Henriette a chi leggerà questo libro? Avevo chiesto a Maria Jatosti di darmi il suo numero di telefono. Ma non l’ho chiamata. Un racconto è un racconto è un racconto.
Ho amato molto anche Mariana e la vecchia Giulia di Mariella Bettarini. È la descrizione del legame che si crea tra Mariana, la badante moldava – «quanta cura, quanta solerzia… quanto “fare” antico e anticamente “femminile”… – e «la vecchia Giulia, novantenne, debole ma ancor lucida, grande lavoratrice anche lei, in casa, tanti anni fa, sartoria femminile…». Tutt’altro mood, post-moderno, in Mobbing-Dick, della giovane Tiziana Colusso: dove il mobbing impiegatizio e tanto più virulento nel precariato è assunto come il leggendario «personaggio» di Melville, la balena bianca imprendibile, qui definita «l’invisibile balena della vessazione».
Con questo libro, Nate a lavorare, le curatrici e l’editore hanno inteso celebrare il centenario di tre avvenimenti tutt’e tre datati 1906. E sono: la nascita della Cgil (da cui partì «anche» la lotta organizzata per l’emancipazione della donna attraverso il lavoro), la pubblicazione del primo romanzo «femminista» italiano, Una donna di Sibilla Aleramo e l’appello che oggi si definirebbe «provocatorio» di Maria Montessori a tutte le donne italiane, ancora prive del diritto di voto, perché si iscrivessero egualmente nelle liste elettorali.
Iaia Vantaggiato
Il titolo dell’ultimo dei «Quaderni di via Dogana» – Tre donne e due uomini parlano del lavoro che cambia – non restituisce pienamente l’intreccio di voci che fa da sfondo alla trama degli interventi ora raccolti ma presentati già un anno fa, a Barcellona, nel corso di una tavola rotonda su «Femminilizzazione del lavoro e postfordismo». Del resto, a sottolinearlo sono proprio gli autori e le autrici del volume – Cristina Borderías, Christian Marazzi, Sergio Bologna, Lia Cigarini e Adriana Nannicini – con i loro continui rimandi alle testimonianze di altre donne e di altri uomini (più donne che uomini).
Ed è proprio la narrazione dell’esperienza del lavoro, intesa come punto di partenza della riflessione teorica, il filo rosso che lega tra loro i diversi contributi. Una pratica pressoché coincidente con quel «partire da sé» messo letteralmente in parola dal pensiero della differenza sessuale ma che nei «discorsi» sul lavoro – in particolare sul lavoro che cambia – assume particolare pregnanza. La «narrazione» consente infatti e in primo luogo, come dice Cigarini, di dare un taglio politico a una riflessione non più concentrata sulla «condizione della donna», ma aperta a «una interrogazione di senso del lavoro in rapporto a una interpretazione libera dell’essere donna». Qualsiasi donna, aggiungerei, nella sua irriducibile differenza.
Ma c’è di più: nello «spazio narrante» – concetto che Nannicini riprende da Ginevra Bompiani – si stabilisce tra chi parla e chi ascolta, tra «la voce narrante e il desiderio di ascoltare», una tensione la quale sola origina «l’opera narrativa». Ebbene, leggendo questo piccolo volume, viene da pensare al lavoro come a una opera narrativa e – alle donne – come alle autrici e alle lettrici di questa narrazione. Che stia qui il senso del continuo accostamento che ormai da qualche anno si fa tra postfordismo e femminilizzazione del lavoro? Che sia, in altri termini, il lavoro femminilizzato l’opera narrativa che maggiormente esprime il senso dell’epoca postfordista? Il suo essere senza luogo e in ogni luogo, precario e insieme pervasivo, indistinto – nel «suo» tempo – dal tempo della vita. Non restituisce tutto questo la trama di una narrazione che – come ancora sottolinea Nannicini – avviene fuori dagli spazi lavorativi, «in un qui che è stato costruito perché là la narrazione non può avvenire. Queste donne scrive – hanno costruito un “altrove” per esprimere un “altrimenti”».
Ma il terzo volume della «Collana Lavoro» dei «Quaderni» non si limita alla presentazione dell’opera narrativa più «difficile» del XXI secolo. La forza, cerca di scardinarne la sintassi facendone emergere contraddizioni e inciampi lessicali. Due più di tutti colpiscono. Perché dissonanti rispetto al dettato dei vocabolari comuni: quello che Cigarini definisce «il doppio sì» (alla maternità e al lavoro) e la ricerca di nuove forme di lotta che spesso proprio quel «doppio sì» rende necessarie. In entrambi i casi a parlare è una eccedenza di senso che rifiuta di soggiacere alla regola del mercato e a quella del sindacato e che non cade nell’errore «di ignorare la asimmetria tra i sessi o di ridurla a mera diseguaglianza».
Insieme alle francesi, vengono solo prima delle lituane. Leggono e guardano la televisione Ora d’aria Lavorano più degli uomini ma ciò che manca è il tempo per sé. Parla Chiara Saraceno
Iaia Vantaggiato
Sono donne, italiane e hanno tra i venti e i settantaquattro anni. E a prendere sul serio i dati tratti dall’indagine Multiscopo dell’Istat titolata «Uso del tempo» – detengono almeno due record negativi. Il primo. Godono di una quantità di tempo libero inferiore rispetto a quello che la società concede ai loro compagni «maschi»: quattro ore e cinquanta minuti contro le cinque e otto minuti di cui godono gli uomini. Una manciata di secondi che fa la differenza. Il secondo: insieme alle francesi – e sempre quanto a tempo libero – occupano la penultima posizione nella graduatoria europea, subito prima delle lituane. Lo svantaggio – secondo l’Istat – parte dalla prima infanzia quando, già intorno ai dieci anni, le bambine dedicano una parte del loro tempo alle attività domestiche o allo studio (cui i loro compagni, come è noto, si dedicano assai di meno).
Quindi, adolescenti, ancora arrancano dietro ai loro brufolosi amici alla ricerca spasmodica di un’ora di libertà. Magro il bottino: quattro ore e 41 minuti contro le cinque e 28′ elargite ai fanciulli di sesso maschile. Peggiora la situazione tra i 20 e i 64 anni quando le donne (casa-spesa-bambini-lavoro-sociale) devono accontentarsi di una sola ora libera al giorno: tre ore e ventotto minuti contro le 4 e 16 degli uomini. Poi, che dire? Va meglio alle single, pure provviste di prole, che delle domestiche e psicologiche esigenze dell’amico-compagno-pseudopadre non esitano a liberarsi.
E che del loro tempo cercano di fare ciò che vogliono: tre ore e 21 minuti contro le due ore e 57 delle donne in coppia con figli. E all’età della pensione la forbice si allarga.
Ma poi che vuol dire tempo libero? Guardare la tv o semplicemente tenerla accesa – come suggerisce l’indagine Istat – per tenere a bada bambini un po’ troppo esuberanti ossvolgere contemporaneamente sempri nuovi lavori domestici?
I dati non parlano se non vengono interrogati e forse alle indagini bisognerebbe cominciare a dare un credito minore.
«Non solo le donne dispongono di minore tempo libero – commenta Chiara Saraceno, ordinaria di sociologia della cultura alla Bicocca di Milano – ma soprattutto va detto che non hanno temmpo per sé, quello che puoi ritagliare dentro al tempo cosiddetto libero per creare delle isole di significato per te stessa e per la tua vita. Un tempo da plasmare a seconda dei tuoi desideri e dei tuoi stati d’animo. Un tempo per non fare nulla che serva a recuperare quel concetto di otium come coltivazione del sé». Le donne in Italia ma forse dovunque – tiene a precisare Saraceno – «sono ostaggi, prigioniere del tempo. E per questo non riescono a costruire equilibri temporali che lascino spazio ai loro percorsi esistenziali».
Nuova decisione dopo l’ abolizione della siesta. «Così c’ è più tempo per la famiglia»
Alessandra Mangiarotti
Il ministro della Difesa José Bono ha guardato l’ orologio: le otto in punto. Quindi, dalla tribuna, ha salutato il Congresso dei deputati più mattiniero della storia di Spagna: «A quien madruga, Dios le ayuda». Un detto che tradotto alla lettera vuol dire: «Dio aiuta chi si sveglia presto». Ma meglio è reso dal nostro ben più secolare «le ore del mattino hanno l’ oro in bocca». Anche nel caso in cui l’ obiettivo da centrare, tanto caro al premier socialista Louis Rodriguez Zapatero, sia quello di riuscire a conciliare lavoro e famiglia: «Prima si inizia a trabajar, prima si torna a casa». Per la felicità di chi vuole adeguare i ritmi lavorativi a quelli europei. Ma con buona pace della way of life spagnola, del tutto spostato il più tardi che si può: lavoro, shopping, rito delle tapas e cena. Dopo gli otto ministri donna, la «ley de igualdad» e l’ abolizione della siesta per deputati e dipendenti statali, il governo Zapatero prova a rivoluzionare un altro pezzo di tradizione spagnola (e a porsi come avanguardia in Europa). Dando anche questa volta il buon esempio («lo Stato insegni, il privato in-segua») in fatto di orari: per la prima volta nella storia del Parlamento, ieri mattina i deputati sono stati chiamati a raccolta dal presidente del Congresso Manuel Marìn alle otto anziché alle nove. Con un’ ora d’ anticipo rispetto al tradizionale appuntamento in Aula. Per mettere ai voti innanzitutto, dopo il via libera del Senato, la legge sull’ Esercito e la Marina. La legge è stata approvata all’ unanimità. L’ esperimento, il primo di una serie che negli intenti del governo porterà a un cambiamento degli orari dalla prossima stagione, ha diviso i deputati. Anche se l’ affluenza per l’ ultima seduta prima delle vacanze pasquali è stata forte: un terzo dei 350 deputati ha preso parte ai lavori fin dalle otto. Insieme ai funzionari e agli addetti all’ Aula che sono stati chiamati ad adeguarsi al nuovo orario di lavoro. La proposta di anticipare l’ inizio delle sedute parlamentari era stata presentata nelle scorse settimane dal presidente del Congresso Marìn: «Così si concilia meglio il lavoro con la famiglia». Un obiettivo che il governo Zapatero vuole raggiungere anche attraverso la realizzazione di un asilo all’ interno del palazzo del Congresso: «Per i figli di deputati e funzionari», ha confermato ieri Marìn. E la benedizione del nuovo orario è arrivata dopo una riunione dei capigruppo parlamentari e un incontro con la Commissione nazionale per la razionalizzazione degli orari di lavoro. Perché mettere ordine nei ritmi professionali (e di vita) degli spagnoli, va detto, per il governo Zapatero è importante quanto riuscire a conciliare lavoro e famiglia. Insomma: la gazzella d’ Europa, la nazione del Vecchio continente che corre più veloce di tutti, non può non adeguarsi agli orari di lavoro comunitari. Sottolineando che la tradizione e la storia non c’ entrano con le lente abitudini spagnole (della siesta, ad esempio, non c’ è traccia fino agli Anni Trenta, quando per povertà gli spagnoli avevano bisogno di due lavori e quindi di dividere in due la giornata) il governo tira dritto. Inciampando però anche in ostacoli «casalinghi»: «Quello più grande è convincere i deputati a ridurre a un’ ora la pausa pranzo», ammette Marìn a quattro mesi dall’ abolizione della siesta per i dipendenti statali. «Oggi inizia alle 14.30 circa e si spinge fino alle 17.30, quando si sta ancora ordinando l’ ultimo caffè». LA SIESTA Intanto è stato un esperimento. Ma dal prossimo autunno potrebbe essere la regola quella di convocare il Congresso dei deputati un’ ora prima, alle 8 invece che alle 9 del mattino. Una decisione che si inserisce nella «rivoluzione» degli orari promossa e incoraggiata dal governo Zapatero A dicembre il governo Zapatero ha abolito la pausa pomeridiana nell’ amministrazione civile. L’ obiettivo era mettere fine «ai caotici orari» e di «riconciliare lavoro e famiglia». Ha spiegato il ministro dell’ amministrazione pubblica: «I dipendenti torneranno a casa alle sei, invece che alle 8 o alle 9» Abitudini in Spagna IL RIPOSO La siesta è uno dei simboli della vita spagnola: con differenze tra Nord e Sud, tutto si ferma tra le 14 e le 16 (anche le 17)SHOPPING Anche i negozi seguono il bioritmo della nazione: saracinesche alzate dalle 10 alle 14 quindi, dopo la siesta, dalle 17 alle 20 LE TAPAS L’ antico rito delle Tapas, ricchi e tipici aperitivi, scandisce il ritmo delle serate: mai prima delle 19, fa slittare la cena alle 22 PARLAMENTI A CONFRONTO SPAGNA I lavori del Congresso dei deputati iniziano abitualmente alle 9. Ieri, per la prima volta, la seduta è cominciata alle 8. Il presidente del Parlamento ha anche annunciato la creazione di un asilo per i figli di deputati e funzionari. ITALIA Non ci sono orari prestabiliti. Normalmente le sedute parlamentari nei giorni delle votazioni (martedì, mercoledì e giovedì) iniziano tra le 9 e le 9.30. Pausa pranzo tra le 13.30 e le 15. I lavori in Aula abitualmente proseguono fino alle 21. UNIONE EUROPEA Le sedute plenarie del Parlamento Ue iniziano alle 9 (alle 17 il lunedì, alle 10 il giovedì). Due ore di pausa pranzo, una per la cena, si spingono anche fino alle 24. Le riunioni delle commissioni iniziano alle 9. Pausa dalle 13 alle 15, poi al lavoro fino alle 18.30
Le straniere titolari di imprese rappresentano ormai in Italia il 16% del totale.
Sono presenti soprattutto nel terziario.
Claudia Galimberti
Abitano le nostre case, le vediamo al mercato e in metropolitana, affidiamo loro i nostri figli e i nostri genitori, ma anche comperiamo da loro i nostri vestiti o fiori, mangiamo nei loro ristoranti, le vediamo accompagnare i turisti come guide oppure sulle strade, fonte di pericolose attrazioni: Chi sono le donne immigrate, come si collocano nel nostro immaginario, donne a rischio o coraggiose viaggiatrici? Probabilmente né l’uno né l’altro, sono donne che lavorano e che portano il loro contributo direttamente o indirettamente all’economia del Paese che le ospita.
Quello del lavoro delle donne immigrate è un fenomeno che non è stato studiato adeguatamente ed è ancora sottovalutato. Il recente rapporto Caritas e il libro di Francesca Decimo, Quando emigrano le donne, hanno messo in evidenza dei dati importanti che ci fanno riflettere, non tanto per il numero di donne imprenditrici, quanto per il vissuto che sottende a queste cifre.
Le tappe dell’imprenditoria femminile sono obbligate da licenze, da adempimenti burocratici, da moduli da riempire e file agli sportelli: questo è comune a tutti. Ma quale diverso valore ha un’imprenditoria nata dal lavoro di donne immigrate? Contiene le speranze, la voglia di riscatto, l’impegno di donne che lontane dalla terra di origine lottano per assicurare un benessere alla loro famiglia.
Questo è solo l’inizio: lo studio dei flussi migratori mette in evidenza un’altissima componente femminile nella mobilità geografica e la ragione economica di questi movimenti è chiara. La spinta che porta tante donne ad emigrare è la stessa che incoraggia a trasferire imprese e uffici nella periferia del mondo, la disponibilità di manodopera a basso costo. In un’economia che sempre più tende al terziario saono innumerevoli i lavori da affidare alle donne specialmente quando cresce il tasso di occupazione femminile nei Paesi a economia avanzata.
In Italia sono più degli uomini: tra queste donne ci sono le nuove imprenditrici, generatrici di risorse multiple, affettive, sociali e monetarie. Nel loro ruolo di datrici di lavoro, portano l’esperienza maturata come lavoratrici: Hanno capito i segreti degli italiani, li hanno osservati nelle loro case, in quell’intimità domestica che necessariamente scopre il dietro le quinte; hanno cominciato quasi tutte così, dedicandosi ai servizi familiari.
Poi c’è stato il gran salto, ottenuto con l’intraprendenza propria delle donne, la cocciutaggine, lo spirito di iniziativa. La pratica del microcredito aiuta, ma spesso c’è il risparmio personale e l’appoggio di altri connazionali alla base delle nuove imprese ed è così che la foemia oeconomica anche tra le immigrate comincia il suo cammino verso la produzione.
Nella sola Roma 3.698 donne straniere sono titolari di imprese, ma in tutta italia sono 15.065. Un buon numero che rappresenta il 16% del totale degli imprenditori stranieri, 94.633 al 30 giugno 2005, secondo il rapporto Caritas.
Le donne coinvolte nell’avventura imprenditoriale sono più numerose se consideriamo la partecipazione all’impresa in qualità di socio: Ci troviamo di fronte a 11.688 cariche di socio affidate a donne, il 37% del totale. Le competenze professionali si dirigono verso il terziario, il commercio, i servizi alla persona, il turismo, la ristorazione. Un apporto all’economia del Paese poco conosciuto, eppure il lavoro delle donne immigrate aumenta l’occupazione creando nuovi posti. Si calcola che per ogni impresa al femminile altre due persone trovano lavoro stimando così che le imprenditrici straniere concorrono con circa 30nmila nuove assunzioni.
Le rimesse che trasferiscono, circa 3 miliardi di euro nel 2004, aiutano l’economia dei Paesi di origine, ne potenziano lo sviluppo e proteggono le famiglie dalla povertà incombente. Al tempo stesso la quota che investono in Italia è alta, più del sessanta per cento dei loro guadagni, e contribuiscono ad oliare il meccanismo della nostra economia.
A queste donne coraggiose è affidato il futuro multiculturale che ci aspetta: come in un viaggio che non prevede distanze geografiche, ma solo sociali e culturali, vediamo cambiare gli spazi ai quali siamo abituati e che diventano familiari per qualcun altro.
È la nostra mappa mentale a uscirne confusa eppure sarà attraverso la foemina oeconomica migrante e il suo atteggiamento educativo verso i figli, la sua capacità di contemperare il vissuto precedente con l’attuale, che si ristrutturerà la futura composizione sociale della nostra popolazione.
Lettura segnalata Francesca Decimo, Quando emigrano le donne, il Mulino, Bologna 2005, Pag: 248 Euro 18,50
Il risultato della ricerca della Organizzazione Internazionale del Lavoro di cui dà conto questo articolo, riprendendo la copertina di Newsweek di due settimane fa, non è nuovo: in Italia, le donne manager sono poche, appena il 18% del totale, contro il 45% rilevato negli USA.
Quali le ragioni di questa differenza ?
La ricerca, a quanto consta da questo articolo, sembra fare di tutte le erbe un fascio, ed è questa la cosa per noi inaccettabile, mettendo insieme peculiarità europee da mantenere (molte) e spunti americani da – forse e in parte – imitare.
E’ vero che in Italia manca la possibilità di scegliere orari flessibili e che la produttività è ancora troppo spesso legata alle ore trascorse in ufficio e tutto questo è evidentemente da cambiare.
Ma non crediamo di dover imitare le americane riguardo alla legislazione che prevede un brevissimo periodo di assenza dal lavoro in concomitanza del parto e che il part time debba NECESSARIAMENTE ostacolare la carriera.
Forse, imitando le americane, aumenterebbe un po’ il numero delle donne italiane di potere, ma non siamo sicure (anzi, pensiamo di no) che aumenterebbero libertà e felicità delle donne.
Perché non proviamo a percorrere altre strade e, ad esempio, a porci l’obiettivo di un part time che non necessariamente ci porti a posti di potere, ma che neanche significhi l’abbandono dei nostri desideri di realizzazione nel lavoro ?
La redazione.
Paola Coppola
“Newsweek”: svantaggiate rispetto alle americane, la parità resta un mito
Pur costituendo il 57 per cento della forza lavoro le europee sono escluse dai posti di comando.
La Work Foundation britannica: “Quando si sceglie chi lavora bene in base alle ore passate in ufficio, le femmine sono svantaggiate”
Anche le politiche di protezione della maternità penalizzano: i periodi trascorsi a casa stroncano i percorsi lavorativi
PAOLA COPPOLA
Care europee, se sarete fortunate avrete un lavoro, ma scordatevi di fare carriera. La stanza dei bottoni è chiusa per le donne e al di qua dell´Atlantico la parità tra i sessi resta solo un mito nelle aziende.
Se si va a toccare con mano la realtà del mondo del lavoro, i paesi europei sono un “luogo triste” per le donne che vogliono scalare i vertici. La carriera è un sogno o un´ambizione da accantonare per chi decide di avere dei figli. Le pari opportunità non esistono, o meglio esistono a parole, come argomento da discutere nelle aule dei Parlamenti o in testi di legge che contano pochi mesi di vita. Se qualcosa sta cambiando, la strada da fare è ancora lunga. Così ci vede l´America, riferisce Newsweek che questa settimana dedica la copertina della sua edizione internazionale alle donne e al mondo del lavoro in Europa, confrontandolo con gli Stati Uniti. Il settimanale pone una domanda da telequiz, che non ammette una terza scelta: “Qual è il posto migliore per le donne che aspirano a comandare?”. A: gli Stati Uniti (Risposta giusta). B: l´Europa (Riprova, sarai più fortunato).
I dati su cui si basa l´inchiesta sono quelli dello studio pubblicato dall´Ilo (International Labour Organization) che dice che negli Stati Uniti le donne nei posti di potere sono il 45%, in Gran Bretagna sono il 33%, in Francia il 30% e persino in Svezia, considerata un modello di parità, solo il 29%. In Italia le donne manager sono proprio poche, appena il 18%.
Se questo accade, non è perché le europee stiano di più a casa: come forza lavoro pesano quasi quanto le americane (57% contro 65%). Né perché sono meno preparate degli uomini: nella maggior parte dei paesi hanno gli stessi titoli di studio.
Il problema vero – dice Newsweek – è che l´Europa non sa sfruttare il potenziale delle “sue” donne: queste possono avere un lavoro, ma poi non crescono. Il “tappo” del sistema-Europa confina molte donne nel settore pubblico o in impieghi collegati al governo. Poche di loro si distinguono invece nel settore privato, quello più competitivo e dove gli stipendi sono più alti.
Perché? Diverse le ragioni citate dal settimanale. E tra queste ci potrebbero essere proprio le politiche pensate per aiutare le donne che vogliono conciliare lavoro e maternità. Diversi studi dell´Ilo e l´Ocse (l´Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) mostrano che lunghi periodi a casa possono stroncare la carriera di una donna che lavora in un´azienda, spesso definitivamente. “Essere una potenziale madre è un ostacolo per le donne in alcuni tipi di lavoro”, dice Manuela Tomei, sociologa all´Ilo.
Anche il part-time, che alcune scelgono per conciliare gli impegni familiari, non aiuta la carriera. In alcuni paesi europei poi il sistema fiscale premia le famiglie dove le donne non lavorano; in altri gli scarsi o troppo onerosi servizi per l´infanzia non danno alternative alle donne.
Uno dei fattori più penalizzanti poi è che la vita al femminile, a meno di grossi sacrifici, non va d´accordo con la cultura gerarchica che domina molte aziende europee. Mancano poi le possibilità di scegliere orari flessibili: solo una donna su cinque in Europa lo riesce a fare, contro il 30% negli Usa. Il lavoro da casa è molto meno diffuso che in America, perché molte meno aziende hanno investito in nuove tecnologie. E poi c´è la mentalità accettata da molte imprese, per cui la produttività è legata alle ore trascorse in ufficio. Così, come spiega Alexandra Jones, direttore associato della Work Foundation britannica: “Quando i capi scelgono chi lavora bene in base al numero di ore passate alla propria scrivania, le donne sono svantaggiate”.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera che pone all’attenzione del dibattito un tema che, a nostro avviso, sta diventando sempre più bollente e cioè quello della mancanza (o scarsità) di offerta da parte delle imprese di un part time di qualità a fronte di una crescente richiesta delle donne che non ci stanno all’aut-aut lavoro/famiglia.
Occorre non arrendersi, perché più che mai sul tema della conciliazione è in gioco un pezzo importante di libertà femminile.
La redazione del sito
Buongiorno,
ricevo con interesse la vs. newsletter e vorrei segnalare il tema del
ritorno al lavoro negato alle donne che hanno osato uscire dal meccanismo obsoleto
e triturafamiglie del lavoro a tempo pieno.
Sono laureata e specializzata e ho lavorato per più di 10 anni come
traduttrice, interprete, copy writer e guida, da quando sono alla ricerca di un posto
part time, avendo fatto la scelta di occuparmi di mia figlia e di completare
un’ulteriore specializzazione, come offerte vedo ildeserto, osei
sfruttabile o sei fuori.
In Italia fatta la legge sul part time trovato l’inganno: le aziende o ti
richiedono un’anzianità assurda tipo 10 anni in azienda per “concedertelo”
oppure come ho sentito da altre ti propongono orari per te inutili e
impraticabili tipo il pomeriggio quando è noto che una madre è libera la
mattina e fino alle 15 circa a seconda della logistica ritiro-scuola.
Insomma dobbiamo cogliere il momento di riscossa delle donne e di voglia di
cambiamento di questa situazione stagnante in cui i ricchi si arricchiscono e i
medi e poveri s’impoveriscono, per rilanciare potentemente il dibattito
sulla necessità di aprire il mercato dellavoroalle madri: quante famiglie si possono
permettere un soloreddito? Quante donne hanno una formazione alta e completa e sono costrette e rimanere al palo? Quale messaggio si passa alle nostre figlie?
Come nell’800 studi se sei ricca, x trovarti il marito, lavori un po’ tanto x
gradire, poiti sposi e dimentichi tutto?
Grazie per l’attenzione che spero vorrete dare alla questione.
Paola Testoni
lettera di Lorena Melchiorre
Carissime,
durante l’ultima riunione allargata di Via Dogana Ida Dominijanni ha espresso una sua preoccupazione: da un po’ di tempo avverte una certa ostilità da parte delle trenta-quarantenni, ostilità accompagnata da un rifiuto o da una ostentata indifferenza rispetto al percorso compiuto in questi anni dal femminismo italiano e dal pensiero della differenza. Ma perché ostilità, rifiuto e indifferenza, tanto da far dire che si stia consumando una sorta di matricidio? Perché le trenta-quarantenni prendono le distanze da chi le ha precedute? Perché questa interruzione di corrente nelle relazioni tra le donne, per le quali sarebbe invece auspicabile un passaggio di conoscenza e di esperienza da chi ne ha un po’ di più a chi un po’ di meno? Perché i vasi non sono più comunicanti? C’è mai stata o è solo un mito la complicità tra donne, il sostegno e il reciproco rilancio nel nostro affacciarci al mondo?
Io so solo una cosa, perché mi sta davanti agli occhi tutti i giorni: noi trenta-quarantenni siamo tristi, deluse, amareggiate, frustrate, affaticate e alcune di noi anche alcolizzate.
Siamo la generazione di Co-co-co ora co-co-pro. Siamo le interinali. Siamo quelle che ogni giorno spediscono curricula, ma non ricevono risposta. Siamo le lavoratrici a progetto, sottopagate e ricattabili. Siamo le laureate che fanno fotocopie. Non anche fotocopie, solo fotocopie. Siamo quelle del lavoro sempre più flessibile, sempre più precario sempre più mutante ossia senza diritti e senza pensione. Siamo quelle che non possono avere figli, perché altrimenti perdono il lavoro. Siamo quelle che non possono comprare casa e che neanche la desidererebbero se non avessero l’incubo della scadenza del contratto d’affitto. Di quanto può aumentare un affitto di questi tempi? Di un terzo? Del doppio? Mai mettere limiti alla fortuna.
Siamo quelle senza portafoglio. Quelle dei discount. Quelle dei punti fragola dell’esselunga. Siamo quelle che programmano la visita dal dentista mesi prima. Siamo quelle per cui è un lusso vivere da sole. Quelle che cercano il fidanzato o la fidanzata uso foresteria.
Siamo quelle senza progetti per il futuro, impantanate nella noiosa coazione a ripetere del quotidiano. Siamo quelle per cui il futuro suona come una minaccia: cosa farò se mi ammalo? Come vivrò quando sarò anziana? Come farò senza pensione? Dove vivrò senza una casa?
E intanto per le strade e negli uffici vediamo voi signore cinquanta-sessantenni, professionalmente affermate, alcune volte sfruttatrici, più spesso indifferenti e senza problemi economici. E sappiamo che ciò che avete non è stato solo per meriti e capacità personali, ma anche per una congiuntura socio economica favorevole, un vero colpo di fortuna. Siete entrate nel mondo del lavoro quando ancora c’era prosperità economica, vi siete affacciate alle prime esperienze col corpo altrui, quando si parlava di liberazione sessuale e non di sindrome da immunodeficienza acquisita, vi siete fatte le prime canne e le piste di coca quando la droga non era un problema sociale. Se siete state furbe avete acchiappato al volo la baby pensione. Avete potuto formulare progetti personali e condividere ideali collettivi. Oserei dire che avete sognato insieme, mentre noi ci raccontiamo gli incubi comuni davanti al distributore di caffè. Siete scappate col portafoglio e vi siete portate via anche l’ottimismo, la fiducia verso il futuro. Senza calcolate intenzioni avete contribuito a rubarci sogni e desideri.
Abbiamo impulsi matricidi?
Le mani al collo le avete messe prima voi.
O forse è la solita storia dell’incomprensione generazionale.
Manuela Cartosio
L’Università di Torino ha riconosciuto alla sua tesi di laurea la “dignità di stampa”. Ma l’infermiera professionale Aziza Berdaoui, 24 anni, da 16 in Italia con la famiglia immigrata dal Marocco, non può essere assunta in un ospedale pubblico. Non ha la cittadinanza italiana, requisito indispensabile per entrare nei ranghi della pubblica amministrazione. Il suo rapporto di lavoro con la sanità pubblica deve essere “mediato” da un soggetto terzo. Scartate le cooperative – Aziza è sufficientemente scafata per tenersene alla larga – la nostra infermiera ha lavorato qualche mese come interinale in una casa di riposo per anziani. “Prendevo meno di mio padre che fa l’operaio”. Ragion per cui è passata a uno studio associato, pool di liberi professionisti con partita Iva collettiva che si offrono sul mercato. “Con quelli dello studio ho messo subito in chiaro che non intendo girare come una trottola da un ospedale all’altro”. L’hanno piazzata al Mauriziano di Torino, reparto cardiochirurgia, e lì sta. Aziza non ha ancora ben capito quanto dovrà “lasciar giù” allo studio. Ha capito al volo che rispetto ai colleghi dipendenti diretti dell’ospedale ci “smena” parecchio: lo stipendio è dignitoso, ma mutua, contributi e ferie deve pagarseli di tasca sua. Soldi a parte, per lei il vero problema è la scarsa considerazione umana e professionale. “I colleghi mi considerano un’intrusa di passaggio, non posso prendere decisioni impegnative, devo sempre chiedere a qualcuno che è assunto in pianta stabile”. Anche i medici hanno i loro bei pregiudizi, “devo lottare per farmi valere”.
Nel reparto di cardiochirurgia del Mauriziano attualmente le infermiere straniere sono tre, da aprile a oggi ne sono transitate sette. “La nostra presenza scatena fobie tra i colleghi italiani, sono stufi. Se mi metto nei loro panni, qualche ragione ce l’hanno. Ne ho incontrate tante che non sanno una parola d’italiano, non sono in grado di passare le consegne. Vengono usate per qualche settimana come tappabuchi, poi le mandano nei reparti di medicina generale dove le mansioni sono più semplici e di routine”.Aziza ha la pelle un po’ scura e porta il foulard. “Ce le ho tutte”, dice ridendo. “Di pazienti che non vogliono essere toccati da me non ne ho mai trovati. Il bisogno crea relazione. Sono contenta che mi chiedano perché porto il velo. Meglio le domande dirette che i bisbigli dietro le spalle. In compenso, quando entro in mensa con la divisa e il foulard bianco mi guardano come se avessi un terzo occhio. I parenti sono pazzeschi, sono loro la peggior malattia. Pur di non rivolgersi a me per avere notizie sulle condizioni del ricoverato, fermano il primo che passa in corridoio spingendo un carrello o con uno spazzolone in mano”.
Queste piccole difficoltà quotidiane non incrinano la gioia di Aziza di fare un lavoro che l’appassiona e che “riempie d’orgoglio” la famiglia Berdaoui. “Sono la prima laureata in famiglia, mia sorella è iscritta a scienze politiche”. Il “piccolo particolare” che occorre la cittadinanza italiana per essere assunti in un ospedale pubblico Aziza l’ha scoperto “dopo”, alla vigilia della laurea. La brutta sorpresa, comunque, non le ha fatto rimpiangere la scelta. Qualche mese fa è andata in direzione sanitaria per chiedere d’essere assunta, almeno con un contratto a tempo determinato rinnovabile. “Gira voce che è possibile in base a nuove circolari e disposizioni. Al Mauriziano negano”. In attesa che in alto loco si mettano d’accordo su come “interpretare” le circolari, Aziza ha avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza italiana. “Per averla, mio padre ci ha messo tre anni e mezzo”.
Manuela Cartosio
“Ci sono in giro più importatori d’infermieri nel Nord Italia che scafisti nel canale d’Otranto e di Sicilia”. La citazione, presa dal forum www.nursesarea.it, è un buon attacco per parlare del boom degli infermieri stranieri al lavoro in Italia. Il boom è stato innescato dalla penuria di infermieri professionali autoctoni: le università ne sfornano 6 mila l’anno, la metà di quanti ne servono per coprire il turn over fisiologico. E’ stato reso possibile da corsie preferenziali – ingressi “fuori quota” e rapido riconoscimento dei titoli – a riprova che quando gli immigrati ci servono diventiamo tanto buoni e persino la Bossi-Fini allarga le maglie. Last but not least, è stato incentivato dai processi di privatizzazione e di esternalizzazione in atto in una sanità pubblica sempre più aziendalizzata, dalla corsa al minor costo del lavoro possibile. L’ultimo fattore, combinato con il blocco delle assunzioni e la discriminazione istituzionale (senza la cittadinanza italiana non si entra nei ruoli della pubblica amministrazione), ha consegnato il reclutamento e l’importazione di infermieri (in prevalenza donne) alle mani rapaci di agenzie e cooperative. Con gli abusi, le vessazioni, i ricatti che ne conseguono, agevolati dal divieto per chi è importato da una cooperativa di cambiare padrone una volta arrivato in Italia. Il divieto è caduto un anno fa, ma gli “scafisti” hanno tutto l’interesse che rumene, polacche, moldave non lo sappiano.
Il reclutatore ciociaro
Nel panorama della lucrosa attività spicca Luca Giovannone, psicologo ciociaro, amico di Storace, mancato presidente del Toro (inteso come squadra di calcio), titolare della cooperativa “Vita serena” che recluta nei paesi dell’Est il personale da impiegare negli appalti vinti in mezza Italia. Il personaggio attira l’attenzione delle cronache per ragioni non solo pittoresche. A Prato e a Parma “Vita serena” è incorsa in “piccoli incidenti di percorso” (la definizione è di Giovannone) che le sono costate la revoca degli appalti. Il 12 dicembre a Torino l’infermiere Abdel Rahim Belgaid, entrato nella sede di “Vita serena” per reclamare pagamenti arretrati, ne è uscito con la spina dorsale fratturata: passerà il resto della vita su una sedia a rotelle. “Voleva aggredirmi, ha perso l’equilibrio e ha battuto sullo spigolo di un tavolo”, sostiene Michele Arcuri, responsabile della cooperativa a Torino. Versione talmente incredibile che persino lo spregiudicato Giovannone è stato costretto a esonerare Arcuri dall’incarico.
Un’accurata ricerca dell’Ires Cgil sugli infermieri stranieri – realizzata da Maria Adriana Bernardotti per il IV Rapporto sull’immigrazione che sarà diffuso al congresso nazionale – ha il merito di fare il punto sul fenomeno e il coraggio di spostare l’asse visuale. Al centro non ci sono le malefatte dei boss delle cooperative, ma il difficile rapporto tra infermieri italiani e stranieri e l’inadeguatezza del sindacato di fronte alla novità.
Si stima che gli infermieri professionali “non nati in Italia” siano 20 mila. Pochi rispetto ai 326 mila autoctoni, costituiscono però il 10% degli iscritti all’albo professionale Ipasvi (Infermieri professionali, assistenti sanitari, vigilatrici d’infanzia). All’albo di Modena, dove funziona un Help center a cui si rivolgono gli ospedali in cerca di infermieri, gli iscritti stranieri sono addirittura il 32%. La grossa fetta di donne tra gli stranieri supera la già alta percentuale femminile (80%) di casa nostra: dove c’è lavoro di cura, lì ci sono le donne. Le infermiere straniere sono l’estensione relativamente “privilegiata” della badanti, il mestiere in assoluto più segregato in Italia. Il differenziale salariale tra infermieri stranieri ed italiani è almeno del 25%, il gap dei diritti è ancor più ampio. L’obiettivo di “far più soldi possibile” prima di tornare in patria incentiva l’autosfruttamento. La disponibilità a fare più turni, la scarsa conoscenza dell’italiano, la bassa o diversa professionalità degli stranieri scatena nei “colleghi” italiani insofferenza e rifiuto. Nelle interviste fatte sul campo da Maria Adriana Bernardotti suona più volte il ritornello “Non siamo razzisti, però…”. Però questi abbassano il nostro potere contrattuale e, seppur inconsapevolmente, agiscono come quinta colonna della privatizzazione della sanità.
Ce n’è abbastanza per far dire ad Agostino Megale, presidente dell’Ires, che “siamo forse in presenza del primo caso in cui ci sono le condizioni oggettive per l’emergere di atteggiamenti potenzialmente ostili o di comportamenti di chiusura verso la minoranza straniera a difesa di privilegi della maggioranza”. Nelle corsie di ospedali e case di riposo si sfiorano “due mondi estranei”. Toccherebbe al sindacato metterli in comunicazione. Invece, resta “paralizzato”, condizionato “dal clima di diffidenza”.
Una fabbrica di schiavetti
Chiusura corporativa? Michele Piccoli, ex presidente del collegio Ipasvi di Torino, si è giocato la rielezione perché troppo poco corporativo. Eppure ritiene “inevitabile” una reazione corporativa “finché gli infermieri stranieri saranno comprati e venduti a pacchetti”. Pensa che gli italiani proteggano se stessi e, nello stesso tempo, i pazienti. “Che qualità può garantire chi non sa una parola d’italiano e al suo paese usa ancora la siringa con l’ago di ferro?”. Degli infermieri stranieri abbiamo bisogno. Su questo non ci piove. “Facciamoli venire in un modo degno e solidale, formiamoli alla professione e anche alla difesa dei loro diritti. Una volta rientrati nei loro paesi, sarebbero dei formidabili veicoli di democrazia. Invece, i paesi dell’Est noi li rapiniamo. In più, appaltiamo la nostra sanità a degli Al Capone che hanno scoperto l’America con l’intermediazione di manodopera. All’università di Torino il 10% degli iscritti al corso di scienze infermieristiche non ha la cittadinanza italiana. A spese dello Stato prepariamo schiavetti per Giovannone e simili. E’ pazzesco”. Abbattere il muro della cittadinanza, secondo il dottor Piccoli, è un obiettivo giusto ma, visti i tempi, non realistico. Lo si può aggirare imponendo alle Asl d’assumere gli infermieri stranieri con contratti di diritto privato a tempo determinato.
Ma il sindacato che dice?
Fatti due conti, è chiaro perché le Asl non aderiscano alla proposta. Un’ora di lavoro di un infermiere in ruolo costa all’Asl 40 euro. Un’ora “appaltata” a una cooperativa costa 28 euro (in tasca all’infermiera rumena ne finisco meno di 10). Le cifre sono queste, ammette Piccoli, “però un manager pubblico non può usare solo il pallottoliere. Il costo del lavoro incorpora la dignità. E’ intollerabile che un direttore sanitario, per più donna, dica che preferisce le rumene perché non mi restano incinte. Restano incinte, e poi sono costrette ad abortire”.
Qualche segnale fa sperare che il sindacato stia uscendo dalla “paralisi”. In Piemonte, il tragico caso di Abdel Rahim Belgaid ha indotto la Regione a sottoscrivere un protocollo d’intesa con i sindacati confederali. Si impegna a ricondurre nelle regole del contratto nazionale di categoria tutti i rapporti di lavoro “impropri” (scrivere “illegali” sarebbe stato ammettere che la Regione è corresponsabile di intermediazione di manodopera). “Spingeremo perché gli infermieri stranieri vengano assunti con contrattati a tempo determinato rinnovabili”, dice Rossano Gambino, della Cgil Funzione pubblica piemontese. A Brescia, su segnalazione dell’Ipasvi e con la fattiva collaborazione dell’Ufficio del lavoro, il sindacato è riuscito a far uscire dalla “schiavitù” una novantina di rumene ingaggiate dalla Mastercoop per conto di tre cliniche private: stesso contratto dei colleghi italiani, stessi incentivi e, soprattutto, documenti e titoli in mano alla lavoratrice o depositati all’Ipasvi (il sequestro dei documenti è l’arma di ricatto più potente in mano alle cooperative). A Reggio Emilia nella sanità pubblica gli infermieri stranieri sono pochi ed entrano solo attraverso le agenzie di somministrazione (ex interinali) che non regalano niente ma sono meno peggio delle cooperative.
Secondo Il Sole 24 Ore il mercato degli infermieri stranieri in Italia vale 300 milioni di euro l’anno. Il grosso se lo spartiscono con “Vita serena” le cooperative O.S.A e KCS Caregiver. Obiettivo lavoro, agenzia di Legacoop e Compagnia delle opere, ha collocato 300 infermieri reperiti all’estero. L’importarzione di infermieri e la controversa interpretazione di un articolo della legge Biagi ha accentuato il contenzioso tra le agenzie ex interinali e le cooperative. Queste ultime, pur prendendo formalmente in appalto “servizi infermieristici”, di fatto si limitano a fornire infermieri. Usano strutture e materiali non di loro proprietà e non corrono alcun rischio d’impresa. Di qui l’accusa non infondanta di concorrenza sleale da parte delle agenzie di somministrazione di personale. I loro ricorsi al Tar, finora, hanno visto prevalere le cooperative.
Le Molinette di Torino probabilmente è l’ospedale a più alta densità d’infermieri “non nati in Italia”. Al San Raffaele di Milano, casa madre dell’impero di don Verzé, sono il 10%: abbiamo bussato per saperne di più, ma non ci hanno aperto.
Alessio Scolfaro
E’ sabato mattina e Verona ha ancora sonno. Il tempo è soleggiato, poche macchine e qualche turista. Incontro Marco in un bar del centro. L’aroma del caffè. Piattini e tazzine cozzano tra di loro emettendo il tipico tintinnio. Il locale è semivuoto, troviamo facilmente un tavolino in una saletta laterale. Qualche avventore. Il cliente abituale, una risata. Due caffè e un succo all’ananas. C’è poco tempo, qualche convenevole… inizia l’intervista.
Come vedi il lavoro atipico? Come vedi l’odierno mondo del lavoro e come lo descriveresti?
Per quanto riguarda la riflessione sull’atipicità e sull’esperienza che i giovani hanno con il mondo del lavoro ci sono molte cose da sottolineare. La prima, è che l’aumento progressivo della scolarizzazione ha fatto sì che la maggior parte dei giovani si confronti con lunghe esperienze scolastiche. Oramai è elevata la percentuale delle persone che completano non solo gli studi obbligatori ma anche quelli superiori, universitari e spesso conseguono anche livelli successivi attraverso master e/o dottorati. Queste sono persone che hanno un’alta formazione ma che, nonostante questo, si trovano paradossalmente in difficoltà con un mondo del lavoro che in questi decenni si è andato trasformando. L’orizzonte è sempre più indefinito e precario. E’ aumentato il periodo che i giovani impegnano per trovare una qualche forma di impiego minimamente stabile, e non sto quindi parlando necessariamente di assunzioni a tempo indeterminato che taluni forse non conosceranno mai. Questi sono due primi dati: quello di una ricerca faticosa e quella di una forte divaricazione tra l’elevata preparazione e la possibilità di trovare un lavoro coerente, o in qualche modo corrispondente, al tipo di formazione. La seconda cosa da notare è che il lavoro che veniva detto atipico, perché all’inizio era un’eccezione ed in qualche modo si presentava differente rispetto allo standard tradizionale del lavoro dipendente a tempo indeterminato, sta diventando per le nuove generazioni sempre di più la normalità. Ne esistono molteplici: come le collaborazioni a progetto, i lavori interinali, forme precarie di part-time e poi c’è tutto il popolo delle partite Iva, che ufficialmente sono lavoratori autonomi, ma spesso sono precari a loro volta e costretti alla partita Iva per necessità e non per scelta. Tutto questo vale, naturalmente, soprattutto per chi ha fatto percorsi umanistici o generici, e che quindi non ha seguito percorsi estremamente specialistici o più orientati al mercato. Esistono ancora, infatti, alcune competenze, alcuni percorsi formativi e professionali, in cui il rapporto con il mondo del lavoro è più facile.
In base a questi due elementi, come vedi il rapporto tra società e mondo del lavoro giovanile?
Per me il primo elemento di riflessione è questo: come si può pensare a una società che investe così tante risorse sulla formazione e sull’apprendimento, in maniera così marcatamente distinta da quello che poi è l’impiego effettivo nella società nel mercato del lavoro? Questo tipo di situazione può essere letta da due punti di vista diversi. Il primo, è quello di chi dice che i giovani devono semplicemente ri-orientare la propria formazione, la propria preparazione in funzione della richiesta del mondo del lavoro e che devono in qualche modo conformarsi a quella richiesta del mercato del lavoro. L’altro, invece, è quello di chi come me crede che si debba in qualche modo riconoscere che la preparazione e la formazione non possono essere semplici variabili dipendenti, ma vanno considerate risorse importanti da mettere a frutto. Ci sono generazioni di giovani che ha investito tante energie e risorse su un certo tipo di competenze e di preparazione seguendo passioni e interessi e quindi credo si debba inventare una politica del lavoro che in qualche modo tenti di andare incontro a questo tipo di realtà riconoscendo le competenze che ci sono. Per me, quindi, la prima questione è se le competenze che sono maturate in questi anni possono essere riconosciute oppure se sono ritenute inutili dalla società in cui viviamo. Il secondo elemento è rappresentato da una caratteristica che sta definendo il mercato del lavoro per i giovani. Per come posso interpretare io questo mondo, la situazione attuale non è quella di disoccupazione classica bensì quella paradossale di una sovraoccupazione. Non essendoci la sicurezza di un lavoro a tempo indeterminato, o comunque sicuro dal punto di vista temporale e del riconoscimento economico, ci si adatta ad assumere una molteplicità di lavori di diverso genere, spesso caratterizzati da forme contrattuali diverse fino a mettere insieme una retribuzione sufficiente ad andare avanti. La stessa persona la mattina fa un qualche lavoro part time che magari non ama tanto e, nel pomeriggio, ne fa uno che magari è meno retribuito ma che va più in contro alle sue passioni. Oppure, vi sono soggetti che fanno contemporaneamente un’insieme di lavori e mansioni che vagamente hanno a che fare con le loro competenze e capacità, passando da uno all’altro in base ai momenti e alle opportunità. Credo che sarebbe importante da questo punto di vista analizzare quali cambiamenti questo comporta nella nostra psicologia, nelle nostre relazioni e nella nostra antropologia. La compresenza di molti lavori, che però non hanno un riconoscimento economico sufficiente e che quindi impegnano un sovrappiù di impegni, spesso determina una colonizzazione anche dei tempi di vita, dei pasti, della sera, della domenica che nel lavoro tradizionale venivano tutto sommato salvaguardati. Oggi c’è una compenetrazione più forte tra gli spazi della vita privata e quelli del lavoro, con aspetti a volte molto negativi e a volte interessanti. Quelli negativi sono evidenti perché vi è una forma di parassitaggio dei tempi personali e dei tempi relazionali, che vengono sussunti nei tempi di produzione. Al contempo, però, è anche vero che questo risponde alla necessità di molti giovani di tenere più legate dimensioni personali, soggettive, emotive e relazionali con le attività che si fanno. Quindi, c’è anche una contaminazione inversa del proprio mondo soggettivo, sociale e relazionale che in qualche modo viene portato nello spazio di lavoro. Per me questo è un fatto prezioso. Credo che non riuscirei a sopportare una forte schizofrenia tra vita e lavoro. In questo stato di cose io vedo una vicinanza o, comunque, un’approssimazione dell’esperienza delle nuove generazioni a quella che è stata l’esperienza del lavoro delle donne negli scorsi decenni. Questa vicinanza possiamo rintracciarla in due elementi. Innanzitutto il già descritto maggiore intreccio tra tempo di vita e tempo di lavoro, tra tempi di produzione e tempi di riproduzione, tra modo affettivo-relazionale e mondo sociale-lavorativo che un tempo caratterizzava l’esperienza lavorativa femminile oggi riguarda sempre di più anche i giovani. Un’ulteriore dimensione che lega l’esperienza del lavoro delle donne all’esperienza del mondo delle nuove generazioni è quella legata al riconoscimento del tipo di lavoro. Una parte sempre più rilevante del mondo giovanile, sia per la trasformazioni del mondo del lavoro, sia per le trasformazioni nel modo di viverlo, si sta indirizzando verso forme di lavoro che non sono legate alla produzione materiale in senso stretto, ma che riguardano il lavoro immateriale, relazionale, sociale, culturale, di cura, di assistenza, di impegno sociale, di legame sociale… insomma lavori che vanno a inserirsi nelle attività delle imprese sociali-culturali, nel terzo settore, nelle cooperative, nelle associazioni. Il mondo lavoro dei giovani mi sembra si stia orientando sempre di più verso dimensioni sociali, relazionali, comunicative. Anche questo mi sembra in qualche modo un avvicinamento di una parte almeno dei giovani lavoratori all’esperienza delle donne. Questo, per me, richiama anche alcuni elementi sociali ed economici importanti. Proprio perché vedo nei giovani una sovraoccupazione e un basso riconoscimento economico, ho l’impressione che uno dei problemi sia il riconoscimento delle forme di lavoro che già ci sono, piuttosto che non quella dell’invenzione di nuovi posti lavoro. Secondo me questa difficoltà a riconoscere il lavoro che c’è deriva anche da una cultura, da un’organizzazione sociale e materiale che è orientata verso un’organizzazione del lavoro centrata sulla dimensione della produzione. C’è una minor attenzione verso le forme di lavoro che hanno un approccio più orientato alla riproduzione, alla conservazione delle condizioni di vivibilità, più legato alla cura delle dimensioni sociali e relazionali. Anche questo, secondo me, è un possibile punto di dialogo, di intreccio, di convergenza tra l’esperienza e la riflessione critica delle donne e la condizione attuale delle giovani generazioni.
Compenetrazione tra vita e lavoro: questo mi ricorda il ribaltamento che si è verificato a inizio secolo, quando si è separato il lavoro dalla famiglia. Sembra quasi che si stia tornando indietro su questa cosa. Come si può conciliare questo tornare alle origini del modo di lavorare: si deve ripensare anche al modello di famiglia, oppure bisogna semplicemente riconoscere la possibilità che si ritorni a fare famiglia in senso lavorativo.
Io vedo un rischio: un tempo questa indistinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro era un’indistinzione a vantaggio della società, nel senso che era il lavoro ad essere una dimensione delle forme sociali. Per dirla con Karl Polanyi l’economia era immersa, incorporata nelle dimensioni sociali più ampie e, quindi, in gran parte seguiva i limiti o le priorità che in qualche modo venivano dalla società. Oggi mi pare che la tendenza sia contraria, ovvero sono la società e le sue forme di organizzazione relazionali e di lavoro ad essere spinte a conformarsi alle necessità, agli imperativi, del mercato. Questa indistinzione sembra andare più a vantaggio delle logiche economiche che non a vantaggio delle logiche sociali. Siamo di fronte a un confine molto sottile e problematico: questa nuova trasformazione non è solo un tornare indietro, è un qualcosa di diverso, di inedito. Dal punto di vista politico, a mio parere, dobbiamo lavorare non per conservare o riaffermare una separazione netta tra vita e lavoro, che è una cosa che io personalmente non mi auguro affatto, ma si deve invece lavorare per una compenetrazione positiva, ricca in termini umani e sociali e non economici e utilitari. Si deve lavorare cioè alla creazione di immaginario sociale che ribadisca la priorità dei valori sociali-relazionali su quelli puramente economici della crescita, dello sviluppo della produzione. Su questi orizzonti mi sta bene anche re-intrecciare in maniera creativa questo incontro tra tempi e spazi di vita e tempi e spazi di lavoro.
Per quel che riguarda la dimensione dell’organizzazione personale, relazionale, familiare: che cosa cambia in termini di psicologia e di vissuto?
Ci sono alcuni elementi molto pratici. Il fatto che molte di queste forme di lavoro rendono più difficile qualsiasi forma di organizzazione, di progettazione di sé, delle proprie relazioni e di un’ipotesi di famiglia e, comunque, di investimento sociale-relazionale. Questo sia in termini materiali che psicologici, perché è più difficile fare mutui per qualsiasi cosa, è più difficile trovar casa, uscire dalla propria famiglia, è più difficile fare dei figli. Credo che questo abbia anche più complessivamente un riflesso sul grado di serenità o di disagio delle persone. La serenità o il disagio, nel momento in cui i giovani si confrontano con queste trasformazioni e queste sfide, dipendono anche dal fatto se i giovani si sentono riconosciuti o non riconosciuti dalla società in cui vivono. C’è una questione profonda che al di là dei problemi pratici riguarda il desiderio di riconoscimento. Per quanto riguarda gli uomini, in particolare, in passato, l’integrazione lavorativa, e quindi l’identità professionale, era uno dei pilastri delle forme di individuazione e d’integrazione sociale. Oggi questa cosa è meno chiara e definita, e questo si traduce in una maggiore insicurezza sia con se stessi, sia nelle nostre relazioni. Questo determina una maggior difficoltà sia a riconoscersi come integrati in un ambiente sociale, sia a costruire una propria forma di identità. In passato, con una professione si ereditava un’identità personale: si era insegnante, medico, avvocato… Oggi, in qualche modo, l’identità professionale è qualcosa che si costruisce negli anni attraverso una serie di esperienze e per sedimentazione, per intreccio, per connessione di più esperienze lavorative e sociali. Questo vuol dire che c’è un lavoro di ricostruzione della propria identità lavorativa più complesso, più faticoso. Non si riceve semplicemente in eredità: va costruita giorno per giorno. Per un verso, ovviamente, si apre una maggiore soggettività, una maggiore ricerca professionale ma compare anche un grosso ambito di frustrazioni, di impotenza, di paure di inadeguatezza, di paura di non farcela. Questo espone i giovani a forme di incertezza e di crisi personale più forti.
E rispetto alle aspirazioni e ai desideri… questo come si traduce?
Rispetto alle aspirazioni e ai desideri si apre un dibattito molto delicato… In termini generali in questo momento la discussione pubblica è molto legata a come proteggere e garantire le forme di lavoro o a che tipo di risposta offrire ai giovani. C’è un approccio che mira a salvaguardare le forme tradizionali di lavoro e quindi a difendere l’idea dell’impiego a tempo indeterminato e l’identità di una professione stabile che si costruisce in un vincolo reciproco per una parte significativa della vita. Poi c’è la posizione opposta che è quella di chi vuole seguire completamente le richieste del mercato del lavoro che spinge verso un lavoro più precario, più flessibile; il che significa diminuire i diritti, la protezione sociale, sganciare il lavoro dalle forme di riconoscimento sociale, dalla previdenza per ridurre il costo del lavoro e per aumentare i profitti. Tra questi due estremi io mi chiedo se non valga la pena indagare la possibilità di orizzonti diversi di significato, di desideri, di aspirazioni. Questo, secondo me, è possibile farlo solo se si approfondisce la dimensione esistenziale e narrativa del vissuto dei giovani lavoratori, cioè se ci si distacca almeno un poco dalle prospettive ideologiche, siano esse di stampo neo-liberista o lavorista, e si prova – almeno per un certo periodo – a mettersi in una prospettiva di narrazione e condivisione, di ascolto del vissuto, delle vicende e dei desideri dei giovani. Dal mio punto di vista, la cosa più importante da fare adesso è quella di creare spazi di condivisione delle proprie esperienze perché molte delle difficoltà, dei problemi, delle esperienze che i giovani attraversano oggi vengono vissute in maniera del tutto individuale, spesso con vergogna per le difficoltà che si incontrano nel sostentarsi economicamente, nel fare scelte personali, nelle difficoltà di uscire di casa e metter su famiglia, nell’aiuto che si richiede alle proprie famiglie d’origine. Molte volte c’è una resistenza da parte dei giovani nel condividere questo tipo di esperienze. Una resistenza, secondo me, legata al fatto che non si percepisce che le difficoltà soggettive sono il riflesso di una difficoltà generazionale, di contraddizioni sociali più generali, Ovvero si vive in termini di inadeguatezza personale quello che, invece, è problema politico, sociale, culturale che, in quanto tale, va condiviso, socializzato e affrontato assieme. L’opportunità che i giovani possono avere oggi è quella di raccontare le proprie esperienze personali e di farle diventare materie di cultura sociale e politica. Questo non significa mettere in mostra il proprio vissuto soggettivo per una questione di narcisismo ma, al contrario, tentare di tracciare dei ponti tra la propria esperienza soggettiva e l’esperienza e la rielaborazione sociale collettiva. Questo momento della narrazione, per me, ha già un valore politico perché serve a costruire dei linguaggi, delle parole, degli immaginari, a dar forma a desideri e aspirazioni, e questo può essere fatto solo all’interno di uno scambio sociale. Se non c’è questa attività temo che qualsiasi scelta politica, economica che si avanzi su questi temi non possa che costituire una forma di riduzionismo, di limitazione delle possibilità che si aprono in questo momento. Lo dico anche perché credo che una delle difficoltà che scontano i giovani di oggi è quella del legame tra la propria situazione soggettiva-generazionale e quella dell’impegno politico, dell’incisività politica. Veniamo da generazioni che hanno preso le distanze dalla politica ufficiale, dalla politica dei partiti, dalla politica istituzionale, non per un disinteresse complessivo – basta vedere contemporaneamente l’impegno sociale o nei movimenti – ma per una difficoltà di trovare forme di partecipazione politica che tengano insieme l’esperienza soggettiva con l’impegno pubblico per il cambiamento. Credo che dobbiamo trovare un percorso di uscita da questo disagio verso la politica che corrisponda anche al racconto della nostra esperienza. Ho molti dubbi che questo tipo di problematiche possa essere risolto dall’attuale classe politica, ovvero da una generazione di uomini, che non ha sperimentato questo tipo di condizioni, che proviene da tutt’altra esperienza umana e materiale. Non hanno vissuto e quindi non hanno conosciuto questa condizione di incertezza radicale, non ne hanno attraversato le contraddizioni, le difficoltà, e quindi non possono comprendere veramente i desideri e le aspirazioni che nascono e si riproducono in questo tipo di esperienze. Non possiamo affidarci, delegare il nostro futuro e le nostre aspirazioni a una classe politica, o a soggetti politici che non hanno vissuto la nostra esperienza. Dobbiamo imparare a nominare e dar forma da noi stessi alle nostre aspirazioni più profonde. Da questo punto di vista si tratta anche di riflettere sul rapporto tra esperienza lavorativa e forme di integrazione sociale e politica. Stiamo attraversando una fase di transizione e credo che le nuove generazioni stiano tentando anche se confusamente di reinventare forme di impegno civile e politico diverse da quella tradizionali o istituzionali. Forme che permettano di offrire al proprio percorso personale e, più in generale, generazionale, una ricaduta politica, un’incisività politica. A partire dalla mia esperienza mi interessa riflettere sul rapporto tra trasformazioni del lavoro e trasformazioni delle forme di partecipazione politica. I mutamenti nell’esperienza lavorativa non sono effimeri o superficiali stanno accompagnandosi a trasformazioni antropologiche e psicologiche importanti. Tra coloro che vivono queste nuove forme di lavoro atipico, precario, plurale, molti le subiscono, alcuni li scelgono, ma per quasi tutti questo ha significato anche una trasformazione di valori, di forme di identificazione, di priorità. Credo che oggi ci sia una difficoltà generale dei giovani a riconoscersi nel modello lavorativo tradizionale di tipo fordista, sia nel senso di identificarsi in un lavoro che accompagna professionalmente per tutta la vita, sia nel senso di una forma di rapporto di lavoro che è quella del lavoro dipendente tradizionale salariato. Più in generale non credo che ci sia più una filosofia e una centralità del lavoro come per le generazioni precedenti, Tra i propri valori ed aspirazioni, le giovani generazioni non mettono più così al centro il lavoro. Esso non è più così centrale. Il suo significato si compone attraverso diversi frammenti con altre dimensioni – relazionali, espressive, sociali, affettive -e questa complessità, secondo me, va salvaguardata. In più nel vissuto lavorativo dei giovani ci sono nuove esperienze nel rapporto con lo spazio, con il tempo, nel rapporto con le relazioni uomo-donna che sono andate modificandosi in questi anni e che difficilmente potranno essere irrigimentate di nuovo nelle forme di lavoro tradizionale. Dal mio punto di vista, quindi, questa dimensione di narrazione e di maturazione é necessaria per esplorare e sperimentare forme di riconoscimento del lavoro, dei diritti del lavoro che raccontino gli elementi negativi e in qualche modo anche servili di questa forma di lavoro ma che raccontino anche gli elementi di esperienza umana, relazionale e sociale che queste forme di lavoro hanno portato con sé. Questa permetterebbe di puntare a modelli sociali che offrano garanzie rispetto al lavoro sia in termini temporali, sia in termini di diritti e di forme di riconoscimento, all’interno di uno spettro di possibilità e di forme di organizzazione del lavoro più complesse, più diversificate. In questo, credo, sarebbe molto interessante apprendere dall’esperienza delle donne e anche dal racconto che hanno fatto in questi anni sulla propria soggettività, sulle proprie esperienze lavorative, cercando di intrecciare quest’eredità con le esperienza delle giovani generazioni. Questo sarebbe, secondo me, un arricchimento molto importante per tutti e forse permetterebbe di individuare delle proposte politiche veramente nuove ed originali.
Marco Deriu é un sociologo che vive a Parma e si autodefinisce “un classico lavoratore atipico”. Ha partita IVA e svolge tutta una serie lavori a progetto. E’ consulente culturale di amministrazioni pubbliche e di enti privati a Parma, gestisce una collana editoriale per una casa editrice di Bologna, segue alcune classi di un’Università on-line per stranieri che studiano in italiano all’estero e infine ha qualche incarico di insegnamento in Istituti e Università italiane. Oltre a questo studia e scrive di questioni internazionali – conflitti e forme di solidarietà – di antiutilitarismo e decrescita e di differenza sessuale approfondendo in particolare le tematiche legate alla trasformazione del maschile e alle relazioni tra uomini-donne. Le sue pubblicazioni più recenti sono “La fragilità dei padri. Il disordine simbolico paterno e il rapporto con i figli adolescenti” (Unicopli, 2004) e “Dizionario critico delle nuove guerre” (Emi, 2005).
(f.sa.)
Un asilo a Palazzo di Giustizia?
«Ci manderei subito la mia figlia più piccola». Laura Amato parla in doppia veste: pm e mamma. Appesa al muro c´è la toga e nella borsa la foto delle bambine. Tre. Occhi castani, azzurri e verdi.
Un asilo in mezzo alle aule?
«Sarebbe un segnale importante. Oggi la maggioranza dei nuovi magistrati sono donne, ma il nostro non è un lavoro facile per le mamme, non sono previsti part-time o permessi per allattare. È difficile conciliare la famiglia con udienze e turni. E poi le mie figlie sanno che faccio il magistrato, mi piacerebbe che potessero venire qui, perché sarebbero più vicine e conoscerebbero il mio ambiente di lavoro».
Un ambiente particolare…
«È vero. Bisogna studiare soluzioni che garantiscano ai bambini di non vedere cose che possano impressionarli, come le persone in manette. Ma una soluzione forse c´è: l´asilo potrebbe essere ospitato in aree adiacenti, come piazza Umanitaria».