Giordana Masotto

Perché è necessario e auspicabile “nominare le donne”
con l’intenzione di mettere in discussione il maschile come universale.
Gli uomini non considerano l’esperienza e il sapere della quotidianità
come una leva per cambiare il lavoro e l’economia.
Partire dalla soggettività vuol dire partire dal desiderio.

Se c’è una cosa che ancora non hanno capito la sinistra, il sindacato, e tutti coloro che ragionano e soffrono sul farsi dei soggetti politici, è che l’esserci delle donne nella politica e nel lavoro, non è un problema di adeguamento al genere, di settorialità categoriale, di particolari competenze cui dare accoglienza e valorizzazione.
Le donne vengono sì nominate, ma soprattutto in contesti di discorso in cui diventano una categoria (le donne, i giovani…). Assai più interessante è invece quando il nominarle esprime l’intenzione di mettere in discussione il maschile come universale, cioè la volontà di non più accomodarsi nella nicchia accogliente del neutro.
Meglio ancora: è particolarmente interessante quando “nominare le donne” esprime non un’attitudine edificante (benché io apprezzi il politically correct, in mancanza di meglio), ma il riconoscimento che un maschile che non si interroghi sulla propria differenza, sia nelle relazioni sia nelle politiche che mette in campo, assume di fatto una valenza patriarcale. Al contrario, un maschile che si riconosce anche come “portatore sano di patriarcato” vuole ripensare la politica anche a partire da questa consapevolezza.
È dunque necessario e auspicabile “nominare le donne” perché un maschile che si interroghi sulla propria differenza auspica, chiede, si attiva per avere accanto e di fronte un femminile che nomini la propria differenza: nella consapevolezza che solo da questo conflitto/relazione può nascere la politica. Conflitto/relazione: cioè quel confronto vivace, polemico, non edulcorato ma sentito come necessario, che mette in gioco radicalmente i soggetti in campo, e che a tutt’oggi assai raramente si dà. Oggi, interrogarsi sulla differenza non riguarda solo il femminile ma anche il maschile.

 

Parliamo, ad esempio, di lavoro.
Oggi, con l’incattivirsi della crisi, da più parti si auspica che il lavoro riprenda centralità, si torna a parlare di diritti, dignità. Anche il diffondersi dell’espressione “lavoro bene comune” (senza entrare qui nel merito del concetto, che viene stiracchiato in direzioni diverse) sembra assolvere spesso alla funzione simbolica di ridare forza e attrattività a una condizione che lo spadroneggiare del capitalismo neoliberista degli ultimi decenni ha immiserito e depresso.
Eppure, questi stessi decenni hanno visto il fiorire dell’esperienza e del pensiero delle donne sul lavoro.
Spinte dall’esigenza di conquistare l’autonomia economica e di sottrarsi al domestico come destino e identità, forti dell’acquisito controllo sulla riproduzione (nella parte di mondo dove il processo è più avanzato), le donne sono entrate massicciamente nel lavoro-per-il-mercato: nell’altro lavoro – quello di riproduzione e manutenzione dell’esistenza, ineliminabile e insostituibile per ogni essere umano, fonte di senso e condizione per la ricerca della felicità, ma invisibile in economia benché complessivamente richieda più ore di quello pagato – c’erano già e hanno continuato in gran parte a esserci.
Dunque le donne hanno dato il là alla messa in discussione di quel tacito patto sociale che si basa sulla divisione sessuale del lavoro.
Come ne usciamo, uomini e donne? Possibile che si possa ancora pensare che il problema è “favorire il lavoro delle donne”? E non, uomini e donne, confrontarsi su come ci collochiamo rispetto a tutto il lavoro necessario per vivere?
Con tutte le altre domande che ne conseguono: su tempo di vita/tempo di lavoro, sulla qualità del welfare (stampella del lavoro o matrice dello sviluppo dell’umano?), sulle priorità da garantire in tempi di crisi e di ricatto, sull’organizzazione del lavoro.
In questa prospettiva, ad esempio, il modello di lavoro lineare full time del maschio breadwinner, già ampiamente corroso dal neoliberismo globalizzato, non va (non andrebbe) bene neppure per risolvere i problemi portati dalle donne (men che meno li risolve il “tutti precari”, ovviamente).
Ma ci sono altre domande importanti: se mettiamo al centro tutto il lavoro necessario per vivere, e riconosciamo come esperienze fondanti per l’essere umano il fatto che tutti “nasciamo da” e siamo immediatamente inseriti in un contesto relazionale, scopriamo che il modello “maschio adulto indipendente” che è alla base del contratto sociale originario, è una mostruosità. Che conseguenze ha invece pensarsi tutti come esseri interdipendenti? Che conseguenze può avere nel lavoro e nell’economia?

A Milano, nel maggio 2011, per dare una risposta politica a questi interrogativi abbiamo creato l’Agorà del lavoro. Senza pretendere di trovare soluzioni, abbiamo cercato di rendere possibile un luogo in cui almeno si potessero fare le domande, in cui dar la parola alle soggettività. In una trentina di persone – le promotrici (molte) e i promotori (pochi) – provenienti da gruppi, ma anche persone singole, radicate nel femminismo storico ma non solo, così abbiamo descritto l’iniziativa:
“L’Agorà del lavoro – per incontrarsi ribellarsi progettare. Una piazza concreta e simbolica, un luogo fertile e radicato nella città di Milano, uno stabile terreno di incontro, a cadenza mensile, dove il lavoro che cambia diventa protagonista.
Qui si intrecceranno storie e soggettività di diverse generazioni, non per dar vita a un inutile confronto tra teorie e pratiche, ma per creare un tessuto effervescente da cui possano scaturire iniziative politiche nuove.
Non ci interessa creare un’improbabile comunità omogenea che appiattisca le differenze, bensì far nascere relazioni che diano valore alle esperienze personali e più forza per negoziare.
Vogliamo ribellarci alle iniquità e alle insensatezze di un mercato del lavoro oggi sempre più lontano dai nostri bisogni e desideri.
La scommessa è proprio quella di trovare nuove parole, più aderenti alla vita, e nuove risposte. L’Agorà sarà dunque un luogo dove tutte e tutti si sentiranno autorizzate/i a esprimersi e a dare il proprio contributo senza timore di critiche o censure. Se il progetto funzionerà, ognuna/o ritornerà nei contesti in cui si trova con più idee, più voglia di esserci, più capacità di contrattare.”

 

Gli incontri sono proseguiti con regolarità e hanno dato luogo a confronti cui non è così frequente partecipare e che illuminano in modo certamente più articolato i problemi.
Ad esempio c’è stato un confronto appassionato tra lavoratrici autonome e sindacaliste “classiche” non solo sulle diverse aspettative sulla contrattazione, ma anche sul diverso modo di intendere la rappresentanza e ancora più a monte sulla diversa rappresentazione che lavoratrici diverse danno del proprio e dell’altrui lavoro. O ancora, esperienze di contrattazione/negoziazione individuale, a gruppetti, collettiva.
Non credo proprio che questi siano temi “femminili” o del lavoro femminile: sono i temi caldi del lavoro di oggi su cui è imprescindibile confrontarsi se si vuole davvero ritrovare la centralità del lavoro, ma che prendono corpo se si dà fiducia alle soggettività (delle donne e degli uomini che si interrogano sulla propria differenza).
In un altro incontro abbiamo sentito le esperienze di contrattazione – al lavoro e in casa, con i compagni di vita – di madri lavoratrici, i modi, gli esiti, i bilanci. La loro forza e anche il loro isolamento. Ma anche questo sarebbe miope dire che è un problema delle donne, o un problema di giustizia. Il mostruoso buco di natalità che abbiamo in Italia – uno “sciopero” cui molte giovani donne/coppie sono oggi costrette – dovrebbe riguardare tutti, in primo luogo chi si occupa di economia. Così, pensando alla fatica di tante donne a vivere sia il desiderio di maternità che il desiderio di lavoro, io fantastico frotte di uomini, di lavoratori, che volontariamente firmano dimissioni in bianco in caso di paternità, per denunciare un problema che sentono proprio a tutti gli effetti (sul modello delle autodenuncie per combattere la punibilità dell’aborto negli anni ’70).
Abbiamo sentito giovani che rifiutavano sia la logica precaria sia la logica aziendalista del lavoro fisso, mosse/i dal desiderio di inventarsi co-working, e con esso piacere nel lavoro, futuro, immaginazione e nuove regole. Abbiamo intuito germogli di comune vedendo la voglia di una nuova mutualità che ribalta il dilemma pubblico/privato. Abbiamo visto penuria di denaro ma anche allegro rifiuto del consumismo.

 

Se poi vogliamo per un momento allargare l’orizzonte dal lavoro all’economia, vedremo ad esempio come sia carente puntare nella necessaria, illuminante direzione della conversione ecologica dell’economia, cioè del come e cosa produciamo e consumiamo, se non ci facciamo carico anche dei nessi tra lavoro produttivo e lavoro necessario per vivere, tra sobrietà, di cui si parla, ed economia domestica di cui non si parla. Forse si pensa che le cose si risolveranno da sole in famiglia?
Possiamo invece incominciare a interrogarci su quale conversione del quotidiano si renda necessaria in un auspicabile mondo postpatriarcale in cui le donne sono diventate soggetti che parlano, e non più come nel mondo patriarcale (s)oggetti che stanno lì a rappresentare questo complesso sistema di cura e di relazioni. Le donne stanno lì a garantire ciò che tutti possono permettersi di non vedere. È vero che sempre più uomini agiscono nella quotidianità della vita. Ma, come dicevamo nel Sottosopra – Immagina che il lavoro*, “non considerano l’esperienza e il sapere della quotidianità come una leva per cambiare il lavoro e l’economia.”
Ed è esattamente quello che sta accadendo. Nella sinistra si è ampiamente accreditata un’idea di cura purché disincarnata: il femminismo e le donne possono continuare a parlare di corpo e riproduzione, mentre le analisi generali, le visioni su larga scala e le politiche continuano immutate.
Eppure oggi questo problema, di un quotidiano tendenzialmente non più garantito dalle donne, riguarda tutti, se non vogliamo essere tutti riassorbiti nei sistemi di controllo specialistico, il business della salute in primis (eppure lo sappiamo che il farmaceutico continua a macinare profitti nonostante la crisi!), o la qualità del cibo e dell’agricoltura (ricordiamocene quando parliamo di cibo a kilometro zero e gas, gruppi di acquisto solidale). Insomma se vogliamo discutere di modi in cui consumiamo, perché trattarci da consumatori quando c’è una base materiale di lavoro che incide profondamente su quei consumi?

 

È chiaro che la soggettività spiazza e spaventa, confonde le acque e le categorie teoriche.
Un po’ di luce può venire da una parola che continuo a considerare illuminante sulla questione dei soggetti. Partire dalla soggettività vuol dire partire dal desiderio.
Desiderio è la pulsione radicale di ogni essere umano all’affermazione di sé, alla propria libertà. Come donne noi abbiamo fatto un duro esercizio di libertà proprio smarcandoci da quella cancellazione del desiderio che era il ruolo femminile imposto.
L’abbiamo imparato lì che si parte dal desiderio. Da lì le donne sono nate come soggetto politico in movimento. Abbiamo scoperto che il desiderio bisogna autorizzarselo, che non è una cosa facile.
Oggi poi è più difficile di ieri, per donne e uomini. Ci hanno confuso le idee spacciandoci per desiderio lo shopping. Cioè un processo di erotizzazione che trasforma tutto in consumo: lo yogurt, il detersivo, la vacanza, il proprio corpo, la propria vita, il proprio lavoro. Tutto è “un’esperienza” unica ed eccitante: telefonare e far la coda al super. Sono d’accordo con chi dice che bisogna deerotizzare il lavoro (ho sentito una ragazza dire “voglio un lavoro con i tacchi”!). Il lavoro non è un consumo. Nel mondo dei consumi le cose finiscono, così dobbiamo ricomprarle. Ma non abbiamo un’altra vita da comprare, un altro corpo, un altro mondo. Il desiderio al contrario non si consuma mai, è progetto di sé, è una pulsione irriducibile che trova limite e misura nella relazione con l’altro e con la realtà. E in questo senso è anche conflittuale.
Non riguarda questo anche gli uomini, come soggetti che vivono relazioni, che lavorano, che pensano, che fanno politica? Si può continuare a considerare “privato” il desiderio maschile, a non vedere i nessi sesso/potere? O a confinare nella tranquillizzante categoria del patologico, la crisi epocale del maschio breadwinner quando non riesce più a fare i conti con il desiderio proprio o della donna che ha di fronte e la ammazza? (i femminicidi come è noto sono in aumento: sono i mariti e i fidanzati che ammazzano le donne, e le ammazzano sempre di più. Gli uomini sono la prima causa di morte per le donne, in Europa e nel mondo).

 

Concludo tornando all’inizio. Credo che ci sia una questione maschile. Nel 2009 abbiamo detto*: “Il patriarcato è morto: perfino la parola fa pensare al secolo scorso. Possiamo dire che è morto non perché non si manifesti più e siano scomparse discriminazioni e ingiustizie, anche raccapriccianti, ma perché è morto nel cuore delle donne: è questo che ne ha decretato la fine. I patriarchi, coloro che ancora si considerano depositari della libertà femminile e fonte, in quanto uomini, di valori universali – cioè buoni per tutti e tutte – possono, se lo vogliono, rendersene conto.” Quando lo abbiamo scritto, peccavamo di ottimismo della volontà. La nostra naturalmente.
Guardiamo ai molti che vogliono ridare centralità al lavoro e trovare risposte alla crisi della politica, e ci sembra di vedere un grande evitamento: per non fare i conti con il maschile, gentilmente, democraticamente, si “sussumono” le donne.
Quanto a noi: tra chi si àncora al conflitto di classe e chi immagina la palingenesi del comune, vorremmo poter agire tutti quei conflitti che ci consentono di vivere in relazione, donne e uomini.

 

* Sottosopra – Immagina che il lavoro, un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini scritto da Pinuccia Barbieri, Maria Benvenuti, Lia Cigarini, Giordana Masotto, Anna Maria Ponzellini, Silvia Motta, Lorella Zanardo, Lorenza Zanuso del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, ottobre 2009

 

Giordana Masotto
intervento in occasione del convegno ARS “Vite al lavoro. Donne e uomini nella crisi: letture e proposte del femminismo italiano”, Camera del lavoro

Vorrei riportare l’attenzione su alcuni punti che sono emersi nelle relazioni introduttive* e che mi sembrano fondamentali se vogliamo trarre un po’ di materia vera dal problema posto da questo incontro. Quale problema si vuole porre qui?
Secondo me, non solo ripensare il lavoro, ma metterlo al centro del nostro bisogno di politica. Voglio dire che non si tratta solamente di mettere a confronto le strutture teoriche di interpretazione del lavoro.
È vero che di pensiero ne è stato prodotto tanto. E questo punto va ribadito.
A questo proposito mi colpisce – e lo giudico un grave errore politico – che si continui a dire, come fa Susanna Camusso, che il femminismo non ha fatto elaborazione teorica sul lavoro. Gliel’ho sentito dire in più occasioni, avrà i suoi motivi per negare questo fatto evidente, ma è un’affermazione che scompensa, che non tiene conto di ciò che è avvenuto e non vede il grande valore politico che invece avrebbe – come cerchiamo di fare qui – ripartire dalle analisi già fatte. Del lavoro sappiamo moltissimo. Perché il femminismo ha fatto elaborazione sia sul lavoro delle donne sia sul lavoro in generale visto a partire dall’esperienza che ne hanno le donne e della femminilizzazione del lavoro. È un dato di realtà che sarebbe bene non censurare. È vero, come dice Camusso, che il pensiero delle donne si è fermato alle soglie del sindacato. Ecco, bisognerebbe vedere chi ha chiuso la porta. Però negare che ci sia un pensiero delle donne, parole che hanno gambe e che camminano, negarlo, io lo definisco un grave errore politico di cui mi piacerebbe poter chiedere conto.
Dunque elaborazione ce n’è, ce n’è tanta, magari va in filoni diversi, come è stato sottolineato da qualcuna, ma non mi interessa qui fare i distinguo. Il punto qui è un altro. Siamo qui perché vogliamo che accadano cose. Come facciamo per aprire dei conflitti efficaci, come diceva Maria Luisa Boccia? Come si fa a connettere tutto questo lavoro teorico, in modo che accadano cose sul piano politico? Che il lavoro torni al centro della scena pubblica, non solo perché ci siamo costretti dalla crisi, ma perché c’è un progetto politico.
Per ripensare oggi il lavoro e metterlo al centro del nostro bisogno di politica, bisogna guardare a tre cuori del discorso.
Il primo riguarda “l’idea di lavoro”, che cosa è lavoro.
Il secondo riguarda i soggetti: quale posto gli attribuiamo nel nostro agire politico.
Il terzo riguarda la pratica politica: quanto riteniamo necessario e urgente cambiarla.

1. Che cosa è lavoro
Su questo punto di elaborazione ce n’è tanta, fatta da tante donne. Al cuore di queste elaborazioni c’è un punto di vista che a me pare unico: ed è il desiderio di connettere pezzi diversi di lavoro e di vita.
Questo punto di vista che connette parti diverse è basico nella vita di ogni essere umano, è tutto meno che elitario, è esperienza quotidiana nei corpi, nei sentimenti, nei pensieri. Non c’è un prima e un poi, nella vita di ognuno, donna o uomo che sia, è tutto connesso. Su questo sono state dette cose chiarissime e non sto a ripeterle. Ci sono dei rischi teorici: spesso questa semplice radicalità di pensiero viene raccolta e apprezzata, ma poi scivola via, viene “sussunta” nei discorsi (sussumiamo anche noi come il capitalismo), digerita, amalgamata e sostanzialmente resa inefficace.
Si obietta che il neoliberismo, o il finanzcapitalismo – comunque lo vogliamo chiamare – hanno colonizzato e messo a frutto tutto, tutto il tempo, tutto il sapere. Che nel frattempo il lavoro è cambiato, non è più garantito neppure con un contratto a tempo indeterminato e che la precarietà non è più una condizione transitoria. Ma questo paradossalmente conferma la necessità di chiudere definitivamente con analisi che hanno lo sguardo rivolto all’indietro.
Connettere, tenere insieme, arrischiarsi a transitare continuamente, tra alienazione e libertà, tra vivere e filosofare.
Tutto questo è il “lavoro bene comune” e va sempre tenuto presente. Altrimenti da una parte corriamo il rischio, pur con le migliori intenzioni, di “sussumere”, come ho detto, la differenza sessuale nelle analisi sul lavoro che cambia, cancellandone di fatto la portata politica. Dall’altra, pur professando condivisione in teoria, ci si attesta nella pratica nel binario noto/morto della discriminazione delle donne, come riconosce anche Susanna Camusso.

2. I soggetti
Anche su questo è bene fare chiarezza. Cerco di farla a partire da una parola che continuo a considerare illuminante sulla questione dei soggetti, anzi sempre di più, benché carica di fraintendimenti. Partire dalla soggettività di chi lavora vuol dire partire dal desiderio.
Desiderio è la pulsione radicale di ogni essere umano all’affermazione di sé, alla propria libertà. Come donne noi abbiamo fatto un duro esercizio di libertà proprio smarcandoci da quella cancellazione del desiderio che era il ruolo femminile imposto.
Noi l’abbiamo imparato lì che si parte dal desiderio. Perché era proprio il desiderio delle donne che era negato dal ruolo femminile. Da lì le donne sono nate come soggetto politico in movimento. Abbiamo scoperto che il desiderio bisogna autorizzarselo, che non è una cosa facile. Mi pare che le donne continuino a farlo, per gli uomini forse c’è qualche problema.
Vero è che oggi è più difficile di ieri, per donne e uomini. Ci hanno confuso le idee spacciandoci per desiderio lo shopping. Cioè un processo di erotizzazione che trasforma tutto in consumo: il formaggino, il detersivo, la vacanza, il proprio corpo, la propria vita, il proprio lavoro. Sono d’accordo con chi dice che bisogna deerotizzare il lavoro. Nel senso appunto che il lavoro non è un consumo. Nel mondo dei consumi le cose finiscono e infatti le dobbiamo ricomprare. Ma non abbiamo un’altra vita da comprare, un altro corpo.
Il desiderio al contrario non si consuma mai, è progetto di sé, è una pulsione irriducibile che trova il suo limite, la sua misura nella relazione con l’altro e con la realtà. E in questo senso è anche conflittuale. O creiamo dei luoghi in cui quella forza progettuale di sé che è connaturata in ogni essere umano, può riprendere corpo e parola, oppure continueremo a fare bellissime analisi, ma non accadrà nulla, perché gli esseri umani non trovano il modo di riconnettersi a questa pulsione che si verifica, si struttura senza fine, irriducibilmente, dentro le relazioni.
Questo è il nucleo del discorso politico. Creiamo luoghi in cui questa progettualità di sé possa riprendere vita, riprendere corpo, oppure non succederà nulla.

Partire dalla soggettività di chi lavora pone un problema che si chiama rappresentanza. Questo è un problema politico. Creare luoghi in cui si coniuga la libertà del singolo soggetto con la possibilità di agire come soggetto plurale (c’è chi dice collettivo, io preferisco plurale, perché i soggetti collettivi uniformi sono finiti). Questo è il problema e si vede nella crisi della rappresentanza (partiti, sindacati). Forse la libertà dei soggetti metterebbe meno in crisi la rappresentanza se si tornasse a intendere la rappresentanza non come delega data una volta per tutte, questo alla fin fine è alla base del populismo, ma come relazione continua attiva e condivisa, uno scambio che non si interrompe mai, ma questa relazione a me pare disseccata.

Da questo problema nascono molti pasticci e confusioni. Per esempio: nella Cgil ci sono molte donne ai livelli apicali, ci sono arrivate perché sono state messe in campo scelte e strategie ad hoc, che hanno funzionato. Possiamo dunque dire che le donne sono rappresentate nel sindacato? Che quelle donne rappresentano gli interessi delle donne? Sono queste le domande corrette? Come si rappresentano delle soggettività? Si può personalizzare la rappresentanza? Abbiamo discusso spesso con sindacaliste e queste sono le domande che si ponevano: come si fa ad affrontare questi problemi in una organizzazione che ha avuto la sua maggiore rilevanza sociale quando rappresentava il lavoratore tipo, l’operaio della catena di montaggio, il dipendente indifferenziato e maschile? Aggiungerei un’altra domanda: qual è una rappresentanza che oggi interessa le lavoratrici e i lavoratori? Mirafiori ha dato qualche risposta e la vittoria politica dei no dice che il coinvolgimento c’è quando c’è la massima attenzione alla libertà e alla complessità dei soggetti, che non c’è solo salario, o solo tempo, un mix complessivo che è la umanità dei soggetti.
Ma ci sono esempi positivi di una natura diversa di rappresentanza, e in parte se n’è anche già parlato.

3. La pratica politica
Che cosa intendiamo oggi per pratica politica? È creare spazi pubblici e aperti, trasversali, che secondo me andrebbero ancorati più al territorio che alle categorie, in cui si realizzi la parola e l’ascolto, la perdita più grave della politica tradizionale. Parola e ascolto e dunque pensiero. Perché che cos’è fare politica? È rimettere al mondo i soggetti. Perché non si nasce con la patente di soggetto politico. Secondo me fare politica è creare le condizioni perché ci sia una creazione continua di soggetti politici, nel conflitto e nel cambiamento. Senza troppi distinguo identitari: luoghi in cui le persone vogliano incontrarsi, esserci, dicano “io ci sono”. E che questo sia un lavoro che continua, un movimento. Su questo le donne oggi dicono qualcosa: non mi chiedo se lo dicono a partire da un’esperienza storica, da una femminilità originaria o secondaria. Non lo so, non importa. Ma di certo le donne oggi dicono per esempio che il conflitto va ripensato.
Non solo nel senso radicale detto prima della irriducibilità del desiderio, ma anche di quella esperienza quotidiana che andrebbe ben affrontata, oscillanti come sono le vite delle donne tra il soccombere, magari negando il proprio desiderio, e l’iperattivismo che cerca di tenere tutto insieme senza chiedere. Insomma le donne come ammortizzatori. Ecco, ripensare il conflitto dal nostro punto di vista, mi pare dovrebbe essere la terza via. Conflitto come processo continuo, che fa la spola tra necessità e libertà. Come donne vediamo che smuove più cose l’autocoscienza del pensiero critico, l’azione più che la reazione, il conflitto relazionale più che la guerra di annientamento del nemico. In questo le donne parlano, dicono. Per questo bisogna creare luoghi in cui queste cose possano avvenire. La chiarezza a priori nessuno ce l’ha.
Per questo a Milano abbiamo pensato a un luogo che rifletta questa idea di pratica politica: l’agorà del lavoro. Per riportare l’esperienza e il discorso su tutto il lavoro necessario per vivere al centro dello spazio pubblico.
Vogliamo inventare uno stabile terreno di incontro sulla materialità e sul senso del lavoro (e dei servizi), che spezzi l’isolamento e l’afasia e faccia nascere soggetti politici.

* Una sintesi dell’ampia relazione di Maria Luisa Boccia sarà pubblicata nel prossimo Pausalavoro, Via Dogana 97. La relazione di Alberto Leiss è su DeA.

Cosma Orsi

La parola a Daniela Parisi
Regole internazionali nuove per la finanza, attenzione alle condizioni dei lavoratori e una riforma etica della democrazia. Con questa intervista si chiude la serie «il capitalismo invecchia?», mentre la discussione continuerà sul sito de «il manifesto» È stata salvata la finanza, aggravando così le disuguaglianze sociali, radice primaria della crisi. Ora si deve porre attenzione primaria al lavoro, meglio ai lavoratori

L’uscita dalla crisi sarà possibile solo se saranno rispettate alcune condizioni: regole certe a livello internazionale; un cambiamento delle priorità, mettendo cioè al primo posto le condizioni dei lavoratori; una democrazia politica che veda il massimo della partecipazione nelle procedure decisionali a tutela dei beni comuni. Con questa intervista si chiude la serie «il capitalismo invecchia?», avviata, coinvolgendo un nutrito gruppo di economisti, per cercare di spiegare la natura di una crisi che in molti degli intervistati hanno definito sistemica, senza che questo significhi il superamento del capitalismo. La discussione proseguirà nel sito internet de il manifesto (www.ilmanifesto.it).

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del ’29?
Considererei la crisi attuale come una crisi sistemica, dove il termine sistemica deve accompagnarsi ad una serie di specificazioni. È sistemica perché riguarda il sistema economico sia nei suoi aspetti reali che finanziari; perché ora riguarda tutto il mondo e si è innestata su criticità, anche extraeconomiche, specifiche di singole regioni geografiche; riguarda il sistema delle relazioni tra gli agenti di un sistema economico in cui non c’è trasparenza, non c’è possibilità di ricondurre fatti a responsabilità precise; riguarda il rapporto tra teoria economica e policy, perché la teoria si è focalizzata sulla produzione di modelli econometrici – tipo il Var sviluppato all’inizio degli anni Novanta e adottato ampiamente – con cui si pensava di poter controllare i rischi delle sempre più numerose e varie attività finanziarie ed è diventato impossibile inserire nell’analisi economica elementi di valutazione. Infine, perché da un epicentro, si è subito dispiegata sui paesi più poveri e sulle fasce più povere di ogni paese. È il disvelamento di distorsioni presenti nel sistema mondo che riguardano, tra l’altro, lo sfruttamento delle risorse e la distribuzione del reddito.
Le vittime saranno tante e ben sappiamo chi saranno. Per quanto riguarda i confronti con il 1929, è bene sottolineare che è sempre importante tener conto delle specificità di qualsiasi evento. Se proprio vogliano guardare al passato, vediamo che ieri come oggi è sul tappeto il rapporto tra stato e mercato. Proprio a questo riguardo allora chiediamoci: come agì Franklin Delano Roosevelt nel 1933? Entrò nella Stanza Ovale e decise che dopo anni di depressione era improcrastinabile prendere decisioni: nominò Ferdinand Pecora a capo di una commissione che investigasse sugli eccessi speculativi che avevano favorito la depressione. Interrogò l’élite della finanza e svelò tutto lo svelabile. Fu promulgato il Glass-Steagall Act e le leggi che hanno dato vita anche alla Securities and Exchange Commission. L’Nber ha datato l’inizio della crisi nel dicembre 2007, ma non circolano ancora informazioni certe sui comportamenti tenuti dalle élite della finanza, né la società sembra ancora sufficientemente indignata e irritata da ciò, mentre le discussioni interne rischiano di erodere la possibilità di un sostegno politico sufficiente per procedere ad una complessiva ri-regolazione della finanza.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica – e della storia in generale?
Non si tratta di condannare la costruzione dei modelli economici in sé ma di condannare la mancanza di una valutazione critica dei modelli. In questo serve coltivare sensibilità storica: la storia abitua a guardare con attenzione molteplici scenari ognuno diverso dall’altro e diverso dal nostro. Chi non ha questa dimestichezza non trova interesse nella lettura degli scenari attuali allo scopo di portarne in evidenza i fattori di complessità, tende a semplificare e impoverire la propria capacità di analisi e a scambiare le sfumature del quadro scenico per mere ombre, non sa dare importanza alla ricerca delle radici dei fenomeni complessi. Il passato lo si ri-legge, lo si ri-scrive, lo si ri-vede non per farne un monumento ad uso e consumo di interessi passeggeri ma per preservare ciò che di vitale dal passato arriva a noi costituendo il tessuto, oggi, della continuità del lavoro umano.
Il cambiamento nel tempo e nello spazio della «pasta» di cui noi siamo fatti, così come lo sono le istituzioni, rappresenta un processo incessante di cui bisogna tener conto. Ciò è perlomeno strano, in quanto la storia del pensiero economico rivela come i grandi economisti abbiano costante questa preoccupazione e anche quella del mantenimento del dialogo tra i saperi, economici e non. Poi c’è un terzo problema, quello della divulgazione e dell’applicazione del sapere: si preferisce divulgare «certezze» semplificatorie, slogan, piuttosto che dibattiti sulla problematicità delle questioni teoriche e delle ipotesi sottostanti alle teorie. È più facile e veloce applicare modelli, scambiandoli per la realtà, piuttosto che chiedersi cosa ci sia effettivamente dentro questi modelli. La storia insegna che la società non è un laboratorio a cui applicare modelli. Non si vuole ammettere che l’essere umano è sempre in fieri e mai «concluso»? ma non è di questa certezza che si vive? Perché, allora, negarla? quello che disorienta è ammettere che otium e neg-otium sono elementi non disgiungibili per gli esseri umani? Che la contemplazione del bello fa parte della vita umana?

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Non riesco a intravedere che ruolo oggi possa svolgere la politica se si assegna a questo ambito professionale ciò che concerne il bene comune sulla base di un dettame costituzionale dal carattere rigido, diciamo, molto meno flessibile del resto del sistema giuridico. Vorrei aggiungere a quanto già detto in tema di governance che oggi si fa urgente pensare ad un cambiamento della forma di governo «democrazia» la cui tenuta è debole perché si regge soprattutto sul criterio della governabilità a scapito di quello della rappresentanza e sul suo ripiegamento su molti appetiti privati. Come passare, allora, da una democrazia politica bloccata, anzi vittima di eutanasia, ad una democrazia che prenda vita dal basso, dalla voce cioè di quelli che vivono operando nel sistema? Sarebbe necessario considerare la politica una esperienza etica che si pratica, ascoltare le voci dalla società, tutte voci di persone che, in quanto tali, ontologicamente sono in dialogo. Forse eccedo nella fantasia. Ma forse no.

Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La crisi ha fatto emergere un dato ineludibile: non c’è un sistema monetario internazionale, non una istituzione in grado di coordinare o «sorvegliare» le politiche macroeconomiche dei paesi più influenti. E restano le domande: c’è l’intenzione che Fed, Bce e autorità monetarie cinesi si accordino per mantenere il tasso di cambio tra le valute entro limiti prefissati? Ci sono le condizioni perché ciò avvenga? L’Europa deve esserci attorno ad un tavolo di governance altrimenti si cancella il percorso originale e unico di un continente che va unificandosi non attraverso guerre e politiche di annessione; bisogna considerare, a proposito, che l’unificazione non si realizza attraverso una comune, indispensabile, politica monetaria, ma attraverso un «governo» dell’Europa.

L’attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
È vero che la prima mossa è stata quella di «salvare la finanza» e ciò non ha fatto che aggravare il problema delle disuguaglianze che è stato alla radice della crisi. Sono convinta che al centro del processo di cambiamento del sistema economico si debba porre attenzione primaria al «lavoro», o meglio ai «lavoratori». Da questa centralità la scienza economica dovrebbe prendere le mosse perchè il lavoro è la forma prima che il dialogo prende, perché il lavoro è, ontologicamente, parte e manifestazione della persona stessa che traffica col mondo e nel mondo. Questo è vero per ogni persona del mondo, perché il lavoro crea la ricchezza sia nei paesi in cui si vive miseramente sia in quelli in cui la conoscenza è la risorsa principale. Nella nostra società avanzata si lavora sulla base e attraverso la conoscenza: chi «conosce» mette in gioco la propria libertà, può accogliere, custodire, rendere disponibile, maturare, incrementare gli insegnamenti; ma può anche rapinare informazioni, nasconderle gelosamente, contraffare o mentire sulla conoscenza acquisita. E così facendo, nell’uno e nell’altro caso, ognuno diviene se stesso in questo genere di tessuto, genera frutti (istituzioni e rapporti).

Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell’ indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?
Non abbiamo forse due orecchie, due occhi e una bocca? Dovremmo allora ascoltare e guardare il doppio di quello che diciamo. Ma forse questo non accade perché le due mani che abbiamo ci portano ad appropriarci in fretta e furia allungando le braccia più in là possibile per espandere e affermare noi stessi. In questo gli economisti possono dare veramente tanto, indagando i processi moltiplicativi del valore della conoscenza e analizzando funzione e ruolo dell’economia della conoscenza. Però, è chiaro, non si lavora se non si hanno le capacità e le motivazioni e se non si ha fiducia nel sistema in cui si vive. La strategia di rientro dal debito sarà in tutti i paesi una tragica realtà perché renderà le disuguaglianze più marcate e devastanti per molti. Interessanti sono i ragionamenti degli economisti di oggi attorno al problema dell’esistenza di una domanda effettiva e di una «offerta effettiva», cioè di capacità di produrre. Fare ciò può servire a stimolare, a far ripartire il processo produttivo anche se si teme che le imprese stimolate da interventi governativi possano trovarsi troppo «legate» e meno flessibili, meno favorevoli a cogliere opportunità di cambiamento e meno creative. Insomma, l’imprenditore vorrebbe poter scegliere lui il proprio finanziatore e scegliere lui a quali consumatori proporre i propri prodotti.

 

Giuseppe Rizzo

 

Chioma fulva mezza rasata, occhialino professorale e sorriso con fossette laterali, la Draghessa di internet è lei. Ama farsi fotografare con rettili o volpi sulla spalla e farsi chiamare «Lizard wrangling», titolo del suo blog, cioè «lucertola dispettosa». Winifred Mitchell Baker, californiana, a fine anni Settanta studentessa a Berkeley, oggi a 55 anni è una delle donne più in vista della Silicon Valley, per la rivista “Time” tra i 100 personaggi più influenti del mondo. Meglio, come donna tecnologica è la più in vista, dopo che Carol Bartz è stata rimossa dalla carica di amministratore delegato di Yahoo.

Mitchell «Lizard» Baker è ancora solidamente in sella della «corporation» del draghetto, o meglio a capo della Mozilla Foundation, proprietaria del browser Firefox, impegnata attualmente nella promozione di un nuovo sistema operativo – Firefox Os – che si prefigge di far dialogare le App tanto su prodotti Apple quanto su smartphone e tablet che utilizzano Android. Questo obiettivo per lei è quasi una crociata, si tinge di riflessi utopici da open source, da rottura di steccati, pur sempre nel recinto più vasto dei sistemi proprietari. «Noi siamo una struttura non-profit», chiarisce sempre, anche se una non-profit da 50 miliardi di dollari. «E vogliamo aumentare la libertà, non il controllo sul web». Insomma si comporta da guru, da Draghessa, appunto.

Lei è una delle donne più importanti della Rete. Sente questa responsabilità? In che cosa essere donna in una posizione chiave della Silicon Valley può fare la differenza?
«Le diversità sono importanti anche a livello di leadership. Se tutte le persone che creano la tecnologia di base di internet fossero uguali o anche molto simili, il risultato del loro lavoro rispecchierebbe questa prospettiva condivisa e quindi non potrebbe rappresentare tutti noi. Credo che il mio ruolo nel settore sia importante proprio perché penso alla tecnologia, alla società o al guadagno personale in modo diverso da molti miei coetanei. E questo, almeno in parte, è perché sono donna. Ciò che per altri è ovvio per me può essere solo convenzionale e non particolarmente buono. Cerco questo senso delle diverse possibilità nel nostro lavoro a Mozilla. D’altra parte questa è la filosofia prevalente dentro Mozilla, nel cui nucleo guida ci sono molte persone eccezionali. Non ho mai avuto grandi difficoltà a guidare Mozilla come donna. Il mio partner iniziale è stato Brendan Eich – creatore del linguaggio che va sotto il nome di Java script che gestisce molta parte del web – e con lui non ho mai avuto problemi di genere. Lo stesso vale per molti altri collaboratori, che sono contenti di avere una donna come presidente».

Non so quanti anni abbia suo figlio ma non le pare che i cosiddetti nativi digitali rischino di diventare una nuova specie di centauri, metà adolescenti e metà divano, visto come tendono a mediare qualsiasi relazione tramite il web? Non la spaventa questo?
«La vita virtuale e quella reale, fisica, sono sempre più interrelate. A volte le attività online mediano altre relazioni. Ciò è qualcosa di nuovo per molti di noi. D’altra parte ricordo che anche quando ero adolescente i miei genitori, della generazione precedente, erano preoccupati dall’uso che facevamo della tecnologia. Quanto tempo hai passato al telefono? Quanto tempo stai sprecando davanti alla tv?
Rapporti complessi con la tecnologia, che in parte amiamo e in parte ci mettono a disagio, non sono una novità. A mio parere però i veri nativi digitali saranno la generazione che crescerà facendo internet e sapendolo utilizzare nel modo migliore. Internet non è come la tv o come ascoltare un programma radio. È profondamente personalizzabile e può essere perciò vissuto in modo differente da ognuno. Capire come farne una esperienza che si adatta al proprio ambiente, a livello locale, è giusto il segno di riconoscimento di un nativo digitale. A Mozilla abbiamo un progetto che si chiama Webmaker (http://www.mozilla.org/en-US/webmaker/) che nasce dall’idea di far capire come creare cose online sia ormai diventato una competenza essenziale, come imparare a leggere, scrivere e fare di conto».

Ci aiuti a fare uno sforzo di immaginazione, lei che ha avuto un ruolo tanto importante nel passaggio al web 2.0. Come sarà il mondo di internet tra dieci o vent’anni?
«Dieci o vent’anni sono un tempo troppo lungo nella vita di internet. Ma nei prossimi cinque anni ci troveremo di fronte certamente a una ulteriore esplosione di dati. Vivremo in un mondo di informazioni. E vivere immersi in questi dati solleva questioni alle quali abbiamo bisogno di dare una risposta, come chi ha il controllo di questi dati, come ordinarli e filtrarli, e se ciò ci fa sentire più liberi o più manipolati. La mia paura più grande per il futuro della Rete è che si rischia un sistema fortemente centralizzato in cui poche imprese e governi controllano gran parte di ciò che accade online. Mozilla lavora per costruire un internet aperto, in cui ogni individuo abbia il massimo del controllo sulla sua vita. Gli ambienti informatici attuali, specialmente di telefonia mobile, non sono il mondo che vorrebbe Mozilla. Possono essere eleganti ma non sono aperti, distribuiti, ambienti in grado di utilizzare le potenzialità che il web ci ha mostrato. Così noi stiamo cercando di nuovo di cambiare il futuro di internet, ad esempio attraverso Firefox Os, il sistema operativo mobile che stiamo costruendo, e spero che guardando indietro tra cinque anni potrò dire che ci siamo riusciti».

Come coniugare l’esigenza di non essere più tracciabili sul web, non parlo solo di privacy, con le esigenze di sicurezza che i governi hanno o quelle degli investigatori di contrastare la criminalità?
«Dobbiamo affrontare questo problema come facciamo nella vita. Le nostre società per secoli si sono confrontate con il problema di come bilanciare la libertà personale con l’interesse pubblico. Ogni stato-nazione prende decisioni per tutelare la libertà e prevenire il crimine. Io però temo che le democrazie occidentali stiano cambiando, involontariamente, questo equilibrio».

Esistono già tutta una serie di App che autolimitano la nostra connessione, con una sorta di disconnessione a tempo. Perché non riusciamo più a staccarci da soli?
«Ogni nuova tecnologia dirompente porta con sé timori che possa cambiare il nostro comportamento o disumanizzarci, basta pensare a “Tempi moderni” di Chaplin. Stiamo capendo meglio come funziona il cervello umano e presto ne sapremo di più anche sul comportamento. Nel frattempo possiamo sviluppare strumenti che aiutino la gente a capire il proprio comportamento. A Mozilla abbiamo degli esperimenti in corso. Quando riusciremo a capire meglio l’uso individuale della tecnologia e perché potrebbe rivelarsi difficile disconnettersi avremo maggiori possibilità per cambiare le nostre abitudini».

Lo strapotere di Google viene da più parti criticato perché di fatto orienta l’accesso alle informazioni. I risultati della ricerca tengono conto di filtri su cui l’utente non ha alcun controllo e che molti contestano. Come superare questi paletti?
«Noi crediamo che un internet aperto che permette alternative per gli sviluppatori e per gli utenti sia il modo migliore per prevenire gli abusi».

La Apple non vi permette di accedere al suo sistema mobile e non siete gli unici con questo problema. Come giudica questa chiusura e non può rivelarsi un boomerang?
«Le tecnologie che si possono usare sulla piattaforma iOs sono limitate da Apple. Per questo motivo non siamo in grado di offrire tutto Firefox su iOs, ma solo parti di esso attraverso le tecnologie controllate da Apple. Al momento non abbiamo intenzione di farlo perché pensiamo che questa miscela tecnologica non farebbe né la nostra né la felicità degli utenti. Tuttavia continuiamo a sorvegliare le possibili interrelazioni tra Firefox e gli utenti iOs. La tendenza di oggi, capitanata da Apple, dei singoli produttori è di controllare sempre di più le decisioni sulla tecnologia da utilizzare, le pratiche commerciali, i prezzi e la capacità dei programmatori di dialogare con i propri clienti. È molto inquietante. Se dovesse diventare il modello prevalente perderemmo molto di ciò che di buono ci ha portato il mondo del web».


(
L’Unità,  5 novembre 2012)

Nella confusione del presente, di Lia Cigarini

sta covando un qualche sconvolgimento

Chi vuol parlare ancora di soffitto di cristallo?, di Giordana Masotto

controscenario:La pensione delle donne,di Anna Soru

Crisi del sindacato o crisi degli uomini?, di gm

a colloquio con Chiara Eusebio, segretaria generale uscente della Cgil funzione pubblica di       Pescara

Detassare gli straordinari. A chi giova, di gm

ci ha scritto:L’esperienza femminile mi ha “travolto”,di Massimo Cerini

Marina Terragni

Un problema da risolvere. Le donne che lavorano sono sempre di più, ma per la politica e per buona parte del sindacato il lavoro femminile continua a essere una grana, una rogna, forse con la residua speranza che un’onda di coming back home venga a spazzarla via, anche se il double income fa molto comodo al mercato.
Una risorsa? Un fattore di crescita? Per gli economisti, forse. Le donne al lavoro sono una “minoranza” ingombrante che porta guai: hanno il privatissimo vizio di fare figli, sono insofferenti agli orari, non hanno il culto del “posto”, entrano ed escono in un anarchico andirivieni. In più hanno molta fiducia nel merito, chiedono nuove regole e una diversa organizzazione, non separano ermeticamente lavoro e vita, vogliono vivere anche in ufficio, non riescono a sopportare che il lavoro sia una non-vita e la vita tutta fuori di lì. Per questo danno tanta importanza alle relazioni, che secondo il Rapporto Eurispes sull’Italia 2006 sono il fattore più importante nel lavoro femminile (60.2 per cento), mentre le retribuzioni sono decisive solo per il 32.8 per cento, e la carriera per il 10.8 per cento.
Tutte novità che mettono in grave imbarazzo la politica, che continua a pensare al lavoro femminile come a posti di uomini occasionalmente occupati dalle donne, tipo tempo di guerra, e al massimo progetta (senza mai farlo) di “conciliare i tempi”. Ma la stanchezza delle donne, più che nel dover correre tutto il giorno, sta nel dover passare la giornata “esiliate” in un mondo del lavoro calibrato sugli uomini, nel non poter portare sul lavoro l’aria di casa, il loro modo di lavorare: perché le donne hanno sempre lavorato, e molto più di tutti.
Scorrendo i programmi elettorali dei due maggiori schieramenti, per le donne si trova poco, e soprattutto poco di nuovo. Il PD le definisce l'”asso” nella partita dello sviluppo (anche se poi non dà il buon esempio, giocando molto timidamente l’atout al proprio interno). La proposta è di aumentare l’occupazione femminile con incentivi fiscali sia alle aziende sia alle lavoratrici: un credito d’imposta come contributo alle spese di cura. Incentivi anche per la flessibilizzazione dell’orario di lavoro. “Quando in un nucleo entrano due stipendi” spiega Barbara Pollastrini, ministra uscente alle Pari Opportunità “ci sono più consumi, più lavoro indotto, più sicurezza. E quindi anche più figli”. Per ogni nato, una “dote fiscale”, a partire da 2500 € per il primogenito. Sui tempi: congedi parentali pagati al cento per cento, e un congedo di paternità interamente retribuito. Più asili nido pubblici, per coprire il 25 per cento della necessità: oggi siamo al 6. Orari lunghi e flessibili in asili, scuole e servizi pubblici e misure contro la burocrazia nella pubblica amministrazione. Per finire, liberalizzazione degli orari del commercio, da definirsi a livello locale.
Quanto al Pdl, il programma fa esplicito riferimento alle donne solo parlando di violenza e di aborto, con impostazione pro life: “Personalmente sono contraria anche alla pillola Ru486” dice Mara Carfagna, responsabile di Azzurro Donna. Le idee sul lavoro (“stabilizzare” i contratti precari attuando pienamente la legge Biagi, creare un sistema di sicurezza sociale fra un’occupazione e l’altra, con un reddito certo in attesa di un nuovo lavoro), valgono per ambo i sessi. A sostegno del lavoro di cura, che secondo stime recenti vale 432 miliardi di euro l’anno, il 33 per cento del PIL, e senza la cui erogazione gratuita l’economia crollerebbe come un castello di carte: bonus bebè, 1000 € per ogni nato o adottato, più asili aziendali e sociali, libri scolastici gratis per i meno abbienti. Nessun cenno agli orari della pubblica amministrazione e dei negozi. La scommessa è sulla tenuta della famiglia, coppie di fatto escluse: “Per noi la famiglia è l’unione di un uomo e una donna fondata sul matrimonio” dice Carfagna “Nessuna discriminazione, ma la priorità è questa cellula primaria”.
Si tratta forse della principale differenza tra i due programmi. A un’idea tradizionale di famiglia, messa al centro dal Pdl, il Pd risponde con un investimento sulla persona, come spiega Pollastrini: “Una sorta di welfare esistenziale, che tiene conto del fatto che i nuclei sono sempre più piccoli”.
Ha ancora senso puntare sulla conciliazione? Di quale welfare oggi ci sarebbe realmente bisogno? “Finora il welfare ha fatto uscire dalla famiglia tutto ciò che è cura, relazione e amore, non regolabile in orari, sostituendolo con servizi erogati dallo stato e scanditi con gli stessi orari del lavoro e del mercato” dice Sandra Bonfiglioli, Urbanista temporale, docente al Politecnico di Milano. “Bisognerebbe invece pensare a un welfare più centrato sulla relazione. Le giovani donne chiedono libertà e flessibilità. Spesso sono loro lasciare il lavoro perché non rinunciano alla cura, non accettano che i tempi di vita siano solo residuali, strategia che esprime intelligenza e capacità di autoregolarsi. Questa intelligenza va ascoltata, o il rischio è che oltre a doversi organizzare secondo la rigidità degli orari d’ufficio, alle donne tocchi subire anche gli orari di un welfare che risente ancora di una mentalità industriale, fordista. Ma la realtà è già da un’altra parte”.

Ritratti Esce da Adelphi l’ultimo libro della grande scrittrice
Il rapporto Nel marketing e vendite le manager guadagnano ormai più dei colleghi uomini

L’ indagine Od&M: le meglio pagate? Sono le italiane

Quando una donna riesce ad aprirsi un varco nel “glass ceiling”, il soffitto di vetro che normalmente stoppa la sua carriera, allora la competizione con gli uomini si fa stretta. E sempre meno infrequentemente, diventata dirigente, comincia a guadagnare più del collega maschio. E’ questa la novità che emerge anche in Italia (dopo che diversi sorpassi erano già avvenuti nelle città Usa) da un’ indagine condotta da Od&M, società specializzata nelle tendenze retributive, che ha analizzato più di 200 mila profili salariali. La ricerca, condotta anche in Spagna e Francia, conferma comunque che nella globalità dei casi, sia in Italia che negli altri due paesi latini, gli stipendi medi delle donne stanno ancora seccamente in coda a quelli degli uomini. In Italia la categoria in rosa meno penalizzata è quella delle dirigenti: le donne guadagnano in media il 2,6% in meno degli uomini. Vanno invece nettamente peggio le donne quadro (-6,1%) e le impiegate, le più in difficoltà, che sono sotto dell’ 11,1%. Francia e Spagna, da parte loro, trattano decisamente in modo peggiore le loro dirigenti: nella prima soffrono un gap del 9,9% rispetto agli uomini e nella seconda del 10,6%. La Francia, tuttavia, valorizza maggiormente le sue impiegate, che sono sotto gli uomini solo dello 0,4%, mentre la Spagna si rivela la più maschilista in tutte le categorie, con addirittura un -15,3% per le impiegate. Ma se le donne italiane, soprattutto dirigenti, vanno a vedere le singole posizioni professionali, scoprono alcune belle sorprese. Una direttrice marketing e vendite laureata, infatti, guadagna in media più dell’ omologo maschio: 103.744 euro lordi l’ anno contro 102.837 (per le sole diplomate il vantaggio si verifica anche in Francia). Sempre tra le laureate il sorpasso sugli uomini avviene anche per le “area manager” (54.832 euro contro 53.786), per le “responsabili dei call center” (52.440 euro contro 51.209), per le “human resources and organisation manager” (50.776 euro contro 50.288) e, scendendo di categoria, per le “contabili” (22.128 euro contro 21.741). In Francia, invece, il sorpasso femminile non si ha quasi mai per dirigenti e quadri, mentre avviene spesso per certe figure professionali impiegatizie. Restano infine sempre in coda agli uomini le spagnole, per ogni tipo di professione. Ciò significa che l’ Italia sta diventando il paese del riscatto retributivo per le donne? «Certificare il sorpasso salariale in alcune figure professionali – commenta il presidente di Od&M Mario Vavassori – non vuol certo dire verificare un’ inversione di tendenza generale, perché oggi le donne dirigenti e soprattutto quelle responsabili di funzioni sono ancora una stretta minoranza. Semmai va detto che, quando una donna riesce a superare il purgatorio che la tiene relegata nei ruoli professionali più bassi, allora se è capace emerge. Così la competizione con gli uomini diventa effettiva e spesso vincente, perché una manager che giochi a pieno il suo ruolo frequentemente è più brava, e anche il mercato lo riconosce». * * * L’ indagine L’ indagine Od&M si basa su 209.531 profili salariali raccolti on line. Tante sono infatti le persone in Italia, Francia e Spagna che si sono collegate e hanno fornito i dati. Per l’ Italia i valori sono stati corretti su base Istat: ad ogni profilo retributivo è stato dato lo stesso “peso” che ha effettivamente nel mercato del lavoro. Si sono così evitate distorsioni imputabili a un eventuale numero eccessivo di uomini o donne che hanno fornito dati on line rispetto a quanto essi effettivamente pesano.

Riboni Enzo

Il lavoro, come e perché, di Giordana Masotto

Ri-prendere la parola, di Lia Cigarini

l’aumento dell’occupazione femminile cambia le teorie sul lavoro

Carriera. Ma come piace a noi, di Oriella Savoldi

Una casalinga è una casalinga è una casalinga, di Lorenza Zanuso

come cambiano i nomi di un lavoro “indicibile”

Di convegno in convegno, di Pinuccia Barbieri

finalmente si è chiuso l’anno delle pari opportunità

parliamone:Bamboccioni e bamboccione,di Silvia Motta

controscenario:Nuove professioni autonome,di Anna Soru

Un’intervista con la studiosa e avvocato statunitense protagonista dell’esperienza di «Freelancers Union», un’organizzazione dei lavoratori «indipendenti» di New York. L’incontro e l’elaborazione di strategie di mutuo soccorso per resistere al «corporate business» nella Grande Mela


Anna Curcio
Ci sono figure del lavoro che rivelano la portata delle trasformazioni produttive avvenute nel sistema capitalistico; e ci sono esperienze organizzative che stanno sfidando le forme tradizionali della rappresentanza. Il variegato universo del «lavoro autonomo di seconda generazione» – a cui Sergio Bologna ha dedicato una nuova raccolta di scritti, Ceti medi senza futuro?, al centro del seminario «Quale futuro per i lavoratori della conoscenza?» che si terrà domani all’Università La Sapienza di Roma – è appunto tra questi. O almeno è questa la scommessa di Freelancers Union, organizzazione no-profit di New York che si è sviluppata all’interno della costellazione del lavoro «indipendente» statunitense (oltre il 30% della forza lavoro), offrendo a figure disperse nei mille rivoli della metropoli risorse organizzative e strumenti rivendicativi. La union si batte quindi per garantire le protezioni sociali a un «ceto medio» precarizzato e impoverito. Allo stesso tempo, fornisce strumenti di comunicazione e connessione, nonché svolge un ruolo di intermediazione con lo stato e le imprese. La Freelancer Union è dunque espressione dell’irreversibile crisi della rappresentanza. Tema che viene spesso affrontato quando viene svolge una critica agli orientamenti del labor movement e della sinistra americana. Il problema, dunque, è interrogare l’esperienza di chi tenta di andare oltre quella crisi, proponendo forme di autotuela e organizzazione che con la rappresentanza tradizionale hanno poco a che fare per analizzarne la ricchezza e le potenzialità, ma anche per segnalarne i limiti. Ne abbiamo discusso con Sara Horowitz, saggista e avvocata del lavoro, direttrice della union dei freelancers newyorchesi.
Nei decenni passati abbiamo assistito a grandi trasformazioni produttive, processi di individualizzazione e frammentazione della forza lavoro, mentre le organizzazioni tradizionali del labor movement sono in crisi. Può spiegarci come, in tale contesto, nasce l’esperienza di «Freelancers Union?»
Il modello di business che si è affermato negli Stati Uniti scarica la maggior parte degli oneri sui lavoratori. L’obiettivo che ci siamo prefissi è lo sviluppo di tutele per i lavoratori indipendenti e garantire la loro sicurezza economica.
Per dirla in altri termini, state sperimentando una forma organizzativa capace di innovare, o forse superare il sistema della rappresentanza. Quali sono gli strumenti d cui vi siete dotati?
Il primo passo da fare è la presa di coscienza che i lavoratori indipendenti sono una forza lavoro che hanno diritti negati. È un passaggio necessario, visto che la sinistra tradizionale americana continua a proporre un ritorno al sistema fordista per affrontare le sempre più pesanti condizioni di vita e lavoro degli «indipendenti» o di quella forza-lavoro che spesso in Europa chiamate precaria. Il passaggio successivo sta nel promuovere forme organizzative adeguate a figure lavorative con caratteristiche molto diverse da quelle che hanno invece costituito le organizzazioni sindacali tradizionali.
Sono cresciuta in una famiglia di sindacalisti e ho appreso dai miei genitori la difficoltà e l’importanza di «fare sindacato negli Stati Uniti». Oggi, tuttavia, le forme classiche dell’organizzazione sindacale sono superate. Nel vecchio modello produttivo gli uomini e le donne lavoravano in una spazio fisico – la fabbrica o l’ufficio – ben preciso. Il sindacato non doveva fare altro che andare lì e provare a organizzare i lavoratori. Adesso a New York molti lavoratori non vivono questa condizione. La nuova forza lavoro è atomizzata, individualizzata e frammentata. Abbiamo così cominciato a parlare tra di noi perché è meglio ritrovarsi insieme che stare ciascuno per conto proprio. Abbiamo così scoperto che ciò che accadeva a ognuno di noi non era un problema individuale ma rispecchiava una condizione generale. Freelancers Union è quindi da considerare un’associazione di mutuo soccorso, di cooperazione….
In che senso….
L’obiettivo è individuare gli strumenti per raggiungere una condizione di sicurezza e stabilità per i lavoratori. Dopo la fase iniziale in cui abbiamo creato lo strumento per incontrarci e discutere, ci stiamo concentrando sull’allargamento della membership e sui nuovi strumenti di democrazia, orientandoci alla costruzione di uno spazio economico di cooperazione. Dico questo perché ci siamo accorti che senza uno spazio economico comune la base politica sarebbe risultata fregile.
Vuoi dire che Freelancers Union oltre che organizzare i lavoratori è anche una piccola attività economica che fornisce dei servizi ai lavoratori?
Non proprio. Noi abbiamo lavorato allo sviluppo di un forte network informale che si avvalga della dimensione virale della comunicazione. Questo è stato possibile attraverso il web e i blog. Inoltre a New York – dove si trova la maggior parte dei nostri membri – abbiamo iniziato una campagna di promozione nella metropolitana che, agendo sui flussi di attraversamento della metropoli, ci ha permesso di raggiungere ogni giorno migliaia di viaggiatori. È però ovvio che se un lavoratore chiede un servizio noi lo forniamo.
Ha descritto alcuni dei punti di discontinuità rispetto al modello organizzativo del labor movement. Ma come si pone «Freelancers Union» rispetto agli strumenti di mobilitazione classici come lo sciopero, utilizzati anche dagli autori dei programmi televisivi?
I lavoratori indipendenti lavorano in differenti company e l’idea di uno sciopero in una sola azienda in cui lavori per sei ore un giorno a settimana non è una delle nostre principali strategie. Ma la questione non è stabilire come un apriori se lo sciopero in quanto strumento di lotta vada bene o meno. Lo sciopero va bene se è efficace, perché lo sciopero è infatti uno strumento, non l’obiettivo di una lotta. È a partire dalla nostra membership che dobbiamo costruire strumenti di lotta e rivendicazioni.
Chi compone la «membership» di Freelancers Union?
Abbiamo cinquantaseimila iscritti nella città di New York e la fascia di redditi più ampia è quella tra i 25 e i 40.000 dollari all’anno. Lavoriamo in settori produttivi tra loro eterogenei: dall’arte ai media, alla finanza, le tecnologie, il no-profit, la salute ed il lavoro domestico. L’ambito del lavoro creativo è quello più consistente. Benché la composizione sia eterogenea, ciascuno ricava benefici dall’essere parte del gruppo perché c’è l’opportunità di condividere e mettere in comunicazione le esperienze, le informazioni su questa o quell’impresa, su come evolve il mercato del lavoro in un settore. Tra gli iscritti c’è un numero uguale di donne e di uomini, mentre quella della race non è una problema rilevante nella nostra organizzazione. A chi si iscrive alla Freelancers Union non chiediamo il colore della pelle.
Su quale terreno si concentrano le rivendicazioni della union?

Con regolarità emerge il tema della proprietà intellettuale. Il rispetto del diritto d’autore o i limiti delle attuali leggi sono spesso argomento che discutiamo, ma il problema più scottante è senza dubbio quello della disoccupazione. Il nostro obiettivo è individuare un processo di tutele e garanzie per i freelancers. Bisogna aggiornare le protezioni sociali degli anni ’30: se in passato erano legate al lavoro, oggi le cose sono cambiate, non possiamo delegare la risposta allo Stato. Il governo dovrebbe soltanto aiutare a costruire organizzazioni come la nostra.
Negli Stati Uniti ci si focalizza soprattutto sul ruolo dello Stato come garante o meno dei servizi sociali, mentre credo che si dovrebbe puntare a strategie che contrastino anche il modello del business corporation. Guardiamo, ad esempio, con molto interesse all’esperienza delle cooperative di lavoro e di consumo italiane.
Crede cioè che il sistema delle cooperative sia la soluzione? In Italia le cooperative sono state indicate come un espediente per per rendere meno tutelato il lavoro….
Sono stata in estate in Emilia Romagna e ho apprezzato come vengono affrontati alcuni dei problemi che hanno i lavoratori indipendenti negli Stati Uniti. Mi riferisco al pagamento delle tasse, ai contributi pensionistici. È un modello di gestione del «capitale» a cui guardiamo con interesse perché qui da noi esiste solo venture capital o charity capital. Per me, la coalizione tra diverse figure lavorative è indispensabile per per rafforzare le diverse figure lavorative della coalizione in relazione ai continui mutamenti del sistema economico.
Negli Stati Uniti c’è un ampio dibattito sul concetto di «creative class» proposto dallo studioso Richard Florida. In Italia abbiamo invece assistito al rischio di scivolamento del lavoro creativo verso un agire di lobby…
L’aspetto più rilevante nelle tesi di Florida è laddove scrive del ruolo economico del lavoro creativo, un aspetto tradizionalmente sottovalutato dal labour movement. Negli Usa, gli artisti non sono considerati granché, mentre il discorso di Florida permette di far comprendere ai policymakers quanto questi siano un gruppo economico importante. A noi, tuttavia, non interessa separare la forza lavoro in differenti gruppi. Semmai il nodo da sciogliere è come usare la creatività per costruire un’organizzazione dei lavoratori indipendenti o precari. Può sembrare paradossale, ma è importante sottolineare il fatto che la forza lavoro in generale ha cominciato ad avere sempre più cose in comune con gli artisti, alemno nelle forme e nelle condizioni del lavoro: non avere l’assistenza sanitaria, avere dei redditi intermittenti e che non consentono di programmare la tua vita; non poter godere di nessuna delle protezioni create dal governo negli anni ’30. Questo per noi è l’argomento potente del discorso sulla creative class.

Come ripensare il concetto e la pratica della trasformazione nel pieno della “rivoluzione passiva” del capitalismo globale. Con lo sguardo rivolto non a Lenin ma a Gramsci. Un seminario internazionale organizzato dalla rete “Transform”
Ida Dominijanni

“La globalizzazione è la possente rivoluzione passiva del capitale della nostra epoca, capace di inglobare elementi di socialità, di mondo simbolico e di valori. A questa trasformazione non è sufficiente opporsi solo sul terreno del controllo dello Stato e della gestione del potere. Il riformismo si propone come una forma temperata di questo processo. La riforma della rivoluzione aspira a trascendere questo orizzonte”. Concisa ma chiara “piattaforma” del convegno su “la riforma della rivoluzione” che si chiude oggi a Roma, organizzato da Transform, una rete europea di gruppi di movimento, associazioni culturali, riviste, intellettuali, prossima a (ma non coincidente con) la Sinistra europea. Il punto è rimettere a fuoco “cosa è per il nostro tempo la questione della trasformazione”, passando però obbligatoriamente attraverso la riformulazione del concetto e della pratica di quella parola, “rivoluzione”, tanto cruciale per la sinistra di ogni tempo e paese quanto carica della zavorra di esperienze fallimentari. E non inganni la coincidenza delle date del convegno con il novantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre: se indietro guarda Transform, non è a Lenin ma semmai a Gramsci. Non solo perché, genericamente, si tratta oggi di pensare la forma della rivoluzione nel capitalismo globale come Gramsci pensò ai suoi tempi la forma della rivoluzione in Occidente. Ma anche, specificamente, perché di Gramsci può tornare oggi attuale la contrapposizione della “riforma morale e intellettuale” alla “rivoluzione passiva” di cui il capitalismo si avvale per rinverdire continuamente i propri consensi.
Questa almeno è l’ipotesi, in apertura del convegno, di Giuseppe Prestipino, che di Gramsci enfatizza “la concezione ‘revisionista’ della rivoluzione”, ovvero il passaggio da una visione della trsformazione incentrata sulla presa del potere (pur da Gramsci non disdegnata) a un’altra incentrata sulla lotta per l’egemonia: “tras-formare il mondo è meglio che ri-voltarlo, mettendolo sottosopra per lasciarlo, nella sostanza, qual era prima”, sintetizza Prestipino. Che legge la globalizzazione nella chiave di una rivoluzione passiva particolarmente efficace, in quanto fa leva su una spoliticizzazione delle masse aiutata e supportata dai grandi apparati massmediatici, il che rende la “riforma intellettuale e morale” più che mai prioritaria. Non solo. Tornare a Gramsci è cruciale, secondo Prestipino, anche per affrontare la questione del rapporto fra “il conflitto originario” capitale-lavoro e i conflitti che oggi si danno attorno all’ambiente, al sesso, all’identità culturale: l’antitesi gramsciana fra dominio e subalternità è in grado di comprenderli tutti (da cui la fortuna odierna di Gramsci nei cultural e post-colonial studies), sì da “congiungere”, e non semplicemente sommare o giustapporre, diverse soggettività nel progetto comunista.
Il che però non si dà nella pratica, com’è noto dalla cronaca che non smette di mostrarci le contraddizioni, più che i congiungimenti, fra soggetti e soggettività differenti. Ne offre una prova del resto la sezione del convegno dedicata all’analisi del lavoro, anzi del rapporto fra lavoro e vita. Qui la fenomologia di partenza è la stessa, ma la sua interpretazione diverge considerevolmente non appena entra all’opera un’ottica sessuata. Per Mimmo Porcaro, l’intreccio sempre più compenetrato di lavoro e vita nel capitalismo di oggi va tutto e solo a detrimento della vita: il lavoro la invade e tende a “formalizzare” tutto ciò che in essa alla formalizzazione resiste; in particolare, “quando la vita ‘entra’ nel lavoro, non sono le capacità relazionali a trasformare positivamente il lavoro, ma è quest’ultimo a imporre le sue logiche alle prime”. A tutt’altre conclusione arriva però Lia Cigarini, a partire dall’analisi del lavoro femminile. “Il parziale superamento della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo specifico legame che le donne hanno con la vita e il lavoro di cura”, sottolinea Cigarini, e questo legame, e relative capacità relazionali, le donne lo portano nel lavoro, modificandolo. Di più, le donne non si consegnano in toto alla misura dei soldi e della competizione, e questo può fare barriera contro l’alienazione. Non più segmento marginale ma ormai protagoniste centrali nel mondo del lavoro (ma Antonella Picchio dà a sua volta una lettura diversa e meno ottimista del mercato del lavoro femminile), le donne obbligano a ripensare l’organizzazione del lavoro per tutti, e la pratica femminista del partire da sé può funzionare da precedente per la necessità oggi pressante di incoraggiare la narrazione dell’esperienza di lavoro, passaggio ineludibile – ma complicato, secondo Marco Berlinguer, dalla difficoltà di mettere in contatto narrazioni diverse – per una nuova stagione di conflitto.
La cui immaginazione continua a dover fare i conti con l’osso duro della crisi delle forme politiche moderne, la rappresentanza in particolare, e con l’impermeabilità delle sedi politiche tradizionali al portato dei movimenti e delle culture di movimento: Hilary Wainwright chiude oggi il convegno ragionando di questo. Potere, autonomia, conoscenza, network sono le parole chiave elaborate, o rideclinate, dai movimenti nell’arco lungo di tempo che va dagli anni Sessanta del Novecento a oggi. Scollare il potere dal dominio e abbandonare la tradizionale visione di un’azione politica che cala dall’alto della leadership su una società oggettivata e passiva a favore di una pratica della trasformazione in cui il soggetto del cambiamento mette in gioco e cambia se stesso nel cambiare la realtà, resta “il” punto su cui la “riforma della rivoluzione” deve misurarsi. Pena il capovolgersi della rivoluzione nel suo contrario, di cui la storia ci fornisce troppi esempi.

Le storie Clara, architetto sottopagato, «magari ti viene il desiderio di un figlio. E come fai?». Giovanna, peruviana, bada ai figli delle italiane: «Il tempo libero? Ma io non ce l’ho»
Cinzia Gubbini
Roma

Il «la» al corteo lo danno loro, poco dopo la partenza, giusto davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore. Un bel cordone di contestazione interna, creato mettendo insieme le loro code, pelose e leopardate, posticce ma sinuose e ammiccanti, un tocco di poesia, un «via di fuga», perché «non si accodano», come dice anche il volantino giallo che distribuiscono ai passanti. Sono le donne del collettivo «amatrix», unica presenza spiccatamente femminista al corteo contro la precarietà, che di donne è pieno, giovani e meno. Un bel pezzo di società che la flessibilità selvaggia sul lavoro la sperimenta tutta, con contraccolpi incontrollabili. «Diventa precarietà della vita, anche per chi come me ha un contratto a tempo indeterminato – dice una delle donne di «amatrix» – E’ precarietà degli affetti, ritorno alle maglie strette della famiglia. Per questo vogliamo sovvertire e contestare anche la composizione del corteo di oggi che non ci rappresenta. Sulle donne pesa ancora quel welfare che non viene pagato da nessuno. Se la donna italiana lavora, ecco che tocca alla “badante” straniera accollarsi la casa. Purtroppo è difficile mettere insieme le femministe, se vogliamo usare questo termine, c’è ancora un incubo da separatismo». Ma qui non c’entra separarsi dal «maschio», piuttosto riconoscere una differenza che c’è.
Prendi Clara, 28 anni, appena laureata in architettura e a metà del guado di un dottorato di tre anni «senza borsa di studio». Cioè gratis, anzi, con 1.500 euro di tasse da pagare. Clara cammina con Barbara, 35 anni, anche lei architetto, già «abilitato», sono tutte e due di un circolo di Rifondazione romano. Clara lo dice apertamente: «Non lo so, magari a un certo punto ti viene in mente: vorrei un figlio. Ma come fai?». Invece si rimane figlie, per anni e anni. «Mi tocca chiedere ancora i soldi a mamma e papà. La loro è una generazione che ha investito su di noi, ci ha fatto studiare, accedere alla cultura. Ma noi ci ritroviamo con niente in mano, e senza reti». Eppure «siamo privilegiate», dicono tutte e due. Perché alle spalle, appunto, «c’è la famiglia». Perché, alla fine, uno la vita se la vive: «Io se ho due lire mi faccio un viaggio all’estero, e non ho nessuna intenzione di smettere», dice Barbara. «Ma scusa – aggiunge – Clara – dovrei anche sentirmi in colpa? Viviamo in un’economia dell’accesso, non della proprietà. Io voglio i miei libri, il mio cinema, desidero avere il mio tempo libero. E magari non me ne frega niente di avere una casa di proprietà. Che poi tanto un mutuo se lo chiedo non me lo danno, dunque, non si pone il problema». Entrambe frequentano, sottopagate, gli studi privati dei grandi architetti, anche se Barbara è in una fase di ribellione e sta cercando di lavorare in proprio, da casa, con un’amica. «Tutti i grandi architetti si servono di pacchi di giovani precari, sono quelli che vincono i mega appalti pubblici – dice Clara – allora dico: almeno mandate i controlli».
Ma di controlli, tra le migliaia di precari in corteo, non ne ha visti mai nessuno. Emanuela, giornalista friulana che riesce a mettere insieme mille euro al mese tra varie collaborazioni, già ha visto un paio di colleghe costrette ad aprire la partita Iva. E lei, nel centro di documentazione per cui lavora, fa la giornalista, ma è inquadrata come una qualsiasi dipendente. Poi c’è Giovanna , peruviana di 26 anni. Fa la baby sitter, al nero, 600 euro più vitto e alloggio. Ma occupa anche una casa con Action «perché vorrei tanto lavorare e poi tornarmene a casa mia». Almeno «avrei più tempo per me. Ora sono libera solo o il giovedì, o la domenica». E poi la famiglia per cui lavora l’ha presa per curare il bambino, ma in realtà «stiro, lavo, pulisco, faccio la spesa. Tutto». La sua libertà «è poter essere lontana dalla mia famiglia, qui guadagno i soldi miei, faccio come dico io». Ma è comunque una vita a metà «l’ultimo ragazzo mi ha mollato, perché non avevo mai tempo. Non puoi stare con uno e vederlo solo il giovedì».

A noi pero’ sembrano tutto meno che invisibili: prendono parola e sono vivi, attivi…. Che la lettura nella chiave dell’invisibilità faccia in qualche modo comodo al ‘Potere’?


Esce a Parigi una vasta indagine sulle nuove popolazioni pauperizzate: sfollati, disoccupati, «reddito minimo», clandestini, senza tetto, indebitati, ecc. Danni collaterali per il sistema. In realtà «inesistenti»
Anna Maria Merlo – Parigi

A sei mesi dalle presidenziali, le élites politiche sono inquiete. Difatti, i francesi hanno riservato negli ultimi tempi molte brutte sorprese alle classi dominanti, che sembrano non capire più quello che succede nella società : 21 aprile 2002, con Le Pen al ballottaggio e la sinistra espulsa dal secondo turno, «no» alla Costituzione europea nel 2005, rivolte delle banlieues, grandi manifestazioni contro il Cpe, il contratto precario per i giovani, che il governo ha dovuto cancellare nella primavera del 2006. L’imponente volume La France invisible (La Découverte, 647 pag., 26 €), a cura di Stéphane Beaud, Joseph Confavreux e Jade Lindgaard, con il contributo di 28 ricercatori, cerca di fotografare questi « invisibili », attraverso una trentina di categorie messe per oridine alfabetico. Ogni inchiesta è seguita da un’intervista con uno specialista. La seconda parte del libro è costituita da interventi più analitici, relativi alla critica dei modi di conoscenza del mondo sociale, alle sue rappresentazioni fuorvianti e alle trasformazioni della questione sociale, che via via scivola nella «gestione sociale».
Tutti questi «invisibili» non rappresentano una sola categoria sociale, vivono isolati uno dall’altro, possono avere interessi contrastanti. Se c’è però un elemento che li accomuna può essere riassunto in un concetto: precariato. Della casa, del lavoro, del reddito, delle prospettive di avvenire.
Non sono solo più le vecchie classi popolari, che si erano costruite un’identità propria, ad essere travolte dalla precarizzazione della vita del XXI secolo, ma anche le classi medie ne sono investite. Sentimenti di vergogna, di disprezzo da parte degli altri e da parte di se stessi, ne sono delle caratteristiche. Solitudine per la fine delle vecchie solidarietà, la debolezza degli strumenti di difesa del passato, come i sindacati. Un’immagine rivela il posto degli invisibili: gli stagisti, che nessuno voleva vedere, si sono fatti notare quando hanno manifestato nel 2005 con il vosto coperto da una maschera bianca. La France invisible fa discutere. Gli autori sperano che rappresenti un elettrochoc, come era stato nel ’52 il libro Uomo invisibile, per chi canti? dello statunitense Ralph Ellison, il cui eroe – un giovane nero nel sud segregazionista – era diventato un simbolo, che aveva risvegliato le coscienze, eroe emblematico del movimento per i civil rights. «Sono invisibile, capite bene, semplicemente perché la gente rifiuta di vedermi (…) Questa invisibilità di cui parlo è dovuta a una disposizione particolare degli occhi della gente che incontro».

Valore di aggiustamento
Ci sono «delle popolazioni, più o meno pauperizzate, che sembrano solo più esistere nello spazio pubblico sotto forma di statistiche e di flussi». Si parla di loro come degli oggetti : «crescono», «calano». Si tratta dei disoccupati, dei rom, dei beneficiari dell’Rmi (reddito minimo), degli sfollati, dei clandestini espulsi o che rischiano di esserlo, dei senza tetto, di coloro che sono sovra-indebitati. «I poteri pubblici organizzano nei loro confronti un sistema di trasferimenti sociali che comporta pero’ un numero crescente di buchi. Non sono materialmente abbandonati, ma sono diventati dei danni collaterali accettabili di un sistema economico che a volte ne trae anche guadagno». Le espulsioni di clandestini sono in aumento (un raddoppio tra il 2002 e il 2005, da 10mila a 20mila), ma chi si chiede cosa avviene di questi «espulsi» una volta che hanno varcato il confine nazionale? 400mila nomadi vivino in Francia, e la maggioranza ha la nazionalità francese, ma sono trattati come stranieri dell’interno.
Per i disoccupati, le statistiche dissimulano platealmente la realtà: la disoccupazione diminuisce, dice il governo. Ma i senza lavoro in Francia sono stati divisi in varie categorie, e le statistiche prendono in considerazione solo la categoria 1: ma da dieci anni a questa parte le altre categozie di senza lavoro sono aumentate del 40%, si tratta di persone, soprattutto donne, scoraggiate che non si iscrivono più agli uffici di collocamento, di persone che lavorano meno di 78 ore al mese, di assunti con contratti a termine o di solidarietà, pagati poco e male. Al punto che i sociologi propongono di farla finita con il termine «disoccupato», troppo generico, per sostituirlo con «privato di lavoro stabile e pagato decentemente».

Quelli «senza qualità»
Non si tratta dell’Ulrich di Musil, ma di persone che vivono drammi personali che non rientrano in nessuna politica dell’aiuto sociale. Né sans papiers, né senza tetto, né senza famiglia, «non corrispondono ai nuovi volti della grande precarietà e non si sono organizzati come minoranze». Si tratta dei lavoratori declassati, delle casalinghe per forza, delle persone che per ragioni di reddito e di percezione della sicurezza scelgono di vivere nelle zone di villette lontane da tutto, dei giovani rurali che non interessano nessuno e si annoiano come i banlieusards, degli intermittenti del lavoro, dei precari del settore pubblico (che sono più numerosi in Francia che nel settore privato) che lavorano a fianco dei «garantiti», dei lavoratori a cui viene chiesto sempre di più, che subiscono pressioni continue sotto la minaccia di perdere il lavoro ecc. C’è un’inchiesta sulle operaie della Levi Strauss de La Bassée, nella regione Nord, vittime di una delocalizzazione mai riconosciuta come tale, le storie di quadri di Neuf Telecom o di Ibm che hanno subito un’intensificazione del lavoro che ha portato alla demovitazione, quella di una libraia appassionata che ha perso ogni piacere quando la libreria dove era impiegata è stata assorbita da un grande gruppo della distrbuzione, che vuole solo «fare cifra». Le lettere di dimissioni non datate che devono firmare gli impiegati dei McDonald’s, i nuovi concetti di management che diventano umilianti per il lavoratore ecc.

Le vittime delle nuove violenze
Ci sono persone che hanno perso la Sécurité sociale, altri che vivono costantemente nel terrore di essere controllati dalla polizia, anche se non hanno nulla da rimproversarsi, i giovani che non riescono ad entrare nel mercato del lavoro e che accumulano stages e contratti a termine, i lavoratori dell’ombra che stanno dietro le quinte, invisibili a tutti, dalla ristorazione agli stagionali dell’agricoltura. L’ineguaglianza delle generazioni di fronte al lavoro è plateale, poiché le imprese utilizzano ormai i debuttanti come variabili di aggiustamento del mercato del lavoro. Nell’83, dicono le statistiche, l’80% dei giovani avevano un impiego stabile un anno dopo l’entrata nella vita attiva, mentre oggi sono meno di uno su due. Una generazione low cost, che, a salario eguale, puo’ permettersi di affittare metà dei metri quadrati di vent’anni fa, che spesso è obbligata a tornare a vivere dai genitori.
«Lavoro, casa e persino salute, le nuove generazioni non hanno più le stesse prospettive delle generazioni precedenti alla stessa età» dice il sociologo Luis Chauvel. La salute è diventata oggetto di discriminazione: la mortalità degli uomini di 45-59 anni che svolgono un lavoro manuale è del 71% più alta di quelli della stessa fascia di età che svolgono un lavoro non manuale. Le ineguaglianze della salute sono strettamente legate a quelle sociali.
Sono dei «discriminati» di cui la società parla, a favore dei quali vengono fatte delle leggi. Ma che poi vivono nel quotidiano un’altra realtà rispetto a quella caricaturata sul palcoscenico delle mediatizzazione. Sono i tossicodipendenti, gli handicappati, le prostitute, i banlieusards, gli stagisti ecc. «Gli invisibili – scrive l’introduzione – non sono quindi dei “nuovi proletari” : sovente non hanno nulla a che vedere gli uni con gli altri e per questo motivo sono difficili da percepire.

Sentimento di disprezzo sociale
Non formano una classe sociale omogenea e neppure delle categorie sociali stagne. Tuttavia, nel corso dell’inchiesta, molte delle persone incontrate si sono riconosciute nella nozione di invisibilità, intesa non tanto come categoria sociologica, né come uno status che darebbe dei diritti particolari, ma come una situazione e un insieme di processi che inducono un sentimento di non rinoscimento e di disprezzo sociale».
In realtà, i motivi dell’invisibilità sono cumulabili : essere contemporaneamente, «sotto controllo», «banlieusard», «rinnovati » (cioè sloggiati in nome del miglioramento dell’habitat) e «precari del settore pubblico, «intermittente del lavoro », «giovane occupato», e «allontananto», cioè obbligato per ragioni economiche e anche di scelta condizionata a vivere lontano dal centro. «Allo stesso modo, non si è “sotto pressione” a vita, o “in subappalto” per il resto dei propri giorni».
Ma moltissimi passano per queste esperienze, che diventano «banali»: «banalità che rende a priori la storia di vita meno emozionante e quindi meno ricercata». Invisibile, appunto.

«Ceti medi senza futuro?», un libro che raccoglie saggi e interviste di Sergio Bologna. Dalla deindustrializzazione al «divenire rendita del profitto», analisi e proposte di coalizione per il lavoro autonomo di seconda generazione
Christian Marazzi

In questo libro, che raccoglie saggi, interviste e articoli scritti nel corso degli ultimi dieci anni, c’è tutta l’intelligenza e la lucidità di Sergio Bologna (Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, pp. 282, euro, 19). Bologna è giustamente conosciuto, non solo in Italia, per essere stato il primo a prendere molto sul serio l’emergenza socio-professionale della figura del lavoratore autonomo di seconda generazione, espressione del passaggio dal fordismo al postfordismo, effetto dei processi di riorganizzazione dei modi di produrre a mezzo di esternalizzazione (outsourcing), di flessibilizzazione del mercato del lavoro, di digitalizzazione e globalizzazione, ma anche di esodo dal lavoro dipendente, cioè di scelta soggettiva, di rifiuto del lavoro subordinato.
L’individuazione di un soggetto emergente al di fuori della griglia cognitiva di gran parte della sociologia del lavoro accademica, secondo la quale il lavoro autonomo o atipico va interpretato dal punto di vista del lavoro dipendente, ha posto Bologna in una posizione critica – per così dire – nei confronti sia della baronia universitaria e delle organizzazioni sindacali, sia, anche, della sinistra radicale che nella trasformazione del lavoro ha voluto vedere soprattutto la dimensione precaria. E Bologna, senza peli sulla lingua, non si è mai sottratto alla polemica contro questo modo di interpretare le trasformazioni in atto con lo sguardo rivolto al passato, come se le nuove forme del lavoro «atipico», ma ormai tipico, fossero una sottrazione, un non-ancora del lavoro a tempo indeterminato.

Organizzazione cercasi
Per evitare i soliti equivoci, è bene citare un passaggio tratto dal saggio dal titolo «Il senso della coalizione»: «operaio massa e lavoratore autonomo di seconda generazione vorrebbero essere termini nei quali si racchiude da un lato il carattere coercitivo di una determinata organizzazione del capitale, dall’altro il potenziale di emancipazione, di liberazione che è intrinseco a certi valori di cui quelle figure sono portatrici. Non ho mai inteso dire che l’operaio massa fosse l’intera classe operaia del fordismo, né che il lavoratore autonomo di seconda generazione sia la maggioranza della forza lavoro postfordista. Intendevo dire che sono figure portatrici di determinati valori, per l’operaio massa l’egualitarismo, per il lavoratore autonomo di seconda generazione l’autodeterminazione». A partire da questa figura produttiva in cui management, capitale costante e lavoro salariato si fondono in un’unica persona (per cui risulta assurdo parlare di «impresa individuale», dato che l’impresa presuppone una precisa separazione tra questi ruoli), occorre intercettare i percorsi di autodeterminazione, le forme di vita, le pratiche relazionali e comunicative che permettono di autonomizzarsi dalle forme della regolazione capitalistica odierna: «Ieri era il cronometrista a starti dietro, oggi è una qualsiasi delle figure gerarchiche dell’azienda che è esperta dei mille sotterfugi con cui si gestisce la flessibilità, sostituendo un lavoratore a tempo indeterminato con un contratto a termine e questo con un interinale e l’interinale con un co.co.pro. e il co.co.pro. con una Partita Iva e via dicendo». In altri termini, Bologna è interessato ad evidenziare la trasversalità della riorganizzazione postfordista del lavoro, tanto che il titolo del libro, volutamente, tira in ballo il ceto medio, quella categoria bistrattata dalla sinistra che, rincorrendo i neoliberisti, la interpretano esclusivamente in termini di bacino elettorale, salvo poi trovarsi di fronte, allibita, il mostro dell’antipolitica.

Strategie di libertà
Il problema posto da Sergio Bologna è dunque quello della lotta di classe, della ricomposizione sociale e politica di una classe produttiva fatta di «individui sociali» isolati, despazializzati, di cui si possono conoscere le soggettività, le aspirazioni, le domande di identità navigando con attenzione nella blogsfera, una webclass, così la chiama Bologna, che già ha dimostrato di sapersi muovere a partire dalla mobilitazione degli intermittenti dello spettacolo in Francia, ai «devoti» di San Precario in Italia, alle forme organizzative in rete dei freelance newyorchesi. La «classe virtuale» per la quale occorrono nuove forme di coalizione non è, per Bologna, priva di differenze interne. Anzi, è proprio a partire dalla differenza di genere, dalle esperienze di lotta delle donne, che bisogna organizzarsi: «Se il lavoro femminile oggi è il lavoro tout court, le azioni di autotutela, le strategie di libertà, i modi di convivere con la precarizzazione, insomma il modo per non restare schiacciati dall’organizzazione del mercato del lavoro è quello delle pratiche femminili, quello – e non altri – è il modo di coalizione con valenza generale, con cui gli uomini debbono confrontarsi».
Le forme della ricomposizione, della coalizione politica, insomma della produzione di un’organizzazione all’altezza del pluriverso soggettivo del lavoro, scontano, devono scontare, una marcata autonomia. Quando Bologna afferma che «la rendita prevale sul profitto» si potrebbe aggiungere che, in realtà, vi è «un divenire rendita del profitto» perché gli odierni dispositivi di estrazione del plusvalore sono conficcati nel cuore stesso di questa composizione sociale del lavoro. Le forme di vita messe oggi al lavoro dal capitale sono l’equivalente della terra nel Tableau économique del fisiocratico Quesnay. La rendita, meglio del profitto, rappresenta l’esternalità dell’appropriazione di un valore prodotto fuori dai cancelli delle fabbriche, per cui non c’è nulla di particolarmente anomalo o scandaloso nella finanziarizzazione dell’economia postfordista, semmai è interessante capire come la finanziarizzazione, per il suo stesso modo di funzionare, produce un corpo sociale sempre più ingovernabile. La rendita-come-profitto è l’altra faccia di questa nuova composizione socio-professionale del lavoro, è il risultato della ricerca di nuovo plusvalore a partire dalla crisi del fordismo degli anni ’70, a partire cioè dall’impossibilità di succhiare plusvalore sulla base della composizione fordista del capitale.

La democrazia che verrà
Per saper ascoltare i «rumori della notte», come faceva il compositore ungherese Bartòk, di cui Bologna ci offre un bellissimo ritratto proprio in questo libro (che c’entra? C’entra molto, se si vuole capire Bologna!), bisogna adottare un nuovo metodo, una nuova cornice cognitiva, bisogna cioè guardare alle forme di vita di questa nuova classe fatta di singolarità multiple, di moltitudine. Il lavoro come vita oggi non ha rappresentanza, ma sta già producendo innovazione sociale, relazioni, scambi di esperienze, centri di ricerca autonomi, modalità di autoformazione, un vero e proprio prologo in terra di una democrazia a venire. Bologna fa suo il pensiero del giovane Karl Polanyi secondo il quale «Democrazia per noi non è un sistema di governo, è una forma ideale di vita».

L’impiego piace a una donna su tre Il 63,1% si sente «potente»

Serena Uccello

Donne soddisfatte del proprio lavoro ma soprattutto dei risultati ottenuti nel corso della carriera. Certe delle competenze acquisite, per nulla disposte a tirarsi indietro ma altrettanto certe di giocare una partita non ad armi pari rispetto ai colleghi uomini. Le donne che lavorano sono così, le racconta una ricerca realizzata da Euromedia Research per la Fondazione Bellisario e che sarà presentata oggi nel corso del seminario Donna Economia & Potere, in programma a Torino. Mille donne, scelte in modo proporzia-le per territorio e per età, a rappresentare un spaccato fedele del lavoro al femminile. Ne emerge un quadro del tutto confortante rispetto ai risultati ottenuti ma con la consapevolezza che l’enorme nodo da sciogliere resta la conciliazione tra realizzazione professionale e realizzazione personale. Nonostante infatti i molti passi avanti, e nonostante i tentativi di realizzare anche attraverso strumenti di legge una minima rete di sostegno, la maternità resta un ostacolo (per le più giovani) o una rinuncia (per le over 45).
Il dato di partenza è che comunque il 35,5% delle donne è pienamente soddisfatto di sè e del proprio ruolo, e ben il 63,1% si sente in qualche modo “potente” nella propria professione. Una sensazione ben presente soprattutto nelle donne tra i 56-65 anni, con un buon livello di carriera, residenti nel Nord ovest, e soprattutto con figli. Molto più problematica risulta essere la percezione delle più giovani in particolare nelle regioni del Sud. Per quanto in salita, tuttavia, la maggior parte della donne (78,8%) è convinta che il lavoro non si declini al maschile e che la gran parte di loro (lo pensa il 64,5% del campione) ricopra posizioni e ruoli commisurati alla propria preparazione.
Il punto dolente resta però la scelta tra lavoro e maternità, un momento fortemente critico rispetto al quale non esiste una facile conciliazione: il 62,8% delle donne intervistate dichiara come quella tra lavoro e maternità sia una scelta obbligata. Ecco perché quasi otto donne su dieci sono convinte che in Italia ci sia bisogno di programmi e iniziative per sostenere l’occupazione femminile. Come ad esempio un’organizzazione strutturale del lavoro in azienda più flessibile (35,6%) o la possibilità di scegliere orari personalizzati (13,7%). «Le donne – spiega Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario – cercano una flessibilità che non sia occasione ma che rientri in un percorso di lavoro e di carriera. È cresciuta cioè la consapevolezza che in qualche modo bisogna cambiare e che è possibile ritagliare uno spazio solo cambiando le regole». Insomma manca un welfare concreto: colpa della scarsa informazione sulle leggi attuali (39,8%), ma colpa anche- è il sospetto –del disinteresse delle aziende ad applicare (18,5%) norme che le aziende stesse ritengono scarsamente convenienti (26,9%).

Marina Terragni


Una donna che lavora sodo, dopo tanto salire in carriera chiede al suo capo di spostarsi a lato, cioè di “flessibilizzarsi” un po’. Risposta di lui: “Il lavoro è questo, cara. O così, o a casa con i bambini”. Ma no! Niente affatto! Il lavoro non è questo. Questo è il modo in cui lavorano gli uomini (tempi, modi, regole maschili). Adesso che in quei posti di uomini ci lavorano tante donne, e spesso più donne che uomini, il lavoro non può più essere questo. Le donne poi hanno sempre lavorato, e lavorano molto più degli uomini. Sapranno bene come si fa, anche senza riunioni alle otto di sera.
Un’altra, un’importante giornalista, mi dice che per metà della giornata lei lavora in casa, magari anche sfaccendando, perché lo zen delle faccende domestiche libera la mente come poco altro al mondo, e nella sua testa fluiscono le idee. L’altra metà della giornata poi sta in redazione, dove però arriva carica di se stessa, salda nei pensieri che ha accumulato, capace di resistere alla forza del “già pensato” maschile. La capisco perfettamente.
Il fatto è che le donne lavorano meno bene quando il loro cosiddetto “privato” è tenuto fuori dalla porta dell’ufficio, quando lì non riescono a portarci anche un po’ della loro casa, e cioè in definitiva se stesse. Quanto alla scrittura per esempio, di cui io sono pratica: non puoi farcela a scrivere cose più di tanto sensate se non ti è permesso di dire qualche “io”, o se stai chiusa in una brutta stanza con l’aria condizionata e le foto dei bambini appese in bacheca a perdere il tuo tempo – il tuo senso del tempo soprattutto-, giocando ai videogiochi tra una riunione e l’altra. Si scrive molto bene, invece, quando si riesce a stare prossime alla materia della vita, e le cose che vogliono essere dette vengono spontaneamente, come piccole creature che chiedono di passare attraverso di te. Io per esempio questa rubrica la sto scrivendo dopo aver lavato un pesante tappeto che ora sta sgocciolando al sole sul terrazzo.
La cara amica Lia Cigarini dice che nei prossimi anni le cose politicamente importanti per le donne capiteranno nei posti di lavoro. Credo che abbia ragione.

Marina Terragni

E’ stata una donna, il ministro per il Commercio estero Emma Bonino, a lanciare il sasso: anche le donne in pensione a 65 anni. Basta con quel “bonus” di cinque anni -unico privilegio femminile in un mondo del lavoro caparbiamente maschile- che nel resto d’Europa non esiste.
Come la prenderebbero le lavoratrici? E’ la prima cosa che ci chiediamo con Marina Piazza, sociologa di Gender, società di consulenza, formazione e ricerca ed ex presidente della Commissione per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio.

 

“Mi pare esemplare la lettera che ho visto su un quotidiano” dice Piazza. “Una che diceva: ho 60 anni, ho sempre lavorato, ho tirato su tre figli. In pensione riesco a godermi i nipoti, a leggermi un libro… Se dovete fare questa riforma, fatela. Ma non venite a dirmi che è per il bene delle donne”.

M.T. Di sicuro è per il bene del sistema pensionistico.

 

M.P. Il problema c’è, le cose sono cambiate, si comincia a lavorare a trent’anni, si vive di più. Il tema del lavoro va ripensato. Ma perché si comincia dalla fine, e togliendo alle donne?

M.T. Per le donne lavorare è molto più faticoso, più usurante. E non solo per il doppio ruolo, cioè per il fatto che per tutta la vita fai anche un altro lavoro. La questione è che i modi e i tempi del lavoro restano fortemente maschili. E poi c’è il gender pay gap, il fatto che guadagni il 20-30 per cento meno degli uomini. E quindi prendi anche pensioni più basse: oggi l’importo medio per una donna è quasi la metà di quello di un uomo. Che si metta mano a queste cose cominciando dall’età pensionabile è un po’ sospetto.

 

M.P. E’ legittimo pensare a una parità nell’uscita. Ma si dovrebbe ripensare tutto fin dall’entrata: più servizi e orari flessibili, in modo che le donne siano meno sopraffatte. Gli ultimi dati dell’Unione europea dicono che una donna part time lavora più di un uomo full time. Le donne tengono in piedi il welfare

 

M.T. E comunque non ci sono servizi che tengano: il lavoro di cura ti tocca sempre, non si può certo pensare di scrollarselo definitivamente di dosso. Si tratta semmai si riconoscerlo nella sua centralità.

 

M.P. Credo che si debba agire su tre livelli. Primo: più servizi. Secondo: l’organizzazione del lavoro, che da noi resta rigidissima. In questi giorni in provincia di Milano 1700 donne si sono dimesse dopo il primo anno di vita del bambino perché non hanno nidi, i nonni stanno lontano, le aziende non concedono part time. Terzo livello: la condivisione del lavoro di cura nella coppia. In tutti i paesi d’Europa si fanno campagne di sensibilizzazione. In Olanda hanno martellato per un anno, e qualche cambiamento si è visto.

 

M.T. A questo credo meno. Mi sembra altro tempo perso. Quanto al part time, invece: come mai in Italia non decolla?

 

M.P. Non è mai piaciuto né al movimento delle donne né al sindacato perché faceva pensare alla marginalità e al lavoro nero. E invece sarebbe una buona soluzione per tanti. Non solo per le donne, ma anche per quegli uomini che desiderano organizzarsi la vita in modo diverso.

M.T. Perché poi qui si parla ancora di entrata e di uscita dal lavoro come se il posto fisso non fosse in via di estinzione.

 

M.P. Servirebbe una riflessione seria, soprattutto da parte del sindacato…

 

M.T. Non per dare ragione a Montezemolo: ma il sindacato è fermo conservativamente all’operaio-massa e al cartellino…

 

M.P. Le donne del sindacato il problema se lo pongono. Ma poi nelle delegazioni che trattano ci vanno solo uomini, i quali di complessità delle vite, di personalizzazione del lavoro, di flessibilità sembrano non capire nulla. E’ come se al sindacato, alla politica e alle aziende sfuggisse la portata della trasformazione delle nostre vite. E non solo la vita delle donne, ma anche quella dei giovani uomini, che non hanno più la certezza granitica del posto fisso.

 

M.T. …e forse nemmeno la voglia.

 

M.P. Tutto viene basato sull’unità “uomo”, rigida e immutabile. Ma anche il singolo lavoratore non è lo stesso a trent’anni, a quaranta e a cinquanta. Si deve tenere conto di come cambia il ruolo del lavoro nell’arco della vita, invece di riferirci sempre a un unico modello in cui siamo costretti a infilarci, come in un vestito stretto.

 

M.T. Oltre che a un lavoro flessibile si potrebbe quindi pensare anche a un pensionamento flessibile.

 

M.P. In Germania negli ultimi cinque anni si può fare part time, senza grandi penalizzazioni sulla pensione.

 

M.T. Tornando all’idea di Bonino: questa differenza nell’età pensionabile è forse una cosa imbarazzante, ma parla della differenza reale tra le esistenze femminili e quelle maschili. Parificare non occulterebbe questa differenza, lasciando comunque alle donne la doppia fatica?

 

M.P. Bonino dice però che se una donna esce a 60 anni, si dà per scontato che sia lei a pensare ai nipoti o alla vecchia madre, quando invece magari le piacerebbe vivere un po’. Se non lavori sei soggetta all’obbligo di curare, perché siamo in un paese familistico, che non ha mai avuto politiche sociali e familiari. E curare da sola una madre inferma non è meglio che lavorare.

 

M.T. Anche se non mi piace che il lavoro di cura, che è preziosissimo, continuiamo a pensarlo come una cosa scadente, da cui si deve scappare. Mentre quello in un’azienda, dove spesso perdi il tuo tempo, è un lavoro che vale perché è monetizzato.

 

M.P. La cura è il cuore pulsante. Se le donne smettessero di prestarla cadrebbe qualunque società. Ma resto convinta che per una donna è meglio avere più teatri di azione, il lavoro in casa e quello fuori casa…

 

M.T. Oggi almeno è così.

 

M.P. Ci dovrebbe essere una flessibilità di vita per cui il lavoro può essere importantissimo in certe fasi e meno in altre. E senza penalizzazioni.

 

M.T. Se si ripensa a queste cose bisogna avere il coraggio di porsi le questioni fino in fondo. Per esempio: il progresso sembrava poter lavorare di meno. Qui invece si propone di lavorare di più.

 

M.P. Io parlerei di lavorare meglio. Verso la fine della vita lavorativa potrebbe essere interessante provare a fare qualcos’altro, magari part time. Sarebbe una possibilità di libertà.

 

M.T. L’altra questione è che restando di più al lavoro, il tempo di vita soggetto a logiche di profitto aumenterebbe, a scapito di un tempo extramercantile in cui si svolgono attività sottratte a queste logiche. A volte perfino gratuite, ma molto arricchenti. Il che costituirebbe un impoverimento per la società.

 

M.P. Su questi temi serve senz’altro una riflessione ampia e complessa, mentre la politica si comporta in modo miope ed emergenziale. Non c’è pensiero. Si mira al risparmio qui e ora.

 

M.T. Un risparmio che poi, se si volesse farlo fruttare, dovrebbe essere reinvestito in servizi e welfare. Bisognerebbe poter dire: bene, fateci vedere i conti, vediamo come spenderli, questi soldi che risparmiamo. Ma le donne non vengono sentite mai, anche se di queste faccende parlano tutti i giorni. Non si tiene in alcun conto del loro sapere e dell’esperienza che hanno accumulato in decenni di doppio ruolo.

 

M.P. Doppio ruolo che poi non è solo fatica. Questa capacità femminile di muoversi su tanti piani è un valore per tutti, contro l’omologazione e la reductio ad unum.

 

M.T. In definitiva: pensione a 65 anni, sì o no?

 

M.P. Lo vedrei come un diritto, non come un obbligo. Ma come abbiamo detto, conta anche quello che viene prima.

Cronos ha paura delle donne
Carla Casalini

C’è una storia, una delle tante vicende perigliose dei lavoratori dei call center, di cui appaltanti e appaltatori usano a piene mani le competenze comunicative senza riconoscerne il valore, che però si distingue, in questo caso, per una sua peculiarità. Si tratta della Cronos srl, ultima definizione di una società prima dettasi Opera servizi informatici Scarl, poi Opera Roma Scarl, ma l’accidente nominativo non ne ha mai cambiato la sostanza: si è sempre trattato della stessa «attività», nella stessa sede a Pomezia, degli stessi lavoratori nel trascorrere del tempo, dello stesso personale che li controllava e li dirigeva, degli stessi «mezzi aziendali utilizzati dai lavoratori», così come delle stesse prestazioni per il medesimo committente: Telecom.
Questo si legge nella causa in corso di una fra le lavoratrici fin dall’inizio «socie di cooperativa» e dipendenti con «contratto a tempo indeterminato». E fin qui nulla di nuovo, perché i cambi di nome sono stratagemma ricorrente di molte aziende e società per lucrare su margini di guadagno, solitamente a danno dei dipendenti, che siano o meno anche «soci». Il primo problema nasce – anche qui evento non rarissimo – dalla condiscendenza dei sindacati a questo tipo di operazioni.
Che succede infatti nel momento in cui la medesima azienda cambia il proprio nome in «Cronos»? Succede che le segreterie regionali del Lazio di Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom Uil, nel febbraio del 2005 firmano un accordo in cui consentono alla società la finzione di stare dando vita a una «nuova unità produttiva», e dunque gratificano Cronos nella sua dichiarazione di essere «disposta a offrire una valida opportunità di occupazione agli ex soci della cooperativa», ossia i 257 lavoratori della Opera Roma Scarl. Questo implica che il sindacato, con quell’accordo, accetta che «per la prosecuzione del rapporto di lavoro» tutti i 257 donne e uomini, che da tempo erano operavano con un contratto a tempo indeterminato, debbano piegarsi a essere considerati manodopera di nuovo impiego, piegarsi a una «riassunzione ex nunc».
Così, improvvisamente trasformati in lavoratori di primo impiego,grazie all’accordo coi sindacati Cronos decide che 126 di loro si troveranno con «rapporti di lavoro a tempo indeterminato» ma con «esclusione del periodo di prova»; mentre altri 131, dopo anni di lavoro stabile, devono accettare di ritrovarsi come addetti di primo pelo, a ricominciare la trafila inquadrati con «contratti di inserimento». Come si vede, le violazioni di legge e codice di cui i sindacati si rendono complici sono molteplici, ma a quanto pare sperano nel futuro, grazie alla scrittura che nell’accordo prevede che per loro ci sarà «comunque l’assunzione a tempo indeterminato entro 18 mesi», ovvero «nel settembre 2006».
Molte di simili tappe deprimenti si sono già viste in altri percorsi delle società di servizi, coadiuvate da accordi sindacali, ma per la Cronos c’è, come dicevamo, una peculiarità in più. Infatti, i «126 rapporti di lavoro a tempo indeterminato» riguardano esclusivamente lavoratori di sesso maschile, mentre i «131 contratti di inserimento» sono dedicati esclusivamente alla parte femminile degli «ex soci» dipendenti.
Manco a dirsi, Cronos poi non rispetterà neppure i termini di quel deprimente accordo sindacale. Eppure nel frattempo assumerà altre persone, a tempo sia indeterminato, che determinato, e anche in affitto.
Ma non succede nulla. Sulla incredibile violazione della dignità femminile, nella forma di discriminazione sul lavoro, non interverranno i sindacati (che già ne avevano accettato l’assunto d’origine). Ma non si smuoveranno neanche le famose «consigliere per la parità», di qualsivoglia livello istituzionale. Alle donne offese da questa anacronistica pretesa maschile – aziendale e sindacale – non resta che il ricorso individuale alle cause in tribunale. Che inizieranno a metà luglio.

Cinzia Sasso

Quello che adesso si chiama direttore delle risorse umane, una volta era il direttore del personale e in ogni azienda rappresentava il terrore: naturalmente era un uomo, vestito in giacca e cravatta, serio fino a essere lugubre. Ora i tempi sono talmente cambiati che alla San Pellegrino, gruppo Nestlé, il capo dei duemila dipendenti ha le sembianze di una diafana signora che per principio in ufficio non va con la giacca, che adora indossare vestiti colorati e che non vuole affatto nascondere quello che è, una donna. Chiara Bisconti, 40 anni, ha reso meno formale il clima in un’ azienda dove tutti si davano del lei e porta avanti con determinazione le sue convinzioni: «Crediamo nella meritocrazia, ma crediamo anche che sia il risultato di un clima aziendale positivo, fatto di fiducia reciproca e rispetto». Lei per prima applica la flessibilità dell’ orario e due pomeriggi la settimana esce presto per andare a prendere i figli all’ uscita di scuola. Un principio che naturalmente vale per tutti: «Gli impiegati di qualsiasi livello devono garantire un monteore mensile che però organizzano come vogliono. Questo significa che se devi andare dal medico o alla recita dei tuoi bambini puoi farlo con serenità e poi recuperi il tempo perduto». Vuol dire anche, per il personale femminile, superare quello che è l’ handicap più ostico: la rigida gestione degli orari. E vuol dire, per l’ azienda, poter sfruttare al meglio la capacità delle donne di far fruttare al massimo il tempo. Chiara è nata a Novara, cresciuta a Milano, il papà faceva il manager e la mamma la professoressa, ha una sorella più grande che disegna le collane colorate che lei porta sempre. Ha avuto un’ infanzia e un’ adolescenza dorate: le elementari in mezzo alla natura, il liceo linguistico alla scuola femminile «Collegio delle fanciulle». «Ed è lì dice in un ghetto di donne, che ho imparato il valore della diversità». Aveva voluto studiare lingue, ma fin da quando aveva 16 anni sapeva che il suo futuro sarebbe stato una carriera in azienda e quindi, all’ università, ha scelto Economia aziendale in Bocconi dove si è laureata con lode. Dopo un anno da consulente, il primo impiego in Nestlé, con passaggio dal marketing alle vendite. Che ricorda come il periodo più bello: «Stavo a Bologna, avevo la mia prima casa da sola, mi sentivo padrona di me, del mio tempo, dei miei risultati, l’ artefice del mio successo». Chiara dice che per lei la vita è fatta di tre parti: se stessa, i figli, il lavoro. E che stare bene vuol dire raggiungere l’ equilibrio fra queste: «Se uno dei tre aspetti sovrasta troppo gli altri, l’ equilibrio si spezza». Il lavoro, per lei, è molto importante: «Il ruolo è qualcosa che dà identità». Timida nel privato, in ufficio diventa padrona assoluta, determinata, sicura, energica, grintosa. E però, quando aveva 30 anni e ha voluto avere un figlio, ha deciso che la maternità sarebbe diventata la priorità del momento. Senza rimpianti, proprio quando era diventata responsabile di un gruppo di venditori e la difficoltà maggiore era fare i conti con il suo essere un capo giovane, ha chiesto di lasciare la prima linea e di passare al settore, meno pressante, della formazione. Due anni dopo Federico, nato nel ‘ 96, è arrivato Sebastiano e per stare con i suoi figli Chiara ha voluto maternità lunghe, lontano dallo stress di un ruolo importante e dall’ ansia della carriera. Ma nel ‘ 99 una serie di eventi negativi che ne hanno fatto il suo annus horribilis, spezza questo equilibrio. Continuare a fare il controller che era diventato il suo ruolo era diventato impossibile. Di nuovo, in quelle tre parti della sua vita, ha messo da parte il lavoro e ha scelto di fare la consulente. A Poliedros, del gruppo Tesi, ha cominciato ad affiancare le aziende nel settore delle risorse umane e da lì, quando la sua vita privata ha ritrovato un nuovo punto di mediazione, non è stato difficile rientrare in un’ impresa. E quell’ impresa è stata di nuovo il gruppo Nestlè, nella San Pellegrino. «Avevo perso tre anni, ma in quel momento ero pronta a ricominciare ed è stato come dirigente, in attesa di sostituire il capo del personale che sarebbe andato in pensione». «La nostra dice Chiara è stata la prima generazione di donne che hanno voluto tutto: i figli e il lavoro. Per questo le donne di oggi hanno una marcia in più. Io non sono mai stata ambiziosa, non ho mai puntato ad avere un posto di potere. Mi fa fatica dirlo, perché le donne fanno fatica a parlare bene di se stesse, ma vedo che in azienda sono vissuta come un agente positivo del cambiamento».

Carla Casalini

Parole care, “partire da sè, dal proprio corpo, dalla propria vita”, che introducono la nascita di un’esperienza straordinaria degli anni ’70, che si chiamò “Intercategoriale donne Cgil, Cisl, Uil” di Torino: una vicenda di femminismo innestata dentro il sindacato di quegli anni, in un dire e fare comune con il movimento delle donne. Vicenda non isolata, allora, basti pensare non solo a esperienze simili in altri territori – per la verità non sempre e ovunque con analogo “partire” e intento progettuale – ma all’avventura del ‘femminismo sindacale’ dentro i metalmeccanici, categoria per definizione ‘maschile’, dove con i “coordinamenti Flm” le donne introdussero la pratica della separazione/separatezza per ripensarsi fra sè e sé.
Oggi l’esperienza dell'”Intercategoriale donne” torinese rivive in un libro, “Fare la differenza” (edizioni Angelo Manzoni), e a ripercorrerla è una delle protagoniste, Nicoletta Giorda, con un lavoro sagace e intelligente: dal recupero di quella storia – significata dal suo nascere, per poi distanziarsene, nella “stagione dei movimenti” -; all’interrogazione sul senso di un’esperienza vissuta, in interviste fatte oggi alle protagoniste, e ai protagonisti.
Una delle scelte interessanti del libro è infatti il contrappunto, il confronto serrato sia per il passato, che nel presente, ai “dirigenti sindacali maschi” su come “vissero” l’agire femminile. Da “quel 1° maggio 1977” in cui le donne occuparono, non ‘autorizzate’, il palco della manifestazione, parlando e insieme formando con le mani il simbolo femminista, fino alle iconografie ‘creative’ nei volantini, nei manifesti – disegnati da Laura Fiori – a partire dall’ormai celebre ridisegno provocatorio della tela di Pelizza da Volpedo: dove nella rappresentazione del popolo che avanza ‘verso l’avvenire’ il détournement femminile introdusse una mano dell’operaio in prima fila che palpa il sedere della donna che gli marcia accanto.
Furono infatti i “dirigenti maschi” a voler chiudere con violenza l’esperienza dell'”Intercategoriale” a metà anni ’80 – quando ci fu la rottura fra Cgil, Cisl e Uil e le donne furono stranamente accusate di pratica “anti-unitaria”. Paradossale, ma non tanto nella logica maschile: le donne di Cgil, Cisl, Uil, infatti, nel difendere la loro pratica comune, disdicevano la comune decisione di separarsi dei vertici sindacali.
La lettura più emozionante del libro “Fare la differenza” è forse però nelle testimonianze di allora di impiegate e operaie sulla propria ‘presa di coscienza’. Vivissima nei racconti sulle lotte per il collocamento del lavoro, per il diverso sguardo – e vertenze – sulla salute in fabbrica e nel territorio, sul corso di “150 ore” che vide 1300 iscritte discutere di salute e sessualità.
A promuovere la ricostruzione della vicenda torinese sono oggi ancora donne dirigenti sindacali di Cgil, Cisl, Uil, riunite nel “progetto Mnemosine” (la dea greca della memoria), che intendono riportare questa storia dentro il sindacato, nei corsi di formazione, con un occhio particolare alle “nuove generazioni” di ragazze e ragazzi: per “incuriosirli” su una storia che può testimoniare come “ogni diritto acquisito è frutto di un forte impegno intellettuale e di lotta, di coraggio nel rompere l’ordine costituito” – come scrivono nell’introduzione Vanna Lorenzoni, Adriana Celotto, Ivana Dessanay. Ma questa storia è anche un tassello di quell’evento rivoluzionario che irruppe negli anni ’70: il movimento femminista. Singolarmente tralasciato in troppe ricostruzioni dell’epoca – come insiste anche Nicoletta Giorda – che amano riassumerla negli “anni di piombo”.
Ma questa vicenda come interroga oggi le protagoniste di allora sullla loro esperienza ‘personale” e politica? Se ne è discusso, sulla scorta del libro, alla Casa internazionale delle donne a Roma. Ma non c’è stata una risposta a “partire da sé”. Solo molta emozione nel ritrovarsi insieme, e per il resto grande confusione – certo appropriata, e dunque forse fertile – nel leggere il presente.

Vittorio Zucconi

Cenerentola scende in guerra contro il big business e lo fa tremare come i sindacati non sanno più fare. Si sono stancate e sono tante, quel milione e centomila Cenerentole sottopagate rispetto ai maschi, irrise, discriminate, che lavorano nel castello del più grande dei grandi magazzini del mondo, la Wal-Mart americana, mille e 92 ipernegozi in sei Paesi e 1 milione e 800 mila dipendenti, e non chiedono scarpine di cristallo, ma salari equi, promozioni e dignità.
Soprattutto pretendono di non sentirsi più chiamare «bambola» dal direttore del negozio e di non essere più invitate «a farsi belle», se vogliono fare carriera.
Ma fatti bello tu, rispondono le impiegate della Wal-Mart che hanno ottenuto ieri, nonostante la disperata difesa della controparte che gli aveva sparato contro ogni cavillo e tecnicalità escogitate dai suoi formidabili legali, il diritto di portare in tribunale questo datore di lavoro colossale che esse accusano di “sexual discrimination”. Nel linguaggio della giurisprudenza americana, si chiama class action, un´azione legale avanzata da un gruppo di persone a nome di un´intera “classe” (curioso residuo di semantica marxiana) di presunti danneggiati.
Di queste class action, di querele collettive, i tribunali americani traboccano, dai casi famosi dei fumatori contro le produttrici di sigarette alle più oscure e quotidiane azioni di abbonati contro società telefoniche, sovente chiuse con transazioni private. Ma il caso delle “Cenerentole contro Wal-Mart” è qualcosa di assai più imponente della solita causa intentata dai cacciatori di ambulanze. Lo è per le dimensioni dell´accusato, questa catena di mega empori nella quale un cliente potrebbe entrare neonato e uscire soltanto per la sepoltura, trovando dentro tutto, dalle culle ai farmaci, dal cibo al mobilio. Lo è per la quantità delle querelanti, quelle donne che formano il 60% del personale ma soltanto il 14% delle dirigenti. Respinte dall´amministratore delegato che si fa fotografare stravaccato su una poltrona a forma di scarpa da donna leopardata con tacchi a spillo.
Ma lo è soprattutto per la sfida a una cultura aziendale, a un nuovo modo di concepire il business nel tempo della rivincita schiacciante della proprietà sui sindacati. La class action contro la catena degli empori sconto fondata da Sam Walton in un paesino dell´Arkansas con la semplice idea di vendere con margini di profitto inferiori per vendere di più, attacca un impero che aveva vissuto e governato se stesso come una nazione indipendente, forte del proprio successo. Per «vendere tutto a meno», come vuole lo slogan della Wal-Mart, il signor Walton (uno dei finanziatori della carriera di Bill Clinton, suo concittadino in Arkansas) semplicemente pagava meno i propri impiegati. Aveva proibito i sindacati ed evitato, inizialmente, di pagare le assicurazioni sulla salute.
Aveva assunto preferibilmente femmine, e non particolarmente qualificate, giudicandole più docili. E aveva continuato a espandersi, dal primo negozietto dell´Arkansas nel 1962 ai più di mille di oggi, sparsi negli Usa, in Messico, in Irlanda, persino in Giappone, sotto una maschera nipponica. Nessuno al mondo vende più prodotti, o più giocattoli, di Wal Mart, che ricava 11 miliardi di dollari di profitti netti su 315 miliardi di vendite ed è, con il suo milione e 800 mila dipendenti il primo datore di lavoro americano, persino più del Pentagono. Una “fairy tale”, una favola per studenti di economia e commercio, che aveva diffuso un´aura di “tutti felici e contenti” dentro i suoi immensi hangar di mercanzia senza pretese estetiche, grandi fino a 24 mila metri quadrati, tre campi di calcio regolamentari. Senza contare la colata di asfalto per il parcheggio esterno, grande il doppio.
Troppo grande ormai, e troppo prepotente, questo castello del consumismo che piomba su contee e paesi e fa il vuoto della concorrenza in pochi giorni, per non attirare invidie, marce, petizioni, rivolte di comuni, picchetti e ora la ribellione delle sue donne. I documenti presentati dagli avvocati delle querelanti, ufficialmente cento di loro a nome del milione e più di sorelle, sono implacabili e i tre giudici della corte d´appello federale chiamati a giudicare la proponibilità della causa hanno dovuto arrendersi all´evidenza e permettere il processo. Soltanto il 14% dei “capi e capetti” sono femmine, contro il 60% che è la media nelle altre catene commerciali. Una donna deve attendere in media otto anni per essere promossa a “vice manager”, mentre per un uomo bastano due anni e mezzo. La retribuzione media di una commessa è di mille e 100 dollari annui inferiori a quella di un pari grado maschio e dove finisce la quantificazione del trattamento discriminatorio comincia la lunga lista della insensibilità maschilista.
Le riunioni di lavoro sono organizzate nei ristoranti “Hooters”, il cui piatto principale sono i prorompenti seni al vento delle cameriere o addirittura in “strip club”. La manager di un negozio in Arizona è pagata meno del collega perché «non ha l´equipaggiamento giusto». La spiegazione giudaico-cristiana di un capo in South Carolina alle aspiranti manager è che «Dio creò prima Adamo e poi Eva, dunque le femmine vengono sempre dietro i maschi». E la definitiva analisi sociologica del principale in Florida, secondo il quale «voi donne venite qui soltanto perché siete casalinghe alla ricerca di una paghetta e non per lavorare seriamente».
E dunque, anche scontando le naturali esagerazioni aneddotiche di ogni querela, non il solito caso di querela per danni. È un processo a una cultura, sia maschile che aziendale, quello che vedrà opposte le donne di Wal Mart al king kong del discount. È una messa in discussione del nuovo modo di fare business nell´America che sta cercando di scrollarsi di dosso definitivamente i sindacati chiudendo e delocalizzando le linee di produzione, ma che scopre un nuovo e ancora più micidiale avversario: non più il mesto Cipputi in tuta ma la furiosa Cenerentola in grembiule.