di Anna Simone e Federica Giardini
(pubblicato su www.globalproject 8/1/2015)
Questo non è un comunicato, ma un modo per significare i tempi di ingiustizia che sentiamo inscritti nei nostri corpi, nelle nostre esperienze, nelle nostre pratiche e nelle nostre relazioni. Da tempo coltiviamo la presa di parola sul funzionamento di questo capitalismo che si traduce nelle nostre vite quotidiane attraverso l’antropologia prodotta dal neoliberismo. Siamo convinte che il femminismo sia un pensiero per tutte e tutti, un pensiero di civiltà che apre nuove prospettive, sia partendo da noi, sia ragionando su grande scala. Non ci basta più un pensiero di donne sulle donne, vogliamo parlare del mondo collocandoci nella realtà delle nostre vite e delle nostre esperienze. Proponiamo, quindi, una scrittura scandita in alcune tesi per avviare un percorso comune, un percorso che articoli la materialità di questo presente, per ricollocare i nostri desideri e i nostri bisogni, per una nuova misura del mondo, una nuova economia politica.
Sulla riproduzione
Assumiamo le attività di riproduzione come il paradigma dei tempi in cui viviamo. Per riproduzione non intendiamo la sola rigenerazione biologica, eterosessuale, della specie, bensì tutto il ciclo di attività che mettono e rimettono al mondo, e sul mercato, l’umano. Consideriamo dunque conclusa la fase della contrapposizione tra femminismo marxista o materialista e femminismo del simbolico. Il paradigma riproduttivo può dunque interpellare tutti i soggetti che si collocano al di fuori del quadro eterosessuale o che non assumono la prospettiva di genere. Il soggetto queer, come tutte noi, abita, dipende dalle relazioni, necessita delle condizioni materiali e dei mezzi per dire una vita degna, quando voglia nominare materialmente la sua esperienza.
Il paradigma riproduttivo si afferma in un’epoca postpatriarcale, nella sovversione delle categorie che hanno regolato il vivere umano in epoca moderna: natura-cultura, attività domestiche-lavoro, privato-pubblico, etica-politica, economico-sociale, inclusione-esclusione. Per riproduzione intendiamo dunque la generazione e rigenerazione fisica e mentale dell’umano nella sua primaria dimensione relazionale, tra famiglia e società, tra condotte individuali e collettive, tra attività necessarie incomprimibili e attività relazionalmente libere. Dai comitati di bioetica al telelavoro, dal ritorno del volontariato, fino alla società dei servizi, tutto ci parla della fine di quei confini.
Il paradigma riproduttivo non è né in alternativa, né complementare alla produzione, ne registra le metamorfosi e ne è un polo ineliminabile. Consideriamo la riproduzione il punto cieco della tradizione economica e politica della modernità occidentale. E’ su questo impensato che si sta ricostituendo la presa del capitalismo, ovvero la sperequazione, lo sfruttamento e l’ingiustizia. Il pensiero femminista ha strumenti ben collaudati per collocarsi su questo terreno e sviluppare un conflitto all’altezza delle trasformazioni del presente. Il paradigma riproduttivo svela come, di epoca in epoca, il confine tra produzione di beni e riproduzione dell’umano si sposti e ridefinisca quali sono le attività non qualificate (lavoro semplice), quali le attività necessarie alla sopravvivenza (lavoro necessario), quali le attività qualificate e dunque valorizzate, ricollocando così le aree di esercizio dello sfruttamento e dell’oppressione. Com’è possibile che oggi un’ora di traduzione dall’inglese sia pagata meno di un’ora di pulizie in casa altrui?
Sui dibattiti in corso
Il paradigma riproduttivo evidenzia come i dibattiti nordoccidentali sulla cura, non affrontando gli effetti economici su grande scala prodotti dal neoliberismo, non si confrontano con i criteri della valorizzazione e svalorizzazione di queste attività. “Prendersi cura del mondo” va preso alla lettera. Significa assumersi la cruda materialità della manutenzione del vivere; posizionarsi sulla grande scala nella quale viviamo; riappropriarsi delle misure per non automercificarci e per non mercificare l’altra, “la colf e la badante”; significa dunque generare e orientare le pratiche conflittuali volte a riappropriarsi delle misure del valore del vivere. Mibasta l’apprezzamento, una eventuale gratitudine, il riconoscimento e la fantasia di una promessa per il futuro prossimo, in ritorno di quel che ho fatto, quando nessuno si preoccupa di come pago l’affitto?
Il paradigma riproduttivo non coincide con la diagnosi della femminilizzazione della società, del mercato, del lavoro. E’ un paradigma che – oltre a indicare l’estensione a tutti i soggetti del carico delle attività di generazione continua dei corpi relazionali che siamo e in cui consistiamo – intende individuare, tra produzione e riproduzione, lo spostamento della linea del valore che di volta in volta ridefinisce cosa è lavoro non qualificato, lavoro necessario e lavoro valorizzato. Le retoriche sulla femminilizzazione del lavoro e della società sono solo la forma “gestionale”, antropologica, del neoliberismo, che ha già stabilito in altre sedi – da chi costruisce gli indicatori statistici o da chi elabora i criteri di valutazione nei rating o nell’erogazione di fondi comunitari e nazionali… – il quadro generale di criteri, priorità e finalità. Per il desiderio di chi sto svolgendo lavoro gratuito o mal pagato?
Il paradigma riproduttivo aumenta la capacità descrittiva di quel che è stato messo sotto il titolo di “lavoro cognitivo” o “lavoro immateriale”. Accogliamo positivamente il terreno comune creato dalla diagnosi dell’”egemonia del lavoro immateriale” e dalla diffusione del paradigma biopolitico, ma vogliamo una maggiore presa sulla materialità delle vite. Oltre alla formula della “messa a valore delle capacità linguistiche, relazionali, affettive”, ci dotiamo di strumenti più affilati per descrivere le attività non viste eppure necessarie e dunque lasciate ad altre, ad altri.
Il paradigma riproduttivo, mantenendo la tensione con le attività di produzione di beni, permette di far cadere la distinzione tra lavoro materiale e lavoro immateriale e di ritrovarla come distinzione tra attività rinaturalizzate, rese cioè invisibili e indicibili, e attività valorizzate, salariate, svalorizzate. Accogliere – lavoro complesso ma rinaturalizzato – è lasciato all’invisibile al pari dell’ovvietà del respiro, è richiesto come sovrappiù nella prestazione professionale o è già politica?
Sul valore
Nel venire meno della partizione tra attività domestiche e attività produttive, il paradigma riproduttivo ridefinisce tutto quel che andava sotto il titolo “lavoro”. Misura, valore, salario, tempo di vita, tempo produttivo, bisogno e consumo, virtù pubbliche e private, si sono disposte in una precisa organizzazione sociale, che non esiste più. Consideriamo il paradigma critico della “mercificazione” – il valore inteso come valore monetario attribuito a uno scambio ed esteso a relazioni che prima monetarie non erano – insufficiente per descrivere le trasformazioni del contemporaneo. L’attribuzione di valore e disvalore non si limita alla sola misura monetaria, al prezzo o al salario, ma implica una vasta gamma di tecniche di comunicazione e del sé che plasmano la nostra stessa percezione di cosa vale. Dal tremore all’incredulità di fronte alle procedure di selezione (concorsi, contest, colloquio di lavoro, valutazione permanente).
Contro l’eccesso soggettivo nel concepire lo sfruttamento e l’eccesso oggettivo-scientista dell’economico, contro la sussunzione del monetario nel sociale o viceversa, il paradigma riproduttivo richiede una nuova teoria del valore, che sia in grado di descrivere sia gli effetti di dominio, che distribuiscono degni e indegni, meritevoli e immeritevoli, sia la traduzione delle attività sociali in prezzi e salari. I valori delle nostre attività non riguardano solo il senso di sé e di quel che si fa, sono individuati da una dinamica retroattiva tra domanda-offerta e il più ampio andamento discorsivo e virtuale che la ricostituisce. Differenza, nel paradigma riproduttivo, è il nome del campo su cui si esercita la messa a valore, come anche la sua riappropriazione. Il voto, il rating non sono solo numeri, ma sono più dei loro effetti sui soggetti.
Che differenza corre tra una donna che cucina e uno chef? In questa differenza il paradigma riproduttivo individua le attività naturalizzate e dunque senza valore e le attività messe a mercato, anche simbolico e comunicativo, e dunque dotate di valore. Che differenza c’è tra una donna che cucina e una donna che va a servizio in casa altrui? In questa differenza, il paradigma riproduttivo individua l’intreccio tra valorizzazione e svalorizzazione, discorsiva e monetaria, dunque simbolica. Donna che cucina sta a precario come chef sta a opinionista, oppure donna di servizio sta a ricercatore a contratto o a dirigente di pubblica amministrazione come chef sta a procuratore finanziario.
Al salario e alla gratitudine preferiamo la restituzione. Il reddito garantito prevede un provvedimento monetario che è condizione necessaria ma non sufficiente. La restituzione – reddere – è un circuito simbolico-materiale, un circuito di riproduzione della vita degna, che non può esaurirsi nella possibilità di pagarsi quel che serve per sopravvivere. Essere parte di un circuito di reddito significa accedere, utilizzare e moltiplicare le condizioni del vivere. Voglio un salario o tutto quel che serveper un’esistenza gioiosa?
“La casalinga somiglia all’artigiano e quindi è meno suscettibile di rivoltarsi alla sua condizione”. Assumere il paradigma riproduttivo permette di portare a parola i soggetti che fanno corpo con le loro attività e dunque più suscettibili di aderire a criteri di valorizzazione eterodiretti; permette di individuare il crinale tra valorizzazione per il profitto altrui e pratiche e istituzioni di autovalorizzazione. Dalla finanza “etica” al reddito incondizionato, la posta in gioco è riappropriarsi non del valore, bensì dei criteri, e delle misure, di attribuzione del valore. Chi decide in cosa consiste sentirsi bene?
Sulle relazioni e le loro forme
Il paradigma riproduttivo rimette in questione la stessa libertà. Il neoliberismo si serve ma nasconde la dimensione necessaria e ineliminabile della interdipendenza, del legame, della cooperazione. Rende visibili solo le libertà che generano e rigenerano “individui” indipendenti, dotati di libero arbitrio, di libertà di scelta. L’occultamento avviene su almeno due piani: la libera scelta si esercita entro un quadro di opzioni stabilite altrove, che a loro volta non sono materia di scelta; la libertà di competere si esercita nella dipendenza estrema dal mercato, dalla sola dinamica domanda-offerta. Individui consumatori del segmento finale di produzione e individui competitivi ricattati dalla paura di cadere fuori, nello status abissale del bisognoso. Il paradigma riproduttivo punta alla riappropriazione della dipendenza, della interdipendenza e della relazione quale condizione della libertà. Dal mutualismo alla solidarietà autodeterminata.
Consideriamo l’estendersi degli “espulsi” e dei “bisognosi” come l’effetto della dinamica di valorizzazione-svalorizzazione di attività umane fondamentali. Gli effetti di questo respingimento nella sfera del quasi-politico, nella naturalità muta del bisogno, possono essere contenuti e/o governati solo con la violenza. Nel paradigma riproduttivo, che non separa fisico e mentale, violenza epistemologica e violenza poliziesca sono due aspetti di uno stesso processo di ridefinizione e ri(de)legittimazione di quel che si può considerare umano, dotato di diritti, politico. L’ottantenne sfrattata per fine locazione, è un soggetto abbietto, pericoloso, o soggetto di una nuova economia politica?
Se le attività riproduttive delle relazioni sono l’atmosfera che respiriamo e che ci viene sottratta, perché si discute della “fine della società”? Le attività riproduttive, quando portate a coincidenza con le attività monetizzate e sottoposte al valore di scambio, riformulano il legame sociale in rapporti individuali contrattualizzati e i diritti in contratti assicurativi sul rischio. Consideriamo una conferma la rilevanza strategica attribuita alla liberalizzazione dei servizi prevista dal TTIP (Transatlantic Trade Investment Partnership) e dal TISA (Trade in Services Agreement). Domani, curarsi corrisponderebbe a questa sequenza di atti:ricognizione dei centri sanitari aperti o chiusi a seguito di valutazione della loro virtuosità di bilancio, calcolo costi-benefici, valutazione rapporto qualità-prezzo.
Il paradigma riproduttivo interroga la cittadinanza e i suoi istituti, oggi che non è più fondata sul patto costituzionale e sulla divisione sessuale e nazionale del lavoro. In questo senso leggiamo le teorie della governamentalità: generazione e rigenerazione delle relazioni e delle risorse necessarie alle relazioni, in un quadro di finalità che non è nelle mani degli agenti delle attività riproduttive. Il passaggio dal cittadino-lavoratore al cittadino-consumatore-cliente indica il passaggio da un regime di Welfare, di esigibilità dei diritti sociali e fondamentali, a politiche sociali quale sistema di “gestione” del disagio sociale in cui, quali “clienti” subalterni e/o “bisognosi”, siamo privati della piena soggettività e autodeterminazione. Non le relazioni che prevedono la bellezza e l’uso del luogo in cui si vive insieme, ma il criterio della sicurezza e la stipula di un contratto assicurativo in caso di incidente.
Nel venire meno della partizione tra pubblico e privato, il paradigma riproduttivo si manifesta nell’estendersi della dimensione amministrativa in cui si inscrivono e a cui sono sottoposte le nostre vite. Le progressive riforme della Pubblica amministrazione vanno intese come estensione delle attività riproduttive a tutti e ciascuno. Nel paradigma riproduttivo-amministrativo i diritti sociali si trasformano in servizi, in prestazioni, in prodotto di attività che devono essere costantemente ripetute, individualmente e ben oltre le istituzioni pubblico-statuali: dalla previdenza e assistenza, all’istruzione, alle risorse sociali primarie. La scelta delle tariffedi acqua, luce, gas, comunicazione,come anchela ricerca, valutazione e accesso a casa, scuola…
Tra le principali attività della riproduzione includiamo il sistema dell’istruzione, della formazione e dell’educazione, quale ambito nuovamente strategico nella costruzione e orientamento del “capitale umano”. Troviamo conferma di questo nella priorità ed effettualità della riforma a livello europeo e nazionale dei diversi cicli di istruzione, che si nutrono di nuovi apparati di valutazione e selettività e che investono il “mercato” del lavoro tanto quanto la formazione. Ritorno al Giudizio universale e per giunta senza giustizia.
Tra i sintomi dell’instaurarsi di un regime amministrativo-gestionale-riproduttivo registriamo le espressioni “capitale umano”, “risorse umane”, “capitale sociale”, “knowledge economy”, “knowledge society”, ma anche “smart city” e “green economy”. Nell’epoca della “rigenerazione urbana”, il paradigma riproduttivo individua l’umano nel suo ciclo di attività vitali, tutte già politiche ma, diversamente dalla nozione di “biopolitica”, permette di cogliere le dinamiche di valorizzazione della dimensione non umana, evitando l’ipostatizzazione della natura o dell’ambiente in materia inerte offerta alla produzione, materiale o immateriale che sia. Abbiamo visto una politica capace di dare significato all’espressione “democrazia dell’acqua”.
Prendere parola femminista in questo quadro significa dunque ripensare tutto: l’economico, il culturale, il materiale-naturale, il sociale, il giuridico, il politico. Non si tratta di ambiti separati, bensì intrecciati all’interno di un processo di valorizzazione complessivo e complesso di cui occorre farsi carico. Non ci basta pensare le forme di liberazione dalle misure che instaurano lo sfruttamento, riteniamo dirimente individuare nuove misure, nuove forme regolative in grado di ridare valore alle nostre vite, qui e ora.
Parte delle questioni formulate sono oggetto di un lavoro condiviso con Eleonora De Majo, Gea Piccardi e Alessia Dro (fg).
di Riccardo Terzi
Intervento al convegno “Rappresentanza sindacale: la lezione dei Consigli e il futuro da contruire” organizzato da Associazione Pio Galli e FIOM nazionale (Lecco 30.01.2015)
La democrazia ha subìto uno strano destino: nata come l’irruzione delle energie vitali della società civile nello spazio della politica, sembra oggi capovolgersi nel suo opposto, in un rispetto solo formale e astratto delle regole e delle procedure. Da forza di cambiamento diviene forza di conservazione, e ciò è il segno evidente della sua decadenza e del suo svuotamento.
Tutta la storia della nostra modernità può essere letta come la dialettica mai del tutto ricomposta tra le due polarità della vita e della politica, della libertà e dell’ordine, del movimento dal basso e della regolazione dall’alto, e il tratto specificamente moderno di questa dialettica sta nel fatto che essa si svolge all’interno di un grande processo collettivo, nel quale è in gioco la dimensione di massa della società.
La grandezza e la tragedia del Novecento è nell’estrema radicalità di tutto questo movimento, con tutte le ambiguità e le complicità tra spinte democratiche e spinte autoritarie.
Massa e potere sono le due forze in campo, che si fronteggiano e si combinano nelle forme più svariate.
Oggi stiamo assistendo ad un processo di restaurazione dell’ordine politico, e non a caso è la governabilità, la manutenzione tecnica del sistema, l’unica bussola che viene tenuta.
E la democrazia stessa viene piegata a questa logica stabilizzatrice.
I partiti politici, nati come i canali di scorrimento dal sociale al politico, sono oggi gli strumenti di un intrappolamento, che impediscono, alla radice, l’esercizio della democrazia come pratica sociale di massa.
Vita e politica sono del tutto divaricate, incomunicanti.
Occorrerebbe un grande lavoro di mediazione, ricostruendo pazientemente i fili di una comunicazione tra la sfera sociale, con il suo insopprimibile pluralismo, e la sfera istituzionale, ma al contrario si lavora per una sistematica distruzione di questi fili, e tutto il disegno delle riforme istituzionali, questo grande mito retorico intorno al quale ruota il dibattito pubblico da oltre vent’anni, non è altro che il tentativo di una estrema concentrazione del potere, liberando finalmente il campo da tutta la rete dei poteri intermedi.
Non c’è dunque, come si vorrebbe far credere, nessun progetto di “liberazione” delle energie vitali della società, ma c’è solo un discorso retorico, con tutta la sua mitologia della velocità, del cambiamento e del coraggio, dietro il quale c’è solo la cruda logica della competizione per il potere.
La retorica consiste appunto in questa tecnica di rovesciamento dei significati, e per questo occorre un’operazione di bonifica del linguaggio, ed è un buon criterio quello indicato da Papa Francesco, per cui “dietro ogni eufemismo c’è un delitto”, il che vuol dire che dobbiamo liberarci di tutta la zavorra della corrente ipocrisia.
In questo contesto, nel mezzo di uno sconvolgimento sociale a cui la politica non sa offrire nessuna risposta, dobbiamo domandarci se abbia un senso, e quale, tutto il discorso concentrato sulla contrapposizione di politica e antipolitica, tutta quella rappresentazione delle cose che spinge ad una difesa delle istituzioni, così come sono, contro le ondate irrazionali delle varie forme di populismo.
A me sembra una chiave di lettura del tutto deviante.
Ciò che si dice antipolitica è quel groviglio vitale ed esistenziale che reclama di essere riconosciuto e rappresentato, e vedere in questo magma di sofferenza e di rifiuto solo il lato eversivo e distruttivo è l’errore tragico che stiamo compiendo, spingendo così ad una estrema contrapposizione le ragioni della politica e quelle della vita vissuta, con una spaccatura verticale che invade tutte le fibre più delicate del nostro organismo.
Mi sembra essenziale questo sguardo d’insieme sulla nostra condizione presente per chiarire qual è la vocazione del sindacato e quale il suo approccio al tema della democrazia.
La mia tesi di fondo è che il sindacato non abita nelle sfere della politica, ma sta tutto immerso nella materialità delle condizioni sociali, e per questo il suo rapporto con la politica è sempre un rapporto di sfida e di conflitto, e oggi è più che mai evidente che parliamo di due diversi mondi, ciascuno con la sua logica, e che pertanto non ci possono essere commistioni o sovrapposizioni.
La sfera d’azione del sindacato è quella dei mondi vitali nei quali prende forma il nostro essere come persone, dentro una determinata rete di relazioni sociali: il lavoro, la comunità, il territorio.
In questo, la rappresentanza sindacale si discosta radicalmente da quella politica, perché essa rappresenta non un punto di vista sulla realtà, ma la realtà stessa, non una opinione, o un’ideologia, ma una condizione, e per questo essa è per sua natura radicale, perché affonda nelle radici materiali della vita delle persone.
Tutto ciò richiede uno spostamento assai deciso del baricentro organizzativo dall’alto verso il basso, richiede cioè prossimità, vicinanza, continuo e reciproco interscambio tra il rappresentante e il rappresentato, in una logica che appare del tutto rovesciata rispetto alla verticalizzazione che è propria della politica.
Democrazia, per il sindacato, non è altro che questa aderenza alla realtà, questa capacità di rispecchiamento delle concrete condizioni di vita e di lavoro.
Qui non c’è nessuna scissione di vita e politica, ma c’è la vita collettiva che si autorganizza.
Il modello democratico ottimale resta quello dei consigli, dove il delegato è l’espressione diretta del gruppo omogeneo, e non c’è propriamente “delega”, ma rapporto fiduciario, affidamento, all’interno di una comune condizione.
Questa è stata la grande forza di quella stagione, perché si stabiliva una totale osmosi tra movimento e organizzazione, e la decisione non veniva dall’alto, o dall’esterno, ma dentro una comune pratica collettiva.
Penso che dobbiamo tendere ad avvicinarci il più possibile a questo modello, anche se le condizioni generali sono profondamente mutate, e soprattutto è cambiata la struttura produttiva, e vanno quindi necessariamente sperimentate nuove soluzioni.
Ma ciò che conta è la logica del sistema: se è un sistema incardinato sui lavoratori, o sull’organizzazione, se al centro sta la rappresentanza sociale o viceversa il pluralismo delle appartenenze politico-organizzative.
Le Rsu sono oggi a cavallo tra queste due diverse logiche, ma nulla impedisce che la Cgil, anche in modo unilaterale, scelga per una opzione di tipo “consiliare” ad esempio con primarie aperte a tutti i lavoratori per la scelta dei propri candidati, e con un investimento totale di fiducia nel ruolo contrattuale delle rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro.
I punti più controversi del Protocollo unitario possono così essere, almeno in parte, aggirati con una dichiarazione di intenti che ci impegna a garantire e rispettare il carattere democratico di tutto il sistema.
Ma, al di là degli aspetti formali, ciò che conta è la chiara percezione della drammatica crisi sociale e democratica che si è aperta, nella quale tutte le domande di partecipazione non trovano sbocco e rischiano quindi di implodere, e di produrre solo un accumulo impotente di rabbia e di estraneazione.
Anche il sindacato è messo direttamente in gioco, e non può eludere il tema di una sua radicale riforma e democratizzazione. Come, con quale percorso, con quali innovazioni?
Nel sindacato convivono sempre due momenti, quello della rappresentanza democratica, e quello della stabilità organizzativa, il suo essere movimento e il suo essere istituzione.
Ma ad un certo punto il peso della struttura burocratica rischia di essere il fattore dominante, dando vita ad una struttura verticalizzata e gerarchica che si frappone ad ogni serio tentativo di innovazione e di sperimentazione. Accade così che la solidità della struttura organizzativa cessa di essere un punto di forza, di tenuta, e diviene un fattore di inerzia che deve essere superato.
Io credo che ci troviamo esattamente in questo passaggio.
Possiamo allora lavorare sulla rete democratica esistente, sui delegati nelle Rsu, e farne il centro di un nuovo tipo di equilibrio, affidando a questa rete le scelte strategiche fondamentali e anche un ruolo primario nella selezione dei gruppi dirigenti, ai diversi livelli.
Le figure di vertice, di categoria o confederali, anziché essere il risultato delle mediazioni inter-burocratiche, potrebbero essere legittimate da una investitura democratica che viene direttamente dalla rete dei delegati.
Naturalmente, occorre anche costruire nuove forme di rappresentanza nel territorio, per i pensionati, per l’area del lavoro precario, per le piccole imprese. E occorre soprattutto un sistema di governo che sia il più possibile decentrato e articolato, senza inseguire il miraggio della leadership carismatica, la quale produce, come dice Max Weber, una sorta di “proletarizzazione spirituale”.
In ogni caso, mi sembra indispensabile una nuova ventata democratica, alimentata non dallo spirito gregario, ma dalla partecipazione consapevole, per portare alla ribalta una nuova generazione di quadri dirigenti, se vogliamo scongiurare una possibile prospettiva di declino. Non basta dire che le regole ci sono, che le procedure congressuali sono rispettate, che migliaia di iscritti sono coinvolti nel processo decisionale, perché è proprio questo attuale modello che lascia aperto un vuoto e lascia irrisolti i nodi di fondo della nostra legittimazione democratica. La prossima Conferenza di Organizzazione può essere una occasione per discuterne. Ma la discussione, per essere davvero efficace, deve andare alla radice del problema. In un mondo che cambia così velocemente e drammaticamente non possiamo fermarci a metà strada.
di Lia Cigarini
Intervento al convegno “Rappresentanza sindacale: la lezione dei Consigli e il futuro da contruire” organizzato da Associazione Pio Galli e FIOM nazionale (Lecco 30.01.2015)
Voglio precisare che qui esporrò il pensiero elaborato sul lavoro, sul sindacato e sulla delega da un gruppo costituito più di vent’anni fa, che comprendeva donne della Libreria delle donne di Milano e sindacaliste, sia funzionarie che delegate. Scopo del gruppo era quello di ascoltare ed elaborare l’esperienza lavorativa delle donne entrate in massa nel mercato del lavoro a partire dagli anni ’80.
Voglio anche dire che questo testo in particolare è stato pensato e scritto insieme a Giordana Masotto.
Non parlerò di donne né come categoria né come genere. Parlerò di soggetti politici – donne e uomini – uno dei problemi chiave che oggi abbiamo di fronte.
Lo scenario della fabbrica dal 69/70 è ben noto: movimenti e sindacato si contendono lo spazio della fabbrica e del lavoro. I consigli dei delegati sono stati lo strumento con cui il sindacato ha saputo misurarsi con la grande partecipazione di stampo movimentista di quegli anni. Non si è arroccato in difesa, ma ha corso dei rischi, riconoscendo la forza di quei movimenti e di quella partecipazione.
A mio parere, l’elemento simbolico che più caratterizza l’esperienza dei consigli è la scheda bianca, cioè una scheda senza alcun nominativo indicato. Il delegato eletto, quindi, è espressione diretta del gruppo di persone con cui lavora, ne è parte (gruppo omogeneo). Questo simbolo si è perso: anche nell’attuale progetto di legge Fiom ci sono liste di nomi proposte dalle organizzazioni sindacali. Senza entrare qui nel merito dell’evoluzione – o sarebbe meglio dire, involuzione – dei consigli, mi preme solo sottolineare il ben noto passaggio ai comitati esecutivi per evidenziare un fatto illuminante, una spia del conflitto tra i sessi non dichiarato, accaduto credo alla Siemens di Milano: lì molte donne erano state delegate dai reparti, tuttavia, nel comitato esecutivo non ce n’era più neppure una.
In modo insolito in questi convegni, io vi disegnerò ora un secondo scenario a partire dal recente film dei fratelli Dardenne “Due giorni una notte” Sandra, la protagonista, ha un marito, due figli e un lavoro presso una piccola azienda di pannelli solari. Sta uscendo da una brutta depressione. Proprio per questo Sandra sta perdendo il suo lavoro, grazie a un tipico ricatto dei giorni nostri: o la borsa (un bonus da mille euro per i colleghi) o la vita (il posto di lavoro per lei). Sandra ha un sabato/domenica di tempo per convincere compagne/i di lavoro a non cedere al ricatto: nella votazione del lunedì si deciderà definitivamente la sua sorte.
Sandra va a parlare ad una ad uno con i colleghi di lavoro. Va nelle loro case. Poi arriva il lunedì e la votazione. Perde il posto. Eppure, ora che è tutto finito, tutto comincia. Sandra ne esce forte perché nelle macerie dei diritti e nella nuova capacità di ricatto dei padroni, agisce in prima persona, si misura con le vite intere degli altri. Ha scoperto le persone in carne ed ossa che sono i colleghi, si è misurata con la loro irriducibile singolarità. Ha immaginato di poter agire politica in prima persona e l’ha fatto. Fragile com’è ha immaginato di poter cambiare la realtà. È questo che l’ha trasformata. La politica e la vita sono tutte qua.
Sandra è diventata forte perché è diventata un soggetto consapevole. Non c’è delega possibile oggi al diventare soggetti politici. Questa è la nuova sfida che ha di fronte il sindacato: misurarsi con i nuovi soggetti del postfordismo senza nostalgie, senza rimpianti, ma cogliendone le enormi potenzialità. Oltre l’individualismo, l’isolamento, le fragilità.
Questo abbiamo cercato di fare in questi anni come gruppo lavoro della Libreria di Milano. Dando vita – insieme ad altre e altri – a uno spazio pubblico di confronto: l’Agorà del lavoro di Milano. Una piazza pensante che vuole ripensare l’economia e il lavoro, tutto il lavoro necessario per vivere, a partire dall’esperienza complessa che ne hanno le donne. Certo, abbiamo il vantaggio di sapere – attraverso la presa di coscienza, la pratica che ha inventato il movimento delle donne – che la consapevolezza e la libertà si costituiscono a partire da sé, dalla propria esperienza messa in comune. E ci appare sempre più chiaro che non ci sono più scorciatoie a questo percorso.
Attraverso questa pratica abbiamo capito alcune cose sui nuovi soggetti politici. Ne voglio evidenziare due, fondamentali.
I nuovi soggetti sono donne e uomini. Invece il ‘900 ha appiattito le donne sul lavoratore maschio. Evitando di affrontare una questione: la divisione sessuale del lavoro. O meglio, immaginando che si sarebbe risolta automaticamente con l’emancipazione delle donne. Invece, le lotte per il salario familiare, le tutele per l’occupazione femminile, il sistema di welfare centrato sulla figura del capofamiglia hanno contribuito a ribadire la complementarietà del sesso femminile rispetto al maschile.
Dopo mezzo secolo di incremento della partecipazione femminile al lavoro retribuito, e dopo diversi interventi normativi per la parità e contro le discriminazioni, il tema più generale della divisione sessuale del lavoro continua a riproporsi come campo di confronto aperto tra uomini e donne, fino a rimettere in questione alla radice la separazione simbolica, istituzionale e normativa tra “lavoro produttivo” e “riproduttivo” tra lavoro per il mercato e lavoro domestico e di cura.
Noi dicevamo che bisogna ridiscutere questa separazione. Ci siamo riuscite: la maternità è oggi nel mercato e di conseguenza è saltata quella separazione. Adesso è ora di riconoscere nessi, interdipendenze e ordine di priorità tra queste diverse componenti del lavoro umano; sosteniamo che la regolazione dell’uno non può avvenire senza ridiscussione dell’altro; non vogliamo più sentir parlare di lavoro, tempi e organizzazione del lavoro, welfare e crescita – e nemmeno di lotte dei lavoratori – senza riconoscere che il lavoro di riproduzione e manutenzione della esistenza umana è componente strutturale di tutto il lavoro necessario per vivere. Questo lavoro non può più essere concepito come un insieme di attività residuali, tenute fuori dalla storia, dall’economia e dal diritto, affidate alla sola benevolenza femminile o alla sola contrattazione tra i singoli. Una responsabilità che rende le donne garanti in ultima istanza della qualità della vita per tutti, nella quotidianità e nel corso di tutta l’esistenza.
Oggi la doppia competenza delle donne cambia potenzialmente di segno alla – non nuova di per sé – messa al lavoro delle donne e getta le basi per un’altra idea di lavoro e di economia del vivere per tutti: è quello che abbiamo chiamato Primum vivere anche nella crisi. Si tratta dunque di riconoscere che non è più possibile pensare di modificare i rapporti di produzione – e i rapporti sociali che ne derivano – senza pensarli insieme a quelli di riproduzione, e senza ripensarli entrambi alla luce della divisione sessuale del lavoro che li sottende.
Solo se accettiamo questa complessità del concetto ( e della materialità) del lavoro sociale necessario nelle società contemporanee – e solo se accettiamo senza troppa paura la conflittualità che può derivarne sia tra uomini e donne sia tra capitale e lavoro – possiamo discutere di lavoro oggi, di forme e azioni politiche, di istituti normativi. Solo se assumiamo questo inedito – storicamente – punto di vista in tutta la sua valenza politica siamo in grado di fare spazio tra le macerie post fordiste e di (ri)metterci in gioco, donne e uomini, lavoratrici e lavoratori.
Una nota a margine su questo punto.
Siamo in relazione con molte sindacaliste presenti nell’Agorà del lavoro soprattutto quelle di Brescia, Reggio Emilia, Pesaro e alcune di Milano sia funzionarie che delegate. Dalla loro esperienza cresce la necessità urgente di fare un bilancio della presenza delle donne nei sindacati (oltre che nei partiti e nelle istituzioni). Molte dicono che le quote non hanno aiutato. Anzi, unendosi alla ideologia della conciliazione, sono state il bromuro che ha spento la capacità di portare il conflitto per modificare nella sostanza il pensiero e la pratica sindacale e politica. Lo dicoco chiaramente Michela Spera e Laura Spezia in un articolo su Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne (inserto Pausa lavoro): negli anni ‘70 e inizio ‘80 c’è stata un’esperienza nel sindacato che si caratterizzava per un forte intreccio tra femminismo e lavoro che puntava a costruire una soggettività politica delle donne nel sindacato. Secondo molte sindacaliste riesci ad agire il conflitto per cambiare le cose anche all’interno del sindacato se hai una pratica politica in autonomia. A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 invece, è prevalsa l’omologazione e così è iniziata una lunga battaglia insensata sulle quote e le norme antidiscriminatorie. Questo non ha risolto e non risolve la questione fondamentale per le donne nel sindacato: affermare il punto di vista delle donne per operare modifiche nel lavoro e nella società.
Mettere a fuoco la divisione sessuale del lavoro ci porta al secondo aspetto fondamentale dei nuovi soggetti.
Nei nuovi soggetti lavoro e vita si intrecciano in forme e misure inedite nella storia: sono soggetti in carne ed ossa che non possono e non vogliono più dividere tempo di vita e tempo di lavoro, bisogni, necessità, e desideri.
Vogliamo lasciare che tutto ciò sia colonizzato dal neoliberismo onnivoro? Che l’abbia vinta il biocapitalismo nel suo intento di mettere al lavoro e trarre profitto dalle vite intere?
Molte donne e uomini sono convinti che ci sia una strada di libertà. E comunque da qui non si torna indietro. Sono intrecci complessi ma inevitabili se vogliamo raccogliere la sfida del presente. Ad esempio, i nuovi soggetti, soprattutto le donne, sono sensibili al tempo di lavoro e al senso del lavoro cioè a mettere in discussione l’organizzazione del lavoro, spesso più che al denaro. È un dato interessante, che però si intreccia con la piaga forse più grave dei nostri giorni, quella del lavoro non pagato (emerge benissimo in occasione di Expo). E cioè anche quando c’è il lavoro, è pagato pochissimo. Anche qui si intrecciano esperienze e desideri complessi, storie progetti e speranze che non si possono appiattire in un obbiettivo univoco.
Penso quindi che il sindacato debba chiedersi che cos’è il lavoro e come creare lavoro, cioè debba decisamente entrare nel campo dell’economia e cercare di ridare un senso al lavoro.
Giorgio Lunghini in un articolo pubblicato su Il Manifesto (15.06.2013) si avvicina al punto di vista delle donne sul lavoro quando afferma:
“Non si tratta di uscire dal capitalismo ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano (…) una terra abitata dalle tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto (…) la terra del lavoro concreto, del valore d’uso (…) principalmente lavori di cura in senso lato delle persone e della natura”.
Apprezzo il testo di Lunghini non solo per quello che dice sui lavori concreti, ma anche perché inserisce il lavoro di riproduzione e manutenzione dell’esistenza umana e della natura in un quadro economico più generale. Infatti, sottolinea:
“I valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici (…) poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto”.
Sottolineo però, un po’ polemicamente, che la terra di nessuno di cui parla Lunghini è in realtà una terra che le donne conoscono bene per averla percorsa palmo a palmo coltivata e arricchita da secoli.
Invece, anche i più acuti osservatori delle dinamiche sociali, economiche e politiche, come Lunghini, si ostinano a non registrare a livello di paradigmi cognitivi l’esperienza umana delle donne che viene sussunta nel maschile: la sussunzione delle intere vite non è evidentemente appannaggio solo del neoliberismo.
I nuovi soggetti, in cui si intrecciano così radicalmente vita e lavoro, tendono a non delegare a un partito o a un sindacato, ma sono disponibili a partecipare in misura mobile e variabile alle lotte del lavoro. Questo mette in discussione, e in difficoltà, i delegati di oggi che si ritrovano a fare un lavoro tra il consulente, il confessore, l’assistente sociale, la psicologa.
Molte sindacaliste in Agorà hanno detto che spesso sono le donne a fare questo lavoro di ascolto individuale, ma sono poi soprattutto gli uomini a essere in maggioranza nelle commissioni trattanti che finiscono così per essere separate da questo lavoro politico di base.
Molte donne nel sindacato vorrebbero scardinare questa separazione, cioè, vorrebbero rendere evidente e fare accettare il nesso tra queste due parti del lavoro sindacale: cioè tenere insieme contrattazione individuale e contratti generali, centralità dell’esperienza della singola/o che lavora e forza per tutte/i.
Avere donne in posizioni dirigenti e avere i numeri – tante donne – a mio parere non garantisce neppure nel sindacato. Bisogna elaborare con più precisione il nuovo paradigma conoscitivo di tutto il lavoro necessario per vivere, essere dirompenti e portare avanti i propri temi.
Non si tratta più dunque di ripensare il soggetto politico solo come soggetto collettivo. Si tratta di ripensare una conflittualità e un agire politico a misura dei nuovi soggetti. Nella consapevolezza che le vite di tutti sono inesorabilmente singolari e che tutti i pezzi delle nostre vite sono connessi. È tempo di riprendere in mano l’iniziativa nei luoghi di lavoro e anche nei lavori che non hanno luogo (autonomi, parasubordinati, consulenti del terziario avanzato, ecc).
Il lavoro è frammentato e, per un’intera generazione – quella tra i 20 e i 35 – così precario da non avere un senso centrale nella loro vita, pur occupandola. Mi chiedo allora se il sindacato riuscirà a misurarsi – come ha fatto ai tempi dei consigli – con questa realtà che è cambiata così velocemente. Va bene dare autorità ai delegati e alle loro decisioni. Ma perché il sindacato non tenta un confronto, creando luoghi fisici dove incontrarsi con tutte le figure, (informatici, consulenti del terziario, pubblicitari, ricercatori, traduttori) – sia donne che uomini – che lavorano intorno e per l’impresa, piccola media e grande? Un tempo c’erano le leghe. È probabile che oggi non siano più proponibili. L’Agorà del lavoro di Milano era ed è un tentativo in questo senso. La grande forza che il sindacato ha ancora nella nostra regione può nventare altre forme, magari più incisive.
Concludendo. Mi sembra che la profezia di Simone Weil sia attuale: la giustizia sociale, una buona vita per tutti e la libertà per lavoratrici e lavoratori o saranno opera dei lavoratori stessi o non saranno.
La rappresentanza delle organizzazioni – diceva lei e io lo condivido – è un problema importante ma secondario rispetto alla presa di coscienza dei deleganti, i soggetti che vivono e lavorano.
(a proposito del film dei Dardenne)
di Giordana Masotto
Lei si chiama Sandra. Un corpo magro, un viso intenso che non può permettersi sorrisi. Sta uscendo da una brutta depressione. Anzi, possiamo immaginare che proprio la sua malattia l’abbia trasformata nella candidata ideale al licenziamento. Si vede che è insieme molto fragile e molto forte, come capita spesso alle donne. Deve stare concentrata su di sé per non perdersi, perché il momento è terribile. Le voci dei suoi bambini le arrivano a fatica. Più vicino arriva la voce del marito, carica di intelligenza amorosa: lui sostiene e lascia andare. Ed è quello che ci vuole.
Sandra ha un sabato/domenica di tempo per convincere compagni/e di lavoro: nella votazione del lunedì si deciderà la sua sorte. Su tutti aleggia ambiguo e potente il ricatto: o la borsa (il bonus per chi resta) o la vita (il posto di lavoro per lei).
Noi guardiamo il film e camminiamo con Sandra, impaurite e decise, aggrappate alla nostra tracolla, suoniamo campanelli, irrompiamo nelle vite degli altri, parliamo e ascoltiamo, dosiamo parole e silenzi, camminiamo ancora, moriamo e speriamo con lei. Non vogliamo chiedere, ricattare, convincere. Vogliamo solo poter dire: io ci sono.
Poi arriva lunedì e la votazione. La realtà è lì sotto gli occhi e non è bella di questi tempi.
Eppure, ora che tutto è finito, tutto incomincia. Qualcosa è cambiato: il passo di Sandra che va, è ancora deciso ma si è fatto solare, sorride perfino. Ora Sandra è forte, tanto da dire no a un ennesimo odiosissimo ricatto.
Commentando questo film tutti parlano di solidarietà perduta e ritrovata. Da riscoprire oggi per ricominciare ad agire politica. Mi pare stretta questa parola, astratta.
Sandra diventa forte – e quindi anche solidale – perché si è messa in gioco per due giorni e una notte, l’ha fatto di persona senza delegare, correndo rischi gravi (e infatti cade anche rovinosamente). Ha scoperto le persone in carne e ossa che sono i colleghi, si è misurata con la loro irriducibile singolarità. Ha immaginato di poter agire politica in prima persona e l’ha fatto. Fragile com’è, ha immaginato di poter cambiare il mondo. È questo che l’ha trasformata. La politica e la vita son tutte qua.
Segnalo questa recente sentenza della Cassazione così come viene segnalata e “tradotta” nella rubrica “Fronte / Verso” a cura di www.studiolegalealesso.it che si propone di rendere comprensibile il diritto oltre i rituali linguistici specialistici. Mi preme però sottolineare che la (brutta) espressione “il marito che non può aiutare la moglie nelle faccende di casa” non mi pare sia contenuta nella sentenza. Aiutare o non aiutare la donna infatti dà per scontato che il lavoro domestico sia per definizione femminile. Forse allora più correttamente si sarebbe dovuto scrivere “il marito che non può svolgere lavoro domestico…” (giordana masotto)
Per la Cassazione il lavoro domestico non è prerogativa delle donne : il marito che non può aiutare la moglie nelle faccende di casa, per lesioni derivanti da un incidente stradale, ha diritto al risarcimento.
Una coppia di coniugi viene coinvolta in un incidente stradale. Il marito riporta gravi lesioni, che lo costringono ad una lunga assenza dal lavoro, dal novembre 2001 al settembre 2003, periodo durante il quale viene assistito dalla moglie.
Si rivolgono entrambi al Tribunale di Venezia per ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti, richiedendo anche la liquidazione del danno derivante dall’incapacità di svolgere le attività domestiche: il marito a causa delle lesioni subite, la moglie poiché costretta ad accudire il coniuge durante il lungo periodo di inabilità.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Venezia, pur accogliendo in parte le domande dei coniugi, respingono quella relativa all’incapacità lavorativa domestica del marito.
La Corte d’ Appello, nel motivare il rigetto della domanda, afferma che “non rientra nell’ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo”.
I coniugi impugnano la decisione davanti alla Corte di Cassazione che accoglie il loro ricorso sulla base dei seguenti motivi:
– la motivazione espressa dalla Corte d’Appello è illogica e gravemente erronea, dato che non è certo “madre natura” a stabilire la divisione delle incombenze domestiche tra i coniugi in base all’appartenenza al sesso maschile o femminile, ma una loro libera decisione.
– l’affermazione della Corte d’Appello è inoltre contraria al principio di uguaglianza dei coniugi, i quali sono tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia in modo paritario. Pertanto, a meno che tra i coniugi non siano intervenuti accordi differenti, si deve presumere che entrambi si occupino delle incombenze domestiche;
– il lavoro domestico è un’attività che ha un proprio valore economico, non poterlo svolgere costituisce un danno che merita di essere risarcito.
In applicazione di tali principi, la Corte ha quindi affermato che il marito ferito in un incidente stradale ha diritto al risarcimento per non aver potuto aiutare la moglie nelle faccende domestiche.
Relazione di Giordana Masotto al convegno Acli Cisl dal titolo: “Come il cambiamento del lavoro e la crisi hanno inciso nel mutamento in atto di identità femminile e maschile e nei rapporti tra i generi”, Milano 23/5/2014
Un’osservazione preliminare sul titolo. Sul cambiamento delle donne e degli uomini ha inciso soprattutto la rivolta delle donne e un movimento che da quarant’anni non ha mai smesso di esserci e di pensare. Il conflitto è stato aperto dalle donne con un atto di separazione che è stata la rottura della segregazione identitaria (non parliamo di identità che portano solo disastri, parliamo di soggetti e di differenza). Le donne hanno agito politica in casa e sono uscite di casa. Nel frattempo il lavoro stava cambiando e siamo passati dal fordismo al postfordismo. Ma è quel movimento politico delle donne che ci fa dire: le donne sono le naturali abitanti del postfordismo; il lavoro delle donne – cioè tutto il lavoro necessario per vivere, è il lavoro del futuro; e il sapere delle donne sul lavoro e sull’economia è pensiero buono per tutti, donne e uomini. È l’irriducibile complessità delle donne che mette le basi di una soggettività politica che poi tutti stiamo cercando perché “il soggetto politico” del Novecento non c’è più, è finito.
Molte cose stanno cambiando per le donne, per gli uomini e tra di loro. Questo è un fatto. C’è bisogno di relazioni nuove e questo viene anche enunciato con forza e consapevolezza.
Ma l’altro fatto è che questi importanti cambiamenti vengono trattati perlopiù in un’area che riguarda il privato, il costume, il comportamento. E i comportamenti – anche quando sono esposti allo sguardo di tutti, commentati e discussi – rimangono privati.
Secondo me è questo il problema di cui dovremmo discutere.
Quando una quarantina di anni fa le donne hanno incominciato a dire che il privato è politico intendevano provocare un terremoto di vasta portata che lesionasse non solo le case private (dunque relazioni familiari), ma anche le strade, le fabbriche e gli uffici, i palazzi delle istituzioni e del potere. Il femminismo in questi 40 anni, ha continuato, nelle sue varie realtà, a portare avanti quel ribaltamento. Nel Gruppo lavoro abbiamo espresso quel ribaltamento con l’espressione Primum vivere che significa in primo luogo ripartire dai soggetti, dai loro bisogni e desideri. Metterli al centro. E questo vale per tutti, donne e uomini. La libertà delle donne e la rottura della divisione sessuale del lavoro cambiano priorità e paradigmi in tutti i campi: lavoro economia politica.
Dunque la domanda che mi faccio e giro alle presenti e ai presenti – ribaltando il titolo di questo incontro – è: quanto i cambiamenti che stanno avvenendo nella vita di ogni giorno, nelle relazioni donna/uomo, nell’uso del tempo, nell’immaginario, cambiano il nostro modo di agire politica? Quanto siamo disposti/e – a partire dalle nostre personali esperienze, liberandole dalla gabbia del privato e del costume – a mettere in discussione il discorso politico sul lavoro, le pratiche sindacali, le parole che usiamo?
Perché quei cambiamenti importanti con cui donne e uomini cercano di migliorare ogni giorno la qualità della loro vita si traducono così poco in un bisogno – un tempo si sarebbe detto collettivo – di connettersi ad altri, di contaminare, di cambiare le regole del gioco, di aprire conflitti e di nominarli? Insomma di fare politica?
Questa è la domanda secondo me. Altrimenti non cambia l’essenziale, quello che alcune di noi chiamano con una parola un po’ ostica il simbolico. Chiamiamolo il senso, l’interpretazione, il valore che si dà alle azioni, ai comportamenti.
Non cambia perché la realtà è potente e dà ai nostri gesti il suo senso: i sensi oggi dominanti sono il mito dell’autosufficienza dell’individuo e il soddisfacimento (che è poi consumo) dei desideri (non il desiderio come spinta verso ciò che è altro da sé). Proprio perché la realtà è potente, non basta registrare il cambio di comportamenti per cambiare la realtà e il suo senso. Certo: tra i sessi, grazie alla maggiore libertà e autonomia delle donne, c’è più collaborazione, condivisione, riconoscimento. Sicuramente nel privato. Ma non basta, se non trasforma il pensiero e la pratica politica. Sul lavoro, nell’economia, è necessario aprire un conflitto tra i sessi. Che non vuol dire ovviamente farsi la guerra: vuol dire far emergere la differenza dei soggetti sessuati, altrimenti non c’è politica.
E poi c’è un altro aspetto che vedo delinearsi.
Il maschio in crisi emerge come dato sociale nelle statistiche dei suicidi, dell’alcolismo, della criminalità, dell’abbandono scolastico. Descritti come disadattati in stato adolescenziale permanente, bambocci egocentrici instabili lagnosi, alle prese con i sempre vivi stereotipi del macho forte coraggioso e audace che ormai gli pesano addosso come macigni.
E allora che si fa? Ci si fa prendere per mano da coetanee forti che sanno reggere meglio lo stato di stress permanente, che si fanno venire le idee chiare anche se la situazione è confusa. Vedo insomma rispuntare la fatina operosa in versione agile e multitasking, flessibile e competente.
Il problema sono gli uomini, in crisi forse, ma ben aggrappati ai loro stereotipi (che nel corso dei secoli gli hanno dato tante soddisfazioni).
È un dato confermato dalle ricerche europee. Per anni la parola magica è stata conciliazione. Questo doveva essere questo l’anno europeo della conciliazione, ma è saltato con la scusa delle elezioni.
Conciliazione. Parola verso la quale sono estremamente critica perché rimanda a questo concetto: come far lavorare di più le donne nel mercato senza che vada a catafascio quel fondamentale lavoro del vivere (la manutenzione dell’esistenza) fornito per lo più dalle donne stesse, che garantisce la vita di tutti e che impegna complessivamente un numero di ore lavorate superiore a quelle che producono il Pil.
Bilancio delle politiche di conciliazione: una ricerca recente della commissione europea sull’europa 27 + Norvegia e Svizzera dice che le donne hanno aumentato il loro inserimento in ambiti professionali male dominated, mentre gli uomini non hanno di fatto compiuto il processo inverso. Sono, infatti, pochi quelli occupati nei settori dell’assistenza sociale, dell’infanzia, dell’insegnamento, della cura e assistenza agli anziani. Anche se il divario tra donne e uomini nella cura dei figli e degli anziani e nei lavori domestici si è ridotto nel corso degli ultimi 50 anni, resta prevalentemente una responsabilità delle donne. Nella media dei Paesi dell’UE27, oltre a Norvegia e Svizzera, le ore settimanali di lavoro domestico non retribuito nella classe di età 25-39 anni corrispondono a 9,2 per gli uomini e 31,8 per le donne, mentre nella classe successiva (40-54 anni) i valori scendono, rispettivamente, a 8,6 e 26,9 (Eurostat, 2009) e confermano il divario. Inoltre, a fronte in Europa di un maggior numero di ore retribuite per gli uomini, le donne lavorano un numero complessivo di ore superiore se si include il lavoro domestico.
Ci si sta rendendo conto che il problema è più complesso e di non facile soluzione.
Le ricerche concludono che gli stereotipi maschili sono più forti anche delle azioni positive come le norme sui congedi parentali (in Finlandia gli uomini usano il 6% dei congedi parentali, nei Paesi Bassi si usa molto il partime, ma lo usano le donne e non gli uomini). Per abbattere gli stereotipi maschili alcuni Paesi, tra i quali la Norvegia, hanno adottato misure dirette ai giovani. Occorre, in sintesi, concentrarsi sugli uomini, sin dalla più giovane età.
Ci si sta rendendo conto, finalmente, che la conciliazione non funziona perché il problema è più profondo. In effetti in Eu c’è stato uno spostamento dal concetto obsoleto di conciliazione come politica di genere (cioè che riguarda le donne) al concetto di work/life balance, equilibrio vita/lavoro. Noi diciamo primum vivere, ma è già un passo avanti.
Dell’equilibrio vita/lavoro oggi si dice – come se fosse un ulteriore passo avanti – che è un concetto neutro, perché rivolto a tutti e tutte. Non mi meraviglia che si parli di concetto neutro: politicamente il neutro è l’altra faccia del genere. L’idea è di superare le diversità di genere per arrivare alla persona, un concetto che dovrebbe riassorbire in sé uomini e donne. In sostanza stiamo passando da un maschile spacciato per secoli come universale, a un’idea neutra di persona, il vortice anonimo e incorporeo dell’individuo assoluto.
La crisi ormai evidente delle politiche di genere apre la porta a questo nuovo neutralismo che mette in ombra quello che dicevo prima: la debolezza e la permanenza degli stereotipi maschili, una delega strisciante alle donne. Delega che mi pare di vedere anche negli uomini più consapevoli quando si tratta di assumersi la responsabilità del conflitto politico.
Vedo con timore un universo spaccato in due: da una parte si tengono strette le redini di un potere, di un’organizzazione del lavoro e del mercato, che si lascia ben poco mettere in discussione anche quando apre a nuovi equilibri di genere. Dall’altra si delega alle donne il compito di pensare/sperimentare il nuovo, rigovernare il mondo, moralizzare, dare una ripulita.
Quello che è certo è che quello che chiedono – donne e uomini in carne e ossa– è una migliore qualità della vita.
Per leggere dentro questa richiesta, per cercare risposte è necessario guardare bene, con uno sguardo non neutrale, l’organizzazione del lavoro e del non lavoro, il peso esagerato dell’economia. La differenza tra i sessi fornisce questo sguardo: non si tratta infatti di definire diversamente delle identità sessuali femminili e maschili e neppure di cancellarle. Ma di fare posto ai soggetti consapevolmente sessuati che possono essere le donne e gli uomini di oggi. Sessuati vuol dire disponibili a mettersi in relazione con la irriducibile differenza dell’altro/a.
Non si tratta di condividere e collaborare di più. Si tratta di desiderare la relazione con la diversità dell’altro e dell’altra. Di riconoscerla prima di tutto. Come diceva una donna: si può restare con un uomo che dice di amarti ma non vuole conoscerti? È così anche in politica, in economia, nel lavoro.
È questa la vera rivoluzione delle donne: un nuovo paradigma relazionale coniugato a tutti i livelli del vivere umano, dall’organizzazione del lavoro alle forme della politica e della democrazia.
Certo è un percorso appena agli inizi. Ma la posta in gioco è questa. Niente di meno.
Non illudiamoci di poter far leva sulle donne per rinnovare un po’ se non siamo disposti/e a riconoscere che c’è un conflitto inedito da portare nel lavoro. Altrimenti le donne fanno qualcosa finché è nella loro misura, e poi se ne vanno, cambiano. Le donne di oggi sono coerenti non fedeli!
Alcune donne questo conflitto lo portano. Noi le abbiamo incontrate nell’Agorà del lavoro, una realtà nata tre anni fa per volontà del Gruppo lavoro della libreria delle donne insieme ad altri gruppi e singole donne e uomini di Milano che hanno a cuore questi cambiamenti nel lavoro. Incontri aperti, una volta al mese, per parlare di come cambia il lavoro delle donne e degli uomini tenendo come timone il fatto che l’irruzione in massa delle donne nel lavoro per il mercato cambia il lavoro per tutti.
In questi incontri, ad esempio, è accaduto di recente che abbiamo avuto come ospite Ina Praetorius. Ina – una vera rompiscatole postpatriarcale – è una pensatrice femminista, autrice di vari libri, articoli. È nata in Germania e vive in Svizzera. È dottora in teologia, madre di una figlia. Ina ha lavorato a partire dal pensiero italiano della differenza: propone di ripensare l’intera economia a partire dal fatto che il fondamento della condizione umana non è il maschio adulto indipendente, ma è il nascere totalmente bisognosi di tutto.
“Se cominciamo a ripensare l’economia a partire da questo fondamento – difficilmente contestabile – della conditio humana, allora molte cose cambiano. Perché oggi, nel tempo del fine patriarcato, viviamo ancora con un ordine simbolico che mette al centro il maschio adulto oppure uno pseudo-neutro da lui derivato: il soggetto economico “libero”, colui che partecipa al mercato, il cittadino ecc. Nella stessa logica l’economia viene sì definita come azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro per soddisfare i bisogni umani, ma di fatto si comincia a parlare di economia a partire dai soldi, dal mercato, dallo stato e dall’età adulta, tacendo così almeno la metà delle misure atte a soddisfare i bisogni: infatti il lavoro di cura indispensabile, finora in larga misura gratuito, è il settore maggiore dell’economia, come è stato dimostrato.
Anche se una grande parte della società continua a rifiutarsi di guardare tutta l’economia, è giusto dire che solo chi ha una visione d’insieme – che comprende cura di base, lavoro volontario, mercato e forse altro ancora – e solo chi vede il nostro agire economico inserito nel cosmo vulnerabile che continua ad elargire doni, può affrontare le varie crisi del nostro tempo in modo adeguato e sviluppare soluzioni durevoli.”
Su queste basi teoriche Ina si è impegnata in Svizzera con il comitato che raccoglieva le firme per il reddito di base incondizionato e ha portato il conflitto dentro al comitato stesso proprio perché vuole dare un altro significato a questa battaglia, molto diverso da quello corrente. Un cambio di paradigma a partire da tutta l’economia e dall’idea di libertà nella dipendenza. Una strada che mette in discussione il che cosa si produce e come.
Oppure incontriamo delegate che portano dentro le rigidità delle strutture sindacali discorsi nuovi e che osano dire “il lavoro, la dignità del lavoro non è un fine, ma è un mezzo. Il fine è la qualità della vita”. Dico di +: primum vivere che vuol dire mettere in gioco la soggettività di lavoratori e lavoratrici in carne e ossa. Chi è disposto a farlo? Con tutte le ricadute che una simile impostazione può avere sull’organizzazione del lavoro e sulla contrattazione. Soprattutto quando queste donne non intendono limitarsi a politiche di genere ma si rivolgono alla politica del sindacato tout court.
In conclusione, ritornando a donne uomini e politica: il modello relazionale coniugato a tutti i livelli del vivere umano è la vera rivoluzione delle donne che apre nuove possibilità per donne e uomini. Le donne infatti hanno inventato una pratica politica che non è finalizzata alla presa del potere, ma che è basata sulla presa di coscienza e sulla modificazione delle relazioni incarnate non solo nel privato ma nei sindacati, nell’organizzazione del lavoro, nelle scelte aziendali nei rapporti sociali. Dobbiamo ripartire da lì facendo lievitare in politica questa idea.
PausaLavoro 2013
104, marzo 2013
L’epoca delle connessioni tristi, di Loretta Borrelli
liberi pensieri di una sviluppatrice web
C’è più vita nel cooperare, contributi vari, Agorà del lavoro
i nuovi bisogni che cambiano il lavoro e la politica
105, giugno 2013
Due sindacaliste all’Agorà, di Giordana Masotto
Sandra Becattini e Marianna Bruno raccontano le possibili contaminazioni tra femminismo e lavoro sindacale
La politica delle quote ci ha indebolito, di Michela Spera, segretaria nazionale Fiom
L’ideologia della conciliazione è stata il bromuro, di Laura Spezia, ex segretaria nazionale Fiom
Dialogo di una freelance e di una dipendente, liberamente tratto da un dialogo tra Loretta Borrelli, 35 anni freelance e Martina Coletti, 32 anni dipendente
106, settembre 2013
Ina Praetorius: una rompiscatole piena di humor, intervista a cura di Giordana Masotto
in Svizzera, la raccolta di firme per il reddito di base si intreccia con il femminismo postpatriarcale. E si apre il conflitto
Questo lavoro (non) è la nostra vita, di Chiara Martucci, Loretta Borrelli, Silvia Motta, Giordana Masotto
verso un codice di autodeterminazione nei lavori di oggi. A partire da sé ma non isolate/i
107, dicembre 2013
Atti di sfida ai tempi di Godzilla, di Giordana Masotto
dal laboratorio lavoro-economia di Paestum 2013
Che cosa produciamo quando siamo al lavoro, di Simona Ricci, segretaria generale Cgil Pesaro Urbino
il primum vivere per ritessere la trama della pratica politica dentro il sindacato
di Elisabetta Ambrosi
Ho trentanove anni, sono una giornalista, ho un figlio di quattro e sono una guerriera. Ogni giorno – e pure di notte – provo a tenere insieme un lavoro da inventare e difendere, un bambino da lavare-nutrire-vestire-educare- amare, la mia libertà e le mie passioni. Il tutto mentre la crisi morde e il welfare si sgretola.
Per anni ho pensato di essere scarsamente capace di lottare per il lavoro che desideravo senza dover rinunciare al resto. E ancor di più, dopo l’arrivo di un figlio-che-ti-cambia-la-vita, mi sono sentita a lungo in conflitto tra l’occupazione vigile e permanente sul fronte lavorativo – fare la giornalista in tempi di editoria in crisi e stravolgimenti tecnologici – e l’occupazione altrettanto vigile e permanente sul fronte bambino, con tutto il suo carico di bisogni: fisici (provate voi a tagliare le unghie a un piccolo maschio scatenato), emotivi (provate voi a cercare un ritmo il più possibile armonico tra la vostra presenza e assenza con lui sgusciando fuori casa al momento giusto e precipitandovi per tornare all’ora promessa), infine sociali (provate voi a scegliere la scuola giusta per un bambino, tra edifici cadenti e didattica prebellica).
Non ho mai rinunciato alla convinzione di poter fare un lavoro impegnativo con precisione, determinazione e persino allegria, e nel frattempo spupazzarmi uno o più bambini senza accettare compromessi al ribasso, nella felicità mia e altrui. Continuo a credere che tutto questo sia possibile, ma a prezzo – qui, nell’Italia di oggi – di una fatica doppia e di un logoramento direttamente proporzionale, oltre che al paese, anche alla città in cui si abita («Dimmi in che regione vivi e ti dirò che madre sarai»).
Ma è un’altra rivoluzione che questo libro vorrebbe raccontare: a un certo punto ho preso atto che tutta la fatica,il malessere e pure la frustrazione che io, e insieme a me un mucchio di donne là fuori, spesso proviamo, poco c’entrano con un fantomatico nostro problema interno, caratteriale, psicologico e tanti altri impalpabili aggettivi. Né c’entrano col fatto che siamo fatte male, sbagliate o tanto meno incapaci.
Così, per esempio, dovremmo capire che quando stiamo male dentro, o non sappiamo quali pesci prendere, non sempre serve chiamare lo psichiatra che prescriva un ansiolitico o un antidepressivo: basterebbe non perdere il lavoro nel momento in cui entriamo in ospedale a partorire o trovare un asilo colorato in cui viene proposta una didattica intelligente che accolga tuo figlio. O anche (incredibile quanto conti, si scopre solo dopo che un figlio è arrivato) avere un parco curato sotto casa, magari con gli alberi sani, i cui rami non ti cadano in testa. E quindi è là fuori – e non solo tra le pareti domestiche – che si combatte la nostra battaglia. Far sentire la propria voce, insomma, per farla sentire soprattutto a se stesse.
«Quanto guadagni? Come vorresti cambiare il tuo lavoro? Hai avuto i figli che desideravi o ne vorresti altri? Com’è la loro scuola? Sei libera? Sei felice?»: queste le domande che ho rivolto ad amiche e conoscenti, mamme e donne di ogni parte d’Italia. Dopo aver letto le loro risposte, ancor più mi sono convinta che noi – giovani madri della generazione co.co.co-partite Iva e del debito che si mangia quei servizi che dovrebbero aiutarci – siamo delle guerriere, delle combattenti, lottatrici in difesa dei nostri desideri di fecondità e di vita contro i molti ostacoli disseminati lungo il percorso. Per questo inciampiamo spesso, e a volte ci facciamo pure male, per poi rialzarci, magari con l’aiuto di una mano amica.
«Se molli fai vincere loro, non esiste» mi ripete sempre la mia amica Silvia, che ha tre figli ed è una sorta di Virgilio al femminile che mi accompagna nel libro con un compito specialissimo: evitare di cadere nel vittimismo o nello scoraggiamento. «Mollare? Mai» le rispondo. «Ma siccome crescere figli è un fatto politico, altro che privato, almeno mettiamola in piazza la nostra trincea quotidiana». «Non vorrei, Elisabetta, che poi ci considerassero eroine, e si lavassero ulteriormente le mani». «No, non siamo eroine né vogliamo medaglie, che quelle le danno ai morti e noi siamo vive e creative, ma almeno che il mondo sappia». «Che il mondo sappia. Ma la rabbia non serve, anzi paralizza. Meglio l’ironia». «Ma anche calme, sai, di quella calma saggia e solenne». «Potremmo dire un po’ ieratiche?» . «Cosa ne dici di ironico-ieratiche? Mamme ironico-ieratiche». «Potremmo farci una canzone rap». «Ma io so scrivere solo libri». «Va bene lo stesso» . «Allora eccomi qua. Cominciamo?».
(Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2014)
Un aspetto che nel nostro dibattito congressuale mi colpisce, purtroppo non positivamente, è che parliamo molto di giovani, ma lo facciamo evidenziando sempre la loro condizione di vittime: giovani come vittime della precarietà, della disoccupazione o peggio dell’inoccupazione, giovani senza un futuro.
La crisi è innegabile, i danni della precarietà selvaggia anche, ma il modo nel quale rappresentiamo i giovani non rende loro un buon servizio. I giovani e le giovani di questo Paese sono persone in carne e ossa e sono e restano il futuro, a prescindere da quanto possa essere critica la loro condizione. Le nostre parole pesano, stigmatizzano, ingabbiano.
Oltretutto noi questi giovani ce li rappresentiamo, ma non li ascoltiamo. Se li ascoltassimo forse avremmo delle sorprese; per esempio scopriremmo che molti giovani, seppur scontenti di una precarietà che non consente loro una reale progettualità, non aspirano affatto al posto di lavoro a tempo indeterminato, orario di lavoro 9-18, magari sempre nella stessa azienda fino alla pensione. Sono, cioè, ben lontani dall’ aspirare a quel modello di lavoro che noi abbiamo in mente e a cui noi vorremmo ricondurli.
Compagne e compagni, parliamone: possiamo lavorare, come già stiamo facendo, per re-includere una parte della platea dei lavoratori atipici nel lavoro a tempo indeterminato, ma non credo che riusciremo a invertire completamente la tendenza, ne’ ad arginare un cambiamento culturale che è già in atto da molti anni. Allora io credo che dobbiamo essere pragmatici: è davvero pensabile l’estensione della contrattazione a tutti coloro che nei contratti non sono inclusi? Quanto sarà inclusiva la completa, e auspicabile, ricomposizione della filiera produttiva? E non sarebbe più sensato appoggiare anche chi chiede una legge che stabilisca un salario minimo per i lavoratori che non appartengono ad alcuna categoria contrattuale e tariffe minime per i lavori a progetto che non fanno riferimento ad albi professionali? O il problema è che abbiamo paura del dumping salariale per i nostri CCNL?. Questi sono i provvedimenti che spesso vengono richiesti da chi questi lavori li fa (Articolo 36, Acta). Nonostante gli indubbi e talvolta egregi sforzi del NIDIL, noi ci siamo poco. Inevitabile? Non so, certamente difficile. Ma il tema di rappresentare tutti dovrebbe interessarci molto, ancora più dell’accordo sulla rappresentanza che tanto ci fa discutere in questi giorni, se non vogliamo diventare residuali.
E’ per questo che sul lavoro, quel “lavoro che decide il futuro”, come titola il nostro documento congressuale, io sento il bisogno di un passaggio lessicale e filosofico, prima ancora che pratico: cominciamo a parlare di lavori, invece che di lavoro. Il modo nel quale parliamo del lavoro continua a rimandare in modo molto preciso alla visione fordista del lavoro salariato, al quale, nel nostro Paese, sono stati lungamente collegati il patto di cittadinanza e lo stato sociale. Il dissolvimento di questa forma di lavoro in mille lavori discontinui e frammentati ha indubbi aspetti drammatici, ma non è, a mio avviso, un dramma tout court, potrebbe essere anche un’occasione per costruire maggiori libertà per tutti.
Il passaggio dal lavoro ai lavori potrebbe spingerci in una direzione che a molti non piace, che è l’idea di un welfare universalistico, meno strettamente collegato con il lavoro salariato e con la sua continuità. L’introduzione di un reddito minimo, che ora anche una parte della nostra organizzazione chiede come sostegno nelle fasi di inoccupazione, è un primo passo in questa direzione. Ma un’idea universalistica di welfare per quanto può continuare a convivere con gli ammortizzatori sociali così strettamente legati al lavoro “contrattualizzato” che ben conosciamo e che continuiamo a difendere? Ancora una volta: parliamone. Io credo che i tempi richiedano fantasia e coraggio, la nostra organizzazione rischia di morire se non accetta la sfida del cambiamento. Proviamo a ri-coniugare l’idea di lavoro, magari così riusciremo finalmente a includere a pieno titolo nella nostra visione il lavoro di cura, il grande rimosso, la colonna invisibile che ha sostenuto il lavoro fordista, in gran parte gratuito e in gran parte a carico delle donne. Passaggio tanto più necessario adesso che il lavoro di cura diventa sempre più spesso lavoro salariato, una delle categorie di lavoro salariato meno viste e meno tutelate, eppure fondamentali per la nostra società e al quale noi, il più grande sindacato italiano, prestiamo ben poca attenzione. Fermiamoci un attimo a pensare che tutte e tutti, senza alcuna eccezione, siamo stati bambine e bambini, inermi e bisognosi di cure e probabilmente diventeremo vecchie e vecchi, altrettanto fragili e bisognosi. Questo, forse, ci illuminerà su quanto è alta la posta in gioco quando parliamo di lavoro di cura.
Le nostre parole rinchiudiamo nella prigione delle loro presunte fragilità non solo i giovani, ma anche le donne. E’ quello che ho pensato leggendo l’Azione 9 del nostro documento congressuale: “Libertà delle donne. Contro il femminicidio e ogni tipo di violenza” . Intendiamoci: riconosco e apprezzo il grande sforzo che la nostra organizzazione sta facendo per far diventare parte del proprio DNA la lotta alla violenza di genere, il rispetto del corpo femminile. Riconosco e apprezzo il grande impegno che i nostri compagni maschi stanno mettendo in questa battaglia, nel riconoscere la violenza verso le donne come un problema degli uomini, nel proporre a se stessi e agli altri un modo nuovo di essere uomini.
Ma, nel nostro documento, delle donne si parla solo come vittime di violenza. Compagne, non rendiamo un buon servizio a noi stesse se ci autorappresentiamo solo come vittime o come escluse. Noi siamo ben altro, e lo sappiamo. Facciamo parlare la nostra forza, la nostra competenza; facciamo parlare la nostra capacità di tenere insieme tutti gli aspetti della vita: lavoro, amore, cura, studio, desiderio; quel cocktail formidabile che rende autorevole e particolare il nostro pensiero. Particolare, cioè di una parte; così come è particolare il pensiero degli uomini. Compagne, rivendichiamo la nostra particolarità e la nostra autorevolezza e confrontiamoci su un piano di autentica parità con i nostri compagni uomini.
E’ a partire anche da questa riflessione che il Coordinamento Donne della FISAC CGIL di Milano e Lombardia, del quale faccio parte, ha elaborato questo Ordine del Giorno, già presentato e assunto nei congressi Milanese e Regionale della FISAC. L’ODG è partito da quello elaborato e messo a disposizione dalle Segretarie della Camera del Lavoro di Milano, che ringraziamo, ed è stato modificato e arricchito da una riflessione che era stata presentata alla Commissione contrattuale FISAC che sta per iniziare con ABI la discussione del nuovo CCNL; è perciò un ODG che si sforza di introdurre alcune linee guida relative alla contrattazione, non tanto a favore delle donne, quanto viste e pensate dalle donne per tutti, donne e uomini, perché parlano di equilibrio tra vita e lavoro, di qualità della vita e del lavoro. Naturalmente speriamo che l’ODG venga assunto anche qui, ma sinceramente la speranza più grande che abbiamo è che questo ODG faccia discutere.
Noi siamo consapevoli, infatti, che molte e molti non saranno d’accordo con alcune delle nostre proposte. Quello che ci interessa è in primo luogo il confronto. Vorremmo evitare di essere archiviate alla voce ODG di genere, qualcosa che è doveroso assumere, ma che si può tranquillamente non prendere sul serio: vogliamo essere prese sul serio.
Nel nostro ODG parliamo di orari di lavoro, che vorremmo più flessibili, ritagliati sui bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, oltre che delle Aziende. L’estensione degli orari dei negozi e di altri servizi, come le Banche, è ormai una realtà di fatto. La questione è come questa estensione possa sposarsi con le esigenze di chi lavora. Per questo proponiamo ad esempio l’ orario di lavoro a menu, già sperimentato in alcune realtà del commercio. Ma per contrattare gli orari in questo modo è necessaria una contrattazione di secondo livello forte, che deve essere garantita da demandi chiari nei CCNL.
Parliamo di congedi per i padri, perché si vada nella direzione di una più equa condivisione del lavoro di cura. Facciamo notare, tra l’altro, che la possibilità di fruire dei congedi parentali ad ore, che la legge demanda alla contrattazione per un’opportuna regolamentazione, è ancora in alto mare nella maggior parte delle categorie.
Parliamo di Lavoro Agile (da non confondersi con il Telelavoro), al quale il comune di Milano ha dedicato una giornata sperimentale lo scorso 6 Febbraio. Il protocollo di intesa l’abbiamo firmato anche noi (Camera del Lavoro di Milano), ma il tema entra pochissimo nelle nostre riflessioni e ancor meno nelle nostre pratiche contrattuali. Attenzione! Il lavoro agile piace molto a chi lavora, non solo alle Aziende, e noi, come su molte partite di welfare aziendale, lasciamo che le Aziende lo utilizzino senza accordo sindacale o, peggio, lo ostacoliamo in nome di un “governo degli orari” che immaginiamo immutabile. Non ci sono solo aspetti positivi, certo, bisogna ragionare su salute e sicurezza, sulla contaminazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, ma se non ci mettiamo le mani, in questa materia, non potremo ne’ prevederne, ne’ tantomeno governarne le criticità. E certo è che gli aspetti positivi sono proprio tanti: lavoro agile significa meno inquinamento, quindi più salute, un dato che non possiamo non prendere in considerazione, soprattutto in questa regione; significa maggior autodeterminazione per le lavoratrici e per i lavoratori, quindi maggior libertà; significa più tempo libero. In una parola: migliore qualità della vita. Ed è la qualità della vita, in ultima istanza, quella per cui dovremmo batterci. Il lavoro, la dignità del lavoro, non è un fine, ma un mezzo: il fine è la dignità e la qualità della vita.
Parliamo di part-time, che vorremmo fosse visto come un modalità di organizzazione del lavoro con pari dignità del full-time, non come lavoro di serie B che pregiudica la crescita professionale e salariale soprattutto delle donne. Il part-time sta diventando strumento non traumatico di risoluzione delle tensioni occupazionali e questo, come Sindacato, ce lo fa vedere in una luce un po’ migliore; buttiamo il cuore oltre l’ostacolo e proviamo a pensare che lavorare meno significa avere più tempo per tutti gli altri aspetti della vita, è quindi bello e auspicabile per tutti. Certo, le rigidità contrattuali, che prevedono percentuali massime di part-time, andrebbero rimosse, e anche le rigidità di orario dei contratti part-time, pensate come forme di tutela, andrebbero ripensate.
Per dare maggiore concretezza alla nostra riflessione sul part-time abbiamo pensato di proporre alla CGIL di farsi promotrice di una legge di iniziativa popolare che preveda sgravi fiscali a favore delle Aziende per i contratti part-time, purché la paga oraria della lavoratrice e del lavoratore venga maggiorata. In questo modo raccogliamo, indirettamente, una raccomandazione della CES, che auspica interventi per innalzare i salari femminili, ancora drammaticamente più bassi rispetto a quelli maschili, ma forse rendiamo anche il part-time (che, ricordo, non è per forza di sole 4 ore!) più appetibile per gli uomini e chissà che questo non finisca per elevarne lo status… Può darsi che questa sia una proposta folle: parliamone; compagne e compagni con maggiore esperienza di quella che abbiamo noi potrebbero aiutarci ad approfondire l’argomento.
Sugli altri temi trattati nell’ODG vi rimando alla sua lettura: spero di avervi fatto venire voglia di saperne di più!
Ci sono altri argomenti che a mio avviso mancano nella nostra riflessione collettiva e congressuale: siamo poco, pochissimo attenti, sia nella teoria che nella pratica, alla sostenibilità ambientale. Questo è un tema cruciale per il futuro dell’umanità, un ottimo motivo, mi pare, per imparare a contrattare su temi come la mobilità sostenibile e il lavoro agile, ma anche per modificare alcuni nostri comportamenti all’interno dell’organizzazione, dallo spreco di carta all’assoluta tranquillità con cui utilizziamo quantità incredibili di plastica per i nostri pranzi!
Non facciamo i conti con una società in rapido mutamento e con un sacco di fenomeni aggregativi che non sono quelli che noi conosciamo e riconosciamo – lamentiamo il qualunquismo dei lavoratori e delle lavoratrici che rappresentiamo, ma non li vediamo nelle altre forme aggregative che si danno. Ad esempio i GAS, sono un fenomeno sociale ed economico di grande interesse, che tende all’eliminazione degli intermediari tra produttore e consumatore; ma, un modello economico così fatto, che ricadute avrebbe sul lavoro?
Più in generale, quando noi parliamo di sviluppo, a me sembra che in fondo non abbiamo in mente niente di sostanzialmente diverso dallo sviluppo che ha in mente da sempre il pensiero capitalista. Noi diciamo no alla “finanziarizzazione” selvaggia dell’economia, giustamente, ma poco e nulla ci interroghiamo sulla sua sostenibilità quando nelle nostre proposte chiediamo sviluppo. Io temo che anche noi abbiamo in mente un’idea di sviluppo lineare, che può continuare a crescere senza limiti.
Ma ormai sappiamo che i limiti il pianeta ce li impone, sull’idea di decrescita, più o meno felice, dovremo pur fare qualche riflessione.
Ho trovato illuminante quello che sostiene la teologa e filosofa femminista Ina Praetorius sullo sviluppo: in natura non esiste sviluppo senza limiti, tutto quello che cresce è prima o poi destinato a decadere. Questa esperienza ce la mette tutti i giorni sotto gli occhi la natura, con i nostri corpi stessi. Credo sia ora di includerla nella nostra riflessione, per cercare insieme qualche idea nuova per il futuro nostro e dei nostri figli.
di Domenico Comegna
La pensione di vecchiaia delle donne si allontana sempre di più. L’innalzamento del limite di età è iniziato nel 1993 con la riforma Amato che ha portato la soglia anagrafica, sebbene gradualmente, da 55 a 60 anni. A partire dal 2012 è cambiato tutto. La legge Monti-Fornero ha infatti dato un deciso colpo di acceleratore alla equiparazione con gli uomini, già peraltro decisa dal precedente governo Berlusconi, che nell’estate 2011 aveva previsto un percorso che doveva iniziare nel 2014 per raggiungere il traguardo nel 2026. Ma non è stato così.
Dal primo gennaio 2012, infatti, l’età delle donne è salita di colpo a 62 anni – soglia alla quale già nel 2013 sono stati aggiunti 3 mesi (per via dell’adeguamento alle cosiddette speranze di vita) – e sarà ulteriormente elevata a 63 anni e 9 mesi nel 2014. Per le lavoratrici autonome (commercianti, artigiane e coltivatrici dirette), invece, lo scalone del 2012 è stato di 3 anni e 6 mesi (l’età è passata da 60 a 63 anni e mezzo). Limite che salirà a 64 e 9 mesi nel 2014. Più difficile infine anticipare la vecchiaia, per entrambi i sessi. Chi non ha ancora l’età, l’anno prossimo dovrà infatti accumulare almeno 42 anni e 6 mesi di contributi (41 e 6 mesi le donne).
Un’ancora di salvezza, a caro prezzo, è prevista per le sole donne. Se scelgono di andare in pensione con le vecchie regole – ossia a 57 anni di età con 35 di contributi (58 anni se lavoratrici autonome) – potranno continuare a farlo, in via eccezionale sino al 2015, scegliendo però un trattamento calcolato interamente con il sistema contributivo. Questo criterio, riferito alla contribuzione accumulata nell’arco della intera vita lavorativa, è sicuramente meno vantaggioso del sistema «retributivo», riferito agli stipendi degli ultimi anni, con una perdita in termini di pensione stimato in misura pari a circa il 25-30%.
L’anno prossimo – considerando l’aumento dell’età di 3 mesi (speranza di vita) e la cervellotica interpretazione della legge da parte del Ministero, secondo cui il termine del 31 dicembre 2015 contiene anche il periodo di attesa per l’apertura della finestra di 12 mesi (18 le lavoratrici autonome) – le donne dipendenti, per ottenere la pensione contributiva, oltre ai 35 anni di contribuzione, devono compiere i 57 anni di età entro il 31 agosto 2014.
I persistenti dislivelli retributivi fra uomini e donne, che ancor oggi caratterizzano il lavoro femminile, si riflettono negativamente sui trattamenti pensionistici, in via tendenziale più bassi per le donne rispetto agli uomini.
Le riforme dei regimi di pensionamento, ed è l’Unione europea a ricordarcelo, devono essere inoltre associate a politiche attive del mercato del lavoro, ad azioni di istruzione e di formazione continua, a sistemi di sicurezza sociale e di assistenza sanitaria, nonché a un miglioramento delle condizioni di benessere nel lavoro. È noto, poi, che le donne sono fortemente impegnate nel lavoro di cura (insegnamento, sanità, anziani, bambini) e, comunque, nei lavori ad alto contenuto relazionale, sia per il mercato, sia in ambito familiare.
Si tratta di lavori fondamentali per la nostra esistenza che sottopongono ad alti livelli di affaticamento chi li svolge (più donne che uomini) e che, proprio per questo, avrebbero meritato, ad esempio, di essere ricompresi nella disciplina in materia di «lavoro usurante». Invece, gli adeguamenti per il lavoro usurante previsti dalla riforma Fornero solo attività tradizionalmente maschili: lavori nelle cave ed in galleria, nel vetro, alla catena di montaggio, alla conduzione di autobus e pullman turistici.
Per la pensione rosa non c’è proprio pace. A riaprire la questione è la Commissione europea, recentemente intervenuta sulla differenza di genere per quanto riguarda il sistema di contribuzione per andare in pensione. La Commissione ha infatti deciso di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia a causa dell’attuale normativa che fissa una differenza tra uomini e donne negli anni di contributi necessari per ottenere il pensionamento anticipato (41 e 5 mesi per le donne e 42 e 5 mesi per gli uomini), normativa che andrebbe contro i regolamenti Ue che stabiliscono la parità di trattamento tra i due sessi.
Una sanzione che non dovrebbe comunque coglierci impreparati: anche nel recente passato – per l’esattezza nel 2010 – la Commissione Ue aveva messo sotto accusa il nostro Paese, già condannato sul tema dalla Corte di Giustizia Ue nel 2008, chiedendo un’immediata equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nell’ambito della Pubblica amministrazione. All’epoca la questione fu risolta attraverso la contestata riforma che innalzò anche per le donne, a partire dal 2012, l’età pensionabile a 65 anni.
La fondazione Lella Golfo della fondazione Bellisario: «L’organizzazione del lavoro è tipicamente maschile»I numeri Sono 10.231 le nuove imprese «rosa» rispetto al 2012: rappresentano quasi i tre quarti del totaleDiecimila aziende in un anno. A Londra fenomeno «mumpreneurs»
di Elvira Serra
Sono il fattore D della ripresa economica. Le donne imprenditrici stanno aumentando a un passo triplo rispetto agli uomini. E se non si riesce ancora a quantificarne l’incidenza sul Pil, tutti assicurano che la ripresa passa anche da lì. In Italia e all’estero. In Inghilterra è di due giorni fa la notizia, uscita sul Sunday Times, che le mumpreneurs, le mamme che si sono messe in proprio dopo la nascita dei figli, hanno dato una spinta al rilancio economico. Ed è significativo che siano donne il 63 per cento di chi frequenta i corsi di StartUp Britain, la campagna del governo per neoimprenditori. «Il segreto sta nella creatività abbinata alla flessibilità» aveva spiegato in un’intervista alla 27esima Ora l’autrice di The End of Men, Hanna Rosin.Da noi questa creatività si è espressa con oltre diecimila imprese «rosa» in un anno. Unioncamere ha calcolato che in dodici mesi, da marzo 2012 al marzo successivo, le imprese femminili sono arrivate a un milione 424.798, pari al 23,5% del totale. Le 10.231 unità in più rappresentano quasi i tre quarti di tutto il saldo delle nuove imprese (+13.762). Questi, però, non sono numeri fissi: si portano dietro più posti di lavoro, più reddito, più consumi.«Nella mia esperienza ho potuto notare che dopo la prima maternità una mamma su tre abbandona il lavoro; dopo la seconda, due su tre» racconta Patrizia Eremita, 48 anni, un figlio di sei, responsabile e fondatrice di mammaelavoro.it, società che offre servizi alle donne che cercano lavoro o che vorrebbero aprire un’attività in proprio. Fino al 2010 lei era manager in un istituto bancario inglese, si è ritirata un anno dopo essere rientrata al lavoro dopo la nascita del bambino. «Viaggiavo spesso, il mio ruolo chiedeva una importante disponibilità di tempo. Così mi sono lanciata sul progetto del sito, il primo anno in sordina, poi a tempo pieno. Il vantaggio è che ora riesco a conciliare la vita professionale con quella familiare».Neppure Sabrina Tassari, 42 anni e tre figli, riusciva più a star dietro al suo incarico di assistente di direzione. «La mia disponibilità doveva essere 24/7 (ventiquattr’ore per sette giorni, ndr). È andata bene per la prima gravidanza, dopo è diventato troppo difficile». Così ha dedicato il 2009 al «quarto figlio», il progetto di una «grotta di sale» a Milano, Halosal, un posto dove igienizzare le vie respiratorie. «E da un anno finalmente lavora con me un’altra persona e ci dividiamo tra mattina e pomeriggio. Oltretutto questa attività è perfetta con il calendario scolastico e l’estate riesco a seguire i bambini come voglio».Mettersi in proprio rappresenta spesso l’unica soluzione per inseguire le proprie ambizioni professionali e soddisfare il legittimo desiderio di maternità. «Ormai è un fatto che le imprenditrici aumentino a tassi molto superiori rispetto a quelli maschili e che abbiano retto meglio la crisi. Molte di loro all’arrivo di un figlio preferiscono lasciare tutto piuttosto che essere mortificate nelle legittime aspirazioni. Perché l’organizzazione del lavoro è tipicamente maschile» interviene Lella Golfo, promotrice con Alessia Mosca della legge sulle quote di genere in Italia. E cita storie di mamme e imprenditrici, alcune delle quali premiate dalla Fondazione Marisa Bellisario, che lei ha fondato e di cui è presidente. Spiega: «Penso a Sara Roversi, bolognese, due figli, che ha fondato con il marito You Can Group Srl, incubatrice di progetti finora vincenti; oppure a Marzia Camarda, che nel 2005 ha creato con due socie Verba Volant, società di servizi per l’editoria tutta al femminile. Anche lei ha un figlio».Paola Profeta, docente alla Bocconi ed esperta di economia di genere, spiega che non sappiano ancora quante delle nuove imprenditrici siano arrivate sul mercato dopo aver perso il lavoro, dopo essersi licenziate o dopo che il marito è rimasto disoccupato. «L’Italia deteneva il record europeo delle famiglie monoreddito. Adesso non se lo può più permettere. Il loro ingresso comunque fa bene all’economia e contribuisce a rilanciarla».Questa centralità economica delle donne è certamente di buon auspicio. Tuttavia Simona Cuomo, coordinatrice dell’Osservatorio sul Diversity Management, invita a non perdere di vista un punto: «Questa è una strada per uscire dalla crisi. Ma non dimentichiamoci che il vero tema è la giustizia organizzativa. Purtroppo la maternità resta un nodo critico nello sviluppo delle carriere: le barriere invisibili restano il maggiore ostacolo».
(Corriere della Sera – 17 settembre 2013)
PausaLavoro 2012
100, marzo 2012
Manager in bilico sull’orlo del potere, di Giordana Masotto
idee e pratiche per sottrarsi all’aut aut tra adeguarsi o escludersi
Tessiture postpatriarcali, domande del Gruppo lavoro
continua il confronto con il pensiero di Ina Praetorius
101, giugno 2012
Poste in gioco, di Giordana Masotto
pensieri in divenire su crisi, lavoro, politica, con i piedi ben piantati nell’Agorà del lavoro
Dire di no per affermare i nostri sì, di Silvia Motta
Contrattazioni forti, contrattazioni deboli, di Lia Cigarini
102, settembre 2012
Questioni inevitabili, di Giordana Masotto e Giovanna Pezzuoli
verso Paestum: la (ri)scoperta della radicalità
Una femminista alla festa della Fiom, di Giordana Masotto
più ci si àncora nelle soggettività, più si chiariscono gli scenari. È questa la strada per ripensare anche la rappresentanza
103, dicembre 2012
Paestum, teatro di un conflitto. È già politica, di Diversamente occupate
saperi e pratiche in azione
Decostruire il lavoro, vivere la politica, di Giordana Masotto
I numeri non mentono
non è vero che con la crisi “per le donne va anche peggio”
Generazione nuova e quinto stato, di Aldo Tortorella
pensare in grande per uscire dalla subalternità
PausaLavoro
84, marzo 2008
Il lavoro, come e perché, di Giordana Masotto
Ri-prendere la parola, di Lia Cigarini
l’aumento dell’occupazione femminile cambia le teorie sul lavoro
Carriera. Ma come piace a noi, di Oriella Savoldi
Una casalinga è una casalinga è una casalinga, di Lorenza Zanuso
come cambiano i nomi di un lavoro “indicibile”
Di convegno in convegno, di Pinuccia Barbieri
finalmente si è chiuso l’anno delle pari opportunità
parliamone: Bamboccioni e bamboccione, di Silvia Motta
controscenario: Nuove professioni autonome, di Anna Soru
85, giugno 2008
Nella confusione del presente, di Lia Cigarini
sta covando un qualche sconvolgimento
Chi vuol parlare ancora di soffitto di cristallo?, di Giordana Masotto
controscenario: La pensione delle donne, di Anna Soru
Crisi del sindacato o crisi degli uomini?, di gm
a colloquio con Chiara Eusebio, segretaria generale uscente della Cgil funzione pubblica di Pescara
Detassare gli straordinari. A chi giova, di gm
ci ha scritto: L’esperienza femminile mi ha “travolto”, di Massimo Cerini
86, settembre 2008
Meritevoli senza meritocrazia, di Giordana Masotto
competenze, competizione, contratti
C’è una bella differenza, di Lia Cigarini
passare dalla miseria alla soggettività politica
Maternità e dimissioni in bianco, di Maria Benvenuti
leggi su cui vigilare
controscenario: Lavorate donne, lavorate! (e fate più figli), di Lorenza Zanuso
Le donne secondo Ferrera, di Lorenza Zanuso
Appassionante, autonomo e ben remunerato, di Anna Soru
che cos’è un buon lavoro
87, dicembre 2008
è già politica , di Silvia Motta
narrare il lavoro è un atto politico creativo
forme autonome di associazione: La difficile strada del riconoscimento, di Anna Soru
il caso di Acta
La mia generazione contrattava. Ma solo per una carriera al maschile, di Lorella Zanardo
controscenario: Non chiamiamolo abbandono, di Lorenza Zanuso
buone notizie: La crisi e la cura, di Giordana Masotto
Il quaderno va in tour, di Pinuccia Barbieri
88, marzo 2009
Donne che parlano di eta’ della pensione, di aa.vv
a proposito di scambi e parità, libertà e modelli di welfare
Interrogare l’economia: Le nostre domande a Loretta Napoleoni, di Giordana Masotto
89, giugno 2009
Interrogare l’economia: Tra salari e profitti ci sono le donne, di Giordana Masotto
Il lavoro di riproduzione rende sostenibile l’intero sistema economico. Ed è destinato ad aumentare. Conversazione con Antonella Picchio
Il doppio sì fa parlare
a un anno dall’uscita, il quaderno continua a essere occasione di incontro, scambio e dibattito
90, settembre 2009
Interrogare l’economia: Un welfare a misura di relazioni, di Giordana Masotto
Riconoscere la dipendenza di ognuno, contestando i luoghi comuni del neoliberismo. L’economia critica deve molto al pensiero femminista, ma non lo riconosce. Conversazione con Laura Pennacchi
Capitale erotico, di Lorenza Zanuso
L’imprenditorialità delle ragazze immagine
91, dicembre 2009
Il lungo giorno del manifesto
Che cosa è accaduto con il Sottosopra – Immagina che il lavoro
Libere di uscire dalla gabbia della parità, di Anna Maria Ponzellini
Quelle che il lavoro non riescono a conoscerlo, di aa.vv
A Milano, nell’affollato incontro alla Casa della cultura, hanno parlato le più giovani. Manifestando il disagio per una condizione di precarietà che frena la possibilità di pensare e narrare il loro lavoro
Bergamo: Ci siamo decise a prendere parola e visibilità, di Pasqua Teora
Ho quarant’anni e ho provato la nuova autocoscienza, di Maria Benvenuti
Visto da sud: il confronto con le amiche della Cgil, di Anna Potito
A Foggia, lettera aperta a Mara De Felici, neosegretaria generale Cgil della città
Catanzaro: Una nuova relazione tra generazioni, di Franca Fortunato
92, marzo 2010
La quota forte?, di Lorenza Zanuso
L’occupazione delle donne in Italia si conferma centrale per capire dove va il lavoro. Un’analisi dei dati in tempo di crisi
è accaduto non per caso in università, il nostro luogo di lavoro, di Lola Santos Fernández e Laura Mora
Cercasi soggetto (politico) disperatamente, di Giordana Masotto
Ma c’è chi non vede la politica che c’è
Il femminismo non ci basta più, neppure a sud
Da qui possiamo partire per trovare una strada “autonoma”. Per riempire di esperienze e pensiero il silenzio in cui affondano le abissali differenze tra Nord e Sud
93, giugno 2010
«Tirate fuori i bisonti che sono dentro di noi. siamo donne, non è da tutti»
Parole e pratiche antidepressive per non farsi mettere in ginocchio dalla crisi
Il viaggio del manifesto del lavoro
Pensieri che resistono, pensieri che sanno trasformanre, di Giordana Masotto
A Carrara, cresce la “fabbrica che pensa”
Lavoro necessario per vivere e contabilità nazionale, di Lorenza Zanuso
Tutti viviamo in un mix di lavoro retribuito, di servizi e di lavoro familiare: è la composizione tra i tre che fa la differenza
94, settembre 2010
Dire ascoltare contrattare
Tre azioni che sintetizzano la nostra proposta politica nel Sottosopra – Immagina che il lavoro. Quelli che seguono sono alcuni pensieri che abbiamo ascoltato negli incontri e nelle discussioni su questo punto
Riprendersi il senso del lavoro, di Donatella Barberis
Se non possiamo più essere soggetti nel lavoro, può accadere che rinunciamo a esserlo anche sulla scena sociale e politica, per ridurci a consumatori
Differenza e identità: quanta confusione, di Lia Cigarini
Il “di più” delle donne oggi può avere una forza sovversiva
Il bello della politica, di Giordana Masotto
Quello che ho capito dalla mia esperienza dentro il Gruppo lavoro
Il lavoro di relazione? un’eccellenza che chiamano “spreco”, di Silvia Motta
Il caso esemplare dei servizi di Reggio Emilia
95, dicembre 2010
Immagina che a Milano
Comunque vadano le amministrative, lanciamo una scommessa: che qui possa nascere un luogo pubblico in cui il lavoro che cambia prende la parola
96, marzo 2011
Lavorare in transito, di Elisabetta Cibelli
Pensieri parole alleanze speranze di una lavoratrice precaria. Vulnerabile ma non sola. Che vive nei passaggi, scoprendo che le ferite sono anche feritoie. Per stare al mondo negoziando
Tre domande al sindacato, di Maria Benvenuti
Orari di lavoro, contrattazione, rappresentanze: sono i temi caldi su cui continuare il confronto
97, giugno 2011
Di produrre conflitto c’è bisogno, di Maria Luisa Boccia
Proprio ora che crisi e globalizzazione ci chiedono invece autodisciplina e adattamento
Dentro l’agorà del lavoro, di aa.vv.
L’avevamo proposta nel numero 95 di Via Dogana. Molte e molti hanno risposto al nostro invito a pensarci e organizzarla insieme. Quando questo numero di Via Dogana sarà stampato, la prima Agorà del lavoro sarà accaduta: a Milano, il 23 maggio. Come dicevamo nell’invito: “è un desiderio, una festa, un inizio. Per incontrarsi, ribellarsi, progettare”. Non possiamo dar conto della giornata del 23 maggio, perché il giornale chiude prima. Ma possiamo raccontarvi l’antefatto di quella giornata con alcune parole scambiate nelle riunioni preparatorie.
98, settembre 2011
Il senso e il conflitto, di Giordana Masotto
Considerazioni e domande sul femminismo oggi a partire dall’agorà e da altri accadimenti
99, dicembre 2011
Mettiamo l’economia al suo posto, di aa.vv
Discutendo di Penelope a Davos, di Ina Praetorius
E decidemmo di infondere i valori femminili nel mondo della finanza,
di Halla Tomasdottir
di Corinna De Cesare
Ha rotto il soffitto di cristallo, ossia la barriera che ostacola le donne a fare carriera per mancanza di pari opportunità. Ora c’è la scogliera. Antonella Mansi, 39 anni, è stata chiamata alla guida di una delle più importanti fondazioni bancarie, quella del Monte dei Paschi di Siena. Non le spetta un compito facile: deve ripianare 350 milioni di debito vendendo parte di quel 33,4% dell’istituto senese colpito dallo scandalo dei derivati. Ma oltre ai problemi finanziari di cui dovrà farsi carico, c’è anche quello del glass cliff. Nel 2004 un gruppo di ricercatori dell’Universitá di Exter, Inghilterra, coordinati da i professori Michelle Ryan e Alex Haslam, ha coniato questo termine per definire una sindrome secondo cui le donne hanno più possibilità di ricoprire posizioni di leadership, se sono ad alto rischio di impopolarità e fallimento. «Ci vuole una donna» è insomma la formula adottata per progetti particolarmente spinosi e usata in molti casi, dicono i malpensanti, per spostare l’attenzione sulla novità “di genere”.
Forbes ha citato il glass cliff per Carly Fiorina (Hewlett-Packard) e più di recente per Marissa Mayer, chiamata un anno fa alla guida di Yahoo! per risollevare le sorti di quello che un tempo veniva considerato il principale motore di ricerca online.
«Il rischio del glass cliff dipende dalla storia aziendale» ha spiegato a tal proposito l’Harvard Business Review: se la società ha una tradizione di leader femminili, è più probabile che i manager e gli amministratore delegati donna siano scelti per progetti con una realistica possibilità di successo. Al contrario, si palesa la scogliera.
Mansi (nella foto con Emma Marcegaglia) è la prima donna a guidare Fondazione Monte dei Paschi di Siena, ma ha alle spalle un’esperienza che è partita dall’azienda di famiglia ed è arrivata fino alla vicepresidenza di Confindustria. Il New York Times, dopo l’arrivo di Jill Abramson, prima donna alla direzione in 160 anni di storia del quotidiano americano, è tornato in attivo.
Da una scogliera che è stata scalata, si gode di un panorama ancora più emozionante
(La ventisettesima ora- 4 settembre 2013)
http://27esimaora.corriere.it/
di Maria Novella De Luca
Erano le invisibili. Quelle che dal lavoro erano uscite, spesso alla nascita del primo figlio, quelle che nel lavoro non erano mai entrate, quelle che invece volevano finalmente riposarsi. Diplomate, anche laureate, classe mediae working class. Oggi sono capofamiglia, spinte fuori dall’ ombra, uniche portatrici di reddito, un esercito crescente di donne che nella desertificazione della crisi si sono reinventate salari e mestieri, dando vita ad un nuovo, singolare e moderno matriarcato. È nella classifica dell’ ultimo rapporto Istat, che segnala il dato paradossale di un aumento dell’ occupazione femminile (più 117mila unità rispetto al 2008) mentre la recessione spazza via stipendi maschili e giovanili, che si trovano le cifre di questa embrionale inversione di ruoli. Le famiglie in cui soltanto la donna lavora, (negli Stati Uniti dove il fenomenoè esploso si chiamano breadwinner, procacciatrici di cibo), nel 2012 sono diventate l’ 8,5% delle coppie con figli. Un numero significativo, ma ancor più significativo se si legge nella sua velocissima evoluzione temporale, passata cioè dal 5% del 2008 all’ 8,4% di oggi. (segue dalla copertina) Racconta Giuseppina Albinoni, insegnante di scuola primaria, e mamma di Alice e Giorgio di cinque e sette anni. «Sono una di quelle maestre precarie ma fortunate che per anni hanno potuto contare su supplenze annuali e semestrali. Ogni notte, da Battipaglia, mi mettevo in viaggio per Roma, una vita d’ inferno, ma ce la facevo. Dopo la nascita di Alice però la fatica è diventata troppa. Mio marito era responsabile di un grosso supermercato, guadagnava discretamente. Così ho deciso per un po’ di restare a casa. Due anni fa Salvatore è stato licenziato, sei mesi di cassa integrazione poi più nulla. Mi sono fatta forza e ho ricominciato a partire, ad alzarmi alle tre del mattino. E’ durissima, ma oggi per fortuna ci sono i soldi del mio stipendio. E insegnare è bellissimo». Cifre, segnali, da guardare in filigrana però, avverte Daniela Del Boca, che insegna Economia Politica all’ università di Torino. «Dietro questo mutamento di ruoli ci sono le donne più povere, quelle del Sud, che costrette dalla crisi del lavoro di mariti e partner, vincono passività e scoraggiamento ed escono di casa, accettando le uniche occupazioni disponibili, nel terziario, nei servizi, nell’ assistenza. Ma ci sono anche le coppie più giovani, in cui i maschi hanno accettato che si possa lavorare a fasi alterne, e se lei non c’ è, lui si prende cura della famiglia». E poi le over 50, (molte già vicine ai sessanta), sostegno di interi nuclei, per le quali il miraggio della pensione si è allontanato, e infine Daniela Del Boca, una percentuale ancora minima in Italia di manager, professioniste il cui stipendio è più alto di quello dei coniugi. Ma dietro questo affacciarsi di nuovo “matriarcato” c’ è una economia da tempo di guerra (gli uomini erano al fronte, le donne cercavano di sopravvivere), o il compiersi di una parità di sessi? Dice Del Boca: «Ho riflettuto a lungo, e nonostante questo risveglio sia figlio della disoccupazione maschile, e gli impieghi che le madri di famiglia riescono a trovare siano magari dequalificati, c’ è qualcosa di positivo. Lavorare vuol dire uscire di casa, guadagnare, aver contatti, è istruttivo per i figli e il marito. Un giorno, quando usciremo dall’ emergenza, queste donne avranno un’ esperienza in più». Adesso però il prezzo da pagare sembra alto, a volte insostenibile. Al di là delle condizioni sociali. «Quando Piero ha perso il lavoro e non è più riuscito a trovarlo – racconta Antonia, ginecologa romana – qualcosa dentro di lui si è rotto. Eppure di soddisfazioni professionali ne aveva avute tante, ma la sua azienda ha “rottamato” i cinquantenni, ingegneri con più di trent’ anni di esperienza. Abbiamo due figli adolescenti, e oggi viviamo soltanto con il mio stipendio di medico ospedaliero. Abbiamo ridotto tutto, facciamo una gran fatica, ma non siamo poveri. Piero però è sempre arrabbiato, depresso, sembra quasi avercela con me, perché ho una professione che amo e mi coinvolge. Non so cosa succederà di noi due…». Conferma con amarezza Anna Oliverio Ferraris, psicologa, e attenta analista dei rapporti familiari: «Quando un uomo resta disoccupato ne risentono tutti. La moglie, i figli e non solo in termini economici. È la perdita di ruolo che brucia nel cuore dei maschi, la paura di perdere autorevolezza, nel nostro paese il fattore culturaleè ancora molto forte, non c’ è intercambiabilità, se non in una piccola area di coppie giovani, le donne da sempre hanno invece doppi, tripli ruoli, riescono comunque ad attivarsi». Allora bisogna circoscrivere l’ area in cui questo matriarcato sembra fiorire, seppure come risposta ad una tragedia di fabbriche che chiudono e salari che svaniscono. Spiega Linda Laura Sabbadini, direttore del Dipartimento di Statistiche sociali dell’ Istat: «L’ occupazione femminile ha un andamento atipico rispetto alla crisi. Fino al 2010 sono state le donne ad aver perso di più, espulse da ogni tipo di attività. Poi mentre i settori tradizionalmente maschili entravano in recessione, edilizia, industria pesante, anche l’ indotto delle grandi fabbriche, le donne in particolare al Sud, nelle aree povere, si sono inserite nei servizi, nel terziario, in professioni che oggi sostengono le famiglie». Ecco allora le voci del territorio, come quella di Rosalba Cenerelli, segretario provinciale della Cgil di Napoli, che descrive quel deserto di salari e occupazione che stringe Afragola, Giugliano, Frattamaggiore, Casoria. «Ormai qui lavorano soltanto le donne. È impressionante: ad ogni ora del giorno vedi centinaia di uomini per strada, al bar, senza fare nulla. Alcuni, i più giovani, si occupano dei figli, della casa, molti invece sono bloccati, paralizzati. Così sono le madri ad aver preso le redini, anche quelle che non avevano mai lavorato: commercio, servizi, piccole fabbriche tessili, servizi alla persona, cooperative sociali. Pochi soldi, spesso al nero, ma garanzia di sopravvivenza. E pur nella difficoltà, il fatto che le donne diventino sostegno economico è comunque positivo, agli occhi dei figli, del marito, della società. È una emancipazione». Perché accade che dopo un po’ queste madri chiedano diritti, asili nido, scuole. E la risposta maschile è duplice. «Ci sono casi in cui la violenza domestica aumenta – dice Cenerelli – gli uomini sono frustrati, disperati. E infatti sia le Asl che noi come sindacato stiamo aprendo sportelli di ascolto per dare sostegno a chi ha perso tutto». Oppure si cresce. Come è stato per Rosa Amato, 37 anni, e suo marito Eugenio. «Sono un’ artigiana del cuoio, ma dopo la nascita dei nostri tre figli non ero più riuscita a lavorare. A Pasqua del 2011 la ditta di Eugenio ha chiuso, siamo sopravvissuti con la pensione di invalidità di mia madre. Poi è successo il miracolo: una mia amica mi ha detto che cercavano operaie esperte in una fabbrica di cinture a Frattamaggiore. Ho fatto una settimana di prova e mi hanno preso, subito, facendomi anche i complimenti. Lavoro otto ore al giorno, sono in regola e con gli straordinari arrivo a mille euro. Può sembrare nulla ma noi viviamo. Ed Eugenio si occupa dei bambini e della casa. È bravissimo, meglio di me… ».
Luisa Pogliana (per Donnesenzaguscio)
Esperienze di un modo diverso di governare le aziende. Una proposta di Donnesenzaguscio.
L’azienda può essere intesa come l’insieme di tutti i soggetti che la costituiscono. L’azienda funziona bene se chi la guida trova un’area di ragionevole convergenza tra i diversi interessi in gioco. Abbiamo dato un nome a questo modo di dirigere un’azienda fuori dalle logiche di potere, orientata al bene comune: ‘governo’.
E’ una visione che viene più dalle donne che dagli uomini, ma deve diventare patrimonio di tutto il management.
Rivolgiamo quindi la nostra attenzione alle donne che in azienda si assumono le proprie responsabilità, a tutti livelli. Donne che, in posizioni di vertice o in qualsiasi altro ruolo, si fanno carico di favorire modi di lavorare dotati di senso e costruttivi. E donne imprenditrici.
Portatrici di un modo di governare l’azienda differente dal modello manageriale dominante, fondato su concezioni tipicamente maschili.
Noi di Donnesenzaguscio abbiamo raccolto esperienze che testimoniano di questo orientamento.
Ma molto resta da testimoniare, da raccontare.
E’ una realtà diffusa più di quanto si creda, perché ci sono difficoltà a valorizzare il proprio agire, non c’è tempo di riflettere a fondo su quello che si è fatto, non si sa dove né come comunicarlo.
Eppure il bisogno di far conoscere queste esperienze è sentito e diffuso. Per non andare avanti da sole, per rafforzarsi nella relazione con chi condivide questo orientamento.
A questo noi, continuando il percorso iniziato con il libro Le donne il management la differenza, vogliamo dare il nostro contributo.
Pensiamo che sia importante accrescere la conoscenza del patrimonio di pratiche diverse già attuate in azienda e dei criteri che le rendono efficaci.
Pensiamo anche che sia utile conoscere di più le difficoltà e i modi per superarle che ognuna trova nello svolgere il proprio ruolo secondo i propri criteri, secondo la propria visione differente.
Per questo ci rivolgiamo a chi ha esperienze significative da raccontare (sue o realizzate da altre donne), e ha ragionato su un diverso modo di stare nei luoghi decisionali, su quanto di diverso le donne possono portare nelle aziende. Proponiamo a tutte di condividere con noi le storie e le riflessioni. Non importa se sembrano a prima vista piccole cose, microstorie. Sappiamo che spesso è proprio raccontandole che ci si accorge del valore che hanno.
Chiediamo di scriverle, oppure di registrarle, e farcele avere. Firmate o anonime, non importa.
Via via che le raccoglieremo, le faremo circolare, le ‘capitalizzeremo’ mettendole a disposizione di tutte tramite il nostro sito. Vedremo poi come trasformarle in voce pubblica collettiva.
Se tutto questo vi interessa, scriveteci, raccontate, diteci cosa ne pensate, fate circolare questa iniziativa presso altre donne -e uomini- che conoscete, nei vostri gruppi, nelle vostre associazioni.
Vi proponiamo di fare questo lavoro insieme.
Luisa Pogliana
per Donnesenzaguscio
www.donnesenzaguscio.it/index.php/esperienze/
Venticinque per cento contro zero: è impietoso il confronto tra la percentuale di piccole e medie imprese, da una parte, e di grosse aziende quotate in borsa, dall’altra, che sono guidate da una donna in Germania. Un quarto delle pmi tedesche ha una donna ai suoi vertici, rivela oggi alla Bild il presidente dell’associazione delle imprese familiari tedesche, Lutz Goebel. Il trend, ha spiegato, è in crescita, al punto che «non mi meraviglierei se presto circa la metà delle nostre aziende avesse una donna come capo». Oggi molti più padri ritengono le loro figlie capaci di condurre un’azienda, ha aggiunto Goebel, che ha respinto come “superflue” le quote rosa su cui la politica tedesca litiga da mesi e su cui il Bundestag voterà il 18 aprile.
A titolo di paragone: nessuna delle 30 aziende del Dax, l’indice di borsa che riunisce i big dell’economia e della finanza tedesca, è guidata da una donna, una situazione rimasta immutata da anni. Secondo una recente indagine dell’istituto economico berlinese Diw, invece, la percentuale delle donne nei consigli di amministrazione delle società del Dax è salita dal 3,7% del 2011 al 7,8% nel 2012. Diverso il discorso se si guarda ai consigli di sorveglianza, dove la quota delle donne è del 19,4%.
Intanto uno studio appena diffuso dall’Associazione delle imprenditrici tedesche rivela che le donne ai vertici delle aziende fissano priorità differenti e hanno uno stile di leadership diverso rispetto agli uomini. Per loro la fidelizzazione dei clienti è molto più importante dei bonus, al punto da risultare in cima alla lista delle loro priorità: per il 98% delle datrici di lavoro intervistate essa gioca un ruolo importante, una percentuale che scende all’88% tra gli uomini, i quali mettono invece al primo posto la fidelizzazione dei dipendenti. Le donne sono poi più ottimiste: il 51% di loro è convinto che nei prossimi mesi la situazione dell’azienda che guidano migliorerà, contro il 35% dei manager uomini.
Non solo, ma le donne-capo tendono a motivare in modo diverso i propri dipendenti rispetto agli uomini: il 65% offre corsi di aggiornamento e perfezionamento professionale, il 56% ha introdotto misure per migliorare la conciliabilità tra famiglia e lavoro (ad esempio orari flessibili e asili nidi aziendali). Al contrario le prestazioni monetarie giocano un ruolo inferiore: solo il 30% circa delle donne considera importante la concessione di auto di servizio e bonus.
Alessandra Guermandi, Bologna
Avverto un certo disagio rispetto ad alcune prospettive avanzate negli ultimi tempi in Via Dogana, in cui pare che, rispetto ai luoghi di lavoro, accettarne responsabilmente la realtà significhi apportarvi contributi positivi di buon senso e alacre zelo tralasciando lo sforzo di rilevarne, se ce ne fossero, gli eventuali guadagni. Cosí il consigliere comunale di Seveso Lele Galbiati consiglia ai propri dipendenti e alle lettrici e lettori di questa rivista di portarsi direttamente da casa quello che manca sul posto di lavoro (lampadine nuove e pennelli con relative vemici per i muri scrostati), e invita tutti a fare nei posti di lavoro ciò che quotidianamente ciascuno fa a casa propria (Via Dogana 13). Per quanto mi riguarda credo che i servizi pubblici funzionino in base ad una logica che si nutre di “lavoro vivo” in gran parte femminile proprio per conservare intatto l’impianto complessivo del suo apparato burocratico-amministrativo. Se a qualcuno viene in mente di salvarli dovrebbe dire anche come intende modificarne i poteri e le regole del gioco (cfr. Roberta Tatafiore, “L`agire pubblico a partire da sé”, Il Manifesto 12/2/94).
Che esistano contro la tendenza alla delega un’inclinazione alla cura e un senso di responsabilità individuale, una “pratica dell’illegalità” di segno femminile (vedi Donne e aborigeni contro i burosauri, Via Dogana 12 ), è quanto sostiene anche la sociologa Renate Siebert ( … E’ femmina però è bella… Rosenberg & Sellier, Torino 1991), che nello studio di tale apporto ne rileva un aspetto centrale di sostanziale ambivalenza. Se da un lato l’apporto femminile indica la presenza di un “potenziale” politico, dall’altro, preso cosí com’è, esso si rivela del tutto funzionale all’ordine esistente. Poiché però la maggior razionalità ed il miglior funzionamento dei servizi di cui le donne danno prova, ne facilitano certamente:sì l’uso ma non incrementano per ciò stesso il concetto o la pratica della libertà femminile, l’autrice pone la questione: “Dopo aver rintracciato una predisposizione delle donne al cambiamento, un interesse materiale per il funzionamento della sfera pubblica e dei servizi, rimane da indagare un livello piú profondo: quello del desiderio e del piacere”. Come dire: nella “pratica dell’illegalità responsabile” il terzo – l’autorità e la libertà femminili – non è 31 ancora dato. Fra la necessità di stare alla realtà raccogliendone i bisogni e apportandovi migliorie, e ridisegnarne i contorni nella capacità di prospettare mutamenti, c’è un crinale sottile ma anche decisivo per la politica.
Nell’articolo della psicologa Nedda Bonaretti (Via Dogana 13), l’autrice rileva con compiaciuto stupore la coincidenza fra punto di vista delle operaie in esubero e in attesa di “riciclaggio”, e punto di vista di esperti in management aziendale. La concordanza avviene sulle questioni di “ottimizzazione” del lavoro salariato (coinvolgere a pieno se stessi, preoccuparsi del prodotto … ) che sono il fulcro della “qualità totale” (Romiti), del “toyotismo” (Ohno), di quanti perseguono il massimo dell’efficienza produttiva attraverso un coinvolgimento totale di sé (tempo, energie, senso della propria identità) e l’espulsione di ogni residuo di coscienza “altra”. Non solo: è proprio questa “ottimizzazione” del lavoro salariato che ne produce l’eccedenza strutturale, la flessibilità, ovvero la precarietà ed il basso costo. La situazione, se ho ben capito, di quelle operaie. Non solo la psicologa non si accorge che il felice unisono è in realtà un ben sinistro coincidere, ma addirittura lo esalta, come segno premonitore di un futuribile recupero dell’autorità materna “universalmente” distribuita. E qui davvero non capisco: che cos’è l’autorità matema, un bonus universale già quantificato e “coperto” una volta per tutte? Un assegno in bianco, un gigantesco bancomat universale?
Il venire da madre è rischio di invenzione e scommessa per niente universale; è la realtà che cambia che dice la provenienza; il resto per me è solo sterile acquiescenza.
Alessandra Guermandi, Bologna
di Lourdes Pastor Martínez
Oggi, che non è il 25 novembre (Giorno contro la violenza verso le donne) e nemmeno l’8 marzo (Giorno internazionale delle donne), oggi, un giorno qualsiasi del mese di luglio, ai servizi informativi della televisione pubblica è parso bene dedicarsi un pochino alle donne.
Hanno trasmesso una notizia il cui tema centrale era la “conciliazione”. Curiosamente e con mio grande disappunto tutte le persone apparse nel reportage erano donne, tutte, assolutamente tutte a eccezione di due maschi, dirigenti di grandi imprese che spiegavano i meravigliosi benefici della cosiddetta conciliazione per la produttività delle imprese, che alla fin fine è l’unica cosa che interessa. In questa amabile notizia si dava come alternativa alle assenze delle persone (donne) dal posto di lavoro il telelavoro, come un modo comodo ed efficace per far sì che le donne, che erano le protagoniste della notizia, rendano compatibili l’allevamento delle loro creature senza smettere un solo minuto di produrre e oltretutto ottenendo un “salario emozionale”, come si è espressa una delle intervistate, che assicurava che con il part-time le sue entrate sono diminuite ma ha avuto in compenso un “salario emozionale”. Non so se questo “salario emozionale” è valido per coprire le bollette dell’affitto o della luce. Perché se così fosse senza dubbio tutti dovrebbero chiedere immediatamente il part-time.
D’altra parte, mi domando come realizzerebbero il telelavoro le donne (e parlo sempre di donne perché è di loro che si è parlato nella notizia) che lavorano raccogliendo olive, spazzando le strade o in una fabbrica di conserve. Forse sono io che sono troppo ingenua e quando penso che il sistema deve trovare misure per conciliare la vita lavorativa e personale, penso a misure applicate a maschi e donne di tutte le classi sociali e di tutti i lavori possibili. Tuttavia il sistema sta pensando che può conciliare solo un piccolo settore di donne, il più agiato, il cui lavoro si può svolgere attraverso un computer e la cui riduzione di giornata non le lascia senza un tetto.
Se vogliamo misure di conciliazione, e le vogliamo, oltre alla corresponsabilità, oso suggerire che gli orari delle scuole siano compatibili con gli orari di lavoro, che le vacanze di bambine e bambini siano equivalenti a quelle dei loro padri e/o madri, che se bisogna assentarsi dal lavoro perché nostra figlia o figlio si ammala non sia motivo di licenziamento, che i maschi comincino a prendere anche loro congedi da investire in cure… e così via, tanto per cominciare.
Noi donne conciliamo già tutto, e il telelavoro è una magnifica opzione in alcuni casi, anche se lavorare in casa mentre le tue figlie/figli ti reclamano non migliora per niente la tua qualità di vita, sicuramente migliora, questo, sì, la produttività delle imprese. Mi viene in mente che possono tornare a trasmettere un’altra notizia sulla conciliazione, ma questa volta focalizzata sugli uomini, che senza ombra di dubbio sono quelli che hanno peggio da conciliare.
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)
(Ne discutiamo sabato 16 giugno, alle ore 14:00, alla Casa Internazionale delle Donne (via San Francesco di Sales 1/a), prima della manifestazione de La meglio gioventù (ore 18:00, Piazza Farnese) http://lamegliogioventu.org/)
Il lavoro come rapporto sociale fondamentale che trasforma il mondo e la natura? Che produce ricchezza e libera gli uomini? Che fonda le comunità, gli dà un’etica e garantisce le identità individuali? Che qualifica la cittadinanza e dà accesso a diritti? Quest’idea del lavoro, spazio pubblico dove si gioca la trasformazione della società e il costituirsi dei soggetti collettivi, è stata uno dei fondamenti storici dell’identità maschile, del suo modo di stare al mondo, di pensare la relazione tra le cose. Quest’idea ha prodotto ed è il prodotto di un mondo fondato sulla divisione sessuale del lavoro, sulla separazione tra pubblico e privato e tra produzione e riproduzione.
E noi come stiamo in questa scena? Ci siamo anche noi, con le nostre vite, le nostre scelte, le nostre relazioni, i nostri desideri, la nostra sessualità. Nelle nostre mille vite lavorative, noi costruiamo progetti, esploriamo la creatività, tentiamo di far vivere idee di futuro, letture della realtà, forme di relazione più ricche, anche se il “mercato” non sembra interessato a questa qualità. La distinzione tra vita e lavoro, tra tempo produttivo e tempo libero è sempre meno definita: siamo sempre al lavoro, sempre in connessione, disponibili. Il lavoro pervade il nostro tempo, anche quando siamo “senza lavoro”. Abbiamo probabilmente un’idea di lavoro diversa. Forse non tutti la teorizziamo, sicuramente la pratichiamo e la raccontiamo con le nostre stesse vite. Reti, gruppi collettivi, soprattutto di donne, ne hanno fatto però, e da tempo, anche l’oggetto della loro iniziativa politica.
Di noi si dice che siamo atipici, precari, autonomi, collaboratori, occasionali, consulenti, disoccupati, flessibili, freelance, giovani o meno giovani…
Questo linguaggio ci rappresenta astrattamente, prescindendo dai nostri corpi, di uomini e di donne, dalla parzialità di genere che ci costituisce e che definisce il nostro desiderio, da ciò che siamo nella concretezza di ciascuna delle nostre vite.
Questo linguaggio cancella le differenze. Le donne sono sempre state “atipiche”, “parasubordinate” e “precarie”, anche quando il lavoro era meno intermittente di così, anche quando avevano un contratto a tempo indeterminato. Le donne conoscono bene il tema del ricatto, quello che dal mondo del lavoro si trasferisce alle questioni della vita, sanno cosa vuol dire lavorare con meno diritti e sempre meno valore, anche economico, a parità di mansioni. Gli uomini conoscono anche un’altra precarietà, che è piuttosto quella percezione di precarietà della propria virilità che segna il modo in cui stanno al mondo. Storicamente gli uomini hanno risposto cercando fuori di sé la conferma della propria identità, nel lavoro, nell’esercizio del governo della città, nella competizione e nella performance, oltre i limiti del proprio corpo. Oggi che tutto questo è in crisi, anche agli uomini è chiesto di costruire un altro senso per le proprie vite.
Questo linguaggio non riesce a rendere conto della trasformazione e fa circolare disvalore. E’ lo stesso linguaggio che racconta i nostri tempi come tempi di crisi e presenta questa crisi come oggettiva, neutrale, come unica realtà possibile: nasconde gli interessi in gioco, nasconde i paradigmi che vengono meno, esclude da sé ogni cambio di paradigma.
Noi ora siamo qui – perché la partecipazione alla vita democratica del proprio paese è una questione di tempi e il nostro tempo è adesso – a dire altro di noi, a raccontare altre idee della vita e del lavoro, oltre la separatezza tra la politica e la vita. Siamo qui anche per chiedere diritti, ma sappiamo che se sono pensati per soggetti disincarnati, astratti, per “lavoratori” senza corpo, questi diritti non funzionano, girano a vuoto. Noi, i diritti, li vogliamo radicare al qui ed ora, in un’idea sessuata della cittadinanza, cioè un’altra idea di stare al mondo, che inventa nuovi stili di vita e di relazione tra donne e uomini e tra diverse generazioni. Questo è il conflitto di cui ci sentiamo portatori, che sta dentro di noi. I diritti non sono una torta e non li vogliamo tagliare a fette.
Noi che “navighiamo a vista nel mare della precarietà”, che ogni giorno viviamo la mancanza di autonomia economica, la scarsità delle risorse materiali, ma non di quelle simboliche, l’incertezza del futuro, sappiamo che per sostenere le nostre vite e quelle degli altri serve uscire dalla solitudine, serve accendere passioni positive, serva andare oltre la depressione e la rabbia, serve trovare parole diverse da far circolare e serve far valere il nostro vissuto. Del mondo in cui viviamo noi vogliamo prenderci cura.
maria pia pizzolante, claudio vedovati, virginia romano, monica pasquino, emanuele toscano, astrid d’eredità, chiara martucci, stefano augeri, enrico sitta, teresa di martino, giuseppe allegri, angela ammirati,stefano ciccone, simona davoli, marco furfaro, claudia pratelli, renata scognamiglio, agnese ambrosi , maria la porta, salvatore marra, rosario coco, maria luisa boccia e chiunque voglia aggiungersi