di
Chiara Calori
Tra
le spese sanitarie che Facebook ha deciso di rimborsare ai propri
dipendenti, come benefit aziendale, dopo quelle per il congelamento
degli ovociti rientrano ora anche quelle sostenute per la “gravidanza
per altri” o GPA (Corinna De Cesare, Se
l’azienda paga la maternità surrogata,
Corriere della sera, 17 maggio 2019). Sembra che la logica, del tutto
aproblematica per questa multinazionale come per altre, sia quella di
accaparrarsi i lavoratori giocando sul piano del welfare, del
benessere sociale, garantendo loro copertura in tal senso. Ma quanto
questo è un andare incontro ai loro desideri e quanto invece un
radicare certe pratiche? Laura Corradi, autrice del libro Nel
ventre di un’altra
(Castelvecchi, 2017), distingue tra bisogni reali e bisogni indotti:
tra i primi rientra quello di essere madri e padri, mentre appartiene
ai secondi quello di essere madri e padri genetici.
Quest’ultimo è un privilegio – e non un diritto – cui
aspirare, nell’interesse di quella lobby tecno-finanziaria che
prima identifica o crea il problema (l’infertilità, la difficile
se non impossibile conciliazione tra maternità e ritmi
“stacanovisti” di lavoro) e poi produce e vende la relativa
soluzione (ritardare, congelando ovociti, o delegare, con la GPA, la
maternità). Una soluzione che si invita ad accettare acriticamente
come tale, con l’aiuto dei media – Facebook compreso – che
fanno il gioco del sistema capitalista. Ora Facebook ha trovato un
ulteriore canale per promuovere il mercato della GPA, proponendola
come benefit ai propri dipendenti. Tanto ciò che conta è il
risultato, in termini di produzione e in termini di immagine: come
afferma la giornalista del Corriere, “Non
si tratta, ovviamente, solo di benefit ma della narrazione che
l’azienda vuole dare di sé stessa agli altri: libera e aperta a
ogni tipo di famiglia”.
Peccato che sia una narrazione artificiosa e monca che, ci fa notare
Laura Corradi, lascia fuori e nasconde aberrazioni come i gravi
problemi di salute di cui i bambini così nati si ritrovano affetti o
l’essere figli non di una, non di due, ma addirittura di tre madri
(biologica, genetica e mitocondriale). Attenzione però, qualcosa
potrebbe cambiare e questi ultimi dati venire sempre più avvalorati:
affiora una prima crepa all’interno dello stesso sistema
capitalista, con il paradosso che le assicurazioni ora frenano perché
non disposte a coprire l’aumento delle spese di ospedalizzazione e
delle altre spese mediche necessarie in questi casi.
Nota:
ho ascoltato Laura Corradi nel suo intervento
(L’infertilità
di massa e l’economia politica della procreazione medicalmente
assistita. Una prospettiva ecofemminista di alleanze intersezionali)
al Convegno
femminista “Cambio di Civiltà: arte, lavoro, politica delle donne
(madri comprese)”,
del 18-19 maggio 2019, tenutosi alla mostra Vetrine di Libertà,
presso la Fabbrica del Vapore di Milano.
(www.libreriadelledonne.it,
30 maggio 2019)
Ecco un invito interessante.
Come ho scritto nel Sottosopra “Cambio di civiltà”, penso che il lavoro abbia
bisogno di femminismo per far interagire la ribellione alle sopraffazioni e
l’ambizione di ripensare lavoro ed economia in chiave post-patriarcale. E
dunque è importante dare ascolto ai segnali che aprono la strada in questa
direzione. (Giordana Masotto)
DONNESENZAGUSCIO con la partecipazione di AIDP Lombardia
invita all’incontro
Un passo in alto
Più donne nei
vertici aziendali: cambiare la cultura e la
natura del potere
Milano, 8 maggio 2019, ore
17.00-19.30 puntuali
c/o Palazzo del Lavoro, Gi
Group, piazza IV Novembre 5
Un’ondata di forza, in questi
tempi difficili, viene dalle donne di tante parti del mondo, anche nel mondo
del lavoro. Il movimento MeToo, un esempio noto, ha incrinato un sistema di
ricatti sessuali nel mondo dello spettacolo. Nella nostra realtà c’è
consapevolezza diffusa delle prevaricazioni che troviamo nei luoghi di lavoro.
Soprattutto un incredibile gap retributivo e di carriera, che crea un abisso
tra la ricchezza delle donne e degli uomini: il lavoro delle donne vale sempre
meno di quello degli uomini. Tutto questo è ormai percepito come un sistema
inaccettabile.
Ma per contrastare le
discriminazioni non basta che venga fatto un po’ di spazio alle donne e alla
loro differenza. Bisogna cambiare la cultura del contesto in cui ci troviamo,
la natura del potere che oggi domina.
Infatti, la legge che vincola i
CdA ad almeno un terzo di componenti donne ha raggiunto l’obiettivo, ma le
donne sono entrate soprattutto in ruoli senza potere di indirizzo.
Mentre il top management – dove
effettivamente si decidono le politiche aziendali – rimane sostanzialmente
territorio degli uomini (le poche donne hanno di solito ruoli di staff, con
scarso potere). Così continua a riprodursi una cultura solo maschile e spesso
misogina.
Bisogna andare alla radice.
Bisogna che più donne, con i contenuti e il senso di una visione differente,
entrino nei vertici aziendali, nei luoghi “del potere”. Liberando la nostra
ambizione. Anche dai freni dentro di noi: riflettiamo sul perché alcune donne,
pur capaci, non ambiscono ad assumere ruoli di vertice. Parte del cambiamento
sta anche nelle nostre mani.
Siamo consapevoli che lì si alza
il livello dello scontro con gli interessi degli uomini ai vertici. E non è
facile. Ma c’è anche il piacere di fare come riteniamo giusto, usando il più
ampio spazio di discrezionalità che quei ruoli comportano. Possiamo incidere
sul lavoro delle donne e di tutti.
In questo passaggio ci aiuta il
confronto e il sostegno reciproco con altre donne. Vediamo che alcune manager
arrivate ai livelli più alti portano altre donne verso questo obiettivo,
attuando in azienda politiche per sostenerle. Donne che ci dicono che si può
fare.
Fidandoci della nostra autorità
e insieme. Sono maturi i tempi per fare questo passo in alto.
L’incontro sarà introdotto da chi lo ha proposto: Luisa Pogliana di Donnesenzaguscio; Anna Deambrosis, AD di una società assicurativa; Pina Grimaldi, Direttrice Centrale
Sistemi di un gruppo ospedaliero; Isabella
Covili, Presidente nazionale AIDP.
Altre manager porteranno la loro
esperienza, e ogni partecipante potrà dare il suo
contributo. Con attenzione alla riservatezza di chi lo desidera.
Vogliamo mettere in comune idee, inquietudini, consapevolezza. E magari
poi continuare.
L’incontro è aperto a donne e uomini.
(www.libreriadelledonne.it, 4 aprile
2019)
di Barbara Gerosa
LECCO. Manutentori meccanici ed elettronici cercansi. Possibilmente donne. Non una semplice offerta di lavoro, ma un vero e proprio grido dall’allarme quello lanciato delle aziende lecchesi, che non riescono a trovare personale specializzato da inserire nelle loro industrie. «I numeri sono preoccupanti — spiega Mauro Gattinoni, direttore Api Lecco —. Tra la fine del 2018 e l’inizio del prossimo anno sono previste 1.400 nuove assunzioni nel settore manifatturiero, composto per il 70 percento dal metalmeccanico. Alle richieste degli imprenditori del territorio sarà possibile una risposta solo parziale: secondo le stime almeno 600 posti resteranno scoperti. E stiamo parlando di un solo trimestre. La fame di operai specializzati sta assumendo i contorni di un’emergenza occupazionale al contrario, con le imprese che si contendono gli studenti già dal quarto anno di superiori».
E c’è un altro elemento inaspettato. «Le figure tecniche femminili — prosegue — saranno le più richieste, perché nella nuova industria 4.0 servono intelligenza e cultura e le donne, spesso, hanno una marcia in più. Peccato che le ragazze che frequentano le scuole professionali siano ancora troppo poche». Il nodo è a monte. «Spesso la colpa, se così si può dire, è anche dei genitori che nelle loro aspettative vorrebbero figli medici o avvocati. Eppure — è la conclusione — un manutentore qualificato può arrivare a guadagnare fino a 4 mila euro al mese e le assunzioni sono a tempo indeterminato. Insomma: il posto fisso esiste, ma per assurdo non ci sono i candidati».
La situazione ha raggiunto un tale livello di allarme che importanti aziende delle province di Lecco, Como e Brianza, istituti tecnici e professionali, università, società di consulenza e di formazione, agenzie per il lavoro e studi di liberi professionisti, una trentina di realtà in tutto, hanno dato il via a un patto di collaborazione e costituito il «club Roadjob», che porterà alla creazione di una «academy territoriale»: un’accademia di studenti selezionati per rispondere alla richiesta di personale specializzato delle imprese. La proposta lanciata da Rodacciai, sede a Bosisio Parini, 750 dipendenti, 350 milioni di fatturato annuo, ha subito raccolto il plauso di Agrati Group, del Mollificio Sant’Ambrogio e di numerose altre realtà del territorio, oltre che di Api e dei due più importanti istituti tecnico professionali lecchesi, Badoni e Fiocchi. «Il 70 per cento dei nostri diplomati in produzioni industriali e manutenzione ha un posto fisso a sei mesi dal diploma. Entro l’anno lavorano tutti. Per non parlare di chi frequenta il corso di meccatronica — snocciola i numeri Claudio Lafranconi, preside del “Fiocchi” e membro del comitato direttivo del neo costituito club —. Abbiamo 900 studenti, un centinaio i maturandi ogni anno, una goccia nel mare rispetto alle necessità. Formiamo giovani in grado di partire dal disegno del prodotto fino alla sua realizzazione lavorando alla fresa e al tornio. La bacheca dell’alternanza scuola-lavoro è sempre piena, facciamo fatica a rispondere a tutte le richieste. Le ragazze sono le più brave e solitamente fanno più carriera dei compagni» […]
(Meccanica manca un operaio su due. Nasce l’accademia, Corriere della Sera Milano, 16 dicembre 2018)
Ndr : Le donne stanno occupando spazi impensabili un tempo
di Sara Bettoni
Premiata startup: così le abilità acquisite da mamme e papà si applicano al lavoro
Diventare mamma e papà vale come un master. «Le competenze aumentano anche del 35 per cento». E allora è importante farlo sapere e insegnare alle persone a sfruttare queste neonate capacità. È l’obiettivo di Maam, acronimo di «Maternity as a master». Un percorso di formazione digitale ideato da Riccarda Zezza che riceverà oggi il premio Donna Terziario. «Ho lavorato per 15 anni in grandi aziende — racconta l’imprenditrice — e ovunque notavo come la maternità creasse problemi. Mi mandavano ai corsi di gestione della crisi in cui si guidava un simulatore di volo. Ma io tornando da mia figlia Marta pensavo: “È con lei che imparo davvero a risolvere i veri problemi”».
Con la nascita di Luca, Zezza lascia l’ufficio e fonda il primo coworking che accoglie anche bambini. Poi con Andrea Vitullo si rimette a studiare. «Abbiamo trovato ricerche e organizzato focus group per capire cosa era cambiato nella vita delle madri-lavoratrici dopo il parto». Dai risultati emerge che il quadro delle soft skill si amplia notevolmente. Nel 2015 i due soci creano a Milano la startup Life based value e immaginano un percorso digitale da proporre alle imprese. «Si compone di 12 moduli per le donne e nove per gli uomini, da seguire in quattro o cinque mesi, il tempo di un congedo di maternità. Ma il corso è aperto a chiunque abbia bambini fino a tre anni».
La versione femminile punta ad applicare le competenze «di mamma» per lo sviluppo della rete sociale e per il potenziamento delle qualità di leadership. In quella maschile (lanciata su richiesta dei clienti otto mesi fa) il focus è l’intelligenza emotiva. «Rimane un forte pregiudizio di base. I papà, ad esempio, si vergognano a chiedere di uscire prima dal lavoro per questioni legate ai figli».
Oggi sono due mila le donne e 300 gli uomini iscritti a Maam. Nelle 30 aziende italiane che hanno acquistato il programma formativo, almeno il 50 per cento dei dipendenti genitori sfrutta l’opportunità. «E il tasso di gradimento è molto elevato — spiega Zezza —. Migliora l’abilità nella gestione del tempo e della complessità, oltre alla comunicazione».
Presto l’approdo anche sul mercato estero perché lo scopo della startup è «aiutare il mondo attraverso le donne». Intanto Riccarda, prima cavia del metodo, si è accorta della sua doppia validità. «Ho capito come essere più brava a dire di no anche a casa — racconta —, e non solo nelle questioni professionali». I figli Marta e Luca sono avvisati: sarà più dura far cambiare idea alla mamma.
(Corriere della Sera – Milano, 26 marzo 2018)
di Giordana Masotto – Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano
La notizia: con il 2018 in Islanda è entrata in vigore una nuova legge che intende porre rimedio alle discriminazioni contro le donne sul lavoro, in materia salariale e di carriera. Discriminazioni che continuano nonostante le norme sulla parità salariale, che pure ci sono da tempo sia in Islanda sia in Italia (e ovviamente in molti altri Paesi).
Che cosa cambia in sostanza? Fino ad ora un’azienda che viola quel principio di parità corre solo il rischio di essere denunciata. Adesso tutte le aziende islandesi con più di 25 dipendenti dovranno dimostrare che da loro non ci sono discriminazioni: solo così potranno ottenere una certificazione di qualità, codice ISO, che a questo punto le qualifica anche nel panorama internazionale. Non è un optional, è obbligatoria, e hanno solo da uno a 4 anni di tempo, a seconda delle dimensioni, per mettersi “in pari”.
È una notizia in linea con il “femminismo di Stato”, le politiche paritarie/antidiscriminatorie di alcuni governi nordeuropei, che fa seguito a uno “sciopero delle ore non pagate” fatto dalle islandesi. Fa un passo avanti rispetto alla logica dell’azione giudiziaria, che si è dimostrata poco efficace quando si tratta di andare a intaccare cultura, storia e condizioni materiali complesse. Con la nuova norma la parità diventa una qualità di base del contesto lavorativo, nuova e indispensabile per stare sul mercato. Tutto da verificare, naturalmente, quanto le nuove norme siano più cogenti delle precedenti e quanto possano risolvere i problemi. E comunque non si può non tenere conto che stiamo parlando di un contesto, quello islandese, delle dimensioni di… Bari.
Qualcosa che va nella stessa direzione è stato introdotto anche nel Regno Unito. Una legge del 2017 impone alle grandi imprese (oltre 250 occupati) di rendere pubblici, entro aprile 2018, dati che dovrebbero evidenziare le discriminazioni sia dei salari sia di carriera. Pare che per ora i dati stentino ad arrivare.
E in Italia? Il codice delle pari opportunità, fin dal 2006, obbligherebbe le aziende con oltre 100 dipendenti a fare rapporto sul tema. E le Consigliere di Parità, che dovrebbero controllare e agire, sono state istituite già nel 1991. Quello che sappiamo per certo è che di denunce ce ne sono poche.
Ma tutto ciò non ci emoziona più di tanto. Nè la pura logica della paga uguale per lavoro uguale (discriminazione salariale) né quella di quote e percentuali (discriminazione di carriera) possono riassumere la rivoluzione profonda che è in corso.
Alcune osservazioni per focalizzare meglio i problemi.
In primo luogo è indispensabile tenere conto che, almeno in Italia, il gap salariale non sta principalmente all’interno della singola mansione ma tra i diversi settori e ambiti professionali. Le professioni “femminili” nascono meno pagate. Negli anni settanta avevamo osservato che le paghe del contratto tessile (prevalenza donne) erano fino al 20% più basse di quello dei metalmeccanici (prevalenza uomini). Oggi maestre e assistenti sociali, pur avendo titoli di studio superiori, hanno stipendi inferiori a quelli di un operaio specializzato. E così via. Retaggio di un mondo in cui il salario principale era quello del capofamiglia/uomo e quello femminile era considerato complementare.
Le americane, negli anni Settanta, avevano imposto, almeno nelle pubbliche amministrazioni, il sistema del comparable worth ovvero la revisione dei punteggi/livelli di ciascuna posizione in modo da eliminare le differenze discriminanti tra maschi e femmine nel valore attribuito a ciascuna professione: per esempio, sopravvalutazione dello sforzo fisico e sottovalutazione delle capacità relazionali, per cui i giardinieri erano pagati di più delle assistenti sociali.
Ma la cosa più inquietante oggi su questo punto è che alcune professioni che si femminilizzano – come sanità ospedaliera, magistratura – hanno stipendi declinanti. Domanda: si femminilizzano perché sono meno pagate di un tempo o sono meno pagate perché sono una scelta preferita dalle donne?
Di certo sappiamo che le donne contrattano meno sui soldi anche perché hanno a cuore altri equilibri.
E veniamo così all’altra questione di fondo: maternità/paternità e dintorni (cura anziani – che è in crescita – e più in generale tutto il lavoro necessario per vivere). Più donne che uomini preferiscono riduzione/flessibilità di orario; per consentirle le aziende devono (o dovrebbero) riadattare la propria organizzazione del lavoro per rendere ugualmente produttiva una mansione ad orario ridotto/diverso. Spesso questo costo organizzativo – vero o presunto che sia – viene ribaltato almeno in parte sulla lavoratrice, in una sorta di scambio tra “orario friendly” e aumenti retributivi.
La conclusione su questi punti è che solo un’ottica più inclusiva per tutti, uomini e donne, della qualità della vita (Pil o Bil? Prodotto o benessere interno lordo?) potrebbe mettere un po’ di ordine nel benefico sconvolgimento prodotto dalla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ribaltando così un rischio diffuso, che attraversa anche tante politiche paritarie: di considerare le donne come vittime-da-risarcire e non come soggetti liberi che chiedono per tutti un più alto grado di giustizia.
Infine, non possiamo non vedere anche ciò che non è quantificabile, ma che importa e molto. Nel lavoro molte cose passano attraverso relazioni tra persone, individui in carne e ossa che prendono decisioni. Che incarnano, più che norme o politiche aziendali, i propri piccoli o grandi poteri. Quando parliamo di discriminazioni, meriti, qualità del lavoro, dobbiamo parlare anche di questo. Come intervenire? Noi pensiamo che la scelta giusta – e lungimirante – sia di valorizzare, nei diversi contesti lavorativi, le donne che hanno consapevolezza della posta in gioco e che pensano in grande. La buona notizia è che ce ne sono sempre di più.
(libreriadelledonne.it, 15/01/2018)
di Claudia Luise
Rientrare al lavoro o rimanere a casa con il proprio bambino? Per le mamme, e in alcuni casi per i papà, che hanno appena avuto un figlio è una scelta complicata, ma sempre più spesso si arriva alla decisione di lasciare l’impiego e rimanere con il neonato in attesa di tempi migliori per dedicarsi alla propria carriera. È quanto emerge dai dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro relativi al Piemonte e a Torino. La legge prevede che tutti i genitori con figli minori di tre anni debbano compilare un questionario che certifica la scelta di lasciare volontariamente il lavoro e le dimissioni vanno convalidate negli uffici dell’ispettorato.
I DATI
I dati più aggiornati sono quelli relativi al 2016, mentre per il 2017 ci vorrà ancora tempo prima di conteggiare le domande pervenute. In Piemonte, in un anno, i casi di dimissioni legate alla nascita di un bimbo sono stati 2590. Tra questi, a Torino ne sono stati registrati più della metà, ben 1454. Un dato pesante, che riguarda soprattutto le donne. Ma il numero di uomini è in aumento e non va sottovalutato: nell’intera regione sono stati 596 papà a presentare richiesta (a fronte di 1994 mamme). La legge tutela in particolar modo i genitori che decidono di dimettersi entro il primo anno di vita del bambino garantendo loro l’assegno di disoccupazione e l’indennità di mancato preavviso. Per tutti è necessario confermare che si tratta davvero di dimissioni volontarie e non forzate.
LE CAUSE
Tra le cause più frequenti indicate dalle mamme c’è «l’incompatibilità tra occupazione lavorativa e assistenza al neonato per assenza di parenti di supporto» (468 persone hanno indicato questa motivazione). Sono 250, invece, le mamme che si sono licenziate perché i pargoli non hanno trovato posto al nido e 108 quelle che sono rimaste a casa per «l’elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato». Tra gli altri motivi, 185 lo hanno fatto perché l’organizzazione e le condizioni di lavoro erano particolarmente gravose o difficilmente conciliabili con le esigenze della prole. Nella maggior parte dei casi si tratta di donne tra i 26 e i 35 anni (1252 casi) e quasi tutte (1061) sono italiane. Pochissime le cittadine Ue, 125, e ancor meno le extracomunitarie, appena 66 in tutto il Piemonte. Anche analizzando il tipo di mansioni che si lasciano emerge chiaramente il problema dei costi che vanno a incidere troppo sullo stipendio. Oltre 1130 sono le impiegate, 743 le operaie, 92 hanno la qualifica di apprendista, 21 sono quadri e appena 8 sono dirigenti. Proprio sui dati sulle figure professionali più retribuite incide maggiormente la percentuale di coloro che si licenziano perché hanno avuto nuove opportunità lavorative e che comunque rientrano nelle statistiche perché devono ottenere la convalida dall’ispettorato. Invece è tristemente semplice fare i conti se si ha uno stipendio che a stento raggiunge i 1000 euro al mese: così diventa complicato spenderne in media 500 tra nido e baby sitter per stare via da casa più di 7 ore al giorno.
(La Stampa, 6/1/2018)
di Giordana Masotto
“Cominciamo a vedere nei diritti delle donne, in ciò che accade alle donne, qualcosa che riguarda tutti, come sempre è, ma come spesso è difficile percepire.” Silvia Niccolai (docente di diritto costituzionale) entra con tutta la sua autorevolezza nella vicenda della donna licenziata all’Ikea e ci aiuta a dare nuovo spessore teorico a questioni che ci premono.
Nell’articolo – pubblicato su “il manifesto” del 30/11/2017 – sottolinea la radicale ambivalenza delle norme antidiscriminatorie in materia di donne e lavoro.
Quando in Europa e anche in Italia sono state cancellate le norme speciali che riguardavano le donne (lavoro notturno, età della pensione, ecc) molti hanno sostenuto che così si combattevano gli stereotipi di genere. Ma in molte abbiamo notato che era una rincorsa al basso, uno dei tanti casi in cui prendere a modello il maschile non era affatto un guadagno di civiltà. Niccolai lo spiega bene: “Il fatto è che le norme protettive dettate per le donne tra Otto e Novecento racchiudevano un principio che non riguarda solo le donne: la vita umana, e la società, cioè le relazioni che ci tengono uniti gli uni agli altri e ci danno autonomia e libertà, hanno valore e per questo devono essere tutelate davanti alla logica del profitto che tende a espropriarle. Quelle tutele erano il cuore dello stato sociale, che voleva dire difesa della società davanti all’invadenza del mercato.” Insomma, con quegli interventi antidiscriminatori è accaduto il contrario di quello che in “Immagina che il lavoro” abbiamo provocatoriamente chiamato “portare tutto al mercato”, cioè condizionare la logica di mercato con “tutto il lavoro necessario per vivere”, quella complessità e molteplicità di piani che le donne vivono e a cui non vogliono rinunciare.
Il lavoratore neutro a cui tendono le norme antidiscriminatorie è un lavoratore che è costretto a cancellare l’irrinunciabile. Dice Niccolai: “Non si tratta di garantire alle mamme il recinto in cui accudire i bambini. Si tratta di tornare a chiarire che non deve essere la produzione a dominare ogni singola esistenza e dettarne le priorità.”
Ribadire le priorità dell’esistenza umana: bisogna riconoscere che questo è possibile oggi (per nulla facile, ma pensabile) perché le donne sono entrate nel mondo del lavoro con tutto il peso della loro libertà e materialità. Come conclude Niccolai, non si tratta di “incomprensibili privilegi che il mondo d’oggi non può più permettersi”. Le donne, quando prendono la parola, rendono più giusto il mondo. Io non so se molti lavoratori siano disposti a sentire che quelle battaglie sono giuste non perché sono disposti a difendere i diritti delle donne, ma perché un mondo a misura di donne e di uomini è più giusto e più libero per ogni essere umano.
di Silvia Niccolai
Molti, anche esponenti politici, sostengono che una donna non dovrebbe essere discriminata in quanto madre, come sarebbe accaduto alla signora licenziata da Ikea qualche giorno fa.
È vero, ma dicendo questo non si coglie del tutto la posta in gioco.
Da quarant’anni il diritto antidiscriminatorio, dettato dalla Ue e interpretato dalla Corte di Giustizia, ripete che come genitori donne e uomini sono eguali.
Giustissima idea, che però è servita a dire che sono discriminatorie le norme nazionali che assicurano alle donne tutele ulteriori rispetto a quelle strettamente legate al fatto biologico della gravidanza e del parto.
Presupponendo un’inclinazione femminile al lavoro di cura, tali norme discriminano le donne in quanto ne assumono un’immagine stereotipata.
Perciò è stato considerato discriminatorio, nel 2008, che le pubbliche dipendenti italiane potessero andare in pensione prima degli uomini; così come, nel 1988, furono condannate norme francesi che anticipavano l’età pensionabile delle donne in relazione al numero di figli.
Per il diritto europeo, che condiziona quello italiano, nessuna donna può dire «sono stata discriminata in quanto madre» se un uomo nella sua stessa situazione sarebbe stato trattato allo stesso modo.
Se la condizione di genitore è considerata dal datore egualmente irrilevante nei confronti sia dei dipendenti, sia delle dipendenti, non c’è discriminazione. Una eguale irrilevanza delle condizioni di vita di chi lavora è l’ideale cui tende la tutela antidiscriminatoria.
Anni fa una signora inglese, Sharon Coleman, fu licenziata per le assenze cui la costringeva la disabilità del figlio. Vittima della discriminazione fu considerato il bambino, e la madre venne in rilievo quale persona a lui «associata».
In questo quadro, una donna licenziata perché si occupa di un figlio disabile (salvi tutti i possibili distinguo che nel caso Ikea andranno fatti, tenendo conto del contratto di lavoro, della legge 104 e di altre norme nazionali) può trovare giustizia solo se dimostra che il datore, essendo un individuo cattivo che odia i disabili, intendeva discriminare il bambino.
Nel caso Coleman fu provato che il datore aveva indirizzato al piccolo disabile parole antipatiche. Ma nel caso Ikea? Potrebbe essere una prova impossibile, e non resterebbe che sperare che l’azienda, per benignità o temendo un costo d’immagine, ci ripensi.
Elogiatissimo per la sua lotta progressista contro gli stereotipi di genere, il diritto antidiscriminatorio è servito alla Ue a smantellare le legislazioni protettive del lavoro, e a ridurre il campo delle ragioni che un lavoratore può opporre al datore.
Dopo che il divieto di lavoro notturno per le donne fu abolito perché discriminatorio. le condizioni del lavoro notturno sono diventate più gravose per tutti i lavoratori.
Il fatto è che le norme protettive dettate per le donne tra Otto e Novecento racchiudevano un principio che non riguarda solo le donne: la vita umana, e la società, cioè le relazioni che ci tengono uniti gli uni agli altri e ci danno autonomia e libertà, hanno valore e per questo devono essere tutelate davanti alla logica del profitto che tende a espropriarle.
Quelle tutele erano il cuore dello stato sociale, che voleva dire difesa della società davanti all’invadenza del mercato.
Le donne sono state il primo lavoratore «protetto»: denunciando come discriminatorie le norme protettive per le donne, la Ue ha demolito la legittimazione di ogni tutela nel lavoro e ha costruito il suo modello ideale: la persona che vive per garantire il soddisfacimento delle esigenze del mercato.
Non parliamo, dunque, di «diritti delle donne».
Non stiamo a un gioco nel quale è già pronta la risposta: quei diritti sono stereotipi che danneggiano le donne, oppure sono incomprensibili privilegi (non lo erano le tutele contro il licenziamento illegittimo abolite nel 2012?) che il mondo d’oggi non può più permettersi.
Cominciamo a vedere nei diritti delle donne, in ciò che accade alle donne, qualcosa che riguarda tutti, come sempre è, ma come spesso è difficile percepire.
Non si tratta di garantire alle mamme il recinto in cui accudire i bambini. Si tratta di tornare a chiarire che non deve essere la produzione a dominare ogni singola esistenza e dettarne le priorità.
(il manifesto 30/11/17)
di Marisa Guarneri
Quando sono arrivata alla Montedison di Linate nel 1970 avevo 22 anni. Sono diventata rappresentante della CGIL dentro il Consiglio di Fabbrica alle prime elezioni dei delegati.
Cosa strana per me in quel periodo accesa extraparlamentare. Questo ha voluto dire stare dentro una Sezione Sindacale di Fabbrica CGIL, e successivamente anche in un direttivo Nazionale della Filcea. Nella mia fabbrica c’erano 1.500 persone, donne e uomini che lavoravano nei reparti di produzione – pericolosi e nocivi – e qualche centinaio di ricercatori nelle palazzine del Centro ricerche.
C’era un lungo viale fra l’entrata (cancello) principale e le palazzine del Centro Ricerche e si doveva allungare il passo per andare a timbrare nel gabbiotto dopo la mensa degli “impiegati”, separata da quella degli operai.
Ho sempre avuto problemi ad arrivare in orario e quella lunga camminata era un tormento, mi passava sempre accanto in bicicletta il mio amico Mario che dai reparti di produzione si spostava per qualche compito da svolgere al Semiscala, luogo di sperimentazione dei tipi di produzione in corso. Dopo qualche tempo, sia operai che impiegati mi salutavano. Alcuni ironicamente, altri in modo affettuoso.
Ero l’unica donna nell’esecutivo del C.d.F., cosa ancora non consueta.
L’arrivo in massa di nuove delegate ricercatrici avvenne alcuni anni dopo.
Ci sono alcune cose che non potrò mai dimenticare e che sono nel mio cervello nitide come se tutto fosse accaduto qualche mese fa.
Lo scoppio che – per fortuna – avvenne nell’intervallo di pranzo e la paura subito chiara che portava la notizia: era saltato un reparto. Insieme ad altri del CdF corremmo verso i reparti. Non mi lasciarono entrare. Ci fu un morto. Una manifestazione spontanea e furiosa, che cercammo di condurre fuori dalla zona di produzione. Poteva succedere davvero di tutto.
L’altro ricordo è bello, nella sua drammaticità: un lungo tavolo dove pranzavamo al sole tutti insieme. Davanti al cancello di entrata. Eravamo in occupazione!
Terza situazione la diossina. Che arrivò dopo l’esplosione a Seveso. Era agosto ed ero praticamente la sola rappresentante sindacale in fabbrica. Richiamai tutti gli operai che avevano avuto a che fare con la diossina per fare analisi di controllo.
Sarebbe troppo lungo raccontare tutta la vicenda successiva. Lo farò, ma non qui.
Mi preme dire che il punto forte di questa esperienza fu la denuncia contro Montedison per aver disatteso alla legge di parità nel numero di donne messe in cassa integrazione, superiore a quello degli uomini. Per il dispiacere a molte donne si bloccarono le mestruazioni. Avevano lottato per quel lavoro (nel Centro Ricerca) ci tenevano, non volevano essere espulse, e “tornare a casa ad occuparsi della famiglia” era per loro intollerabile. Il processo andò in sostanza bene e non potendole far lavorare, ma dovendole pagare lo stesso diventò più favorevole per l’azienda richiamarle.
I corpi delle donne hanno sempre contato per me, e dopo anni di trattative per gestire cassa integrazione e trasferimenti mi permisi di andarmene. Ho portato con me il ricordo di lotte grandiose delle donne: il movimento delle delegate che unitariamente lottarono perché il sindacato prendesse posizione a favore dell’aborto. La formazione alla differenza di delegate bancarie e poi di responsabili della CGIL nazionale.
Già viveva la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate.
Fu molto doloroso vedere la struttura della Montedison di Linate scomparire un pezzo alla volta e finalmente nel 1985, accettai la proposta delle donne dell’UDI di Milano e andai con loro a costruire il Centro di formazione professionale e reinserimento per le donne, DonnaLavoroDonna.
E qui comincia un’altra storia.
Nonostante le divergenze, le lotte di schieramento, i conflitti, i congressi vissuti sempre dalla minoranza e molte altre cose positive, quando passo davanti alla Camera del Lavoro di Milano, mi sento a casa mia.
Un amore, che mio figlio, oggi delegato CGIL, mi dice che ormai ha poco senso e che tutto è molto diverso dagli anni ’70 e ’80.
Ma io penso che il primo amore non si scorda mai.
(www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2017)
di Dario Di Vico
Il modello produttivo che ha storicamente caratterizzato Milano, un modello concentrato, basato sulla grande impresa manifatturiera, ha ormai lasciato il posto alle moderne filiere. Ma non sono stati i colossi a rendere Milano pregiata, bensì l’essere diventata un laboratorio creativo. È qui che vengono gli operatori internazionali per imparare, e da Milano questo approccio si è esteso a tutto il made in Italy. Le energie e risorse sono state intercettate da una “borghesia delle competenze”, vitale protagonista di questa rinascita, che ha saputo rinnovarsi e che ha potuto agire tramite canali meno esposti, silenziosamente tessendo e consolidando reti internazionali di eccellenza – dalle università al design – che hanno consentito un’apertura al mondo di Milano, oggi città cosmopolita con un notevole “apporto di capitale umano dall’estero” all’attivo.
Sempre alla voce capitale umano va segnalato, infine, lo straordinario contributo delle milanesi, del ‘fattore D’ per dirla con il libro anticipatore di Maurizio Ferrera.
Una recente ricerca condotta da Roberto Cicciomessere e Lorenza Zanuso non solo ha messo in luce una grande partecipazione al mercato del lavoro delle donne nell’area metropolitana ma ha consentito di operare un paragone con due città europee simbolo dell’avanzata femminile come Stoccolma e Londra. Ebbene, mentre nel caso svedese la partecipazione al lavoro delle donne è rimasta comunque segregata per lo più nell’ambito delle occupazioni tradizionalmente femminili (sanità e scuola in testa), a Milano questa gabbia è stata superata e l’arco delle professioni che vedono impegnate le donne comprende largamente il terziario avanzato. Al punto che non risulta lunare una comparazione con la capitale inglese che il processo di valorizzazione del fattore D lo aveva iniziato molto tempo prima.
(Corriere della Sera, 2 ottobre 2017)
di Franca Fortunato
La presentazione del libro L’Europa delle Città Vicine (Edizioni Mag, Verona 2017) svoltasi a Catanzaro il 6 aprile scorso nella sede della Legacoop Calabria, per iniziativa mia, di Serena Procopio e Lina Scalzo, come Città Vicine e Donne della Differenza di Catanzaro, in collaborazione con la presidente regionale della Legacoop, Angela Robbe, è stata un’occasione di conoscenza reciproca, di confronto, di scambio e di dialogo con alcune imprenditrici e cooperatrici, che con le loro imprese hanno aperto anche in Calabria nuove vie, creato “nuove istituzioni” per un’Europa più vicina alle vite, ai bisogni e ai desideri. Un’Europa di cui come Città Vicine abbiamo parlato al convegno del 21 febbraio 2016 a Roma alla Casa Internazionale delle donne e di cui il libro, a cura di Loredana Aldegheri, Mirella Clausi e Anna Di Salvo, edito Mag Verona, raccoglie i contenuti e le testimonianze.
Nella mia relazione sono partita dal fare conoscere le Città Vicine, la storia, il percorso, le pratiche, i guadagni personali e collettivi, gli spostamenti di sguardo dalla città all’Europa, dall’“altra città” all’“altra Europa”, gli incontri e i saperi nati in uno spazio relazionale, divenuto nel tempo uno spazio europeo, che ci porta oggi a parlare di un’Europa delle città, o per meglio dire di un’Europa delle cittadine e dei cittadini che abitano le città europee. Una realtà questa in fieri, perché le cittadine e i cittadini europei – come è stato detto nel convegno di Roma – non hanno ancora sottoscritto alcun patto sociale, non c’è una Costituzione europea. Parlare dei contenuti del libro a partire dai due volti dell’Europa, quello duro e spietato di un’Europa senza anima e quella dell’accoglienza e dell’umanità, è stato un modo per dire del cambio di civiltà che sta accompagnando la costruzione di un’altra Europa, di cui fanno parte anche le imprenditrici presenti all’incontro.
Donne di Calabria, protagoniste – come ha detto Serena Procopio nel presentarle – «di una trasformazione del modo di pensare e di creare impresa e lavoro, o per meglio dire di nuove forme di esistenza, perché in molti casi il tempo e lo spazio di lavoro, così come i valori e gli intrecci relazionali, coincidono con quelli della vita». Roberta Caruso, Anna Laura Orrico, Deborah De Rose, Rosa Ciacci, Anna Corrado, Raffaella Conci, Angela Forti, Alessandra Grassi, Ingrid Musciacchio, sono loro le imprenditrici che hanno portato all’incontro la loro esperienza, i loro progetti, i loro desideri e i sogni realizzati. Donne diverse tra loro, per età, consapevolezza e percorsi professionali, ma tutte animate dalla passione e dalla volontà di cambiare la Calabria a partire da sé, dai propri desideri e dalla volontà di cooperare, collaborare, condividere saperi, esperienze, spazi.
Angela Robbe, la presidente della Legacoop Calabria, ha ricordato il suo impegno ventennale nella cooperazione e il coraggio di tante donne calabresi che hanno scelto di lavorare in cooperativa anche in contesti difficili, come quelli in cui vi è una forte presenza della ‘ndrangheta. A raccontare di una di queste esperienze è stata la giovane Raffaella Conci della cooperativa “Terre Joniche – Libera Terra”, nata nel 2013 con sei persone che non si conoscevano, che avevano partecipato a un bando pubblico per costituire, dietro richiesta dell’associazione “Libera” di don Ciotti, una cooperativa a cui assegnare i terreni confiscati alle cosche di Isola Capo Rizzuto e di Cirò, in provincia di Crotone. I mafiosi – come ha raccontato Raffaella – reagirono da subito con violenza, minacce e intimidazioni, danneggiando la casa che sorgeva sui terreni confiscati. Ristrutturata, oggi, è una struttura di “turismo responsabile” dove ogni estate arrivano giovani da tutta Italia, «più dal nord che dal sud», per le «Estati libere», durante le quali condividono il lavoro con i soci e partecipano a incontri, corsi sull’antimafia e sulla legalità. I terreni confiscati e assegnati alla cooperativa producono prodotti biologici e, con il marchio “Libera Terra”, arrivano anche nella grande distribuzione grazie alla rete delle cooperative riunite nel Consorzio “Libero Mediterraneo”. Raffaella si è detta convinta che la cooperativa ha sì un valore d’impresa ma soprattutto ha un valore sociale, quello di comunicare una possibile alternativa e cioè che anche in Calabria si possa fare impresa in maniera legale, utilizzando un bene confiscato e facendo dell’antimafia sociale. «Altro non vogliamo fare – ha detto – che gli imprenditori nella nostra terra per non essere costretti a scappare».
È per non essere costrette a scappare, o per poter tornare, che tre giovani donne di Cosenza, Roberta Caruso, Anna Laura Orrico, Deborah De Rose, legate tra loro da rapporti di amicizia, stima e fiducia, la cui forza si chiama passione, determinazione, creatività, entusiasmo, costanza, desiderio, che si sono inventate il lavoro, con uno sguardo all’Europa ed oltre. È il lavoro del co-working , del social eating che sbarca con loro in Calabria,e che si fonda sulla condivisione di spazi, esperienze, saperi, sapori, relazioni, convivenza, solidarietà, fiducia. Valori, tradizionali di una terra accogliente e solidale qual è la Calabria, declinati in un modo nuovo di pensare e di creare impresa e lavoro.
Roberta Caruso a Montalto Uffugo, a pochi chilometri da Cosenza, ha creato con la sua famiglia l’impresa “Home for Creativity” con cui ha trasformato la casa dei suoi genitori in una “casa condivisa”, in un’attività di co-living. Figlia unica, dopo aver studiato fuori della Calabria ed essersi laureata in filosofia, è tornata nella sua terra dove da subito si è trovata a far i conti con la casa su cui i suoi genitori – come molti altri – avevano investito «tutte le proprie energie e risorse economiche». Una casa isolata, in piena campagna, lontana dalla città, che per un certo tempo era stata una zavorra. Come trasformarla in un’impresa sociale? Roberta guarda a esperienze fuori dalla Calabria e dall’Europa, ed ecco l’idea che si trasforma in progetto e questo in realtà. Aprire la propria casa, per una giornata o per un tempo più lungo, all’accoglienza di perfetti sconosciuti e alla condivisione di tutti gli spazi interni ed esterni (orto, frutteto, uliveto), condividere il piacere della buona tavola in un ambiente familiare, condividere gli strumenti di cui dispone la casa, eventi culturali e formativi. Roberta ha come obiettivo – come lei stessa ha raccontato – di aprire le porte in maniera assolutamente gratuita, non nel senso economico ma «nel senso di non aspettarsi che l’altro risponda ai nostri criteri o alle nostre aspettative». Aprire casa a gente che viene anche per una notte e poi va via, non crea paura, né a lei né ai suoi genitori, perché – dice – «abbiamo sperimentato che la fiducia se compresa restituisce fiducia».
Fiducia, condivisione di spazi e di esperienze sono alla base anche della creazione del co-working (condivisione di un ambiente di lavoro) di cui ha parlato Anna Laura Orrico, una delle socie fondatrice di “Talent Garden”, il primo spazio word sull’innovazione digitale, l’unico che fa riferimento alla rete dei Talent Garden di tutto il sud d’Italia. Il Talent Garden di Cosenza è uno dei 18 spazi digitali distribuiti in Italia e in Europa. In uno spazio di 400 mq convivono 24 professionisti che lavorano tutti nell’ambito del mercato digitale, nel mondo delle nuove tecnologie, dove cadono frontiere e limiti perché «nel mercato digitale l’unica infrastruttura che serve è un collegamento a internet e un Pc, pertanto uno sviluppo web che sta a Cosenza, compete con uno sviluppo web che sta a Milano, senza alcun tipo di differenza se non la maggiore o migliore competenza e capacità di riuscire ad avere più fette di mercato». «Abbiamo fatto questa scelta – ha detto Anna Laura – perché il potenziale del digitale ci permette di inventarci un lavoro, di fruire di nuove forme d’impresa, restando in Calabria, e di portare ricchezza e valore sul nostro territorio». Nella sua impresa ha coinvolto molti diciottenni con il progetto di sperimentazione “Giovani e futuro comune”, nel quale viene chiesto loro di riprogettare la valorizzazione dei beni comuni che «rappresentano quel patrimonio culturale, sociale, ambientale e paesaggistico, dal quale ripartire per costruire un nuovo modello economico, sociale, quel modello di cui l’Europa ha bisogno».
Deborah De Rose, avvocata e docente di diritto all’Accademia di moda a Cosenza, dal 2014 ha creato “Interazioni creative”, un progetto di condivisione dello spazio del suo studio legale (48 mq), messo a disposizione della creatività, del saper fare e del talento. A 28 anni, con uno studio legale avviato, fa un viaggio in Sicilia in un centro d’arte contemporanea, e qui la svolta. Incontra una donna, Maria, la cui casa era stata trasformata in uno spazio di arte contemporanea, pur continuando a viverci dentro. Tornata a Cosenza, vuole fare lo stesso con lo spazio del suo studio, mettendolo a disposizione e sostenendo chiunque voglia mettersi in gioco, voglia condividere idee, progetti, sogni «anche quelli che possono sembrare insignificanti». «Noi attiviamo i progetti non li creiamo, diamo gli strumenti per realizzarli e mettiamo a disposizione tutta la rete di professionisti che hanno segnalato la loro volontà di fare sul territorio», dice Deborah e aggiunge: «Io metto lo spazio, nessuno mette un euro, io incoraggio. La fiducia chiama fiducia». Tra i tanti laboratori creati, Deborah racconta di un laboratorio di ceramica per opera di una ceramista che stava per fallire, a causa dell’alto costo delle bollette energetiche, dovuto all’uso continuo del forno. Nel laboratorio la donna ha avviato un corso a cui hanno partecipato ex ceramiste, che avevano chiuso i loro laboratori e insieme, condividendo l’infornata e la relativa bolletta di energia elettrica, hanno ripreso a vendere e forse riapriranno il loro laboratorio. “Intersezioni creative” è divenuto, dopo un anno e mezzo, quello che Deborah ha definito «un reticolato dove ognuno entra ed esce e dove si creano relazioni creative».
Quattro donne, tutte calabresi, nel 2014 a Roma, dove risiedono, si inventano un lavoro e creano la società cooperativa “Ecoplanner” che organizza eventi ecosostenibili per privati, aziende ed enti. Federica e Rosa Ciacci, Marta Veltri e Claudia Minniti sono i loro nomi. Rosa, invitata all’incontro, è rimasta bloccata da impegni a Roma e così è venuta Federica, la sorella, che oggi sta portando avanti un progetto in Brasile. Federica ha raccontato di come è nata la società in un pomeriggio piovoso. «Spinte dal fatto che dovevamo fare qualcosa per il nostro futuro ci siamo sedute a pensare e abbiamo provato a buttare giù qualche idea partendo da ciò che ci interessava di più, come: il rispetto dell’ambiente, il riuso, il riciclo, il consumo consapevole. Ed ecco Ecoplanner». Progettano e realizzano eventi sostenibili; hanno creato una rete sempre più estesa di partner tra produttori di tutti i tipi, stilisti, artigiani. Donne coraggiose che non hanno dimenticato la loro terra dove sono tornate con Ecoplanner nel 2016 a Soverato, a pochi chilometri da Catanzaro, chiamate da un gruppo di donne, che avevano preso in gestione una fabbrica dismessa e abbandonata, per arricchire il loro palinsesto con un programma green che comprendeva una mostra di arte contemporanea, una fiera, una sezione cinema, una fiera con la prima edizione di Greenexpo, la presentazione di diverse realtà calabresi sostenibili.
Anna Corrado, tornata in Calabria da Milano, vent’anni fa è entrata da volontaria nella cooperativa “Agorà Kroton” dove oggi è vicepresidente e amministratrice contabile. La cooperativa è nata trent’anni fa per occuparsi del recupero di tossicodipendenti e dal 1998, con l’arrivo dei primi migranti provenienti dal Kosovo, “accompagna” – come ama dire Anna – i rifugiati e i richiedenti asilo, attraverso la gestione di due Centri Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) in collaborazione col Comune di Crotone. La cooperativa favorisce anche l’integrazione attraverso corsi di formazione finalizzati all’occupazione. «Si cerca di trovare sempre l’azienda o l’impresa che possa assumerli per il lavoro che sanno fare». Nel suo lavoro di contabile della cooperativa, Anna mette in gioco se stessa perché «ho capito che dietro al numero, ai bilanci, ci sono le persone». Dover fare quadrare il bilancio in una cooperativa sociale, che non deve produrre profitti, per lei vuol dire cercare di soddisfare i bisogni delle persone che si accolgono, il bisogno di un minore che arriva e in cui «rivedi i tuoi figli». «Faccio quello che faccio per rendere la società migliore anche per le mie figlie».
Angela Forti a Reggio Calabria 22 anni fa e altre nove giovani donne, tutte insegnati, decisero di creare la “Cooperativa Sofia” per realizzare un’idea, che lievitava da tempo nella loro testa, cioè aprire una scuola nella quale «venissero messe in atto le più innovative metodologie psico-pedagogiche e che nello stesso tempo venisse ad essere un servizio per le famiglie del territorio». Fu un successo. Partirono con una struttura di 120 mq (due aule grandi, una più piccola, un cortile da ristrutturare) con un nido e una scuola per l’infanzia, oggi si ritrovano con una villa liberty padronale del primo Novecento, acquistata e ristrutturata con prestiti della Banca Etica e di Coopfondi. Angela ha raccontato come la loro scuola sul territorio ha sempre cercato di andare incontro ai bisogni delle mamme lavoratrici con un orario prolungato (dalle 7 alle 20) e spezzato per le donne che lavorano nel commercio. «Per molte donne del territorio – ha detto – è stato veramente avere la possibilità di tenere, trovare e mantenere un’occupazione». Dopo tanti anni Anna si è detta ancora contenta del suo lavoro perché, lei e le sue amiche insegnanti credono ancora in quello che fanno.
A credere nel suo lavoro è anche Ingrid Musciacchio, giovane ingegnera, della società cooperativa “Activa” di Castrolibero in provincia di Cosenza, che si occupa di studi di architettura e ingegneria e sta effettuando il monitoraggio di tutti corpi idrici della Calabria. Ingrid si è detta contenta dell’ambiente in cui lavora non solo perché la maggior parte sono donne ma, soprattutto, perché la società è andata sempre incontro alle esigenze di ognuna medianti “semplici accorgimenti” come: lavori part-time, telelavoro e flessibilità dell’orario di lavoro.
L’incontro si è concluso in un clima di entusiasmo e di condivisione di emozioni. Tutte e tutti hanno sottolineato la bellezza del dialogo, del confronto e dello scambio che c’è stato tra donne così diverse tra loro, ma accomunate dal desiderio e dalla curiosità di conoscersi, di conoscere e raccontare l’altra Calabria, quella che è già cambiata grazie alle donne. Alcune – come l’imprenditrice e vicepresidente della Confcooperative Calabria, Iolanda Cerrone di Cosenza – hanno espresso il desiderio di ripetere l’incontro nella propria città.
(www.libreriadelledonne.it, 19 aprile 2017)
di Linda Laura Sabbadini
Negli ultimi venti anni le donne hanno rappresentato la componente più dinamica e innovativa della società, quella che è cambiata di più, modificando la società stessa. Ma per decenni, insieme ad anziani e bambini, sono state invisibili nelle statistiche ufficiali. Invisibili, perché gli Istituti nazionali di statistica sono stati tradizionalmente economicocentrici. Se, infatti, il focus delle politiche era unicamente circoscritto a quelle economiche, analogamente, poco spazio veniva dato alle statistiche sociali e all’approccio di genere. L’attenzione era concentrata essenzialmente sul Pil, sulla popolazione attiva, soprattutto quella inserita nel mercato del lavoro, e costituita da uomini adulti; i bambini erano analizzati solamente in quanto nati e studenti, gli anziani come percettori di pensione, le donne come maggioranza della popolazione inattiva. Per molto tempo insomma, è stato dato poco spazio ai soggetti in quanto tali, come portatori di bisogni specifici, e alla qualità della loro vita.
Svolta
Nel quadro di una grande svolta a favore dello sviluppo delle statistiche sociali, a partire dagli anni 90, l’Istat ha investito sulle statistiche di genere, mettendo a disposizione un patrimonio informativo sempre più ricco e fondamentale per la progettazione di politiche di genere che ha fatto del nostro Paese una punta avanzata nell’applicazione della Piattaforma di Pechino. È proprio alla Conferenza mondiale delle donne di Pechino che, nel 1995, l’Italia si presenta con il volume Istat «Tempi diversi». Seguito nell 2004 da un nuovo rapporto e al quale si aggiunge oggi il nuovo volume «Come cambia la vita delle donne».
Sono passati venti anni, sono tanti, il patrimonio informativo si è molto arricchito: su molti temi non abbiamo la possibilità di fare confronti di lungo periodo come nel caso degli stereotipi di genere, delle donne migranti, delle rinunce e delle discriminazioni delle donne, della violenza di genere. Come cambia la vita delle donne descrive le trasformazioni del vivere delle donne e i principali mutamenti che conoscono nelle varie fasi della vita.
L’universo femminile è fortemente variegato e dinamico: le donne investono di più in cultura rispetto agli uomini, riescono meglio negli studi, danno maggior e rilievo al lavoro rispetto al passato, sperimentano forme nuove del produrre e riprodurre, rivestono una molteplicità di ruoli nelle diverse fasi della vita, presentano percorsi di vita più complessi e frastagliati. Un intreccio di trasformazioni, aspirazioni e comportamenti che ridefinisce le loro traiettorie biografiche (formative, lavorative, affettive, coniugali, riproduttive), modificando ampiezza e contenuti delle diverse fasi del ciclo di vita individuale e familiare. Questi elementi che già avevamo messo in luce nel precedente volume si confermano e si accentuano nel corso del tempo, e a partire dal 2008, sono fortemente condizionati dalla crisi. Nelle analisi del volume precedente era evidente la grande spinta delle donne e i grandi risultati che aveva portato. Gli anni della grande speranza e voglia di riscatto, gli anni di espressione della nuova identità femminile.
I dieci anni successivi testimoniano ulteriormente la forza delle donne e la determinazione con cui vanno avanti, ma al tempo stesso evidenziano i grandi ostacoli che si frappongono con l’arrivo della crisi.
Grazie alla lunga marcia nel campo dell’istruzione che le ha portate da una situazione di totale svantaggio al sorpasso in tutti gli ordini di studi, e dopo essere entrate con determinazione in corsi tradizionalmente maschili, le donne si affermano anche nel campo culturale e delle nuove tecnologie. Il lavoro diventa sempre più un aspetto importante dell’identità femminile, cresce il numero delle donne occupate, aumenta il coinvolgimento delle donne in tutti i tipi di lavoro, migliora la posizione lavorativa delle donne anche nei luoghi decisionali politici ed economici: il numero di parlamentari in Italia e in Europa non è mai stato così alto e così anche il numero di donne ministro, oltre ai componenti dei cda delle imprese, grazie alla legge Golfo-Mosca.
Modelli
Il modello femminile di partecipazione al mercato del lavoro assume così nuovi connotati. In passato le donne cominciavano a lavorare in giovane età, avevano minori aspirazioni, un livello di istruzione più basso rispetto a quello degli uomini e il lavoro era vissuto per lo più come una esperienza transitoria che finiva tendenzialmente con l’arrivo del matrimonio. Oggi ci si avvicina al mondo del lavoro in età più avanzata, in fasi della vita in cui le generazioni precedenti già cominciavano a uscirne, con un livello di istruzione elevato, con aspettative certamente più alte e con l’intenzione di non abbandonare il lavoro prima di aver maturato la pensione. Ma nonostante la spinta delle donne, il livello di occupazione femminile non è ancora arrivato al 50%.
La grande crescita dell’occupazione femminile comincia nel 1995 e continua ininterrottamente fino al 2008, sebbene negli ultimi anni a un ritmo meno sostenuto. In questo periodo più di un milione e 700 mila donne sono entrate nel mercato del lavoro, una vera rivoluzione per le donne e per il Paese. Ma questa crescita si è concentrata quasi completamente nel Centro Nord del Paese. Conseguentemente, sono aumentate le differenze tra donne del Nord e donne del Sud.
La crescita di occupazione femminile nel periodo di crisi è avvenuta al prezzo di un peggioramento della qualità del lavoro delle donne: è aumentato il part-time involontario, la sovra-istruzione, e sono aumentate le professioni non qualificate e diminuite quelle tecniche.
I problemi di conciliazione dei tempi di vita si sono accresciuti. Continua ad essere alto il numero di lavoratrici che interrompe il lavoro dopo la nascita del figlio, anzi si incrementa nella crisi. Inoltre a fronte di una elevata maggioranza a favore di una più equa divisione dei ruoli all’interno della coppia quando ambedue i partner lavorano a tempo pieno, emerge una sostanziale non piena coscienza da parte della maggioranza di uomini e donne del grado di asimmetria dei ruoli nelle coppie.
Ciò lascia trapelare l’esistenza in Italia di un modello breadwinner «modernizzato» in cui l’uomo lavora e, se può, aiuta in casa, mentre la donna si fa carico della famiglia e lavora quanto può, dati i carichi familiari. Non dobbiamo meravigliarci dunque se la divisione dei ruoli nella coppia si trasformi ancora lentamente anche dal punto di vista del reddito. Le coppie con uomo breadwinner, il modello tradizionale, rappresentano ancora una realtà più diffusa che in altri paesi europei. Mentre la situazione di donna principale percettore della famiglia si associa molto spesso a condizioni economiche difficili, ad esempio quando il partner è disoccupato, piuttosto che a un sistema stabile di divisione dei ruoli o a un nuovo modello emergente più paritario di divisione dei ruoli. Donne decise, che vogliono realizzarsi su tutte le dimensioni della vita sempre di più, e vanno avanti ma che devono fare i conti ancora con grandi ostacoli che vanno rimossi per lo sviluppo del Paese.
I momenti decisivi
In un’esistenza che raggiunge età sempre più elevate, il calendario degli eventi decisivi tende a spostarsi in avanti con un ritardo progressivo nei tempi delle transizioni della vita più significative: le donne affrontano carriere scolastiche più lunghe rispetto ai loro coetanei, l’età in cui escono dalla casa dei genitori tende ad approssimarsi a quella degli uomini, fanno sempre meno figli e sempre più tardi, coabitano con loro per durate maggiori, hanno una vita media più lunga rispetto agli uomini, ma il numero di anni vissuti in “buona salute” è inferiore a quello del sesso maschile. Protagoniste di importanti trasformazioni nelle modalità di fare e vivere la famiglia, le donne sperimentano la convivenza più spesso del passato sia come forma alternativa al matrimonio che come transizione verso il matrimonio. Escono dalla famiglia sempre più anche per motivi di lavoro e alla ricerca dell’autonomia. Rimettono in discussione scelte che implicano la rottura dell’unione coniugale, la loro più diffusa partecipazione al mercato del lavoro contribuisce a definire nuovi ruoli e rapporti all’interno della famiglia.
La cultura
Grazie alla lunga marcia nel campo dell’istruzione che le ha portate da una situazione di totale svantaggio al sorpasso in tutti gli ordini di studi, e dopo essere entrate con determinazione in corsi tradizionalmente maschili, le donne si affermano anche nel campo culturale e delle nuove tecnologie. Le ragazze fruiscono di cultura più dei ragazzi e si azzera lo svantaggio femminile nel campo delle nuove tecnologie. Leggono di più, si recano di più a teatro, e a spettacoli. Le differenze di genere nelle nuove tecnologie permangono ma l’età in cui si evidenziano si sposta sempre più in avanti, sottolineando l’esistenza della forte influenza del fattore generazionale. Il lavoro diventa sempre più un aspetto importante dell’identità femminile, cresce il numero delle donne occupate, aumenta il coinvolgimento delle donne in tutti i tipi di lavoro, migliora la posizione lavorativa delle donne anche nei luoghi decisionali politici ed economici: il numero di parlamentari in Italia e in Europa non è mai stato così alto e così anche il numero di donne ministro, oltre ai componenti dei cda delle imprese, grazie alla Legge Golfo-Mosca.
Il modello femminile di partecipazione al mercato del lavoro assume così nuovi connotati. In passato le donne cominciavano a lavorare in giovane età, avevano minori aspirazioni, un livello di istruzione più basso rispetto a quello degli uomini e il lavoro era vissuto per lo più come una esperienza transitoria che finiva tendenzialmente con l’arrivo del matrimonio. Oggi ci si avvicina al mondo del lavoro in età più avanzata, in fasi della vita in cui le generazioni precedenti già cominciavano a uscirne, con un livello di istruzione elevato, con aspettative certamente più alte e con l’intenzione di non abbandonare il lavoro prima di aver maturato la pensione. Ma nonostante la spinta delle donne, il livello di occupazione femminile non è ancora arrivato al 50%.
La grande crescita dell’occupazione femminile comincia nel 1995 e continua ininterrottamente fino al 2008, sebbene negli ultimi anni a un ritmo meno sostenuto. In questo periodo più di un milione di donne sono entrate nel mercato del lavoro, una vera rivoluzione per le donne e per il Paese. Ma questa crescita si è concentrata quasi completamente nel Centro Nord del Paese, il Sud ha raccolto le briciole. Conseguentemente, sono aumentate le differenze tra donne del Nord e donne del Sud.
Occupazione
L’occupazione femminile ha tenuto meglio di quella maschile durante la crisi. Gli uomini hanno perso quasi un milione di occupati, le donne presentano un segno leggermente positivo. Molti sono i fattori a cui ciò è stato dovuto: i) alla crescita dell’occupazione delle ultracinquantenni imputabile sia alle nuove misure relative all’innalzamento dell’età pensionabile, sia all’ingresso in quella classe di età di generazioni di donne con più lunghe carriere contributive; ii) alla crescita dell’occupazione delle immigrate nei servizi alle famiglie, unico settore ad essere cresciuto durante la crisi perché l’assistenza ad anziani non autosufficienti si configura come un bisogno incomprimibile e, durante la crisi, le famiglie hanno preferito tagliare altre spese piuttosto che rinunciare a questo sostegno; iii) alla crescita dell’occupazione delle donne del Sud di basso status sociale che si sono attivate per trovare lavoro a fronte della perdita del lavoro da parte dei loro compagni. Ma la leggera crescita di occupazione femminile nel periodo di crisi è avvenuta al prezzo di un peggioramento della qualità del lavoro delle donne: è aumentato il part-time involontario, la sovra-istruzione, e sono aumentate le professioni non qualificate e diminuite quelle tecniche I problemi di conciliazione dei tempi di vita rimangono elevati.
Reddito
Nonostante la condizione reddituale femminile continui a essere peggiore di quella maschile, nel corso del tempo le distanze sono diminuite, così come sono diminuite nel mercato del lavoro. Segnali di un cambiamento positivo, anche rispetto ai coetanei maschi, si rilevano tra le donne single fino a 64 anni e particolarmente favorevole, seppur meno marcata rispetto a quella degli uomini, è stata la dinamica reddituale delle anziane sole, che si accompagna al miglioramento di quelle che vivono in coppia e al miglioramento generalizzato tra tutte le donne che vivono con un partner, con o senza figli. L’unica eccezione è rappre¬sentata dalle coppie con almeno tre figli, soprattutto se minori, tra le quali l’aumento dell’incidenza della povertà assoluta è stato particolarmente accentuato. Un deciso aumento del disagio economico si rileva anche tra le madri sole con figli minori, come conseguenza della peggiore dinamica reddituale, legata a bassi livelli di occupazione, a bassi profili professionali e a una diffusa presenza di occupazioni part-time. Il problema del disagio si allarga anche alle madri sole con figli adulti. Continua ad essere alto il numero di lavoratrici che interrompe il lavoro dopo la nascita del figlio, anzi si incrementa nella crisi. E le lavoratrici che non interrompono il lavoro si lamentano per le maggiori difficoltà che incontrano nella conciliazione dei tempi di vita.
Condivisione
D’altro canto, la condivisione delle responsabilità familiari si modifica lentamente e il sovraccarico sulle spalle delle donne continua ad essere elevato. I cambiamenti sono più frutto del taglio operato dalle lavoratrici nel numero di ore di lavoro familiare che dell’aumento del tempo dedicato dagli uomini. Un’eccezione riguarda i padri di figli piccoli di elevato livello di istruzione e occupati in attività che permettono di dedicarsi di più al lavoro familiare, in queste famiglie il loro contributo è più paritario. La forte asimmetria nella divisione del lavoro familiare tra i partner viene legittimata dalla persistenza di visioni stereotipate delle competenze di genere in ambito familiare. La metà della popolazione, infatti, ritiene che «gli uomini sono meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche», anche tra i giovani. Un intervistato su due esprime accordo con l’affermazione «è soprattutto l’uomo che deve provvedere alle necessità economiche della famiglia». Inoltre a fronte di una elevata maggioranza a favore di una più equa divisione dei ruoli all’interno della coppia quando ambedue i partner lavorano a tempo pieno, emerge una sostanziale non piena coscienza da parte della maggioranza di uomini e donne del grado di asimmetria dei ruoli nelle coppie. Ciò lascia trapelare l’esistenza in Italia di un modello breadwinner ‘modernizzato’ in cui l’uomo lavora e, se può, aiuta in casa, mentre la donna si fa carico della famiglia e lavora quanto può, dati i carichi familiari. Non dobbiamo meravigliarci dunque se la divisione dei ruoli nella coppia si trasformi ancora lentamente anche dal punto di vista del reddito. Nel tempo, pur essendo aumentato il livello di reddito delle donne anziane, il contributo femminile al reddito familiare nella coppia è diminuito. Nelle altre famiglie è invece aumentato, soprattutto in quelle più giovani senza figli. Non cresce tanto il modello simmetrico, ma quello in cui le donne contribuiscono maggiormente al reddito familiare. Nonostante ciò le coppie con uomo bread-winner , il modello tradizionale, rappresentano ancora una realtà più diffusa che in altri paesi europei. Inoltre, la situazione di donna principale percettore della fami¬glia si associa molto spesso a condizioni economiche difficili, ad esempio quando il partner è disoccupato, piuttosto che a un sistema stabile di divisione dei ruoli o a un nuovo modello emergente più paritario di divisione dei ruoli: si tratta nella maggior parte dei casi di famiglie con livelli di reddito molto bassi residenti nel Mezzogiorno.
Immigrate
Un nuovo soggetto femminile è emerso negli ultimi dieci anni, le donne immigrate. Il modello migratorio in Italia è particolare. Non è concentrato su una unica cittadinanza, ma su una pluralità di provenienze e di esperienze femminili. Alcune comunità, come la filippina, agiscono da ‘apripista’; lasciano la famiglia nel Paese di origine e si fanno raggiungere in Italia solo dopo essersi ben radicate nel Paese. Le donne della comunità marocchina, al contrario, arrivano in Italia per ricongiungersi ai loro cari, ma mentre nel passato i permessi di soggiorno delle donne straniere erano legati fondamentalmente al ricongiungimento familiare, ormai la componente lavorativa è sempre più presente. E le donne svolgono un ruolo fondamentale insieme ai minori nel facilitare l’integrazione delle diverse comunità nel nostro Paese.
Violenza
Si sviluppa una nuova coscienza femminile. Le donne vogliono realizzarsi su tutti i piani e sempre più sono coscienti delle difficoltà che hanno davanti. I dati sulla violenza sulle donne sono di particolare interesse in questo senso: diminuiscono la violenza fisica e sessuale da parte dei partner attuali e da parte di ex partner, soprattutto tra le giovani,ma non solo, e cala pure la violenza sessuale Non si intacca però lo zoccolo duro della violenza nelle sue forme più gravi (stupri e tentati stupri) come pure le violenze fisiche da parte dei non partner, mentre aumenta la gravità delle violenze subite. Più alto è il numero di violenze con ferite. Più frequente è la paura per la propria vita. Emerge al contempo una maggiore consapevolezza della violenza subìta. Considerando le violenze da parte dei partner o degli ex partner negli ultimi 5 anni, le donne denunciano di più, ne parlano di più, si rivolgono di più ai centri antiviolenza, agli sportelli o ai servizi per la violenza contro le donne. E molte più vittime considerano la violenza come un reato. E’ un segnale importante da non sottovalutare, anzi da sostenere con politiche adeguate perché vuol dire che probabilmente le donne hanno acquisito una maggiore capacità di riconoscere la violenza, di prevenirla, anche interrompendo la relazione. Ma la crescita di questa consapevolezza e la maggiore capacità di gestire le situazioni violente può anche produrre una dura reazione nei settori maschili più tradizionali.
Terza età
Una nuova soggettività femminile emerge anche nelle età anziane. Le donne con alto titolo di studio rompono lo stereotipo della donna anziana sola, in cattive condizioni di salute e peso per la società. Per queste donne l’avanzare degli anni si sta trasformando sempre più in una età da inventare, come diceva Betty Friedan. Gli orizzonti si ampliano, soprattutto per il segmento più istruito e in migliori condizioni economiche, con una sempre maggiore fruizione culturale e il crescente coinvolgimento nelle relazioni sociali e nelle reti di aiuto informale. Le anziane diplomate e laureate sono sempre di più, anche se non ancora in maggioranza, dinamiche e multitasking prefigurano sempre più le vite delle anziane di domani. Dunque, forte spinta e determinazione femminile, progressi, ma ancora un percorso ad ostacoli verso nuovi orizzonti e nuove conquiste. Le generazioni di donne che si sono susseguite, quelle che non avevano diritti, quelle dei diritti conquistati, quelle dei diritti acquisiti passano da una fase all’altra nel loro percorso di vita e in questi passaggi con le loro differenti storie, costruiscono nuovi orizzonti. La spinta delle donne è inarrestabile, Nonostante tutto, le donne vanno avanti.
(27esimaora.corriere.it, 14/3/2016)
di Luisa Pogliana
Una notizia si aggira in questi giorni sulla stampa e in rete. Possiamo sintetizzarla come fa, per esempio, uno di questi quotidiani: «Una ricerca Usa su 22 mila imprese dice che nei Cda dove le donne sono almeno tre su dieci la quota di utile aumenta del 6%.» (vedi qui: Così le donne al comando fanno crescere l’utile dell’azienda – Corriere.it).
Quello che stupisce è lo stupore con cui questo risultato viene riferito. In realtà abbiamo una ricerca, per quanto enorme, che dice cose già dette e documentate ampiamente da più di un decennio (ci ricordiamo Womenomics?). È il fondamento su cui si basano molte attività di donne d’azienda per promuovere le carriere femminili.
E sono note anche le supposte ragioni. «Le manager sono consapevoli di essere guardate a vista e quindi danno sempre il massimo. Lavorano di più. Mediamente sono molto preparate perché devono dimostrare di meritare un posto che è stato affidato loro grazie a una legge» dice Daniela del Boca nell’articolo citato. Ma più interessante nel suo commento è l’ultima frase: «Il loro arrivo scardina dinamiche di potere tanto consolidate quanto controproducenti. Penso per esempio alla corruzione». È questo l’elemento essenziale su cui ragionare.
“Potere” è una parola ambivalente, tra dominio e possibilità. Ma poiché nello spazio pubblico il potere è da sempre degli uomini, ha finito per cristallizzarsi in codici maschili: comando, controllo, dominio, arbitrio, autoreferenzialità. Molte donne però hanno cominciato ad assumere i ruoli decisionali alti senza adeguarsi a questa cultura, fondandosi invece sul loro punto di vista diverso.
Il punto di svolta è stata la scelta di guidare l’azienda tenendosi fuori dalle logiche di potere. Logiche che portano a conservare lo status quo, perché finalizzate al proprio potere personale anche a scapito dello sviluppo aziendale. Di conseguenza queste donne guardano criticamente i modelli manageriali che ne derivano.
Mentre negli uomini più forte è la tendenza a riferirsi agli schemi sperimentati e a ragionare per teorie, le donne più spesso maturano le decisioni tarandosi sulla situazione reale che hanno davanti. Non è una riduttiva questione di pragmatismo, è un modo di pensare libero da pregiudizi, che parte dalla propria visione e si misura con la realtà: attento alla specificità, alle circostanze, al contesto umano e affettivo. E accetta il rischio di provare a cambiare.
Così sono state realizzate nuove politiche cambiando alcuni cardini della cultura manageriale, che hanno portato benefici imprevisti all’azienda e a chi vi lavora.
Non possiamo qui darne conto, ma citiamo solo un orientamento che ricorre spesso. Per esempio, si costruisce la crescita professionale e decisionale di tutto il gruppo di lavoro, passando da un’organizzazione fondata sul controllo a una fondata sulla fiducia e l’autonomia di chi lavora. Si esce dallo schema gerarchico capo-collaboratore e si fa leva sulla responsabilizzazione diffusa. Si creano le condizioni perché possano esperimersi le potenzialità di tutti. Lo sviluppo dell’azienda passa anche dallo sviluppo di chi vi lavora.
Quello che comunque possiamo cogliere nelle diverse politiche di queste manager è un concetto di fondo. L’azienda è intesa come un luogo in cui convergono soggetti diversi con interessi diversi, ma di tutti bisogna tenere conto perché tutti contribuiscono a creare il valore dell’azienda. Al management compete trovare un’area di ragionevole equilibrio tra questi diversi interessi.
Possiamo dire che è un diverso modo di governare le aziende, orientato non al comando ma alla guida, e al bene comune. E ci permette di dire che a una cultura di potere si può sostituire una cultura di governo.
Torniamo qui al punto di partenza, il senso della presenza di donne nei consigli di amministrazione. Probabilmente bisogna spostare l’attenzione dai numeri ai valori. È certo necessario, ma non basta, che più donne siano presenti nei Cda per portare uno sviluppo. Occorre che quelle donne in quei luoghi affermino la loro diversa visione. Se no non cambia niente. Come dice Ikujiro Nonaka, «Il management non è una questione di tecniche o metodi, è una questione di valori».
di Lola Santos Fernandez
intervento al convegno Transiciones (Acto II) Modelos de Derecho del Trabajo y cultura de los juristas, Universidad de Castilla-La Mancha, Albacete, 17 dicembre 2015
Io parlerò di un’altra transizione: la transizione verso un nuovo patto sessuale che inizia a germinare nella Assemblea Costituente italiana – nel farsi del patto costituzionale – quando si mette in questione il vecchio contratto sessuale, che poggia, tra altre cose, nella relazione tra ordine simbolico patriarcale e divisione sessuale del lavoro. La divisione sessuale del lavoro secondo uno schema gerarchicamente ordinato – uomini sopra/donne sotto; uomini fuori/donne dentro la casa – è stata una costante di tutte le società storiche conosciute e precede i rapporti di produzione capitalistici. In Occidente, la specifica forma che la divisione del lavoro tra i sessi ha assunto nella fase prima mercantile e poi capitalistica ha raccolto e confermato questa eredità simbolica, istituendo la sfera del lavoro salariato “produttivo” come sfera maschile e quella domestica “non produttiva” come sfera femminile. E ha anche ordinato simbolicamente i lavori maschili e femminili nel mercato secondo un simile ordine gerarchico (segregazione verticale e orizzontale). (Giordana Masotto). Nei dibattiti dell’Assemblea, questa separazione e questo ordine incominciano a essere messi in discussione in tre direzioni principali:
-
Abbozzo di una nozione più ampia di lavoro che comprenda tutto il lavoro necessario per vivere
-
Valorizzazione del lavoro riproduttivo portandolo alla luce
-
Arricchimento del lavoro produttivo con saperi derivanti da quello riproduttivo.
1. La nozione di lavoro
Nel dibattito costituente sull’articolo 1, L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, si parlò molto di cosa si dovesse intendere per lavoro e, benché non intervenisse nessuna delle 21 donne dell’Assemblea (composta da 556 membri), ci furono diversi interventi interessanti.
Ad esempio, nella discussione se fondare la Repubblica italiana sul “lavoro” o sui “lavoratori”, si disse: “Abbiamo usato il Il termine ‘lavoratori’ in quanto più comprensivo, in quanto in esso si può ritrovare chiunque partecipi col braccio o col pensiero, con attività manuali o spirituali, teoretiche o pratiche, alla vita, al progresso, alla ricchezza della Nazione” (Renzo Laconi, maestro, comunista).
Sul valore del lavoro nella società si disse: “Il lavoro, insomma, come elemento che assume valore nell’armonia dello sforzo collettivo perché l’individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun(o) uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l’uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore (Lelio Basso, socialista, avvocato).
E anche: “Non è la Repubblica degli operai e dei contadini quella che concepiamo, né quella degli operai e contadini più tecnici e i professionisti; ma una Repubblica nella quale abbiano cittadinanza anche le attività non meramente economiche, una Repubblica in cui ci sia posto per tutti i cittadini partecipanti utilmente alla vita nazionale” (Paolo Rossi, socialista, docente universitario).
Ora io mi domando: non è forse questo il modo in cui storicamente le donne hanno partecipato con il loro lavoro alla società? Con un lavoro di partecipazione alla vita, al progresso, alla ricchezza della nazione, anche quando non si tratta di attività meramente economiche, ma utili alla vita nazionale, lavorando e dando senso al lavoro attraverso le relazioni? Senza dirlo esplicitamente, questi uomini di sinistra si riferivano anche al lavoro di creazione e ri-creazione della vita che fanno più le donne degli uomini. Ma non potevano nominarlo perché per loro l’attività produttiva era misurata sul corpo maschile. E questo è confermato dal silenzio delle donne presenti: sono assenti dal dibattito e quindi manca qualsiasi riferimento al lavoro domestico.
Questo iniziale silenzio femminile nell’Assemblea Costituente potrebbe essere frutto di un atteggiamento di prudenza politica, cosa che non si ripete più avanti, soprattutto nel dibattito sull’art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a paritá di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro debbono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Qui le donne si autorizzano a parlare… e come parlano!
Sulla nozione di lavoro in generale, il dibattito tra le tre donne più attive del processo costituente – Maria Federici (maestra, democristiana) Angelina Merlin (maestra, socialista) e Teresa Noce (operaia, comunista), tutte tre con un ruolo rilevante nella Resistenza antifascista – incominciava a mettere in questione le basi del vecchio patto sessuale. In una delle discussioni iniziali su quale lavoro femminile tutelare o su chi considerare titolare di diritti soggettivi, Teresa Noce dice:
“La lavoratrice capo di famiglia è quella che mantiene la famiglia e per mantenere la famiglia fa un lavoro. Ma la donna lavoratrice non è soltanto l’operaia, bensì anche quella che, avendo una numerosa prole da allevare, non può lavorare; in tal caso viene a mancare la qualifica di capo-famiglia che le consentirebbe di godere di determinata assistenza. La donna operaia ha qualche diritto, ma la donna casalinga, la massaia rurale, la contadina non hanno nessun diritto all’assistenza.”
Benché i concetti di riferimento siano il lavoro produttivo e le sue misure classiche di valorizzazione – salario, stabilità e garanzie (di fatto facevano riferimento al diritto all’assistenza economica) – queste donne incominciano ad avere buone intuizioni sul considerare “lavoro” anche l’attività della casalinga, sul lavoro riproduttivo e la necessità di dargli riconoscimento, valore sociale, in questa fase per mezzo di un “salario assistenziale”.
2. La valorizzazione del lavoro riproduttivo
Per andare avanti in queste riflessioni – come dare valore al lavoro di creazione e ri-creazione della vita – le costituenti devono affrontare le conseguenze dell’intervento maschile che impone un nuovo tema di discussione: “la funzione essenziale familiare”. Molto polemica fin da subito. Questo le fa deviare momentaneamente dai loro interessi politici e, forse, anche dai loro desideri (succede spesso, anche oggi). Quegli uomini, temendo che l’uguaglianza salariale rappresenti un invito costituzionale ad abbandonare le case, vogliono ricordare alle donne quale sia il loro posto originario esaltando il loro ruolo familiare. Ma vediamola questa “essenziale funzione familiare”:
“Il vostro luogo naturale è la casa, la famiglia, il focolare, siete gli angeli della famiglia…” queste e altre simili furono le parole usate dai democristiani per illustrare il ruolo essenziale della donna nella famiglia. Che non decidessero di lasciare le case adesso che gli si riconosceva la possibilità di lavorare fuori con un salario uguale! disse un democristiano. Tutto ciò produce un dibattito inizialmente soprattutto maschile, dal momento che è in gioco la loro posizione privilegiata nel contratto sessuale. Solo la comunista Nilde Iotti interviene in un primo momento contro quell’espressione, preferendo parlare solo di “missione familiare”. Perché, come poi avrebbero detto le altre donne, certamente era qualcosa di importante e di cui cercavano di riappropriarsi. Questo fu il gesto politico in quel momento: riappropriarsi della maternità e del lavoro riproduttivo risignificandoli.
Così Maria Federici cerca di risignificare questa “essenziale funzione familiare” da un altro punto di vista: non dalla non-libertà come pretendono i suoi colleghi di partito, ma dalla importanza di questa funzione per la società. Per la Federici, questa funzione della donna è essenziale non solo per la famiglia ma per l’intera società. Dice: “io credo che appartenga alla esperienza di tutti che la donna dispieghi nella famiglia un complesso grandioso di attività, il cui valore è notevolissimo anche dal punto di vista economico”.
Il blocco femminile di sinistra invece, preferisce proporre la sostituzione dell’espressione “essenziale funzione familiare” – viziata all’origine – con la parola “madre”, dando a questa la posizione fondamentale che dovrebbe occupare in qualsiasi società. La socialista Angelina Merlin, facendosi portavoce del blocco femminile della sinistra assembleare, dice:
“Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità (…). Io penso che la Costituzione, assicurando una adeguata protezione alla madre ed al bimbo, avrebbe garantito la difesa della società tutta intera e si sarebbe data un suggello di nobiltà, includendo la parola più bella e più santa nella quale si compendia la vita: Madre”.
La redazione finale dell’articolo risulta composta da entrambe le espressioni: “essenziale funzione familiare” e “madre”. Il confronto sostenuto da queste donne di fronte alla provocazione maschile, per cercare di ricondurre la società verso un ordine simbolico materno, dimostra che si stava iscrivendo nella Costituzione l’embrione di un nuovo patto, in cui il lavoro riproduttivo, più materno che paterno, ha un valore centrale. La valorizzazione del lavoro riproduttivo è, se non negli obiettivi, nella cultura delle madri costituenti.
3. L’arricchimento del lavoro produttivo con saperi derivanti da quello riproduttivo
Questo intento si legge nelle parole della Merlin quando dice, come abbiamo visto sopra: “il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità”. Portare la maternità, la civilizzazione, la vita al lavoro… è questa l’invenzione che viene concepita in questa fase e che si sviluppa alcuni anni più avanti con Il doppio sì (Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano).
Questo discorso appare chiaro anche nella parte finale della discussione sull’accesso delle donne alla magistratura (art. 106). Di fronte alle obiezioni maschili che le considerano instabili, corpi emotivi e sentimentali o passionali, alcune rispondono proprio sostenendo che il femminile è un di più per il lavoro produttivo e, in questo caso, per il lavoro di giudici e quindi per il diritto. Maria Federici fa riferimento a una specie di “tipicità femminile”: “da un lato una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un’esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sono requisiti preziosi che possono agevolare l’amministrazione della giustizia”. Nella stessa direzione, Maria Maddalena Rossi, chimica, comunista, sostiene che “le qualità di sensibilità, di intuizione, di tenacia, di pazienza, di coscienza, il senso di umanità che spesso si riscontrano nella donna, uniti alla conoscenza profonda del diritto, troverebbero un impiego infinitamente utile nel campo della Magistratura”. Come dimostra – rispondendo a un’obiezione del socialista Giovanni Persico – Il mercante di Venezia, dove Shakespeare fa agire “un giudice dotato di finezza, di cuore, d’intelligenza de onestà, un giudice che amministri la giustizia vera (…) la giustizia dello spirito della legge e non della lettera soltanto”. Questo magistrato è una donna, Porzia, la quale salva la vita di un innocente che dovrebbe pagare con una libbra di carne del suo petto. Porzia si appoggia a una legge che non menziona il sangue e quindi invita i presenti a tagliare un pezzo di pelle senza spargere sangue. La capacità interpretativa di Porzia, per Giovanni Persico è segnale di una cattiva amministrazione della giustizia perché un giudice uomo avrebbe detto che “è vietato dalla morale, non si può vendere il proprio corpo, che è una domanda inammissibile, è contra legem, il tuo contratto è nullo. E con una questione di diritto avrebbe risolto il problema, senza ricorrere al cavillo della carne e del sangue”. Per Maddalena Rossi si tratta invece di andare oltre la legge, aprendo spazi alla giustizia con l’imprevisto femminile. Ecco di nuovo il germe di un’altra pratica, quella che ha a che fare con il modo in cui molte donne entrano nei luoghi della giustizia e che, in realtà, non è tanto diversa da come lo fa Porzia (Diana Sartori).
Dalla Costituente ai giorni nostri il processo di ridefinizione del patto sessuale è andato avanti, benché continui a trattarsi di una transizione incompiuta.
A partire dagli anni sessanta, sia in Italia sia in altri paesi, le donne in prima persona e questa volta in massa mettono radicalmente in questione l’ordine simbolico dominante. Su tutti i fronti, dalle relazioni quotidiane tra i sessi fino al diritto: riforma del diritto di famiglia (1975), depenalizzazione dell’adulterio (1968), libertà di divorzio (1970), legalizzazione dell’aborto (1978); nel lavoro, tutela della maternità e legge di uguaglianza del 1977.
I guadagni di questo processo giuridico sono stati molti e vanno oltre l’aspetto giuridico. Perché non si tratta solo di ciò che si è cristallizzato nelle leggi, molte delle quali ambiguamente maschili: il fatto è che il movimento delle donne ha prodotto molta autocoscienza e coscienza politica, e questo ha permesso alle donne di riappropriarsi dei propri corpi, di praticare la libertà femminile relazionale, di esprimere nuove forme politiche. Sono guadagni che in se stessi comportano la rottura del vecchio patto sessuale e a partire dai quali si continua a rinegoziare il nuovo patto e si fanno passi avanti sul punto che sta al centro della rottura della divisione sessuale del lavoro. Questo punto centrale è la elaborazione di una nozione di lavoro ampia e univoca, in cui far confluire tutti i semi sparsi nell’Assemblea Costituente, e che oggi ha già un inquadramento politico – teorico e pratico – molto avanzato.
Quindi – come ci ha detto Laura Mora in Atto 1 delle Transizioni – “il lavoro è molto di più”. E così è, il lavoro non è solo attività materiale e immateriale, ma è anche costruzione simbolica (di senso) impregnata di vita sociale, è strumento di autorealizzazione, fattore di creazione, di autonomia, di responsabilità e di relazioni (Laura Pennacchi). La ricomposizione del lavoro, produttivo e riproduttivo, si fa a partire dalle donne come soggetti complessi – in quanto ricompongono le dicotomie anima/corpo; produttivo/riproduttivo; ecc. – il che incide a sua volta sulla nozione stessa di soggetto, dal momento che tutti e tutte possiamo riconoscerci come soggetti interdipendenti e vulnerabili (Giordana Masotto). Questi nuovi soggetti plurali compiono una trasformazione dello spazio pubblico attraverso pratiche o lavori di cittadinanza che raccolgono esperienze coscienti e consentono numerose innovazioni. E, proprio perché nascono da soggetti interdipendenti e sono fatti da competenze reali, consentono cambiamenti e costruiscono civiltà, con una costruzione fatta di parole e con uno sforzo che risponde al desiderio di un senso nuovo di benessere o felicità (Marisa Forcina). Accettare l’interdipendenza, condizione per l’esistenza dell’umanità in società non patriarcali, comporta che la società nel suo insieme si renda responsabile del benessere e della riproduzione sociale. Ciò comporta un cambiamento nella nozione di lavoro e la rinegoziazione dei tempi delle persone: redistribuendo il lavoro remunerato e “obbligando” gli uomini e la società a farsi carico della parte di cura che tocca loro, come ci dice la ecofemminista Yayo Herrero nel libro L’ecologia del lavoro. Il lavoro che sostiene la vita, a cura di Juan Escribano e Laura Mora. Questo libro ci indica come avanzare in questo percorso tracciando “una nuova mappa dei lavori socialmente necessari per soddisfare i bisogni delle persone in comunione con la realtà di tutti i viventi e con i doni con cui conviviamo” (Laura Mora).
Oggi in questo seminario abbiamo potuto partire da un’origine, l’Assemblea Costituente, e proprio quello che è accaduto dopo – la rivoluzione delle donne a partire dagli anni sessanta/settanta – ci consente di dare un senso alle parole e ai silenzi del dibattito costituente e ci invita a raccogliere la sfida che è nata allora e che si potrebbe esprimere nella riscrittura dell’art. 1 della Constituzione italiana: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro necessario per vivere.
Contributo al convegno “I ritorni di Marx”, Alessandria 22-24 ottobre 2015
info: www.fondazioneluigilongo.it
di Lia Cigarini
Il mio personale ritorno a Marx mai rinnegato ma non più frequentato da decenni, è stato mediato da alcuni testi della filosofa francese Simone Weil, quelli che ha scritto nel periodo 1933/1943, su Marx, il marxismo e i paesi e i movimenti comunisti internazionali, recentemente pubblicati dall’Editore Orthotes di Napoli con il titolo Oppressione e libertà, con una breve introduzione di Luisa Muraro e mia.
Dico subito che per me la priorità è l’agire politico al tempo presente. E quindi guardare a Marx con questa urgenza e questa passione, la stessa urgenza che mi ha portato a leggere gli scritti marxisti di S.W., scoprendo l’attualità della sua figura.
Fra Gramsci e S.W. esistono affinità che qui non possiamo tacere. Questo libro, infatti, raccoglie gli scritti di S.W. militante nel movimento operaio e commentatrice critica di Marx e del marxismo, titoli che lei ha in comune con lui. Entrambi sono morti piuttosto giovani, senza avere notizia l’uno dell’altra, lui all’età di quarantasei anni, dopo undici di carcere fascista, inclusi i quattro della malattia che mise fine alla sua esistenza nel 1937; lei morì nel 1943, all’età di trentaquattro anni, dopo una breve malattia senza nome. Erano corpi fragili, abitati da un’intelligenza superlativa e dalla passione politica. Che hanno investito nella lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione, entrambi mettendosi dalla parte di masse cui mancava la voce e spesso anche la consapevolezza delle proprie ragioni. Il loro intento non fu soltanto di dare voce e argomenti all’umanità perdente nei rapporti di forza ma anche di orientarla nella sua interezza di oppressori e oppressi, con l’amore della giustizia e lo spirito della verità. Hanno praticato il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà. Sono autori di opere in parte postume che, nel titolo con cui le conosciamo, Quaderni, ricordano le circostanze della loro origine di pensieri annotati su quaderni in vista di opere future. Infatti furono attivamente presenti nelle contingenze del loro tempo. L’uno e l’altra non hanno mai rinunciato ad abitare il futuro.
Per Simone Weil Marx è stato il primo «ad avere il duplice pensiero di considerare la società come fatto umano fondamentale e di studiarvi, come il fisico fa per la materia, i rapporti di forza». È il primo a intuire che lo Stato “macchina annientatrice” di esseri umani non può cessare di annientare finché è in funzione, «in qualsiasi mani esso sia».
Gli riconosce, inoltre, il merito filosofico di avere posto correttamente la questione del rapporto tra soggetto ed oggetto. Infatti nelle tesi su Feuerbach e nell’Ideologia tedesca, sottolinea Simone Weil, Marx sostiene che nel capitalismo avviene la totale subordinazione del soggetto all’oggetto, vale a dire del lavoratore alle condizioni materiali del lavoro.
Queste affermazioni, sostiene Simone Weil, non possono avere altro senso che quello di restituire al soggetto pensante il vero rapporto che ha o dovrebbe avere con la materia. E aggiunge: «non è affatto sorprendente che il partito bolscevico, la cui organizzazione stessa ha sempre poggiato sulla subordinazione dell’individuo, una volta al potere, doveva finire per asservire il lavoratore alla macchina tanto quanto il capitalismo».
Che i lavoratori siano soggetti attivi e parlanti in prima persona, infatti, è il senso ultimo dell’impegno militante di Weil e secondo Weil, dovrebbe essere quello del socialismo.
Tra i punti di disaccordo con Marx e con il marxismo, mi interessa presentarne due.
Alla dottrina di Marx Weil imputa ripetutamente una contraddizione che inficia la previsione “scientifica” di un esito rivoluzionario. Avendo teorizzato il primato della forza e avendo fatto del capitalismo un sistema che opprime senza scampo, Marx pretendeva che un proletariato senza forze fosse destinato a rivoluzionare l’intero sistema e ad assumere il comando. Un sogno. Voleva essere scientifico, ma, vinto forse dalla sua stessa ansia di giustizia sociale, suppone Weil, diventa un idealista utopico.
Un’altra critica che muove a Marx come ai marxisti è l’aver scelto l’economia come chiave dell’enigma sociale della sottomissione del numero più grande ai pochi detentori del potere.
La si trova nel testo Meditazione sull’obbedienza e sulla libertà dove Weil cita anche La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria. Weil scrive «colui che obbedisce, colui i cui movimenti, le cui pene, i cui piaceri, sono determinati dalla parola altrui si sente inferiore non per caso ma per natura» ed è da questa acuta constatazione di ordine simbolico, la «parola altrui», che viene l’apertura: è sovversivo tutto ciò che contribuisce a dare agli oppressi «il sentimento del proprio valore».
Questa considerazione di S.W. è estremamente attuale perché su questo fa leva efficacemente il neo-liberalismo, la valorizzazione dell’individuo assoluto, il mito dell’autosufficienza dell’individuo, l’autoimprenditorialità, il consumo come promessa di perpetuo godimento, eccetera. Penso si debba ripartire da questo nodo che era vero nel ’500, nel ’900 e oggi in maniera inedita, cioè, l’intreccio di oppressione, asservimento, libertà.
In Weil c’è anche la profonda intuizione sulla potenza del simbolico (“la parola altrui”) che ritroviamo al principio della seconda ondata femminista che parte proprio dall’enigma secolare della sottomissione delle donne.
Mi riferisco al femminismo non adulterato a differenza di quello che corre nei media, in parte dell’opinione pubblica e purtroppo anche nel pensiero di uomini intellettuali e politici. Vale a dire rivendicazione di parità, quote negli organismi istituzionali. Insomma il cosiddetto femminismo di Stato.
Nel femminismo concepito negli anni ’60 e attivo negli anni ’70 ma vivo fino ai nostri giorni, veniva e viene al primo posto la necessità di costituire un senso libero dell’“essere donna”. Le donne nel patriarcato erano disperse, prese in considerazione una per una, definite e rappresentate dal pensiero e dall’immaginario maschile, complementari alla sessualità maschile. Si trattava quindi di opporsi a una miseria simbolica. Non come atto mentale ma come una pratica di incontri, racconti da cui affiorava un “non detto” della cultura patriarcale ancora viva e presentissima in piena modernità e in piena rivoluzione giovanile. La via d’uscita non ce l’ha data il controllo attraverso l’organizzazione dell’insieme dei problemi delle donne, ma il formarsi di un linguaggio comune.
Perciò per importanza e riconoscibilità veniva al primo posto la pratica del partire da sé. Significa che la parola si usa e la politica si fa per cambiare il rapporto tra sé e sé e tra sé e l’altro da sé. In altre parole, la pratica del partire da sé impone di mettere bene in chiaro quello che lì si gioca dalla parte del soggetto. Per liberare le sue energie, spesso frenate da progetti sforzati. In questo modo è possibile tenersi disponibili alla realtà che cambia.
Oggi, per noi qui riuniti penso siano interessanti quelle interpretazioni di Marx, Gramsci, S.W., che possono aprire strade per quanto strette per l’agire politico. E quindi pensare a nuove forme politiche, quelle che auspicava Simone Weil nei suoi scritti, raccolti in traduzione italiana sotto il titolo Una Costituente per l’Europa.
Indico due strade, per imboccare le quali non si può non tenere conto del fatto che il mondo dopo 4000 anni di storia incomincia ad essere un mondo di donne e uomini.
La prima riguarda il concetto di libertà, la seconda il lavoro.
Riflettiamo per primo sul concetto di libertà che rimane l’impensato della sinistra, mentre e non per caso, il femminismo italiano ne fa un territorio privilegiato sia in teoria che in politica. Cioè sono le donne in lotta per la loro libertà che hanno elaborato pratiche di presa di coscienza di sé e capacità di avere relazioni con le proprie simili per avere una misura di sé così spezzando la “servitù volontaria del domestico”. Quindi si pongono e manifestano già come soggetti politici complessi. Questo, a mio giudizio, è il problema che abbiamo di fronte. Pensare una politica di soggetti complessi. Ritornerò meglio su questo punto parlando del lavoro.
S.W. lo aveva intuito senza mettersi davanti l’oppressione femminile. E si sforza di vedere anche in Marx la priorità del soggetto. Io integro e esplicito W.: il soggetto nella sua singolarità, irriducibile.
Non si tratta della concezione di libertà borghese, cioè una serie di diritti in capo ad un individuo, e neppure di quella del neo-liberalismo, bensì di libertà relazionale, perché le donne vivono un’esperienza di libertà che si basa sul riconoscimento della dipendenza tra i soggetti, vale a dire libertà che non è data una volta per tutte ma che si struttura nella interdipendenza tra gli esseri umani. Quando parliamo di interdipendenza tra gli esseri umani noi sappiamo che l’essere umano da quando nasce a quando muore, vive gradi diversi di libertà.
Perciò il desiderio individuale di libertà che l’ideologia marxista vede con sospetto è trasmigrato nel campo della destra e, paradossalmente, ha fatto sì che sia passato senza rivolta tra le più giovani generazioni l’imperativo del neo-liberalismo: diventa imprenditore di te stesso/a. Tale imperativo è stato sentito come una valorizzazione della soggettività personale. E questo nonostante il fatto che, come sappiamo, le nuove generazioni che si sono presentate negli ultimi due decenni nel mercato del lavoro siano nate e cresciute con i contratti da CO.CO.CO, tempo determinato, temporali, da interinale, da occasionale, con partite I.V.A. tanto che, e qui cito Sergio Bologna, «dall’orizzonte mentale di queste generazioni è scomparsa la parola “negoziato”, per loro il lavoro è quello che ti viene offerto, se ti va bene ok, se non ti va bene c’è un altro pronto a prendere il tuo posto, anche a condizioni peggiori. Non sono analfabeti, sono le generazioni più scolarizzate della storia italiana». Tuttavia, dice ancora Bologna: «lo sfruttamento del lavoro intellettuale e delle professioni tecniche sta superando i limiti di tollerabilità nel silenzio prima di tutto dei diretti interessati, ormai intimoriti e rassegnati, convinti che accettare qualunque condizione sia l’unico modo per entrare nel mercato del lavoro, convinti che la protesta sul luogo di lavoro sia sinonimo di uscita dal mercato».
Lavoro
I guadagni fatti dal movimento femminista e anticipati da Weil sulla produzione di libertà a partire da sé ma in chiave relazionale non individualistica, si rilevano essere una possibile risposta agli interrogativi dell’estrema sofferenza del mondo del lavoro.
S.W. è molto attuale quando dice che «bisogna costruire una filosofia del lavoro andando oltre Marx» che l’aveva abbozzata. Essa infatti scrive: «I padroni non concepiscono che due maniere di rendere felici i loro operai: o elevarne il salario o dir loro che sono felici e allontanare quei cattivi dei comunisti che assicurano loro il contrario. Essi non possono comprendere che, da una parte, la felicità di un operaio consiste soprattutto in una certa disposizione di spirito nei confronti del suo lavoro; e che, dall’altra, questa disposizione di spirito può comparire solo quando si sono realizzate certe condizioni oggettive, impossibili da conoscere senza un serio studio. Questa duplice verità convenientemente trasportata, è la chiave di tutti i problemi pratici della vita umana».
Questa è una condizione su cui S.W. insiste molto e su cui ha da dire per esperienza in prima persona (il lavoro in fabbrica). Dice per esempio di non separare mai pensiero e azione (il sapere di chi lavora sul proprio lavoro) e che «bisognerebbe far nascere un’università accanto ad ogni fabbrica…».
Tutto ciò è molto attuale perché i giovani, soprattutto le giovani donne, misurano il lavoro oltre che sul denaro, sul tempo e sul senso.
Oggi questo discorso è molto più radicale e complesso perché le donne hanno messo in discussione la divisione sessuale del lavoro. Qui cito Giordana Masotto che nel libro Femminile e maschile nel lavoro e nel diritto. Una narrazione differente, EDS 2015, scrive: «Perché nel 2009 abbiamo scritto il Manifesto Immagina che il lavoro? per mettere in discussione alla radice l’organizzazione del lavoro e le regole del mercato portando alla luce un punto di vista di donne sull’economia e sul lavoro. E per trovar un agire politico adeguato a tali scopi. Per portare dunque all’ordine del giorno un tema: il rapporto tra ordine (simbolico e patriarcale) e divisione sessuale del lavoro.
In Occidente la specifica forma che la divisione del lavoro tra i sessi ha assunto e confermato questa impostazione simbolica, istituendo la sfera del lavoro salariato “produttivo” come sfera maschile e quella domestica “non produttiva” come sfera femminile. E ha anche ordinato simbolicamente i lavori maschili e femminili nel mercato secondo un simile ordine gerarchico (segregazione verticale e orizzontale). Da qui alla messa in discussione della divisione sessuale del lavoro il processo di cambiamento è più lungo e complesso e tuttora in corso. Dopo mezzo secolo di aumento della partecipazione femminile al lavoro retribuito […] il tema più generale della divisione sessuale del lavoro continua a riproporsi come campo di confronto aperto tra uomini e donne, fino a rimettere in questione alla radice la separazione simbolica, istituzionale e normativa tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra lavoro per il mercato e lavoro domestico di cura […]. Sosteniamo che la regolazione dell’uno non può avvenire senza ridiscussione dell’altro: affermiamo che non vogliamo più sentire parlare di lavoro, tempi e organizzazione del lavoro, welfare e crescita – e nemmeno di lotte di lavoratori – senza riconoscere che il lavoro di cura è componente strutturale di tutto il lavoro necessario per vivere». Questo è un concetto teorico nuovo che proponiamo all’attenzione dell’economia e della filosofia. Attualmente fuori dai calcoli statistici, il lavoro domestico e di manutenzione della esistenza umana resta una mole enorme di lavoro: in tutte le economie avanzate, compresi i paesi nordici, occupa un numero di ore superiore a quelle dedicate al lavoro pagato.
Questo tipo di lavoro non è eliminabile, anzi aumenterà.
A partire da questo punto di vista, e sollecitate anche da una crisi che svela sempre di più l’insensatezza oltre che l’ingiustizia dei discorsi e delle politiche ricorrenti, possiamo delineare una prospettiva inedita: quella di liberare tutto il lavoro di tutte e tutti ridefinendone priorità, tempi, modi, oggetti, valore/reddito e rimettendo al centro le persone, nella loro vitale, necessaria variabile interdipendenza lungo tutto l’arco dell’esistenza e avendo a cuore, con il pianeta, le persone che verranno.
S.W. a questo proposito scrive: «È necessario mettere al centro il lavoro concepito come attività suprema dell’essere umano».
Giorgio Lunghini, inoltre, in un articolo pubblicato sul Manifesto (15/6/2013) si avvicina al punto di vista delle donne sul lavoro quando afferma: «Non si tratta di uscire dal capitalismo ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non si pagano […], una terra abitata dalle tante attività che non sono mosse dall’obbiettivo del profitto […], la terra del lavoro concreto, del valore d’uso […], principalmente lavori di cura in senso lato delle persone e della natura».
Apprezzo il testo di Lunghini non solo per quello che dice sui lavori concreti, ma anche perché inserisce il lavoro di riproduzione e manutenzione dell’esistenza umana e della natura in un quadro economico più generale. Infatti sottolinea: «I valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici […], poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto».
Sottolineo però, un po’ polemicamente, che la terra di nessuno di cui parla Lunghini è in realtà una terra che le donne conoscono bene per averla percorsa palmo a palmo, coltivata e arricchita da secoli.
Invece, anche i più acuti osservatori delle dinamiche sociali, economiche e politiche, come Lunghini, si ostinano a non registrare a livello di paradigmi cognitivi l’esperienza umana delle donne che viene sussunta nel maschile: la sussunzione delle intere vite non è evidentemente appannaggio solo del neoliberismo.
È vero che le disuguaglianze sono aumentate e continueranno ad aumentare ma non possiamo affrontare il tema delle disuguaglianze e, quindi, della lotta politica per eliminarle, facendo finta che i soggetti politici siano quelli del secolo scorso. In realtà sono molto più complessi. In essi infatti si intrecciano radicalmente vita e lavoro. Ed essi, come abbiamo visto, tendono a non delegare a un partito né a un sindacato, ma sono forse disponibili a partecipare in misura mobile e variabile alle lotte del lavoro e soprattutto a dire la loro su che cosa sono oggi un buon lavoro e una buona vita. Non si tratta più dunque di ripensare il soggetto politico solo come soggetto collettivo in senso classico. Si tratta di ripensare una conflittualità a misura dei nuovi soggetti nella consapevolezza che sono vite di singoli tra loro in relazione e che i segmenti della vita del singolo o singola sono tra loro connessi.
L’Agorà del lavoro di Milano era ed è un tentativo di pensare il lavoro in questo senso.
Se la libertà non è quella liberale ma quella relazionale, vuol dire che è una libertà complessa. Mentre il paradigma dell’uguaglianza ci proietta in un mondo in sostanza già pensato (giustizia, socialismo, comunismo), la libertà che le donne mettono in campo non è conclusa ma in divenire: il conflitto tra i due sessi è dinamico.
Noi ci stiamo pensando ma se gli uomini a loro volta non lo fanno, in specifico, se non pensano al rapporto tra produzione e riproduzione, continuano a mancarci mediazioni necessarie.
Che cosa intendo dicendo che devono fare la loro parte? Prendere consapevolezza della parzialità di tanti punti di vista che però tutti esprimono l’esperienza e il sapere di uomini più che di donne. Darci una risposta sul concetto di tutto il lavoro necessario per vivere, cioè prestare attenzione al pensiero delle donne. E mettere fine ad una storia che non sta andando niente bene con riferimento alla politica e all’economia.
(www.libreriadelledonne.it 26/11/2015)
Nuovi orientamenti di management vengono dalle donne
di Luisa Pogliana, associazione Donnesenzaguscio
Nella mia esperienza di lavoro sui mercati internazionali ho potuto vedere, in alcune situazioni di crisi gravissime, come il management ha salvato le aziende cambiando le strutture e le modalità abituali del modo di dirigerle.
In contesti e culture diverse, ho visto in modo ricorrente fare scelte con criteri che qui da noi troviamo soprattutto nelle pratiche di donne manager.[1]
Si è vista tanto più la loro efficacia proprio perché attuate in situazioni estreme di mercato, di vita personale e sociale, di tutto il paese. Penso ad aziende nella Grecia nel pieno della crisi, nella Slovenia con il tracollo seguito all’autonomia, nell’Ucraina e nella Russia in stato di guerra, di sanzioni, di ritorsioni. [2] Osservandole nell’insieme si possono cogliere vari elementi che hanno portato al buon risultato.
L’innovazione è stata la strada inevitabile e urgente.
Si è reagito subito, con progetti su tutti gli aspetti dell’azienda. Migliorare i prodotti e crearne di nuovi rispondenti alla nuova situazione. Cercare redditività in altri modi diversi dal business model abituale. Ridurre i costi di produzione ridefinendo i processi e l’organizzazione. Eliminare inutili spese di status (uffici prestigiosi, arredi, auto…)
Soprattutto, la chiave è stata cambiare il modo di lavorare. Una totale revisione delle strutture e delle attività, verificandone gli scopi realmente funzionali. E adattando l’organizzazione di conseguenza.
E’ stata tagliata la catena gerarchica.
Eliminati i ruoli intermedi di capi e capetti (per esempio, central marketing director-marketing manager-area manager-brand manager…). Questa piramide di ruoli gerarchici sovrapposti e superflui è sostanzialmente mirato a distribuire un po’ di potere e status, definendone l’ambito. Ma per gli scopi aziendali non è funzionale, anzi, rallenta il processo decisionale e l’operatività. Si spreca tempo e energia per definire chi deve fare che cosa e chi risponde di cosa. Insomma, porta a occuparsi di carriera invece che dei risultati.
E’ stato ridotto anche il top management.
Molte funzioni di livello alto sono spesso non indispensabili e accorpabili tra di loro (per esempio, dov’è precisamente la differenza tra un General Manager e un Chief Operative Officer?).
Le persone sono state coinvolte nel processo di cambiamento.
Ogni persona secondo il proprio potenziale è stata chiamata a ricercare soluzioni, realizzarle e assumersene la responsabilità. No a compiti di routine, ma una richiesta di creatività e spirito ‘imprenditoriale’. Sono stati creati gruppi di lavoro dedicati a sviluppare nuovi business. Ogni responsabile del gruppo è stato considerato un piccolo CEO, ma con la responsabilità attribuita anche a tutto il gruppo.
Le persone sono state sostenute con interventi di formazione e motivate con ritorni economici rispetto ai risultati. Dare responsabilità e strutturare il lavoro solo su ruoli effettivi è diventato il nuovo modo di gestire le attività. Servono capacità e funzioni invece di gerarchie. (E pensiamo a cosa vuol dire fare tutto questo quando sia chi deve motivare sia le persone che devono essere motivate vivono la situazione generale come un incubo).
Si crea così una nuova cultura aziendale, orientata ad accelerare il processo di innovazione.
Si è anche dovuto ridurre il personale, a fronte della forte contrazione del mercato.
C’era però consapevolezza che il processo poteva funzionare bene se tutti sentivano che si stava lavorando nell’interesse comune. Per questo i casi di inevitabile uscita dall’azienda sono stati affrontati con attenzione ai destini di quelle persone. Per esempio, a parità di condizioni lavorative, si sono scelte per l’uscita persone con possibilità di trovare lavoro altrove, o con un pensionamento a breve, persone che non avessero una famiglia in cui il loro stipendio era l’unico. Si sono dati aiuti economici. Il fatto in sé resta una sofferenza, ma per quanto possibile si è cercato di non mettere nessuno in una situazione disperata.
Queste aziende -a differenza di altre nelle stesse situazioni- sono sopravvissute.
La chiusura o il tracollo non sono state l’esito inevitabile. Anche se le dimensioni dell’azienda e del suo business sono state ridotte, l’attività è continuata con ritorni economici positivi. Quando questo processo ha dato i suoi frutti, lo stesso management era impressionato da come prima fosse normale lavorare con quell’organizzazione rigida e pletorica, le sue zavorre di potere e di status. Sbalordito di come ciò è stato possibile portando fuori dall’ombra le capacità e la responsabilità di tutte le persone.
Si sa che i sistemi tendono a riprodursi, finché non c’è una situazione che costringe a cambiare. Qui la necessità ha spinto in nuove direzioni, ha cambiato visioni manageriali e di business. Nessuno nel management ha considerato quell’operazione transitoria fino al ritorno alla normalizzazione. Quello è diventato il nuovo modo di lavorare e dirigere l’azienda.
La crisi in Italia è certo meno drammatica, ma grave comunque, parte di quello stesso scenario economico e politico. Dunque possiamo trarne lezioni.
La crisi non è solo una riduzione del business, è un cambiamento qualitativo delle condizioni: le situazioni ‘normali’ non esistono più. Le aziende non possono essere guidate come si è sempre fatto , le solite prassi vanno guardate in modo critico. Ciò che ieri sembrava giusto e ragionevole oggi può essere addirittura sbagliato. I modelli seguiti finora non possono rispondere alla situazione completamente nuova. Ciò che è insolito richiede soluzioni insolite.
Le persone dell’azienda devono essere messe in grado di essere responsabili, autonome, capaci di agire sul momento, di esprimere il loro potenziale. Anche questo è il ruolo di chi governa l’azienda: rendere tutti ‘imprenditori’ del loro lavoro, consapevoli di come possono influenzare i risultati con quello che fanno. Con questa cultura l’innovazione si sviluppa non come processo eccezionale, ma come standard lavorativo, abito mentale permanente.
Le soluzioni efficaci sono quelle che si lasciano emergere dalle situazioni, procedendo per tentativi: muoversi, cambiare, imparare, fare prototipi e poi rifarli, provare, provare ancora. Non c’è spazio per piani definiti a lungo termine, bisogna procedere sperimentando e adattando finché si trova una soluzione, senza pretendere di di prevedere tutto. L’innovazione è diventata indispensabile e urgente. E deve essere diversa da come la si progettava prima. L’organizzazione deve cambiare sempre, perché continuo è il cambiamento. Servono strutture snelle e agili.
Questo è ciò che ho visto succedere, salvando alcune aziende in situazioni estreme.
È un orientamento manageriale che possiamo definire adattativo. Un adattamento alla realtà che cambia, ma non passivamente: è capacità di comprendere il contesto, trovare gli strumenti per agire in quel contesto, per influire su quel contesto.
Questo modo di guidare un’azienda -vedere in modo critico i modelli abituali, cercare strade nuove più adatte alla realtà, far crescere autonomia e competenza delle persone, dare loro l’occasione di esprimere queste capacità, distribuire responsabilità, remunerare tutti perché tutti fanno i destini dell’azienda- bene, questo modo noi oggi lo vediamo venire più spesso dalle donne che dagli uomini. E soprattutto lo vediamo realizzato nelle loro pratiche.
[1] Noi di Donnesenzaguscio stiamo lavorando a un progetto per far conoscere i nuovi orientamenti che vengono da donne manager, mettendo a fuoco visioni, criteri, princìpi che hanno orientato le loro politiche .
[2] Sono aziende editoriali, il settore in cui lavoro io. Basti dire, per esempio, che nell’autunno 2014 la Duma di Putin come ritorsione alle sanzioni ha approvato una legge per cui le aziende straniere operanti nei media devono vendere ad un soggetto russo l’80% delle quote di proprietà.
(www.libreriadelledonne.it 12/11/2015)
di Sandra Burchi
Sandra, la protagonista dell’ultimo film dei fratelli Dardenne, Due giorni e una notte, ha un marito, due figli, un mutuo da pagare e un lavoro che sta per perdere. A casa da qualche tempo per una brutta depressione, rischia di non poter riavere il suo posto nell’azienda di pannelli solari in cui lavora. I compagni hanno imparato a organizzare il lavoro diversamente e il titolare, su suggerimento del caporeparto, ha proposto a tutti 1000 euro di bonus e il licenziamento di Sandra.
Sandra ha un sabato/domenica di tempo per convincere compagne/i a non cedere al ricatto, a rinunciare ai 1000 euro per permettere a lei di tornare a lavorare. Due giorni e una notte per incontrare tutti e parlare con loro uno a uno, prima della nuova votazione concessa dal titolare per il lunedì mattina. Quello dei Dardenne è un film a tema, tutto è scritto per far riflettere, per far capire quanta violenza c’è nella normalità di una decisione d’azienda. Ogni personaggio interpreta un frammento di società, incarna un modo di vedere, dice qualcosa del pezzo di mondo che si porta con sé. Tutti, a partire dal marito di Sandra, Manu, che è quello che resta del mito di un male breadwinner, silenzioso, solidale, incoraggiante ma anche impotente rispetto a quello che sta succedendo a Sandra, in azienda e dentro di lei. Troppe lacrime, troppi calmanti.
Sandra accetta di fare il giro. Fra mille esitazioni bussa alle porte degli altri operai come lei. Sola, attraversa lo spazio con i mezzi pubblici o nella macchina del marito, continuando a rispondere e a non rispondere all’amica Juliette, che con mille telefonate la sprona, la convince a provarci. Sono campanelli diversi quelli a cui si avvicina, soglie di abitazioni oltre le quali incontra storie tutte diverse e tutte uguali. Molte solitudini, molti guai: doppi lavori, spese da sostenere, debiti, gli stessi debiti per chi tira a campare e chi ristruttura una grande casa. Sul fatto che l’essere indebitati corrisponda a una precisa costruzione della soggettività è stato detto molto negli ultimi anni. Elettra Stimilli nel suo Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet, Macerata 2011), mostra bene lo stretto legame fra economia, gestione della vita e “governo dei viventi”.
Il debito è “una tecnica privilegiata attraverso cui il soggetto, come tale, si costituisce, dando forma alla sua vita e rendendosi allo stesso tempo disponibile per una modalità di assoggettamento che non lo aggredisca all’esterno ma miri piuttosto a coincidere capillarmente con essa” (Stimilli 2011, p. 117). I “no” che Sandra riceve si iscrivono in questa naturalizzazione del debito come norma e normalità. Avere delle spese da sostenere, figli all’università, case da restaurare, mobili e mutui da pagare, è una spiegazione più che sufficiente per l’indisponibilità a rinunciare ai 1000 euro. Quello che i Dardenne mostrano con insistenza è che Sandra, non può contare su nessuna mediazione che allontani da questa “normalità”, che nella maggior parte dei casi non può dare niente per scontato, nessun sentimento sociale, nessun orizzonte comune. Tutti quelli che torneranno sul voto che hanno già dato, decidendosi per un gesto di solidarietà, sono presi da una crisi. Il giovane collega che Sandra incontra ai bordi di un campo di calcio sta allenando una squadra di quartiere. Scoppia in lacrime solo per avere l’opportunità di poter ri-votare, di liberarsi del senso di colpa: “Chiamo anche Miguel, anche lui voterà per te”. Anche il vecchio operaio cambierà il suo voto ma non senza prendersi un pugno in faccia dal figlio, che come lui lavora in reparto e che vuole “i suoi soldi”, quelli del bonus. Ma sarà una donna quella che cambierà di più in occasione della richiesta di Sandra, liberandosi dall’egoismo del marito – che vorrebbe impedirle di restituire il bonus – e dalla vita con lui per poter scegliere con la propria testa.
Quello che i Dardenne creano come sfondo della vicenda di Sandra e dei suoi compagni è l’immagine di un’Europa impoverita, incattivita, smemorata, in preda agli effetti di trasformazioni non gestite. Quello che i Dardenne mettono in scena è la crisi del legame sociale, il disfarsi dell’idea di una società in cui i singoli sono tenuti insieme da qualcosa che trascende le loro personali esistenze.
Sandra fa tutto da sola, contando su un’amica, un marito, e incontrando la solidarietà solo di quelli che hanno le chiavi –personali – per accenderla dentro di sé.
In un mondo che si pensa così, “senza società”, un mondo in cui tutto è privato e de-privato, l’andare in giro di Sandra finisce per essere un’operazione di ricucitura, un filo riconsegnato alla consapevolezza di esistenze che convivono senza conoscersi e senza condividere il senso del loro essere insieme, nello stesso reparto. Tutto è forte in questi incontri, il peso dell’indifferenza, il cinismo di alcune ragioni, la vergogna di chi continua a votarle contro perché non può far diversamente, ma anche la solidarietà inattesa di chi decide di cambiare idea, di votare non solo per Sandra ma per sé, per un’idea di giustizia di cui ritrova il senso.
Quando arriva il lunedì Sandra perde il posto. I voti sono pari, ma non ci può essere parità per questa decisione.
Quando il titolare le proporrà di rimanere, riconoscendole il merito di una parziale vittoria, le offre il posto di un compagno a cui non verrà rinnovato il contratto, Sandra si rifiuta. Non ha esitazioni, questa volta, ha ben chiaro cosa è giusto fare.
In questo lungo week end sono cambiate molte cose. Fragile, impaurita dalla prospettiva di ricominciare a piangere, di cadere di nuovo nella depressione da cui stava guarendo, Sandra è uscita di casa con troppe pasticche nella borsetta ma fiduciosa di poter fare qualcosa, di cambiare qualcosa. E’ questo che l’ha trasformata, e l’ha resa forte.
Nella scena finale c’è il sole, Sandra esce dalla fabbrica e chiama il marito per raccontargli l’esito della votazione. Sembra sollevata, senz’altro è più forte. La strada su cui cammina non sembra più solo sua, sembra l’inizio di qualcosa.
(www.questionegiustizia.it, 22 marzo 2015)
Una bella notizia per chi legge in inglese (o in tedesco). Il nuovo libro di Ina Praetorius può essere scaricato gratis qui: http://www.boell.de/en/2015/04/07/care-centered-economy. Si intitola The Care-Centered Economy ed è un viaggio nel pensiero e nella storia occidentale che ci porta nel cuore del presente, ai tanti percorsi di pensiero e di pratiche che delineano un diverso paradigma.
Come viatico alla lettura, mettiamo a disposizione qui di seguito il più recente articolo di Ina pubblicato sul numero 111 di Via Dogana/Pausalavoro. (Giordana Masotto)
Una vita buona per tutti, in tutto il mondo!
di Ina Praetorius
Quella che segue è un’autointervista: Ina Praetorius infatti, si diverte molto di più a interloquire che scrivere saggi. Quindi spesso si fa intervistare dalla sua collaudata alter ego Beate Fehle (in italiano suona come Beata Mancanza). Qui parla del convegno “Care Revolution” che si è tenuto a Berlino dal 14 al 16 marzo 2014 presso la Fondazione Rosa Luxemburg.
Beate: Che sensazione è stata partecipare con cinquecento persone a un convegno dall’impegnativo titolo “Care Revolution”?
Ina: È stato come arrivare dopo un lungo viaggio. È da più di trent’anni, infatti, che so che il concetto di care/cura può essere la leva per mettere in moto una dinamica politica a livello globale. Nel 1982 è uscito il libro di Carol Gilligan In a different voice (ed. it. Con voce di donna, 1987), oggi considerato il testo classico che ha aperto la strada al concetto di “etica della cura”. Allora leggemmo il libro nel gruppo donne della facoltà di teologia di Zurigo e riflettemmo sull’esistenza di un’etica “femminile” e relazionale. All’inizio degli anni ’90, in un altro gruppo, abbiamo discusso sul lavoro di riproduzione e sull’economia della cura. Quali sono le peculiarità del lavoro di cura? Perché viene svolto gratuitamente o pagato male? Perché non viene considerato nelle teorie economiche? Perché viene considerato dominio delle donne? Che relazione ha con l’economia corrente di mercato? E così via.
Negli anni successivi sono usciti molti testi sull’argomento, per esempio nel contesto della IAFFE (International Association for Feminist Economics) fondata nel 1990. In quel periodo c’era un forte interesse per il concetto di care, che si collegava bene ai dibattiti precedenti sul lavoro di riproduzione e l’economia di sussistenza come anche alle questioni ecologiche. Ma poi il turbocapitalismo degli anni ’90 e la tendenza a decostruire i generi (che fu molto importante, ma ha fatto anche crollare molte certezze) hanno inghiottito ciò che poteva diventare un vasto movimento. Ora però, dopo tanti anni, sembra nascere qualcosa come un movimento per la cura. Non lo dimostra solo il convegno di Berlino, ma anche la campagna americana Caring-Economy (www.caringeconomy.org) e numerose nuove iniziative e pubblicazioni sull’argomento. Da quando in Svizzera la rete Denknetz ha dedicato la sua pubblicazione annuale al tema Care statt Crash (Cura o crash) ci sono perfino giovani uomini di sinistra che se ne occupano, come racconta mia figlia.
- Così hai partecipato al convegno berlinese che aveva l’obiettivo di fare rete. Com’è andata?
- Le organizzatrici si aspettavano l’adesione di una ventina di organizzazioni e 150 partecipanti. Ma le adesioni sono diventate 60 – anche noi come ABC della vita buona – e le iscrizioni 400. Alla fine eravamo 500 circa. Presenze molto diverse: persone handicappate che, insieme ai/alle loro assistenti, volevano riflettere sul diritto a una buona assistenza, madri, padri, bambini/e, comunità di cura autonome, ricercatrici di varie discipline, attiviste per la salute di Roma, la badante polacca Domanska che in Svizzera ha vinto una causa per paga inadeguata. E poi attivisti/e del reddito di base, persone iscritte ai partiti, provenienti da associazioni, dai media ecc. A me ha dato l’idea di una vasta coalizione, quel movimento-contenitore che sto aspettando da decenni.
- È stata la crisi attuale a dare nuova energia al movimento? Si parla molto di emergenza della cura, tagli agli ammortizzatori sociali, migrazione di lavoratrici della cura, soprattutto dai paesi dell’Europa del Sud, si parla anche di una situazione insostenibile causata dai tagli al sistema sanitario, sociale e scolastico.
- Sì, la parola crisi è già nella prima frase della mozione discussa e approvata nell’assemblea di chiusura. Non penso sia una scelta felice, perché può suggerire l’idea che senza la crisi attuale la cura non sarebbe un problema. Ma quella frase e il tono complessivamente difensivo, rivendicativo e convenzionale del documento, riflettono il contesto in cui è nato il movimento Care. Oggi è molto più chiaro – rispetto a dieci o vent’anni fa – che la politica ufficiale non mira alla vita buona di tutti ma al profitto di pochi. Ce ne rendiamo conto dappertutto: negli ospedali tagliano fino al collasso; madri e padri verificano che i discorsi su programmazione della carriera, conciliazione, equilibrio vita/lavoro, più che risolvere, mascherano la situazione; le persone anziane, se non sono sane e in forma, si sentono un peso per la società; il care-drain, il drenaggio assistenziale dall’Est verso l’Ovest e dal Sud verso il Nord, sottrae alle economie più povere una forza lavoro importante, che viene poi sfruttata nei paesi più ricchi, perché anche qui sono rimasti in pochi a poter retribuire in modo adeguato una buona assistenza. I problemi di cura oggi sono più acuti, ma questo non significa che fossero risolti prima, quando erano le donne a sentirsi ancora “naturalmente” responsabili per questo lavoro necessario.
- Se ho capito bene, le ideatrici del convegno – in prima linea la lavorista Gabriele Winker di Amburgo – cercano di mettere insieme i vari contesti del lavoro di cura – case private, asili, ospedali, servizi di assistenza – fino allo stress individuale che nasce per la mancanza di tempo e la crescente difficoltà a badare a se stessi.
- Sì, ed era ora che accadesse. Nel convegno di marzo si è deciso di privilegiare lo scambio di esperienze tra pratiche di diversi settori di attività. C’erano pochi discorsi teorici, e questo va bene. Il prossimo passo, però, deve essere lavorare a un linguaggio comune, affinché le/i singoli attori capiscano che hanno un progetto comune di trasformazione. A questo punto il nostro ABC della vita buona potrebbe essere importante: infatti, propone e definisce, in modo provvisorio, una serie di concetti. Ora si tratta di ripensare l’insieme in chiave postpatriarcale, al di qua delle linee di demarcazione tra destra e sinistra, liberale, conservatore o religioso: a partire dal fatto che tutti gli esseri umani nascono e sono dipendenti dalla cura, vulnerabili e mortali. E allo stesso tempo sono liberi di organizzare le loro condizioni di vita in modo da fare spazio ai bisogni e ai desideri e sentirsi accolti. Il motto del convegno “Una vita buona per tutti!” è un buon punto di partenza per far convergere le idee.
- Come si andrà avanti adesso?
- Ora le tante iniziative che hanno aderito dovrebbero fare rete e spiegare pubblicamente che cos’è questa Care-revolution. Ho notato, durante la imponente manifestazione del sabato pomeriggio, che molte/i passanti erano perplessi: Care? Ma cos’è? Non potete dirlo in tedesco? In ambito accademico, soprattutto nella ricerca economica, sociologica, sociosanitaria, nei gender studies, nell’etica filosofica e teologica, è già stato fatto molto buon lavoro. Ma tanti/e non si sono ancora resi conto che il passaggio da una società di mercato centrata sulla produzione di merci e sul profitto a una società di economia domestica, centrata sul bisogno e sulla libertà-in-relazione di tutti gli esseri umani, significa il cambio di paradigma decisivo della nostra epoca. Ora ci vuole un lavoro transdisciplinare di linguaggio e mediazione affinché il concetto-ponte di care/cura possa sprigionare tutto il suo effetto trasformativo.
- Grazie per la conversazione. Continuiamo a rifletterci!
(traduzione di Traudel Sattler)
di Anna Simone
Se si potessero usare i testi sul lavoro come fonte documentale di una ricerca sociologica l’esito qualitativo sarebbe scontato: v’è un abisso narrativo tra il “modo” femminile di raccontare il lavoro come fatto sociale e come esperienza individuale oggi e il “modo” maschile. La prima cosa da dire sul volume di Sandra Burchi Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico è proprio questa. La sua è una narrazione posizionata sull’empirismo dell’esperienza di dieci donne che prima intervista e poi trasforma in storie, biografie, che si incistano con il processo di de-standardizzazione del lavoro e con le variabili del fenomeno – lo spazio, il tempo – senza mai scinderle. Corpo, esperienza e grandi mutamenti di scala, ovvero una sola narrazione complessa e caleidoscopica. E un fenomeno ancora poco analizzato e studiato: quello del lavoro da casa. La casa, come fa presente anche l’autrice, è stato il primo spazio da cui fuggire per tutte quelle donne che durante il momento clou dell’emancipazionismo rifiutavano la “natura” come destino e mezzo del lavoro domestico, la famosa condizione di “casalinga”.
Ma cosa accade quando la scomposizione del lavoro, dei processi produttivi e di una forma di organizzazione sociale come quella nata dal fordismo si sfaldano progressivamente “riportandoti” a lavorare da casa e non solo a casa come prevedeva il solo orizzonte basato sul nesso casa, dunque lavoro domestico, dunque “casalinga”? La casa, in questo libro, torna a essere quasi un orizzonte di libertà risignificata, uno spazio che sancisce una nuova partitura del dentro/fuori, del lavoro, della costituzione delle soggettività all’interno di un gioco continuo di rimandi che prevede una nuova organizzazione dello spazio, una nuova postura del corpo, una ricerca continua di strumenti di misurazione del tempo dedicato al lavoro da casa e quello da dedicare alla casa, a sé, alle relazioni. In altre parole un vero e proprio “rovescio” della narrazione classica della casa del primo patriarcato.
Le definizioni di questi nuovi lavori, soprattutto determinati dal proliferare del “lavoro autonomo” di seconda e terza generazione sono in sé evocative. Burchi parla di «lavoro agile», di un «lavorare diversamente», di «reti» di relazioni e, riferendosi allo spazio che ospita tali messe al lavoro del corpo femminile, di «nomadismo casalingo» ovvero di quel rapporto costante che intercorre tra lavoro propriamente domestico e lavoro fatto per sé e per altri che sono “fuori” da quello stesso spazio, ma anche nomadismo nel senso di costruzione di spazi piccoli dediti al lavoro, nello spazio più grande della propria casa. Le dieci storie che Burchi riporta sono tutte molto interessanti e possono funzionare bene come specchio per tutte quelle altre donne che vivono esperienze simili. Anzi potremmo dire che costituiscono una vera e propria bussola di limiti, espansioni, contraddizioni, misure e dismisure, forme varie di un equilibrio possibile. Ci sono lavoratrici più prossime all’arcipelago classico del lavoro autonomo “prestazionale” come giornaliste, grafiche, progettiste, cooperanti, e lavoratrici più propriamente legate al lavoro manuale e materiale come chi si fa una serra nel proprio podere e poi commercializza le erbe, chi restaura mobili, sino a lavoratrici altamente creative come le interior designer. La costante è che lo spazio terzo, oltre a quello della casa e delle reti di relazioni, è rappresentato dalla dimensione virtuale del web. Uno spazio fondamentale che ridisegna la vita quotidiana di ciascuna.
Ciò che colpisce è che quasi tutte le storie ricostruite e risignificate con gli strumenti concettuali propri della letteratura femminista contemporanea non vivono questa condizione con grande disagio, ma provano ogni giorno a studiare e capire che nesso possa esservi tra “prestazione” e desiderio di fare il lavoro che si è scelto, nello spazio che si è scelto. Tuttavia, al di là di questa risignificazione dello spazio e del tempo a partire da queste forme di lavoro autonomo, ciò che balza agli occhi come vero elemento di interesse per chi legge questo libro è il superamento della dicotomia lavoro materiale/lavoro immateriale. Gran parte della letteratura sul lavoro scritta da uomini negli ultimi decenni tende a porre sempre l’accento su questa dicotomia considerando il lavoro immateriale, il knowledge worker, la vera nuova frontiera del postfordismo e del cosiddetto capitalismo cognitivo. Burchi, scegliendo di dare rilievo a entrambe le forme di lavoro, scombina questo finto gioco “avanguardista” e dimostra – senza entrare nella polemica – che se prendiamo in considerazione le storie, la materialità delle esperienze, i fatti si complicano al punto tale da non potersi trasformare in una teoria astratta. E a ragione, perché se c’è un elemento di riflessione che scaturisce oggi da un tipo di economia prevalentemente basata sulla riproduzione (economia della conoscenza e dei servizi), anziché solo sulla mera produzione è proprio la fine di questa dicotomia. La religione del multitasking, infatti, prevede che si sappia fare “tutto”, che vi sia uno spirito di adattamento tale da rompere definitivamente ogni tipo di categoria. Così come oggi potrebbe apparire desueto interrogarci su quanto c’è di concettuale – come si diceva un tempo –, di materiale e di immateriale in una forma di lavoro autonomo che parte dalla serra e finisce su internet. Nessuna partizione è possibile, ogni pezzo è dentro il caleidoscopio.
Un testo interessante, quindi, che sicuramente centra un tema e un elemento nuovo del lavoro contemporaneo assai poco battuto, che a sua volta, però, lascia qualche dubbio. Almeno a me. Burchi attraversa il discorso critico della cosiddetta “femminilizzazione” del lavoro, così come si intravede qui e là una tensione sulla dimensione dei diritti mancati o della fatica da “equilibriste” del dover sempre tenere assieme tutto, però il tema dello sfruttamento, velato da una finta libertà e autonomia di cui si nutre la dimensione prestazionale del lavoro nell’era del neoliberismo, viene scandagliato assai poco oppure in molti casi viene rovesciato a proprio vantaggio. Sicuramente la forza dell’autrice e di queste donne sta proprio nella capacità di risignificare, rovesciare, ritessere, però io credo che il femminismo contemporaneo, pur partendo da lì, dovrebbe anche dotarsi di strumenti concettuali più grandi, critici, radicali, in grado di rovesciare le strategie di adattamento per pensare, invece, una nuova idea di economia e di lavoro. Qualcosa che stia definitivamente fuori dal “mercato”, dalla prestazione, dal “capitale umano e sociale” e da un desiderio che rischia sempre più di essere predeterminato da altri. Lo scacco vero, l’apparato di cattura per donne e uomini al fondo è proprio lì: nel modo in cui ci determinano il neoliberismo e la sua dimensione performativa di ordine prestazionale. E dunque come si fa a rovesciare quell’economia della riproduzione che ci rende tutte, come scriveva Nina Power, “donne-curriculum”, dentro e fuori casa?
(www.lavoroculturale.org, 20 febbraio 2015)
A 25 anni di distanza, la vita quotidiana delle donne tedesche continua a essere caratterizzata dalle diverse concezioni del loro ruolo da una parte e dall’altra del Muro.
di Sabine Kergel ( Sociologa, ricercatrice all’Università libera di Berlino).
La maggior parte dei sociologi aveva pronosticato che la vita delle donne all’Est e all’Ovest si sarebbe armonizzata nel breve e nel medio termine, grazie al processo di unificazione; troppo ottimisti? Per esempio, nel 2007 solo il 16% delle madri di bambini fra i 3 e i 5 anni lavorava a tempo pieno nell’Ovest del paese, contro il 52% all’Est. E, anche se il tasso di natalità dell’ex Repubblica democratica tedesca (Rdt), è ormai basso come quello dell’Ovest, rimangono forti disparità. Anche quanto a percentuale di bambini nati fuori dal matrimonio: nel 2009, il 61% nella parte orientale, contro il 26% nella parte occidentale.
La popolazione femminile dei nuovi Länder è stata particolarmente colpita dagli sconvolgimenti sociali e politici provocati dall’unificazione. Nella Rdt le madri, al contrario di quelle della Repubblica federale di Germania (Rft), conciliavano senza problemi vita familiare e vita professionale. L’assorbimento dell’Est da parte dell’Ovest ha provocato un vertiginoso aumento del loro tasso di disoccupazione e ha stravolto modi di vivere, progetti, fiducia in se stesse. In tutta la Germania, come altrove in Europa, il tasso di attività delle donne era notevolmente cresciuto dopo gli anni 1950, ma l’evoluzione nella Rdt era stata senza paragoni con quella dell’Ovest. Alla fine degli anni 1980, il 92% delle tedesche dell’Est occupava un lavoro, contro il 60% delle loro vicine occidentali. E l’uguaglianza era evidente, un caso quasi unico al mondo. Mentre a Ovest le donne orientavano i loro progetti di vita secondo schemi ancora molto impregnati dell’immaginario familiare e patriarcale tradizionale, all’Est la loro indipendenza economica nei confronti del marito era praticamente naturale.
La caduta spettacolare della natalità verificatasi nella Rdt nel corso degli anni 1970 indusse il regime a introdurre diverse misure per incitare le donne attive a procreare, con uno sforzo particolare a favore di madri sole o divorziate. Talvolta messa in ridicolo per la sua giustificazione ideologica (aumentare i membri di una «società socialista»), questa politica permetteva di armonizzare progetti professionali e compiti genitoriali. Invece, dall’altra parte del Muro la condizione di madre portava spesso con sé privazioni, addirittura un pericoloso avvicinamento alla povertà, soprattutto in caso di divorzio o di abbandono da parte del coniuge.
Niente di strano, dunque, che le donne della ex Rdt abbiano spesso percepito la riunificazione come una minaccia alle loro condizioni di vita. Attraverso l’inedita esperienza della disoccupazione, è crollato un sistema di valori fino ad allora ritenuto ovvio. «All’agenzia dell’impiego, quando dici “sola con due bambini”, non sanno di cosa stai parlando. L’addetta seduta di fronte a me non mi ha neanche rivolto uno sguardo, niente, racconta Ilona, madre single ed ex commessa a Berlino Est. Riempie il modulo, in fretta, e poi fuori e avanti il prossimo.» Nella Rdt le donne vivevano sotto la protezione di uno Stato onnipotente che manteneva il padre e la famiglia in una funzione sociale subalterna. La socializzazione dei bambini, sotto l’egida delle istituzioni, avveniva in gran parte fuori dalla cellula familiare. Questo attaccamento all’autonomia non è scomparso con il Muro.
Una protezione sociale affidabile, condizione essenziale per l’uguaglianza dei diritti
Uno studio condotto presso berlinesi disoccupate agli inizi degli anni 2000 rivelava modalità di rapporto molto diverse con il lavoro e i bambini. Tutte le donne consideravano questi ultimi come un elemento centrale della loro esistenza, ma quelle che venivano dall’Ovest davano loro più importanza che al lavoro. Benché coscienti delle difficoltà in agguato, tendevano a vedere la mancanza di occupazione come un’occasione per giocare appieno il proprio ruolo di madri. Al contrario, le berlinesi dell’Est mettevano in primo piano l’istruzione e la realizzazione dei propri progetti professionali, ritenendo che se avessero ritrovato un lavoro, i bambini sarebbero cresciuti in condizioni migliori. Essendo «più a proprio agio» nella condizione di lavoratrici, avrebbero assolto meglio anche il ruolo materno. Esse consideravano l’autonomia un elemento positivo per sé e per tutta la famiglia. Le madri di Berlino Ovest ritenevano in generale che nessuno più di loro fosse in grado di prendersi cura dei loro figli. Pur riconoscendo l’utilità di nidi e asili d’infanzia, tendevano ad avere problemi con gli orari troppo stringenti. Al contrario, per le madri di Berlino Est, abituate agli orari più flessibili della Rda, l’accesso ai nidi d’infanzia era un fattore cruciale, tanto più che i datori di lavoro ne tenevano conto nella loro politica di assunzioni. Nel 2000, Anna, commessa disoccupata di 28 anni, non nasconde la sua collera davanti ai rifiuti a ripetizione che incassava per la sola ragione di essere una madre sola. «Ti ripetono di continuo: “Che cosa? Ha due bambini? Ah ma allora non è possibile.” Quando gli spiego che ho trovato il modo di sistemarli, fanno comunque orecchio da mercante.»
E poi l’eterno sospetto che potrebbe fare altri figli: «Eppure non ci sono molte possibilità che io rimanga di nuovo incinta. L’ho detto a un tipo, di recente: non farò un altro figlio, ne ho già due, stia tranquillo». Ai tempi della Rdt una dichiarazione simile all’ufficio di collocamento sarebbe stata inconcepibile. Tutte le madri dell’Est in cerca di lavoro hanno dovuto dunque abbozzare, convincere che accettavano le nuove regole del gioco, sopportare l’umiliazione di vedersi infliggere questo trattamento. Per le berlinesi dell’Ovest, al contrario, sono soprattutto le crescenti esigenze del mercato del lavoro a essere un problema. Paula, 36enne madre single disoccupata, aveva fatto domanda per un lavoro a due passi da casa. «Era perfetto. Avrei dovuto scrivere al computer, rispondere al telefono, occuparmi dei clienti, ecc. Ma poi la direttrice mi ha detto: “È possibile che talvolta le chiederemo di lavorare quaranta ore o di venire nel week-end.” Ho risposto che per me sarebbe stato molto difficile, che volevo lavorare trenta ore, come nelle mie precedenti occupazioni. Non l’avessi mai detto! Si è messa a urlare, era fuori di sé. Con tutta la disoccupazione che c’è in giro, mi diceva, avrei dovuto ritenermi fortunata. E mi ha chiesto che effetto faceva essere un’assistita, una parassita che viveva a spese della società.» Paula si chiede: «Io non chiedo di meglio che lavorare, ma che cos’è una società nella quale bisogna affidare a qualcun altro i bambini dall’alba al tramonto?».
Per le madri di Berlino Ovest la disoccupazione è un’opportunità
Secondo le sociologhe Jutta Gysi e Dagmar Meyer, «il risultato più positivo della politica familiare nella Rdt era l’indipendenza economica ottenuta dalle donne. È qualcosa di inimmaginabile oggi. Avevano certo un salario del 30% inferiore a quello degli uomini, perché erano sovente destinate a incarichi meno qualificati, e in questo senso la loro condizione non brillava, cosa che a volte si tende a dimenticare. Ma non conoscevano la paura di perdere l’alloggio o di non trovare posto al nido, perché potevano contare su una protezione sociale solida e affidabile. È una condizione importante per l’eguaglianza dei diritti, forse la condizione essenziale» (3).
Con un simile retaggio, Edeltraud, cuoca di 28 anni, sposata e madre di due bambini, vive molto male le leggi sociali attuali e la dipendenza dal marito. «Si diventa dipendenti dal proprio partner, dipendenti dal denaro che decide di darci, dipendenti da come lo Stato valuta tutto ciò. Se decide di cancellare gli assegni, è così, punto e basta. Ci si ritroverà con l’emicrania, perché i soldi, questi maledetti soldi, è un discorso che ritorna sempre e non ci si può fare nulla.»
Il modello tedesco-orientale di uguaglianza fra uomini e donne è scomparso con il Muro, ma dopo 25 anni, continua a plasmare la considerazione che le madri della ex Rdt hanno di sé e del proprio ruolo sociale.
Sabine Kergel
(1) Si legga Michel Verrier, «Una crisi demografica che viene da lontano », Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2005.
(2) Joshua Goldstein, Michaela Kreyenfeld, Johannes Huinink, Dierk Konietzka, Heike Trappe, «Familie und Partnerschaft in Ost-und Westdeutschland», Istituto di ricerche demografiche Max-Planck, Rostock, 2010.
(3) Jutta Gysi, Dagmar Meyer, «Leitbild: berufstätige Mütter – DDR-Frauen in Familie, Partnerschaft und Ehe», in Gisela Helwig, Hildegard Maria Nickel, Frauen in Deutschland 1945-1992, Akademie Verlag, Berlino, 1993.
(Traduzione di Marinella Correggia)
Dallo Stato sociale
al lavoro forzato
Il 14 marzo 2003, poco dopo l’inizio del suo secondo mandato (2002-2005), il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder presenta al Parlamento l’Agenda 2010: un insieme di riforme che riguarda in particolare le pensioni (aumento dei contributi da versare e dell’età pensionabile, che passa da 63 a 65 e poi a 67 anni) e il mercato del lavoro. Quest’ultimo ambito, affidato a Peter Hartz, direttore del personale per Volkswagen, mira a smantellare il sistema di protezione sociale e a sviluppare la precarietà per «attivare» i disoccupati.
Hartz I – gennaio 2003
Creazione di agenzie di lavoro interinale private o pubblicoprivate per i servizi; liberalizzazione del lavoro interinale; restrizione del diritto da parte dei disoccupati di rifiutare un’offerta di lavoro.
Hartz II – gennaio 2003
Promozione dello sviluppo di lavori complementari a basso reddito, i «mini-jobs» – pagati meno di 400 euro al mese (450 en 2013) – e i «midi-jobs» – pagati da 400 a 850 euro-, che beneficiano di esoneri dai contributi sociali e sono destinati in primo luogo ai disoccupati poco qualificati. Sostegno all’autoimprenditoria.
Hartz III – gennaio 2004
Ristrutturazione dell’Ufficio federale del lavoro, che adotta una gestione per obiettivi con la valutazione delle performance di ogni agenzia locale.
Hartz IV – gennaio 2005
Riduzione della durata dell’indennità di disoccupazione da 32 a 12 mesi; rafforzamento dei controlli. Dopo un anno, il disoccupato dipende dall’aiuto sociale (che si somma con l’indennità di disoccupazione di lungo periodo). Il suo ammontare, in proporzione alle risorse, parte da un plafond inferiore ai 350 euro mensili. I «beneficiari» hanno l’obbligo di accettare i «mini-jobs» e i «lavori a 1 euro» (Ein-Euro Jobs, pagati da 1 a 1,25 euro all’ora per 15-30 ore settimanali).
A dieci anni dalla legge Hartz IV, il 1° gennaio 2015, il governo ha introdotto un salario minimo orario di 8,5 euro lordi. Gli imprenditori aggirano la norma in massa.