di Maria Grosso
«Hai lavorato legalmente in Francia?». «Ho lavorato tanto per una signora, facevo la sarta e anche le pulizie». «Ma hai mai avuto una busta paga francese?». «No». «Hai ricevuto la pensione?». «No». «E in Italia?». «Ho lavorato cinque anni in fabbrica senza mai avere una busta paga, poi ho lavorato nei campi ma neanche là mettevano in regola…».
Una mano femminile istoriata di vene, che scrive a penna su un diario, un paesaggio di campagna, che scorre dal finestrino come fossero anni a ritroso; il gocciolare dell’acqua in un lavatoio e una parete di ritratti fotografici, incorniciati da rosari pendenti: tutto questo diventa un unico flusso di memoria e di scoperta mentre le domande di cui sopra si srotolano come un gomitolo tra una nipote – una regista quasi sempre in voice over – e la nonna, Benita, nata a Vo’, Padova, nel 1930 e poi emigrata ventenne insieme al marito minatore prima in Svizzera e poi in Francia.
Ma c’è anche un tesoro sonoro, un registratore, ritrovato nel 2012, il giorno del funerale del nonno da Noémi Aubry – così si chiama la regista, classe ’81 – con dentro una cassetta e con scritte due date a matita: 1966 e 1986. Si tratta di un oggetto viaggiante grazie al quale i membri della famiglia forzatamente emigrati si scambiavano messaggi con coloro che erano rimasti in Italia.
Ecco, tra analisi sui contesti storico-politico-sociali e loro riflessi nei vissuti individuali e collettivi, Le magnétophone può ben rappresentare la ricerca tra cinema e lavoro del Working Title Film Festival di Vicenza (9-14 maggio), guidato da Marina Resta e giunto alla sua VI edizione.
Dove il punto nodale non è l’attingere del documentario alla biografia familiare – cosa anche abusata in questi anni – ma il suo far riferimento a una genealogia femminile che congiunge in un’unica interlocuzione visionaria la regista la madre la nonna e la bisnonna.
È lì che Le magnétophone va spietatamente a segno, è lì che riesce a cogliere “il lavoro”, questo sconosciuto, attraverso l’insostenibile pesantezza dei carichi sulle spalle di una donna emigrata – allora come oggi –. Un’indagine che, dopo decenni di erosione dei diritti, risulta forse ancora più ardua del processo grazie al quale Benita lavava le lenzuola con cenere e mastello al canale. Ma che pure arriva, facendo percepire cosa volesse dire fronteggiare il lavoro sfruttato fuori casa e quello di cura di una neonata e del suocero a casa, nello straniamento dell’aver lasciato giovanissima il proprio Paese e i propri genitori e ritrovandosi in un ambiente a volte diffidente se non razzista verso gli stranieri. Tanto che Benita più volte è sul punto di andarsene, tanto che sta per perdere la prima figlia perché in ospedale ha difficoltà con la lingua. Questo mentre il marito si ammala per il lavoro in miniera senza aver nemmeno raggiunto i sei anni sufficienti per la pensione. Da ragazza, con sua sorella aveva anche conosciuto il lavoro nelle risaie, le ginocchia in acqua tutto il giorno, in famiglia dormivano in nove in una stanza e sua madre Noemi la sera rammendava i calzini di tutti.
Così, tra registrazioni su fondo nero e home movies, imbarazzo, ringraziamenti per i biscotti ricevuti e promesse di scriversi presto, mentre Benita saluta i vivi e i morti, il marito che le è apparso per tanto tempo e che si è trattenuta dal toccare per evitare scomparisse, continua affettuosa e inoppugnabile la ricerca di Aubry: «Chiamo mia madre e premiamo play, voglio che i messaggi proseguano, voglio di nuovo mia nonna forte e bella con le mani che raccolgono le ortiche senza dolore».
(Alias-il manifesto, 14 maggio 2022)
di Mariangela Mianiti
Che sia stata strumentalizzata o fraintesa, come sostiene lei, Elisabetta Franchi un risultato lo ha ottenuto. Le giovani donne, come le cinque che ho accanto in pausa pranzo a Milano, stanno discutendo di quanto sia complicato conciliare lavoro e maternità, perché è sempre quella la questione dirimente nella vita di una donna italiana. Fai figli o carriera? L’imprenditrice bolognese, che con il marchio suo omonimo fattura cento milioni di euro l’anno e vende abiti soprattutto in Europa, paesi arabi e Russia (chissà come farà ora), ha detto al convegno «Donne e Moda. Barometro 2022» organizzato da PWC Italia e il quotidiano Il foglio che nella sua impresa l’80 per cento dell’occupazione è femminile, ma se deve affidare un ruolo dirigenziale a una donna la sceglie sopra gli anta perché: «Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello. Dopo questi giri di boa sono più libere, hanno meno sensi di colpa e sono al mio fianco h24».
Ha aggiunto: «I figli li facciamo noi. In casa il camino lo accendiamo noi. Se investo in una donna non anta, poi questa vuole giustamente una famiglia, sposarsi, fare le vacanze, andare dal parrucchiere e se decide di far figli io mi ritrovo, come imprenditrice, con un buco in una posizione strategica e non posso permettermelo. Io ho due figlie, ho fatto due tagli cesarei organizzati e dopo due giorni ero già a lavorare con i punti che davano fastidio perché non puoi respirare, non puoi mangiare, non puoi fare nulla. È un grande sacrificio essere imprenditrice e donna». Lasciamo perdere il fatto che, come ha sottolineato nello stesso convegno Linda Laura Sabbadini, «I servizi in Italia non esistono. Solo il 12% dei bambini riesce a entrare in un asilo nido pubblico.
Nel 2000 è stata votata la legge 328 che prevedeva di aumentarli e non è mai stata applicata». Mettiamo da parte il particolare che là dove ai padri è caldamente consigliato e pagato un lungo congedo parentale (vedi Svezia) i livelli di occupazione femminile sono altissimi. Sorvoliamo sulla questione che mica tutte hanno voglia di vivere il parto come se fossero al fronte programmando cesarei e andando in ufficio con i punti addosso. Accantoniamo pure le esigenze del neonato che, magari, avrebbe voglia di strafugnarsi contro il corpo di colei che per nove mesi se l’è portato dentro. Messi in sospensione questi aspetti, una cosa mi ha colpito del pensiero di Elisabetta Franchi, quel cercare donne disponibili a viverle accanto h24, formula molto usata fra le forze dell’ordine.
C’è in quella visione, un’idea di bios funzionale solo al lavoro, un pensiero di dedizione assoluta, di cessione totale del tempo e di sé, come se, una volta svolto il compito di scodellatrice di nuove generazioni, l’ideale fosse votarsi anima e corpo a un lavoro, a un’azienda, a una missione, peraltro altrui. Quindi non più lavorare per vivere, ma vivere per lavorare. Torno alle mie giovani vicine di tavolo e sento una dire: «Che cosa ci potrebbe succedere se restassimo incinte una dopo l’altra? Che ci dicono chi deve tenere il bambino e chi no per il bene dell’azienda? E chi ci assumerebbe prima dei quaranta se tutti ragionassero come la Franchi?»
Visto che produce abiti, sono andata a vedere la collezione Ef, tanto per capire a che tipo di donna si rivolge. Fra tubini fascianti, miniabiti con lucchetti, robe manteau paramilitari, mise da red carpet con smerli, ricami e paillettes, ho capito quando dice «Il camino lo accendiamo noi». Un camino metaforico, s’intende.
(il manifesto, 10 maggio 2022)
di Anita Cainelli
Negli ultimi 30 anni è stato registrato un aumento esponenziale dei rischi psicosociali e di episodi di violenza (fisica o psicologica) e molestie sul luogo di lavoro (Balducci e Fraccaroli, 2019). Secondo un’elaborazione della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro su dati Istat, 1 milione e mezzo di donne (8,9% delle lavoratrici) ha subito una molestia fisica nel luogo di lavoro, mentre circa 1 milione 173 mila un ricatto a sfondo sessuale (7,5%) per l’assunzione e/o avanzamento in carriera. L’80,9% delle donne non parla della violenza subita con nessuno sul posto di lavoro e in pochi casi tali situazioni sono sfociate in denunce alle Forze dell’Ordine. Questa scelta è mossa dalla paura di non ricevere adeguata tutela (fisica e giudiziaria, oltre che economica).
È di fondamentale importanza identificare i meccanismi alla base del fenomeno per poterlo prevenire e per proteggere e supportare le vittime.
Questo progetto di ricerca, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, mira a costruire e validare uno strumento che permetta di intercettare e prevenire fenomeni di violenza – implicita ed esplicita – e di molestie nei luoghi di lavoro, con un focus particolare relativo alla violenza di genere.
Inoltre, si vuole anche indagare il ruolo delle competenze e dei punti di forza personali nel fronteggiare tali fenomeni di violenza nei contesti lavorativi, al fine di poter strutturare eventuali interventi di empowerment in ottica preventiva.
A partire dalla costruzione del protocollo, obiettivo secondario resta quello di definire al meglio i possibili indicatori di intervento in situazioni di rischio o di effettiva violenza (specialmente di genere) sul luogo di lavoro.
La ricerca prevede il coinvolgimento di lavoratori/lavoratrici maggiorenni residenti in Italia.
La Privacy dei partecipanti verrà garantita in quanto non si chiederanno informazioni che possano portare al proprio riconoscimento (verranno solo richiesti età, genere e posizione lavorativa ricoperta); inoltre, la presentazione dei risultati della ricerca avverrà solo in forma di dati aggregati.
https://psicologiaunimib.qualtrics.com/jfe/form/
(www.libreriadelledonne.it, 18 aprile 2022)
di Sandra Burchi
In questi giorni fra gli aggiornamenti che riguardano la cosiddetta fine dello stato di emergenza ci aspettavamo anche quelli che riguardano lo smart working o lavoro agile. Uscire dallo stato di emergenza per questa modalità di lavoro, a cui ci siamo collettivamente abituati dal marzo 2020, significa uscire dal sistema di semplificazioni che ne hanno permesso un’applicazione così estesa e accelerata, non proprio lineare.
A quanto pare bisognerà aspettare fino alla fine di giugno. Le aziende private possono continuare a remotizzare il lavoro secondo quanto sperimentato fin qui, nelle aziende pubbliche gli accordi sono già obbligatori e anche i regolamenti sull’accessibilità, cambia la situazione dei lavoratori fragili.
Ma abbiamo imparato il lavoro smart? e si è veramente realizzata quella rivoluzione che sgancia i lavoratori e le lavoratrici dall’obbligo del cartellino per consentire loro un’autonomia di gestione tutta impostata sul raggiungimento di obiettivi concordati? Sì e no.
Abbiamo imparato che lavorare da remoto si può, e del resto era già possibile, in molti casi non è stato fatto molto di più che attivare una Vpn, ma non si è andati molto più in là di un trasferimento a casa della prestazione.
Quello che è stato applicato è un modello di lavoro definito da più parti “ibrido” che mescola telelavoro – con tanto di coerenza di orari di ufficio, reperibilità, incremento di sistemi di controllo – e lavoro agile – presa in carico degli obiettivi e autonomia organizzativa.
Un lavoro da casa ancora in via di definizione, con poco sforzo da parte delle imprese private e pubbliche in termini di digitalizzazione e management, ma su cui, va detto, c’è un interesse generalizzato. Arrivare a una riduzione significativa – ma non definitiva – degli spostamenti quotidiani casa-lavoro è possibile, ma bisogna evitare che diventi un “privilegio” concesso dai datori di lavoro, o un permesso strappato a maldisposti dirigenti della pubblica amministrazione.
I disagi di un trasferimento di massa, le complicazioni di una conciliazione lavoro/famiglia sperimentata nelle condizioni estreme del lockdown o del susseguirsi di quarantene, non ha ridotto l’interesse per la possibilità di arrivare a forme più flessibili e individualizzate dell’orario lavorativo. È un interesse da leggere fra le righe che non sottostima la necessità di un sistema di regole chiare che tenga in equilibrio diritti e doveri di tutti e che metta in circolo, redistribuendoli, i guadagni che sembrano evidenti da parte delle aziende (diminuire la presenza dei dipendenti in sede diminuisce i costi, va da sé).
Il desiderio di voler continuare a lavorare anche a distanza verificato da indagini e ricerche, soprattutto se letto secondo un’ottica di genere, aspira a un miglioramento di quanto sperimentato fin qui. Il lavoro agile non può essere inteso come una misura di conciliazione tout court, semmai come uno degli elementi a disposizione per una riprogettazione su larga scala dei tempi e dei luoghi del vivere e del lavorare.
La possibilità di lavorare da remoto, di organizzare diversamente il tempo quotidiano, deve essere inserita in una serie di aggiustamenti che riguardano la vita sociale nel suo complesso, welfare compreso, senza lasciare alle donne il compito di prendersi cura di tutto quello che non torna. Eppure la possibilità di adottare un modello di lavoro agile, modulare e articolato e che prevede forme di autogestione sembra rientrare nelle prospettive di molti lavoratori e lavoratrici dipendenti.
Al momento leggere questo desiderio di lavoro agile, parziale, flessibile, modulare non è difficile. Dopo due anni di pandemia da più parti si leggono i segnali di una resistenza a riprendere il ritmo come niente fosse, alle condizioni di sempre, nel quadro di un’economia della crisi a cui, anche in Italia, si è risposto con la richiesta di una disponibilità crescente da parte di chi ha un lavoro o di chi lo cerca: livelli retributivi incongrui e inadeguati e precarietà diffusa.
I luoghi di lavoro sono stati abitati da logiche che mentre inneggiano al benessere organizzativo naturalizzano la competitività o, quando va meglio, la produttività intensiva e il ritmo accelerato. Forse il desiderio di alternare lavoro a distanza e lavoro in presenza va letto semplicemente così, come il desiderio di allentare la presa, di scegliersi il modo di lavorare, di complicarsi la vita con un’organizzazione da inventare (perché non diventi più solitaria e oppressiva) ma che ritrovi un ritmo diverso.
Decelerare. È un’aspirazione più che una certezza, ma c’è. Abbiamo visto che a distanza si può anche lavorare di più, che si corre il rischio – senza un orario rigido – di lavorare sempre, lasciando il computer sempre acceso sul tavolo o in testa, ma l’aspirazione resta. Non si tratta solo di risparmiare ore di traffico, e già questo non è poco, o gli spostamenti ripetitivi che tolgono ai pendolari ogni giorno ore di vita, si tratta del desiderio di sottrarsi alle ansie di prestazione proprie e altrui.
Certo si possono trasferire a casa, ed è questo il rischio più grande su cui azionare dispositivi di protezione, ma c’è qualcosa nell’alternanza dentro-fuori (che dovrebbe essere il cuore del lavoro agile), in quella flessibilità, in quella possibilità di autogestione che lascia sperare in un miglior uso del tempo, in giornate più equilibrate e, perché no, più sensate.
Stanno succedendo altri fenomeni da leggere così, nel pieno di contraddizioni evidenti. Richieste di lavoro che vanno deserte, intere categorie che reclamano la mancanza di lavoratori e lavoratrici, dimissioni volontarie. Forse è il momento, uscendo da questa ennesima sovrapposizione di crisi, di ripensare il lavoro, semplicemente di pagarlo di più, di dotarlo dei diritti adeguati e di uscire dalla logica verso cui anche la pandemia ci ha spinti, per cui tutto quello che dovrebbe essere normale ha preso il nome di privilegio.
Sandra Burchi è ricercatrice. Ha svolto per Ires CGIL la ricerca: «Due anni di smart working. L’esperienza delle donne in Toscana»
(il manifesto, 6 aprile 2022)
di Marco Imarisio
Marina Ovsyannikova parla, finché potrà farlo. E accanto all’ovvia preoccupazione sul futuro suo e dei suoi soldi, racconta in un incontro con la Reuters com’è nata la protesta contro la guerra in diretta durante il telegiornale della sera, che l’ha fatta diventare un’eroina in tutto il mondo, anche se lei ribadisce di non sentirsi tale. Anzi, era anche una sostenitrice di Vladimir Putin, fino a quando la disillusione ha preso il sopravvento. L’invasione dell’Ucraina le ha fatto riaffiorare un ricordo. «Mi è tornata in mente la mia infanzia in Cecenia. In qualche modo, ho cominciato a capire cosa stanno passando quelle povere persone in Ucraina. Ed è qualcosa che non si può accettare».
Già ieri c’era stato qualche indizio che faceva pensare a una spinta anche personale verso quel gesto clamoroso. Il primo ovviamente è la nazionalità del padre, ucraino di nascita. Il secondo è la provenienza della sua famiglia, originaria della regione di Kuban, dove fino alla grande carestia del 1930 la popolazione era di lingua ucraina. Quell’area della Russia meridionale confina con la Cecenia, teatro di due guerre di indicibile violenza. Una persa, che segnò l’inizio della fine dell’epoca di Boris Eltsin. Un’altra vinta dal neopresidente Putin, che cominciò così la costruzione del suo potere assoluto. «Noi vivevamo a Grozny, e ricordo quando dovemmo lasciare la nostra casa all’improvviso, perché restare era diventato pericoloso. Avevo dodici anni, c’erano bombardamenti continui. Da un giorno all’altro prendemmo quel che potemmo prendere delle nostre cose, e partimmo».
Le immagini della nuova guerra hanno fatto il resto. Marina aveva già deciso di fare un gesto di dissenso. «All’inizio ho pensato di andare con un cartello in una piazza vicino al Cremlino. Ma poi ho pensato che l’effetto sarebbe stato nullo. Sarei diventata soltanto un’altra manifestante arrestata». E poi non voleva limitare il suo messaggio a uno slogan. Non era il suo unico obiettivo. «Desideravo anche mandare un messaggio al popolo russo. Non siate degli zombi, non date retta a questa propaganda. Imparate come analizzare le notizie, e cercate altre fonti, che non siano la televisione russa di Stato». Quella per cui lei ha lavorato negli ultimi dodici anni. E dalla quale dopo di lei, se ne stanno andando altri giornalisti in segno di protesta. Come Zhan Agalakova, che ci era entrata giovanissima nel 1991, diventandone uno dei volti più riconoscibili. Anche a NTV, la rete concorrente, posseduta per l’86 per cento dal colosso del gas Gazprom, pare sia in corso un esodo di massa. La parte dirompente, e scomoda per il Cremlino, perché rivela la nudità del re in quanto a partigianeria dei media statali, è questa. E non le verrà perdonata.
«Non mi sento un’eroina, volevo solo che il mio sacrificio non risultasse vano e che servisse ad aprire gli occhi alla gente». Tranne il primo, gli obiettivi sono stati raggiunti almeno in parte, perché il video della sua irruzione ormai è introvabile ovunque e oggi sui media non c’è traccia del suo nome. «Non voglio andarmene da questo Paese, perché sono e mi sento russa. Sono solo contraria alla guerra. Non credo che sia giusto che qualcuno possa essere punito per le sue opinioni; quindi, spero che non venga formulata alcuna accusa penale nei miei confronti. E soprattutto, spero che non accada nulla ai miei figli. L’unica cosa che mi preoccupa davvero è la loro sorte».
La donna rischia molto di più della multa equivalente a 280 euro che le è stata comminata per avere organizzato una iniziativa pubblica non autorizzata. Questa sanzione è solo il primo gradino della scala che attende i manifestanti fermati in piazza, una specie di infrazione amministrativa. Marina sa di non poter essere arrestata, per ora, in quanto madre di due minorenni. Ma le cose potrebbero cambiare. La magistratura ha ordinato l’apertura di una indagine nei confronti della giornalista per stabilire se la sua irruzione in studio, e quel che ha detto nel messaggio video registrato in precedenza, infrange la nuova legge che sanziona le presunte fake news sull’esercito russo con pene che possono arrivare fino a quindici anni di reclusione.
Anche per via di questa spada di Damocle che pende sulla sua testa, ha dato l’impressione di voler far calmare le acque intorno. «Credo in quel che ho fatto, ma ora capisco anche l’entità dei problemi che dovrò affrontare, e sono molto preoccupata per la mia sicurezza». Al momento, l’unica certezza è il licenziamento da Primo canale, in pratica già annunciato a mezzo stampa. «Se dovessi finire in carcere, spero che sia per breve tempo» è il suo augurio finale. Anche per questo, ripete due volte di non sentirsi un’eroina. Comunque vada, lei ha fatto la sua parte.
(Corriere della sera, 16 marzo 2022, https://www.corriere.it/esteri/22_marzo_16/marina-ovsyannikovaha-intervista-2cd23b82-a528-11ec-8f73-d81a6d7583fb.shtml)
di Giangiacomo Schiavi
Nell’azienda dove essere mamma vale più di un master sono pronti a brindare: per il 2022 ci sono due bimbi in arrivo. «Si inverte una tendenza e si torna nascere», è felice Roberta Zivolo, l’imprenditrice che ha fatto della maternità un motivo di successo. In via Marco Polo 5, sede di «Progetto 2000 group», su 80 dipendenti 75 sono donne: scelta precisa e convinta per ribaltare schemi e convenzioni e raggiungere 40 anni dopo un primato riconosciuto da Forbes e dall’Osservatore romano: zero contenziosi sindacali, con l’obiettivo riuscito di conciliare lavoro e famiglia. «Quest’azienda l’ho immaginata io, è cresciuta nel rispetto delle persone, si entra e si esce con un sorriso», spiega Roberta. Non ci sono lavoratrici, ma collaboratrici. Ferie e orari sono sacri. La famiglia anche. «Le donne hanno una vita complicata, bisogna avere rispetto per il loro tempo. A chi andava in vacanza dicevo: mi raccomando, tornate in tre». Le hanno dato retta: in azienda le nascite hanno raggiunto quota 127.
La prima bambina, anno 1983, si chiamava Ninive. L’ultima, anno 2020, ha per nome Aurora. I n mezzo ci sono le curve in discesa della statistica, che confermano l’allarme di Papa Francesco sull’inverno demografico. «Dal 1883 al 1999 la media delle nascite è stata di sei all’anno — dice Roberta — poi siamo scesi a due, con soli 24 bambini nati dal’99 al 2012». Il crollo è arrivato con l’ultimo decennio: due bambini nati dal 2012 al 2021. Oggi l’annuncio delle nuove maternità sembra un atto di fiducia e di speranza nel futuro reso incerto dalla pandemia. «Incoraggiare le nascite è un modo per far sentire l’azienda come una grande famiglia e darsi degli obiettivi comuni. Non c’è cosa peggiore che sentirsi isolati o messi in disparte. Ho sempre pensato che responsabilità d’impresa è anche portare avanti chi è rimasto indietro».
Roberta Zivolo è un carro armato con l’anima, una battagliera donna del fare, uscita dalla periferia milanese per diventare imprenditrice: ha ribaltato il suo momentaneo destino di aiuto parrucchiera in centro città, in via Manzoni, studiando prima alle serali, poi sfacchinando per anni tra schede meccanografiche, software e organizzazione aziendale, ideando processi moderni e innovativi fino a dirigere un’azienda a sua immagine e somiglianza, solare, inclusiva, che punta sull’empatia e la solidarietà, capace di affermarsi nel settore dell’outsourcing e diventare Società Benefit. «Dare alle donne la possibilità di pensare a un figlio mentre lavorano — spiega — è stata una scelta convinta, nata da esperienze personali, quando nelle società di informatica facevano firmare una lettera di dimissioni in bianco…». Il patto non scritto suonava così: in caso di gravidanza, fuori.
Per anni alla «Progetto 2000 Group» la matematica è stata un’opinione. «Uno più uno fa tre, dicevo alle mie collaboratrici». E si festeggiava insieme il nuovo o la nuova nata: fiocco rosa o azzurro esposto come una bandiera sul portone d’ingresso dell’azienda. «Dal rispetto dei diritti nasce il rispetto dei doveri, la dedizione e la professionalità nel proprio lavoro — dice Roberta —. Ognuna delle mie collaboratrici sa di essere parte di un orizzonte più ampio, quello del ben vivere che riesce a conciliare carriera e serenità affettiva. Dopo quarant’anni posso testimoniare che la mia azienda rosa gode di ottima salute, e questo è avvenuto grazie alle donne».
Se le donne, come è probabile e anche auspicabile, saranno chiamate a salvare il mondo, Roberta ha già prenotato un posto. Con una nuova visionaria impresa chiamata San Cresci, un «eco-villaggio» solidale tra gli ulivi secolari dell’Appenino toscano: qui ha sostituito l’organizzazione dei business aziendali con la gestione partecipata dell’agricoltura che applica i principi della sostenibilità ambientale e sociale. Una democrazia della condivisione. Che comprende anche la possibilità di lavorare in smart working e accudire e istruire i figli nel verde della natura, lontano dai veleni dell’inquinamento. È un sogno, come lo è stato l’azienda rosa. E i sogni vanno sempre incentivati. Come i figli delle collaboratrici, che nel 2022 tornano a nascere.
(Corriere Milano, 31/12/2021)
di Elvira Serra
Stefania Bertè ha 33 anni, lavora in una società di consulenza e questa settimana andrà in maternità. Cosa c’è di strano? Niente. E tutto. Perché Stefania ha ricevuto l’offerta di lavoro, dopo una selezione molto lunga, alla metà di aprile, negli stessi giorni in cui ha scoperto di essere incinta. Quando il suo attuale responsabile l’ha chiamata per comunicarle la notizia (lei aveva già un contratto a tempo indeterminato in un’altra azienda), ha replicato spiazzandolo: grazie, ma anche io devo darvi una notizia, aspetto un bambino. Era pronta a un arrivederci e grazie. Invece si è sentita dire congratulazioni e, dopo un ultimo rapido consulto interno: l’assumiamo. L’azienda si chiama Tack Tmi (Gi Group), ha una cinquantina di dipendenti e un’amministratrice delegata, Irene Vecchione, mamma di una bambina di dieci anni. Quando le abbiamo chiesto quanto avesse contato essere madre nella scelta di supportare la candidatura di una donna incinta, ha risposto che sicuramente la sua esperienza privata le dà, in generale, una maggiore capacità empatica. Ma, soprattutto, che non se la sentiva di penalizzare la candidata con i requisiti migliori in tutte le fasi di selezione per la maternità imminente, che non poteva diventare un handicap.
Cecilia, questo è il nome scelto da Stefania e da suo padre Aldo, nascerà intorno a Natale e ci ricorda due cose. La prima è che le donne al vertice possono davvero fare la differenza (ed è quello su cui si stanno impegnando le manager entrate nei cda delle società italiane quotate in borsa grazie alla legge Golfo-Mosca: erano il 7% nel 2011, ora sono il 41%). E che non si può parlare di donne e lavoro sui giornali, alla radio e in televisione, e chiedersi perché sono penalizzate, senza sceglierle come interlocutrici privilegiate. L’Italia non è un Paese per mamme. Ce lo dicono le statistiche (nel 2020 ci sono state 42 mila dimissioni di genitori di bambini da zero a tre anni, e il 77% erano donne) e ce lo dicono le testimonianze di chi ancora si sente chiedere, in fase di colloquio, se desidera avere figli (l’odiosa consuetudine delle dimissioni in bianco, scongiurata dalla legge che convalida esclusivamente quelle comunicate per via telematica, ha trovato un nuovo alleato nel mobbing). Ma l’Italia può cambiare e deve farlo. E non può riuscirci senza ascoltare, questa volta, prima le donne.
(Corriere della Sera, apparso col titolo “L’Italia non è (ancora) un paese per mamme”, https://www.corriere.it/opinioni/21_novembre_14/italia-non-ancora-paese-mamme, 15 novembre 2021)
di Luca Tancredi Barone
Las Kelly catalane ce l’hanno fatta. Sono riuscite in meno di un mese a raccogliere più dei 60mila euro previsti per lanciare un sito web per prenotare hotel “etici”, quelli che rispettano i diritti delle cameriere. Riunite nel sindacato di “quelle che puliscono” (las que limpian, da cui l’acronimo fonetico las-ke-li) fondato nel 2016 a Barcellona, le lavoratrici fra le più sfruttate del mercato, con l’obiettivo di mettere l’accento sulle terribili condizioni in cui sono costrette a operare, hanno deciso di aprire una campagna di crowdfunding per fondare una specie di booking per gli hotel etici. Hanno già raccolto quasi 80mila euro. L’idea è che su questa piattaforma ci siano solo gli alberghi che ottengono il “sigillo del lavoro giusto e di qualità” secondo quanto stabilito dal governo catalano nel 2018. Una iniziativa poi caduta nel dimenticatoio. Ma che le Kelly vogliono riattivare. Fra i requisiti per essere elencati fra gli hotel “etici”, che i turisti possono scegliere di utilizzare sul modello del “commercio equo e solidale”, c’è il rispetto dei diritti del contratto collettivo del settore, il rispetto delle leggi sulla sicurezza del lavoro, l’uguaglianza della retribuzione fra uomini e donne, la contrattazione di persone dei collettivi più vulnerabili, e la presenza di misure per incoraggiare lavoro stabile e di qualità. Inoltre le Kelly esigono che non vengano esternalizzati i lavori come quello della pulizia delle stanze: per questo già nel 2019 presentarono una iniziativa al Parlamento europeo: We end outsourcing. Vania Arana, segretaria delle Kelly catalane lo riassume con la frase: «Vogliamo avere un lavoro dignitoso». A Barcellona, dopo la pandemia, solo un quinto degli hotel è ancora attivo, secondo dati che forniscono le stesse Kelly, ma sperano che il nuovo “sigillo kelly” sia un incentivo per gli alberghi. Per questo contano che, una volta approntato il portale, gli hotel meno insensibili alle loro richieste si mettano in contatto e inizino un processo per adattarsi ai requisiti di qualità fissati dalle lavoratrici. La speranza delle Kelly è quella che nel 2022 i turisti possano cominciare a prenotare attraverso il loro sito. «Vogliamo pulire il mondo e inaugurare una nuova era del turismo basata sul rispetto, la bellezza e il benessere, che anteponga gli interessi umani a quelli mercantili in tutto il pianeta», dicono sulla piattaforma di crowdfunding Goteo. Il sindacato ha già ottenuto alcune vittorie, come quella contro l’hotel di lusso Grand Hotel Central di Barcellona, i cui dirigenti avevano licenziato una lavoratrice che si era appena iscritta al sindacato delle Kelly, e il giudice costrinse l’hotel ad assumerla di nuovo. Qualche giorno fa erano salite alle luci della ribalta per aver denunciato che nella località turistica di Benidorm molti turisti lasciano le stanze in condizioni deplorevoli, e che loro hanno solo pochissimi minuti per pulire (devono sistemarne tra le 20 e le 25 in sei ore): impossibile farlo nei tempi a cui le costringono gli hotel, e meno ancora in epoca pandemica quando si richiede loro di disinfettare accuratamente le superfici.
(il manifesto, 28 agosto 2021)
di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti
Lavoro. La storia di Sara Guerriero: prima l’azienda l’aveva trasferita a 250 chilometri di distanza, poi l’aveva cacciata. Per il tribunale d’Appello di Cosenza si è trattato di un licenziamento ritorsivo e discriminatorio. Una sentenza destinata a fare giurisprudenza
[…]
È stata una battaglia infinita, lunga ed estenuante, quella di Sara, a colpi di cause, denunce, lettere di trasferimento, accorate richieste di mediazione. E poi la campagna stampa, i servizi delle Iene, gli inviti in Rai. «Gli affari dell’azienda non vanno benissimo, non puoi lavorare più qui, ti mandiamo a 257 chilometri di distanza». Prendere o lasciare. Lei non solo non ha lasciato ma ha combattuto.
E alla fine ha vinto. E i «guai» per Farmasuisse Srl e Sanders cominciano proprio da oggi: una sentenza della sezione Lavoro della Corte di Appello di Catanzaro, presieduta dal giudice Emilio Sirianni (consiglieri Rosario Murgida e Antonio Cestone), ha condannato a una pesante indennità risarcitoria la multinazionale elvetica e ha ordinato l’immediato reintegro della lavoratrice cosentina, patrocinata dall’avvocato Giuseppe Lepera. Guerriero fu prima trasferita e poi di fatto estromessa dall’azienda, subito dopo aver messo al mondo un bimbo. «Il suo licenziamento è ritorsivo e discriminatorio», sentenzia ora la Corte.
La giovane lavoratrice, sebbene in tanti anni di servizio fosse stata impeccabile e professionale, appena divenuta mamma fu posta di fronte a un ricatto: accettare il trasferimento a 250 km dalla sede originaria o essere licenziata. Sara si ribellò, raccontò tutto a il manifesto, che nell’edizione del 3 marzo 2017 pubblicò la sua vicenda. La solidarietà fu massiccia.
«Posso ritenermi fortunata – spiega – perché la mia non è una famiglia monoreddito, quindi ho potuto attendere da disoccupata il tempo necessario per ottenere giustizia. Ma penso a tantissime colleghe che non vivono la stessa condizione e si vedono costrette a subire in silenzio o accettare formule compromissorie forzose».
La storia di Sara è narrata in La spettabile F., scritto da Luca Scarpelli, e pubblicato da Edizioni Erranti nel 2020. Il libro ricostruisce la vertenza in tutte le fasi, rivela i contraccolpi psicologici, squaderna il dramma umano di una donna privata del posto di lavoro nel momento più delicato della propria esistenza. Dal romanzo traspare la volontà di riscatto, la scelta coraggiosa di ribellarsi, la consapevolezza che tale gesto stimolerà tante altre donne a non sottomettersi.
Il gelido linguaggio burocratico con cui l’azienda comunicava l’esubero della segretaria Guerriero, inquadrata nel 4 livello Ccnl studi professionali, «per un processo di riorganizzazione finalizzata a ridurre i costi legati alle sedi operativa in modo da far sì che il numero degli operatori sia confacente alle effettive esigenze aziendali ed ai reali volumi di attività /redditività e alle scelte imprenditoriali adottate per l’organizzazione delle attività di sede e il contenimento dei costi», celava dunque una cinica volontà «discriminatoria», «ritorsiva» e «vendicativa».
I giudici dell’Appello riformando la sentenza di primo grado rimarcano che la scelta aziendale di sopprimere un posto di lavoro nella sede di Cosenza non era frutto di legittima scelta imprenditoriale. «Che tanto fosse avvenuto in ragione della sopravvenuta maternità della ricorrente era dimostrato anche dai floridi risultati economici conseguiti nel periodo di interesse proprio presso la filiale di Cosenza, che smentivano in radice il giustificato motivo oggettivo», scrivono i giudici catanzaresi.
Un provvedimento che farà giurisprudenza, che tira una linea sul modo di fare impresa a danno delle lavoratrici madri. «A ulteriore dimostrazione del solo intento vendicativo alla base della decisione aziendale di espellere la lavoratrice, vi era anche il clamore mediatico che la vicenda aveva suscitato sin dal secondo trasferimento e, a seguire, dopo il licenziamento». Il datore di lavoro però non si aspettava la tenacia della lavoratrice nel portare avanti la vertenza.
Pensava, annotano i giudici, di poter chiudere bonariamente come fatto «in altre sedi dislocate sul territorio nazionale dove era risultato sufficiente procedere al trasferimento e al licenziamento di altre neo mamme per poi addivenire ad accordi transattivi con le stesse». L’Istituto Helvetico Sanders pensava che l’Italia non fosse un paese per mamme. Da oggi dovrà ricredersi.
(il manifesto, 4 agosto 2021)
[di Redazione]
L’occupazione femminile a Milano ha perso meno terreno, a causa della pandemia, rispetto al resto d’Italia. È il risultato di un focus comparso su «Your Next Milano», la nuova piattaforma di Assolombarda, ideata per ospitare le analisi su alcuni asset di sviluppo della città. Il sito, spiega Assolombarda, «offre studi sulle tematiche più rilevanti dell’economia e mette a disposizione indagini e infografiche interattive, scaricabili e condivisibili, anche sui principali canali social». Sono più di 5mila le donne che hanno perso il lavoro a Milano nel 2020, pari al -0,7% delle occupate. Il calo è però più contenuto di quello degli uomini (-1,8%) a differenza del dato nazionale, che vede la componente femminile soffrire di più. «È l’effetto della struttura economica del territorio, che vede una forte presenza di donne in settori fondamentali nella pandemia, come la sanità e il commercio di beni essenziali. Oltre a una concentrazione di donne in lavori a più alto contenuto professionale, che consentono lo smart working d’emergenza».
(Milano-Corriere della Sera, 11 giugno 2021)
di Luisa Pogliana
Non sono impazzita per parlare di segnali positivi in una situazione così grave, soprattutto per le donne. Ma succede che nonostante l’indebolimento della presenza femminile nel lavoro – causa covid – le donne non arretrano nella consapevolezza e nell’agire.
C’è un ampio gruppo di manager che si incontrano su una proposta di Donnesenzaguscio (fare ‘Un passo in alto’, ovvero più donne ai vertici delle aziende per cambiare la natura del potere). Questo confronto politico, questo ragionare insieme permette di vedere quanto di positivo viene proprio dalle donne.
Ci sono evidenze anche nel nuovo governo italiano. Al di là di ogni valutazione in merito, alcuni indirizzi del programma toccano le questioni su cui ci battiamo: «…abbiamo uno dei peggiori gap salariali tra generi […] una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. […] bisogna garantire parità di condizioni […] un sistema di welfare per superare la scelta tra famiglia o lavoro […]». Certo non ci aspettiamo che arrivino da lì politiche e leggi che risolvano tutto questo.
Però è la prima volta che questi obiettivi entrano nel programma di un governo.
È un risultato del nostro impegno di donne contro queste vertiginose discriminazioni. Se noi non avessimo parlato e agito costantemente questo non sarebbe successo, non se ne parlerebbe oggi così tanto: abbiamo reso il problema visibile e non più evitabile. Non sottovalutiamo mai l’importanza di quello che facciamo.
Per il resto, sta sempre a noi continuare ad aprirci spazi in queste direzioni.
Sappiamo che le condizioni di lavoro eque si creano se cambia la cultura di chi in azienda decide le politiche – il vertice, appunto -, fatto quasi solo da uomini che continuano a riprodurre una cultura misogina: per questo occorre che in quei ruoli entrino donne con una visione diversa.
Sappiamo anche che per cambiare la squilibrata gestione domestica non basta il welfare, serve una forte battaglia culturale, in casa e in azienda. Bisogna far crescere tra le donne la consapevolezza che è necessario e possibile negoziare con il proprio compagno sulla condivisione di queste incombenze, nella convinzione che non si mette in gioco la relazione affettiva, e gli uomini possono essere ricettivi più di quanto pensiamo. Siamo anche consapevoli che questi comportamenti che avvengono nel privato sono l’altra faccia di ciò che avviene in azienda, dato che nelle culture delle organizzazioni prevale ancora una concezione maschile del lavoro, del tempo, della separazione dal resto della vita: anche lì bisogna affrontare questo problema.
Ci aiuta dunque vedere che ci sono donne che stanno già facendo succedere cose positive nelle aziende.
Le manager che hanno assunto ruoli decisionali alti senza schiacciarsi sul modello maschile hanno per questo un effetto trainante. Altre donne riconoscono la loro autorità, si sentono più sicure di poter assumere a loro volta ruoli di responsabilità. Perché vedono un modo di essere manager, esercitare il potere insito nel ruolo diverso da quello – respingente per molte – trasmesso dagli uomini. L’effetto traino non è stato programmato, è diventato uno sviluppo ‘naturale’.
Le manager di livello alto, in più, vedono le potenzialità delle giovani, le promuovono, e le sostengono. Controbilanciando il fatto che quando entrano in ruoli di middle management sono facilmente attaccate ‘dal basso’. È importante questo rafforzarle nella certezza di essere all’altezza del ruolo: l’attacco è rivolto alle donne che vanno più avanti, non alla loro professionalità. Insomma, queste relazioni tra donne sono preziose: sviluppano una capacità di cambiamento imprevedibile.
Altre manager mettono in atto strumenti organizzativi con vincoli tesi a tagliare le discriminazioni. Per esempio, manager alla direzione del personale – cercando l’alleanza con manager maschi influenti – pongono l’obiettivo aziendale di raggiungere un’equa distribuzione uomini-donne in tutti i livelli dell’organizzazione, e in particolare nelle strutture dove si decide. Questo obiettivo diventa parte degli indicatori con i quali i dirigenti vengono premiati a fine anno. Non basta però solo un meccanismo automatico. È essenziale il coinvolgimento consapevole delle donne: si mettono in campo quindi attività di coaching in modo che le donne possano esprimere e far conoscere le loro aspettative, e superare eventuali resistenze alla propria ambizione (motivate spesso da un contesto famigliare che inibisce questo desiderio). Più in generale, si fa un continuo lavoro sulla cultura. Perché contiene atteggiamenti così radicati che gli uomini non si rendono conto di come si traducano in atti discriminatori: si interviene perciò sui criteri con cui si scelgono le persone, anche nei progetti strategici, e nel processo di promozione a quadri e a dirigenti. Si fa ripulitura dei linguaggi nei documenti aziendali che usano solo il genere maschile (anche con impliciti pregiudizi e stereotipi).
La determinazione femminile a non arretrare e anzi ad andare avanti fa sì che per reazione la misoginia si diffonda nella vita quotidiana di lavoro. Questo ci irrita, ci ostacola, ci ferisce. Ma è un buon segno: è un tentativo di rivalsa, è l’ammissione del fatto che non riescono a fermare le donne. E non è un flagello biblico inevitabile. Questa misoginia quotidiana, a volte subdola, può essere contrastata. Cominciando dal saperla riconoscere. Dice una di noi: «Non parliamo di grandi problemi come il paygap ecc. Sono piccole pratiche quotidiane, che colpiscono tutte, ma abbiamo il potere di contrastarle con alcune piccole, costanti e coraggiose mosse di kung-fu». Ci sono vari strumenti con i quali possiamo arricchirci nella capacità di bloccare il maschilismo tossico: li possiamo imparare, trasmetterceli. Anche su questo continuiamo a lavorare.
I segnali positivi non sono frutto di un ottuso ottimismo, sono reali, sono contagiosi, e vengono dalle donne.
Per chi vuole stare in contatto con noi: www.donnesenzaguscio.it
(www.libreriadelledonne.it, 25 marzo 2021)
di Teresa Numerico
Il motore di ricerca, a dispetto dei suoi proclami, applica una strategia di esclusione dell’alterità di vedute. Come dimostra il caso di Timnit Gebru, licenziata per un articolo non approvato.
Timnit Gebru è stata licenziata da Google all’inizio di dicembre 2020. Aveva la corresponsabilità della squadra dedicata all’etica dell’intelligenza artificiale nell’azienda ed era una delle più note dipendenti afroamericane del motore di ricerca.
Secondo Jeff Dean, capo della divisione Intelligenza Artificiale, un articolo per il quale aveva chiesto l’approvazione – che aveva contribuito a scrivere – non superava gli standard di qualità aziendali. Alle proteste di Gebru è scattato, immediato, il licenziamento.
Il caso è rilevante perché dimostra una più generale tendenza del motore di ricerca e delle grandi aziende Internet a usare l’etica dell’Intelligenza Artificiale solo per i grandi titoli delle pubbliche relazioni, mentre quando si tratta di approfondire i problemi e discutere nel merito delle pratiche tecniche non accetta di essere criticata. È la nota pratica dell’ethics washing: fare finta di seguire una serie di norme auto-definite, solo per potersi autoassolvere quando si esercitano pratiche discriminatorie, basate su stereotipi e pregiudizi.
Il problema della diversità dei lavoratori delle aziende della Silicon Valley è impossibile da sottovalutare. La maggior parte dei programmatori, venture capitalist, imprenditori che lavorano in quell’area, non solo sono maschi bianchi, ma sono anche formati nelle facoltà scientifiche delle università esclusive della Ivy League che – essendo molto costose – presuppongono anche una precisa appartenenza di classe.
Tutti i tentativi di aumentare la diversità di genere, etnica e sociale dei lavoratori non è andata oltre l’adozione di progetti speciali da reclamizzare nelle conferenze stampa, come mostra l’impietoso memoir di Anna Wiener La Valle oscura (Adelphi, 2020).
L’episodio del licenziamento di Gebru è un’eloquente prova che – nella Silicon Valley – qualsiasi buona intenzione è destinata a infrangersi al primo stormire di fronde di una contrapposizione culturale e politica. Alcuni dipendenti di Google, infatti, hanno testimoniato che nessuno ha passato al vaglio contenutistico gli articoli di cui sono autori, segnalando così come questa valutazione del lavoro di Gebru sia irrituale e pretestuosa.
Il giudizio di merito svela – se ce ne fosse ancora bisogno – il meccanismo di potere appena nascosto dietro la foglia di fico della qualità scientifica. Google non perde occasione per mostrare le due verità della sua ideologia, da una parte campione di diversità, dall’altra pronta a sanzionare una delle sue dipendenti più rilevanti rispetto a questa politica. La tentazione di una strategia di esclusione dell’alterità di vedute esprime il vero nucleo immorale e coloniale del tecnopotere, incapace di tenere fede ai suoi proclami pubblici.
La Mit Technology Review, in un articolo del 4 dicembre scorso, ha descritto i contenuti del testo incriminato. Lo scritto analizzava gli strumenti di natural language processing usati da Google e argomentava intorno a quattro rischi relativi al loro uso per comprendere e riprodurre testi secondo i dettami degli algoritmi adottati.
La prima questione problematica è la grande richiesta energetica necessaria per addestrare e riaddestrare anche solo una delle reti neurali di deep learning usate per la comprensione dei testi. Secondo una serie di studi citati è possibile misurare il carbon footprint prodotto per ottenere un
sistema di IA, in grado di interpretare i testi.
È molto difficile definire un’unità di misura univoca per valutare il peso dell’inquinamento prodotto dall’addestramento di questi sistemi, ma è evidente che i costi energetici siano molto ingenti, anche considerando l’obsolescenza dei materiali usati, il loro smaltimento, l’uso dell’energia per eseguire i calcoli e refrigerare le macchine. Sebbene i meccanismi che presiedono all’addestramento siano virtuali, i dispositivi hanno una materialità costosa, ingombrante e un consumo energetico rilevante.
Il secondo rischio preso in esame dall’articolo incriminato era legato all’addestramento di queste reti neurali sui corpora di testi incontrollati presi da Internet che tendono a perpetrare e reiterare pregiudizi razzisti, sessisti e sociali.
Il terzo rischio ipotizzato si concentra sulla capacità manipolatoria sul linguaggio che non si accompagna a una vera comprensione dei testi. Tale prospettiva spinge a privilegiare questi modelli a discapito di altri che invece potrebbero condurre a una maggiore comprensione del linguaggio, attraverso corpora più ristretti e controllati, con costi di addestramento meno ingenti.
L’ultimo rischio è relativo all’uso degli strumenti per produrre testi che simulano quelli scritti da esseri umani, che potrebbero incrementare il potere di generare automaticamente false informazioni, amplificandone la diffusione con l’obiettivo di intossicare la vita democratica.
Una delle ipotesi sul motivo di una reazione così smisurata contro Timnit Gebru per un articolo che sostanzialmente non proponeva una ricerca innovativa ma solo una rassegna della letteratura critica, è che si sia toccato un nervo sensibile. Il progetto, infatti, prendeva di mira l’ultimo strumento di Natural Language Processing usato da Google, il Transformer language model proposto nel 2017, che recentemente ha dato luogo all’ultimo modello Bert, che viene utilizzato per comprendere le domande per la ricerca sul web, ancora al centro dei ricavi del motore.
L’analisi del linguaggio è particolarmente delicata. Sappiamo che Bert utilizza una rete neurale molto efficiente, le cui prestazioni non si comprendono pienamente. Il sistema di deep learning non ha una vera comprensione del linguaggio, ma costruisce inferenze basate sulla sua capacità di apprendere stereotipi. Il metodo non consente di esercitare l’euristica del senso comune: per esempio, sebbene comprenda che si può camminare dentro una casa e che una casa può essere grande, non deduce da queste conoscenze che una casa sia più grande di una persona.
Ha difficoltà a comprendere le relazioni tra i numeri e non ha una comprensione del mondo nel senso che non sa mettere in relazione le capacità di un oggetto con le sue caratteristiche, oltre a non saper ragionare sui termini astratti. Eppure è in grado di fare correttamente una sintesi di un testo complesso, di produrre testi accettabili sintatticamente, oltre che di supportare la traduzione in modo efficace. Il carattere manipolatorio dello strumento è quindi estremamente preoccupante perché svuota il linguaggio del suo valore, dal momento che può essere usato per mimare la capacità linguistica umana, senza padroneggiare il significato che veicola.
Un’altra preoccupante osservazione riguarda l’aumento di intensità computazionale richiesta dalle ricerche nell’intelligenza artificiale che rende tutti gli studiosi sempre più dipendenti dalle disponibilità dei data center della Silicon Valley.
In un recente articolo di Nur Ahmed e Muntasir Wahed dal titolo The De-democratization of AI: Deep Learning and the Compute Divide in Artificial Intelligence Research si dimostra che dal 2012 nelle maggiori conferenze di informatica americane siano aumentati nettamente i contributi dei dipendenti delle aziende Internet da soli o in collaborazione con i ricercatori delle principali istituzioni universitarie.
Il rischio è la creazione di un compute divide, che avrebbe come conseguenza una pericolosa privatizzazione della conoscenza di questo settore. Tale privatizzazione riguarderebbe anche le prestigiose istituzioni accademiche dipendenti dal «potere, dall’expertise e dai data center» delle aziende Internet per mettere alla prova le loro ipotesi di ricerca.
L’intelligenza artificiale è un campo sempre più cruciale per lo sviluppo economico e per il controllo sociale; se la sua evoluzione stesse esclusivamente nelle mani dei giganti della Silicon Valley, ciò potrebbe avere effetti preoccupanti per le trasformazioni delle democrazie nei Paesi occidentali. Sarebbe utile avere un progetto strategico per contrastare questo esito nefasto sia per la conoscenza, sia per l’autonomia e la libertà della politica nell’Unione Europea.
È per questo forse che le grandi aziende Internet stanno incrementando la loro attività di lobbying a Bruxelles: non vogliono essere disturbate dalla regolazione e, nel frattempo, controllano che non si creino potenziali concorrenti nel settore.
Riferimenti bibliografici
Ahmed, N., & Wahed, M. (2020). The De-democratization of AI: Deep Learning and the Compute Divide in Artificial Intelligence Research. arXiv preprint arXiv:2010.15581.
Clarke L. (2020) Big Techs carbon problem, NewStatesman, 26/11/2020
Hao K. (2020) We read the paper that forced Timnit Gebru out of Google. Here’s what it says, MIT
Technology Review 4/12/2020
Rogers, A., Kovaleva, O., & Rumshisky, A. (2020). A primer in bertology: What we know about how bert works. arXiv preprint arXiv:2002.12327.
Satariano A., Stevis-Gridneff M. (2020) Big Tech Turns Its Lobbyists Loose on Europe, Alarming Regulators, New York Times 14/12/2020
Strubell, E., Ganesh, A., & McCallum, A. (2019). Energy and policy considerations for deep
Wakabayashi D. (2020) Google Chief Apologizes for A.I. Researcher’s Dismissal, New York Times 9/12/2020,
(il manifesto, 3 gennaio 2021)
di Silvia Motta
Intervento all’incontro “Donne e lavoro” dell’11/12/2020, in diretta dalla pagina fb della consigliera comunale di Milano Marzia Pontone
Quale occasione, vi chiederete, in tempo di pandemia mondiale e di crisi economica acutissima? In un momento in cui la pandemia colpisce duro verso tutti ma ancora di più verso le donne?
L’occasione che ci è offerta – se la cogliamo – è di incidere davvero verso quel cambiamento che è già in atto e che in un documento della Libreria delle donne di Milano è stato definito “un cambio di civiltà”.
In questa mia visione c’è dell’ottimismo che nasce da alcune considerazioni.
La prima è che l’autorità femminile è presente oggi in tutto il mondo come non è mai stato prima. Angela Merkel, Ursula von der Leyen, Kamala Harris, Christine Lagarde, Jacinda Ardern solo per fare alcuni nomi, sono donne che occupano posizioni di grande rilievo e di potere e che influiscono su come orientare il futuro. E ancora, sempre parlando di presenza femminile autorevole, statistiche recenti dimostrano che le aziende guidate da donne sono quelle che vanno meglio, che realizzano maggiori profitti (hanno subito qualche flessione in questo periodo di pandemia, perché quelle dove le donne svolgono un ruolo di leadership sono per lo più aziende di servizi).
E anche per quanto riguarda l’occupazione femminile, val la pena precisare che anche in Italia, sempre presentata come la peggiore in Europa, in realtà c’è una situazione variegata rispetto alla quale le medie aritmetiche non danno il senso della realtà. Perché, se il Sud è in grande sofferenza non va scordato che nelle grandi città del nord a Bologna, a Reggio Emilia quasi il 70% delle donne lavora fuori casa e a Milano, prima della pandemia, il numero delle lavoratrici nell’età tra i 20 e i 64 anni era pari a quello dei lavoratori.
La seconda ragione che mi rende ottimista/speranzosa è che la pandemia, insieme alle disgrazie porta con sé anche un benefico effetto di svelamento rispetto a che cos’è il lavoro e il ruolo che vi giocano le donne.
Già nove anni fa in un ‘manifesto’ del Gruppo lavoro della Libreria delle donne dal titolo “Immagina che il lavoro” avevamo sottolineato come sia essenziale modificare la concezione stessa di “lavoro”, cioè cos’è lavoro, e affermare che “il lavoro è molto di più”, “lavoro è tutto quello necessario per vivere”.
Mi spiego meglio: la divisione sessuale del lavoro così come l’abbiamo ereditata dal patriarcato fa sì che quando si usa la parola lavoro normalmente si intenda quello produttivo, per il mercato, retribuito. Quando a qualcuno si chiede “che lavoro fai” la risposta che normalmente si dà è quella del lavoro che dà reddito e posizione nella società. Credo sia molto raro che a una domanda di questo genere qualche donna aggiunga anche: faccio il lavoro che richiede una famiglia, faccio crescere bambini, curo anziani o disabili, mi occupo delle pratiche burocratiche, cucino, pulisco e così via. Dovrebbe parlare una mezz’oretta.
Il fatto è che il lavoro non retribuito, chiamato ‘lavoro di cura’, che comprende tutta quell’area della vita che non è la produzione per il reddito, perde la sua valenza di ‘lavoro’. Diventa altro, è il non monetizzato o non monetizzabile, non ha valore sociale, ed è quello che fanno in prevalenza le donne…
Dobbiamo cambiare l’idea del lavoro, la definizione stessa di lavoro. Lavoro non è solo quello per il mercato: lavoro è tutto quello necessario per vivere.
È proprio nel cambiare la concezione del lavoro che questo disgraziatissimo momento in fondo ci viene in aiuto. Perché il coronavirus e in particolare l’esperienza del lockdown ha illuminato l’intreccio che c’è tra i due mondi – quello della produzione e quello della riproduzione: ha reso visibile la iniqua ripartizione tra uomini e donne. E ancora, ha reso evidente il ruolo di ‘perno’ che le donne svolgono nelle tenere insieme questi due mondi.
Per certi aspetti è uno svelamento simile a quello operato dal MeToo: da anni si denunciava la violenza sulle donne, il movimento delle donne si batte dagli anni ’70 su questo argomento, ma il MeToo ha fatto fare un salto in tutto il mondo alla consapevolezza di che cos’è davvero la violenza maschile e di come sono i comportamenti maschili in un mondo profondamente misogino.
Allo stesso modo in questi mesi di pandemia ci si è potuti accorgere molto concretamente che nella produzione siamo massicciamente presenti, e in maggioranza proprio nei cosiddetti lavori indispensabili (ospedali, case di cura, scuole, asili, supermercati… servizi alla persona). Siamo i 2/3 del personale in questi settori. Nello stesso tempo si è visto che nelle famiglie è sulle donne che in questo periodo, più ancora che in passato, è ricaduto il peso della gestione di bambini, anziani, disabili, spesso anche mariti. Sono state e sono, anche in questa seconda ondata pandemica, il perno intorno cui girano il lavoro ‘fuori’/il lavoro dentro (per usare un’espressione semplificata).
Questa esperienza del lavoro, che ci appartiene e dove vita ed economia si intrecciano, non va vista come uno svantaggio, ma come la fonte di un punto di vista, di una forza, di un sapere femminile che può essere un potente motore di cambiamento non solo del lavoro delle donne, ma del lavoro tout-court. Cioè il motore di cambiamento del modello di sviluppo della società in cui viviamo.
Infatti, proprio perché le due facce del lavoro, entrambe necessarie, sono diventate più evidenti, si presenta l’occasione di metterne in discussione davvero la storica divisione su base sessuale dando spazio al sapere che le donne hanno su entrambi gli aspetti.
Questa considerazione implica però che noi stesse si diventi più precise, più nette, più radicali, anche più coraggiose nel portare con forza nel pubblico e negli ambiti in cui operiamo il rapporto e i nessi che esistono tra queste facce del lavoro, dando spazio alla soggettività femminile.
Alla luce di quanto detto mi sembra importante sottolineare le conseguenze che ne derivano:
- basta con discorsi che parlano di conciliazione, normalmente targato come problema delle donne: il nesso tra vita e lavoro riguarda donne e uomini. Tema questo al quale dobbiamo prestare particolare attenzione proprio ora, con la pandemia, perché alcuni cambiamenti verso cui la situazione spinge, in sé progressivi e con aspetti di flessibilità molto interessanti per le donne, come ad esempio è il lavoro da casa/lo smart work, non diventi invece un’arma a doppio taglio isolando di più le donne e lasciando libero campo ai giochi di potere maschili che in genere si giocano col lavoro fatto in presenza, negli incontri informali e in azienda, non da casa!
Le manager che fanno parte dell’associazione “Donne senza guscio” che in questo periodo si confrontano sulle piattaforme in incontri condotti da Luisa Pogliana (autrice del libro Le donne, il management, la differenza) ci mettono in guardia da questo pericolo.
E poi:
- dobbiamo diventare più precise quando usiamo la parola parità. Diciamo basta a quel concetto di parità – usato soprattutto dai media, ma non solo – dove l’orizzonte a cui si tende non è la libertà femminile, ma è l’inclusione nel mondo maschile lasciandolo così com’è, anzi adottandone le pratiche e gli stili.
Un discorso di parità è sacrosanto quando il tema è la discriminazione, ad esempio sulla parità salariale, sull’accesso alle professioni, agli scatti di carriera, al credito. Ma è ben diverso dire in maniera generica, come ancora troppo spesso si sente, che vogliamo la parità con gli uomini. Siamo diverse, portiamo nel mondo e nel lavoro la nostra differenza, quel punto di vista speciale che ci viene dalla nostra esperienza che comprende la potenzialità generativa e tutto quel sapere e quelle sensibilità che intorno ad essa si sono consolidati.
La posta in gioco sul lavoro non è essere incluse nel lavoro così com’è, ma la sua modificazione. Le aziende che si sono accorte che le leadership femminili sono più efficaci e ottengono migliori risultati introducono ad esempio dei corsi di formazioni incentrati sulle abilità manageriale che si legano alla funzione materna (a partire da un libro che si intitola La maternità è un master di Zezza e Vitullo). Corsi aperti anche agli uomini, s’intende, che sono quelli che hanno più da imparare da questo.
Ho detto fin qui che il momento è buono per farci avanti e di diventare più incisive nel dare voce al punto di vista femminile. Ma va anche detto che il rischio è alto perché tanti avvenimenti quotidiani ci dicono che il primato dell’economia, della finanza, può prendere il sopravvento (task force, convegni di soli uomini ecc.).
Per essere incisive, per influire dobbiamo parlarci, valorizzarci e allearci tra donne nei luoghi dove operiamo. Dobbiamo anche coinvolgere gli uomini che dimostrano apertura. In fondo il lockdown li ha costretti dentro una situazione/uno scenario mai vissuto prima, con l’allontanamento dal lavoro sociale e la chiusura in casa. È stata un’occasione imprevista per misurarsi con l’altra parte del lavoro, ed è questo il momento per noi donne di operare perché, così com’è successo per il MeToo, avanzi anche tra di loro una presa di coscienza in grado di riaprire i giochi tra donne e uomini in tutti i campi.
In una riunione del gruppo lavoro una di noi ha detto: «Ci vorrebbe un MeToo del lavoro».
(facebook.it, 11 dicembre 2020)
di Silvia Motta
«La cura delle donne». È il titolo di un articolo uscito ieri [12 novembre 2020, NdR] su Il foglio che mi ha incuriosito per cui ho comprato un quotidiano che non mi è abituale.
Facendo riferimento alla ricerca condotta da Sharon Bell, una famosa analista di Goldman Sachs, racconta come oggi le donne non solo sono ai vertici di importanti istituzioni e governi in tutto il mondo (per citarne solo alcune Merkel, Jacinda Ardern, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde fino ad arrivare a Kamala Harris), ma in maniera ancora più sorprendente sono alla guida delle aziende “più performanti”, cioè che vanno meglio e che realizzano più utili. A cosa si deve questo successo? si domanda l’articolista. Ecco, è sulla risposta che incomincio a dissentire. Per l’autore del Foglio la ragione del successo sta nel fatto che le donne che guidano queste aziende sono capaci di premiare il merito. Ci sarà anche questo aspetto, ma io penso che la ragione di fondo sia un’altra. Per le donne “la cura”, cioè il “prendersi cura” è una forma mentis relazionale, una capacità che deriva da una “sapienza” accumulata nei secoli, seppure nella sottomissione. E questa sapienza nasce dalla consapevolezza che nasciamo, cresciamo, viviamo “in relazione”. Le aziende sono fatte di persone. È l’attenzione alle persone che fa bene alle aziende.
(Facebook, 13 novembre 2020)
di Anna Maria Ponzellini
Per le donne lavorare da casa negli ultimi mesi è stato particolarmente faticoso. Quali rischi e opportunità dovremmo tenere in conto, dentro e oltre la pandemia
Indagini, interviste, osservazioni sull’esperienza di parenti e amici ci confermano che per le donne questi mesi di lavoro da casa sono stati particolarmente faticosi. In molte famiglie, anche se entrambi i genitori erano in smartworking, è alle donne che è toccata la maggior parte del lavoro domestico e della cura dei bambini a casa per la chiusura delle scuole. Si racconta di padri che se ne stavano chiusi a lavorare tutto il giorno nella (a volte unica) stanza di casa, mentre le madri condividevano cucina e soggiorno con figli adolescenti in collegamento con la scuola o cercavano di tenere a bada bambini piccoli durante le conference-call con l’ufficio o le telefonate ai clienti.
Donne ancora una volta schiacciate al loro destino di doppio lavoro o anche qualcosa di diverso? In effetti, vi sono state anche esperienze più fortunate, in cui padri, allontanati dagli uffici per intere settimane, per la prima volta hanno preso contatto con la vita quotidiana dei figli, hanno sperimentato la ricchezza di un nuovo rapporto con loro, si sono misurati a volte anche con la scelta, così nota alle donne, del rinunciare alla riunione di lavoro per non dover parcheggiare (ancora) il piccolo davanti alla tv. Le prime indagini già lo evidenziano: le ore di condivisione sono aumentate e il contenuto di questo tempo ha riguardato proprio la cura dei figli. Un confronto tra Italia, UK e Stati Uniti, pubblicato nel luglio di quest’anno ci dice che durante il confinamento è aumentato di parecchio il numero delle coppie che hanno condiviso equamente la cura dei figli (l’aumento è stato massimo in Italia, +17% , dove probabilmente il gap da recuperare era più ampio). Anche la condivisione delle altre attività domestiche è stata maggiore (a parte la spesa che, soprattutto in Italia, è diventata un affare dei maschi!) ma in questi ambiti proporzionalmente l’aumento è stato più contenuto.
Durante il lockdown, quindi, gli uomini di tutte le età hanno avuto un’opportunità imprevista, una specie di fortuna, si potrebbe dire, per misurarsi con l’altra metà del lavoro, quegli impegni familiari da cui molti si erano sempre tenuti distanti. E sembra che questa esperienza abbia convinto alcuni di loro che la cosa non è poi così spiacevole, anzi che si può fare… Un’esperienza di qualche mese vissuta sulla propria pelle che ha forse funzionato meglio di decenni di moral suasion sulla necessità della condivisione del lavoro di cura. Comunque sia andata, l’esperienza del lockdown nelle famiglie e nelle coppie ha illuminato come forse mai prima quell’intreccio, complicato e rimosso, che c’è tra il lavoro per il mercato e il lavoro domestico e di cura. E ha reso visibile la contraddizione prodotta dalla ripartizione ineguale tra uomini e donne di quello che nel manifesto Immagina che il lavoro (2009), la Libreria delle donne di Milano nominava come “tutto il lavoro necessario per vivere”. Una sorta di disvelamento, i cui effetti forse non si sono ancora dispiegati del tutto ma che possiamo augurarci siano, almeno col tempo, forieri di equilibri di coppia diversi.
Anche prima dell’esperienza di questi mesi, quando si discuteva di smartworking non mancavano le critiche e gli allarmi, in particolare sul suo potenziale mettere a rischio i confini temporali tra lavoro e vita personale. Già parecchi anni fa si sottolineavano gli esiti non chiari – se non decisamente negativi – del fenomeno dei blurring boundaries causato dalla diffusione dei lavori cognitivi, delle ICTs e della conseguente possibilità di essere sempre connessi alle reti aziendali e quindi potenzialmente “in attività” nel proprio lavoro: una deriva temibile soprattutto per le donne.
Un ritorno a casa
Eppure, un’integrazione positiva tra i due principali spezzoni della propria vita appare, a certe condizioni, assolutamente augurabile. Nella storia dell’umanità fino alla rivoluzione industriale, il lavoro è sempre stato collocato negli stessi luoghi dell’esistenza quotidiana: dal pastore al contadino, dall’artigiano al maniscalco, dall’avvocato fino all’ispettore delle tasse, tutti esercitavano i loro mestieri nei luoghi dove abitavano. La cesura è venuta dopo, con la fabbrica e l’estendersi del suo modello di organizzazione del lavoro: in molte realtà solo da poche decine di anni. L’idea fondante della conciliazione tra lavoro e vita sta nel superare e andare oltre questa cesura, potenziando la possibilità di modulare a proprio piacimento – persino sovrapporre in alcuni casi – i tempi e i luoghi delle proprie attività quotidiane, siano esse il lavoro professionale, la cura, lo studio, le proprie passioni. Così, il “ritorno a casa” può essere un’opzione di civiltà: guadagnare tempo sul pendolarismo evitato, rimescolare la vita, inventarsi nuove routine, abbandonando la rigida ripartizione spazio-temporale a cui il lavoro fordista ci ha costretto. Non solo per le madri e non solo rispetto agli impegni familiari.
D’altra parte, perché poi lo smartworking dovrebbe sfavorire le donne? Forse è il contrario. In realtà, anche prima della possibilità di lavorare da casa, le donne hanno sempre avuto una maggiore capacità di intreccio, una consolidata abitudine al multitasking e una certa maggiore destrezza nella transizione tra tempi, ritmi e spazi simbolici diversi. Come sottolinea Sandra Burchi, le donne conoscono meglio lo spazio della casa, sanno come attrezzarlo “organizzando lo spazio attraverso linee invisibili che consentono separazioni e attraversamenti” ma al contempo sapendo rompere lo schema patriarcale di identificazione donna-casa. Questa maestria femminile è quella per cui sono da sempre in grado di tenere insieme il puzzle delle attività quotidiane, non solo gestendone i tempi e in qualche modo creando o “fingendo” spazi diversi, ma anche cambiandone il ritmo quando è necessario: perché la velocità e la saturazione efficiente richiesta nel tempo performante del lavoro è ben differente dal ritmo pacato e emotivo che è necessario nella relazione con un bambino o con un anziano.
Il rischio di lavorare troppo
Naturalmente, tutto ciò può funzionare a certe condizioni: volontarietà e garanzia di flessibilità. Per chi si accinge a prendere questa strada – che significa uscire dai paletti, rigidi ma anche protettivi, dell’organizzazione degli orari aziendale – non basta appellarsi al diritto alla disconnessione. Si deve essere prima di tutto capaci di organizzare il proprio tempo e anche abbastanza assertive da respingere eventuali pressioni indebite dei capi a lavorare più del dovuto. Questo è un punto su cui le donne tradizionalmente registrano qualche fragilità. A causa di un’autostima non sempre salda o della consapevolezza di dover sempre fare di più dei maschi per essere “viste” e apprezzate: in un sistema che non avesse limiti di orario, forse le donne corrono più degli uomini il rischio di lavorare troppo.
Una ricomposizione vincente, dunque? Per molti aspetti, sì. Con qualche attenzione, però. Sulla gestione del tempo le ragioni di ottimismo sono evidenti, non lo stesso per la riduzione dei luoghi: avere meno spazi in cui transitare e incontri nei quali agire causerà certamente un impoverimento delle relazioni. In particolare la cancellazione dell’ufficio, o comunque la drastica riduzione del tempo che vi passeremo, potrà avere conseguenze importanti. È noto che spesso le persone – non solo gli uomini – tornano tardi dal lavoro perché la casa e la famiglia non sono solo un nido confortevole ma luoghi di tensione e di fatiche della cura. Allora l’ufficio anche inconsapevolmente diventa un porto sicuro e gratificante, dove raccogliere qualche pacca sulla spalla dal capo, scambiare battute coi colleghi, intrecciare una relazione amorosa. Arlie Hochschild, già tempo fa in The Time Bind (1997), ha evidenziato in modo folgorante il paradosso dei “mondi rovesciati” dei genitori sempre a corto di tempo, per i quali la famiglia diventa un lavoro e il lavoro assume il senso e l’atmosfera di una famiglia.
Incontri mancati
Luoghi e incontri sono anche palcoscenici dove giocare più ruoli e indossare maschere diverse. Ciascuno di noi ha identità o sfaccettature diverse nella professione, in famiglia, con gli amici: questo gioco à la Goffman è uno spazio di libertà e di crescita fondamentale. L’assenza dell’ufficio toglierà risorse al nostro percorso esistenziale. Col rarefarsi dei luoghi e dei transiti, avremo anche meno occasioni d’incontri casuali: quelli che succedono in treno quando si commuta verso e dall’ufficio, quelli che possono capitare quando si viaggia per lavoro o anche quando, in azienda, s’incrociano persone che non hanno direttamente a che fare col proprio lavoro.
La riduzione degli ambiti in cui si sviluppano le nostre relazioni personali non finirà per causare un impoverimento? Si sa che abbiamo bisogno di molti specchi per cucire insieme la nostra identità, perché è proprio attraverso il riconoscimento che ci viene dagli altri, come sottolinea Axel Honneth, che noi costruiamo la nostra libertà. È possibile quindi che le donne abbiano a soffrire di più di una riduzione di spazi e relazioni, perché la loro libertà nella e dalla famiglia non è sempre scontata.
Se si andrà verso un’incidenza elevata di lavoro in smartworking, cosa che appare piuttosto probabile, è soprattutto importante che le donne possano scegliere (anche perché la loro sarà, come è giusto, una scelta controversa). Se sarà così, questa trasformazione del lavoro potrebbe andare a finire bene, in generale e anche per le donne e per le città: più flessibilità e meno fatica, meno inquinamento e più vita alle comunità locali. Le donne saranno certamente avvantaggiate dalla loro lunga esperienza di transizioni e intrecci di tempi, luoghi e ritmi, anche se forse un po’ sfidate nella costruzione di un’identità autonoma dal ruolo familiare. Tuttavia, bisogna anche essere ottimiste – come dice Margaret Atwood in un’intervista recente a Robinson di Repubblica – perché le nuove generazioni di donne per fortuna “sono nate e cresciute in un altro, irreversibile, contesto”. Non torneremo a essere ancelle.
Riferimenti
Pietro Biroli e altri (2020), “Vite da quarantena”, in InGenere, 21 luglio 2020
Antonello Guerrera (2020), “Siamo donne non ancelle. Intervista a Margaret Atwood”, in Robinson-La Repubblica, 22 agosto 2020
Sandra Burchi (2017), “Lavorare da casa. Esercizi di dis-alienazione e gestione dello spazio”, in Sociologia del Lavoro, n.145, 1
Erving Goffman (1959), The presentation of Self in everyday life, New York, NY, Anchor Books
Arlie Russel Hochschild (1991), The Time Bind, New York, The New Press
Axel Honneth (2017), La libertà negli altri, Bologna, Il Mulino
Juliet Webster (1996), Shaping Women’s Work: Gender, Employment and Information Technology, London and New York, Routledge
(www.ingenere.it, 9 settembre 2020)
di Jacopo Ricca
La giudice ha imposto all’azienda di reintegrarla nel precedente posto: spostate l’autore delle molestie
Trasferire la lavoratrice che
denuncia le molestie sul luogo di lavoro è discriminatorio. I
giudici di Torino hanno stabilito un importante precedente che
potrebbe dare forza e convincere altre donne a non subire più abusi
e comportamenti scorretti da parte dei capi, né avere timore a
denunciarlo, non solo alle forze dell’ordine, ma anche solo
all’azienda. «L’impresa non è riuscita a provare in giudizio che
il trasferimento della ricorrente fosse l’unico modo per sottrarla
– doverosamente – al contatto con il molestatore, dato che analogo
risultato poteva essere ottenuto trasferendo ad altra unità
produttiva il superiore gerarchico autore delle condotte moleste»
spiega nella sentenza del 7 maggio la giudice del lavoro, Lucia
Mancinelli.
La donna, impiegata in una impresa di pulizie,
organizzata in cooperativa, che ha diversi appalti a Torino anche per
enti pubblici e che, ovviamente, per ragioni di riservatezza ha
ottenuto di restare anonima, aveva segnalato che a fine 2019,
nell’arco di un mese, era stata vittima di due gravi episodi di
“molestie sessuali e altri episodi vessatori” da parte del suo
capo squadra. Per cercare aiuto si era anche rivolta a uno studio
legale ed è proprio da una lettera dell’avvocata Francesca
Guarnieri che è partita la vertenza. Quando i padroni dell’impresa
di pulizie sono venuti a conoscenza del caso, anziché allontanare
l’uomo o licenziarlo, hanno deciso di trasferire la donna: «In
questo modo lei ha subito un danno perché è stata spostata di
sede e anche il suo orario di lavoro è mutato – racconta l’avvocata
-. Si tratta di un peggioramento delle condizioni di lavoro ingiusto
e immotivato, visto che lei ha solo cercato di porre fine ad
abusi».
Il 5 dicembre era partita la segnalazione e dopo appena
due settimane è arrivato il trasferimento: «Con la presente le
comunichiamo che, in conseguenza del fatto che lei tramite i suoi
legali ha lamentato situazioni di incompatibilità con il
responsabile dell’impianto in cui attualmente opera, con decorrenza
dal 27 dicembre 2019 disponiamo la sua assegnazione ad un’altra
unità produttiva» si legge nella missiva inviata dalla coop il 20
dicembre.
Il riferimento alle molestie denunciate è chiaro,
insomma: «Non è mai stato in discussione l’accertamento degli
episodi, anche se l’azienda a un certo punto ha cercato di fare
riferimento alla circostanza se i casi fossero stati o meno
denunciati all’autorità giudiziaria» continua Guarnieri.
L’azienda «si è limitata ad affermare l’impossibilità del
trasferimento del capocantiere ad altra unità produttiva, senza
tuttavia produrre documentazione idonea a dimostrare l’affermata
insostituibilità dello stesso» scrive la giudice Mancinelli. Per
questo la sentenza ha annullato il provvedimento di trasferimento e
dalla prossima settimana la donna potrà tornare al suo posto e
sarà il suo capo a dover cambiare sede e turno: «È un
provvedimento importante perché riconosce che i trattamenti
sfavorevoli assunti dal datore di lavoro costituiscono una reazione
alla denuncia da parte della lavoratrice dei comportamenti molesti
subiti dalla stessa e quindi hanno natura discriminatoria» conferma
l’avvocata.
(la Repubblica, 9 maggio 2020)
di Barbara De Micheli
Progettare il lavoro del futuro significherà anche e soprattutto ragionare sui luoghi possibili per il suo svolgimento, e farlo in modo non tanto individuale ma collettivo
Il 10 marzo 2020, con una videoconferenza dalla sede del mio ufficio, a debita distanza dai colleghi che come me erano al loro ultimo giorno “in presenza”, ho discusso la mia tesi di dottorato su un argomento che, in quel momento, sembrava interessante ma molto accademico: i luoghi dell’organizzazione al di là dello spazio organizzativo. La scelta del tema di ricerca, tre anni prima, era partita dalla constatazione di come si assista contemporaneamente alla contrazione e all’espansione dello spazio (organizzativo) a causa delle nuove tecnologie: i lavoratori e le lavoratrici, soprattutto nell’ambito dei servizi avanzati, sempre più spesso perdono un “ufficio fisico” mentre interagiscono con tecnologie che espandono i “luoghi di lavoro” a loro disposizione.
Se per lungo tempo le teorie dell’organizzazione avevano riservato scarsa attenzione alla definizione teorica dei luoghi di lavoro (forse perché risultava abbastanza ovvio definire cosa fossero) sembrava essere arrivato il momento per cercare di capire se questa confusione tra “contrazione” ed “espansione” dello spazio organizzativo potesse essere la spia di una difficoltà di comprensione: si poteva parlare di nuovi spazi “virtuali” di lavoro oppure si trattava soltanto di nuove tecnologie? Era necessario concentrarsi sulle caratteristiche di questi spazi emergenti oppure era più importante capire quali caratteristiche avesse questo modo più complesso di rapportarsi ai processi di lavoro?
Qualche giorno dopo la discussione – ma già nei giorni frenetici in cui all’Università si cercava di capire come e dove consentirci di difendere la tesi e se una chat-room con professori collegati da varie città in Europa fosse un luogo (organizzativo) consono a un atto ufficiale – appariva evidente che il susseguirsi degli eventi aveva fatto uscire dalle biblioteche la discussione e che interrogarsi sulla definizione concettuale dei luoghi del lavoro diventava un’urgenza che non si poteva più rimandare.
Dove avviene, dunque, il nostro lavoro retribuito?
Oggi, per chi di noi lavora (ancora) nei servizi e non è costretto a recarsi in un luogo le cui caratteristiche specifiche sono necessarie “alla produzione”, la risposta sembra semplice: il lavoro fisicamente viene svolto da casa ma in luoghi di aggregazione tecnologici e occasionali (da Skype a Zoom passando per Webex e Googledrive), la cui generazione più o meno spontanea e continua ha preso il posto del luogo di lavoro (l’ufficio, il co-working, il parco, il treno) per come lo conoscevamo. Luoghi che hanno codici e regole che faticosamente impariamo e a cui progressivamente ci adattiamo.
Nel giro di una notte siamo state/i catapultate/i in quello che Susan Halford ha definito “uno spazio di lavoro ibrido” in cui ciascuno deve costantemente gestire e negoziare un equilibrio tra spazio domestico (la casa che ci circonda), spazio organizzativo (il lavoro che invade lo spazio domestico anche perché non ha, al momento, altro luogo in cui manifestarsi) e quello che si può chiamare “cyberspazio” (tutto quel mondo di dati, accesso alle informazioni e socialità residua che oggi si svolge quasi esclusivamente in ambienti digitali). Presto – speriamo – un quarto spazio rientrerà nell’equilibrio: quello dei luoghi fisici di lavoro, che dovranno essere ripensati per essere sicuri per la nostra salute.
Oggi, quindi, siamo fisicamente confinati/e nelle mura della nostra casa, con tutte le disuguaglianze che questa condizione può comportare in termini di dimensioni e caratteristiche degli spazi fisicamente accessibili, ma i nostri movimenti online sono evidenti e tracciabili.
Impossibile muoversi ma anche impossibile nascondersi. Difficilissimo trovare un equilibrio.
Lo spazio domestico richiede attenzioni crescenti (fosse solo perché qualsiasi luogo fisico vissuto intensamente richiede maggiori cure, anche per chi non abbia altri carichi di cura) e fa fatica a integrarsi con un luogo e un tempo del lavoro che si espande anche virtualmente e assorbe sempre più energie. Diventa evidente la necessità di comprendere, progettare, regolamentare, in qualche modo, questo spazio ibrido, senza lasciare l’onere della ricerca dell’equilibrio alla sola capacità individuale di negoziazione.
Come primo passaggio occorre avviare una riflessione su quali siano gli elementi da cui partire in questa progettazione dei luoghi del lavoro del futuro, partendo dal presupposto che la nostra relazione con lo spazio – sia fisico che virtuale – è cambiata e che le modalità di svolgimento delle nostre vite nello spazio stanno assumendo un’importanza cruciale.
Tra gli elementi prioritari da cui far partire la riflessione vanno inclusi: la riprogettazione dei luoghi fisici del lavoro, per riorganizzarli non soltanto in nome di produttività ed efficienza (come è stato fino ad ora) ma anche in virtù delle nuove esigenze di distanziamento e di sicurezza; la definizione di nuovi diritti quali il diritto universale di accesso alla rete internet, ma anche il rafforzamento della tutela dei dati personali e il diritto alla disconnessione [5]; la previsione di investimenti in infrastrutture per rendere effettiva e universale la possibilità di accedere a spazi virtuali organizzati e a mezzi tecnologici adeguati per lavorare in modo efficiente e per fruire di formazione e istruzione; il diritto di accesso per tutti/e a una casa sicura in cui poter vivere e lavorare; la definizione di nuove modalità per sostenere la ripresa delle relazioni sociali negli spazi fisici che ci circondano; la previsione di misure che difendano il diritto a uno spazio per sé, anche nei limiti di una reclusione casalinga forzata.
È evidente che si tratta di elementi molto diversi, che tuttavia non possono essere considerati come se assumessero la stessa declinazione per uomini e donne, perché uomini e donne tradizionalmente hanno una relazione diversa con lo spazio e una diversa libertà di movimento, sia nello spazio fisico che in quello virtuale.
La libertà di movimento nello spazio fisico è da sempre collegata a dinamiche di potere. Lo spazio pubblico del mondo per come lo conoscevamo era un susseguirsi di spazi (sempre meno) aperti e spazi chiusi, di confini, muri, recinti strade e quartieri spesso accessibili o meno a seconda del nostro status e del nostro genere, del nostro ruolo, del possesso di alcune “chiavi”. Anche l’emergenza Covid ce lo sta confermando: chiudere gli spazi pubblici, regolamentarne (o impedirne) l’accesso, è ritenuto lecito e ci sembra inevitabile e corretto che il principio della salute pubblica prevalga sul diritto individuale al movimento.
Lo spazio privato casalingo, invece, è sempre stato lo spazio delle donne, quello in cui le donne potevano muoversi liberamente, perché non era considerato uno spazio di potere, era un dentro di ripiego mentre le attività interessanti si svolgevano fuori. Tuttavia, anche nelle case, gli spazi nobili – il salotto, lo studio – erano spazi degli uomini mentre le donne rimanevano in cucina. Abbattere il muro tra la cucina e il salotto, creare un ambiente unico di condivisione è stato un passo significativo verso una gestione più egualitaria degli oneri di cura.
Tuttavia, ora che scopriamo che anche i luoghi di lavoro digitale hanno bisogno di uno spazio fisico seppur minimo per attivarsi, si pone il problema di come si negozia l’accesso al luogo più quieto e tranquillo della casa, per esempio in una casa piccola, con poche porte, come spesso sono le nostre case open space. Se l’accesso allo spazio è una questione di potere e il potere si parametra anche sulla capacità di produrre reddito, sappiamo che le donne partono da una posizione di svantaggio nella maggior parte dei casi, sia perché quando lavorano spesso guadagnano meno dei loro compagni, sia perché a loro è più spesso delegata la cura delle persone dipendenti, soprattutto quando si parla di persone dipendenti recluse in casa a tempo pieno.
Così, negoziare uno spazio per sé, anche quando si parla di poter accedere in solitudine alla propria cucina per poter lavorare, può diventare complicato. E allora, come, su quali basi si costruisce un limite anche fisico, tra il luogo di lavoro, il luogo della cura e lo spazio per sé? Si tratta di una negoziazione individuale o possiamo pensare a pratiche collettive per rivendicare un uso equilibrato degli spazi, anche domestici, soprattutto se questi sono il ponte per l’accesso a un lavoro che, per un tempo lungo, dovrà essere svolto anche da casa?
Prima di iniziare a farmi domande sullo spazio organizzativo e i luoghi di lavoro sono stata una fan accanita del lavoro fuori dall’ufficio, quello che a un certo punto abbiamo iniziato a chiamare smart ma che un tempo consisteva più semplicemente nel negoziare, laddove possibile, una modalità di lavoro che permettesse una presenza flessibile nei luoghi fisici dell’organizzazione e una gestione autonoma del lavoro, sulla base di obiettivi e scadenze concordate.
Questo movimento continuo – tra luoghi di lavoro fisici e virtuali e spazi di non lavoro – è stata la costante dei miei ultimi vent’anni. Ora che li guardo a ritroso noto però tre elementi costantemente presenti: comunque, anche se impercettibilmente, il luogo di lavoro era chiaramente separato nello spazio e nel tempo dal luogo di non lavoro, con una dotazione adeguata degli strumenti necessari; comunque avevo un discreto margine di scelta dello spazio e del tempo di lavoro (era questa la parte smart); comunque questa modalità smart, questo movimento mi permetteva di inserire spazi per la cura, spazi per me, interstizi di spazio non occupato da altro in cui inserire forme varie di socialità.
Oggi, la sensazione è che anche questi equilibri basati sulla libertà di scelta rischino di saltare non soltanto per il presente – in cui ovviamente è venuta meno sia la libertà di movimento che quella di scelta dei luoghi di lavoro – ma anche per il futuro. Un futuro incerto, a cui abbiamo paura di pensare e per il quale non troviamo le parole, ma nel quale sappiamo che per lungo tempo dovremmo gestire in modo condizionato il nostro movimento negli spazi. Per questo futuro sarà necessario (anche) reinventarsi una modalità collettiva, e non soltanto individuale, di lavorare in luoghi di lavoro sempre più ibridi, ragionando su come creare luoghi di lavoro negli spazi domestici e come garantire una separazione tra spazio di lavoro, spazio della cura, spazio per sé.
Sia per quelle/i di noi che stanno continuando a lavorare – e anzi lavorano di più, nell’ansia di non lasciar morire un progetto, perdere una call, mancare un webinar – che per quelle/i di noi che sono in sospensione spazio-temporale, ritornare al lavoro significherà comunque ripensare la propria relazione con i luoghi di lavoro, mantenere, o avviare, una modalità di lavoro anche a distanza ma anche ridefinire la propria relazione con lo spazio domestico e riappropriarsi di uno spazio sociale dal quale abbiamo dovuto mantenere forzatamente le distanze.
Saremo chiamati tutti e tutte a riflettere su cosa sia lo spazio di lavoro e su quali siano i luoghi del nostro lavoro, provando a negoziare un’autonomia di movimento e di scelta dei luoghi di svolgimento del nostro lavoro, un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva rispetto alla definizione di obiettivi e al loro raggiungimento, e il tentativo di nuovi equilibri tra lavoro produttivo, lavoro di cura e spazio per sé. E sarà necessario che questa riflessione avvenga non a livello individuale ma in forma collettiva, con misure specifiche, che tengano in considerazione il fatto che progettare il lavoro del futuro significa anche e soprattutto ragionare sui luoghi possibili per il suo svolgimento.
(ingenere.it, 22 aprile 2020)
Links
[1] http://www.ingenere.it/persone/de-micheli
[2] http://www.ingenere.it/category/argomento/conciliazione
[3] http://www.ingenere.it/category/argomento/lavoro
[4] http://www.ingenere.it/tags/pandemia
[5] http://www.ingenere.it/articoli/diritto-disconnettersi-serve-cambio-mentalita
[6] https://doi.org/10.1111/j.1468-005X.2005.00141.x
[7] http://www.ingenere.it/articoli/lavorare-casa-non-e-smart
[8] http://www.ingenere.it/articoli/svantaggio-genere-mercato-digitale
di Susanna Camusso
Finalmente il dibattito sulla ripartenza sta prendendo forma. Finalmente non per certezza sul quando, anzi, ma perché si può sperare che il mantra del “tutto tornerà come prima”, l’invocata normalità – affermazione di per sé già perigliosa – lasci spazio alla discussione su come costruire il nostro futuro.
Non siamo in una guerra, non è nemmeno un terremoto, non possiamo copiare le esperienze precedenti; neanche quelle della crisi finanziaria del 2008, che non solo oggi ci appare meno drammatica, ma soprattutto perché sono evidenti gli errori che si son fatti allora, o meglio come erano sbagliate le ricette adottate. Dà scarsa soddisfazione dire “l’avevamo detto”, ma certamente serve grande rigore nel pretendere che non si ripercorrano quelle strade.
Nell’emergenza – che non è superata – si sono già fatte delle scelte, alcune delle quali possono già dare indicazioni per il “dopo”. Due sopra di tutte: finanziare e potenziare il servizio sanitario nazionale, e fronteggiare le diseguaglianze perché non si allarghi la voragine. Emerge quindi la necessità di uno sguardo sociale, e si rende evidente la non sufficienza della logica “produrre, produrre” senza guardare cosa succede alle persone nella loro dimensione collettiva ed individuale.
In estrema sintesi, la politica ha il dovere di avere al centro del suo pensiero il come prende in carico la società, composta dalle persone, deve considerare la qualità del vivere perché le soluzioni siano per i molti e non per i pochi. Per sintetizzare, deve uscire dalla dimensione gratuita la “cura”; che non è attitudine femminile “dovuta e scontata”, marginale e non economica, ma è, invece, tratto necessario in un mondo che è giunto ai suoi limiti e va reso sostenibile socialmente, economicamente, ambientalmente.
Nessuna di queste dimensioni può essere isolata, non c’è quello che resta nelle mura di casa e quello che riguarda il palcoscenico pubblico. Occorre affrontare quella gerarchia di valore del lavoro, che già oggi è stravolta, ma che nessuno vuole nominare esplicitamente.
Due esempi: sono donne, ricercatrici, precarie le prime che hanno realizzato in Italia la sequenziazione del virus. Inoltre, l’Istat ci dice che la quota femminile di coloro che stanno lavorando è intorno ai due terzi delle occupate. Un numero impressionante che indica di per sé gli addensamenti per tipologie di lavoro.
Non molto tempo fa il rapporto europeo sulla parità di genere ci diceva che sul lavoro e sulla redistribuzione del lavoro di cura la situazione italiana peggiora, con un incremento delle ore di lavoro per le donne. Quelle donne al lavoro sono la base, per reddito e riconoscimento, della piramide dei lavori.
Il loro ruolo, mai riconosciuto come fondamentale, è in qualche modoconsiderato femminile proprioper indicarne se non il disvalore, il minor valore. Perché cura non è di per sé sinonimo di profitto, ma profitto non è di per sé sinonimo di benessere collettivo. Come non confessare la preoccupazione che, dopo averlo onorato durante la crisi, chi ci salvava dalla paura, chi si curava di noi, non solo della salute, debba tornare in ombra e non abbia parola sulla costruzione del dopo?
Si parla di cabine di regia, si aprono luoghi di confronto. Tutto teoricamente giusto, molti sottolineano la fondamentale importanza della parola degli scienziati (esiste anche il femminile scienziate) soprattutto per determinare i tempi.
Quelle cabine di regia, quei luoghi, avranno un valore di innovazione, di progettazione di sostenibilità effettiva, se non saranno ancora una volta il luogo del pensiero della parzialità maschile, ma sapranno coinvolgere il pensiero femminista e femminile, per rappresentanza e specialità. Dando valore ai saperi e alla capacità di mettere in relazione, di prendere in carico, di valorizzare le differenze. Riconoscendo un’elaborazione e un pensiero che certo non nascono oggi.
Ci sono evidenze statistiche di una maggior resistenza al virus delle donne (non in tutti i paesi sono omogenei), ma non si può immaginare di scoprire che questo sia l’unico argomento al femminile. Non è solo un tema di democrazia paritaria, anche se ne approfitto per dire che di democrazia abbiamo un gran bisogno, e qualche frattura già si vede a partire dal linguaggio bellico, dalla invocazione di ordine, dall’idea che da cittadini si diventi sudditi.
Forse la politica non conosce davvero le tante sapienze del mondo femminile e femminista, eppure ha la straordinaria occasione di scoprirle, di non fermarsi al noto ed abituale. Coraggio e capacità politica si misurano dal saper scommettere e scegliere di innovare.
(https://www.huffingtonpost.it/, 8 aprile 2020)
di Letizia Paolozzi
In tutto questo ricordare l’anno, il 1969, che vide l’esplosione della soggettività operaia, quando gli “apache” della Fiat invasero piazza del Popolo e le lotte si allungarono al decennio successivo con lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, la legge che riconosceva l’obiezione di coscienza – altro che leggere tutto come gli “anni di piombo” – è comparsa un’altra memoria: quella delle lavoratrici.
Certo, questa memoria non ha un cantore, un “griot” come Nanni Balestrini per Alfonso, protagonista di «Vogliamo tutto», eppure, se si prova ad accostare tessere diverse, le figure femminili assumeranno profili sempre più precisi. Sempre più potenti perché sono un soggetto con un corpo.
All’inizio, negli anni Cinquanta, a parlare di loro era stata la polizia di sorveglianza interna alla Fiat. Ascoltate qualche esempio di “informativa”.
F.A (1952) […] impiegata Fiat Mirafiori simpatizza per il Pci […] risulta che all’atto del matrimonio era in stato di avanzata gravidanza […] seria, onesta di comune intelligenza e di buoni sentimenti. Però arrogante e piena di alterigia […] i familiari sono tutti di idee estremiste più o meno moderate […] di sentimenti poco religiosi tanto è vero che la sera del 31 maggio 1950, durante il passaggio della Madonna Pellegrina (che avviene ogni secolo) si rifiutarono di partecipare con gli altri inquilini all’illuminazione dello stabile. Consta inoltre che al nonno materno […] viene fatta sepoltura civile con conseguente cremazione.
G.A. (1955) La suocera è donna di pessima moralità, vive saltuariamente presso la figlia, o presso un amante, elemento di cattiva condotta, in un paese del vercellese.
L.M. (1970) Sua madre è passata a seconde nozze nel luglio scorso; durante la vedovanza ha lasciato a desiderare per la sua condotta morale e civile ed ha avuto anche un aborto.
Ma nel “lungo autunno” che trasforma la società italiana, che fa saltare l’organizzazione del lavoro fordista (ritmi, gerarchie, cottimo) pure la lavoratrice, in casa e in fabbrica, diventa protagonista. E se i rapporti di potere si ribaltano, saranno insieme operaie e femministe e poi femministe fuori e dentro la fabbrica, a mettere in luce il rapporto tra capitale e patriarcato.
Lo riportano riviste come Effe o Sottosopra. Sul Sottosopra del ’73 si muovono in tante, quelle “dell’autocoscienza” davanti ai cancelli della Feda (industria tessile di Cinisello), occupata dalle operaie. C’è la ragazza originaria della Puglia, combattiva, coraggiosa, presente nei momenti di scontro con il padrone e il controllore del tempo, con un orologio al posto del cervello. Ma la ragazza è, appunto, di sesso femminile. Una «figlia di suo padre. Non può restare fuori di sera allora… qui cominciano le contraddizioni specifiche proprio di noi donne. Sei operaia, compagna, vorresti dare quel che puoi e vuoi ma sei donna, la notte non sta bene per una ragazza stare fuori casa e poi fra tutti questi compagni maschi! Quindi una donna-compagna oltre contro i padroni di fabbrica deve vincere le battaglie in casa. Di più, la sua disponibilità alla lotta fuori è condizionata dai limiti interni in casa, dal rapporto, pregiudizi, proprietà di madre, padre, fratello, marito…».
Quanto ai compagni, beh non si sono nemmeno accorti che alla Feda sono donne a lavorarci. Dipenderà dal fatto che pochissime aprono bocca in pubblico, nelle assemblee? Probabilmente, a intimorirle è quel linguaggio astratto che pone questioni generali e “dimentica il concreto”, la materialità dell’esistenza.
Molte sono convinte che il loro salario sia «complemento a quello del marito, del capofamiglia». Così, viene contrabbandata la spiegazione – anche dal sindacato – e dal senso comune che la donna, poveretta, non è “politicizzata”. Tuttavia, questa non politicizzazione nasconde ragioni più concrete che rappresentano un reale impedimento alla lotta: dove lasci i bambini, chi fa da mangiare, come trovi il tempo per le riunioni?
Dicono di sé anche le impiegate (più di un migliaio e 600 operaie alla tappezzeria) dell’Alfa Romeo di Arese. Raccontano di battere a macchina il lavoro di un altro (uomo), di rispondere docilmente al telefono per passare poi la cornetta al capo, di girare le pagine del registro per non affaticare chi firma. Un lavoro dequalificato, isolato in mezzo a uomini (una donna ogni dieci maschi); un contratto a termine (80% per maternità).
A un certo punto, quello che firma come “gruppo donne Alfa Romeo” decide di confrontarsi non con il sindacalista ma con la sua simile. La scommessa consiste nel fare autocoscienza «senza dimenticare l’intervento di massa». Alle riunioni femministe hanno scoperto che predomina troppo «l’aspetto puramente analitico introspettivo e troppo poco quello di riuscire a concretizzare queste analisi».
Nel ’74, sempre sul Sottosopra, esce il resoconto di «Un anno di esperienza tra autocoscienza e lotta di fabbrica» a cura di “alcune compagne” della Face Standard (fabbrica elettronica che occupa 4.000 persone di cui circa 1.500 donne). Anche qui, dito puntato sul dualismo all’interno del gruppo tra autocoscienza e intervento di fabbrica. «Eravamo donne abbastanza sicure, con poca attenzione per il femminismo, anzi con una specie di avversione, perché noi facevamo politica».
Una politica in nome delle donne. Non dalle donne e con le donne. «Una pseudo-emancipazione» nella quale dai per scontato che «i tuoi casini sono già risolti» e invece no, i casini sei tu a determinarli, rompendo equilibri consolidati, addirittura secolari, che vigono tra le pareti domestiche.
Cambiano le forme di vita e la gerarchia interna alla famiglia. Scopri che il tuo corpo, il linguaggio, la rappresentazione che hai del mondo non sono quelli dell’operaio (che rappresenta anche l’operaia), del lavoratore (che esprime anche i bisogni della lavoratrice).
Il 28 novembre, al convegno Fiom si ricordava il contratto del 1969. Lia Cigarini, Libreria delle donne di Milano, ha parlato della contrattazione di secondo livello, una pratica (tra l’altro molto simile a quella che il movimento delle donne si è data, quella della relazione) che nei rapporti di lavoro «può far valere il di più che le donne sono, pensano e vogliono. Senza la contrattazione articolata si rischia di sottrarre competenza pratica e simbolica a quelle donne e uomini che per vivere devono mettersi sul mercato del lavoro».
Con un linguaggio vivo, in Dita di dama (prima edizione 2009, ora riedita da La nave di Teseo, 2019, con postfazione di Maurizio Landini, 12,00 euro) Chiara Ingrao ci riporta proprio a questo scambio, a questo incrocio di parole che tessono una rete solidale. Nel suo romanzo sfilano una Maria diciottenne e Paolona, Mammassunta, Aroscetta, operaie della romana Voxson che, nell’autunno del 1969, affrontano l’organizzazione del lavoro, le multe, la prova della paletta per andare in bagno. A Piazza del Popolo strilleranno anche loro: “Agnelli, Pirelli, ladri gemelli” accompagnate dalla colonna sonora dei bidoni di latta, percossi come tamburi. Da allora è risultato più difficile confondere i due sessi anche in un sindacato come quella Fiom in maggioranza maschile.
Ma, nonostante la presenza di tante nel mercato del lavoro e nonostante il rifiuto di separare produzione e riproduzione, opere e cura, prodotti e relazioni, quello che una volta si sarebbe chiamato “il padrone” tende a dimenticare l’affermarsi della soggettività femminile.
È successo a Melfi dove 400 operaie della carrozzeria nel 2015 hanno scelto di protestare contro l’imposizione di tute bianche che si macchiano facilmente di sangue mestruale. Il loro discorso è risuonato alle orecchie di alcune femministe. Clelia Mori ha preso le tute, le ha “ricamate”, cerchiate, segnate, esibite in una mostra (voluta dalle Vicine di casa di Mestre, Brescia, Reggio Emilia, Foggia, fino a Matera) sul «mistero del corpo che non tace» nominando così un corpo che non può essere neutralizzato. Anche questa “è la differenza, bellezza!”
(www.donnealtri.it, 19 dicembre 2019)
di Luisa Pogliana
Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Atlantia, la società che controlla Autostrade, si è dimesso in seguito al crollo del ponte di Genova. Con 13 milioni di “incentivo alle dimissioni”, a cui vanno aggiunti la liquidazione, un cospicuo pacchetto di stock option, e perfino la casa e l’auto pagate dall’azienda ancora per un anno. Si calcolano circa 20 milioni.
Oltre a farci fortemente arrabbiare, questa “buonuscita” ci fa riflettere, dato che è il funzionamento normale dell’economia finanziaria: profitto massimo e a qualunque costo. Chiediamoci chi dà questi soldi e perché. I soldi vengono da una comunità di finanziatori che premia questo AD per averle portato buoni profitti, non importa come.
Cosa si può fare? Penso alle grandi aziende americane
che hanno fatto un “manifesto” sulla loro intenzione di tenere più conto anche
di chi lavora, non solo degli azionisti. Non c’è da entusiasmarsi: è un modo di
rispondere alla pressione generata dall’iniqua distribuzione della ricchezza. I
princìpi vanno bene, ma le politiche per applicarli quali sono? Pensiamo per
quanto tempo la non discriminazione delle donne, manager in particolare,
fioriva negli statuti etici, ma non faceva parte delle politiche aziendali, era
relegata alla “responsabilità sociale” (più o meno come fare pozzi d’acqua in
Africa). Foglie di fico, salvare la faccia in borsa. Queste aziende “attente ai
lavoratori” potrebbero cominciare a darsi dei limiti: alla retribuzione smodata
dei top manager, alle buonuscite che premiano chi ha gestito male o con
pratiche delinquenziali. Ci sarebbero subito più soldi per chi lavora.
Penso piuttosto a cosa cambierebbe se nel CdA ci fosse il sindacato. E ci fosse
una rappresentanza dei consumatori del servizio/prodotto che è scopo
dell’azienda: darebbero più attenzione alla qualità di ciò che si produce che
alla quantità sempre maggiore di profitto.
C’entrano le donne in questa visione? Beatrice Webb, fondatrice della London School of Economics, la prima a concepire il management tenendo conto di tutti i soggetti che fanno l’azienda, ha scritto questi concetti 130 anni fa, nel 1891 (The Co-operative Movement in Great Britain), e il suo libro più noto si intitola Industrial Democracy (1897). Da allora questo filo rosso di pensiero corre ininterrotto tra le donne nel management, fino ad oggi. Bisogna che più donne con questa visione, con una testa di donne, entrino nei ruoli alti dove si decidono le politiche aziendali. Molto può cambiare.
(www.libreriadelledonne.it, 19 settembre 2019)