Da Altraeconomia – «Quando la bimba non aveva neanche un mese ho affrontato una trasferta da Bologna a Pavia per un reportage. Per allattare mia figlia facevo tredici chilometri in macchina ogni tre ore. Ripetendo il tragitto tre volte in un giorno». Così Alice Facchini, giornalista freelance, non ha mai interrotto il lavoro dopo essere diventata madre. «Non mi sono mai fermata. Mara [nome di fantasia, ndr], la mia bimba, aveva solo quattro giorni quando ho fatto la prima call». La incontriamo per riflettere sulle difficoltà di conciliare la maternità con la carriera giornalistica. La sua esperienza conferma i dati che emergono in un rapporto condotto nel 2022 dal gruppo di ricerca e sondaggi OnePoll: quella da giornalista è la terza carriera meno adatta alla vita familiare.

Durante la gestazione e la maternità molte donne devono scegliere tra famiglia e lavoro, affrontando il peso delle disuguaglianze di genere e della precarietà e il giornalismo non fa eccezione: le giornaliste vengono pagate meno rispetto ai colleghi, firmano meno articoli e ricoprono meno cariche apicali. Per loro concedersi una pausa o un congedo è vissuto come un privilegio, soprattutto se lavorano al di fuori delle redazioni. «Non fermarsi diventa una necessità – continua Facchini – perché manca un mezzo di sostentamento e quindi alcune freelance sono costrette a continuare a lavorare, anche se non vorrebbero».

Un’esperienza simile è toccata anche a Irene Caselli, quarantadue anni, reporter multimediale ed esperta di prima infanzia e genitorialità. «Non avevo un congedo e se avessi smesso di lavorare avrei smesso di guadagnare. Quando è nato Lorenzo [nome di fantasia, ndr] stavo lavorando all’una di notte perché dovevo consegnare un paio di cose. Sono iniziate le prime contrazioni alle due di notte e sono andata all’ospedale. Il pomeriggio ho partorito e alle nove di sera ho mandato una mail chiedendo un’estensione di una settimana, poi sono tornata a casa e l’ho scritto».

Rimanere produttive non è una scelta. Secondo Alice Facchini «c’è anche una questione di pressione sociale di chi dall’esterno guarda e dice “chissà se sarà ancora attiva, se avrà deciso di ritirarsi alla vita privata”. Quindi la mia decisione era legata anche all’ansia di dimostrare che ero ancora sul pezzo, che potevano ancora chiamarmi».

Serena Bersani, presidente dell’associazione GiULiA Giornaliste che si batte per le pari opportunità e una corretta rappresentazione delle donne nei media, ricorda: «Comunicai di essere incinta soltanto quando la pancia al sesto mese era evidente e non potevo più nasconderla. Non l’ho detto prima perché avevo paura che mi togliessero incarichi». Durante un colloquio di lavoro disse al capo del personale della redazione che suo marito aveva preso l’aspettativa proprio per permetterle di essere assunta. Ma non bastò per liberarsi delle supposizioni sulle sue capacità lavorative in quanto giornalista e madre: «Cominciò a dirmi: “Io già immagino che ogni mezz’ora tu chiamerai a casa per sapere se il bambino sta bene, se ha mangiato”. Mi trattava come se non riuscissi a scindere il lavoro da cosa succede a casa, ma non mi conosceva». Questo pregiudizio, noto come maternal bias, è basato sull’idea che le donne diventino meno produttive e interessate alla carriera dopo aver avuto figli.

Le preoccupazioni di Alice Facchini e Serena Bersani sono giustificate. Secondo il rapporto Plus 2022 dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, dopo aver dato alla luce un figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni lascia il lavoro, mentre solo il 43,6% continua a lavorare, con una percentuale ancora più bassa nel Sud e nelle isole (29%). La principale ragione di questa scelta è la difficoltà nel conciliare il lavoro con la cura dei figli. Nonostante un notevole calo nel tempo, persiste uno squilibrio di genere nelle dimissioni post-nascita.

Il timore che la maternità possa incidere sul lavoro non riguarda solo le giornaliste freelance. Come testimonia il recente caso di Lara Ricci, giornalista demansionata da Il Sole 24 Ore da responsabile delle pagine letterarie dell’inserto domenicale a correttrice di bozze, dopo il periodo di maternità obbligatoria. Serena Bersani esprime preoccupazione per il caso: «L’Ordine e il sindacato non sono riusciti a proteggere questa collega e a far valere i suoi diritti. Ricci è dovuta ricorrere al tribunale per riavere il suo posto, questo dimostra che il problema è ancora profondo». Il 22 gennaio 2024 il tribunale del lavoro di Milano ha riconosciuto, per la seconda volta, le decisioni del quotidiano economico come discriminatorie. Per Lara Ricci è stato difficile dimostrare la discriminazione: «È arduo, ad esempio, provare il caso in cui una donna non abbia ottenuto una promozione che meritava a causa del suo genere», racconta. Tuttavia, l’ultima sentenza ha reso più facile la prova delle discriminazioni contro tutte le lavoratrici madri. «La discriminazione si può realizzare non solo in quanto la maternità ne sia la causa – spiega la giornalista, evidenziando l’importanza della sentenza – ma anche solo in quanto sia l’occasione per farlo, approfittando cioè della sua assenza per congedo».

Espulse, un collettivo di giornaliste che indaga sulle molestie e sugli abusi di potere nel giornalismo italiano sottolinea la scarsa risonanza mediatica della sentenza «che invece potrebbe spingere altre donne – giornaliste, ma anche altre lavoratrici – a fare causa ai datori di lavoro che le hanno discriminate durante la maternità». Il demansionamento, come dimostra la vicenda di Lara Ricci, è uno dei timori più grandi, ma non è l’unico. «Io avevo un contratto a tempo indeterminato – commenta Ricci – mentre non è il caso di molte giovani donne precarie, che rischiano il non rinnovo. Inoltre, le freelance spesso lavorano anche subito dopo il parto per paura di perdere collaborazioni».

Tutti questi pregiudizi, ostacoli e timori fanno parte di un settore in cui la salute mentale è ancora un tabù. «Dopo il secondo figlio, mi sono resa conto di essere in burnout. Avevo bisogno di una pausa», ricorda Irene Caselli, sottolineando come, nonostante l’expertise in questi ambiti, non si fosse accorta di quanto fosse difficile ritornare a lavorare così presto e affrontare le conseguenze del mancato distacco da lavoro.

Maria Grazia Flore, psicoterapeuta ed esperta in psicologia perinatale puntualizza: «In Italia il compito della cura è ancora prevalentemente affidato alle donne. Questo crea una situazione ambivalente in cui, nonostante il supporto apparente alla conciliazione lavoro-famiglia, mancano i presupposti come il congedo di paternità più lungo e servizi di welfare adeguati». «La penalità nel mio caso è stata la mia salute mentale e la mia salute fisica – dice con grande consapevolezza Irene Caselli – perché ho continuato a fare le cose come se fossi da sola ma non ero da sola».

In Italia, il tema delle difficoltà affrontate dalle giornaliste durante la maternità è trascurato, come dimostra la scarsa disponibilità di dati. La prima indagine sulla condizione lavorativa delle giornaliste madri è stata condotta tramite un questionario nel maggio 2022 dalla commissione Pari opportunità dell’Ordine della Campania, ma i risultati non sono ancora stati pubblicati. «C’è bisogno di molta flessibilità nel mondo giornalistico – conclude Caselli, con lo sguardo che si fa più serio – e mentre la flessibilità da un certo punto di vista si combina bene con l’essere madre, da altri punti di vista è complicato».

Da la Repubblica – Si fa presto a dire natalità. In Italia una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre e il 72,8% delle convalide delle dimissioni dei neogenitori riguarda le donne.

Anche per questo è ancora in calo il numero medio di figli per donna che partoriscono sempre più tardi rispetto alla media europea, a 32 anni e mezzo. E il 2023 ha registrato un nuovo minimo storico delle nascite in Italia, ferme sotto i 400mila bambini, con un calo del 3,6% rispetto all’anno precedente. Le donne scelgono di non avere figli o ne hanno meno. E la contrazione della natalità che accompagna l’Italia da decenni ormai coinvolge anche la componente straniera della popolazione.

Se il rinvio della maternità e la bassa fecondità sono frutto di numerose concause, i dati rivelano che più aumenta la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, più aumenta il tasso di fecondità. Un elemento da tenere in debita considerazione, in un mercato del lavoro che sconta ancora un gap di genere fortissimo.

Poche occupate, ancor meno se con figli

Dai dati del Rapporto di Save the Children, emerge che in Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello EU27 (9,4 punti percentuali).

Per le donne, il tema del bilanciamento tra lavoro e famiglia rimane critico per chi nella propria famiglia svolge un lavoro di cura non retribuito. Una spia delle difficoltà che le madri affrontano nel conciliare impegni familiari e lavorativi è rappresentata dal numero di donne occupate di età compresa tra i 25 e i 54 anni: a fronte di un tasso di occupazione femminile del 63,8%, le donne senza figli che lavorano raggiungono il 68,7%, mentre solo poco più della metà di quelle con due o più figli minori ha un impiego (57,8%). Al contrario, per gli uomini della stessa età, il tasso di occupazione totale è dell’83,7%, con una variazione che va dal 77,3% per coloro senza figli, fino al 91,3% per chi ha un figlio minore e al 91,6% per chi ne ha due o più.

Marcate sono pure le disparità territoriali, a danno delle regioni del Sud d’Italia dove per le donne, l’occupazione si ferma al 48,9% per coloro senza figli (sono il 79,8% al nord e 74,4% al centro) e scende al 42% in presenza di figli minori arrivando al 40% per le donne con due o più figli minori (al nord sono il 73,2% e al centro 68,3%).

Dimissioni volontarie: opportunità per gli uomini, sacrificio per le donne

Anche guardando ai dati delle dimissioni volontarie post genitorialità è evidente come la nascita di un figlio influisca sulla disparità di genere nel mondo del lavoro. A dimettersi sono principalmente le madri, al primo figlio ed entro il suo primo anno di vita. Nel corso del 2022, infatti, sono state effettuate complessivamente 61.391 convalide di dimissioni volontarie per genitori di figli in età 0-3 in tutto il territorio nazionale, in crescita del 17,1% rispetto all’anno precedente. Il 72,8% del totale (pari a 44.699) riguarda donne, mentre il 27,2% riguarda uomini (pari a 16.692), con una crescita maggiore di quelle femminili rispetto all’anno precedente. E se per gli uomini la motivazione predominante è di natura professionale, per le donne quella principale è la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del bambino/a: il 41,7% ha attribuito questa difficoltà alla mancanza di servizi di assistenza, mentre il 21,9% ha indicato problematiche legate all’organizzazione del lavoro. Complessivamente, le sfide legate alla cura rappresentano il 63,6% di tutte le motivazioni di convalida fornite dalle lavoratrici madri.

Il part-time è donna

Dai dati emerge inoltre che in Italia, mentre il lavoro a tempo pieno è più comune tra gli uomini rispetto alle donne, accade l’opposto per il lavoro part-time. Solo il 6,6% degli uomini che lavora, lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, che per la metà dei casi (15,4%) subisce un part-time involontario. Tra coloro che hanno figli, aumenta notevolmente la percentuale di donne impiegate a tempo parziale (36,7%) rispetto a quelle senza figli (23,5%). Tra gli uomini, invece, si passa dall’8,7% per chi non ha figli al 4,6% per i padri.

Le regioni mother friendly

In cima alla classifica delle regioni più mother friendly c’è ancora una volta la Provincia autonoma di Bolzano, seguita dall’Emilia-Romagna, mentre l’ultimo posto è della Basilicata, preceduta da Campania e Sicilia. La Toscana guadagna una posizione, conquistando il terzo posto. Tra le regioni che più sono migliorate rispetto all’anno precedente, il Lazio che passa dal tredicesimo all’ottavo posto guadagnando cinque posizioni e la Lombardia che dall’ottavo si attesta al quarto.