Bisogna affrontare seriamente la questione della violenza
Claudio Vedovati
6 Ottobre 2025
Da DeA – Donne e Altri
La tentazione di ridurre la violenza nelle manifestazioni a un gesto da “cretini” è un grave errore.
La violenza è il grande rimosso di ogni discorso sulla natura della politica e del potere. È stato parte di questo rimosso isolare la violenza maschile sulle donne da una storia maschile che ci riguarda tutti. Ed è una rimozione non vedere cosa accade nelle nostre manifestazioni.
È parte di una antica tradizione patriarcale quella di trasformare risentimento e rabbia nel gioco della guerra, una violenza mimata o agita, in piccole dosi, nascondendo il volto dietro un fazzoletto o nell’anonimato di un grande corteo, sempre giustificata in nome della violenza altrui, il narcisismo di imbrattare una vetrina con qualche insulto, ma più spesso una sfida di virilità.
La violenza è una visione dell’umano. Nel mondo moderno è radicata nell’espressione homo homini lupus da cui sono nate le forme della politica che conosciamo, lo stato assoluto, il contratto sociale, l’individualismo proprietario, la competizione tra maschi come modello di produzione di ricchezza (il predominio del mercato) e quella tra stati (politiche di potenza), e ogni uso politico della violenza a partire da quella sulle donne, non un fatto privato ma ciò che ordina il mondo. Una violenza ordinaria.
Anche nelle manifestazioni va in scena la vita come perenne stato di guerra.
È la stessa cultura che porta i soldati israeliani a usare violenza fisica e morale sui componenti di Flotilla che hanno prigionieri e negli Stati Uniti, con Trump, a fare della guerra la misura stessa dell’agire politico, nelle stesse relazioni tra cittadini. È la stessa cultura che giustifica la distruzione altrui.
Pensare che la violenza non vada utilizzata perché “si fa il gioco del nemico” è una gigantesca sconfitta politica, una rimozione che condanna all’eterno ritorno della violenza.
Nel 1920 Lenin aveva definito l’estremismo (il “sinistrismo”) come malattia infantile del comunismo. Certo non si riferiva agli scontri in strada, stava piuttosto riportando la questione al rispetto necessario in un partito rivoluzionario alla “disciplina di ferro”, all’obbedienza. Cioè a un’altra forma di violenza.
La tradizione politica che abbiano ereditato dal novecento, volenti o nolenti, ha sempre fatto fatica a misurarsi con la violenza. In fondo «la rivoluzione non è un pranzo di gala» e il Palazzo d’Inverno lo si assalta “scendendo in strada”.
Dopo le distruzioni portate da due guerre mondiali, l’attacco alla libertà dei fascismi (la violenza come estetica più profonda dell’umano) e la minaccia della distruzione atomica, la pace è stata coltivata come un equilibrio necessario. Ma sulla violenza c’è stata poca chiarezza, perché affrontarla significava mettere in discussione un ordine molto più profondo.
Il femminismo radicale degli anni settanta, si è invece misurato con la violenza a partire dalle proprie relazioni. Ha fatto cadere ogni alibi ai “compagni maschi” e al loro uso della violenza, nel pubblico come nel privato, in strada come a letto.
La critica femminista alla violenza a maschile non è stata né un richiamo al pacifismo né alla nonviolenza. Il pacifismo è una scelta etica, la nonviolenza una pratica di conflitto politico che delegittima l’avversario mettendolo di fronte alla sua stessa violenza.
Quelle donne si sono riprese la vita reinventando la differenza sessuale, la scelta di essere donne, in relazione tra loro ma ciascuna con la propria singolare libertà e soggettività.
«Comunichiamo solo con donne» scrisse Carla Lonzi. Era anche una apertura di conflitto con gli uomini, un invito a farcela da soli, senza il sostegno femminile al patriarcato, il cui credito le donne avevano lasciato cadere dentro di sé.
Lasciavano così una eredità politica anche agli uomini. Che possiamo tradurre in una serie di domande che noi maschi possiamo rivolgere a noi stessi.
«Chi siete, chi vogliamo essere?»
Perché usiamo i nostri corpi per fare violenza? Perché ci identifichiamo così facilmente in un corpo solo, lo stato, la rivoluzione, il partito, la squadra, il cordone nel corteo? Perché abbiamo accettato che il nostro corpo fosse cancellato, rimosso, usato nei campi di battaglia, ma anche nel modo di pensare le città e il lavoro? Perché abbiamo trasformato il nostro desiderio in una giustificazione per accedere ai corpi delle donne con la violenza, disconoscendo l’autonomia del loro desiderio?
Che immagine abbiamo di noi stessi, del nostro corpo, della nostra sessualità? Perché abbiamo usato il nostro corpo che non genera in uno strumento di conquista del mondo senza limiti e misura? Perché silenziamo le emozioni? Perché rendiamo disponibile il corpo al peggio, lo rappresentiamo come non desiderabile, non godibile, e lo rivestiamo con divise, appartenenze, identità? Perché facciamo dei saperi delle protesi di noi stessi il cui valore è direttamente proporzionale al prescindere da sé, legittimato da astrazione, universalismo, “oggettività”, valori assoluti?
La libertà femminile ha cambiato anche gli uomini, ha cambiato me. Ma queste domande sono rimaste fuori dalle priorità di quel che rimane delle culture politiche tradizionali, a volte anche per le donne per cui il femminismo è emancipazione. Fare politica a partire da esse è stato difficile.
Il femminismo ha messo al centro della politica la sessualità. E questo ha cambiato il modo di leggere la violenza. Ne ha fatto – della violenza – un problema politico di prima grandezza, cogliendo il nesso tra la violenza che circola normalmente nelle nostre relazioni, primariamente tra uomini e donne, e la dismisura maschile che arriva a fare la guerra ai civili. La scena della guerra è tutta patriarcale in ogni sua forma.
«Sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna», aveva scritto Toni Negri nel 1977, in Il dominio e il sabotaggio, non per rivendicare la lotta armata, a cui era contrario, certo per épater les bourgeois e il riformismo. La violenza come autovalorizzazione operaia e aggiungeva «senza potere nessuna autovalorizzazione operaia». La violenza come “filo razionale”. Nello stesso anno Lea Melandri, ne L’infamia originaria indagava il nesso tra il misconoscimento maschile della sessualità femminile, l’identificazione di sé attraverso un atto di espropriazione, e la sua storica passione per il potere. Un regime di “sopravvivenza” da scardinare con la vita, «il cibo e l’amore, la sessualità e il fare, il gioco e la necessità non possono che rinascere insieme».
Poi mesi dopo il dibattito sulla possibile liberazione di Aldo Moro mostrò quanto fosse per tutti misurarsi con la violenza.
Molti anni dopo, invece, Luisa Muraro rivendicava la figura dell’autorità (femminile) contro l’autoritarismo. Sottraeva l’autorità all’essere usata come strumento per l’ordine sociale per ridarle la possibilità di essere una figura dello scambio nelle relazioni, che dà forza prima di tutto a chi non ha potere. Ai miei occhi è anche un modo per scardinare la dimensione mortifera dello sguardo maschile su di sé, che si cela anche dietro l’eroismo. «Si può combattere senza odiare, disfare senza distruggere, lottare senza farsi distruggere», scrive riflettendo sulla violenza.
Sono le domande che si sono fatte in tante e in tanti nell’esperienza viva delle “Resistenze” (magari le guerre di liberazione un po’ meno), dovendo fare in ogni istante i conti su quanto l’uso della violenza difensiva cancelli una parte di ciò per cui combatte.
Non parlo di quelle tradizioni politiche che hanno esplicitamente nel loro bagaglio la rivendicazione della violenza come strumento di potere che conserva e naturalizza la disparità sociale. Non ce n’è bisogno.
Mi interessa di più il fatto che la violenza cancelli anche il conflitto, quindi ogni trasformazione. Non è anche per questo che le rivoluzioni guidate dai maschi, con i migliori propositi di giustizia e libertà, falliscono?
Oggi chi sa fare i conti con la violenza? Chi sa dire qualcosa che non sia solo una generica e a volte poco veritiera condanna morale? Il limite più grande delle posizioni etiche è quello di delegittimare la violenza ponendosi ai confini della civiltà, come quando si dice che il violentatore è un “mostro”, un “degenerato”, un “malato”, un “ignorante”, un barbaro straniero. La violenza viene così fatta coincidere con l’alterità a ciò che definiamo civile e umano. Ma è proprio questo che le consente di stare al fondamento delle civiltà e di riprodursi tra noi, in ciascuna delle nostre vite.
Più fingiamo di poterla allontanare da noi stessi e più non vediamo di quanto ne siamo ancora fatti. Scompare la possibilità di lavorarla politicamente, cioè di fare un lavoro personale e politico. Sono sempre gli altri ad essere violenti.
È così che le bombe possono radere al suolo l’umano e in tanti possono voltarsi dall’altra parte.