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Da il manifesto

Morta a novantasette anni una delle più straordinarie figure della musica americana. Comunista e protagonista della stagione di lotte dei ’60 e degli anni seguenti

Mi raccontò una volta Barbara Dane: «Quando decisi di rinunciare a un tour mondiale con Louis Armstrong per dedicarmi alla canzone di lotta e ai movimenti contro il razzismo e la guerra, il mio ormai ex manager mi disse: che peccato, potevi essere la nuova Janis Joplin! E io gli risposi: però io sono viva!».

Barbara Dane è rimasta una voce viva e irresistibile fino all’inizio di questa settimana, quando ci ha lasciati all’età di novantasette anni intensi, creativi, generosi.

È stata una delle più straordinarie voci della musica americana dagli anni ’50 fino ad oggi; ed è stata una protagonista della stagione di lotte degli anni ’60 e della ostinata resistenza nei decenni seguenti – e forse proprio per questo relativamente, e ingiustamente, poco conosciuta.

Solo nei suoi ultimi anni ha ricevuto un po’ dei riconoscimenti che meritava.

Fino a poco tempo prima di morire faceva ancora seguitissimi concerti blues a San Francisco, Berkeley e dintorni, aveva appena pubblicato una coinvolgente autobiografia, era uscito un film su di lei e un cd di blues con la pianista Tammy Hall e un doppio cd antologico di tutti i suoi settant’anni di carriera di grande musicista e di insopprimibile militante.

Era nata nel 1927 da una famiglia proletaria in un quartiere operaio di Detroit. Era bianca, bionda, occhi azzurri. Nel 1959, Ebony – la rivista che sta al pubblico afroamericano come Life sta al resto d’America – le dedicò un articolo di sette pagine – «Bianca e bionda, tiene vivo il blues» – in cui la riconosceva come la vera erede di Bessie Smith. Incideva per majors discografiche, faceva musica con i maggiori bluesmen e jazzisti afroamericani, da Earl “Fatha” Hines a Lightnin’ Hopkins. Ma aveva un difetto: era comunista. E lo è rimasta fino alla fine.

Quando ho saputo della sua morte, ho pensato a che cosa scrivere qualcosa per ricordarla. Ma mi sono accorto che l’incipit che mi era venuto in mente era esattamente lo stesso che avevo usato pochi mesi fa per Giovanna Marini. Perché Barbara era sia molto diversa da Giovanna, sia anche un po’ come lei: come lei, amava la musica che faceva e aveva una voglia inesausta di condividerla.

Così, anche lei, una sera, dopo cena a casa sua, prese la chitarra e mi disse, ti va se suono qualcosa? E mi cambiò la vita.

Una delle canzoni che suonò per me (e per il mio registratore, fortunatamente acceso) era I Hate the Capitalist System – odio il sistema capitalistico – scritta negli anni ’30 da Sara Ogan Gunning, moglie e figlia di minatori di Harlan County, Kentucky. Fu quella registrazione che mi ha aperto gli occhi sulla profondità della lotta di classe negli Stati Uniti e mi ha spedito a trascorrere trent’anni a cercare di raccontarla facendo storia orale a Harlan.

Barbara diventò un punto di riferimento nel mondo del folk revival, partecipò ai folk festival di Newport, incise un disco di canzoni popolari (Anthology of American Folk Song, 1959) e continuò a fare blues.

Ma a mano a mano abbatteva le separazioni dei generi musicali: il suo ultimo disco blues prima del cambio di carriera già includeva un classico di Pete Seeger, The Hammer Song; e in un memorabile album col gruppo soul dei Chambers Brothers (1964) entrano tutte le canzoni del movimento dei diritti civili, gospel e soul riversati in note di lotta.

Nel frattempo – quando per i cittadini statunitensi era ancora vietato – aveva partecipato al festival della Canción Protesta a Cuba ed è rimasta legata all’isola per il resto della sua vita (suo figlio Pablo Menéndez è rimasto a Cuba e col suo gruppo Mezcla è una delle voci più innovative e intelligenti della musica cubana contemporanea).

Come Giovanna Marini, come Violeta Parra, anche nei suoi anni più militanti Barbara non dimenticò mai di essere in primo luogo una musicista. Però il tempo premeva, c’era il Vietnam, c’erano le rivolte urbane afroamericane, nasceva il nuovo femminismo, e fare musica era inseparabile dal fare politica e fare cultura. Così andò a cantare, e a inventare e insegnare canzoni contro la guerra, davanti alle basi militari, creando luoghi di incontro (le GI coffee houses, i caffè dei soldati) dove i militari contro la guerra potevano incontrarsi e organizzarsi.

Insieme col suo compagno Irwin Silber (altra voce della sinistra comunista, fondatore e direttore per anni della storica rivista Sing Out!) creò un’etichetta discografica militante che fece conoscere musica e voci di tutti i movimenti antirazzisti e anticoloniali, da Haiti a Porto Rico, dall’Irlanda alle Black Panthers – e persino, in collaborazione coi Dischi del Sole, una antologia di canzoni di lotta italiane, intitolata naturalmente Avanti popolo!).

L’album più significativo che pubblicò in quegli anni (e che ripubblicammo coi Dischi del Sole) si chiamava, naturalmente, I Hate the Capitalist System.

Le registrazioni di quella sera a casa sua, e altre – con lei e con altri musicisti che mi aveva fatto conoscere – erano confluite in un album, L’America della contestazione (Dischi del Sole, 1969), e le abbiamo ristampate e arricchite di recente in un’altra raccolta (We Shall Not Be Moved, Squilibri 2020).

Da lì, un paio di brani sono stati prelevati addirittura nella colonna sonora dell’Alligatore, la serie tv tratta dai romanzi di Massimo Carlotto).

Riuscimmo a far invitare Barbara alla festa dell’Unità nel 1972 e nel 1973; fino ad anni 2000 inoltrati le sue tournée europee includevano sempre tappe a Roma ospitate dal Circolo Gianni Bosio.

Ma il momento che ricordo di più è quella sera, credo nel 1973, che organizzai di farla incontrare coi compagni del manifesto nella storica sede di via Pomponazzi. Cantò un po’ di cose, ma a lei e ai compagni interessava soprattutto parlare di politica.

Così, uno dei nostri le chiese: quali fossero i movimenti più importanti in quel momento negli Stati Uniti. E lei disse: il movimento delle donne. Ricordo ancora lo sconcerto nei visi dei compagni (quasi tutti maschi): non ci avevano ancora pensato.

Se devo pensare a una canzone che tiene insieme tutta la vita e l’opera di Barbara Dane, non penso tanto a I Hate the Capitalist System, quanto a un blues degli anni ’20, di Ida Cox: Wild Women Don’t Get the Blues – che traduco sempre con “alle cattive ragazze non viene il blues”. Barbara la cantava già in uno dei suoi album degli anni ’50, l’ha cantata al concerto che organizzammo col Bosio a Roma alla Locanda Atlantide nel 2001 e c’è in We Shall Not Be Moved.

Barbara era wild a modo suo: non sfrenata, neanche tanto esibitamente trasgressiva; ma sempre oltre il confine della rispettabilità, del conformismo, del prevedibile, del subalterno.

Anche per questo, quando più di mezzo secolo fa alla sua porta si presentò uno sconosciuto e ingenuo viandante italiano, lo accolse, lo ospitò, gli regalò musica e gli aprì strade e visioni. Indimenticabile.