Autorizzare la resistenza
Ilaria Baldini
13 Aprile 2018
Da quando lavoro accogliendo le donne che sono rese oggetto di violenza, è diventata per me una abitudine ormai quasi automatica cercare sempre il germe della resistenza – resistenza alla violenza e resistenza al patriarcato, interiorizzato e non – in ogni comunicazione tra donne. Nel testo di Ilaria Fraioli, ad esempio, mi ha colpita una frase – e ho preso un appunto esclusivamente su quella frase – nella quale si fa riferimento all’autorizzazione sulla quale si fonda e si sostiene il sistema discriminatorio e violento degli abusi e delle molestie di intimidazione contro le donne.
Alla radice della parola autorizzazione c’è l’idea di un nutrimento che accresce (augere), un nutrimento che possiamo e dobbiamo togliere a questo sistema (che si sta cominciando finalmente a togliere), e che invece dobbiamo offrire alle parole delle donne attraverso un ascolto diverso, un ascolto delle denunce delle donne senza giudizio. Per uscire dalla violenza è necessaria una relazione di scambio di valore tra donne, e il primo valore è il riconoscimento che una donna subisce violenza – sul lavoro e altrove – in primo luogo perché la sua forza, la manifestazione e il riconoscimento di quella forza, mette in crisi l’uomo. La sua presenza stessa come donna nel mondo del lavoro, ad esempio, risulta intollerabile, e per questo motivo il mostrare delle immagini porno alle collaboratrici (come nel caso dell’architetto Meier, che però, ci dicono, ha fatto anche altro) non è una “cosetta”: è un gesto violento che simbolicamente e significativamente vuole riaffermare i ruoli di genere grazie ai quali il patriarcato si mantiene in vita, ricordando alle donne che il loro posto non sarebbe il luogo del lavoro degli uomini, che le donne non possono stare in quel luogo come gli uomini. Il movimento #metoo, all’estero e anche in Italia, sta effettuando uno spostamento fondamentale di autorizzazione, sottraendola al sistema patriarcale e indirizzandola verso le denunce forti e coraggiose delle donne. È questa forza e questa capacità di resistere e di denunciare che ha bisogno di essere reciprocamente autorizzata, fatta crescere, tra donne;riconosciuta e curata.
Non mi viene in mente di parlare di complicità con il sistema, quando si tratta di violenza contro le donne, piuttosto di una resistenza dentro il sistema che ora ha bisogno di un sostegno collettivo per mettere definitivamente in crisi un sistema che, come tutti i sistemi, è espertissimo nel mantenersi in vita. Il primo passo per me è il sostegno reciproco, che viene in primo luogo dal credere a un’altra donna: al suo desiderio di uscire dalla dissociazione e non solo al suo racconto della violenza, del furto, della sopraffazione.
A questo proposito, penso al senso che “resistenza” ha nel testo più recente di Carol Gilligan, La virtù della resistenza. Resistenza è una parola che a me è molto cara. Gilligan si occupa della dissonanza e della dissociazione che le donne, anche se non solo loro, sperimentano nel patriarcato «tra una voce radicata nel corpo e nelle emozioni e una voce legata a una falsa storia». Il riconoscimento di quel qualcosa che sentiamo e che sappiamo, ma che impariamo che non va detto se vogliamo essere accettate dentro la società patriarcale, è, credo, la forza collettiva che si sta accumulando e liberando nel #metoo.
La presenza di un forte movimento politico è stata fondamentale per portare avanti gli studi sul trauma, ci dice anche Judith Herman, come lo è stata per portare avanti la liberazione delle donne attraverso il riconoscimento della violenza contro di loro e dei suoi effetti.
Un aspetto sul quale occorre insistere di più, secondo me, è la radice della misoginia, quella radice che emerge con chiarezza nel dato, troppo poco conosciuto, della violenza che si scatena intorno al corpo generativo della donna: la violenza maschile che colpisce, spesso comincia o si scatena, in gravidanza o intorno al momento della gravidanza.
Collegandomi all’intervento di Luisa Muraro, ritengo che per poter affrontare la violenza contro le donne sia necessario andare alla sua radice, alle ragioni che la costruiscono e costituiscono, e questo per me non si può fare prescindendo dai corpi sessuati. Se è vero che non ci sono qualità maschili o femminili ma qualità umane, come ci ricorda anche Gilligan, il lavoro da fare non è cancellare i corpi affidandosi al genere ma liberarli dal genere e dalle sue prescrizioni, non per riaffermare un dualismo ma per uscirne, liberandone la pluralità delle possibili messe in atto, come ci invita a fare Daniela Pellegrini, che io trovo molto vicina al pensiero di Gilligan. Forse superare la paura di andare a questa radice della misoginia è il passo che resta ancora da fare per far saltare davvero il sistema, e sarebbe opportuno che una riflessione sul collegamento tra la misoginia e l’asservimento sessuale e riproduttivo del corpo generativo non restasse più clandestina, mentre vediamo che è costantemente sotto attacco, non a caso.
Nel #metoo avviene un passaggio fondamentale: si esce, anche dolorosamente, dall’ipocrisia che accettare sotto ricatto sia una scelta, e che quello che si è subito sia stato davvero accettato. Si smaschera il ricatto sessuale esponendolo per quello che è. Per questo motivo si può parlare di un continuumcon il tema della prostituzione, e per questo qualunque regolamentazione della prostituzione come lavoro sarebbe un capolavoro di pervertimento patriarcale della libertà delle donne. È fondamentale intensificare la riflessione su questo legame, a mio avviso, per sostenere il rovesciamento sistemico che sta avvenendo nel mondo.