di Paola Centomo
Spinta dal coraggio e dall’esempio di Gino Cecchettin, nei cortei del 25 novembre c’è stata per la prima volta un’alta partecipazione maschile. Un episodio che va oltre l’onda dell’emozione e segna il primo, timido passo di un cambiamento. Ce lo spiegano alcuni di loro, impegnati a vario titolo a operare un salto di qualità. Convinti che, «anche se si è persone perbene, si fa parte di un genere che la violenza la esercita»
Un mese fa, un 25 novembre molto diverso da quelli venuti prima ha colmato le piazze del Paese, trasfigurandole in maree umane che mai avremmo detto. Una sorta di miracolo collettivo, perché non si erano mai viste moltitudini sfilare in nome di una donna uccisa dal suo ex e in nome delle tantissime finite come lei, e perché quelli che sino a quel momento si erano tenuti fuori – gli uomini – quel giorno, invece, avevano voluto essere proprio lì, insieme. Uomini chiamati dalle parole di un padre che diceva una cosa evidente, in fondo: la violenza sulle donne è un problema che chiama in causa gli uomini, tutti gli uomini.
Gino Cecchettin: «Noi uomini agenti di cambiamento contro la violenza sulle donne»
«Mi rivolgo agli uomini perché per primi dobbiamo essere agenti di cambiamento» disse Gino Cecchettin, padre di Giulia, che in quei giorni divenne figlia di ogni genitore.
Poi il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, è passato. Cos’è rimasto? E dove sono, adesso, gli uomini? Abbiamo raccolto le voci vibranti di quei giorni, soprattutto ne abbiamo cercate di nuove. Le abbiamo messe in sequenza, senza volerle decifrare, senza trarre, intenzionalmente, conclusioni. Si tratta di parole che cominciano a lambire la scena pubblica e sembrano iniziare a smantellare qualcosa.
Gli uomini e la sopraffazione, le opinioni di scrittori e intellettuali (maschi)
Riavvolgiamo per qualche secondo il filo di quei giorni e del confronto molto mosso tra scrittori e intellettuali che hanno ragionato sul Corriere della Sera e Repubblica.
Per lo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo non esistono maschi progressisti in quanto maschi. Anzi, quanto più perderanno il predominio, tanto più si sentiranno fragili e quanto più si sentiranno fragili tanto più combatteranno disperatamente.
Per lo scrittore Paolo Giordano la possibilità della sopraffazione «è il segreto meglio custodito degli uomini», ai quali occorrerebbe, almeno, una nuova alfabetizzazione sentimentale con cui conoscere e affrontare le tortuosità delle relazioni.
Per il semiologo Stefano Bartezzaghi, il Dna non condanna affatto gli uomini a sopraffare. Detto questo serve una forte ostinazione collettiva verso chi quella sopraffazione la esercita contro la convivenza civile.
Bisogna essere sentinelle sociali contro la violenza sulle donne
Michele Serra apre alla sfida di generare nuove forme dell’essere maschi che siano più civili e più gentili. Mentre Aldo Cazzullo mette in chiaro che se è vero che i violenti sono la minoranza, la maggioranza se ne deve in qualche modo occupare.
Che poi è il messaggio che manda da sempre agli uomini il magistrato Fabio Roia, oggi Presidente del Tribunale di Milano e da anni in prima linea contro i femminicidi anche attraverso l’impegno di studioso e formatore (ha scritto per FrancoAngeli il libro Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche). Per Roia gli uomini devono condannare in maniera chiara la violenza sulle donne e trasformarsi, ciascuno, in sentinella sociale.
Reagire alle battute sessiste di amici e colleghi
«Se un uomo entra in contatto con un violento, deve respingere l’idea che il problema non sia suo e, anzi, deve intervenire: può, per esempio, informarlo dell’esistenza di centri che aiutano gli uomini che hanno agiti violenti» spiega Roia.
«Trovo che esporsi in prima persona sia necessario anche sul piano dell’evoluzione culturale. Se si sente un amico o un collega pronunciare una battutaccia sessista, non dobbiamo più fare finta di niente, ma rimarcarla come tale, perché sia riconosciuta inattuale e inadeguata in un contesto che punta a evolvere. Non è facile: io stesso, quando faccio notare a qualche “collega di genere” che si è espresso in maniera inadeguata, genero reazioni tra lo stupore e lo scherno, ma proprio questo tipo di reazione evidenzia l’urgenza di agire».
Per Roia esiste un filo che connette la violenza sulle donne a una cultura più generale che tende a sminuire le donne, «direi una coltura dove germogliano e crescono atti ostili al rispetto di parità, come quando in fase di assunzione si esclude surrettiziamente una donna perché ha una legittima prospettiva di maternità e, in genere, quando non la si valorizza, proprio perché donna, per quanto merita».
Apparteniamo al genere che esercita la violenza sulle donne. Anche se siamo brave persone
«Le donne sanno quanto sia ingiusto sopraffare, ma sono stanche di essere loro a dirlo. Per gli uomini è il momento di farsi sentire» dice Luca Dini, direttore del settimanale F che, insieme al
Comune di Milano e al suo sindaco Beppe Sala, ha sottoscritto il manifesto Uomini che amano le donne, per incoraggiare gli uomini a fare fronte contro la violenza sulle donne e le discriminazioni (hanno firmato, tra gli altri, Alessandro Baricco, Mahmood, Giorgio Armani, Rosario Fiorello, Roberto Bolle, Luciano Fontana, Gianmarco Tamberi, Gabriele Salvatores).
«Affermare che il mondo si divide tra persone perbene e persone che non lo sono è giusto, ma è insufficiente. Voglio dire che da maschio ci si può anche dissociare dalla violenza, ma si deve essere consapevoli di appartenere al genere che quella violenza la esercita» dice Dini, che dal suo giornale, dopo lo stupro di branco di Palermo la scorsa estate, ha lanciato la campagna #IoNonSono-Carne, ricordando la frase pronunciata dall’istigatore dello stupro: “la carne è carne”.
«Si tratta di parole ripugnanti, che mortificano le donne, ma che mortificano anche gli uomini, perché neanche gli uomini vogliono più essere ridotti a pura carne, a un presunto codice genetico o ormonale che dice loro di aggredire. Lavorando in quei mesi sulla campagna, io stesso sono cambiato: non ho difficoltà a dire che da direttore ho affrontato, solo fino a cinque anni fa, temi che adesso non affronterei più nello stesso modo».
Il patriarcato non è un’esclusiva maschile
Per Dini ci si sbaglia, però, a pensare che il patriarcato sia un’esclusiva maschile: «Il patriarcato è una cultura che appartiene agli uomini e alle donne. Se è vero che negli uomini c’è una maggiore tendenza alla prevaricazione, da parte delle donne c’è una maggiore tendenza ad accettare la prevaricazione se viene da un uomo. Dobbiamo fare un cammino insieme».
Conclude Dini: «Gli uomini si facciano carico del dovere di partecipare a un grande processo di cambiamento. E le donne, tutte, accettino la partecipazione degli uomini».
Riconoscere i propri privilegi
Intanto, gli italiani si confessano all’Istat. La nuova indagine Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza consegna un’Italia che prova a essere più equa. Rispetto al passato, gli italiani e le italiane hanno meno stereotipi, anche se ad averli superati sono soprattutto le donne, ed emerge una minore tolleranza della violenza fisica nella coppia.
Ma il 48,7% ha ancora almeno uno stereotipo sulla violenza sessuale, il 39,3 per cento pensa che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e quasi il 20% crede che la violenza sia provocata dal modo di vestire della vittima.
Le campagne di uomini per gli uomini contro la violenza sulle donne
Per dire quanto sia urgente disinnescare le trappole di normale patriarcato quotidiano, germogliano campagne di uomini per gli uomini.
L’associazioneMaschi che si Immischiano – Violenza sulle donne: il problema siamo noilancia la campagna “Scegli che uomo 6”, prospettando sei situazioni-bivio: «Un padre che ascolta o che spaventa?», «Un partner attento o che si fa servire?». «Un collega che valorizza o che svaluta le donne?», «Insegni il rispetto o denigri le donne?», «Aiuti un amico che si separa o sono affari suoi?», «In pubblico ascolti le donne o le mortifichi?».
Gli uomini di RTL102.5, di Radio Zeta e Radio Freccia, invece, hanno lanciato la campagna #Percambiare, esortando a gesti di cambiamento concreti. «#Per cambiare non chiediamo mai più a una donna di smettere di lavorare, #Per cambiare dobbiamo essere felici se una ragazza fa serata con chi vuole, #Per cambiare non chiediamo a una donna durante un colloquio di lavoro se intende diventare madre».
Femminismo, maschile
Anche chi scende in campo in ordine sparso lo fa in nome di un cambiamento di sostanza. E divulga, spiega, contamina in una cornice di femminismo pop che certamente è al centro di qualche critica, ma è entrato nelle aziende e nelle istituzioni.
Lorenzo Gasparrini è autore del libro Perché il femminismo serve anche agli uomini (Eris). Conduce seminari e laboratori in aziende, scuole, ordini professionali per smascherare i ruoli stereotipati che, dice, pesano, oltre che sulle donne, sugli uomini, «anche se loro non lo ammetterebbero mai», chiarisce. «Ammettere un condizionamento culturale è per noi difficilissimo, perché significa ammettere che non si è padroni delle proprie intenzioni».
Il privilegio goduto da un uomo è uno svantaggio per una donna
Davide Rossi, bolognese, 39 anni, operaio specializzato, è referente su Bologna della campagna Mezzi Per Tutte, creata da Roadto50%, associazione paneuropea per la parità di genere in politica. «Gli uomini devono riconoscere, collettivamente, con un’unica voce, che godono di privilegi non più accettabili, perché ogni privilegio goduto è uno svantaggio procurato a qualcun’altra. È il sistema intero che va messo in discussione».
In nome della campagna Mezzi Per Tutte lanciata contro le molestie sui mezzi pubblici, Rossi ha seguito una formazione presso i Centri Antiviolenza e oggi va nelle scuole per sensibilizzare i ragazzi e le ragazze. «Sono entrato nell’associazione perché volevo rendermi utile. L’inizio è stato duro, anche sul piano personale, specie quando ho cominciato a rendermi conto che io stesso agivo con la mentalità patriarcale di chi sente che gli spetti tutto. Lavorando sulla conoscenza e sulla consapevolezza, sono cambiato. E andando nelle scuole ho capito che possiamo fare moltissimo».
L’attivismo contro la violenza sulle donne
«La storia non procede in modo lineare ma per salti, specialmente quando si tratta di incidere sulle culture. E io penso che stiamo attraversando una svolta». A parlare è Michel Martone, professore ordinario di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali all’università La Sapienza di Roma, uomo attento ai temi di genere, padre di un bambino piccolo da cui – racconta con una gioia che sembra riordinare tutto – si è lasciato trasformare.
«Le piazze del 25 novembre hanno mostrato la necessità, sentita collettivamente, di un salto di qualità, anche da parte degli uomini che non vogliono essere assimilati al grande magma del maschilismo. In tanti hanno capito che è necessario fare di più e passare dalla tolleranza silenziosa a un attivismo responsabile, dalle parole ai fatti.
La parità tra i generi è un valore ormai condiviso, ma richiede l’impegno da parte di ciascuno a non tollerare più: se viene pronunciata una battuta maschilista, è giusto dire che quella battuta è sbagliata e che non va fatta. Ecco, credo che lo scorso 25 novembre molti uomini hanno affermato la consapevolezza collettiva di dover prendere posizione. Lo leggo come un viatico perché prendere posizione diventi una costante negli ambiti privati e pubblici, e anche nei luoghi di lavoro, dove effettivamente stigmatizzare i comportamenti maschilisti di qualche collega e magari di un superiore, non è affatto semplice».
Incontrarsi tra uomini per liberarsi dal sessismo
In Italia, intanto, crescono i gruppi di uomini che si incontrano per liberarsi dal sessismo, dalla cultura del controllo e del possesso, per migliorare le relazioni tra uomini e donne, ma anche quelle tra maschi.
Il sociologo Marco Deriu è tra i motori diMaschile Plurale, rete di gruppi che fanno comunicazione, educazione, formazione su questi temi: «Gli uomini hanno introiettato sul piano culturale l’epocale passaggio da relazioni di impronta patriarcale a modelli più orizzontali e paritari. Ecredo che in via teorica nessun uomo obietti più nulla davanti ai diritti avanzati dalle donne. Ma quanto ad accettare in maniera reale, profonda, sentita la soggettività e l’alterità delle donne dentro la relazione, penso siano in difficoltà. In questi casi, molte coppie vanno bene finché c’è intesa. Quando l’equilibrio si crepa, tracimano, qualche volta prendendo la strada della violenza vendicativa o dell’ossessione di controllo, favorita dall’incapacità degli uomini di comprendere i propri vissuti».
La paternità non sia un affiancamento
«Per di più, gli uomini fanno oggi i conti con le fatiche della loro vita – separazioni, delusioni, fallimenti – senza parlarne con gli altri, perché non hanno costruito spazi emotivi e di intimità in cui possano comunicare le loro esperienze esistenziali non in astratto, ma in maniera autentica» spiega Deriu, che insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma.
«Quando abbiamo condotto interviste in coppie segnate dalla violenza, abbiamo registrato come i racconti dei maschi durassero la metà, se non un terzo rispetto a quelli della partner o della ex e fossero scarni, privi di struttura. Vedo due vie possibili verso il cambiamento: in primo luogo, l’educazione all’affettività dei bambini e dei ragazzi nelle scuole.
«E poi la paternità, a condizione che non sia vissuta solo come un affiancamento alle cure materne, ma che sia reinventata, attraverso l’esplorazione delle dimensioni profonde delle emozioni, della fisicità, dell’intimità, della vulnerabilità». E conclude: «Più in generale, credo che gli uomini debbano lavorare sulla consapevolezza della propria parzialità, per non pretendere più di parlare a nome di tutti. Sono sempre state degli uomini l’economia e la politica, e la norma è sempre stata dettata dagli uomini: questa supremazia ha reso il nostro punto di vista universale e ciò ci ha regalato potere, ma ci ha escluso da tutto il resto».
(Io Donna, 30 dicembre 2023)
di Eugenio Giannetta
A conclusione dell’anno del centenario della nascita escono le lettere scambiate tra la poetessa premio Nobel e Filipowicz, anche lui scrittore
Si conclude tra pochi giorni, con la fine del 2023, il centesimo anniversario dalla nascita di Wisława Szymborska, poetessa, Nobel per la Letteratura nel 1996, con un volume che bene raccoglie tutta la sua ironia, la sagacia, l’acume e l’intelligenza, ma anche lo sguardo sul mondo, la profondità, la sensibilità, mostrando non solo la scrittrice ma la persona dietro alla scrittura, nonché il tempo e il luogo in cui viveva. Il volume si intitola Wisława Szymborska e Kornel Filipowicz – Meglio di tutti al mondo sta il tuo gatto. Lettere 1966-1985, pubblicato da Elliot edizioni (pagine 448, euro 25,00) con la traduzione dal polacco di Giulia Olga Fasoli.
Se Szymborska non ha bisogno di presentazioni, è bene invece dire brevemente due note su Kornel Filipowicz, scrittore, romanziere, sceneggiatore e poeta polacco, noto per la scrittura in forma breve. I due, Szymborska e Filipowicz, intrattennero un legame stretto e si amarono per oltre vent’anni, senza però mai abitare insieme. Questa distanza stimolò perciò un’intensa corrispondenza di lettere in cui si alternano toni divertenti a momenti lirici, elementi del quotidiano (il prezzo della carne, le medicine da prendere, i risultati delle battute di pesca di Filipowicz, ma anche personaggi di fantasia o secondari, come la signora delle pulizie, e alcune buffe schermaglie su piccole cifre di denaro che si devono a vicenda: «Kornel, mi devi 3,75». «Scusami, Wisława, ma ti ho già restituito 25 grosz!»), fino alle considerazioni sulla loro scrittura o su quella degli amici, poeti, scrittori, intellettuali.
Scritte in un lungo arco di tempo (1966-1985), le lettere attraversano alcuni grandi eventi storici come l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 (avvenimento che fu per entrambi particolarmente drammatico) e alcuni piccoli momenti della vita, matra le tante cose e figure, in queste lettere, emerge quella che dà il titolo al libro, ovvero il gatto di Kornel Filipowicz, che dopo la morte del suo padrone diventerà anche protagonista della celebre poesia di Szymborska Il gatto in un appartamento vuoto: «Morire – questo a un gatto non si fa».
Per meglio comprendere il tono delle lettere, per esempio, in Lettera per Striato, Szymborska scrive che «il mondo è senza pietà per i giovani gattini che tendono a fantasticare», e Filipowicz risponde: «La tua lettera a “Striato” è arrivata ieri, gliel’ho letta, ma non gliel’ho data in mano (nella zampa) perché avevo paura che la perdesse da qualche parte o che la nascondesse in modo tale che non la si sarebbe più trovata».
Nel volume, inoltre, sono riprodotti anche i collages, le cartoline e i disegni che spesso accompagnavano queste lettere, mostrando – ancora una volta – un lato meno conosciuto dell’universo della poetessa, che pochi mesi fa è stata anche protagonista di una mostra monografica a Genova proprio sui collage e le opere grafiche: è bene ricordare che Szymborska ha frequentato le avanguardie, era amica di Tadeusz Kantor, pittore, scenografo e regista teatrale polacco, uno dei grandi artefici dell’arte polacca contemporanea, e fin da giovane si è cimentata nel mondo dell’illustrazione, passando dai collages – ovvero quella che per lei era la dimensione più conviviale della creatività – realizzati con diverse combinazioni di parole e immagini.
Questo libro però è soprattutto un dialogo epistolare d’amore, un discorso ininterrotto fra due persone in là con gli anni (all’inizio della corrispondenza Szymborska aveva più di quarant’anni e Filipowicz più di cinquanta) colte nel mezzo della loro vita da un sentimento inaspettato, durato fino alla morte, perché «non si può vivere senza legami», per citare Baumgartner, protagonista dell’ultimo libro di Auster.
Per meglio contestualizzare il mondo in cui si muovevano queste lettere è necessario inoltre «ricordare che si tratta di una realtà precedente ai cellulari e a internet. Persino una telefonata da Zakopane a Cracovia costituiva un’impresa. Le uniche forme per comunicare – è scritto nella prefazione – rimanevano le lettere o i telegrammi e le uniche fonti di informazioni non censurate erano le trasmissioni radio occidentali e la stampa occidentale che non arrivava con regolarità, oppure una conversazione privata con qualcuno».
Come è spiegato nella nota all’edizione polacca, tutta la corrispondenza dei due si trova attualmente, per volere della Premio Nobel, nella Biblioteca Jagellonica a Cracovia e fa parte della fondazione che porta il suo nome. L’edizione italiana del carteggio, altresì, segue la struttura dell’edizione polacca, in cui alle lettere si alternano i commenti in corsivo, fondamentali per ricostruire il contesto dei riferimenti culturali, che comunque talvolta restano indecifrabili, poiché appartenenti al segreto del sentimento custodito dai due protagonisti delle missive.
«Ti bacio, amore, e ricorda le nostre conversazioni, Kornel». E così Wisława: «Desidero tanto che tu sia in buona salute e di buon umore. Il miagolio del tuo gatto attraversa la quiete della notte e arriva fino alla mia strada. Chi sta meglio di tutti al mondo è il tuo gatto, perché sta con te».
(Avvenire, 29 dicembre 2023)
di Michela A.G. Iaccarino
«Ci chiamiamo Mesarvot, vuol dire “noi rifiutiamo” declinato al femminile, perché siamo anche un’organizzazione femminista», dice al telefono il portavoce della rete di obiettori di coscienza israeliani di cui fa parte Tal Mitnick, il giovanissimo refusnik che ha rifiutato di indossare la divisa perché «un massacro non mette fine a un altro massacro». Il suo video è finito su tutti i media del mondo, ma non in Israele: «C’è su Haaretz in lingua inglese e su qualche altro piccolo giornale, non sul resto dei media israeliani che sono impegnati nello sforzo bellico. Tal è stato mostrato brevemente in tv ma solo per essere sbeffeggiato». Nata nel 2016, Mesarvot riunisce quanti «rifiutano di combattere e protestano contro l’occupazione da molti anni» e aiuta legalmente i giovani che preferiscono andare in carcere piuttosto che nei ranghi. Anche alcuni riservisti si sono rifiutati di combattere: «Noi abbiamo seguito casi simili, ma loro di solito non finiscono in prigione».
Nemmeno l’organizzazione sa quanti siano gli obiettori israeliani in totale e non lo sa nemmeno l’esercito: «Molti decidono di non servire, ma non ne fanno un atto pubblico, non fanno quello che ha fatto Tal. Persone come lui sono rare. Lo ha fatto per dire a tutti: guardate che un’altra via, oltre alla militarizzazione della società, esiste. Ma la gioventù israeliana da tempo è stata radicalizzata a destra».
Netanyahu, secondo i giovani di Mesarvot, non sarà rovesciato solo dai refusnik, ma da molti segmenti della società che stanno capendo che «la guerra è una bugia e non risolverà il problema, che riguarda l’occupazione prolungata dei territori». Racconta il portavoce che «tutte le voci di sinistra, critiche della guerra, ora vengono attaccate. Ai pacifisti viene solo detto “andate a Gaza” o “voi supportate i terroristi”». In questo momento «Tal sui social israeliani viene chiamato codardo e traditore». Molti israeliani continuano a servire nell’esercito anche se hanno dubbi: «Non combattere non è un’opzione, anche per la pressione pubblica».
(Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2023)
di Chiara Severgnini e Valentina Santarpia
Le donne del 2023 secondo il Corriere della Sera
a cura di Chiara Severgnini
Cosa ricorderemo del 2023? Guerre, attentati, alluvioni. Ma anche moti di solidarietà, grandi innovazioni, primati. E poi romanzi, film, concerti. E tante, tante donne. I giornalisti e le giornaliste del Corriere ne hanno scelte 102: quelle (viventi o mancate nel corso dell’anno) che più hanno lasciato il segno negli ultimi dodici mesi.
Non potevano mancare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, quarta donna più potente al mondo secondo Forbes, e la segretaria del Pd Elly Schlein: con loro al vertice, nel 2023, per la prima volta in Italia sia la maggioranza, sia l’opposizione sono a guida femminile. Né potevano mancare le leader europee: Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, Christine Lagarde, prima donna a presiedere la Bce, e Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo.
Ma ad aver segnato l’anno sono state anche intellettuali come Michela Murgia, sindacaliste come Fran Drescher, attiviste come Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace imprigionata in Iran. E, a proposito di Nobel, indispensabile citare l’economista Claudia Goldin, che ha studiato gli svantaggi sistemici che penalizzano le donne sul lavoro, e la biochimica Katalin Kariko, madre dei vaccini a mRna. E poi atlete come Sofia Goggia e Federica Brignone, campionesse in competizione che sono da stimolo l’una per l’altra, e registe come Paola Cortellesi, che con C’è ancora domani ha riportato l’Italia al cinema con un’emozionante storia di forza femminile.
In questo 2023, però, hanno fatto notizia anche le donne costrette a subire atrocità. Quelle brutalizzate dai terroristi il 7 ottobre, quelle ostaggio di Hamas, quelle costrette a partorire sotto le bombe a Gaza. E quelle uccise da chi non rispetta la loro libertà, come Giulia Cecchettin. Per questo tra le donne del 2023, secondo noi, c’è anche lei. Non da sola, ma con la sorella Elena, che con le sue parole ha acceso un’ondata di indignazione – anche maschile – che nel nostro Paese non ha precedenti.
NOTA: noi della Redazione del sito vi invitiamo a leggere e scoprire le donne che segnala il Corriere, ma vogliamo qui segnalare le amiche di Labodif, che sono presenti in rete e nei social con intelligenza, maestria ed efficacia. Una relazione duale che produce mondo!

Giovanna Galletti e Giovanna Mazzini
Carica: fondatrici di Labodif
Anni: 62
Paese: Italia
C’è un grande “mancante”, oggi. È lo sguardo autorevole femminile. Che è necessario portare alla luce. Il Mondo è, quanto meno, a due. Non si tratta di stabilire chi vince, ma smettere di uniformarsi a un pensiero unico, ormai insufficiente. Prendere spazio non significa toglierlo a qualcun altro, ma arricchire l’umanità intera
di Valentina Santarpia
Una Giovanna (Galletti) milanese, bocconiana, economista; l’altra Gianna (Mazzini) toscana, regista, documentarista. Si conoscono nel ’93, quando la prima dirige un istituto di ricerca e l’altra realizza storie inventandosi l’uso della seconda camera, per immaginare altri punti di vista. I loro mondi si incrociano in una consapevolezza: troppo di quello che una donna è resta inespresso. Un concetto che, dopo quasi dieci anni di studio si trasforma in Labodif, Istituto di ricerca e formazione, che cerca di comunicare e insegnare il valore delle differenze in un mondo che ha come unica soluzione l’omogeneità. L’atto di nascita? È una ricerca su scala nazionale, “Espressioni di Soggettività Femminile”, che ha permesso di fare emergere il potenziale nascosto, invisibile ai metodi di rilevazione della realtà fino a quel momento neutri, cioè declinati sul maschile. Da allora Labodif ne ha fatta di strada, basta guardare le migliaia di commenti ai loro post su Facebook, e oggi ha una scuola attivissima, seguita da persone di ogni estrazione sociale dai 17 agli 82 anni: una scuola per femmine, come dicono loro, ma richiestissima dai maschi, che senza essere divisiva prova a portare consapevolezza in un mondo dove le donne rappresentano la metà della popolazione mondiale ma continuano a faticare per modificare equilibri che non ci appartengono.
(Corriere della Sera, 27 dicembre 2023)
di Roberta De Monticelli
Una famiglia di profughi, a Betlemme, a Natale. Forse vi ricorda qualcosa. Ma qui tutto è più feroce e irrazionale che ai tempi di Erode e dei Romani quando, secondo il vangelo di Matteo, Giuseppe «levatosi, prese il bambino e sua madre e di notte partì per l’Egitto», per sfuggire alla strage degli innocenti.
Qui i profughi sono eternamente tali, sono qui dal 1948: proprio perché in Egitto non ci sono voluti andare. Perché in ogni famiglia, di generazione in generazione, hanno tramandato la speranza e il suo simbolo, la chiave del ritorno alle case da cui furono cacciati già durante la Nakba. Prima da altri profughi: gli ebrei dall’Europa che non li voleva, nel dopoguerra.
Poi via via nei decenni, e massicciamente dopo gli accordi di Oslo (1993-95), da chiunque dal mondo della diaspora ebraica volesse trasferirsi negli insediamenti coloniali sempre più enormi costruiti dalle imprese edilizie israeliane con il sostegno economico e militare dello stato di Israele, che hanno i nomi di Dio per marketing immobiliare, l’occupazione e i muri per la feroce normalità delle usurpazioni.
Eccola, la famiglia di Betlemme. Quella di Munther Amira, che hanno da poco arrestato. Con violenza, come sempre. Un’irruzione in casa sua, nel campo profughi di Aida, vicino a Betlemme, alle tre del mattino. Lo hanno picchiato, mentre chiudevano sua moglie e i suoi figli in una stanza. Lo hanno trascinato in strada, legato e bendato.
Ma prima hanno preso a coltellate la maglietta di un suo figlio adolescente, per lacerare la mappa della Palestina che ci era stampata sopra. Nel frammento di video che qualcuno è riuscito a girare e diffondere si sente la voce della figlia piccola, limpida. Grida al suo papà che gli vuole bene. Nient’altro.
Proprio da Munther, presidente del Centro per la Gioventù di Aida, attivista del Popular Struggle Coordination Committee (resistenti nonviolenti), hanno imparato queste cose i molti italiani che negli anni hanno fatto un «viaggio di conoscenza» in Palestina, ad esempio con AssopacePalestina.
È lui che accoglieva i visitatori sotto l’arco che immette nel campo, sormontato dalla grande chiave che lui stesso aveva forgiato: «Perché nessuno dimentichi la promessa del ritorno», spiegava. Lo ricordo vividamente, mentre illustrava il muro che porta iscritti i nomi dei 600 bambini trucidati a Gaza, su 2.600 vittime civili complessive, nel 2014. C’era nella sua voce e nel suo sguardo una malinconia di cui mi stupiva la luce.
Allora ne capii solo la sostanza tragica: parlava della «trappola» che era stata la trasformazione delle povere tende del ’48 prima in rifugi con il tetto di latta, poi in case di cemento, ammucchiate l’una sull’altra – ma alcune anche belle, diceva. Non era rimasto che questo, alla sua gente: la dignità di rifugiati e il sogno «legale» del ritorno. Eppure erano tanti i lavoratori palestinesi che si guadagnavano la vita e un po’ di benessere costruendo le case dei coloni – e il loro annientamento civile. Proprio per questo Munther aveva forgiato la grande chiave, perché il sogno non fosse dimenticato.
Ma la sostanza dei sogni non è diversa da quella delle idee, come pace e giustizia. E non è diversa da quella dello spirito, che soffia dove vuole, e non dove stanno i suoi templi. Ecco un aspetto dell’apocalisse, la «rivelazione», oggi in corso a Gaza. Lo ha intravisto Raniero La Valle: se Israele è lo «Stato-nazione del popolo ebraico», allora «per i palestinesi non c’è posto se non in quanto privati dei diritti e soggiogati, e siccome questo non è indefinitamente possibile, devono essere espulsi o indotti o costretti ad andarsene. La guerra di Gaza è un momento della realizzazione politica, cioè effettiva, di questo modello giuridico» (Costituenteterra.it, 21 dicembre).
Questo era il non detto negli occhi di Munther. Ora vedo che era più che malinconia. Quell’uomo nobile era letteralmente crocefisso al paradosso di un sogno eternizzato nel cemento – e svuotato di spirito profetico. Ma che cos’è lo spirito se non è trasvalutazione della sostanza tragica? E perché il Nazareno, chiamato a leggere un passo del profeta Isaia (Luca 4.18-19) lo tronca là dove l’annuncio di liberazione degli oppressi, che inaugura «l’anno di grazia», si fa annuncio della «vendetta di Dio»?
Nel 1950 l’Assemblea generale dell’Onu approvò la risoluzione 377, «Uniting for Peace», secondo la quale, se il Consiglio di sicurezza non è in grado di mantenere la pace e la sicurezza internazionali, potrebbe essere l’Assemblea generale ad assumere un ruolo di supplenza e a intervenire. Certo, solo il Consiglio di sicurezza può imporre «obblighi giuridici».
Ma lo vediamo: gli obblighi giuridici non significano nulla se le potenze che decidono li vanificano coi loro veti. Invece nel nome dell’«unità per la pace» l’enorme maggioranza degli stati che hanno votato per il cessate il fuoco (e sottrarrebbero allo stato ebraico autorità esclusiva nella gestione del futuro) acquisterebbero alle idee di pace e di giustizia la forza della legittimità. Come un coro immenso, una polifonia che ridarebbe voce allo spirito, oggi afono.
C’era luce e non solo malinconia nello sguardo di Munther Amira. Ora che gli sgherri di Erode Antipa lo hanno messo in catene, forse vedo il significato di quella luce, dove la disperazione si trasvalutava in speranza – sogno, legge, spirito. Non ci resta che pregare, ciascuno a suo modo.
(il manifesto, 24 dicembre 2023)
di Mariacristina Pianta
Che cosa significa conversare sull’orizzonte? Non è facile rispondere perché i testi della raccolta non si limitano a descrivere o trattare argomenti significativi, ma cercano di andare oltre, di superare la realtà fenomenica per cogliere il nucleo della vita e delle cose. Le sezioni del libro presentano, in particolare, un elemento comune perché l’inizio del primo verso, in posizione di anafora, si ripete in molte poesie del medesimo gruppo: Capita, La luna lo sa, questo corpo a corpo, Anna, Vincent, Poi, In pagine mai scritte, Per certi versi. Questa tecnica ha l’obiettivo di sottolineare l’importanza di determinati argomenti e situazioni. Trovare aspetti che, analogicamente, si collegano vuol dire scoprire, nelle contraddizioni del nostro tempo e nell’angoscia dell’assurdo, delle coordinate di orientamento. È come se il famoso varco montaliano fosse vicino, quasi tangibile. Pensiamo a I limoni o a La casa dei doganieri, in cui pare di decodificare un messaggio o di dipanare l’aggrovigliata matassa nelle nostre mani. Allo stesso modo Antonella Doria, per mezzo di immagini incisive, affronta problemi, che coinvolgono il nostro io più profondo, ed enuncia tragedie di carattere sociale che si verificano quotidianamente: «Capita a volte / in un agosto come questo / con il cielo azzurro / corpi clandestini in / vortici di verdiblu cristalli / danzano una danza circolare». Sgomento, antitesi tra una natura amena (cielo azzurro) e corpi di migranti alla deriva sono maggiormente sottolineati dall’uso dell’enjambement (in /vortici), dai lemmi danza-danzano e dalla quasi totale assenza di punteggiatura. La parola è essenziale in un simile percorso, segnato da drammi personali e collettivi, perché travalica il suo potenziale espressivo. Come avviene nelle tele di Munch e di Bacon, una forza di notevole impatto cattura l’attenzione e permette di superare un discorso esclusivamente razionale per indurre ad effettuare un’analisi metalinguistica dell’opera.
(Odissea, 24 novembre 2023)
Antonella Doria
Conversazioni sull’orizzonte
Con una nota di Maria Enrica Castiglioni
Book editore pagg. 92 € 16,00
di Rita Bompadre
Traduzione italiana per la poetessa e mistica che sfidò le convenzioni e i pregiudizi della Persia dell’800: lasciò l’islam per la fede baha’i, fu imprigionata e uccisa per rappresaglia.
“Mostra il tuo Sole senza nubi, /scosta il velo dalla Tua bellezza. /Si smarriranno i saggi, /gli stolti rinsaviranno. /I dissennati si ravvedranno, /i sobri perderanno il senno inebriati. /Servi e padroni in un solo abbraccio; /non più servi, non più padroni.”
Questi versi appartengono alla poetessa iraniana Tahereh, nel libro Il tesoro nascosto a cura di Julio Savi e Faezeh Mardani (Jouvence, 2023, pp. 132, € 12.00). L’invocazione profetica della poesia di Tahereh riecheggia nelle pagine, nutrite dalla difesa di un percorso consacrato all’arte, nell’interpretazione mistica della vita, conferma il significato precursore dell’elevazione spirituale della preghiera rivoluzionaria, presenta un’orazione alla rivelazione, nei suoi versi, di un pensiero audacemente innovatore, traduce la voce del coraggio esibito in difesa della propria dignitosa fede. Il talento poetico di Tahereh sovrappone la forza della seduzione, nella lusinga di un’esultante femminilità, rincorre la via appassionata e provocatoria dell’emancipazione, sfida l’oscurità di un opprimente retaggio della mentalità, avvalora l’affascinante e luminosa promessa dell’indipendenza etica ed estetica, affrancata dalla tirannide, redenta dalla condanna remissiva delle convenzioni sociali e dai crudeli pregiudizi nell’Iran del XIX secolo.
La poetessa protegge il suo tesoro nascosto, simbolo di una costante e radicata lotta contro la sottomissione delle donne e le costrizioni severe delle superstizioni, tutela la venerazione della bellezza, assiste l’intensa esperienza di partecipazione all’identità divina del movimento del babismo, sostiene il rinnovamento morale e comunitario dell’Islam attraverso la viva attestazione del senso profondo della benevolenza. L’incontro con il Maestro fondatore della fede Bābi sovverte i canoni prestabiliti dell’esistenza della poetessa, rappresenta l’insegnamento fondamentale dei contenuti delle sue poesie, nell’esortazione a credere nell’attesa di un nuovo tempo, nella preparazione liturgica ed emotiva di una redenzione universale, nella catarsi interiore, nel riscatto della giustizia, nella soppressione della tirannia. Le poesie di Tahereh innalzano il valore metaforico di questi contenuti, edificano la purezza di una riflessione che assolve la sua finalità espressiva nell’assecondare l’amore contro l’odio, nel proteggere la sincerità della resistenza e soccorrere l’ardente verità dell’interiorità contro l’inganno dell’effimero. Tahereh con i suoi vividi testi porta alla luce la magnificenza dello splendore ascetico, nobilita l’entità essenziale della vita virtuosa, indica la sublime tendenza stilistica alla resurrezione della memoria e delle idee, recupera il rilievo intellettuale nella radicale necessità di una educazione che sollecita la parità dei diritti. Lo spirito sensuale e l’intensità dell’immaginario alimentano la grazia dell’incontro e il desiderio dell’amore, fanno da sfondo alla colta e raffinata cultura dei riferimenti celebrativi della scrittura che scorge la concessione dell’armonia, assecondando l’indugio nel sospiro sovrumano e il tormento nel mondo terreno. L’attualità suprema delle poesie di Tahereh coniuga l’autonomia esegetica del coinvolgente linguaggio, precede l’ammaliante devozione nei confronti di suppliche amorevoli e la brillantezza irresistibile dell’anima. “Il tesoro nascosto” è un recupero letterario prezioso, che oltrepassa le teorie apocalittiche del destino della condanna a morte e recupera la tenace perennità del messaggio che continua a esistere nella sconfinata, imperitura sovranità delle parole.
(satisfiction.eu, 24 dicembre 2023)
Nota della Redazione del sito: riguardo alla poetessa iraniana e la traduzione italiana dei suoi versi segnaliamo la trasmissione del 24 dicembre 2023 su RadioTre per la rubrica “Uomini e profeti”, un interessante colloquio con la traduttrice e il traduttore disponibile qui https://www.raiplaysound.it/audio/2023/12/Uomini-e-Profeti-del-24122023-265db120-2f15-4a0f-9f10-f37b322f7fb2.html
di redazione Radio Radicale
Registriamo l’intervento di Antonella Nappi, “storica” femminista, che ha portato il suo punto di vista e la sua proposta sul contributo differente delle donne per culture e pratiche di pace, nella Conferenza stampa, che si è tenuta a Roma, mercoledì 20 dicembre 2023, con inizio alle ore 11:01, in via Fori Imperiali, angolo S. Pietro in carcere, per rispettare il costituzionale ripudio della guerra attraverso il taglio del bilancio della difesa (-10 miliardi, da 30 circa a 20 miliardi) e degli aiuti militari al governo ucraino.
La conferenza stampa, che ha una durata di 35 minuti, è stata organizzata dai Disarmisti Esigenti, il giorno dopo il presidio al Pantheon che ha raccolto circa cento attiviste e attivisti romani; ed è stata tenuta, oltre che da Antonella Nappi (sociologa e scrittrice), da Alfonso Navarra (portavoce di Disarmisti Esigenti), Ennio Cabiddu (Lega per il Disarmo Unilaterale), Mino Forleo (Associazione per la Scuola della Repubblica), Enrica Lomazzi (WILPF Italia).
L’intervento di Antonella Nappi si ascolta, sul sito di radio radicale, nella scheda riportata al seguente link:
L’intera conferenza stampa si guarda e si ascolta partendo dal medesimo link.
Questa la trascrizione integrale dell’intervento di Antonella:
«Da sessant’anni le donne in Italia valorizzano sempre di più il loro pensiero, la loro pratica politica che è del tutto differente dalla pratica politica di gestire, gli uni contro gli altri, il potere.Tutti gli esseri viventi sono nati da donne e le donne fanno gestazioni, danno la vita, perché la vita viva. Non per mandare in guerra a morire i maschi, non per far morire donne e bambini sotto i bombardamenti. Le ucraine, le russe, le palestinesi, le israeliane, sicuramente vogliono mantenere in vita i loro figli; vogliono sviluppare una politica di comunicazione, di contrattazione in positivo per la vita, per soddisfare i bisogni, per difendere la salute. Per prevenire il pianeta dagli inquinanti, contro la distruzione e l’inquinamento che sono le guerre.Ecco insomma, vogliamo i soldi per la scuola, per la salute, per dare una vita dignitosa a tutti i paesi e a tutti gli abitanti del nostro paese e della terra.Vogliamo modificare l’educazione dei maschi: liberarli dal dover essere aggressivi e dal dover combattere, perché diventino più sentimentali, più sinceri, più comunicativi con le donne.Vogliamo valorizzare le donne, il loro pensiero e la loro politica di pace».
(Radio Radicale, 20 dicembre 2023)
di Chiara Zamboni
Il libro di Annarosa Buttarelli tratta un grande tema che attraversa la storia dell’umanità. Non solo le religioni monoteiste lo pongono al centro dei testi sacri, ma, più concretamente, coinvolge la nostra vita quotidiana. È un tema che evidentemente gli esseri umani avvertono oggi come urgente, più che in altri tempi. Per fare due esempi. A casa, mi è stato mandato un altro libro sul male. Inoltre oggi, contemporaneamente a questa presentazione, ce n’è un’altra sullo stesso tema, nella sala dei comboniani.
Davvero c’è un bisogno profondo di trattare questa questione. Perché si è creato questo bisogno? Mi sembra per il fatto che si è rotto un equilibrio sia delle relazioni soggettive più elementari come quella tra donne uomini, sia a livello geopolitico. Siamo abbandonate alle nostre forze in un campo attraversato da forze contrastanti e senza regole. Inoltre, e per lo stesso motivo, c’è una intensificazione della violenza e della crudeltà, sia nelle guerre sia nei femminicidi.
Mi potreste chiedere a questo punto, «Ma il libro di Annarosa non è in particolare sul male. Il titolo parla chiaro, quello che interessa ad Annarosa è come le filosofe hanno trattato bene e male e come hanno cambiato di segno al modo di affrontarli». Eppure nel libro c’è una maggiore attenzione al male, forse perché se ne può parlare senza idealizzarlo e anche perché se ne sente l’urgenza. Comunque un merito del libro è di riuscire a parlare anche del bene senza nessuna idealizzazione.
Posso dire in generale che è un libro non moralistico, non propone valori da perseguire, critica chi pensa di salvare dal male facendo il bene.
Il libro sgombra subito il campo sottraendosi a un dibattito filosofico che attraversa la nostra civiltà. Quello per intenderci che ha trovato nelle categorie linguistiche e ontologiche di Sant’Agostino la sua espressione più nota, per cui il male è il non essere e il bene è l’essere, e ciò che è desiderabile per noi. E si sottrae anche all’altra grande concezione del rapporto tra bene e male come un conflitto tra due entità con forza ontologica propria, per cui bene e male hanno entrambi realtà e sono contrapposti sia in Dio sia nel mondo. Penso in particolare alla religione persiana e ad alcuni filosofi. Il libro si avvicina se mai a una concezione più moderna per cui bene e male dipendono dal giudizio soggettivo.
Riguardo a questo giudizio Annarosa introduce un pensiero originale: è Eva, che ha offerto all’umanità non tanto l’opposizione del bene al male, bensì il discernimento, il saper distinguere l’uno dall’altro assieme al pensare, di cui abbiamo bisogno per fare questo discernimento. Mangiando il frutto della conoscenza, Eva ha insegnato a discernere e dunque a giudicare cosa sia bene e cosa sia male. Ma, aggiunge Annarosa, Eva è una donna e di conseguenza l’effetto del suo dono non è quello di costruire un sistema filosofico o religioso, bensì sapersi orientare concretamente nella vita.
La vita è un percorso. Risulta fondamentale saper discriminare ciò che è bene – ciò che fa bene alla nostra vita – da ciò che è male, cioè ciò che fa male prima di tutto alla nostra vita, ma anche alla vita comune. Facendo così ci muoviamo a vista e affrontiamo quello che accade per quello che accade. Così come accade, senza generalizzare.
In questa prospettiva il libro si presenta come il tentativo – davvero riuscito – di suggerire una serie di pratiche concrete che permettono quel muoversi a vista in questo processo senza cadere nella posizione idealistica di combattere il male con il bene.
Prima di inoltrarmi in alcune delle pratiche (ovviamente, molte altre le trovate nel libro) che Annarosa descrive, quello che emerge dal testo è una concezione assolutamente non dialettica tra bene concreto e male concreto. Non simmetrica. Per me questa è stata una chiave per capire la sua scommessa.
Se da un lato le pratiche del fare il bene e le pratiche di salvaguardarsi dal male vengono valorizzate per il loro essere dei suggerimenti per come comportarsi in contesto, dall’altro vengono inscritte in due mondi paralleli, senza nessun rapporto tra di loro. Senza dialettica reciproca.
Si può leggere questo libro come un diario di bordo, con un insieme di avvistamenti di scogli pericolosi, e proposta di azioni conseguenti.
Un primo scoglio pericoloso è individuato da Annarosa in quell’esperienza che Simone Weil chiama malheur e che in genere viene tradotta con sventura. Si tratta di quando ci capitano addosso degli eventi che tagliano le nostre radici, ci privano di energia, ci espropriano delle nostre possibilità. Rispetto al senso comune, lo spostamento di senso che Weil opera è che questi eventi esproprianti non sono il male. Capitano e dunque sono dell’ordine della necessità. Né bene né male in sé. Ma risultano invece pericolosi per le conseguenze che possono provocare negli esseri umani, che per salvarsi dal dolore di questa costrizione, attaccano gli altri, mettono in atto invidia, rancore. Sterili strategie a scapito altrui. Come i capponi di Renzo, nei Promessi sposi, che «si ingegnavano a beccarsi l’un l’altro, come accade troppo sovente tra compagni di sventura».
Saper distinguere l’evento espropriante dal dolore che se ne prova e dalle reazioni che allora quasi inconsapevolmente si mettono in atto per aggirare questo dolore è una pratica difficile, ma essenziale nella nostra vita.
Un secondo scoglio pericoloso è agire per fare il bene, avendo in mente il bene e non l’azione che si compie. La retorica del bene è vuota, mentre il bene si vede solo nell’azione efficace. Negli atti e non nelle intenzioni. Trovo molto giusta questa focalizzazione del bene visto nelle azioni concrete e solo lì coglibile. L’esempio è quello della parabola evangelica del Samaritano così come la interpreta Françoise Dolto. Il samaritano aiuta il viandante, ferito e spogliato sulla strada dai banditi. Lo affida a un albergatore dando dei soldi, perché abbia quello che serve. Poi se ne va. Non aspetta riconoscenza o altro. Non lo fa per fare il bene, ma perché vede la necessità dell’altro e si mette nei suoi panni: la prossima volta potrebbe capitare a lui su quella strada. Il bene non è nell’intenzione ma nell’azione. Ha a che fare con un agire necessario. Il samaritano si è immaginato al posto di un altro. Lo aiuta, ma senza perdere tempo oltre quello che occorre. Non devia dalla sua strada se non per poco. Il samaritano non aspetta gratitudine. Il debito simbolico che il viandante ha contratto nei suoi confronti può essere saldato facendo per un altro quello che il samaritano ha fatto per lui. Se e quando capiterà l’occasione. Questo significa per Dolto partecipare ad una corrente d’amore, che è cosa ben diversa dall’agire per il bene.
Questa dimensione pragmatica, che sta alla necessità, e ha attenzione al contesto in cui ci si muove è proposta da Annarosa anche rispetto a situazioni che avvertiamo scottanti. In realtà un vero e proprio nervo scoperto del nostro tempo. Che fare rispetto a coloro che intenzionalmente minacciano la nostra integrità, e che dunque rappresentano il male per noi singolarmente? Quale la pratica che lei suggerisce?
L’immagine ricorrente nel testo è ovviamente quella delle donne che subiscono violenza dai compagni, dai mariti, e che porta in troppi casi al femminicidio. A questo tema dedica molte pagine verso la fine del libro. Ma più in generale propone una pratica molto precisa che riguarda anche altri contesti come quello del lavoro. Comunque, dove accade che veniamo minacciate nella nostra integrità.
La pratica consiste in due passi che consistono nel sottrarsi a questa situazione materialmente, andandosene, e nel non cercare di comprendere l’altro che ci minaccia interiormente. Comprenderlo significherebbe infatti sviluppare un sentimento di compassione che in genere viene adoperato dall’altro per rilanciare la propria minaccia e non libera dal vincolo. In questi casi cercare di capire l’altro, mentre si è all’interno del vincolo, destruttura interiormente e allo stesso tempo rilancia dialetticamente la crudeltà dell’altro nella relazione vischiosa e mortifera.
È una pratica che sta molto a cuore ad Annarosa. Paradossalmente, chiedere il perché l’altro ci fa del male e cercare di capirlo ci consegna ancora di più alla violenza che egli agisce su di noi. Rinforza la sua minaccia.
Trovo molto saggia questa pratica che Annarosa suggerisce. Porto un esempio personale in cui ho fatto esattamente così. Riguarda il lavoro. All’università per un anno ho lavorato con un docente universitario. Lo sentivo minaccioso della mia vita interiore. Altri non lo percepivano in questo modo, dunque il vincolo era tra me e lui. Era molto obliquo. All’interno del lavoro universitario mi considerava una pedina da usare sulla scacchiera accademica. Pensava di adoperarmi come testa di ponte per distruggere i suoi nemici filosofi. Riguardo al mio stile di vita, insisteva che rientrassi in famiglia e facessi una vita “normale”. Appena ho potuto mi sono sottratta al rapporto di lavoro con lui. Senza scontrarmi ma anche senza cercare di capire questa dinamica. Senza cercare di comprendere la sua psicologia. Mi sono “messa in salvo”. Il senso dell’integrità di sé è molto più importante dell’aver ragione o dell’esprimere un giudizio morale. Poi, solo quando non c’è stato più nessun rapporto, ho cercato di capire, confrontandomi con altre persone, che avevano lavorato con lui. Quindi trovo sacrosanta la pratica che Annarosa descrive nel libro e su cui giustamente insiste molto.
Descrivo ora un altro piano del libro che si ferma sulle reazioni dell’animo umano sottoposto a organizzazioni del lavoro malate. Direi che conoscere, comprendere e pensare è anche un dono di Eva. Non si tratta dunque solo di proporre pratiche concrete, ma del piano della comprensione della realtà umana e le sue trasformazioni antropologiche. Annarosa prende come guida in questo allargamento al piano dell’organizzazione della società sia La banalità del male sul caso Eichmann di Hannah Arendt sia L’ingranaggio siamo noi di Christophe Dejours.
Mi sono occupata a lungo del meccanismo dell’organizzazione della governance tipico del neocapitalismo, perché l’ho visto imposto all’università, trasformandola, dal 2010 in poi.
È un meccanismo per cui ogni lavoratore è coinvolto nel governo dell’istituzione in cui lavora. Viene creata una ragnatela, per cui ognuno è responsabile di una commissione, risponde alla persona gerarchicamente superiore e ha la responsabilità di inferiori. Questo coinvolgimento di tutti fa sì che nessuno possa tenersi fuori dal governare quella piccola realtà, ma allo stesso tempo non si può contrattare il senso generale di quello che si sta facendo e delle finalità dell’organizzazione. Si è presi da un meccanismo le cui linee generali non possono essere discusse. Prima c’era chi governava un’istituzione e chi era governato. Invece ora tutti governano in legami capillari, improduttivi (le commissioni), per cui scompare alla vista chi governa davvero. L’ideologia della trasparenza significa che tutto quello che si fa deve essere mostrato. Ma non viene mostrato chi davvero prende le decisioni. Il sentimento indotto è quello di essere sempre responsabili, con il peso che questo implica, e a fronte dell’effettiva sterilità di tanto lavoro trasparente, perché presto ci si rende conto che le cose avvengono altrove. Tutto questo fa ammalare gli animi.
Annarosa riprende la figura di Eichmann descritta da Arendt e dà delle chiavi di lettura per capire la realtà organizzativa che ho appena descritta. Innanzitutto il fatto che Eichmann era preso da grandi emozioni e non ricordava gli eventi concreti. Mentre ritornare alla storia di una organizzazione del lavoro, alla sua genesi, getta luce su come ne siamo stati coinvolti. Inoltre Eichmann mancava totalmente di empatia. Si rivolgeva ai giudici israeliani che aveva di fronte pensando di portarli dalla sua parte dicendo che anche loro come lui avevano cercato di fare carriera se ora occupavano quel posto. Senza tener conto che era accusato di aver organizzato lo sterminio di milioni di ebrei. Come ebrei erano quei giudici. La mancanza di empatia nelle organizzazioni impedisce di valorizzare i legami sostanziali, autentici, rispetto a quelli formali imposti. Eichmann agiva in modo contraddittorio senza assolutamente rendersene conto. Diceva di essere amico degli ebrei. Ma aveva organizzato alla perfezione i treni verso i campi per il loro sterminio. Le due realtà in lui non stridevano. Nei comportamenti che ho notato nella governance diffuso è il passaggio da una posizione a un’altra senza dover pensare, cioè senza giustificare il passaggio di fronte a sé stessi e agli altri.
Mentre Arendt dice: Eichmann mancava di spazio politico e di pensiero, Annarosa invece dice di lui: mancava di attenzione alla realtà, l’unica forma di bene in atto che possiamo riconoscere.
Su questo arrivo al punto essenziale del libro che si trova nelle pagine dedicate da Annarosa a Iris Murdoch. Il vero bene è l’attenzione alla realtà, il che implica empatia. Attenzione alla realtà è anche accettare le contraddizioni che si vivono, senza nasconderle prima di tutto a sé stessi. E senza coprire l’esperienza vivente con parole finte.
Anche l’attenzione alla realtà è una vera e propria pratica, rimanendo quello delle pratiche il filo conduttore che ho trovato nel libro di Annarosa.
(www.libreriadelledonne.it, 20 dicembre 2023)
di Marina Terragni
Ammesso che ce ne fosse bisogno, all’on. Maria Rachele Ruiu di ProVita ho detto con la massima franchezza che obbligare la donna intenzionata ad abortire di ascoltare il battito del cuore del feto non è una proposta ammissibile. Si tratta di un’idea insensata, sadica, punitiva e probabilmente incostituzionale che avrebbe probabilmente come unico effetto quello di incentivare l’aborto clandestino. Forse la proposta non andrà mai in discussione e resterà mera propaganda. Cattiva propaganda però.
Ancora una volta nel mirino ci sono le donne, ferocemente colpevolizzate. Vero che in materia di procreazione l’ultima parola non può che spettare a loro, a meno di non pensare di poterle obbligare a condurre la gravidanza con qualche mezzo di contenzione (tenerle in cella? legarle al letto fino al parto?). Vero però anche che sono molti i fattori esterni che pesano nella decisione di abortire, primo fra questi fattori la posizione dell’uomo con cui la donna ha concepito.
Quando si parla di aborto invece gli uomini scompaiono regolarmente dalla scena, così come spesso scompaiono dalla vita delle donne. Ma a una rilevazione empirica probabilmente scopriremmo che forse nella metà dei casi, probabilmente di più, le donne abortiscono perché non hanno accanto un uomo intenzionato a diventare padre e non possono permettersi di crescere un bambino da sole. La gran parte degli uomini ha un’idea di comodo dell’aborto: giusto un piccolo intervento, un fastidio che evita ben altri guai. La RU486 – pillola abortiva – ha rafforzato questa convinzione: si butta giù come un antinfiammatorio e la gravidanza magicamente sparisce. Ma gli uomini non vengono mai tirati in mezzo. Nemmeno dai ProVita.
«Per il piacere di chi sto abortendo?» si è chiesta Carla Lonzi.
Una donna che si ritrova costretta a interrompere la gravidanza a causa dell’irresponsabilità procreativa di un uomo sta subendo una violenza. È una violenza di cui non si parla mai, che viene sottaciuta anche dalle donne e non compare mai nel multiforme novero delle violenze maschili. Ma è ora che questo silenzio venga rotto, anche e non solo dal fronte pro-life.
Che il numero degli aborti diminuisca è un obiettivo condivisibile: meno dolore c’è e meglio è. Ma combattere per questo obiettivo non può significare combattere contro le donne. Ogni mossa in questa direzione va piuttosto intesa come supporto e vicinanza alle donne e non come giudizio e punizione: in questa chiave va letto il buon lavoro del Centro di Aiuto alla Vita milanese di Paola Bonzi, apprezzato perfino dagli avversari politici, perfino dai radicali che videro con favore l’attribuzione dell’Ambrogino d’Oro.
È ora quindi che questa violenza maschile misconosciuta venga nominata. Compresa la violenza economica: a parità di mansioni una donna continua a guadagnare meno di un uomo, in media 8.000 euro annui nel settore privato, per non parlare delle interruzioni di carriera fino alla perdita del lavoro. Anche questo rende molto difficile farcela da sole e tenersi il bambino, se lo si vuole.
Per essere credibili nel lavoro politico sull’aborto queste violenze vanno nominate.
(Feministpost, 19 dicembre 2023)
di Alessandra Sarchi
Mi è capitato qualche settimana fa di rivedere La ragazza con la pistola, il film con cui Mario Monicelli diede la possibilità a Monica Vitti di esprimere il suo talento comico, da protagonista assoluta di una commedia sceneggiata da Rodolfo Sonego e Luigi Magni. Il film uscì nel 1968 e venne accolto in maniera tiepida dalla critica; se andate a vedere nel Morandini tuttora trovate un giudizio non entusiasta: macchiettistico, caricaturale, non del tutto riuscito. Eppure a me che lo scoprii da adolescente piacque moltissimo e anche ora, che sono una signora di mezza età, mi ha fatto lo stesso effetto.
Ricordo di aver visto il film di Monicelli e alcuni di Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) insieme a mia cugina, eravamo a metà degli anni ‘80, in quella che poi sarebbe stata chiamata l’epoca del riflusso e del disimpegno, e per noi due ragazzette, sebbene ignoranti della faticosa acquisizione di diritti da parte delle donne dal dopoguerra in poi, era chiaro di avere davanti una visione nuova del rapporto fra i sessi, che metteva in luce con la parodia i cliché maschilisti da cui eravamo ancora circondate.
Alcune scene e alcune frasi entrarono nel nostro lessico privato, un modo per dirci che avevamo capito ciò per cui bisognava lottare, ma anche un modo per spezzare la retorica romanticheggiante e sentimentale che, nella cultura media, ricamava un pathos insopportabile anche in quelle storie in cui era evidente che la cosa migliore per una ragazza era tagliare i ponti e cambiare strada. E infatti, in quegli stessi anni, Cyndi Lauper cantava “Girls just want to have fun”.
All’epoca non sapevamo che La ragazza con la pistola era anche una rielaborazione in chiave di commedia di un fatto di cronaca: il rapimento e la violenza subita nel 1965 da una giovane siciliana, Franca Viola, che poi aveva rifiutato fermamente il matrimonio riparatore; né che il film di Monicelli era pure in dialogo con la trilogia di Pietro Germi: Divorzio all’italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Signore e signori (1966) e con l’indagine sulla femminilità condotta da Antonio Pietrangeli, in film come Adua e le compagne (1960) e Io la conoscevo bene (1965).
In qualche modo tuttavia, sebbene ci separasse un mondo dalla Sicilia rurale, ci identificavamo in Assunta Patané, una strepitosa Monica Vitti, rapita con la forza da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffré) un coetaneo con cui scambiava sguardi eloquenti, ancorché furtivi. Nonostante il rapimento [avviso: molti spoiler a seguire], nonostante sappia che perdere la verginità significa perdere la rispettabilità sociale e cadere nell’abisso delle svergognate, Assunta consuma un’infuocata notte d’amore con Vincenzo che la mattina dopo scompare. Obbligata a vendicare l’infamia, con una pistola nella borsetta e seicento lire che la madre le infila nel petto, Assunta parte dalla Sicilia per l’Inghilterra dove Vincenzo è fuggito.
Vestita di nero, con una treccia che arriva fino al sedere, capace di esprimersi a malapena in dialetto siculo, Assunta arriva nella Londra effervescente della fine degli anni ’60 e da lì iniziano per lei una serie di avventure che la portano a scoprire non solo un mondo profondamente diverso da quello dal quale proveniva, ma anche la possibilità di rapporti fra uomo e donna non per forza finalizzati al sesso o al matrimonio. Ma il modello precedente continua ad agire: per questo ha un incubo ricorrente: tornare al paese non vendicata davanti a una schiera di donne e uomini in nero le gridano «buttana, buttana».
Fatta la tara all’andamento talora bozzettistico, tipico peraltro della commedia all’italiana, e alla tendenza caricaturale di certi personaggi, il film di Monicelli è piuttosto innovativo per lo spazio che riserva a una protagonista donna e per come ne rappresenta l’intraprendenza. Innanzitutto Assunta, in apparenza imbottita di cultura patriarcale quanto i maschi che la circondano, si comporta in modo da rompere lo schema della donna che resiste, o subisce passivamente, l’atto sessuale. Con una gag che si ripeterà alla fine, nel loro secondo e ultimo incontro amoroso, Assunta finge di respingere Vincenzo – «Fredda come il marmo sono. Non sento niente» – ma in realtà è parte attiva, perfino esagerata nell’impeto degli abbracci e dei toccamenti, tanto che Vincenzo subito sospetta che abbia conosciuto altri uomini prima di lui e si spaventa di tanta foga.
«Incatenata a te voglio essere» gli dice Assunta quando lui, alla fine, le chiede di sposarla e di smettere di lavorare e uscire liberamente con gli amici, ed è proprio questa affermazione estrema che sottolinea e rivela la cultura del dominio e del possesso che sottende ogni gesto, ogni parola di Vincenzo. Una cultura che Assunta saluta per sempre con un bye bye dal traghetto che la porta all’isola di Jersey, mentre Vincenzo sulla banchina del molo impreca: «Buttana eri e buttana sei rimasta».
Ricordo di aver riso moltissimo a sentire Monica Vitti dire: «Fredda come marmo sono» mentre si avvinghiava a Carlo Giuffré nelle due scene che sono comiche e parodiche al tempo stesso. Divenne un modo di dire fra me e mia cugina, e capisco perché ridevamo tanto, e rido tuttora: perché siamo davanti a un classico esempio di umorismo in cui ciò che viene negato a parole si realizza nei fatti, e soprattutto perché Monica-Assunta agisce il proprio desiderio, non è (solo) preda di un uomo, ma lo vuole attivamente, e se lo prende.
L’emancipazione di Assunta progredisce nel corso del film, e il regista lo sottolinea anche con gli abiti e i colori che la sua protagonista indossa; vestita di nero, castigata o a lutto all’inizio, con quella interminabile treccia che sembra la lunga catena di stereotipi sessisti cui è legata, diventa sempre più disinvolta nell’indossare camicie colorate, minigonne e foulard sgargianti. Eppure, e in questo sta l’originalità del punto di vista adottato da sceneggiatore e regista, Assunta è fin dall’inizio una donna che si ribella al ruolo di vittima e di sottomessa.
La scelta stessa di farle compiere un viaggio in un paese straniero, da sola, armata di una pistola, senza nessun appoggio, è di per sé rivoluzionaria: sono pochissime le narrazioni in cui una donna affronta da sola il vasto mondo e, anche se declinate sul registro picaresco, le avventure di Assunta la portano a diventare una persona più aperta, meno succube del costume sociale dentro cui è cresciuta e soprattutto pienamente legittimata da sé stessa nel disegnare la propria vita. Moll Flanders di Daniel Defoe è forse una sua lontana antenata, ma senza il filtro del puritanesimo.
D’altra parte, mentre Moll Flanders si macchia di crimini rilevanti, Assunta Patanè più banalmente sbaglia mira e ferisce alle gambe l’amante di Vincenzo, ma è proprio in merito alla violenza e all’idea di possesso nella relazione amorosa che Assunta compie una grande svolta: va a manifestare con i pacifisti contro la guerra in Vietnam e dichiara di aver chiuso con la violenza. Ammazzare Vincenzo non le interessa più. Questo passaggio è di grande importanza perché incrocia due realtà apparentemente separate: il codice di onore con cui Assunta era cresciuta e la violenza della guerra; a questa legge maschile di aggressione Assunta dice no.
Infine, Assunta Patanè è soprattutto una donna moderna nel senso che vuole autodeterminarsi; è mossa da bisogni e desideri simili ai nostri, primo fra tutti quello di tenere le redini della propria vita e di non cedere più all’asimmetria* nei rapporti con l’altro sesso.
Viceversa, la figura di Vincenzo è grottesca: quale uomo vorrebbe sentirsi vicino a questo fantoccio di virilità che crede di essere un tombeur de femmes mentre è solo un rozzo e manesco che vagheggia una moglie zitta e sottomessa mentre passa da un’avventura all’altra? La figura di Vincenzo è così poco attraente che è facile non empatizzare con lui, liquidandolo come un sessista con tutti i peggiori luoghi comuni del meridionale, eppure piace ad Assunta e probabilmente in qualche fase della vita sarebbe piaciuto a molte altre donne.
Perché allora questa commedia, che ha tutti gli ingredienti e la relativa complessità di punti di vista, non si annovera fra i film che hanno cambiato il modo di pensare i rapporti fra i sessi, l’emancipazione femminile, e il contesto di violenza in cui ciò è avvenuto, e purtroppo avviene ancora, nel nostro paese? Ho continuato a pormi questa domanda nei giorni terribili in cui si scopriva la morte di Giulia Cecchettin, ennesima e non ultima donna uccisa da un uomo, l’ex fidanzato.
Ripensandoci e facendo un paragone tra il film di Monicelli e i film della Wertmüller che vidi da giovane nello stesso periodo, una ragione può stare proprio nel fatto che l’elaborazione della violenza attribuita ad Assunta finisce da un lato per esonerare la controparte maschile dal fare altrettanto, dall’altro in un certo senso stilizza la violenza, la derubrica a fatto di cui si può ridere. Ben altra è la sua rappresentazione nei film di Wertmüller: botte e umiliazioni viste da una donna rimangono tali e violentissime, anche se nel corso del film si ride. Come si ride o sorride, ma si soffre anche per le vessazioni, nel recentissimo film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, dove di nuovo la posta in gioco per la protagonista è l’autodeterminazione.
Sono consapevole che non è un libro, non è un film o una pièce teatrale che possono cambiare dinamiche di potere nelle relazioni umane così radicate e cristallizzate in assunti verbali, simbolici, di costume da risultare indiscussi, come la supremazia maschile sulle donne. Eppure la modesta fortuna di La ragazza con la pistola fa parte del problema: nei modi leggeri della commedia e nel regime discorsivo doppio che l’ironia implica, va oltre il ritratto di costume, va oltre i vari cliché che rappresenta in scena, e pone una questione fondamentale: la violenza e il suo inestricabile legame con la cultura patriarcale. Solo che rimane una domanda di cui sono le donne a farsi carico, non gli uomini.
Assunta da vendicatrice armata si trasforma in pacifista convinta, e quando tira fuori la pistola davanti a Vincenzo è solo per dirgli che è scarica. Rinuncia alla vendetta e all’uccisione, elabora la propria vicenda e va oltre. Mi piacerebbe trovare nel cinema un corrispettivo al maschile di questa rinuncia, ci ho pensato e non l’ho trovato, può darsi che esista e che io non lo conosca, ma in generale mi sembra che a mancare nei discorsi sulla violenza sia una presa di posizione da parte maschile, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica. È dai tempi di Aristofane e della sua commedia Lisistrata, che metteva in scena lo sciopero del sesso delle donne ateniesi per far cessare la guerra del Peloponneso, che la riflessione sulla violenza e sulla guerra viene affidata alle donne, è ora che gli uomini s’interroghino sulla loro parte, che lo facciano con le parole e con le azioni.
(Il Post, 18 dicembre 2023)
(*) Assunta Patané non mette in questione l’asimmetria tra i sessi, ma l’assunzione che “asimmetria” significhi “sottomissione”. (La redazione del sito)
Nota sull’autrice
Alessandra Sarchi
Nata a Reggio Emilia nel 1971 ha esordito nel 2008 con i racconti Segni sottili e clandestini (Diabasis editore). Ha pubblicato quattro romanzi con Einaudi: Violazione (2012), L’amore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017) e Il dono di Antonia (2020); del 2022 sono i racconti Via da qui (Minimum Fax). È autrice di La felicità delle immagini il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati (Bompiani 2019) e del podcast Vive! Storie di eroine che si ribellano al loro tragico destino, interpretato insieme a Federica Fracassi, divenuto poi un libro pubblicato nel 2023 da HarperCollin
di Ilaria Gaspari
A cinquant’anni dall’incidente in cui la poetessa perse la vita, il ricordo del fratello minore. La risalita dopo la rottura con Max Frisch. «Era rigorosa, severa. Le interviste la mettevano a disagio, ma ne ho ascoltata una in italiano e sembrava meno timida»
Nell’autunno del 1973, cinquant’anni fa, Ingeborg Bachmann moriva in una stanza asettica del reparto Grandi ustionati all’ospedale romano di Sant’Eugenio, per le conseguenze del rogo accidentale innescato dalla brace di una sigaretta. Aveva quarantasette anni e da venti, con varie interruzioni, abitava a Roma: aveva traslocato molte volte, spostandosi dal centro ai Parioli, dove visse per qualche tempo con lo scrittore Max Frisch, poi di nuovo in centro. Alla sua morte, Heinrich Böll dichiarò di «pensare a lei come a una ragazza»: parole che Heinz Bachmann, il fratello di tredici anni più giovane, che Ingeborg adorava, riprende nel libro di ricordi che le ha dedicato (Ingeborg Bachmann, meine Schwester), pubblicato da Piper, storico editore delle opere di lei. Heinz, geologo, ha viaggiato in tutto il mondo e oggi vive a Oxford con la moglie Sheila – c’è nel libro una foto del loro matrimonio, nell’agosto del ’71 a Paddington, in cui sorridono insieme a Ingeborg splendenti di felicità.
Noi che amiamo l’opera di sua sorella, non possiamo che esserle grati per averci donato questo ritratto affettuoso.
«Mi fa molto piacere. Forse, mi dico, ho fatto la cosa giusta. Sa, non è stato facile scriverlo, io sono uno scienziato e ho uno stile… da scienziato. Ho cominciato con l’idea di dover essere obiettivo al massimo. Lette le prime pagine, dalla casa editrice mi hanno fatto notare che doveva essere invece il racconto di un’esperienza molto personale. Ho dovuto cambiare completamente stile. Ma ci tenevo a scrivere qualcosa che potesse trasmettere un’immagine completa di mia sorella, raccontarla com’era quando non stava sotto gli occhi del mondo. Era molto nota: in Austria era una celebrità. Non poteva uscire senza essere riconosciuta. Pensi che all’epoca le persone mi fermavano…».
In quanto fratello di Ingeborg?
«Sì! Ora magari non si direbbe, perché sono un vecchio signore. Ma da ragazzo, la nostra somiglianza era così evidente che spesso le persone, incontrandomi la prima volta, mi dicevano: “Oh! tu devi essere il fratello”».
Nelle fotografie della giovinezza vi somigliate molto. È vero che non sappiamo che viso avrebbe avuto lei, se fosse vissuta fino a poter invecchiare… Negli anni, in assenza di Ingeborg, è cambiato il suo modo di leggerla?
«Per me è sempre stato molto importante non solo leggerla, ma cercare di comprendere il suo sforzo di trasmettere le sue idee in un modo nuovo. Negli anni ’50 e ’60 si distingueva davvero, si era inventata un suo stile. Sono cresciuto con le sue parole, che hanno contribuito a modellare il mio pensiero. Ora, più li rileggo, più i suoi testi, che mi hanno reso quello che sono, continuano a rivelarmi aspetti – di lei, di me – che non avevo ancora compreso».
Nel 1962, andò a trovarla a Roma e le scattò una serie di fotografie bellissime che spesso compaiono sulle copertine dei suoi libri. Immaginava che sarebbero diventate così celebri?
«Come fotografo ero un principiante assoluto, e a dirla tutta non è che poi abbia fatto grandi progressi. Ma ho scattato quelle foto con amore. È raro che su oltre settanta scatti la maggior parte sia quasi perfetta. Capita che il soggetto chiuda gli occhi, ad esempio, per una frazione di secondo. Invece sono venute quasi tutte bene. Lei era felice che l’esperimento fosse riuscito, io anche: non ho mai fatto foto tanto belle in vita mia, né prima né dopo. Un colpo di fortuna. Comunque, oltre alla serie scattata da me, rimangono tante fotografie di lei. Nell’archivio Frisch c’è una foto di loro due insieme sulla terrazza di via De’ Notaris [dove vissero insieme, ndr], scattata da Mario Dondero, in cui lei porta un vestito con la gonna a losanghe: ne abbiamo ritrovata un’altra di lei sorridente con lo stesso vestito, sembra proprio una ragazza. È la foto a cui penso quando penso a lei».
Qual era il tratto principale della sua personalità?
«Parecchie persone sono convinte che fosse molto seria, quasi severa. In realtà, anche se certo pensava con una logica limpida, rigorosa, era soprattutto divertente. Amava raccontarci piccole storie buffe. Persino dopo la rottura con Max Frisch… È vero, ha vissuto un periodo cupo, ha sofferto. Ma man mano che si riprendeva dallo shock, i suoi tratti più felici sono riapparsi. Per noi vederla rifiorire è stato bellissimo. Parlo per me e per Isolde, la sorella di mezzo».
Isolde e Ingeborg avevano solo pochi anni di differenza.
«Isolde è in vacanza in Grecia. Ha 95 anni. Viaggia da sola, è molto in forma».
Nell’autunno ’73, mentre Ingeborg era ricoverata al Sant’Eugenio, il marito di Isolde, Franz, morì in un incidente stradale, lasciandola sola con sei bimbi…
«Una coincidenza tremenda. Per molti anni non sono riuscito a parlare di quel periodo. Oltretutto si era diffuso il sospetto che mia sorella fosse stata uccisa: era completamente assurdo, ma è una cosa che succede, quando muoiono persone famose. Si spargono le voci più incredibili. E accadeva anche prima dei social media».
A proposito: sua sorella era felice di essere famosa? In molti filmati sembra timida.
«Era timida. Le interviste la mettevano a disagio, e credo che la sua reputazione di persona molto seria sia nata anche da questo. Intellettualmente, come dicevo, era seria, sì: ma nella vita di tutti i giorni veniva fuori la sua personalità buffa, aperta. Recentemente ho ritrovato un’intervista in cui parla in italiano. È così diversa rispetto a quelle in tedesco! Sembra molto più felice, a suo agio, spumeggiante».
Ci sono registrazioni in cui legge poesie in un bellissimo italiano: aveva tradotto Ungaretti, era ormai la sua seconda lingua. E nel documentario-intervista girato da Gerda Haller nella sua ultima estate, ride molto. Ha visto il film che le ha dedicato Margarethe von Trotta, Viaggio nel deserto?
«Prima di iniziare la lavorazione la regista mi ha voluto incontrare, abbiamo parlato a lungo. Quando ho visto il film, sono rimasto affascinato. Mostra i suoi due lati. La sua attitudine alla felicità. E la malinconia».
Vicky Krieps, l’attrice che l’interpreta, mi è parsa molto convincente. Ma non so che effetto possa aver fatto a lei…
«Incredibile. È stato sconvolgente. Il modo di muoversi, la postura… la voce. Mi è sembrato di sentire mia sorella».
Nel film, Ingeborg appare molto sola in un mondo intellettuale ancora dominato dagli uomini.
«Sì. C’è una scena in cui fa un discorso davanti a una platea di soli uomini, anziani, austeri. Mi ha fatto ripensare a una lettera che ci aveva spedito a casa – ce ne mandava di molto divertenti. Diceva: “Sono sempre insieme a questi uomini, a parlare con loro di cose serie, e intanto le loro mogli se ne stanno lì sedute a bere il caffè”».
È stata una pioniera: una poetessa, donna, sulla copertina dello Spiegel nel ’54. Ma nella vita non è stata sola: ha avuto molte amiche. Volevo chiederle di Maria Teofili, che a Roma per anni l’ha aiutata a gestire le faccende pratiche. Era una buona amica, credo…
«Molto. È morta qualche anno fa. L’ho incontrata diverse volte quando sono stato a trovare mia sorella a Roma. E ci ha dato una mano anche all’epoca dell’incidente: quando abbiamo dovuto liberare l’appartamento di Palazzo Sacchetti, con Sheila, lei era lì ad aiutarci. La comunicazione era un po’ difficile, perché io non parlavo italiano. Ma so quanto è stata importante per Ingeborg».
Ho incontrato varie persone che l’avevano conosciuta, come Ginevra Bompiani, Moshe Kahn… ma anche chi l’ha amata attraverso la sua opera. Ogni volta ho la sensazione di un legame speciale, affettuoso. Credo che sia dovuto al fatto che la sua scrittura è toccante in un modo che non può lasciare indifferenti. Capita anche a lei di avere questa percezione?
«Mi piacerebbe che chi la legge potesse comprendere quanto fosse straordinaria non solo sul piano intellettuale, ma anche umano. Non era una persona astratta, era una donna gentile. Chi l’ha conosciuta lo ricorda, solo che il tempo passa e sono sempre meno le persone che hanno avuto l’occasione di frequentarla. Ma spero che la sua immagine viva per sempre».
(Corriere della sera, 18 dicembre 2023)
di Franca Fortunato
Quando nasce una bambina o un bambino è la vita che viene al mondo grazie al Sì di una donna, come la ragazzina di nome Maria che secoli fa in Palestina, a Nazareth, acconsentì alla venuta del bambino divino che nacque povero in una stalla, al freddo e al gelo, riscaldato da un bue e da un asinello, visitato dai pastori, accorsi a adorarlo, e dai Re Magi, venuti da lontano per portare oro incenso e mirra. È così che da duemila anni a ogni Natale si rinnova quell’evento inaudito, non con l’albero o i regali di Babbo Natale, ma col presepe, almeno per la mia generazione, dove si aspetta la notte di Natale per deporre nella grotta il bambinello Gesù. Ogni anno mi chiedo dove stia nel nostro tempo il senso del Natale che è vita, speranza, amore che ogni nascita porta con sé. Quest’anno Maria in Terra Santa non riuscirà a salvare la sua creatura dalla strage degli innocenti che si sta consumando a Gaza. Ogni volta che muore una/un bambina/o si fa buio, e quando sono migliaia e migliaia a morire, come a Gaza e in tutte le guerre, le tenebre della notte avvolgono l’umanità. A Gaza, bambine/i lasciati senza cibo, senza acqua, senza farmaci, muoiono sotto i bombardamenti israeliani (18.000 i morti, un terzo bambine/i). Neonate/i, abbandonate/i negli ospedali, prima di essere bombardati, muoiono nelle incubatrici per mancanza di elettricità. Ospedali, case, scuole, biblioteche, siti storici e archeologici, campi profughi, tutto distrutto e raso al suolo con la stessa furia con cui Tito, l’imperatore romano del III secolo d.C., entrato a Gerusalemme assediata, distrusse il Tempio e costrinse gli ebrei alla diaspora. Oggi Tito sono gli israeliani che con l’esercito più potente del mondo hanno assediato e invaso Gaza e la stanno radendo al suolo, spingendo i palestinesi fuori dalla loro terra. A Gaza non c’è una mangiatoia dove trovare riparo dai bombardamenti ma solo “poveri cristi”, che aspettano di morire. «Ora non ci resta che aspettare la morte: che sia dagli aerei, o per fame o per malattia», scrive nel suo diario da Gaza sud Aya Ashour (Il Fatto Quotidiano, 12/12/2023). Questo non è “diritto alla difesa” ma vendetta, ritorsione, terrorismo, genocidio come risposta all’attacco terroristico di Hamas. Ripulire Gaza dai palestinesi, dagli arabi come li chiamano i sionisti nazionalisti perché per loro la Palestina non esiste, non è mai esistita e non esisterà, è la strategia che Netanyahu e il suo governo stanno perseguendo come anche i coloni da anni nella Cisgiordania occupata. Coloni che, come riporta nei suoi reportage su La Stampa Francesca Mannocchi, pensano che oggi, dopo la Nakba (catastrofe) del 1948, sia arrivato il momento di portare a termine il sogno di quel gruppo di giovani sionisti che nel 1882 scappò dai pogrom dello zar di Russia ed emigrò in Palestina per conquistarla e colonizzarla e «farne un rifugio sicuro per gli ebrei perseguitati in Europa». «Un solo Stato per un solo popolo», è questo, da sempre, il progetto dei coloni e dei sionisti nazionalisti, oggi al potere in Israele. «Uno Stato che si chiami Palestina – dicono i coloni di Cisgiordania – non è realizzabile. Gli ebrei hanno diritto ad avere uno Stato e averlo da soli. Ci sono tanti Stati arabi, dove i palestinesi possono essere dislocati». «La speranza di una convivenza non è più possibile e dovete prenderne atto come ne abbiamo preso atto noi. Non si tratta più di discutere la pace […], si tratta di accettare la fine di una impossibile coesistenza. Prima lo fate, prima possiamo vivere nel nostro Stato, perché non abbiamo un altro posto dove stare, a differenza degli arabi». Non cercate il Natale dove c’è guerra, odio e violenza. Non cercatolo a Gaza. Non lo troverete.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 16 dicembre 2023)
da Per amore del mondo (rivista di Diotima, dicembre 2023)
La gloria dell’Ucraina non è ancora morta,
né la volontà.
Ancora su di noi, giovani fratelli,
il destino sorriderà
(Inno nazionale ucraino)
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta
Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa
Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte
Siam pronti alla morte, Italia chiamò
(Inno nazionale italiano)
Sii gloriosa, nostra patria libera,
unione eterna di popoli fratelli
(Inno nazionale della Federazione russa)
Klondike, “Restare a casa”, è un film della regista ucraina Maryna El Gombach, premiato a gennaio 2022 al Sundance Film Festival e a febbraio, pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, alla Berlinale. È un film duro e terribile. Racconta la storia di Irka, una donna incinta che vive con suo marito e suo fratello in un villaggio del Donbass quando, nel 2014, comincia la guerra civile fra l’esercito nazionale ucraino e la minoranza separatista sostenuta dai russi. I tre abitano in una casa isolata immersa in un paesaggio desolato, che si trasforma essa stessa in teatro di guerra quando il crollo di un muro di cinta fa saltare ogni confine fra dentro e fuori, fra pubblico e privato, fra personale e politico, fra normalità quotidiana ed emergenza. Non è solo che la guerra entra in casa, come nelle immagini che dal giorno dall’invasione russa documentano i bombardamenti, gli edifici sventrati, gli scantinati trasformati in rifugi antimissile; nel film la casa diventa propriamente il set della guerra, di una guerra che sconfina a sua volta dall’esterno all’interno della famiglia stessa, fra il marito della protagonista che sta con i separatisti e il fratello che sta con l’esercito ucraino. Irka invece non sta con nessuno. Tenta per tutto il film di mantenere la sua regia delle cose domestiche, impartendo compiti ai due uomini che però sfuggono al suo controllo per obbedire al richiamo delle armi. All’inizio delle ostilità il marito le consiglia di trasferirsi in città per partorire in ospedale, ma lei non si muove, decide testardamente di restare lì, di resistere e di partorire in casa senza l’aiuto di nessuno.
Le cose precipitano, i due uomini finiscono ammazzati insieme dai soldati russi, Irka resta sola nella sua casa-set e da sola mette al mondo suo figlio, in una lunga sequenza finale che è una presa diretta volutamente iperrealistica del travaglio, del parto e del taglio del cordone ombelicale, e in cui salta un ulteriore confine, quello fra umano e animale. Il bambino, un cucciolo minuscolo, viene finalmente alla luce, e si potrebbe pensare che questa nascita voglia essere un lieto fine, la vittoria della vita sulla morte e del materno sulla distruttività maschile. Invece no. L’effetto, al contrario, è di un materno che ridotto a ostinazione biologica – a “nuda riproduzione”, potremmo dire parafrasando l’abusata “nuda vita” di Agamben – perde senso. Ed è di un crescendo in cui la forza della resistenza rischia di diventare altrettanto cieca di quella dell’aggressione a cui risponde.
Restare, andare
Come tutti i buoni film, Klondike tocca l’inconscio e lo mobilita, attivando e autorizzando associazioni libere e domande scomode che la razionalità censura. Così almeno è accaduto a me per entrambi gli effetti che ho appena menzionato, ovvero per il senso che nel film assumono la resistenza e il materno, nonché il nesso che in qualche modo li lega. Comincio dalla resistenza, con una premessa, che riguarda la mia remora ad accettare l’analogia fra la difesa degli ucraini dall’invasione russa e la lotta partigiana da cui è nata la nostra Repubblica, analogia che nel discorso pubblico italiano è stata decisiva per dettare i termini non tanto della solidarietà quanto dell’identificazione con la causa ucraina. La resistenza italiana ebbe com’è noto due facce, quella della guerra di liberazione nazionale dall’invasione tedesca e quella della guerra civile di liberazione dal regime fascista; divise il popolo italiano fra fascisti e antifascisti, nonché il fronte antifascista al suo interno, e fu non malgrado ma grazie a queste divisioni che nacque una Repubblica antifascista e pluralista, costitutivamente e positivamente contrassegnata dalla diversificazione ideologica e dal conflitto politico. Diverso è il caso della resistenza ucraina, dove la controfaccia dell’indubbio coraggio eroico di un popolo che si mobilita compattamente contro l’invasore è un nazionalismo senza eccezioni e senza dissenso, che non divide ma uniforma il popolo ucraino attorno al suo commander in chief e all’investimento identitario sulla propria terra, sulla propria lingua e sulla cancellazione della lingua del nemico, sul taglio drastico delle radici culturali che lo legano al popolo russo. E non è affatto automatico che questa passione identitaria e nazionalista preluda alla fioritura di una democrazia, come sostiene la narrativa mainstream ucraina e occidentale, o bisognerebbe almeno chiedersi di quale tipo di democrazia stia gettando le basi.
È precisamente il legame identitario con la propria terra e la propria casa il nucleo emozionale ambivalente di Klondike, dove la resistenza della protagonista si spinge fino a un punto di messa alla prova di sé che ci interroga non sui meriti riconosciuti ma sui limiti sottaciuti della resistenza tout court: qualunque resistenza, non solo quella ucraina – a me, ad esempio, è capitato di pormi domande analoghe su quella palestinese1. Fino a che punto la resistenza a ogni costo è moralmente superiore alla resa, o alla diserzione o all’esodo? C’è un punto in cui la resistenza dell’aggredito diventa simile o speculare alla violenza dell’aggressore, e soprattutto si trasforma in violenza su di sé o in un sacrificio di sé autodistruttivo, che è facile ma non saprei quanto morale incoraggiare e sostenere da lontano? La protagonista del film che per partorire a casa sua mette a rischio la nascita del figlio fa una scelta moralmente encomiabile o sarebbe più responsabile, per lei e per il nascituro, smettere di resistere, andarsene e partorire in condizioni più sicure? Chi potrebbe accusarla, in questo secondo caso, di essersi arresa, o di aver disertato?
Allo scoppio della guerra molte ucraine che avrebbero potuto andarsene hanno deciso, come Irka, di restare, a rischio della propria vita o per tutelare la vita degli anziani impossibilitati a muoversi. Ma molte altre hanno deciso invece di andarsene, portando con sé i figli e lasciando i mariti a combattere, a costo di diventare profughe a disposizione del mercato del lavoro marginale europeo. In un caso e nell’altro la narrazione mediatica ha seguito e convalidato gli stereotipi di genere più scontati, descrivendo quelle che restano come eroiche guardiane della casa e quelle che vanno come madri mosse dalla disperazione, senza indagare le ragioni soggettive reali dell’una e dell’altra scelta. Ma quali che siano queste ragioni, la scelta di chi va non è meno coraggiosa o meno moralmente encomiabile di quella di chi resta, e verosimilmente non è motivata solo dalla disperazione ma anche dal rifiuto di una situazione insostenibile. “La guerra non ha un volto di donna”, ha scritto Svetlana Aleksievic2, e noi sappiamo dalla sua straordinaria raccolta di testimonianze quanto la partecipazione delle donne sovietiche alla Seconda guerra mondiale abbia segnato indelebilmente la memoria femminile in quei due paesi, la Russia e l’Ucraina, allora fratelli e oggi lacerati da una guerra fratricida, rispetto alla quale la decisione di disertare andandosene non è meno significativa politicamente di quella di partecipare restando: come la storia del femminismo insegna, la separazione femminile dalla politica come dalla guerra fra uomini è sempre un taglio polemico nei confronti dell’ordine socio-simbolico vigente.
Non sappiamo e non sapremo mai, invece, quanti uomini, ucraini e russi, avrebbero scelto di andarsene e disertare se non fossero stati costretti a restare e combattere da una coscrizione obbligatoria e spietata in entrambi i loro paesi: le stime occidentali, molto approssimative, parlano di circa 400.000 russi e di 650.000 ucraini fra i 18 e i 64 anni. Ma quello che trapela dalle inchieste sul campo racconta di una resistenza maschile diffusa all’arruolamento forzoso tanto in Russia quanto in Ucraina, di proteste contro l’esaltazione dell’eroismo silenziate con la violenza, di fughe e diserzioni motivate con il rifiuto di “un massacro senza senso fra popoli fratelli” e sostenute da organizzazioni di volontari oltreconfine3. Ed è quanto basta per incrinare la compattezza nazionalista delle due propagande che si fronteggiano sul campo e nella sfera mediatica.
Vista dalla prospettiva non di chi resta e resiste ma di chi diserta e se ne va la guerra d’Ucraina cambia sensibilmente i suoi connotati, e diventa indicativa di una più generale tendenza all’esodo e alla sottrazione che nelle più svariate parti del mondo si va configurando come forma di rivolta, o quantomeno di rifiuto senza ritorno, contro condizioni di vita impraticabili e inaccettabili. Si scappa dalle guerre, dalle conseguenze delle guerre, dai dopoguerra senza pace, dai regimi liberticidi, dalla catastrofe climatica, dalle persecuzioni politiche e dalle oppressioni patriarcali, dalle identità imposte, dalla fame senza scampo e dalla povertà senza futuro, come dimostrano le masse di migranti, uomini e donne, che ogni giorno sfondano confini proibiti. Si fugge dal lavoro che divora la vita e dall’imperativo della prestazione che la colonizza, come dimostra l’ondata di “grandi dimissioni” innescata dalla pandemia che dagli Stati uniti rimbalza anche in Europa e in Italia, preceduta, già prima della pandemia, dalla pratica Tangping in Cina. E si secede da democrazie ormai in crisi cronica e cronicamente incapaci di mantenere le loro promesse, come dimostrano i tassi di astensionismo in crescita vertiginosa in paesi come l’Italia4. Sono forme di esodo di cui stentiamo a riconoscere la valenza politica, ma che si impongono laddove il potere, in guerra e in pace, diventa così autoreferenziale e sordo da rendere ininfluenti e neutralizzare le forme di protesta e di conflitto tradizionali che presuppongono ancora una qualche fiducia nella partecipazione e nella rappresentanza.
Figure del materno
Vengo alla questione del materno. La protagonista di Klondike resta e resiste, resiste e resta, legando la sua gravidanza alla sua casa e alla sua terra: è la figura di un materno che si fa garante della continuità fra il territorio e la specie, la proprietà e la procreazione, la nazione e la generatività, una continuità che nel film confina con il mostruoso.
Questa figura del materno non proviene solo dall’Ucraina: al contrario, è un indicatore saliente delle tendenze che accomunano trasversalmente i due campi in lotta che la logica della guerra vorrebbe divisi verticalmente. È una figura altrettanto presente nella Russia di Putin, dove l’ingiunzione a procreare e l’eroicizzazione della madre prolifica sono due pilastri di un “neoimperialismo biopolitico”, com’è stato definito, mosso dalla convinzione che la tendenza alla denatalità rappresenti una minaccia per la sicurezza della nazione, e volto a contrastarla da un lato con la rivalutazione del destino materno tradizionale, dall’altro con l’annessione e la cittadinanza forzosa di pezzi di popolazione ucraina, compresa l’ignobile pratica dei trasferimenti dei bambini in atto dal 2014 e intensificata dopo l’invasione5. Ma la stessa figura compare nel campo occidentale, si allunga da una sponda all’altra dell’Atlantico e fa i suoi giochi nella trasformazione dell’Unione europea che abbiamo conosciuto fin qui in quella che si affaccia sotto le insegne nazional-sovraniste. Non per caso la Polonia, il paese che esce più rafforzato dalla guerra in Ucraina e che ambisce a un ruolo egemonico nell’Europa futura, è stata nell’ultimo decennio la punta di diamante di una lotta senza quartiere alla possibilità per le donne di abortire, una lotta arrivata fino alla schedatura delle gravidanze e costata troppe vittime. Non per caso l’attacco all’aborto è stata la prima e principale bandierina piantata dalla Corte suprema americana a maggioranza trumpiana, con la conseguenza, in alcuni Stati, dello stesso rischio di schedature. E non per caso l’attacco all’aborto avanza anche in Italia, insieme con la glorificazione della madre come madre della nazione, chiamata a contrastare la denatalità e a scongiurare la “sostituzione etnica” minacciata dai migranti africani con la procreazione fra italiani bianchi: il tutto controfirmato da una donna che guida un partito denominato “Fratelli d’Italia” – un nome che è un programma, nonché una pista, come vedremo, per guardare anche fuori dai confini nazionali.
Dappertutto dunque è in atto un percorso a ritroso rispetto a quello compiuto dal femminismo dagli anni Sessanta del Novecento in poi. Col femminismo la maternità, da destino prescritto che era, è diventata scelta consapevole; oggi le politiche nazionaliste puntano a farla regredire da scelta a destino. Tanto più questo processo regressivo interroga il femminismo della differenza che notoriamente ha scommesso sulla risignificazione della madre, ovvero sulla possibilità di dissequestrarla dall’immaginario patriarcale per farne principio simbolico di genealogia, relazionalità, autorità e autorizzazione femminile: anche da questo punto di vista c’è una regressione, dal simbolico femminile all’immaginario patriarcale e nazionalista. Ed è un abbaglio pensare che fra la risignificazione femminista e la rivalutazione nazionalista del materno si possano aprire spazi di intesa – ad esempio, come qualcuna ha ipotizzato in Italia, sul terreno del rifiuto della maternità surrogata.
Al posto di Elena
Quando è in gioco il materno è in gioco la differenza sessuale ed è in gioco la donna, che tuttavia non è riconducibile solo alla madre. Nell’immaginario patriarcale c’è un nesso che le lega entrambe e immancabilmente, la donna e la madre, alla guerra, scindendone le figure e assegnando a ciascuna una funzione di supporto al sistema. Da un lato c’è la donna come preda, oscuro e idealizzato oggetto del desiderio, a copertura della pulsione di morte che muove irrazionalmente ogni guerra: nella guerra di Troia, ha scritto Simone Weil, di Elena non importava nulla a nessuno di coloro che se la contendevano salvo Paride, eppure lei fungeva da simbolo di una posta in gioco che “non poteva essere definita perché non c’era”, salvo rintracciarla nella radice delirante del potere6. Dall’altro lato c’è la madre, altrettanto idealizzata come garanzia di continuità della specie contro la stessa pulsione di morte, tanto più se si tratta di guerre condotte su base etnica o nazionalista: come scrisse Rada Ivekovic durante la guerra in Kosovo, “la reinvenzione fantasmatica di una comunità etno-nazionalista si basa sul delirio identitario della fratria maschile, che nell’aderire all’ordine patriarcale idealizza il corpo materno riducendolo a garanzia di purezza della razza o della nazione”, a costo di “una manomissione del tempo, che nei Balcani cancella almeno una generazione”.7 Sono due topoi, la madre idealizzata e la donna oggetto del desiderio, che “manomettendo il tempo” ritornano uguali in tutte le guerre, ma che nel corso del tempo e delle generazioni subiscono anche interessanti variazioni.
Ancora Simone Weil, in Non ricominciamo la guerra di Troia, scrive che nelle guerre moderne “il ruolo di Elena è svolto da parole ornate di maiuscole”, usate di volta in volta per giustificare razionalmente l’uso della violenza e occultarne la radice irrazionale: siamo nel 1937 e a Simone l’intero lessico politico novecentesco – nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia – appare già svuotato di senso, un catalogo di “astrazioni cristallizzate” incapaci di cogliere il reale ma buone per essere ripetute “ammucchiando rovine su rovine” in loro nome8. L’intuizione di Weil coglie l’essenziale della funzione di quelle che oggi, con un termine edulcorato rispetto ai più appropriati “ideologia” e “propaganda”, vengono definite “narrative” delle guerre. Eppure dobbiamo constatare che nelle narrative delle guerre cui stiamo assistendo da trent’anni a questa parte l’evocazione delle donne come posta in gioco è ridiventata esplicita: al posto di Elena non ci sono solo “parole ornate di maiuscole”, ma anche nuove figure, e fantasmi, dell’immaginario maschile sulla donna. Forse perché nell’arco di tempo che ci separa dallo scritto di Simone Weil la libertà femminile si è dispiegata a tal punto da richiedere, da parte degli uomini, una reazione di riappropriazione del dominio perduto che passa anche per la gestione militarizzata del conflitto fra i sessi. Le guerre diventano così un termometro dello stato di salute, o meglio della deriva di crisi, del patriarcato. E domandarsi quali figure o quali fantasmi della donna vengono messi, di guerra in guerra, nel posto di Elena aiuta a fare luce sulle costanti ma anche sulle variazioni del patriarcato in guerra, e delle forme di patriarcato che si fanno la guerra fra loro.
Ai tempi della guerra nei Balcani, il posto di Elena era alquanto affollato. C’era in primo piano la donna dell’altro, preda di quel marchio d’infamia dei nazionalismi in lotta fra loro che sono i cosiddetti stupri etnici. C’erano, nell’immaginario dei paladini occidentali del Kosovo già allora ossessionati dalla denatalità, le profughe kosovare, incarnazione di un femminile arcaico e sofferente, corpo materno senza parola ma molto prolifico. E c’era il fantasma minaccioso di Monica Lewinsky, la giovane donna che durante il sexgate americano aveva costretto Bill Clinton a dire la verità sulla loro relazione sessuale via Internet e a mostrare così urbi et orbi le crepe di una sovranità patriarcale lesionata irreparabilmente dalla fine della separazione fra pubblico e privato: il re era nudo, e forse anche per questo tentava di rivestirsi con la divisa armata della spedizione “umanitaria” in Kosovo. Legittimata in nome dei diritti dei/delle kosovare conculcati dal dittatore serbo Milosevic, la guerra “umanitaria” divise il femminismo italiano e occidentale, fra quante dell’ideologia dei diritti si fidavano e quante ne diffidavano in quella come in altre circostanze9.
Pochi anni dopo, nel ciclo delle guerre contro il terrorismo internazionale, il fantasma cambia: al posto di Elena c’è nientemeno che la libertà femminile, evidentemente diventata nel frattempo una conquista dilagante da addomesticare in qualche modo, nel nome della quale l’Occidente muove guerra all’Afghanistan e all’Iraq “per liberare le donne dal patriarcato islamico”. Parte consistente e decisiva della più ampia narrativa dello “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam, quella motivazione era falsa due volte: perché proiettava sul nemico “arcaico” il dominio patriarcale coprendone le permanenze all’interno dell’Occidente “moderno”, e perché, identificando la libertà femminile con la libertà occidentale, ignorava e mortificava la libertà femminile che esiste e circola anche nel mondo islamico. Anche in quel caso in femminismo si divise, fra quante in Occidentale aderirono alla narrativa dominante e quante in tutto il mondo la smontarono, mostrando gli elementi di trasversalità del patriarcato a est e a ovest, ricordando i limiti della libertà occidentale moderna disegnata sull’individuo neutro, valorizzando le pratiche di libertà femminile interne al mondo islamico: se la libertà femminile era posta in gioco noi femministe giocammo la partita, sottraendola alla colonizzazione da parte della retorica bellica e facendone al contrario la cartina di tornasole delle contraddizioni trasversali ai due fronti in guerra. Nuove contraddizioni emersero di contro anche in campo femminile: le donne-kamikaze, le madri che allevavano i figli a diventare kamikaze, e nel campo occidentale le zelanti soldatesse americane in carriera e le fotografie scioccanti di Lyndie England con il prigioniero iracheno al guinzaglio nella prigione di Abu Ghraib spazzarono via ogni residua illusione, peraltro da sempre malriposta, che le donne siano per natura e per storia estranee alla guerra o immuni dai suoi orrori, o che basti essere donna per fare la differenza10.
Oggi il quadro è assai diverso, e il femminismo, italiano e non solo, è più taciturno, stretto fra la sua vocazione pacifista e l’ingiunzione martellante a sostenere e armare l’Ucraina, rappresentata per giunta come vittima dello stupro di un vecchio patriarca autocratico e spietato. La libertà femminile è scomparsa dalla rappresentazione e dalla legittimazione della guerra: sulla scena mediatica – che certo non coincide con la realtà ma contribuisce a plasmarla, tanto più in una guerra in cui siamo arruolate come spettatrici prima ancora che come cittadine – restano solo due sagome femminili, apparentemente in contrasto fra loro ma solidali nella loro funzione di supporto dell’immaginario patriarcale. Da una parte le vittime perdenti e doloranti che restano a guardia della casa e degli anziani o se ne vanno con i figli incolonnate verso un’esistenza degradata, vestite come capita, spettinate e senza trucco; dall’altra parte le combattenti intrepide e vincenti, che sostengono la causa della guerra dai vertici delle carriere politiche o giornalistiche senza scarto alcuno dal linguaggio maschile, e al tempo stesso sempre perfettamente in linea con i canoni estetici della femminilità patinata. È l’antica scotomizzazione fra vittime passivizzate ed emancipate cooptate, ma non è mai apparsa così estrema e polarizzata: al confronto della vicepremier ucraina più guerrafondaia di Zelensky, o della portavoce del ministero degli esteri russo più spregiudicata di Lavrov, le prime marines che vent’anni fa si arruolavano nell’esercito americano per apprendere l’alfabeto della guerra, o le prime kamikaze che prima di suicidarsi nel nome di Allah guardavano con rimpianto le vetrine dei negozi, sembrano delle dilettanti della cooptazione nell’universo valoriale della virilità. Quelle che combattono oggi al fianco degli uomini sono donne che ce l’hanno fatta: hanno rotto il famoso soffitto di cristallo, maneggiano potere, lottano con una convinzione ai limiti del fanatismo per la propria nazione. E hanno una inquietante controfigura nella ragazza ucraina con il kalashnikov in mano e il lecca-lecca in bocca fotografata in una delle prime e più emblematiche immagini di questa guerra, triste prova di una femminilizzazione della pedagogia dell’orrore che ci riporta all’educazione fondamentalista dei giovani soldati della jihad islamica in quella che vent’anni fa era considerata la barbarie contrapposta alla civiltà occidentale. Quale desiderio supporta quel kalashnikov?
Nel posto di Elena stavolta non c’è un’altra sagoma o un altro fantasma di donna. C’è un giovane uomo, Volodomyr Zelensky, che come Elena vive nascosto ma a differenza di Elena compare ovunque, dai parlamenti ai festival del cinema e dal Vaticano alla copertina di Vogue, ovunque diffonde e pubblicizza la causa del “popolo più eroico e coraggioso del mondo”, come lui stesso lo definisce, con discorsi ogni volta perfettamente tagliati sulla circostanza e sul contesto, e ovunque incarna questa causa nella sua propria persona, piccola ma forte e scolpita dalla fitness, come traspare dalla t-shirt da cui non si separa mai, nemmeno quando va in visita dal Papa portandogli in dono una Madonna incisa su un giubbotto antiproiettile invece che un ramoscello d’ulivo. È lui il nuovo eroe di cui tutti improvvisamente sembrano aver bisogno a dispetto di Brecht, ed è lui l’oggetto d’investimento di quel desiderio di guerra che all’indomani dell’invasione russa ha pervaso l’Europa tracimando dalle penne dei più accreditati opinion maker nostrani. E si può capire perché lo sia. Agli occhi dei leader europei di democrazie sfigurate, erose dall’invecchiamento della popolazione e dalla precarizzazione delle giovani generazioni, “disordinate” dalla libertà delle donne e della galassia queer, ossessionate dall’arrivo dei e delle migranti, assediate da élite ciniche dall’alto e da popoli disorientati dal basso, il leader ucraino appare come una insperata cura ricostituente di un ordine politico, sociale e simbolico assai pericolante.
È giovane, sbandiera virtù ottocentesche (per fortuna) dimenticate come il coraggio e l’eroismo virili e le scaglia contro il vecchio padre-patriarca russo, chiamando a raccolta tutti gli altri giovani maschi e promuovendo le giovani donne disposte a fare proprie e rilanciare le virtù virili. Ha trasformato le sue doti attoriali in doti di leadership, riuscendo come forse nessun altro in quella fusione di comunicazione e politica cui aspirano tutti i leader post-novecenteschi. Guida un paese attraversato da una somma di contraddizioni originate congiuntamente dalla fine del socialismo sovietico e dalla governance neoliberale europea, ma le nasconde sotto la compattezza della nazione e del nazionalismo, come del resto fanno o tentano di fare le destre sovraniste dei paesi europei occidentali. Mette al bando i partiti d’opposizione, ma si intesta, nel plauso generale dell’Occidente, la titolarità della difesa della frontiera della democrazia in una guerra ultimativa contro l’autocrazia russa. È la figura che rappresenta come meglio non si potrebbe i sogni di ripresa di una virilità vacillante che non dà più identità, di una democrazia deformata che incorpora e metabolizza i veleni dell’autocrazia contro cui combatte, e di un patriarcato agli sgoccioli che si riorganizza come fratriarcato vincente. Il quadro è più complicato e più mosso di quello dipinto dalla narrativa occidentale mainstream, che delinea o sottintende l’ennesimo scontro di civiltà fra un patriarcato russo oscurantista da una parte e una democrazia paritaria ispirata alla gender equality dall’altro. Soprattutto se consideriamo che russi e ucraini erano un solo popolo fino a prima della guerra, sembra di assistere piuttosto al classico dispositivo edipico-patriarcale dell’uccisione del padre da parte di una fratria di giovani uomini pronti a consegnarlo alla storia per riformulare un patto socio-simbolico post- patriarcale, modernizzato e “democratizzato”, e basato non più sull’esclusione delle donne ma sulla loro divisione fra vittime perdenti e protagoniste vincenti, e sulla cooptazione di queste ultime nella piramide del potere.
Questo a me pare di poter vedere sul teatro di guerra ma da fuori, con uno sguardo condizionato dalla crisi delle democrazie occidentali e allarmato per il desiderio di guerra che le percorre. Ma da fuori non si vede tutto e si può vedere male; e infatti da dentro c’è chi ci accusa di presumere di vedere ma di non vedere niente. Una sosta nel dibattito femminista ucraino, russo e degli altri paesi post-sovietici aggiunge ulteriori e decisivi elementi al quadro.
Femminismi
La più decisa critica femminista interna al proprio campo è emersa in Russia, cioè nel paese aggressore, mentre è stata assai più flebile, comprensibilmente, nel paese aggredito e, meno comprensibilmente, nel fronte democratico occidentale che lo sostiene. All’indomani dell’occupazione dell’Ucraina, le femministe russe sono state fra i primi gruppi d’opposizione al regime a mobilitarsi contro la guerra e contro Putin, con un testo che gli attribuiva tutte le responsabilità dell’invasione (nonché della guerra nel Donbass in quanto conseguenza dell’annessione della Crimea), e chiamava le femministe di tutto il mondo a fare leva sulla “enorme forza mediatica e culturale” acquisita negli anni per trasformarla in peso politico di opposizione “alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo e al militarismo”, ricordando come questi termini siano legati fra loro e, nella Russia di Putin e Kirill, connessi all’introduzione di “valori tradizionali” (eterosessualità obbligatoria, disuguaglianza di genere, sfruttamento delle donne) e alla repressione di chi non vi si conforma11.
L’appello delle femministe russe è stato raccolto e rilanciato il 17 marzo 2022 da un secondo testo, firmato da oltre 150 femministe di tutto il mondo, che alla condanna di Putin aggiungeva quella delle “corresponsabilità” della Nato e del suo “espansionismo globale”, nonché il rigetto delle “decisioni che comportano l’aggiunta di più armi al conflitto e l’aumento delle spese di guerra”; e si schierava “con il popolo ucraino che vuole ristabilire la pace e chiedere un cessate il fuoco, e con i cittadini russi mobilitati che chiedono di fermare l’invasione militare”12. Una posizione ineccepibile – contro l’aggressione russa e contro una risposta all’aggressione orientata all’escalation invece che alla risoluzione del conflitto – duramente rigettata però da un terzo testo, stavolta di femministe ucraine, che rivendicava “il diritto di resistere” e il ruolo attivo delle donne, “al fronte e a casa”, nelle lotte di resistenza, “dall’Algeria al Vietnam, dalla Siria alla Palestina, dal Kurdistan all’Ucraina”13. Questo fondamentale diritto all’autodifesa degli/delle oppresse verrebbe negato, secondo le firmatarie, da “un pacifismo astratto che condanna tutte le parti in guerra e che porta a soluzioni irresponsabili”: occorre invece, prosegue il testo, tenere ferma “la differenza essenziale fra la violenza come mezzo di oppressione e come mezzo legittimo di autodifesa”. Non solo: gli obiettivi della lotta femminista contro il patriarcato, la discriminazione sistemica, il razzismo e lo sfruttamento permangono in tempo di guerra come in tempo di pace, ma “l’invasione russa ci obbliga a concentrarci sull’obiettivo generale della difesa della società ucraina: la lotta per la sopravvivenza, per i diritti e le libertà fondamentali, per l’autodeterminazione politica” viene prima di tutto il resto14.
La filosofa femminista ucraina Irina Zherebkina, voce molto attiva nel dibattito pubblico del suo paese sulla guerra, ha criticato entrambi questi manifesti, sostenendo che né l’uno né l’altro propone una prospettiva teorica femminista autonoma di opposizione radicale alla guerra e che ciò che li distingue è soltanto una differenza tattica, ovvero la postura anti-Nato nel primo caso, la postura nazionalista nel secondo. Nei confronti del femminismo nazionalista, tuttavia, Zherebkina è due volte critica, denunciandone non solo gli esiti nefasti nella congiuntura della guerra, ma anche la complicità costitutiva con il femminismo neo-liberale postsovietico, l’esaltazione acritica dei valori democratici, l’orientamento alla spartizione del potere più che alla sovversione dell’ordine patriarcale. Laddove secondo Zherebkina un pacifismo femminista radicale e autonomo dovrebbe battersi, nella scia tracciata da Judith Butler nei suoi testi sul dopo-11 settembre e ribadita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, per una solidarietà e una mobilitazione transnazionali, “basata sui valori femministi dell’interdipendenza e della cura” e dotata di un immaginario politico potente, “in grado di contrastare le fantasie fasciste di destra che oggi minacciano la democrazia e la pace”15.
Come non essere d’accordo? Salvo che però le posizioni di Butler sulla guerra in Ucraina sono solo apparentemente le stesse di quelle del dopo-11 settembre, anzi a ben vedere la mettono in contraddizione con sé stessa. Allora, la filosofia butleriana della vulnerabilità e dell’interdipendenza e la sua “critica della violenza etica” avevano un valore tanto più dirompente in quanto erano volti a contestare la contestazione della reazione bellica degli Stati uniti all’aggressione subìta: l’appello “scandaloso” di Butler era rivolto al suo paese affinché interrompesse la spirale della violenza evitando una reazione ritorsiva, nazionalistica e legittimata su base morale agli attentati dell’11 settembre, ed elaborando la scoperta della propria vulnerabilità come un dato comune all’umanità nel mondo globalizzato16. Che è un problema analogo a quello che ci pone oggi non tanto la sacrosanta resistenza ucraina all’invasione russa, quanto il suo sostegno armato e incapace di mediazione politica da parte del fronte occidentale. Sorprendentemente, però, nel caso dell’Ucraina la critica filosofica di Butler alla logica della violenza come logica fallocentrica mossa dalla pulsione di morte rimane, e così pure l’appello alla tessitura di pratiche politiche transnazionali contrapposte all’individualismo militarista maschile e ai rinascenti nazionalismi autoritari, ma il suo posizionamento politico cambia: non c’è traccia di critica della risposta armata occidentale all’invasione russa, lo schieramento a favore dell’Ucraina dev’essere incondizionato e in quanto femministe “dobbiamo riunirci per opporci alla violenza di Putin, indipendentemente dalle nostre opinioni sulla Nato e simili”17.
Va notato tuttavia che questa posizione pur nettamente ed esplicitamente filo-ucraina non basta a evitare a Butler gli strali appuntiti del femminismo ucraino nazionalista. Nella Conferenza transnazionale di solidarietà con le femministe ucraine tempisticamente convocata on line da Butler stessa, Irina Zherebkina e Sabine Hark il 9 maggio 202218, Tereza Hendl accusa la filosofa americana di “pacifismo epistemicamente ingiusto” e “ottimismo idealistico” solo perché Butler, intervistata sulla guerra da un giornale catalano19, aveva osato auspicare una rivolta democratica della popolazione e dell’esercito russi contro “la guerra di Putin” invece di invocare a gran voce armi per la resistenza ucraina, che per Hendl è l’unica forma di solidarietà femminista accettabile: “Una donna stuprata ha diritto all’autodifesa e non deve arrendersi al violentatore. Invece l’Ucraina dovrebbe accettare una vita “pacifica” sotto occupazione militare piuttosto che fare una lotta di liberazione armata?”. Chiunque si discosti o problematizzi questa prospettiva della “decolonizzazione” dell’Ucraina dall’imperialismo russo ricade nel “pacifismo epistemicamente ingiusto”, che consiste nell’ignorare le voci e le esigenze delle ucraine e nel perpetrare la visione suprematista e a sua volta coloniale della sinistra e del femminismo occidentali, sempre pronti a denunciare l’imperialismo americano ma a chiudere due occhi su quello russo, il quale peraltro non è un marchio esclusivo di Putin bensì “un’eredità socio-storica della Russia, della sua cultura e di gran parte della sua popolazione”. Risibili risultano in quest’ottica, va da sé, quelle femministe occidentali – tra le quali, per quello che vale, la sottoscritta – che “vedono le guerre come giochi maschili fra due ‘cattivi’, da cui la richiesta che entrambe le parti disarmino”20.
Si evincono facilmente da questa posizione di Hendl (e di altre come lei21) le linee di frattura che dividono il femminismo nazionalista da quello transnazionale, e che le stesse organizzatrici della Conferenza individuano nell’editoriale di presentazione degli Atti22. Da una parte le donne vengono arruolate nella causa nazionale, individuata come condizione di sopravvivenza che viene prima di tutto il resto; dall’altra parte, prima di tutto il resto c’è l’appartenenza alla comunità femminista internazionale, e a partire da questo posizionamento una critica “della nazione, dello stato-nazione e dello stato” che non può essere sacrificata nemmeno alle sacrosante ragioni della causa ucraina23. Da una parte vige la logica amico-nemico, cui anche la solidarietà dev’essere sottoposta, diventando così una solidarietà escludente, destinata solo alle ucraine e ostile alle “vicine di casa” russe e bielorusse, assegnate senza eccezioni al campo avverso; dall’altra parte la solidarietà si esprime in una tessitura relazionale che sfida e frantuma la logica amico-nemico, come nella pratica rivendicata di intensificazione delle relazioni fra ucraine, russe e bielorusse “per attraversare e demolire i confini militarizzati da Putin”24. Da una parte l’identità è data dai confini nazionali e si rafforza nella lotta per ripristinarne l’integrità; dall’altra parte c’è la consapevolezza che “l’identità delle terre di confine è incerta e ibrida e può portare all’accettazione dell’eterogeneità ma anche all’insicurezza e al fascismo”25. Da una parte c’è una pace condizionata alla vittoria, ovvero alla riconquista del pieno possesso dei territori usurpati dall’invasore, e dunque alla continuazione della guerra; dall’altra parte c’è l’avvertimento realistico che più lunga e dolorosa è una guerra, più “contaminata e violenta” sarà la pace, come insegna il dopoguerra serbo carico “di risentimento, negazione del passato, stabilità senza riconciliazione” e “saturo di una storia immaginaria in cui vittime e carnefici si scambiano di posto”26.
Il mantra della “gender equality”
Da una parte – infine ma non ultimo – c’è una denuncia rancorosa della frattura est-ovest che finisce col riprodurla e rafforzarla anche fra donne, dall’altra parte c’è il tentativo di superarla smontando i dispositivi che l’hanno prodotta dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione sovietica in poi, e che chiamano in causa pesantemente le responsabilità dell’Unione europea nella maturazione delle condizioni della guerra di oggi. Per tutte le partecipanti al dibattito, sullo sfondo permane, irrisolto, il nodo dello smarrimento e della crisi d’identità innescati dal crollo dell’Urss nelle società post-socialiste, sospese fra la paura di un ritorno del passato sovietico e un desiderio di europeizzazione presto frustrato dalle modalità di allargamento a Est dell’Unione. Ma mentre per il femminismo nazionalista il problema è sostanzialmente culturale e morale – la “ingiustizia epistemica” di cui le ucraine si sentono vittime e incolpano le femministe occidentali –, per il femminismo transnazionale le responsabilità risiedono nelle scelte politiche nazionali e sovranazionali che dall’89 in poi, a onta della retorica sull’unificazione dell’Europa, hanno riprodotto la frattura est/ovest, trovando precisamente nelle politiche di genere un laboratorio proficuo di esercizio e sperimentazione. Sotto accusa passa in primo luogo la “terapia d’urto” neoliberale, imposta da Ovest ma con il consenso degli apparati di stato postsocialisti dell’Est, che dopo il crollo dell’Urss ha trasformato, in Russia e negli ex paesi satelliti, l’economia sociale in economia di mercato, sostituendo il mito sovietico dell’”uomo nuovo” (e dell’emancipazione femminile) con quello dell’individuo competitivo (e di una millantata “gender equality”). In secondo luogo, le conseguenti politiche del mercato del lavoro, strategicamente incentrate sulla creazione di un esercito di riserva di manodopera femminile migrante e precaria, proveniente dai paesi dell’Est e destinata a quei lavori di cura e assistenza lasciati scoperti dallo smantellamento, a Est e a Ovest, dello stato sociale. Infine, le politiche della natalità, dove alle limitazioni dell’aborto (realizzate, come in Polonia, e Ungheria, o programmate, come in Russia, o minacciate, come in Italia) si affianca lo sviluppo delle tecnologie riproduttive, come in Ucraina, dove la fiorente industria di maternità surrogata si configura come una vera e propria esternalizzazione della riproduzione delle coppie committenti dell’Europa occidentale, e gode di un vantaggio competitivo rispetto a quella di paesi come l’India e la Tailandia basato sull’offerta di una garanzia di bianchezza delle madri surrogate e dei bambini commissionati27.
Il mantra europeista e neoliberale della gender equality, intonato peraltro sempre e solo riguardo alle carriere dirigenziali e politiche, nasconde una realtà fatta di sfruttamento e gerarchizzazione delle donne, che incrocia e gerarchizza le linee del genere, della classe e del colore e disegna nuove linee di attrito fra Est e Ovest. Le donne si ritrovano al centro dei processi di ridefinizione del vecchio continente basati su disuguaglianze spietate e insostenibili, ma cementate dalla paura del fantasma degli “altri” e delle “altre” che premono ai suoi confini. E l’analisi femminista, allenata com’è alla prospettiva intersezionale, scava dove la prospettiva geopolitica tradizionale non vede, e mette a fuoco le linee reali di frattura e di conflitto che le narrative nazionaliste occultano. E che non domandano l’arruolamento femminile al servizio, magari militare, delle nazioni di appartenenza, bensì la costruzione di reti di relazione transnazionali fra i paesi postsovietici e fra questi ultimi e i paesi europei occidentali – costruzione di cui peraltro la Conferenza in questione, con la sua pratica di ascolto reciproco fra situazioni diverse e posizioni divergenti, è un esempio eccellente.
Fratelli
Tuttavia qualcosa manca a questo pur fecondo dibattito femminista, e questo qualcosa ha a che fare con un uso troppo generico della categoria di patriarcato, che rischia di annegare nella continuità ripetitiva del dominio maschile le contraddizioni che emergono al suo interno e le discontinuità che vi ha introdotto e vi introduce la libertà delle donne e degli altri soggetti che alla norma patriarcale non si conformano. Detto in altri termini, se sono evidenti le marcature maschili e patriarcali di questa come di tutte le guerre, prima fra tutte la ritornante regolarità del tentativo di ripristinare i ruoli di genere tradizionali, rilevare questa marcatura non basta, e si rischia anzi di rafforzarla e darle più credito di quanto non ne abbia se non si rilevano al contempo le crepe e le contraddizioni interne al patriarcato che questa guerra rivela, le reazioni di rimessa violente ma impotenti del patriarcato alla libertà femminile che non cessa di affermarsi, le alleanze che il patriarcato stringe, modificandosi, con gli assetti politici, tutti traballanti, che in questa guerra sono in gioco: il neoimperialismo russo con la sua nostalgia di un impossibile ritorno al passato, l’impero americano minacciato dal proprio declino, le democrazie europee vacillanti, a ovest e a est, sotto il tiro incrociato del neoliberalismo, del populismo e dei rigurgiti di fascismo. L’urgenza di un’analisi accurata del presente si salda qui con il compito teorico di arricchire la riscoperta della categoria sempreverde di “patriarcato” da parte del femminismo di ultima generazione con gli apporti del pensiero della differenza italiano sulla modificabilità politica del patriarcato stesso, e sui segnali della sua crisi terminale. 28
Contestualizzata in questa cornice, la sintomatologia della guerra d’Ucraina dice qualcosa di più e di diverso da una riconferma, un ritorno o un ripristino del patriarcato. C’è un desiderio maschile di guerra sintomatico di una volontà di potenza lesionata, che ricorre alla guerra perché non riesce più a governare in pace e rispolvera l’eroismo a compensazione di una virilità destabilizzata. C’è un’impotenza politica e diplomatica generalizzata che sostituisce lo scambio di armi allo scambio di parole, e riproduce quel collasso della parola e della capacità di simbolizzazione che la teoria psicoanalitica associa all’eclissi della legge paterna. Ci sono due vecchi e consumati uomini potenti, Biden e Putin, nostalgici di un ordine bipolare perduto che tentano di ripristinare con l’antica logica amico-nemico, ma a cui tuttavia, a differenza dei loro predecessori del secolo scorso, non riescono più a dare né forma né senso. Sono tutti indicatori del fatto che la saldatura fra ordine simbolico e ordine politico che ha retto la storia della modernità è saltata, e che legge del padre non fa più ordine, né politico né geopolitico, in un mondo attraversato, a onta dei muri innalzati e dei confini militarizzati, da flussi di soggetti che a quella legge si oppongono o che ne prescindono, in primo luogo il flusso della politica delle donne che non si arresta né nei regimi democratici né in quelli autoritari29.
A questi padri decaduti tentano di sostituirsi, in attesa di consumarne le spoglie nella migliore tradizione edipica, fratrie altrettanto violente ma modernizzate, che non hanno più bisogno di escludere le donne come alle origini dello Stato moderno, bensì di includerle almeno in parte nella gestione del potere, di arruolarle come madri garanti della continuità della nazione e della stirpe, e talvolta perfino di cedere loro lo scettro della leadership: purché sia nel nome dei fratelli, com’è scritto negli inni nazionali e com’è ribadito nella sigla di un partito nato nel sempre solerte laboratorio politico italiano. La più trascurata ma anche la più ambivalente delle tre bandiere del 1789 che inaugurarono la modernità, quella della fratellanza, torna a mostrare la sua controfaccia misogina. Alle origini del femminismo fu precisamente la scoperta di questa controfaccia a farci separare dai nostri fratelli rivoluzionari. Quel gesto originario da cui nacque la politica delle donne torna a indicare tanto più oggi, in tempi di fratrie reazionarie, la strada dell’esodo e della diserzione.
(Diotima. Per amore del mondo. Edizione 19/2023)
- Mentre licenzio questo articolo l’efferato attacco di Hamas ai civili israeliani e l’altrettanto efferata risposta israeliana nella striscia di Gaza riaprono lo storico scenario del conflitto israelo-palestinese con un grado inedito di violenza e tragicità. In questo scenario le domande che pongo in queste pagine sulla resistenza, il restare e l’andare si pongono ovviamente anch’esse a un livello diverso e più alto di drammaticità che richiedono un’analisi ulteriore. Almeno sul punto dell’incremento di violenza senza politica che caratterizza i conflitti globali contemporanei rinvio comunque a Adriana Cavarero, Orrorismo, Feltrinelli, Milano 2007. ↩︎
- Svetlana Aleksievic, La guerra non ha un volto di donna, trad. it. Di Sergio Rapetti, Giunti/Bompianoi 2022. ↩︎
- Cfr. il docufilm Where is victory , trasmesso da Raitre il 7/8/2023 all’interno del ciclo Il fattore umano di Raffaele Pusceddu e Luigi Montebello e ora disponibile su Raiplay (https://www.raiplay.it/video/2023/08/Where-is-victory—Original-language—Il-Fattore-Umano—Puntata-del-07082023-9376cfdf-c3bb-4bce-9b5e-ab8462833ea3.html). La voce narrante è della regista e attrice lituana Hanna Bilobrova, compagna del regista e antropologo anch’egli lituano Mantas Kvedaravicius, ucciso molto probabilmente dai russi nell’assedio di Mariupol. Bilobrova ne ha recuperato e trasportato a casa il cadavere, e ne ha poi completato il film Mariupolis 2 sulla vita quotidiana durante la guerra, presentato al Festival di Cannes nel maggio 2022. ↩︎
- La variegata fenomenologia dell’esodo e la sua valenza politica sono state al centro di due seminari organizzati dalla Fondazione Antonio Ratti e da Ordet con il titolo La dimensione dell’esodo. Etica della diserzione, il primo a Como il 9 marzo 2023 con Franco Bifo Berardi, Zasha Colah, Alisa Del Re, Christian Marazzi, Cesare Pietroiusti (https://vimeo.com/807476618), il secondo a Milano l’11 maggio con Federico Campagna, Cristina Morini, Liliana Moro, Annie Ratti. ↩︎
- Cfr. Sasha Talaver, Russia’s War Is a failed Answer to Its Demographic Crisis, Jacobin 23/4/2023, https://jacobin.com/2023/04/russia-ukraine-war-putin-demographic-crisis-social-reproduction-biopolitical-imperialism. Quanto al trasferimento forzoso dei minori ucraini in Russia, sarebbero 700.000 i bambini trasferiti dal 2014 in poi, dei quali 260.000 dall’inizio della guerra: cfr. Paolo Mieli, Vaticano-Russia, la tela possibile, “Corriere della Sera”, 18/9/2023. ↩︎
- Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Ead., Sulla guerra. Scritti 1933-1943, a cura di Donatella Zazzi, Pratiche Editrice, Milano 1998, p. 56. ↩︎
- Rada Ivekovic, Effetti collaterali del patriarcato, “il manifesto” 22/5/1999. ↩︎
- Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia cit., p. 57. ↩︎
- Cfr. il mio Chi c’era stavolta al posto di Elena, “il manifesto” 10/6/1999. ↩︎
- Sulla posta in gioco della libertà femminile nel ciclo delle guerre contro il terrorismo internazionale scatenate dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati uniti rinvio al mio 2001. Un archivio. L’11 settembre, le war on terror, la caccia ai virus, manifestolibri, Roma 2021. Ma sul pacifismo femminista di fronte a tutte le guerre che si sono succedute dalla fine della Guerra fredda a oggi cfr. Maria Luisa Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, manifestolibri 2022. ↩︎
- Resistenza femminista contro la guerra, Fermare l’aggressione di Putin, “Jacobin Italia” 28/2/2022, https://jacobinitalia.it/contro-laggressione-militare-di-putin/ ↩︎
- Aa.Vv., Feminists Against War. A manifesto, 17/3/2022, https://spectrejournal.com/feminist-resistance-against-war/ ↩︎
- The Feminist Initiative Group, The Right to resist. A feminist manifesto, 7/7/2022, https://commons.com.ua/en/right-resist-feminist-manifesto/ ↩︎
- Questa posizione, compreso l’attacco al “pacifismo astratto”, verrà ribadita altre volte – ad esempio in un più recente Appello della società civile ucraina ai pacifisti, cofirmato dalla Rete femminista ucraina e da altre associazioni (https://www.vita.it/lappello-della-societa-civile-ucraina-ai-pacifisti-nulla-su-di-noi-senza-di-noi/) – e ricalca gli argomenti polemici di alcune voci della sinistra radicale ucraina nei confronti della sinistra radicale e dei movimenti pacifisti occidentali, accusati di “westplaining” e segnatamente di non sacrificare la critica alla Nato e ai governi occidentali alla priorità della lotta contro Putin. ↩︎
- Elisabetta Michielin, The feminist point of view on the Ukrainian war. Interview with Irina Zherebkina, “Pulpmagazine”, 3 agosto 2022, https://www.pulplibri.it/the-feminist-point-of-view-on-the-ukrainian-war-interview-with/Irina. ↩︎
- Cfr. di Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, a cura di Olivia Guaraldo, Roma 2004; Critica della violenza etica, trad. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2006; Frames of War, Verso, London-New York 2009. ↩︎
- Elisabetta Michielin, The feminist point of view on the Ukrainian war. Interview with Irina Zherebkina cit. Zerebkina cita il brano qui riportato dalla lettera inviata da Butler alla Conferenza transnazionale di solidarietà con le femministe ucraine del 9 maggio 2022, di cui parlerò ampiamente fra poco. Ma per la posizione di Butler sulla guerra in Ucraina cfr. Silvia Marimon, Judith Butler:“I am hopeful that the Russian army will lay down its arms”, “ara.cat”, 28/4/2022, https://en.ara.cat/culture/am-hopeful-that-the-russian-army-will-lay-down-its-arms_128_4353851.html ↩︎
- Transnational Feminist Solidarity with Ukrainian Feminists, on-line Meeting, May 9, 2022”. Gli Atti della Conferenza sono stati pubblicati e sono disponibili in PDF su “Gender Studies” 1922, n. 26, http://kcgs.net.ua/gurnal/26/. Ne raccomando la lettura, aldilà di quello che ne restituisce la mia breve rassegna. ↩︎
- Silvia Marimon, Judith Butler:“I am hopeful that the Russian army will lay down its arms” cit. ↩︎
- Tereza Hendl, Towards Accounting for Russian Imperialism and Building Meaningful Transnational Feminist Solidarity with Ukraine,“Gender Studies” cit. ↩︎
- Cfr. ad esempio Agnieska Graff, Solidarity with Ukraine, or: Why East-West still Matters to Feminism, “Gender Studies” cit, pp. 57-61, che ha parole particolarmente dure nei confronti del femminismo italiano. ↩︎
- Queste tre linee di frattura sono evidenziate anche dalle tre organizzatrici della Conferenza, nel loro editoriale di presentazione degli Atti, Feminism, War, Solidarity, “Gender Studies” cit., pp. 5-8. ↩︎
- Ewa Majewska, Solidarity with Ukraine – How do We Stay Together in a State of Exception, Invasion and War?, “Gender Studies” cit., p. 51. Ma v. anche quanto scrive la filosofa serba Adriana Zaharijevic (The Principle is to Always Cross Borders, “Gender Studies” cit., pp.106-7) a partire dalla sua esperienza di contestazione del regime di Milosevic negli anni Novanta: “Diventare femminista in Serbia mi ha insegnato che patriottismo e femminismo sono opposti. Come scrive Virginia Woolf, noi, in quanto donne, non abbiamo patria, il che vuol dire rifiutarsi di elevare frontiere in noi stesse, posizionarsi contro l’ordine basato sul sangue, sul suolo, sulla nostra stessa patria, contro gli antenati e i guerrieri”. E continua: “Faccio fatica, anche di fronte alla imperdonabile invasione dell’Ucraina, ad aver fiducia nel proprio, nella nazione, nello Stato”. ↩︎
- Ewa Majewska, Solidarity with Ukraine cit., p.50-51. ↩︎
- Ivi, p. 52. ↩︎
- Adriana Zaharijevic, The Principle is to Always Cross Borders cit., pp. 105-106. ↩︎
- Cfr. Olena Lyubchenko, Neoliberal Reconstruction of Ukraine: A Social Reproduction Analysis, “Gender Studies” cit., pp. 21-48. ↩︎
- Sulla riscoperta della categoria di “patriarcato” nel femminismo di ultima generazione cfr. Charlotte Higgins, The age of patriarchy: how an unfashionable idea became a rallying cry for feminism today, “The Guardian” 2018, 22/1. Sui segnali della fine del patriarcato messi in luce dal femminismo della differenza italiano, Aa. Vv, È accaduto non per caso, “Sottosopra” rosso, gennaio 1996. ↩︎
- Ho analizzato di recente questa dinamica a proposito del movimento delle donne iraniane nel mio Il corpo politico che muove l’Iran, “Italianieuropei” 2023/1. ↩︎
di Federica Iezzi
All’arrivo nella piccola stazione di Przemyśl, lungo il confine tra Polonia e Ucraina, ci aspetta un tè bollente. È nel “punto di accoglienza”, un angolino dedicato ai rifugiati ucraini che resiste fin dall’inizio del conflitto. È ancora buio. Le lunghe file davanti al binario 5 sono quelle dei passeggeri appena scesi dal treno proveniente da Kiev, che iniziano l’infinita trafila legata alle procedure di immigrazione.
Ma c’è anche chi torna indietro e aspetta l’orario di partenza del treno diretto a casa. Chi fugge in genere ha lo sguardo della paura, chi rientra quello della speranza. «Perché torni, Daryna?» chiediamo. «Perché devo aiutare le persone a casa. È meglio stare insieme», ci risponde, appesantita dal pensiero che la occupa. La guardiamo mentre si allontana tra il vapore bianco che si leva nell’aria e il suo zaino sulle spalle.
Nel freddo che ti trapassa le ossa e non ti lascia la capacità di pensare, file di persone e valigie tornano a casa. Tra gli alberi rimasti si guarda il quadrato di cielo fitto di stelle, nuvole alte e una luna quasi piena.
L’Ucraina resta sotto i bombardamenti, gli abitanti vivono nell’incertezza e nel terrore. Non esiste alcun collegamento aereo con il mondo esterno e nei Paesi vicini si può andare solo in autobus, in treno o in macchina. Ma chi sta fuori vuole rientrare.
Cosa attende chi torna in Ucraina?
Dita che si muovono come antenne di insetti, cercano l’app del meteo sul cellulare che segna -4°C. Il freddo si poggia senza pietà sul viso e ti accompagna fino a che non si sale sui vagoni riscaldati. Presto una voce metallica annuncia la partenza verso Kiev. E i bambini iniziano a correre dentro il treno come se fossero nel parco giochi.
C’è chi porta con sé sacchetti di plastica con il pane dentro. Chi si toglie strati di vestiti. Chi cambia il pannolino ai figli. Chi tiene in braccio il proprio gatto. E chi si aggrappa alle finestre dei corridoi, osservando distrattamente il paesaggio straniero che scorre come in un film.
Inizia il viaggio verso Kiev. Nella brulicante stazione di Ternopil’ sale Olena, con il suo bambino ancora nella pancia. Mentre fuori la neve imbianca i campi brulli, ci racconta che a Ternopil’ ci sono ancora tanti sfollati interni provenienti dall’est. Ha un maglione fucsia, un trucco appena accennato dello stesso colore della maglia e non sposta mai la mano dalla pancia. La guerra non le ha fatto perdere la sua bellezza di mamma.
«Ho una figlia di diciannove anni che sta combattendo a Avdiïvka – ci dice con gli occhi di un’anima annegata – Abbiamo una vita che non ci permettono di vivere». Le donne sono parte integrante delle forze armate ucraine. Ce ne sono 42.000 e 5.000 di loro oggi sono schierate sulle più attive linee del fronte: a Kupyans’k, Avdiïvka, Orichiv e Cherson.
È difficile raccontare i suoni che cercano di strappare il palcoscenico al silenzio, ma nel corridoio del treno corre una bambina bionda con un gioco musicale. È una musica mai sentita. È un suono che non si dimentica.
L’ultima fermata del treno è quella di Kiev. Fino all’estate scorsa chi arrivava veniva accolto da un paesaggio spettrale di case sbarrate e cortili ricoperti di alberi. Nessuno sui marciapiedi. Nulla è cambiato fuori. Gli ucraini continuano a morire. Uno degli eserciti più grandi del mondo continua a bombardare. A cambiare oggi sono le domande. Quanto pericolo sono disposto ad accettare? Qual è la cosa migliore per la mia famiglia?
«Non esiste un posto sicuro in Ucraina. È difficile descrivere cosa c’è di così speciale nella parola casa. È dove tutto ti è familiare, dove conosci le persone», ci dice Olena, asciugandosi gli occhi con la manica della maglia.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, più di 5,5 milioni di ucraini sono tornati a casa, e non solo nelle grandi città come Kiev o Dnipro, ma anche in piccoli centri, compresi quelli a ridosso delle linee del fronte. I mercati al coperto riprendono vita dentro una città innevata. Scaffali pieni di pacchetti decorati attirano l’attenzione dei passanti che fanno video per TikTok.
I russi hanno fatto a pezzi Bachmut, si sono avvicinati ad Avdiïvka e hanno raso al suolo piccole città sconosciute, che non sono nemmeno più sulle cartine. Ovunque si sentono costantemente colpi sordi, lo stesso rumore di una porta che si chiude. La paura è diminuita al suono delle sirene antiaeree. Olena ci racconta che vive in un edificio moderno, ma che non ha il gas per cucinare. Ha comprato un fornello da campeggio così può cucinare quando manca la corrente elettrica. Aggira i blackout, assicurandosi di caricare il suo computer e il telefono quando ha l’elettricità.
E mentre il freddo invernale non dà tregua al Paese, crescono le preoccupazioni che la Russia possa riprendere gli attacchi su larga scala a una già fragile rete elettrica, ripetendo la medesima tattica utilizzata nel 2022. Dunque, invece di inviare smisurate colonne di carri armati, come ha fatto inizialmente, la Russia oggi si sposta a un ritmo glaciale lungo le 1.600 miglia delle linee di forza, combattendo di fatto una guerra d’attrito.
«Il mio bambino nascerà a Kiev», ci saluta così Olena.
(Il manifesto, 14 dicembre 2023)
di Antonella Mariani
Lo scandalo già emerso nel 2015 si arricchisce delle testimonianze delle donne, raccolte in un podcast d’inchiesta. Le giovani incinte non sposate venivano accolte in case religiose
“Figlie della Chiesa” (Kinderen van de Kerk in fiammingo) è il podcast pubblicato dal sito hln.be (Het Laatste Nieuws) che in queste ore sta facendo discutere il Belgio. Vi si rivelano, attraverso testimonianze dirette, i contorni di uno scandalo che era già esploso nel 2015, costringendo il Parlamento fiammingo a presentare le sue scuse «per la reazione tardiva delle autorità alla segnalazione delle adozioni forzate», e che riguarda trentamila neonati tolti alle madri e dati in adozione, con la complicità di religiosi e religiose. I fatti si sono svolti tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e – incredibilmente – gli anni Ottanta: giovani donne non sposate, incinte, venivano accolte in casa famiglie, dove svolgevano lavori e anche – è l’accusa – sottoposte talvolta ad abusi. Al momento del parto, venivano sottoposte ad anestesia generale e al risveglio non vedevano più i propri figli. È ciò che racconta all’emittente Rtl, ad esempio, una donna che nel 1982 aveva ventitré anni, era stata mandata, incinta e non sposata, in una casa di accoglienza a Tamar, diretta da religiose. Trasferita in ospedale per il parto, le fu praticato un cesareo e non vide mai la sua bambina. La donna, Cyrilla, dice anche di essere stata sterilizzata durante l’intervento. La figlia di Cyrilla, scrive Rtl, è stata venduta per 100.000 franchi.
Le famiglie adottive, sostiene il podcast, pagavano il servizio una somma tra i 10.000 e i 30.000 franchi belgi. Il confine tra pagamento e donazione, in questo caso, potrebbe essere sottile, ma quel che è certo è che la Chiesa belga non intende sottrarsi alle sue responsabilità.
Il sito della Conferenza episcopale belga, cathobel.be, spiega che i vescovi hanno presentato le loro scuse alle vittime, riconoscendo «la sofferenza che un grande numero di madri biologiche e di bambini adottati hanno dovuto sopportare».
Il portavoce dei vescovi, padre Tommy Scholtes all’emittente Rtl ha aggiunto che si vuole «perseguire la verità in modo indipendente». Concretamente, scrive ancora il sito ufficiale cathobel.be, ciò significa «stabilire contatti per trovare gli archivi […]. Nella misura del possibile, la Conferenza dei vescovi desidera contribuire alla ricerca delle madri biologici e dei bambini adottati».
(Avvenire.it, 14 dicembre 2023)
di Lorenzo Tecleme
Capita alle Cop che paesi piccoli e medi, normalmente ignorati dalle cronache internazionali, si ritaglino un ruolo da inaspettati protagonisti. A Cop28, ancora in corso a Dubai, questo ruolo se lo sta prendendo la Colombia. E il merito è soprattutto della sua carismatica ministra dell’Ambiente e dello sviluppo sostenibile, Susana Muhamad.
Già prima della COP la Colombia, guidata per la prima volta nella sua storia da un governo di sinistra, ha inaugurato un nuovo piano contro la deforestazione e annunciato lo stop a ogni nuova licenza estrattiva nell’oil&gas. Non una scelta scontata per un paese che ancora al 2020 aveva il petrolio in cima alla lista dei beni importanti. A Cop28 il Paese ha aderito al Fossil Fuel non-Proliferation Treaty, una proposta di trattato internazionale modellato sulla falsariga degli accordi che portarono a fermare la corsa alle armi nucleari. È la prima nazione produttrice di idrocarburi a farlo. Ma soprattutto è la posizione colombiana al negoziato a stupire gli analisti. Come quelle di tutti i paesi in via di sviluppo, la delegazione guidata da Muhamad è estremamente critica coi paesi occidentali sul lato finanziario, accusandoli di non fornire al Sud globale i mezzi necessari alla transizione. Ma a differenza di buona parte del mondo non industrializzato e della stessa America Latina, la Colombia è radicalmente schierata a favore del phase-out, l’abbandono dei combustibili fossili. Una posizione tedesca sulla mitigazione e cubana su finanza e adattamento che spezza le contrapposizioni tipiche dei summit internazionali sul clima.
Artefice di questo modello è senza dubbio la ministra. Quarantasette anni, storica ecologista con una laurea in pianificazione dello sviluppo sostenibile alle spalle, fiera delle sue origini palestinesi. Al Majli, l’assemblea convocata da Al Jaber alla fine della prima settimana, si è fatta conoscere anche come oratrice. «Il suo intervento è stato davvero notevole, quasi non riesco a crederci» ha commentato su X l’analista Nathalie Jones dell’IISD. «Se riusciamo a concordare sul 2030 – ha detto Muhamad – facciamolo. Dobbiamo eliminare progressivamente i combustibili fossili e abbiamo bisogno di un nuovo accordo economico per farlo». Non solo l’appoggio al phase-out, ma anche un richiamo a una data, il 2030, dentro un negoziato in cui anche i più ambiziosi si concentrano sul lontano 2050. E ancora: «Chi triplicherà le rinnovabili (uno degli obiettivi negoziali, ndr)? Chi ha interessi sui prestiti al 5% o chi li ha al 30%? Dov’è l’equità per noi, che siamo immersi nel debito?». Il dito è puntato su quell’occidente che di cancellazione del debito e seri aiuti alla transizione nel Sud globale non vuole sentire parlare.
È un ruolo unico quello che Muhamad ha scelto per il suo paese. La parte del governo-attivista, che dice ciò che gli ecologisti vorrebbero sentire, è di solito propria delle piccole nazioni insulari, che hanno un grande impatto simbolico ma nessun potere concreto. Stavolta lo ha preso una nazione che, seppur non paragonabile alle grandi potenze, ha 50 milioni di abitanti e un’area di molto superiore a quella italiana. Alla fine del Majli, la platea ha risposto al discorso di Muhamad con un lungo applauso. Per ora, il più sentito di questa Cop.
(il manifesto, 13 dicembre 2023)
di Anna Maria Selini
È un quadro fosco quello dipinto da Guido Veronese sulla situazione tra israeliani e palestinesi. «Siamo a un punto di non ritorno – spiega il docente di Psicologia clinica all’Università Milano Bicocca, esperto di traumi collettivi in aree di crisi – e le conseguenze non riguarderanno solo i due popoli, ma tutti noi». Veronese conosce bene la Striscia di Gaza: la frequenta dal 2011, come formatore e supervisore in scuole e centri che si occupano di traumi, in particolare dei bambini. Il 7 ottobre, quando Hamas ha attaccato Israele, provocando la morte di 1.200 persone, era appena rientrato in Italia. Di lì a poco su Gaza si è scatenata la peggiore delle rappresaglie, ad oggi sono 18.000 le vittime palestinesi.
Professore, come valuta quello che è successo a partire dal 7 ottobre?
Quello del 7 ottobre è stato un evento unico, catastrofico, e forse un punto di non ritorno anche per Israele stesso. Dalla sua fondazione, nonostante il periodo degli attacchi suicidi compiuti dai palestinesi tra gli anni ’80 e 2000, non si è mai verificato un evento di questa portata e ciò ha creato un punto di discontinuità in termini di sicurezza. Israele doveva e deve essere per i suoi cittadini il luogo sicuro per eccellenza, anche se forse non lo è mai stato veramente, ma una retorica della sicurezza è sempre stata costruita. Con il 7 ottobre si è sbriciolata e il senso di sicurezza del cittadino medio è entrato totalmente in crisi.
E invece per i palestinesi?
Anche la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre non ha precedenti per magnitudine di distruzione. Quindi anche per i palestinesi rappresenta un punto di discontinuità in termini di sofferenza collettiva, ma a differenza degli israeliani, per i palestinesi, in particolare di Gaza, non c’era un senso di sicurezza precedente. Anzi, semmai in questo vi è una certa continuità, un’idea di precarietà, di senso di minaccia e di attacco che è sempre continuato e che dopo il 7 ottobre ha avuto una accelerazione.
Quanto c’entrano il trauma della Shoah da un lato e della Nakba – l’esodo forzato di oltre 700mila palestinesi nel 1948 – nelle reazioni dei due popoli?
Ci sono diversi livelli da tenere in considerazione. Il primo è quello del contemporaneo ed è qualcosa che ci riguarda un po’ tutti. Ha a che vedere con il privilegio delle società occidentali capitalistiche, quella presunzione di sicurezza e stabilità che diamo per scontata, ma che non lo è affatto, perché riguarda una piccolissima parte del mondo. Basti guardare la tragedia dei migranti e dei traumi collettivi che li portano a cercare una vita migliore in Europa. Israele da questo punto di vista è simile a noi: siamo molto spaventati di perdere questo privilegio e quando vediamo una persona sofferente, come il migrante, ci spaventiamo. Questa paura inferocisce, rende manipolabili e più facilmente razzisti.
A questo primo livello si aggiunge, nel caso di Israele, la questione della Shoah, in cui si innescano dei processi psicologici collettivi, ma anche delle patologie collettive. Perché avere a pochi chilometri da casa delle persone che soffrono in quella maniera e assolutamente non preoccuparsi per loro, ma addirittura in qualche modo partecipare a un processo di deumanizzazione nei confronti dei palestinesi, senza grossi rimorsi di coscienza trucidarli, come sta avvenendo, è un fenomeno patologico.
Mi ricorda un po’, più che gli ebrei che subivano lo sterminio, ancora una volta i tedeschi, che avevano i campi di sterminio a poche centinaia di metri o chilometri da casa e che non vedevano nulla. Il fatto che non vedessero ha un che di patologico e la società israeliana è vittima di questa patologia del non vedere.
Per quanto riguarda la Shoah, vedo anche un’altra cosa, il cosiddetto dirty game, gioco sporco: la tragedia della Shoah è stata ed è ancora molto sfruttata dalla retorica sionista, come la via per portare avanti un’agenda di dominio sui palestinesi, utilizzando la paura e forse anche tutto quello che rimane del trauma collettivo. Non so quanto questo possa fare presa sull’intera popolazione ebraica mondiale, che vive anche fuori da Israele il trauma transgenerazionale della Shoah. Sicuramente ha una forte presa sul senso di colpa occidentale, sulla nostra patologia collettiva, cioè quel senso di colpa che ci portiamo rispetto a quanto fatto, da europei e non palestinesi, nella Seconda Guerra mondiale nei confronti del popolo ebraico.
Quanto incide invece la Nakba sulle reazioni dei palestinesi?
Sicuramente ha fatto la differenza nella reazione attuale, così come in tutta la storia della resistenza palestinese. È qualcosa che fa parte della narrazione collettiva, che viene trasmessa di generazione in generazione, come un senso di deprivazione, spoliazione, perdita e con un aspetto del lutto che questo trauma porta con sé. È la perdita della terra, ma anche della dignità e di un numero impressionante di vite umane. Questo senso di insicurezza diffusa provoca una sofferenza collettiva, che in qualche modo porta anche a delle reazioni violente.
C’è poi un secondo livello, un altro tipo di trauma, che è il trauma del colonizzato: la reazione violenta che produce, che da un punto di vista di umanità potrebbe anche essere definita come ingiustificabile, è invece una reazione che assume senso, se la vediamo nei termini dell’impotenza e dell’umiliazione che vive il colonizzato. In tutti i processi di decolonizzazione c’è un aspetto atroce, violento e indicibile.
Si superano traumi del genere?
Se intendiamo che a un certo punto questi traumi storici e transgenerazionali spariscono, no. Ci saranno sempre, ma possono cominciare a coesistere, diventare una parte generativa nella storia dei due popoli. Il popolo ebraico dopo la Seconda guerra mondiale si è trovato di fronte a un bivio, che porta verso una storia di vita, quindi generativa, o una via di morte, fatta di una continua ripetizione degli aspetti negativi del trauma, della dinamica vittima-carnefice, con la possibilità che la prima si trasformi nel secondo.
Da un punto di vista psicologico, è possibile una pacificazione, un dialogo vero tra i due popoli?
Finché non c’è una riduzione delle asimmetrie di potere, credo non vi sia nessuna possibilità di contatto.
Ci sono i morti, ma anche i sopravvissuti. Come vivranno, in particolare i bambini?
Attualmente è molto difficile da dire, perché siamo ancora nella catastrofe, che è senza precedenti. Quello che fino adesso ho notato nel mio lavoro con i bambini palestinesi è una capacità di resilienza sorprendente, che ho visto però declinare negli ultimi anni, a favore dell’aumento del senso di oppressione, della chiusura e dell’assedio. Oggi ho veramente grossi dubbi che questa resilienza possa continuare ad esprimersi. Qualcosa di altamente catastrofico si è innescato e gli effetti li vedremo su tutta la popolazione mondiale, non so ancora in che termini.
Non si può fare nulla?
Si può agire solo nel momento in cui la crisi è stabilizzata e quindi l’unica cosa da fare ora è aspettare.
(AltraEconomia, 13 dicembre 2023)
di Alessandra Pellegrini De Luca
Maria Agnese Bellardita ha scoperto di essere stata adottata a ventott’anni: il giorno del funerale di suo padre una zia le disse che la donna che l’aveva partorita l’aveva lasciata davanti a una chiesa, e che i suoi genitori adottivi non avevano mai voluto che si sapesse. Molti anni dopo, al termine di una lunga ricerca che ha coinvolto il tribunale dei minori di Firenze, i Carabinieri e il suo avvocato, Bellardita ha scoperto una storia completamente diversa: a quella donna, che all’epoca aveva sedici anni, fu detto che la figlia era nata morta. Aveva partorito in un piccolo istituto per suore di Mozzo, vicino a Bergamo. I suoi genitori non volevano che lei crescesse la bambina, e d’accordo con le suore decisero di dare la neonata in adozione pochi giorni dopo la sua nascita.
Bellardita e la donna, ormai molto anziana, si sono incontrate per la prima volta il 23 dicembre del 2014, quasi dieci anni fa, nello studio legale delle nipoti di lei. Il loro è stato il primo caso in Italia di ricongiungimento tra madre e figlia o figlio non riconosciuto ottenuto attraverso il cosiddetto interpello, cioè la possibilità per le autorità di rintracciare una donna che abbia partorito in anonimato e chiederle, su richiesta del figlio non riconosciuto, se voglia revocare l’anonimato e incontrarlo.
È una possibilità prevista in diversi paesi europei, come Francia e Germania: in Italia è stata introdotta nel 2013, con una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il divieto allora in vigore di identificare la donna, previsto dalla legge sulle adozioni nazionali (dal 2001 quella legge prevedeva che le persone adottate potessero avere informazioni sui genitori biologici una volta compiuti i 25 anni, con l’eccezione proprio dei nati col parto in anonimato). La Corte ha anche chiesto al parlamento di fare una legge per definire con esattezza modi e tempi dell’interpello, cosa che non è ancora stata fatta: che si riesca quindi a contattare la donna per chiederle se vuole rimuovere l’anonimato o no dipende ancora molto dal singolo tribunale e dalla buona volontà dei singoli funzionari, con varie questioni irrisolte in mezzo.
Il diritto dei nati col parto in anonimato a conoscere le proprie origini biologiche è molto dibattuto, anche tra gli esperti, ed è stato oggetto di numerose sentenze di tribunali nazionali e internazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo: le decisioni al riguardo devono bilanciare il diritto della donna all’anonimato e all’oblio con quello dei nati a conoscere le proprie origini. Quest’ultimo diritto è stato progressivamente riconosciuto a livello internazionale negli ultimi decenni, sia da paesi che da organi sovranazionali come il Consiglio d’Europa, un’istituzione che si occupa di democrazia e diritti umani e non c’entra con l’Unione Europea (da non confondere con il Consiglio Europeo). In Italia, la Corte costituzionale lo ha legato all’articolo 2 della Costituzione, sui diritti inviolabili delle persone.
A oggi, e anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, prevale comunque la volontà della donna: se lei non acconsente a rimuovere l’anonimato, il nato o la nata non potranno sapere chi è ed eventualmente incontrarla.
La storia di Bellardita fu molto raccontata, nel 2014, anche perché nel frattempo lei era entrata in contatto con il Comitato per il diritto alle origini biologiche, che su questo tema è molto attivo e negli anni ha organizzato manifestazioni e scritto proposte di legge. Il giorno in cui Bellardita incontrò la donna che l’aveva partorita, questa le disse che un primo dubbio sul fatto che lei fosse davvero nata morta dopo il parto le era venuto mesi prima di essere contattata dal tribunale: quando al bar aveva letto un articolo sull’Eco di Bergamo in cui si parlava di una donna nata il 21 gennaio del 1955, proprio il giorno in cui decenni prima aveva partorito lei, che cercava la propria madre biologica.
La donna raccontò a Bellardita anche di quando tanti anni prima, giorni dopo il parto, aveva chiesto alle suore dell’istituto di portarla nel cimitero in cui avevano seppellito la bambina: «Le mostrarono una piccola croce con su scritto “Maria” e le fecero credere, d’accordo coi genitori, che io ero stata seppellita lì», dice Bellardita. Dopo questa vicenda ha aperto un sito in cui raccoglie appelli di figli non riconosciuti, di donne che cercano figli da cui per varie ragioni si sono separate alla nascita, e più in generale di persone che cercano parenti biologici di cui hanno perso le tracce.
Per fare ricerche di questo tipo sono nati anche diversi gruppi su Facebook, che negli ultimi anni hanno permesso a diverse persone di ritrovarsi. Molte persone utilizzano anche test del DNA fai-da-te, sempre più diffusi anche se non sempre affidabili rispetto alle informazioni che promettono di fornire.
«Ci sono tante storie come la mia, di donne molto giovani a cui veniva detto che i figli erano nati morti, magari perché la famiglia non era in grado di mantenerli o perché non voleva che la donna diventasse madre in quel momento», dice Bellardita. Sul suo sito si trovano anche appelli di donne che hanno dato in adozione i figli dopo il parto su spinta di compagni o parenti, magari in situazioni di difficoltà emotiva o economica e pentendosene in un momento successivo. Altre donne, anni dopo aver partorito in anonimato, hanno cambiato idea sulla possibilità di conoscere i figli non riconosciuti.
In Italia la legge sul parto in anonimato consente alla donna di partorire in ospedale in condizioni di riservatezza, gratuitamente e indipendentemente dalla nazionalità e dal titolo di soggiorno; e poi di non riconoscere il bambino, di cui viene constatato lo stato di abbandono e la conseguente adottabilità. La possibilità del parto in anonimato era stata introdotta con l’obiettivo di evitare gli abbandoni di neonati o gli infanticidi, ed è tuttora fortemente sostenuta anche da ambienti cattolici che la considerano anche un mezzo per limitare le interruzioni di gravidanza.
Col parto in anonimato, nell’atto di nascita del bambino viene scritto «nato da donna che non consente di essere nominata». Un’altra norma prevede che il nome della donna che ha partorito, così come la sua cartella clinica, restino segreti per almeno 100 anni: è la cosiddetta “legge dei cent’anni”, o più dispregiativamente definita da alcuni la “punizione dei cent’anni”, che quest’anno è stata anche l’argomento del film di Alessandro Bardani Il più bel secolo della mia vita, con Valerio Lundini e Sergio Castellitto.
Al parto in anonimato si fa ricorso per poche centinaia di nati l’anno, e i numeri sono in calo: nel 2007 erano stati 642, nel 2021 sono stati 173. Il Comitato per il diritto alle origini biologiche ha stimato che i figli non riconosciuti che fanno richiesta per l’interpello siano invece 300-400 l’anno. Nel 60 per cento dei casi l’esito è positivo, nel senso che la donna che li ha partoriti acconsente a revocare il proprio anonimato, dice la presidente del Comitato Anna Arecchia.
A chiedere l’interpello spesso le persone arrivano dopo aver scoperto da grandi che non erano nate dai genitori che li avevano cresciuti. Bellardita racconta di essersi fatta per la prima volta delle domande sulle proprie origini dopo aver trovato, rovistando in casa da ragazza, una scatola piena di lettere scritte da sua madre. Notò con un certo stupore che in corrispondenza della sua data di nascita, il 21 gennaio 1955, non c’era nessun riferimento a lei o a una qualsiasi gravidanza: anni dopo aveva chiesto a sua zia se per caso fosse stata adottata, e sua zia le aveva risposto di sì.
In altri casi l’interesse verso le proprie origini viene suscitato dalla percezione di qualcosa di non detto: Arecchia, la presidente del Comitato, ha raccontato per esempio di essere cresciuta in un posto molto piccolo in cui attorno alle sue origini e alla sua storia, diversa dalle altre, circolavano molti pettegolezzi: «Lo sapevano tutti, ma nessuno me lo diceva: appena mi sono trasferita in una città più grande per studiare ho iniziato la mia ricerca, iniziando col reperire il mio atto di nascita integrale». È così che Arecchia ha scoperto di essere stata partorita in anonimato, da una donna che le assegnò il nome “Anna”, poi mantenuto dai genitori adottivi: sull’atto di nascita, visionato per questo articolo, le fu assegnato il cognome “Dive”, scelto invece dal funzionario dell’anagrafe.
In mancanza di una legge, le modalità di presentazione dell’interpello alla madre anonima variano. Nella sentenza del 2013 la Corte ha parlato di «un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza» alla donna e permetta di interpellarla per chiederle, su richiesta del figlio biologico, se voglia rimuovere l’anonimato e incontrarlo. Nella pratica le modalità con cui si procede sono disomogenee, basate prevalentemente su precedenti e prassi giudiziarie che si sono create nel corso degli ultimi anni.
Di solito l’istanza per interpellare la donna che ha partorito in anonimato viene presentata al tribunale dei minori della regione di residenza del figlio o della figlia che fa richiesta di incontrarla. Poi eventualmente la pratica passa al tribunale della provincia di nascita, se diverso da quello di residenza. In alcuni casi i giudici si sono rifiutati di procedere proprio appellandosi alla mancanza di una legge che definisse con chiarezza le modalità dell’interpello; in altri i tribunali hanno incaricato il comando provinciale dei Carabinieri, oppure i servizi sociali, di individuare e rintracciare la donna e chiederle se fosse disposta a rimuovere l’anonimato: «Sui commissariati questa nuova attività investigativa è piombata un po’ come una tegola: sono cose che non avevano mai fatto prima», dice Arecchia.
Nel procedimento per rintracciare la donna i soggetti coinvolti sono dunque molti: il tribunale, gli agenti delle forze dell’ordine, i servizi sociali, i reparti di maternità degli ospedali, chi gestisce i loro archivi e le loro cartelle. C’è poi il personale incaricato di contattare la madre, per esempio i funzionari comunali e delle anagrafi, che una volta ricevuto il certificato di assistenza al parto cercano l’indirizzo di residenza della donna. Alcuni tribunali inviano una lettera di convocazione, altri mandano fisicamente qualcuno a citofonare alla donna.
«È capitato che i funzionari andassero sotto casa della donna con un’ambulanza, in previsione di un suo possibile malore», dice Arecchia. In moltissimi casi le donne sono ormai anziane, l’interpello può essere scioccante e traumatico.
Arecchia dice di essere consapevole che i nati in anonimato in cerca delle proprie origini possono creare un «putiferio emotivo» nelle donne e nelle loro famiglie, così come dice di essere consapevole delle critiche che alcuni gruppi femministi rivolgono al Comitato per la sua attività, ritenuta in contrasto col diritto della donna all’anonimato e all’oblio. Le critiche arrivano anche da alcuni ambienti cattolici, che considerano le rivendicazioni del Comitato una minaccia al parto in anonimato.
Arecchia ritiene però che su questo genere di argomenti in Italia prevalga una «mentalità adultocentrica» poco interessata ai diritti dei nati, e su queste stesse basi si dice contraria a forme di procreazione assistita come la gestazione per altri, cioè quando la gravidanza è portata avanti da una persona per conto di altre persone. A suo dire infatti questa tecnica nega il diritto alle origini. In realtà la possibilità di mantenere contatti e relazioni tra nati e donna gestante esiste, dipende dalla regolamentazione della pratica ed è peraltro ampiamente utilizzata da molte famiglie formate attraverso questa tecnica: tutte possibilità poco discusse e conosciute in Italia, dove il dibattito è fortemente politicizzato.
La ricerca della donna che ha partorito in anonimato procede per gradi e può avere esiti molto diversi. Incendi o alluvioni possono aver distrutto gli archivi degli ospedali, per cui diventa impossibile risalire al nome della donna; i tribunali dei minori, che in Italia sono 29 e hanno gravi carenze di organico, possono condurre indagini in maniera superficiale; una volta rintracciata la donna non è raro scoprire che magari è morta anni prima (in questo caso, sempre per via della mancanza di una legge, non ci sono regole chiare sulla revocabilità dell’anonimato).
È stato proprio il caso di Arecchia: dopo cinque anni di ricerche ha scoperto che molti anni prima la donna che l’aveva partorita si era trasferita in Canada. Dopo mesi di tentativi e una rogatoria internazionale Arecchia ha infine avuto accesso al nome della donna, scoprendo che era morta. È andata comunque a Toronto, in Canada, e ha conosciuto i suoi altri tre figli: una di loro, l’unica che parlava italiano, l’ha accompagnata nel cimitero in cui era stata sepolta la donna, concludendo così una «ricerca durata una vita», per usare le parole di Arecchia.
(Il Post, 13 dicembre 2023, pubblicato con il titolo “I figli non riconosciuti che vogliono rintracciare le proprie origini biologiche”)
di Ascanio Celestini*
Francesco è figlio di un ricco mercante. Combatte la battaglia di Collestrada nel 1202 contro i nobili di Assisi, poi lascia tutte le ricchezze, gira scalzo, non tocca più il denaro. Sceglie la povertà. Dice che se possiedi qualcosa sei costretto a difenderla e diventi violento.
Nel 1219 arriva in Egitto. Parla con i crociati, gli ricorda il quinto comandamento: non uccidere. Ma non lo stanno a sentire. Prova a parlare anche con i musulmani, ma la guerra continua lo stesso.
Francesco torna a casa con l’idea che non serve a niente conquistare quel pezzo di terra dove è nato Gesù. Che la terra è tutta uguale e che Betlemme è solo un posto di povera gente che somiglia a tanti altri nel mondo. Così nel 1223 fa il suo presepe a Greccio, un altro posto di povera gente. Un borgo dell’alto Lazio. La notte di Natale di otto secoli fa qualche centinaio di persone sono state in Terra Santa senza muoversi dalla Sabina.
Dopo ottocento anni quella terra è ancora un posto di poveri cristi. Qualcuno ha fatto il calcolo dei bambini uccisi da Erode. Se gli abitanti di Betlemme erano un migliaio potevano esserci circa trenta neonati. Ma volendo uccidere solo i maschi il numero si riduce ulteriormente.
A settanta chilometri a sud-ovest assistiamo a una strage moderna. I numeri sono altri perché la tecnologia ci permette di essere più performanti dei soldati di Erode.
Secondo l’Oms: «A Gaza muore in media un bambino ogni dieci minuti». I morti in totale oggi arrivano a 18.000 e i bambini sono quasi un terzo.
Cioè se lasciamo fuori dal numero gli adulti ci rendiamo conto che i bambini uccisi dall’esercito di Israele sono cinque volte il totale degli israeliani uccisi dai miliziani di Hamas.
Non sono un esperto e non conosco in maniera profonda la storia di quella terra e della gente che la abita. Se devo aggiungere la mia opinione a quella di altri commentatori preferisco farlo al bar dove siamo tutti consapevoli della nostra ignoranza, dove sappiamo che abbiamo solo opinioni.
Infatti mi capita di commentare i numeri di questo conflitto. Mi capita di farlo al bar. Non è un discorso circostanziato, non sto a ricordare che prima del 7 ottobre la guerra era iniziata da un pezzo, che Gaza è una galera, che Hamas esiste almeno dalla fine degli anni ’80 e che è stata sostenuta persino da Israele per contrastare al-Fatah.
No. Parlo solo del numero dei morti. Siamo tragicamente oltre una proporzione che fa spavento: più di 10 palestinesi uccisi per ogni israeliano.
Il bar nel quale discuto con altri clienti sta a Roma. Nella mia città questi numeri ricordano il marzo del 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Uno mi fa: «Vogliamo dire che gli israeliani sono nazisti?»
No. Non lo direi mai, non dobbiamo dirlo mai. E per tante ragioni. Per esempio non voglio dire che i militanti di Hamas sono partigiani. E tantomeno voglio che si pensi ai partigiani romani del ’44 come a una banda di terroristi.
Eppure la sproporzione è evidente. E pesa la giustificazione secondo la quale Israele ha il diritto/dovere di reagire e che, nonostante mezzo mondo dichiari che è una carneficina sproporzionata, Israele può considerarla un’operazione militare perfettamente legale per colpire i terroristi.
E poi chiedo agli altri clienti del bar: «Secondo voi come sono morti i palestinesi?»
Hamas ha bruciato i bambini e squartato il corpo delle donne. E l’esercito israeliano come li ammazza i bambini palestinesi? Con le caramelle avvelenate? E le donne palestinesi non sono squartate quando un razzo israeliano gli sfonda la casa? Anche l’esercito israeliano brucia e squarcia i corpi, ma non li mostra. I bambini fatti a pezzi dalle armi israeliane sono molti di più di quelli israeliani morti il 7 ottobre, ma non vengono filmati.
Ecco la differenza. Hamas deve dimostrare che può reagire. E deve mostrare ogni singolo assassinio per farlo pesare come un macigno. A Israele non basta reagire, deve dimostrare che la propria forza è dieci volte più grande, ma senza mostrare i morti. Come se fosse un atto di giustizia. Una naturale conseguenza. Che, anzi, bisogna nascondere per non mettere in secondo piano la “vera” motivazione, cioè il diritto/dovere di reagire.
«Il primo buco nero è quello che sta accadendo ora a Gaza – scrive Gideon Levy di Haaretz – L’infinita verbosità dei media israeliani quasi ignora l’orribile bagno di sangue. Non una parola sul disastro di Gaza. Non che sia giustificato o ingiustificato: semplicemente non esiste. Il disinteresse è deliberato. Non ci sono resoconti. Nessuna immagine. A malapena un accenno».
Cosa succederebbe se Israele mostrasse i corpi sventrati di quei 18.000 palestinesi?
Recentemente gli Stati Uniti hanno bloccato l’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite che chiedeva “un cessate il fuoco umanitario immediato” nella Striscia di Gaza. L’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan ringrazia «il presidente Biden per essere stati fermamente al nostro fianco, oggi, e per aver dimostrato la loro leadership e i loro valori».
Quando domani al bar qualcuno mi chiederà «vuoi dire che gli israeliani sono nazisti?» continuerò a rispondere «No», questo abbiamo il dovere morale di dire con forza, ma aggiungerò che l’analogia mi spaventa perché vedo la stessa arma che usano i regimi peggiori: nascondere i morti e legalizzare il crimine.
Nel presepe di Greccio pensato da Francesco c’era la mangiatoia, l’asino e il bue. Nient’altro. Non voleva mettere in scena la nascita di Gesù, ma ricordare a tutti che era nato povero in un posto di povera gente identica a tanti poveri cristi in ogni parte del mondo.
Oggi anche Gaza è un presepe vuoto come quello di Francesco. In quella guerra ci sono tutte le guerre. Tra quei morti ci sono tutti i morti che non possiamo giustificare.
(*) Ascanio Celestini è in tournée teatrale per la sua ultima opera “Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato”
(Il manifesto, 12 dicembre 2023)