di Fiorella Fumagalli


A Milano abita da oltre vent’anni nel quartiere Isola, che considera un osservatorio ideale per i suoi studi di politiche urbane. Lucia Tozzi, saggista indipendente originaria di Napoli, incontra il pubblico sabato 24 (ore 18.00) alla Libreria delle donne insieme a Maria Castiglioni, psicologa attiva nei gruppi di mutuo aiuto. Al centro della riflessione il tema “Com’è bella la città!”, basato sugli ultimi due libri di Lucia Tozzi. L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (“Rasoi” Cronopio, Napoli) e Le nuove recinzioni (Carocci, Roma), che raccoglie tre scritti: il suo riguarda la finanziarizzazione dell’abitare sociale a Milano; gli altri, di Stefano Portelli e Luca Rossomando, vertono sul “furto” dell’edilizia calmierata a Roma e i Quartieri Spagnoli di Napoli al tempo del turismo di massa. L’analisi dell’autrice colma un vuoto di pensiero critico: che cosa c’è dietro il modello Milano, la città “che non si ferma mai”? La risposta non risparmia la nostra città alla pari di New York, Hong Hong e Lagos: «Le grandi metropoli globali si assomigliano un po’ tutte, stessi problemi e stessi vizi», perché «in competizione tra loro, cercano di attirare chi viene da fuori ma, forse, hanno smesso di pensare alle esigenze di chi le città le vive».

L’immagine splendente assunta da Milano con l’Expo 2015, ragiona l’autrice, non corrisponde a una trasformazione vera, ma è l’effetto di una campagna di marketing di successo «ottenuto spostando le risorse materiali e intellettuali destinate alla produzione di cultura, ricerca, servizi di welfare verso la costruzione di una facciata, la metropoli globale del lusso». Chiusa ai giovani e con affitti alle stelle, aria irrespirabile e periferie consumate, la città della “disuguaglianza programmata” si dovrebbe risvegliare dalla fiaba disneyana del benessere diffuso: «Come avvenne agli albori del capitalismo, quando signori e nobili recintarono terre e beni comuni per accumulare la rendita, oggi gli imprenditori locali e le élite che possiedono la maggior parte della ricchezza mondiale ambiscono ad appropriarsi di tutto».


(la Repubblica, TuttoMilano, 22 febbraio 2024)

di Francesca Graziani


Un ricordo di Flora De Musso, morta il 17 febbraio 2024


Nella malinconia di questi giorni ripenso alla strana storia della nostra amicizia: le prime nostre frequentazioni nel Gruppo Insegnanti nato in seguito alla discussione sul Sottosopra verde (1983) – dove tu eri la nostra riconosciuta capa – che dopo qualche tempo si spaccò per dissidi interni e le varie componenti del gruppo proseguirono per altre strade. A quel tempo noi due non eravamo intime amiche, anzi non ci eravamo neanche troppo simpatiche, data la diversità di caratteri; e per molto tempo non ci fu neanche motivo di frequentarsi se non in Libreria a qualche riunione. Anni dopo il caso ci portò a far la strada insieme verso la metro e ricominciò un cauto parlarsi, quasi come due animali che si annusano un po’ diffidenti: raccontavo i miei tentativi di allora di migliorare la mia cucina di sopravvivenza a te che eri una cuoca provetta trovando un certo incoraggiamento da parte tua – più avanti mi regalasti anche un aggeggio per tagliare il prezzemolo, che a dir la verità non ho mai usato.

Le cose ebbero una svolta improvvisa quando con mia grande sorpresa mi chiedesti di aiutarti a rivedere un lungo testo che avevi scritto sull’origine femminile dello yoga – e che spero si possa ritrovare fra le tue carte. Naturalmente avevo acconsentito volentieri: erano i primi anni duemila, avevo appena traslocato in mansarda e tu allora stavi ancora bene, le due rampe di scale dal terzo al quarto piano dove l’ascensore non arriva non erano ancora un impedimento; venivi casa mia e pian piano sistemavamo quella tua ricerca che avresti tanto voluto vedere stampata.

Ci vedevamo alle cene del sabato e dopo tu riportavi me, Traudel e Piera fino alla metro con quella tua macchina che ne aveva sempre una – tipo il riscaldamento che non riuscivi a spegnere in pieno giugno e sfrecciavamo con i finestrini completamente abbassati per non arrostirci – cene alle quali si è aggiunto poi il fido Carmelo, diventato il tuo scarrozzatore ufficiale.

Col passare del tempo ti è diventato più difficile spostarti in libreria per fare l’archivio e hai trovato un valido successore in Luca – che solo in questi giorni ho conosciuto – prima per me era “l’uomo del sottoscala”.

Il Covid prima, malattie e incidenti vari dopo ci hanno impedito di vederci ma non di sentirci. Sempre verso sera, proibito chiamarti prima delle 17.30/18.00 dato che causa insonnie notturne dormivi di giorno: ad aprire le nostre conversazioni prima di passare ad altro i bollettini medici di ambedue con relative riflessioni sulla vita e la morte, la vecchiaia etc. Sempre però con grande ironia, come quest’estate con l’ultima rompipalle arrivata: la cimice del letto che di lì a poco avrebbe infestato non solo il tuo letto ma anche quello dei parigini.

Esasperata dalla situazione mi hai chiesto se conoscevo qualche scongiuro adatto all’uopo; e mi è venuta in mente una giaculatoria in latino che mia madre recitava quando perdeva qualcosa e di cui mi ricordavo solo l’inizio. L’ho recuperata on line e scoperto che era un’antica preghiera inventata da un frate nel 1250 e recitata ancora oggi ogni martedì nella basilica di Sant’Antonio a Padova, quindi di comprovato effetto; dovevi solo digitare il primo pezzo: si quaeris miracula mors error calamitas.

Poco dopo mi è arrivato un tuo messaggio che ancora oggi conservo: «Ho letto due volte l’invocazione a Sant’Antonio e pare che funzioni. Miraculum!»

Chi l’avrebbe mai detto che proprio io e te avremmo trovato il modo di farci sempre delle belle risate!

Misteriosa è la vita e anche le relazioni.


Ciao, Flò.


Francesca


(www.libreriadelledonne.it, 22 febbraio 2024)

di Franco Lorenzoni


Mi è capitato di recente d’incontrare la responsabile di una grande organizzazione umanitaria che mi ha detto di avere ancora alcune difficoltà nell’esprimersi in italiano. Figlia di una polacca e di un italiano, ha passato gran parte della sua infanzia soprattutto con sua madre, che si vergognava di parlarle in polacco. Riteneva la sua una lingua minore, che non avrebbe aiutato l’inserimento di sua figlia, così le ha sempre parlato solo in italiano, ma in un italiano approssimativo, povero di parole, perché non era la sua lingua. Nonostante la figlia abbia una vita lavorativa ricca e soddisfacente, a decenni di distanza sente ancora il peso di quella ferita linguistica originaria, di quella mancanza di parole.

Torno a questo ricordo perché oggi, 21 febbraio, è la giornata internazionale della lingua madre, proclamata dall’Unesco nel 2000 per «promuovere le diversità linguistiche e culturali e il poliglottismo». Spesso noi maestre e maestri delle scuole primarie suggeriamo alle mamme immigrate di parlare ai loro figli in italiano a casa, commettendo, a volte inconsapevolmente, un grave errore. Avere pieno possesso della propria lingua madre, infatti, è una importante premessa per imparare la lingua del paese in cui si vive.

La lingua madre è una lingua humus, un terreno fertile indispensabile per dare linfa alle lingue della formazione e dell’incontro. Così sostiene Graziella Favaro, instancabile ricercatrice e attivista nel campo dell’intercultura, citando Tullio De Mauro: «Una lingua, voglio dire la lingua materna in cui siamo nati e abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva dalle prime ore la nostra vita psichica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali […] È dunque la trama visibile e forte dell’identità».

Nei miei anni d’insegnamento ho collezionato alcune prove di quanto un rapporto intenso con la propria lingua materna aiuti figlie e figli di origini immigrate, ma anche le loro compagne e i loro compagni, che così hanno occasione di accorgersi di quanto è grande il mondo e di come la sua bellezza stia nell’infinita varietà delle espressioni umane che lo popolano.

Per diverse stagioni, ad esempio, ci siamo interrogati su dove si nascondesse la matematica e Nisrin, di origine marocchina, un giorno ha detto: «La matematica è un omino che va in bicicletta dentro la testa. Se si ferma, cade, se corre risolve tutti i problemi». L’immagine era così bella che l’abbiamo scritta a caratteri grandi sul muro della classe. La trovavo particolarmente efficace perché, ogni volta che osservavo un bambino in difficoltà di fronte a un problema, pensavo a quel disequilibrio e a quella caduta così ben descritta da Nisrin, che nasceva da una sua difficoltà reale, sofferta.

Un giorno, parlando con suo padre, gli ho raccontato della frase di sua figlia e lui mi ha detto che in arabo matematica si dice alriyadiaat, parola che ha la stessa radice di sport e di esercizio fisico, aggiungendo che evoca anche l’idea di acrobazia. Scopriamo così che l’origine della metafora di Nisrin si trova nella sua lingua madre, in cui a volte pensa e forse sogna.

È vero che ogni lingua incarna una visione del mondo diversa, o addirittura che impone specifici schemi di pensiero a chi la parla?

Sono sempre stato attratto dalle parole intraducibili e a volte in classe abbiamo giocato a collezionarne alcune in diverse lingue. Sono parole che evocano l’unicità e la lontananza di una lingua e di una cultura e, insieme, invitano a bussare a quella porta chiusa. La parola spagnola ensimismarse, per esempio, utilizzata in Centanni di solitudine da Gabriel García Márquez per descrivere il carattere di alcuni componenti della famiglia Buendía, azzarda la possibilità di rendere transitiva la più riflessiva e immobile delle azioni, che è l’entrare in noi stessi.

Per anni la nostra classe è stata gemellata con una di Ayuub, un villaggio nel sud della Somalia nato per accogliere orfani e vedove sopravvissute alla guerra civile. Mana Sultan, la straordinaria donna che lo ha fondato, in visita nella nostra scuola ci ha raccontato che il somalo è una delle lingue africane che da meno tempo conosce la scrittura. Osservando un testo scritto in somalo abbiamo scoperto che nella trascrizione dall’orale chi aveva assegnato dei segni scritti a quella lingua aveva scelto di arricchire molte parole di doppie vocali, così da renderle vicine alle sonorità del parlato. Mana ci ha spiegato che loro vivono prevalentemente in campagna, sempre all’aperto, e dunque si chiamano e parlano a distanza. Se non ci fosse questo prolungamento dei suoni non ci si riuscirebbe a sentire. Ecco che, in quel caso, la lingua ci parla anche del paesaggio, dei luoghi in cui sono nati quei suoni.

Una gerarchia ingiusta

Il problema è che anche le lingue subiscono ingiustizie e sono sottoposte a gerarchie rigide, che a volte sconfinano in forme d’esclusione, o di vero e proprio razzismo linguistico. È quello che è successo ai nostri dialetti nei decenni caratterizzati dalle grandi migrazioni interne, prima della diffusione della televisione che, insieme alla scuola di massa, ha modellato la lingua nazionale.

Negli anni settanta la nascita del tempo pieno, oltre ad andare incontro ai nuovi bisogni lavorativi delle famiglie, si diffuse soprattutto nelle scuole del nord per rispondere alla necessità pedagogica di avere più tempo per affrontare in modo positivo le difficoltà create dalla presenza di grandi differenze linguistiche portate dalle bambine e bambini immigrati dal mezzogiorno.

Sono più dell’11 per cento gli studenti di famiglie immigrate che, oltre a non avere diritto alla cittadinanza, vivono sulla loro pelle una scissione linguistica netta, dovuta molto spesso a una totale rimozione della loro lingua madre nella scuola.

Tra i molti progetti di educazione interculturale di qualità che si sperimentano non ha ancora trovato lo spazio che merita la valorizzazione delle lingue madri, mentre credo sia della massima importanza nelle nostre classi trovare tempi e modi per dare spazio alla presenza di lingue materne di più continenti, che vivono nelle memorie e accompagnano pensieri ed emozioni di bambine e bambini.

Nelle linee pedagogiche 0-6 del 2021, un documento del ministero dell’istruzione di grande importanza – la cui scrittura fu coordinata da Giancarlo Cerini, uno dei migliori ispettori scolastici che abbia avuto la nostra scuola – s’invita ad «avere attenzione alla lingua parlata nel contesto familiare, che costituisce la base per l’apprendimento della lingua italiana». E poi: «Creare contesti nei quali si possono usare più lingue consente di riconoscere il patrimonio culturale di ogni bambino, di sviluppare abilità comunicative diversificate, di sollecitare curiosità ed esplorazione di lingue diverse».

In un altro documento ministeriale del marzo 2022, che delinea con lungimiranza gli orientamenti interculturali che dovrebbero arricchire le nostre scuole, c’è scritto: «Un’educazione al plurilinguismo […] si deve porre obiettivi quali: il riconoscimento delle lingue parlate da bambine e bambini nei contesti extrascolastici e la raccolta delle biografie linguistiche; la valorizzazione di ogni lingua e della diversità linguistica presente nella comunità; l’attivazione di processi metalinguistici e di comparazione e scambio tra le lingue».

Favaro – che per anni ha anche diretto la meritoria rivista interculturale «Sesamo», edita da Giunti – racconta di un’interessante ricerca condotta in alcune scuole dell’infanzia e primarie, in cui bambine e bambini di classi multietniche sono stati invitati a disegnare le compresenze linguistiche che incarnavano.

Su un foglio Kaifa si disegna con due linee colorate che gli escono dalla testa, commentando: «Io parlo bangla e italiano. Le lingue sono nella mia testa e sono come fumo. Il bangla è forte e rosso, l’italiano è leggero e di colore verde». Mentre Rayan dice: «Le mie lingue sono come una sciarpa. Prima girano insieme intorno al collo, poi si dividono in due parti: una va a destra e una a sinistra».

Anche le questioni aperte che sono state raccolte durante la ricerca sono di grande interesse. Una bambina si disegna divisa tra due bandiere, sotto cui si domanda: «Sono indiana o sono italiana?». Un altro bambino decide di sostituire la o con la e, affermando convinto: «Sono italiano e sono albanese». Altri esempi interessanti si trovano sul sito Mammalingua. (https://www.mammalingua.it/)

Una questione delicata

Durante un piccolo spettacolo preparato a dicembre di qualche anno fa nel piccolo paese umbro di Giove, non posso dimenticare l’emozione che traspariva nei volti delle mamme romene quando ascoltarono due canzoni cantate nella loro lingua dall’intera scuola primaria. Un gesto di accoglienza che riconosceva alle numerose famiglie romene presenti nel paese piena dignità alla loro lingua.

La questione naturalmente è molto delicata. C’è sempre il pericolo dell’esotismo e del paternalismo, e spesso bambine e bambini appartenenti a famiglie immigrate non amano che siano rimarcate le loro differenze, anche linguistiche, perché sanno sulla loro pelle quante volte la percezione delle differenze scivola in forme evidenti o nascoste di discriminazione.

Se assumiamo tuttavia la compresenza in classe di memorie che attingono a universi linguistici diversi e lontani come possibilità di arricchimento culturale per tutti le cose possono cambiare. E poiché la lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma di creazione di mondi, e traccia viva dei diversi modi di abitare e di convivere, ecco che si aprono campi di ricerca che possono appassionare e mettere in moto piccoli e grandi.

Ngũgĩ wa Thiong’o, grande scrittore keniano che ha pubblicato i suoi primi romanzi in inglese, a un certo punto decise di tornare alla sua lingua madre scrivendo in gikuyu. A chi lo criticava, sostenendo che la sua lingua era capita da pochi, rispondeva citando Dante, a cui fu rimproverato di rinunciare all’immortalità, scrivendo la sua Commedia in italiano: «La lingua gikuyu per me è come latte materno di cui non posso fare a meno».

Dal punto di vista linguistico nelle famiglie immigrate succede di tutto. Ci sono a volte madri che vivono gran parte del loro tempo isolate in casa, che non parlano quasi l’italiano ma che più o meno lo capiscono, perché i loro figli si rivolgono a loro nella lingua dei compagni, della scuola e del gioco. Ci sono bambine e bambini a cui a volte è cambiato il nome, sostituito per precauzione con uno italiano, sospettando che gli italiani difficilmente compiranno lo sforzo di chiamarli per esempio con il loro nome cinese. La doppia appartenenza è così sancita addirittura da nomi diversi, impiegati in contesti diversi, che può generare scissioni di cui non abbiamo ancora piena consapevolezza.

Il poliglottismo in molti paesi del sud del mondo è la norma, per via di secoli di colonizzazione e per i continui spostamenti di popolazioni. Raccontando di un suo incontro con Ivan Illich, Alexander Langer ha appuntato queste sue frasi intorno a cui sarebbe interessante riflettere e discutere: «Ricreare un’aura di convivenza, di tolleranza dell’alterità (anche linguistica) è il presupposto per la riscoperta del plurilinguismo: questo conta molto di più che non i corsi di lingua o le invenzioni scolastiche. Pensate quante caratteristiche del parlare si sono cancellate e uniformate: dall’intonazione agli accenti, dal tono alla voce, dalla melodia alla frequenza dei vocaboli. Le lingue sono molte di più di quante non ne segni la linguistica, le cui pretese ideologiche devono essere smascherate come tutte le altre pretese di delimitazioni scientifiche fatte in realtà in nome dell’economia, per rendere più misurabile, amministrabile e dominabile il mondo».

C’è ancora molto lavoro da fare perché tutte le lingue madri trovino un loro posto nella scuola, nonostante sia evidente che costituiscano ponti indispensabili per una comprensione reciproca più aperta e profonda. Tutto deve partire dalla curiosità di noi insegnanti, che dovremmo sempre coltivare attenzione verso il mondo intimo e spesso nascosto delle bambine e dei bambini a cui insegniamo.


(Internazionale.it, 21 febbraio 2024)

di Annalisa Savino*


Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Firenze, 21 febbraio 2024


Il 18 febbraio 2024, davanti al liceo classico “Michelangiolo” di via della Colonna a Firenze, sei membri del gruppo di destra Azione studentesca estranei alla scuola si sono presentati a volantinare e hanno aggredito a calci e pugni due studenti appartenenti al collettivo SUM (Studenti Uniti Michelangiolo), che contestavano verbalmente il volantinaggio. La polizia è intervenuta e ha identificato gli aggressori, avviando una procedura giudiziaria per manifestazione senza preavviso e violenza privata. Tutte le forze politiche hanno condannato l’azione. Di seguito la lettera con cui la dirigente scolastica di un altro liceo fiorentino commenta gli eventi, che è stata fatta circolare sui social.


Comunicazione n. 197 del 21 febbraio 2024


Agli studenti


e p.c. alle loro famiglie, ai docenti, ai DSGA e al personale ATA


Cari studenti,

in merito a quanto è accaduto lo scorso sabato davanti al Liceo “Michelangiolo” di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose.

Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. «Odio gli indifferenti», diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee.

Inoltre siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illuderci che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così.


(*) Dirigente scolastica del Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci”

di Antonella Nappi


Pierfrancesco Majorino ci invita a una conferenza sulla salute a Milano. Scrive a me nei giorni in cui ho subito, coatta in casa, un inquinamento molto molto grave per la mia salute.

Ai convenuti alla conferenza dico: sapete bene che l’aria molto inquinata fa soffrire le persone e può anche farle morire. È tortura superare per giorni i livelli indicizzati di inquinamento, e ancor più crudele è accettare pur prevedendoli superamenti così alti delle soglie. Il bruciore delle vie respiratorie, la febbre, la tosse, la paura di non superare la notte, l’impossibilità di avere speranza per il futuro sono torture programmate, ripetute da anni a Milano. I benestanti vanno spesso in seconde case fuori città, dunque la tutela che i politici devono garantire è alle persone comuni, che forse non frequentano. 

Da sessant’anni si conosce la situazione climatica di Milano, gli studi della Provincia ne dimostravano la mortalità e la morbilità già dagli anni ’50. Milano è una città che doveva rimanere piccola, poco densa di abitanti e immersa nel verde. Così come la provincia e buona parte della regione.

Non so dire da quando un politico per candidarsi in Lombardia e a Milano avrebbe dovuto comprendere e occuparsi per prima cosa dei limiti dell’ambiente per la salute degli abitanti, ma certo ormai da molti anni. Far finta che la tortura non ci sia, che l’unico argomento da trattare sia l’utilizzo economico del luogo, fa di ogni partito oggi ormai da tempo lo stesso torturatore.

È un’economia appropriata ai luoghi che dovrebbe illuminare i partiti umani; molte associazioni colte e associazioni popolari si sono fatte interlocutrici politiche umane. Ci vuole una rottura umana, nella politica degli uomini tra loro, perché manca. Ci vogliono donne parlanti da donne che li facciano ragionare. Dati sulla morbilità che li facciano ragionare di prevenzione primaria, ormai immediata.


(www.libreriadelledonne.it, 20 febbraio 2024)

Editoriale di Haaretz


La decisione di imporre restrizioni ai musulmani che vanno a pregare presso la Moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan è la più pericolosa che questo orribile governo abbia preso da quando è iniziata la guerra.

Il Ramadan, che inizia il prossimo mese, avrebbe potuto essere un’ottima opportunità per dimostrare che i portavoce di Hamas mentono e che la guerra di Israele è contro Hamas, non contro l’intero popolo palestinese o contro tutti i musulmani. Era un’opportunità per smentire la propaganda di questa organizzazione terroristica secondo cui Israele intende colpire la libertà di culto musulmano sul Monte del Tempio (noto anche come Al-Aqsa) e cambiare lo status quo nel territorio, oltre che un’opportunità per operare una distinzione tra Hamas e gli arabi in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Israele.

Ma questo governo, il peggiore nella storia di Israele, è controllato dall’attivista del Monte del Tempio Itamar Ben-Gvir e guidato da un politico fallito la cui visione ha portato Israele sull’orlo dell’abisso. Di conseguenza, non solo sta perdendo questa occasione, ma sta usando il Ramadan come opportunità per gettare più benzina sul fuoco del conflitto con i palestinesi.

Durante la riunione del gabinetto di guerra di domenica, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ancora una volta “ceduto” ai capricci del Ministro della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir. A giudicare da un riassunto della discussione, sembra che la polizia intenda limitare severamente l’ingresso dei fedeli musulmani ad Al-Aqsa durante il Ramadan, compresi i cittadini arabi di Israele.

Questa decisione è stata presa nonostante l’esperienza passata mostri che limitare l’accesso al Monte durante il Ramadan quasi sempre comporta un alto prezzo in termini di sicurezza. Dal punto di vista dei palestinesi, la decisione è un’ulteriore prova della minaccia al loro status nel loro luogo più sacro. La decisione è stata presa in barba alle posizioni delle Forze di Difesa Israeliane e del servizio di sicurezza Shin Bet, che sostenevano entrambi che le restrizioni avrebbero potuto accendere ulteriori fronti di conflitto a Gerusalemme, in Cisgiordania e nelle città miste ebraico-arabe all’interno di Israele. La decisione è stata presa anche contro le obiezioni dei consulenti legali, che hanno fatto notare che c’è un problema costituzionale nell’imporre ampie restrizioni alla libertà di culto dei cittadini israeliani.

Secondo lo status quo che Netanyahu stesso ha confermato più volte, solo i musulmani possono pregare sul Monte del Tempio. Di conseguenza, l’argomento che anche la libertà di culto degli ebrei è limitata è falso, persino spregevole. Questa pericolosa decisione segue la decisione di non permettere ai lavoratori palestinesi della Cisgiordania di tornare a lavorare in Israele e la chiusura dei cancelli del Monte del Tempio a migliaia di fedeli musulmani ogni venerdì. Netanyahu non gode più della presunzione di ignoranza o di un errore di giudizio. Nel migliore dei casi, ha preso questa decisione per motivi estranei agli interessi nazionali di Israele, ovvero la preoccupazione per la stabilità della sua coalizione di governo. E nel peggiore dei casi, l’ha presa per estendere e radicalizzare la guerra, posticipando così il giorno della resa dei conti dopo la guerra.


Questo articolo è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sui giornali in Israele, in ebraico e inglese.


(www.haaretz.com, 20 febbraio 2024)

Versione inglese

di Marina Terragni


Ospedale californiano. Il ragazzino ha undici anni, maglietta rosa, capelli lunghi. L’annuncio della dottoressa è solenne: non dovrai più aspettare per essere una bambina. Con un’iniezione nel braccio somministra la prima dose di puberty blocker per fermare il suo sviluppo sessuale maschile. Madre raggiante, dolore e terrore sul viso del bambino. La voce fuori campo commenta: «Si apre un nuovo capitolo nella sua vita di ragazza». Feroci le reazioni al video su TikTok e X: «State assistendo a uno dei più grandi scandali della storia della medicina. Migliaia di ragazzini a cui viene venduta la balla di essere nati nel corpo sbagliato», una cosa pari solo alla lobotomia negli USA anni Cinquanta. Un crimine contro un’intera generazione. Per quella madre radiosa qualcuno ipotizza la sindrome di Münchhausen per procura, condizione psichiatrica per la quale qualcuno provoca sintomi a un figlio o li massimizza per attirare l’attenzione su di sé.

La “terapia affermativa” per i bambini con disforia di genere è stata inventata in Olanda a metà anni Novanta e poi esportata in tutto il mondo. Intorno ai 9-11 anni la pubertà viene “bloccata” con triptorelina, farmaco normalmente utilizzato per cancro alla prostata, carcinoma mammario e altre patologie; a 16 si passa agli ormoni cross-sex (testosterone ed estrogeni) e alla chirurgia: ma negli USA la doppia mastectomia è stata praticata anche su bambine di tredici anni. 

Il “protocollo olandese” è questo, e per anni qualunque cosa tu avessi da dire eri transfobico e fascista. Almeno finché la bomba non è scoppiata proprio nei paesi pionieri del trattamento, Regno Unito, Grande Nord, la stessa Olanda, una trentina di stati USA, ultimo il New Hampshire, Australia, Nuova Zelanda. In questi giorni la discussione si sta aprendo anche in Canada, roccaforte della terapia affermativa: quel trattamento è sperimentale, non ci sono prove che migliori il benessere dei bambini, gli effetti collaterali sono pesanti e irreversibili. Perfino il “New York Times”, dopo avere perseguitato per anni JK Rowling e giubilato varie firme “resistenti”, dedica una fluviale e compassionevole inchiesta al dramma dei detransitioner, ragazze/i farmacologizzati fin da bambini che si pentono e provano a tornare indietro, temibili contro-testimonial della terapia affermativa.

In Italia la triptorelina si usa per la disforia dei minori dal 2019. Di questi cinque anni non si sa nulla: numero dei pazienti trattati, modalità di trattamento, esiti delle “terapie”. Dalla recente ispezione al Careggi, eccellenza tra la ventina di centri italiani dedicati, trapelano notizie preoccupanti: almeno in alcuni casi il farmaco sarebbe stato somministrato senza la preliminare psicoterapia indicata dalle raccomandazioni. Psicoterapia che non serve, secondo Jiska Ristori, psicologa del centro, visto che ai bambini cisgender «non viene richiesta per definire la propria identità di genere».

Nemmeno gli olandesi la pensano come Ristori. Loro, gli inventori della terapia. È appena passata in parlamento una mozione in cui si richiede una ricerca indipendente sul “protocollo”. Il documentario “The Transgender Protocol” realizzato da Zembla, una specie di Report molto woke, ammette falle strutturali negli studi su cui si è fondato il modello terapeutico. «Siamo completamente all’oscuro» ha affermato Gerard van Breukelen, metodologo della ricerca dell’Università di Maastricht. Un altro studioso che preferisce restare anonimo dice che la ricerca olandese «non costituisce una base solida per eseguire interventi radicali e non reversibili». Hanneke Kouwenberg, esperta in transizione, sostiene che l’unica vera cura per la disforia dei bambini è la “desistenza”, cioè dargli il tempo per fare pace con il proprio sesso biologico. Succede in 8 casi su 10. Lo dice anche la Società Italiana di Pediatria: solo nel 12-27 per cento dei casi la disforia permane nel passaggio all’adolescenza.

«Nessun intervento medico produce un corpo del sesso opposto» conclude Kouwenberg. «Gli interventi chirurgici sono solo estetici, volti a migliorare la disforia, e dovrebbero essere classificati come cure palliative. Ma la narrazione ha fatto passare la terapia affermativa come prevenzione del suicidio senza che ci fossero prove concrete della sua validità».

Rischio-suicidio che, come vedremo, è il punto della questione.

Un altro punto è che la disforia ha cambiato sesso: oggi in 8 casi su 10 si tratta di ragazze quasi sempre con gravi disturbi psichiatrici, popolazione del tutto diversa da quella degli anni ’80 e ’90, maschi adulti MtF, da uomo a donna. Nel 2018 la Tavistock Clinic di Londra ha registrato un aumento del 4400 per cento di richieste da parte di ragazze rispetto al decennio precedente. Anche WPATH, associazione mondiale per la salute transgender, ammette che «la popolazione è cambiata drasticamente», il che cambia drasticamente anche lo statuto della questione trans. Gli studi olandesi si erano concentrati sul classico paziente maschio con disforia fin dalla prima infanzia. Anche i principi di Yogyakarta che dal 2006 informano le politiche trans in tutto il mondo sono stati tagliati su questi soggetti. Oggi invece si tratta quasi sempre di ragazze colpite da quella che la ricercatrice americana Lisa Littman ha definito disforia di genere a insorgenza rapida (ROGD): di punto in bianco, nel momento della pubertà, queste ragazze dicono di essere uomini. L’influenza sociale è fortissima, online o da parte dei pari, contagio social che è stato ammesso perfino dal presidente di Wpath Marci Bowers. Per la cronaca, Bowers è la chirurga trans nota per avere operato in diretta tv Jazz Jennings, supertestimonial dei baby trans e protagonista del reality “I’m Jazz”. Oggi di Jazz non si parla più volentieri, è drammaticamente obesa e afflitta da disturbi psichiatrici.

Regno Unito, altra nazione “pentita”. Psichiatra e psicoanalista, ex-presidente della British Psychoanalytic Society, David Bell è stato decano del servizio per minori disforici alla Tavistock Clinic di Londra e fan sfegatato di Corbyn, mica uno sporco fascio. Nel 2018 lancia l’allarme. Molti medici del servizio erano andati a confidargli le loro angosce: i pazienti erano anche molto piccoli (perfino, si è appreso in seguito, 70 bambini sotto i cinque anni) e venivano indirizzati rapidamente al farmaco. Quasi sempre c’era la compresenza di disturbi psichiatrici. Bell compila un rapporto ma i dirigenti della Tavistock non la prendono bene, gli appioppano un provvedimento disciplinare, lui si dimette. Quei trattamenti, dice, sono una vera e propria terapia di conversione praticata sui minori gay e lesbiche. La pressione dei transattivisti di Stonewall e Mermaids è fortissima e Bell si è detto scioccato dalla riluttanza della sinistra a confrontarsi con questi temi “per mostrarsi liberal”.

Nel 2022 il servizio della Tavistock viene chiuso in seguito a un’inchiesta indipendente affidata dal governo britannico alla presidente dei pediatri Hilary Cass. Hannah Barnes, giornalista BBC, ha seguito attentamente la vicenda e ci ha scritto un libro, “Time to Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children”: secondo The Times fra i migliori pubblicati nel 2023, ma trovare un editore era stato un vero inferno, nessuno voleva passare per transfobico.

Le preoccupazioni sulla Tavistock erano note già dal 2016, prima della denuncia di Bell: un rapporto del direttore medico del servizio, David Taylor, avvisava che gli effetti a lungo termine dei blocker «non erano testati né studiati». Ma il servizio non si è mai fermato, tutt’altro: se nel 2009 c’erano state 97 richieste, nel 2020 sono diventate 2.500 con altri 4.600 in lista d’attesa. I medici erano sovraccarichi ma c’era una forte pressione per aumentare gli accessi offrendo valutazioni più brevi e meno approfondite. Secondo David Bell il trust spingeva il servizio anche perché garantiva un quarto delle entrate di tutta la Tavistock.

I piccoli pazienti provenivano da famiglie disfunzionali o avevano problemi di salute mentale. Nel team girava una battuta da brividi: «A questo ritmo di gay non ne rimarranno più». In molti casi le bambine e i bambini preferivano pensarsi come “intrappolati nel corpo sbagliato” piuttosto – “che schifo!” – che come gay e lesbiche, omofobia interiorizzata nutrita da tante famiglie. Come in Iran, dove se sei gay ti appendono ma se ti operi tutto bene. «La grande maggioranza dei giovani in terapia farmacologica irreversibile è attratta dallo stesso sesso» confermano dall’associazione LGB Alliance. «Si tratta di una moderna terapia di conversione per gli omosessuali».

Svezia. Nel 2022 il principale centro per i minori con disforia, il Karolisnka Institute di Stoccolma, chiude dopo l’ammissione di avere danneggiato con i blocker almeno una dozzina di bambini sottoponendoli al rischio di «gravi lesioni» a causa di trattamenti probabilmente errati e senza che le famiglie fossero adeguatamente informate. Caso più clamoroso quello della ragazza “Leo”, trattata dall’età di undici anni. Quattro anni dopo aveva sviluppato osteoporosi, alterazioni vertebrali e soffriva di dolori alla schiena e all’anca come una vecchietta. Leo non avrebbe mai dovuto essere sottoposta a blocco della pubertà. Si sarebbe dovuto tenere conto, dice lo staff medico, dei suoi problemi psichici, dei tentativi di suicidio, del fatto che non era convinta. Oggi in Svezia la prima istanza per i minori con disforia è il trattamento psicologico. 

Finlandia. Riittakerttu Kaltiala, primaria di psichiatria dell’adolescenza all’Ospedale di Tampere, nel 2011 viene messa a capo del servizio di identità di genere per i minori. Oggi Kaltiala, probabilmente tra i maggiori esperti al mondo, è in prima linea contro la terapia affermativa. Conferma che le ragazze erano quasi tutte affette da gravi disturbi mentali e che facevano rete per scambiarsi informazioni su come parlare con i medici per ottenere la terapia: «Abbiamo avuto la prima esperienza di contagio sociale». «Ma il miracolo promesso» dice «non si realizzava. Le giovani che stavamo curando non prosperavano. Al contrario, le loro vite deterioravano. Si ritiravano da tutte le attività sociali. Non facevano amicizie. Non andavano più a scuola».

Nel 2020 il Cohere, massima autorità sanitaria finlandese, ha pubblicato le nuove raccomandazioni: «Alla luce delle prove disponibili, la riassegnazione di genere dei minori è una pratica sperimentale» si dice. «La prima linea di trattamento per la disforia di genere è il supporto psicosociale e, se necessario, la psicoterapia» in quanto «la riduzione dei sintomi psichiatrici non può essere raggiunta con gli ormoni». Stop anche agli interventi chirurgici sui minori.

Le testimonianze dei detransitioner sono state decisive. Non si sa quanti siano, tante/i fra loro smettono di prendere i farmaci senza avvisare il medico che li ha prescritti. Secondo un sondaggio pubblicato da “Archives of Sexual Behaviour” la maggioranza tra loro (55 per cento) pensa di non aver ricevuto una valutazione adeguata prima di iniziare la transizione.

In Svezia lo scandalo scoppia proprio in seguito a un’inchiesta shock della tv pubblica, “Trans Train”, storie di ragazze con la barba, la voce maschile, i tratti deformati dal testosterone. Vituperate, censurate, ostracizzate, perseguitate dai transattivisti, le detrans hanno lottato duramente per prendere parola. «Sono stata accusata più volte di essere una persona di destra che crea una falsa narrazione per screditare le persone trans» dice al NYT la detransitioner Grace Powell. «Quello che dovrebbe essere un problema medico e psicologico si è trasformato in un problema politico. Un casino».

Negli USA il problema è politico da anni, a partire dalle bathroom war durante la presidenza Obama. Il presidente aveva sostenuto il diritto degli studenti a scegliere bagni e spogliatoi in base all’identità percepita. Trump aveva cambiato musica, ma uno dei primissimi executive order del suo successore Joe Biden ha riguardato proprio i giovanissimi trans. Biden ha anche nominato la trans Rachel L. Levine sottosegretario alla salute. La maggioranza degli americani di ogni parte politica «vorrebbe superare le guerre culturali sul tema e tornare alla ragionevolezza» sostiene il NYT, ma in campagna elettorale la faccenda resta rovente. È nata anche l’associazione DIAG – Democrats for an Informed Approach to Gender – per dare voce a quei liberal che chiedono alla sinistra di «rompere l’incantesimo gender».

C’è una detrans, Keira Bell, anche dietro allo stop per la Tavistock. «Ero una ragazza infelice che aveva bisogno di aiuto, e mi hanno trattata come una cavia». Alle soglie della pubertà la piccola tomboy cade in depressione, non va più a scuola, diventa una Hikikomori. Scopre di essere attratta dalle ragazze. «Mia madre mi ha chiesto se volessi diventare un ragazzo: non ci avevo mai pensato fino a quel momento». Alla Tavistock le danno i blocker. Keira ha quindici anni e si ritrova in «una specie di menopausa con vampate di calore, sudori notturni e annebbiamento mentale. Ma io volevo sentirmi come un uomo giovane, non come una vecchia signora». Seguono testosterone e doppia mastectomia. «Crescendo mi sono resa conto che la disforia di genere era un sintomo del mio malessere, non la sua causa». Keira fa causa al servizio sanitario nazionale e vince. L’appello mitiga la vittoria, ma Tavistock chiude, la vittoria più grande è questa.

«Non volevo diventare un uomo, avevo solo paura di diventare una donna» dicono invariabilmente le detrans. «Non ero io a essere sbagliata, sbagliato è come il mondo tratta le donne». Una fuga dalla differenza femminile (“la casa in fiamme” l’ha chiamata qualcuna) per poter essere libere. Oggi la questione trans è soprattutto questo, e ha molto a che vedere con la tenace maschilità del mondo.

Ma cosa fareste voi al posto dei genitori di una ragazza disforica se vi sentiste dire «Preferite una figlia morta o un figlio vivo?».

Kaltiala dice che troppo spesso i medici prospettano alle famiglie l’alternativa terrorizzante: farmaci o suicidio. Una madre descrive al NYT l’incontro con lo specialista: «È stato breve ed è iniziato in modo scioccante. Davanti a mio figlio il terapeuta ha detto: “Vuoi un figlio morto o una figlia viva?”». Ma «pediatri, psicologi e altri medici che dissentono dall’ortodossia ritenendo che non sia basata su prove affidabili si sentono frustrati dalle loro organizzazioni professionali». Spesso vengono minacciati dai transattivisti, come racconta Stephanie Winn, terapeuta dell’Oregon messa sotto inchiesta dal suo board. Oggi lavora solo online per non farsi trovare dai suoi persecutori.

Tamara Pietzke, psicoteraputa di Puget Sound, Washington, ha raccontato a The Free Press che i suoi superiori l’hanno invitata a smetterla di discutere e avviare immediatamente la transizione medica di una tredicenne autistica con tendenze suicide e una storia di abusi sessuali. Pietzke si è dimessa.

Eppure, dice Kaltiala «ricerche accurate dimostrano che il suicidio è molto raro. È disonesto e immorale fare pressione in questo modo sui genitori». «Ogni revisione sistematica delle prove fino ad oggi» scrive in una lettera insieme ad altri colleghi «compreso uno studio pubblicato sul Journal of the Endocrine Society, ha offerto prove con una certezza bassa o molto bassa dei benefici per la salute mentale degli interventi ormonali per i minori. La transizione di genere ci è sfuggita di mano. Qualcosa è andato molto storto».

Non esistono studi attendibili a supporto della tesi che la terapia affermativa prevenga il suicidio. Insieme a Kenneth J. Zucker, Stephen B. Levine è il decano degli psichiatri americani esperti di transizione. È stato presidente della 5a edizione degli standard di cura dell’Associazione internazionale per la disforia di genere e ha fatto parte del tavolo sui disturbi dell’identità di genere per il DSM-IV dell’American Psychiatric Association. Levine è netto: «Nessuno studio mostra che l’affermazione dei bambini riduce il suicidio rispetto a un modello di risposta di “attesa vigile” o psicoterapeutico… i dati disponibili ci dicono che il suicidio tra bambini e ragazzi che soffrono di disforia di genere è estremamente raro». E ancora: «la popolazione che si identifica come transgender soffre di un’alta incidenza di comorbilità correlate al suicidio. Ciò dimostra che ha bisogno di un’ampia e attenta assistenza psicologica, che in genere non riceve, e che né la transizione ormonale né quella chirurgica né l’affermazione risolvono i problemi di fondo».

Uno dei bias più frequenti è che nel concetto di suicidalità vengono incluse sia le intenzioni suicidarie sia i tentativi di suicidio. Ma i fatti dicono che la percentuale di adolescenti disforici morti per suicidio è lo 0,03 per cento (“Suicide by clinic-referred transgender adolescents in the United Kingdom”, 2022). Anche l’NHS, il servizio sanitario UK, afferma che «il suicidio è estremamente raro». Uno studio olandese realizzato su un periodo di osservazione molto lungo (1972-2017, “Trends in suicide death risk in transgender people: results from the Amsterdam Cohort of Gender Dysphoria Study)” stima che il tasso di suicidio nei transgender è di 3-4 volte superiore a quello della popolazione generale, ma l’anoressia moltiplica il rischio di 18 volte, la depressione di 20, l’autismo di 8, e come sappiamo queste comorbilità sono frequenti nei minori con disforia.

Un recentissimo studio americano (Williams Institute della UCLA School of Law, “Prevalence of Substance Use and Mental Health Problems among Transgender and Cisgender US Adults”, agosto 2023) dimostra piuttosto – e purtroppo – un incremento di suicidi tra le persone che hanno perfezionato la transizione con la chirurgia: il 42 per cento degli adulti trans ha tentato il suicidio rispetto all’11 per cento degli adulti cis; per l’autolesionismo le rispettive percentuali sono 56 per cento e 12 per cento.

Ma in Italia non si smette di agitare il rischio suicidio e di parlare della triptorelina come “salvavita”. In risposta all’ispezione al Careggi e all’intenzione dei Comitato Nazionale di Bioetica di riaprire la discussione sul farmaco (annunciata al Foglio dal presidente Angelo Vescovi) una dozzina di società scientifiche, la più importante tra le quali la Società Italiana di Endocrinologia (SIE) sostiene che la triptorelina «riduce del 70 per cento la possibilità di suicidio» tra i minori con disforia. II blocco della pubertà continua a essere definito «transitorio e reversibile» mentre la pratica clinica e svariati studi dimostrano il contrario: gli effetti della tritptorelina non sono affatto transitori e reversibili. Secondo una ricerca pubblicata dal “British Medical Journal” a sedici anni, età in cui si passa agli ormoni cross-sex, nelle bambine e nei bambini si osserva una crescita ridotta dell’altezza e della forza ossea. In un articolo pubblicato dalla rivista dell’Endocrine Society si afferma che per la pubertà ritardata con i blocker valgono gli stessi rischi per la salute connessi alla pubertà tardiva fisiologica: osteoporosi, obesità, diabete di tipo 2, problemi cardiovascolari e di salute mentale.

«L’uso di bloccanti della pubertà e la terapia ormonale» è scritto nel documento della commissione d’inchiesta per il Servizio Sanitario e Assistenziale norvegese «sono trattamenti parzialmente o completamente irreversibili». Perfino l’OMS, che ha istituito un tavolo per nuove linee guida sulla salute transgender, è stata costretta a precisare che non si occuperà di minori in quanto «la base di prove per bambini e adolescenti è limitata e variabile per quanto riguarda i risultati a lungo termine».

Eppure l’Osservatorio italiano sulla Medicina di Genere, organo dell’Istituto superiore di Sanità, continua a considerare il trattamento «completamente reversibile». Idem la Società Endocrinologica Italiana. Anche la Società Italiana di Pediatria ha sempre parlato di «dimostrata completa reversibilità dei sospensori puberali». Però stavolta la sigla (SIP) non partecipa all’alzata di scudi in difesa della terapia affermativa: forse anche tra i pediatri italiani cominciano a circolare seri dubbi.

Maura Massimino dirige il reparto di oncologia pediatrica all’Istituto dei Tumori di Milano ed è stata la prima – e per lungo tempo l’unica – pediatra a esporsi contro la somministrazione di triptorelina ai bambini incerti sul genere. Ha pratica con quel farmaco, nel suo reparto capita di doverlo somministrare a piccoli pazienti che sviluppano pubertà precoce in seguito alle terapie per il tumore e gli effetti collaterali le sono ben noti: «Bloccare la pubertà è come mimare la menopausa» dice. «Nel caso dei pazienti oncologici la valutazione costi-benefici può giustificare la somministrazione. Ma in quello di bambini fisicamente sani è come dare insulina a chi non ha il diabete. Tutta questa storia è partita come un’emergenza, in mancanza di un’adeguata riflessione e di linee guida sensate».

Giuseppe Chiumello, padre dell’endocrinologia pediatrica, è in linea con Massimino: «I centri che hanno diagnosticato e seguito questi casi non hanno pubblicato le loro esperienze: vanno obbligatoriamente istituiti un Registro Nazionale, centri regionali autorizzati alla prescrizione, una commissione regionale che discuta di ogni caso dopo presentazione di una relazione clinica».

Non hanno dubbi sul fatto che «qualcosa è andato molto storto» gli psicoanalisti della SPI che un anno fa in una lettera indirizzata a Giorgia Meloni a firma del presidente Sarantis Thanopulos hanno espresso «grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale». Discussione aperta anche tra gli psicoterapeuti SITCC, la maggiore società di psicoterapia in Italia, che al tema dedicherà il suo prossimo congresso.

Ma c’è dell’altro: più o meno nello stesso periodo – dal 2010 – in cui si è cominciato a registrare un aumento epidemico dei casi di minori con disforia, negli Stati Uniti, in UK e verosimilmente in molti altri paesi occidentali si è verificata una crescita esponenziale dei disturbi mentali tra gli adolescenti: depressione, ansia, deficit di attenzione, iperattività (ADHD), autolesionismo, tentati suicidi. Secondo recentissimi dati del servizio sanitario britannico il numero di bambini inglesi indirizzati ai servizi di salute mentale di emergenza è aumentato del 50 per cento in tre anni: una «devastante esplosione».

Lo psicologo statunitense Jon Haidt si occupa da anni dell’effetto dei social sulla salute mentale di bambini e adolescenti e ha pubblicato i risultati della sua ricerca in documento intitolato “I disturbi dell’umore negli adolescenti dal 2010: Una revisione collaborativa”. Nelle ragazze -visto che si tratta soprattutto di loro- l’aumento della disforia e dei problemi mentali, condizioni quasi sempre compresenti, potrebbe essere legato a un insostenibile disagio per il proprio corpo in maturazione reso oggi più acuto dai modelli irraggiungibili proposti dai social, corpi iper-sessualizzati e innaturali spesso modificati da chirurgia e filtri. Mark Zuckenberg si è recentemente scusato davanti al Congresso Usa per i danni causati ai bambini dalle sue piattaforme, bullismo, abusi sessuali, sfruttamento e via dicendo: forse dovrebbe scusarsi anche per questo.

Sulla questione della salute mentale della generazione Z e successive sono in uscita negli USA ben tre saggi: Jonathan Haidt, “The Anxious Generation”; Logan Lancing, “The Queering of the American Child – How a New School Religious Cult Poisons the Healthy Minds and Bodies of Normal Kids”; Abigail Shrier, “Bad Therapy – Why the Kids aren’t Growing Up”.

Si tratta di amarli di più, bambine e bambini, che restino liberi di significare la propria unicità e differenza rompendo la gabbia angusta degli stereotipi di genere. Non c’è alcun bisogno di medicalizzarsi a vita. La libertà non si compra da Big Pharma.


(Il Foglio, 19 febbraio 2024)

di Luca Bergamaschi


Sabato 17 febbraio 2024 ci ha lasciato Flora De Musso che per tanti anni è stata impegnata in Libreria delle donne dando vita insieme ad altre al gruppo insegnanti, e ha curato l’archivio della Libreria con Luca Bergamaschi che ci ha mandato questo ricordo.


Quando entrai nella scuola come insegnante, quasi cinquant’anni fa, ero da poco laureato in filosofia, pieno di “brillanti” idee e fermamente intenzionato a riempire la testa dei miei studenti e delle mie studentesse di tutto quello che avevo imparato. Ero giovane, sapevo parlare e mi veniva facile imporre anche una certa autorità. Insegnavo storia e filosofia nei licei e, in quegli anni di furibonde contestazioni, il solo fatto di essere accettato dalle classi mi illudeva di essere un bravo docente. Poi passai a insegnare lettere in scuole medie di periferia e in Istituti Tecnici, con davanti ragazzi e ragazze il cui unico scopo sembrava quello di sopravvivere alle cinque ore di lezione. Le mie certezze andavano sgretolandosi e iniziavo a rendermi conto che la trasmissione della conoscenza non era forse l’obiettivo primario del mio stare a scuola. Ero in piena crisi, complicata dalla perenne precarietà del mio posto di lavoro.  
Ma poi nella scuola ho incontrato delle donne. Ho conosciuto anche tanti insegnanti maschi, alcuni pure molto bravi, ma sono state le donne a darmi una nuova coscienza e una nuova prospettiva. È con loro che ho iniziato a capire che quello che conta non è tanto la trasmissione del sapere quanto la relazione entro cui si colloca quella trasmissione. Entrare in relazione con ragazzi e ragazze, senza confusione dei ruoli, ma con la maggiore attenzione possibile alla persona; questo è quello che mi hanno insegnato le donne. La prima è stata Lia Giordano, un’insegnante eccezionale alle medie. Poi ne ho conosciute tante altre. Con Gabriella Lazzerini avevo un rapporto speciale, legato al fatto di essere entrambi insegnanti di lettere e al nostro comune lavoro in biblioteca. Con lei sono arrivato alla Libreria delle donne e al Circolo della rosa. Con lei mi sono avvicinato alla politica della differenza, di cui non ho mai approfondito tutti gli aspetti teorici, ma di cui mi affascinava il desiderio di dare valore alle donne del presente e del passato, senza limitarsi al chiuso della lamentela e della rivendicazione.  
Con Gabriella è arrivato il mio rapporto con Flora, che ho conosciuto quasi quarant’anni fa, ma con cui ho avuto un rapporto privilegiato negli ultimi vent’anni. Non era stato facile entrare in relazione con lei quando eravamo insegnanti nella stessa scuola. Chiunque l’abbia conosciuta sa quanto potesse essere tagliente nel giudizio e apparentemente urticante. Noi maschi, in particolare, eravamo il suo bersaglio preferito.

Ma quando abbiamo iniziato a frequentarci, e soprattutto a lavorare insieme nell’archivio della Libreria, ho scoperto una Flora del tutto diversa. Raramente ho incontrato una persona di così grande generosità, sarcastica ma pronta a prestare attenzione per qualsiasi mio anche piccolo problema, capace di essere vicina senza leziosità, incisiva nel crearmi dubbi senza farmi sentire un idiota, sempre disponibile all’ascolto e sinceramente partecipe nei momenti di dolore e di difficoltà. Impossibile elencare tutto quello che mi ha insegnato, per esempio l’importanza del conflitto, a me tendenzialmente incline al compromesso e alla pavida conciliazione.

Non è e non sarà facile scendere nello scantinato della Libreria a riordinare e inventariare quei libri e quelle riviste che Flora mi ha fatto amare e su cui abbiamo passato ore e ore di lavoro e di chiacchiere. Lo farò in sua memoria e perché la sua opera non vada sprecata.

Senza indulgere al patetico, quanto di più lontano dal suo stile, voglio affermare con sicurezza che la sua vita ha avuto un grande valore: per tanti e tante che l’hanno conosciuta, per studenti e studentesse e certamente, nel mio piccolo, per me.

Con la sua forza di carattere e la sua combattività ha voluto essere protagonista della propria fine così come lo era stata della sua vita e ha scelto di accomiatarsi in modo fiero e orgoglioso. Io ho avuto il triste privilegio di restarle accanto fino al compimento del suo ultimo viaggio.


(www.libreriadelledonne.it,18 febbraio 2024)

di Cristina Piccino


Oksana Karpovych è nata a Kyiv, la sua biografia ci dice che vive fra la capitale ucraina e Montreal, dove si è laureata alla Concordia University in Film Production seguendo un’idea di ricerca che si concentra sulla vita quotidiana e sull’influenza dei cambiamenti politici nella sfera privata di ciascuno.

A partire da qui l’esigenza di lavorare sul conflitto nel suo Paese è del tutto coerente. Intercepted, come spiega lei stessa nella presentazione del film, nasce i primi giorni di guerra, mentre lavorava come producer per la crew di Al Jazeera in lingua inglese, cosa che le ha permesso di avere accesso a molti luoghi e di essere testimone delle violenze dei militari russi sul campo.

Nel frattempo i servizi segreti ucraini avevano reso pubbliche le intercettazioni delle telefonate dei soldati russi, per lo più conversazioni con le famiglie, e proprio da questo materiale si basa il film presentato nella selezione del Forum – da quest’anno diretto da Barbara Wurm. «Tra quelle telefonate e ciò che vedevo ogni giorno intorno a me c’era una enorme discrepanza, i russi sembravano molto più umani di come si comportavano con noi ucraini. Cercando una risposta ho provato a capire cosa c’è dietro questa invasione».

Quando ci incontriamo a Berlino Naval’nyj non era stato ancora ucciso e le notizie della ritirata ucraina a Avdiïvka, nel Donbass, di cui ci sono molte immagini nel film non erano ancora arrivate. Lei mentre parla spesso ha le lacrime agli occhi, e guardando Intercepted il paesaggio che attraversa, e che fa da controcampo alle conversazioni telefoniche dei soldati russi, restituisce una diffusa desolazione nella quale sembrano congelarsi i gesti anche più semplici del quotidiano. Le case saccheggiate, le campagne dove malgrado tutto i contadini continuano a mungere le mucche; i palazzi coi buchi dei proiettili e le strade che si spalancano su voragini. E una vita che scorre, malgrado tutto, con le persone sulla spiaggia o che fanno come possono le cose di sempre.

Se la guerra può essere più visibile o meno, le fratture che lascia sono oltre le sue evidenze nella violenza diffusa in cui sprofonda ciascuno. Le voci senza volto dei soldati russi dicono di una disillusione, della paura, del fatto che lì hanno trovato un paese “ricco” – e da casa gli chiedono di prendersi le New Balance e i vestiti per la palestra della figlia – dove la gente vive bene. Parlano di torture, morte, portano con sé l’indottrinamento del regime putiniano. C’è pure però chi rifiuta, chi è stanco; uno alla moglie chiede di promettergli che mai farà arruolare il loro figlio quando sarà cresciuto.

Come costruire allora la narrazione di una guerra, che come quella in Ucraina che è stata testimoniata, filmata, mediatizzata, e che specie nelle generazioni di artisti più giovani come è Oksana Karpovych, è un riferimento costante? «È per questo che sentivo il bisogno di realizzare le mie immagini. Dopo l’invasione ho deciso di rimanere in Ucraina, mi sono resa conto che quanto vedevo nei telegiornali e sui social media non restituiva ciò che stavamo vivendo».

Il punto di partenza per Intercepted sono le intercettazioni del servizio segreto ucraino che ha registrato le telefonate dei soldati russi. Come ha lavorato su questi materiali?

Ho iniziato ad ascoltare gli audio, erano accessibile in rete tranne qualche conversazione utilizzata nelle indagini sui crimini di guerra, che mi è stata mandata a montaggio quasi finito. Quando abbiamo iniziato le ricerche per il film non avevo ancora sentito tutto, sapevo cosa mi interessava, ma dovevo ancora capire in che modo costruire la relazione fra le parole dei russi e le immagini dell’Ucraina. Non volevo che la parte visiva ne fosse un’illustrazione, avevo in mente più una giustapposizione ottenuta usando il suono. Ho scoperto che i russi non sanno molto dell’Ucraina, in tanti si dicevano sorpresi dalla qualità della vita nel nostro Paese; sembrano avere pochissimo accesso al resto del mondo, credo che subiscano un continuo lavaggio del cervello. Mi sembrava incredibile. Pian piano ho creato due realtà parallele in cui alle parole della guerra si contrapponevano le immagini di un tempo sospeso, scandito da una tensione costante. È stato un po’ come comporre un puzzle.

Come è stato per lei confrontarsi con le parole dei russi? Sembra mantenere una distanza.

La mia sfida è stata quella di lavorare su un processo parallelo fra le parole e le immagini. La distanza è parte del linguaggio, insieme a una certa neutralità del punto di vista, che è insieme molto soggettivo. Cerchiamo di non essere mai troppo vicini ai nostri soggetti, di non entrare nello spazio delle persone che è stato traumatizzato.

Per me ascoltare quei dialoghi è stato psicologicamente molto duro, il trauma che ho vissuto in Ucraina con la guerra si è amplificato nella crudeltà di quei dialoghi.

Non volevo però fare un film di propaganda, ho provato a guardare a quel materiale e un po’ alla guerra stessa come se fossi un osservatore, qualcuno che fa una ricerca. E senza manipolare gli audio. Potevo farne ciò che volevo, c’erano tanti modi di usarli ma da regista ho delle responsabilità; li ho lasciati come erano limitandomi a togliere le bestemmie.

Quanto la guerra ha cambiato la sua ricerca artistica, la sua visione delle cose?

La guerra in realtà c’è da dieci anni, è l’invasione russa che è iniziata due anni fa… A essere onesta non ho avuto un momento per fermarmi e riflettere, da allora a oggi ho lavorato a questo progetto che finalmente vede la luce.

Ho bisogno di tempo e di tranquillità per capire quello che è successo a me, cosa è cambiato. Dopo questo lavoro mi sento più motivata ad andare avanti, mi piacerebbe poter pensare a un processo di ricostruzione e di riconciliazione ma purtroppo non è così; non è tempo di riconciliarsi si deve ancora combattere.


(il manifesto, 18 febbraio 2024)

di Lucia Capuzzi


«La storia guarda alla Camera dei rappresentanti Usa. Un mancato sostegno all’Ucraina in questo momento critico non verrà mai dimenticato». La morte di Aleksej Naval’nyj era stata annunciata appena da qualche ora quando il presidente Joe Biden, nel commentare la notizia, ha colto l’ennesima occasione per chiedere al Congresso lo sblocco dei 60 miliardi di dollari per gli aiuti militari a Kiev. Lo stesso ha fatto, da Monaco, la vice Kamala Harris: non dare il via libera – ha dichiarato – sarebbe un «regalo a Vladimir Putin».

Parole simili a quelle impiegate da un buon numero di leader europei, a partire dal cancelliere tedesco Olaf Scholz. Volodymyr Zelensky, ovviamente, ha colto la palla al balzo per supplicare gli alleati di «non far vincere» Mosca. In quest’ottica – in sintonia con il segretario della Nato, Jens Stoltenberg – ha messo in relazione la penuria di armi e munizioni con i rovesci al fronte come l’esempio di Andiïvka, lasciata dall’esercito ucraino proprio nella notte tra venerdì e ieri, sembra confermare. Le affermazioni finora esposte contengono un’indubbia parte di verità.

A preoccupare, però, è “la parte mancante” di tali affermazioni. A quasi due anni dall’ingiusta aggressione russa all’Ucraina, i leader globali continuano a riproporre una strategia a senso unico, incapace – il tempo lo sta rivelando – di produrre risultati: o armi o Putin. Quasi che decenni di sforzi per la costruzione di un’architettura multilaterale non ci fossero mai stati.

La terza via – quella della diplomazia – non è semplicemente contemplata. Si potrebbe obiettare che è impossibile scendere a patti con il capo del Cremlino, sempre pronto all’esterno a farsi beffe del diritto internazionale e, all’interno, a impiegare il pugno di ferro con gli oppositori. Le organizzazioni multilaterali, tuttavia, sono state create proprio per far fronte all’arbitrio del singolo, leader o Stato.

I limiti nel loro funzionamento non ne giustificano l’archiviazione. Richiedono semmai l’urgente riforma. E soprattutto la volontà di immaginare e percorrere strade nuove. Un sogno ingenuo? Non più di quello di credere che l’attuale smania bellicista possa sciogliere gli intricati nodi del presente. Più che alla determinazione a trovare soluzioni, l’ansia della trincea sembra la reazione alla paura di fronte alla complessità di questo cambiamento d’epoca. Il terrore di una politica ostaggio dell’affanno delle risposte immediate, a portata di “like”. La diplomazia richiede spazio, tempo e coraggio. Il coraggio di accordi imperfetti. L’alternativa è la guerra. E dall’Ucraina a Gaza, passando per altri 182 Paesi lacerati, di conflitti ne abbiamo fin troppi.


(Avvenire, 18 febbraio 2024)

di Silvia Baratella


Un nuovo #metoo è in corso all’Università di Torino. Le studentesse stanno denunciando abusi, ricatti sessuali e ritorsioni da parte di alcuni docenti e le notizie cominciano ad approdare sulla stampa. Mi ha colpita l’intervista in merito a una delle universitarie torinesi, andata in onda a Prisma su Radio Popolare del 13 febbraio

L’intervistata, iscritta a un corso di laurea frequentato quasi solo da maschi, ha ricevuto attenzione da uno dei suoi docenti e ha pensato di aver finalmente incontrato un professore che teneva in considerazione le ragazze. Le aveva persino proposto di fare la tesi con lui. Peccato che l’avesse fatto toccandola un po’ dappertutto, spalle braccia faccia, tanto che lei si era chiesta se non ci stesse provando. Si era risposta che non era possibile, che era solo un modo di fare. Quando si è cominciato a parlare di docenti molestatori in ateneo, le è venuto subito in mente lui e si è detta di nuovo che era impossibile. Solo quando il nome di lui è uscito nero su bianco sulla stampa se ne è convinta, e a quel punto le sono venuti degli attacchi di panico. Tranne quel professore, ci tiene a precisare, i docenti maschi la hanno sempre rispettata. Commenta che è inaccettabile che una ragazza arrivi a non rendersi neppure conto di essere stata molestata, che la colpa è dello Stato che non fa educazione sessuale.

Il racconto è sincero e sentito e il quadro che ne esce è rivelatore. Intanto, il sollievo che prova la studentessa quando un professore finalmente si accorge di lei (prima di capire che è per molestarla) è indicativo del riconoscimento che una giovane donna può aspettarsi in quell’università: i docenti “non molesti” ignorano le allieve fino a farle sentire inesistenti, sarebbe così che le “rispettano”? Poi, la studentessa racconta di uno sdoppiamento che tante donne hanno vissuto e da cui molte sono uscite grazie al confronto fra donne e all’autocoscienza: lei sa benissimo che il professore la sta molestando, ma è convinta di sbagliarsi; sa benissimo che lui ha i requisiti del molestatore, ma lo ritiene impossibile finché non glielo certifica l’autorità del “quarto potere”. Solo allora si autorizza a credere a sé stessa e a provare il panico che le covava dentro. E alla fine chiede smarrita a un’altra autorità di potere, lo Stato, di decretare che ciò che ha dolorosamente vissuto (ed è stato per forza doloroso per lei, se ha scatenato attacchi di panico a posteriori) è un abuso e che lei è autorizzata a considerarlo tale.

Affidandosi così allo Stato però sancirebbe la rinuncia al suo sentire e alla sua esperienza, la rinuncia alla sua verità soggettiva. Lei, come tutte noi, non ha bisogno che il potere le dica che cosa sa già di aver subito, ha bisogno di credere a sé stessa. Non ha bisogno di un corso di educazione sessuale per sapere quando una mano addosso, anche solo sulla spalla o sulla guancia, non la vuole. E che di conseguenza quella mano, lì, non deve starci. Ha bisogno della relazione con altre donne per autorizzarsi a dar credito al proprio sentire. È creando relazioni con altre che può contribuire a creare un’università a misura di donna. Io le auguro con tutto il cuore di riuscirci e forse questa sua presa di parola pubblica sarà un primo passo; di sicuro è preziosa perché permetterà di fare chiarezza ad altre che vivono la stessa confusione.

Però sarebbe d’aiuto se i movimenti organizzati la smettessero di inventare e proporre sempre nuove rivendicazioni che mantengono le donne dipendenti da chi deve concedergliele: distolgono un sacco di energie dallo sperimentare spazi comuni di libertà.


(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2024)

di un gruppo di donne e uomini


Questo appello ci arriva da un’amica, una delle persone che l’ha redatto. È stato mandato anche al Manifesto e ad altre testate.


Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.

Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia.

Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti.

Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi.

Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro.

I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.

Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare le voci critiche e allarmate di chi vive in Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.

Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni, anche personali. Per questo non vogliamo stare in silenzio, soprattutto oggi, Giorno della Memoria.

Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.

Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?

Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.

Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti.

Non siamo d’accordo con le indicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene cosa sia l’antisemitismo e ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi, soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti anche con parte della sinistra. Ma non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.

In questo momento, quando tutto è difficile, proviamo a pensare e a sentire insieme.


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2024)

di Umberto Varischio


Non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. Consideriamo un oggetto come il tavolo che vediamo di fronte a noi. È innegabile che esista concretamente come oggetto con caratteristiche fisiche evidenti come colore e durezza. Tuttavia, cosa lo fa considerare un oggetto, un’entità reale, un tavolo? La nozione di tavolo si basa sulla sua funzione: è un mobile progettato per essere utilizzato come tavolo. Questa definizione presuppone l’esistenza dell’umanità che ha il bisogno di appoggiare oggetti o per mangiarci sopra. Ciò non riguarda intrinsecamente il tavolo in sé, ma piuttosto il modo in cui lo percepiamo e lo utilizziamo. Se cercassimo il tavolo in sé, privo di relazioni con l’esterno e soprattutto con noi stessi, scopriremmo che non esiste come entità isolata.

Il mondo non è suddiviso in entità indipendenti. Una catena montuosa non è intrinsecamente divisa in singole montagne: siamo noi che la separiamo in parti che colpiscono la nostra percezione. Praticamente quasi tutte le nostre definizioni sono relazionali: una madre esiste in quanto vi è un figlio, un pianeta è tale perché orbita attorno a una stella, una posizione ha significato in relazione a qualcos’altro.

Quella che ho cercato di illustrare sinora è la tesi di Nāgārjuna, un filosofo buddhista vissuto tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo in India e considerato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna o “Grande veicolo”, nella rielaborazione del fisico teorico Carlo Rovelli nel suo saggio divulgativo sulla fisica quantistica intitolato Helgoland.

Per tornare alle relazioni, l’aspetto che più mi interessa, il femminismo in generale si basa sulla presa di coscienza personale e sulla relazione. La relazione inizia con il rapporto con sé stesse e si sviluppa ulteriormente nella relazione con il mondo circostante; possiamo orientarci se guardiamo dentro di noi e se costruiamo e manteniamo relazioni con il mondo.

Certo, le relazioni sociali sono ben più complesse di quelle che si possono stabilire nel puro spazio fisico, ma si può ipotizzare che, come scrive Maria Luisa Boccia, la rivoluzione del simbolico rappresentata dal femminismo della differenza e le relazioni abbiano la propria matrice in un “materialismo ontologico” che si occupa dei corpi, della materialità dell’esistenza.

Nella mia adolescenza sono stato educato a pensare, come quasi tutti quelli della mia generazione, che riconoscere i miei bisogni individuali volesse dire riconoscere una propria debolezza e che la dipendenza da altri e altre fosse una minaccia alla mia mascolinità. I miei sentimenti di bisogno e di dipendenza sono stati spesso svalutati e mi si insegnava a vivere autonomo, senza aver bisogno che di poche relazioni significative.

Per un uomo che ha avuto questo apprendistato patriarcale, abituato a vedersi come un’isola e a non sapere che «le isole si tengono per mano sotto il mare» (King Crimson, Island), è suggestivo pensare che la materialità dell’esistenza, che è anche il luogo della politica e del vivere insieme, sia ontologicamente basata principalmente sulle relazioni e sull’interdipendenza.


(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2024)

di Elena Caslini


L’artista piacentina, classe 1974, porta per la prima volta le sue opere intrise di poesia naturale nell’istituzione milanese. Con Chiara Camoni, il femminile primigenio si coagula in forme e materiali organici. Attraversati da una magica forza generatrice.


Nella sua celebre conferenza sul Rituale del Serpente, nel 1923 lo storico dell’arte Aby Warburg rifletteva su come la perdita di una visione mitologica sul mondo non avesse davvero aiutato l’uomo a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza.

A distanza di un secolo, dal senso di questa esistenza ci siamo forse allontanati un po’ di più; e il ritorno a una dimensione magica può forse aiutarci a ritrovare quelli che l’artista Chiara Camoni (Piacenza, 1974) definisce come «piccole epifanie, momenti di grazia e di bellezza che sembrano rivelare il senso del vivere. Questi attimi, velocissimi, si coagulano intorno all’opera d’arte, che lavora su un piano emotivo e inconscio, nel momento del processo creativo e della sua fruizione».

Tenendo lo sguardo disponibile e aperto, la realtà può cambiare sotto i nostri occhi. Le ciotole di porcellana e onice impilate in ritmi sinuosi si trasformano in quei serpenti di cui parlava Warburg, depositari di antichi poteri, e, contemporaneamente, in quelli così reali visti da Camoni nel suo giardino a Seravezza, dove vive e lavora. Silenziosi, scandiscono il ritmo della retrospettiva che l’Hangar Bicocca dedica all’artista da oggi fino al 21 luglio, raccogliendone il corpus di opere più ampio mai presentato finora. «Le mie serpentesse disegnano i corridoi, le stanze e gli spazi della mostra come in un sito archeologico, un giardino all’italiana dove c’è architettura ma lo sguardo vola libero, verso un centro che rimane vuoto e attorno al quale chiamo a raduno le mie creazioni». Sono le Sorelle, falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse del titolo della mostra, che, come un incantesimo, evoca queste presenze fatte di erbe, bacche, fiori, argilla, terra e ceneri. Materiali di ordinaria mitologia.

La sacralità delle opere di Camoni si esprime nel loro essere femminili. Un concetto che per l’artista assume connotazioni olistiche, dove totalità e riappacificazione degli opposti ne definiscono l’essenza. Camoni è un’artista donna senza rivendicazioni né denunce. Lo è, al contrario, nel suo appellarsi a un’antica forza generatrice che, dagli inizi dei tempi, è propria di ogni donna. «Nella costruzione dell’oggetto scultoreo metto al mondo qualcosa che comprende e accoglie tutto: il maschile, il femminile, il neutro, l’animale, il vegetale. Le mie opere sono ricolme di loro stesse, delle loro migliaia di forme, in continua trasformazione. Sono distintamente femminili nel loro vivere con agio nel cambiamento e nell’indeterminatezza. Il vaso in ceramica, declinato nei miei Vasi-farfalla, è l’apoteosi di questa ambiguità, nel suo essere allo stesso tempo pieno e vuoto, dentro e fuori, bellissimo e drammatico».

Nella coralità della sua visione, Camoni si inserisce in una storia di donne, che scarseggia di figure materne per come la Storia ci è stata raccontata, ma che si alimenta di una sensibilità e un sentire condivisi. Insieme alle artiste, poetesse, intellettuali, sorelle spirituali con cui Camoni collabora o a cui si ispira per opere come Pavimento (for Clarice), omaggio alla scrittrice brasiliana Clarice Lispector, l’artista contribuisce a un significativo passaggio di testimone, affinché l’idea di un’identità femminile, ancestrale ma ancora così reale, possa continuare a fiorire. Proprio come i suoi vasi.


(Vogue, 14 febbraio 2024)

di Annalisa Cuzzocrea


Nasce tutto da un doppio riconoscimento. Giorgia Meloni ha scelto la segretaria del Pd Elly Schlein come leader dell’opposizione, e si prepara a sfidarla alle Europee. Così ieri mattina – al telefono – ha ascoltato le sue parole sul Medio Oriente, su quel che sta accadendo a Gaza. Le parole sulla necessità di un cessate il fuoco umanitario nella Striscia, anche per ottenere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. E ha scelto di fare in modo che la mozione parlamentare del Pd passasse grazie all’astensione della maggioranza. Non era previsto, non era scontato. E non era semplice. Non è neanche a costo zero per Meloni, che si ritroverà in casa la Lega – Salvini ha già cominciato – a esercitare distinguo sposando totalmente la posizione del governo guidato da Benjamin Netanyahu. E che sebbene non abbia condiviso le parti della mozione di critica all’esecutivo che sta conducendo la guerra a Gaza, sconterà sicuramente il malumore di Israele.

Il testo passato alla Camera infatti impegna l’Italia a muoversi per un’iniziativa in tutte le sedi che chieda il cessate il fuoco. Può sembrare meramente simbolico, ma non lo è. Significa ad esempio che se si dovesse votare di nuovo una richiesta di cessate il fuoco alle Nazioni Unite, il governo italiano dovrebbe essere conseguente e non astenersi come ha fatto alla fine di ottobre. Significa – anche se le due posizioni non sono minimamente paragonabili – spingersi dove gli Stati Uniti non possono ancora arrivare, e infatti non sono arrivati. Biden e Blinken stanno evidenziando tutti gli errori del premier israeliano, ma questo non li ha portati a chiedere di fermare le operazioni su Gaza. Perché una simile richiesta, fatta da Washington – dai cui rifornimenti in armi Israele dipende – avrebbe tutto un altro peso.

Eppure, quel che è successo alla Camera porta il nostro Paese su una posizione che è già di Germania e Gran Bretagna e che, vista da chi la propone, dovrebbe servire a fermare Netanyahu le cui intenzioni su Rafah porterebbero inevitabilmente a una nuova catastrofe umanitaria, forse ancor più sanguinosa. È probabile che le ragioni di Meloni siano geopolitiche e di posizionamento internazionale, ma è un fatto che questa decisione arrivi attraverso un patto con l’opposizione. Ed è – dal punto di vista di chi è affezionato alla Repubblica parlamentare che ancora abbiamo – un fatto positivo.

A sua volta Schlein riconosce a Meloni il suo ruolo di presidente del Consiglio, l’unica in grado di far avanzare la posizione italiana a livello internazionale: la segretaria Pd ha cercato, come dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, un’interlocuzione diretta con la premier perché pensa che sulle questioni più delicate, che devono trascendere lo scontro ideologico, l’unica strada sia il lavoro comune. Lo ha fatto dopo un’operazione di cucitura attenta fatta nel partito dal responsabile Esteri Peppe Provenzano, che ha cercato anche un accordo con il resto delle opposizioni, Italia Viva compresa. E ha capito che l’unico modo di ottenere qualcosa che non fosse un semplice punto simbolico, era chiamare direttamente Meloni.

Per un giorno il Parlamento è tornato centrale e per un giorno maggioranza e opposizione hanno lavorato come in un Paese maturo. Ma è partita ieri, più di quanto non fosse già accaduto nelle scorse settimane, la corsa solitaria delle due leader. Che necessariamente taglia fuori i comprimari e polarizzerà sulle loro figure i prossimi mesi e soprattutto le prossime elezioni europee. Questo significa che ci saranno ancora scossoni a destra come a sinistra. Dove Giuseppe Conte – che già non amerebbe essere messo dentro a una generica sinistra – cercherà di farsi spazio con la sua proposta politica a danno del Pd. Quanto a Salvini, tenterà di fare lo stesso, come ormai da mesi. La corsa però è già partita. E Schlein e Meloni sembrano decise a non farsi fermare.


(La Stampa, 14 febbraio 2024)

di Donatella Borghesi


La scossa emotiva che è seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ha segnato un cambiamento di clima: che sia arrivato il momento di ascoltarsi, uomini e donne? Gli uomini hanno cominciato a parlare di sé, a interrogarsi sul patriarcato – a volte sinceri, a volte no, spesso a sproposito, “a schiovere”, come direbbe Erri De Luca – ma chissà se ascolteranno la voce delle donne. Sicuramente è il momento giusto per chiedersi quello che si ripete da tempo la filosofa Annarosa Buttarelli: «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente, nonostante abbiano indagato bene e male con esiti sorprendenti?» 

Proprio al bene e al male – con la minuscola, attenzione – è dedicato un saggio-manifesto appena uscito, dal titolo Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore), che sembra rispondere a un’ispirazione quasi profetica, e della profezia ha l’andamento acceso e fortemente etico. Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” (il suo Sovrane, lautorità femminile al governo ha avuto più edizioni) e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Annarosa Buttarelli ha sentito l’urgenza di scrivere queste pagine proprio sotto la spinta emotiva di troppi femminicidi avvenuti a pochi giorni di distanza uno dall’altro. «Dobbiamo pensare l’impensato, se desideriamo uscire dall’agonia in cui il mondo è precipitato». Il suo percorso – senza dimenticare gli echi di Platone, Sant’Agostino, Spinoza – segue una genealogia femminile non cronologica, ma di desiderio, mente e cuore insieme. A cominciare da Eva (proprio lei, la prima donna), e poi Simone Weil, Hannah Arendt, María Zambrano, Carla Lonzi, Françoise Dolto, infine scrittrici come Flannery O’Connor e Iris Murdoch, tutte voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della rovinosa crisi attuale della civiltà europea-occidentale.

Cominciando dalle origini, dall’Antico Testamento. Ricorrendo a un testo importante della mistica ebraica, Il male primordiale nella Qabbalah di Moshe Idel (Adelphi), Buttarelli smonta la simmetria “primordiale” tra il bene e il male, che fa da contrappunto all’altra simmetria della nostra cultura, quella maschile/femminile. Si riteneva che il male anticipasse il bene, cioè fosse emanato per primo, e quindi secondo la Qabbalah dalle prime manifestazioni divine, dalle sefirah. «Ho imparato finalmente che Pensiero, Sapienza e Discernimento sono attributi del male femminile», scrive Buttarelli, «sono attributi di Eva, colei che ha spaventato l’umanità perché ha saputo discernere il bene dal male, ha saputo insegnare a fare le differenze: era la Madre Pensatrice. Mi pare molto interessante sapere che tentare di spezzare l’Uno, come capita di fare a chi osserva con coraggio e lucidamente la realtà “inferiore” terrena, è stato inteso come “male” che spezza il sogno di unione assoluta, radicato nell’antropologia maschile». Trovo echi della necessità di questa rottura anche nell’analisi che ha fatto Stefano Levi della Torre in Dio, edito da Bollati Boringhieri. «La Bibbia configura un Dio che non ha responsabilità solo del bene, ma anche del male. Dio è concepito come vivente, dignitosamente non scarica solo su altri viventi, umani o demoniaci, la responsabilità del male, ma afferma la propria responsabilità sulla tensione tra bene e male che è inerente alla vita. Ciò si riflette anche nella sorprendente invocazione della preghiera ebraica e poi cristiana del Padre nostro: non indurci in tentazione, che attribuisce a Dio attitudini tipicamente demoniache». 

Ma torniamo al lavoro di Annarosa Buttarelli, che riparte da Simone Weil, la ragazza ebrea che stando dalla parte degli ultimi si è consumata facendosi “campo di battaglia” (come farà anche Etty Hillesum nel campo di concentramento). «Non si può sapere ciò che un uomo ha in mente quando pronuncia una certa parola (Dio, libertà, progresso…). Il bene che c’è nella sua anima lo si può giudicare solo mediante il bene che è nei suoi atti, nell’espressione di pensieri originali», scrive Simone Weil. È l’inizio di una metafisica sperimentale o meglio sperimentante, che svilupperà soprattutto la filosofa spagnola María Zambrano. Buttarelli sottolinea come Simone Weil abbia anche una dimensione soprannaturale e inappropriabile del bene: «Dio è il Bene. Non è una cosa, né una persona, né un pensiero. Tuttavia, per afferrarlo, dobbiamo concepirlo come una cosa, una persona, un pensiero». E molto precisa è la sua visione del male: è l’attaccamento del desiderio alle cose terrestri, è la mancanza del limite, la dismisura, l’avidità di impossessarsi di tutto il peccato originale che perseguita la condizione umana. 

Il bene è negli atti, quindi. Per analizzarli la filosofa Buttarelli, che detesta il politicamente corretto, il moralismo giudicante e la retorica dei buoni sentimenti, ricorre alla psicoanalista lacaniana Françoise Dolto, e prende il suo commento alla parabola evangelica del buon Samaritano. Che non è un “buono” qualunque, ma uno che ha fatto solo ciò che occorre, ciò che è necessario, e poi se ne va. Scrive Dolto: «È un samaritano… non un intellettuale di sinistra dell’epoca. Non è neppure una colonna della sinagoga. Fa parte di quella gente che non ha nulla di cui gloriarsi: niente Chiesa e poche virtù. Persone molto vicine alla natura, non certo uomini spirituali. Egli è così com’è! Un uomo materiale, pratico». Ecco, bisogna imparare da chi “fa” qualcosa, lasciando perdere chi non fa. Il “sottosopra” di Dolto consiste proprio in quell’andarsene senza chiedere nulla in cambio, neppure un grazie o un dovere di riconoscenza. Per sentirsi “prossimo”, concetto e valore oggi dimenticato, rilanciato da Dolto: «Il nostro prossimo sono tutti coloro che la sorte ha messo sulla nostra strada, che c’erano quando avevamo bisogno di aiuto e ce lo hanno dato senza che noi lo chiedessimo, e che ci hanno soccorso, senza nemmeno più conservarne il ricordo… Tutti coloro che come fratelli e sorelle ci hanno preso sotto la loro responsabilità fino a quando avessimo ripreso le forze, lasciandoci poi liberi di proseguire per la nostra via, sono stati il nostro prossimo». Questo passaggio potrebbe essere il senso di un cambio di civiltà, sottolinea Buttarelli, «che ci metta di fronte alla perdita del senso di responsabilità, alla cattiva psicologia che invita a prendersi cura solo di sé, alla cattiva filosofia che sostiene ancora l’individualismo e il narcisismo, alla cattiva politica che conosce solo il dettato moralistico del tutto astratto dalle necessità concrete, che non riguardano solo la sopravvivenza ma soprattutto il vivere in relazione». Per ritrovare quella “corrente d’amore” di cui Dolto parla in Il gioco del desiderio e in La libertà damare. Come diceva in fondo Sant’Agostino: «Ama e accetta tutti i rischi».

Parlare del male senza ricorrere a Hannah Arendt non è più possibile dopo la sua illuminazione sulla “banalità del male”, quella che portò alla Shoah (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli). Definita da Buttarelli «l’unica pensatrice tra i filosofi novecenteschi che ha saputo dare un nome definitivo al male incarnato», quello che fa strame della vita umana perché è scontato e convenzionale, Arendt ci conduce «all’imprescindibile presa di coscienza che il male è il prodotto di un agire ordinario, comune, e invisibile ai più». Arendt si rivolge direttamente a Eichmann dicendogli che in politica obbedire agli ordini è la stessa cosa che appoggiarne la politica, in questo caso lo sterminio del popolo ebraico, e non ci sono alibi che tengano. «Hannah Arendt ha visto che non pensare, non sapere, non ricordare, non decidere autonomamente sono proprio tra i fondamenti della diffusa capacità di fare banalmente, insospettabilmente, da gentili vicini di casa, il diffuso male quotidiano che ormai, anche oggi, di nuovo, si fatica a intravedere». 

Pensando al male di oggi, dalle guerre su guerre ai femminicidi quotidiani, si ha un attimo di trasalimento quando si arriva al titolo «Pregare, non domandare, augurare giustizia a chi fa del male». Buttarelli sconfessa ogni tentativo di etica razionale per fronteggiare il male, il male non si può correggere cercando di dimostrare la verità, o cercando il compromesso morale ammettendo che l’odio ha un’energia superiore rispetto al bene. «Ribadisco l’esistenza dell’innocenza», sostiene l’autrice. E qui ricorre all’amata María Zambrano, che scrive in Il sogno creatore (Bruno Mondadori): «Accettare perfino lo sbaglio non commesso, il male non compiuto, farsi carico di tutte le possibilità del male, oltrepassare ogni confine senza ormai sapere e senza voler sapere, dal momento che non è possibile, poiché l’essere e il non essere nel bene e nel male eccedono l’umana conoscenza». 

Il male resta un mistero, e nel male ci può essere anche piacere, lo ricorda Hannah Arendt, in una lezione tenuta a New York nel 1965, quando combatteva i continui tentativi di giustificare e razionalizzare il male che si impossessa della Storia: «Infine per noi, e per l’esperienza che abbiamo fatto (nazismo, fascismo, olocausto), c’è la più seria delle perplessità: l’evasione, l’aggiramento, o la giustificazione della malvagità. Se la tradizione della filosofia morale (distinta dal pensiero religioso) concorda su un punto da Socrate fino a Kant e, come vedremo, fino ad oggi, esso concerne l’incapacità umana di compiere il male deliberatamente, di volere il male per il gusto del male. A essere precisi, l’elenco dei vizi umani è antico e assai lungo, e visto che non vi mancano la gola e l’accidia (in fondo vizi piuttosto secondari), è piuttosto curioso che non ci sia il sadismo, il puro e semplice piacere di causare e contemplare il dolore degli altri. L’unico vizio che a buon diritto possiamo definire il vizio di tutti i vizi per lunghissimi secoli. È possibile che sia sempre stato abbastanza diffuso, ma di solito è relegato alla camera da letto e solo di rado trascinato in tribunale». 

Ma allora che fare? Proviamo a guardare all’autorità femminile custode millenaria del bene-giustizia, suggerisce: «Quali pratiche hanno seguito le donne che non si sono regolate costruendo morali, e non si sono fatte proteggere dalla consolazione delle buone azioni a tutti i costi o del perdono facile? In mancanza di morali e di prescrizioni protocollari, si mostra anche l’altro lato del problema: come evitare di rendersi complici del male contingente, come evitare di aggiungere al male subìto il male della vendetta, come evitare la risposta suicidaria o omicida? Cosa resta da fare?». 

La risposta è non chiedere il perché del male – «l’assidua resa dei conti tra i maschi e Dio». 

E, a proposito dei femminicidi, la filosofa ricorda come per le donne l’abisso della disumanità è spalancato da millenni e si attiva ogni giorno in tutto il mondo, anche se a volte ce ne dimentichiamo. La misoginia è una crudeltà che si esprime anche in forme molto sofisticate, tanto da ingannare la percezione di donne non allenate a cogliere i comportamenti offensivi dei “loro” uomini. Chiedere perché mi fai del male, perché fai il male è una domanda pericolosa: costringe ad alzare la posta, istiga alla rabbia, e la vittima rischia di restare tale per sempre, nella dipendenza fatale dal proprio carnefice. Augurare il giusto al male, anziché maledirlo. Sottraendogli giustificazioni e benevolenza. 

Con una sapienza intuitiva, ci dice Buttarelli, è quello che hanno fatto da sempre le donne, una forma di politica passiva, un «ti auguro che…» rivolto a chi lo sta compiendo. Non lo ha fatto forse Antigone predicendo il futuro a Creonte? E qui entrano a sorpresa le due scrittrici a cui attinge: Iris Murdoch, che ha scritto La sovranità del bene, e Flannery O’Connor, la scrittrice preferita di Tarantino, autrice di Nel territorio del diavolo e Il cielo è dei violenti. «Il cortocircuito che si crea nel destino umano tra bene e crudeltà è da entrambe accettato come misterioso, ma la ricerca tutta interna alla condizione umana permette a Murdoch di concepire l’amore, cioè uno dei nomi del bene, come inseparabile dalla giustizia e dal rispetto del reale». Un assoluto essere-per-nessuno-scopo. Un amore austero per il Bene privo di consolazione. È l’amore necessario di Carla Lonzi per un universo senza risposte. E infine Flannery O’Connor ci regala un sorriso: nel racconto Un brav’uomo è difficile da trovare un Balordo feroce assassino è smascherato da una vecchia signora, che con una semplicissima frase gli toglie il piacere della crudeltà.


(Doppiozero, 13 febbraio 2024)

di Susanna Tamaro


La scrittrice rievoca la sua infanzia in cerca di una identità. E avverte: diamo ai ragazzi il tempo per capire chi sono


Da appassionata naturalista quale sono, sono sempre stata incantata dallo straordinario numero di vie che l’evoluzione ha saputo sviluppare nel corso di milioni di anni per portare avanti la sua unica, ossessiva missione: quella di riprodursi. I modi sono diversi e sorprendenti, neppure il più fantasioso dei maghi avrebbe potuto mettere insieme una simile fiera delle meraviglie.

Il grande caos che da qualche anno si è creato, grazie a una campagna ossessiva sull’identità di genere, mi porta a pensare che ci sia bisogno di fare il punto sulla questione a partire dalla realtà.

Il modello identitario che ci viene continuamente proposto ormai è quello delle patelle, quei minuscoli molluschi che vivono abbarbicati in gruppo sugli scogli a cui la strabiliante creatività evolutiva ha donato l’ermafroditismo proterandrico che permette loro di cambiare sesso a piacere: condannate a vivere su uno scoglio, per avere una maggior sicurezza riproduttiva devono poter rapidamente trasformarsi. Sono un maschio circondato solo da altri maschi? Et voilà, mi trasformo in una femmina, o viceversa. I casi di ermafroditismo possono comparire anche nei mammiferi – io ad esempio ho avuto un gatto con questa peculiarità – ma si tratta di fenomeni isolati.

Negli esseri umani le cose sono più complicate perché, se a un livello di società semplice permane l’imperativo della riproduzione, quando la cultura si evolve e porta complessità di pensiero, si aggiungono altre istanze perché l’essere umano, unico nel vivente, ha il dono del libero arbitrio. Può capitare così di nascere maschi e desiderare di essere femmine o viceversa, di essere attratti da persone dello stesso sesso oppure anche di non provare alcun interesse per questo tipo di argomenti.

Personalmente, ho avuto l’infanzia devastata dalla disforia di genere e per questo ne posso parlare con cognizione di causa. Ho iniziato ad avere problemi fin dall’asilo, quello che nei primi anni era una forza primigenia e inconscia è diventata una disperata consapevolezza: ero scesa in terra nel corpo sbagliato. Data l’epoca, non ho mai confessato a nessuno questa mia devastante certezza ma passavo le notti piangendo se mi veniva regalata una bambola o peggio ancora un qualche vestito da bambina. Verso gli otto, nove anni la sofferenza è diventata incontenibile, avevo sentito dire che a Casablanca si poteva cambiare sesso e quella città improvvisamente si era ammantata per me di una luce magica. Mia nonna, intuiti i miei tormenti, a un Carnevale mi ha comprato un costume da ufficiale, divisa che non mi sono più tolta fino a che le ginocchia non si sono bucate.

Nel corso delle scuole medie, questo mio penare ha iniziato ad affievolirsi; cominciavo ad avere i miei interessi, a immaginare una vita diversa da quella della caserma. Avrei fatto la scienziata, non cera dubbio. E poi, al primo anno delle superiori, ho fatto una scoperta incredibile: esistevano i maschi e sembravano essere estremamente interessanti. Potenza e meraviglia degli ormoni! Sarebbero stati anche loro interessati a me? Davanti alla prorompente femminilità delle mie compagne, tentennavo incerta. Un giorno in cui volli indossare una gonna per cercare di raggiungere il loro livello, lo ricordo come uno dei più spaventosi della mia vita. Ma poi pensai che forse era meglio restare com’ero, con jeans e maglietta, perché se qualcuno si fosse innamorato di me sarebbe stato colpito più dal mio interno che dalla mia carrozzeria. E così è stato. Le atroci sofferenze della disforia di genere si sono dissolte come un fantasma alle prime luci dell’alba.

Da molti anni ormai mi chiedo però che cosa ne sarebbe stato di me se, a sette, otto, nove anni, fossi stata presa sotto l’ala protettiva dei falchi del gender? Mi avrebbero convinto della liceità delle mie inquietudini e, come nella più cupa delle fiabe, con il sorriso suadente di chi in realtà è un orco, mi avrebbero rassicurato, avrebbero saputo come risolvere i miei problemi e io avrei baciato con riconoscenza le mani di quegli angeli che promettevano di dissolvere il dardo infuocato che da sempre feriva il mio cuore. Psicologi, pillole, ormoni e poi il grande salto di diventare ciò che avevo sempre sognato: un maschio.

Sono fermamente convinta che la storia giudicherà i cambiamenti di sesso imposti ai bambini e ai ragazzi come un crimine. Un crimine ideologico, perché se io, sognando di essere un ufficiale, avessi accettato di fare il grande passo, non mi sarei trasformata in un maschio ma in un essere bisognoso di cure a vita, perché la natura è estremamente più forte della cultura o dei nostri desideri e, per contrastarla, a parte le conseguenze degli interventi chirurgici, avrei dovuto ingurgitare ormoni fino alla fine dei miei giorni perché tutto l’imponente apparato biochimico del mio corpo avrebbe continuato a gridare solo una cosa: sono una femmina!

Non ho niente in contrario al fatto che una persona ormai adulta, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, decida consapevolmente di fare questo passo, convinta di raggiungere la sua giusta identità. Ognuno è padrone del suo corpo e se non nuoce ad altri può fare quello che vuole. Però non posso aver pace pensando al folle apparato che è stato messo in moto in questi anni per devastare le vite di bambini e di adolescenti, nel silenzio di una società sempre più pavida e confusa, capace solo di affidarsi agli esperti e ad una scienza che tutto ha a cuore, tranne il bene della persona. Come si può pensare di bloccare con la triptorelina lo sviluppo di un bambino nell’attesa che decida cosa voglia essere? La vita non è fatta di foto polaroid. E da quando in qua i bambini hanno la consapevolezza e la capacità di determinare da soli il loro futuro? A dieci, dodici, tredici anni, senza alcuna esperienza di cosa sia la vita del corpo, come ci si può avviare a una trasformazione dalla quale non è possibile tornare indietro?

E qui si rientra nel culto tutto postmoderno del bambino come essere saggio onnisciente, a cui va evitato ogni tipo di sofferenza e i cui desideri diventano improrogabile legge. La saggezza educativa, quella realtà che sembra essersi misteriosamente dissolta, imporrebbe a chi sta vicino a bambini con la disforia di genere di lasciarli liberi di manifestare la loro inquietudine, la loro sofferenza – come ha fatto mia nonna con la divisa da ufficiale e come hanno fatto Brad Pitt e Angelina Jolie con la loro figlia che da bambina voleva essere chiamata John e che ora è diventata l’affascinante Shiloh – accompagnandoli verso l’adolescenza, quando, se non si è caricato ideologicamente questo aspetto della vita, nella maggior parte dei casi la disforia si dissolve. Quante sono le bambine e le ragazze Asperger non diagnosticate avviate al cambiamento di sesso? Quando ci penso, non dormo la notte. E poi, questa ossessione – quella di rinchiudere in un’ideologia la complessità, la ricchezza e la varietà degli esseri umani – vuol dire costringere lumanità in una gabbia da cui sarà sempre più difficile uscire. O sei maschio, e devi essere maschio maschio, o sei femmina, e devi essere femmina femmina. Una femmina che non ama essere frou frou, che non civetta, che ha interessi altri rispetto alla seduzione, viene subito inquadrata come qualcuno che sta a disagio nel suo ruolo; e se qualche infelicità ha, magari di altro genere – famiglie sfasciate, anaffettività, abbandoni educativi – verrà subito caricata di un solo punto. L’identità sessuale. O meglio genitale. La stessa cosa vale per i maschi. Un maschio che ami giochi quieti, riflessivi, che preferisca passare il suo tempo con le bambine invece che buttarsi in risse selvagge verrà subito spinto a pensare che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui si potrebbe porre rimedio.

Da che mondo è mondo, i bambini sono stati liberi di sperimentare, tra le penombre dei cespugli o dei cortili, lontano dagli sguardi degli adulti, l’identità e la potenzialità dei loro corpi, sperimentazioni protette dal sacrosanto velo del pudore e capaci di fingere una continua fluidità: «Facciamo che io ero… facciamo che tu eri…». I ruoli dell’infanzia sono da sempre meravigliosamente intercambiabili. La ricchezza della persona discende proprio da questo continuo dialogo esplorativo, spesso ambivalente. Ci si forma ricercando, indagando, accettando e rifiutando. Ma quando questi movimenti naturali della crescita vengono militarmente guidati in una prospettiva rigidamente ideologica – il cui fine è incasellare e incatenare qualsiasi realtà dell’uomo alla sue genitalità – ci troviamo di fronte a un’umanità spinta nell’angustie di un vicolo cieco.

Eppure, nonostante tutte queste evidenze, la società contemporanea si è abbandonata al sonno della ragione, il pensiero collettivo, astutamente e lungamente indottrinato, continua ad abbattersi con furore come un’onda contro una granitica scogliera e a indicare nella scogliera il grande limite che impedisce a quell’onda di conquistare la libertà del mare aperto. Questa scogliera è in realtà un altare, e su questo altare avviene il sacrificio di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze che, a causa di un momento di confusione e di fragilità nella crescita, vengono trasformati in vittime sacrificali, perché a qualsiasi persona di buon senso appare subito chiaro che la disforia di genere nell’infanzia è sintomo di qualche altro profondo disagio, primo tra tutti, forse, quello di vivere in un mondo che ti ripete continuamente che la vita non ha senso, che noi siamo soltanto figli del nulla e del caso e che non esiste alcuna realtà al di là di quella forgiata dai nostri desideri.


(Corriere della Sera, 11 febbraio 2024)

di Silvia Ballestra


È una questione di qualità. Una sfumatura, un’omissione, giorno dopo giorno, a piccole dosi. Ricorda un po’ le truffe: se ti portano via tutto assieme te ne accorgi subito, se ti sottraggono un pezzettino alla volta ci metti un po’ di più.

E allora, ogni giorno da mesi, soprattutto all’ora di pranzo, ci tocca papparci questi telegiornali del primo canale della tv pubblica, in cui il linguaggio si torce impercettibilmente e bisogna avere l’orecchio un po’ fine per accorgersene, una particolare sensibilità per le parole, per la costruzione della frase.

Al momento di parlare di ciò che accade a Gaza, si produce uno strano fenomeno: la lingua del Tg1 diventa piccolina, poverina, come fosse una lingua nascondina, cancellina, dimentichina, sbianchettina dei nomi e dei numeri.

Funziona così: le frasi, quando sono in forma passiva, risultano senza complemento d’agente. I palestinesi vengono bombardati, sì, ma non si dice da chi. E muoiono, questo sì, ma risultano appunto morti, mai “uccisi”, perché se si muore ammazzati vuol dire che c’è qualcuno che ammazza, mentre lì, secondo questi servizi, visto che non si dice bene per mano di chi, si muore così, un po’ all’improvviso, nel nulla, tra bombe che cadono da sole.

In effetti attorno c’è il nulla: macerie, edifici rasi al suolo (case, ospedali, scuole, musei, università), strade cancellate, spianate di nulla desertificato dall’esodo forzato. Ma chi sarà stato mai a ridurle così? Non si sa, non si dice. O meglio, certo è stata la guerra, ma così, astratta. Ci sarà un esercito, tra quella polvere, tra quegli scoppi densi di fumo, ma non si sente, non si nomina.

I nomi dei palestinesi uccisi, sequestrati, arrestati, qualcuno li pronuncia, li scrive, li legge, li comunica? Non al Tg1. E non solo le parole, anche le cifre per mesi sono state taciute. Guai a riferire i numeri, mostruosi, delle vittime civili perché, ti dicono altrove, vai a sapere chi li fornisce. Non importa se sono le agenzie internazionali sul posto, le organizzazioni per i diritti umani, i soccorritori a fornirli ufficialmente: no no, quelli sono «i numeri di Hamas», sostengono, quindi non si possono dire.

E la parola genocidio, nonostante l’assedio, i proclami a togliere cibo, acqua, medicine, carburante, gli appelli contro «gli animali umani», è rimasta impronunciabile, tabù, rimossa per mesi e c’è voluta l’Aja con il «rischio genocidio» per riuscire a sentirla pronunciare.

Che strano, allora, potendo informarsi in rete e su piattaforme, vedere che all’estero non funziona così. Come stona questa lingua del Tg pubblico italiano, se sentita dopo la Bbc! È la lingua di un paese distratto e analfabeta, che assieme alle notizie ha perso i nomi, le parole, le cifre, i concetti. E ci vorrebbe davvero un bravo filologo, con carta e penna, a certificare quanto ci sono e quanto ci fanno i giornalisti del nostro principale telegiornale il cui canone, come si sa, lo paga anche chi analfabeta e distratto non è. Anzi, magari conosce pure qualche altra lingua per fare confronti impietosi.


(Il manifesto, 10 febbraio 2024)

di Fabrizia Giuliani


C’è una ragazza coraggiosa a Catania. Ha tredici anni. La retorica del racconto mediatico può farla diventare una “bambina”, certo l’infanzia è finita da poco, ma il coraggio, la determinazione, l’equilibrio con i quali ha agito portano fino in fondo il timbro della maturità. Non si può dire lo stesso delle reazioni e dei commenti a questa storia, ma riavviamo il nastro. Martedì scorso, tardo pomeriggio, esce per una passeggiata con il suo ragazzo – diciassette anni – nel parco al centro della città, Villa Bellini. Viene importunata da un gruppo di sette giovani di origine egiziana – tre minorenni – che trascina a forza la coppia nei bagni pubblici: lei viene abusata mentre il resto del gruppo tiene fermo lui. Dopo la violenza riescono a scappare, chiamare aiuto e denunciare. Le indagini sono veloci, i possibili aggressori identificati. La ragazza è convocata per il riconoscimento all’americana: molte facce, vetri oscurati. Indica dov’è certa, confermando le prove a carico di due degli indagati, si ferma dove non lo è: «Non voglio accusare persone innocenti». Tredici anni. La celerità delle indagini, la lucidità della deposizione, la puntualità del riconoscimento portano a chiudere il cerchio in tempi veloci: domani l’udienza e la convalida dei fermi.

Catania come Palermo, come Caivano. I luoghi diventano metonimie perché sono i soli tratti distintivi di copioni identici: violenza di molti contro una ragazza, violenza che deve essere filmata, condivisa oltre il presente, esibita. Serve il trofeo, il video, per documentare e ricattare. La tua vergogna garantisce la mia, la nostra impunità. Fermiamoci qui, è un punto nodale: chi abusa, filma e minaccia pensa di poter far leva su un senso comune che anche in presenza di una violenza documentata può rovesciare la colpa. È tua la vergogna come è tua la colpa: non si esce a certe ore, non ci si veste in un certo modo, non si accettano inviti. Questo è il retaggio patriarcale, il “dividendo” come lo battezzò Raewyn Connell, ben chiaro a chiunque esercita violenza. Questo è il tratto da combattere e dovremmo averlo ben presente ogni volta che commentiamo i fatti. Se la condanna oscilla a seconda della nazionalità degli aggressori o delle vittime, se gli abusi diventano il terreno per la strumentalizzazione, come sta accadendo, il fatto retrocede o scompare. La battaglia è persa. Serve responsabilità, invece, quando si governa, senso della misura, equilibrio. Va tenuta la barra ferma, come lo sguardo della ragazza al momento del riconoscimento del suo aggressore. Lavorare perché gli stupri di gruppo non si ripetano, sconfiggere la cultura che li sostiene, vuol dire riconoscere il tratto che unisce Caivano, Palermo e Catania non sacrificarlo in nome di guerre ideologiche che producono nuova intolleranza. La violenza degli uomini contro le donne va riconosciuta, chiamata per nome e combattuta con la stessa forza, ogni volta che accade. Non potremmo mai sperare di sradicarla se non identifichiamo quel tratto che con immensa fatica la battaglia di libertà delle donne ha portato alla luce e che oggi, come mostrano le parole del padre di Giulia Cecchettin, comincia a essere condivisa anche dagli uomini.

La ragazza di Catania, come altre che l’hanno preceduta, ha aperto una strada: non è facile essere all’altezza del suo coraggio e di quello che le servirà per affrontare il processo. Rispettarlo, però, è un dovere e bisogna cominciare adesso.


(La Stampa, 10 febbraio 2024)

di Luisa Fressoia


Articolo apparso su Avvenire il 10 dicembre 2023


Un gruppo di donne che tra loro non si conoscono cominciano a incontrarsi, accomunate dalla forte esigenza di parlare del proprio “essere genitori”, nella specifica e difficile situazione in cui oggi sono venute a trovarsi: il figlio o figlia hanno dichiarato la propria omosessualità, oppure hanno espresso il desiderio di transitare nel sesso opposto. Su invito dell’associazione milanese Agapo (Associazione genitori e amici di persone omosessuali), a cui si erano rivolte, dieci madri hanno accolto la proposta di un percorso di accompagnamento pedagogico finalizzato ad aiutarle ad affrontare le proprie difficoltà a gestire la relazione con il figlio o con la figlia e i propri dubbi sulle problematiche dell’identità sessuale e di genere.

Il percorso, costituito da più cicli di incontri tenutisi a partire dal maggio 2022 negli spazi di una parrocchia della città, si basa sulla metodologia autobiografica sviluppata in Italia a partire dagli studi e dalle intuizioni della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari alla fine degli anni ’90. Dal primo incontro emergono subito due aspetti: il desiderio profondo da parte di tutte le donne di non perdere la relazione con il figlio o la figlia e il bisogno urgente di poter esprimere il proprio dolore e disorientamento. Basta accettare, non esiste il problema. Questa è da anni, in sintesi, la risposta più frequente che si sente nel discorso pubblico. In verità il dolore di queste madri mostra radici più profonde dell’omofobia interiorizzata proveniente dalla nostra società, ovvero la non accettazione o il rifiuto dell’omo o transessualità.

Nel corso degli incontri le madri hanno avuto l’opportunità di esprimere il proprio dolore al fine di elaborarlo insieme alla possibilità di confrontarsi sulla complessità del tema. Il momento in cui un figlio rivela ai genitori la propria omosessualità o il proprio desiderio di cambiare sesso, non sentendosi a proprio agio nel corpo in cui è nato (disforia di genere), è un momento molto delicato sia per il figlio sia per i genitori stessi.

Come pedagogista lavoro soprattutto con i genitori, proponendo loro un percorso di presa di consapevolezza, che riattraversa la storia relazionale con il figlio o la figlia, al fine di migliorarne e arricchirne la relazione. L’obiettivo è che i figli imparino a prendersi cura di sé (che diventa anche cura degli altri). In tal senso il percorso è finalizzato non tanto a focalizzarsi sulla medicalizzazione (ad esempio le somministrazioni ormonali e gli interventi chirurgici irreversibili), ma ad attivare un profondo lavoro su di sé, sulle ansie e paure che il processo identitario comporta all’interno del percorso di crescita, che è sempre comunque faticoso, se pur affascinante.

Negli incontri gli interventi delle madri di giovani con disforia di genere hanno preso sempre più spazio (rispetto a quelle di figli omosessuali), casi che al momento diventano sempre più numerosi, specialmente nel caso di ragazze che desiderano diventare ragazzi. Le situazioni poste sul tavolo mostrano un alto grado di drammaticità, creando immediato coinvolgimento ed empatia da parte delle presenti. Particolarmente difficile da sopportare è per esempio osservare nelle proprie figlie la trasformazione dei tratti somatici, il cambiamento della voce, il comparire della barba, fino alla scelta della mastectomia dei seni sani. Dai racconti delle madri è possibile riscontrare nelle figlie, ancora giovanissime (vent’anni) una assai forte determinazione nell’operare scelte dalle conseguenze fortemente impattanti e spesso irreversibili sul proprio corpo e sulla propria psiche; così come si riscontra una certa fretta nell’iniziare il processo di transizione.

Pur essendo ancora soggetti in formazione, queste giovani hanno ricevuto il sostegno pressoché immediato a scuola sia da parte dei docenti, che da parte dei compagni: ad esempio per quanto riguarda l’utilizzo di nomi e pronomi maschili e in più casi sono state riconosciute leader o avanguardie di una cultura nuova che, loro sostengono, deve affermarsi. Lo stesso sostegno alla transizione di genere viene ricevuta dai servizi sociosanitari con equipe di specialisti in base a protocolli consolidati. Presso l’ospedale Niguarda ad esempio la prassi per poter iniziare la transizione consiste in alcuni incontri intervallati tra psicologo, endocrinologo e psichiatra, un programma che consente al giovane di ricevere gratuitamente come primo step una cura ormonale insieme al contatto con l’associazione ALA (Associazione finanziata dalla Regione che si occupa di tutela della salute, inclusione sociale, lotta alle discriminazioni e cooperazione sia sul territorio nazionale che internazionale), guidata da un educatrice e da un avvocato rispettivamente “M to F” e “F to M” (entrambe cioè già transitate, rispettivamente da maschio a femmina e da femmina a maschio). Dall’esperienza diretta di genitori che hanno partecipato agli incontri dell’associazione si registra come sin dall’inizio il messaggio che viene trasmesso sia chiaro: terapia ormonale e intervento chirurgico risolvono il problema di un genere percepito come inaccettabile.

A tal proposito il presidente della Società di psicoanalisi Sarantis Thanopulos in un’intervista rilasciata al Foglio lo scorso 16 ottobre parla di “medicalizzazione dello spazio psichico” e osserva: «Oggi cerchiamo una soluzione medica per ogni problema, distorcendo i processi evolutivi e di elaborazione dell’esperienza. Ma i farmaci non risolvono problemi esistenziali» e invita gli analisti a «non restare in silenzio davanti a situazioni he reputano dannose per i cittadini» Lo stesso Thanopulos, nella rubrica settimanale di psicologia da lui curata sul Manifesto osserva anche: «Quando si procede alla manipolazione chirurgica e ormonale del proprio corpo, il che penalizza severamente il piacere sessuale, si slitta nell’assoggettamento dell’intimità psichica all’esteriorità dell’immagine che, lungi da essere una caratteristica in sé della transessualità, è un fatto preoccupante del nostro tempo». Sono aspetti indubbiamente complessi, che affrontati insieme nel gruppo perdono per lo più la dimensione di condizione insopportabile o dagli effetti incontenibili.

Condividendo la vita, anche nella sua attuale sofferenza, ogni esperienza riacquista il proprio valore e la forza per essere affrontata e accolta. Il metodo narrativo-autobiografico usato ha permesso di porre al centro ogni volta il racconto dei propri vissuti e la ricerca dei significati ad essi connessi. È stata posta attenzione anche sulla relazione tra i membri del gruppo formatasi, che è andata progressivamente valorizzandosi e che ha permesso alle donne e madri di superare

l’iniziale stato di pesante solitudine. Un percorso che, in ultima analisi, ha consentito di prendersi cura di sé nel prendersi cura della vita della figlia o del figlio, riuscendo a conoscerli e comprenderli meglio, comprendendo meglio anche se stesse. Le madri uscite dal lavoro svolto su di sé e con le altre godono oggi di una maggiore serenità e autonomia di pensiero e di azione. É sempre interessante scoprire in ognuno di noi come certi “nodi”, che ci hanno tenuto magari per anni sotto scacco, comincino a sciogliersi: occorre fermarsi per riconoscerli per poi metterli a fuoco.

Nodi che possono interessare e liberare l’espressione della propria femminilità o mascolinità, il mondo degli affetti, la vita sessuale, la propria capacità di autonomia e dedizione. Ne va del nostro desiderio di vita e di umanità pienamente vissuta. Un programma che dura tutta la vita, quello della ricerca di una vita da far fiorire in tutte le sue dimensioni con le risorse che abbiamo a disposizione. Un’eredità senz’altro preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli.


(Avvenire, 10 dicembre 2023)