di Franca Fortunato
Sarajevo 1992, Gaza 2024. Una città e una Striscia sotto assedio, bombardate e ridotte alla fame. Priscilla Morris nel suo romanzo di esordio “Le farfalle di Sarajevo” racconta il primo anno di assedio della città, il peggiore in termini di morti e distruzione. Lo fa ispirandosi alla storia del prozio, un pittore paesaggista che decise di restare a Sarajevo durante l’assedio. Lo fa attraverso i diari del padre che salvò i suoceri dal loro appartamento bombardato. Lo fa attraverso i racconti di vita quotidiana di amici, parenti e conoscenti. Lo fa con lo sguardo di una donna estranea alla logica della guerra, di amico e nemico, raccontando la vita, la resistenza quotidiana di chi come Zora, la protagonista, tra “combattere e morire” sceglie di “vivere”, mantenendo vivo il desiderio di continuare a dipingere, lei che ha sempre dipinto la sua Sarajevo, i suoi monti e gole, fiumi e foreste, moschee e chiese, e principalmente i suoi ponti ottomani «simbolo dell’unione dei popoli, incontro tra Oriente e Occidente». Zora racconta delle manifestazioni per la pace e dei “cecchini” che sparano addosso ai manifestanti «che portavano candele, cantavano canzoni di pace» e sugli striscioni avevano scritto «Sarajevo, mio amore», «Dite di no al nazionalismo, vogliamo la pace». Lei, serba, innamorata della sua città, vuole continuare a vivere insieme con musulmani e croati, salvando la sua umanità e quella della sua città che «è stata sempre esaltata come un modello di tolleranza». Vuole mantenere le relazioni con i vicini nel suo palazzone di dieci piani, dove musulmani, serbi e croati convivono in amicizia da sempre. Sarajevo assediata, privata dell’acqua, dell’elettricità, delle linee telefoniche, ovunque posti di blocco, ferrovia bombardata, aeroporto bloccato, strade in uscita barricate, è una città isolata dal resto del mondo. La sua gente è intrappolata, come oggi i palestinesi nella Striscia di Gaza dove l’unica scelta è tra morire di fame e di malattie o sotto i bombardamenti. A Sarajevo sparano alle persone in fila per il pane, a Gaza mentre lottano per un sacco di farina. A Sarajevo arrivano gli aiuti umanitari, a Gaza vengono bloccati e pochi «cadono dal cielo». Bombardamenti sventrano case, palazzi, bruciano la biblioteca nazionale e universitaria dove Zora dipinge e insegna. «Una catena umana» cerca di salvare più libri possibili mentre nell’aria volano «farfalle nere», «frammenti bruciati di poesia e arte che si incastrano nei capelli delle persone». Nell’incendio bruciano i quadri di Zora che nella pittura trova «rifugio che la conserva sana di mente». Dipinge sulle pareti del suo appartamento, dà lezione a Una, bimba di otto anni, fino a quando una bomba non l’ucciderà e organizza, con i suoi studenti, nel palazzo squarciato dalle esplosioni, una mostra d’arte mentre le scale del condominio sostituiscono i caffè, i parchi e i bar dove incontrarsi. Zora e i suoi vicini si sostengono a vicenda, dividono il poco cibo che hanno e passano le giornate del rigido inverno intorno alla sua stufa, unica del palazzo, e qui cucinano, mangiano, stanno seduti, parlano e a volte suonano la chitarra, cantano e ballano. Mirsad, il musulmano, racconta storie popolari e tiene aperta l’unica libreria esistente, dove «dà in prestito sulla fiducia i libri che gli sono rimasti in negozio e spesso le persone si fermano a parlare di quello che hanno letto, sedendosi in cerchio sugli sgabelli, come se tutto fosse normale». Zora vede il suo mondo sgretolarsi ma lei, lontano dalla sua Sarajevo, riprenderà a dipingere come prima perché «l’arte sconfigge la distruzione della guerra». La sua Sarajevo non esiste più, Gaza non esiste più. Chi salverà i palestinesi dalla catastrofe umanitaria?
(Quotidiano del Sud, Rubrica Io donna, 9 marzo 2024)
di Farian Sabahi
Di questi tempi l’Iran è di moda, e per questo motivo c’è chi si imbarca in progetti editoriali scrivendo di un Paese complesso, in cui non hanno mai messo piede e di cui non hanno competenze. Ma ci sono libri che, al contrario, sono frutto di un serio lavoro di ricerca e sono una valida lettura di approfondimento anche per gli specialisti di Iran e Medio Oriente.
Il primo si intitola Ero roccia ora sono montagna. La mia battaglia per la libertà delle donne in Iran e nel mondo, lo ha scritto l’alpinista professionista iraniana Nasim Eshqi con l’antropologa e regista Francesca Borghetti (Garzanti, pp. 170, euro 18). Come un fiore che sboccia nel deserto, la determinata Nasim è riuscita a perseguire i propri sogni e ad arrampicare dapprima in Iran e poi in altri Paesi, trasformando la passione per la montagna in un lavoro, riuscendo a mantenersi insegnando ad altre donne come affrontare la parete di roccia. Un libro appassionante, una lettura scorrevole, scritto quando ormai Nasim si era trasferita in Italia. Il documentario Climbing Iran (disponibile su RaiPlay) era invece stato girato da Francesca Borghetti quando Nasim viveva ancora a Teheran e cerca di conciliare da una parte il desiderio dell’autrice di comprendere l’Iran e, dall’altra, di riprendere l’atleta senza metterla in pericolo. Si segnala anche il podcast Nasim, Iran verticale del 2022.
Altrettanto intrigante è il diario di viaggio della motociclista britannica Lois Pryce che nel 2013 e nel 2014 ha compiuto due viaggi in solitaria dell’Iran con la sua Yamaha da cross. Nel libro Un viaggio rivoluzionario. Il vero Iran, in motocicletta (traduzione di Marina Cianferoni, pp. 240, euro 22), Lois racconta il suo primo viaggio: i timori, l’accoglienza calorosa, l’autonomia di un viaggio in moto ma anche la vulnerabilità di una donna che viaggia da sola per migliaia di chilometri. Un libro ricco di emozioni, al tempo stesso frutto di uno studio approfondito sulla storia e sulla cultura di un paese millenario, in cui si percepisce il registro di scrittura della giornalista che nel 2003 ha lasciato la Bbc di Londra per fare il giro del mondo in moto. A dare alle stampe il volume in italiano è La Mala Suerte Ediciones, una piccola casa editrice spagnola in Asturia, specializzata in libri che ruotano intorno alla storia della motocicletta.
Per un’analisi puntuale delle proteste innescate dalla morte della ventiduenne curda Mahsa Amini il 16 settembre 2022, si ricorda il volume Iran. Il tempo delle donne (pp. 172, euro 17,50) di Luciana Borsatti che a Teheran ha trascorso due anni come corrispondente dell’agenzia Ansa. Nulla è semplice quando si parla di Iran, afferma la giornalista, che ripercorre la cronaca delle proteste per soffermarsi sulla rivoluzione della Generazione Z, sul dialogo impossibile tra la leadership iraniana e la piazza, sulle divisioni della diaspora, sulla grande macchina dei social media e sugli scenari possibili. Arricchito da diverse testimonianze, il libro è dedicato al movimento Donna vita libertà e si apre con la prefazione dell’inviata di Rai3 Lucia Goracci.
Sempre sul tema dei diritti, nel saggio Iran, donne e rivolte (Scholé, pp. 160, euro 14) l’antropologa Sara Hejazi scrive che «districarsi per comprendere la natura profonda delle proteste in atto oggi è praticamente impossibile». Partendo dallo slogan Donna vita libertà, la studiosa italo-iraniana osserva come nella Repubblica islamica si registri il tasso di fertilità più basso del Medio Oriente
(1,3 figli a donna) e sempre meno giovani decidano di sposarsi. Dati di fatto, questi, che si spiegano con le contaminazioni con l’Occidente, grazie ai social media e ai parenti nella diaspora, ma anche con l’istruzione femminile diffusa, pure a livello universitario e tra le ragazze dei ceti sociali più tradizionali e religiosi, a cui lo Stato islamico ha permesso di ottenere il consenso delle famiglie per lavorare e guadagnare, entrando così a pieno titolo nella sfera pubblica.
(il manifesto, 7 marzo 2024)
di Pinella Leocata
Catania. Il loro 8 marzo non è all’insegna della rivendicazione e della protesta, ma della trasmissione del pensiero femminista che esalta la gioia di vivere e la bellezza del quotidiano e delle relazioni basate sul rispetto e sulla valorizzazione della differenza. Un pensiero che parla di pace in tempi violenti come quelli che attraversiamo. Questo il senso della mostra “Il cuore pensante delle donne per il cambio di civiltà” elaborata dalle femministe de La Città Felice e La Ragna-Tela e proposta nella galleria della biblioteca Bellini in via di Sangiuliano 307.
Ad essere “esposti” sono i volti di filosofe, pensatrici, docenti, scienziate, scrittrici, poetesse, teologhe e politiche che hanno elaborato il pensiero femminista a partire dall’inizio del Novecento e soprattutto dalla metà del secolo scorso. I volti accompagnati dal racconto delle loro vite, dalla riproposizione di brani dei loro scritti e pensieri e da una bibliografia sulle loro opere. Cartelline a disposizione di chi visiterà la mostra che, dopo l’inaugurazione del 7 marzo, è visitabile l’8 e il 9 dalle 9,30 alle 12,30. Le promotrici aspettano le scolaresche e si dicono pronte a portare la mostra negli istituti e nei luoghi della politica catanese, a partire dalle sedi delle varie associazioni.
Una mostra rivolta a tutte e a tutti soprattutto perché queste pensatrici non dimenticano di parlare di pace anche quando testimoniano il male. Come Etty Hillesum che, rinchiusa in un campo di concentramento, anche dietro il filo spinato riusciva a pensare che “la vita è una cosa splendida”. E aggiungeva: “più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo”. La guerra e i femminicidi, il pensiero bellico e quello misogino sono strettamente legati, spiegano le organizzatrici, consapevoli dell’importanza di diffondere il pensiero femminista in quanto messaggio fertile per tutti. Perché, come dice Luisa Muraro, “quando una donna pensa pensa per tutte e per tutti”. Sottinteso: non come gli uomini che hanno pensato solo al proprio potere, un pensiero che li rinchiude a loro volta in una gabbia mortifera.
Negli ultimi sessant’anni – dicono le promotrici – il pensiero e la pratica delle femministe hanno cambiato la realtà e le relazioni, hanno creato il pensiero della differenza “fluido e tenace, resistente”, un pensiero che va “oltre l’ottusità della guerra, oltre gli egoismi e gli oscuri giochi di potere del maschile, ma sempre in grado di cogliere la pienezza e la bellezza ovunque, nella relazione tra donne così come nella natura e nella quotidianità”. Un percorso di liberazione che gli uomini non hanno fatto perché – come dice Anna Di Salvo – “stanno comodi nel loro potere maschile che pure non li rende felici, non trasmette la bellezza del quotidiano e della vita e li trascina nella guerra, nella violenza”. Di qui gli stupri e i femminicidi che “non sono espressione del patriarcato – che abbiamo combattuto, e che è alle spalle – ma del post-patriarcato che è il colpo di coda del vecchio sistema, la reazione violenta all’autonomia e alla libertà conquistate dalle donne che non dipendono più dallo sguardo maschile, ma dal loro desiderio che affermano insieme alla loro libertà”. Di qui anche la pena per i giovani uomini “costretti a essere ammazzati da anziani autocrati che li trascinano alla guerra”. Di qui la necessità di ripensare il maschile anche attraverso il contributo del pensiero femminista della differenza.
Già nel 1995 Luisa Muraro scriveva che il patriarcato è finito. “È stato interrotto il secolare destino prescritto per le donne, la legge e il desiderio maschile hanno smesso di essere riferimento e misura per le donne. In altri termini le vite femminili sono diventate ricerca di senso in prima persona, le relazioni tra donne sono diventate visibili nello spazio pubblico. È chiaro quindi che bisogna parlare di post patriarcato”.
La presentazione della mostra è preceduta da un momento a microfono aperto in cui le donne presenti possono esprimere la propria gratitudine verso le donne che hanno aperto loro orizzonti di consapevolezza femminile, ed è accompagnata dalle poesie e dai brani delle pensatrici scelti e letti da Cinzia Insinga e Carmina Daniele, mentre l’artista Rosanna Bello presenta i suoi mandala, simboli di vita e di rigenerazione.
(La Sicilia, 7 marzo 2024)
di Naxarena Bernardi
Il 6 marzo 1931 nasce Carla Lonzi. In una foto del 1968 (apparsa nella copertina del saggio di Giovanna Zapperi Carla Lonzi. Un’arte della vita, Derive e Approdi 2017, ndr.) Carla si mostra circondata da un’aureola, quasi nelle vesti di una santa, seppur evidentemente dei giorni nostri: sorridente e felice, sullo sfondo una costruzione luminosa che, appunto, le incorona la testa come una Madonna di un dipinto medievale. Il sorriso, però, non ha niente di quello delle figure ieratiche e distaccate dal mondo delle sante e vergini che la tradizione pittorica ci ha consegnato. È l’espressione di una donna che, come dirà lei qualche anno dopo parlando di se stessa, ha la capacità di dominare gli avvenimenti e costituire la propria storia.
Non sembri fuori luogo questo accostamento tra una delle principali femministe della nostra epoca e le donne della nostra tradizione religiosa. È lei stessa a raccontare quanto, fin da bambina, adorasse i libri autobiografici di sante: “attraverso le loro parole prendeva consistenza ciò che, in caso contrario, avrei dovuto respingere come conseguenza di emozioni morbose e irreali”.
Ciò da cui Carla era affascinata e attratta era la capacità di indagare e di dubitare di queste donne, che riuscivano a trovare dentro di sé le risorse, rinunciando talvolta a tutto, riuscendo però a non rinunciare a ciò che lei chiama l’essenziale.
Alla ricerca di questo essenziale, ricerca guidata dal bisogno vitale di fedeltà a se stessa, Carla Lonzi ha dedicato la sua intera esistenza, fin dai suoi esordi come critica d’arte, professione che svolse mettendo in discussione e sovvertendo l’usuale impostazione di un rapporto che voleva l’artista e l’opera al centro e tutti gli altri, e soprattutto – dirà lei – tutte le altre, ai margini, nel ruolo di spettatori/spettatrici passive.
È facile cogliere negli scritti di Carla Lonzi questa assoluta incapacità di rinunciare a se stessa: “abbandonare era niente, rispetto al dolore di tradire me stessa. E questa facilità a lasciare appena si richiedesse da me qualcosa che non si accordava con la mia coscienza, è stato l’elemento che più di tutto mi ha impedito di perdermi nella emancipazione e nelle riuscite apparenti”.
Già, perché nonostante i riconoscimenti che non le sono e non le sarebbero mancati, se fosse stata capace di accontentarsi del ruolo che un mondo ormai in parte disposto ad aprirsi alle richieste di emancipazione femminile le offriva, Carla non ha mai confuso le libertà con la libertà: “il femminismo mi si è presentato come lo sbocco possibile tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi. Senza perdersi e senza mettersi in salvo”.
Lascerà così il suo lavoro di critica d’arte e si dedicherà totalmente al femminismo, al gruppo di Rivolta Femminile, di cui fu fondatrice, alla pratica delle relazioni con le diverse donne che condivideranno con lei un percorso tanto intenso quanto fruttuoso. Di questo percorso, che per lei si interrompe precocemente (quando una terribile malattia la porterà via a soli 51 anni), resta testimonianza nei suoi scritti, che sono ciò che di più prezioso il femminismo italiano ha prodotto. L’intelligenza della realtà, la profondità delle analisi, la dote di saper cogliere nel reale ciò che limita la libertà femminile e ciò che invece è in grado di realizzarla, la capacità di mettere al mondo ciò che l’ordine dato non ha previsto, sono la sostanza della sua riflessione, qualcosa da cui è difficile non essere travolte quando ci si accosta al suo pensiero. Per le donne della sua e della mia generazione che hanno avuto la fortuna di conoscere la sua riflessione, Carla Lonzi ha significato molto. Per me personalmente è stato l’incontro giusto al momento giusto: ricordo ancora oggi, con smisurata gratitudine, l’effetto che produsse in me, ancora ragazza, alla ricerca di uno sbocco per la mia sete di giustizia e il mio bisogno di impegno politico, la lettura (ma forse prima ancora il solo titolo) del suo breve saggio Sputiamo su Hegel che seppe ri-orientare e dare senso al mio individuale percorso, in cui già le frustrazioni e gli spaesamenti non mancavano.
Ma, occorre chiedersi, che cosa può offrire ancora Carla Lonzi alle più giovani, a quelle che sono cresciute nell’epoca dell’emancipazione (più o meno) compiuta? Qualcosa di prezioso e irrinunciabile, ritengo, proprio oggi, nel momento in cui la politica pare ridotta a una cosa piccola piccola, a mera gestione di interessi, per di più spesso individuali. Oggi, quando la necessità (economica, politica, sociale) sembra aver ridotto gli spazi per un’azione realmente libera, tempi in cui il mondo sembra qualcosa di tanto immodificabile quanto pieno di pericoli. Un’epoca in cui l’altro sembra incombere soprattutto come presenza minacciosa.
Leggere Carla Lonzi può insegnare che il riferimento femminile al proprio genere crea lo spazio in cui le donne intrecciano le relazioni in grado di far venire al mondo la libertà che sembra a rischio; e la libertà femminile riconosce le differenze (e prima ancora la differenza, quella tra i sessi) e sa che l’alterità è ciò che costituisce la soggettività. È una libertà radicata nel presente, proprio perché nasce nella relazione, che è sempre in qualche modo presenza, di corpi e di parole. È inerente a un soggetto incarnato, uomo o donna, che quindi – come dice Maria Luisa Boccia, una delle principali interpreti del pensiero di Carla Lonzi, parlando della politica delle donne – non solo non prescinde dal proprio sesso, ma anzi rovescia la naturalità della propria determinazione sessuata nella condizione di possibilità della libertà stessa.
Carla Lonzi, con la sua esistenza e con i suoi scritti, che della sua vita sono il frutto, sa mostrare che la libertà femminile è l’imprevisto che apre ad altri imprevisti. È lei – guidata dal suo grande amore della libertà – che ci ha mostrato la via di accesso a un mondo nuovo possibile, facendoci vedere che amore del mondo e amore di sé non divergono.
Questa la strada che apre all’imprevisto, essa si offre a chiunque – donna o uomo – sappia rivolgersi all’essenziale: “Adesso esisto: questa certezza mi giustifica e mi conferisce quella libertà in cui ho creduto da sola […]. Tutte le distinzioni, le categorie che esprimevano appunto il costituirsi della mia identità a partire dal dissenso – non vedevo altra via in quanto donna – non mi appartengono più: faccio ciò che voglio. Questo è il contenuto che mi appare in ogni circostanza, non aderisco a altro che a questo. Capisco quanto posso avere lasciato cadere nel percorso fatto finora, ma capisco che niente mi avrebbe dissuaso dal rivolgermi all’essenziale. Ora il superfluo attira tutta la mia attenzione e i miei desideri”.
(Post in “Movimento per i diritti delle donne”, gruppo facebook, 6 marzo 2024)
di Benedetta Tobagi
Un amore tossico, violenze psicologiche, gelosia morbosa e umiliazioni Poi la folgorazione: l’idea di un figlio nelle mani di un uomo del genere La forza di andare via e quella di ricominciare. Con grande fatica
Avevo poco più di vent’anni, il mio ragazzo di allora una trentina. Era un tipo all’antica: voleva sposarmi, diceva (con gli occhi lucidi e uno sguardo vulnerabile capace di farmi dimenticare ogni altra cosa), voleva dei figli da me. In una delle tante notti insonni, gli occhi fissi sulla parete bianca accanto al letto della mia stanza in affitto, la folgorazione: «Un bambino nelle mani di un uomo del genere? Mai». Non l’avrei permesso. Io non valevo niente, non meritavo niente. Ma non potevo condannare una creatura innocente all’inferno in cui mi ero cacciata. Pochi giorni dopo, l’ho lasciato.
È stata la mia prima storia importante, durò meno di un anno, ma ne uscii annientata. Il mio Barbablù si mostrava maturo, colto, aveva una professione che lo faceva viaggiare, ma anche una gran cultura musicale, la passione per i film e la fotografia. Mi ero sempre sentita vecchia, dentro, ma lui era un uomo. Mi sentivo diversa, “pesante”: per lui ero speciale. Nel suo desiderio, nell’obiettivo della sua reflex, mi sono vista, per la prima volta, bella. Nei ritratti dei primi tempi rivedo una giovane donna innamorata che gli sorride. Felice, ignara.
È stata una storia di violenza psicologica (che è violenza lo stesso, anche se più difficile da dimostrare). Me ne sarei andata prima, se mi avesse picchiata? Non lo so. Mi aveva drogata: di passione, di attenzioni. Qualunque sia la tua dipendenza segreta, il predatore ha un fiuto infallibile. Ti stordisce abbastanza da impedirti di capire cosa sta succedendo. L’inferno arriva in fretta. La gelosia morbosa. I commenti sprezzanti. Le umiliazioni. Gli sbalzi d’umore. Gli scoppi di rabbia improvvisi — ricordo quelli, soprattutto: vivevo nel terrore di farlo arrabbiare. A scatenarli poteva essere qualunque cosa, ma era sempre colpa mia. Ero io a distruggere l’armonia. Ma lui, misericordioso, perdonava. Stop, rewind, favola, noi due soli ovviamente (gli amici, come da manuale, allontanati). Se mi arrabbiavo, mi faceva sentire in colpa. Ma ho smesso presto. Ero una brava bambina, fino al midollo. Zitta, buona, ho cominciato a strisciare sul fondo, per la mia dose di quella cosa tremenda che chiamavo “amore”.
Poco prima della fine, nella panetteria di un piccolo paese, lui discute con donna al banco, poi ordina anche per me. La donna ci guarda, mi dice: «E tu non ce l’hai la lingua?». Gentile, senza giudizio. Aveva capito tutto. Provo vergogna mista a sollievo. Tante volte, dopo, avrei voluto ringraziarla. Tu stai zitta perché ti vergogni, non ti fidi di te stessa, hai paura. E spesso, intorno, c’è una tribù che vede, ma tace, purtroppo. Per conformismo, per connivenza, per evitare grane. Ma ogni parola, ogni sguardo di riconoscimento, può essere la boccata d’ossigeno che ti rianima, la piccola luce in fondo al tunnel: tenetelo a mente, vi prego. Prima del bambino immaginario, io ho avuto F., amica dai tempi del liceo, la più lucida, che ha avuto il coraggio di scrollarmi: Non mi piace come ti tratta, stai attenta, vattene. Parole di amore vero, quello che vuole il tuo bene, a costo di rischiare la lite. Non ero ancora pronta, ma sentivo la differenza: ha scavato un pezzetto della mia via di fuga. F. è ancora uno dei tesori della mia vita e continuiamo a essere testimoni l’una dell’altra, nella gioia e nel dolore.
Nel punto più basso, ho cominciato a farmi male da sola. Niente di evidente, temevo che lui si sarebbe infuriato o avrebbe riso di me. La notte battevo la testa contro il muro, oppure mi graffiavo con quel che trovavo. Al primo tuffo in mare, l’acqua salata mi tradisce, rivelando i geroglifici rossi sulla pelle. Vedo il suo sguardo compiaciuto. La sua droga era quel potere, credo. Quando l’ho lasciato, infatti, non mi ha più cercata. Ero diventata inutile. Sono stata molto fortunata, solo col tempo ho capito quanto.
Poco dopo, gli aerei entrano nelle Torri gemelle, io sono stesa sul letto e non sento niente, penso solo che il fuori somiglia al dentro. Ho attraversato una lunga depressione. Ma la mia “disperata vitalità” premeva sotto traccia. Lavoravo. Ho finito l’università. Ero così spaventata da quel che avevo lasciato accadere che mi sono trascinata in terapia e la mia dottoressa mi ha salvato la vita. Di nuovo, sono stata fortunata: me la sono potuta permettere. Quante donne non hanno i mezzi e non trovano aiuto nella sanità pubblica? Barbablù era solo un simulacro, lo avevo scambiato per amore perché era ciò che, in diverse forme, conoscevo. La mia radice era un buco nero, il buio di mia madre. La mia intoccabile madre vedova, per cui avrei fatto tutto, da cui avrei accettato qualunque cosa. Come donna, invecchiando, ho imparato a guardarla con compassione. Come figlia, ho dovuto imparare a essere ferma e lucida nel fissare i confini e fortificare gli argini. Alcune grandi scrittrici avevano già trovato parole anche per me. All’inizio, il mio romanzo- talismano è stato Malina di Ingeborg Bachmann, con le sue cronache di assassinii dell’anima; di recente, ho ritrovato con emozione la mia verità di figlia in Lontananza di Vigdis Hjorth. Il bambino immaginario era anche la me stessa che doveva rinascere. Il dolore di qualunque parto è grande. A volte pensi che potrebbe ucciderti. A volte vorresti cavarti gli occhi come Edipo pur di non vedere la cruda realtà del passato. Andare alla radice del problema spesso comporta grande solitudine: per il mondo da cui ti allontani sei pazza, sei malata, sei cattiva e bugiarda. La verità brucia molti ponti. Puoi essere cancellata dalle persone che amavi, dalla tua stessa famiglia, perché hai rotto il patto del silenzio della tribù. Le maledizioni, in questi casi, sono un ottimo segno: sei sulla strada giusta. Ti aspetta la navigazione in mare aperto, un mondo nuovo. Allora potrai trovare la tua famiglia oltre il sangue, in cui amare e amarti (queer o no, come preferite). Sulla strada, servono testimoni: puoi trovarli nell’amicizia, in terapia, nei libri, nell’incontro con altre sopravvissute. Persone che conoscono e riconoscono le dinamiche perverse. Le loro parole sono il luogo in cui specchiarsi e trovare forza e conforto — che è poi il senso di questo progetto. Unite. Come una popolazione di donne dispersa che si ritrova attorno a un fuoco, seguendo il richiamo lontano dei tamburi.
“Gli sbalzi d’umore, gli scoppi di rabbia improvvisi Ricordo quelli soprattutto: vivevo nel terrore di farlo arrabbiare” “Nel punto più basso, ho cominciato a farmi male da sola battevo la testa contro il muro, oppure mi graffiavo con quel che trovavo”
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla. L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli.
(la Repubblica – Il corpo delle donne/8. Le scrittrici denunciano la violenza di genere, 3 marzo 2024)
di Cristina Piccino
Quando la incontriamo la prima volta Marjane ha otto anni, è figlia amatissima di una famiglia iraniana benestante laica e politicamente molto attiva nella critica contro lo Scià di Persia, lo zio comunista è stato in prigione e lei è affascinata dalle sue storie. Poi, un giorno, comincia la Rivoluzione iraniana che all’inizio i genitori, la nonna voce di caustica saggezza guardano con speranza accorgendosi presto però che lo Stato islamico li avrebbe rinchiusi in una gabbia soffocante, loro che amavano vivere con piacere e divertimento, e soprattutto ogni donna in Iran. È così che la ragazzina ormai cresciuta viene mandata a studiare in Austria dove però le esperienze non sono molto positive, al punto da spingerla disperata a tornare indietro; ma in Iran le cose sono ancora peggiorate, la vita è sotto controllo, le ragazze velate e perseguitate, di fronte alla rassegnazione che pervade i più e la nonna sembra l’unica a resistere. E Marjane? Persepolis quando arrivò sugli schermi, nel 2007 fu subito un successo, venne presentato al Festival di Cannes – e accolto con una standing ovation – fra le molte minacciose proteste dell’Iran che accusava il film di «dare un’immagine irreale della società iraniana a beneficio delle potenze straniere».
A firmarlo era Marjane Satrapi, alla cui autobiografia si ispira, insieme a Vincent Paronnaud, i tratti di quell’animazione che aveva come detto più volte dall’autrice fra i riferimenti ha l’espressionismo e il neorealismo italiano per le atmosfere da “cinema post-bellico” partivano dalle sue graphic novel ripensate su grande schermo nelle magnifiche animazioni in bianco e nero. Persepolis torna in sala domani grazie alla Cineteca di Bologna, nel restauro in 4k curato da Satrapi. Presentandolo l’anno scorso, proprio a Bologna, l’artista che vive a Parigi, aveva detto: «La ragazzina che vedete nel film e che crescendo diventerà la giovane donna che ero io quando ho lasciato il mio Paese, all’età di 23 anni, oggi non avrebbe mai lasciato l’Iran ma sarebbe scesa in strada, avrebbe combattuto, forse avrebbe perso un occhio. All’epoca, noi eravamo così terrorizzati, che non ci azzardavamo a parlare. Ma questa nuova generazione non è spaventata, quel muro di paura è stato abbattuto, ormai è distrutto. Adesso la paura è dall’altra parte, sono loro ad avere paura di noi e fanno bene a essere spaventati. Ma soprattutto, devono temere questa nuova generazione».Un romanzo di formazione che per la protagonista autrice significa una frattura profonda
A distanza di tempo, questa narrazione che attraversa appunto vent’anni di storia iraniana, dal 1978 agli anni Duemila, quando l’autrice lascia il Paese, intrecciando alla dimensione collettiva la vita personale della protagonista, continua a essere di bruciante attualità, a cominciare dal modo in cui illumina le forme repressive messe in atto dal regime iraniano contro ogni espressione di dissenso. È quello di Satrapi un punto di vista rivoluzionario femminile, la bimba che voleva essere Bruce Lee, o un profeta, poi ragazza che sperimenta diverse fasi nel suo rapporto con il mondo, in Iran e fuori, che arriva a Vienna adolescente vivendo uno choc culturale, che passa dal punk ai disastri amorosi, che quando è di nuovo in Iran studia arte ma si annoia perché i corpi da disegnare sono censurati, che deve indossare il velo come tutte, che farà un matrimonio sbagliato – «Ma il primo è la prova del secondo» la consola la solita fantastica nonna fumando – ci dice moltissimo su cosa significa crescere in un luogo governato dal controllo e dalla censura, e come questo si amplifica per le donne. Ma anche sul sentimento dell’esilio, in un romanzo di formazione che per la protagonista/autrice significa una frattura profonda, un dolore ma anche una liberazione seppure altrove di sé, dei suoi desideri, del proprio talento nel mondo.
Satrapi che nel frattempo ha curato il progetto corale Donna, vita, libertà (Rizzoli Lizard), una raccolta di quasi 300 pagine, di cui 192 tavole disegnate, su cui hanno lavorato quattro fumettisti iraniani e 13 provenienti dall’Europa e dall’America, insieme a un politologo, un giornalista e uno storico, tutti esperti di Iran o di origini iraniane, pubblicato a un anno dalla morte di Mahsa Amini, usa in Persepolis la leggerezza dell’ironia, e un umorismo che rende il movimento della sua protagonista ancora più determinato nel suo smascheramento dei paradossi di quella società ira di pasradan e denunce ma anche di ciò quelli che troverà sul suo cammino nell’occidente. Con una forma che afferma un nuovo genere di animazione, la cui singolarità rimane sorprendente oggi, mescola ricordi, aneddoti, emozioni che la distanza narrativa tiene al riparo dal sentimentalismo. E rende Persepolis un film speciale, che oltre al tempo sa parlare a tutte e tutti noi.
(il manifesto, 3 marzo 2024)
Eleonora Graziani
Ho apprezzato molto l’intervento di Massimo Lizzi Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? prima di tutto perché riprende un concetto politico del femminismo anni ’70, non del tutto chiaro o perlomeno non dovutamente evidenziato nei numerosi interventi della stampa e mediatici degli ultimi tempi. La domanda che chiede risposta è se la violenza sulle donne conviene a qualcuno e, in caso affermativo, a chi. La risposta politica del femminismo, ancora influenzato dalle analisi di sistema di impronta marxista, era che la violenza sulle donne fosse funzionale ad un sistema di dominio maschile di matrice capitalista. Lizzi spiega molto bene le ragioni di convenienza dell’indebolimento sistematico delle donne, come competitrici formidabili nel mondo del lavoro: più creative, efficaci ed efficienti sono state contrastate con salari inferiori, con difficoltà a conciliare il tempo di lavoro con gli impegni famigliari, con ricatti sessuali, con mobbing di vario genere. Per queste ragioni le donne hanno spesso rinunciato a privilegiare la carriera e in molto settori pur a netta prevalenza femminile, come la scuola o la sanità, i dirigenti sono spesso uomini.
A questo oggettivo carico di ostacoli nel mondo del lavoro si aggiunge l’ulteriore compito, più che mai urgente, di controllare la propria relazione con il partner. Come scrive acutamente Lizzi: Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. I commenti che si sono letti sui 118 femminicidi del 2023 e sui 9 del 2024, sono stati quasi tutti di critica a una debole preveggenza femminile, che deve denunciare ai primi segnali, non si deve mettere con individui simili, si deve proteggere prima. A parte il fatto che Filippo Turetta era un ragazzo modello, che molte avevano denunciato e sono state uccise lo stesso, o forse proprio per questo, tali giudizi indicano come la società stia caricando il mondo femminile di un’ulteriore responsabilità: controllare che la rabbia maschile non degeneri in aggressione, come ha scritto Caterina Balotta La rabbia degli uomini, mentre a gennaio 2024 crescono i femminicidi. Non una parola di autoanalisi maschile, a parte Lizzi, sulla carica di violenza che sentimenti comuni come la gelosia, il desiderio di possesso, l’invidia portano gradualmente con sé, se non riconosciuti, compresi, trasformati. Il lavoro di autocoscienza è stato uno dei pilastri del femminismo anni ’70 nella convinzione tuttora riconfermata dell’importanza di partire da sé, non da paradigmi esterni, ma da ciò che si sente e si vuole veramente. In altri termini non si diventa un mostro improvvisamente, ma giorno dopo giorno, accumulando false immagini di se stessi, nella mancanza di sincerità, nella pesantezza del silenzio fra i partner.
Tutte le 127 donne uccise fra il 2023 e il 2024 non si immaginavano che quello che un tempo era stato un amore le potesse ammazzare con decine di coltellate, non per stupida ingenuità, ma perché in una donna è molto raro che la rabbia si trasformi in aggressione. Non riusciamo a immaginarci quello che non ci appartiene e pretendere che siano le donne a difendersi dagli uomini delega ancora una volta le proprie responsabilità ad altri. Per gli uomini il riconoscimento delle proprie emozioni sarebbe un primo passo per non esserne schiavi, aiuterebbe ad arginare il cieco impulso nella sua corrente distruttiva. Noi la nostra autocoscienza l’abbiamo fatta, ora, come ha fatto Massimo Lizzi, comincino gli uomini.
(periscopio online, 2 marzo 2024)
di Cristiana Cella
Gli estremisti governano il Paese nell’indifferenza globale e soffocano sempre di più la popolazione femminile. Non solo nei villaggi ma anche nelle città, dove aumentano i controlli e arresti arbitrari. Il racconto di un’attivista locale.
Eravamo sedute in mezzo al nulla, quattro anni fa, in un villaggio di polvere e fango dello stesso colore ocra delle montagne, nell’Ovest dell’Afghanistan, dove seguivamo un progetto per le donne. A pochi chilometri c’era una postazione talebana e a una trentina una dell’Isis Khorasan. Non si poteva restare più di due o tre ore nello stesso posto, per non lasciare loro il tempo di organizzare un attacco o un rapimento. Narges mi spiegava la geografia politica del suo Paese: una pelle di leopardo, dove ogni villaggio, ogni città, ogni angolo aveva il suo padrone in lotta con gli altri.
C’erano i distretti completamente in mano ai Talebani, altri contesi con le armi al governo, altri ancora formalmente in mano a Kabul, ma con un “esecutivo omba” degli studenti coranici. E poi l’Isis Khorasan contro tutti. Una quantità di poteri diversi che esercitavano una pressione violenta e quotidiana sulla popolazione. Una vita in cui si poteva solo scegliere il male minore.
Oggi il palcoscenico si è svuotato: gli unici attori rimasti, i Talebani, governano nell’indifferenza del mondo. La guerra non c’è più, la delinquenza nemmeno, la produzione di droga diminuisce, è vietato portare armi e si può circolare anche di notte. Se ti comporti secondo le regole non hai problemi, ma se sei una donna puoi solo sparire. Narges oggi vive a Kabul con la sua famiglia. Riesce a lavorare in un ufficio privato, segretamente, quasi sempre da casa. “Esco il meno possibile. Adesso ho davvero paura. Da circa un mese la strada è diventata molto pericolosa”.
Perché?
Gli agenti della polizia morale, uomini e donne, girano come cani affamati per le strade, in cerca delle loro prede. Fino a qualche tempo fa ti arrestavano se manifestavi o se l’hijab (il velo, ndr) non era in regola; adesso lo fanno anche se sei completamente coperta accanto al tuo mahram (l’accompagnatore di sesso maschile, ndr). Lo fanno senza motivo. Perché? Non si sa e non si può sapere. Tutto è diventato arbitrario, casuale e imprevedibile. Non sai come proteggerti: ogni passo all’esterno costa un’ansia infinita.
Che cosa succede se ti arrestano?
Ti prendono, ti picchiano, ti infilano in macchina e ti portano, in genere, a Pul-e-Charkhy, la più grande prigione di Kabul. Lì puoi essere vittima di qualsiasi violenza. A volte non si sa più niente delle ragazze che vi vengono portate, altre vengono invece rilasciate. Ma non c’è nessun sospiro di sollievo. Per le famiglie l’arresto è una vergogna, un grave disonore che ricade interamente sulla ragazza. La loro vita diventa un calvario, vengono isolate, biasimate e persino vendute. So di due giovani che si sono suicidate dopo essere uscite di prigione, non so se per quello che hanno passato tra le mani dei Talebani o tra quelle dei loro familiari.
Come mai questo ulteriore giro di vite?
La paura è la più forte delle restrizioni, il più economico sistema di controllo. Arriva ovunque e chiude i pochi spazi rimasti. Ho notato alcune cose negli ultimi anni. Da quando è diventato obbligatorio l’hijab, soprattutto qui a Kabul, le più giovani hanno iniziato a vestirsi in modo tradizionale, strettissimo. Mi chiedevo il perché, poi ho capito: era l’unica concessione che avrebbero fatto ai nuovi governanti del Paese. Protette da un hijab perfetto potevano andare nei locali, nei ristoranti, passeggiavano con gli uomini, fumavano l’hookah, la pipa ad acqua, e si divertivano. Insopportabile per i Talebani, che hanno inasprito i divieti. Molte sono state arrestate, ma le guerriere della normalità non si sono arrese.
La vita delle donne è diversa nelle province?
Sì, molto. Gran parte del nostro Paese è stato “talebanizzato” molto prima del loro arrivo a Kabul. Nelle zone rurali, le donne non hanno mai avuto libertà, né diritti. Nei villaggi dell’Helmand, ad esempio, né le ragazze che incontro né le loro madri hanno mai frequentato la scuola. Durante i vent’anni di occupazione delle forze occidentali era possibile studiare, c’erano i servizi per il contrasto alla violenza, i rifugi e la possibilità di lavorare.Ma tutto questo riguardava una parte limitata della società femminile. Se fossero stati cambiamenti strutturali, non sarebbe stato così facile spazzarli via in un giorno. Per noi che viviamo nelle città, che abbiamo studiato e avevamo un lavoro, l’arrivo a Kabul dei Talebani è stato uno shock ma nella gran parte del Paese non c’è stato alcun cambiamento. La situazione tragica dell’Afghanistan non è solo colpa dei Talebani, questa è una versione comoda per gli ex occupanti, ma è responsabilità di chi per vent’anni non ha fatto nulla.
Perché i Talebani odiano tanto le donne?
Narges Sono uomini a cui è stato fatto il lavaggio del cervello molto in profondità e molto presto. I bambini nelle madrase vengono lasciati soli, lontani dalla famiglia, da sorelle, madri e zie. Non hanno alcun rapporto con le donne. Non sanno niente di loro se non quello che dice il mullah. Da adulti, sono a disagio, ne hanno paura e non sanno fare altro che opprimerle, diventano così uno strumento politico dell’Islam estremo.
Le donne che incontri hanno qualche speranza per il futuro?
No, nessuna. Tutti vogliono andarsene, lasciare il Paese. Affrontano qualsiasi pericolo per questo.
Che consenso ha il governo talebano?
Narges Adesso molto poco. Nei vent’anni di occupazione la popolazione ha sofferto molto e ha sviluppato un profondo risentimento verso le forze straniere. Quando queste se ne sono andate, gli afghani erano pronti ad accettare i Talebani, ma adesso non ce la fanno più.
Con chiunque tu parli, anche con gli sconosciuti, il primo argomento di conversazione sono le critiche nei confronti degli attuali governanti. Farlo è molto pericoloso, ci sono spie ovunque, ma le persone si lasciano andare lo stesso. Sono esasperati, hanno fame e si impedisce alle madri di famiglia di nutrire i propri figli. I divieti per le donne, infatti, creano difficoltà a tutti.
I Talebani resteranno a lungo al governo?
Loro stessi non hanno speranza di durare molto. Molti si stanno preparando per quando perderanno il potere politico: avviano business, comprano case, preparano una sicurezza per il loro futuro. Mio marito, che è negli affari, lo vede ogni giorno.
Per ora sono stabili però. Che appoggi hanno?
Principalmente il denaro che gli arriva regolarmente dagli Stati Uniti, che faceva parte degli accordi di Doha. Senza questi soldi non ce la farebbero. Cercano di aumentare gli introiti con le tasse e cresce la corruzione: ma non basta. Non sarà mai abbastanza per sostenersi.
Quali altri sponsor hanno oltre agli Usa?
Il governo precedente dipendeva al 100% da Washington. Se altri Paesi volevano entrare nel “grande gioco” afghano dovevano rivolgersi ai ribelli. Allo stesso modo, anche oggi ci sono i Talebani iraniani, pakistani, russi. Ognuno ha le sue pedine. E questo non piace agli Stati Uniti: finché non avranno la sicurezza che i Talebani resteranno una forza mercenaria a loro leale continueranno a tenerli sulla corda. Trattano, dialogano ma ancora non vengono ufficialmente riconosciuti. La strada per Kabul è stata aperta all’interno di un piano prestabilito nel quale gli Usa devono mantenere la posizione preminente e limitare le influenze di altri Paesi.
Se gli americani volessero, quindi, potrebbero far cadere il governo talebano?
Hanno smantellato il governo di Ashraf Ghani in una settimana, potrebbero deporre questo in tre giorni.
E con chi potrebbero sostituirli? Con i vecchi signori della guerra, con un governo condiviso, con il giovane Ahmad Massud, il figlio di Ahmad Shah?
Potrebbero. Massud e gli altri sono in cerca di sponsor, ma non li trovano. Nessuno vuole sostenerli per ora. I signori della guerra aspettano pazientemente di ritornare in campo e riprendere gli affari. Sanno che non sono esclusi per sempre, ma aspetteranno a lungo. Nessuno ha interesse in questo momento a far cadere i Talebani, soprattutto agli americani non conviene: controllano i governanti di Kabul con il denaro e mantengono la loro influenza. Del nostro inferno non si vede la fine, ma le donne afghane sono molto forti. Abbiamo fatto una cura drastica a base di guerre, violenze, soprusi. Dobbiamo solo impegnarci a sopravvivere.
(Altraeconomia, 1 marzo 2024)
di Alfonso Gianni
Da gennaio in poi stiamo assistendo a un susseguirsi di accordi di cooperazione in materia di sicurezza fra l’Ucraina e diversi stati europei, sia che facciano parte della Ue che no, ed anche d’oltreatlantico. A partire dal 12 gennaio di quest’anno, tali accordi bilaterali, che più propriamente e realisticamente dovremmo chiamare di alleanza militare, sono stati firmati dalla Gran Bretagna, Francia, Germania, Danimarca e da ultimo Italia e Canada. Il tratto comune di questi accordi, che rivela apertamente la loro finalità, consiste nel riferimento a una collaborazione immediata e rafforzata tra le due parti con un sistema di risposta di emergenza in 24 ore da attivarsi su richiesta di uno dei due contraenti il patto in caso di un futuro attacco armato da parte della Russia. Infatti all’articolo 11, primo comma, dell’accordo fra Italia e Ucraina si legge: “In caso di futuro attacco armato russo contro l’Ucraina, su richiesta di uno dei partecipanti [ovvero Italia o Ucraina], questi ultimi si consultano entro 24 ore per determinare le misure successive necessarie per contrastare o scoraggiare l’aggressione”.
Per comprendere di quali misure si sta parlando, si può continuare a leggere il testo dell’accordo che impegna il nostro paese: “L’Italia afferma che in tali circostanze […] fornirà all’Ucraina, a seconda dei casi, un sostegno rapido e sostenuto nel campo della sicurezza e della difesa, dello sviluppo delle capacità militari e dell’assistenza economica, cercherà di raggiungere un accordo in seno alla Ue per imporre costi economici e di altri tipo alla Russia o a qualsiasi altro aggressore e si consulterà con l’Ucraina in merito alle sue esigenze nell’esercizio del diritto di autodifesa sancito dall’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite”. Quindi sostegno all’economia, armi, tecnologia militare, incrudimento delle sanzioni economiche nei confronti del paese aggressore nonché tutto ciò che potrebbe derivare da una interpretazione espansiva del diritto di autodifesa. Alcuni accordi prevedono la misura esatta dello stanziamento economico, come ad esempio quello firmato dal premier canadese Trudeau che promette per l’anno in corso 2,25 miliardi di dollari. L’Italia è stata più evanescente riguardo alle cifre da stanziare. L’articolo 17 dell’accordo esclude qualsiasi “costo aggiuntivo per il bilancio dello Stato della Repubblica italiana e dell’Ucraina”, ma il contributo finanziario fornito in passato dal nostro paese è stato, come sappiamo, già molto consistente.
Complessivamente calcoli ufficiali stimano che gli accordi firmati dai sei paesi citati superano già la cifra di 20 miliardi di dollari. Ma gli accordi non si limitano a ribadire il già fatto e il già dato. Siamo di fronte ad un salto di qualità ma in negativo. Cioè alla strutturazione di un sistema di guerra che va al di là dell’eventuale cessazione del fuoco e della conclusione di una conseguente trattativa fra Russia e Ucraina, di cui peraltro ora non si vedono le premesse, pur essendo la guerra su quel fronte in uno stato di stallo. Non contenta di quanto finora ottenuto, l’Ucraina è in “negoziazioni attive” con il Giappone, mentre ha aperto negoziati con altri paesi, quali la Romania, i Paesi Bassi, la Svezia e forse la Polonia, stando a quanto ha dichiarato Ihor Zhovkva, consigliere per la politica estera del presidente ucraino, a una giornalista di Euractiv.com.
Questi accordi hanno durata decennale. Da un lato si moltiplicano per rispondere alla attuale impossibilità di accettare l’Ucraina nella Nato in base all’articolo 10 del suo statuto che prevede la possibilità di invitare nuovi paesi europei ad aderire al Trattato purché condizionata alla possibilità di questi “di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. Il che non potrebbe avvenire per un paese in stato di belligeranza. Dall’altro lato, favoriti dalla loro durata decennale, questi accordi vogliono costituire un precedente per rendere ancora più semplice l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, appena le condizioni lo possano permettere. Su questo l’Accordo firmato della Meloni è esplicito, poiché l’articolo 14 recita: “I Partecipanti [ovvero i firmatari dell’Accordo] collaboreranno per aiutare l’Ucraina a realizzare le forme necessarie nel suo percorso verso la futura adesione alla Nato”.
Insomma questi accordi di alleanza militare sono insieme sostitutivi, nell’immediato, quanto propedeutici, in un non lontano futuro, all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Nello stesso tempo il loro fine e il loro effetto più prossimi sono prolungare la guerra, impedendo il cessate il fuoco e l’apertura di trattative di pace. Lo dimostra anche la mossa del solito Macron che ha immediatamente parlato della possibilità dell’invio di truppe europee nello scacchiere ucraino, visto anche il fallimento della controffensiva nei confronti degli aggressori russi, su cui Zelensky aveva fondato la sua propaganda nei suoi giri europei, e vista la difficoltà di impiegare forze fresche al fronte da parte di Kiev. La boutade del premier francese ha suscitato immediate reazioni negative e smentite, anche da parte italiana, ma è evidente che non si tratta di una distrazione o di una battuta di spirito, quanto di una ulteriore spinta verso l’appesantimento di quel clima di guerra in cui da tempo l’Europa è immersa.
Lo stato di stallo nel quale attualmente verte il conflitto russo-ucraino non è certo una sorpresa. L’ex capo di stato maggiore americano, Mark Miley, lo aveva previsto da tempo e ne aveva tratto la convinzione che nella primavera di quest’anno sarebbero iniziate, quasi per forza di cose, trattative per concludere in qualche modo una guerra impossibile ad essere vinta per entrambi i contendenti. Una previsione legata all’andamento dello scontro sui campi di battaglia e alla valutazione della potenza delle armi e della quantità di munizioni in mano all’Ucraina, che, a differenza della Russia che le produce a ritmi sostenuti, è costretta a chiederle in giro per il mondo. A questo va aggiunta l’incertezza del quadro politico statunitense con la pervicace presenza di Trump nella competizione per le elezioni presidenziali del 5 novembre prossimo. In questo quadro la continuità del sostegno finanziario e militare degli Usa all’Ucraina è messo in dubbio. È un altro dei motivi degli accordi bilaterali voluti e ottenuti da Zelensky sia dentro che fuori dal contesto europeo.
Ma vi è di più. Creare e appesantire un clima di guerra, costruire un vero e proprio sistema di guerra, dal piano culturale a quello economico, da quello della produzione di armi a quello di una tecnologia piegata a impieghi bellici, è funzionale a qualcosa che va al di là del conflitto in corso. Riguarda direttamente la possibilità – che molti analisti americani considerano inevitabile – di un conflitto dalle proporzioni ben più catastrofiche fra Usa e Cina. Gli analisti militari la chiamano “la trappola di Tucidide” che si verifica ogni volta, a partire dallo scontro fra Sparta e Atene di ben oltre duemila anni fa, che una potenza emergente mette in discussione il primato su un certo territorio, in questo caso l’intero mondo, di quella dominante, nella quale compaiono evidenti i segni di un declino. Ed è questa la situazione e la relazione nella quale si trovano attualmente Usa e Cina. Non so se può bastare un incidente per fare deflagrare il conflitto fra due potenze nucleari. Quello che è certo è che uno stato psicologico delle popolazioni preparato ad una simile prospettiva di guerra mondiale, dopo tanti decenni di pace apparente, è funzionale ad un simile disegno. L’abitudine allo stato di guerra ne favorisce l’estensione e l’aggravamento da tutti i punti di vista. Servirebbe dunque un’Europa, una Unione europea che, anche in virtù della sua massa critica, agisse politicamente ed economicamente per evitare questo esito. La transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est è probabilmente un processo storico inarrestabile. Ma non sta scritto che debba avvenire, come nelle precedenti transizioni, come un esito di una guerra, che in questo caso, lascerebbe poche speranze per la sopravvivenza delle specie viventi su questo nostro pianeta.
(Odissea, 29 febbraio 2024)
di Giordana Masotto
In occasione della presentazione in Libreria delle donne di Milano di Brothels di Libera Mazzoleni (Boîte Editions, 2023)
Il libro è nero, com’è giusto che sia. In copertina un taglio, la ferita feritoia da cui entreremo nelle stanze dell’orrore: stanze invisibili nei campi di concentramento, segrete e nascoste vicino ai reparti di esperimenti con cavie umane; stanze disciplinate e controllate nelle case di tolleranza fasciste; professionali nella vasta gamma di casini e bordelli parigini; fino alle vaste pratiche degli eserciti stupratori e dei campi militari di prostituzione forzata e alle schiave in gabbia dei quartieri a luci rosse di Tokyo.
No alla Cancellazione
Libera Mazzoleni fa un lavoro di svelamento che si rivela anche nei fogli semitrasparenti che trovi dentro al libro e che non sono rilegati come le altre pagine, sono mobili: li puoi togliere se vuoi!
C’è svelamento nel silenzio di quelle immagini deformate: il silenzio è sentire il mondo. E quel flusso deformato ci chiama in causa. Architetture e persone ci fanno vedere città che non vediamo.
Denuncia la cancellazione, dà visione/immagini e parola/testi, a queste donne cancellate: è proprio questo che non le blocca, non le oggettiva nella condizione di vittime. È il “fuori campo” (come ci ha ben spiegato Daniela Brogi, Lo spazio delle donne) che spezza la visione consolidata.
E, insieme alle immagini, ci sono testi che rivelano tutto il lavoro di ricerca che ci sta dietro, ma anche poesie dell’artista, testimonianze, lettere alla senatrice Merlin. Giustamente varie e plurali sono le voci di queste donne: pro e contro la Merlin, le tenutarie, le imprenditrici creative, le schiave.
Ma attenzione, questa non è documentazione storica: la memoria è viva quando la metti in gioco con il presente, ti metti in gioco con il tuo sguardo, con il tuo corpo di oggi. È generativa: dar voce è rigenerare.
Incrinare lo storytelling
Svelare l’indicibile. Il corpo della donna può essere usato dal potere come incentivo/premio di produzione con una graduatoria: SS, militari, internati. Il corpo della donna è contenitore per il “bisogno/sfogo” maschile, relax, divertimento, arma di guerra.
Non c’è bisogno di spettacolarizzare (come “la stanza dello stupro” nella mostra su Artemisia Gentileschi a Genova).
Questi uomini li vediamo nelle immagini e nelle storie: non sono mostri, sono uomini normali. Possiamo usare l’aggettivo “normale” nel senso svelato da Hannah Arendt in La banalità del male. Voglio ricordare queste parole preziose di H.A.:
«Oggi, in effetti, sono dell’avviso che il male sia sempre e solo estremo, ma mai radicale: non ha profondità e non ha niente di demoniaco. Può devastare il mondo intero perché prolifera in superficie, come un fungo. Profondo e radicale, invece, è sempre e solo il bene».
Oggi possiamo chiederci: che cosa c’è di disumano che consideriamo normale?
Il grande rimosso: il contratto sessuale
Dal bordello al matrimonio il passo è breve, come ci ha spiegato un testo che rimane fondamentale: Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna. Il contratto sociale istituisce il potere che regola l’umana convivenza. La convivenza umana, infatti, deve essere pensata, non può essere lasciata alla natura: per questo gli uomini liberi acconsentono liberamente a subordinarsi al potere. Invece – come ha ben svelato C.P. – il diritto degli uomini sulle donne viene considerato naturale. Poi c’è l’avvento della libertà delle donne: ma il contratto sociale non viene ripensato in maniera radicale, viene semplicemente rimosso il contratto sessuale che gli sta dietro. È questa rimozione che fa sì che emergano oggi ipotesi di contrattualizzare la prostituzione e la maternità, come argomenta nel capitolo finale del libro. Ma, più in generale, tutte sappiamo la fatica che ci vuole per portare il nostro “stare intere” nei diversi contesti sociali in cui viviamo, mettendo in discussione la logica paritaria dell’inclusione nel contratto sociale esistente. O per resistere alla logica invasiva dell’individuo neutro competitivo che cancella la vita di donne e uomini.
Dal bisogno al desiderio
Per spezzare l’invasiva e devastante banalità del male dobbiamo “rimettere in relazione”. La natura della relazione amorosa non può andare distinta dai rapporti sociali e questa interazione va portata alla luce, svelata, in ogni ambito: amore, lavoro, politica. È questa rottura di barriere che può cambiare donne e uomini, generare insieme nuovo mondo.
Esempio: nella modalità bordello, ma anche in altri rapporti sessuali, oggi anche in rete, il sesso si trasferisce dalla modalità desiderio alla modalità bisogno (Sarantis Thanopulos, La Città e le sue emozioni, Edizioni ETS 2019). Libera Mazzoleni lo dice benissimo nella poesia “L’uomo idraulico” in cui ladonna è contenitore per il bisogno impellente di “svuotare”. Ma non è diversa anche la logica del sesso premio di produzione.
Questo discorso – rianimare il desiderio – è più che mai attuale e impellente in tutti i campi. Detto in altre parole, si tratta di vivere nella logica non di trovare, ma di cercare. Riscoprire il desiderio per rigenerare la convivenza nello spazio comune, le relazioni come incontro tra differenze.
Essere artista o Lavoro Artistico
E proseguendo in questo cammino aperto dal desiderio, arrivo lì: essere artista. C’è qualcosa di radicale nell’arte, qualcosa che si genera radicalmente da te, dall’essere insieme corpo-pensiero-desiderio. È il bello che si può trovare anche nel lavoro artigianale, nel canto, nel recitare. Le opere d’arte sono strutturalmente relazionali, si fanno in due, chi opera e chi guarda: dobbiamo metterci in gioco, farci coinvolgere attivamente nella relazione.
Ma l’arte è anche politica per nascita, perché genera novità rispetto all’esistente. Come ho letto da qualche parte: «Si fotografa, si dipinge e si scrive per rendere meno chiare le cose che all’apparenza sembrerebbero inconfutabili ed evidenti». L’arte è necessaria alla politica e tutte e tutti dobbiamo riaccendere l’immaginario.
Anna Longo, citata da Judith Butler (Perdita e rigenerazione. Ambiente, arte, politica)dice: «Nei tempi in cui viviamo l’arte sembra non solo impossibile ma anche frivola impotente. È proprio in momenti simili che abbiamo più bisogno dell’arte, o piuttosto di diventare artisti [corsivo mio]: non creatori di nuove maschere che indurranno le masse a desiderare la propria schiavitù, ma agenti vivi, capaci di affermare la vita contro ciò che, col pretesto di renderla possibile, la mutila».
Ragionando e confrontandomi sul tema del lavoro ho visto che sempre di più chi lavora cerca/vuole esprimersi. Vuole coltivare integrità, in sé e intorno a sé. Cercare insieme impegno e piacere. Competenza e passione. Espressione e riconoscimento. Potremmo dire che c’è un desiderio di “mettersi in opera”, non diversamente dal lavoro dell’artista, che vuole vivere ed esporsi nel proprio lavoro.
Contemporaneamente questo desiderio si scontra con contesti spesso sempre più mortiferi che aprono contraddizioni radicali, fino all’andarsene e mollare tutto. Oppure a vivere come puro privilegio la possibilità di “esserci”: se ti esprimi, se fai qualcosa in cui ti identifichi profondamente non sei pagata!
Chiamo questo aspetto del problema “lavoro artistico”: lo chiamo volutamente così per mettere in connessione questi due poli, che per certi aspetti si intendono in genere pertinenti a due ambiti contrapposti: necessità e libertà, bisogno e desiderio. E che anche nell’ambito propriamente artistico possono generare non poche contraddizioni. Problemi più che mai aperti.
Finale
E poiché tutte le opere d’arte sono strutturalmente relazionali, si fanno in due, chi opera e chi guarda, ed è giusto farsi coinvolgere attivamente nella relazione, adesso voglio fare la mia parte. Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere. Perché «profondo e radicale, invece, è sempre e solo il bene».
(www.libreriadelledonne.it, 29 febbraio 2024)
di Ida Dominijanni
La parata di no alla proposta di Macron di mandare i boots on the ground contro la Russia era una parata di no fino a un certo punto. E il certo punto l’ha chiarito oggi Ursula von der Leyen, cadendo, e facendoci cadere, dalla padella di Macron nella brace della Ue. Ursula infatti le truppe non le nomina, no, ma in compenso programma di armare l’Europa fino ai denti, col duplice scopo a) di dichiarare guerra alla Russia, b) di rilanciare l’economia dell’Unione con una bella riconversione bellica, altro che ecologica o energetica. È una bestemmia, ma poi c’è la bestemmia nella bestemmia, questa: con le armi dobbiamo fare come con i vaccini, cassa comune e solidarietà reciproca. Dunque la pandemia a questo è servita: non a metterci in testa che siamo tutti interdipendenti e tutti vulnerabili, non a farci reinvestire nei servizi sanitari devastati da decenni di neoliberismo, non a stringere maggiori vincoli di solidarietà a difesa della vita. No. Ci è servita a diventare più aggressivi, a riesumare gli eserciti e a seppellire quella vecchia storia dell’Europa figlia di Venere, pacifista e imbelle e perennemente in debito verso l’alleato d’oltreoceano figlio di Marte e sempre pronto a presentarsi a questo o quel fronte.
Lasciamo perdere il corredo di utilità economica che questa folle presidente in cerca di riconferme porta a sostegno della sua tesi, e che, va da sé, Mario Draghi approverà nella sua nuova funzione di consigliere per la competitività della Ue. Ancor più rabbrividente è il corredo politico del ragionamento: la belle époque della pace è finita, adesso la guerra in Europa «non è imminente ma non è impossibile». Tradotto: è probabile. Per colpa delle mire espansioniste di Putin, ovviamente, e delle tentazioni isolazioniste di Trump, non dei calcoli economici di Ursula.
Non abbiamo mai avuto nella storia della modernità europea una classe politica così cieca e incosciente. Fermiamola in qualche modo. Non dobbiamo produrre armi come i vaccini, ma vaccinarci contro il regime di guerra in cui ci stanno trascinando.
(https://www.facebook.com/ida.dominijanni/, 29 febbraio 2024)
di Gabriella Colarusso
A Teheran molte non osservano le leggi sulla moralità e si preparano a boicottare le elezioni “farsa” di domani.
È stata come una scossa elettrica, una vertigine. «Ero per strada, senza velo, una signora mi è passata accanto, mi ha guardata e mi ha detto: “Grande! Brava!”. Era eccitata più di me. In quel momento qualcosa è cambiato. Il Movimento ci ha fatto conoscere l’una con l’altra, diventare una comunità. Ci ha dato potere». Sono passati due anni dalla scossa che ha attraversato l’Iran: la morte di Mahsa Amini, le grandi proteste contro il velo obbligatorio e per i diritti, la repressione, la disobbedienza civile. Donna, vita, libertà. O come adesso lo chiamano tutti qui, semplicemente: il Movimento. Una parola entrata nel lessico comune. L’Iran che sta cambiando.
Quei giorni di protesta Najme li ha vissuti lontano dalle piazze, «non sono tipo da manifestazioni, dipingo». Ma dentro le si è ribaltato tutto. «Ho trentott’anni, e venticinque li avevo passati a litigare con mio padre, religioso, e i suoi dogmi. Dopo Mahsa ho capito che il problema ero io: non avevo coscienza di me. Il Movimento mi ha dato una forza nuova. E ora non ho paura di uscire senza velo. Ma non è una rivoluzione, attenti. Quelle sappiamo come finiscono: con la violenza. È una trasformazione, lenta. And it’s going on». È la nuova normalità senza velo per moltissime donne a Teheran, le vedi con i capelli scoperti in métro e nelle piazze, capannelli in mezzo ad altre velate, nel Nord ricco come nel Sud popolare, universitarie e madri di famiglia, laiche in gran parte ma pure conservatrici, moderate a cui l’imposizione non è proprio andata giù. Fatemeh, sessantaquattro anni, maestra in pensione, è avvolta nel suo chador nero. Anche lei ammette: «Le ragazze che non lo indossano si perdono qualcosa, ma non vanno punite».
Reza racconta le nuove diatribe con la moglie, la loro è da sempre una famiglia pia: «Ha smesso di indossare il velo dopo quello che è successo, arrabbiata per la repressione, e così anche mia figlia quindicenne», dice e scuote il capo: vorrebbe evitare guai. «Per strada devo tenerla a bada, altrimenti comincia a litigare se le dicono qualcosa». La temuta polizia morale, la Gersh Ershad, non si vede più in giro. Hanno cambiato nome, dice qualcuno. Lo fanno solo perché si vota, ma poi torneranno, speculano altri. Resta il fatto che i fermi delle donne senza velo, soprattutto quelli eseguiti con durezza, sono diminuiti. «La polizia non dice nulla», racconta Myriam, 24 anni, svelata e sorridente alla fermata della metro Dowlat Abad, sud di Teheran, zona conservatrice. «Magari sono i conservatori a dirti qualcosa, ma adesso intervengono le altre persone a difenderti». Le telecamere, quelle invece sono dappertutto. «Hanno capito che eravamo troppe, tante, e non potevano arrestarci tutte. Ora si sfogano facendoci le multe».
Sepinud aspetta il bus a piazza Vanak, nel Nord, l’agorà delle grandi occasioni mancate. Qui nel 2015 i moderati festeggiavano la firma dell’accordo sul nucleare e la promessa di un rapporto nuovo con l’Occidente. Trump stracciò quel sogno. I moderati di Rohani sono caduti in disgrazia. E con l’ultraconservatore Raisi l’Iran è andato altrove, a Est, verso la Russia e la Cina, stringendo le maglie delle libertà sociali. Venerdì si vota per le elezioni parlamentari, con una crisi economica i cui effetti il governo è riuscito ad attutire solo in parte e a due anni dall’esplosione del Movimento che ha messo anche i conservatori di fronte a una realtà ineludibile, al punto che oggi il conservatore Haddad Adel dice che pure le donne senza velo possono votare.
«Io non ci andrò. Per Mahsa e per tutte le altre ragazze vittime della repressione», rivendica Sepinud, trentanove anni, mentre comincia a nevicare. Chi è sceso in piazza, e chi ha tifato da casa per la battaglia delle donne, diserterà le urne. Grève du vote, sciopero del voto, c’è scritto sul muro di un caffè alla moda nei pressi di Enghelab, via della Rivoluzione. Anche la premio Nobel Narges Mohammadi dal carcere ha invitato a boicottare i seggi. Lo faranno molti riformisti delusi. Le autorità in apparenza sembrano preoccuparsene, gli appelli a difendere la “democrazia” si moltiplicano tra i conservatori preoccupati che si scenda sotto il 40% delle precedenti legislative, già il dato più basso nella storia della Repubblica Islamica. Eppure molti candidati riformisti sono stati esclusi dalla corsa, quasi che al Sistema non dispiaccia un parlamento monocolore. Persino all’ex presidente moderato Rohani non è stato consentito di correre per l’altra elezione, davvero cruciale, di questo venerdì: quella per il Consiglio degli Esperti, l’organo che nomina la Guida Suprema. Ancora aspetta le motivazioni.
«103 riformisti candidati in tutto l’Iran», titola indignato il giornale riformista Ham Mihan, quello di Elahé Mohammadi, la reporter che insieme a Niloufar Hamedi per prima ha raccontato la storia di Mahsa Amini: arrestata, accusata di intelligenza col nemico, rilasciata dopo oltre un anno di prigione su cauzione, Mohammadi non è ancora stata scagionata. «Sta bene, e ci auguriamo che presto tornerà a lavorare», ci dice il direttore responsabile di Ham Mihan, Gholamhossein Karbaschi, ex sindaco riformista di Teheran, quando ci accoglie nella piccola redazione a nord della capitale. Sono tutti giovani, la maggior parte donne. In 400 giorni Ham Mihan ha avuto “200 denunce”, «sono andato in tribunale per 20 processi. 17 sono state assoluzioni, uno è finito con una multa di 140 euro e due cause sono ancora pendenti». Più che una redazione, un fortino. «Il Movimento ha cambiato molte cose», secondo Karbaschi. «Ha fatto venir fuori il potenziale di una generazione che vuole prendersi le sue responsabilità. Donne colte, determinate, che ambiscono a diventare capi, dirigenti, direttori. È il loro momento». Ma sbaglia chi pensa di poterci arrivare biocottando il voto, avverte: «In Parlamento dobbiamo esserci, far sentire la nostra voce, correggere gli errori ovunque possiamo».
I rifomisti però sono divisi, storditi. I vecchi leader, quelli del 2009, Karroubi e Mousavi, stanno ancora ai domiciliari. I “nuovi” non ci sono o sono accusati di aver tradito la promessa delle riforme. E di non aver fatto nulla in difesa dei ragazzi e delle ragazze nei giorni delle proteste. Mohammad Ali Abtahi si sente chiamato in causa. Tra i padri nobili del riformismo iraniano, braccio destro di Khatami, ne è stato il vice durante la grande stagione delle riforme, anni Novanta. «Capisco la delusione, è fondata, e ce ne assumiamo la responsabilità. Abbiamo fatto errori, come quando ci dividemmo contro Ahmadinejad. Ma ci sono due vie: o la violenza e la guerra civile, che abbiamo visto in tanti Paesi intorno a noi, o le riforme. Noi abbiamo scelto la seconda strada e la difendiamo». La speranza è in questa «nuova generazione connessa con il mondo, che sta cambiando le cose. Il potere non la capisce, non ci parla, la distanza è sempre più ampia».
Cos’è allora questa trasformazione? In Iran «i satelliti sono proibiti, il velo è obbligatorio, molti generi musicali sono vietati, Instagram, Telegram sono banditi». Però, nei fatti, «la gente sta sui social, non porta il velo, usa l’antenna satellitare. Il riformismo è un pensiero. E lo stanno realizzando, anche senza i riformisti al potere».
(la Repubblica, 29 febbraio 2024)
di Libreria delle donne
Flora De Musso è morta il 17 febbraio 2024. Era nata il 23 giugno 1946.
Femminista “storica” milanese – negli anni ’70 faceva parte del collettivo di via Cherubini – ha insegnato microeconomia nelle scuole superiori. Negli anni ’80, quando il pensiero della differenza ha cominciato a investire le pratiche professionali delle singole, soprattutto delle insegnanti, Flora ha avviato insieme ad altre un gruppo di riflessione sulla pratica pedagogica, che grazie a iniziative analoghe in altre città, incontri e convegni, ha fatto nascere la pedagogia della differenza (vedi Educare nella differenza a cura di Annamaria Piussi, Rosenberg & Sellier, 1989). Scritti del gruppo da lei curati sono stati pubblicati sulla rivista “Cooperazione educativa”. Nel 1992, con Luisangela Lanzavecchia ha curato il volume Libertà femminile nel ’600 (Libreria delle donne), che documenta uno splendido lavoro di ricerca da loro fatto in alcune classi. Nell’84 Flora aveva cominciato a mettere mano alla grande quantità di documenti, riviste, opuscoli accumulati nello scantinato della Libreria delle donne nella sede di Via Dogana, creando insieme a Gabriella Lazzerini l’archivio politico dei documenti 1974-1997, che nel 1999 è stato dato in comodato alla Fondazione Elvira Badaracco. Dal 2007 in poi si impegnò nel secondo “riordino” dell’archivio conservato nel seminterrato della nuova sede di via Pietro Calvi, insieme a Luca Bergamaschi, che continua l’opera. Tra gli scritti di Flora, vogliamo segnalare l’articolo Maria Grazia Zerman e i suoi doni (Via Dogana n. 92 “Cambiare l’immaginario del cambiamento”, marzo 2010), sulla cara amica morta nel 1995 che aveva lasciato un fondo per promuovere e sostenere economicamente la ricerca delle donne.
Alcune di noi hanno scritto i brevi ricordi che seguono. Sul sito abbiamo già pubblicato quelli di Luca Bergamaschi e di Francesca Graziani.
Io l’avevo conosciuta facendo insieme i “corsi abilitanti” all’insegnamento (Diritto e Economia) nei lontani anni ’70 e qui era nata un’amicizia affettuosa e di grande scambio. Con un’altra collega, tuttora mia grande amica, avevamo formato un gruppetto “vivace” e affiatato. In seguito, con una docente del corso che ci piaceva particolarmente, avevamo fatto anche un gruppo di autocoscienza incentrato sul lavoro dell’insegnante. Poi siamo finite in scuole diverse e io in anni successivi ho lasciato l’insegnamento… ci siamo un po’ perse di vista. Di quel periodo mi era rimasto un ricordo tangibile, uno stupendo scialle fatto da lei a maglia, attività nella quale era abilissima.
(Silvia Motta)
Abbiamo insegnato nella stessa scuola nel 1975. In viale Zara Flora ci aspettava con la macchina per andare a Lissone: Istituto del mobile. Andate e ritorni ci raccoglievano in una socialità femminile di colleghe. Così la informai dell’esistenza della Libreria delle donne, felicissima ci venne con me e in seguito mi ricordò spesso che le avevo dato la più importante opportunità della sua vita.
(Antonella Nappi)
Se può servire, io ricordo che negli anni ’80 dopo la pubblicazione del Sottosopra verde (1983) ho conosciuto Flora nel corso di due convegni, uno a Bologna e uno a Parma, che io stessa con altre della Biblioteca delle donne organizzai, e in entrambi Flora aveva sostenuto con fermezza l’efficacia della pratica dell’affidamento a scuola e in qualsiasi luogo di lavoro o altro, come una invenzione della Libreria delle donne che ogni donna poteva agire. In quel periodo questa pratica fu molto contestata e lei mi colpì per la forza con cui condusse questa battaglia nel movimento femminista.
Poi a Milano la incontrai nel gruppo delle insegnanti della Libreria nel sottoscala di Via Dogana e una volta trasferitami a Milano, molto più spesso, in Libreria, al Circolo della rosa e nel seminterrato della nuova sede della Libreria, al lavoro con Luca all’Archivio dei Libri preziosi e della rivista Via Dogana. Lavoro prezioso che Luca ha continuato per amore, per riconoscenza e perché non vada sprecata la ricchezza del pensiero e dell’agire femminile.
(Laura Minguzzi)
Il primo flash di Flora è legato a Grazia Zerman, le rivedo sempre insieme, belle, eleganti, forti, luminose; insieme facevano un turno in Libreria nel pomeriggio. Poi, quando Grazia mancò e fu istaurato un premio a suo nome per una tesi di laurea alle studentesse, la ricordo sempre presente all’appuntamento annuale.
Entrai in rapporto con lei quando, raggiunta la pensione, mi comunicò che intendeva organizzare l’archivio nel seminterrato della Libreria. Decidemmo insieme il necessario per iniziare e, per non pesare sull’economia della Libreria, ci attivammo per chiedere un contributo esterno così esiguo che ci venne subito accordato. Comprammo un computer, un deumidificatore e più avanti tanti faldoni per contenere i documenti.
Flora condivideva il progetto con Luca, suo amico e collega di scuola, li vedevo arrivare puntuali, determinati, precisi. Poi cominciò a diradare la sua presenza lasciando a Luca il compito di continuarlo, compito che tuttora porta avanti con impegno e piacere. Cominciai a chiamarla per avere notizie della sua salute, di cui non volle mai parlare, instaurammo così un rapporto a distanza fatto di leggerezza e ironia che è durato quasi quattro anni. Solo nell’agosto scorso mi mandò un messaggio in cui diceva la sua presenza in ospedale per riprendersi da una polmonite, ancora una volta minimizzando in modo affettuoso. Malgrado la gravità ricambiai l’affetto e la leggerezza.
Rivendico questo nostro rapporto in superficie ma non superficiale, fatto di attenzione reciproca, di leggerezza e di affetto. A Natale mi mandò questo messaggio: «Buona vita. bacini».
(Renata Dionigi)
(www.libreriadelledonne.it, 29 febbraio 2024)
di redazione Roba da femmine
Sabato scorso a Parigi si è svolta la cerimonia dei premi César, l’equivalente francese della cerimonia degli Oscar […].
È stato Anatomie d’une chute (arrivato in Italia con Teodora col titolo Anatomia di una caduta) ad aggiudicarsi i riconoscimenti più importanti: miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista e miglior sceneggiatura. Justine Triet, regista del film, è la seconda donna nella storia dei César a vincere in questa categoria.
Ma questa edizione dei premi del cinema francese verrà ricordata soprattutto per il memorabile discorso tenuto dall’attrice Judith Godrèche. Poco nota da noi ma molto conosciuta oltralpe, qualche tempo fa Godrèche ha raccontato di essere stata abusata per anni dal regista Benoît Jacquot. I due si erano conosciuti quando lei era minorenne e avevano iniziato una relazione con la benedizione dei genitori di lei, evidentemente contenti di vedere la figlia “sistemarsi” con uno dei più promettenti nomi del cinema francese nonostante l’importante differenza di età. All’epoca infatti non solo Godrèche non era ancora maggiorenne ma tra i due c’erano ben venticinque anni di differenza: quando la loro relazione è iniziata lei aveva quindici anni e lui quaranta.
La loro storia si è conclusa nel 1992 e da allora Judith Godrèche ha continuato a lavorare per un po’ in patria prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Tornata in Francia da qualche anno, l’attrice ha deciso di raccontare gli abusi subiti attraverso i suoi canali social; dopo la sua testimonianza, altre donne si sono fatte avanti per raccontare di essere state violentate o abusate da Benoît Jacquot.
Il regista ha respinto tutte le accuse ma in un documentario commentava così il suo rapporto con Godrèche: «Era una trasgressione. Non solo per la legge, ma non si può in linea di principio, credo. Una ragazza come lei che aveva quindici anni e io quaranta, non avevo il diritto». L’attrice ha descritto così la loro relazione al quotidiano Le Monde: «È una storia come quelle dei bambini che vengono rapiti e crescono senza vedere il mondo e non possono pensare male del loro rapitore. Avrei voluto che Benoît accettasse di essere mio amico, non di avermi, non volevo il suo corpo. Ben presto mi ha disgustata».
Durante la cerimonia dei César, Godrèche ha tenuto un lungo e duro discorso non tanto su quanto accaduto a lei ma sul clima di omertà che ha circondato quella e altre vicende permettendo a chi volesse abusare di giovani donne di agire nella più assoluta impunità.
«Da tempo ormai la mia testimonianza è nota,l’immagine idealizzata dei nostri padri è stata offuscata, il loro potere sembra quasi vacillare» l’attrice ha poi affermato dicendo che «il silenzio è il mio motore da trent’anni», prima di fare un appello alle sue colleghe e alle altre vittime di violenza: «Non possiamo interpretare eroine sullo schermo per poi nasconderci nella vita reale». Trattenendo le lacrime, Judith Godrèche ha proseguito il suo racconto dell’orrore dicendo: «C’era una volta, non accadrà così, non come le altre volte». La frase che però è rimbalzata su tutti i social è stato il suo fermo j’accuse nei confronti di tutto il cinema francese: «È da un po’ che parlo, parlo, parlo, ma non vi sto sentendo. O vi sto sentendo appena. Dove siete?» ha detto rivolgendosi a colleghi e colleghe.
Dopo le disgustose affermazioni di Gérard Depardieu che hanno causato un polverone anche politico in Francia, le accuse contro Benoît Jacquot tornano a scuotere l’opinione pubblica d’oltralpe. Fuori dall’Opéra dove si stava svolgendo la cerimonia dei premi César, decine di manifestanti hanno protestato contro le molestie sessuali che quotidianamente affliggono le donne che lavorano nel cinema francese.
In Italia il collettivo Amleta si occupa da anni di raccogliere e offrire supporto alle donne vittime di abusi nel mondo dello spettacolo. Chissà che non ci sia spazio anche per loro ai prossimi David di Donatello, i premi del cinema italiano che dovrebbero vedere il trionfo del film di Paola Cortellesi sulla violenza contro le donne.
(Newsletter “Roba da femmine” – Wired, 28 febbraio 2024)
di Luciana Cimino
Comincia domani il più grande esame di massa al quale sono sottoposti gli studenti italiani: le prove Invalsi. Con un’aggiunta: la schedatura dei ragazzi poveri. Le rilevazioni nazionali, introdotte nel 2007, hanno suscitato negli anni un acceso dibattito sulla standardizzazione della valutazione.
Ora però si è aperto un nuovo fronte di discussione, dovuto alla messa a terra del Pnrr e di Agenda Sud, sui dati dei ragazzi fragili. A partire dal 2022, l’Invalsi ha introdotto un nuovo indicatore individuale per «identificare studenti in condizione di fragilità» allo scopo di riconoscere «gli alunni che manifestano segnali relativi a potenziali situazioni di disagio, fragilità e abbandono», come si legge sul sito Invalsiopen. L’indicatore Escs (Economic, Social and Cultural Status) fotografa la situazione sociale, economica e culturale delle famiglie degli studenti che partecipano alle prove, tracciando lavoro e livello d’istruzione dei genitori e il possesso di alcuni beni materiali. Ed è proprio l’Escs a essere usato nelle misure per la riduzione dei divari territoriali previste dal Pnrr.
«A un fine nobilecome il contrasto alla dispersione, sembra possa corrispondere l’impiego di qualsiasi mezzo, anche l’automatizzazione del processo di indirizzo dei finanziamenti – spiega Rossella Latempa, insegnante di matematica e fisica e membro della redazione di Roars (Return on academic ReSearch) – ma questo pone due problemi: il primo riguarda la privacy, il secondo è politico». Sul primo, Roars, e altre associazioni come Alas o Priorità alla Scuola, segnala l’opacità della raccolta e trattamento dei dati: «La valutazione Invalsi è una gigantesca black box non interpretabile dall’esterno – premette Latempa -. Non controllabile, verificabile o revisionabile per via umana, la banca dei quesiti non è pubblica, non sappiamo chi li decide, chi li corregge e con quale metodo, i test non sono replicabili da parte dello studente, i riferimenti alla privacy sono fumosi e non si può decidere sulla propria privacy». Questioni che ha sollevato diverse volte anche il Garante ma che fino a ora sono rimaste senza risposta da parte del ministero dell’Istruzione (e merito) e che sono strettamente intrecciate al punto politico.
«L’infrastrutturadei dati Invalsi si sta imponendo come architettura fondamentale per la realizzazione di una sorta di nuovo modello di welfare educativo, di tipo tecnocratico – spiega Latempa. Non c’è niente di giusto o imparziale nel prendere decisioni sulla base di un algoritmo, sono diversi gli esempi di “discriminazioni algoritmiche” senza contare che il dibattito critico internazionale evidenzia da tempo i legami tra eugenetica, statistica e processi automatizzati. Come tutte le profezie pure quelle digitali si autoavverano».
Quello che viene contestato è il legame numerico tra studenti identificati come fragili e le risorse per le scuole: «Un pericolo che le esperienze internazionale ci ricordano ogni giorno: negli Usa classifiche di questo tipo vengono usate per dichiarare il fallimento di alcune scuole e per restringere i curricula, e quindi le possibilità, degli studenti». Riguardo la didattica, Latempa nota: «Si parla di inclusione ma in realtà si stanno progettando trattamenti differenziati progettati per gruppi di studenti scelti dalle macchine e non dal giudizio dei docenti che anzi vengono condizionati da un falso senso di controllo quando si tratta, invece, di situazioni complesse».
Preoccupa il combinato disposto con le altre riforme della scuola pensate dal ministro leghista Valditara: quella dell’orientamento e quella dei professionali. «Tutto, tutto insieme, dà l’idea che si vada nella direzione di un tracciamento del capitale umano per smistare poveri e meridionali», chiosa Latempa. Sul tema della valutazione si è espresso anche il Pd che, con una rete di associazioni (Aimc, Cidi, Flc Cgil, Legambiente e altre) ha tenuto ieri una conferenza stampa alla Camera per contestare il ritorno al voto numerico alla primaria. «Una decisione immotivata dal punto di vista pedagogico – ha spiegato Susanna Crostella del coordinamento genitori democratici. Il governo non metta in discussione il giudizio descrittivo nella scuola primaria, la scuola non può essere costantemente investita, nell’alternarsi dei governi, da politiche frammentarie, contraddittorie, prive di una visione pedagogica».
(il manifesto, 28 febbraio 2024)
di Elisa Messina
A febbraio abbiamo visto su Rai1 «Califano». A seguire, «Mameli». Miniserie tv, per la precisione due biopic, su due italiani piuttosto diversi e distanti nel tempo. Il titolo non poteva essere più chiaro: il cognome del personaggio di cui si narrava la vita (tra verità e invenzione). Perché allora il prossimo film biografico di Rai1, quello dedicato all’astrofisica Margherita Hack e diretto da Giulio Base, si chiama «Margherita delle stelle»? Dove è finito il cognome?
Siamo al solito caso di sparizione del cognome femminile. Se proprio non si voleva rinunciare al riferimento astrale si poteva farlo senza ingoiare il cognome della scienziata che nella fiction è interpretata da Cristiana Capotondi. Non era difficile, ecco alcuni suggerimenti: «Hack, Margherita delle stelle» oppure, «Hack, Margherita e le stelle». Osiamo? «Hack, tutte le stelle di Margherita».
Ripensiamo alle fiction dedicate a eroi nazional-popolari maschi (quelle con la faccia di Beppe Fiorello, per esempio): Quella su Modugno non era «Domenico, il mister Volare», ma, «Volare, la grande storia di Domenico Modugno». Oppure ancora «Giuseppe Moscati, l’amore che guarisce». Cambiamo attore e cambiamo storia, Luca Zingaretti è stato Giorgio Perlasca in «Perlasca, un eroe italiano». Semplice, no? Eppure…
Ce la ricordiamo la serie tv 2015 sulla vita di Oriana Fallaci con Vittoria Puccini? S’intitolava simpaticamente «L’Oriana». Fallaci non era già più tra noi da diversi anni sennò chissà come avrebbe apostrofato la scelta del titolo. Probabilmente con gli stessi epiteti che avrebbe usato Hack, visto che erano toscane tutte e due.
Succede nei titoli delle fiction, ma ancora, purtroppo, nei titoli degli articoli sui giornali. Per le famose o le non famose. Così Meloni diventa Giorgia, Schlein, Elly… La studentessa italiana che vince una competizione internazionale di matematica può diventare «Caterina, la maga dei numeri», l’atleta che vince una medaglia, «Sara, la regina dello sprint». Improvvisamente diventano tutte cugine, amiche, sorelle. «Perché è questo che fa l’uso del nome proprio delle donne in contesti non confidenziali: riduce la distanza simbolica, esprime paternalismo, agevola l’uso del tu familiare e diminuisce l’autorevolezza della funzione ricoperta riportando la donna alla condizione di principiante» scriveva Michela Murgia in «Stai zitta!», mirabile libretto sui tanti pregiudizi che ancora fanno lo sgambetto alle donne.
Niente di grave, per carità. Ma è pur sempre un uso della lingua che denota il sessismo ancora diffuso.
Sono solo parole. Ma le parole sono importanti (Nanni Moretti lo dice da sempre) perché sono il riflesso, spesso inconsapevole, della mentalità corrente. Che è quella che considera normale trattare linguisticamente le donne in un modo diverso: togliere i cognomi, inserire gli articoli (la Meloni, la Schlein), declinarne al maschile le professioni…
Se vuoi cambiare la realtà comincia dalle parole che usi per rappresentarla. Lo diceva la linguista Alma Sabatini in «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana», manualetto redatto per la presidenza del Consiglio nel lontano 1987: fa impressione leggere che le sue raccomandazioni sono le stesse che ci ripetiamo oggi: evitare di nominare le donne per nome invece che per cognome; evitare l’articolo davanti ai cognomi femminili e ovviamente fa l’esempio di titoli di giornale con il nome di Margaret Thatcher (!).
Sono passati 37 anni, sono stati scritti altri libri, fatti convegni, le aziende (Rai compresa) le università e gli enti pubblici si sono dotate di codici di comportamento che invitano ad usare buone pratiche di parità, tra cui un linguaggio più inclusivo. Eppure molte di queste raccomandazioni continuano a essere disattese perché bollate come storture del politicamente corretto o manifestazioni di femminismo spinto. O semplicemente per ignoranza. «Attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. La lingua non è un accessorio dell’umanità, ma il suo centro», scrive in anni più recenti un’altra linguista, Vera Gheno, in «Femminili singolari».
Margherita Hack non c’è più e non sarà il titolo di questa fiction a lei dedicata a sminuire la grandezza della nostra astrofisica più famosa, la prima donna a dirigere l’Osservatorio di Trieste. Ma se le serie tv firmate Rai, in quanto servizio pubblico, oltre ad essere prodotti di intrattenimento hanno anche un intento divulgativo per il pubblico, forse bisognerebbe partire dal rispettare quelle semplici regole linguistiche che, da quasi quarant’anni, chiediamo vengano applicate a tutte le donne.
(La 27esima Ora Corriere.it, 27 febbraio 2024)
di Roberta De Monticelli
“L’ombra delle bombe” è una zona da indagare, il non detto, il dissimulato. Ma che succede in quel cono d’ombra? Quali le conseguenze, i riflessi, le ripercussioni della “guerra mondiale a pezzi” sul piano sociale, economico, ambientale, spirituale, culturale? Proiettare luce dentro al cono d’ombra per esaminare la realtà, interpretarla, poi pensare di cambiarla.
C’è molto da imparare dove si parla di guerra e di pace provando a sollevare il velo della rimozione – che è forse l’atteggiamento mentale più diffuso nelle società europee oggi. Una nuova associazione, “Il coraggio della pace disarma”, che ha avuto il 24 e il 25 febbraio il suo convegno di fondazione nello splendore del Convento di san Domenico Maggiore a Napoli, nei grandi porticati e chiostri dove ancora aleggia l’ombra di due spiriti magni, Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno.
Impossibile dar conto della molteplicità di prospettive e di temi, che convocavano tutte le scienze sociali e tutto lo sconcerto morale della nostra ragione a illuminare un solo fatto, insieme incontestabile e oscuro. Che nel mondo e in particolare in quello delle democrazie occidentali i pochi prosperino, i moltissimi soffrano, le disuguaglianze diventino sempre più abissali, non in virtù di un destino storico ma in virtù di decisioni ovunque favorevoli alla riconversione in atto dell’economia, delle agende politiche, del linguaggio pubblico, alla guerra.
È la normalizzazione dell’indicibile: perché l’affare che arricchisce temporaneamente i pochi e toglie welfare, speranza, slancio creativo e ideale a tutti ha come prezzo i fiumi di sangue presenti e quelli venturi. Il sangue delle due immani carneficine senza fine e senza orizzonte politico (altro che catastrofico) che abbiamo sotto i nostri occhi semichiusi: un’intera generazione sacrificata sui due fronti della guerra russo-ucraina, un’eliminazione ormai proclamata delle aspirazioni di un popolo a determinarsi come stato sulla sua terra, in Palestina.
Il tutto – ed è la parte più amara – sotto le bandiere dei cosiddetti “nostri valori”, ossimoro per riferirsi a ciò che è dovuto agli umani come tali e non “a noi”, la dignità, la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia. I valori che l’Unione Europea premette alla sua Carta dei Diritti, quelli che animavano l’immenso “mai più” iscritto nella Carta delle Nazioni unite, nella Dichiarazione Universale del ’48, e via via nelle istituzioni universalistiche che la cognizione del dolore aveva fatto nascere nel secondo dopoguerra. Con la speranza di realizzare infine in terra un costituzionalismo globale, che due sole cose proibiva: la guerra e la violazione dei diritti umani.
Un ordine cosmopolitico vero, che un “ordine” geopolitico chiamato pace, e fautore di guerre e deserti fuori delle oasi statunitense ed europea, armato fino ai denti ai suoi (s)confini, svuotava lentamente di senso dalla base. La base: cioè il polo della forza che insieme a quello della luce (o dell’idealità) sempre alimenta il vivente paradosso del diritto. Il quale vige solo per mezzo della forza che regola e vincola. Il diritto, questa grandiosa invenzione umana a metà strada fra la violenza e la giustizia, questo vincolo della civiltà che, sciolto, la rovescia nella guerra. E che si scioglie non appena il veleno della rimozione, della menzogna, della censura, della polarizzazione, della disumanizzazione spegne la luce delle ragioni, strozza l’ansia di verità nel dibattito pubblico, riduce il linguaggio a un’orwelliana amministrazione di conformismi e tabù: e decapita il polo dell’idealità, ghigliottinando la mente sociale. Allora al diritto non resta che appiattirsi del tutto sulla forza, e morire. Eppure i relatori intravedevano – tutti, senza eccezioni – un punto di convergenza fatto di buio e di luce: l’Europa.
L’Unione europea che tace come Pietro per tre volte per non smentire il sanguinario veto atlantico al cessate il fuoco in Palestina. Che dimentica la sua stessa ragione di esistenza, iscritta nel suo trattato istitutivo: «Nelle sue relazioni con il resto del mondo, l’Unione […] contribuirà alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al mutuo rispetto tra i popoli». E danza al tamburo di Stoltenberg, e lascia «i tempi lunghi della pace» per correre «ai ritmi veloci della guerra», e usa la sua Facility for Peace e i suoi fondi Pnrr per finanziare le industrie belliche nazionali al posto della riconversione ecologica. E che, invece, ancora potrebbe tornare in sé, e ricordare il coraggio della pace che la fece nascere. Siamo noi, che possiamo rifare l’Unione, votando alle elezioni europee, e votando per chi, volendo la pace, prepara la pace.
(il manifesto, 27 febbraio 2024)
di Alberto Leiss
Analisi, commenti, cronologie dopo due anni di guerra in Ucraina si sono affastellate sui media in questi giorni. L’impressione è di una assurda, inquietante cacofonia in cui prevalgono tesi ideologiche contrapposte e valutazioni “sul campo” divergenti. La “vittoria” di Zelensky sarà certa perché Putin ha già perso da mesi (il direttore del Foglio). No, è vero il contrario: «Stiamo perdendo la guerra», titola il numero di febbraio di Limes, la rivista diretta da Lucio Caracciolo. Si riferisce per la verità non solo all’Ucraina ma alla “Guerra Grande” che ora coinvolge Israele e Palestina e tanti altri luoghi del mondo.
Ho apprezzato le due pagine della Stampa scritte sabato scorso da Domenico Quirico e dal Cardinale Zuppi. Il primo ricorda le migliaia e migliaia di morti – ma quanti sono davvero nemmeno lo sappiamo – e le tante bugie: «Hanno mentito tutti. Putin innanzitutto ha mentito: con i suoi propositi di denazificazione, le spacconate di poter fare un boccone dell’Ucraina. Ha mentito Zelensky quando per dar credito alla propria figura di eroe dell’Occidente, di padre della patria, ha promesso al suo popolo che era possibile sconfiggere la Russia…». Quanto a noi «Usiamo la guerra, combattuta e pagata fisicamente dagli ucraini per fare le nostre mediocri politiche interne, lucrare consensi e sondaggi, moltiplicando fedeltà atlantiche ad ogni costo per garantire il benevolo consenso americano». «Ma gli uomini, chiedo – è il grido finale – gli uomini?».
Però il discorso politico pubblico – quello “privato”, persino di Giorgia Meloni se crede di parlare con un capo di stato africano, riconosce la “stanchezza” per la guerra e l’ansia per una via di uscita – si ostina a vedere solo nella “forza” della armi la soluzione a cui votarsi. L’Europa, si ripete ossessivamente, deve armarsi per difendersi. Si chiede libertà di deficit pubblico non per recuperare il welfare perduto, ma per pagare i produttori di armi.
Chi è contro la guerra non dovrebbe sottrarsi a un interrogativo sulla “forza”. Rubando l’immagine al libro di una filosofa femminista (Alessandra Chiricosta) possiamo immaginare «un altro genere di forza» per un’Europa a cui provare a affezionarsi di nuovo?
Ricorderò ancora una volta che negli ultimi anni tormentati della sua vita Alex Langer, che amava sicuramente la pace e odiava la guerra, si era interrogato a fondo su questo punto. Elaborando col collega tedesco Ernst Gülcher la proposta di creare «un corpo civile di pace dell’Onu e dell’Unione europea». Aggiungendo: «Alcune idee, forse anche poco realistiche».
Idee che non sono morte lì. In Italia qualche anno fa sono state anche votate in Parlamento: doveva avviarsi una “sperimentazione”, coinvolgendo alcune centinaia di volontari. Ma l’iniziativa non è mai stata finanziata.
Dei “corpi civili di pace”, secondo Langer dovrebbero far parte professionisti e volontari non violenti, uomini e donne, giovani e anziani, per azioni capaci di prevenire la guerra, e per costruire la pace dopo la guerra. Servirebbe una cultura molto ricca, una volontà molto forte. Se necessario collaborando anche con le forze armate delle Nazioni unite. E in accordo con le parti in causa nei conflitti.
Non varrebbe la pena di riprendere quelle idee “anche poco realistiche”? Non rassegnarsi all’alternativa tra l’impotenza e la stupidità omicida delle bombe e i carri armati?
(il manifesto – rubrica In una parola, 27 febbraio 2024)
di Luigi Ippolito
Una legge di epoca vittoriana, un voto storico al Parlamento di Londra: l’Inghilterra si prepara, il mese prossimo, a decriminalizzare l’aborto. Perché può sembrare incredibile, ma Oltremanica l’interruzione di gravidanza è tuttora disciplinata da una legge del 1861 che commina fino al carcere a vita alle donne che decidono di abortire: solo grazie a una deroga approvata nel 1967 è consentito interrompere la gravidanza sulla base del parere di due medici ed entro le 24 settimane. Altrimenti, si incorre nel codice penale dell’Ottocento.
Ma adesso è emersa a Westminster una maggioranza bipartisan in favore di una svolta: a marzo la deputata laburista Diana Johnson presenterà un emendamento alla legge del 1861 per far sì che l’aborto non sia più considerato un crimine, ma una scelta che riguarda la salute delle donne. La ministra della Sanità, la conservatrice Victoria Atkins, ha fatto sapere che anche lei appoggia la decriminalizzazione e un sondaggio ha mostrato che il 55% dei deputati è d’accordo (i partiti lasceranno libertà di coscienza al momento del voto).
La questione è diventata di attualità dopo che almeno 100 donne, dopo il 2018, sono incorse nei rigori della legge per aver abortito illegalmente: in alcuni casi sono state arrestate in casa, ammanettate e trascinate in cella. Particolare scalpore ha destato la storia di Carla Foster, una madre quartantacinquenne di tre bambini che nel 2020 era stata condannata a 28 mesi di carcere per aver interrotto la gravidanza alla trentaduesima settimana (la pena è stata poi dimezzata in appello e sospesa con la condizionale): un caso definito «molto triste» dagli stessi giudici. Durante il lockdown molte donne hanno fatto ricorso alla pillola abortiva, che era stata resa disponibile per posta sulla base di un semplice consulto telefonico, ma sono poi finite sotto inchiesta da parte della polizia.
L’emendamento alla legge del 1861, che con ogni probabilità verrà approvato, non cambierà le disposizioni del 1967 in base alle quali l’aborto è permesso solo fino alla ventiquattresima settimana e previa autorizzazione di due medici, ma le eventuali violazioni non saranno più automaticamente considerate un crimine. In questo modo, Inghilterra e Galles si allineeranno all’Irlanda del Nord, che aveva già decriminalizzato nel 2019 l’interruzione di gravidanza.
La peculiare situazione legislativa inglese era frutto di un tipico compromesso, secondo cui si mantiene la tradizione preferendo emendarla invece di abolirla del tutto: ma le conseguenze stavano diventando insostenibili. Tuttavia c’erano state forti resistenze ad affrontare la questione, nel timore di importare dall’America quelle guerre culturali che lì hanno polarizzato la società e fatto del corpo delle donne un campo di battaglia politico. Alla fine però il buon senso ha prevalso e si è trovato il consenso necessario per porre fine a un anacronismo non più giustificabile.
(Corriere della sera, 26 febbraio 2024)
di Marina Terragni
Ordinario di Chirurgia pediatrica all’Università di Pisa, Claudio Spinelli ha avuto a che fare con la questione dell’identità di genere operando molti bambini intersex, con disordini congeniti della differenziazione sessuale: «Non si capisce – spiega – se sono maschi o femmine. Un tempo su queste anomalie si interveniva precocemente con la chirurgia ricostruttiva cercando di allineare l’aspetto esterno con l’identità biologica. L’approccio è cambiato in seguito alle iniziative dell’Intersex Society of North America che ha chiesto di sospendere gli interventi fino a quando il soggetto non è in grado di esprimere consenso. In Germania e Portogallo gli interventi sono vietati, in Italia non c’è una legge ma il Comitato nazionale di Bioetica raccomanda di rinviare fino alla maturazione del soggetto».
Condizione, quella degli intersex, del tutto diversa dalla disforia di genere. «Assolutamente. I genitali dei bambini con disforia sono nella norma, la disforia non ha basi organiche. Ma in contatto con gli intersex e le loro famiglie ho incontrato problematiche che si ritrovano anche nella disforia. Per finire sugli intersex: vediamo un aumento importante. Crescono anche ipospadia, ginecomastia, mancata discesa dei testicoli (criptorchidismo). Situazioni probabilmente riconducibili a fattori ambientali e in particolare ai cosiddetti interferenti endocrini, sostanze presenti nell’aria, negli ali- menti, in oggetti di uso comune: idrocarburi policiclici, benzene, diossine, ftalati. Queste sostanze spiegano anche le neoplasie ormonodipendenti e la drammatica caduta della fertilità maschile».
Cosa spiega invece l’aumento non meno drammatico dei casi di disforia? «Probabilmente si tratta del sintomo “contagioso” di un profondo disagio. I disturbi psichiatrici, quasi sempre compresenti, crescono in modo impressionante: in Italia ne soffrono 2 milioni di under 17; rispetto al periodo pre-Covid c’è stato un incremento del 12 per cento degli accessi al pronto soccorso pediatrico per comportamenti autolesivi e suicidari che sono cresciuti del 27 per cento. Il 59 per cento dei ragazzi tra i 13 e i 25 anni soffre di anoressia/bulimia; il 12 per cento, prevalentemente maschi, sviluppa dipendenza digitale (digital addiction) associata a comportamenti ossessivo-compulsivi. Qualche settimana fa ne ho parlato alla Camera in una relazione sugli aspetti cognitivi dei nativi digitali e sul cambiamento dei comportamenti».
Una mutazione antropologica. «I ragazzi fuggono dal senso di mancanza di futuro e da un presente ansiogeno sviluppando un’identità digitale fluida poco propensa ad accettare frustrazioni: durante l’adolescenza si è più reattivi alla dopamina, neurotrasmettitore del piacere che induce a una ricerca di gratificazione continua, come per alcol e droghe. Dietro a questa fragilità c’è un’aggressività che si manifesta con l’hating, il bullismo, il revenge porn. C’è anche il problema dell’erotizzazione precoce dell’infanzia con l’esposizione al porno online e ai suoi modelli mistificanti che vengono imitati alterando lo sviluppo psicoaffettivo».
Lei quindi classificherebbe la disforia di genere tra i disturbi psichici. Ma la disforia è stata depatologizzata. Si dice che è il corpo a essere sbagliato, non la psiche. È il corpo che va cambiato con i farmaci e la chirurgia. «Sono argomenti complessi. Quando voglio mettere in difficoltà gli studenti chiedo di parlarmi di questo. Non è semplice parlarne in maniera chiara e precisa». Forse anche perché c’è paura. «Questi temi sono stati ideologizzati e politicizzati. Si rischia di fare riferimento a pregiudizi e non a dati». Eppure la società italiana di pediatria sostiene senza tentennamenti la terapia affermativa con triptorelina e parla di “dimostrata completa reversibilità” dei suoi effetti quando studi e pratica clinica dimostrano il contrario. «Di fronte a novità del genere servono tempo e ricerca. Ma è certo che la somministrazione di triptorelina nei giovani produce un arresto dello sviluppo puberale, come se mandassimo le bambine in menopausa e i maschi in andropausa con tutto ciò che ne consegue: osteoporosi, dolori, alterazioni ossee e della crescita in statura, blocco della spermatogenesi e delle ovulazioni, problemi cardiovascolari e mentali… Difficile riportare il corpo alle sue condizioni fisiologiche. Le risposte reali le avremo solo fra qualche anno con dati a distanza». Nell’attesa che si fa? «Se ne discute. Si informa. Si aiuta la gente a prendere coscienza oltre gli schieramenti ideologici. Si supportano le famiglie. Si lavora sulla scuola». E si continua a somministrare triptorelina? «Varrebbe la pena di evitare, vista la mancanza di studi e gli effetti collaterali. Basterebbe attendere, avere pazienza, lasciare i bambini liberi di vivere la fatica dell’adolescenza. Con un supporto psicologico, se serve».
(Il Foglio, 23 febbraio 2024)