Da Il Quotidiano del Sud – Ci sono notizie che non vorresti mai ricevere, ma quando arrivano ti lasciano sgomenta e con un profondo dolore. È quello che ho provato quando la mia amica Doriana mi ha annunciato la morte di Luana, la giovane libraia della Ubik di Catanzaro, un luogo a me caro che frequento da anni e che, per me come per tante/i altre/i, è molto di più di un luogo dove una come me, che ama moltissimo leggere, va per comprare libri. È un luogo del cuore, dove incontrarsi, fare amicizia, dialogare, condividere il piacere dei libri con Luana, Nunzio e Gianluca. Era piacevole incontrarla e fermarmi a parlare con lei circondate dai libri, la mia e la sua passione, che mi fanno sentire a “casa”. L’ho incontrata in libreria anni fa, dietro al banco, sorridente, giovane, bella, gentile, piena di vita. Mi è piaciuta subito. Ogni volta che dovevo ordinare un libro telefonavo e quasi sempre era lei che mi rispondeva. Sentivo amicizia nella sua voce e io la ricambiavo, anche se non ci siamo mai frequentate. Ci sono persone, come lei, che non hai bisogno di frequentare per sentire che ti somigliano e sapere che è speciale, e Luana lo era. Quando andavo in libreria a ritirare il libro ordinato, la trovavo sempre lì e mi accoglieva col sorriso. Era una ragazza colta e intelligente. Complice l’estate non la vedevo da mesi e quando sono rientrata dal mare e sono stata in libreria non l’ho trovata, non sapevo della sua malattia e non ho chiesto di lei, ho pensato soltanto che fosse in ferie e che prima o poi l’avrei rivista, magari la prossima volta che ci fossi andata. E invece, se n’è andata per sempre. Ho sentito il bisogno di scrivere di lei per sentirla ancora viva, là in libreria che aspetta che vada a ritirare l’ultimo libro ordinato. La sua immagine, il suo volto, il suo corpo, persino il suono della sua voce mi accompagnano mentre scrivo e non riesco a pensare a lei al passato. Un passato che è ancora ben presente nella mia mente e nel mio cuore e il solo pensiero di andare in libreria e sapere che non c’è più mi rende triste, rende triste quel luogo perché lei è la libreria, come lo sono Nunzio, Gianluca e Sara, la ragazza arrivata da poco.

Quando Luana ha saputo della sua malattia, ha avuto il coraggio e la forza di parlarne in un video su Facebook, di cui sono venuta a conoscenza solo dopo la sua morte. Non eravamo amiche su Facebook ma amiche nella vita. Guardando il video ho pianto ed ho rivisto in lei me stessa quando ho scoperto di essermi ammalata di tumore. Lo stesso terrore, la stessa speranza e determinazione di uscirne e tornare alla vita, che per lei voleva dire vivere con l’uomo che amava e che aveva sposato solo cinque giorni prima. È indicibile e impensabile il dolore di chi l’ha vista passare dalla gioia alla morte. Tornare alla vita per lei voleva dire tornare alla libreria, alla grande “famiglia” della Ubik. Ci credeva, voleva crederci, ci sperava, lo desiderava e intanto i libri, come sempre, le facevano compagnia e le davano gioia. Si era ripromessa di fare altri video in cui parlare dei libri che avrebbe letto. Una passione e un amore che negli anni ha speso in libreria e di cui ha fatto dono a chiunque la conoscesse. Luana è la Ubik e con la sua presenza rendeva quel luogo accogliente e piacevole. Sono le donne come lei che fanno capire cosa si perde a comprare un libro online e cosa vuol dire fare di una libreria un luogo dove coltivare e condividere passione e amore per i libri, che cessano di essere oggetti da vendere e comprare, e diventano ponti, mediazione, per legami di amicizia tra chi compra e chi vende. Ho voluto esserci al suo funerale per salutarla per l’ultima volta. Cara Luana, libraia del cuore, mi dispiace moltissimo che te ne sei andata così presto ma ogni volta che andrò in libreria so che ti troverò ancora lì perché il ricordo di te è indissolubile con la Ubik e vive oltre la morte. Addio mia giovane e cara amica del cuore, non ti dimenticherò.

Mercoledì 16 ottobre il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge per rendere la maternità surrogata “reato universale”. Sono femminista e sono contraria alla pratica della maternità surrogata (o utero in affitto) che rappresenta una mercificazione del corpo femminile, riducendo il corpo della donna a un mezzo di produzione, oggetto disponibile per il mercato. Vogliamo arrenderci alle logiche del biocapitalismo globale che mercifica ogni aspetto della vita, compresa la capacità di generare figli? Io no, e con me molte donne e femministe che da anni studiano, scrivono e lavorano perché ci sia una presa di coscienza allargata (penso per esempio al libro L’anima del corpo di Luisa Muraro, a Maternità surrogata. Le donne, il desiderio, il mercato di Silvia Guerini e al recente Libertà in vendita di Valentina Pazé, solo per fare qualche titolo).

Sono femminista e desidero un pensiero libero, non piegato a partiti politici né incatenato a schieramenti ideologici. Mi ribello a un mondo dominato da una logica binaria e asfissiante, dove ogni riflessione sulla GPA viene strumentalizzata, trascinata da una parte o dall’altra: o nelle fila del cosiddetto progressismo, o in quelle del conservatorismo più becero, oggi anche neofascista. Rifiuto questa trappola ideologica che soffoca ogni pensiero autentico.

Per questo credo, con la senatrice Luana Zanella, che la via non sia la criminalizzazione per legge, «perché criminalizzare chi ricorre a questa pratica all’estero non significa bloccare o scalfire il commercio globale della maternità surrogata sempre più florido e ricco: occorre invece quel che la destra non ha voluto fare cioè una grande iniziativa politica a livello internazionale per impedire lo sfruttamento dei corpi delle donne e il commercio delle creature che la GPA cosiddetta solidale non impedisce».

Non sarà la legge, strumento del potere istituzionale, a creare una vera barriera a questa pratica. Di più, la criminalizzazione è un’operazione di mera propaganda.

Da Eredibibliotecadonne.it

Il libro L’Iliade cantata dalle dee (Solferino 2024) di Marilù Oliva si può leggere come un reportage della caduta di Troia, raccolto da quelle che c’erano, a dominare e intercedere o a farsi massacrare dal furore di Ares. Nessuna ebbe una sua versione. Ora è il momento di dargliela.

Gli dèi amano i sacrifici, e rispondono a coloro che li invocano solo se vengono saziati nel loro inesausto bisogno di bere sangue umano. Così nell’ultima notte di Troia Creusa, moglie di Enea, sorella di Ettore, lasciata indietro nella fuga dal marito intento a trascinarsi sulle spalle lo stanco padre Anchise e a tirarsi dietro per mano il figlioletto Ascanio terrorizzato, fissa allucinata l’altare di Apollo in preda alle fiamme al centro della città, e vede cosa deve fare.

Coglie l’attimo in cui un destino si manifesta. Ora. Adesso.

Adesso, se lo farà, se si consegnerà a loro, le dee si ricorderanno di cantare i destini maledetti di chi soccombette quella notte a Troia e soprattutto di loro, le donne, le regine, le amanti, le figlie, le schiave e le serve dei belligeranti: i grandi e tronfi guerrieri Achei, ributtanti macchine di distruzione e stupro, violatori di patti, altari, giuramenti, trattati, templi, in nome del possesso violento e del puro istinto di saziare l’infinita ingordigia di beni; e dei loro avversari, i perdenti di una guerra dichiarata, come tutte le guerre, per uno scopo ridicolo – qui, in questa, per la riconquista di una donna rapita, ma ci sono stati e ci saranno motivi ancor più futili.

Una guerra già persa già molti anni prima, quando Troia cominciò a luccicare di ricchezze e suscitare cupidigie, perdendo la semplicità dei modi di vita passati, quando la comunità viveva povera e unita sulle rive dello Scamandro. Ma questa storia l’ha già raccontata Christa Wolf in Cassandra, capitolo secondo di tutte le guerre perse: gli errori degli sconfitti. 

Creusa sacrifica la sua vita tagliandosi il delicato collo con la spada dimenticata a terra. Si lancia tra le fiamme che avvolgono l’altare, provando la breve sofferenza che ha visto negli occhi di tanti agnelli e giovenche sgozzati ritualmente, la sua vita davvero ridotta a poca cosa confronto alla perdita del regno, del rango regale, forse anche del marito che proprio se la scorda nell’impeto visionario della fuga, già presentendo l’approdo sulle coste italiche.

Così, strappa alle dee l’impegno di ricordare. Di ricordarle, le donne di Troia, quelle Troiane che Euripide farà lamentare lugubremente in scena come spettri e che prima di essere un informe bottino bellico senza volontà erano spose fiorenti, giovani madri, figlie luminose, vecchie sagge. Le dee narreranno, allora, in prima persona, la loro versione dei fatti, ma lasceranno anche posto alla versione delle donne di Troia, le cancellate, le zittite, le stuprate, le profetesse inutili, le trascinate per i capelli, le impazzite dal dolore.

Qualcuno vuole usarti, qualcuno vuole essere usato da te. Qualcuno vuole abusarti, qualcuno vuole essere abusato da te cantava Annie Lennox in Sweet dreams, e tutti capivamo che l’enigmatico testo parlava della caduta dei sogni, delle dolci illusioni, nell’agire e nel patire reciproco, nel fare male e nel farsene, o farsene fare.

Perché Troia fu un campo di battaglia dove uomini e donne, dee e dei, giocarono una partita infame con carte truccate e barando a tutto spiano, in cielo e in terra, ma poi il destino assegnò a ciascuno la sua parte di dolore e lutto. Vero, Odisseo, Agamennone, Achille? Sì, i ritorni difficili. O il nessun ritorno. Un mare di lacrime che non servono a lavare il fiume di sangue che rigurgitò dallo Scamandro gonfio di cadaveri sulla pianura arsa dalla battaglia.

Le dee non sono super partes, appoggiano chi gli Achei chi i Troiani. Per motivi personali, ovviamente.

Afrodite sta con i Troiani di suo figlio Enea, come Ares che è il suo amante e fa quello che gli dice lei.

Atena glaucopide parteggia per i Greci, come potrebbe dimenticare i fumi dei sacrifici che si innalzano dalla città che le hanno dedicato, dalla vasta Attica, da Delfi, da Epidauro. Il sovrano di quell’isoletta isolata e boscosa, Itaca, è il suo protetto speciale, il suo campione, la mente più sottile di tutte, anche se ha l’aspetto trasandato di un pastore di pecore.

Teti cerca di difendere suo figlio Achille da se stesso, impresa impossibile da portare a casa. L’eroe perderà in battaglia l’amante Paride, e l’ira funesta per gli sgarbi subiti da Agamennone gli ricadrà sul capo come una granata deviata di fuoco amico. Così si scende nell’Ade da stolti, oppure ci si racconta che era destino. E già. Chi si può opporre al destino.

Era non può sopportare il principe Paride da quando le ha negato il pomo della più bella assegnandola a Afrodite, come era da aspettarsi da un ragazzino senza giudizio incapace di apprezzare il fascino superiore di una donna di potere. Quindi, morte ai Troiani.

Per Eris, dea della discordia, la guerra di Troia è un puro godimento, un banchetto succulento, una torre di babà alla crema in cui tuffarsi, occasione quasi didattica di verificare quanto danno riescano a farsi gli uomini lasciati a loro stessi e alle loro grandiosamente puerili mire. Basta impegnarsi pochissimo, stuzzicandoli appena un minimo in battaglia, e poi lasciarli giocare alla guerra fino all’inconcepibile, all’irreparabile, alla catastrofe. Sempre un vero divertimento, anche conoscendo a memoria il finale.

Elena. Come si può parlare del sogno erotico di ognuno che l’abbia o non l’abbia vista, del più bel corpo che abbia mai posato il piede al suolo, del sembiante più citato raccontato descritto immaginato della storia. A lei questo privilegio ha causato solo danno, iniziando con il rapimento a dodici anni da parte di Teseo, che da vero rispettoso gentleman ateniese quale è non la stupra veramente, ma si limita a sodomizzarla, così la giovane può vantaggiosamente arrivare vergine al matrimonio con Menelao, tra eroi certi dispetti non si fanno, si sa che c’è un certo codice cavalleresco di mezzo. Passata di mano al biondo Menelao, deve essere talmente appagata dello status maritale che persino l’effeminato, hollywoodiano, profumato e inconsistente principe troiano Paride in visita a Sparta le deve sembrare un diversivo passabile, imbarcandosi con lui senza troppe domande verso la Troade per nuove avventure. Ma davvero Elena pensava che lì non l’avrebbero odiata per la spedizione punitiva nel frattempo decisa dai principi greci, che le principesse asiatiche le avrebbero aperto le braccia, le figlie e le nuore di Priamo l’avrebbero considerata una di loro? Che sia un po’ debole di mente, come spesso capita alle bionde? Elena a Troia è un simulacro, ma non come pensava e metteva in scena Euripide, prendendo la situazione alla lettera e immaginandola parcheggiata in Egitto presso il re Proteo, e concupita – of course – dal di lui figlio Teoclìmeno, mentre a Troia gli uomini si squartano per un fantasma. Elena a Troia è un ectoplasma ambulante, un corpo fisicamente vivo ma psichicamente morto, una donna senza legami con alcuno, a parte qualche incursione sempre più rara di Paride nel talamo principesco. Il pensiero di farla finita buttandosi dalle mura le gira intorno, la alletta. Forse la fine dell’esistenza corporea le può dare quel sollievo dal destino di diventare preda di qualcuno che non trova in nessuna terra e nessun porto. Morire. Dormire. Sognare forse. Elena a Troia teneva Shakespeare sul comodino?   

Ma un’altra salute mentale vacilla in quegli ultimi spossanti cinquantuno giorni di una guerra durata dieci anni. Appartiene a Cassandra, la figlia di Priamo ed Ecuba, con un fardello più pesante della bellezza rapinosa da portare: il destino di profetizzare senza essere creduta. Viene tenuta a distanza dalla città e dalla sua stessa famiglia come una paria, una deficiente assoluta; non è infatti concepibile, se non nella follia più totale, che non si sia concessa al suo signore e dio Apollo, infrangendo l’obbligo sacerdotale di unirsi fisicamente e misticamente al dio veggente. Bisogna andare a letto col produttore per fare il film, da quando esiste il mondo, ma lei no, la campionessa di queerness, schifa il dono della vista e il dio che glielo porge. I futuri stupri subiti dal sacrilego Aiace di Oileo per oltraggiare il tempio di Apollo tramite la sua persona, e quello di Agamennone, fattala preda di lusso nella sua tenda, non saranno peggiori del possesso non realizzato dal dio: una mera conseguenza della caduta dalla sua condizione regale, un atto praticamente dovuto sulle donne nemiche. Niente di strettamente personale, semplice lurido ministeriale protocollo di guerra. Rifiutare un dio fu il peggio, l’irrimediabile, il resto brucia la pelle e l’orgoglio, ma non incenerisce una vita. Apollo sì, lei l’ha bruciata. Il dono della vista glielo ha dato ugualmente, se si è la prescelta è inevitabile, ma con una tara permanente in pegno. Sei una bugiarda, principessa. Tutta la vita deve sentirselo dire. Quindi adesso Cassandra si aggira come una disoccupata demente nei sordidi miasmi della Troia degli ultimi giorni, dove tutti aspettano la fine come una espiazione dovuta e troppo a lungo rimandata, il sollievo di un colpo di grazia liberatore sul collo appoggiato al ceppo. È possibile che le due reiette si siano viste? A palazzo, sicuramente, ma non in quel passarsi accanto occasionale, da vicine di condominio. Viste con quel posarsi dello sguardo della meraviglia, della prima volta che si vede una cosa, un essere.

Se è stato, è Cassandra che ha visto Elena, perché è il destino della spartana essere guardata, e di chi la vede sciogliersi nel cuore come un fiocco di neve. Per una volta si posa su Elena uno sguardo che non possiede, non consuma, non depreda; fisso, bloccato nel riverbero di quella bellezza sovrumana, lontana anni luce dalla insignificanza fisica di chi guarda, eppure intrecciando un dialogo senza parole, come un riconoscimento a distanza di un’essenziale identità, pur dalla siderale lontananza che separa la divina bellezza da tutto il resto. Sorelle di un errore nel dna della felicità, sorelle del senso di colpa, una di avere provocato – ma come poteva? – la guerra e l’altra del non averla saputa evitare anche avendola mostrata di continuo a tutti. Avranno corso come ragazzine nei boschetti sacri ad Afrodite, intrecciato l’un l’altra ghirlande di viole sui capelli odorosi di terebinto, ricordato la sera davanti al fuoco i giochi della loro infanzia dorata nei giardini dei palazzi reali, diviso la coperta ricamata ad arabeschi nelle notti umide della Troade? Mentre tutto intorno crollava, le loro disastrose vite hanno conosciuto un lampo di calore umano a scaldarle. È possibile. Ma non è scritto, non è tramandato. La caduta di Troia non contempla possibili resurrezioni a margine. Incontri come questo non fanno parte dell’Iliade già scritta. Possono trovare posto in quella ancora da scrivere, ucronica, fantascientifica o fantapolitica, che le generazioni di aede del qui e ora sentono l’impellenza di cantare, fermandosi ad ascoltare quella parte di canzone espulsa come un vangelo apocrifo dai libri canonici. Cantami o diva, sì, ma cantami tutto, di loro, di me che le ascolto oggi, dello Scamandro tornato azzurro. Sweet dreams are made of this.

Da il manifesto

«Il ricordo di un sogno», l’ultimo libro di Rosi Braidotti edito da Rizzoli. Un memoir che omaggia le sue antenate, a partire dalla madre Bruna. E che attraversa il secolo scorso. I luoghi narrati partono da Latisana, nella bassa friulana, e arrivano fino all’Argentina, passando per l’Australia e il ritorno in Europa. Tra il dolore di guerre e distruzioni.

«Scrivi, Rosi, che la scrittura è amore, compassione e perdono». Brillano queste tre parole nell’ultimo libro di Rosi Braidotti, Il ricordo di un sogno (Rizzoli, pp. 407, euro 19), memoir in cui la filosofa femminista rende grazie alle sue antenate fin dall’eco del sottotitolo: una storia di radici e confini. Quella anzitutto di essere situata in una nascita, nel 1954 a Latisana, nella bassa friulana, e ritrovarsi presto migrante, in Australia e poi nuovamente in Europa, a Parigi e Utrecht in particolare.

A esortarla fin da ragazzina alla parola scritta è la madre Bruna, pietra angolare del libro e della sua esperienza di figlia che dal sé passa al «noi». Descritta come inventrice di mondi, Bruna è una moderna Sherazade. Se nelle radici riecheggia la foto che una bambina trova dentro un baule e che consente la ricerca che la porterà a trovare l’origine della sua famiglia sparsa nel mondo, nei confini abita il Novecento carico di guerre, dolori e liberazioni. Il ricordo di un sogno è il frutto maturo di un patto d’amore e al contempo, nel metodo, la possibilità di conoscere lo scandaglio appassionato che ha distinto le diverse traiettorie teoriche che in questi anni hanno segnato il percorso critico di Rosi Braidotti.

Filosofa femminista, è a lei che dobbiamo volumi importanti che rimangono delle letture decisive di generazioni di studiose, accademiche e attiviste. Da Soggetto nomade (1995, la cui prima edizione italiana è per Donzelli) alla trilogia dedicata al Postumano (di cui DeriveApprodi ha cominciato la pubblicazione nel 2020 ma che indica un’acribia trasformativa e rara dell’idea stessa), notevoli sono gli innesti che costellano saggi come Dissonanze (La Tartaruga, 1994) o il piccolo e splendente Madri, mostri, macchine (manifestolibri, 1996) e altri come In metamorfosi (Feltrinelli, 2003) o Trasposizioni (Luca Sossella, 2008). A raccontare insomma il lavoro di Braidotti in questi anni, nelle sue traduzioni in svariate lingue (oltre 20) e anche qui in Italia – di cui si ricordano almeno i nomi di Anna Maria Crispino e, in tempi più recenti, di Angela Balzano – viene a illuminarsi una direzione il cui filo è da riannodare dal 2003, ovvero dal suo contributo al volume Baby Boomers, edito da Giunti e scritto insieme a Serena Sapegno, Roberta Mazzanti e Annamaria Tagliavini e che ora si può leggere, con una selezione di altri testi di orientamento simile e più strettamente autobiografico, in un libro edito da Castelvecchi del 2021 e dal titolo Fuori sede.

Il ricordo di un sogno è la memoria, storica e inconscia, di una parabola esistenziale di cui Braidotti è sismografo scrivente e che specialmente omaggia le donne della sua famiglia, talvolta altrettante bambine – come Maria quando spunta dal buio di una sofferenza materna o cammina in solitudine – da Udine verso Modigliana, vicino a Firenze – per raggiungere uno dei campi profughi in allestimento «per gente in fuga come lei». Siamo nel 1917 ma gli eventi raccontati, moltissimi, scandiscono la devastazione anche della seconda guerra mondiale, per esempio nella fisionomia di frontiera che assume il Friuli-Venezia Giulia durante la guerra fredda con una conseguente e profonda dispersione.

L’albero genealogico è il genogramma tracciato dall’autrice, i cui luoghi del mondo sono numerosi, ed è tuttavia un’operazione intimamente politica, là dove l’intreccio di Gilles Deleuze e Luce Irigaray (per nominare solo due dei riferimenti cruciali di Braidotti) si esprime in questo ultimo libro come il romanzo di una vita da sempre in divenire. Archivio desiderante e bussola per trovare il proprio posto, a partire da un incontro autentico capace di una promessa amorosa da enunciare al futuro.

Fin dalla «finestra cosmica» da cui la piccola Rosi si sporge, inclinazione e racconto di una differenza sessuale mai punto di arrivo bensì di immaginari possibili, si arriva allora alla spazialità del soggetto nomadico. La pastoia delle lingue frequentate, delle parole che scivolano e slittano «fuori dal senso comune», sono ulteriori modi di comporre il «rizoma» che si inchioda nella intelligenza di Braidotti a partire da immagini generative: come quella del rododendro nominato per indicare l’oleandro e di cui, fino all’età di sei anni, non riesce a pronunciare la lettera «r». In questo salto di «ododendi» e «oleandi» il corpo, più avanti, assume l’anatomia intraspecie del Tagliamento che finisce in laguna e che le fa esclamare «My heartland», cuore ed entroterra. Si configura in un «sistema cardiaco-geografico indivisibile» ed è una delle tante visioni oniriche e immaginifiche delle mappe di Rosi Braidotti, che la complessità la prende molto sul serio da sempre. Come l’amore, la compassione e il perdono che ognuna deve a sé stessa, nel passaggio delle ere geologiche e delle età.

Da Avvenire

Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto di combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere

Not in their name, non nel loro nome. Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.

Dan Eliav, all’epoca 63enne e dunque esentato, anzi, ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. «All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo ed evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano. Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».

«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».

Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.

Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e centotrenta, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».

Da Doppiozero – Umanità, identità e dignità sono motivi ridondanti nell’opera di Han Kang, scrittrice nata nel 1970, prima sudcoreana – e diciottesima donna nella storia – a vincere il premio Nobel per la letteratura, assegnatole il 10 ottobre 2024. La sua opera è composta da otto romanzi, una raccolta di poesie, e alcuni racconti, più un’installazione di videoarte. Kang ha come caratteristica peculiare uno sguardo penetrante sul suo tempo e la sua cultura di appartenenza, capace di scendere in profondità per poi risalire all’origine dei danneggiamenti che innescano cause e effetti delle sue storie. Il suo stile narrativo riesce a suscitare impressioni forti in chi legge, tali da radicarsi nell’animo per un tempo superiore a quello di lettura. La natura di questo radicamento si rinviene nei luoghi che caratterizzano la vita di Kang sin dalla nascita, cioè Gwangju e il villaggio di Suyu-ri, che riflettono gli eventi principali della Corea del Sud a partire dalla seconda metà del Novecento. La città di Gwangju, luogo di nascita di Kang, è lo scenario di una sanguinosissima rivolta studentesca che ha mietuto più di 2000 vittime, anche se le cronache governative dell’epoca ne riportano solo 150. La comunità studentesca insorge il 18 maggio 1980, coinvolgendo tutta la città per ben dieci giorni, ribellandosi al direttore dei servizi segreti Chun Doo-hwan che solo il giorno prima aveva dichiarato lo stato d’assedio in Corea del Sud, sciogliendo il Parlamento e chiudendo le Università. Chun, insieme ad altri due generali dell’esercito, si era impadronito del potere conquistato da pochi giorni dal neopresidente Choe Kyu-hah, successore del generale Park Chung-hee, attuatore dello Yusin, dittatore della Corea del Sud dal 1963 al 1979 e padre della presidente Park Geun-hye, a lungo incarcerata per corruzione e abuso di potere, poi libera dopo il perdono del presidente Moon Jae-in ottenuto a fine 2021. Chun avrebbe ricoperto lo stesso ruolo di Park dal 1980 al 1988. Per maggiori approfondimenti rimando all’ottimo Storia della Corea: Dalle origini ai giorni nostri di Maurizio Riotto (Bompiani 2005). Proprio nel 1980 Kang si trasferisce a Suyu-ri, a nord di Seoul, luogo al confine tra campagna e città, che da ri – villaggio – passa a dong – quartiere – inglobato di diritto dall’urbanizzazione velocissima e dilagante della capitale sudcoreana. Così veloce che le fogne di Seoul ancora oggi non reggono lo smaltimento della carta igienica nei WC.

Mentre scrivo, la bio sul sito ufficiale di Han Kang non è stata ancora aggiornata: non ha ancora vinto il premio Nobel, sono citati svariati riconoscimenti internazionali. In Italia i romanzi di Kang sono stati tradotti dall’inglese, questione che, così come per i sottotitoli o il doppiaggio delle serie televisive coreane, molto spesso priva l’esperienza di fruizione di alcuni importanti significati e modi di dire pertinenti alla coreanità della scrittrice. Non abbiamo accesso a tutti i titoli pubblicati, ma a una selezione – edita da Adelphi – di quelli che sono considerati i più grandi successi della scrittrice, a partire da La vegetariana (2017), inserito dal New York Times tra i 100 migliori libri degli ultimi venticinque anni, seguito poi da L’ora di greco (2011), Atti umani (2014), e dalla raccolta di due racconti Convalescenza distribuita dal 2019 (le date riportate per i romanzi riguardano l’uscita in Corea del Sud).

Nei racconti Convalescenza e Il frutto della mia donna sono condensate le linee narrative delle sue maggiori opere, dove lutto e perdita si intersecano con salute mentale e fisica, agenti corrosivi del corpo umano che in realtà assorbe, impotente, lo stato generale della società. Kang fa pronunciare alla protagonista femminile di Il frutto della mia donna delle parole molto significative: «Questo paese è marcio dentro!», «Qui non può crescere niente, non lo vedi? Non intrappolato in questo… in questo posto soffocante e assordante!». La donna è nel bel mezzo della sua metamorfosi in vegetale, annunciata dalla comparsa di lividi azzurrini sulla sua pelle, che in La vegetariana si convertono nella macchia mongolica sulle natiche della protagonista Yeong-hye, un “ornamento” naturale che triggera le fantasie artistico-erotiche del cognato, poi soddisfatte dalla realizzazione di un body painting incentrato su fiori dipinti attorno a quel “petalo” azzurro. Yeong-hye prima rifiuta la carne e poi i vestiti, in un atto di ribellione contro le aspettative sociali e la sua disconnessione dalla realtà circostante. Attraverso i cambiamenti nell’abbigliamento di Yeong-hye, il romanzo riflette la sua evoluzione interiore e il suo distacco dalla società. I vestiti diventano un simbolo potente della tensione tra il desiderio di libertà individuale e le pressioni conformiste della cultura di appartenenza.

Gli abiti ordinari e conformisti da carnivora, semplici e funzionali, riflettono il malessere della corruzione del corpo in particolar modo per quanto concerne le sue semplici scarpe nere, tra le più banali mai viste. Il vestirsi come termometro della salute fisica e mentale ritorna anche in Convalescenza, in cui la protagonista prima della morte della sorella indossava «vestiti anticonformisti dai colori vivaci» e «scarpe bianche e gialle», mentre al tempo della narrazione, afflitta da una caviglia in cancrena e uno stato di evidente depressione indossa solo il nero. Questo colore ritorna anche in L’ora di greco come carattere distintivo della «tenuta da veglia funebre» della protagonista ripiombata in uno stato di completa afonia per la seconda volta, dopo la prima esperienza di silenzio forzato avvenuta al compimento dei sedici anni «quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito». L’elemento di fastidio esplicitato con il ricorso a una metafora vestimentaria non è la voce, ma la facoltà di comunicare in una società che sostanzialmente silenzia qualsiasi parere divergente dalla massa. Il far coincidere in tutte le narrazioni i cambiamenti di visione del mondo, di salute e abbigliamento sottolinea come la moda e i vestiti siano, nella visione di Kang, strumenti di controllo sociale e di giudizio. Convalescenza viene pubblicato in Corea nel 2013, l’anno in cui Park Geun-hye diventa presidente. In un’intervista di Mark Reynolds in lingua inglese dal titolo “Han Kang: To be Human”, pubblicata sul sito Bookanista, Kang commenta la presidenza di Park come un momento di sofferenza per parecchie persone, che l’ha portata a rivalutare l’incidente di Gwangju per trovare una risposta al quesito “cosa ci rende umani?”. Questa è la genesi di Atti umani, il romanzo in cui Kang ripercorre la rivolta studentesca attraverso gli occhi di Dong-ho, un ragazzo che classifica oggetti banali del quotidiano come accessori e indumenti per riconoscere le vittime e dar loro giusta sepoltura, nella speranza di trovare i corpi della sorella e di un amico. Capi e oggetti sono elementi reali, concreti, che possono consumarsi, ma non essere trasformati dalla mala-informazione dei poteri dominanti.

In Atti umani Kang fa una metariflessione sul ruolo di chi riporta il suo punto di vista e sullo statuto intersoggettivo, facendo capire che il suo mestiere di scrivere è un modo di connettere chi legge all’evento, così come accade nella relazione di connessione madre-figlia durante la gestazione: si è avvolti da un mondo dove si assorbono e poi si rielaborano i pensieri dell’istanza autoriale. E qui si arriva al romanzo non ancora pubblicato in Italia, il penultimo che precede I Do Not Bid Farewell (2021), The White Book (2016), commentato dall’autrice nel 2017 in un’intervista a The Guardian.

Qui spiega che la litania “non morire” presente in Atti umani risale alla sua gestazione, confermando la visione epigenetica sposata dalla comunità scientifica relativa alla formazione del carattere e alla comparsa di eventuali scompensi. La madre di Kang, prima di partorire lei e suo fratello, ha perso ben due figli, di cui sua sorella morta due ore dopo la nascita, la cui storia è raccontata in The White Book. Durante la gravidanza che avrebbe poi dato alla luce Han Kang, la madre era in pessime condizioni di salute e ha pensato più volte all’aborto, poi ha cambiato idea dopo che ha sentito il feto calciare forte. Kang però è convinta che quel malessere generale abbia condizionato la sua visione del mondo, così come emicranie debilitanti, il cui dolore lancinante ha profondamente plasmato la sua comprensione del male di vivere. Kang è maestra di “passioni tristi” – qualsiasi sia oggi la loro accezione – per cui crea delle immagini che si abbarbicano nell’animo come piante rampicanti, radicate in rabbia e mestizia, come si legge in Il frutto della mia donna.

Questo passaggio mi ha ricordato il componimento del poeta nordcoreano Cho Sŏnggwan, dal titolo Chŏju (‘Maledizione’), riportato da Riotto:

Fiori, non sbocciate!

Uccelli, non cantate!

Prima che sulla Terra svanisca per sempre l’ombra dello Yusin,

Che come prezzo riceve il sangue del popolo, a fiumi.

Prima di dare la morte a te, farabutto, cento e mille volte!

Oh, inestinguibile rabbia!

Oh, eterna maledizione!

Il Nobel di Kang dimostra la capacità dei sudcoreani di provare passioni collettive, comunitarie, che oggi affascinano il mondo intero in tutte le loro manifestazioni, auliche e pop.

La Chiave di Sophia è un progetto che ha lo scopo di diffondere cultura utilizzando la filosofia come strumento privilegiato per leggere ogni ambito della vita e per sviluppare un pensiero critico. Infatti, per coloro che contribuiscono a questa realtà, la filosofia può e deve essere di tutti e non riservata ad una élite accademica. Perciò promuovono molteplici iniziative: circoli di filosofia, laboratori, incontri con autori e autrici, spettacoli teatrali e musicali, passeggiate letterarie, una rivista digitale e una cartacea.

Scrivo riguardo il 24° numero della rivista di filosofia pratica (giugno-settembre 2024), intitolato “LIBERTÀ e LIBERAZIONI”, dedicato alla riflessione intorno al tema della libertà sia essa intesa come esercizio effettivo sia come disposizione interiore di un soggetto libero. Questa indagine si snoda attraverso il pensiero di illustri intellettuali e tocca svariati ambiti quali le conquiste femminili, l’educazione, il carcere, la medicina, le migrazioni, la salute, l’antispecismo, l’intelligenza artificiale, la crisi climatica e molto altro. Gli autori e le autrici riescono a fornire spunti di riflessione da diverse angolazioni e differenti campi del sapere. Tale approccio permette ai lettori di porsi domande, di indagare sé stessi, di mettersi in discussione e ripensare, con maggior consapevolezza, il mondo che abitiamo.

Le prime diciotto pagine presentano quattro articoli “a tema libero”, il secondo dei quali, dal titolo “Il dominio della pornografia – Dall’invasione del porno alla sessualità come dono e mezzo di espressione tra esseri umani” di Alessandro Tonon, spiega come i contenuti pornografici, sempre più facilmente reperibili su internet, siano nocivi per gli adolescenti, i preadolescenti e i bambini. L’industria della pornografia si erge esclusivamente su logiche economiche e non prende in considerazione le conseguenze dal punto di vista psicologico e relazionale che queste rappresentazioni potrebbero avere. All’interno dei contenuti pornografici vengono normalizzate la violenza, il dominio e la sottomissione dei corpi nei rapporti sessuali. L’autore attraverso la critica alla pornografia non vuole quindi farsi portavoce di una morale sessuofobica, ma intende ribadire l’importanza di considerare l’altro con cui ci relazioniamo come un soggetto e non come un mezzo per soddisfare la nostra pulsione sessuale. Alessandro Tonon sottolinea la centralità dell’erotismo e dell’amore, elementi che permettono al desiderio di svilupparsi e radicarsi. L’industria del porno invece incentiva la gratificazione immediata che innesca la coazione a ripetere e distrugge il desiderio, desiderio che è il luogo dell’incontro autentico con l’altro.

Da pagina 19 inizia una rassegna di articoli riguardanti il tema della libertà. Personalmente trovo che siano tutti ugualmente interessanti perché favoriscono una riflessione su tematiche contemporanee di massima rilevanza politica.

In particolare, cito il testo scritto da Pamela Boldrin dal titolo “L’insostenibile leggerezza del libero consumo – È possibile liberarsi dai vincoli di un sistema opprimente?”, in cui l’autrice, prendendo spunto dalle idee dell’antropologo Jason Hickel e dal filosofo Hans Jonas, sottolinea le responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti della natura. Scrive così Pamela Boldrin: «[…] la massima libertà che siamo disposti a concedere al capitale, finisce per comportare la restrizione della libertà degli esseri umani di sopravvivere dignitosamente su un pianeta in salute». Il pensiero filosofico occidentale ha allontanato l’uomo dalla natura. Ad esempio, Francis Bacon (1561-1626) identifica il progresso scientifico con il dominio dell’uomo sulla natura. Eppure non poteva sapere che la sua visione sarebbe stata strumentalizzata dalla società dei consumi. L’autrice invita i lettori a fare della politica una dimensione reale di ognuno e a ripensare un nuovo tipo di società, libera dal capitalismo e dallo sfruttamento delle risorse del pianeta.

Altro articolo su cui desidero soffermarmi è quello scritto da Hamdan Al-Zeqri, ministro di culto islamico nel carcere di Sollicciano, e Gherardo Gambelli, cappellano cattolico nel medesimo carcere, intitolato “Carcere e libertà – Come si vive la libertà nella realtà del carcere?”. I due autori spiegano come la possibilità di agire liberamente sia correlata indissolubilmente alla questione della dignità umana. Una persona ha dignità se è libera. Il compito che questi uomini religiosi hanno all’interno del carcere è quello di suscitare nei condannati il senso di libertà interiore, dal momento in cui il carcere toglie la libertà fattuale. Se privare un soggetto di libertà significa conseguentemente distruggerne la dignità, come è possibile che attraverso il carcere si venga rieducati? Infatti, non basta chiudere chi è colpevole dentro una prigione per farlo desistere dal male, ma è necessario credere nella sua possibilità di riscatto e aiutarlo a intraprendere un percorso rieducativo.

Ultimo contributo di cui parlerò è quello di Lia Cigarini intitolato “Ci siamo prese molte libertà! – Appunti di differenza femminile, di emancipazione e di relazionalità”. Lia Cigarini non vede nell’emancipazione femminile la massima espressione della libertà delle donne. La libertà infatti non è un’esperienza riducibile a diritti civili o costituzionali, ma si inscrive nella scelta di vivere liberamente la propria condizione di donna. Ed è da queste premesse che l’autrice arriva a parlare delle pratiche di relazione tra donne come modalità di affermazione della libertà, spiegando come la libertà femminile non può essere storicizzata. Le pratiche delle donne sembrano coincidere in luoghi diversi e lontani tra loro. Questo è possibile perché, ancor prima di attuare delle pratiche, le singole e i singoli sono mossi dal desiderio di mettersi in relazione e cambiare la realtà circostante.

Da www.balcanicaucaso.org

In ricordo della giornalista russa uccisa il 7 ottobre 2006, riproponiamo questo articolo del giornalista americano C.J. Chivers uscito all’indomani dell’assassinio sul New York Times e tradotto dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – www.balcanicaucaso.org/.

(La redazione)

Anna Politkovskaja, celebre giornalista e scrittrice russa il cui nome era ormai da solo una scottante critica al Cremlino e alle sue politiche in Cecenia, è stata trovata morta sabato nel palazzo dove abitava, uccisa con dei colpi di pistola in fronte, secondo quanto dichiarato dalle autorità e dai suoi colleghi.

Quarantotto anni, Anna Politkovskaja era una giornalista come pochi in Russia. Era corrispondente speciale per il giornale Novaja Gazeta ed era divenuta una dei più importanti difensori dei diritti umani nel Paese.

Negli ultimi anni, quando i media russi stavano affrontando pressioni sempre più forti sotto l’amministrazione del presidente Vladimir Putin, era riuscita a restare una voce indipendente. Era divenuta una figura internazionale che spesso parlava all’estero di una guerra che definiva «terrorismo di stato contro terrorismo di gruppo».

Rappresentava ormai una stridente critica a Putin, che accusava di soffocare la società civile e permettere un clima di corruzione e brutalità ufficiali.

È stata trovata morta da una vicina poco dopo le 17. Accanto al corpo, una pistola Makarov 9 millimetri, firma di un omicidio su mandante, ha riferito Vitalij Jaroševskij, vicedirettore della Novaja Gazeta, in un’intervista telefonica.

«Siamo sicuri che questo sia una terribile conseguenza della sua attività di giornalista», ha affermato. «Non vediamo alcun altro motivo».

A Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, ha dichiarato che gli Stati Uniti «invitano il governo russo a condurre un’indagine immediata e accurata per trovare, perseguire e portare davanti alla giustizia tutti coloro che sono responsabili di questo brutale

assassinio».

L’ex presidente sovietico Mikhail Gorbačëv, azionista del giornale per il quale lavorava Anna Politkovskaja, ha definito il suo assassinio un «crimine selvaggio».

«È un colpo per tutta la stampa democratica e indipendente», ha dichiarato all’agenzia stampa Interfax. «È un grave crimine contro il Paese, contro tutti noi».

I resoconti sulla sua morte sono contrastanti, alcune autorità di polizia dicono che sia stata trovata nell’entrata del suo palazzo mentre altri dicono si trovasse nell’ascensore.

La polizia ha affermato che una telecamera di sicurezza ha registrato l’immagine del suo presunto killer: un giovane alto in abiti scuri e con un cappello da baseball. La ricerca dell’esecutore sarebbe già iniziata.

Anna Politkovskaja, che ha due figli adulti, lavorava alla Novaja Gazeta dal 1999, aveva seguito i bombardamenti della seconda guerra cecena e il sequestro da parte dei terroristi del teatro Dubrovka a Mosca nel 2002. In uno dei suoi libri, Un piccolo angolo d’inferno, raccontava le sue impressioni sulla crudeltà implacabile e spesso macabra della guerra in Cecenia, e la manifesta corruzione di molti dei suoi partecipanti.

Aveva scritto di torture, esecuzioni di massa, rapimenti a scopo di estorsione per eliminare i sospetti ribelli e la vendita da parte dei soldati russi dei cadaveri dei ceceni alle famiglie, per la sepoltura islamica. I suoi scritti le avevano assegnato il ruolo di una delle più dirette critiche interne della guerra.

«L’esercito e la polizia, circa 100.000 uomini, si aggirano in Cecenia in uno stato di completo decadimento morale», aveva scritto. «E che risposta ci si può aspettare se non più terrorismo e il reclutamento di nuovi combattenti nella resistenza?»

Sin dal crollo dell’Unione Sovietica, la Russia è sempre stata uno dei Paesi più difficili e pericolosi per i giornalisti. Il clima è rimasto tale negli anni recenti; secondo il Committee to Protect Journalists almeno dodici giornalisti sono stati uccisi in Russia dal 2000, in assassini su commissione. Nessuno dei casi è stato risolto, compresa l’esecuzione nel 2004 di Paul Klebnikov, redattore americano dell’edizione russa della rivista Forbes.

In passato Anna Politkovskaja aveva ricevuto minacce di morte, e almeno una volta aveva lasciato il Paese temendo per la propria incolumità. Nel 2004 aveva dichiarato di essere stata avvelenata mentre era sull’aereo che la stava portando a Beslan a seguire il sequestro della scuola; aveva perso conoscenza durante il volo ma era sopravvissuta. Jaroševskij ha anche aggiunto che alcuni anni fa la Novaja Gazeta l’aveva fatta scortare per un periodo.

Mentre si aprono le indagini verso quello che viene definito un omicidio premeditato, i suoi colleghi hanno espresso stupore per la sua uccisione, affermando che la sua importanza pubblica sembrava averle conferito un’aura di invincibilità.

«Stava facendo così tante cose rischiose da così tanto tempo che sembrava trascendere il pericolo», ha affermato Tanja Lokšina, direttrice del Demos Center, un’organizzazione per i diritti umani di Mosca. «Mi vergogno a dirlo, ma a tutti sembrava essere quasi un monumento, era un simbolo».

Lokšina ha raccontato di essere stata con lei a Stoccolma due settimane fa, e che niente sembrava fuori posto. «Non ha mai parlato di alcuna minaccia recente», ha detto, «tutto sembrava piuttosto normale. Appariva felice e non ha mai raccontato nulla di preoccupante».

Jaroševskij ha affermato che la Politkovskaja era stata al lavoro sabato per terminare un articolo per l’edizione di lunedì del giornale, riguardante l’uso di torture da parte del governo di Ramzán A. Kadýrov, il premier ceceno allineato al Cremino. Il reportage includeva documentazioni e immagini.

In un’intervista di aprile per il New York Times, Anna Politkovskaja aveva affermato di avere prove di torture in Cecenia perpetrate dalla polizia di Kadýrov e altre forze armate, incluso almeno un testimone torturato dallo stesso Kadýrov. Kadýrov ha sempre negato vigorosamente tali accuse.

Jaroševskij ha affermato che non ci sarebbero per ora ipotesi su chi possa stare dietro il suo assassinio, e ha fatto notare che potrebbe essere conveniente per un nemico di Kadýrov uccidere Politkovskaja in modo da infangare il nome del premier.

Il giornale attendeva il file dell’articolo sabato sera, ha affermato, e probabilmente la giornalista è stata uccisa di ritorno dalla spesa presso un negozio vicino casa. Secondo quanto riportato dalla rete televisiva RTR gli investigatori ritengono che sia stata seguita tutta la giornata.

Da Erbacce

Della fumettista palestinese Safaa Odah abbiamo pubblicato anche il video “Una tenda in Palestina”, qui.

Da la Repubblica – Oggi il cielo è grigio e non per le nuvole invernali o per la brina, ma per la cenere e le macerie. Gli aerei israeliani volano bassi, fendendo l’aria con suoni terribili sembrano volerci ricordare che la morte è vicina. Le strade sono quasi vuote, e i pochi che si vedono guardano il cielo con volti tesi e pieni di paura preparandosi per qualcosa che potrebbe sorprenderli da un momento all’altro.

Macerie umane

Dopo un anno di distruzione, ci sono solo i resti di quelli che prima erano esseri umani.

Quando mi guardo allo specchio, sul mio volto vedo i segni lasciati giorno dopo giorno da questo lungo conflitto. I miei capelli cadono, mi abbandonano a poco a poco. Sono diventati grigi quasi a riflettere tutto il dolore e la tristezza che ho visto: è come se in un anno fossi invecchiata di quaranta, ogni capello grigio racconta la storia di una notte insonne.

Adesso peso 44 chilogrammi, sono l’ombra della vecchia me e ho un corpo che a malapena resiste contro il vento. Mi sento leggera, ma non con la leggerezza della libertà – piuttosto, la leggerezza di chi non ha più certezze, un vuoto che mi lascia sospesa tra il cielo e la terra. Ogni chilo che ho perso era parte di una forza che una volta pensavo fosse permanente, ma che invece si è sgretolata sotto il peso dell’ansia e della costante ricerca di un posto sicuro.

La memoria e l’oblio

Ottobre per Gaza ha segnato la fine dei sogni e l’inizio di un viaggio forzato.

La mia mente è come un disco rotto: conserva ogni dettaglio dei miei spostamenti, ma non riesco più a ricordare com’era la vita prima del 7 ottobre. Ho dimenticato l’indirizzo della mia casa andata distrutta, il francese imparato alle lezioni universitarie, il profumo del cibo che mia madre mi preparava. E me stessa. Ricordo solo le volte in cui ho dovuto cambiare riparo: quattordici volte. E le lacrime versate quando la mia amica Sarah è stata uccisa: la sua assenza ha lasciato un vuoto nella mia vita.

Rammento l’ultimo saluto a Ruba, a mio fratello Ilya e mia nonna quando sono riusciti a mettersi in salvo fuggendo da Gaza. Indelebile il momento in cui siamo fuggiti mentre i carri armati erano a pochi metri di distanza e sparavano a caso sulla gente. Siamo scappati nel bel mezzo della notte per le strade buie. Correvamo senza una direzione chiara, cercando qualsiasi rifugio che potesse proteggerci dai missili che cadevano come una pioggia fitta. Il suono degli aerei era implacabile, l’aria piena dell’odore del fumo, e non c’era niente che potessimo fare se non continuare a correre. La mia memoria è piena di quell’odore di cenere che impregnava l’aria quando la mia casa è stata colpita ed è stata divorata dal fuoco.

La vita e la morte

La cosa peggiore che ho visto è stato l’incontro tra la vita e la morte, quando i lamenti dei vivi si mescolavano con i volti immobili. Ho visto i bambini urlare, le loro voci che si affievolivano sotto le macerie delle case che crollavano. Ero presente quando un’intera famiglia è stata tirata fuori dalle macerie con negli occhi quel vuoto, quell’incapacità di piangere, come se il dolore avesse superato i limiti e le lacrime non fossero più sufficienti.

La cosa peggiore è stata vedere lo sguardo di chi non capisce il senso di quello che succede. I momenti peggiori sono stati quelli in cui mi sono sentita impotente, quando il cibo scarseggiava, quando l’acqua era appena sufficiente per il giorno dopo. Ricordo il volto stanco di mia madre, i suoi occhi parlavano più delle parole che non riusciva a dire, e quei suoni come un grido di vita che sfidava la morte. I momenti peggiori non arrivano improvvisamente ma si insinuano, accumulandosi nelle profondità della mia anima fino a schiacciarla completamente.

La cenere

Sono diventata un cumulo di macerie e non perché ho perso tutto, ma perché porto nella mia memoria i resti dei volti di coloro che se ne sono andati, delle parole non dette, di risate che non sono mai arrivate alla fine. Sono quello che rimane di una sorella che prometteva ai suoi fratelli giorni sicuri, di una ragazza che sognava di studiare e lavorare, di una bambina che sorrideva alla vista del mare, quando il mondo sembrava molto più lungo. Oggi, quando mi guardo allo specchio, vedo degli occhi carichi di ricordi, occhi mostrano tutto ciò che hanno vissuto. Sono i resti di una persona che cerca di sopravvivere.

Pensare al futuro a Gaza

Il futuro è una pagina bianca, una pagina in attesa, da scrivere. Ma nel profondo la speranza si mescola alla paura. Il futuro sembra nebbioso, come una strada tortuosa tra colline che nasconde la sua destinazione finale. Provo a disegnarne un’immagine, ma cambia colore, trasformandosi ogni giorno, a volte ogni ora. Sembra che il futuro porti con sé gli stessi pesanti fardelli, le stesse lotte, le stesse ombre che oscurano il sole. E temo che sarà solo un’altra versione dei giorni che stiamo vivendo ora: pieno di perdite, sfollamenti e sempre alla ricerca di un posto sicuro.

Da Il Post

Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima.

Gli amici che mi sono venuti a prendere mi hanno accolto con un abbraccio più lungo del solito. L’aeroporto era deserto, le bandiere e le foto degli ostaggi ovunque, ma non c’erano persone e, soprattutto, non c’erano aerei, perché le poche compagnie che si avventurano qui hanno paura di lasciare i velivoli fermi, a tiro di missile, dunque arrivano, fanno rifornimento, e poi ripartono. Anche la città mi è sembrata più vuota. Sono atterrata poco prima del tramonto e le strade di Tel Aviv, che un tempo mi erano così familiari, avevano qualcosa di irriconoscibile. Sulle facciate degli edifici, cartelloni enormi, luminosi, opprimenti, con la faccia del primo ministro e slogan accusatori: «In mille sono stati uccisi, sono sulla tua coscienza».

Dicono che le cose che troviamo più inquietanti sono quelle che conosciamo nel profondo e al contempo ci appaiono sconosciute. Sono stata in Israele, da dove mancavo da quasi dieci anni, a maggio, cioè otto mesi dopo l’attacco del 7 ottobre: sapevo che avrei trovato una nazione scossa, perché leggo i giornali e perché gli amici mi avevano avvertito che era peggio di quanto non sembrasse da fuori; eppure non ero preparata alla sensazione di straniamento che ho provato nel vedere un paese dove ho vissuto, che mi è entrato sottopelle, così cambiato, e in peggio. Credo ci vorranno ancora anni prima che storici e politologi riescano a inquadrare appieno la misura in cui quel giorno ha trasformato Israele, ma quello che ho visto io era un paese incattivito, impaurito, in guerra con sé stesso e con il mondo, in balìa di un senso di inevitabilità.

Il 7 ottobre c’è stata la più grande strage di ebrei dai tempi della Shoah, i terroristi di Hamas sono entrati dentro i confini israeliani come un coltello nel burro e hanno ucciso più di mille e cento persone, in alcuni casi stanandole casa per casa. È passato un anno e da allora sono successe così tante cose, è stato sparso così tanto sangue che, immagino, per alcuni ormai è un ricordo sbiadito. Gli israeliani hanno massacrato più di 42mila persone a Gaza e più di 2.000 in Libano, mentre in Cisgiordania i coloni violenti sono a briglia sciolta. In un contesto come questo, se qualcuno mi dicesse perché scrivi degli israeliani, e non dei libanesi o dei palestinesi, ecco, se qualcuno mi dicesse questo, io lo capirei pure. Ma questa è l’unica storia che so raccontare, perché questo è il posto che conosco, che ho chiamato casa, la sua gente è la mia gente.

Com’è possibile che Israele si sia spinto fino a questo punto? Penso a quello che mi aveva detto Robi Damelin, un’attivista di The Parents Circle, l’ong che riunisce genitori israeliani e palestinesi che hanno perso figli nel conflitto e che vorrebbero non succedesse più ad altri, quando le avevo parlato, poche settimane dopo l’attacco di Hamas: «La gente qui è terrorizzata, il trauma è così totale, i razzi così spaventosi, piovono dappertutto, a Tel Aviv, ad Ashkelon. Ma soprattutto la gente è umiliata, che è la cosa peggiore, perché l’umiliazione chiama vendetta, ti offusca la mente». E penso a quello che ha detto il giornalista di Haaretz Gideon Levy: «Se un solo attacco, per quanto così barbaro, è stato sufficiente a spingere così tanti israeliani a comportarsi in modo disumano, provate a immaginare che cosa sta facendo tutto questo ai palestinesi».

Nei giorni in cui sono stata lì, i razzi di cui parlava Robi, quelli lanciati da Hamas, a Tel Aviv non c’erano più. Nei primi due mesi della guerra da Gaza sono partiti quasi diecimila tra razzi, droni, missili sulle città israeliane: la gente viveva tappata nei rifugi, una mia amica, che ha due bambine piccole, mi raccontava che non riusciva a lavarle, perché, nel caso di un attacco, non avrebbe avuto il tempo materiale di portarle fuori dalla vasca. Però a maggio la situazione era tranquilla, Hamas ormai non aveva più la potenza di arrivare fino a qui, e persino l’attacco che aveva lanciato l’Iran il mese prima non aveva fatto troppi danni. Certo, al nord, oppure al sud, sarebbe stata tutta un’altra storia, c’erano 135mila sfollati, in fuga dalla Galilea e dalla regione di Israele al confine con Gaza (in ebraico si chiama Otef Aza, ovvero «ciò che avvolge Gaza», i media anglofoni spesso lo traducono come Gaza envelope, che però suona come fosse dentro la Striscia).

Tel Aviv però non è il paese reale, è la città più grande e ricca, è protetta dal sistema antimissilistico molto più delle periferie, dunque la guerra, vista da lì, era come un’ombra, lontana e vicina. Tutti erano un po’ depressi, quasi tutti avevano qualcuno al fronte. Poi, gli autobus. Una cosa che sarebbe stata ridicola, se non fosse stata tragica, erano i messaggi registrati sugli autobus. A ogni fermata partiva l’annuncio «siete arrivati alla via tal dei tali» seguito da uno slogan un po’ consolatorio e un po’ propagandistico, come «insieme siamo forti» oppure «supereremo tutto questo insieme». Gli autisti, che Dio li benedica, spesso li tagliavano a metà.

Un’altra cosa che mi ha colpito, anche se non c’entrava nulla con la guerra, era la presenza di due tipi di persone che un tempo a Tel Aviv si vedevano poco. Primo, gli ebrei religiosi: Tel Aviv è la città più laica di Israele, in passato mi capitava raramente di incontrarne, ma adesso erano una presenza visibile, specie nella zona dove alloggiavo, Ramat Aviv, un quartiere lontano dal centro che ricorda un po’ i Parioli. Poi, i palestinesi con cittadinanza israeliana. Anche loro una volta si vedevano poco a Tel Aviv, eppure i poliziotti che si sono seduti nel tavolo vicino al mio, in un caffè vicino al mercato Carmel, parlavano fra loro in arabo (in Israele ci sono anche ebrei che parlano arabo come prima lingua, ma sono anziani), ed era palestinese il farmacista che mi ha venduto i prodotti per la skincare che avevo promesso a mia figlia.

Il primo giorno la coppia che mi ospitava mi ha portato a una manifestazione. Non mi hanno chiesto se volevo andarci, lo davano per scontato, ci vanno tutti, ogni venerdì sera, e molte altre sere. L’appuntamento è a Kaplan, una delle strade più centrali di Tel Aviv, davanti alla Kiryà, il quartier generale dell’esercito, si manifesta per gli ostaggi, contro Netanyahu, e, con mia sorpresa, anche un po’ contro la guerra. Incontro gente che conosco, colleghi, amici, figli di amici, perché, se hai quarant’anni, in Israele, i tuoi amici cominciano ad avere figli grandi. Qualcuno mi regala una maglietta con scritto «Lo LeShavè», che significa «non invano», dove credo il messaggio fosse «non permetteremo al governo di distruggere Israele, dopo avere lottato per evitare che fosse distrutto da nemici esterni». Urlano «accordo! accordo!» e «cessate il fuoco». La cosa mi ha stupito un po’, dicevo, perché era una novità, maggio era proprio il periodo in cui le manifestazioni per gli ostaggi iniziavano anche ad essere manifestazioni per il cessate il fuoco.

Una delle critiche mosse più spesso al movimento pacifista israeliano è che non importa loro dei palestinesi, che chiedono la fine della guerra solo perché rivogliono gli ostaggi vivi, non perché gli faccia orrore vedere quarantamila palestinesi morti ammazzati. Questo non è proprio vero, però c’è del vero. Tra le persone con cui ho parlato non ce n’era una a cui non dispiacesse anche per i palestinesi, ma era come un secondo pensiero. Pensi prima di tutto ai tuoi, poi agli altri, che è una cosa molto umana, anche se, come molte cose umane, non è particolarmente bella.

Alla manifestazione ho visto molte insegne viola di Standing Together, un gruppo che riunisce giovani ebrei e palestinesi con cittadinanza israeliana e che col tempo è diventato una delle voci più forti della piazza. Loro erano stati i primi a schierarsi apertamente contro la guerra, fin da subito, mentre altre importanti organizzazioni pacifiste ci hanno messo un po’: B’Tselem ha aspettato fino a dicembre prima di prendere una posizione per il cessate il fuoco, Peace Now a gennaio, e so che in alcuni gruppi c’è stato un meltdown, in altri invece palestinesi ed ebrei che per anni avevano lavorato insieme hanno smesso di parlarsi per un po’.

Il colpo del 7 ottobre è stato così feroce e così improvviso che ha disorientato tutti, anche la parte più sana della società. Ne ho parlato con un vecchio amico di cui preferisco non fare il nome, un collega un po’ più grande e molto più bravo di me. Ci incontriamo in un caffè nella zona vecchia della città, lui mi offre una shakshuka, il piatto tunisino a base di uova, importato dagli ebrei nordafricani giunti qui negli anni Cinquanta, è stanchissimo, nervoso, lavora quindici ore al giorno e ha un figlio al fronte. Non faccio domande, tira lui fuori l’argomento: «Non chiedermi di trovare l’empatia per l’altra parte, non ho lo spazio, non ce la faccio». Mi torna in mente una cosa che avevo sentito dire, qualche mese prima, da Ilana Dayan, una giornalista televisiva molto famosa per il suo programma investigativo Uvdà: «Prima o poi dovremo fare i conti con il dolore che stiamo infliggendo ai palestinesi di Gaza, vedere la distruzione. Ma non è difficile immaginare che una nazione col cuore spezzato è troppo rotta per avere una riserva di empatia».

In che senso una nazione rotta? Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima. Questo è un paese giovane, dove l’età mediana è 29 anni (e in Palestina è 19, l’età mediana è quella che divide a metà la popolazione) e dove le cose cambiano con una rapidità che in Italia è difficile da immaginare. È un paese che, come diceva l’editorialista Ari Shavit, poggia sulla sabbia, convive da sempre con l’idea che altri vogliano spazzarlo via. E, soprattutto, è un paese che da quasi sessant’anni occupa illegalmente un territorio dove vivono quasi tre milioni di palestinesi, che non sono cittadini israeliani, non godono di pieni diritti, non eleggono il governo che, nei fatti, decide delle loro vite, con un sistema che molti chiamano “apartheid”, e sinceramente non trovo una parola migliore.

Nell’ultimo decennio, forse negli ultimi due decenni, sono successe tre cose importanti e connesse fra loro. Primo, si è fatta strada l’illusione che la questione palestinese potesse essere dimenticata, che Israele sarebbe potuto andare avanti con l’Occupazione senza essere per questo in guerra. Secondo, quella che gli esperti chiamano la One State Reality: la Cisgiordania è stata annessa di fatto, se non sulla carta, la linea verde che separava Israele dai Territori occupati è come evaporata, per gli israeliani almeno (per i palestinesi, ovviamente, no), e il risultato è che l’Occupazione e il paese sono diventati tutt’uno.

Terzo, la vecchia guardia, la maggioranza di un tempo, sta diventando una minoranza. È un cambiamento demografico epocale. Fino a poco tempo fa gli ebrei laici, che credevano in uno Stato ebraico e democratico, con tutte le limitazioni e le contraddizioni del caso, erano una maggioranza netta, che conviveva con due minoranze con valori diversi: da un lato gli ultraortodossi, che non si riconoscono nell’idea di democrazia moderna; dall’altro i palestinesi con cittadinanza israeliana, che per ovvi motivi non si riconoscono nell’idea di Stato ebraico. Questi due gruppi, che oggi messi insieme rappresentano il 35 per cento della popolazione, sono anche quelli che tendono a fare più figli. Sono fatti collegati perché, volendo tirare le somme, l’Occupazione è entrata dentro Israele, l’ha contagiato come farebbe un virus.

Vado a Gerusalemme per trovare un’amica, giochiamo a fare le turiste, andiamo nella Città Vecchia, dove i negozi sono quasi tutti chiusi perché di turisti non se ne vede l’ombra, entriamo nel Santo Sepolcro che è deserto, tutto per noi.

Alloggio fuori dalle mura, a Emek Refaim, un quartiere verde e in tempi normali vivace, dove abitano molti americani e professori universitari. Era il quartiere di Hersh Goldberg-Polin, il ragazzo di 23 anni preso ostaggio il 7 ottobre e morto, pare giustiziato dai suoi carcerieri, ad agosto. Hersh nel quartiere lo conoscevano un po’ tutti, era molto attivo nella tifoseria dell’Hapoel, una delle due squadre di calcio di Gerusalemme, e negli ambienti di sinistra, ci sono le sue foto ovunque, appese sui balconi, nei ristoranti, davanti a una palestra, su qualcuna hanno incollato sticker dell’Hapoel o appoggiato una sciarpa.

Sono a Gerusalemme per vedere la mia amica, ma colgo l’occasione per incontrare un contatto di lavoro, una persona con cui volevo parlare dei cambiamenti che ho visto. «Una volta dicevamo che l’Occupazione corrompe, ma ormai dovremmo dire che l’Occupazione ha corrotto», mi racconta Yehuda Shaul, quando ci vediamo alla First Station, la vecchia stazione dei treni che oggi è un mercato semicoperto. Esattamente vent’anni fa, quando aveva appena finito il servizio militare, Yehuda ha fondato Breaking the Silence, l’ong di soldati israeliani che denunciano le violazioni dei diritti umani nei Territori, e ora lavora per Ofek, un think tank.

Il suo ragionamento è lo stesso che ho sentito da molti altri (su questo ha scritto un libro molto bello la politologa Dahlia Scheindlin): se ti abitui a opprimere gli altri con violenza, la violenza entra a fare parte di te. Per più di cinquant’anni Israele ha imposto un sistema antidemocratico nei Territori palestinesi che occupa, mentre si illudeva di potere restare una democrazia – magari imperfetta, ma pur sempre una democrazia – all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Ma alla lunga non puoi difendere la democrazia a casa tua mentre imponi una specie di apartheid agli altri. Alla fine anche il sistema antidemocratico entra a fare parte di te.

Ecco, la normalizzazione della violenza. Yehuda Shaul mi dice che quando è nata l’organizzazione, i racconti di Breaking the Silence su come erano trattati i palestinesi scioccavano il pubblico israeliano, la gente faceva domande, ora non se li fila più nessuno. Dal 2018 esiste perfino una legge che impedisce a quelli di Breaking the Silence di andare a parlare nelle scuole, non sia mai che gli alunni diventino troppo pacifisti.

Lui ha una teoria: il punto di non ritorno è stato nel 2016, con la vicenda di Elor Azaria, il paramedico dell’esercito israeliano che sparò a un miliziano palestinese già ferito e a terra, colpevole di avere sparato a un suo commilitone. Azaria finì in carcere, condannato da una corte marziale, ma il governo di destra lo dipinse come una vittima e costrinse il ministro della Difesa, che invece si era schierato coi giudici militari, a dimettersi. «Quello è stato lo spartiacque, il momento in cui la nuova classe dirigente ha detto alla vecchia che le regole non contavano più, ora comandiamo noi», dice Yehuda.

Quello che stiamo vedendo in questi mesi a Gaza è una reazione al 7 ottobre, ma anche il risultato della traiettoria che Israele aveva preso da un po’, un sostrato di incattivimento che c’era già prima, a cui si sono aggiunte la paura e la vendetta. Ricordo che nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas, gli amici e colleghi di Tel Aviv che vivevano nei rifugi dicevano speriamo che il conflitto non si estenda, che l’esito non sia quello in cui spera Hamas: costringere Israele a combattere in contemporanea su più fronti, in Libano, in Cisgiordania. Invece è successo, il conflitto si è esteso.

Qualche giorno fa l’Iran ha lanciato centinaia di missili su Tel Aviv e altre città. Nelle ore precedenti all’attacco, mi ha telefonato una cara amica, salutiamoci, mi ha detto, parliamo un po’, finché ne abbiamo la possibilità. Intendeva dire che i suoi figli sono dei rompipalle e i miei pure, chissà quando ci ricapita di avere una mezz’ora, ma intendeva anche dire altro. Le notizie di questi giorni sono il Libano e l’Iran, spero che qualcuno le racconti bene quelle storie, perché l’unica storia che posso raccontare io è quella di Israele, e mi spiace davvero che sia una storia brutta.

Da il manifesto – Ci sono momenti in cui quel po’ di luce che le apocalissi più spaventose (la parola, si sa, vale ‘rivelazioni’) fanno sulle verità della storia si offusca repentinamente, e quel po’ di consapevolezza delle ragioni e dei torti delle parti in causa che i più hanno acquistato, a un prezzo indicibile di sofferenza altrui, rischia di perdersi. Forse l’attuale è uno di quei momenti. Molti libri hanno in questi ultimi mesi e giorni proiettato potenti fari sull’«elefante nella stanza», l’enorme rimosso della più lunga e feroce occupazione militare che la storia ricordi, quella israeliana dei territori che erano stati assegnati dall’Onu al futuro Stato di Palestina, o del poco che ne resta.

Penso a Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia (Laterza), ma anche a Gad Lerner, Gaza, Odio e amore per Israele (Feltrinelli), al toccante Il suicidio di Israele di Anna Foa (Laterza), all’appassionato fact-checking di Arturo Marzano dal titolo Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza), alla nuova edizione ampliata del classico di Paola Caridi Hamas (Feltrinelli). Quanta luce, finalmente.

Eppure, è bastato che balenasse l’idea di un regime change in Medio Oriente, addirittura di un colpo mortale che Israele potrebbe infliggere alla teocrazia iraniana, perché tutto rischi improvvisamente di essere dimenticato: la più grande carneficina di civili in questo secolo, che a Gaza continua e in Libano (ri)comincia, la Cisgiordania sparita dalle cartine di Netanyahu, le accuse di genocidio pendenti su Israele alla Corte dell’Aja, la risoluzione presa dalle Nazioni Unite a schiacciante maggioranza solo il 18 settembre scorso (che chiede a Israele di cessare il fuoco e ritirare le sue forze armate da Gaza e dalla Cisgiordania, in omaggio al severissimo parere consultivo emesso il 19 luglio dalla Corte dell’Aja stessa sulle conseguenze legali dell’occupazione), la richiesta di mandati d’arresto internazionali da parte della Corte Penale Internazionale per i capi del governo e della difesa israeliani (che hanno pensato a eliminare senza storie giudiziarie i tre leader di Hamas equiparati a loro nella condanna della CPI), il sangue innocente che continua a colare senza fine dietro i miliardi di specchi dei nostri telefonini.

Tutto perdonato? In grazia del «lavoro sporco» (Gad Lerner) che Israele si incarica di fare, a beneficio di chi? Tre volte l’ha ribadito ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la delegata statunitense il pieno, pienissimo appoggio a Israele nelle sue azioni contro l’Iran. Ma s’è sentito anche nei più innocui conviti del mondo della cultura, virare il vento.

«Le guerre nascono nella mente degli uomini», recita l’esordio della costituzione dell’Unesco. Raramente è dato vedere con tanta chiarezza come nascono, nell’esempio di una mente che si apre in pubblico. «Quell’uomo ha rilasciato una dichiarazione disgustosa sull’attacco iraniano e non l’ha condannato. Sono contento che Israele non permetterà a questo idiota di entrare nel Paese».

«Quell’uomo» è il Segretario Generale dell’Onu, che infaticabilmente ribadiva gli argomenti dell’umana ragione, nel linguaggio del diritto internazionale. E a dargli dell’idiota e dell’uomo disgustoso non è un presunto criminale di guerra, che c’è già dentro fino ai capelli, e per il quale è parte del mestiere usare le parole come pistole. È Benny Morris, che le ha ribadite in un’intervista rilasciata a «La Stampa» (3 ottobre).

Cioè il primo dei «nuovi storici» di Israele, quello che già nel 1988, in un famoso libro sulla nascita del problema dei rifugiati palestinesi, aveva provato come «la Nakba non sia stata una conseguenza della guerra fra i paesi arabi e Israele, iniziata nel maggio del 1948, ma – essendo cominciata prima – sia legata ai rapporti fra popolazione araba ed ebraica all’interno della Palestina britannica» (A. Marzano 2024).

Cioè: all’origine della tragedia è proprio la pulizia etnica, la virtuale soppressione della gente che abitava lì da sempre. Ci sono uomini non solo capaci di vedere una verità morale occultata da altri, ma che non hanno affatto bisogno di nasconderla di nuovo, per rigettarla come motivazione etica, dato che gliene preferiscono una etnica. Che dicono cioè: «È verissimo: e allora?».

Di questa tempra è Benny Morris, che fra i «nuovi storici» è stato il solo a rammaricarsi apertamente «che questa pulizia etnica non sia stata completata» (Traverso 2024). A proposito di «lavoro sporco».

Già, chi siamo noi per giudicare. Una cosa è certa, però: altro luogo che le nostre menti non c’è, dove le guerre si possano anche spegnere. Dove a tutta la verità morale su cui la cognizione del dolore ha fatto finalmente luce non si risponda così: «E allora?». Purché il vento dell’opinione che vira non la spenga di nuovo, la luce. E tutti quei libri fatti per alzare «nella mente degli uomini… le difese della pace» (Unesco) non siano stati scritti invano.

Da La Stampa – Tuttolibri – Scrivono forsennatamente, ad amici, amanti, famigliari. Quella degli epistolari è una scrittura più intima e meno controllata rispetto ai libri. Diventano quindi meravigliosi squarci di quotidianità, dove si parla di tutto, anche di cuoche che non si trovano, di gestione domestica, di cose apparentemente minime, ma che ci rendono più vivi i personaggi famosi. Vanessa Bell e Virginia Woolf si scrivono spessissimo, quasi tutti i giorni. Sono lettere spontanee e disinibite, che rispecchiano gli alti e bassi, gli umori dello scorrere della vita, dei rapporti con amici, famiglia e amanti, piene di giudizi e anche pettegolezzi che rompono il rigido schema puritano e bigotto dell’epoca vittoriana. A noi sono arrivate quasi quattromila lettere a testa: di queste Vanessa ne ha scritte a Virginia 373, quella di Virginia a Vanessa sono 495. In Se vedi una luce danzare sull’acqua Liliana Rampello, una delle più importanti studiose italiane della Woolf e socia fondatrice dell’Italian Virginia Woolf Society, ne ha selezionate 72 di Vanessa e 99 di Virginia, quasi tutte inedite in Italia. Una scelta “arbitraria”, come avverte la curatrice, dettata dalla volontà di rappresentare al meglio la natura della complessa relazione tra le due sorelle. Le seguiamo dalla giovinezza del primo cognome, quando ancora si chiamano entrambe Stephen (figlie di Sir Leslie) e la famiglia abita ancora al famoso indirizzo di 22 Hyde Park Gate, passando per i numerosi lutti, le prime manifestazioni dell’infermità mentale di Virginia fino al passaggio a Bloomsbury e all’altro famoso indirizzo di Gordon Square, frequentato anche da Clive Bell e Leonard Woolf, che diventeranno i rispettivi coniugi e le sorelle sbocciano nelle proprie arti: Virginia nella scrittura e Vanessa nella pittura.

Tanto è stato scritto sulle due sorelle e sulla natura del loro rapporto, ma in questa scelta si percepisce il profondo affetto che le lega e si confuta una volta per tutte l’idea di una rivalità tra artiste (l’antagonismo è un automatismo di un certo tipo di narrazione, quando si ha a che fare con due donne estrose, affascinanti e intelligenti). Piuttosto c’è una sotterranea vena di gelosia, gelosia buona come spesso accade tra sorelle. E una certa invidia di Virginia per la maternità di Vanessa, che lei rifugge ma da cui allo stesso tempo è attratta. Lei non sarà mai madre, ma sarà sempre una zia affettuosa e affezionatissima per i figli di Vanessa e la sprona a non farsi fagocitare dalla famiglia, dalle incombenze e a perseguire nella sua arte. Si scrivono molto di arte, di pittura, di scrittura, sicure entrambe della propria strada, Virginia anche del proprio successo, perché più di una volta parla di una sua biografia, che non vorrebbe mai scrivere. Intorno a loro gira il vorticoso circolo di Bloomsbury e i vari personaggi che lo hanno animato entrano ed escono nella corrispondenza con la stessa facilità di cameriere, figli, banalità, spese.

Virginia si firma Billy la Capra e soprannominerà la sorella Delfino. La prima è più estroversa, ironica, tagliente, volatile e sembra quasi innamorata della sorella, più solida, seppure donna sensuale e seduttiva, che diventa il punto di riferimento di Virginia alla morte della madre e poi del padre. Più tardi le cose si capovolgeranno quando Vanessa perde il figlio volontario nella guerra di Spagna ed è Virginia il faro a cui puntare per trovare un porto sicuro in cui rifugiarsi.

Le lettere coprono il periodo dal 1904 al 1941. Sono divise in tre sezioni: “Ragazze” (1904-1912); “Penna e pennello” (1913-1936); “Amore e morte” (1937-1941).

Già dai titoli dei capitoli si può intuire la scansione della vita. La giovinezza di ragazze privilegiate in una casa dove si respira arte e letteratura, dove l’educazione è parte della quotidianità, dove si viaggia e si studiano le lingue. Una vita felice e più o meno spensierata, almeno finché non arriveranno i lutti a creare la rottura. Poi il periodo della maturità, della fecondità artistica e di donne, ognuna con la propria personalità ma sempre legatissime, che si cercano e si raccontano tutto, Nessa (l’altro soprannome) più riservata e meno espansiva, Virginia un turbine di sensazioni, umori e sensazioni. E infine l’arrivo della guerra, altri lutti, altro grigiore che si addensa intorno alle sorelle. La vita di Vanessa è devastata dalla morte del figlio Julian, partito per combattere contro Franco in Spagna. La depressione di Virginia torna più potente che mai. Si scrivono comunque tutti i giorni, una si aggrappa alla penna l’altra ai pennelli per trovare un minimo di serenità ma nelle lettere nessuna delle due indulge nel lutto o nel dolore. Siamo comunque in quel tipo di Inghilterra e con quel tipo di educazione. Il 1941 è già cupo di distruzione, le bombe cadono su Londra, macerie ovunque, case distrutte (compresa la sua). Il finale è noto e Vanessa sopravvive altri vent’anni alla sorella, «fragile ma non sopraffatta», anche se ormai gli anni d’oro sono affondati nell’acqua insieme ai sassi con cui Virginia si è riempita le tasche.

Da il manifesto – Un rapporto del Centro Adva e dell’Istituto Van Leer di Gerusalemme, in collaborazione con la Fondazione Friedrich Ebert, pubblicato lo scorso settembre, fornisce i primi e provvisori risultati dell’impatto di un anno di conflitto sulle donne israeliane. Come sottolineano gli autori, la guerra, come altre situazioni di crisi, colpisce le donne in modo diverso rispetto agli uomini e tendenze preoccupanti si registrano in molteplici settori, a partire da quello lavorativo.

Dal rapporto emergono danni significativi all’occupazione femminile, soprattutto tra le impiegate a ore, le autonome e le donne palestinesi. Le donne sono state la maggioranza sia dei licenziati che dei destinati alla cassa integrazione. Una problematica di genere traspare anche dal tasso di assenteismo dal lavoro a partire dal 7 ottobre. Tra gli uomini la ragione principale di assenza è legata alla chiamata come riservisti con un tasso che dal 18% nell’ottobre 2023 ha raggiunto il picco del 41% nel gennaio 2024, per poi scendere gradualmente fino al 6% nei mesi di aprile e maggio.

Tra le donne, il tasso di assenteismo dovuto alla chiamata ha raggiunto il picco massimo del 7% nel gennaio 2024, tuttavia la percentuale di donne assenti per malattia propria o di un familiare è stata più elevata durante tutto il periodo. Si parla di circa un quarto delle donne assenti nei mesi di gennaio e febbraio (rispetto al 16% e al 19% degli uomini). Le donne hanno preso anche più giorni di ferie rispetto agli uomini. Sempre in materia di occupazione, nei settori della sanità e dell’assistenza sociale accanto alla domanda crescente da parte degli utenti si accompagna una grave carenza di personale specializzato, soprattutto nel campo della salute mentale in cui sono impiegate prevalentemente donne. Secondo le stime, ad esempio, negli enti locali e nei ministeri di Welfare e Sanità mancano circa 5mila assistenti sociali, mentre nel sistema scolastico manca il 30% delle psicologhe previste.

Dal numero delle accuse presentate e degli arresti effettuati, emerge anche l’aumento della gravità dei casi di violenza domestica, con un andamento diverso da quella dei primi mesi dell’epidemia di covid, quando un forte aumento delle denunce di violenza domestica era evidente nel contesto della politica di quarantena. La differenza sta nella diminuzione delle richieste di aiuto nei primi mesi di guerra, causata dalla percezione di mancanza di legittimità nel lamentarsi o contattare gli operatori sanitari rispetto al dramma in atto e dalla mancanza di disponibilità da parte delle vittime alla cura di se stesse.

L’incremento della militarizzazione ha comportato inoltre un aumento significativo del numero di licenze private di armi (il numero di quelle approvate dal ministero per la sicurezza interna nel 2023 è più di tre volte superiore a quello dell’anno precedente) che mette a repentaglio la sicurezza delle donne. Inoltre, l’aggravarsi delle persecuzioni di natura politica ha condotto a una perdita del senso di sicurezza delle donne arabe, soprattutto negli spazi condivisi, intaccando la loro possibilità di integrazione nel mercato del lavoro. Il 60% delle palestinesi riferisce di sentirsi a disagio nel recarsi in insediamenti ebraici o misti per lavoro o commissioni, e questo rispetto al 48% degli uomini arabi intervistati.

Preoccupante è anche la forte diminuzione della rappresentanza delle donne in posizioni chiave e nei processi decisionali. Nell’attuale Knesset sono presenti solo 29 deputate, rispetto alle 35 del parlamento precedente [su 120 seggi, Ndr]. Solo una donna presta servizio nel gabinetto politico di sicurezza, mentre in quello socio-economico si contano solo tre donne su 19 membri complessivi. Al fine di ridurre i danni e prevenire un’ulteriore espansione dei divari di genere in Israele, il rapporto chiede l’integrazione delle donne tra i responsabili politici e l’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione e nel processo decisionale, auspicando che venga garantita anche la raccolta e la pubblicazione sistematica di dati segmentati per genere in modo che le tendenze possano venire identificate nel tempo.

La preoccupante fotografia fornita dal rapporto è per forza di cose parziale per mancanza di dati, né prende in considerazione le donne palestinesi prive della cittadinanza israeliana, come quelle che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme Est. Inoltre i risultati andranno monitorati anche in fase di riabilitazione, processo che tuttavia non può avere inizio mentre i traumi sono ancora in corso. In questo senso continuano a essere particolarmente penalizzate, oltre alle palestinesi, le donne sfollate, le madri e mogli dei riservisti e tutte le donne che detengono legami personali e familiari con gli ostaggi. I danni dell’atroce stress fisico e psicologico a cui sono sottoposte sono ancora inimmaginabili e potranno essere stimati solo nel lungo periodo. Come nel caso delle violenze di genere perpetrate il 7 ottobre da Hamas e delle donne catturate, è evidente che il genere femminile sta pagando a caro prezzo la violenza politica e militare che pervade lo spazio pubblico israelo-palestinese.

Per quanto allarmanti, tuttavia, le statistiche non possono cancellare il ruolo centrale ricoperto in questi mesi proprio dalle donne ebree, palestinesi e druse di cittadinanza israeliana e il loro preziosissimo contributo alla società nell’affrontare la crisi. Le donne sono anche in prima linea per la pace e nelle ancora troppo poche e coraggiose iniziative congiunte come quella recentemente promossa dal «Movimento Spirituale per la Pace» tenutasi a Gerusalemme il 26 settembre scorso. Sono proprio le donne osservanti, ebree e musulmane, a muoversi con maggiore agio negli spazi «misti», a dimostrazione che la religione e le donne sono anche delle preziose alleate, checché ne dicano gli stereotipi occidentali.

Tra le oratrici che hanno tenuto i discorsi più interessanti c’è stata la giornalista drusa Eman Safady dell’organizzazione JPC che ha sottolineato l’importanza di mettere da parte le vendette per avviarci verso la pace e la normalizzazione che passeranno, secondo lei, attraverso una «pulizia energetica» e accordi sugli spazi marini e le risorse energetiche. Importante anche la riflessione della professoressa Haviva Pedaya dell’Università di Ben-Gurion del Negev, presidente del movimento, intellettuale e discendente della stirpe di cabalisti Fatiyah di origine irachena, che ha sottolineato l’importanza della stipula di accordi politici nella realpolitik della tradizione sefardita orientale ebraica. E siamo solo all’inizio.

Oggi, a un anno da quel disgraziato 7 ottobre, l’urgenza di spendersi in prima persona per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e per il ritorno immediato degli ostaggi, per poi iniziare un faticoso e lungo processo di ricostruzione, è massima e le donne dimostrano di averlo compreso superando coraggiosamente ogni accusa di tradimento e critica di asimmetria che viene loro rivolta dalle rispettive etnie. Mettiamo da parte le ideologie e diamo loro voce.

Da Il Quotidiano del Sud – A un anno dal massacro di Hamas del 7 ottobre, con morti, violenze e ostaggi, e dopo un anno di vendetta di Israele sul popolo palestinese con Gaza rasa al suolo, 42.000 morti di cui 20.000 bambine/i, migliaia di feriti, mutilati, di violenze dei coloni in Cisgiordania, di un popolo lasciato senza cibo, acqua e medicine, la parola pace dentro e fuori Israele e nei territori palestinesi è bandita da chi ha scatenato l’inferno, seminando morte, odio e distruzione. Eppure tra tanta tragedia ci sono israeliani e palestinesi, di cui i mass-media non parlano, che continuano tra tanti ostacoli a coltivare e tenere in vita pratiche di pace, di dialogo e riconciliazione come unica alternativa alla guerra. Le loro voci, schiacciate ma non ammutolite, e le loro storie sono state raccolte dalla giornalista Chiara Zappa nel libro di recente pubblicazione Gli irriducibili della pace – Storie di chi non si arrende alla guerra in Israele e Palestina, edito da TS.

«Mi rifiuto di battermi per Israele senza battermi anche per la Palestina», scrive la cantante israeliana Noa nella prefazione e invita a non schierarsi «né da una parte né dall’altra, ma piuttosto schierarsi per la pace, per l’umanità, per la dignità, per la vita». È quello che hanno fatto per tanti anni le donne e gli uomini che nel libro raccontano le loro storie fatte di pratiche di pace, di conoscenza l’uno dell’altro, di rispetto e di fiducia reciproca, per una riconciliazione e una convivenza che li orienta anche dentro l’inferno scatenato da Hamas e dal governo di Netanyahu. Tante le voci e le storie di israeliane/i e palestinesi che meritano di essere ascoltate e conosciute. Con la loro esperienza sono lì a dimostrare che una convivenza e una riconciliazione, dopo tanta distruzione, dolore e odio, un giorno in Terra Santa sarà ancora possibile. Layla, madre palestinese di un villaggio a pochi chilometri da Betlemme, ha visto morire tra le sue braccia il figlio di tre mesi intossicato dal fumo dei lacrimogeni dopo un’incursione in casa dell’esercito israeliano che ha poi ostacolato l’arrivo in ospedale per salvarlo. Dopo anni di dolore e di odio verso “il nemico” trova la forza di perdonare e riconciliarsi stando in un’associazione di palestinesi e israeliani che hanno perso un familiare. «Per la prima volta mi resi conto che condividiamo lo stesso dolore, le stesse lacrime.» È la stessa consapevolezza che spinge Chon, l’ufficiale israeliano che dopo anni di “violenza” e “terrorismo” a Gaza e Cisgiordania si «rende conto di aver «disumanizzato l’altro disumanizzando se stesso, e decide di dire basta. Diventa obiettore di coscienza, fonda il movimento “Combattenti per la pace” tra ex soldati e ufficiali israeliani e palestinesi che hanno partecipato alla lotta armata contro Israele» e una compagnia teatrale binazionale «per sfatare miti e pregiudizi, costruire la fiducia reciproca, riumanizzare l’altro». Chon come Tal, Sofia, prima obiettrice dopo il 7 ottobre, e Ben, è in carcere per aver rifiutato di partecipare alla guerra. Samah e Nir, una palestinese israeliana e un ebreo del “Villaggio della pace”, fondato nel 1950 da un frate domenicano, esempio di convivenza di due popoli e una terra, hanno rifiutato “i fucili di assalto” dati dal governo israeliano. Ariella, cofondatrice del movimento “Le donne portano la pace”, e Reem di quello palestinese “Le donne del sole”, candidate al premio Nobel per la pace, tre giorni prima del 7 ottobre hanno marciato insieme da Gerusalemme Est e Cisgiordania fino al mare. Altre voci, altre storie, si uniscono a queste e nessuna si arrende alla guerra, custodendo i semi che un giorno, si spera, germoglieranno e porteranno ai due popoli di quella terra insanguinata pace e riconciliazione.

Da La Civetta di Minerva – Il 25 settembre scorso ha suscitato l’interesse di molte persone la presentazione alla libreria NeaPolis di viale Teocrito (Siracusa) del libro Vietato a sinistra – Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Castelvecchi 2024), un titolo forte e chiaro che chiama al confronto su questioni che negli ultimi anni hanno provocato conflitti aspri e rotture sia nell’universo femminista che nei partiti e nelle organizzazioni progressiste e di sinistra. Le autrici dei dieci capitoli del libro sono dodici donne, femministe, studiose e professioniste che operano in diverse regioni e fanno parte della rete di discussione, elaborazione e scambio che si chiama Dichiariamo.

Ecco gli argomenti “scomodi” che creano contrasti e disagio a sinistra e che sono stati affrontati alla libreria NeaPolis da tre delle autrici del libro presenti invitate dalla libraia Annalisa Sansalone.

– Le conseguenze della logica paritaria, abbracciata dalla sinistra, che comporta l’ammissione delle donne a cogestire un mondo pensato e regolato da uomini a loro misura, secondo tempi, ritmi e modalità che non tengono conto della differenza femminile.

– La parificazione del ruolo materno e paterno, le conseguenze della legge 54 del 2006 che stabilisce e regola, in modo penalizzante per le madri, l’affido condiviso nelle separazioni.

– La censura e il silenziamento del dibattito democratico e della libertà di pensiero rispetto a questi temi considerati scomodi e su cui si sfugge il confronto e la discussione.

– La prostituzione, la pornografia, tutto il sistema prostituente non possono essere considerate attività lavorative come altre, espressioni di libertà, autodeterminazione e scelta di donne (o uomini) banalizzando o sorvolando sulle implicazioni teoriche e pratiche e disconoscendo il racconto e le esperienze dirette di molte donne che la prostituzione l’hanno praticata.

– La differenza sessuale delle donne viene cancellata con l’adozione del neutro in nome dell’inclusione di quegli uomini, che mantenendo intatti i loro attributi sessuali, si percepiscono donne, si sentono discriminati e preferiscono che le donne siano chiamate “esseri umani mestruanti” o “esseri umani con utero”.

– Le difficolta che incontrano le associazioni femminili a causa delle norme che regolano il RUNTS (Registro Unico del Terzo Settore) secondo le quali le associazioni femminili e femministe devono avere iscritti maschi, anche se si chiamano Unione donne italiane o Arcilesbica, per usufruire dei sostegni pubblici al Terzo settore.

– Riflessioni sul concetto di “identità di genere” che sostituisce il “sesso” e comporta la neutralizzazione delle differenze grazie alla cui esistenza l’umanità esiste e continua a riprodursi.

Alla fine l’elemento unificante del libro è il corpo femminile con le sue potenze. La rappresentazione davanti a cui ci troviamo nel mainstream progressista contemporaneo racconta come sia naturale e giusto che il corpo femminile, ormai emancipato dal destino patriarcale di oggetto di servizio del maschio (padre/marito/padrone) e liberato dalla condanna della maternità obbligatoria, debba avvalersi come crede della libertà che ha raggiunto e all’occorrenza possa mettersi in vendita sul “libero” mercato della gestazione per altri, della prostituzione, della pornografia, occupazioni peraltro praticabili anche prima della (supposta) liberazione ma con il vantaggio di essere ora considerate, nella visione della modernizzazione progressista, come pratiche evolute e democratiche espressione  della libertà individuale e dell’autodeterminazione femminile.

Dunque, guardando ai fatti nudi senza avanzare giudizi, la donna secondo questa lettura avrebbe fatto un percorso di precarizzazione della propria condizione, passando dalla posizione di dipendente moglie/figlia/madre e con un ruolo sociale garantito, a “libera professionista” che si propone al mercato dei corpi femminili con le sue oscillazioni e competizioni.

D’altra parte, però, in questo contesto di sistema sociale democraticamente aggiornato e ordinato secondo le norme e il linguaggio del gender, il corpo femminile si trova contemporaneamente ad affrontare una prova estrema: la propria neutralizzazione. La parola donna (ma non la parola maschio, che non entra mai in questa revisione linguistico-simbolica, forse perché la parola uomo sinonimo di maschio ma con doppia personalità di neutro universale, rimane saldamente il significante di umanità e dunque non è coinvolgibile in questo terremoto linguistico), la parola donna secondo questo contesto democraticamente aggiornato non dovrebbe più invece significare un corpo definito dall’appartenenza al sesso femminile.

È soprattutto questo malinteso sul significato delle parole collegate alla differenza sessuale e la confusione simbolica che ne deriva, che rende difficile il confronto su questi temi cosiddetti divisivi.

Il potere, la dote procreativa del corpo della donna, per esempio, in questo contesto torna ad essere svalorizzato, come ai tempi del patriarcato trionfante quando il corpo femminile era il contenitore del figlio o, con meno soddisfazione, della figlia del maschio, maschio di cui la donna, o almeno il suo corpo, era proprietà.

Nel business della surrogazione (parliamo per approssimazione di un ammontare globale di poco meno di cento miliardi di dollari) la procreazione, smontata in procedure produttive differenziate (selezione e scelta degli ovociti/gameti sul mercato, procedure contrattuali attraverso le reti di agenzie preposte, selezione dell’utero e gestazione-consegna del prodotto finale) sono state messe a punto procedure di razionalizzazione del processo produttivo che ottimizzano i risultati finali e allo stesso tempo riducono il disagio dei committenti e i problemi gestionali degli esercenti del commercio. La procreazione, separata dalla sessualità, diventa una techné e il corpo femminile diventa un mezzo di produzione. Uno strumento per questo organizzato e ricco mercato globale della Gestazione per altri.

E non si può non pensare che sia proprio la non accettazione della potenzialità procreatrice del corpo femminile (altro che invidia del pene!) che porta a confondere il desiderio di essere genitore con il diritto di essere genitore, con una compulsione identitaria che ha fatto sostenere ad alcune donne con il pene che la differenza sessuale femminile è discriminatoria nei confronti dei maschi che si percepiscono donne arrivando al paradosso per cui l’impossibilità del corpo maschile di procreare viene considerata una condizione patologica penalizzante da risarcire con il finanziamento mutualistico della surrogazione.

La libreria NeaPolis di Siracusa ha in programma un altro incontro di riflessione e confronto su questioni che riguardano le pratiche politiche femministe, si terrà il prossimo 19 ottobre alle 17,30. Al centro dell’incontro ci sarà il libro Femminismo mon amour, Quaderni di via Dogana 2024, che raccoglie testi di varie autrici e autori. Sarà presente Laura Colombo della Libreria delle donne di Milano.

Da Erbacce – Sono una cartoonist di Gaza. Dal 7 maggio 2024 vivo a Khan Yunis, nel campo di Ain Jalut, in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finisce, disegno sulla tenda.

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Dal Corriere della Sera – Dal 2022 guida la fondazione dietro all’app che, dopo il dietrofront di Telegram, resta ultimo baluardo dell’assolutismo nella privacy. Ex Google, che ha lasciato in modo polemico nel 2019, della sua app dice: «Signal lavora all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso»

Chi è Meredith Whittaker, simbolo della privacy tecnologica che guida Signal

Nostra Signora della privacy ha una laurea in Retorica e Letteratura inglese presa a Berkeley e un ciuffo bianco sui neri capelli ricci. Da quando, nel settembre 2022, Meredith Whittaker è presidente della fondazione che sta dietro l’app Signal, è diventata un faro, l’icona di un’altra visione della tecnologia, in cui l’accesso famelico ai dati degli utenti non sia più un mantra ma un qualcosa da ripudiare o per lo meno da gestire con mille cautele. Ora che anche Pavel Durov, il fondatore di Telegram, sembra aver ceduto alle pressioni, cambiando le policy della sua app e concedendo l’accesso alle autorità (in casi legati a reati), Signal resta l’ultimo porto franco.

Signal è relativamente poco nota tra le app di messaggistica istantanea, ha tra i 100 e i 150 milioni di utenti (non esistono statistiche pubbliche aggiornate), contro il miliardo di Telegram e gli oltre 2 di WhatsApp. L’approccio estremamente rigoroso alla privacy lo ha reso però piuttosto diffuso tra tecnologi, giornalisti, personale politico, stelle dello spettacolo e dello sport. E piace anche a chi vuole discrezione mentre organizza proteste, da Black Lives Matter alle milizie paramilitari degli Oath Keepers.

«Signal, innanzitutto, è un’app creata da un’organizzazione no-profit, la Signal Foundation. È un progetto open source, e dunque il codice sorgente, cioè le istruzioni con cui è programmato, sono visibili a tutti e chiunque abbia delle doti di programmazione può contribuire a svilupparlo. È per questa ragione che Signal non può usare “trucchi”: è un po’ come se ogni dettaglio della sua struttura fosse scritto su una bacheca visibile a tutti» spiega Riccardo Meggiato, esperto di cyber-sicurezza e informatico forense. Poi aggiunge: «Ciò non toglie che la tecnologia crittografica utilizzata da Signal garantisca uno dei più elevati livelli di sicurezza: è “end to end”, quindi solo i partecipanti a uno scambio di messaggi hanno le rispettive chiavi per codificare e decodificare i contenuti scambiati». C’è di più: «Signal inoltre adotta un sistema di “codici di sicurezza”: ogni conversazione è contrassegnata da un codice di sicurezza diverso, visibile ai partecipanti, che ne garantisce l’integrità. Se il numero cambia, vale la pena verificare se uno dei partecipanti ha re-installato l’app, o cambiato telefono. In caso contrario è meglio fare attenzione. C’è poi la possibilità di comunicare solo tramite nome utente, in modo da non condividere alcun numero di telefono». Per queste sue caratteristiche Signal è diventata ormai da qualche tempo l’app d’elezione per chi ha la necessità di comunicare in modo davvero sicuro, al punto che è diventata anche una sorgente di contenuti e comunicazioni illegali. «Per certi versi – conclude Meggiato – Signal è la versione “seria” di ciò che Telegram prometteva di essere e che, in fondo, non è mai stato».

Nata nel 2014 dalla fusione di due progetti open source, RedPhone e TextSecure, a opera di Moxie Marlinspike, un hacker e crittografo americano, è oggi gestita da una fondazione no-profit, la Signal Technology Foundation, che si finanzia esclusivamente attraverso donazioni e sovvenzioni. Un modello che permette di mantenere una totale indipendenza e di non dover rispondere a logiche di pure profitto che spesso confliggono con la tutela della privacy. Mentre WhatsApp, pur utilizzando proprio il protocollo di crittografia di Signal, è di proprietà di Meta (ex Facebook) e raccoglie metadati sulle interazioni degli utenti, Signal adotta una politica “zero-knowledge”: i dati sono crittografati end-to-end e nemmeno i server di Signal possono accedervi. Telegram, invece, non crittografa i messaggi di default e il suo codice non è open source, il che rende impossibile verificarne la sicurezza in modo indipendente.

La carriera di Whittaker

Il percorso professionale di Whittaker è interessante quanto l’app che guida. Per ben tredici anni ha lavorato in Google, vivendo dall’interno l’evoluzione del colosso tech e la sua transizione verso l’intelligenza artificiale (AI), ben prima dell’esplosione del settore con ChatGpt. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente, portandola a guidare proteste interne contro le presunte molestie sessuali sul posto di lavoro e i contratti di Google con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per lo sviluppo di AI militari. Nel 2019, Whittaker lasciò il colosso americano in modo polemico, per concentrarsi sul combattere «per un’industria tecnologica responsabile», dicendo: «È chiaro che Google non è un posto dove posso continuare questo lavoro». Da allora ha tenuto fede alla sua parola e la sua missione sembra essere diventata il mettere in guardia sui rischi dell’intelligenza artificiale e sulla pericolosa concentrazione di potere nelle mani di poche grandi aziende tecnologiche. Ha co-fondato l’AI Now Institute, con cui Whittaker si batte instancabilmente per indagare le implicazioni etiche e sociali dell’AI sul nostro futuro, partendo dai diritti e dal benessere collettivo. Whittaker non crede agli scenari distopici sull’AI che ci sterminerà. Anzi, invita a smitizzarla, ricordando che non si tratta di magia o di un’entità immateriale, ma di una tecnologia basata su enormi quantità di dati concentrati nelle mani di pochi attori.

E quando, come in un’intervista con Corriere LOGIN dello scorso anno, le vengono citate regolamentazioni come l’AI Act adottato dall’Ue, lei rilancia sempre la palla un po’ più in là: «Non basta limitarsi a contenere i rischi: serve un ripensamento più profondo dei presupposti su cui si basa lo sviluppo dell’AI. Abbiamo bisogno di fermarci un attimo e pensare: che cos’è l’intelligenza artificiale? Non è un qualcosa di immateriale che abbiamo portato in questo mondo: è una tecnologia che si basa su un’enorme quantità di dati concentrati nelle mani di una ristretta cerchia di soggetti». Da cui nessun volo fantascientifico su futuri alla Terminator (che tanto piacciono a Elon Musk, tra gli altri), ma un grido d’allarme concreto: «Il vero rischio è che l’AI inizi a presentare la realtà misogina e razzista come naturale, illudendoci che le risposte di una macchina siano oggettive. Queste problematiche possono essere evitate almeno in parte assicurandosi che tutti siano correttamente rappresentati nei set di dati che alimentano le AI».

Ecco perché Signal, con la sua crittografia end-to-end e la sua vocazione al no-profit, rappresenta per Whittaker un modello alternativo: «Signal sta lavorando all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso. Sta cercando di creare qualcosa che interrompa il flusso diretto dei dati».

Il 27 settembre 2024 a Catania presso il salone Russo della Camera del Lavoro si è tenuta la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi. Nel corso della discussione si è molto parlato del contenuto di una locandina in difesa dell’aborto che è girata sui social. Ludovica Augugliaro, studentessa, ci ripropone sotto forma di contributo scritto l’intervento che ha fatto in quell’occasione.

«Il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco», così leggiamo su un manifesto il cui scopo era portare l’attenzione su una questione tanto importante quanto delicata come l’aborto. Benché molti vedano dietro questa grottesca scelta di termini un mero tentativo di inclusività, io vi leggo ben altra cosa. L’essere inclusivi dovrebbe essere pari all’aggiungere una sedia e non sgomitare per prenderne una già assegnata a qualcun altro giunto prima. Questo è il modus operandi dell’inclusività odierna, o di ciò che si spaccia per essa, e cancellare la parola DONNA anche all’interno di un discorso che la riguarda in prima persona, in favore di termini scioccamente considerati “neutri”, ne è la triste prova.

Se veramente lo scopo fosse stato quello della neutralità sarebbe bastato scrivere semplicemente “Il diritto all’aborto è a rischio”. Dunque perché optare per una costruzione degradante, riduttiva e, come scritto prima, grottesca come “persone con utero”?

Persone con utero serve a ricordare che, oltre alle donne, l’aborto va tutelato anche per gli uomini trans, che sono biologicamente esseri umani di sesso femminile, e le persone non-binary che, benché non si identifichino né nel genere femminile né in quello maschile, come qualsiasi altro essere umano vengono al mondo come maschi o femmine.

Quindi, la censura della parola DONNA nel manifesto sopracitato, ridurla a “persona con utero”, significa di fatto anteporre per rilevanza il genere al sesso, anche trattandosi di aborto, e voler mettere in primo piano persone che hanno un intero mese dell’anno dedicato alle loro battaglie e alle loro comunità e che, anche parlando di un tema che riguarda principalmente le donne, devono sgomitare per prenderne il posto in prima fila a partire da un manifesto.

L’essere efficacemente inclusivi prevede questo: chi include deve aggiungere uno spazio, un posto a sedere, senza però perdere il proprio, chi viene generosamente incluso in un dialogo deve invece comprendere quando è tempo di parlare e quando di ascoltare. Sgomitare per prender parola a tutti i costi, ricercare perpetuamente i riflettori, voler incessantemente essere i protagonisti di qualsiasi dialogo degenerandolo in un ridondante monologo, non solo è segno di mancata educazione ma è anche terribilmente inefficace in quanto gli interlocutori, annoiati e sfiniti, perderanno l’attenzione e il piacere di includere tali persone in futuri dibattiti.

Una definizione tanto elementare come donna: essere umano adulto di sesso femminile oggi, per qualcuno, è inaccettabile in quanto “poco inclusiva” o addirittura transfobica. Eppure proprio in queste definizioni elementari risiede l’identità delle persone transgender e ciò che le rende tali. Una donna trans è di fatto un uomo (essere umano adulto di sesso maschile) che, data la sua disforia di genere, necessita di essere percepita socialmente come una persona di sesso femminile, e quindi una donna.

Vorrei ricordare che il principio su cui si basa l’intera argomentazione gender è proprio la distinzione tra questo e sesso. Il primo, teoricamente, è determinato dall’esperienza dell’individuo nella società, il secondo è concreto, inequivocabile, a partire dal concepimento. La radice stessa di tale discorso oggi è pressoché dimenticata, in quanto, benché esistano numerose identità di genere, il sesso biologico resta duale: maschile e femminile. Ciononostante, in discorsi dove quest’ultimo dovrebbe avere la precedenza in quanto a rilevanza, come l’aborto, lo sport, la divisione degli ambienti negli spogliatoi e nei bagni pubblici e il criterio più opportuno sul quale andrebbero scelti, vince sempre il gender. La concretezza del sesso d’appartenenza è inesorabilmente in secondo piano rispetto a qualcosa di astratto anche nella sua definizione tutt’altro che univoca.

Mettere l’elementarità delle cose in discussione lede, in primis, le fondamenta della comunità LGBTQIA+. Se alla semplice domanda «Cos’è una donna?» non è più possibile rispondere in maniera semplice, logica e condivisa, allora lo stesso catalogo di etichette, ognuna con la sua bandierina, su cui si basa la comunità queer non ha ragione di esistere.

Il paradosso del panorama odierno è che, se da una parte è quasi impossibile fornire definizioni altrettanto elementari e sensate come quelle che si desidera surclassare, contestualmente la tendenza è quella di etichettare qualsiasi cosa, anche la più scontata. Ho scoperto infatti che, nel catalogo arcobaleno, sono in vendita anche un paio di etichette che mi riguardano. Sarei infatti demisessuale e sapiosessuale. Cosa descrivono queste due identità dotate del proprio merchandising di bandierine e spillette? La prima è una sfumatura dell’asessualità e identifica coloro che per fare l’amore con qualcuno necessitano di una connessione mentale e sentimentale che preceda l’atto. La seconda, invece, denota chi trova attraenti sessualmente persone intelligenti.

E quindi, per la mia riluttanza ad avere un rapporto sessuale con persone a caso ma con pene e l’aver scelto come compagno una persona capace di sollecitare anche il mio intelletto e di reggere conversazioni di lunga durata, ben lontane dai sottintesi volgari scambiati via chat tramite emoji del fuoco e della pesca, sono anch’io queer e appartengo a questa tribù. Adesso che ne sono a conoscenza, cosa della mia vita e della mia identità è cambiato? Assolutamente nulla.

Tuttavia, per alcune persone, i giovanissimi soprattutto, questo senso di appartenenza è vitale. Viviamo in una società di ragazzi iperconnessi e inesorabilmente soli e per sfuggire a tale solitudine necessitano di appartenere a un gruppo, e una comunità come l’LGBTQIA+ risulta piuttosto accattivante. Vuoi per i colori sgargianti della bandiera arcobaleno, in contrapposizione al grigio degli eterosessuali “basic”, per la crescita immediata del numero dei followers aggiungendo pronomi e bandierina nella descrizione del profilo, finanche per content creators che basano le loro intere piattaforme unicamente sulla loro identità di genere e/o il loro orientamento sessuale e che, in questo modo, raggiungono numerosa visibilità, notorietà: fama.

Per loro sfortuna si ritrovano da una parte educatori, dai genitori agli insegnanti, impreparati su queste tematiche che travisano o, peggio, ignorano, dall’altra abili oratori che vendono i loro stili di vita come uniche alternative e magiche soluzioni a profondi disagi interiori che meriterebbero altri tipi di supporto.

A questi ragazzi, ai miei coetanei, vorrei dire questo: un’etichetta, con tanto di bandierina, non decreta chi voi siate. Siamo molto più del nostro orientamento sessuale, dei nostri pronomi, delle spillette attaccate allo zaino. L’ identità si costruisce, pezzo dopo pezzo, tramite le relazioni sociali (reali, non virtuali) che si instaurano, attraverso lo stile personale e, soprattutto, grazie a ciò che si legge. Solo con la lettura è possibile sviluppare un pensiero critico, l’unico scudo contro un costante e subdolo indottrinamento che non accetta alcun confronto, che, a partire dal linguaggio, silenzia e censura chiunque la pensi diversamente.

Da Doppiozero – Fra i grandi meriti di Omero, nota Hannah Arendt, c’è quello di aver reso immortali gli eroi di cui racconta la storia. Non sappiamo chi fosse Omero, il narratore che chiamiamo con questo nome, ma sappiamo chi fossero Achille, Ettore e Ulisse perché ne conosciamo le storie e non ci stanchiamo di rileggerle e raccontarle. Racchiusa nelle storie, la loro fama è imperitura e li salva dall’oblio. Non sono però solo i guerrieri a guadagnarsi questa immortalità donata dal canto omerico. Penelope, la tessitrice che fa e disfa la sua tela, è la protagonista di una storia davvero memorabile che la tradizione non ha infatti mai potuto dimenticare.

A Roma, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, si è di recente aperta Penelope, la prima mostra dedicata al personaggio omerico, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa. Potete visitarla fino al 12 gennaio 2025, ammirando cinquanta opere che, attraverso la tradizione visiva e letteraria, ripercorrono il mito e la fortuna della regina tessitrice, celebre per il suo gesto di fare e disfare. Genialmente, l’esposizione comprende anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro la materia tessile. Da Penelope alla grande artista sarda, dall’immaginario antico all’arte contemporanea, la mostra ci invita ad esplorare l’universo, simbolico e operativo, delle donne che tessono, che fanno del gesto della tessitura una trama di libertà, creatività e riscatto.

Racconta il mito che fu la dea Atena a donare alle donne l’arte del tessere, riservando invece agli uomini quella del guerreggiare. Ovviamente la parola greca è techne, un termine che, al contrario dell’italiano arte, non convoca immediatamente la bellezza, bensì una certa rigorosa perizia, una capacità del fare, un’abilità e una competenza fondate su un sapere. In Platone la figura del ‘tecnico’, comprensiva di quello che noi chiameremmo artigiano e artista, implica la conoscenza di un campo specifico o, meglio dell’idea, della forma che è al centro di questo campo – poniamo, l’idea di letto, guardando alla quale il costruttore di letti trae le regole oggettive così come il materiale adatto per la fabbricazione del letto. Ogni tecnico ha un sapere specifico dell’oggetto di cui è competente e che impone un ordine preciso al suo operare, dettandone le procedure, i tempi e la materia. Nel dire che un’opera è fatta a regola d’arte c’è dunque una sorta di ridondanza: l’arte, ovvero la techne, consiste sempre, e di per sé, nella sua regola. Il tecnico è precisamente l’esperto che vede e segue, esegue, questa regola. L’arte del tessere, in cui eccelle la regina di Itaca, sarà quindi un sapere specialistico delle regole, degli strumenti e del materiale, nonché delle modalità di intreccio, trama e ordito, adatti a produrre il tessuto. Diciamo, nel caso di Penelope, a produrre la tela, il sudario per Laerte.

L’algida spiegazione razionale dell’operare tecnico, fatta da Platone, ci aiuta qui tuttavia solo fino a un certo punto. Platone non prevede infatti che il tecnico, una volta fabbricata la tela, la disfi. Il gesto della tessitrice Penelope è anomalo, anzi scandaloso. Penelope possiede certamente un sapere perfetto della tecnica del tessere ma evidentemente sa qualcosa di più, qualcosa che, pur accadendo nella stanza dei telai in cui, come tutte le donne, è confinata, travalica questo confine, questo ruolo, questa specie di prigione femminile, e agisce sull’assetto politico del regno, là dove dominano gli uomini e lei è esclusa. Tessendo la tela di giorno e disfacendola di notte, Penelope per quattro anni tiene in scacco i pretendenti alla sua mano e la sorte di Itaca. Come con l’astuzia, la metis, il marito ha escogitato il trucco del cavallo di legno per sconfiggere il nemico in battaglia, così la metis di Penelope escogita il trucco del fare e disfare la tela per sconfiggere i pretendenti al governo di Itaca. Al contrario del marito, che opera nella propria sfera di competenza, ovvero nella sfera maschile del guerreggiare, Penelope, pur operando nella sfera propriamente femminile del tessere, fa in modo che gli effetti della sua astuzia riesca a travalicarla. Quel che avviene nella stanza dei telai riguarda direttamente la vicenda politica di Itaca, è questo il nucleo memorabile della storia.

Come ci raccontano Omero e la letteratura antica in generale, nella cultura occidentale, al contrario di ciò che avviene in altre culture, la tessitura è riservata anticamente alle donne o, meglio, il loro confinamento nell’ambito domestico prevede che esse vi svolgano il lavoro di tessitrici. Gli esempi testuali abbondano. Basterà qui, per stare ai poemi omerici, ricordare le parole che Ettore, pur dolce e mite marito, rivolge alla moglie Andromaca che, uscita dalla casa, si reca alla porta Scea per scongiurarlo in lacrime di non scendere in battaglia: «su, rincasa e bada ai tuoi lavori, il telaio e il fuso – le dice Ettore – e ordina alle ancelle di mettersi all’opera; alla guerra penseranno gli uomini» (Iliade, VI, vv. 490-93). Penelope stessa, che ha osato parlare nella sala degli uomini, il megaron, viene invitata dall’arrogante figlio Telemaco a tornare nella stanza dei telai. La politica e la guerra spettano agli uomini, la casa in cui si svolgono i lavori domestici e, in primis, la tessitura, spetta alle donne. I ruoli di genere, come oggi si direbbe, sono chiari. Donando alle donne l’arte della tessitura, in un certo senso, è stata miticamente Atena a escluderle dall’ambito pubblico e a imprigionarle in quello domestico. Ciò non implica che, per i Greci, quella della tessitura sia un’arte inferiore o secondaria, visto che di tale arte si pregia, anzi, la stessa Atena e molte divinità femminili. C’è nell’arte del tessere un orgoglio per l’abilità di produrre splendidi e utili oggetti, nonché una riconosciuta creatività che va al di là dell’utile. Dal tessuto, dall’ambito del textum, derivano del resto parole molto significative come testo e trama. Il tessuto istoriato è tale perché, come il grande Omero, racconta storie. Le crea, le inventa e le tramanda.

Si legge nel catalogo della mostra che nella tradizione iconica Penelope appare spesso malinconica. La malinconia, insieme alla fedeltà e alla pudicizia, scrive la curatrice Alessandra Sarchi nel suo saggio illuminante, costituiscono le sue principali caratteristiche. Pudore e riservatezza sono sottolineate anche nel saggio, altrettanto illuminante e documentato, dell’altro curatore, Claudio Franzoni. Sono saggi ricchissimi e avvincenti, indispensabili per chi visiti la mostra o voglia approfondire i vari filoni letterari, artistici, speculativi e simbolici che si stringono intorno alla figura di Penelope o da essa sgorgano.

Secondo un’autorevole tradizione, la casta e malinconica Penelope, modello di tutte le mogli, è un’icona dell’attesa. Forse ha una struggente nostalgia del marito e ancora spera che torni. Forse simboleggia appunto la moglie fedele alla quale manca il marito, ovvero la moglie che l’assenza del marito e l’incertezza per la sorte di lui rende triste e sconsolata. O forse suggerisce che nello stare confinata tutta la vita nella stanza dei telai, in fondo, c’è ben poca gioia. Molto stupore desta comunque il fatto che, quando Ulisse finalmente torna, travestito da vecchio mendicante, al contrario del cane Argo e del porcaro Eumeo, Penelope non lo riconosca. È Omero a raccontarci questo fatto davvero strano, tutt’altro che trascurabile. Quando Ulisse si palesa, lei non gli crede, vuole le prove. Avrà pensato che dopo tanti anni fosse improbabile che Ulisse fosse ancora vivo? (e alquanto forte e vigoroso come si evince dalla prova dell’arco). O avrà pensato che il suo trucco di fare e disfare per tenere sotto scacco il trono e il destino di Itaca, il suo astuto gioco della politica, fosse giunto inesorabilmente alla fine? Dopo tutto, che ne è di Penelope quando Ulisse si reinsedia nel regno? La regina Penelope, protagonista di una memorabile storia, dopo il ritorno del re, suo legittimo marito, ha ancora una storia?

In effetti è plausibile persino ipotizzare che, nel momento in cui la sua memorabile storia finisce, quando il suo personaggio, che ha svolto un ruolo cruciale nella trama del racconto, esce di scena; che quando Omero chiude la vicenda del fare e disfare perché è tornato il re, Penelope abbia nostalgia del passato. Ora sarà come tutte le altre tessitrici, seguirà diligentemente la regola della sua arte, produrrà splendidi e utili tessuti ma non li disferà più. Anche la complicità con le ancelle per fare funzionare il trucco sarà solo un ricordo. La fama che ne ha fatto una delle icone fondamentali nell’immaginario dell’occidente svanirà nella noia casalinga dell’ordinario.

Il segreto dell’arte di Maria Lai è efficacemente espresso dal suo motto secondo il quale «essere è tessere», a cui si accompagna la sua acuta osservazione sulla somiglianza fra il filo della tessitura e quello della scrittura. Lo testimoniano, fra le realizzazioni dell’artista, i celebri libri di stoffa così come i telai, i grovigli e i fili che legano la montagna e l’abitare in un’opera collettiva. Nell’antichità erano le Moire a filare, e filavano la vita singolare di ogni essere umano, dalla nascita alla morte, essendo la morte semplicemente il filo troncato, spezzato. Sì, essere è tessere, anche perché, secondo il mito delle Moire, il nostro essere qui, in questo mondo o, se si vuole, il nostro esistere come singolarità incarnate, è un filo sottile, intrecciato con altri fili, che si dipanano in una trama collettiva, istoriata temporaneamente, per un tratto, per nodi provvisori, dalla storia di ciascuna vita. Notoriamente le Moire si sono guadagnate nella tradizione una fama sinistra perché tagliano il filo, decretano la morte. Si dimentica però che esse sono all’opera anche quando il filo si forma e nasce, al suo inizio. Come ben sa Penelope, c’è un inizio per ogni filatura, così come, intrecciando i fili, per ogni tessitura. Forse anche per questo la regina disfaceva di notte la tela: per ricominciare, per far sì che la sua storia non finisse e diventasse interminabile, perché sempre tornava al senso davvero memorabile e infinitamente ripetuto del suo inizio.