Ezzideen Shehab non ha ancora trent’anni, è nato e cresciuto a Jabaliya, e dopo dieci anni vissuti all’estero, dove si è laureato, è tornato a Gaza e ha dedicato la sua vita a curare. Ma quella missione gli è stata sottratta, ha scritto nell’ottobre scorso in un articolo pubblicato da The Nation che, nonostante il tempo passato, vale ancora la pena di leggere (e di cui riportiamo qualche passaggio): «Gli strumenti di cui ho bisogno per curare vengono distrutti, e le vite che ho giurato di proteggere vengono decimate. […] Ho visto i bambini morire perché abbiamo esaurito qualcosa di così basilare come gli antibiotici. Molti dei miei colleghi sono stati uccisi, semplicemente per aver fatto il loro lavoro. Altri sono stati bloccati in aree pericolose, incapaci di raggiungere gli ospedali dove sono così disperatamente necessari. Ogni giorno rischiamo la nostra vita, sapendo che anche i luoghi destinati a guarire sono diventati bersagli. […] Settantadue membri della mia famiglia sono stati uccisi. Ospedali, scuole e case – luoghi destinati a proteggere – sono stati cancellati. Ogni spazio che una volta prometteva la sicurezza è stato trasformato in polvere. […] Ho perso il conto di quante volte io e la mia famiglia siamo stati sfollati. Siamo stati costretti a fuggire da un edificio distrutto all’altro, alla ricerca di sicurezza che non esiste».

Dal giugno 2024 ha raccontato quel che ha visto e vissuto nella Striscia e nelle strutture sanitarie in cui ha operato (tra cui il Pronto Soccorso dell’Indonesian Hospital e l’Alrahma Medical Centre) anche dall’account personale che ha aperto su X (ex Twitter), in cui si presenta così: «Hello, sono un medico a Gaza. A volte uno scrittore. Che rivela storie nascoste, una voce per chi non ha voce. Testimone delle profondità più oscure dell’umanità».

«Ogni giorno mi muovo tra le rovine, cucendo ferite che il mondo non vedrà mai. E di notte scrivo, perché certe verità non possono restare sepolte», dice ancora nell’appello apparso sulla piattaforma di Chuffed.org con cui chiede sostegno per poter pubblicare il suo primo libro (aperto alle sottoscrizioni fino al prossimo 19 luglio). «Se le mie parole vi sono arrivate, non è per caso. È perché il dolore esige di essere testimoniato. […] Aiutatemi a portare questo libro nel mondo. […] perché la memoria, una volta scritta, non può essere cancellata».

Il suo ultimo messaggio su X è del 12 giugno scorso. È stato visualizzato, ripostato, condiviso e pubblicato in tutto il mondo innumerevoli volte. Da alloradi lui non si hanno più notizie.

Non c’è internet.

Non c’è segnale. Nessun suono. Nessun mondo al di là di questa gabbia.

Ho camminato per trenta minuti tra rovine e polvere. Non in cerca di una via di fuga, ma di un frammento di segnale, quanto basta per sussurrare: «Siamo ancora vivi».

Non perché qualcuno stia ascoltando,

ma perché morire inascoltati è la morte definitiva.

Gaza ora è in silenzio.

Non con la pace, ma con l’annientamento.

Non un silenzio di quiete, ma di soffocamento.

Hanno tagliato l’ultimo cavo.

Nessun messaggio parte. Non entrano immagini.

Anche il dolore è stato proibito.

Ho incrociato i cadaveri di edifici, di case, di uomini, alcuni che respiravano, altri no.

Tutti cancellati dalla stessa mano che ha cancellato le nostre voci.

Questo non è un assedio di sole bombe.

È un assedio della memoria: una guerra contro la nostra capacità di dire «Noi eravamo qui».

I bombardamenti non si sono mai fermati, soprattutto a Jabaliya.

Bombardano le strade dove i bambini chiedono l’elemosina.

Bombardano le file dove le madri aspettano la farina.

Bombardano la fame stessa.

Niente cibo. Niente acqua. Nessuna uscita.

E chi ci prova, chi cerca aiuto, viene colpito.

Qui la gente muore e nessuno lo sa.

Non perché l’uccisione si sia fermata, ma perché l’uccisione della connessione è riuscita.

Internet è stato il nostro ultimo respiro.

Non era un lusso; era l’ultima prova della nostra umanità.

Ora non c’è più.

E nel buio, massacrano senza conseguenze.

Ho trovato questo debole segnale SIM come un uomo morente trova una fiammella.

Mi sono trovato sotto un cielo spezzato, rischiando la morte, non per salvarmi, ma per inviare questo.

Un unico messaggio.

Un’ultima resistenza.

Se state leggendo, ricordate:

abbiamo attraversato il fuoco per dirlo.

Non siamo stati silenziosi.

Siamo stati messi a tacere.

E quando i collegamenti saranno ripristinati,

la verità sanguinerà attraverso i fili,

e il mondo saprà ciò che ha scelto di non vedere.

da Il Post

Oggi chi lo pratica fuori dai termini consentiti è perseguibile, per via di una legge del 1861

La Camera dei Comuni del Regno Unito (la camera bassa del parlamento) ha votato a favore della decriminalizzazione dell’aborto: con 379 voti a favore e 137 contrari è stato approvato un emendamento che modifica le leggi che regolano l’aborto in Inghilterra e Galles, in modo che le donne che interrompono la gravidanza al di fuori del quadro legale attualmente previsto non possano più essere perseguite penalmente.

L’emendamento è stato presentato a un disegno di legge più ampio che si occupa di criminalità e polizia: per entrare in vigore è necessario che tutto il disegno di legge venga approvato da entrambe le camere del parlamento e riceva l’assenso reale. Il testo gode comunque di ampio sostegno, e dovrebbe passare senza particolari problemi.

Nel Regno Unito l’aborto è disciplinato dall’Abortion Act del 1967, che consente l’interruzione volontaria di gravidanza sulla base del parere di due medici ed entro la ventiquattresima settimana. Il termine è esteso nei casi in cui la gravidanza comporti un pericolo grave per la salute della donna o del feto. Quella del 1967 rappresenta una deroga all’Offences Against the Person Act del 1861, introdotto quando le donne non potevano ancora votare: costituisce ancora oggi la base giuridica per i reati contro la persona e prevede, tra le altre cose, che una donna che decide di abortire possa essere punita con l’ergastolo.

Negli ultimi anni diverse donne sono state effettivamente arrestate e processate per aborto illegale. Si stima che siano state più di cento negli ultimi dieci anni, e almeno sette dal dicembre del 2022.

Due casi in particolare hanno fatto aumentare le richieste e le pressioni per la decriminalizzazione. Nel 2020 Carla Foster, una donna di 45 anni già madre di tre figli, era stata condannata a più di 2 anni di carcere per aver interrotto la gravidanza alla 32esima settimana grazie alle pillole abortive che aveva ricevuto comunicando all’organizzazione che l’aveva sostenuta di essere incinta di sette settimane. Un mese dopo la sua condanna è stata dimezzata e infine sospesa.

Lo scorso maggio Nicola Packer, una donna londinese di 41 anni, era stata assolta dall’accusa di aver assunto la pillola abortiva oltre il limite di tempo consentito (10 settimane) dopo un processo durato più di quattro anni. Nel 2020, in pieno lockdown da Covid, Packer aveva eseguito un test che aveva confermato la gravidanza. Non volendo diventare madre aveva ottenuto dei farmaci abortivi tramite una consulenza in telemedicina, prevista nel Regno Unito, ignara però di essere a circa 26 settimane di gestazione. Dopo aver assunto i farmaci era andata in ospedale per una complicazione e l’ospedale aveva chiamato la polizia.

Packer era stata dunque arrestata e accusata in base alla legge del 1861. Dopo sei ore di camera di consiglio, la giuria l’aveva assolta all’unanimità. «Non so come qualcuno possa giustificare una cosa del genere: sprecare cinque anni della mia vita che non torneranno mai più indietro, prolungare il trauma in modo continuo. Non lo augurerei a nessuno. Sono stati i peggiori quattro anni e mezzo della mia vita», ha detto qualche settimana fa Packer all’uscita dall’aula.

L’emendamento approvato ora alla legge del 1861 non cambierà le disposizioni del 1967 in base alle quali l’aborto è permesso fino alla 24esima settimana previa autorizzazione di due medici, ma non considererà più un reato le eventuali violazioni. Presentandolo in aula, la deputata laburista Tonia Antoniazzi ha citato il caso di Packer e quello di una donna di nome Laura (il cognome non è stato diffuso) incarcerata per due anni per aborto illegale mentre il compagno violento, che l’aveva costretta ad assumere la pillola abortiva, non aveva subito alcuna conseguenza.

L’emendamento è stato sostenuto pubblicamente da sei facoltà di medicina; dalla British Medical Association, il principale sindacato dei medici; e da varie organizzazioni e associazioni che si occupano di diritti riproduttivi, oltre che dai movimenti femministi. Ranee Thakar, presidente del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, associazione professionale con sede a Londra, ha detto che il voto favorevole all’emendamento è «una vittoria» per le donne e per i loro diritti riproduttivi, soprattutto in un momento in cui tali diritti sono ostacolati in molte parti del mondo.

Parlando ai giornalisti dal Canada, dove si trova per la riunione del G7, il primo ministro britannico Keir Starmer ha detto che avrebbe appoggiato l’emendamento se fosse stato in aula, dicendo anche di essere da sempre un sostenitore dell’aborto libero, sicuro e legale.

da il manifesto

I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare

In un sud-ovest asiatico attraversato da tensioni sempre più profonde, il popolo iraniano si ritrova ancora una volta intrappolato in una storia che non ha scritto. Senza voce nei processi decisionali, senza alcun potere sui giochi di forza regionali e internazionali, milioni di persone diventano bersaglio passivo di dinamiche che non hanno nulla a che vedere con la loro sicurezza o il loro futuro.

I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare. Nonostante alcuni osservatori interpretino queste operazioni come un tentativo di indebolire le strutture militari della Repubblica Islamica o persino di favorire un cambio di regime, resta un’unica certezza: chi paga il prezzo più alto sono sempre i civili. Uomini, donne, bambini, esclusi dalla pianificazione della guerra come dalla progettazione della pace.

Nel frattempo, il popolo iraniano si trova a fronteggiare non solo una minaccia esterna, ma anche una profonda crisi interna. A seguito degli attacchi israeliani, il governo degli ayatollah, nel nome dell’emergenza, stringe ancora di più il pugno. Il paese ha visto un’escalation di repressione: arresti notturni di attivisti, incursioni nelle case dei dissidenti e gravi limitazioni all’accesso a internet in varie province. Il governo sfrutta lo stato di guerra per legittimare la violenza istituzionale, restringere lo spazio pubblico e controllare il discorso politico. In Kurdistan e nel Sistan-Baluchistan, regioni già martoriate dalle rivolte degli ultimi anni, la stretta è stata particolarmente feroce. Sono le stesse regioni che durante le recenti rivolte hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane.

Non è una novità. La Repubblica Islamica ha affinato nel tempo una strategia che potremmo definire “ingegneria del conflitto etnico” o “dividi e impera” con lo scopo di indebolire i movimenti di protesta. Fomentando la paura del federalismo e creando un’artificiale contrapposizione tra centro e periferia, le istituzioni statali sono riuscite a marginalizzare le rivendicazioni di giustizia sociale delle nazionalità oppresse; kurdi, baluci, arabi, turkmeni.

La realtà sul terreno dimostra che le comunità storicamente discriminate, nonostante la repressione persistente, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo centrale nella resistenza civile contro l’autoritarismo. Lo fanno chiedendo uguaglianza giuridica, partecipazione politica, giustizia sociale. Lo fanno nonostante tutto, pagando un prezzo altissimo. Perché ogni richiesta, ogni voce libera, viene letta come un attacco, come una richiesta di separatismo. Ogni resistenza come tradimento.

Ma la crisi che oggi attraversa l’Iran va ben oltre i suoi confini. La crisi attuale evidenzia come la mancanza di democrazia e di responsabilità istituzionale abbia trasformato il Paese in un campo di battaglia per le potenze esterne. Inoltre, i programmi nucleari, gli investimenti militari e l’opacità delle strutture decisionali hanno non solo logorato le risorse nazionali, ma anche creato terreno fertile per le ingerenze straniere.

Il popolo iraniano oggi sopporta due violenze: quella interna, dello Stato che reprime, censura, tortura; e quella esterna, delle potenze che si contendono l’influenza su un Paese mai pacificato. A queste si aggiunge una terza violenza, più sottile ma non meno devastante: quella dell’abbandono internazionale. Per la gran parte della popolazione, quello che conta è che la guida suprema Ali Khamenei lasci finalmente il potere. Ma non per questo è disposta ad accettare le ingerenze straniere, di Israele e di chiunque altro. A rendere ancora più incerto l’orizzonte c’è l’assenza di una alternativa politica forte e riconosciuta e di un progetto concreto per il dopo-Repubblica Islamica, un vuoto che, come le proteste brutalmente soffocate degli ultimi anni hanno mostrato, alimenta una profonda inquietudine collettiva sul destino del Paese.

In questo contesto, è responsabilità della comunità internazionale, in particolare dell’Unione europea e degli stati difensori dei diritti umani, andare oltre un ruolo meramente osservativo.

L’Europa e l’Italia devono offrire una narrazione indipendente sulla realtà iraniana: una narrazione che non sia subordinata agli interessi geopolitici ma che sia coerente con i diritti umani e la giustizia sociale. Esercitare una pressione diplomatica efficace sulla Repubblica Islamica per fermare la repressione interna, sostenere apertamente i media e gli attivisti indipendenti, facilitare vie sicure per l’asilo politico degli attivisti in pericolo e supportare i movimenti democratici non violenti: sono queste le azioni concrete che possono dimostrare che l’Europa è davvero dalla parte dei diritti umani.

(*) Maysoon Majidi è una regista, attrice e attivista nata nel Kurdistan iraniano, impegnata in difesa dei diritti delle donne e delle minoranze. Fuggita dall’Iran nel 2019, è approdata a Crotone nel 2023. Accusata di essere una scafista, ha trascorso dieci mesi in carcere. Nel febbraio del 2024 il Tribunale di Crotone l’ha assolta con formula piena, per non aver commesso il fatto.

da La Stampa

Come cittadine iraniane costrette a vivere fuori dall’Iran ma per questo libere di parlare a volto scoperto senza temere persecuzioni e arresti, vogliamo lanciare un appello urgente alla comunità internazionale affinché fermi gli attacchi contro le città iraniane da parte di Benjamin Netanyahu, accusato dalla Corte dell’Aja di crimini di guerra nei confronti della popolazione palestinese della striscia di Gaza. La società civile iraniana assiste inerme al prezzo più alto. Si tratta di una società civile giovane e progressista, che da anni lotta per porre fine alla dittatura religiosa della Repubblica Islamica con coraggio e determinazione, a costi altissimi. È la stessa società civile che, dopo l’assassinio di Mahsa Jina Amini, si è sollevata sostenendo il movimento “Donna, Vita, Libertà”. È stata la disobbedienza civile delle donne a far indietreggiare il regime, portando il Paese a un cambiamento sociale ormai irreversibile. Il popolo iraniano è sceso in piazza a mani nude, sfidando arresti, torture, detenzioni arbitrarie e morte: non ha chiesto l’intervento militare di potenze straniere per abbattere il regime, ha chiesto invece il riconoscimento e il sostegno al cammino verso la libertà e la giustizia intrapreso da chi, da oltre quarant’anni, promuove i valori di democrazia e uguaglianza. Oggi le voci più autorevoli di questa società civile sono sorvegliate a vista. Ogni loro parola sulla crisi attuale può costare il carcere. Eppure è a loro che dobbiamo dare ascolto, non ai missili.

Gli attacchi degli ultimi giorni, che nonostante la retorica bellica colpiscono sì i pasdaran ma anche civili e oppositori, non porteranno la libertà. Israele, o qualsiasi altra potenza straniera, non può e non deve essere l’artefice del cambiamento in Iran. L’Iran sarà libero. Ma sarà libero grazie alle sue figlie e ai suoi figli. Non con la violenza esterna, ma con la forza di una società civile che continua a resistere.

Chiediamo a chiunque creda nei valori della pace e dei diritti umani di condannare fermamente, e con indignazione, l’uccisione di civili in Iran e nel resto del mondo, scendendo in piazza, firmando petizioni e promuovendo ogni azione utile per fare pressione sulla comunità internazionale affinché fermi un altro massacro. Fate tutto ciò che è in vostro potere per fermare questa pericolosa escalation militare.

La storia dell’umanità insegna che nella guerra non ci sono vincitori: tutti ne escono sconfitti. La democrazia non può essere realizzata attraverso la guerra e la distruzione.

da Facebook

Tra le vittime dei raid israeliani su Teheran c’è anche la giovane Parnia Abbasi (2002-2025), poetessa e traduttrice. Una nuova voce della poesia iraniana contemporanea strappata al mondo per sempre, astro troppo presto spento dalla furia bellicista di un sistema politico globale ormai incapace di mediazione e dialogo.

Stella spenta,

ho pianto per entrambe

per te

e anche per me.

Tu che le stelle delle mie lacrime

soffi nel firmamento.

Nel tuo mondo,

la libertà della luce

nel mio mondo,

il gioco delle ombre.

Insieme passiamo

e la più bella poesia

da qualche parte

diventa silenzio.

Tu sorgi altrove

e sussurri

il pianto dell’esistenza

ma io ovunque

mi compio

mi consumo

e brucio come

una stella spenta,

dissolta polvere

nel tuo cielo.

(Parnia Abbasi)

da Facebook

È ricominciata la solfa della guerra fatta in nome e per conto della libertà femminile, quella delle donne iraniane oggi come quella delle donne afghane ventiquattro anni fa. Sappiamo com’è andata a finire in Afghanistan ma la storia, è noto, non insegna niente. Adesso è partita la fanfara della strumentalizzazione del movimento “Donna, vita, libertà”: l’Occidente di nuovo unito e in grande spolvero per salvare le iraniane dal patriarcato degli ayatollah. Malgrado si susseguano le voci femminili, spesso dall’esilio, che dicono «il nemico del mio nemico non è mio amico». Noi stiamo con loro dalla loro parte. Contro il regime iraniano che le opprime, contro il regime israeliano che aggiunge a questa oppressione la violenza efferata delle bombe, contro i regimi di guerra occidentali che abboccano all’ennesima prova di esportazione armata di una democrazia tanto sbandierata quanto sfigurata. Non in nostro nome, a tutte le latitudini e sotto qualunque regime politico.

da Avvenire

«Mantenete la calma, stringete i denti, sopportate questa situazione difficile e, soprattutto, continuate la disobbedienza civile». È l’appello che Shirin Ebadi, giurista e attivista iraniana, premio Nobel per la Pace del 2003, lancia alla sua gente, a Teheran, dall’esilio londinese. «È solo così – sottolinea – che si può portare il regime a cadere».

Si aspettava questa brutale escalation?

Avevamo il sentore che sarebbe potuto succedere, ma non adesso. Più che altro, temevamo un attacco israeliano in caso di fallimento dei negoziati sul nucleare. Non immaginavamo che potesse succedere mentre erano in corso.

Come hanno reagito gli iraniani?

Nei primi giorni, nelle prime ore degli attacchi, quando sono stati fatti fuori i capi Pasdaran, la gente era felice. È da più di quarantasei anni che il popolo iraniano lotta contro la dittatura religiosa. E tutti hanno pensato che questo scontro li avrebbe aiutati. Ma quando i razzi di Tel Aviv hanno cominciato ad attaccare le infrastrutture e a causare vittime tra i civili, la percezione è cambiata. Il premier Benjamin Netanyahu gli aveva tra l’altro mandato un messaggio a ricordare che israeliani e iraniani sono popoli amici. Gli attacchi indiscriminati che sono seguiti gli hanno presto fatto capire che non è così.

Odiano più Khamenei o Netanyahu?

In questo momento, odiano tutti e due.

Il premier israeliano ha lanciato agli iraniani anche un incoraggiamento alla ribellione: come è stato accolto?

Il popolo non ha dato retta a questo messaggio perché capisce da solo qual è il momento giusto per scendere in piazza a lottare. Lo ha già fatto in passato e lo rifarà.

Pensa dunque che da questa guerra possa davvero arrivare la spallata al regime dell’Ayatollah?

Non credo che la guerra contro Israele possa portare alla caduta della dittatura, la cui fine, definitiva e duratura, dipende dagli esiti della lunga battaglia che il popolo iraniano sta combattendo da anni per riappropriarsi del proprio destino. Finché questo regime sarà al potere, gli iraniani non potranno vivere in pace, anche se tra Teheran e Tel Aviv finisse la guerra. Il regime iraniano non rappresenta la società iraniana che disapprova la politica estera dell’ayatollah e dichiara di non essere nemica di nessun popolo.

Secondo lei il Paese – classe dirigente, donne, giovani – è pronto al cambiamento?

Assolutamente sì. Ci sono moltissime persone in grado di guidarlo verso un futuro di libertà. Tra questi ci sono molti dirigenti di medio livello, parte della struttura governativa ormai contrapposta al regime, che conoscono le difficoltà della gente, dai problemi economici alle violazioni dei diritti umani, perché vivono tra loro. Non sono affatto preoccupata per questo…

Cosa la preoccupa, allora?

Il regime è alle prese con la guerra contro Israele ma continua a colpire e martoriare la popolazione. Le autorità hanno dichiarato che chiunque diffonda notizie sulle conseguenze degli attacchi israeliani, foto e video delle devastazioni provocate dai missili di Tel Aviv, verrà incriminato. Nella città di Diaspur diverse persone sono state arrestate, semplicemente, per averle condivise sui social. Una femminista molto conosciuta, Mutaha Regulei, condannata e incarcerata per insurrezione ma liberata la scorsa settimana perché aveva scontato la pena, è stata di nuovo arrestata perché aveva scritto sui social una frase a criticare il conflitto in corso. Pare che il regime abbia dichiarato guerra a Israele e, insieme, al proprio popolo considerandolo un nemico da combattere.

È ancora possibile evitare che la crisi si estenda?

Non credo che questo conflitto possa diventare globale, e non vorrei assolutamente che succedesse. Sono sicura, anzi, che non durerà a lungo.

È pronta per tornare a Teheran?

Lo farei domani, se potessi. Io non ho paura del carcere che mi aspetterebbe in patria se facessi ritorno in questo momento, ci sono già stata. Ma penso che, adesso, sia più utile qui, in un Paese come il Regno Unito in cui posso parlare liberamente dando voce ai miei connazionali in Iran. Sto cercando anch’io di fare la mia parte.

da L’Altravoce il Quotidiano

Non è usuale raccontare la Resistenza attraverso i libri delle scrittrici partigiane. È quello che fa Annachiara Biancardino nel suo libro Scritture partigiane – La Resistenza nella letteratura d’autrici, Stilo Editrice. Un libro originale, che invoglia a leggere o rileggere le scrittrici della Resistenza, di cui lei ci parla. Attraverso i romanzi quali L’Agnese va a morire di Renata Viganò, il Diario di Ada Prospero, Raccontiamoci com’è andata di Gina Lagorio, Tetto Murato di Lalla Romano e Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, l’autrice analizza e interroga le forme di partecipazione delle donne alla Resistenza e i motivi che le hanno spinte a scegliere di unirsi alla lotta partigiana. Romanzi, che affondano le radici nella vita delle loro autrici, scritti tra «la grande stagione memorialistica partigiana» del dopoguerra, quando tra chi aveva partecipato alla lotta partigiana si diffonde l’«urgenza di raccontare la guerra civile» e «fissare sulla carta i propri ricordi», e «i tardi anni Cinquanta» quando «ciò che inizialmente era cronaca comincia a diventare letteratura» per «comunicare l’essenza ideologica di quella battaglia anche attraverso il ricordo delle vite che per essa si sono sacrificate». Le scrittrici partigiane ci insegnano che «la lotta partigiana non è solo una questione di eroismo militare, ma soprattutto di resistenza», «non glorificano il conflitto» ma scelgono di «descriverlo come un’esperienza umana» fatta di solidarietà tra donne, di «episodi bizzarri» come l’organizzazione di matrimoni tra partigiane e partigiani in un «clima di spensieratezza», di «scene di vita quotidiana», riunioni, conversazioni private, momenti di vita domestica come provvedere al cibo, cucinare e prendersi cura dell’altra/o, come fa Agnese, ribattezzata “mamma Agnese”. È la “Resistenza senza armi”, non violenta, comune a molte donne coraggiose che «mettono a disposizione la propria casa, accolgono e nascondono qualcuno, lo sfamano, gli prestano assistenza», esponendosi «al pericolo di una perquisizione, alla deportazione del capofamiglia e distruzione dell’abitazione». Atipico in questo panorama è il romanzo “introspettivo” di Lalla Romano. Tutte raccontano la Resistenza come “scuola di emancipazione” per le donne ed è Alba de Céspedes che narra la “frustrazione” sua e di molte donne, dopo la Liberazione, per «il mancato riconoscimento della partecipazione femminile alla Resistenza e la mancanza di una vera emancipazione». Protagoniste dei romanzi, spesso, sono le “staffette” o le “mater dolorose”, donne il cui antifascismo nasce «nel segno del lutto» dopo l’uccisione di un figlio, di un marito (come per Agnese), di un padre o di un fratello. In quanto donne vengono sospettate, più degli uomini, di tradimento col nemico, perché «ritenute più sensibili ai condizionamenti del cuore». Ed è il cuore che spinge Ada Prospero alla “pietas” verso i nemici che «restano comunque esseri umani», «perché sono anche loro dei figli di altri, ma pur figli». Scrivere per comunicare gli ideali della Resistenza alle generazioni successive è quello che spinge Prospero nel 1957 e Lagorio nel 2003, per preservare un ricordo che, per la prima, rischia di essere dimenticato e, per la seconda, distorto e cancellato dai «nuovi fascismi» che «si stagliano all’orizzonte».

Il libro si conclude con tre giovani scrittrici della letteratura “postmemoria”, nata nell’ultimo decennio del ’900. Simona Baldelli con il romanzo Evelina e le fate si ispira alla memoria della madre, Paola Soriga con Dove finisce Roma, storia di una staffetta adolescente, si ispira alle “antenate”, alle “scrittrici partigiane” e Nicoletta Verna con il suo romanzo storico I giorni di vetro. Tornare alle scrittrici partigiane, aiuta a pensare il presente.

da Il Post

«Deborah Feldman, autrice di “Unorthodox”, sostiene che in Germania l’ebreo perfetto, l’ebreo feticcio, sia colui che aderisce senza sbavature al modello di identità eretto sui due pilastri riconducibili alla colpa tedesca: la Shoah e Israele»

Nel 2012 mi passò sotto il naso l’esordio di Deborah Feldman. Si intitolava Unorthodox e raccontava la storia del suo abbandono della comunità chassidica dei Satmar. Qualche tempo fa ho deciso di contattarla e di parlare con lei di quello che sta succedendo in Germania rispetto a Israele e al mondo ebraico. Ai tempiin cui il libro uscì ed entrò nella lista dei New York Times Best Sellers, ero una donna separata che faceva avanti e indietro tra un figlio alle medie e una madre anziana in galoppante declino a cui volevo evitare di essere sradicata da casa sua, anche se quella casa stava a Monaco, la capitale del movimento creato da Hitler.

Era strano: anch’io avevo pubblicato un libro autobiografico misurandomi con una certa spietatezza con quella madre che, già allora, era il mio unico ingombrante legame di figlia, però quel legame non mi sono mai sognata di spezzarlo. I miei, approdati in Germania come due relitti, con il mio arrivo formarono un microrganismo a sé, pur essendosi già ricostruiti una vita grazie a un elegante negozio di scarpe italiane e, a partire da quello, tutto il resto: la reputazione, alcune vere amicizie, le occasionali frequentazioni mondane e, infine, i ritorni di mio padre in sinagoga, non per riconciliarsi con il dio dei padri, bensì per santificare, due volte l’anno, i suoi genitori e fratelli ridotti in nulla senza che l’onnipotente fosse intervenuto.

Secondo i Satmar, invece, non aveva risparmiato il suo popolo poiché questo aveva perduto la via. Chi era scampato doveva perciò seguirne i precetti con un rigore mai conosciuto. Nulla poteva essere uguale a prima della Shoah, neanche quei chassidim vestiti come nell’Est-Europa del Settecento però a Williamsburg, Brooklyn. Niente curava i traumi dei sopravvissuti, né l’osservanza più intransigente, né la capacità di assimilarsi sino a scomparire.

È questo che credo di aver capito dal confronto con Deborah Feldman, rivedendo la mia storia agli antipodi. In Germania crescevo a pane e prosciutto, con le amiche del liceo pubblico prendevo il sole in topless all’Englischer Garten e andavo a manifestare contro l’energia atomica, eppure avevo sempre attaccati i fili della mia vita strappata al passato di morte. A casa si taceva di ciò che era indicibile, e vigeva un silenzio simile a casa dei nonni che avevano cresciuto Deborah. L’annientamento del loro mondo in Transilvania era solo l’ultima delle persecuzioni tramandate dalla tradizione ebraica, una catena simile a un destino che imponeva di fare figli per colmare la perdita dei milioni scomparsi in Europa.

Non mi è mai stato imposto un tale fardello, neanche dovendomi occupare del funerale di mia madre e di tutti gli obblighi trascinatisi per anni finché potei chiudere nuovamente con la Germania proprio negli anni in cui Feldman, libera di reinventarsi, approdava a Berlino, dove non la conosceva nessuno, ma nell’anonimato di quella grande città straniera si sentì libera. Anche oggi, che è famosa e molto contestata, me lo racconta trasmettendo il senso pieno di quel nuovo inizio: «Non avevano neanche tradotto il mio libro, ma io pensavo: in fondo è la storia di una che scappa da una setta, una storia tipicamente americana, che gliene frega ai tedeschi?».

Dopo molti rifiuti, si trovò un piccolo editore svizzero, e questo magari dava una prima indicazione del fatto che con i Satmar i tedeschi avessero un problema supplementare. Unorthodox, in ogni caso, cominciò a vendere sino a entrare in classifica anche in Germania. Feldman fece presentazioni e interviste, diventò la prova vivente che proprio la Germania, il paese dove il nazismo era nato e cresciuto, poteva rivelarsi la terra promessa per quella giovane ebrea americana dal tedesco privo di accento. Alla fine arrivò anche la serie ideata insieme a Anna Winger e Alexa Karolinski, tutte donne, tutte ebree, tutte based in Berlin.

Come pressoché chiunque in Italia anch’io vidi la serie ispirata alla sua storia quando Netflix la lanciò. Eravamo in lockdown, attaccati come mai prima alle serie capaci di immergerci nella vastità di mondi senza mascherine, code distanziate, ambulanze ammassate davanti al pronto soccorso.

Amplificate da quella fame di evasione, Unorthodox rimescolava in me emozioni in conflitto: la corda profonda toccata dallo yiddish, la rabbia verso l’ebraismo ortodosso – quello non “ultra” – covata sin dal funerale di mia madre quando mi ero detta che nulla di ciò che amavo – i corpi in preghiera, i canti liturgici – compensava l’esclusione e la separazione delle donne. E così, parteggiando per la protagonista che le aveva subite e rifiutate nel modo più radicale, mi salì una voglia matta di andare a Berlino. Proprio in quella Berlino, anche se i nuovi amici di Esty – la Deborah reinventata della serie – così cool e carini nell’iniziarla alle libertà della metropoli multi-culti recitavano la parte più debole della fiction.

Non ricordo quando avessi cominciato a giocare con l’idea, fin lì impensabile, di poter rimettere piede in Germania. Un momento cruciale risaliva a quando qui avevamo il Salvini dei “porti chiusi” e loro ancora Angela Merkel, che davanti alle masse di profughi che chiedevano di essere accolti aveva dichiarato: «Ce la possiamo fare!». Da decenni l’Italia diventava sempre più retrograda e razzista mentre in Germania le persone di origine straniera erano politici accademici scrittori giornalisti dottori e persino i due scienziati nati in Turchia, che stavano sviluppando il miglior vaccino anti-Covid. E poi a Berlino ci finivano tutti: amici italiani, amici tedeschi, figli di amici, conoscenti che prendevano casa a un costo molto più basso rispetto a Roma e Milano, per non dire Londra o Parigi.

Forse un altro momento cruciale, però, stava nella parte berlinese della serie, in una scena così potente da oscurare le debolezze di ciò che viene prima e dopo. Un giorno Esty segue i nuovi amici al lago più frequentato in città. Indossa ancora gli abiti con cui è fuggita, caldissimi nel clima estivo, mentre i ragazzi sono già pronti a farsi il bagno in quell’acqua dove si specchia la natura verdissima. Sull’altra sponda si vedono le grandi ville novecentesche.

È già tutto un paradiso di promiscuità, proibito, quando il giovane tedesco che più la attrae fa una battuta rivolta tanto a Esty quanto agli abbonati di Netflix: qui al Wannsee si è tenuta la conferenza per organizzare le deportazioni. L’incantesimo è rotto, gli amici si tuffano perché «un lago è solo un lago», Esty rimane sulla riva, da sola. Ma poi avanza e, lentamente, si immerge levandosi la parrucca che lascia cadere nel Wannsee e galleggia tutta vestita salvo per i capelli rasati alla maniera delle mogli dei Satmar o delle detenute dei campi nazisti. La forza visiva di quella scena mostra e non dice: una storia al singolare, la storia di Esty, che risignifica la Storia, un presente dove esiste la libertà di buttare il passato, tutto il passato, nel fondo scuro di un lago.

E se una fiction è solo fiction con tratti da fiaba, in quella fiaba tedesca abbiamo creduto. Almeno io. Cinque anni fa appariva persino banale che l’eroina chassidica si ritrovasse in una comunità di giovani incontrati in un conservatorio ispirato a uno esistente: la Barenboim-Said Akademie creata dal direttore d’orchestra israelo-argentino Daniel Barenboim e da Edward Said, il massimo intellettuale palestinese. Sarebbe possibile, oggi, avere quel cast di ebrei – diasporici e israeliani – e arabi, compreso un palestinese? O fare uscire la serie senza grandi pressioni censorie e proteste furiose?

Eppure in quel passato recente Berlino si presentava come confluenza tranquilla di migrazioni, ricettacolo di diaspore mediorientali – siriana, iraniana, palestinese e, sì, pure israeliana –, punto d’incontro tra est e ovest dove chi era venuto per la libertà o il lavoro si incrociava nei discount con gli expat scappati dal deserto culturale delle metropoli per ricchi. Cos’avrebbe detto Walter Benjamin che, esule a Parigi, la definì «capitale del XIX secolo», nel vedere la sua Berlino assumere le sembianze di «capitale del XXI secolo», almeno in Europa?

La filosofa Susan Neiman, una delle prime americane giunte a Berlino, aveva creduto così tanto nell’inaudito di una nazione capace di prendersi la responsabilità dei propri crimini che, ancora nel 2019, pubblicò il saggio Learning from the Germans. Oggi invece è molto allarmata dalla visione di una «Germania sul crinale», come ha titolato la New York Review of Books un suo articolo sul rapporto tra i tedeschi e la questione israeliana.

Le interviste di Feldman risalenti a quegli anni somigliavano ancora a dichiarazioni d’amore reciproco. La Germania amava l’ebrea fuggiasca che l’aveva prescelta, la Deborah rinata a vita nuova ricambiava con fiducia e passione: dichiarando quanto nella lingua tedesca le risuonasse quella materna, quanto la cittadinanza ottenuta grazie a una bisnonna bavarese le sembrasse un atto di riparazione, quanto ormai si sentisse berlinese e, sì, anche tedesca.

L’innamoramento respinge il più a lungo possibile ogni colpo della disillusione, valuta il buono superiore al cattivo, le forze contrarie più robuste della rimonta del razzismo e del nazionalismo: ma anche a uno sguardo come il mio, distante, allenato alla diffidenza, la Germania di cinque anni fa appariva salda nel suo essere una democrazia matura e una società aperta. Tra quei segni positivi contavo anche il dibattito sulla «cultura della Memoria» diventata, secondo lo storico australiano Dirk Moses, il nuovo «Catechismo tedesco».

Quel dibattito, nell’estate del 2023, si è arricchito dell’ultimo libro di Feldman – Judenfetisch, “ebrei feticcio”: il suo primo scritto in tedesco e anche il primo a non raccogliere soltanto benevolenza. Il giornale delle comunità ebraiche lo ha definito «tossico». Nelle recensioni si fa largo anche una critica che punta su un’incoerenza estrinseca al libro: Feldman sostiene che la Germania premi le voci ebraiche che, in una sorta di performance sadomaso, bacchettano i tedeschi come un popolo che non potrà mai cambiare, ma poi che fa? Sta in tv e dappertutto, più celebre di tanti contro cui polemizza. A me, invece, la lettura di Judenfetisch ha dato l’impulso di mettermi in contatto con lei.

La connessione era instabile, così siamo passate a parlarci come in una telefonata d’altri tempi, pur non essendoci mai incontrate. Lo schermo nero annulla l’equivoco di vedere coordinate significative nella stanza dell’altro: lei nel suo quartiere popolare multietnico, io in una cittadina lombarda, che non le dice niente.

«Dove te ne andresti se decidessi di fare le valigie?», le ho chiesto.

In yiddish, la lingua in cui lei e mio padre sono cresciuti, l’ebreo con la valigia a portata di mano, anche se radicato in un luogo, si chiama valiske.

«Ne discutiamo ogni giorno», mi ha risposto, riferendosi agli amici con cui ha fatto comunità a Berlino. Nel breve silenzio dell’attesa, visualizzo una mappa dove i paesi da depennare sono sempre di più. Feldman ha in mente il nord, le piacciono gli inverni newyorkesi della sua infanzia, le giornate un po’ depressive durante le quali si legge molto, e poi calcola pure il cambiamento climatico.

«Non hai idea quanto mi odino qui».

Provo a dirle che c’è anche chi la ama proprio perché non si censura. «Eh», risponde «ma tra quelli quasi nessuno è “biodeutsch”».

Quando lo sentii la prima volta, quel neologismo era un modo ironico per chiamare i “veri tedeschi”, ma poi se l’è preso la destra a cui mancava giusto un vocabolo aggiornato e corretto per ristabilire un discrimine su base etnica. È difficile stare dietro a una lingua vivendo dove ne parlano un’altra.

«Sai», le ho detto, «quando me ne sono andata dalla Germania, nei primi anni ’80, il discorso sulla Shoah era giusto agli albori, innescato dalla serie tv Olocausto che oggi sembra vecchia sino al ridicolo. Ma lo avvertivo già allora, il peso insopportabile di dover rappresentare la figlia di sopravvissuti. La scelta dell’Italia c’entrava con il desiderio di vivere come una persona normale, la dimensione che tu hai creduto di trovare a Berlino. E quando nel 1989, io che ormai mi consideravo legata solo alla lingua e letteratura tedesca, compresi che la mia fiaba meravigliosa, l’esordio come poeta presso l’editore di Paul Celan e Walter Benjamin, non era immune dall’interesse di mettere in catalogo esempi di una cultura ebraico-tedesca finalmente risorta, mi sentii così strumentalizzata da passare d’istinto a scrivere in italiano».

Leggendo Judenfetisch è chiaro che per Deborah Feldman, la persona ebrea, l’individuo con la sua storia, le sue idee e appartenenze plurali, in Germania è ridotta a oggetto di proiezioni diventando, appunto, feticcio. Nel filosemitismo che domina il presente, Feldman vede il rovescio dell’antisemitismo passato. Nel compito morale di scovarlo e combatterlo, un ossessivo rito autoreferenziale. Elencando il numero sorprendente di convertiti in posizioni di potere o rappresentanza, Feldman sostiene che in Germania l’ebreo perfetto sia colui che aderisce senza sbavature al modello di identità eretto sui due pilastri riconducibili alla colpa tedesca: la Shoah e Israele. È una tesi che ha scritto e pubblicato prima del 7 ottobre 2023 e della guerra su Gaza, cosa che rende il suo libro ancora più irricevibile o sciaguratamente profetico, a seconda dei punti di vista.

È vero che in Germania – a partire da Berlino – la polizia è intervenuta contro le proteste per Gaza con tempestività e durezza superiore agli Stati Uniti di Biden o all’Italia di Giorgia Meloni: vietando presidi indetti da gruppi pacifisti israeliani, arrestando dimostranti con la kippah, non risparmiando le manganellate in primo luogo a chi avesse un aspetto “islamico” e dunque sospetto di islamismo pro-Hamas. Cancellato l’invito alla Buchmesse della scrittrice palestinese Adania Shibli che risiede a Berlino, ridotte ai margini le voci dei palestinesi viventi in Germania. Cancellato il conferimento del premio Hannah Arendt a Masha Gessen, dopo un suo articolo sul New Yorker dove si era spinta a paragonare la condizione a Gaza a quella dei ghetti ebrei. Il paragone era contestabile, salvo che proprio Hannah Arendt, l’autrice di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, esprimeva idee ben più offensive sulla Shoah e su Israele.

Secondo Emily Dische-Becker di Diaspora Alliance, un network internazionale che si propone di contrastare sia l’antisemitismo che le sue distorsioni, circa un terzo degli eventi annullati in Germania ha riguardato ebrei critici di Israele. Tra questi quelli dell’artista Candice Breitz, della filosofa Nancy Fraser e del sociologo Moshe Zuckermann, accusato di antisemitismo.

Il verdetto su chi sia da ritenersi antisemita spetta al Beauftragter der Bundesregierung für jüdisches Leben und den Kampf gegen Antisemitismus – ossia il commissario del governo federale per la vita ebraica e la lotta all’antisemitismo – affiancato dagli analoghi commissari nei maggiori Länder. Felix Klein, il commissario supremo, è stato il primo relatore a ritirarsi da una conferenza contro l’antisemitismo a Gerusalemme vedendo che tra gli ospiti invitati dal ministro della diaspora israeliano figuravano troppi politici dell’estrema destra europea.

Sarebbe persino comico, se la situazione tedesca non avesse dei tratti kafkiani: né Klein né gli altri commissari “per la vita ebraica” hanno origini ebree. Sono insomma dei “Biodeutsche” a decretare chi è un ebreo come si deve, dando ragione alla tesi polemica di Feldman. E lo decidono in qualità di funzionari statali, poiché la Repubblica federale considera Staatsräson, “ragion di Stato”, la tutela della vita ebraica in Germania. E in Israele. Così a giugno 2024 è stata approvata una legge sulla cittadinanza che dai richiedenti esige una dichiarazione sul diritto d’esistenza dello Stato ebraico, a novembre una risoluzione promossa da tutti i partiti e votata anche da AfD, Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra, per creare ulteriori strumenti contro l’antisemitismo. Pressoché l’intero spettro politico si è dunque trovato concorde nel porre la Staatsräson al di sopra del Grundgesetz, la Costituzione, che al pari della nostra aveva rifondato la Germania sui diritti inalienabili della persona.

La minaccia antisemita viene individuata principalmente a sinistra, travestita da antisionismo, e viene raccontata come un problema d’importazione legato alla presenza musulmana, e questo anche se nelle statistiche impostate secondo tali criteri la metà degli episodi di antisemitismo proviene dall’estrema destra sempre più violenta. Dopo che non solo AfD ma anche Friedrich Merz, il cancelliere, leader della CDU, ha fatto campagna elettorale promettendo l’espulsione di ogni immigrato in odore di “islamismo”, all’inizio di aprile le autorità di Berlino hanno consegnato il foglio di via a quattro studenti occidentali attivi nelle proteste per Gaza, accusandoli di essere “sostenitori di Hamas” (espulsione sospesa a metà del mese scorso). Qualche giorno fa la Germania – insieme all’Italia – si è distinta come il più potente membro dell’Unione Europea a votare contro la decisione maggioritaria di sospendere l’accordo commerciale con Israele per sanzionare il blocco degli aiuti per Gaza.

A spingere la politica tedesca a criticare finalmente l’operato israeliano è stato solo l’incombere della morte per fame di migliaia di bambini. Ma tutti ribadiscono che la speciale lealtà verso Israele rende doveroso proseguire i colloqui a porte chiuse, come se le esortazioni dei “bravi tedeschi” potessero avere un peso maggiore di quelle di Trump, l’amico cattivo, che attualmente dà più valore all’aereo di lusso del Qatar che ai terreni beachfront di Gaza.

Anche se ormai è esplicito che Israele è pronto a rioccupare la Striscia con la pulizia etnica e a sacrificare gli ultimi ostaggi, la posizione tedesca resta tra le più morbide. Ma un mese fa sarebbe stato impensabile che, a Berlino, una rappresentanza nutrita di israeliani si sintonizzasse con altre città europee nel chiedere, in solidarietà con gli attivisti a Tel Aviv o alla frontiera di Gaza, STOP ARMING ISRAEL e STOP THE GENOCIDE, senza che la polizia accorresse per far sparire quei cartelli “antisemiti”.

Pochi giorni prima della nostra conversazione, Feldman era tornata da un viaggio nei territori palestinesi, scortata da alcuni attivisti di B’Tselem, la principale ong israeliana per i diritti umani. C’era andata durante il cessate il fuoco a Gaza, quando la violenza dei coloni e dell’esercito si era spostata sulla Cisgiordania. Ma non si era ancora ripresa da ciò a cui aveva assistito: «Mi aspettavo dei fondamentalisti fanatici. Però avevo un’idea ingenua di questi coloni, gente che lavora la terra, la terra dei Padri. Non questi ragazzi armati a cavallo che passano le giornate a fare raid nei villaggi palestinesi. Come nel Wild West, come se a muoverli fosse soltanto la possibilità di farlo: distruggere, scacciare, o peggio». Negli insediamenti “legali” in realtà si coltiva anche e ci si vive come in una rete di gated communities, ma questo non rende meno suggestiva l’intuizione di Feldman. Non è plausibile che le ideologie delle destre, riferimenti religiosi compresi, servano da copertura all’imposizione della “legge del più forte”, del Wild West, appunto?

Deborah Feldman prevede che Israele avrà una maggioranza religiosa, composta da ultraortodossi e ultrasionisti religiosi. Gli uni chiusi nelle loro comunità, gli altri nelle colonie, si odiano a vicenda: ma quando il processo autoritario in corso instaurerà una teocrazia ebraica (o una democratura teocratica), si attenuerà la spaccatura tra quelli che attendono il Messia studiando e pregando e quelli che, riconquistando ogni sasso dell’antica Israele, vogliono letteralmente spianargli la strada. Questo credeva Deborah Feldman, prima di avventurarsi oltre il Giordano.

Pochi giorni dopo la nostra conversazione, Feldman è stata a Monaco, la mia città, nella grande, acusticamente perfetta “Carl-Orff-Saal”, dove portavo mia madre a sentire quella musica classica che la incantava e placava. Ci è andata per presentare un concerto di raccolta fondi per Gaza insieme alla giornalista tedesco-palestinese Alena Jabarine. Dopo di loro il Nasmé Ensemble, composto da cinque musicisti palestinesi, si è esibito assieme a Michael Barenboim, primo violino e figlio di Daniel.

Michael Barenboim, che porta avanti il lavoro della West-Eastern Divan Orchestra e insegna alla Barenboim-Said Akademie di Berlino, è una delle voci a cui i media tedeschi concedono più spazio per esprimersi a fianco dei palestinesi, forse per il suo prestigio internazionale, forse perché è di casa a Berlino. L’evento è stato promosso a scopi umanitari, ossia non troppo apertamente politici, e non ha subìto cancellazioni. La fiaba è finita, la realtà si inventa qualcosa per resistere.

(*) Nata nel 1964 a Monaco di Baviera, in Germania, in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre quarant’anni. Ha esordito in tedesco con la raccolta di poesie Ins Freie (Suhrkamp, 1989), ma dal 1997 scrive in italiano. Con La ragazza con la Leica (Guanda, 2017) dedicato alla fotografa Gerda Taro, ha vinto il Premio Strega 2018.

«Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di che cosa siamo fatti». Questa frase lapidaria e acuta come una freccia di Han Kang mi ha fatto riflettere sul senso del libro di Rosella Prezzo Guerre che ho (solo) visto. È il secondo libro di Rosella Prezzo di cui discutiamo in Libreria. Il primo che ho proposto è stato Trame di nascita e non è un caso. Siamo ai fondamenti della vita.

Di questo libro mi ha colpito la forza simbolica della nominazione che Rosella conduce, cioè la precisa disamina linguistica dei nomi delle guerre a noi contemporanee. Una semantica della guerra: guerra giusta, umanitaria, intelligente, pulita, etnica, preventiva, cibernetica, tecnologica. Ossimori che sanguinano. Ogni guerra ha il suo fine, il suo scopo, il suo nome: la guerra umanitaria fu una guerra pulita con le bombe intelligenti. Cito: «Noi vedevamo sugli schermi scie luminose nel cielo. Nessun morto fra chi la dichiarava». Scorrendo il sommario ecco due titoli che mi hanno fatto riavvolgere il nastro del tempo di ciò che abbiamo visto e vissuto:

– Ciò che di noi non abbiamo visto nella guerra della ex Jugoslavia

Guerra all’origine

L’autrice si sofferma su una guerra dimenticata, quella dell’ex-Jugoslavia, alle porte dell’Europa, molti anni prima dell’Ucraina. Riprende il tema della posta in gioco con riferimento a Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia. Quando l’oggetto del contendere svanisce nell’indeterminato, qualsiasi composizione del conflitto diventa impossibile. La posta in gioco diventa il tempo, nella forma fantasmatica delle origini. Cito a p. 67: «Il tempo mitizzato delle origini da occupare e da detenere è stato il fantasma di quella guerra, come di molte altre guerre: lì dove, sottratti al tempo e alla parola della storia, desideri allucinati di onnipotenza vagano senza fine nella loro non negoziabilità […]. Un mito di per sé dis-umano».

Perché ci riguarda oggi e ci aiuta a pensare? Vediamo il protrarsi della guerra in Ucraina per l’impossibilità di porre sul tavolo un oggetto trattabile. La posta in gioco si sposta continuamente da entrambe le parti. È l’ideologia della purezza, la paura dell’altro da sé. Per esempio in Polonia nel febbraio del 2022 sono arrivati tre milioni di profughi, anzi profughe, soprattutto donne con bambini, e sono state accolte perché di pelle bianca. I polacchi non accolgono migranti di altre etnie, così come in Bielorussia e nei paesi Baltici e oggi questo processo sta contaminando anche altri paesi europei. Non a caso le basi dei droni che controllano il Mediterraneo sono a Varsavia e a Malta. Quelli guidati a distanza che sorvegliano il Mare Nostrum per intercettare i migranti che partono dalla Libia per portarli indietro e non farli arrivare da noi. Sono alla base del sistema Frontex.

«In realtà la prima guerra guerreggiata in Europa dopo il ’45 è stata proprio quella jugoslava» (p. 69). L’intervento della Nato in Serbia e il bombardamento di Belgrado per 78 giorni nel 1999 «ha segnato la rottura violenta del tabù della guerra sancito dalla Corte di Helsinki nel 1975 che prospettava un’Europa di dialogo e di pace, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale» (p. 69).

Maria Luisa Boccia e Danilo Zolo hanno denunciato l’inganno di definirla “umanitaria”. Con la potenza della semantica sono stati alimentati la metabolizzazione e l’oblio del passato. Si tratta sempre di una battaglia della narrazione e oggi sempre più di fake news e di propaganda.

Capitolo III, pp. 75/76. L’autrice si/ci chiede: «Di cosa parliamo quando parliamo di pace? Il fatto è che se, da sempre, abbiamo racconti, discorsi e retoriche [di guerra] […] niente di tutto ciò è accaduto per la pace. Come se, qui, ci trovassimo di fronte a un vuoto teorico e di visione». E, più avanti: «Per questo, pensare e dire la pace significa, anzitutto, pensare l’impensato della pace. […] È un compito arduo, la cui prima mossa è la fuoriuscita dalla dualità pace/guerra in cui la pace si dà semplicemente in negativo, come assenza di guerra o come sua conclusione. Dove essa è per di più confusa, da un lato, con la sicurezza, che un regime securitario garantirebbe; e, dall’altro, con il sogno del desiderio incantato della “pace nel mondo” […].» Qui sono indispensabili le pensatrici e le scrittrici del Novecento, che si sono spinte a ripensare le radici della nostra cultura per uscire dal cul de sac in cui ci troviamo. Cosa significa pensare l’impensato della pace? È il titolo del III capitolo, in cui Rosella Prezzo riprende il pensiero di Simone Weil sulle istituzioni da inventare. “Una filosofa in prima linea” il titolo del paragrafo, e il testo di riferimento è La Prima radice (L’enracinement). Continua poi con Virginia Woolf, Pensieri di pace durante un’incursione aerea in cui l’autrice si propone di «combattere con la mente» la sua lotta per liberare la mente dalle idee acquisite che le impediscono di immaginare altro. Conclude, nel paragrafo intitolato “La pace, un’intima rivoluzione”, con l’Antigone e l’Agonia dell’Europa di María Zambrano, la quale auspica una «“discesa agli inferi” della propria storia», per svelare «l’implicito immaginario che ha portato ai regimi totalitari», operazione indispensabile a non riprodurre «l’identico, pur camuffato» (p. 87).

Segue una breve ma significativa antologia di testi scelti dall’autrice che vale la pena di leggere o rileggere.

da Facebook

Si è tenuto ieri, presso l’Università degli Studi di Palermo, il convegno “Morti e sparizioni di frontiera: tra Memoria e Oblio”.

Un momento, non solo un evento, che attraverso i corpi, la presenza, la voce e la lotta plurale e coraggiosa delle famiglie ha raccolto le istanze di madri, sorelle, fratelli e intere comunità per la verità e la giustizia.

Con le proprie istanze, la pretesa di essere ascoltate, la testimonianza delle storie di vita e dell’esperienza di lutto e ricerca delle persone care scomparse, gli interventi tecnici presentati, hanno rappresentato un importantissimo incontro e dialogo di impatto politico ed emotivo tra le madri tunisine, sorelle guineane, ivoriane e le sorelle di chi è stato ucciso dentro un CPR come Ousmane Sylla, le famiglie afgane di chi è stato fatto morire nella strage di Cutro, le autorità competenti, esperti in materia di identificazione e ricerca delle persone in mare, per esigere di essere ascoltate, di essere supportate in quella estenuante ricerca.

L’aula che ha ospitato l’incontro si è trasformata in uno spazio vivo di memoria e resistenza: fotografie, striscioni, corpi e voci hanno dato forma e sostanza a un’assenza che chiede riconoscimento. Le donne presenti, portatrici di una testimonianza diretta e dolorosa, hanno denunciato l’oblio istituzionale e il silenzio che circonda le morti di frontiera, trasformando il proprio dolore in una rivendicazione collettiva di giustizia trasformativa.

Non un semplice evento, ma un momento corale, forte e coraggioso, in cui è emersa con chiarezza l’urgenza di dare risposte concrete alle famiglie, di costruire meccanismi trasparenti di identificazione e restituzione dei corpi, di garantire il diritto alla verità per tutte e tutti. Le istanze avanzate dai familiari non sono solo personali, ma politiche: una voce plurale che rompe il silenzio e si oppone alla disumanizzazione delle frontiere, all’oblio in cui le famiglie restano senza la possibilità di ottenere risposte e un visto per venire fisicamente a cercare i propri figli.

L’incontro ha posto l’accento sull’importanza della memoria come atto di resistenza e sulla necessità di un impegno condiviso – istituzionale, accademico, civile – affinché nessuna persona scomparsa resti senza nome, e nessuna famiglia senza risposte.

Grazie potente alle familiari:

Jalila Taamallah, Hajer Ayachi, Samia Jabloun, Awatef Daoudi, Kmar Zwebi, Mariama Sylla, Adama Barry, Aminata Mboye, Bintou Toure, Waf o Leandry Soho, Rahman Farazi, Fatoumata Balde, Laila Temori, Farzaneh Maleki, Asif Jafari, Oumaima Mrouki, Zahra Barati, Masuomeh Jafari Mohammadi, Shahid Khan, Rafi Abassi, Duaa Alhlou, Nourhene Khenissi

da il manifesto

L’organizzazione ebraica Jüdische Stimme für gerechten Frieden in Nahost (Voci ebraiche per una giusta pace in Medio Oriente) è di nuovo sotto il mirino delle autorità tedesche. L’Ufficio per la Protezione della Costituzione, a seguito di un’estesa indagine dei servizi segreti tedeschi, l’ha definita un’organizzazione «estremista straniera» insieme al gruppo Palestina Spricht e a qualsiasi gruppo associato al Bds (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni), insinuandone di conseguenza l’antisemitismo.

Il recente rapporto dell’Ufficio federale – che a maggio aveva definito estremista Afd, ponendo dunque sullo stesso piano il partito di estrema destra e un’associazione di ebrei pacifisti – afferma che Jüdische Stimme sta perseguendo «alcuni tentativi estremisti». La motivazione è il suo sostegno al Bds che il parlamento tedesco dal 2019 considera illegale e antisemita perché lede l’esistenza dello Stato israeliano. L’argomentazione del rapporto diventa ancora più grave quando definisce sentimenti anti-apartheid e contro l’occupazione israeliana come pericolosi per la vita ebraica in generale. Jüdische Stimme ha commentato: il rapporto «sottolinea l’impegno dello Stato tedesco a ignorare il diritto internazionale».

La scorsa primavera, durante un dibattito con Anpi Berlino Brandeburgo, Iris Hefets, psicanalista israeliana portavoce di Jüdische Stimme, era intervenuta sulla recente Risoluzione sulla protezione della vita ebraica in Germania, risalente alla precedente legislatura, e su come le linee guida fossero estremamente discriminatorie e pericolose. La risoluzione classifica per etnia e cultura comportamenti accettabili e non, citando residenti arabi e nordafricani come conflittuali, dando ai sostenitori tedeschi della risoluzione di Spd, Die Grüne, Fdp, Cdu, Csu, carta bianca nello strumentalizzare la memoria storica dell’Olocausto per propria convenienza e costruendo giustificazioni per misure repressive. La stessa Amnesty International Germania aveva sottolineato la gravità della risoluzione per i diritti fondamentali.

Ed eccoci arrivati agli episodi delle ultime settimane in cui di nuovo Iris Hefets lo scorso venerdì, alla fine di un sit-in organizzato dalla Linke a Neukölln, è stata brutalmente portata via da sette agenti e trattenuta per oltre un’ora per verificare il suo cartellone che mostra la stella di David con i colori della Palestina e la scritta «Another jew for a Free Palestine» (Un’altra ebrea per la Palestina libera). Lo stesso cartellone che porta sempre alle manifestazioni pro-Palestina e che le è già valso un procedimento in corso. È la quarta volta che viene arrestata.

A Berlino chiunque si schieri contro il genocidio diventa oggetto d’osservazione dei servizi segreti. I disordini creati dai reparti della celere alle manifestazioni si intensificano sempre più, con le forze dell’ordine che senza motivo entrano nei cortei e prendono a pugni in faccia inermi ragazze ventenni. Che ora un’organizzazione ebraica antisionista venga accusata di «estremismo straniero» dovrebbe indurre un pubblico critico a riflettere e a intervenire.

dal Corriere della Sera

Luisa Muraro, ottantaquattro anni, e Jennifer Guerra, trenta. Da “vittoria” a “legami”, com’è cambiato il modo di nominare e difendere i diritti. Anche da un nuovo nemico: l’“io”

Sulla porta dello stabile di via Dogana 2, a Milano, c’era in origine un cartello: «Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista». Ora quel cartello non c’è più e nel frattempo la Libreria delle donne di Milano, che quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività, ha anche cambiato sede, trasferendosi in via Calvi, non lontano da piazza Cinque Giornate. Oggi questo luogo è la casa del femminismo della differenza italiano, il “salotto più comodo del femminismo più scomodo”, sulle cui poltrone si sono sedute alcune delle più importanti pensatrici e femministe dell’Italia e del mondo intero.

La sua fama è inevitabilmente legata alla filosofa Luisa Muraro, ottantacinque anni il prossimo 14 giugno, che insieme ad altre figure come Lia Cigarini, Elena Medi e Giordana Masotto fondò la libreria nel 1975, un luogo per «mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili», come si legge in uno dei primi Sottosopra, la storica pubblicazione della Libreria. La Libreria non è mai stata solo luogo di letture, ma anzi e soprattutto luogo di invenzione, anche in polemica col femminismo di allora, impegnato nella lotta per la partecipazione democratica. Centrale fu l’incontro di alcune con la femminista francese Antoinette Fouque e col suo gruppo Psy et Po [Psychanalise et Politique], che ispirò le milanesi non solo ad aprire un’analoga Librairie des Femmes, ma anche a esplorare pratiche e teorie ancora inedite nel movimento, come l’idea che le donne non sono tutte uguali.

Ed è proprio intorno al binomio uguaglianza-differenza che si svolgono cinquant’anni di attività della Libreria, a partire dal famoso Sottosopra verde intitolato Più donne che uomini del 1983, che rappresentò una svolta cruciale e, per molte, anche la chiusura di un capitolo del movimento femminista italiano. Lì le donne della Libreria affermavano “la voglia di vincere”, dopo anni passati a pensarsi come una minoranza. «Non è qualcosa che dicevamo così per dire», racconta Luisa Muraro. «La voglia di vincere c’era, ed era efficace. La riconosco come una parola che ci caratterizzava e ci ha spinte ad agire. Voleva dire non riconoscersi nel “di meno” dell’esperienza femminile, ma nel “di più”». È qualcosa che oggi noi giovani femministe facciamo fatica ad associare al femminismo, non solo perché ci sembra di essere ben lontane da una vittoria, ma anche perché spesso siamo portate a concentrarci più sui nostri problemi contingenti che sulla dimensione costruttiva del nostro essere donne.

Questo è un altro punto di distanza col femminismo attuale: non è raro sentire in Libreria che «il patriarcato è finito». La prima volta che ho sentito questa frase sono balzata dalla sedia. “Patriarcato” è una parola che anima i nostri dibattiti e le nostre analisi, e la parola che Elena Cecchettin ha scelto per spiegare le vere ragioni del femminicidio della sorella Giulia. Ma allora perché, chiedo a Muraro, se il patriarcato è finito io continuo a viverlo sulla mia pelle? La filosofa mi invita a cambiare prospettiva: «Per noi il patriarcato non si manifesta più, nel senso che non ha più forza, non ha più mordente. La nostra stessa esistenza è la prova che il patriarcato è finito». Quindi per voi il patriarcato è più un sistema simbolico che materiale?, le chiedo ancora. E se è finito, perché gli uomini uccidono ancora le donne? «Perché non hanno più voglia di combatterle, quindi rimane soltanto l’odio per la loro baldanza, per la loro libertà. E questo odio è così forte che uccidono anche le donne che non vi si oppongono».

All’ordine simbolico patriarcale Muraro e le altre hanno contrapposto un ordine differente, che è quello della madre. Ecco un altro tema che ci distanzia. “Materno” è una parola che a noi giovani fa un po’ paura, perché ci vediamo – forse sbagliando – un’esaltazione della maternità e la creazione di una gerarchia tra donne, prima le madri poi le non madri, faccio notare alla filosofa. «C’è la maternità come fatto e la maternità come dispositivo simbolico, sono due cose diverse. Io stessa sono una madre che non si identifica con la figura della madre. La dimensione della maternità non è mai assoluta, e questo fa sì che si possa anche non essere madri per partecipare a questo ordine, che mette al mondo la forza femminile».

La riscoperta del legame con la madre, secondo Muraro, ha reso il gruppo della Libreria una minoranza nel panorama femminista, che con l’autocoscienza aveva tagliato i ponti col ruolo materno, oltre che con le madri vere e proprie. «La riscoperta dell’affetto per la madre porta con sé anche una sorpresa: il riconoscimento di un legame altrettanto profondo con le altre donne, che diventano amiche, compagne di percorso», spiega Muraro. «Prima avvertivo questa potenza, ma è solo quando ho iniziato a lavorare con le donne che l’ho capita fino in fondo». Questa relazione non solo consente alle donne di trovare una collocazione, ma consente di trovare «parole proprie che hanno un peso nel mondo».

Oggi quando si parla di linguaggio in ambito femminista si pensa quasi sempre a questioni formali, dai nomi professionali declinati al femminile al dibattito sulla schwa. Ma per la Libreria si tratta di un altro piano: «Riconoscersi, prendere la parola e farla contare». Un processo in cui un pronome spicca su tutti gli altri: io. Non l’io dell’individualismo in cui spesso scivola il femminismo egemonico di oggi, in cui a contare è il successo della singola donna, ma un io collettivo che si rafforza nella relazione con le altre. Che nella Libreria delle donne di Milano va avanti da cinquant’anni.

da Lucy-Sulla cultura

«Succede una cosa così, enorme, che coinvolge una persona che hai conosciuto bene, che viene accusata di avere responsabilità in una strage e di essersi suicidata, e loro ci sono», racconta Claudia Pinelli, figlia di Giuseppe “Pino” Pinelli e Licia Rognini, mentre un pigro sole si fa spazio nel pallore milanese. Con “loro” Claudia si riferisce ai parenti marchigiani di sua madre. «Non era scontato» perché, quando suo padre muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, precipitando dalla finestra della questura di Milano, c’è chi crederà alle versioni ufficiali e alle menzogne raccontate inizialmente dalla stampa.

«Senigallia è stato un luogo rifugio», continua Claudia. Lì Licia Rognini Pinelli poteva essere se stessa, senza maschere e ruoli. «Qui non era solo la vedova di», e i suoi familiari senigalliesi non hanno mai avuto dubbi sulla posizione da prendere. La casa di Anna, la cugina di Licia, affaccia sul Misa, il fiume che divide Senigallia in due metà. Ai muri si alternano dipinti e fotografie d’epoca in bianco e nero, alcune un po’ sbiadite. Anna ne prende una che raffigura tre ragazze intente a chiacchierare sulla Terrazza centrale del Duomo di Milano. «“Venitemi a trovare ma portate da mangiare”, ci diceva, e noi salivamo a Milano con la macchina». Era Pino quello che cucinava in casa. «Quando veniva qui voleva rilassarsi, non voleva parlare molto di quelle cose. Lei non diceva, e noi non chiedevamo», specifica Anna, «ma è stata sempre grintosa, questo scrivilo. Una donna seria, come si vede nelle foto». Nei giorni a cavallo della strage di piazza Fontana e la morte di Pinelli l’aria era irrespirabile: Licia si sentiva soffocare, stretta tra un’iniziativa e un’altra e marcata dai troppi ricordi, con l’ambiente politico locale che a ogni anniversario si riempiva di voci, parole, sconosciuti. Allora partiva da Milano, in un viaggio lungo e segnato da un groviglio di sentimenti: le campagne marchigiane si aprivano nella loro sinuosità, con le case basse e colorate vicino alla costa e l’Adriatico piatto e sabbioso a difendere l’orizzonte. Licia cercava un posto dove poter sparire e allontanarsi dalle pressioni, spiega Claudia, che la mettesse al sicuro da sguardi invadenti. E Senigallia era il luogo ideale: c’era il rumore del mare, lo sguardo schivo del paese e la riservatezza ruvida dei marchigiani. Non si poteva andare via definitivamente da Milano, prosegue Claudia, «perché sarebbe stato un dargliela vinta», ma serviva un luogo più protetto per lei e Silvia, ancora bambine, almeno d’estate. Licia allora aveva comprato una casa da ristrutturare, che portava ancora i segni del terremoto che nel 1930 aveva scosso la città, ma in una buona posizione: vicino alla ferrovia che costeggiava la spiaggia chiara e arenosa e ne attutiva il suono. L’ostilità del vicinato era tangibile, l’atteggiamento maldisposto si ripercuoteva nei piccoli gesti della vita quotidiana, nei dispetti dettati dalla diffidenza e dalle voci diffuse su Pinelli. E all’inizio non fu semplice. «Scendeva con un suo carico non indifferente di preoccupazione e tensione», precisa Claudia, «ma non ha mai modificato il suo comportamento, sereno e dignitoso, cercando di preservare la sua vita privata», perché la battaglia che Licia ha portato avanti non era per se stessa o solo per il marito assassinato, ma per tutti. «Non è scontato resistere come ha fatto lei, malgrado le delusioni e le porte in faccia. Scontrarsi contro i muri di gomma innalzati dalle istituzioni, lottare per anni per avere risposte», affrontare un potere che è creduto e che si avvale dell’informazione per consolidare la propria versione. «Le cose non sono andate così», contestava Licia, «non come ve le hanno raccontate», ed è andata avanti con la sua lotta.

Irma Diambra e Giovanni Rognini, genitori di Licia, lasciarono Senigallia per Milano alla fine degli anni Venti, quando arrivò la chiamata dalla Pirelli. Licia aveva 18 mesi. Senigallia era un luogo di migrazione, il lavoro scarseggiava. «Mio nonno non aveva preso la tessera del fascio, e pur essendo falegname nessuno gli dava più lavoro», spiega Claudia. Da lì il trasferimento, e nelle Marche si tornava solo durante le ferie. A Licia il mare non piaceva, ma Senigallia era un luogo a cui era profondamente legata, e così anche Pino. «Mamma mia, quant’era svelta quando camminava. Io non ci stavo dietro!», ridacchia Anna, sistemandosi un ciuffo grigio dietro l’orecchio. Si andava anche in spiaggia, si faceva il bagno, qualche volta al cinema. L’emozione offusca la memoria di Anna mentre parla dell’affetto che la lega a Licia: nei ricordi si intrecciano le date, qualche nome, i dettagli dei palazzi popolari di viale Monza si mescolano con quelli della ristrutturazione della casa vicino la ferrovia. Durante gli anni ’70 l’eco delle manifestazioni di Milano arrivò a bussare alle porte dei vicini, riverberando. «Francisco Ferrer era là / caduto in un tetro fossato / e gli uccisori incoscienti / sfilavano avanti il cadavere insanguinato di colui / che voleva redimere anch’essi infelici/». Sono i versi scritti da Giovanni Pascoli e dedicati alla memoria del pedagogista anarchico Francisco Ferrer, condannato a morte dal regime monarchico spagnolo, che gli anarchici senigalliesi vollero riprendere e incidere in una lapide commemorativa posta nel 1959 a ridosso del Foro Annonario, luogo simbolico e baricentrico della città.

Nonostante la repressione fascista avesse colpito duramente il movimento, negli anni a cavallo tra il ’50 e ’60 le Marche continuarono a essere un terreno fertile per l’anarchismo italiano, eredità di una lunga tradizione libertaria risalente al XIX secolo. Una presenza che a Senigallia era già forte e tangibile agli inizi del ’900, come testimonia la “Settimana Rossa”, la più grande insurrezione popolare prebellica che nel 1914 da Ancona si propagò in tutte le Marche e nelle vicine Toscana ed Emilia Romagna. Quando Licia nasce nel 1928, a soli quattordici anni dall’evento, il clima politico instaurato da Mussolini era dilagante: il fascismo sottoponeva a una dura e costante repressione ogni oppositore politico, e socialisti, comunisti e anarchici furono colpiti sistematicamente da violenze squadriste, carcere, confino e uccisioni. Coloro che rifiutavano la tessera del fascio venivano estromessi dalla vita civile. Un destino che toccò anche Giovanni, il padre di Licia, anarchico che in passato aveva partecipato alla Settimana Rossa, costretto a trasferirsi a Milano in cerca di lavoro. Per questo, a Senigallia il gruppo degli anarchici non credette alle versioni inizialmente diffuse. «Pino sembrava ancora più grande di quello che era: si presenta in questa sede che era aperta tutti i giorni, nel pomeriggio, ed era vicino Porta Fano. C’era un anziano in pensione a gestirla, un piccolo bar e i ragazzi della zona che venivano», racconta Enrico Moroni, dell’Unione Sindacale Italiana. Erano entrambi giovani: lui figlio di un anarchico, e Pino ferroviere e anarchico milanese. «Lui aveva questa capacità di tessere i rapporti un po’ con tutti. Era impegnato nella Crocenera anarchica», la struttura di sostegno dei militanti in carcere, «manteneva la corrispondenza, mandava i libri. Scriveva lettere ai suoi compagni, ingiustamente incarcerati, in cui esprimeva le sue posizioni pacifiste». Poi arriva il dicembre del 1969. «Quando ho appreso dai telegiornali la notizia di quanto accaduto a Pino mi trovavo a Senigallia, dove ero ritornato per sfuggire alle retate in corso dopo la strage in piazza Fontana della quale si incolpavano gli anarchici. Né io, né mio padre abbiamo dato credito alla versione della Questura e siamo immediatamente partiti per essere presenti ai funerali. Mio padre era tra i pochi compagni anziani arrivati da fuori Milano». Enrico ricorda la folla, lo sgomento, le bandiere sventolare e la polizia dovunque. «Era anarchico, era stato partigiano ed era innocente». Bisognava unirsi e chiedere giustizia allo Stato.

Il libro La strage di Stato, di Eduardo Di Giovanni, Marco Ligini ed Edgardo Pellegrini, esce a sette mesi dall’attentato di Piazza Fontana, e raccoglie informazioni e testimonianze per ricostruire le responsabilità dei fascisti e degli organi istituzionali nell’azione compiuta il 12 dicembre 1969. Dedicato alla memoria di Pinelli, la controinchiesta è frutto del lavoro di giornalisti, avvocati e giovani militanti della sinistra extraparlamentare (e non), che nella loro diversità si uniscono nel progetto. Cercare di cambiare una falsa narrazione per reagire a una violenza imposta, e correggere l’atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica che era convinta di quello che era stato detto. Che dietro la strage di Piazza Fontana ci fosse la mano degli anarchici, e quindi di Pinelli e degli altri compagni inizialmente sospettati, interrogati e incarcerati ingiustamente. «Momenti che sono durati anni», chiarisce Claudia, che Licia affrontò a testa alta, senza cercare la validazione degli altri e «con una dignità incredibile», mentre la sua vita veniva scandagliata. Rifiutando l’idea di diventare un personaggio pubblico, un simbolo nazionale. Diceva Licia: «Uno Stato che non vuole riconoscere la verità è uno Stato che non esiste. Io non mi sento sconfitta perché non ho avuto giustizia nelle aule di tribunale. Giustizia è che tutti sappiano la verità». All’età di 96 anni, lo scorso 11 novembre, se n’è andata. «Ha vissuto tanto e intensamente», ricorda Claudia. E a Senigallia la cittadinanza si è mossa per renderle omaggio. Fabrizio Marcantoni, titolare della libreria Ubik, ha lanciato una raccolta firme da consegnare al sindaco per fissare un ricordo perenne di Licia nella sua città natale. L’idea è nata dopo un convegno tenutosi in sua memoria a pochi giorni dalla sua scomparsa nella Biblioteca comunale cittadina, a cui ha preso parte Silvia Pinelli, una delle figlie. «L’iniziativa vuole dare un segno. Al di là del fatto pubblico, la dignità di Licia non tiene conto degli schieramenti politici», spiega Fabrizio. Fuori dalla libreria c’è un espositore per manifesti che illustra la mozione e invita a partecipare. Fabrizio prende un plico di fogli e legge i nomi: c’è chi arriva da Venezia, chi da Milano, Trieste, poi naturalmente Senigallia, i paesini limitrofi, ancora Milano, Treviso, Reggio Emilia, dall’estero. «Era conosciuta qui, veniva spesso d’estate: aveva gli amici, i vicini, la mia generazione sa chi è», eppure hanno firmato molti giovani. «È sorprendente, perché dopo sessant’anni ti accorgi che la memoria è ancora viva», continua Fabrizio. «È stata una donna straordinaria», e l’eco della sua storia continua a esserlo. Al Liceo Enrico Medi di Senigallia, durante la programmazione dell’attività di educazione civica durante il consiglio di classe d’ottobre, è stato presentato un progetto sul Bene Comune per riflettere sull’importanza di intitolare spazi pubblici alle figure femminili che hanno segnato la storia, la scienza, l’arte e la cultura della città. «Ho proposto ai ragazzi di fare una mappatura della città, di dividersi in zone e fare dei sopralluoghi», spiega Paola Via, docente di lettere del liceo. «Abbiamo ragionato sul fatto che Licia appartiene a una storia locale che si può agganciare alla grande storia. Ciò ha permesso ai ragazzi di conoscere più a fondo gli anni di piombo, il silenzio delle stragi, le sentenze che ancora rimangono vaghe. Come si attiva una collettività», spiega Paola, perché nonostante la verità giudiziaria non sia ancora emersa, «c’è una comunità che ha lavorato in questa direzione». Il senso di giustizia di Licia ha investito generazioni e lasciato un segno, perché difendere e proteggere la memoria di Pino ha significato, in una prospettiva più ampia, sostenere e far rispettare i diritti di tutti. Ha continuato a viaggiare, lavorare, cantare, scrivere, fare yoga, interrogare lo Stato, chiedendo verità e giustizia. Rifiutando il ruolo che le volevano imporre, e tenendo il privato stretto a sé. «Io sono così, sarete voi a cambiare», ha detto, e così è stato fino alla fine.

(*) Lavinia Nocelli è una giornalista freelance e fotografa che si occupa di migrazione, diritti e salute mentale. I suoi lavori sono stati pubblicati da testate italiane e internazionali tra cui BBC, The Independent, The New Arab, L’Espresso, Irpi, Avvenire, Il Manifesto, La Stampa, RSI, tra gli altri.

da Facebook

«Ciò che Israele sta commettendo nella Striscia di Gaza non è solo un genocidio, come è stato definito da giuristi, organismi internazionali, Ong e studiosi dell’Olocausto, ma, distruggendo irreparabilmente gli ecosistemi naturali, avvelenando l’aria, l’acqua, la terra, sta perpetrando anche un ecocidio.

Oggi Gaza non ha più terre coltivabili; le fattorie e le serre sono state rase al suolo dai raid israeliani; la fauna selvatica è stata decimata; i campi di fragole, gli uliveti (vitali per il biosistema della Palestina), i frutteti e le piante sono stati contaminati dal fosforo bianco delle bombe e dai metalli pesanti. Senza foraggio, il 95% del bestiame di Gaza è morto, come ha segnalato mesi fa la FAO.

Gli attacchi dell’esercito israeliano alle infrastrutture hanno danneggiato gli impianti di desalinizzazione e i pozzi idrici, riducendo del 93% rispetto a prima della guerra la disponibilità d’acqua potabile; uno studio condotto dalle Nazioni Unite ha confermato che un anno fa la quantità fruibile per persona, al giorno, era di circa 2-8 litri: ben al di sotto, cioè, non solo della soglia minima di emergenza stabilita dall’Oms (15 litri) ma anche delle raccomandazioni standard di 50-100 litri al giorno.

Le distruzioni su larga scala degli edifici, delle strade e degli impianti civili di Gaza fin dai primi mesi del conflitto ha prodotto svariati milioni di tonnellate di detriti, alcuni dei quali contaminati con ordigni inesplosi, amianto e altri sostanze tossiche, molto pericolose – anche a lungo termine – per la salute umana e animale. Sepolti, tra la polvere e i calcinacci, ci sono anche resti umani.

I fumi prodotti dall’incenerimento di svariate centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti a cielo aperto (accumulati dopo il danneggiamento degli impianti di trattamento) stanno inoltre contribuendo in modo importante alla diffusione di malattie e a un inquinamento atmosferico elevatissimo.

Le poche iniziative che la municipalità di Gaza può mettere in campo non sono infatti sufficienti a contrastare il rapido deterioramento dell’ambiente.

Quelli prodotti dall’offensiva che dalla Striscia si è espansa in una guerra regionale sono danni climatici (sanitari e sociali) gravissimi che continueranno ad essere avvertiti per decenni: a sottolinearlo sono gli autori di un nuovo studio internazionale sul costo climatico dei bombardamenti su Gaza pubblicato dal Social Science Research Network.

Il paper si è concentrato sulle emissioni di gas serra associate all’uso di materiali bellici (e alle attività militari in genere, compresi i voli dei cargo dall’Europa e dagli Usa per rifornire di armi Israele) e, tra gli altri, sugli effetti del consumo da parte dei gazawi di milioni di litri di carburante per far fronte alla crisi energetica causata dalla distruzione dell’unica centrale elettrica e della rete ad energia solare.

Nei primi 15 mesi del conflitto la quantità di carbonio emessa – quasi 2 milioni di tonnellate – ha superato di gran lunga la quota prodotta ogni anno da 36 Paesi: se i razzi di Hamas e il carburante per bunker rappresentano lo 0,2% di tali emissioni, l’approvvigionamento e l’uso di armi, carri armati e altri armamenti da parte di Israele ne rappresentano il 50.

I ricercatori hanno anche stimato quale potrebbe essere il costo climatico della ricostruzione: 32 milioni di tonnellate di carbonio, una cifra che equivarrebbe alla gestione di 84 centrali elettriche a gas per un anno.

Pur non ancora ufficialmente riconosciuto come crimine internazionale dalla Corte Penale Internazionale, molte fonti scientifiche e osservatori ambientali hanno ravvisato l’ecocidio, a Gaza, nella distruzione massiccia, intenzionale e sistematica dell’ambiente e delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie messa in atto dalle forze israeliane. Una devastazione irreparabile che, tuttavia, non avrebbe avuto inizio con la campagna militare seguita al 7 ottobre 2023 ma molto tempo prima, anche attraverso pratiche che includono l’uso massiccio di pesticidi sui terreni dei contadini, la sostituzione delle piante di ulivo con specie aliene come l’eucalipto e il pino di Aleppo e delle capre nere palestinesi con quelle bianche, come ha ricordato anche di recente la studiosa israeliana Irus Braverman».

Una parte di questo mio articolo è uscita oggi sulle pagine Esteri di Avvenire.

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/israele-distrugge-terra

da Mem.Med – Memoria Mediterranea

Nell’ambito del fitto programma di iniziative della Settimana di lotta, memoria e giustizia promossa da Mem.Med. – Memoria Mediterranea e altre realtà solidali, che dall’11 al 15 giugno vede la presenza a Palermo, tra le altre, di madri sorelle e familiari di giovani tunisini unite dall’esperienza della perdita di un proprio caro lungo le rotte migratorie, e dall’instancabile lotta per ottenere verità, giustizia e riconoscimento, nella mattina di mercoledì 11 si è tenuto un presidio

davanti al Consolato del loro Paese. Durante la manifestazione al Console è stata consegnata la lettera di denuncia e rivendicazione che pubblichiamo integralmente.

(Silvia Marastoni)


Signor Console,

Siamo madri, sorelle e familiari di giovani tunisini scomparsi nel tentativo di attraversare il mare. Siamo donne segnate da anni di attesa, silenzi, promesse disattese e da una continua e solitaria ricerca di verità e giustizia. Abbiamo deciso di rompere il silenzio e rivolgerci direttamente a Lei, non più per supplicare, ma per rivendicare. Perché è un nostro diritto – e un Suo dovere – rispondere alle nostre domande e assumersi le responsabilità che lo Stato tunisino continua a eludere.

1. Verità e giustizia per i nostri figli e fratelli scomparsi

Chiediamo trasparenza, comunicazione e accesso alle informazioni riguardanti i casi di scomparsa dei nostri cari.

Chiediamo spiegazioni sulla sparizione di Hamdi Besbes, meccanico a bordo del peschereccio “Hadj Mohamed”, arrestato il 23 luglio 2020 a Lampedusa con migranti a bordo. La famiglia ha ricevuto versioni contraddittorie dalle autorità tunisine: Hamdi prima sarebbe stato ricoverato, poi fuggito, poi del tutto ignorato.

Chiediamo copia del presunto rapporto fornito al padre, che il Console Jaballah si è rifiutato di consegnare, e del rapporto dell’assistente sociale che ha ascoltato il racconto di un minore presente sul peschereccio.

Chiediamo aggiornamenti sulle analisi del DNA realizzate in Tunisia (aprile 2021) e in Italia (ottobre 2021) e i risultati dei confronti genetici. Come può essere che, dopo anni, non sia stata fornita alcuna risposta?

Chiediamo informazioni chiare sul destino di Mohamed Jamal El Mili e Bechir El Mili, scomparsi nel 2011, e di tutti i giovani partiti su imbarcazioni scomparse tra Tunisia e Italia.

Non è più accettabile che lo Stato non abbia mai offerto alcuna risposta dopo quattordici anni.

Chiediamo che questa rappresentanza diplomatica si assuma pubblicamente le sue responsabilità.

Denunciamo con forza:

– L’assenza di una struttura stabile di contatto e supporto alle famiglie tunisine dei dispersi e dei migranti detenuti o morti in Italia, e l’assenza di comunicazione proattiva da parte del Consolato. È inaccettabile che la società civile debba sostituirsi alle istituzioni dello Stato per fare indagini, riconoscimenti, traslazioni e supporto alle famiglie.

– La complicità dello Stato tunisino nel processo di esternalizzazione delle frontiere europee, che trasforma la Tunisia in gendarme del Mediterraneo, in cambio di prestiti condizionati e favori diplomatici. La Tunisia ha firmato accordi informali e non trasparenti con l’Italia e l’UE per impedire le partenze, per deportare migranti e per chiudere gli occhi sulle violazioni commesse nei CPR e nei centri di detenzione.

– Le condizioni disumane dei cittadini tunisini detenuti nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio in Italia, dove subiscono maltrattamenti, privazione di diritti, isolamento e umiliazione. Nessun funzionario consolare si è presentato per verificarne le condizioni o ascoltare le loro denunce. I diritti fondamentali dei cittadini tunisini vengono calpestati con la piena complicità delle autorità tunisine.

– La pratica sistematica delle deportazioni forzate dalla Sicilia e dall’Italia verso la Tunisia, spesso senza possibilità di appello legale, con voli settimanali organizzati in silenzio e in fretta, violando ogni principio di dignità e diritto alla difesa.

– L’inaccessibilità delle procedure per ottenere visti di ingresso legale in Italia, che costringe giovani, lavoratori e famiglie a intraprendere viaggi pericolosi e illegali. Da anni ottenere un appuntamento al Consolato per un visto è un miraggio: un sistema opaco, arbitrario, corrotto e irresponsabile che criminalizza la mobilità e alimenta la clandestinità.

– L’assenza di trasparenza e di supporto nelle pratiche di identificazione delle persone migranti decedute in mare, lasciando centinaia di corpi senza nome, mentre le famiglie aspettano risultati del DNA da anni, senza alcuna comunicazione ufficiale, trattate con disprezzo e indifferenza.

Signor Console, non è solo una questione amministrativa. È una questione politica e morale. Lo Stato tunisino è oggi responsabile della morte sociale di migliaia di giovani, non solo attraverso la sua inazione all’estero, ma anche per il contesto di disperazione che alimenta la harga: una crisi economica senza fine, un regime autoritario che ha cancellato ogni opposizione e libertà d’espressione, una società che spinge i giovani alla fuga e alla morte.

Il vostro silenzio, il vostro immobilismo, la vostra burocrazia assassina fanno parte del problema. È tempo che il Consolato tunisino a Palermo:

– Istituisca immediatamente un referente ufficiale per i dispersi e le famiglie migranti, con numero e contatti pubblici.

– Dia seguito alle domande delle famiglie e fornisca copia dei rapporti e documenti relativi ai casi di scomparsa, senza ulteriori ritardi.

– Richieda e pubblichi un’indagine interna sugli accordi di rimpatrio con l’Italia e sulla gestione dei CPR.

– Faccia pressione sulle autorità tunisine e italiane per garantire trasparenza, accesso legale alla mobilità e il rispetto dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

– Collabori attivamente con la società civile, le associazioni e le famiglie nella ricerca dei dispersi e nel processo di identificazione dei corpi. Finché queste richieste non verranno soddisfatte, continueremo a denunciare pubblicamente la vergogna e la responsabilità dello Stato tunisino, dei suoi rappresentanti e dei suoi accordi mortali. Non ci fermeremo. Perché ogni vita conta. Perché ogni madre ha diritto alla verità.

Verità. Giustizia. Dignità. Ora.

Le madri tunisine, le sorelle, i familiari. Con il sostegno della società civile tra la Tunisia e l’Italia.

da DoppioZero

Modernità esplosiva, sottotitolo: Il disagio della civiltà delle emozioni, è uno dei tre saggi che aprono la collana einaudiana dei nuovi Maverick: interessante novità di aprile 2025. In copertina guardiamo da vicino un occhio chiaro che a sua volta ci guarda. Il libro, tradotto molto bene da Valentina Palombi, l’ha scritto Eva Illouz, sociologa che da più di trent’anni si occupa di relazioni amorose, intimità e più in generale di emozioni. Ha iniziato a farlo con dei libri di nicchia, alcuni dei quali mai tradotti in italiano, come Consuming the Romantic Utopia: Love and the Cultural Contradictions of Capitalism, che è uscito nel 1997, quando pochi altri nel mondo prendevano sul serio le forme contemporanee del fenomeno amoroso o, se non altro, se ne occupavano. Dopo quel testo ne sono seguiti tanti altri, ma in particolare due degni di nota: Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi (che in italiano è uscito la prima volta nel 2007, per Feltrinelli) e Perché l’amore fa soffrire (2013, Il Mulino – parlo sempre della pubblicazione italiana numero uno). Per chi si appassioni ai temi e alla mente di Eva Illouz esistono svariati saggi da recuperare, ma vale la pena di chiamare in causa questi tre perché Modernità esplosiva ne costituisce l’ultimo atto. Tutte le domande che Illouz si è fatta in questi anni al riparo dell’accademia esplodono ora in una questione di dominio (felicemente) pubblico: il malessere che proviamo è una «conseguenza inevitabile della modernità»? O anche: «In quali modi la modernità – un concetto vago e complesso – si è manifestata nella nostra vita emozionale»?

La tesi di Illouz è che le emozioni non si formino «nel sé più di quanto il linguaggio risieda nel sé». In breve, le emozioni rappresentano raffinati codici di reazione all’ambiente che sono, però, meno istintivi di ciò che crediamo. Questi codici vengono di volta in volta ridiscussi e forgiati dai cambiamenti della società e sarebbe un errore interpretarli sempre nello stesso modo, privatamente, come identiche reazioni animali a uno stimolo esterno, senza adattare lo sguardo allo stile della civiltà in cui si stanno manifestando. Per questa ragione, delle emozioni non si devono occupare solo gli psicologi, ma pure e soprattutto i sociologi. Se stiamo male, oltre a lavorare su noi stessi, possiamo cercare di capire quello che non dipende da noi. Infatti, come scrive Illouz nelle sue pagine inaugurali: oggi «la nostra psiche soffre di un eccesso di auto-attenzione emozionale, come se il nostro obiettivo collettivo consistesse oramai semplicemente nel “sentirsi bene”. Se questo libro ha un’ambizione è quella, paradossale, di aiutarci a distogliere lo sguardo dai nostri sé emozionali».

In effetti, da Intimità fredde in avanti, Illouz è sempre più critica verso certe derive consumistiche della società terapeutica, ma il saggio va da un’altra parte, e quest’altra parte è precisamente guardare come le emozioni si sono trasformate nella società moderna fino ai giorni nostri.

Che cosa vogliono dire le emozioni adesso? E quali emozioni si nascondono sotto i dati?

Se la speranza, per esempio, ha dato luogo alla coloritura prevalente dei tempi moderni, ora non è più vero. Se siamo meno speranzosi è perché aumentano le disuguaglianze, le istituzioni democratiche sono in crisi, la tecnologia ci estrania della nostra vita quotidiana, e poi il lavoro è precario, così come sono inaffidabili relazioni sentimentali e matrimoni.

Può sembrare un cammino pessimistico e sconfortante, in realtà è l’opposto: Eva Illouz oppone ai «sé emozionali» dei “noi emozionali”. Che effetto fa? Alla fine della lettura ci si sente meno soli, perché le emozioni che siamo soliti introdurre con un: “io provo” o con un: “io sento”, sono invece diventate oggetti collettivi in qualche modo esterni alla psiche, oggetti di studio più interessanti che spaventosi. Leggendo il saggio si cambia prospettiva. Il «disagio delle emozioni» si rivela una mappa utile a indicare quali sono gli aspetti della società che potremmo voler trasformare, così da provare insieme emozioni migliori. È un po’ la differenza tra temere di avere una brutta malattia e mettersi a studiare cellule impazzite con la strumentazione più adeguata. Se ne ritrae un conforto di tipo intellettuale e non psicologico, unito alla curiosità rispetto a un oggetto che quando appariva generico ci metteva più ansia – sempre a proposito di stati d’animo.

Tra le tante cose che Eva Illouz ha messo a punto negli anni, affinando il suo stile, ce n’è una che nel saggio salta particolarmente all’occhio ed è l’utilizzo della letteratura come materiale sociologicamente rilevante, tanto più nello studio delle emozioni; quindi, le pagine sono una miniera di riferimenti e immagini prese dai romanzi, per lo più dai classici, ma non solo. La densità è elevata, il materiale infiammabile. Così come il titolo, che si spiega pensando alla mescolanza esplosiva di emozioni intense in confitto tra loro. Nelle pieghe degli esempi e dei ragionamenti, tipico dell’autrice è seminare delle definizioni particolarmente memorabili, come quella che dà dei romanzi, che sarebbero: «il luogo in cui la mente si aggiorna su chi sente una data cosa, dove e perché» o delle emozioni stesse che sarebbero: «momenti stilizzati di essere». Le emozioni sono diventate progressivamente più importanti perché, secondo la sociologa, nella contemporaneità sono sempre legate al lavoro di autodefinizione di sé che ciascuno porta avanti instancabilmente per misurare non solo come sta, ma anche se è un fallito oppure no. Se fino a qualche decennio fa le emozioni individuali erano schermate dall’educazione del carattere a certi valori morali, ora che questo apprendistato caratteriale è in declino, sono le emozioni a dire di noi quanto la nostra vita sia realizzata o mancata: se stiamo bene, siamo vincenti, se proviamo emozioni negative ecco che si misura un primo grado di fallimento da riparare con una cura. Per dirlo con le parole di Illouz: «La realtà diventa così intensamente emozionale, si trasforma in una serie di transazioni emotive che possono rivelarsi esplosive, proprio perché il contenuto della vita emozionale è diventato il principale fondamento della realtà e l’oggetto stesso di queste transazioni. Le emozioni sono diventate la realtà degli individui e il loro campo di battaglia, ciò che si sforzano di plasmare e controllare e ciò per cui lottano con gli altri».

Le emozioni che la sociologa scandaglia sono in particolare dieci, raccolte in tre sezioni che organizzano il libro: nella prima parte, che si concentra su luci e ombre del sogno americano, si prendono in esame speranza, delusione e invidia; nella seconda è la volta di ira, paura e nostalgia, che per Illouz sono le emozioni di riferimento se si parla di nazionalismo o democrazia; infine seguono le emozioni della sfera intima, cioè la coppia di vergogna e orgoglio, la gelosia, e in ultimo quel complesso conglomerato a cui diamo il nome riassuntivo di ‘amore’. In tutti i casi la linea del tempo non è mai il mancorrente che aiuta a seguire le scale del ragionamento, l’autrice si muove con disinvoltura e rapidità avanti e indietro. In ciascun caso, i quadri letterari aiutano a intendersi sul modo in cui si scatena l’emozione oppure a portare avanti la tesi.

Un caso particolarmente emblematico di come lavora Eva Illouz è rappresentato dall’ira.

Si parte tipicamente da Achille, ma poi si ragiona su come essere arrabbiati oggi non sia per forza una ragione di orgoglio sociale: dipende. L’ira non è sempre la difesa eroica da un oltraggio morale. Se a essere arrabbiato è qualcuno che non può permetterselo, perché non ha una voce abbastanza ferma da interpretare con successo il copione omerico, l’ira collassa in una forma di vergogna, nel risentimento. E, la maggior parte delle volte, l’ira sta al confine tra la virtù e l’affermazione spesso egoistica di un io frustrato. Per questo l’ira viene definita dalla sociologa un «enigma dell’anima», perché è molto ambigua, muta di valore da una situazione all’altra, da un agente all’altro, e pure quando erompe in difesa della giustizia può trasformarsi in una violenza peggiore di quella denunciata o subita.

Una sintesi altrettanto affilata riguarda l’invidia che viene detta: «l’emozione muta». Chi è invidioso, infatti, non può che tacere il suo sentimento, perché esplicitare l’invidia verso qualcuno sarebbe come ammettere la propria inferiorità, ma soprattutto vorrebbe dire oggettivare che la vita fortunata e migliore è quella dell’altro. Chi è invidioso, per il solo fatto di ammettere che lo è, viene considerato un perdente.

Queste considerazioni non sono vere in generale, soprattutto non sono sempre state vere: dal futuro o dal passato le nostre emozioni potrebbero essere difficili da comprendere così, nel significato che hanno per noi adesso.

Nel guardare a come si sono contorte le emozioni intorno alla società e ai suoi mutamenti, Eva Illouz risolve anche dei rebus che ci aiutano a mettere a fuoco alcuni meccanismi emozionali collettivi. Prendiamo l’orgoglio, per esempio. L’orgoglio va in coppia con la vergogna perché rappresenta il suo opposto, oppure la controffensiva che la psiche mette in campo quando l’imbarazzo è troppo grande e ingiustificato. Allora è lì che subentra l’orgoglio.

Su questa emozione la sociologa fa un rilievo importante: l’orgoglio è un’emozione positiva, talvolta nazionale, in grado di portare avanti miglioramenti sociali, a condizione però che sia provvisoria. Quando si radica nel tempo, l’orgoglio si svuota del suo significato reattivo e smette di essere «quieto», l’orgoglio diventa «un’identità autocompiacente» che non è più disposta a confrontarsi con le altre. Un mite orgoglio, al contrario, è un’arma intelligente da usare contro la discriminazione, così come è avvenuto col movimento pride in tutto il mondo.

Nelle parole di Illouz le emozioni si svuotano completamente del loro valore patetico: diventano lenti per leggere il contemporaneo e la cronaca, più volte usata per addentrarsi nello spettro emotivo. Un’ultimissima cosa da sottolineare è che le quaranta pagine di bibliografia, raccolte in trent’anni di studio, sono una miniera d’oro per chiunque voglia restare in tema. La voce autorevole di Eva Illouz fa venire una grande curiosità nei confronti dei futuri nuovi Maverick.

Sono arrivata a Trieste in una domenica di gennaio, accolta da una pioggia insistente e una nebbia densa, insieme a Sofia e Giorgia, le mie compagne e amiche in questa settimana di volontariato con ResQ – People Saving People, presso il Centro Diurno di via Udine 19, che chi lo frequenta chiama Chai Khana. Dopo un passaggio dei compiti con le volontarie della settimana precedente, abbiamo conosciuto i nostri coinquilini e ci siamo un po’ riposate e ambientate, prima di immergerci totalmente nelle attività quotidiane del Centro: una realtà inizialmente caotica, piena di regole non scritte, di volti nuovi, di dinamiche da imparare. Ci sentivamo spaesate, soprattutto nel gestire gli aspetti pratici come la lavanderia. Ma presto ci siamo rese conto che l’accoglienza non stava solo nei compiti da svolgere, ma nei sorrisi, negli sguardi, nella disponibilità silenziosa di chi, giorno dopo giorno, si presentava lì non per ricevere soltanto, ma anche per condividere.

Ogni mattina al Centro trovavamo persone che aspettavano all’ingresso, infreddolite e con zaini che spesso non si toglievano mai dalle spalle. Alcuni volti diventavano familiari, altri arrivavano per la prima volta.

Col tempo, ho imparato che bastava poco per rompere il ghiaccio: una partita a calciobalilla, una battuta mal tradotta e un tè, o chai, condiviso con qualche biscotto. I ragazzi ci hanno accolte con gentilezza e ironia, rendendoci parte del gruppo ben prima che ci rendessimo conto di esserlo.

La sera, in piazza con Linea d’Ombra, ho scoperto un altro lato di Trieste. Lì ho ritrovato Alì, che avevo già conosciuto al Centro, con il suo sorriso tenace e la determinazione di chi studia italiano da solo, perché le lezioni che segue lì non gli bastano. E poi Udinn, partito da solo dal Pakistan, che racconta la propria fede come unica compagna di viaggio. Tra una distribuzione di pasti e un gesto di cura spontaneo, ho capito che in quella piazza non c’era solo bisogno: c’era dignità, solidarietà, fratellanza. I piatti passavano di mano in mano e ognuno in modo naturale sapeva esattamente cosa fare. In quell’esatto momento ho smesso di sentirmi semplicemente una volontaria: ero lì insieme a loro, a fare la mia parte come chiunque altro.

Ricordo Alì chiedermi: «Ma tu sai about noi?» così come ricordo la mia difficoltà nel trovare le parole per rispondere a quella domanda. E forse era proprio quello il punto: non si trattava di capire con la mente, ma di sentire. In quel silenzio, mentre mi sorrideva senza insistere, ho realizzato che nessuna spiegazione sarebbe bastata. Quello che stavo imparando non si poteva ancora dire, ma solo vivere.

Da quel momento, ogni giornata è diventata una scoperta. A momenti di leggerezza e divertimento come le partite a calcetto e le canzoni ascoltate insieme su YouTube se ne alternavano altri di stanchezza fisica e mentale, in cui il pensiero che molti di quei ragazzi dormissero per strada diventava difficile da sopportare. Vedere la polizia entrare nel Centro per segnalare un possibile minore, assistere ai trasferimenti improvvisi verso campi temporanei, distribuire giacche troppo grandi a chi aveva solo freddo: tutto questo lasciava, in me, un segno.

Eppure, nonostante la fatica, mi sono scoperta instancabile. Mi sorprendevo di me stessa, della voglia di esserci ancora, di scendere ancora una volta in piazza e così è stato anche l’ultima sera. Era gennaio, faceva freddo davvero, ma lì, tra balli, canti, saluti e foto tutti insieme, quel freddo sembrava sparire. La piazza non somigliava nemmeno a un luogo esterno, all’aperto, ma era piuttosto un rifugio capace di scaldare più di qualsiasi coperta.

La mia vita a Milano poi è ripresa, con le sue corse e i suoi impegni, e a volte i ricordi sembrano affievolirsi. Ma quello che ho vissuto a Trieste continua a riemergere, nei gesti, nei pensieri, nei volti che mi porto dentro. E in effetti, alla fine, in piazza ci sono tornata davvero, ogni volta che nei week end mi è stato possibile.

Io pensavo di essere lì per accogliere, ma ho scoperto con profonda felicità ed emozione che anch’io sono stata accolta.

(*)Marta Troiano ha venticinque anni, vive a Milano ed è prossima alla laurea magistrale in Migration Studies presso l’Università Statale. Ha seguito fin dalla sua creazione la Onlus ResQ – People Saving People (attiva nelle operazioni di Ricerca e Salvataggio nel Mediterraneo Centrale e in altri progetti di solidarietà con rifugiate/i e migranti), partecipando alle iniziative organizzate in città e poi come volontaria a Trieste.

da Pressenza

Per i lettori di Pressenza il nome di Gian Andrea Franchi, da dieci anni in prima linea con Lorena Fornasir nell’accoglienza dei migranti che approdano dopo inenarrabili sofferenze lungo la rotta balcanica nella Piazza del Mondo di Trieste, suonerà sicuramente familiare. Parecchi gli articoli che salteranno fuori dai nostri archivi digitando il suo nome, in particolare quelli (febbraio 2021) che denunciavano l’incredibile accusa di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», per aver ospitato una famiglia curdo-iraniana un paio d’anni prima. Indagine poi archiviata, ma che in quei mesi (si era nel dentro&fuori dalla pandemia) riempì di indignazione i tanti che da anni seguivano questa coppia di attivisti non più giovanissimi, nella loro instancabile, quotidiana, mirabile professione di cura, a cominciare dalle parti più martoriate di quei corpi in transito: i piedi. Piedi ridotti a zeppe di bolle e piaghe, chiusi dentro scarpe senza neppure i lacci, per non dire tutto il resto: l’esperienza dei respingimenti, il terrore accumulato in mesi o anni di viaggio, la realtà del trauma dentro gli occhi.

In risposta a quell’accusa, Gian Andrea si limitò alle seguenti righe:

«Rivendico il carattere politico, e non umanitario, del mio impegno con i migranti. Impegno umanitario è un impegno che si limita a lenire la sofferenza senza tentare d’intervenire sulle cause che la producono. Impegno politico, nell’attuale situazione storica, è prima di tutto resistenza nei confronti di un’organizzazione della vita sociale basata sullo sfruttamento degli uomini e della natura, portato al limite della devastazione (come la pandemia ci ha dimostrato). È inoltre tentativo di costruire punti di socialità solidale che possano costantemente allargarsi e approfondirsi.»

Parole che da sole basterebbero a sintetizzare i contenuti e le intenzioni di questo bel libro, che per l’appunto si intitola “Per un comunismo della cura”, recentemente pubblicato da DeriveApprodi, che Gian Andrea Franchi sta presentando ovunque si presenti l’occasione – e l’occasione per Milano è stata qualche giorno fa alla Libreria delle Donne, con la conduzione di Silvia Marastoni.

Incontro emozionante, anche grazie all’intervento di apertura di Lorena Fornasir, che non potendo essere presente di persona ci ha regalato una decina di minuti in diretta dalla “sua” Piazza del Mondo, con i ragazzi che arrivavano alla spicciolata… e quel monumento che per anni era stato il naturale punto d’incontro al centro della Piazza, ormai transennato da tutti i lati… e il vecchio porto austriaco in lontananza che per anni era stato il miserrimo rifugio per tanti, non più agibile, tombato pure quello d’ordinanza.

«In questa piazza approdano i figli dei figli del nostro colonialismo, delle nostre guerre umanitarie, i disastri che produciamo esportando guerra anche quando la chiamiamo pace» ci ha detto Lorena con l’urgenza imposta da quello che per lei era un momento di lavoro. «Percorsi di dolore di cui siamo testimoni da quando, nel 2015, abbiamo cominciato questa pratica di cura a Pordenone. Da allora a oggi il cambiamento è stato solo in peggio per la ferocia che si è compiuta su queste persone, che si presentano con i loro corpi torturati, seviziati dalle polizie ai vari confini […]. Ciononostante noi qui siamo, perché riteniamo che non sia possibile voltare la faccia dall’altra parte, perché come diceva Max Frisch pensiamo che il “silenzio delle pantofole sia molto più pericoloso del rumore degli stivali” e questo ci sostiene nella nostra resistenza quotidiana, contro queste politiche di morte, in cui la vita umana non vale più nulla. […]

Una sera è arrivato alla nostra “panchina della cura” un uomo che avrà avuto trent’anni ma ne dimostrava il doppio, tanto il suo corpo era devastato, ed è stato difficile per me intervenire su quelle ferite che non riesco nemmeno a descrivere; non osavo incrociare il suo sguardo e quando alla fine l’ho fatto ho capito che ciò che non osavo guardare era il mio stesso trauma, sapendo che a cento chilometri da qui nella bellissima Croazia (vi invito a boicottare la Croazia), ci sono ragazzi che muoiono annegati. I morti di cui non si saprà mai nulla e di cui noi ricamiamo i nomi su questo “lenzuolo della memoria”: sono soprattutto i ragazzi migranti che li ricamano…». E sul primo piano dei nomi ricamati in rosso sul bianco del lenzuolo, Lorena si scusa ma deve proprio andare: «Stanno arrivando sempre più persone, la Piazza mi chiama…».

Il microfono può quindi passare a Gian Andrea, che a ottantanove anni ha ancora l’energia dell’attivista che in effetti è sempre stato. Ex professore di liceo in città diverse, ricorda con particolare entusiasmo quegli anni «a cavallo tra i ’60 e ’70, aperti alla speranza, in cui ci si sentiva parte di un movimento, di lotte, di tentativi di costruzione di forme nuove di vivere insieme… Fu in quell’epoca che decisi di entrare nel PCI e ne uscii dopo tre anni, deluso nell’assistere alla ritirata del Partito di fronte a quella che a me sembrava una fioritura, con le scuole occupate, gli studenti che si ponevano e ci ponevano delle domande, richieste di presenza, partecipazione, senso della vita… le stesse che si ponevano gli operai in sciopero nelle fabbriche, che senso aveva passare tutta la vita a una catena di montaggio… erano domande anche filosofiche, che finalmente circolavano a livello di massa. Poi nel 1969 c’è stata la strage di Piazza Fontana, ed è stato il segnale che il potere avrebbe reagito con inimmaginabile ferocia. E poi c’è stata l’involuzione, la lotta armata, ne ho conosciuti parecchi che si sono persi in quei percorsi.

Io mi sono chiesto perché è finita così e una delle risposte che mi sono data è che lottare, in un certo senso, è più facile che costruire. Noi abbiamo lottato, ma non siamo stati capaci di costruire qualcosa che durasse veramente, come anni dopo ci avrebbe insegnato il movimento zapatista: per lottare bisognava avere qualcosa in grado di durare, altrimenti rimane solo la lotta, in cui è l’avversario che decide anche per te, e tu ti definisci in rapporto all’avversario, rispondi ai suoi attacchi o schemi. […] E quindi appunto in questo libro ho cercato non solo di spiegarmi la complessità di ciò che è successo, ma anche di inquadrare il fenomeno della migrazione nella sua realtà: sia in prospettiva, perché secondo i calcoli dell’IOM (International Organization for Migration, che fa parte dell’ONU) i migranti potrebbero essere un miliardo e mezzo entro vent’anni, e addirittura quattro miliardi entro la fine del secolo, sia come opportunità, per un cambio di rotta quanto mai necessario.

E quindi ecco il riferimento al comunismo, nel suo significato più fondamentale, come “messa in comune della cura”, creazione di nuove forme di comunità, antidoto alla malattia mortale delle nostre società che è l’individualismo, in cui ognuno guarda solo alla propria cerchia, famiglia, territorio. Essendo andato a sbattere contro questo fenomeno migratorio, ho capito che in questo confronto con situazioni estreme poteva esserci una chiamata a cui rispondere: non solo per cercare di aiutare loro nei loro bisogni e aspirazioni, ma come indicazione di futuro per tutti noi. Perché come non capire che il motivo fondamentale di questi flussi migratori è un problema che ci riguarda tutti come esseri viventi, ovvero l’alterazione degli equilibri biologici che regolano il pianeta terra, la vita stessa? Come non capire che questi giovani che arrivano soprattutto dall’Asia del sud, ma anche dall’Africa, sono solo un’anticipazione di un fenomeno ben più grande che molto presto riguarderà i nostri figli e nipoti?

E allora cerchiamo di ripartire appunto dal cuore, ovvero dalla Piazza del Mondo, dall’accoglienza di queste persone, dalla fecondità degli incontri e riunioni, dal ritrovarsi nella soluzione delle esigenze più fondamentali e vitali, nella sperimentazione di resistenze creative. Per costruire dal basso qualcosa che abbia senso, a partire da quel concetto di Disperata speranza del giovane filosofo ebreo Carlo Michelstaedter, su cui ho scritto la mia tesi di laurea e continuato a lavorare per il resto della mia vita».

Gian Andrea Franchi, Per un comunismo della cura, Ed. DeriveApprodi 2025, 172 pag. € 18

(*) Daniela Bezzi. Giornalista, operatrice culturale, ricercatrice indipendente, ha vissuto e lavorato per lunghi periodi in Giappone, Gran Bretagna e India prima di ristabilirsi in Italia dove collabora con varie testate sui temi dell’ambiente, dei diritti umani e del lavoro.

Testimoniare il male senza dimenticare il bene è il titolo del convegno nazionale delle Città Vicine ospitato il 17 e 18 maggio scorso dalla Libreria delle donne di Milano in occasione del cinquantesimo della sua nascita. Un’ospitalità politica da parte di un luogo – come ha ricordato Anna Di Salvo nella sua relazione introduttiva – «fondativo di riferimento, di radicalità politica, di sostegno e apertura di orizzonti» per le Città Vicine che, a loro volta, il prossimo luglio compiranno 25 anni dalla loro nascita. Un percorso politico, quello delle Città Vicine, testimoniato da convegni, pubblicazione di libri, riviste, articoli, mostre Mail-Art e performance artistiche, vacanze politiche, viaggi per lunghi anni a Lampedusa, Riace, Niscemi, Sigonella, «luoghi di approdo a volte felice per le/i migranti in cerca di una nuova vita, spesso luoghi di morte dove donne, uomini e bambini hanno perso la vita in tragici naufragi. Anche luoghi dove la barbarie del nostro tempo ha installato missili, parabole e armamenti bellici e nucleari mettendo a rischio la vita degli/delle abitanti di quei paesi e imponendo un vero e proprio stato di guerra simbolico e reale». Di fronte allo smarrimento generato da un’Europa «rappresentata in gran parte da una leadership di donne che ha aderito alla politica del riarmo e si mostra condiscendente a scelte belliciste», tornano attuali le domande di Simone Weil riprese nel libro L’Europa delle Città Vicine (ed. MAG Verona 2017, a cura di Loredana Aldegheri, Mirella Clausi e Anna Di Salvo), tratto dal convegno del 21 febbraio 2016: «Cosa sta accadendo in Europa oggi? Quali prospettive e quali possibilità abbiamo di aprire nuove vie per un’Europa più vicina alle vite, ai bisogni, ai desideri? Ci sono pratiche che presentano una natura costituente oggi necessaria?» (da: La persona e il sacro). Di fronte a questa Europa e alle tragedie umane estreme, prima tra tutte il genocidio del popolo palestinese a Gaza, che tutte/i viviamo con un sentimento di “vertigine”, cosa significa testimoniare il male senza dimenticare il bene, frase che Maria Concetta Sala ha espresso nel convengo nazionale delle Città Vicine del 2023 per dire la sua pratica, come ha ricordato in apertura del convegno Clara Jourdan, che ha coordinato gli interventi?

Per Bianca Bottero, parafrasando Ada Colau, significa «trasformare la paura in speranza», per Loredana Aldegheri «resistere, saper guardare la magica forza del negativo», sapendo guardare, aggiunge Giusi Milazzo, le «piccole luci» che danno «speranza». Per Laura Colombo significa «riconoscere che anche nelle condizioni più dure c’è qualcosa da preservare, difendere, far emergere. Significa resistere alla tentazione di voltarsi dall’altra parte, guardare e agire, senza lasciarci paralizzare dal dolore né cadere nell’indifferenza. Significa imparare a stare nel patimento, restare alla realtà anche quando è dolorosa e trasformare la consapevolezza della sofferenza in una leva per agire». Un agire, secondo Maria Castiglioni, capace di produrre «azioni simboliche inedite, pratiche costituenti, che uniscano giustizia, bellezza e verità» come nell’azione delle Città Vicine nell’andare a Lampedusa e a Riace, facendosi «mediazione vivente». Mediazione vivente che ha in sé giustizia, verità e bellezza è la Libreria delle donne di Milano, aggiunge Laura Minguzzi. Per Simonetta Patané «rendersi conto del male» e voltarsi «verso il bene» non è bastevole in quanto le azioni sono «inefficaci» perché di «pochi», bisogna «riprendere in mano la forza» nel senso di agire con «forza» e «determinazione», «urlare», e si dice «non disposta ad essere meno forte per paura di essere violenta». Adriana Sbrogiò alla parola «violenza» reagisce dicendo di non essere d’accordo con Patané perché la violenza lei l’haconosciuta sul suo corpo con la guerra e perché la «violenza genera violenza» e solo se nella storia entra l’amore può cambiare qualcosa.

Clara Jourdan osserva che l’efficacia di un’azione non si misura sulla quantità ma sul piano simbolico. A Gaza, per esempio, «non possiamo fare cessare il massacro ma possiamo fare conoscere le mediazioni viventi che esistono e il fatto che sono poche non ci deve scoraggiare. Ci sono gruppi di donne e uomini israeliani che si incontrano diventando loro la mediazione vivente. Può sembrare che non abbiano efficacia ma non è vero, sul piano simbolico sono potenti». «Tutte le trasformazioni sono avvenute con pochi», dice Donatella Franchi che ricorda le parole di Hebe María Pastor de Bonafini, madre de Plaza de Mayo, pronunciate a Bologna nel 2007: «Per pensare la rivoluzione non occorre essere molte». Mediazione vivente è quella che fanno le donne di Città del Messico, presenti al convegno con Patricia Meza Rodríguez, che si mettono in relazione con le madri e le figlie delle donne vittime di femminicidio e ne riscattano la memoria, ricamando la loro storia e il loro nome.

In questo tempo di smarrimento generale «c’è la consapevolezza della ricerca di un nuovo vivere insieme e il femminismo, secondo Annarosa Buttarelli, è l’unica realtà mondiale che riesce ancora a pensare e a dare un orientamento» ma «deve imparare la sua trasformazione» che è «radicalità e originalità» perché «è quello che cercano le nuove generazioni», con le quali oggi esiste un problema di incomunicabilità, nel mentre la destra, secondo Mirella Clausi, riesce ad attirarle a sé dando «risposte al loro sentire» e utilizzando «intelligentemente un linguaggio più femminile di come sta facendo la sinistra». Questa generazione di giovani, dice Traudel Sattler «ha ottime relazioni con le proprie madri reali, invece con le madri simboliche si rivoltano. Ci sono dei muri che si sono creati. Molte giovani non conoscono il pensiero della differenza. Si rifiutano di sapere». Giovani che «sono tutte nell’azione e mancano di riflessione», aggiunge Donatella Franchi, ma vanno ascoltate ed «è importante trovare nuovi modi per dire le cose», aggiunge Silvia Baratella. C’è difficoltà di comunicazione anche con le donne di Non Una di Meno dove «non ce n’è una disposta a dialogare» e con il movimento Lgbtq+ che spesso nelle città, come a Catania, racconta Anna Di Salvo, dopo la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Ed. Castelvecchi), arriva a «offese e delazioni e a veri e propri attacchi», causando la rottura con organizzazioni di sinistra che preferiscono stare dalla loro parte piuttosto che difendere decenni di politica insieme alle donne della differenza. Ma l’incomunicabilità non c’è solo fuori ma anche dentro il femminismo della differenza, come dice Letizia Paolozzi. Ma è solo incomunicabilità o c’è altro? Per Paolozzi c’è il fatto che donne della differenza, prima di tutto la Libreria di Milano, hanno riempito «di tanti contenuti» la differenza sessuale, quando si diceva che questa «non ha contenuti». Laura Colombo nel respingere tale accusa rileva che non è solo questione di linguaggio ma c’è altro, un non detto ed «è come quando si rompe una relazione d’amore per cui l’altro qualsiasi cosa faccia non basta mai». Incomunicabilità anche con le donne delle istituzioni «legate ai diritti, al genere e parlano neutro».

Come abbattere il muro dell’incomunicabilità? Con quali nuove pratiche? Con quale nuovo linguaggio? C’è come Luciana Tavernini chi ci sta provando con la «formazione» per «crescere insieme ad altre che vogliono capire come trasformare il mondo» e Annarosa Buttarelli con la sua Scuola di alta formazione per le amministratrici. Dall’incomunicabilità al conflitto con il potere. Come affrontare il conflitto con il potere? Chi è il potere? E se il potere sono i poteri forti, occulti, dice Daria Ferrari, come e con chi confliggere? Chi decide di confliggere con il potere va sostenuta sempre e comunque, anche se non si è d’accordo?

Un convegno, quello delle Città Vicine, come si può vedere dagli interventi, che ha dato modo di riflettere e dialogare su questioni dirimenti per le donne, le giovani e il femminismo della differenza sessuale e che restano aperte a ulteriori riflessioni e confronti. Ha indicato un orientamento per stare e agire in questo momento storico senza farsi sopraffare dal negativo.