da La Stampa
Non è vero che, come ha affermato il vicepresidente della CEI criticando la legge toscana sul suicidio assistito, «tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia c’è una terza possibilità, quella delle cure palliative». Per due motivi. Innanzitutto, il suicidio assistito e l’eutanasia sono due cose diverse. Il primo è un atto volontario, deciso in piena consapevolezza, la seconda è il gesto più o meno pietoso compiuto da qualcuno nei confronti di un’altra persona che può non essere in grado non solo di compierlo da sé, ma di dichiarare la propria volontà.
La legge toscana, e le sentenze della Corte costituzionale cui dà attuazione, si riferiscono al primo, non alla seconda. Inoltre, anche le cure palliative per qualcuno in situazione di grave sofferenza e dipendenza da supporti – meccanici o farmacologici – vitali può rappresentare una forma di accanimento, di un obbligo insopportabile a rimanere in vita. Mentre l’offerta di cure palliative deve essere garantita a tutti e dovunque, ciò che è ben lontano dall’avvenire in Italia purtroppo, non possono essere imposte a chi trova intollerabile continuare a vivere in condizioni di sofferenza e totale dipendenza, ma non può né togliersi la vita da sé, né liberarsi dai macchinari che eventualmente lo tengono in vita. Soprattutto a chi desidera morire in condizioni dignitose e di lucidità. Per questo anche la sedazione profonda per qualcuno può essere inaccettabile. Dopo le due sentenze della Corte costituzionale che hanno riconosciuto il diritto di queste persone a ricorrere al suicidio assistito nessuno dovrebbe potersi permettere di impedirglielo o di renderglielo molto difficile, a prescindere dalle proprie convinzioni personali. Eppure è quanto sta facendo da troppo tempo il Parlamento, non approvando una legge che definisca non già il diritto o meno a ricorrervi, che è ormai affermato dalla Corte costituzionale, ma le procedure necessarie e le responsabilità di chi deve attuarle. In mancanza di questa legge, infatti, l’esercizio di quel diritto è alla mercè della discrezionalità delle aziende sanitarie e delle loro commissioni mediche, che possono allungare i tempi a dismisura, quando non negare il sostegno in base a valutazioni più o meno capziose.
La Regione Toscana, con la sua legge non fa che definire procedure certe e con tempi ragionevoli. È paradossale che qualche esponente della maggioranza abbia gridato alla “fuga in avanti”. In realtà si tratta di un parzialissimo, perché solo in una regione, recupero del ritardo. E se ci sarà un rischio di “turismo della morte”, come ha denunciato qualcun altro, ciò non dipenderà dal fatto che la Toscana ha approvato questa legge, ma dall’ostinata pervicacia del Parlamento a non approvarne una in ottemperanza alle indicazioni della Corte Costituzionale.
C’è persino chi vorrebbe approvare una legge che di fatto negasse il diritto faticosamente conquistato con le sofferenze e la determinazione di persone che chiedevano che venisse riconosciuta la loro libertà di morire dignitosamente e senza artificiosi e dolorosi prolungamenti. Ma il diritto alla vita non può essere rovesciato né in un obbligo ad essere mantenuti in vita ad ogni costo e contro il proprio volere, né nell’opzione secca tra morire tra atroci sofferenze oppure perdendo la coscienza di sé sottoponendosi a sedazione profonda.
È difficile decidere che cosa sia meglio, più giusto, fare quando una persona molto sofferente e dipendente non è in grado di esprimere i propri desideri ed effettuare delle scelte consapevoli. Ma quando una persona in possesso delle proprie facoltà mentali, ma altrimenti totalmente dipendente per la propria sopravvivenza fisica, manifesta il desiderio di porvi fine e non considera accettabile nessuna alternativa, quando chiede di essere aiutata, dovrebbe solo essere accolta con rispetto per la sua libertà e accompagnata nella sua scelta, senza spazio per discrezionalità umilianti e dilazioni disperanti.
da il manifesto
«Sono felice. Ho inquadrato questa esperienza sotto la luce della lotta politica. Riguardava me, ma avrebbe potuto riguardare chiunque altro. Per me è stata un’esperienza legata a una militanza che non ho mai smesso di portare avanti». Dopo anni di processi e senso di solitudine, Mimmo Lucano si sente finalmente sollevato.
La Corte di Cassazione ha messo una pietra tombale su un impianto accusatorio che voleva fare di Riace un modello criminale. Assolto per i reati più gravi – resiste all’ultimo grado di giudizio solo la condanna a 18 mesi per falso, con sospensione della pena – l’eurodeputato non perde il sorriso: «Sì, è vero è rimasta la condanna per falso. Però, a dire la verità, non capisco nemmeno la natura di questo reato. È un illecito amministrativo, che non ha alcuna valenza per me».
Che idea si è fatto di ciò che è accaduto in tutti questi anni di processo?
All’inizio non me ne rendevo nemmeno conto, ma a un certo punto ho capito che il potere non poteva permettersi di lasciare indisturbato ciò che stava accadendo a Riace. Riace aveva ribaltato il paradigma della narrazione criminale sulla migrazione anche grazie agli atteggiamenti spontanei della gente del posto, fatti di accoglienza e ospitalità. È un’antropologia che favorisce il senso di solidarietà. Io ho voluto legare tutto ciò a un valore politico: stare dalla parte dei più deboli, dei migranti, di chi vive nel disagio sociale.
Crede ci sia stato un accanimento politico nei suoi confronti?
L’esperienza di Riace è stata una vera e propria rivoluzione. Mi viene subito in mente Dino Frisullo, che mi ha fatto innamorare della questione curda e di quella palestinese. E anche il regista Wim Wenders, che ha parlato di Riace come di un’utopia che non poteva che essere ostacolata. Questa è una battaglia che mette in contrasto i valori della sinistra, basati su uguaglianza e solidarietà, con quelli della destra, che purtroppo parlano un altro linguaggio: quello del razzismo, della violenza, dei lager libici e dei torturatori.
Cosa è rimasto oggi del modello Riace oggi?
Riace oggi è ancora in piedi, nonostante tutte le difficoltà. Abbiamo resistito per cinque anni, anche sotto un’altra amministrazione comunale, ma ora vogliamo guardare al futuro. Non vogliamo che Riace diventi una delle tante realtà segnate dal declino sociale e dall’oblio. L’accoglienza è stata una speranza non solo per i migranti ma anche per le comunità locali: accogliere significa aprire nuove scuole, asili, oratori.
Parlare di accoglienza in epoca di deportazioni a Guantanamo e in Albania?
La questione migratoria è centrale in un dibattito mondiale che va dagli Stati Uniti all’Europa, passando per l’Italia e la Libia. Spesso le soluzioni proposte sono disumane. L’Italia ha contribuito a questa tragedia firmando i memorandum con la Libia nello stesso periodo in cui Riace veniva criminalizzata: non potevano permettere che un piccolo comune raccontasse una storia completamente alternativa.
Cosa si augura per il futuro?
Mi auguro che questa esperienza possa essere un esempio per l’Europa. Non un’Europa dei fili spinati, delle barriere, dei campi di internamento, ma un’Europa della democrazia, dell’accoglienza, della solidarietà. L’Europa deve scegliere: o continua su questa strada, o rinnega se stessa. Con questa sentenza, possiamo dire che il modello Riace non è solo un sogno, ma un futuro possibile.
da Il Quotidiano del Sud
La vita è imprevedibile, ti sorprende quando meno te l’aspetti e ti costringe a interrogarti, a guardarti dentro per capire e capirti, per cercare e dare un senso a quanto ti è accaduto quando pensavi di aver vissuto le tue esperienze amorose e nell’età del tramonto non ti aspetti più niente. Ed ecco invece che irrompe l’imprevisto, l’impensato, il non cercato, che ti apre alla conoscenza di quel lato buio e inesplorato dentro di te, messo per lungo tempo a tacere. È quello che Katia Ricci, scrittrice e critica d’arte, racconta nel suo ultimo libro, a giorni in libreria, In penombra, edito da Les Flâneurs. Un libro confessione, un romanzo tra realtà e sogno, tra vissuto e inventato che porta l’autrice, donna consapevole di sé con alle spalle anni di femminismo, a misurarsi con le sue emozioni, paure e sessualità, a lungo taciute. Emozioni e sentimenti rimasti per anni in ombra, nonostante la pratica dell’autocoscienza degli anni ’70, e portati in superficie in un tempo “impreciso” e nello spazio di una stanza in penombra, dove l’autrice, seduta su una sedia a dondolo e lo psicoterapeuta di fronte a lei, parla delle sue fobie, dei traumi della sua infanzia, delle inquietudini e incubi notturni, del vuoto e della mancanza che sente dentro di sé, mentre aleggia il fantasma del padre che l’ha accompagnata per tutta la vita, rendendo i suoi rapporti con gli uomini complicati. Tornano lontani ricordi della sua infanzia, della madre, del suo sentirsi non amata, della casa, della campagna, della natura in cui è cresciuta, di lei adolescente che nascondeva le sue fragilità e il suo bisogno di amore dietro la sfrontatezza che la faceva sembrare forte. In quella stanza in penombra, dove si sente accolta, ascoltata senza paura del giudizio, è arrivata con il bisogno di parlare delle sue paure, «capirne la ragione e possibilmente guarire», ma l’imprevisto la sorprende, la coinvolge e la interroga. A poco a poco, infatti, il rapporto medico-paziente cambia, viene travalicato e quello che poteva essere un innamoramento terapeutico diventa un sentimento di amore corrisposto, che le regala sensazioni mai provate prima. Un amore vissuto e accettato con consapevolezza, raccontato con delicatezza e gratitudine ma anche con timore di essere giudicata dalle donne, dalle amiche con cui condivide quotidianità, affetti e politica. Perché scrivere di una storia passata e che si trova a raccontare al suo psicologo? Non ha certezze. «Forse per lenire il senso di mancanza, per riempire con la scrittura un vuoto disperato. O forse per cercare di fare emergere una trama che abbia un senso in tutta la storia, oppure per chiudere un cassetto che rischia di rimanere sempre aperto e di procurarmi dolore, oppure per capire come e perché sia successo». Qualunque sia la ragione l’autrice ci regala un libro coinvolgente, in cui ci/si svela a se stessa, ripercorre i suoi pensieri, analizza cosa l’avesse «spinta a cercare conforto e rifugio in un amore tardivo», nella consapevolezza che il rapporto analitico era fallito e che lui era stato “scorretto”. Ma a lei piaceva, si sentiva coccolata, ascoltata, vista e tra le sue braccia, come nel contatto con la madre della primissima infanzia, le paure e le fobie sparivano. Si era scoperta bisognosa d’amore e di cura, e lui glieli aveva dati. Si interroga continuamente, si fa domande a cui non ha risposte certe. Perché un uomo e non una donna psicoterapeuta? Di che cosa sentivo veramente bisogno? Quali mancanze avevo? Percepivo che la mancanza principale fosse non aver avuto una figura paterna rassicurante. Lui ne faceva le veci. Aveva capito il mio vuoto e da narciso qual era aveva deciso di riempirlo? Fu tutta una trappola? Forse è vero, «bisognerebbe poter vivere almeno due volte, una di prova e l’altra per davvero».
da Pandora Rivista
In ricordo di Aldo Tortorella, comunista amico delle donne mancato il 5 febbraio 2025, ripubblichiamo questa bella intervista del 17 aprile 2015, che si incentrava sulle prospettive della sinistra nella crisi della modernità in atto a partire dalla storia della sua vita.
Ci sembra il modo migliore di ricordarlo e di salutarlo.
La redazione del sito
Domanda: Fai parte di una generazione di dirigenti politici, e in particolare di dirigenti comunisti, che sono stati segnati nel profondo dalle convinzioni ideali della Resistenza, nella prima giovinezza. Ti chiederemmo intanto di ripercorrere brevemente cosa hanno significato per te quegli anni e quelli immediatamente successivi alla liberazione.
Risposta: Forse debbo dirti prima come mi sono avvicinato ai comunisti e alla Resistenza. A diciassette anni – avevo “saltato” qualche classe – mi iscrissi alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Milano per poter studiare con Antonio Banfi, titolare di Storia della Filosofia e di Estetica. Sapevo che era comunista e io mi consideravo tale. La scoperta dei comunisti era avvenuta attraverso l’interesse per lo studio della filosofia. Il mio primo insegnante al Liceo era un crociano, liberale, antifascista. Era un ottimo insegnante, si prese cura di me, forse anche perché ero abbastanza solo ad amare la sua materia tra gli studenti del liceo scientifico che avevo scelto di frequentare. Erano quasi tutti bravissimi in matematica, sognavano il politecnico, l’edilizia, la meccanica, si appassionavano alle onde radio e alle meraviglie della fisica delle particelle. Ero allo scientifico perché avevo immaginato di fare il biologo: forse ero più saggio da ragazzo.
Ma le passioni non si possono sempre dominare, come si sa. Comunque, il mio primo professore di filosofia morì, e venne un giovane supplente (Mario De Micheli, poi critico e docente universitario di storia dell’arte), che si manifestò dapprima come libero pensatore, lontano dall’idealismo crociano e poi, quando si accorse di me e io entrai in rapporto con lui, si svelò come marxista e comunista. Era un appassionato cultore delle arti figurative: e, come tale, partecipe della consorteria dei giovani pittori e scultori di allora dell’accademia di Brera. Tra quei giovani pittori c’erano alcuni che diventeranno noti (Morlotti, Cassinari, Dova, Peverelli…) ma il più celebre diverrà Dario Fo, però, come si sa, quale autore di teatro. Il maestro cui quei giovani guardavano era Picasso, comunista anche lui. Il quadro di riferimento era Guernica, simbolo della barbarie nazista. Una forte spinta all’indignazione contro l’ingiustizia sociale veniva a me come per altri di quella generazione, dalla lettura dei romanzieri sociali americani della prima metà del secolo: Jack London, Caldwell, Steinbeck, il primo Dos Passos, forniti dal fratello maggiore, letture che facevano seguito ad alcuni dei classici della narrativa ottocentesca russa, presenti in casa.
Uno della compagnia dei giovani di Brera era Raffaellino De Grada (figlio di un pittore importante a quel tempo – a metà, come altri, tra tradizione e avanguardia). Questo giovane – che diverrà un noto critico d’arte – era più grande di me e già in contatto organico con il Partito Comunista, che stava costruendo il Fronte della Gioventù insieme agli altri partiti del CLN. Dal rapporto con lui arrivai a partecipare alla formazione del comitato del Fronte della Gioventù di Milano. Entrai in contatto con Gillo Pontecorvo allora membro del comitato nazionale del Fronte, divenni responsabile degli studenti universitari, e in questa veste venni arrestato nel ’44, di fronte all’Università Cattolica dove andavo per un incontro clandestino, per la delazione di una spia. Finii in carcere, mi ammalai, venni mandato nel reparto carcerario dell’Ospedale Maggiore. E di qui poi evasi grazie a una indicazione del CLN all’organizzazione interna, diretta da un primario, comunista, e da una suora. Il capo del Fronte, Eugenio Curiel – un giovane fisico di valore dell’Università di Padova epurato perché ebreo, antifascista e comunista già prima della guerra, poi assassinato dai fascisti per strada, a Milano, alla vigilia della liberazione – mi mandò a Genova a rifondare l’organizzazione del Fronte della Gioventù dove il gruppo dirigente era stato in parte catturato, in parte disperso. Il Fronte era composto da tutti i partiti del CLN. Tra i fondatori e dirigenti c’erano anche due monaci serviti, David Turoldo e Camillo de Piaz, che saranno emarginati dalla gerarchia ecclesiale per tutta la loro esistenza.
A Genova fu una vita dura, ma facemmo tanto lavoro clandestino di agitazione e propaganda – come si diceva allora. Nella notte del 24 aprile, essendo uno dei pochi studenti universitari rimasti – altri erano stati trucidati o deportati – fui destinato all’Unità. A Genova l’insurrezione anticipò di un giorno, così il nostro fu il primo numero nel nord dell’Unità legale. Da allora, furono quattro le edizioni dell’Unità: a Roma e nel triangolo industriale Genova-Torino-Milano. Il Partito comunista voleva essere il partito della classe operaia: e di fatto lo era anche da un punto di vista sociologico. Soprattutto alla liberazione era un partito di operai e di dirigenti di estrazione operaia. Gli intellettuali erano pochi, gli studenti anche. A parte Togliatti e il vertice della direzione, la maggioranza degli altri era di estrazione operaia, acculturati nelle scuole di partito dentro le carceri o all’estero. Gli intellettuali di professione, alcuni dei quali particolarmente eminenti – come Antonio Banfi o Concetto Marchesi – assumeranno solo successivamente un ruolo di direzione così come gli intellettuali divenuti funzionari del partito.
Ma tu mi chiedi non solo come sia diventato comunista ma cosa pensassi in quanto partecipe della lotta di liberazione. Diversamente dall’ispirazione ufficiale della Resistenza, e dal sentimento dichiarato da altri, non pensavo che la nostra fosse una lotta limitata ai motivi patriottici nazionali, pur sentendoli e sapendoli essenziali per la costituzione di una alleanza così larga (dai comunisti fino ai monarchici) di cui ero ben consapevole: in quanto responsabile del Fronte a Genova avevo cercato di ricostruire i rapporti con i giovani di tutti i partiti antifascisti. Scambiavo, ma forse non ero il solo, il prevalere del sentimento nazionale con il nazionalismo fascista, retorico e insopportabile. Cosicché, per quanto mi riguarda, debbo confessare che pensavo al cambiamento non solo dell’Italia ma del mondo intero. Come vedi, non lesinavo nelle ambizioni. In effetti, le aspirazioni comuniste si presentavano ad un giovane come idealità universalistiche. Sarà poi la politica di Togliatti a far capire anche a me che i comunisti dovevano far propria l’idea di democrazia, considerandola in tutta la sua latitudine, e l’idea di nazione collegandola all’internazionalismo. E Curiel ci aveva insegnato che l’obiettivo era la “democrazia progressiva” (vale a dire una parola d’ordine radicalmente diversa dalla “dittatura del proletariato”). L’obiettivo era quello indicato da Togliatti. Curiel lo aveva particolarmente elaborato. Volevamo una democrazia capace di rendere protagoniste le classi escluse dal potere in una società capitalistica.
Questi convincimenti convivevano con il mito dell’Unione Sovietica come mondo nuovo. Negarlo sarebbe ipocrisia. La incredibile resistenza di Stalingrado (oggi Volgograd) e di Leningrado (tornata Pietroburgo) sembravano la conferma che una società nuova, carica d’ideali, era nata e vinceva. Il socialismo sembrava ormai realtà storicamente avviata in uno dei più grandi paesi del mondo, seppure attraverso tragedie immani. Anche se i processi staliniani contro i dirigenti bolscevichi – la cui notizia era arrivata attutita e poi era stata sommersa dal fragore della guerra – avevano creato dubbi, di cui si parlava. L’ultimo era stato quello contro Bucharin. Prima era stato condannato, con altri, Radek, un dirigente del cui valore intellettuale era giunta eco fino a uno studente come me. Radek sembrava aver scampato la condanna a morte che sterminò gran parte dei massimi dirigenti bolscevichi, ma in carcere fu assassinato alla vigilia della guerra. Ne avevo letto su non so quale pubblicazione che riferiva del processo e dell’esecuzione sommaria e ne chiesi, in clandestinità a Genova, al vecchio compagno che era il mio “contatto” e dirigente di partito. Non sapevo allora chi fosse, naturalmente. Era uno straordinario compagno (Carlo Venegoni) di estrazione operaia e di ascendenza politica, per dirla in breve, bordighista e poi di tipo trotzkista. E mi disse: «Processi tutti falsi. Ma dobbiamo stare con l’URSS». Indimenticabile. E indimenticabile un’altra frase di quelle discussioni al tempo della resistenza sull’Unione Sovietica, ma questa di un compagno intellettuale “ortodosso”: «Non sappiamo se il difetto sia nel sistema o del sistema». Non eravamo ciechi e sordi.
Poi, nel ’48, ci fu il caso Masaryk, ministro degli Esteri socialdemocratico cecoslovacco in un governo a maggioranza comunista. Volò nella notte dalla finestra, si parlò di suicidio, il dubbio di un assassinio fu forte, il clima divenne teso. Ma a monte (nel ’46) c’era stato il discorso di Fulton di Churchill, concordato con Truman, con cui si rompeva l’unità mondiale antifascista e iniziava la guerra fredda. La Cecoslovacchia, secondo gli accordi di Yalta, era nella sfera di influenza dell’Urss, il caso Masaryk fu digerito. Nel ’53, però, ci fu la rivolta degli operai di Berlino: un regime come quello della Germania dell’Est che voleva essere socialista in cui gli operai si rivoltavano. Lo ricordo come uno shock. E poi nel ’56 ci fu l’Ungheria ed io, come dissi a Banfi, con cui mi ero laureato, volevo andarmene dall’apparato del PCI, tornare agli studi. Fui trattenuto, anche per la memoria della Resistenza, per tutti i compagni che non c’erano più. Uno di loro, Walter Fillak, un giovane studente universitario di Genova, impiccato, scrisse ai genitori – è riportato nelle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” – che sapeva di andare a morire e che però il suo sacrificio avrebbe dimostrato la qualità dei comunisti, anche per la conquista della democrazia.
Il ricordo di tutto questo mi fece apparire l’abbandono del Partito – essendone divenuto un dirigente – come un cedimento, anche perché allora lo scontro era frontale. Molti intellettuali uscirono. Col tempo alcuni tra i più eminenti ritornarono: Antonio Giolitti, per esempio, che poi militò nelle file del PSI, ricoprendo responsabilità rilevanti in parlamento e nei primi governi di centro sinistra, e concluse la sua vita politica come parlamentare eletto nelle liste del PCI. Era già vecchio quando accettò la candidatura, e fu quasi una testimonianza che volle dare sull’involuzione craxiana e sull’evoluzione dei comunisti italiani. In questo processo evolutivo del PCI è stato determinante, credo, il contributo della generazione della Resistenza. Questa generazione ha avuto come compito, via via scoperto e assunto, quello di riscattare l’onore del nome comunista, che avevamo sposato da ragazzi – un nome stravolto da tanti tremendi delitti –, e di cercare di dare un senso concreto a quella che si chiamava la “via italiana al socialismo”. Berlinguer si è particolarmente distinto in questo: non solo nel separare le idealità comuniste, come le pensava lui e tanti di noi, dal modello sovietico, cosa che almeno in parte aveva fatto già Togliatti, ma nell’affermare con chiarezza un’altra visione del socialismo, una visione non valida solo per l’Italia.
Il PCI era stato il più tenace difensore della Costituzione repubblicana nello scontro difficile e aspro di tanti anni. La storia italiana è costellata di morti in piazza per le lotte del lavoro e per la difesa della democrazia fino agli anni Cinquanta e, dopo, è segnata dalle tragedie e dai lutti generati dal terrorismo di ogni parte e colore, particolarmente attivo, fino all’assassinio di Moro, ogni volta che il PCI si avvicinava al governo. Da Berlinguer in poi, cioè dall’inizio dei ’70 del secolo scorso, ma in parte anche prima, fu la generazione della Resistenza a guidare il Partito comunista nella ricerca di una via democratica verso una trasformazione sociale. Alcune conquiste ci furono. Molte battaglie furono vinte. Ma se la situazione di oggi è così deteriorata, se la democrazia è sotto assedio vuol dire che complessivamente ciò che fu costruito non era così solido come si pensava. La sconfitta è stata prima di tutto culturale. Le fondamenta stesse hanno in gran parte ceduto.
Domanda: Sei stato uno dei massimi dirigenti del Pci, direttore dell’Unità, responsabile con Longo e il primo Berlinguer delle politiche della cultura e poi coordinatore della segreteria nella ultima parte della stagione berlingueriana. La tua generazione è stata una vera e propria aristocrazia politica, fatta di “politici-intellettuali” e “intellettuali-politici”. Quale era allora la natura del nesso tra politica e cultura? Possiamo dire che il Partito esercitava una vera e propria capacità egemonica nel mondo culturale italiano, dalle arti figurative, alla letteratura, dal cinema, al teatro?
Risposta: Innanzitutto una precisazione. La nozione di egemonia del Pci nel mondo della cultura ha senso se riferita alla condivisione della linea politica del Partito da una parte molto notevole e influente della intellettualità. Fummo a lungo nel clima determinato dal patto costituzionale che riguardava la costruzione di uno stato effettivamente nuovo: penso ad esempio alla definizione del carattere sociale della proprietà (art. 42 Cost.). Inoltre nel dopoguerra il Pci ebbe una funzione determinante nella lotta contro la censura, contro le tendenze oscurantiste, per la libertà della elaborazione culturale in ogni campo. Ma è dubbio che il Pci esercitasse davvero una funzione trainante nell’insieme dei settori della creazione del patrimonio conoscitivo e della espressione artistica.
Fino all’VIII congresso (quello successivo al ’56) la nozione di “cultura” recava con sé un pesante bagaglio ideologicistico. Solo dopo il 1956 il “lavoro culturale” divenne pienamente una attività per politiche culturali innovative nel campo della scuola, dei beni culturali ecc. Inoltre nelle università l’influenza dei cattedratici di estrazione comunista o simpatizzanti della sinistra era molto contrastata da una pesantissima presenza e forza organizzata conservatrice laica e cattolica. Il cattolicesimo pre-conciliare era fortemente intriso di spirito di conservazione. Anche perché dall’altra parte del Muro, nei paesi delle democrazie proletarie, contrariamente alla linea propugnata da Togliatti, lo scontro tra comunisti e Chiesa cattolica, pensiamo a Ungheria e Polonia, era acutissimo. La linea dei comunisti italiani, che aveva portato all’accettazione del Concordato con la Chiesa in Costituzione, appariva quasi un tradimento agli occhi dei partiti comunisti dei paesi socialisti. Oltre che essere invisa ai partiti laici italiani i quali, però, collaborarono poi con la DC, per tanti anni.
Una parte importante dei massimi dirigenti del Partito nel tempo della lotta antifascista e della prima età repubblicana erano uomini dell’Ottocento o dei primi del Novecento. L’evoluzione della cultura creativa, per esempio nel campo delle arti figurative, con l’affermarsi di nuovi modi di guardare il mondo (con l’astrattismo, l’arte concettuale, l’arte povera ecc.) era ostica per loro. Non per sudditanza al realismo socialista: ma per formazione culturale. Togliatti era un “carducciano”. Amendola, pur compiendo la “scelta di vita” comunista, era cresciuto in casa Croce. Ingrao, che rappresentò la sinistra del partito a partire dal ’66, originariamente “pascoliano”, era cresciuto con Montale. La formazione di Togliatti e di quel gruppo dirigente era avvenuta nei primi anni del secolo e quella di Ingrao, Amendola, Alicata ecc. negli anni ’30.
Oltre che nelle arti figurative, nel campo delle lettere ben presto, con il gruppo ’63, la tendenza neorealista (sostenuta anche dalla stampa comunista) fu messa in discussione e sostanzialmente superata. Nel campo delle scienze umane la cultura del gruppo dirigente ebbe un pesante ritardo (essenzialmente per l’influenza dello storicismo crociano, sprezzante verso la sociologia e tutte le sue implicazioni). Fu nel determinante settore del cinema che la nostra influenza divenne molto forte, quasi egemonica: mentre nelle arti figurative il realismo era ancorato a esperienze del passato, nel cinema il neorealismo era del tutto innovativo. Si passava dai film dei cosiddetti “telefoni bianchi”, cioè il cinema costretto dal fascismo a mostrare poca parte o nessuna della condizione delle classi subalterne e dei mali della società, al cinema “neorealista” che aveva l’ambizione di rappresentare la realtà per quello che realmente era e aveva una profonda valenza almeno progressista: Visconti, De Sica e molti dei più giovani autori erano orientati a sinistra e alcuni esplicitamente verso il Pci.
Certo, il rapporto della cultura con la politica era considerato decisivo per il gruppo dirigente comunista che formerà il “partito nuovo” di Togliatti. Era impensabile che si potesse diventare dirigenti senza un rapporto con il sapere e con qualche competenza determinata. La scoperta e l’insegnamento di Gramsci fu in proposito essenziale. Ma la cultura non era importante solo per i comunisti: nel gruppo dirigente democristiano non mancavano certo i docenti universitari, non posso non pensare ad esempio ad Aldo Moro. L’idea stessa della politica era diversa: la diversità stava anche, se non soprattutto, nelle diverse visioni del mondo. C’era una contrapposizione ideologica.
Domanda: Contrapposizione ideologica le cui ragioni e le cui radici affondavano in profondità.
Risposta: Certamente. La parola “ideologia” può significare falsa coscienza, ma anche sistema di valori: si contrapponevano valori come uguaglianza, solidarietà, più vicini alla sinistra storica e al movimento operaio, e il valore della libertà (non certo ignorata da socialisti e comunisti) che era premessa dalle altre forze (libertà di coscienza, di impresa, rivendicata come se l’altra parte non ne avesse contezza). Il grande errore del movimento operaio italiano è stato quello di lasciare, a livello simbolico, che la DC si appropriasse dell’idea di libertà (parola “libertas” incisa sullo scudo crociato) in modo quasi monopolistico e di sembrare, e in parte di essere, paladina del primato assoluto dell’eguaglianza.
Quanto alla centralità assegnata alle radici ideali e culturali dei nostri convincimenti, ricordo che a volte nella direzione del Pci poteva accadere di questionare su questioni schiettamente filosofiche. Il mio maestro, Banfi, aveva una lontana origine kantiana, perché era stato a studiare in Germania all’inizio del ’900, quando fioriva la scuola neokantiana di Marburgo e nello stesso tempo Simmel. Lo stesso maestro di Banfi, Martinetti, era il massimo interprete di Kant della sua generazione. Il fatto che la dialettica hegeliana venisse trasformata nel materialismo dialettico per alcuni di noi era irritante, perché questo si era tradotto fatalmente in una vulgata ridicola e grossolana. Ricordo di una discussione in direzione tra me e Alfredo Reichlin sullo storicismo hegeliano (avversavo la vulgata storicista che nei suoi cascami diventa il “chi vince ha ragione”) e un’altra con Pajetta e Amendola sulla filosofia di Nietzsche. Questi ultimi due compagni venivano dalla stagione dell’antifascismo: Amendola, che non era affatto un socialdemocratico, e Pajetta – saranno i maggiori sostenitori di Togliatti nella generazione di mezzo – avevano aderito al Partito comunista dopo la svolta della VI internazionale, cioè dopo il congresso del “socialfascismo”, la parola d’ordine settaria che portò alla rovina il partito comunista tedesco, la Germania e l’Europa. Per loro Nietzsche era essenzialmente quello che i nazisti e i fascisti avevano eretto a loro nume. Invece, in quel tempo, mentre io dirigevo la sezione culturale, nel dibattito corrente c’era, tra l’altro, una rivalutazione di Nietzsche da sinistra. Mazzino Montinari, comunista, curò con Giorgio Colli la pubblicazione delle opere di Nietzsche e dette una svolta agli studi nietzschiani, ma anche altri tra cui Cacciari (del quale io non condividevo quasi niente), erano orientati, secondo me giustamente, a strappare il pensiero nietzschiano alle grossolanità e anche alle falsità delle interpretazioni nazistiche e a riportare quel pensiero a se stesso. Nietzsche è stato il pensatore più dissacratore della sua generazione. Ebbi la meglio in quella discussione perché in quell’anno era stato appena pubblicato il diario della madre di Pajetta, che era stata una grande comunista, insegnante, di famiglia medioborghese. In gioventù, aveva scritto un diario, che era stato scoperto e pubblicato dalla federazione comunista di Torino, in cui raccontava che la lettura di Nietzsche le aveva aperto la mente e fornito le armi critiche contro i luoghi comuni del pensiero chiesastico e della consuetudine borghese. Fu una buona prova per convincere il figlio, carissimo e difficile compagno.
Domanda: Nel documento della presidenza dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra del maggio 2013, tra le altre cose, si legge: «Se la sinistra abbandona l’analisi critica della realtà economica e sociale determinata dai modelli di produzione e di consumo e della loro rappresentazione simbolica e culturale, rinuncia alla sua medesima ragion d’essere e diviene incapace di portare un utile contributo al risanamento dei mali presenti nella società». Una delle domande […] muove pressappoco da questa vostra considerazione, in altre parole dall’assunto che la crisi che viviamo, avanti tutto di civiltà, ha svelato la parzialità di una dottrina ideologica, quella neoliberale, che aveva e ha tra le sue condizioni d’essere quella di porsi appunto come oggettiva e ineludibile cornice dell’agire politico, estromettendo l’analisi critica dal campo della politica. La Sinistra, in particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima ancora che politicamente a una visione del mondo che non le apparteneva: cosa ritieni ci sia alla base di questo pressoché totale appiattimento?
Risposta: Purtroppo di questa sudditanza fanno parte anche molti amici e compagni della mia generazione: è mancata l’analisi critica della realtà e conseguentemente della nostra realtà perché la frettolosa abiura, in luogo di un più serio processo di superamento, ha portato come conseguenza l’accettazione acritica del pensiero dei vincitori. Ho fondato questa associazione con l’obiettivo di contribuire a ricostituire i fondamenti della sinistra: la mancata revisione dei fondamenti del movimento comunista e della medesima idea socialista ha portato inevitabilmente al cedimento che dicevo: sono tutte giuste le idee dell’altra parte. Se non si riesce a distinguere quanto ci fosse di giusto nelle domande originarie, e quanto di sbagliato in alcune delle domande e in molte delle risposte, e non se ne cercano delle altre, non puoi che arrenderti al senso comune: quando si pensa a Gramsci e Togliatti, si deve ricordare che essi ebbero la capacità di leggere in chiave critica il loro passato per trovare la risposta alla loro sconfitta. Ed è per questo che poi Togliatti fece la politica che ancorò il partito alla democrazia, alla nazione, alla idea delle “riforme di struttura”, tenendo ferma la convinzione che un cambiamento fosse necessario nella democrazia e nella pace. Non è tra l’altro vera la vulgata della doppiezza togliattiana: lui si considerava, credo, sinceramente uno dei costruttori della parte “buona” dell’Urss. Non dimentichiamo che era stato un buchariniano. Pensava che pur col sangue, con le tragedie, i massacri, una nuova storia si era avviata.
Ma quando tu fai parte di una generazione che, sia pure faticosamente, si accorge che quella storia avviata non andava “verso il comunismo” ma si sostanziava in una dittatura burocratica (che sboccherà poi nel capitalismo selvaggio tanto in Russia quanto in Cina) devi avere la capacità di capire che qualcosa di profondo era sbagliato. Tutta colpa solo di Stalin? Non si può sapere che cosa sarebbe diventata la rivoluzione russa se Lenin non fosse morto così presto e se la sua NEP fosse continuata: anche Lenin credeva di applicare le idee rivoluzionarie di Kautsky, ma poi lo tacciò di “traditore”, perché anche Kautsky, come la Luxemburg, non concordava con la soppressione della dialettica democratica e delle libertà politiche.
Dunque era essenziale, e lo è ancora, capire quali siano stati i veri errori teorici oltre che pratici da cui è venuta la sconfitta drammatica del movimento comunista per un verso e la omologazione del movimento socialdemocratico per altro verso. Ma in luogo di questo sforzo di comprensione, purtroppo, vi è stata solo abiura. Demonizzare non serve a niente e, anzi, peggio, nasconde i propri errori e li ripete inconsciamente.
È parso, dopo l’89, che si volesse tornare alle origini e riscoprire Bernstein, che aveva ragione a definire passeggere le crisi del capitalismo. Ma questo non è avvenuto, in realtà, qui da noi. Perché se si ripensa alla esperienza e alla dottrina di quella prima generazione di riformisti bisogna ricordare che c’era in essi l’aspirazione al cambiamento socialista, inteso come mutamento dei meccanismi economici, non il cedimento a una concezione che oggi definiamo liberista.
Nel tempo presente il socialismo è diventato sinonimo di stato sociale, essendo dipendente dal ciclo economico, giacché utilizza i margini dell’economia corrente, quando interviene una crisi, va in crisi anch’esso. Lo stato sociale nasce in casa conservatrice e poi viene sviluppato dai socialdemocratici (e in Italia anche con il contributo determinante dal PCI) ed è cosa certo positiva: dà lavoro e comporta una distribuzione della ricchezza, ma non mette in discussione il modo dell’accumulazione e il suo fine. L’errore di coloro che hanno pensato che lo stato sociale non fosse sufficiente (com’è avvenuto per la parte detta “rivoluzionaria” del movimento socialista) non è stato quello di pensare che fosse pensabile e necessario un altro modo di produzione, ma nella concezione dell’insieme della realtà cui il fondamento economico appartiene e, dunque, nella concezione di quel che volesse dire un altro modello economico e in quale modo fosse perseguibile. L’errore fondamentale è stato, credo, la riduzione all’economia della critica sociale e la sottovalutazione – o la ignoranza – del ruolo parimenti essenziale dell’immaginario e del simbolico. Solo Gramsci, tra i marxisti del XX secolo, ha intuito – e non si può certo fargli colpa di non aver potuto andare sino in fondo nella sua ricerca – la complessità del reale e il ruolo determinante e autonomo di quella che in antico gergo si è chiamata la “sovrastruttura”.
Da quella amputazione nella concezione della realtà è venuta l’idea che il mutamento della proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, cioè il passaggio del titolo giuridico della proprietà dal privato al pubblico, risolvesse l’insieme dei problemi. A questo si è ristretto il campo: non solo da Lenin e Stalin, ma già in Bernstein e Kautsky. Anche nel programma dell’Internazionale socialista democratica fino all’89 c’era il superamento del capitalismo: questa aspirazione, date le guerre, i massacri coloniali, lo sfruttamento del lavoro, le assurdità dell’assetto sociale capitalista, era certo giustificata, ma se per la parte “rivoluzionaria” l’errore è stato nella supposizione che il mutamento proprietario risolvesse tutte le contraddizioni (e, dunque, sul piano della pratica politica, l’esaltazione del volontarismo e della soggettività – cioè della funzione dominante del partito), per la parte “riformista”, mi pare, l’illusione è stata quella che le correzioni sociali nel modello dato portassero alla lunga anche al mutamento del modello.
Continuo a pensare che il problema sia e rimanga quello di una visione complessiva della realtà, dunque di una capacità di valutazione critica che vada oltre l’economico. È certo meglio, comunque, una volontà riformatrice, per quanto limitata, che l’accettazione del credo liberista, della fiducia cieca nel “mercato” inteso quasi come dato di natura (mentre è ovviamente creazione umana). Mancando una intenzionalità riformatrice, non puoi che accettare le ricette correnti o rimanere nell’alveo della nostalgia. Entrambi atteggiamenti sbagliati. Il momento che viviamo è per certi aspetti identico a quello della formazione dei primi partiti socialisti.
Domanda: È stato commesso principalmente il primo dei due errori di cui parli, anche in Italia…
Risposta: L’errore nel momento della metamorfosi del PCI non è stato quello di pensare che fosse necessaria una trasformazione, ma nel modo di farla. Bisognava capire che per creare in Europa e nel mondo un orientamento ideale alternativo occorreva maneggiare dei concetti diversi. La discussione su Kant e Hegel, oppure sul pensiero “debole” o quello “forte” gira tutta intorno a quali concetti maneggi. Ad esempio: qual è il motivo originario del movimento comunista? Il bisogno soltanto? No, non è vero, perché esso si incontra con un’esigenza di carattere puramente ideale, cioè etico. Se leggi il Manifesto dei Comunisti di Marx ed Engels, che quando lo scrissero erano due giovanotti di trent’anni, ti chiedi: perché vogliono cambiare? Solo perché individuano una legge della storia, quella della lotta di classe? No, perché ebreo l’uno e di famiglia cristiana l’altro, ereditano delle idee di ordine morale, ereditano, pur discutendola, un’etica. È una questione di giustizia, perché è “più giusta” una società di liberi e uguali. L’idea di giustizia non nasce in natura. E nemmeno quella di “sinistra”, che è un dover essere.
La questione delle questioni era ed è la questione morale, che non è una caccia al ladro, ma l’idea che il fondamento della politica non può che essere di natura etica. Il fondamento etico significa che anche la distinzione weberiana tra la morale delle intenzioni e della responsabilità sta in piedi fino ad un certo punto. Tanto è vero che con la morale della responsabilità, se vissuta dogmaticamente, si rischia di finire a tagliar le teste: i fondamentalismi religiosi dicono di appellarsi alla fede autentica e vera, il “socialismo scientifico” diceva di agire in nome della verità della scienza. Lo storicismo, che fu prevalente nel gruppo dirigente del PCI, ha il merito di essere almeno in parte un rimedio contro il dogmatismo (dico “in parte” perché anche qui c’è la versione dogmatica di chi pensa di essere proprietario del vero “senso della storia”) ma può scadere, come è scaduto, nella brutta caricatura opportunista secondo cui chi vince ha ragione.
Quando dico fondamento etico della politica per una sinistra consapevole, intendo una capacità di lotta contro ogni forma di integralismo, avvertendo però che il contrario dell’integralismo di qualsiasi specie non è l’assenza di qualsiasi valore ma l’assunzione di valori umanamente verificabili. In una società pluralista i valori di riferimento sono ovviamente diversi. I conservatori hanno una etica ben netta data dalla tradizione. Spesso non si sa più che vuole la sinistra, nel senso che sposa inconsciamente il punto di vista altrui. Ma se non ha un proprio punto di vista la sinistra è perfettamente inutile. Una fondazione etica significa, ad esempio, che dato il tramonto del “sole dell’avvenire”, è venuto il momento di sapere che la corrispondenza tra principi e prassi è il metro di misura. In effetti, qualcosa di questo ci fu nei primi socialisti, ma anche nella Resistenza e nella parte migliore dell’attivismo politico di lunghi anni di battaglia.
Dopo l’89, scusa l’autocitazione, ricordai come unico socialismo possibile il “socialismo dei comportamenti”. È una definizione un po’ buffa, e certo manchevole, tuttavia, come si vede, è messa in pratica da qualche movimento (pensa all’autoriduzione, per quanto possa apparire demagogica, degli stipendi dei parlamentari pentastellati). Mettere l’accento sui comportamenti non era inutile, visto quello che accade a sinistra anche dal punto di vista della correttezza. E serve comunque a dire che una comprensione critica della realtà è prima di tutto comprensione di sé stessi, perché facciamo parte della realtà sociale e diciamo di volerla modificare, in tutto o in parte. Bisogna ripensare tutto daccapo: noi vecchi dovremmo dirvi dei nostri errori, tocca a voi rifondare un nuovo pensiero, scrivere un nuovo “Manifesto”. Voi siete, potete essere, la generazione protagonista di un pensiero di trasformazione per la contemporaneità e di una nuova tensione ideale.
Domanda: La democrazia vive una fase di grave involuzione, i diritti sociali sono sotto attacco da decenni, e con essi, conseguentemente la libertà sostanziale dei lavoratori. Possiamo ricondurre ciò tanto a una crisi della modernità, i cui caratteri costitutivi starebbero secondo molti osservatori lentamente venendo meno, quanto agli esiti della rivoluzione neoconservatrice di cui parlavamo poc’anzi. Qual è la tua lettura, e quale pensi sia il nesso, se esiste, tra crisi della modernità e neoconservatorismo?
Risposta: La risposta dipende dal significato che si dà alla parola “modernità” che, come sai, è oggetto di discussione da che se ne incominciò a parlare alla metà dell’Ottocento. Se per modernità si intende la rottura di un sistema mentale determinato da valori estrinseci e immutabili e lo sforzo di autoconsapevolezza dei singoli e della comunità umana, siamo appena agli albori, basta vedere il rifiorire degli integralismi religiosi. Ma se per modernità si intende il complesso di valori determinati dal moto di trasformazione capitalistico (il prevalere del consumo come fine in se stesso, la trasposizione del danaro da mezzo a scopo universale, la chiusura individualistica cui fa riscontro la massificazione, la competizione esasperata matrice di violenza endemica, ecc.), se per modernità si intende il mito di un lineare progresso, il nesso tra crisi della modernità, controrivoluzione conservatrice, attacco ai diritti e alle libertà diviene evidente. La controrivoluzione neoconservatrice nasce di fronte a quello che fu definito “l’eccesso di domande” della democrazia già negli anni ’70 del secolo scorso, quando si esauriscono i “trenta anni gloriosi” del periodo postbellico e della prosperità crescente nei paesi a capitalismo maturo. Le domande eccessive erano appunto quelle indotte dalle speranze di un ininterrotto sviluppo capace di garantire a un tempo avanzamenti nelle condizioni delle classi lavoratrici e mantenimento delle gerarchie sociali e dei privilegi dati, speranze che in presenza della gara elettorale potevano portare e portarono al successo in Europa, per brevi periodi, le sinistre del tempo (anche, dopo, la Thatcher e Reagan): ma sinistre ormai pienamente prone alle idee neoliberiste. La tendenza conservatrice è un tornare indietro ai principi costitutivi di una società borghese e cioè alla soggezione piena delle classi subalterne alla logica del funzionamento capitalistico. Lo scambio – teorizzato come “nuovo riformismo”, e favorito dalla globalizzazione – è tra investimento di capitale e libertà e diritti (cosa evidente in Italia con il Jobs Act e in tutta l’Europa meridionale). Funzionale a questa visione è la delegittimazione dei partiti e di tutti i corpi intermedi (come i sindacati) e funzionale a questa delegittimazione è il sistema della corruzione endemica – che, forse, poteva essere almeno in parte contenuta o delimitata all’inizio degli anni ’80 (quando vi fu la denuncia di Berlinguer, allora schernita da taluni anche entro il suo partito). Bisogna sempre ricordare che la corruzione dei partiti, così come l’indebitamento degli stati, è utile alle esigenze delle forze dominanti.
Se si va più a fondo, e si intende la modernità come progetto razionale di assoggettamento all’uomo del mondo mediante la scienza e la tecnologia, la constatazione della sua crisi può portare ad esiti opposti. I francofortesi unendo la critica della modernità intesa come dominio della tecnologia (derivante dalla supposizione illuminista della assolutezza della ragione) alla critica della società borghese e dei rapporti di classe, possono aprire, com’è avvenuto, alla speranza di mutamenti sociali tali da rendere gli uomini e le donne protagonisti della propria storia e non inconsapevoli vittime di un destino assurdo da loro stessi costruito. Al contrario, la lettura del dominio della tecnica scissa dall’analisi dei rapporti tra gli uomini e tra le classi può portare a posizioni non solo conservatrici ma reazionarie all’estremo. Come accade a Heidegger (definitivamente svelato dalla pubblicazione dei suoi “quaderni neri”) che arriva al nazismo e al razzismo antisemita in nome del ritorno all’essenza dell’umano, tradita da quelli che hanno inventato la democrazia e la tecnica (da lui identificati con gli anglosassoni e gli ebrei), essenza identificata a sua volta nell’essenza del popolo tedesco di cui Hitler sarebbe stato il redentore. (Un delirio, come ha ribadito, secondo me giustamente, Emmanuel Faye dopo i “quaderni”).
Un tale delirio è stato l’aspetto estremo della crisi della modernità e pur ritornando a comparire in Europa non va confuso con il neoconservatorismo. Questo mantiene le forme della democrazia politica intesa come voto, trasformandola in quella che è stata chiamata postdemocrazia dato il dominio del capitale finanziario, la concentrazione dei mezzi di comunicazione di massa e il costo delle campagne elettorali. Il pensiero unico liberista si afferma perché le vecchie repliche della sinistra non hanno retto presentandosi, pur con accenti diversi o persino opposti, come fautrici dello statalismo contro l’iniziativa dei singoli e del collettivo contro l’individuale. Il desiderio e la scelta – cioè l’individuo e la libertà – sono sembrate appannaggio del capitalismo guidato dagli “spiriti animali” dell’uomo. L’assetto capitalistico si presenta come legge di natura. Ogni politica che ambisca a una qualche trasformazione, in sostanza, diventa una interferenza nel ciclo naturale.
Ma le ragioni storiche di una alternativa, mi pare, sono più che mai presenti. Il modello di incivilimento in cui viviamo fa acqua per la sua stessa natura, perché ha retto e regge solo su una parte di quella che si è chiamata la “natura dell’uomo”. Le persone non sono solo storia, come hanno largamente creduto le sinistre novecentesche, ma non è neppure vero che gli “spiriti animali” siano leggibili a senso unico. Un mondo così tecnologicamente avanzato che non è capace di debellare la fame di miliardi di esseri umani e non sa evitare le guerre, che sa reggersi solo sulla competizione più assurda, non può essere il migliore tra i modelli possibili. Certo, non se ne inventa un altro a tavolino, ma pian piano non potrà che emergere un nuovo ordine mondiale. Molecolarmente già avvengono modificazioni che bisogna essere capaci di cogliere. La rivoluzione femminile è in atto, quali che siano le resistenze (e i delitti). La miseria, com’era prevedibile, tracima. Finora abbiamo dato risposte parziali e sbagliate pensando di avere già la verità, adesso tocca a voi ripensare tutto questo ed elaborare una nuova visione. Bene raccogliere le memorie dei vecchi, ma fatevi avanti.
da il manifesto
ADDIO ALDO TORTORELLA Intellettuale e grande dirigente del Pci, aveva 98 anni. Il suo nome di battaglia era partigiano Alessio
Vorrei capiste quanto doloroso e umanamente traumatico sia per me scrivere della scomparsa di Aldo Tortorella.
Lo è in realtà sempre per tutti quei compagni che come noi per più di vent’anni hanno lavorato, in qualità – come si diceva allora – di “funzionario di partito”, a Botteghe Oscure o nei suoi equivalenti federali.
Perché l’impegno politico non era a quei tempi un aspetto della propria vita, era la vita stessa, e per questo i rapporti fra di noi diventavano totali.
Personali e collettivi, umani e politici, mai settoriali, perché abbracciavano tutti gli aspetti dell’esistenza. Con Aldo per me sono stati così stretti, perché è capitato che siano stati condivisi anche i legami centrali della nostra vita. A cominciare da quello con Rossana, sua coetanea, sua compagna di università, ambedue allievi di Banfi, un grande maestro di filosofia che gli aprì la porta del comunismo. Tutti e due guidati da lui a diventare partigiani a 18 anni. Poi militanti comunisti e insieme intellettuali, un connubio allora molto normale nel Pci, un’altra particolarità oggi ben più rara.
Poi tanti decenni di militanza analoga, io, gregaria, per un secolo nella Fgci e poi nella commissione femminile, ma pur sempre a Botteghe Oscure, Aldo, invece, subito di vertice – prima direttore dell’Unità di Genova, dove era capitato quasi per caso, fuggendo travestito da donna da un ospedale militare durante la Resistenza che si trovò così a combattere in Liguria, nelle fila del Fronte della Gioventù. Poi, tornato a Milano alla fine degli anni ’50, sempre direttore dell’Unità, quindi segretario della federazione milanese del Pci, infine a Roma, successore di Rossana – guarda caso – alla testa della Commissione culturale del Partito.
È in quegli anni di Milano che, pur senza rallentare i rapporti di amicizia, cominciammo a distanziarci politicamente, prima perché è in quel contesto milanese, nel quale “funzionari” erano anche Rossana e Lucio Magri, che cominciò a delinearsi la tendenza (non corrente, non ci fu mai) “ingraiana” dalla quale Aldo restò sempre distante, restando berlingueriano fedele, ma mai sdraiato sulle linea ufficiale del Pci, soprattutto quando questa, alla fine degli anni ’70, non fu più quella di Enrico Berlinguer che pure era segretario del Partito.
Dall’ingraismo, come sapete, è nato nel 1969 il manifesto, per iniziativa di una sua ala più indisciplinata, decisa a correre i rischi che comportava superare i confini della disciplina di partito. Ricordo bene quei mesi, perché in quei tempi, come da anni, avevo l’abitudine, quando – assai spesso – ero a Milano, di andare a dormire a casa di Lia Cigarini, amica strettissima, anche perché prima donna ad essere stata segretaria della mia amata Fgci in una grande città come il capoluogo lombardo. Quando noi “manifestini” veniamo messi sotto processo dal partito e poi radiati io sono a Milano in casa di Lia, nel frattempo divenuta compagna di Aldo: nella casa di Lia in bagno c’erano due lavandini per cui quando si aveva fretta era possibile lavarsi i denti contemporaneamente e ricordo Aldo che con lo spazzolino in mano mi apostrofava: «Sei una “pirla”,proprio una “pirla”». Non ridevamo, ci dispiaceva a tutti e due.
Ci siamo ritrovati nel 1989. Ho una bella fotografia sulla mia scrivania, scattata in occasione dell’incontro con la stampa per presentare la mozione numero 2 contro la decisione di Occhetto di sciogliere il Pci. In prima fila i firmatari. Tutti di nuovo riuniti. Fra loro Ingrao, Natta, Chiarante, io e Magri. Aldo ha retto un po’ più a lungo nel nuovo Pds, poi Ds, ma ha rotto già prima dell’avvento del Pd, quando Massimo D’Alema, al governo, ordina, durante la guerra del Kosovo, il bombardamento dei jet della Nato su Belgrado a partire dalle basi italiane. Durò 78 giorni.
Ci siamo ritrovati anche nell’impegno, non solo nelle idee. Prima nella redazione di una pubblicazione durata parecchi anni, a cavallo del secolo, La rivista del manifesto, allegata al quotidiano. Poi quando Aldo ha dato vita a l’Ars, l’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra, preziosa e attiva sede di incontro dei tanti ormai dispersi ma pur sempre impegnati nella ricerca di una nuova strada comune, oggi diretta da Vincenzo Vita. E, sopratutto direi, nel suo impegno di conservare e rinnovare la voce antica di una rivista bellissima, Critica marxista, oggi affidata a Guido Liguori.
Vi ho raccontato tanti dettagli come non si fa nei necrologi. Ma volevo trasmettervi la testimonianza di quanto siano rimasti stretti i rapporti, nonostante le frequenti divergenze, fra i militanti comunisti, quando c’era un grande partito come il Pci .
A testimoniare in prima persona il tempo antico, eravamo fino a qualche anno fa rimasti solo in tre membri della direzione del Pci che erano stati iscritti dagli anni ’40, dall’immediato dopoguerra: Macaluso, Aldo e io.
Poi siamo rimasti in due quando anche Emanuele è scomparso qualche anno fa e con Aldo scherzavamo su di noi sopravvissuti.
da Avvenire
«All’inizio ci hanno incoraggiate, dicevano che poiché non potevano garantire la frequenza alle ragazze era utile che la scuola arrivasse nelle loro case. E abbiamo iniziato. Non ci hanno fermato». Così raccontava Hamida Aman ad Avvenire nell’aprile 2024. Poco meno di un anno dopo è accaduto: le hanno fermate. La notizia è di martedì, ma come spesso accade quando si tratta dell’Afghanistan, nei media internazionali non ha avuto il rilievo che avrebbe richiesto la sua rilevanza. Il complotto del silenzio, che ha violentemente zittito Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nell’emirato islamico, ha complici anche in Occidente.
Martedì, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco (a proposito, ecco a cosa servono i “carrozzoni” da cui Trump sta scendendo precipitosamente: a dare voce a chi non ce l’ha più) non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan dal 15 agosto 2021, quando i taleban si sono impadroniti del potere.
Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. Radio Begum, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, e approfittando dei minimi spazi che gli occhiuti controllori concedevano, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa.
Che infatti chiamavano numerose. Hamida Aman aveva raccontato ad Avvenire che una delle ascoltatrici più assidue era Fatima, sedicenne di Bamyan, cieca dalla nascita e praticamente analfabeta. «Non aveva mai frequentato scuole speciali, né imparato l’alfabeto Braille. Ora non si perde una delle nostre lezioni, e ci ha detto che così ha la sensazione di andare a scuola. La radio è il suo unico contatto con la realtà».
Tutto finito? Se la parola più citata dell’anno è speranza, allora l’augurio è che sia solo una prova di forza, come già in passato era accaduto con alcuni programmi che erano stati sospesi o cancellati dopo il mancato imprimatur dei taleban. Ma questa volta ci sono gli arresti, ci sono le accuse di aver abusato della licenza diffondendo contenuti di reti televisive straniere: un’accusa pesantissima per chi sostiene che tutto ciò che viene dall’esterno è fonte di corruzione.
Restiamo con le nostre domande aperte: a chi davvero interessa che Radio Begum sia stata chiusa? Al silenzio imposto a una delle più importanti emittenti indipendenti in Afghanistan corrisponde l’assordante silenzio dell’Occidente. A parte le doverose dichiarazione di Reporter senza frontiere e dell’Associazione per la protezione dei giornalisti afghani, che lamentano il recente giro di vite alla libertà (sic) di stampa nel Paese (nel 2024 sono state chiuse 12 testate, con numerosi arresti arbitrari), a chi davvero interessa che una emittente di donne per le donne sia stata silenziata? Domanda senza risposta, come quella d’altronde che la giornalista afghana Nazira Karima ha posto l’altro ieri al presidente Donald Trump sull’esistenza di un piano per il futuro del suo popolo. Ed ecco la replica: «Lei ha una bella voce e un bell’accento. L’unico problema è che non capisco una parola di quello che dice. Ma le dirò questo: buona fortuna. Viva in pace». C’è in gioco davvero più che una radio tv. C’è in gioco il destino di metà della popolazione di un intero Paese. C’è in gioco, in fondo, l’umanità di ciascuno di noi.
Da Sibilla
Hannah Arendt, Simone Weil e qualche riflessione su di noi
A fine gennaio ho dato un bellissimo esame di Filosofia contemporanea sul modo in cui tre filosofe, Simone Weil, Hannah Arendt e Rachel Bespaloff, hanno provato a interpretare quello che per tanto tempo ci è sembrato il periodo peggiore della storia dell’umanità. Sebbene non si siano mai conosciute, ci sono straordinarie coincidenze nella loro vita e nella loro produzione filosofica: tutte tre ebree (ma con un rapporto complicato con l’ebraismo), tutte e tre rifugiate, tutte e tre che partono dalla constatazione che gli strumenti e le categorie etiche o politiche tradizionali non servono più a niente di fronte all’enormità di quello che sta succedendo. Arendt e Bespaloff vivono tanto a lungo da vedere con i propri occhi l’Olocausto, Weil no, ma tutte cercano affannosamente un modo per fermare il flusso degli eventi, per mettere un cuneo, fermarsi un attimo e poter dire qualcosa.
Ho studiato questi testi¹ mentre leggevo due romanzi, Il Castello di Franz Kafka e Il complotto contro l’America di Philip Roth (di cui ho scritto brevemente nell’ultima newsletter) e mentre assistevo alla presa di potere inesorabile di Donald Trump. Io non so bene cosa ci riserverà il futuro, ma sono molto inquieta. Per anni le preoccupazioni di femministe, comunità LGBTQ+, persone razzializzate e altre minoranze sono state minimizzate e ridicolizzate, perché “vedremmo fascisti ovunque”, e altre variazioni sul tema. La forza di questa messa in ridicolo mi ha portata più volte a vergognarmi della mia paura in passato, ma onestamente in questo momento storico non ho alcuna paura di sembrare ridicola: ho paura e basta. E non so se sia stato il connubio fatale di queste tre cose – leggere un libro che descrive come si arriva al totalitarismo nella pratica, leggere un libro che descrive come si arriva al totalitarismo nella favola, guardare alle undici di sera l’uomo più potente del mondo fare un saluto romano e perdere il sonno per una notte intera – ma sto smettendo di pensare che quello di Weil, Arendt e Bespaloff sia stato il periodo peggiore della storia dell’umanità, perché c’è qualcosa ancora di peggiore, ed è quello di fronte a cui ci stiamo affacciando adesso, e per di più in un terreno in cui piantare il nostro cuneo diventa sempre più difficile. Un terreno vischioso e ingannevole, un’enorme sabbia mobile capace di una forza ancora più inesorabile di quella descritta da Simone Weil, che non si limita a farci cadere a peso morto a terra, ma ci trascina ancora più giù.
C’è un filo conduttore nel pensiero di queste filosofe, ed è il riconoscimento che in tempi orribili non ci sono differenze tra vincitori e vinti. Qualche giorno fa su TikTok ho visto i video di una ragazza trumpiana, talmente trumpiana da essere andata a Washington D.C. per l’inaugurazione, che è passata nel giro di poche ore dall’acritica celebrazione della vittoria del suo eroe al rendersi conto che l’esercito del suo eroe stava venendo a prendere il suo fidanzato, possessore di green card ma non cittadino americano. E così dai video tutorial su come fare gli alabama curls è passata a filmarsi in lacrime, senza mai chiedersi (o almeno senza ammettere pubblicamente) se c’era una connessione tra la sua fede MAGA e l’imminente deportazione del suo fidanzato.
Quando scrisse Le origini del totalitarismo prima e La banalità del male poi, Hannah Arendt si attirò molte critiche per aver osato dire che nel nazismo non ci sono differenze tra vincitori e vinti, perché il nazismo mira proprio ad annullare quella differenza. Quella differenza si annulla quando non c’è più possibilità di scegliere fra il bene e il male, e la massima aspirazione di ogni sistema totalitario è far sì non tanto che le persone smettano di compiere questa scelta, ma che non siano nemmeno messe nelle condizioni di provarci. Nei campi di concentramento, con il sistema dei kapò che prevedeva che fossero i prigionieri stessi a occuparsi dello sterminio dei propri simili, questa aspirazione era stata compiuta in maniera perfetta. Ma i lager sono appunto dei luoghi ideali, degli esperimenti intellettuali pur nella loro innegabile concretezza. Poi c’è il quotidiano, spazio e tempo di grandissimo interesse per Hannah Arendt, specie quando si trova faccia a faccia con Adolf Eichmann, funzionario nazista, impiegato anonimo e solerte, che tira fuori persino Kant per spiegare perché aveva fatto ciò che aveva fatto. Eichmann si giustifica piegando l’idea che non ci siano differenze tra vincitori e vinti a una sorta di vittimismo inaccettabile: obbedivo a un ordine. In nessun giorno della sua vita Eichmann si è mai chiesto quale fosse il prezzo della sua obbedienza. La sua vita quotidiana era scandita dall’obbedienza (“cadaverica”, scrive Arendt) a un ordine che forse gli era parso privo di contenuto. Messo di fronte all’evidenza di quel contenuto, Eichmann ha detto che non era colpa sua, ma del sistema in cui era immerso.
Questo mi ha fatto pensare, con le dovute differenze, al dibattito che si è scaturito all’indomani della vittoria di Trump negli Stati Uniti. Per colpa di chi ha vinto Trump? In molti ambienti di sinistra si è rigettata l’interpretazione secondo cui Trump è stato votato da una massa di rozzi elettori motivati dall’odio, descrivendo questo elettorato come un gruppo sociale sotto-rappresentato, abbandonato dalle élite democratiche, fagocitato dalla crisi economica. Un elettorato, insomma, che non ha colpe e che si è trovato costretto a votare Trump, in mancanza di altro. Capisco benissimo da dove arrivano queste interpretazioni, ma una parte di me non riesce a togliersi dalla testa che forse dobbiamo cominciare ad accettare che le persone che votano Trump e Meloni o che sostengono Israele e la pulizia etnica dei palestinesi lo fanno perché vogliono farlo, non perché sono costretti dalle circostanze. Perché credono in quelle promesse di dominio, violenza e ritorno all’ordine, perché odiano il diverso. Da femminista, non riesco a essere comprensiva verso chi ha votato in tutta coscienza un uomo che ha sacrificato la vita e la salute delle donne per il proprio tornaconto.
Arendt lo dice bene, benissimo: il totalitarismo ha bisogno del sostegno delle masse, ed è un sostegno che si nutre non tanto di violenza o persuasione (se fosse solo violenza, non avrebbe bisogno di consenso; se fosse solo persuasione, non avrebbe bisogno di violenza), ma che cavalca quella che Arendt chiama “incapacità di pensiero”. Quando parla di pensiero, Arendt non parla né di intelligenza né di cultura, perché anche persone intelligentissime e coltissime possono smettere di pensare. È interrompere consciamente un dialogo con se stessi. È smettere di porsi domande. È fingere che la distinzione fra bene e male non esista.
Mi ha colpito molto il passaggio in cui Arendt parla della coscienza: ogni cosa contiene in sé identità e differenza. Quando dico cos’è una cosa, dico anche cosa non è. E questo vale anche per me stessa: io sono io, cioè non sono un’altra, ma nel definirmi attraverso la differenza con l’altra, contengo in me anche l’altra. Fra le due parti di me c’è un conflitto, il “tribunale della coscienza”, dove una interroga l’altra, e viceversa. Per Arendt si smette di pensare quando questo essere “due-in-uno” smette di essere in conflitto, quando smetto di pensare la differenza nell’identità. Ed è molto facile che nel quotidiano si cominci a perdere qualche udienza di questo tribunale, che si perda interesse nei confronti di questa puntata infinita di Un giorno in pretura.
Prima ho scritto che i tempi di oggi mi sembrano infinitamente più spaventosi di quelli descritti dalle tre filosofe. In loro mi pare di scorgere, seppur dispiegandosi in modo diverso, la possibilità di un appiglio, una via di uscita. Il famoso cuneo. Quello che mi spaventa dell’oggi è che nel quotidiano siamo trascinati da forze oscure che non sappiamo nemmeno nominare, figuriamoci dominare, e che il nostro piccolo e stupido pezzo di legno non serve a niente.
Uno degli argomenti che accomuna Arendt, Weil e Bespaloff è la possibilità di fermare il tempo, anche solo per un istante, per poter almeno cominciare quell’azione di risalita. In Weil questa capacità si chiama attenzione. In Venezia salva, la tragedia che racconta la congiura fallita degli ambasciatori spagnoli per rovesciare il consiglio di Venezia nel 1618, il congiurato Jaffier decide di tradire i suoi compagni e far saltare il piano solo dopo essersi fermato un attimo ed essersi accorto di quanto è bella la città. Se non si fosse fermato, non avrebbe mai provato pietà per Venezia.
Io ho i miei dubbi che Trump, J. D. Vance o i broligarchi abbiano letto Simone Weil, però mi sembra spaventoso che proprio coloro che ci hanno così sfacciatamente derubato del nostro tempo, e quindi della nostra attenzione, ora siedano al fianco di un matto arancione nei suoi deliri di onnipotenza. I milioni di persone che hanno votato Trump, sapendo benissimo cosa stavano facendo², hanno rinunciato alla pietà e hanno scambiato l’attenzione che essa richiede per un surrogato. E in questo sì che davvero non ci sono differenze fra vincitori e vinti, perché non so voi, ma io mi sento esattamente sull’orlo di quel baratro. Col mio piccolo cuneo, che spero non sia poi così inutile come lo percepisco in questo momento.
(1) Nello specifico:
Simone Weil, L’Iliade, poema della forza
Simone Weil, Venezia salva
Rachel Bespaloff, Sull’Iliade
Rachel Bespaloff, L’istante e la libertà
Hannah Arendt, Sulla violenza
(2) Se c’è del paternalismo nel pensare che le persone che votano Trump sono cattive, c’è ancora più paternalismo nel pensare che sono stupide.
(Sibilla – Blog e newsletter di Jennifer Guerra, 6 febbraio 2025)
da Facebook
Abbiamo detto da tanto ormai che la “PAS”, cosiddetta “sindrome da alienazione parentale” non esiste. Esiste la violenza psicologica, che va dimostrata.
Il doppio standard prevede però che la violenza psicologica degli uomini contro le donne e i bambini praticamente non venga riconosciuta nei tribunali (ma spesso nemmeno quella fisica), mentre quella presunta di madri verso i figli si accoglie di default e si definisce “alienazione” semplicemente in presenza di un rifiuto più o meno importante del padre da parte dei figli. Cioè, di base i tribunali che accolgono la teoria della PAS procedono ritenendo che sia strano che un figlio non voglia stare – magari piccolissimo – con il padre, con buona pace della specificità del legame materno, e che per questo ci deve essere dietro una madre malevola e crudele che allontana il figlio dal padre.
Insomma partendo dall’evidenza di un rifiuto verso il padre da parte di un bambino o di una bambina, si imputa a violenza psicologica (che loro chiamano PAS così non devono nemmeno dimostrarla) quel rifiuto, negando di fatto l’evidenza che i bambini hanno un bisogno naturale delle loro madri, a cui si attaccano istintivamente quando sentono in pericolo la stabilità della loro presenza.
Quindi parlando di PAS non si considera che la perversione sta nella legge 54/2006 sull’affido condiviso che parifica le figure materna e paterna. E tocca ancora ribadire l’ovvio: madre e padre non sono uguali, non sono intercambiabili, non hanno la stessa funzione nello sviluppo dell’essere umano.
[…]
(Facebook, 26 gennaio 2025, articolo completo qui)
da Il Foglio
Nove anni fa, il movimento Lgbt italiano scendeva nelle piazze armato di orologi da notte, con l’intento di risvegliare il paese sul tema del riconoscimento delle coppie dello stesso sesso. Questi cortei erano composti non solo da persone Lgbt, ma anche da cittadini che, pur non direttamente coinvolti, sostenevano la causa. Era un movimento che trovava consensi trasversali: dalla sinistra, al mondo cattolico e centrista, fino a settori illuminati della destra, intellettuali, giornalisti e accademici, oltre a tantissimi cittadini comuni. L’ansia che si aveva non era quella di quanto duri e puri apparire o quanti like ottenere nelle dirette social, ma di quale legge riuscire a portare a casa: intorno a noi sentivamo il calore della gente comune, che capiva la ragionevolezza delle nostre rivendicazioni. Era un movimento di popolo perché popolare. Nove anni dopo, è un altro mondo. Abbiamo ottenuto le unioni civili, ma siamo andati ben oltre. Abbiamo iniziato a copiare le rivendicazioni di oltre oceano, leggendo con ammirazione che i sessi erano più di due, che si dovevano avere bagni di genere neutro, che la fluidità di genere doveva diventare legge di stato, che le donne biologiche dovevano essere definite come persone che mestruano per non offendere nessuno, che esisteva un diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali maschili e così via. Giorno dopo giorno, si è fatta strada l’idea tra noi che non bastava chiedere leggi contro le discriminazioni e per il matrimonio egualitario oppure una modifica della legge sulle adozioni e sulla legge 164/82 sulle persone transessuali – battaglie su cui avremmo potuto trovare al nostro fianco milioni di cittadini – ma che bisognava andare oltre. Gestazione per altri, schwa, asterischi e fluidità sono diventate le nostre parole d’ordine e i nostri campi di battaglia. Parcellizzare i diritti è diventato il nostro mantra, quando la garanzia dei diritti universali è sempre stata la nostra bussola. Quanti ponevano dubbi venivano tacciati di omofobia e transfobia, con una violenza incompatibile con la nostra storia e modalità escludenti incompatibili con il nostro Dna. E ci siamo consolati di avere milioni di persone ai nostri pride senza renderci conto che se i partecipanti avessero davvero letto le piattaforme di quelle manifestazioni, se ne sarebbero state in larga parte a casa non necessariamente perché non le avrebbero condivise ma perché non le avrebbero neppure comprese. Oggi ci troviamo con una potentissima e temibile internazionale reazionaria che ha infuso paura anche su questi temi e che ne ha fatto una battaglia ideologica. Con l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti assistiamo ad un clamoroso arretramento sui diritti civili. In una sola settimana, il neopresidente ha già firmato due ordini esecutivi che smantellano in un colpo solo anni di progressi per la comunità Lgbt. Una tabula rasa che ci riporta indietro di decenni, persino su diritti che credevamo ormai scolpiti nella pietra, mentre la situazione per le persone transessuali rischia di essere ancora più drammatica. In Europa, paesi come Ungheria, Polonia. Romania e Georgia, che hanno adottato leggi discriminatorie contro la nostra minoranza, potrebbero essere presto essere affiancati da altri. È improbabile che vengano messi in discussione il riconoscimento delle coppie Lgbt e il diritto al cambio di sesso, ma un rischio che sarebbe stato impensabile dieci anni fa oggi appare sorprendentemente concreto. E comunque è un dato di fatto che oggi è più difficile parlare di diritti civili Lgbt e di diritti delle donne. Il nostro è un sasso in uno stagno. Ci rivolgiamo alle tante persone Lgbt concrete e pragmatiche, che sanno che in politica come nella vita di ogni giorno serve costruire gradualmente consenso intorno a sé per avere risultati, diversamente il rischio di non averne alcuno o di fare passi indietro è dietro l’angolo. Siamo sicuri che la nostra strategia di questi anni sia stata quella giusta? Siamo certi che coi nostri massimalismi non abbiamo messo le nostre teste su un vassoio d’argento le nostre teste a chi voleva in realtà tagliarle, regalando argomenti alle loro parole d’odio e fornendo carbone alle caldaie della paura e dell’intolleranza? Siamo certi che non poteva andare diversamente? E siamo convinti che oggi quello che dobbiamo fare è impuntarci su quelle rivendicazioni e non invece concentrarci su quelle universalistiche su cui costruire consenso? Est modus in rebus, dicevano i latini: c’è una misura in tutte le cose. La ragionevolezza, la concretezza e la chiarezza non sono necessariamente modalità di fare politica di chi si arrende, ma al contrario di chi insiste come una goccia sulla roccia. Il consenso non è qualcosa che possiamo permetterci il lusso di non avere, ma al contrario è elemento necessario per fare avanzare le nostre battaglie. E allora siamo noi che oggi impugniamo quella sveglia da notte che nove anni fa eravamo in tanti a far suonare nelle piazze italiane: sveglia, è tornato il tempo di essere concreti, pragmatici e riaffermare i diritti di cittadinanza.
(*) Anna Paola Concia, già parlamentare italiana, coordinatrice di Didacta Italia.
(*) Alessio De Giorgi, già direttore di Gay.it, giornalista
da Doppiozero
Paola Mattioli, classe 1948, milanese, ha un posto singolare e di rilievo nella fotografia “al femminile”. Intervistarla è l’occasione per sondare i rapporti tra impegno sociale e politico, femminismo e teoria della fotografia. La sua formazione la segnerà per sempre ed è paradigmatica di un percorso fotografico di grande interesse. Mattioli infatti incrocia e tiene insieme i suoi studi filosofici incentrati sulla Fenomenologia con l’apprendistato fotografico a fianco di Ugo Mulas, cioè al maestro dell’analisi linguistica del medium fotografico. La chiave è acutamente indicata da Mattioli nel tema dello sguardo, che non è solo la visione ma è relazione, è guardare ed essere visti, è pulsione ed è responsabilità. Lo sguardo è al centro della psicoanalisi così come dell’antropologia, del femminismo così come della fotografia, della relazione sociale così come della politica.
Intervistare Paola Mattioli significava per noi chiederci come sono stati generazionalmente e come sono affrontati oggi questi argomenti nell’ambito della fotografia artistica, cioè non solo e non tanto – c’è anche questo in Mattioli – nel soggetto rappresentato, come accade nel reportage, ma anche nella riflessione e nella pratica della forma. Così, in estrema sintesi, se le fotografie probabilmente più famose a cui è legato il nome di Paola Mattioli sono da un lato la serie delle Fotografie del no, dall’altro l’acuto e fortunato Ultimo ritratto di Giuseppe Ungaretti, la chiave – non a caso bifacciale e rotante – ne è l’Autoritratto appeso a un filo.
Merito non ultimo di Mattioli è quello poi di essere entrata in fabbrica, come si diceva una volta, non solo con la macchina fotografica ma, appunto, con il pensiero fotografico. Come la questione politica trovi forma nella fotografia è questione sempre viva e urgente.
Su di lei è uscita una monografia scritta da Cristina Casero intitolata Paola Mattioli, sguardo critico di una fotografa (Postmedia, 2016); ha inoltre recentemente pubblicato una riflessione sul ritratto, e non solo, intitolata L’infinito nel volto dell’altro (Mimesis, 2023).

EG: Come hai incominciato?
PM: Per sbaglio! Ero iscritta a Filosofia e il primo esame si faceva con Gillo Dorfles perché dava buoni voti, e cominciare il libretto con un bel 30 e lode fa piacere a tutti. Faceva fare una tesina scritta e io l’ho fatta sulla fotografia, forse anche perché era uscito da poco il libro di Walter Benjamin. Ho riassunto quel dibattito ma mi sono detta: «Certo che vedere com’è, sarebbe meglio». Così ho avuto l’occasione di contattare i Mulas: Nini, alla quale ho spiegato la mia richiesta, mi ha detto: «Guarda, Ugo non c’è, vieni domani». Sono andata all’indomani e Ugo mi ha presentata come la nuova assistente! Ho avuto un tuffo al cuore. Non sapevo neanche che le fotografie si bagnassero nell’acido, zero, e lui è stato molto generoso con me perché se andava fuori a fotografare, io andavo con lui, se stampava, stampavo con lui, e quindi è stata – purtroppo abbastanza breve perché lui si è ammalato presto – un’esperienza entusiasmante arrivare in mezzo a una intelligenza, capacità, serietà, spessore come quelli.
E si può dire che queste prime immagini che hai scelto abbiano un rapporto con questa esperienza?
Direi di sì, perché il mio tema preferito nella gran parte dei lavori, è il tema del vedere. Quindi il cellophane che ti permette di vedere attraverso, che intercetta lo sguardo, o dall’interno o dall’esterno, che ti fa vedere come cambiano le forme, come una cosa velata cambia fisionomia.
Come ti è venuta l’idea della plastica? L’avevi vista da qualche parte o ti è venuta per qualche via?
Credo che mi sia venuta dall’invasione della plastica. Poi sicuramente dal lavoro di Christo, che avevo visto con Mulas.
Eh già, alla grande manifestazione del Nouveau Réalisme in Piazza del Duomo.
Sì, Mulas mi portava spesso alle mostre e mi faceva conoscere l’arte contemporanea. Capitava per esempio che Nini e Ugo commentassero tra loro una fotografia magari dicendo: «È magrittiana», e io poi cercavo subito di informarmi su che cosa volessero dire, nascondendo la mia ignoranza.
Vengo da una famiglia di avvocati e in casa si respirava una cultura giuridica, resistenziale, ma non molto aggiornata sugli ultimi sviluppi dell’arte contemporanea…
Questa mia del Cellophane è diventata una serie che voleva essere una interrogazione sul tema del vedere. Come anche quest’altra.

L’Autoritratto.
Questa fotografia risente dell’incontro con il nuovo femminismo degli anni ’70. Mia mamma era una femminista dell’emancipazione, quindi io trovavo in casa tanti libri e ci ho messo un po’ ad avvicinarmi al nuovo femminismo perché mi sembrava di averlo succhiato col latte. Quando ho fatto insieme ad Anna Candiani le Immagini del no, il grosso delle manifestazioni avveniva alla Palazzina Liberty, che Dario Fo aveva occupato come teatro, e tutto attorno si svolgevano cose varie. Lì ho incontrato la nuova ondata del femminismo. Per esempio un lavoro molto bello che era appeso lì, dove ognuno andava a portare il suo banchetto e faceva quello che voleva, in una situazione molto libera, era di due artiste, Diana Bond e Mercedes Cuman, intitolato Le pezze. Le avevo trovate straordinarie perché facevano un’operazione molto forte: avevano appeso un bucato, e messo fuori dalle mutande quello che ci stava dentro! Le ho conosciute, sono andata a vedere un po’ i loro lavori e ci siamo collegate: è venuto fuori il “Gruppo del mercoledì”, che poi ha pubblicato il libro Ci vediamo il mercoledì, gli altri giorni ci immaginiamo, che ha messo insieme i nostri lavori. Non era esattamente un gruppo di autocoscienza ma si potrebbe definire di autocoscienza attraverso le immagini.
Cioè cosa facevate?
Una faceva un lavoro, lo presentava e lo discutevamo. E poi una diceva: «Mi piacerebbe fare un lavoro su questo, tu poseresti per me?» Cioè c’è stato un intreccio interessante che ha potenziato molto i lavori l’una dell’altra. Poi, sai, la scadenza dello stampare un libro ci ha galvanizzate. Le pezze sono in quel libro e anche Autoritratto è nel libro.
Ti interrompo, perché, anche se non hai scelto per questa occasione una Immagine del no, mi interessa chiederti veramente in estrema sintesi come vedi la distinzione tra il reportage, a cui quella serie potrebbe essere ricondotta, e invece un lavoro artistico?
Le Immagini del no è nato come lavoro di reportage, è stato forse il mio primo progetto. È vero che Anna Candiani era molto più brava di me come reporter, era un’amica e io le avevo detto: «Senti facciamolo a due mani», anche perché era un lavoro intenso, in un mese e mezzo bisognava coprire un po’ tutto. Lei era più brava sul reportage, io sono più attenta alle lettere, al no, no, a questa ripetizione. Lo scrive bene Gerry Badger, quando con Martin Parr nel 2010 ha scelto le Immagini del no tra i cinque libri sulla rivolta per il suo The protest box: dice che aveva trovato molto interessante questa ripetizione dei no, questa modalità che ti conduce quasi alla Poesia Visiva. In questo senso potrei risponderti che è un misto tra foto di reportage e foto che ha, insomma, una tensione alla ripetizione.
Nel tuo libro L’infinito nel volto dell’altro scrivi proprio che la tua attenzione non è nella rappresentazione dell’evento in sé ma che quello ti fa partire per riflessioni che si aggiungono.
Io sono rimasta molto legata al no, perché il no in fondo è la prima cosa che un bambino neonato strilla. Ti identifica e ti permette di non essere acquiescente. Il no è uno stop, un rifiuto, una resistenza, è politica: «Questa cosa non la voglio, questa cosa non deve passare». Il no è un senso di coscienza civile, di coscienza politica. Forse questo è segnato dalla storia delle donne, che hanno dovuto dire dei grandi no.
Veniamo all’Autoritratto, che è molto particolare. Descriviamolo perché dalla riproduzione si può fraintendere.
È nato un po’ diverso, perché stavo facendo la serie sulle donne che si intitola Faccia a faccia, donne allo specchio, per cui a un certo punto mi sono detta che dovevo farla anche su di me, per giustizia, cioè non per esibirmi ma per applicare questo problema non solo sulle altre ma anche su di me. Così è venuta fuori questa foto, l’ho ritagliata e l’ho appesa con un filo bianco vicino a una finestra e l’aria dalla finestra la faceva girare e muovere, in movimenti in cui io ritrovavo i miei gesti del fotografare. Allora l’ho rifotografata, perché vedi che lei ha il filo bianco. A un certo punto questa, che è la numero 6 di quella serie, si è autonomizzata. Un’amica, Elisabetta Longari, a cui volevo regalarla, mi ha detto: «Ma perché non la stampi da tutte e due le facce e non la riappendi col filo?» È stata un’ottima idea, che ho adottato.
Allora, qual è il punto? È che l’obiettivo non è nero, come di solito è un obiettivo che raccoglie la luce, bensì con un po’ di carta d’argento è diventato bianco e quindi illumina. In questo senso è sul vedere, perché di solito la macchina fotografica succhia la luce, non è una torcia.
È molto interessante anche l’alone che c’è intorno.
L’alone è perché l’avevo ritagliata con una forbice a zig-zag. È casuale ma ha funzionato, perché quello era a fondo bianco, che mosso dà una sorta di alone.
Mi pare inoltre che ti nascondi dietro la macchina fotografica in una maniera insistita.
Be’, io sono un po’ timida e stare dietro la macchina mi ripara.
È proprio “ciclopica”, assume un’aria anche mitologica.
Non ci avevo mai pensato.

Passiamo alla terza fotografia, Statuine. Anche in questo caso ti chiedo se hai preso ispirazione da qualche parte, da qualcuno, per parlare delle circostanze e anche un po’ di eventuali fonti di ispirazione.
Sì, dalle bambole Lenci, dalle statuine degli anni ’30 e ’40. E poi è un po’ influenzata da Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, al quale ho aggiunto il fatto che, se una persona non ti guarda, non incrocia lo sguardo, può diventare una scultura.
Avevo fatto vedere queste foto a Giovanna Calvenzi, che era la photo editor di “Amica”, e lei ha proposto di riportarle alla storia della moda. Così, invece che in casa con mia figlia, ho potuto avere una modella professionista e un appoggio su tutti gli aspetti del set e della produzione. Prendevo un panno di velluto nero, ci facevo un taglio e vi facevo passare la testa, giocando sul fatto che il velluto mangia la luce. Era un po’ come scontornare e soprattutto mi piaceva collegarmi a quelle sculturine. Sembrano degli oggetti, è un rapporto tra fotografia e scultura.
Poi, lavorando con una truccatrice e un assistente, diventa molto più raffinata e sofisticata, perché la scultura deve chiudere il volto. Avevo studiato gli anni ’30 e ’40 per capire come chiudevano le teste. Ed è di nuovo lo sguardo, un ragionamento sullo sguardo che non ti guarda, che fa diventare la figura una scultura.
È un dittico voluto come tale o solo una selezione dalla serie?
Sì, è una selezione dalla serie, perché mi è sembrato che una non bastasse, che si dovesse vedere che non è causale il fatto che non ti guarda, anzi è proprio l’argomento.
Lo chiedo anche perché qui una guarda in alto, l’altra in basso, una sembra estatica, l’altra meditativa…
Infatti a un certo punto mi sono chiesta: «Ma quello sguardo da Bernadette che ogni tanto vedo in mia figlia, le posso chiedere di farlo per me, di interpretare quel ruolo? Quando faccio un ritratto posso chiedere alla persona di stare dentro una idea che le propongo, a una immagine che voglio fare, di recitare in qualche modo?» Quindi non è esattamente un ritratto, è la proposizione di un’idea, di un pensiero. Insomma, queste due fotografie si sono molto sposate tra loro, perché ho un po’ la sensazione che le fotografie si chiamino tra di loro, anche al di là della tua volontà, un po’ da sole, per vicinanza o forse perché ribadiscono un pensiero.

Bene, poi riparleremo di moda. Passiamo alla seguente, che io trovo molto interessante, non solo per il soggetto curioso ma per il discorso che vi fai sopra.
Intanto io sono andata in Africa per merito di Sarenco. Non sapevo degli albini africani e un giorno in una casa vedo un bambino che corre con gli altri e ha una luce che non avevo mai visto in una faccia di bambino, era talmente forte che non riuscivo neanche a vedere bene i tratti. Quando gli ho chiesto da dove venisse questa luce, lui mi ha detto: «Ma non ti sei accorta che è albino?» No, non mi ero accorta, e allora mi ha cominciato a raccontare degli albini che sono considerati o magici o tragici, tragici perché sono delicatissimi. Io mi sono un po’ commossa, ho cercato gli albini e li ho fotografati. Volevo raccontare la luce che avevo visto, pur nella sofferenza, perché vedi lo sguardo di sofferenza.
Poi mi ha colpito enormemente il fatto che sembra un negativo, questo rovesciamento tra il positivo e il negativo e questa doppia…
Doppia negazione, doppio no!
No, doppia differenza, una differenza raddoppiata, perché non sono proprio un negativo. L’essere nero / ma anche bianco / ma non bianco come i bianchi… In effetti in strada quando tu incontri degli albini, non si capisce mai come li guardano, se li guardano come stregoni o se li guardano come persone da proteggere. Ma questo è lo sguardo africano, perché loro sanno di questa esistenza, ma pensa avere questa doppia differenza in un mondo in cui il sole ti mangia. E fotograficamente, anche in fotografia è un rovesciamento, cioè un negativo al posto di un positivo.
E se li stampassi in negativo non apparirebbe un positivo, resterebbe una differenza.
Resta una doppia differenza. E forse, essendo una donna, anche tripla!
Mi interessa ricollegarla al tuo discorso sul no: dunque è una negazione che mantiene la differenza, anzi la valorizza.
Certo, contro il pensiero binario, contro le opposizioni che non portano a niente.

Passiamo dall’albino al colore, se mi scusi la battuta, e alla moda.
La fortuna secondo me sta negli incontri. Tra il ritratto e la moda non c’è un confine preciso, perché è sempre fotografia di persone. Le immagini sono più curate, ci sono molti più soldi per la produzione e quindi ci sono più mani, più teste al lavoro, più disponibilità. L’incontro in questo caso è capitato proprio per quelle prime foto per “Amica” delle Statuine, in cui mi è stato proposto di lavorare con un redattore di grande valore, che si chiamava Mauro Foroni, aveva da insegnarmi tantissimo e soprattutto era d’accordo di pensare delle donne normali, o di ragionare sugli stereotipi. Ecco, la figura della Madonna è una convenzione, ma questa non è una Madonna col mantello blu. Le ho chiamate Madonne per via del fondo oro – e qua c’entra Aldo Mondino, che io vedevo fare i suoi fondi con queste foglie d’oro – ma in realtà sono come delle regine. Non mi dispiace provare a ridefinire delle tipologie iconografiche. E soprattutto quello che cercavo di togliere alla moda è l’ammiccamento, perché le modelle sono abituate a lavorare con i fotografi che tendono a spingerle all’ammiccamento sessuale, che è un po’ degradante. Farne delle persone, delle attrici, cercare di tirar fuori dalle modelle loro stesse come regine.

E concludi la tua scelta con un Capolavoro!
Una delle due si chiama Capolavoro, l’altra no.
Questo è un dittico che hai messo insieme per l’occasione?
Sì. La prima si chiama Capolavoro perché (ha ragione Raffaella Perna che dice che io sono particolarmente legata alle parole) mi divertiva fare una fotografia intitolata Capolavoro e allora ho cominciato a guardare sul dizionario: il capolavoro è l’opera più importante di un artista eccetera, oppure è la condizione per essere assunti per gli operai saldatori che siano capaci di fare il capolavoro, che è una saldatura che non lascia passare l’aria. Come si arriva a non lasciar passare l’aria e fare una buona saldatura? Con il ritmo, il ritmo della mano. Allora sono andata alla Breda dove hanno dei capolavori per poterli vedere e ho trovato questi oggetti che non avevo mai visto. È una questione di ritmo. Mi sono venute fuori delle immagini lievi, di un grigio cipria, di qualcosa che noi non conosciamo, non vediamo.
La seconda fotografia fa parte di un progetto per la Cgil su due città-fabbriche, Fabbrico e Dalmine, che aveva preso spunto dal libro di un’amica, Maria Grazia Meriggi, che mi era sembrato molto interessante anche per quello che dicevano gli operai intervistati. Devo dirti che erano gli anni in cui la vox populi berlusconiana diceva che gli operai non c’erano più. Allora a me è venuto di dire: «No – per tornare al no –, no, io non credo».
Nella fotografia gli elementi in primo piano sono alcuni strumenti di lavoro, delle frese di eleganza novecentesca (che richiamano il logo della Fiom), i cui ingranaggi ricordano il ritmo della saldatura.
Allora questo dittico, che mi è venuto in mente per Doppiozero, è sul ritmo, sull’aristocrazia operaia che conosce l’uso degli strumenti e il loro ritmo interno. È un omaggio alla cultura operaia.
Maria Grazia Meriggi | Un ritratto di Paola Mattioli
Silvia Mazzucchelli | Autoritratto sospeso a un filo
da Il Foglio
Un corpo a corpo fatto di continui slanci, stacchi, rimandi. Adriana Cavarero sfida la filosofia della maternità, antica e contemporanea
«Non sono stata una buona madre». È una delle prime cose che Martha, interpretata da Tilda Swinton, rivela all’amica scrittrice Ingrid, Julianne Moore, nel serrato dialogo intimo tra due donne che è l’ultimo film di Almodóvar, La stanza accanto. Davanti alla richiesta della madre di condividere con lei la scelta dell’eutanasia, la figlia Danielle si è tirata indietro, con un definitivo: è una scelta tua. «Ero troppo presa dal lavoro», confessa Martha, ex famosa inviata di guerra. «Una donna che fa questo mestiere è costretta a trasformarsi in un uomo. E poi ero troppo giovane quando l’ho avuta, e l’ho cresciuta da sola…». Con queste incerte giustificazioni di un rapporto mancato Martha sembra perdere la sua forza di carattere, e mostra all’amica la fragilità di una madre che sente di non essere stata all’altezza. Dov’è che ho sbagliato? chi di noi non se l’è chiesto… Ma quante colpe hanno le madri, e quante ne hanno le figlie? La filosofa e storica della filosofia Adriana Cavarero, negli anni Ottanta tra le fondatrici insieme a Luisa Muraro all’Università di Verona della comunità filosofica Diotima, il nucleo teorico del femminismo italiano, al materno e alle sue contraddizioni ha dedicato un saggio denso di suggestioni, Donne che allattano cuccioli di lupo, Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi). Oggi è diventato molto difficile parlare di maternità, ci dice Cavarero, appare politicamente scorretto, ed è diventato oggetto di censura e anche di autocensura. Prevale il timore che il lavoro di “fare altri corpi”, secondo l’espressione efficace di Donna Haraway, rischi di imprigionare di nuovo le donne nella trappola patriarcale della riproduzione della specie. «Come se la maternità ci stringesse in una nuova gabbia epistemologica di matrice femminista da cui non possiamo uscire. O come se nominare il corpo materno da cui siamo nate, e magari riflettere sulla sua potenza simbolica o il suo valore conoscitivo, fosse controproducente per una libera costruzione della soggettività femminista».
Al centro della sua elaborazione la filosofa mette il corpo della madre, che è anche il corpo della figlia. Perché madre e figlia sono due-in-una, legate dall’essere dello stesso sesso, capaci entrambe di mettere al mondo, di esistere nel ciclo eterno della zoé, l’essenza della vita. Per farci entrare nella complessità del rapporto madre-figlia la filosofa ricorre alla letteratura. «Quando si narra della maternità bisogna raccontarne anche il versante buio», scrive Elena Ferrante in La frantumaglia. La sua scrittura, sostiene Cavarero, tocca quel processo generativo della materia vivente che pulsa nel corpo materno, nel profondo della carne e della psiche. «È nel suo grembo che avviene quella singolarità incarnata che noi siamo nella scissione dall’altra e nell’altra, quella sorta di frantumazione originaria che è mettere al mondo-venire al mondo». Citando anche la Clarice Lispector di Passione secondo G.H., mostra “il tremendo” del corpo della madre: la gestazione e la spinta del parto sono un evento che va al di là della civilizzazione, rende la donna complice della natura. Il «tremendo del figliare» – come dice Clitemnestra nell’Elettra di Sofocle – lo si ritrova anche in Annie Ernaux nel suo L’evento, ricostruzione dell’aborto di quando era ancora giovanissima: «È come se questa donna che si dà da fare tra le mie gambe, che introduce lo speculum, mi stesse facendo nascere. Ho ucciso mia madre in me in quel momento».
La conferma di questo legame intergenerazionale non solo simbolico con la linea materna, con le generazioni una dentro l’altra, la successiva annidata nella precedente – come la figura della matrioska nella cultura popolare dell’est – la si ritrova nella biologia, raccontata dalla giornalista scientifica americana Natalie Anger, premio Pulitzer, nel suo Donna, una geografia intima, che spiega come il feto della bambina al quinto mese di gravidanza ha già una dotazione di sette milioni di ovuli, che diventano uno o due al momento della nascita. «Ecco, le cellule uovo di mia figlia sono granuli argentei di energia potenziale, con i cromosomi già scelti: frammenti della storia dei suoi genitori impacchettati in minuscoli involucri fosfolipidici. Quanto a voi, non potete mai dire a priori quante interazioni vi aspettano, sperate che il gioco continui per sempre».
Cavarero vuole sfatare l’anti-biologismo della tradizione filosofica e la diffidenza del femminismo nei confronti della biologia, che ha avuto la sua espressione più nota ne Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Lo fa nel suo ultimo libro Donna si nasce (Mondadori), scritto a quattro mani con Olivia Guaraldo, anch’essa filosofa all’Università di Verona, nato proprio in opposizione a quel «donne si diventa», la storica frase di De Beauvoir che definiva l’essere donna un prodotto culturale e sociale (d’altra parte la generazione di Simone de Beauvoir indicava nell’emancipazione dal destino della maternità la chiave della liberazione femminile; oggi sono abbastanza imbarazzanti le citazione di De Beauvoir, tipo «la donna che genera non conosce l’orgoglio della creazione, si sente passivo giocattolo in mano di forze oscure»…). Dedicato alle ragazze, in un colloquio diretto e coinvolgente per ricostruire la storia del femminismo, Donna si nasce affronta anche tutti i temi divisivi di questi ultimi anni: la differenza sessuale, la teoria del gender, la gravidanza per altri. Temi che hanno lacerato il movimento delle donne e fatto molti danni. «Ci chiediamo», dice Cavarero, «come la gravidanza per altri o meglio l’utero in affitto – dà l’idea della reale compravendita – possa essere considerata un’espressione di libertà delle donne. È al contrario una forma di nuova schiavitù, uno degli ultimi scalini del biocapitalismo, che per nove mesi diventa proprietario dell’utero di una donna».
La storia della catena infinita delle madri generanti inizia da molto lontano, dal mito di Demetra e Kore. Demetra, la madre, è la dea della terra, Kore è la figlia lontana dagli occhi, rapita per sei mesi all’anno da Ade, dio degli inferi, con il consenso dell’Olimpo. L’ombra del ravissement – l’intervento terzo, dice Lacan, l’entrata in scena dell’Altro – incombe su di loro, spezza la relazione profonda tra madre e figlia, l’amore originario e necessario. Kore per sei lunghi mesi non sentirà più le mani sapienti della madre pettinarle i capelli. Inutile sarà bruciare l’incenso e intrecciare ghirlande di fiori, inutile sarà offrire il maialino alla grande dea madre degli antichi riti segreti. È finita l’ultima estate dell’innocenza, ormai tutto è deciso, le due parti perfette della stessa unità saranno divise per sempre. Su questo mito ha molto lavorato la psicoanalista junghiana Lella Ravasi: Di madre in figlia è stato un livre de chevet per molte donne che hanno vissuto il femminismo. Scrive Ravasi: «Ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia, dice Jung. Era esattamente ciò che stavo vivendo, ma era anche quello che avevo rifiutato nel nome dell’emancipazione da un femminile tradizionale rappresentato da mia mamma, da mia nonna e così via. Ma la mia verità stava lì, nella fusione e nella confusione, e forse è in quel nodo mai sciolto che si rintraccia il modello fondante della relazione tra donne». Per Freud, si sa, la donna era un mistero, una porta che aveva appena socchiusa. Mentre dava con il complesso di Edipo una risposta eroica al legame che unisce il figlio maschio alla madre, non riuscì a fare altrettanto per la figlia femmina. Di quella oscura relazione della bambina con la madre rimaneva solo la patologia, rinchiusa in una crisi isterica o in un delirio autolesionista. E una macchinosa invidia del pene. È stata Melanie Klein a rompere il silenzio del secolo partendo proprio dalla bambina: perdutamente innamorata del corpo materno, su quella passione impossibile modellerà la sua sessualità. La madre può infatti porgere il “seno buono” o il “seno cattivo”, come la mela avvelenata delle fiabe dei Grimm: in Invidia e gratitudine Klein elabora quegli impulsi contrastanti di amore e odio, di distruzione e restituzione che legano la bambina alla madre. Al suo pensiero ha attinto il femminismo degli anni Settanta: «Il rapporto figlia-madre, madre-figlia è il continente nero del continente nero, la cui estensione non è mai stata né misurata né definita, così da diventare il punto più oscuro del nostro ordine sociale e simbolico, la sua notte e i suoi inferi», scriveva Luce Irigaray in Sessi e genealogie. Oggi Cavarero può dire: «Lo vediamo ormai da più generazioni: nel momento in cui si va oltre lo stereotipo della madre oblativa, la figlia emancipata non si riconosce più in lei, vuole essere diversa. Ma c’è un motivo più profondo nel loro conflitto: il loro è un rapporto tra due singolarità, non può essere imitativo l’una dell’altra». Il rapporto madre-figlia è così un corpo a corpo fatto di continui slanci, stacchi, rimandi. Per la figlia tutta l’adolescenza e spesso gran parte della giovinezza è una serrata battaglia per mettere le distanze tra sé e la madre. Facendo continui aggiustamenti tra l’ingombrante presenza della madre reale e il sogno della madre immaginaria, irraggiungibile oasi di quiete, reliquia dell’amore originario. Per ogni madre invece è sempre inaspettato e doloroso il momento in cui la figlia metterà in scena il teatrino dell’allontanamento, quella mossa della distanza che anche lei aveva messo in atto con la propria, di madre. Da qui, da questo nodo riaffiorato alla luce, è nato il pensiero della differenza sessuale e quel lungo lavorio dell’autocoscienza attraverso la pratica dell’inconscio per ritrovare le tracce materne.
Del versante buio del materno hanno parlato due romanzi recenti, l’autobiografico Dove non mi hai portata (Einaudi) di Maria Grazia Calandrone, finalista allo Strega, e Epigenetica (La Nave di Teseo) di Cristina Battocletti. Entrambi raccontano di madri che abbandonano. Calandrone ricostruisce la sua storia, bambina lasciata a otto mesi su una panchina di Villa Borghese, clamoroso caso di cronaca nera degli anni Sessanta: i suoi genitori non erano più in grado di garantirle un futuro e avevano deciso di uccidersi. Ricostruire la storia con tutti i tratti mancanti è stato per la scrittrice un modo per restituire l’amore per la madre, ed essere certa dell’immenso amore della madre per lei che l’aveva portata a quella scelta. «Eccomi, faccia a faccia col groppo cruciale: la mia mamma si è suicidata per me? Gettando sulle spalle della figlia il proprio addio, come un mantello pesante, dal quale ella (io) si deve una volta per tutte divincolare. Così abbiamo rovesciato il tavolo dell’abbandono, trasformando la feroce rinuncia in un gesto d’amore». Battocletti, invece, ripercorre un duplice abbandono utilizzando il grimaldello dell’epigenetica, la disciplina scientifica che dà il titolo al romanzo – cioè la ereditarietà emotiva che si trasmette tra le generazioni. La protagonista ha avuto una bellissima madre “selvaggia”, figlia della cultura underground degli anni Settanta, madre di tre figli avuti da padri diversi. Maria, la più grande, e i fratelli Pietro e Paolo crescono nel felice disordine a cui li ha abituati la madre, finché non arrivano gli assistenti sociali, preceduti dai messaggeri dalla fiamma d’argento sul cappello, i carabinieri. «La mamma non ci ha mai insegnato a nuotare, perché non lo sapeva fare nemmeno lei. Ci raggiungeva nelle pozze, ci faceva inchinare come le statuine del cucù che uscivano al punto ora dalle casette-orologio. Poi ci sputava l’acqua addosso dicendo di essere un drago. Il più immenso e statuario dei draghi. La mamma era eccezionale, estrema, speciale, tremenda, straordinaria. In una parola, terrificante». La figlia diventa una scrittrice affermata: «In fondo non avevo fatto altro che salire sul binario della pazzia della mamma, mi ero rimessa volontariamente nel suo calco. Avevo il compito di battere sulla tastiera le vite degli altri per perpetuare la sua. Perché lei era linfa di verità e solo attraverso di lei potevo scendere nelle caverne della scrittura». Ma quando ha un figlio, scatta la maledizione, la coazione a ripetere dell’abbandono: Maria se ne va, lo lascia al padre e alla nonna paterna. Dice l’autrice Cristina Battocletti: «La mia protagonista lotta per arrivare al punto più basso della propria dignità per poi poter risalire, deve ripercorrere fino in fondo l’esperienza della madre. Nelle presentazioni del libro ho trovato la corrispondenza di molte donne, che hanno testimoniato come il vissuto materno ha condizionato le loro scelte, ma riscoprire di avere delle assonanze emotive con la figura materna le ha aiutate a ritrovarsi».
E di Danielle, la figlia di Martha nel film di Almodóvar, che cosa ne è stato? Nel finale la vediamo identica alla madre – è Tilda Swinton a interpretare anche la figlia – mentre si sdraia sulla poltrona della veranda affacciata sul bosco dove stava sua madre negli ultimi giorni di vita. Ecco, il cerchio si è chiuso.
da Avvenire
Intervista di Ritanna Armeni e Lucia Capuzzi alla giornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la Letteratura 2015, pubblicata sul mensile “Donne, Chiesa, Mondo” dell’Osservatore Romano e su Avvenire il 1° febbraio 2025
C’è un pendolo alle spalle di Svetlana Aleksievič, che sembra scandire le sue parole e il ritmo della nostra conversazione. A Berlino, la città dove si è rifugiata dopo aver lasciato nel 2020 la Bielorussia, a tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Svetlana ci parla con la voce calma e il tono deciso di chi negli ultimi anni ha trovato una conferma delle sue idee su guerra e pace, vita, morte e amore. Come nei suoi libri, anche nella nostra lunga conversazione i grandi concetti diventano parole semplici e quotidiane.
Ci appare subito chiaro, dalle sue prime parole, che il conflitto che dilania due delle sue “case” – Ucraina e Russia – e passa per la terza, la Bielorussia, dove è nata 76 anni fa, non le ha fatto cambiare idea. «La guerra non ha un volto di donna», ripete come nel titolo di uno dei suoi libri più famosi. «Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione maschile della guerra, che nasce da percezioni prettamente maschili, espresse con parole maschili, nel silenzio delle donne». «Abbiamo vissuto eventi così traumatici – continua – che credo solo l’amore potrà salvarci. Senza amore, non possiamo né tornare indietro, né proiettarci nel futuro. Solo attraverso l’amore per la vita, per l’umanità, possiamo sperare di ricostruire ciò che è stato distrutto e pensare a un domani».
E allora parliamo d’amore. Lei non lo nomina mai esplicitamente nei suoi libri, ma è il protagonista nascosto di ogni pagina ed è evidente che la sua assenza è la causa primaria della guerra. Non si può parlare di pace senza parlare di amore. Ha mai pensato di rendere l’amore il protagonista diretto dei suoi racconti corali? Oppure, come lei stessa ha detto è troppo difficile?
«Ho iniziato a scrivere un libro sull’amore quando ancora vivevo in Bielorussia, ma i miei manoscritti sono rimasti là, a casa, quando sono stata costretta a fuggire durante la rivoluzione del 2020. Arrivata in Germania, il primo anno è stato di grande disorientamento. Ma quando è scoppiata la guerra in Ucraina, ho capito che il sovok, l’uomo sovietico, l’eroe dei miei libri, legato al suo passato dell’Urss, non era affatto morto. La sua storia continuava. E io dovevo continuare a raccontarlo».
Quando ha ricevuto il Nobel per la Letteratura, ha dichiarato: «Ho tre case: la mia terra bielorussa, che è la patria di mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la patria di mia madre e dove sono nata; e la grande cultura russa, senza la quale non riesco a immaginarmi. Ho care tutte e tre». Oggi è ancora così? Sono rimasti gli stessi legami, o qualcosa è cambiato?
«I miei sentimenti non sono cambiati. Capisco il dolore degli ucraini che non vogliono ascoltare e prendono le distanze dalla lingua e dalla cultura russa. Proprio come accadde con la cultura tedesca dopo la Seconda guerra mondiale. È un meccanismo comprensibile, ma anche pericoloso. Che incontro anche fuori dall’Ucraina. La ragazza che mi fa i capelli qui, a Berlino, ha smesso di frequentare negozi russi per non sentire più quell’idioma. Ma la cultura non ha colpe, è solo uno strumento, un’entità a parte, al di là delle scelte politiche. La colpa della guerra è dei politici, di chi è alla guida dei Paesi».
In Europa abbiamo vissuto per molto tempo in pace. Le guerre erano altrove, lontano da noi, e potevamo chiudere gli occhi. Ma oggi, con i conflitti a Gaza, in Libano, in Ucraina, in Siria, la guerra è tornata a toccarci da vicino. Dopo la Seconda guerra mondiale, si aspettava un nuovo periodo di guerra?
«Dopo la caduta dell’Unione sovietica ho viaggiato molto e ho parlato con tante persone. Ho scoperto che, mentre nelle grandi città – Mosca, San Pietroburgo, Minsk, Kiev – c’era l’illusione di un cambiamento democratico, nei villaggi e nelle piccole città la realtà era molto diversa. La gente era legata al passato e parlava di Stalin come se fosse il salvatore, con frasi tipo “Ah, se tornasse Stalin, metterebbe tutto a posto”. Questo mi ha fatto capire che la trasformazione toccava solo la superficie, nel profondo nulla era cambiato. La gente era ancora legata a un passato che non voleva lasciar andare. I miei amici a Mosca non volevano crederci, ma era chiaro che il processo di Gorbacëv era stato solo di facciata, qualcosa che riguardava l’élite».
E gli altri? Il popolo? Quelli che non facevano parte dell’élite?
«Continuavano a desiderare un socialismo “con il volto umano” e non, come tanti hanno creduto, il capitalismo. Mio padre, che ha vissuto come un trauma la fine del comunismo e voleva essere sepolto con la tessera del partito, mi diceva: “L’idea era buona, è stato Stalin a rovinarla”. Non era un vero sovok [un termine dispregiativo con cui in Russia si indicano le persone con una mentalità rigidamente sovietica, ndr], era un figlio del suo tempo. E molti erano come lui. Il dramma di quei settant’anni di vita sotto il regime sovietico non è stato capito. Sia dentro che fuori dalla Russia. Non si è compreso cosa significava vivere con la mentalità sovietica».
La sua letteratura è corale. C’è il racconto che abbraccia le vite di uomini e donne nell’ex Unione Sovietica, il racconto che mostra la guerra dal punto di vista femminile. Oggi, in un’altra epoca di conflitti, a chi affiderebbe il compito di raccontare questa guerra, e le guerre di oggi?
«Ho appena finito di scrivere un libro che parla della rivoluzione in Bielorussia nel 1920, della guerra in Ucraina e della delusione non solo nei confronti di Putin, ma proprio del popolo russo. È difficile che una sola voce racconti una storia così complessa. Potrebbe forse raccontare il dolore, ma ora è necessario fare di più, dare un senso a tutto ciò che è accaduto. Non credo che ci sia una persona – una sola persona – che capisca veramente cosa stia succedendo in Ucraina. La gente è confusa, smarrita. Lo è l’intellighenzia, lo sono le persone comuni. Gli ucraini parlano del loro dolore. La questione vera però è cercare di capire perché accade tutto questo. Anch’io ho pensato che il sovok fosse finito invece è proprio lui è andato a combattere in Ucraina».
Ne Gli ultimi testimoni raccoglie le testimonianze di coloro che da bambini hanno vissuto l’occupazione tedesca in Bielorussia. Bambini che raccontano l’orrore visto, quando la guerra sembrava essere l’unico orizzonte possibile. Oggi i bambini di Gaza, i bambini israeliani, i giovani ucraini e russi mandati al fronte sono ancora vittime della guerra. A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale riusciamo a offrire solo violenza?
«Pensavamo che nel XXI secolo avremmo risolto i conflitti senza violenza, non è stato così. In alcuni articoli russi ho letto che questa è una “guerra di vecchi”. In effetti la generazione al potere è vecchia e ci trascina in un conflitto che appartiene al passato. Guardiamo le guerre di oggi, si combatte con mentalità da secolo scorso: occupazione, violenza, un modo di concepire il progresso solo attraverso la forza».
Si riferisce anche alla guerra in Ucraina?
«Certo, anche a quella. Quando è iniziata abbiamo visto qualcosa che fino a qualche tempo prima immaginavamo impossibile: carri armati in marcia verso il confine, come se fossimo tornati indietro nel tempo. A volte mi pareva di essere in pieno Medioevo. Solo qualche anno fa eravamo tutti convinti che saremmo entrati in un’era di cambiamento. Era difficile pensare che, nel XXI secolo, le divergenze dovessero essere risolte con la violenza. Oggi ci rendiamo conto di quanto poco il mondo sia cambiato davvero».
Le guerre di cui parla sono sempre alimentate da ideologie: da un’idea di giustizia o di ingiustizia che gli uomini costruiscono per giustificare la lotta. La cultura occidentale ha cercato di convincerci che le ideologie siano finite, eppure le guerre continuano. Perché?
«I filosofi e politici hanno fallito nel loro compito. Ancora oggi, prevale una concezione antiquata del valore della vita umana. Ricordo una riunione dell’Accademia delle Scienze, durante la tragedia di Černobyl. Un professore anziano disse: “Sì, possiamo evacuare le persone, ma chi avvisa gli animali? Chi salva la vita degli uccelli, dei cavalli, dei cani?”. Ecco, l’uomo pensa sempre e solo a se stesso. Černobyl rappresenta il modo in cui l’uomo concepisce la vita. Ancora oggi nessuno sembra riflettere su come risolvere i conflitti che ci separano».
Ci sta dicendo che l’umanità, nel suo complesso, è regredita? È tornata indietro rispetto ai valori della convivenza, dell’amore?
«Negli ultimi trent’anni c’è stata una regressione profonda nel modo in cui l’essere umano vive i sentimenti e la spiritualità. Ha semplificato tutto, ha messo da parte la formazione umanistica per privilegiare quella scientifica e tecnica. Ma senza la prima dimentichiamo le qualità che connotano l’essenza dell’essere umano, quelle che Dio ci ha donato».
Abbiamo parlato del sovok e della sua involuzione. E l’uomo occidentale?
«Mi chiedo come si sia involuta l’anima occidentale. Forse siete voi, voi occidentali, a dover raccontare come siete cambiati. Io so che la democrazia che abbiamo oggi ci è stata data dalla cultura occidentale. So anche che assistiamo al ritorno di pulsioni antidemocratiche pericolose e inquietanti. Spero che per l’Ucraina prevalga la democrazia. Se vincesse Putin, il mondo andrebbe verso un futuro militarizzato, dove ogni Paese sarebbe costretto a schierarsi, attaccare o difendersi».
Fra le poche voci di pace, in un mondo che sembra sempre più diviso, c’è quella del Papa. Francesco non ha mai risparmiato parole forti per chiedere la fine della guerra, o almeno una tregua. Crede che ci sia spazio per l’ascolto del capo della Chiesa cattolica?
«A Mosca, ho visto sacerdoti ortodossi benedire le armi dei soldati e anche i sottomarini destinati a portare la morte. Non mi è piaciuto. La Chiesa non può benedire la violenza. In Bielorussia, durante la rivoluzione, ho visto invece che molti sacerdoti cattolici hanno aperto le porte delle chiese per dare rifugio ai manifestanti. E hanno salvato tante vite. La Chiesa cattolica ha mostrato una grandezza che altre istituzioni non hanno avuto. Ho ancora un ricordo molto netto di Černobyl, quando le chiese si riempivano di gente disperata in cerca di risposte. Oggi, credo che dobbiamo tornare a quei valori religiosi, alla fede nel futuro. Senza futuro, non c’è umanità».
Torniamo alle sue tre case. Che cosa sogna per esse?
«Sogno una Bielorussia libera e democratica, che non sia più occupata, e un’Ucraina che superi la terribile prova della guerra. Il popolo ucraino ha sofferto troppo, ha perso molte vite e spazi culturali. Sogno anche che la cultura russa riscopra il valore della vita umana, perché questo è il compito principale di ogni artista e sacerdote. Abbiamo bisogno di tornare a rispettare tutti gli esseri viventi. Ricordo ancora le lacrime negli occhi dei cavalli a Černobyl, costretti a essere abbattuti. In quel momento ho capito che eravamo tutti parte di un unico mondo, un’unica vita. Non ha più senso sentirsi solo russi o bielorussi, siamo tutti vittime di un’offesa più grande, quella perpetrata dall’essere umano contro la vita».
da filosofemme.it
Il corpo delle pagine. Scrittura e Vita in Carla Lonzi è un libro nato dal lavoro appassionato delle autrici Linda Bertelli, docente di Estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca, e Marta Equi Pierazzini, ricercatrice e docente presso l’Università Bocconi e l’Accademia di Belle Arti di Brera.
Quest’opera rappresenta il frutto di un’intensa attività di ricerca e di un dettagliato lavoro d’archivio, offrendo uno sguardo profondo e inedito su Carla Lonzi, figura chiave del femminismo italiano contemporaneo.
Il libro esplora in particolare l’intreccio tra vita e pensiero di Lonzi, con un focus centrale sul ruolo che la scrittura ha avuto nel suo percorso esistenziale e politico.
Per Carla Lonzi infatti, la scrittura non era solo un mezzo per comunicare, ma una pratica fondamentale per comprendere e affermare la propria soggettività. Questa modalità di scrittura “a partire da sé” trova le sue radici nel femminismo italiano degli anni Settanta, che incoraggiava le donne a raccontare e condividere con le altre le proprie esperienze di vita. Il gesto di scrivere diventa così un atto politico e trasformativo, un processo di autocoscienza che sfida le convenzioni imposte dalla cultura patriarcale e capitalista.
Le autrici fanno emergere come Lonzi si opponesse con forza a una cultura prodotta dagli uomini e per gli uomini, dove le categorie e i ruoli erano predefiniti e limitanti. Per questo la ricerca di autenticità, attraverso la scrittura, era per lei un modo per rifiutare queste imposizioni, scegliendo invece di costruire uno spazio libero per il riconoscimento di sé e delle altre donne.
Nel contesto storico degli anni Sessanta e Settanta, emergono i gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne iniziano a riconoscersi reciprocamente come soggetti autonomi. Carla Lonzi, insieme al gruppo di Rivolta Femminile, contribuisce a valorizzare la differenza, intesa come diritto all’esistenza e all’essere diverse rispetto ai modelli imposti dalla tradizione patriarcale.
Questo riconoscimento della differenza si configura come un atto di resistenza: un’affermazione del personale che diventa politico, distruggendo ogni processo di gerarchizzazione.
Il titolo del saggio Il corpo delle pagine racchiude un significato cruciale: le autrici vogliono evidenziare come Carla Lonzi intenda superare la scrittura creativa tradizionale, spesso ridotta a mera astrazione culturale, per valorizzare invece l’Io scrivente e il vissuto dell’esperienza personale. Nelle opere di Lonzi emerge chiaramente una scrittura che incorpora «carne da bruciare» (1), ovvero la tangibile presenza del corpo, della voce e dell’essere dell’autrice stessa.
Lonzi attribuisce un’importanza centrale al visibile, al parlato, al contesto e alle relazioni che intreccia con le altre, elementi indispensabili per preservare l’autenticità della propria soggettività. In questo quadro, il prodotto finale della scrittura – inteso come un contenuto da consumare o una mera prova di produttività – viene percepito come un disvalore.
Tale concezione sposta l’attenzione dal “risultato” alla “presenza”, sottolineando che la scrittura non può prescindere dal vissuto, dalle relazioni e dall’umanità di chi la produce. Quando ci si concentra solo sull’output, si rischia di tradire l’esperienza autentica dell’autore/autrice, dimenticando la dimensione corporea e relazionale che lo/la caratterizza.
In questo contesto, Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile utilizzano la registrazione come pratica fondativa del loro processo creativo.
Registrare le conversazioni, i dialoghi e i confronti consente di conservare la presenza dei corpi parlanti, valorizzando l’unicità di ogni voce. La scrittura, in questo modo, non è semplicemente vicina al parlato, ma rimane intimamente connessa alle parlanti stesse.
Questo approccio ribalta la concezione tradizionale della scritturacome distillato culturale, restituendole il valore di pratica situata, radicata nel corpo e nell’interazione umana, essenziale per comprendere e affermare la soggettività di ciascuna.
L’ultimo capitolo di Il Corpo delle Pagine rappresenta la parte più innovativa e rivoluzionaria del saggio, poiché le autrici analizzano materiali inediti di Marta Lonzi (sorella di Carla), intrecciandoli alle proprie vicende esistenziali in un dialogo che adotta la metodologia di scrittura elaborata da Lonzi e dal gruppo di Rivolta Femminile.
Tale approccio consente di connettere i contenuti storici e teorici al vissuto personale, in un processo che sovverte le tradizionali gerarchie tra autrici, testo e lettrici.
Il capitolo prende le mosse dal progetto, mai realizzato, di una mostra su Carla Lonzi, per giungere a una riflessione sulla scrittura come pratica di differimento. Le autrici mettono in luce il valore del fallimento, reinterpretandolo in chiave anticapitalista e antipatriarcale. In questa prospettiva, il fallimento non è più un limite o una sconfitta, ma una forma di resistenza contro i tempi dettati dalla società della produttività, che esige continua efficienza e prestazioni.
La scrittura, così intesa, si riappropria di un tempo proprio: un tempo per pensare, progettare, sostare.
Questo tempo, che si sottrae alle logiche della produzione e della performance, diventa un atto di ribellione contro i ritmi imposti da un sistema che marginalizza ciò che non è immediatamente utile o funzionale.
La presentazione del libro, avvenuta in anteprima al Giungla Fest 2024 (2) dal titolo Radicale, ha ulteriormente rafforzato questo legame tra scrittura e sovversione delle logiche dominanti.
Come ha spiegato Irene Panzani, curatrice di Giungla:
«Praticare la scrittura è una forma di radicamento, ma anche di radicalità. Si radicano pensieri, si sviluppano, si pensa scrivendo, ci si riconosce nello scritto o si rifiuta, si rende visibile ciò che prima era immateriale. Scrivere contribuisce alla costruzione dell’identità, di una o molte identità. Interrogarsi sul senso delle parole e delle cose credo sia, in fin dei conti, anche l’essenza dello scrivere, che lo si faccia per sé, come pratica di autocoscienza, o per finzione, in ogni caso scrivere ci porta a guardare il mondo e noi stesse nel mondo, a crearlo, negarlo o sovvertirlo. è una pratica che può precedere altre azioni, di affermazione, denuncia, disobbedienza, rinuncia…» (3)
Queste parole non solo confermano l’attualità della riflessione lonziana, ma dimostrano come la scrittura sia uno strumento capace di interrogare, destrutturare e ridefinire il senso delle cose e delle parole.
Il libro Il corpo delle pagine di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini non solo si allinea con il pensiero e la produzione di Carla Lonzi, ma arricchisce il corpo delle pagine del saggio stesso.
La scelta di praticare questa forma di scrittura libera dalle convenzioni imposte rappresenta una liberazione concreta delle autrici dai vincoli culturali e sociali. Il risultato è un testo che non si limita a raccontare il pensiero di Lonzi, ma lo incarna, invitando lettrici e lettori a riflettere su un modo di essere e di scrivere autentico e radicalmente libero.
Grazie Moretti&Vitali!
Bertelli, Linda, Equi Pierazzini, Marta, Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, Moretti&Vitali, Bergamo 2024
1) Lonzi, Carla, Taci anzi parla, in Bertelli L., Equi Pierazzini M., Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, p. 122.
2) Giungla fest è un festival dedicato all’arte contemporanea, nato nel 2020 e giunto alla sua quinta edizione: https://www.giunglafest.it/edizione-2024/
3) Queste parole sono il frutto di un dialogo diretto tra Irene Panzani e Elena Magalotti.
Dal Corriere della Sera
La tennista che nel 1980 fu condannata per associazione sovversiva: «Volevo sovvertire il potere, oggi sarei meno testarda»
«Se fossi morta, mai avrei cambiato idea». La porta del condominio di Giubiasco, distretto di Bellinzona, si spalanca sugli accadimenti più misconosciuti dello sport italiano. Sulla soglia di questa storia densissima e a tratti drammatica, lei, Monica Giorgi in Cerutti per matrimonio dichiaratamente di convenienza con un cittadino svizzero, classe ’46, livornese, anarchica, atea, ex talento del tennis immolato all’attivismo politico negli anni in cui per l’ideale si poteva finire in galera con l’accusa (friabile) di aver partecipato a un rapimento di matrice politica. Aveva calpestato i courts con gli amici Lea Pericoli e Adriano Panatta e giocato a Wimbledon quando il 30 aprile 1980, la stagione terribile dell’omicidio di Piersanti Mattarella, del sangue nelle università (Bachelet a Roma, Galli a Milano), per le strade (Tobagi) e della strage di Bologna, Monica venne arrestata.Due anni dentro, sognando il blu delle sue onde (“Domani si va al mare” è il bel titolo di un libro appassionato scritto per Fandango con Serena Marchi),una condanna a dodici derubricata per «associazione sovversiva», il capo d’imputazione di cui Giorgi va fiera.«Me lo tengo stretto, non discuto. È quello che volevo fare: sovvertire il potere. Con gli anarchici di Livorno, i volantini, i discorsi, l’attivismo: nulla più. Oggi non sarei così testarda: la vita mi ha cambiata. Non direi più ad Adriano che è un fascista perché ha scelto di andare a giocare la Davis da Pinochet».
Le radici a Livorno contano nel suo romanzo, Monica?
«Eccome! Livorno è la mia carne, il mio sangue, le mie parole. Mi chiedo se dopo tanti anni in Svizzera dovrei tornarci a morire. Dell’Italia mi attraggono gli odori, i sapori, le scritte sui muri. Ci vado volentieri, da quando le mie pendenze con la giustizia sono risolte. Però lascio anche che le cose accadano».
Ne sono accadute di cose, eccome: gli anni gioiosi del tennis, l’avvicinamento ai movimenti non violenti, le campagne a difesa dei diritti dei carcerati, l’esilio in Francia, la tranquillità in Svizzera.
«Le cose più belle sono quelle che capitano. Sono stocastica, aleatoria: qualcosa succederà. Preferisco essere illusa, piuttosto che pregiudizievole. Certo rischio la delusione, ma è da lì che scaturisce consapevolezza. Il processo mi ha fatto scoprire la mia dabbenaggine: siccome sono presuntuosa, ci sono passata sopra. Vede, io penso in livornese, che non è una lingua, è un vernacolo: viene da verna, schiavo, e lo schiavo subisce».
I primi guai quando la Federtennis italiana la squalifica per aver indossato a Johannesburg, in pieno apartheid, una T-shirt con un nero e una bianca che fanno l’amore.
«Indegna di rappresentare l’Italia, scrissero nella lettera con cui mi fermavano un anno. Ci sono cose che sono sfuggite di mano alla gioventù dell’epoca, ma eravamo pieni di entusiasmo. Il libro è stato un lavoro di espiazione catartico: ha riaperto le ferite, lascio che sanguinino. Da ragazza mi piaceva provocare il potere, a settantanove anni invece lo comprendo: lo vedo come parte necessaria per cui certe cose devono finire o cominciare. Non mi giudico: ho fatto quello che mi sentivo».
In vacanza con Lea Pericoli imbrattò di escrementi lo yacht del vicino di banchina.
«Lea lo detestava: fu un gesto d’amicizia. La vera ingiustizia di quegli anni è la morte di Pinelli che vola giù dalla finestra della Questura di Milano. Quello è stato il mio ’68. Lea ed io eravamo agli antipodi solo all’apparenza. La divina e Monicaccia, come mi chiamava lei: che coppia».
Cosa vi legava?
«Ti muove quello che non hai. Io ero la parte che Lea teneva sopita. Erano i tempi in cui per farti un complimento ti dicevano: brava, giochi come un uomo. Sarà un uomo che gioca bene come me, ribattevo! Kant scrive che il cielo stellato è sopra di noi ma la donna il cielo stellato ce l’ha dentro. Lea mi chiedeva di Kafka, Gandhi, delle mie letture filosofiche, della rivista anarchica “Niente più sbarre”. Ci siamo volute molto bene. Tra tanti bifolchi qualunquisti, l’unico maschio con cui potevo parlare era Panatta. Quando giocavamo il doppio insieme e ci facevano un lob, fermava la palla: alt, qui lo smash lo faccio solo io!».
A Lea fece un gran regalo: la lasciò vincere in semifinale agli Assoluti ’71. Perché?
«Il regalo lo feci a me: volevo mettermi alla prova. Ero già incasinata con la politica, mi scrivevo con i detenuti anarchici, ritirarmi mentre stavo vincendo fu la mia personalissima protesta contro il sistema. C’era dell’autolesionismo? Non credo. Avevo consapevolezza dei miei limiti: sapevo che la Bassi in finale non l’avrei mai battuta. Lo rifarei mille volte. È un’economia un po’ perversa, lo riconosco. Sono vissuta di ideali, anche alla rovescia. Nell’ideale non c’è un sopra e un sotto, una destra e una sinistra. L’ideale, quando ci credi, è l’eterno. Ecco, io sentivo di dover seguire solo quello».
Ma a chi dava noia, in fondo? Se lo è chiesto?
«Molte volte. Eppure mi bastavano il mio tennis, il mio mare, una motocicletta, i miei libri, 100mila lire al mese. Andavo a trovare in carcere l’anarchico Fantazzini e mi arrovellavo: che male faccio? Ma a quei tempi la controinformazione infastidiva tantissimo, e io mettevo in dubbio che Pinelli fosse caduto da solo dalla finestra. Sì, davo fastidio. E schiacciando un moscerino di 45 chili come me il potere dimostrò tutta la sua debolezza».
Ci ha messo del suo.
«Ammetto il gusto di esibirmi, anche in campo mi piaceva giocare con il fuoco. Mi chiami a rete? E io ti faccio una palla corta. Le valchirie rimanevano ferme sul posto. Ero agile, velocissima, rimandavo tutto. Per battermi dovevano sopraffarmi con la potenza, ma anche in quel caso le costringevo a farmi il punto due volte».
Da chi ha preso?
«Da mio padre l’estroversione, a costo di fallire per troppa esuberanza. Da mia madre l’essere parca: non tirchia, parca. È lei, con le sue imperfezioni e i nostri conflitti, ad avermi autorizzato a essere libera: se fosse stata perfetta, non me ne sarei mai andata. Invece si lamentava di me, terzogenita dopo due gemelle, in continuazione. Si è resa insopportabile: un dono. Quando lessi “L’ordine simbolico della madre” di Luisa Muraro fu un’illuminazione».
Qual è stato il giorno più felice della sua vita?
«Il 29 aprile 1982, un giovedì. È il giorno della lettura della sentenza che mi riduce la pena a due anni, già scontati. Nell’aula del tribunale lancio un urlo belluino: domani si va al mareeeeee!».
Come fa a vivere a Bellinzona, tra le montagne?
«Eh, ma torno spesso. E poi il mare preferisco andarlo a cercare: quando ce l’ho lì a disposizione, mi viene a noia».
L’incontro più forte?
«Giovanni, il custode della Federazione anarchica livornese. Autodidatta, nudo davanti alla vita, miope, ma anche un accademico senza titolo di studio. Fu il primo a parlarmi delle fosse di Katyn, il massacro dell’intellighenzia polacca da parte dell’Urss. Quando morì Francisco Franco si fece un volantino. Volevamo scriverci: viva la morte. Intervenne Giovanni: macché, scriviamo viva la libertà!».
Rifarebbe tutto?
«Paro paro. Forse correggerei la mia ingenuità, ma è un puro esercizio retorico».
Anche le cose che le hanno provocato più dolore?
«Il dolore lo metto nello stesso paniere della felicità».
È vero che nel ’76 in Cile Panatta, memore delle vostre discussioni su Pinochet, propose a Bertolucci di indossare la maglietta rossa nel doppio di Davis anche come omaggio alla militanza dell’amica Monica Giorgi?
«Non lo so, non credo. Dovrebbe chiederlo a Adriano».
E la sua, di maglietta, quella della coppia mista che fece indignare il Sudafrica e la Federtennis, che fine ha fatto?
«Forse era a casa di mia madre ma con la sua morte è andata persa».
Segue il tennis, oggi? Jannik Sinner e i suoi fratelli l’hanno riportato in auge.
«Sì, questa generazione di giocatori mi ha riavvicinata al mio sport. Però non gioco più: mi fanno male le ginocchia. I miei preferiti sono Federer e Alcaraz, che è molto più divertente di Sinner. Adesso non gli serve per vincere, ma Jannik dovrà imparare a scendere di più a rete».
Oltre al tennis, chi è stato il suo più grande amore?
«Manrico, un uomo bellissimo che mai avrei immaginato potesse innamorarsi di uno sgorbio come me. E Maddalena, incontrata in carcere: con lei c’era molto più del sesso, che in una relazione non è necessario».
E la rabbia, motore potente, dove l’ha messa a quasi ottant’anni, Monica?
«Con quel fisichino dove vuoi andare? mi dicevano. Alle feste nessuno mi invitava mai a ballare. Mi sentivo inadeguata: ho fatto di tutto per riscattarmi. Ha ragione, la rabbia è una forza potente. Ma la mia, soprattutto, è stata passione di vivere».
da il manifesto
Il riarmo della Germania passa anche per le università tedesche. Cresce nel paese la pressione nel discorso pubblico affinché si consenta la ricerca militare negli atenei. Tale richiesta si scontra con uno dei conseguimenti del movimento pacifista tedesco: le cosiddette ‘clausole civili’ (Zivilklauseln), disposizioni iscritte negli statuti delle università e nei politecnici che consentono esclusivamente ricerca civile e per scopi pacifici.
Il movimento a favore delle clausole civili nacque dopo la Seconda guerra mondiale, in un momento storico in cui era ben noto il ruolo militare che le istituzioni universitarie avevano svolto prima e durante la guerra. Con la guerra fredda le clausole civili divennero una rivendicazione centrale nel movimento pacifista e molti atenei le inscrissero nei loro statuti. Si contano ad oggi circa settanta atenei in tutto il paese ad averle incluse nei loro ordinamenti.
In continuità con il crescente militarismo delle classi dirigenti del paese, certificato dalle parole del ministro socialdemocratico della difesa, Boris Pistorius – «la Germania divenga pronta alla guerra» – si tenta di riaprire il dossier delle clausole civili nel dibattito pubblico e politico. A spingere per cancellare ogni intralcio all’interazione tra l’esercito e le istituzioni pubbliche di ricerca non solo la destra, ma anche i Verdi con il loro candidato alla cancelleria, e attuale ministro dell’economia, Robert Habeck. Il tentativo è quello di dare maggiore peso e influenza civile alla Bundeswehr, l’esercito della Repubblica federale, e lentamente militarizzare la società.
In particolare, è la Cdu del probabile futuro cancelliere Friedrich Merz che lancia segnali piuttosto chiari a riguardo. Nel programma elettorale dei cristianodemocratici si parla infatti di «abolire vincoli alla ricerca militare» e si sottolinea la leadership che la Bundeswehr deve assumere in futuro a livello europeo per quanto riguarda la ricerca militare. Si parla persino di «un’armata di droni» attualmente in costruzione. È chiaro che in questo contesto diviene essenziale sfruttare le potenzialità dell’università in materia d’innovazione e di ricerca scientifica.
A fare d’apripista al progetto, il governo guidato da Markus Söder a capo dalla Csu (partito alleato e omologo della Cdu in Baviera). Lo scorso luglio 2024 Söder ha promulgato la cosiddetta “legge Bundeswehr” che non solo prevede di interdire le clausole civili, ma obbliga le università e i politecnici bavaresi a collaborare con l’esercito qualora tale interazione sia una questione di sicurezza nazionale. Il sindacato bavarese per la formazione e la ricerca (Gew) ha messo in dubbio la validità costituzionale di tale proposta di legge – la libertà di ricerca scientifica è un diritto costituzionale a livello federale – facendo ricorso alla Corte costituzionale bavarese di cui si attende il responso.
La proposta di legge in Baviera è in sintonia con la «svolta epocale» (Zeitenwende) annunciata dal cancelliere Scholz pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022, che consiste, com’è noto, in un aumento significativo delle spese militari del paese. Ciò richiede la riconversione di una parte sostanziale della spesa pubblica a scopi bellici. Le classi dirigenti tedesche devono lavorare sodo per preparare l’opinione pubblica a una tale riconversione. Si passerà anche per i banchi, le aule, e i laboratori universitari.
da il manifesto
“Sospesa”, il libro della reporter Mariangela Paone, pubblicato da Add
Settembre del 2015. La foto di Alan, il piccolo di tre anni, trovato morto su una spiaggia turca stretto nel suo giubbino rosso, lanciava un grido lancinante alle coscienze di tutti gli europei. Alan stava scappando dall’orrore della guerra in Siria. Era morto alle porte dell’Europa, e, per un istante, non era più solo un numero. Si stima che altre circa trentamila persone abbiano perso la vita nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni.
Solo pochi giorni dopo, il 28 ottobre, arriva la notizia di un altro naufragio di enormi proporzioni in quello stesso tratto di mare, attraversato da ottocentomila persone quell’anno: una fragile imbarcazione in legno di due piani con più di trecento persone a bordo si rovescia davanti alle coste dell’isola di Lesbo. Almeno quarantatré persone perdono la vita. Fra di loro, Fatima, Naseer, Negin (11 anni), Hadith (5 anni) e la piccola Mehrumah, di soli 14 mesi, rispettivamente madre, padre, e sorelle e fratello di Rezwana, unica sopravvissuta al naufragio. Allora aveva solo 13 anni. Fu quel giorno che nacque l’ong Open Arms come la conosciamo oggi, i cui volontari, ancora privi dei mezzi adeguati, cercarono come poterono di aiutare i pescatori che portavano in salvo i naufraghi, sotto gli occhi indifferenti di Frontex e della guardia costiera.
La giornalista Mariangela Paone, reporter e inviata speciale, che oggi lavora a eldiario.es, racconta la storia di Rezwana nel libro Sospesa (Add Editore, pp. 152, euro 18), appena uscito in italiano. Rezwana è afgana. Suo padre fa il cameraman quando nel 2015 la situazione si fa troppo pericolosa per rimanere a Kabul. Il paese è sotto la costante minaccia dei talebani. Lei andava a scuola, portava a casa buoni risultati e in casa la incoraggiavano a continuare. Ma un doloroso giorno, d’improvviso, devono lasciare la loro vita alle spalle. Montano su un volo diretto a Teheran. Da lì inizia un lungo viaggio per terra per arrivare fino alle coste turche da dove partirà l’imbarcazione che li avrebbe dovuti portare in Europa. Un’imbarcazione molto meno sicura di quello che avevano promesso a Naseer per il prezzo che aveva pagato. Salgono lo stesso e nelle fredde acque dell’Egeo ha luogo la peggiore tragedia che possa colpire una bambina.
A partire da quel momento, Rezwana è una minore non accompagnata, sola in un paese dove non conosce nessuno. L’unica familiare vive in Svezia. Durante gli anni successivi, Rezwana passa per tre famiglie affidatarie, cerca di ambientarsi in Grecia. Ma non è felice. Resiste alle pressioni di uno zio che vuole che torni a Kabul. Vuole andare in Svezia. La fredda burocrazia europea che tratta le persone migranti come un fascicolo numerato la tiene bloccata ad Atene.
Anche quando riesce, per un breve periodo, a farsi mandare in Svezia, il trattato di Dublino e una schiera di burocrati la costringono a tornare in Grecia, il primo paese di arrivo, che già le ha concesso un permesso. I desideri, le aspirazioni e il dolore delle persone non contano per un’Europa impegnata in un cinico scaricabarile fra paesi indifferenti. Con un’opinione pubblica che vede le persone migranti solo come un problema, senza scorgere dietro il loro sguardo la disperazione.
«Restiamo umani», diceva Vittorio Arrigoni. Di umana, nella storia che racconta Paone raccogliendo le testimonianze delle tante persone che hanno incrociato le peripezie di Rezwana, c’è la sofferenza di chi cerca, nonostante tutto, di ricostruirsi una vita, di ripescare dal fondo del mare le speranze, i sogni e le aspirazioni, e si scontra contro un muro di cinismo burocratico. Quello di un sistema di accoglienza inadeguato, senza mezzi e ottuso rispetto alle persone che dovrebbe proteggere. Quello di istituzioni europee sorde alle necessità degli esseri umani che scappano dalla barbarie.
Sono passati più di nove anni e Rezwana è ancora bloccata in Grecia: senza la nazionalità, non può andare a vivere con la sua famiglia svedese. Ora sì, può viaggiare liberamente: ma dopo anni, a scegliere per lei non sono i suoi desideri, ma un sigillo su un pezzo di carta.
In mezzo a tutto il dolore in cui vivono i migranti, sballottati da un punto all’altro, prima dai trafficanti e poi dai governi, c’è però un briciolo di umanità. Le ong come Open Arms o Emergency, le volontarie che lottano per non lasciare sola Rezwana, la madre di una famiglia affidataria, un insegnante di una delle scuole per cui è passata, la volontaria che si scontra contro tutto e tutti per non far dimenticare quella bambina ammutolita dalla tragedia, la maestra in pensione svedese che le fa da madrina legale, la avvocata di una ong. E i giornalisti e i fotografi che si accaniscono a voler documentare e raccontare il dramma. Come Paone.
Sospesa è la storia di un’odissea, ma anche una missione: riuscire a trovare i resti della famiglia di Rezwana. Cosa che riesce grazie a persone che cercano di fare di questo mondo un posto migliore.
Il libro sarà presentato l’8 febbraio nelle librerie Arlette e Il Ponte sulla Dora di Torino, il 10 febbraio al Librificio del Borgo di Genova e il 12 presso Casetta Rossa a Roma.
Marina Terragni è stata nominata di recente, dai presidenti di Camera e Senato, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. Non ci dilunghiamo sulla sua storia politica che le donne vicine al femminismo conoscono e su cui ci si può informare facilmente in Internet e sui quotidiani che hanno riportato la notizia.
Terragni, detto in pochissime parole, forse anche inadeguate, è considerata “divisiva”, come usa dire, perché contraria alla Gpa, ai bloccanti della pubertà e al cosiddetto self-id con il quale dichiararsi maschi o femmine sulla base della percezione soggettiva di sé. Contraria anche alla partecipazione di atlete transessuali nelle gare sportive femminili. Il suo stile da attivista e giornalista è battagliero e polemico. Questo è uno dei motivi per spiegare le veementi reazioni negative di tante amiche e compagne di strada a questa nomina. Ma è anche, o forse soprattutto, la sua scelta di ricoprire un ruolo istituzionale nel contesto del governo presieduto da Giorgia Meloni, segretaria di Fratelli d’Italia, e la sua relazione con la ministra Eugenia Roccella, deputata nelle fila dello stesso partito, ad essere un problema per molte che sono schierate a sinistra.
Pensiamo che sarebbe un peccato che dall’unica rivoluzione del XX secolo ancora viva, quella delle donne, non arrivassero pensieri, pratiche, o almeno accenni ad un diverso modo di rapportarsi tra noi, anche quando ci definiamo di destra o di sinistra. Si tratta di una sistemazione del mondo e di un pensiero elaborato dagli uomini che, in alcune occasioni della vita pubblica, molte assumono in mancanza di meglio, forse solo per votare.
In un mondo che vira decisamente a destra e in cui sempre più donne contribuiscono a questo sommovimento, interrompere o evitare di costruire rapporti tra donne di “schieramenti” diversi o che accettano incarichi pubblici che inevitabilmente si collocano nel più complessivo quadro del governo in carica, ci sembra un errore.
Tornando a Marina Terragni: nel ruolo di Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza avrà la possibilità di rispondere a molte richieste provenienti dal mondo delle donne. Per fare solo uno tra i tanti possibili esempi, potrà essere di aiuto a quelle che devono affrontare la decisione di tribunali che affidano le loro creature al padre, anche se condannato per violenza. Si tratta di sentenze che spesso si fondano sul riconoscimento della cosiddetta sindrome di alienazione parentale (Pas), giudicata priva difondamento scientifico dalla Cassazione, dall’Onu e dalla Convenzione di Istanbul. Donne e uomini impegnati nella politica e nelle professioni, proprio su questo tema così delicato, si sono già rivolti a lei con un appello*.
(*) L’appello delle femministe a Terragni: “Ci aiuti nella lotta alla Pas”
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo di una lettrice che si è laureata nel 2024 in giurisprudenza con una tesi in diritto del lavoro intitolata “Quando il lavoro non è lavoro. Prospettive giuslavoristiche su sfruttamento del lavoro e prostituzione”.
La redazione del sito
Cosa spinge le donne ad accettare la soggezione agli uomini? Perché ancora oggi accettano di sottomettersi al desiderio maschile? Di più: tale atto di sottomissione è davvero una scelta libera?
Il racconto più importante sulla libera scelta ci perviene dal contrattualismo classico: gli uomini, nello stato di natura, possono decidere di stipulare un accordo per sottomettersi a un potere al fine di vivere in una dimensione civile. Non si accetta più la subordinazione al potere dispotico del re come un padre-padrone; gli uomini sono finalmente liberi e possono decidere per loro stessi.
Così anche il contratto inteso come strumento prediletto del diritto civile per creare, modificare o estinguere delle situazioni giuridiche si basa sull’accordo libero prestato da due contraenti.
L’ordine politico e il potere civile, quindi, hanno un’origine non solo razionale ma anche libera, perché istituiti da uomini liberi.
I contraenti hanno, tuttavia, una caratteristica fondamentale: sono tutti di sesso maschile.
Il racconto del contratto sociale è, in realtà, il racconto di come gli uomini abbiano creato la sfera pubblica e civile dove poter operare e la sfera privata alla quale relegare le donne. Questa la tesi della teorica del contrattualismo Carole Pateman: la democrazia consensuale nella quale si crede di vivere non è mai esistita.
Tale accordo stipulato tra uomini liberi ha occultato e rimosso un altro contratto, che perpetra l’assoggettamento delle donne agli uomini, il “contratto sessuale”. Questo contratto fonda l’accesso degli uomini ai corpi delle donne. Costituisce la base delle profonde diseguaglianze di potere che ancora oggi persistono nella società: se è vero che le donne, nel mondo occidentale, non sono più per legge soggette a tutela maritale e possiedono formalmente gli stessi diritti degli uomini, sono tuttavia ancora soggette a questo contratto. L’accesso ai corpi delle donne permette agli uomini di esprimere la loro mascolinità: sono le mogli che crescono i loro figli, le domestiche che curano la loro casa, le prostitute dalle quali possono comprare sesso. Questo contratto è sempre stato nascosto; prima la disparità era codificata e accettata, con la modernità invece essa viene comodamente ignorata, preferendo trincerarsi dietro la categoria neutrale di “persona”.
Assistiamo, infatti, ai tentativi di inserire le donne nella sfera pubblica dalla quale sono sempre state escluse, evitando di mettere in luce che tale sfera di potere è stata creata a misura di uomo. Le donne sono sempre state considerate naturalmente escluse da questa sfera. Tuttavia, non vi è niente di naturale nella soggezione delle donne agli uomini: il racconto della naturale inferiorità della donna è solo il mezzo per giustificare la soggezione delle donne tramite lo strumento civile. Per poterle sottomettere sul piano giuridico agli uomini, è previsto che le donne possiedano la capacità di stipulare un solo contratto, il matrimonio. In questo modo, le donne possono formalmente occupare la sfera domestica come mogli e madri, mentre gli uomini quella civile, come veri partecipanti alla vita pubblica dello Stato.
Il misconoscimento del contratto sessuale è il tentativo di forzare l’esistenza di un consenso delle donne alla soggezione all’uomo. Se la sottomissione al potere maschile avviene tramite contratto, che è l’espressione più alta di una scelta libera e consapevole, come può non essere consensuale? Ma un ordine politico che non riconosce una diseguaglianza tra uomini e donne è in grado di garantire l’esistenza di uno strumento civile che sia davvero espressione di consenso?
La prostituzione è, forse, l’esempio più lampante di un tentativo di rendere l’accesso ai corpi delle donne come dignitoso e civile. Si tenta, con diverse strategie, di metterla sullo stesso piano di tutti gli altri lavori, come se ne condividesse la dignità, l’intenzionalità a concorrere al progresso materiale o spirituale della società, l’attitudine a essere fondamento della società civile. La prostituzione non è un mestiere salariato come gli altri perché l’oggetto del contratto di prostituzione è l’accesso al corpo della donna. Se un datore di lavoro è interessato, astrattamente, a ottenere l’uso del corpo del dipendente, ciò che vuole ottenere, alla fine, è il prodotto del suo lavoro. Solo con la prostituzione si accede all’io della persona. Non è possibile separare il corpo dalla persona della prostituta; l’atto sessuale, affinché si compia, deve essere eseguito quando la prostituta è presente. È questo il motivo per cui le prostitute (e anche le sex workers che sostengono che sia “un lavoro come tutti gli altri”) imparano subito delle tecniche di dissociazione per distaccarsi emotivamente dalla prestazione sessuale. Avere un rapporto sessuale quando il consenso è sostituito da un compenso in denaro è degradante e nessuna vuole esserne attivamente partecipe.
È, quindi, davvero paragonabile a qualsiasi altra prestazione lavorativa?
Chi è favorevole alla prostituzione sostiene che questi sono argomenti paternalisti. Sono teorie che non svelano disuguaglianze di potere tra uomini e donne ma intendono privare le donne della capacità di scelta. Ma è realmente così? È davvero paternalistico impedire la vendita del proprio corpo?
Nell’ordinamento italiano non è possibile vendere organi o tessuti, ma solo donarli, perché si vuole impedire che il donatore si senta costretto da pressioni economiche a adempiere a una richiesta del ricevente. E poiché l’accesso al proprio corpo, ai propri tessuti, non è così separabile dalla dignità umana come si vuole far credere, si vuole impedire che il donatore presti un consenso viziato dalla promessa in denaro o altra utilità da parte del ricevente. Il donatore ha ciò che il ricevente vuole: se il ricevente promettesse del denaro in cambio dell’organo, il donatore in condizioni di bisogno o vulnerabilità sarebbe comunque libero di scegliere?
Siamo testimoni di una legislazione paternalistica o del riconoscimento che non esiste la possibilità di prestare un consenso libero quando entra in gioco il corpo dell’essere umano? Che non esiste una libera scelta quando vi è uno squilibrio di potere?
Al di là delle riflessioni di ordine politico-filosofico, le ragioni a favore dell’esistenza di un consenso libero nella prostituzione si sprecano.
Viene spesso argomentato che la prostituzione è la scelta preferibile ad altri lavori più pesanti o pericolosi. La prostituzione sarebbe quindi un mestiere più dignitoso, o migliore, del lavoro in fabbrica. La letteratura in materia mostra come l’incidenza di depressione e disturbo da stress post- traumatico nelle prostitute o sex workers sia altissima, con percentuali di soggetti affetti da queste patologie di molto superiori ai lavoratori impiegati nei settori a più alta incidenza di depressione1 La prostituzione è davvero, dunque, l’alternativa accettabile? O è, piuttosto, una “scelta” fatta solo quando l’alternativa è morire di fame o vivere in povertà estrema (e non è, quindi, una scelta libera e volontaria poiché l’alternativa non è accettabile, secondo la teoria della filosofa Serena Olsaretti2)?
Se si assume che quello della prostituta sia un lavoro, deve poter prestare il suo libero consenso alla prestazione sessuale e poterlo revocare quando preferisce. Ma se è il suo “lavoro”, per potersi sostentare dovrà accettare la maggior parte dei contratti che stipula. Chi fa della prostituzione il suo mestiere, dovrà auto-limitare la sua capacità di rifiutare o negare il suo consenso per potersi assicurare un guadagno. Si può anche argomentare che tale è la condizione di tutti i lavoratori salariati. Ma nessuno di questi lavori ha come oggetto della prestazione il proprio corpo.
Occultare la persistente diseguaglianza tra uomini e donne in termini di potere politico, come insegna brillantemente Carole Pateman, significa ignorare volutamente il meccanismo che spinge gli uomini a richiedere accesso ai corpi delle donne. La prostituzione non è una scelta, perché le donne sono state escluse dalla storia che ha permesso agli uomini di farsi uomini liberi. Essa è solo uno strumento per permettere agli uomini di accedere ai corpi delle donne. La prostituzione, concretamente, è incapace di garantire un’esistenza libera e dignitosa alle donne come, invece, tutte le altre occupazioni riescono a fare.
Parlare di prostituzione ci pone due sfide: mettere in discussione il consenso e ripensare cosa intendiamo per lavoro dignitoso.
1 Park J.N., Decker M.R., Bass J.K., Galai N., Tomko C., Jain K.M., Footer K.H.A., Sherman S.G. Cumulative Violence and PTSD Symptom Severity Among Urban Street-Based Female Sex Workers in J Interpers Violence, 2021; Wulsin L., Alterman T., Timothy Bushnell P., Li J., Shen R., Prevalence rates for depression by industry: a claims database analysis in Soc. Psychiatry Psychiatr. Epidemiol., 2014.
2 Olsaretti, S., Freedom, Force and Choice: Against the Right-Based Definition of Voluntariness in The Journal of Political Philosophy, vol. 6, n. 1, 2002.
da il manifesto
La scrittrice americana di origini cinesi racconta nei suoi romanzi per lettori e lettrici giovani (Motel Calivista, buongiorno! e Le tre chiavi, usciti per Emons) le vite degli irregolari e di chi tenta di farcela. «Da bambina, la Proposition 187 mi fece molta paura. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, quali miei amici sarebbero stati banditi dalla scuola, o peggio. Purtroppo, quegli stessi timori oggi con Trump si sono riaffacciati»
«I recenti incendi in California sono stati terrificanti. La mia famiglia è stata costretta a evacuare e molti miei amici hanno perso la loro casa. Nonostante sia stato un incubo, mi ha commossa vedere la comunità di Los Angeles così unita, pronta ad aiutare. Ho piena fiducia nella ricostruzione. Questa catastrofe ci ricorda però che il cambiamento climatico sta avvenendo rapidamente. Riguarderà tutti: siamo interconnessi e i problemi degli altri ci riguardano sempre».
Kelly Yang, quarantunenne scrittrice americana con origini cinesi, premio Strega Ragazze e Ragazzi nella categoria 11+, è cresciuta in California con la sua famiglia immigrata proprio come Mia, la protagonista dei suoi due romanzi pubblicati in Italia da Emons: Motel Calivista, buongiorno! e Le tre chiavi, Motel Calivista 2 (pp. 350, euro 14,50, traduzione di Federico Taibi). Quest’ultimo incrocia l’attualità bruciante del ritorno di Trump e la sua volontà di rinverdire deportazioni e discriminazione razziale. Lupe, infatti, amica del cuore di Mia, è angosciata per una nuova legge (il riferimento qui è alla famigerata Proposition 187 varata nel 1994 e anni dopo resa vana dall’impegno dei democratici, ndr) che vieta a chi è senza documenti (come lei) di frequentare la scuola.
Appena Trump ha giurato come presidente, ha subito dichiarato guerra agli immigrati e attaccato lo ius soli. Sono temi a lei molto vicini, addirittura autobiografici, che ha spesso affrontato nei suoi libri. Un passo indietro per la democrazia americana?
Mi preoccupa molto il fatto che Trump stia cercando di abolire la cittadinanza acquisita con la nascita, un diritto sancito dalla Costituzione. La sua ossessione di fare degli immigrati il capro espiatorio di tutti i nodi della società non è, ovviamente, una novità. Lo abbiamo già sperimentato nella sua prima amministrazione. I miei libri tentano di illuminare non solo i contributi degli immigrati, ma anche di rendere visibili i soprusi che subiscono. Da bambina, la Proposition 187 mi fece molta paura. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, quali miei amici sarebbero stati banditi dalla scuola, o peggio. Purtroppo, quegli stessi timori oggi si sono riaffacciati.
«Una volta una persona molto saggia mi disse che in America ci sono due montagne russe: una per i ricchi e l’altra per i poveri». Lupe, la compagna di Mia nel romanzo “Le tre chiavi” è un simbolo della prevaricazione sociale ai danni degli immigrati… La sua vita rispecchia quella di molti altri come lei?
Credo che la citazione delle due montagne russe sia più che mai reale. Viviamo in tempi sempre più diseguali, con una disparità di risorse economiche che si aggrava sempre di più. Mia e Lupe ne patiscono gli effetti, come tutti noi. Come noi, lottano per potersi permettere casa e cibo. Tutto ciò, purtroppo, non potrà che peggiorare se continuiamo a rendere capri espiatori i membri deboli della società, invece di allearsi e risolvere il vero problema: solo l’1% della popolazione accumula tutta la ricchezza.
Crede che la lettura e la conoscenza culturale possano essere uno sprone per immaginare un mondo alternativo e meno divergente nei diritti?
Assolutamente sì. In epoche attraversate da paura, confusione e incertezza, i libri sono il nostro bene salvifico. Ci regalano soprattutto empatia. Ci permettono di immaginare un percorso migliore.
Può dirci qualcosa sul Kelly Yang Project da lei fondato: in cosa consiste?
Il Kelly Yang Project è un programma di educazione che ho creato a Hong Kong per insegnare ai bambini a scrivere e a discutere insieme. Ho vissuto a Hong Kong per quindici anni e con quel programma, di cui vado fiera, ho cercato di fornire a tutti gli strumenti per avere un impatto, pensando con la propria testa. Il progetto è ancora fiorente.
Cosa ha significato per lei crescere in California, un territorio di “frontiera”?
Penso che la California sia un posto speciale, con al suo interno una ricca storia di immigrati, compresi quelli cinesi che nell’800 arrivavano per costruire le ferrovie. Crescere in questo territorio, quindi, ha significato rendere onore a quella eredità e alle persone giunte prima di noi per realizzare il Golden State.
Da Erbacce
A Gaza ho disegnato sul muro di casa

“Ero sola”
All’inizio della tregua, il 19 gennaio 2025, sono ritornata a Gaza dal campo profughi di Khan Yunis, dove vivevo da maggio 2024 in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finiva disegnavo sulla tenda e ora sui muri della nostra casa.
*Video e disegni di Una tenda in Palestina qui