Da L’indice dei libri del mese – Tra le uscite recenti della collana “Fact Checking” di Laterza – collana che ha l’intento lodevole di confutare pseudofatti e false teorie del nostro tempo – c’è anche il libro di Laura Schettini L’ideologia gender è pericolosa che si pone l’obiettivo di criticare tale tesi: la cosiddetta ideologia gender, ci rassicura l’autrice, non è pericolosa, è solo “un fantasma”. Il gender è una categoria analitica che le studiose femministe hanno elaborato dagli anni ottanta, con validi risultati di ricerca. Il mito dell’ideologia gender invece, sostiene Schettini, sarebbe stato costruito in funzione antifemminista da forze reazionarie, fascistoidi e bigotte – il Vaticano innanzitutto, in sintonia con i movimenti nazionalisti di destra. Dal momento che, come Schettini e l’editore Laterza, credo anch’io nel valore dell’evidenza empirica, sottoporrò a fact-checking questo libro in cui manca, innanzitutto, il riconoscimento del fatto che, oltre alla nozione del gender come categoria di analisi storico-sociale – l’unica che Schettini considera, esaminandola in dettaglio nel cap. 2 – ne esiste oggi un’altra, assai diversa, centrata sul concetto di “identità di genere”. E quando si parla di ideologia gender ci si riferisce comunemente a questa seconda nozione, come viene intesa nelle legislazioni sul “gender self-id” (l’autodeterminazione di genere) e nella cosiddetta “gender affirmative medicine”. Il silenzio di Schettini è sconcertante, perché è proprio questo il concetto di gender che ha assunto un’importanza straordinaria nella politica, come anche nella medicina e nel diritto, del nostro tempo. Manca inoltre nel libro la ricognizione di un altro fatto cruciale: la critica all’ideologia gender non viene solo da destra ma anche da sinistra, da un nuovo femminismo che si chiama appunto “gender-critico”. Ci sono oggi due modi di intendere il gender, profondamente diversi ed anzi, a mio parere, incompatibili. Il gender come categoria di analisi mette a fuoco come il sesso biologico – di cui non si contesta la realtà – venga interpretato in modo variabile a seconda delle culture. In questa prospettiva, il gender è un fatto socioculturale, intersoggettivo. La cosiddetta “identità di genere”, invece, come formulata sin dai principi di Yogyakarta (2006) nel movimento transgender, è qualcosa di puramente e intrinsecamente soggettivo e avulso dal dato biologico. Ecco come la definisce per esempio la principale lobby trans britannica, Stonewall UK: «Il senso innato del proprio gender, maschile, femminile o altro, che può corrispondere o no al sesso attribuito alla nascita». Si noti l’aggettivo “innato”. E si noti “il sesso attribuito alla nascita”, che implica che la determinazione del sesso sia potenzialmente arbitraria. Il sesso, infatti, non è più visto come un fatto osservabile ma come un opinabile “costrutto sociale”.
Siamo di fronte a una definizione del gender che prescinde del tutto dalla realtà biologica dei corpi. È maschio o femmina o altro (secondo un repertorio illimitato di gender possibili) chi si identifica come tale. In netta contraddizione con l’originale nozione culturale del gender, l’identità di genere viene presentata qui come un tratto innato e quindi preesistente rispetto ai condizionamenti sociali. Nasciamo tutti – ci viene detto – con una predefinita identità di genere, che può essere allineata con il sesso biologico (in qual caso la persona è “cisgender”) oppure no (in qual caso la persona è transgender). Questo non allineamento viene visto, contraddittoriamente, in due modi: come una forma di malattia mentale (“disforia di genere”) ma anche come un tratto “normale” della variabilità umana. Su che evidenza empirica si basa tutto questo? Come distinguere fra persone cisgender e transgender? Poiché l’identità di genere è qualcosa di squisitamente soggettivo, pertinente all’interiorità della persona, non c’è altro modo di accertarla che attraverso quanto la persona ci dice. Anche un bambino, anche una persona che soffre di turbe psichiche, anche uno stupratore: se ci dicono che sono trans, lo sono, e dobbiamo credergli. L’arbitrarietà e inverificabilità di questa nozione di gender sono evidenti. Siamo passati dal gender come strumento di analisi storico-sociale a qualcosa che non saprei come altro chiamare che una metafisica del gender. Nel libro di Schettini manca consapevolezza di questo fondamentale slittamento di senso nel modo di pensare il gender. Il libro, di conseguenza, è tutto costruito su un equivoco. Nessuno ha paura del gender come strumento di analisi storica, ma vivissima preoccupazione desta invece la metafisica del gender. Il dissenso da questa metafisica viene tanto da destra che dal femminismo gender-critico, con motivazioni e argomentazioni profondamente diverse. Questo è l’altro fatto centrale che Schettini passa sotto silenzio: c’è nel libro solo un brevissimo cenno dove si ammette che al richiamo della “sirena antigender” (sic!) hanno risposto in questi anni anche alcuni settori del femminismo. Schettini non menziona nulla peraltro di quella che è ormai una ricca letteratura di studi femministi che hanno criticato “gender identity”, “gender self-id” e “gender-affirming medicine”: dal libro della filosofa Kathleen Stock, Material Girls. How Reality Matters for Feminism (2021) a quello della politologa Holly Lawford-Smith, Gender-Critical Feminism (2022), all’antologia Sex and Gender (2024) curata dalla sociologa Alice Sullivan e dalla storica Selina Todd (2023), per citarne solo alcuni (nessuno di questi libri compare nella bibliografia in appendice al libro di Schettini). Questi testi rendono chiaro che le obiezioni del femminismo gender-critico alla metafisica del gender non hanno niente a che fare con un progetto reazionario di restaurazione del “patriarcato”. Al contrario, denunciano le conseguenze regressive che la metafisica del gender ha per le donne. Se qualsiasi uomo, semplicemente col dichiarare un’identità femminile, diventa legalmente donna, le donne perdono il diritto agli spazi separati (negli sport, nelle carceri, nei rifugi antiviolenza, nei bagni pubblici, eccetera) che le salvaguardano, almeno in parte, dai rischi legati alla differenza di forza fisica fra i sessi. Non solo, la metafisica del gender impone a tutti una ridefinizione della realtà. Rifiutarsi di convalidare l’autodefinizione di una persona che si identifica come trans, attraverso, per esempio, il cosiddetto “misgendering” – l’uso dei pronomi corrispondenti al sesso, non all’identità di genere – è stigmatizzato come “transfobico”, un termine di ignominia nella “neolingua” del nostro tempo. In un processo per stupro in Inghilterra, alla vittima è stato richiesto dal giudice di usare pronomi femminili per l’aggressore, identificatosi come trans: di dire quindi “her penis”, “il pene di lei” – l’espressione più orwelliana, più crudelmente assurda del nostro newspeak. Sostenere che donna è un essere umano adulto di sesso femminile, o che le donne non hanno un pene, o che un uomo non può essere una lesbica, sono diventate opinioni denunciabili non solo come “transfobiche” ma come hate speech. La metafisica del gender non comporta solo un grave arretramento dei diritti delle donne ma minaccia quel che è prezioso per tutti: la libertà di parola.
Ma c’è di più e di peggio, ed è quello che, in nome della metafisica del gender, si sta facendo a bambini e adolescenti. Secondo Schettini, una delle immotivate e irrazionali paure associate al “fantasma” dell’ideologia gender è che spingerebbe a «deregolarizzare e promuovere in modo selvaggio le transizioni da un sesso all’altro». Ma questa non è affatto una paura irrazionale: è quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Proprio in questi giorni, sui media di tutto il mondo, si parla della Cass Review (https://cass.independent-review.uk/), l’indagine del servizio sanitario inglese sulla “gender-affirmative care” praticata sui bambini coi “bloccanti della pubertà” e sugli adolescenti con gli ormoni femminilizzanti o mascolinizzanti. Sulla base dell’esame sistematico della letteratura medica su questo tema, la Cass Review ha concluso che l’evidenza scientifica a sostegno di questi interventi è «estremamente debole». Molto era già stato anticipato da Hanna Barnes nel suo Time To Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children (2023) segnalando come bambini e adolescenti vengano sottoposti a interventi rischiosi (come i bloccanti della pubertà) o addirittura irreversibili (come gli ormoni “cross-sex”) senza una base evidenziaria attendibile. Lo studio riscontra inoltre come il modello “gender affirming” comporti una grave distorsione del processo diagnostico (“diagnostic overshadowing”). Nonostante la disforia di genere sia spesso associata, nei minori, a problemi mentali come autismo e turbe della personalità, questi vengono sistematicamente messi in ombra dal fattore gender. La disforia viene vista infatti come segno di un’innata e stabile identità trans, e si presume che i problemi mentali saranno risolti dalla “transizione”. Questo nonostante il fenomeno crescente dei “detransitioners”, che desistono dal trattamento ormonale proprio perché non risolve, e a volte peggiora, il loro disagio. Non si prende in considerazione l’ipotesi che la disforia possa essere dovuta a forme di condizionamento o contagio sociale. Non si prende in considerazione soprattutto il fatto che molti degli adolescenti disforici sono lesbiche e gay e che la loro disforia possa essere legata al persistente stigma dell’omosessualità – un fatto che lesbiche e gay del movimento gender-critico hanno denunciato da tempo. Quel che viene “affermato” nella “gender affirming care” non è scienza ma metafisica, con costi umani inaccettabili.
(*) Giovanna Pomata è professora emerita di storia della medicina presso la Johns Hopkins University
(L’indice dei libri del mese, 3 maggio 2024)
Da Autogestione e politica prima – Si è svolto, dal 18 al 20 ottobre 2023, nell’armoniosa quiete del Monastero di Sezano (Verona), il tanto atteso e desiderato Convegno delle Comunità di storia vivente. Da tempo era stato rinviato, anche a causa della pandemia, e finalmente le appartenenti delle varie comunità si sono riunite in presenza, provenendo da varie città: Milano, Savona, Foggia, Catanzaro, Sciacca, Mestre, Verona, Genova, Pinerolo, Barcellona.
Accomunate dall’impegno di mettere in pratica un modo innovativo di narrare la storia, le partecipanti al convegno, fiduciose nella fecondità del sentire profondo, avevano idee, scoperte, proposte e nuove riflessioni da scambiare in contesto, insieme a dubbi, ostacoli e difficoltà.
Il convegno era stato preceduto da alcuni incontri on line, preparati da Luciana Tavernini e Marina Santini, le quali, assieme alle altre componenti della loro comunità di Savona-Milano, avevano elaborato alcune domande, tra cui: quando un testo può essere considerato di storia vivente? Come distinguerlo da un racconto autobiografico? Come procedere in questa pratica?
Dopo tre anni di relazioni a distanza, si avvertiva il desiderio di un incontro in presenza, per discutere, potersi riabbracciare e comunicare emozioni.
Diventava, a questo proposito, importante trovare un luogo adatto, accogliente e confortevole, per parlare con agio, dare spazio alle istanze di ogni comunità, favorire nuovi incontri e godere anche di un piacevole soggiorno.
Quando è stata fatta la proposta di cercare uno spazio, si è accesa in me una lampada: ho visto il Monastero di Sezano come luogo ideale, per la bellezza della sua architettura, per l’accoglienza riservata alle e agli ospiti, per il clima di pace e serenità che vi si respira e l’ho proposto, assumendomi la responsabilità dell’organizzazione. Così per prima cosa ho contattato Paola Libanti, responsabile amministrativa dell’Associazione “Monastero del bene comune”, per verificare la disponibilità ad ospitare le partecipanti. Con lei ho chiarito fin dall’inizio che non tutte erano credenti. Paola, con molta dolcezza, mi ha risposto che non c’era alcun problema perché il Monastero è uno spazio aperto a tutte e tutti, credenti e non credenti, oltre alle diverse culture e appartenenze religiose.
L’organizzazione richiedeva un certo impegno, ma da subito Luciana Tavernini e Marina Santini mi rassicurarono con la loro presenza affettuosa e attenta, come del resto erano state fin dall’inizio con tutte noi della nuova comunità “Storia vivente in faccia al Monviso”, da quando muovevamo i primi passi a Pinerolo, presso l’antico Monastero della Visitazione, avendo di fronte a noi a ispirarci e sostenerci la spettacolare mole innevata del Monviso.
Da quando mi sono avventurata in questa nuova esperienza mi sono liberata da un peso, un macigno che portavo dentro di me da decenni: ho ripercorso la mia storia, risignificato le relazioni che ho intrecciato nel corso degli anni, riappacificandomi con mia madre e con me stessa. Ho guadagnato una grande serenità interiore e con essa la capacità di comprendere che i nodi si erano formati a causa del mio desiderio di libertà che mi faceva scontrare con chi mi voleva docile e sottomessa. Grazie alta pratica della storia vivente, sono entrata in un percorso vitale e trasformativo e ora provo una gratitudine profonda per le donne che mi hanno aiutata a portare alla luce i nodi irrisolti della mia vita, restituendomi il piacere della scrittura.
Hanno partecipato all’incontro di Sezano la comunità SaMi (Savona-Milano), promotrice del convegno in accordo con Marirì Martinengo, iniziatrice e inventrice della storia vivente, e con Laura Minguzzi; la storica María Milagros Rivera Garretas, già docente all’Università di Barcellona, autrice di testi, saggi e articoli significativi sulla storia vivente; la comunità “In faccia al Monviso”, la comunità di Foggia, la piccola comunità di Venezia-Mestre. In tutto 19 donne, delle 22 facenti parte della rete attuale di comunità e singole. Assenti, oltre a Marirì Martinengo, due amiche della comunità di Foggia.
Eravamo lì per desiderio, emozionate di incontrarci, decise a dire l’essenziale delle nostre storie “incandescenti”, a ragionare sui nodi irrisolti che fanno ingombro nelle relazioni.
Dopo aver verificato nei mesi precedenti l’interesse da parte di tutte di rivedersi, di individuare insieme i temi di approfondimento e di sapere che cosa ogni realtà stava facendo, si è deciso di presentare oralmente in contesto i racconti scritti da alcune e discuterne insieme; di ascoltare le pratiche messe in atto dalle comunità, con i guadagni e le ricadute positive sia a livello personale sia politico e le difficoltà incontrate. Infine, di valutare la possibilità di trasmettere la storia vivente, relazionandoci con le ricercatrici universitarie, le storiche di professione o le docenti di storia delle scuole superiori per far capire loro la necessità di lavorare sulla soggettività per una nuova scrittura della storia.
Il lavoro in contesto si è articolato nel modo seguente: per due mattine e un pomeriggio tre partecipanti hanno coordinato a turno i lavori e nove hanno proposto all’attenzione comune il proprio racconto. L’ultima mattina è stata dedicata ai progetti e alle proposte o a ulteriori riflessioni. L’ascolto del testo di un’altra è gesto di relazione: ognuna ha messo nelle mani delle presenti il suo racconto, fiduciosa nella cura del loro giudizio, consapevole che di quel giudizio ha necessità come un nutrimento che l’aiuta a fare passi avanti nel percorso di conoscenza di sé e della storia entro cui si è articolata e si sta articolando la sua vita.
Diventare “autrici” della propria storia, “storiche” appunto, richiede dei cambiamenti, vuol dire mettersi in discussione, uscire dalle gabbie patriarcali, scoprire i nostri intoppi, riconoscere e sbrogliare i conflitti del vissuto personale e far emergere la propria soggettività, trovare insieme alle altre «il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata», «ritornare alle origini, all’antica relazione con la madre, alle grandi pretese dell’infanzia per trovare il filo della propria vita unica e irripetibile».
La storia vivente ti fa capire che la tua storia è importante perché solo da qui puoi conoscere e guardare il presente; ti porta indietro, in un percorso a spirale fino a recuperare i «frammenti luminosi e oscuri» del sentire originario.
I racconti di storia vivente sono testi “in movimento”, in continua formazione, che non cancellano le emozioni, richiedono un lavorio su vari livelli, una scrittura di scavo interiore che parte dalle “viscere” (termine utilizzato dalla filosofa spagnola María Zambrano).
I nodi irrisolti ritornano, si ripresentano in forme sempre diverse nella vita ed è difficile, quasi impossibile rimuoverli, tenerli nascosti perché, prima o poi, riemergono e a volte esplodono in modo selvaggio. L’indagine sui nodi irrisolti esige la verità di un confronto vero e sincero, un lavorio teso a comprenderne il significato profondo, altrimenti restano chiusi in un «passato che non passa». Parlarne con altre è il primo passo per sciogliere quei nodi e andare oltre, in un percorso autentico di libertà.
Dai vari racconti sono emersi degli elementi comuni come il legame fortissimo e spesso conflittuale con la madre con cui ciascuna prima o poi deve fare i conti, ma anche il rapporto difficile con il padre e il maschile in generale, quando il proprio desiderio di libertà si manifesta e inizia a prendere forma. Sono emersi anche il nodo della sessualità e della maternità non libera, di cui si parla poco.
A Sezano abbiamo praticato «l’autorità in contesto», ognuna ha fatto in modo che ci fosse uno scambio vivo di autorità circolante, ha riconosciuto a sé e all’altra autorità sulla propria storia. Non c’è stata sempre sintonia e alcune critiche sono state aspre e taglienti. A volte sono mancate quella pazienza e capacità d’ascolto necessarie per venirsi incontro da grandi distanze. Era comunque chiaro a tutte il valore delle critiche per andare avanti nella ricerca comune.
Milagros Rivera Garretas ha posto la domanda sul possibile rapporto fra l’ispirazione e la storia vivente e ha indicato l’importanza di non parlare solo del dolore, ma anche delle esperienze di felicità che ci hanno segnato, raccontandole in maniera ispirata, lasciando spazio al mistero, alla possibilità di aprirci all’infinito. Le nostre storie, iniziate nella seconda metà del ’900, cominciano nel patriarcato, ma portano con sé la fine di quel regime. I nodi che ci portiamo dentro sono il modo in cui il patriarcato ci voleva imbrigliare, imprigionare. Se riusciamo a scioglierli, si entra in un tempo in cui c’è spazio per il piacere femminile e l’ascolto dei propri desideri. Per questo, ha sottolineato Laura Minguzzi, è necessario iscrivere nella storia il cambiamento simbolico portato dall’invenzione della storia vivente, collocandola tra gli «eventi memorabili» che hanno trasformato la storia perché ha messo in luce la fecondità del sentire profondo e creato un altro tempo.
A Sezano c’è stata un’apertura, un nuovo respiro nelle relazioni. L’incontro preziosissimo di Sezano – scriveva a tutte Marina Santini un mese dopo il convegno – è stato l’occasione per alcune di incontrarsi per la prima volta, per altre di ritrovarsi e sentirsi ancora più vicine, favorite anche dalla tranquillità del luogo. Sono circolate emozioni forti e parole di verità. A distanza di tempo, ognuna sta verificando la ricchezza che quel momento le ha donato e che continua a circolare nelle relazioni.
Anna Turri Vitaliani, interessata ai temi del ‘sacro’ e del divino femminile, fa parte dei gruppi donne delle Comunità di base con cui fa ricerca e della Comunità di storia vivente “In faccia al Monviso” di Pinerolo. Con Doranna Lupi e Sandra De Perini si è confrontata per la stesura di questo report.
(Autogestione e politica prima, n° 2/3, aprile-settembre 2024 – anno XXXII)
Da Internazionale – C’era una canzone che cantava mia nonna quando ero bambina, raccontava la storia di una certa Teresina. Era una parabola sull’onore, ma all’epoca non lo sapevo. Per me era solo una storia d’amore che finiva male. Una delle mie preferite. Mia nonna non ricordava dove aveva imparato quel racconto. E aggiungeva o toglieva delle parti ogni volta che lo cantava, in quella sua lingua misteriosa ed espressiva. Un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Ma la storia era davvero successa, assicurava lei. Non si trattava di un racconto inventato.
Qualche volta diceva che gliel’aveva raccontata un cantastorie, di quelli che un tempo giravano per le piazze dei paesi, un’altra volta che l’aveva letta sul giornale e che era la storia vera di una ragazza di cui si era tanto parlato dalle sue parti anni prima.
Teresina era «felice e bella», diceva la canzone. Era una contadina di sedici anni e s’innamorava di un uomo più grande di lei, Giulio, che le giurava un amore eterno. Ma poi le cose si mettevano male: la sorella di Teresina, Margherita, si innamorava dello stesso uomo, e Teresina rimaneva incinta. A sedici anni e fuori dal matrimonio. «Come una serpe fa a uccellino», la sorella di Teresina attirava a sé Giulio, convincendolo che Teresina lo tradiva e che il figlio che portava in grembo non era il suo.
Così Teresina era abbandonata da Giulio, che decideva di sposare Margherita. Ma poi, nella storia, c’era un secondo tempo inaspettato, un finale che forse era il frutto dell’immaginazione di mia nonna. Il giorno del matrimonio, Teresina si presentava all’altare e uccideva sia Margherita sia Giulio. E poi si consegnava alla polizia per farsi arrestare. «Chi al mondo fa del male, sempre del male avrà», concludeva mia nonna. Ed era una specie di maledizione, un monito, il tentativo di ribaltare l’ingiustizia.
“Fare l’amore”, diceva mia nonna per dire che una ragazza frequentava un ragazzo. Lo diceva senza nessun imbarazzo. Quando diceva “fare l’amore” non intendeva niente che avesse a che fare con il sesso o l’intimità, anzi la sua intenzione era spiegare – senza mai dire niente in maniera esplicita – che “fare l’amore” per una donna implicava una specie di lotta con l’amato e con se stessa per evitare qualsiasi contatto fisico.
Il sesso fuori dal matrimonio, una gravidanza fuori dal matrimonio erano la cosa peggiore che potesse capitare a una ragazza, perché rischiava di essere abbandonata da tutti e rinnegata perfino dalla sua famiglia, una macchia indelebile che l’avrebbe segnata per tutta la vita.
Saltavo sulle ginocchia di mia nonna senza nessuna grazia certi sabato pomeriggio, mentre aveva appena finito di vedere una soap opera in televisione o di leggere un libro. Faceva le due cose con continuità, guardava Sentieri su Rete4 e leggeva molti libri Harmony. Erano gli anni ottanta.
Lei era nata nel 1909, come John Fante e Rita Levi Montalcini, ma non aveva studiato perché aveva cominciato a lavorare a quindici anni. Tra noi due c’erano settant’anni di differenza. Si era sposata tardi, raccontava. E per tardi intendeva ventisette anni. Aveva avuto quattro figli, di cui due erano morti prima dei due anni.
Aveva sempre lavorato. Non l’ho sentita fare mai discorsi su cosa dovesse fare o non fare una donna, ma la questione dell’onore era un’ossessione. Ho capito anni dopo che era una paura che le avevano inculcato fin da bambina. Era terrorizzata che una ragazza facesse sesso prima del matrimonio come dalla possibilità di essere morsa da una vipera d’estate durante una scampagnata. Sapeva nel profondo del suo cuore che avere un figlio fuori dal matrimonio per una donna della sua generazione poteva arrivare a costarle la vita.
All’origine del dominio maschile
Il delitto d’onore è rimasto in vigore in Italia fino al 1981. Un uomo – un padre, un fratello, un marito – che uccideva una donna che aveva macchiato il suo onore, e cioè che aveva fatto sesso fuori dal matrimonio, poteva avere l’attenuante del delitto d’onore. La pena per l’omicidio poteva essere ridotta, considerando che stava difendendo il suo onore e quello della sua famiglia, presupponendo quindi che gli uomini della famiglia avevano una specie di diritto di controllo e proprietà rispetto alle donne e alla loro sessualità.
Fino al 1930 in Italia era riconosciuta un’attenuante anche per l’omicidio dei figli nati fuori dal matrimonio, chiamati “prole illegittima”. In alcuni paesi del mondo i delitti d’onore sono ancora tollerati: in Pakistan nel 2022 384 donne sono state uccise dai loro familiari per questioni legate all’onore, è il paese con più femminicidi al mondo. Ma il fenomeno non ha nazionalità, è globale.
Secondo lo psichiatra francese Philippe Brenot, all’origine del dominio maschile sulle donne e della violenza, che ne è la conseguenza, c’è l’incertezza della paternità. La violenza maschile sulle donne è una caratteristica esclusiva della specie umana ed è indissolubilmente legata all’invenzione del matrimonio e al controllo della sessualità femminile (anche fuori dal matrimonio) come garanzia del riconoscimento dei figli per gli uomini.
Fino agli anni ottanta erano attivi in tutta Italia diversi istituti, spesso gestiti da religiosi, in cui le donne che avevano concepito un figlio fuori dal matrimonio erano mandate dalle loro famiglie per nascondere la gravidanza: in questi istituti partorivano e poi erano costrette ad abbandonare i figli, dati in adozione. Questi luoghi hanno funzionato fino ai primi anni ottanta. La legge 194, che ha legalizzato l’interruzione di gravidanza nel paese, è entrata in vigore nel 1978.
Nel recente Il prezzo degli innocenti (Longanesi 2023) la giornalista italoamericana Maria Laurino ha raccontato che tra gli anni sessanta e ottanta circa quattromila bambini italiani sono stati sottratti alle loro madri in queste circostanze. E sono poi stati adottati da famiglie benestanti negli Stati Uniti, che in cambio versavano agli istituti alte somme di denaro. In molti casi le donne erano minorenni, venivano da contesti di povertà.
Quante siano state le donne che si sottraevano a questo destino e che portavano avanti la gravidanza nonostante tutto è complicato ricostruirlo. Spesso si mentiva sui figli nati fuori dal matrimonio. Un espediente era quello di fare credere che fossero figli avuti dai genitori delle neomamme, e in questo modo erano registrati all’anagrafe.
Nel 1983 in Italia le madri nubili erano circa 75mila. Era l’unico caso in cui la legge permetteva alle donne di dare al bambino il proprio cognome. Nel 2015-2016 le madri single erano 859mila, più della metà delle quali divorziate o separate. Il 34,6 per cento erano madri nubili, cioè donne sole che avevano avuto figli fuori del matrimonio.
Secondo l’Istat ancora oggi le madri single sono più esposte di quelle in coppia al rischio povertà, e in generale devono lavorare di più e stare di più fuori di casa per sostenere economicamente la famiglia, vista anche la disparità salariale tra uomini e donne nel paese. Il 42 per cento delle madri single è a rischio povertà o esclusione sociale.
L’uguaglianza tra genitori
Fino al 2016 le donne non potevano dare il loro cognome ai figli, se non nel caso di madri nubili, anche per questo nel 2014 l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu), che aveva accusato Roma di avere delle leggi discriminatorie verso le donne.
Grazie a due sentenze della Corte costituzionale – una del 2016 e una del 2022 – è ormai possibile dare ai figli il cognome di entrambi i genitori e anche solo quello della madre, ma solo se c’è un accordo tra la madre e il padre. «Nel cognome dei figli l’eguaglianza tra i genitori», è scritto nella sentenza della Corte costituzionale del 2022. La corte è arrivata prima del parlamento. L’Italia ancora aspetta una legge che regoli la questione del cognome materno e tutte le contese rimaste in sospeso dopo la sentenza della consulta. Una proposta di legge è in senato da gennaio del 2024, anche se i testi che in passato hanno provato a occuparsi della materia sono sempre stati affossati.
Sono nata nel 1980, un anno prima che fosse abolito il delitto d’onore, due anni dopo la legalizzazione dell’aborto. Porto il cognome di mia madre.
Sono nata una domenica mattina con il parto cesareo, rompendo le acque e i piani di mia madre, che aveva previsto di farmi nascere due giorni dopo. E quando nel nido della clinica hanno dato in braccio a mia nonna quel fagottino paffuto appena arrivato al mondo, lei è scoppiata a piangere. Ero nata fuori dal matrimonio e mio padre non solo non voleva sposarsi, ma non voleva nemmeno che nascessi.
Mia madre aveva trentott’anni, lavorava. Era rimasta incinta e aveva deciso di portare avanti la gravidanza anche se mio padre non era d’accordo. Quando mia madre glielo aveva detto, lui le aveva strappato la borsa dalle mani e l’aveva rovesciata. Aveva paura che lei volesse ucciderlo e che nascondesse da qualche parte un’arma, perché non era concepibile per lui che una donna da sola decidesse di fare un figlio, senza il sostegno del compagno.
Quando invece lo aveva detto ai suoi genitori, mio nonno era andato a prendere il fucile da caccia che custodiva in garage, risoluto ad andare da mio padre e regolare i conti dell’onore. Mia madre allora aveva detto che se avesse provato a varcare la soglia di casa con quell’arma non l’avrebbe mai più vista.
C’erano stati la rivoluzione sessuale e il femminismo, mia madre era una donna con una personalità forte, anche se non era stata una femminista. Era autonoma dal punto di vista economico e aveva una sorella, che l’avrebbe sostenuta in tutto. Così mio nonno fu costretto a riporre il fucile e a dimenticarsi l’onore.
Quando mi diedero in braccio a mia nonna, ore dopo la mia nascita, lei pianse disperata. Un uomo, uno sconosciuto, le si avvicinò e senza chiedere quale fosse il motivo della disperazione, le disse che la bambina era davvero molto bella, che le assomigliava, aveva il suo taglio degli occhi e la bocca a cuore. Non sapeva che avrei portato anche il suo nome e che le sarei saltata sulle ginocchia tutti i sabati pomeriggio, per farmi raccontare quelle storie che avevano sempre delle protagoniste femminili. Quei racconti avvincenti a cui ogni volta lei toglieva e aggiungeva dei pezzi, spesso cambiando il finale.
Questo articolo è parte di una campagnaa cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza maschile contro le donne e nominarla.
(Internazionale.it, 29 gennaio 2024)
Da il manifesto – «Tornate a casa, andate via, state aiutando Hamas, i terroristi di Gaza». L’uomo, in apparenza sui quarant’anni, urla, fa un giro con la sua auto intorno alla rotonda davanti a Tarqumiya, grida altre frasi piene di rabbia e se ne va. Altri due attivisti di destra si tengono a distanza, osservano senza intervenire. «Non va sempre così, senza grossi problemi», ci spiega Nir, trentacinque anni, di Tel Aviv e membro del gruppo ebraico-arabo Standing Together, «(quelli di destra) quando vogliono creare problemi arrivano a decine e si mostrano aggressivi, non solo con i camionisti. Noi facciamo di tutto per evitare tensioni, il nostro unico fine è favorire con la nostra presenza il passaggio dei camion carichi di aiuti diretti a Gaza».
L’offensiva israeliana ha molti campi di battaglia, non tutti nella Striscia. Rafah, Jabaliya, Nuseirat sono i nomi delle città palestinesi più martoriate in questi giorni. Ma ci sono scontri diversi che si combattono in altri luoghi. A Tarqumiya e altri incroci stradali, ad esempio, dove gli attivisti della destra fanno il possibile per bloccare i convogli umanitari che partiti dalla Giordania percorrono la Cisgiordania, escono dal transito di Tarqumiya e dopo, alcune decine di chilometri in Israele, giungono al valico settentrionale di Gaza o a quello meridionale di Kerem Shalom, al confine con l’Egitto. Nelle ultime settimane i social media sono stati inondati di immagini di autocarri bloccati e saccheggiati da militanti della destra e coloni israeliani insediati nella Cisgiordania occupata. Non sono mancate aggressioni fisiche ad autisti palestinesi e due autocarri sono stati dati alle fiamme. Si sono visti anche bambini, molto piccoli, che calpestano scatole di aiuti per Gaza. «È importante fermare gli aiuti… È l’unico modo per vincere. L’unico modo per recuperare i nostri ostaggi», ripete un militante della destra estrema in un video.
Standing Together è lo schieramento opposto in questa battaglia che vede due trincee israeliane. «La ragioni della destra sono assurde e disumane» ci dice Shimon, anche lui di Tel Aviv, da dove provengono gran parte dei membri ebrei di Standing Together. «Estremisti e coloni – aggiunge – sostengono che gli abitanti di Gaza non dovrebbero ricevere nulla. Tutto ciò è inaccettabile, si tratta di una grave punizione contro civili che sopravvivono appena, che non hanno più nulla, che vivono in tende e soffrono la fame. Dobbiamo aiutarli, mandando cibo e chiedendo la fine della guerra».
Shimon ammette di rappresentare una minoranza esigua di israeliani, che può incidere ben poco. «Purtroppo l’opinione pubblica in maggioranza vuole ancora la guerra, per vendicare i morti israeliani del 7 ottobre e colpire Hamas», spiega sistemandosi il cappello sulla testa. Fa molto caldo e il sole brucia per chi deve passare ore in attesa. «Ci ricompensa il saluto e il grazie sincero dei camionisti che escono dalla Cisgiordania. Capiscono che la nostra presenza può dissuadere quelli che progettano di aggredirli», dice Claire che solo di recente ha scelto di mobilitarsi a difesa di Gaza. «Non è facile, occorre affrontare tanta ostilità, ma non potevo restare a guardare di fronte alle sofferenze della popolazione di Gaza». Per Abed, un palestinese della Galilea, venire al presidio di Tarqumiya rappresenta l’opportunità per sentirsi utile, dopo quasi otto mesi di dolore e frustrazione passati a seguire le stragi di Gaza. «So che sto facendo qualcosa di concreto per aiutare altri palestinesi», afferma.
Ci sono tre camionette della polizia. Gli agenti seguono con attenzione i movimenti degli attivisti di Standing Together. Nei giorni scorsi i poliziotti sono stati accusati di restare a guardare. Coloni ed estremisti, sospettano in molti, ricevono informazioni proprio da polizia ed esercito sul passaggio dei camion umanitari. E non solo dalle forze di sicurezza. Una rete di gruppi WhatsApp gestiti da esponenti dell’estrema destra nota come Lo Nishkach (in ebraico «non dimenticheremo») riesce a mobilitare centinaia di membri del movimento nelle attività di blocco della consegna degli aiuti umanitari. I militanti vengono convocati agli svincoli stradali. Lì fermano i camion e se gli autisti non dimostrano che il loro carico non è destinato a Gaza, gli attivisti passano alle vie di fatto. Opera anche un altro gruppo, Tsav 9, ma dopo l’incendio dei due autocarri ha rallentato la mobilitazione in strada pur mantenendo una linea radicale. «La nostra attività è pratica, e se questo significa scaricare il carico e bruciarlo per evitare che arrivi al nemico, lo faremo», ha dichiarato qualche giorno fa al giornale Haaretz Yosef de Bresser, uno dei fondatori di Tsav 9. Dall’inizio della guerra De Bresser è stato arrestato dieci volte. Oltre a bloccare i camion, è stato anche coinvolto nel tentativo di entrare a Gaza per stabilirvi degli avamposti di coloni.
Nadav, ventisette anni, un riservista dell’esercito israeliano, è al presidio di Standing Together. Ha partecipato all’offensiva israeliana, da fine ottobre a fine dicembre, nel nord della Striscia. Indossa una maglietta della nazionale inglese di calcio e sfoggia baffi che non hanno nulla da invidiare a quelli di D’Artagnan. «Il servizio militare è obbligatorio in Israele e ho partecipato all’offensiva in una unità di fanteria, ma non sono a favore della guerra, anzi» ci racconta Nadav «sono sempre stato contro l’occupazione e favorevole al diritto dei palestinesi di essere liberi e di avere un loro Stato. Quanto ho visto a Gaza – morte, distruzione di interi centri abitati, disperazione – ha accresciuto queste mie idee. Per riportare gli ostaggi a casa sono necessari una trattativa e la fine della guerra». A Gaza l’esercito israeliano ha commesso crimini guerra, gli domandiamo. «Non mi intendo di leggi internazionali. Quello che so è che a Gaza sono stati commessi gravi errori». A pagare questi «errori», aggiungiamo noi, sono state persone innocenti.
(il manifesto, 31 maggio 2024, pubblicato con il titolo: Stop al cibo per Gaza, l’altra guerra dell’estrema destra)
Da Internazionale – Entro i prossimi vent’anni una nuova generazione di contraccettivi potrebbe arrivare sul mercato. Il primo, una pillola che impedisce ad alcune cellule di accedere alla vitamina A, potrebbe essere in grado di limitare la fertilità senza inondare il corpo di ormoni. Un altro è un’iniezione che blocca temporaneamente l’apparato riproduttore. Il metodo più avanti nei test è un gel topico che dovrebbe causare un’infertilità temporanea se spalmato quotidianamente sulle spalle e sulla parte superiore delle braccia, senza influire sull’umore o sulla libido. «Nel complesso, non abbiamo riscontrato nessun evento avverso grave», dice la ricercatrice Christina Wang, che ha lavorato al gel.
Questa nuova generazione di trattamenti sarà importante non solo per i suoi innovativi metodi di somministrazione, ma per il suo target: gli uomini. Per decenni gli uomini determinati a gestire la propria fertilità hanno avuto solo due opzioni imperfette, il preservativo o la vasectomia. Ma negli ultimi anni sono stati fatti enormi passi avanti nello sviluppo di opzioni semplici, comode ed efficaci, e con effetti collaterali praticamente nulli. Presto le donne potrebbero non essere più costrette a sostenere quasi per intero il peso di evitare una gravidanza.
Una migliore contraccezione maschile non sarebbe possibile senza i tanti percorsi scientifici aperti da quella femminile. Ora il controllo delle nascite da parte delle donne, che può avere ancora molti effetti collaterali fastidiosi e a volte rischiosi, potrebbe meritarsi un po’ di sostegno. È vero, la logistica per impedire a un ovulo di uscire dall’ovaia non si sovrappone completamente ai meccanismi per tenere lo sperma lontano dal tratto riproduttivo femminile. Ma tra le due cose «ci sono molte somiglianze», dice Diana Blithe, che dirige il programma di sviluppo di anticoncezionali dei National institutes of health (Nih) statunitensi. Questo significa che uno può facilmente influire sull’altro.
Grazie ai progressi nel campo della contraccezione maschile, i ricercatori potrebbero presto offrire nuove forme di controllo delle nascite che non siano solo più tollerabili, ma anche più personalizzate e meno invasive, e che potrebbero essere usate sia dagli uomini sia dalle donne.
Nei più di sessant’anni passati dall’introduzione della pillola anticoncezionale, l’elenco delle scelte per le donne si è allungato in modo impressionante. Possono optare per metodi di barriera o scegliere tra pillole, cerotti e impianti sottocutanei. Possono fare un’iniezione più volte all’anno o usare un dispositivo intrauterino che può durare fino a dieci anni. «È quasi come essere nel reparto cereali di un supermercato», dice Amy Alspaugh, infermiera e ricercatrice all’università del Tennessee a Knoxville.
Molti strumenti sono stati migliorati: le spirali e gli impianti ora durano di più e sono più facili da inserire e rimuovere. Il dosaggio degli ormoni è drasticamente diminuito. «In passato davamo alle donne dosi da cavallo di estrogeni e progestinici», dice Alspaugh. «Ora facciamo in modo che dosi più basse siano comunque efficaci», riducendo al minimo gli effetti collaterali. Alcuni ricercatori hanno esplorato nuovi metodi come microaghi o microchip che consentirebbero alle donne di regolare a distanza la loro fertilità, un’idea che ha sollevato molte preoccupazioni sulla privacy. Il Population council, una ong con sede a New York, sta studiando un anello vaginale multiuso che oltre a prevenire la gravidanza può rilasciare un antivirale per proteggere chi lo usa dall’Hiv, spiega l’endocrinologa Régine Sitruk.
Nel complesso, però, i cambiamenti nella contraccezione femminile sono stati solo incrementali: nuovi ingredienti più che ricette diverse. «Ormai usiamo gli stessi metodi da quasi trent’anni», dice Heather Vahdat, direttrice esecutiva della Male contraceptive initiative. E molte donne sono insoddisfatte a causa degli inconvenienti e dei rischi. Alcune riferiscono di aumento di peso, acne e sbalzi d’umore o temono il possibile rischio ictus legato alle pillole ormonali. Altre lamentano della scomodità dei dispositivi intrauterini. In contesti diversi inserire manualmente un dispositivo nel basso addome senza anestesia probabilmente non sarebbe tollerato, eppure nel caso degli anticoncezionali femminili «lo abbiamo fatto diventare accettabile», dice il ginecologo Brian Nguyen. I dispositivi non ormonali come preservativi, diaframmi e spermicidi sono facilmente reperibili, ma di solito meno efficaci, e possono comunque avere effetti collaterali.
Una maggiore varietà di contraccettivi da usare solo quando si hanno rapporti risparmierebbe alle donne la fatica di dover sopportare inconvenienti per mesi o anni, dice Vahdat.
Da tempo alcuni ricercatori sostengono che nella contraccezione femminile gravi effetti collaterali sono considerati sopportabili. Le donne, dopotutto, devono confrontare questi costi con quelli di una gravidanza, una condizione che può anche avere complicazioni letali. Gli uomini, invece, usano i contraccettivi per evitare la gravidanza di un’altra persona.
Ho chiesto a Vahdat se il tipo di effetti collaterali degli anticoncezionali femminili attualmente disponibili supererebbe l’esame in quelli maschili in fase di sperimentazione. «Sulla base dei precedenti», mi ha detto, «penso di no». Molti esperti concordano. Nel 2011 uno studio internazionale su un contraccettivo ormonale iniettabile per uomini è stato interrotto quando un comitato indipendente ha stabilito che gli effetti collaterali «superavano i potenziali benefici». Gli eventi avversi includevano sbalzi d’umore e depressione, entrambi comuni nelle donne che usano anticoncezionali. Eppure la maggior parte dei partecipanti ha affermato di voler continuare a usare il farmaco. Negli ultimi anni Nguyen ha sentito molti uomini citare le esperienze negative delle loro partner come il motivo che li ha convinti a partecipare alle sperimentazioni. «Vedono il rischio per la propria compagna come un rischio per loro».
I severi standard sugli anticoncezionali maschili potrebbero innalzare l’asticella anche per quelli femminili. Progressi simili sono già in arrivo. I ricercatori stanno cercando di formulare un contraccettivo topico per gli uomini con una dose di testosterone naturale unito alla progestina, che blocca la produzione di sperma. L’idea è replicare quello che succede naturalmente nel corpo degli uomini per ridurre al minimo gli effetti collaterali. Molti contraccettivi ormonali femminili, invece, si basano su un composto sintetico chiamato etinilestradiolo, che imita in modo incompleto gli estrogeni prodotti dal corpo delle donne e sembra aumentare la possibilità di coaguli di sangue. Il Population council sta lavorando a un altro tipo di anello vaginale che sostituisca l’etinilestradiolo con ormoni più compatibili con la biologia femminile.
Più flessibilità
Altri dispositivi potrebbero essere più complicati da realizzare. Per esempio, i ricercatori sperano di poter offrire agli uomini una vasectomia più facilmente reversibile, in cui un idrogel solubile o rimovibile viene inserito nel dotto deferente. Invece chiudere temporaneamente le tube di Falloppio è molto più difficile. Inoltre, mentre lo sperma è prodotto costantemente, gli ovuli vengono rilasciati in base a un ciclo che può essere difficile da prevedere, il che può complicare anche il controllo degli effetti collaterali, spiega Nguyen. Gli interventi mirati sono più facili da eseguire sui testicoli che sulle ovaie, e il loro successo è più facile da verificare: gli uomini possono controllare il numero di spermatozoi con un test simile a quelli per il covid, mentre per le donne non esiste nulla di simile, dice Wang. E poiché la produzione dello sperma richiede mesi, i contraccettivi ormonali maschili potrebbero non creare problemi se si salta un giorno di trattamento, a differenza delle pillole per le donne che tendono a essere meno flessibili, dice il ricercatore Mitchell Creinin.
La difficoltà di controllare gli ovuli, tuttavia, non è un problema insormontabile. Il concepimento non può avvenire se l’ovulo e gli spermatozoi non si incontrano, quindi quasi tutti i farmaci progettati per ostacolarne la funzionalità o la motilità potrebbero fare la loro parte nel tratto riproduttivo femminile. Il Population council sta lavorando a un prodotto che modifica l’acidità della vagina per impedire allo sperma di muoversi al suo interno, dice Sitruk-Ware. E Deborah Anderson, un’immunologa dell’università di Boston, sta studiando una pellicola solubile imbevuta di anticorpi che bloccano gli spermatozoi, da inserire nella vagina prima del rapporto sessuale e in grado di garantire la contraccezione per uno o due giorni, dice. Un paio di farmaci in fase di sperimentazione per gli uomini potrebbero un giorno essere commercializzati in una qualche forma anche per le donne: tra questi ce n’è uno che blocca la motilità degli spermatozoi e che potrebbe, anche questo, essere usato nel tratto riproduttivo femminile.
Ora che tanta attenzione è rivolta alle preferenze contraccettive degli uomini, alcuni ricercatori temono che i bisogni delle donne siano messi da parte. Jeffrey Jensen, che si occupa di contraccezione all’Oregon Health & Science University, dice che mentre i finanziamenti per i metodi maschili continuano ad avere il via libera, negli ultimi anni il suo team ha dovuto sospendere alcuni progetti sulla contraccezione femminile per mancanza di fondi. «Le autorità pensano che questo filone di ricerca sia esaurito», commenta.
Sitruk-Ware racconta che lo sviluppo di un gel contraccettivo topico per le donne è stato interrotto perché i finanziatori erano più interessati al gel per gli uomini.
Tuttavia è improbabile che la contraccezione maschile smorzi l’interesse delle donne per i dispositivi pensati per loro, dice Allison Merz, una ginecologa dell’Università della California a San Francisco. Semmai, quando questi prodotti ultrasicuri e ultraefficaci arriveranno sul mercato, scateneranno ulteriori discussioni sulla contraccezione femminile e faranno sorgere più interrogativi sul perché la comodità e la tollerabilità non siano state una priorità per le opzioni femminili fin dall’inizio.
Da il manifesto – Recentemente la nuova direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (ora di Renata Cristina Mazzantini, subentrata a Cristiana Collu dopo otto anni di mandato) «ha comunicato la volontà di interrompere il comodato del “Fondo Carla Lonzi”, senza chiedere al figlio il passaggio alla donazione del Fondo». È quanto si apprende dalla interrogazione della deputata Luana Zanella (Avs) presentata al ministro della cultura Gennaro Sangiuliano invitandolo a promuovere «il riconoscimento del Fondo Carla Lonzi a Bene Culturale, rappresentando esso rilevante interesse artistico, storico, archivistico e bibliografico (art. 2, comma 2, del d.lgs. 42/2004, “Codice dei beni culturali”)».
Nel 2017 Battista Lena, figlio della femminista, critica d’arte e saggista italiana – nata a Firenze nel 1931 e morta di cancro a Milano nel 1982 – conferisce in comodato d’uso alla Gnamc le carte private contenute in quattro scatoloni di sua proprietà che fino a quel momento giacevano nella sua casa umbra. La storia del «Fondo Carla Lonzi 1942-2003», a cura di Marta Cardillo, con la collaborazione di Lucia R. Petese, il coordinamento di Claudia Palma e la consulenza scientifica di Annarosa Buttarelli, è reperibile (e consultabile da chiunque) nell’inventario di 274 pagine redatto nel 2019 e ora sul sito del MiC (che ha la documentazione relativa alla Gnamc). Scorrendo le centinaia di pagine di inventario, ci si fa una prima idea della mole di materiali restaurati e catalogati: migliaia di carte divise in faldoni tra dattiloscritti, quaderni, diari, corrispondenze, minute, audiocassette, i testi delle monografie redatti da Lonzi non solo nel periodo femminista, infine fotografie eccetera. Una vera miniera a disposizione di generazioni di studiose e studiosi che infatti ne hanno giovato fino a ora. Ci si può anche addentrare nella disposizione e nel riordino del Fondo, cominciando dalla sua storia archivistica, c’è la modalità di acquisizione, il contenuto, la bibliografia, la suddivisione in due sezioni, la prima relativa a Carla Lonzi (i documenti finiscono nell’anno della sua morte) e la seconda a sua sorella Marta, dal 1970 al 2003.
Sospendere il comodato d’uso anzitempo (nella interrogazione di Zanella si legge «senza una giustificazione tecnica») rischia di interrompere ciò che procede con dedizione da qualche anno e la cui convenzione con la Gnamc avrebbe previsto proseguisse fino al 2027. Ne sono prova costante la pubblicazione di Sputiamo su Hegel e altri scritti per La Tartaruga di Claudia Durastanti, con la curatela di Annarosa Buttarelli, che pochi mesi fa ha rinnovato l’attenzione verso Lonzi e la sua elaborazione ancora oggi cruciale. E in effetti tra il 2010 e il 2012 intorno alla riedizione dei testi di Rivolta Femminile (che non era solo il gruppo femminista e radicale di cui faceva parte Lonzi ma anche una casa editrice), è stato grazie alla tenacia condivisa da alcune tra le menti più raffinate del femminismo italiano, a iniziare da Liliana Rampello e una grande editrice come Laura Lepetit, che si trovò in Sandro D’Alessandro delle Edizioni Et Al. un intelligente alleato per la ripubblicazione completa delle opere di Lonzi (interrottasi per la morte prematura di D’Alessandro): Sputiamo su Hegel e altri scritti aveva la postfazione di Maria Luisa Boccia; Taci anzi parla, in due volumi la cui postfazione era di Annarosa Buttarelli (e che ora, essendo diventato introvabile, è quotato svariate centinaia di euro); Autoritratto con la prefazione di Laura Iamurri (appena ristampato da La Tartaruga); Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra e il postumo Scritti sull’arte, a cura di Lara Conte, Iamurri e Vanessa Martini.
L’interesse artistico, storico e archivistico del Fondo della femminista italiana è allora ancora oggi un atto politico, generativo e di lavoro radicale della memoria; consentirne la consultazione e lo studio è ulteriore occasione per altri progetti di carattere culturale: pubblicazioni, tesi di laurea, laboratori, esposizioni. Nel 2018 anche la Gnamc le dedicava un articolato festival di tre giorni; dello stesso anno è l’open call Dopo Hegel su cosa sputiamo? La mostra «Io dico Io – I say I» è del 2021 mentre l’anno successivo è stata promossa la traduzione inglese di Autoritratto. Solo per citare alcune delle iniziative che hanno interessato la comunità scientifica, moltiplicatesi anche oltre le mura della Galleria. Nel corso del 2021, con la collaborazione di Google Arts & Culture, l’Archivio Carla Lonzi è stato digitalizzato ed è disponibile per la consultazione, con 162 storie e oltre 16mila immagini e video. Sarebbe auspicabile che la Gnamc proseguisse in ciò che ha cominciato, sia pure nella successione delle diverse direzioni. Fisicamente sono pochi metri quadri, e poche le risorse economiche: i bilanci dal 2017 sono pubblici e consultabili, insieme ai report annuali, con voce dedicata alla restaurazione, alla catalogazione e al riordino di un Fondo tanto prezioso quanto esposto.
Da la Repubblica – Alla Galleria nazionale d’arte moderna le sorti delle carte e degli scritti di Carla Lonzi e Anton Giulio Bragaglia sono nelle mani di Battista Lena e di Valerio Jalongo. Arte, critica, archivi, musica e cinema si incrociano nel destino dei due preziosi fondi che la direzione del museo di Valle Giulia ha deciso di restituire poiché si tratta di beni lasciati in comodato. E il museo, che si appresta a lavori di messa in sicurezza dei depositi, non può o vuole garantire la conservazione di beni non di proprietà pubblica. Sembra insomma che la parola definitiva starà ora al regista Valerio Jalongo e a Battista Lena, autore di colonne sonore, tra l’altro per i film della moglie Francesca Archibugi: starebbe a loro, e a i loro cari, decidere se completare in futuro la donazione o se riprendersi un patrimonio di famiglia – 7,5 metri lineari di documenti nel caso di Lonzi; circa 110 su 170 per quanto riguarda Bragaglia – arrivato grezzo nei depositi del palazzo di Bazzani. E ora schedato, restaurato, digitalizzato. In una parola, valorizzato. A spese dello Stato.
L’affondo della critica letteraria
Ma andiamo per ordine. La notizia della restituzione di tutti i documenti del fondo Lonzi è stata lanciata, e aspramente criticata, due giorni fa su Facebook da Annarosa Buttarelli, filosofa e curatrice del riordino del Fondo della critica d’arte e studiosa del femminismo nata a Firenze nel 1931 e morta nel 1982 a Milano: “Desidero informare il mondo femminista di un accaduto gravissimo: la nuova direzione della Galleria nazionale ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi, di fatto espellendolo dalla Galleria e sottraendolo così all’accesso pubblico, soprattutto femminista. Occorre che si registri un vero e proprio attacco al femminismo che il nuovo corso vuole fuori dalla Galleria”.
La lettera contestata
Contatta da Repubblica, la studiosa che ha curato, tra l’altro, la recente edizione del celebre Autoritratto di Lonzi, in cui a parlare erano gli artisti, innanzitutto Carla Accardi per finire con Cy Twombly, dice: “Ho ricevuto una lettera dalla nuova direttrice della Galleria nazionale, Renata Cristina Mazzantini, in cui mi si comunica che il comodato non sarà trasformato in donazione e che, quindi, la documentazione archivistica verrà riconsegnata ai proprietari”. E sulla motivazione: “Nella lettera si dice solo che la decisione è presa poiché è finito il mandato di Cristiana Collu”. Ossia la direttrice che nei suoi anni di gestione (2015-2023) del museo che fu condotto da Palma Bucarelli, ha incrementato le donazioni degli archivi privati (come quelli dei galleristi romani Sargentini, Miscetti, Minini o dei pittori Capogrossi, Rizzo, Cavalli) portandoli da 12 a 57. E trasformando l’edificio costruito nel 1911 in un centro studi, oltreché di mostre, in forza dei vasti depositi sotterranei. Ma ora proprio quei locali sono al centro di una ristrutturazione.
La replica della neo direttrice
La nuova direttrice della Gnam (acronimo indigesto per l’assonanza con il verbo mangiare, ma ormai accettato da tutti) non ci sta a passare per antifemminista. “Ho letto con molto rammarico di essere stata tacciata di essere una nemica di Carla Lonzi. Io, che ho letto i suoi libri e che, da donna, ho dovuto lottare per affermare la mia professionalità nel campo dell’architettura”, dice a Repubblica Mazzantini, arrivata a dicembre alla Galleria nazionale dopo l’esperienza al Quirinale. “Ma da architetto – sottolinea la dirigente del Mic – conosco bene le regole e i rischi di gestire materiale d’archivio, che ha bisogno di particolari accorgimenti per la conservazione, in depositi inadatti quali sono i locali che ci apprestiamo a mettere a norma: e il primo lotto di lavori è stato già messo a bando. Questa e solo questa la ragione per cui, mio malgrado, siamo costretti a restituire ai legittimi proprietari il fondo Lonzi ma anche della parte del Bragaglia in deposito da parte degli eredi”.
“Magazzini stracolmi…”
Poi si entra nel dettaglio attraverso il testo della direzione della Gnam condiviso con l’Ufficio stampa del ministero della Cultura (Mic): “Questa decisione è stata presa per non far assumere alla Galleria nazionale la responsabilità di dover trasferire e custodire beni privati altrove durante il periodo dei lavori, con costi a carico dello Stato, e comunque per ridurre anche in futuro il carico d’incendio che graverebbe sui locali destinati a magazzino, già stracolmi. Al di là delle problematiche inerenti la sicurezza, vi sono anche ragioni economiche che motivano la decisione di restituire i fondi e le opere di proprietà privata: le opere e i fondi che non sono di proprietà pubblica non sono coperti dalla garanzia di Stato, pertanto occorre assicurarli tramite onerose polizze assicurative da stipulare a spese della Galleria e quindi del contribuente”. Continua il comunicato del Mic: “Tali polizze, che sono normalmente attivate nel caso di mostre temporanee, trovano scarsa giustificazione per periodi tanto prolungati e potrebbero suscitare rilievi da parte della Corte dei Conti”. La sensazione è che Mazzantini voglia tagliare corto con la politica dei comodati, di archivi ma soprattutto di opere d’arte, portata avanti dalla gestione Collu (“questo museo non è l’Archivio di Stato, la sua struttura non è adeguata a conservare documenti” spiega Mazzantini).
Le foto di Ugo Mulas restaurate
Ma l’architetta non nasconde la delusione per la perdita degli originali di un faticoso lavoro di schedatura e restauro eseguito: e si va dalla lettera di incarico al testo redatto da Lonzi per il convegno alla Gnam del 1958 su “L’arte moderna e il teatro”, alle foto agli artisti del maestro Ugo Mulas che erano attaccate l’una all’altra negli scatoloni della famiglia, passati da Carla Lonzi alla sorella Marta e da questa al nipote (un deposito in 4 tranche in tutto). Uno sforzo iniziato nel 2017 e costato al museo “oltre settantamila euro”, compreso il compenso ad Annarosa Buttarelli, certifica ricevute alla mano Mazzantini.
“Pronti alla donazione, ma è tutto online”
L’architetta che dirige il museo di Valle Giulia lascia però aperta una porta: “Se Battista Lena decide di donare, accettiamo volentieri questo importante fondo di Carla Lonzi che comunque, lo ricordiamo, è consultabile online sul nostro sito alla sezione Fondi storici”. Gli altri musei, anche stranieri, stanno a guardare pronti a fare la propria offerta. E su quelle carte Francesca Archibugi si sta documentando per un suo lavoro cinematografico sull’opera della madre di suo marito, l’autrice di libri come Sputiamo su Hegel, che sembra sia in corso di lavorazione.
La mostra di autunno sul Futurismo
Il fondo Lonzi, dicevamo, non è l’unico a tornare a casa. Anche lo sterminato archivio di Anton Giulio Bragaglia sta per essere restituito nella parte (un po’ meno della metà) ancora in comodato. “Così viene spezzato in due, è ancora peggio che restituirlo tutto: un danno culturale enorme per la storia della fotografia e dello spettacolo d’avanguardia in Italia”, sottolinea Giuseppe Appella, lo storico dell’arte che molto si è speso per l’acquisizione del fondo. Mentre la Galleria nazionale marcia verso la mostra/monstre sul Futurismo in autunno a cura di Gabriele Simongini, che è plausibile peschi anche tra le foto che si ritrova in casa, la direzione taglia in due la messe di locandine, libri, foto, manoscritti, poesie di Paolo Buzzi o lettere diGiuseppe Prezzolini e Grazia Deledda: 200 metri lineari di archivio schedati in due anni di lavoro. E consultabili online nell’Opac della Gnam.
“Un bene archivistico non si può dividere”
“Un bene archivistico non si può spezzare”, dice, delusa, Claudia Palma, in pensione dal marzo 2023 dopo 43 anni di Galleria nazionale d’arte moderna e gli ultimi passati a lavorare sui 45 fondi acquisiti da Collu. Già direttrice dell’archivio bio-iconografico e dei fondi storico e fotografico di Valle Giulia, Palma sottolinea: “Su 170 metri lineari di documenti del fondo Bragaglia,60 erano ancora in comodato mentre 110 già acquisiti dallo Stato. Con la restituzione si rompe un vincolo e ciò è contrario al Codice dei beni culturali”. Anche in questo caso, se il regista Valerio Jalongo e le sue sorelle, eredi del padre del Fotodinamismo futurista, decideranno di completare la donazione, la Galleria nazionale si dice pronta ad accettarla e a trovare una soluzione per non spezzare in due queste importanti pagine di storia della cultura italiana.
Da Letterate Magazine – È notizia di questi giorni che l’attuale direzione della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi. Se lo espellesse, lo sottrarrebbe all’accesso pubblico. Abbiamo intervistato la filosofa Annarosa Buttarelli, che ne è la curatrice.
Quando e come è iniziata la tua cura del fondo Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma? Qual è la sua importanza per la conoscenza della grande artista e pensatrice?
Tutto è avvenuto quasi miracolosamente. Per molti anni ho collaborato con Cristiana Collu alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Nel 2018 Battista Lena, il figlio di Carla Lonzi ha proposto alla direttrice un comodato d’uso per un sicofoil di Carla Accardi. Vedendolo in galleria mi è venuta l’idea di suggerire a Cristiana Collu di provare a verificare la disponibilità di Battista a portare in galleria tutti i documenti della madre, in modo che fossero catalogati e messi a disposizione del pubblico. La lungimiranza della direttrice ha fatto il resto. E oggi si può dire che il Fondo Carla Lonzi è l’unica raccolta al mondo documentale e iconologica perfettamente accessibile, e protetta dalla digitalizzazione. Una festa per tutte le studiose, le femministe, gli studiosi, le giovani e i giovani sempre più vicini alla strada aperta dalla madre del femminismo italiano della differenza.
L’attuale direzione ha interrotto il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi, di fatto espellendolo dalla Galleria e sottraendolo all’accesso pubblico, proprio in un momento in cui Lonzi viene ripubblicata da La Tartaruga e il suo pensiero riceve un grandissimo riconoscimento da parte del femminismo e delle giovani generazioni. Come te lo spieghi?
In ogni circostanza ci sono sempre concause, mai una sola. Ma posso azzardare qualche ipotesi: 1) hanno senz’altro giocato, da parte della nuova direttrice, una certa superficialità e l’incompetenza nella delicata materia archivistica; 2) ho ricevuto dalla direttrice una lettera (a me per conoscenza in quanto curatrice scientifica del Fondo Lonzi) in cui scrive il motivo ufficiale dell’interruzione di comodato d’uso: si tratta della bizzarra sovrapposizione della fine dell’interesse della nuova direttrice a avere il Fondo con la fine del mandato della precedente direttrice Cristina Collu, citata esplicitamente nella lettera (!); 3) questo fa pensare che uno dei motivi che spingono all’espulsione sia la solita damnatio memoriae di chi ha preceduto con onore e successo. Lo fa pensare anche il fatto che sono scomparsi dal blog della Galleria (quindi dall’accessibilità online) tutte le iniziative, le mostre, le realizzazioni che Cristiana Collu ha potuto fare proprio per sostenere la presenza e la vitalità del Fondo Lonzi. Come se si volesse cancellare l’enorme potenzialità del Fondo, pienamente intercettata e sostenuta durante il mandato di Collu; 4) di conseguenza viene da pensare che vi sia nella nuova direttrice l’ignoranza (in senso letterale) del prestigio del bene culturale che ha in casa, ma soprattutto si rileva un certo disprezzo per tutto ciò che ha a che fare con il femminismo di cui io sono una filosofa esponente, responsabile scientifica del Fondo che ho contribuito a costruire. Non sono mai stata ricevuta, né consultata.
Cosa possiamo fare per salvare l’accesso al fondo e di conseguenza consentire il libero accesso allo studio dei documenti?
L’accesso al Fondo fisico è garantito in Galleria finché il figlio di Carla Lonzi non lo ritirerà. Ha tempo sei mesi, in cui è possibile accadano cose interessanti e miracolose, un’altra volta. Se lo ritirerà dobbiamo sperare che lo voglia ricollocare in un’altra istituzione pubblica così da garantire, in Italia, l’accesso pubblico, e visto l’investimento fatto dallo Stato per la nascita del Fondo stesso. Sarebbe bizzarro, per limitarci a questo, che il Fondo di una pensatrice italiana fondamentale nella storia della cultura, dell’arte, del femminismo italiani finisse in qualche istituzione estera o in qualche archivio privato. Lo si potrebbe considerare una mancanza di rispetto per l’impegno che il Ministero della Cultura italiano ha profuso, in personale, in dirigenza, in risorse.
Dall’esterno si può fare quello che stiamo facendo qui, parlare, informare, scrivere, segnalare, lavorare sui social, raccogliere firme che chiedano il riconoscimento del Fondo Carla Lonzi come Bene Pubblico, in modo che non possa uscire dall’Italia. Questo riconoscimento deve essere chiesto dal figlio che è ancora proprietario del Fondo, non avendo donato il Fondo alla Galleria. Ritengo sia impossibile che Battista Lena non voglia fare questo passaggio necessario. Forse però occorre sostenerlo e consigliarlo pubblicamente in questo senso.
Qual è l’importanza del pensiero di Lonzi oggi?
L’importanza del pensiero e delle opere di Carla Lonzi è eterna, poiché lei è allo stesso livello delle grandi pensatrici del ’900. L’editore Feltrinelli mi ha chiesto di scrivere un libro per la collana Eredi diretta da Massimo Recalcati. Gli “eredi” che scrivono in quella collana sono coloro che si sono trasformati al contatto con il pensiero di un maestro e di una maestra. Il libro si intitola Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Ho provato a presentare l’immensa, inesauribile, inappropriabile opera di Carla Lonzi, una pensatrice femminista rigorosa, autocosciente, radicale, magistrale, integra nella coscienza e nei gesti, amorosa verso i giovani e verso i rapporti umani. Tutto questo è ciò di cui si ha bisogno in questo tempo che sta spargendo crudeltà ovunque. I e le giovani cercano tutto questo e l’opera di Carla Lonzi lo dà.
Da Domani – In un paese sempre più anziano, chi ha sotto i trent’anni rappresenta una minoranza che per i partiti non fa la differenza. Eppure si tratta di una fascia di elettorato impegnata socialmente. Peccato che le sue istanze non trovino risposte
A ogni tornata elettorale la domanda «Perché i giovani non votano?» ritorna. Ma per capire le ragioni del loro astensionismo, non basta tacciare i giovani di disinteresse verso la politica e il bene comune. Occorre invece addentrarsi nei loro percorsi, capire cosa viene offerto dalle istituzioni, cosa propongono i partiti e come le istanze di questa fascia di elettorato vengono recepite e ascoltare. La risposta più semplice e immediata, guardando i dati, è: poco.
Il voto dei giovani, in un paese sempre più vecchio come il nostro, non è quasi mai decisivo. Sono una parte del grande bacino degli “aventi diritto”, ma una netta minoranza. I cittadini europei chiamati alle urne tra il 6 e il 9 giugno sono 358 milioni. Con l’obiettivo di avvicinare ragazze e ragazzi alle istituzioni europee, cinque paesi hanno diminuito l’età per poter esercitare il diritto (18 anni): la Grecia a 17 anni, mentre Austria, Belgio e Germania a 16. In totale sono oltre 23 milioni coloro che voteranno alle europee per la prima volta: 2,7 milioni in Italia (su un totale di poco più di 47 milioni di elettori), il terzo valore più alto, dopo Germania (5,1) e Francia (4).
Chi sono i giovani?
La prima questione da dirimere è la definizione di “giovani”, che non è univoca in tutti i paesi dell’Unione europea. In Italia, l’Istituto nazionale di statistica (Istat) considera giovani le persone dai 15 ai 34 anni. Non accade lo stesso in Germania e Francia, dove i centri di ricerca nazionali considerano l’età compresa tra i 18 e i 29 anni. Mentre, in alcuni studi, l’istituto tedesco analizza la fascia tra i 15 e i 24 anni.
In un paese come il nostro, in cui l’età media è la più alta d’Europa – 47 anni, in base ai dati Eurostat del 2020 – le persone tra i 18 e i 34 anni sono 10,3 milioni, il 17,51 per cento della popolazione (Istat 2023), circa 3 milioni in meno rispetto al 2002.
Il numero di laureati in Italia è molto più basso rispetto alla media europea: nel 2022, solo il 29,2 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni aveva un’istruzione universitaria, contro il 42 per cento nell’Unione. E il 42,3 per cento, tra i 18 e i 29 anni, ha un’occupazione.
A questi dati, si aggiunge la cifra preoccupante di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, né sono impegnati in un tirocinio: in Italia sono 3 milioni. In base ai dati di Eurostat, alcune regioni italiane spiccano nella classifica dei peggiori. Nel 2021, in Sicilia il 30,2 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni non studiava né lavorava. A seguire Campania (27,7) e Calabria (27,2). Al pari, solo una regione della Bulgaria, con il 27,3. Nei Paesi Bassi e in Svezia, i Neet sono invece il 5,1 per cento.
Perennemente giovani
Numeri difficili da rendere organici, ma che evidenziano alcune tendenze. I giovani italiani – che per numero costituiscono una fetta importante della popolazione giovanile europea, essendo l’Italia il terzo paese più popoloso – sono più esposti al tempo vuoto e hanno un livello di istruzione più basso. Complice, tra altri elementi, la spesa pubblica per l’istruzione, che nel nostro paese ammonta al 4,1 per cento del Pil, mentre in stati come Svezia, Francia e Germania, varia tra il 7,06 e il 4,7.
A questo si somma una transizione più lenta verso l’età adulta, per motivi principalmente socioeconomici. Mentre per la Germania la gioventù finisce tra i 25 e i 29 anni, in Italia dopo i trent’anni donne e uomini non hanno ancora raggiunto una stabilità, né lavorativa né personale, e per questo l’età adulta tarda ad arrivare.
L’Istat, nel rapporto Bes 2023, evidenziava come per i giovani fino ai 34 anni l’ingresso nel mondo del lavoro è più incerto e precario, con lunghi tempi di stabilizzazione del percorso professionale, orari ridotti, meno posizioni qualificate e redditi penalizzati. I salari italiani sono tra i più bassi d’Europa. Insomma, il passaggio alla vita adulta, sottolinea l’Istat, è «un processo più lungo e difficile», dove precarietà e carico di lavoro possono «incidere sul livello di partecipazione sociale, politica e culturale».
Parte della collettività
Non possiamo non prendere in considerazione tutti questi elementi per capire il minore coinvolgimento nella vita politica del paese.
Nel 2022, secondo l’Istat, tra i giovani di 18 e 19 anni lo 0 per cento ha prestato attività gratuita per un partito politico. E il tasso di partecipazione a un comizio non supera i tre punti percentuali. Ma le attività di partecipazione alla comunità democratica di ragazzi e ragazze, su cui ha avuto effetto anche la pandemia, hanno cambiato forma, e il volontariato nel 2022 è tornato a crescere tra i giovanissimi.
«Quello delle nuove generazioni è in tanti casi un contributo pratico e fattivo alla vita della propria comunità», evidenzia uno studio di Openpolis del 2023. Gli indicatori sono cambiati, e «gli under 25 sono la fascia di popolazione più coinvolta nell’associazionismo», legato a temi come l’ambiente, i diritti civili e la pace.
«I giovani tra i 18 e i 19 anni sono la classe anagrafica più attiva nell’associazionismo per i diritti e la cura dell’ambiente», scrive Openpolis. È il 2,9 per cento, mentre nessuna fascia di età oltre i 25 anni supera il 2 per cento. Anche un recente report di Save the Children mostra come un giovane su due (tra i 14 e i 19 anni) abbia svolto attività di partecipazione civica e politica. Mentre tra i 20 e i 24 anni «i valori salgono al 63,3 per cento».
C’è quindi un allontanamento dalle forme tradizionali di politica, ma questi dati mostrano tutt’altro che disinteresse nella collettività. Se la sfiducia nei partiti è molto alta, per tutte le fasce di età, sono altre le organizzazioni che nei fatti avvicinano i giovani alla politica.
Voto europeo
I partiti politici sembrano quindi non ascoltare i giovani, e questi ultimi sembrano avere sempre meno fiducia nelle istituzioni. Il dato emerge anche da un’indagine del Consiglio nazionale giovani e dell’Istituto Piepoli. Per gli under 35 i temi affrontati dai partiti nella campagna elettorale non rispecchiano le proprie preoccupazioni e priorità, e solo l’8 per cento dei giovani si dice soddisfatto del dibattito politico sulle europee. L’83 per cento degli under 35 – si legge in uno studio condotto da Scomodo e Campo ricerca – pensa che i leader italiani non rappresentino i giovani all’interno dell’Ue.
Di conseguenza, alle elezioni politiche del 2022 l’astensionismo giovanile è stato alto (42,7 per cento). Così, per le prossime europee solo il 47 per cento si è detto propenso a votare. Ma è una percentuale, sottolinea il Cng, che supera la prospettiva di voto degli over 54 e che conferma una tendenza del 2019, quando l’aumento dell’affluenza alle urne è stato determinato dalla partecipazione delle giovani generazioni in tutta l’Unione europea.
I giovani continuano ad avere forti aspettative nei confronti dell’Unione e chiedono che la politica si occupi di salute, pace e soprattutto di ambiente, che parli di lavoro e occupazione, di scuola, università e di diritti. In un sondaggio Ipsos del 2021 è emerso che i ragazzi italiani sono molto preoccupati per il cambiamento climatico, più dei coetanei europei, e «sono motivati a far partire il cambiamento».
Ma, dopo la riduzione del numero dei parlamentari e la modifica del corpo elettorale, dalle elezioni del 2022 è derivato un parlamento sempre più vecchio, invertendo la tendenza positiva degli ultimi anni: deputati e senatori hanno in media 51,4 anni, mentre la presenza di donne e giovani è diminuita rispetto alla legislatura precedente. 62 deputati hanno meno di 40 anni.
Il risultato è una politica vecchia, incapace di ascoltare le richieste dei ragazzi e delle ragazze e capace di rispondere alle contestazioni solo con la repressione.
Da Il Fatto Quotidiano – Nuove dichiarazioni del candidato del Pd alle europee, Marco Tarquinio, potrebbero costringere la segretaria Elly Schlein a ribadire la linea ufficiale del partito. Questa volta l’ex direttore di Avvenire entrato in politica con il Partito Democratico è finito sotto attacco dei partiti di centro per aver auspicato lo scioglimento della Nato in favore di una partnership paritaria tra Europa e Stati Uniti.
L’esponente Pd ha parlato in riferimento alle stragi commesse da Israele nei campi profughi di Gaza nelle ultime ore: «Ancora decine e decine di morti civili a Gaza e nessuno si azzardi più a chiamarli “danni collaterali”. Usa e Ue fermino la guerra all’umanità di Netanyahu. O sciolgano l’alleanza con lui. La stessa cosa che dico per la guerra d’Europa. Se le alleanze non servono la pace e da difensive diventano offensive vanno sciolte. Sciogliamo la Nato. Non si può fare in un giorno, ma va fatto. Va costruita un’alleanza nuova e tra pari tra Europa e America».
Parole che hanno provocato la reazione per primi degli esponenti di Italia Viva e Azione. Matteo Renzi su X ha commentato dicendo che «il Pd con Marco Tarquinio dice che per costruire la pace bisogna sciogliere la Nato, sconfessando l’Atlantismo degli ultimi 70 anni. Noi invece diciamo che per costruire la pace servono la Nato, l’esercito europeo, la difesa comune e una politica estera. Servono insomma gli Stati Uniti d’Europa». Come lui anche Carlo Calenda: «Tarquinio, oltre a pensare che l’aborto sia come la pena di morte, vuole sciogliere la Nato. Il Pd cosa ne pensa? È la vostra linea, Elly Schlein? Davvero vuoi mandare in Ue queste idee?».
Il riferimento del leader di Azione è anche alle recenti dichiarazioni del giornalista secondo cui «l’aborto non è un diritto perché non si hanno diritti sulle vite degli altri». Dichiarazioni che hanno costretto Schlein a spiegare che si trattava solo di posizioni personali e non della linea di partito. Ma su una cosa Tarquinio era stato chiaro fin da subito: «Sono contrario a cambiare la legge 194».
Da pressenza.com – Questa lettera è stata spedita il 26 maggio scorso con 731 firme di donne da 144 comuni in 38 province.
Siamo “Donne in cammino per la pace”, una rete di donne che in prima persona condividono l’urgenza di chiedere la fine delle guerre e dei massacri consumati sui corpi dei più fragili. Ciascuna sente di non poter rimanere indifferente e la necessità di esprimere la propria condanna ai vecchi e nuovi genocidi in atto nel mondo e, di più, al massacro del popolo palestinese.
Da mesi, nei principali luoghi pubblici delle città dove ciascuna vive e può attivarsi in comunanza con altre, le “Donne in cammino per la pace”, senza loghi identitari, simboli o bandiere di appartenenza, promuovono il CESSATE IL FUOCO con un messaggio scritto sul corpo; immobili e in silenzio, vestite di nero, con uno straccio bianco legato al braccio.
Ciascuna raccoglie il testimone di due associazioni pacifiste e femministe: Woman Wage Peace, israeliana e Women of the Sun, palestinese, che chiedono congiuntamente di porre fine al ciclico spargimento di sangue e una vita giusta e dignitosa per bambini e bambine palestinesi e israeliani, perché “Ogni madre, ebrea e araba, dà alla luce i suoi figli per vederli crescere e fiorire e non per seppellirli”. Iniziata da donne di Brescia, la pratica sta coinvolgendo “Donne in cammino per la pace” in circa 200 comuni di varie province e regioni.
Ci rivolgiamo a Lei come cittadine, nello spirito e nel rispetto della Costituzione italiana, che ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti:
– perché la Sua voce sovrasti quella dei tanti Partiti politici e istituzioni italiane e europee, che mentre chiedono la fine dei conflitti, mantengono e incrementano la fornitura di armi ai paesi belligeranti;
– perché sia svelato che la folle corsa agli armamenti, mentre sta determinando enormi profitti per le lobby produttrici, produce depauperamento delle risorse destinate alla salute, alla scuola, al buon vivere di cittadine e cittadini e mette in pericolo la loro incolumità;
– perché le autorità italiane, europee ed internazionali, si attivino immediatamente per fermare i bombardamenti e l’invasione israeliana nel territorio di Gaza, per permettere il passaggio di aiuti alla popolazione palestinese sotto assedio, per ripristinare i finanziamenti all’Unrwa, per porre fine alla catastrofe umanitaria in corso;
– perché si ponga un argine alla manipolazione delle informazioni e alla campagna mediatica che giustifica la rappresaglia di Israele contro l’intera popolazione di Gaza, come risposta alle atrocità commesse da Hamas nell’attentato terroristico del 7 ottobre 2023. Come Lei ben sa, in poco più di sette mesi il governo israeliano ha ucciso 35mila palestinesi e ne ha feriti 77mila, il 70 per cento dei quali donne e bambini. A Gaza ha distrutto 221mila abitazioni, lasciando senza casa un milione di persone, quasi la metà della popolazione; ha cancellato le infrastrutture civili comprese elettricità, acqua e fognature; ha distrutto il sistema sanitario e ucciso 400 operatori sanitari; ha distrutto tutte
le dodici università e 56 scuole, altre centinaia ne ha danneggiate, lasciando senza istruzione 625mila studenti. Ha bloccato gli aiuti umanitari creando le condizioni in cui tutta la popolazione rischia la carestia e la morte per fame.
Le chiediamo di sollecitare la politica e la diplomazia, troppo a lungo assenti, affinché agiscano per mettere fine all’occupazione militare israeliana e al regime di apartheid nei confronti della popolazione palestinese, poiché la giustizia è condizione imprescindibile per la pace, mentre da oltre settant’anni la colonizzazione israeliana costituisce una violazione dei diritti umani e del diritto internazionale, come ci ricordano anche autorevoli cittadini israeliani ed ebrei della diaspora. La guerra non è una soluzione, ma un motore inarrestabile di odio.
Le donne hanno disvelato che la violenza e la guerra sono l’esito di un sistema di relazioni di dominio che affonda le sue radici nella relazione tra i generi. Con la loro capacità di mediazione le donne dimostrano che la violenza non è un destino dell’umanità.
Le chiediamo di condividere il nostro appello con gli organi di governo, il Parlamento e le forze politiche.
La ringraziamo per l’attenzione.
FIRMATARIE
Anna Paola Moretti – Pesaro, Rita Giomprini – Pesaro, Maria Teresa Pampaloni – Pesaro, Ramona Orizi – Pesaro, Francesca Ricci – Pesaro, Lucia Gafà – Pesaro, Alessandra Calegari – Pesaro, Simonetta Romagna – Pesaro, Laura Canestrari – Mombaroccio, Giuliana Ugolini – Pesaro, Ilva Sartini – Pesaro, Bruna Castellani – Pesaro, Giulia Benelli – Pesaro, Caterina Profili – Pesaro, Anna Natale – Pesaro, Nada Pallini – Atri, Anna Bertozzini – Pesaro, Angela Donati – Gabicce Mare, Giuliana Bartocetti – Pesaro, Mara Pianosi – Pesaro, Lucia De Luca – Pesaro, Bonaria Biancu – Pesaro, Giulia Dellacostanza – Pesaro
È in corso una campagna di condivisione. Per condividere, basta inviare una mail ad Anna Paola Moretti, apmoretti@virgilio.it.
Da X (Twitter) – Mentre cala il buio sul peggior Giorno dell’Indipendenza di Israele, ho questo da dire: il 7 ottobre Israele non era in pericolo esistenziale. Oggi lo è.
Non a causa di Hamas, di Hezbollah né dell’Iran, ma come diretta conseguenza del comportamento del governo più catastrofico, più distruttivo e più corrotto che abbiamo mai avuto.
E con tutto il rispetto che dobbiamo agli amici leali e frustrati che abbiamo all’estero, soltanto noi cittadini israeliani possiamo salvare il nostro Paese da se stesso.
As darkness falls on Israel’s worst ever Independence Day, I have this to say:
On the 7th October Israel was not in existential danger. Today it is.
Not because of Hamas, Hezbollah or Iran, but as a direct result of the conduct of the most catastrophic, destructive and corrupted government we have ever had.
And, with all due respect to our loyal and frustrated friends abroad, only we Israeli citizens can save our country from itself.
(X, 14 maggio 2024. Tradotto dall’inglese da Stefano Sarfati)
Da il manifesto – La protesta popolare nonviolenta più antica e duratura della Turchia, quella delle “Madri del sabato”, ha raggiunto le mille settimane di presidio. Dal 1995, ogni sabato, con grande tenacia, un gruppo di persone si riunisce davanti al Liceo di Galatasaray a Taksim/Istanbul. Sono alla ricerca dei loro cari scomparsi.
Il primo presidio risale al 27 maggio 1995, due mesi dopo la scomparsa di Hasan Ocak che era in detenzione provvisoria per gli scontri avvenuti nel quartiere di Gazi a Istanbul, il 21 marzo 1995. Sua madre, Emine Ocak, la famiglia e gli amici lo hanno cercato per 55 giorni. Il 15 maggio il corpo di Hasan è stato ritrovato nel cimitero dei senzatetto, evidenti segni di tortura. Il suo caso ha fatto scattare la lotta delle “Madri del sabato”. Al loro primo sit-in c’erano venti persone.
Questa prima azione ha spinto una serie di madri a scendere in piazza con un obiettivo comune: ritrovare i loro figli ma anche individuare i colpevoli.
L’iniziativa si ispira alle “madri di Plaza de Mayo”, i cui figli furono fatti sparire dalla giunta militare in Argentina. Anche in Turchia le “Madri del sabato” cercano i loro cari, considerati “scomodi” dallo Stato per le loro idee e posizioni politiche.
Tra queste donne c’è anche Besna Tosun, alla ricerca di suo padre da 29 anni. «Avevo dodici anni quando lo hanno preso e portato via davanti ai miei occhi. Poco dopo, mia madre si è rivolta all’Associazione per i Diritti umani (Ihd) e quando siamo venute a sapere dell’esistenza delle “Madri del sabato” ci siamo unite a loro. Da quel giorno sono in piazza ogni sabato».
Il padre di Besna si chiama Fehmi Tosun e aveva trentacinque anni quando è stato rapito nel giardino della sua abitazione di sera a Istanbul. La famiglia si è rivolta subito alla polizia, che ha risposto dicendo che non poteva fare nulla. Il percorso legale sul suo caso si è concluso nel 2003: la Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato la Turchia e il governo dell’epoca pagò il risarcimento. Ma tuttora non si sa dove si trovi Fehmi Tosun e nessun responsabile è stato identificato. Nel 2019 il caso è caduto in prescrizione. «Le scomparse non vengono definite come reati contro l’umanità in Turchia, quindi dopo vent’anni possono cadere in prescrizione. Purtroppo, il caso di mio padre non è l’unico», racconta Besna con amarezza.
Le “madri del sabato”, con la loro determinazione, hanno reso di pubblico dominio un fatto noto ma oscurato. Da mille settimane cercano di creare consapevolezza a livello popolare, portando avanti un percorso politico e giuridico con l’intento di evitare che simili casi si ripetano e che i colpevoli siano identificati. «Sappiamo che ci sono stati governi complici – aggiunge Besna – e altri che non hanno voluto muovere un dito, perché non indagano né puniscono i colpevoli. Per questo siamo sempre qui».
Davanti al liceo di Galatasaray ci sono almeno tre autobus pieni di poliziotti tutti i giorni a tutte le ore, anche se il presidio delle “Madri del sabato” si svolge solo una volta a settimana e dura appena quindici minuti. La repressione della polizia si è fatta permanente dal 2018.
«In questi anni sono stati aperti diversi processi a causa di questo presidio e delle mie rivendicazioni, tuttavia, in merito a mio padre non è stato aperto nessun fascicolo. Far scomparire le persone in detenzione provvisoria o in altre circostanze è un reato permanente finché non vengono ritrovate quelle persone e puniti i colpevoli. È un reato che esiste da anni ma non viene punito. Quindi la nostra posizione resta ferma: pretendiamo informazioni e nel caso la possibilità di trovare il corpo e svolgere i funerali. Per questo siamo ancora qui», così Besna Tosun riassume il motivo della loro lunga lotta.
Ma svolgere questo presidio è diventato sempre più difficile. «Per ben trenta settimane numerose persone sono state prese in detenzione provvisoria. Ora poche persone sono autorizzate ad accedere a questa piazza», spiega Besna, illustrando la situazione attuale.
Oggi sarà il millesimo presidio delle “Madri del sabato”. «Vorremmo sederci in piazza in massa. Speriamo che saranno rimosse le transenne della polizia e non ci saranno limitazioni. Non sappiamo cosa ci aspetta – conclude Besna – ma noi ci saremo anche stavolta».
Da Corriere della Sera – La filosofa autrice di «Donne che allattano cuccioli di lupo» si ispira alle Baccanti di Euripide per rovesciare la visione tradizionale della società e rimettere le donne al centro. «Il privilegio maschile è un dato di fatto. Dico no alla maternità surrogata, commercializza il corpo delle donne»
E se riscoprire un concetto arcaico di femminile e di materno come «potenza generativa» fosse una chiave utile all’umanità anche per imparare a rapportarsi in modo diverso alla natura? Tesi interessante e audace che è al centro di «Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno» di Adriana Cavarero, filosofa nota a livello internazionale, una delle protagoniste del pensiero femminista contemporaneo. Cavarero per il suo libro più recente, edito da Castelvecchi a fine 2023, sceglie un titolo evocativo, preso dalle Baccanti di Euripide, per guidarci in un viaggio tra mito, archeologia e letteratura contemporanea alla scoperta di una visione del femminile che dalla filosofia investe la società.
Chi sono le donne che allattano i cuccioli di lupo?
È l’immagine di una maternità senza limiti, chiamiamola il lato oscuro, viscerale, della maternità, quello che ci ricongiunge alla fisicità intesa come «physis», come racconta Euripide nelle Baccanti: le donne fuggono da Tebe e dalle loro case per andare nel bosco dove praticano una comunione dionisiaca con la natura e allattano cuccioli di umani e di animali. Un’immagine selvaggia della maternità che troviamo anche nelle pagine di scrittrici contemporanee come Elena Ferrante o Annie Ernaux. Penso, per esempio, alla descrizione dell’aborto che fa Ernaux in L’evento, o a quella che Lenù fa di sua madre in Storia della bambina perduta (romanzo del ciclo dell’Amica geniale ndr).
Per esplorare filosoficamente il concetto di maternità bisogna dunque rifarsi al mito e alla letteratura?
Certo, perché il pensiero filosofico classico ha rimosso il femminile. Relegandolo nella sfera della riproduzione quindi escludendolo dalla riflessione.
Rimossa a partire dalla filosofia e poi a scendere…
Rimossa soprattutto dai luoghi pratici dove si esercita il sapere e il potere.
Definire il femminile attraverso il materno non è un rischio, ora, in Italia, dove una parte politica dominante sembra incline a una visione tradizionale (e patriarcale) della donna?
Al contrario, io ribalto la prospettiva. Il pensiero femminista tende a non voler parlare di maternità perché, da una parte, teme di cadere in quella visione tradizionale e religiosa che la dipinge dolce, idilliaca, autosacrificale e, dall’altra, perché teme di ridurre il femminile al compito di riproduzione, quindi, di cacciare la donna in una gabbia biologica che la trattiene nell’ambito della natura, mentre l’uomo, proprio perché libero dal compito di procreare, è soggetto libero, dotato di logos e quindi dominante. Ecco, sfidando questa doppia censura ho ripreso il tema della maternità proprio riallacciandomi alla sua relazione con la natura. Partendo dalla biologia, che filosoficamente preferisco chiamare zoo-ontologia, la donna, proprio per la sua capacità di generare, va considerata al centro della vita, attraversata dal processo della vita, complice. Letta in questo senso diventa un’esperienza di conoscenza che ha un risvolto etico importante: ci insegna qual è il posto dell’umanità nell’universo, che non è quello di dominus e padrone.
Un’idea di materno che apre a un rapporto diverso tra umani e natura?
Sentirci padroni della natura, con tutte le conseguenze che questo ha comportato, è figlio di quella tradizione filosofica antropocentrica che ha dominato da Aristotele in poi, ma è solo un’illusione. Anzi, è arroganza. Se l’umanità avesse consapevolezza di essere solo una piccola parte nel mondo della physis il nostro atteggiamento verso l’ambiente sarebbe diverso.
Anche quando diciamo che stiamo andando verso la fine del mondo siamo antropocentrici. È un modo di dire assurdo. Semmai stiamo andando verso la fine della specie umana, il mondo continuerebbe ad esistere senza di noi, anzi, si avrebbero nuove e rigogliose forme di vita.
Donne come portatrici sane di una saggezza arcaica, insomma. Lei a questo proposito cita gli studi di Marija Gimbutas, l’archeologa lituana che teorizzava l’esistenza di una civiltà matrilineare antica.
Gimbutas (1921-1994, ndr) teorizzò la civiltà della “Vecchia Europa”, una civiltà matrilineare e pacifica, egualitaria e artisticamente raffinata che poi, in seguito a invasioni, viene soppiantata da una società più bellicosa, a trasmissione maschile, con organizzazione gerarchica e che non venera il culto della vita ma eroi guerrieri. Questa teoria nasceva da scoperte fatte sul campo: Gimbutas aveva visto che le statuette con donne corpulente, dai seni grandi, le “veneri neolitiche”, erano state trovate, in zone diverse, in strati del terreno profondi quindi più antichi, mentre le spade apparivano in strati più recenti. Il suo studio però fu contestato dal mondo accademico, che lo riteneva privo di base scientifica. Peccato che, trenta-quarant’anni dopo, le nuove scoperte sulle datazioni archeologiche dimostrarono che Gimbutas aveva ragione: una civiltà soppiantò effettivamente l’altra. E così successe al pensiero, da Platone e Aristotele in poi: la donna fu relegata nel mondo del naturale che segue leggi fisse e che quindi deve essere dominato dall’uomo.
Uccidiamo Aristotele?
Per carità, ammiro la tradizione filosofica. Non va cancellata ma decostruita nei suoi presupposti non detti, ovvero quando interpreta il sesso femminile come quello che “semplicemente” genera (quindi non conta) mentre il sesso maschile è quello che assurge all’intelligenza delle idee. Questa è la traduzione fondamentale della differenza sessuale secondo la filosofia che da Aristotele arriva fino ai nostri giorni. Che resta però non detta, un presupposto. Raro trovare testi chiaramente misogini, come quelli di Schopenhauer, dove si dice chiaramente che le donne sono inferiori, ma esiste l’idea aprioristica del maschile che si fa universale. La donna resta “non detta”, cancellata. Ma la potenza generativa è invece qualcosa di fondamentale che rivaluta la natura come molteplicità del vivente e rimette la donna al centro. Quello che chiamiamo Vita o Natura, con le maiuscole, non è qualcosa che si dà in generale, al di là dei singoli viventi: non esiste “l’idea Vita” ma solo la molteplicità dei viventi che passa attraverso corpi singolari. Ecco la potenza del generare.
Ma in una società che semplifica tutto non si corre il rischio di dar ragione alla deputata Mennuni di Fratelli d’Italia che in tv ha detto che la prima aspirazione per una donna è quella di fare figli?
No, questa sì che è da censurare: è la quintessenza del concetto patriarcale di maternità che ci arriva dalla tradizione religiosa e dalla letteratura. Io combatto da sempre l’idea che la maternità sia la realizzazione piena della donna perché la fa diventare “obbligatoria” quando invece è libera scelta. Per lo stesso motivo non mi piace tutto questo parlare di “denatalità”.
Cosa non le piace della parola denatalità?
È tipico di una cultura che non mette la capacità femminile di generare al centro della società, però dice alle donne: avete il dovere di fare figli. E intanto continua a tenerle fuori dalle stanze del potere e del sapere. A non pagarle quanto gli uomini, a ostacolarne le carriere.
Questo è ancora il grande limite alla valorizzazione del femminile?
Certo. Certo. Perché dietro il parlare di denatalità c’è la volontà di tenere le donne a casa a occuparsi dei figli. Ma questo pericolo c’è sempre stato, oggi ne vedo anche un altro.
Quale?
Lo sfruttamento del corpo delle donne attraverso la maternità surrogata, ovvero usarla come incubatrice di carne per figli che si comprano: è la riduzione della donna a utero, a contenitore.
Tutte le femministe sono contrarie allo sfruttamento del corpo delle donne, ma non tutte però sono contrarie alla surrogata.
C’è un’ipocrisia di fondo in chi difende la surrogata dicendo che può essere una libera scelta, un gesto di solidarietà verso chi non può avere figli: è solo un commercio gestito sul corpo di donne povere.
Michela Murgia nel libro postumo sulla genitorialità («Dare la vita», Rizzoli, uscito quest’anno a gennaio), parla della necessità di leggi che regolino la surrogata, perché un atteggiamento proibizionista tout-court apre alla clandestinità e allora, sì, allo sfruttamento.
Non mi convince: è come se ai tempi della schiavitù negli Stati Uniti, anziché chiederne l’abolizione, si fosse proposta una regolamentazione. Ho apprezzato molto Murgia perché ha militato per cause giuste, ma gli ultimi libri li trovo concettualmente confusi.
Sembra però che, sul piano politico, si voglia ostacolare la surrogata per colpire soprattutto le coppie omosessuali, ignorando che questa è praticata per la maggior parte dalle coppie etero che la fanno all’estero e lo tengono nascosto.
Infatti per disincentivare il ricorso alla surrogata bisognerebbe anche fare leggi meno restrittive sull’adozione.
A proposito di polemiche recenti, intellettuali e politici si sono scagliati contro l’uso femminista della parola “patriarcato”. Dicono non ha senso parlarne perché non esiste più.
Non sono informati. Patriarcato non è un termine femminista, è una categoria dell’antropologia passata alla sociologia e alle scienze sociali. Significa: tipi di società nelle quali il maschio occupa ruoli di potere e di privilegio. Non ha senso dire che c’era nell’Ottocento e ora non più, non si riferisce a un periodo storico.
Si critica chi parla di patriarcato per spiegare il persistere della violenza sulle donne.
Chiamarsi fuori, dire “non tutti sono maschi violenti” quando si cerca di spiegare che cosa c’è dietro i femminicidi, è una risposta sciocca. Si tratta semplicemente di riconoscere un dato di fatto: il ruolo privilegiato del maschio, e fare un’analisi sociologica di cosa questo comporta, ovvero il concetto che l’uomo possa possedere la donna.
(Corriere della Sera, 24 marzo 2024)
Il contributo di Clelia Mori Gli uomini e la guerra del 29 marzo scorso mi ha riportato alla mente quando nacque il figlio di mia cugina, ma potrei dire il figlio di mia figlia, per l’infinitesimo ruolo materno che ho sperimentato con lei: ho sentito di varcare la mia vita in un futuro infinito. La gioia più grande della mia esistenza ha squarciato tutti i dolori, avevo un futuro che raccoglieva gli affetti della mia famiglia, della mia appartenenza. Non lo so se c’entra l’essere femmina o soltanto riconoscere l’appartenenza.
Clelia Mori argomenta bene. Ma anche altre nozioni sono utili per osservare la pluralità delle influenze che ci educano e ci modificano. Nelle popolazioni antiche ancora visibili Margaret Mead* mise bene in rilievo le diversità insite nel contesto di relazioni economiche e umane che diversificavano le reazioni di uomini e di donne in rapporto anche alla cura della vita e alla violenza. Vivere insegna, tutto è modificabile con l’economia, la relazione umana, la cultura applicata.
Presso gli Arapesh la scarsità del cibo metteva a rischio l’ovulazione. Maschi bambini, più capaci di lavorare la terra e altro perché di sette, otto anni, venivano sposati a bambine di cinque, perché le alimentassero, assolvendone i genitori. Questi ultimi, e proprio il padre, al primo accoppiamento sessuale dei bambini divenuti dopo anni adolescenti, rinunciava alla copula per sempre, preservando la possibilità di alimentare nel gruppo sociale complessivo i nuovi nati. E molti altri diversissimi esempi parlano delle potenzialità maschili, in molti versi. Possono essere senza regole, i maschi, ma anche molto autoregolati, disumani e umani sia le femmine che i maschi, si tratta di esperienza.
Le Mundugumor, sempre in Mead*, buttano i lattanti sulle spalle: se si tengono ai capelli vivono, se riescono a imboccare il seno dall’alto senza cadere, mangiano; i figli a loro sono di impaccio soltanto. Presso i balinesi, dove lo stupro era completamente inesistente, le madri stimolavano i piccoli sessualmente e smettevano prima dell’apice, al loro piangere li deridevano ripetutamente. I padri li attaccavano al proprio capezzolo come noi al ciuccio, per tenerli buoni. Tra noi chi condivide i carichi domestici con la madre perché lei così educa i maschi, sarà autonomo, e se la moglie lo lascerà continuare a farlo anche rispetto ai figli, questi permarrà capace di lavorare alla cura di tutto quanto si abitua a fare. A meno che non si pretenda da lui di massimizzare i soldi sul lavoro o di utilizzare tutto il tempo abile per conservarsi la possibilità di un posto remunerato.
Se un tempo arcaico vedeva la necessità di uccidere ogni straniero incontrato per la prima volta, per la paura del diverso, questo si faceva. E per difendersi dagli altri che ti imprigionavano e vendevano ai portoghesi che ti portavano schiavo in America, dovevi armarti e unirti ad altri, in Africa, e cercare di fare la stessa cosa a quelli che vivevano nel tuo stesso contesto. La Mead spiega così un passaggio dalla casa matriarcale al formarsi di quella patriarcale in quel luogo: i maschi strinsero legami tra loro per questo commercio e trasferirono in case di uomini il cibo che prendevano dalla casa materna, per solidarizzare. Il crescere di risorse dei maschi ha potuto creare il resto.
Anche la difesa dei propri figli e della madre che li allattava per anni aveva un senso di cura e collaborazione umana per i maschi. L’abbiamo disprezzato nel primo femminismo, come la gravidanza delle madri, per l’insopportabilità delle conseguenze politiche che il potere maschile ci aveva fatto subire. Ma non ci conviene minimizzare l’educazione: anche gli uomini sanno pensare agli altri se ne fanno esercizio.
(*) Molti sono i testi e i filmati, di Margaret Mead menziono Sesso e temperamento, Maschio e femmina, Popoli e Paesi, e il libro di Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente. I filmati di Margaret Mead erano custoditi presso l’Università di Pisa.
Da Altraeconomia – L’hanno definita una mossa storica: il procuratore capo della Corte penale internazionale (Icc), Karim Khan, il 20 maggio, ha chiesto che vengano emessi mandati di arresto per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e quello dell’ala militare, le Brigate Qassam, Mohammed Deif, per crimini di guerra e contro l’umanità, compiuti nell’attacco del 7 ottobre e nella guerra a Gaza.
«È uno sviluppo importantissimo», commenta Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati da Israele dal 1967. «In corso, nel mondo, c’è una rivoluzione culturale e il treno ormai non si ferma». Nello specifico, il procuratore Khan ha accusato i leader di Hamas di sterminio, omicidi, rapimenti, stupri, violenze sessuali, tortura e atti disumani sugli ostaggi. Mentre Netanyahu e Gallant sarebbero responsabili, almeno dall’8 ottobre 2023, di affamare i civili di Gaza come strategia di guerra, di causarne intenzionalmente grandi sofferenze e lesioni al fisico o alla salute, di omicidi e attacchi intenzionali contro la popolazione civile, di sterminio e persecuzione. Abbiamo chiesto ad Albanese un commento.
Relatrice Albanese, che cosa pensa della richiesta avanzata dal procuratore Khan?
È uno sviluppo importantissimo dal punto di vista legale, della giurisprudenza internazionale e della possibilità di fare giustizia per le vittime delle atrocità, che sono state commesse in Israele, a Gaza e speriamo anche nel resto del territorio palestinese occupato negli ultimi anni.
Ma la richiesta di mandati d’arresto non è legata solo a quanto avvenuto il 7 ottobre in Israele e poi a Gaza?
Il procuratore è stato molto chiaro: questi sono i primi capi d’accusa e imputazione che ho individuato – ha detto – ma l’inchiesta è aperta e attiva, e mi riservo di comunicare altri crimini e individuare altre persone per fatti accaduti anche prima del 7 ottobre. E questo è molto importante: ha fatto proprio un riferimento alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove c’è stata un’impennata della violenza dal 7 ottobre in poi. Khan ha ribadito che la Corte esercita la sua giurisdizione penale in tutto lo spazio che comprende Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est e che il suo mandato d’investigazione è in corso e non si limita a Gaza.
D’altronde è dal 2015 che la Corte si doveva pronunciare su quanto avvenuto a Gaza, tanto che lo stesso procuratore è stato accusato finora di un certo immobilismo.
L’investigazione è cominciata nel marzo del 2021 ed è stata aperta dalla precedente procuratrice, Fatou Bensouda, anche se la giurisdizione è stata riconosciuta a partire dal 2014, dopo che nel 2012 la Palestina è stata ammessa alle Nazioni Unite come Stato osservatore. Sì, c’è stato un certo immobilismo del procuratore fino ad oggi e c’erano già una serie di crimini sui quali non ha dato cenno di voler investigare, mandando i suoi investigatori o visitando lui stesso la regione, prima del 7 ottobre. C’erano le colonie che continuavano a essere rafforzate ed espanse, gli arresti arbitrari, incluso di minori, in numeri massicci, le uccisioni extragiudiziali: insomma c’erano una serie di cose che avrebbe potuto fare e, invece, ha peccato di inerzia. E la Corte non è esente da considerazioni politiche, basti guardare che cosa si è scatenato nei suoi confronti nelle ultime 24 ore: una serie di Stati – tra cui chiaramente Israele e gli Stati Uniti, ma anche qualche Stato europeo, membro cioè della Icc – ha contestato le richieste di arresto, «perché Israele è una democrazia». Ma che cosa c’entra che è una democrazia se è incapace e non intenzionata a investigare e perseguire i crimini rilevati dallo Statuto di Roma nel suo territorio?
C’è qualche legame tra quanto lei ha sostenuto nel suo ultimo rapporto, intitolato “Anatomia di un genocidio” e quanto affermato dal procuratore? È stata interpellata?
No. La Corte è indipendente, non ne fa mistero ed è giusto così. Il mio rapporto ha influenzato il dibattito, lo sta influenzando enormemente e non è stato contestato nella sostanza. Sicuramente la Corte conosce ciò che ho scritto. Il procuratore, in un’intervista, ha detto che il genocidio è un crimine che rileva e non ha escluso di investigarlo.
Quali saranno i primissimi passi della Corte?
Ora i giudici della Camera preliminare dovranno verificare se ci sono prove sufficienti e se ci sia una base ragionevole per procedere all’emissione degli ordini di arresto. Nel caso dovessero accogliere le richieste del procuratore, scatterebbe l’obbligo per tutti gli Stati membri dell’Icc, tra cui l’Italia, di arrestare le persone oggetto dei mandati. Una volta arrestati, come avvenne per Slobodan Milošević, verranno portati all’Aja e avranno inizio le udienze.
Quindi, se si verificassero tutti questi passaggi e Netanyahu venisse in Italia, potrebbe essere arrestato? O dovrebbe essere arrestato?
Il mandato d’arresto ha esecuzione immediata e non si prescrive per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. In tal caso l’arresto deve scattare.
Sia Hamas sia Israele, oltre agli Stati Uniti, hanno criticato le richieste del procuratore Khan, contestando, da entrambe le parti, il fatto di essere stati equiparati gli uni agli altri. C’è un’equiparazione, secondo lei?
No, sono argomenti senza alcuna connessione con la realtà, così come dire che Israele è una democrazia e che quindi non può essere accusata. Che cosa diciamo allora del sistema giudiziario di una democrazia che tiene sotto occupazione militare cinque milioni di persone, soggette a un sistema giudiziario totalmente diverso? Non c’è giustizia per i palestinesi ed è per questo che la Corte ha già dichiarato la sua giurisdizione per i territori palestinesi nel 2015.
I soggetti, palestinesi e israeliani, per cui sono stati richiesti mandati di arresto possono essere definiti “criminali di guerra”?
No, prima la Corte deve stabilirlo. Anche se, secondo me, sono già dei criminali.
Tutti?
Assolutamente sì. Secondo me, i membri del gabinetto di guerra israeliano, che hanno ordito e ordinato l’operazione militare a Gaza, sono colpevoli di genocidio e dovrebbero essere investigati per tale crimine.
E per quanto riguarda i leader di Hamas?
Sicuramente quelli delle Brigate Qassam (l’ala militare di Hamas) vanno assolutamente investigati e giudicati per i crimini commessi il 7 ottobre in Israele. Ho qualche perplessità su Ismail Haniyeh, perché lui ha sempre detto che non c’entrava niente e non sapeva niente. Ma non ho elementi sufficienti per commentare questa cosa, evidentemente la Corte ha a disposizione materiale che io non ho e di cui non sono a conoscenza.
Ma è favorevole alla richiesta di mandati di arresto per entrambe le parti?
Assolutamente sì, è quello che ho chiesto fin dall’inizio: mandati di arresto per coloro che hanno ordito e commesso i crimini, anche senza aver voluto, cioè coloro che hanno la responsabilità, perché sono nella catena di comando, per ciò che è successo il 7 ottobre. Poi, se le cose sono sfuggite di mano, questo è un altro problema, ma loro hanno la responsabilità effettiva di quello che è successo e vanno giudicati. Poi sarà la Corte a stabilire se sono dei criminali oppure no.
Qual è la differenza rispetto al Tribunale penale internazionale che venne istituito per l’ex Jugoslavia?
Semplicemente quello è stato un po’ un precursore, nel senso che era un tribunale con un mandato specifico, quello di investigare i crimini che erano stati commessi nel contesto del conflitto, all’indomani dello scioglimento dell’ex Jugoslavia. Quindi era un tribunale speciale, come quello sul genocidio in Ruanda. Questa, invece, è una Corte universale, nata anche sulle fondamenta gettate con quelle esperienze, ma che si applica a tutti i Paesi che ne sono membri e anche ai cittadini di Paesi non membri, che abbiano commesso violazioni nel territorio di uno degli Stati membri. In questo caso, gli israeliani (che non riconoscono la Corte, come russi e statunitensi), ma anche, per esempio, americani, francesi e belgi, che fanno parte dell’esercito israeliano e che hanno commesso crimini o altri, di diverse nazionalità, che possono essersi uniti ad Hamas e aver commesso crimini.
L’ultima mossa del procuratore è stata preceduta di poco da minacce, nemmeno troppo velate, di dodici senatori repubblicani statunitensi, che in una lettera gli hanno sconsigliato di prendere posizione contro Netanyahu e Israele, pena ritorsioni. Anche lei ha ricevuto delle minacce, è vero?
Dico solo che se ne stanno occupando gli organismi competenti.
Sono riconducibili a soggetti italiani?
Non lo so.
Ha paura?
No.
Se l’aspettava?
No, assolutamente. O almeno non mi aspettavo di dover essere preoccupata per la mia sicurezza e per la sicurezza della mia famiglia. Adesso mi rendo conto che è un sistema molto più violento di quanto immaginassi e non solo per queste minacce, ma per quello che vedo succedere a qualsiasi manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese.
La questione palestinese è tornata nelle piazze, i giovani e gli studenti di mezzo mondo chiedono che venga non solo cessata l’offensiva contro Gaza ma che i diritti dei palestinesi siano riconosciuti una volta per tutte. I governi però sembrano andare in senso contrario. Lei è ottimista?
I giovani chiedono che i palestinesi siano liberi, è una cosa meravigliosa: c’è una rivoluzione culturale in corso, che riconosce il colonialismo come non si è mai riconosciuto universalmente prima, che riconosce l’interconnessione tra le lotte, quella per la giustizia ambientale, climatica e le lotte dei popoli del Sud del mondo, che non sono così diverse da quelle nelle nostre società post-democratiche. Io dico che è la lotta contro l’erosione dei diritti che si ritenevano acquisiti. La politica la fa la gente e questo è un momento di grande rinnovamento politico. Ci vorrà ancora un decennio, forse, perché le cose si assestino, ma ormai il treno non si ferma.
Da il manifesto – «È strano veder arrivare condoglianze da tanti paesi, come se Raisi fosse stato un normale presidente regolarmente eletto. L’ambasciata italiana a Teheran ha espresso le sue condoglianze. Capisco la consuetudine politica, ma colpisce che chi dice di sostenere i diritti delle donne iraniane poi esprima dolore per un uomo che le ha oppresse».
Della morte di Raisi e di quanto si muove nella società iraniana abbiamo parlato con un’attivista femminista iraniana, in condizione di anonimato. Attiva fin dal 2006 nel movimento per i diritti delle donne e poi nel movimento verde seguito alle elezioni del 2009, nel 2013 ha partecipato al lancio della campagna sul diritto delle donne a entrare negli stadi per poi diventare attiva nella rete di movimenti femministi mediorientali.
Cosa ha rappresentato Raisi per l’Iran?
Credo sia utile tornare al gennaio 2020, quando fu abbattuto l’aereo ucraino sopra i cieli di Teheran e furono uccise quasi duecento persone. Il regime mentì per due giorni per poi ammettere la responsabilità. È stato un punto di svolta per moltissimi iraniani: eravamo abituati a partecipare alle elezioni e a scegliere tra il male e il peggio, ad avere una piccola finestra di azione e negoziato con il regime. Ma in quel momento abbiamo capito che non era possibile. Abbiamo completamente ignorato le elezioni dell’anno successivo, quando Raisi fu eletto. Fu registrata la più bassa affluenza della storia della Repubblica islamica: il leader supremo Khamenei ci stava dicendo che era lui a decidere, che il presidente era solo una sua marionetta. Le decisioni venivano prese dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie, il braccio del leader supremo. È stato di nuovo chiaro dopo l’uccisione di Mahsa Amini e la rivolta: il controllo del paese è sempre di più nelle mani delle forze militari e del leader supremo.
Molti descrivono Raisi come un presidente debole. È sempre stato così? Il potere concentrato nelle mani di Khamenei e dei pasdaran, a prescindere da chi sia il presidente?
Sono stata attiva nella società civile sotto Khatami, Ahmadinejad, Rouhani e se ora guardo indietro a quegli anni capisco che la strategia del regime è sempre stata quella di creare una sorta di opposizione interna per motivare le persone che si opponevano al regime ad andare a votare. Pensavamo di poter trovare uno spazio in un regime brutale in modo democratico, per migliorare le condizioni dei diritti umani. Con il tempo quella strategia di armonia è diventata obsoleta, il regime si è reso conto che creare un’opposizione interna, come Khatami o Rouhani, generava troppi problemi. Con Raisi la strategia è diventata la voce unica: il regime non vuole una voce più grossa di quella di Khamenei. Non ci sono altre opzioni. In un certo senso è un bene: ora sappiamo che non possono più manipolarci.
Dopo la notizia dell’incidente aereo prima e della morte di Raisi poi, qual è stata la reazione dei cittadini e degli attivisti?
Quando sono sotto una grande pressione, gli iraniani reagiscono con l’umorismo nero. È successo anche il mese scorso con l’attacco israeliano. Siamo onesti, quella di domenica è stata una notte “divertente”, l’umorismo iraniano è da sempre un meccanismo di difesa. Il clima è cambiato il giorno dopo, quando abbiamo saputo della morte di Raisi: sulle piattaforme social la gente ha iniziato a scrivere altro, a ricordare le persone che lui mandò a morire negli anni ’80. Dopo l’ironia, è venuto il momento del ricordo di parenti, amici. C’è chi ha ricordato lo zio, chi il fratello, tutto in forma anonima. Altri di noi hanno ricordato chi è stato ucciso negli ultimi due anni.
Diversi esperti avvertono del pericolo di una nuova ondata repressiva dopo la morte di Raisi, un modo per dire che il regime non ne esce più debole.
È una paura sempre presente, lo abbiamo visto anche nel recente passato dopo l’uccisione del generale Soleimani o dopo calamità che hanno colpito la popolazione. È il regime che ci dice “non è cambiato nulla”. Ora ci troviamo in un periodo di grande oppressione. Se nei mesi successivi alla morte di Mahsa Amini non c’era la polizia morale nelle strade, è tornata in contemporanea alle nuove minacce israeliane. Il regime voleva mostrare che nulla era cambiato. Come donna non uscivo molto se non in auto, temevo di essere arrestata. Ma l’oppressione la vedi anche altrove, nella vita di tutti i giorni a causa dell’aumento dei prezzi di beni necessari.
A fine giugno si terranno le elezioni. Cosa vi aspettate?
È un lasso di tempo molto breve e tra gli uomini del regime non ce ne sono molti che possono fare il presidente. In ogni caso alla gente non importa. Ho quarant’anni e ho visto tante elezioni, ma mai un’affluenza così bassa. Alle ultime, a marzo, non c’erano nemmeno tanti manifesti per strada. Perché il regime lo sa che alla gente non importa più. È uno spettacolo già scritto.
Si aspetta nuove proteste in futuro?
Basta esprimere una minima forma di dissenso, anche solo un tweet, per essere arrestati. In questi giorni chi ha scritto commenti sulla morte di Raisi è stato convocato in tribunale. La sollevazione di due anni fa è stata come l’esplosione di un vulcano, oggi è un fuoco che brucia sotto la cenere. Non vedo molti elementi per una rivolta nell’immediato, ma è anche vero che l’arrivo dell’estate può provocare nuove proteste, soprattutto nelle province meridionali per la mancanza d’acqua e di elettricità come accaduto in passato. A Teheran sarà più difficile: siamo davvero esausti e moltissimi giovani hanno ancora casi pendenti, sono fuori su cauzione, stanno scommettendo sulle proprie vite.
Da Corriere della Sera – Essere giovani oggi è tremendo. Perché sei senza punti di riferimento.
Cosa intende, Ultimo?
Non conosco nessun ragazzo della mia età che vada a votare, e nessuno che vada in chiesa.
Forse c’è un legame tra le due cose. Lei cosa vota?
Io non ho mai votato in vita mia. Non dico sia giusto. Non me ne vanto, non me ne vergogno. Certo non è colpa dei giovani.
Di chi allora?
Della politica. La politica è scarsa. Non parla ai ragazzi e non ci prova neppure. Non parla a me che ho ventott’anni; figuriamoci a un diciottenne. Siamo stufi di questa spaccatura tra destra e sinistra. Immagini quale effetto avrebbe un politico che dicesse: io non scelgo né la destra né la sinistra. Scelgo l’alto.
Destra e sinistra esistono. Da sempre.
Sono contrapposizioni che hanno stancato. Fascisti e comunisti: i giovani non ne possono più. Cos’è la sinistra? L’ipocrisia del buonismo? Cos’è la destra? Il cattivismo di chi chiude i porti a coloro che muoiono in mare?
Lei come la pensa?
«Sono temi complessi, non mi piace chiuderli in tre righe, ma nemmeno nascondere quello che penso. L’immigrazione esiste da sempre e tutti siamo immigrati di qualcuno: nascere a Roma anziché a Bamako, dove con Unicef ho visto di persona come si vive, non è talento, è culo; chi nasce in zona di guerra e di terrorismo ha diritto a vivere la propria vita altrove. Questo è di sinistra?
Così dicono.
Ma per fare un altro esempio, se sono in casa con la mia ragazza, la mia famiglia, ed entra un criminale, io per difendere la mia ragazza, la mia famiglia, gli sparo. Questo è di destra?
La vedo bellicoso.
Ma no, non ho neppure la pistola, non ci penso neanche. E legalizzare le droghe leggere? È di destra o sinistra? Io non capisco perché uno può scolarsi una bottiglia di whisky fino a morirne, e un altro non può farsi una canna in pace.
Non so se la Schlein sarebbe d’accordo.
Boh, sa che io a volte fatico a capire di cosa parla?
La Meloni rivendica di essere una donna del popolo, di borgata.
Forse è per questo che è la più votata? Ma non sento nessuno, neppure la Meloni, affrontare quello che sta a cuore ai giovani. Non vedo politici in strada, nei bar, tra la gente. In tv non c’è una buona notizia. Guerre. Bombe. Su X già annunciano la prossima pandemia. Ma ci rendiamo conto di quale trauma sia stato per i ragazzi la pandemia?
Lei come l’ha passata?
A scrivere canzoni. Ho dovuto rinunciare a un tour con quindici stadi già organizzato. Ma per carità, so benissimo che per altri è stato molto peggio. C’è una generazione che non ha fatto il viaggio della maturità, che si è vista bloccata in casa al momento di spiccare il volo, che ha perso per sempre opportunità che non tornano.
Parlare di salute mentale non è più tabù. Lei ha sempre la psicoterapeuta?
Certo. Troppi ragazzi passano dieci, dodici ore al giorno a scrollare video su TikTok. I social ti anestetizzano. Ti stuprano il cervello.
Lei su Instagram ha 3 milioni e 600 mila follower.
Nei social siamo dentro tutti. Ma un conto è postare una foto; un altro passarci la giornata. Qualche volta ci casco pure io; figurarsi un dodicenne. Guardi il video di uno che cucina, il video di uno che cade dal terzo piano, il video sulla tua squadra preferita, il video sul tuo cantante, il video di uno che cade in bicicletta… Ti dà dipendenza. Ci stiamo addormentando. Stiamo diventando amebe.
La vita virtuale prevale su quella reale?
Non lo so, ma vedo che la gente non esce più di casa. Per strada ha paura, in periferia e non solo. I giovani sono anestetizzati. Fermi. Aspettano un domani che non arriva e non arriverà. Postano cose che non hanno. Mangiano a casa ma fingono di essere al ristorante.
Per cambiare la politica bisognerebbe farla.
Ma i cantautori fanno politica. Io nel mio piccolo penso di fare politica con le mie canzoni. «Dalla parte degli ultimi per sentirmi primo» è un verso politico. “Alba”, credo sia una canzone politica: parla dell’interiorità, dell’idea di superare se stessi. Un medico che lavora nel privato e il sabato va negli ospedali a curare i malati gratis fa politica. Come un medico che va in zona di guerra a curare i feriti. Ognuno deve fare politica con i propri mezzi e conoscenze. Certo, la politica conta fino a un certo punto.
Cosa intende?
Credo non sia Biden a comandare. Biden è un interlocutore tra la gente e quelli che comandano davvero.
Chi sono?
I padroni del Mercato. I giganti del commercio digitale. Quelli che non pagano le tasse: un menefreghismo vergognoso. Lo Stato perseguita l’idraulico che ha evaso venti euro, e si disinteressa di quelli dei paradisi fiscali. Chi ha di più deve dare di più. Invece abbiamo costruito un mondo in cui più sei ricco, meno paghi. Un mondo al contrario.
Qui siamo a Vannacci.
Vannacci è incommentabile.
Cos’altro non le piace della politica?
Mi sembra che si stia esagerando con il globalismo. La bellezza è nel fatto che siamo diversi. Io sono diverso da un cinese. Non sopra, né sotto; diverso. La diversità va difesa, non strumentalizzata dalla politica.
Nelle università molti studenti si impegnano per la Palestina.
La guerra è sempre sbagliata, certo. Io sono del 1996, sono nato con la guerra, i miei primi ricordi sono legati alla guerra in Iraq, la mia generazione è cresciuta vedendo bombe alla televisione. Non impugno la bandiera palestinese come non impugno quella di Israele, perché non è una partita di calcio.
E in chiesa ci va?
Da piccolo ci andavo. Crescendo diventi più realista.
Crede in Dio?
Sono sempre alla ricerca. Ho bisogno di credere, sento una grande fede dentro. Ma un conto è credere in un dio, in un’entità, nelle energie; e io credo nelle energie, in quelle che Jung chiamava le sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto. Un altro conto è credere nella Chiesa.
Papa Francesco?
Lo ascolto quando invoca la fine delle guerre. Condivido, ovviamente. Non so se il Papa possa fare di più, certo non può andare al confine di Gaza. Sinceramente, non mi pare che neppure lui sia un punto di riferimento per i giovani. Ne conosco pochi che si dicono cristiani. Anche se in realtà lo siamo.
Lo diceva Benedetto Croce.
Se sei fidanzato e tradisci, ti senti in colpa: e questo ti viene dalla cultura cristiana. Come l’attaccamento alla famiglia. Ma se ti rivolgi alla Chiesa per trovare un senso alle cose, puoi restarne deluso.
Perché?
Noi proviamo a dare un senso alle cose. Ma la realtà non è sensata. La realtà è tremenda. È schifosa. Guerra, paura, sottomissione, chiusura: stai attento a quello, non fare quell’altro. Per questo ci costruiamo un altrove.
[…]
(Corriere della Sera, 12 maggio 2024, apparso con il titolo Ultimo: «Non conosco coetanei che votino o vadano in chiesa. Essere giovani è tremendo»)
Da Pagine Esteri – Due anni fa, l’11 maggio 2022, veniva assassinata la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh. Si trovava nel campo profughi palestinese di Jenin per raccontare uno dei tanti raid dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata. È stata uccisa da un proiettile che l’ha colpita alla testa nonostante la scritta PRESS fosse chiaramente visibile su casco e giubbotto di sicurezza.
Tra le altre, un’indagine dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha concluso senza dubbio che il colpo è stato sparato da un soldato israeliano. Le immagini dell’esercito che carica e colpisce i palestinesi che portano sulle spalle la bara di Shireen, durante il suo funerale, hanno fatto il giro del mondo, suscitando sdegno e disapprovazione.
Dopo aver tentato di incolpare i palestinesi per l’accaduto, Israele ha definito la sua morte un “incidente” e si è rifiutato di aprire un’indagine penale.
Palestinese con doppia cittadinanza statunitense, Shireen Abu Akleh era una giornalista molto conosciuta, di grande esperienza ed estremamente apprezzata. In Cisgiordania sono decine i murales che la ritraggono e i luoghi dedicati alla sua memoria, presenti anche in molti altri Paesi del mondo. È diventata un simbolo di coraggio e di libertà non solo per i giornalisti ma per tante persone che hanno conosciuto la sua storia e ne hanno apprezzato il lavoro. Nel campo profughi di Jenin, nel punto in cui è stata uccisa si ergeva un memoriale che l’esercito israeliano ha distrutto in un raid nello scorso mese di ottobre, insieme alle strade del campo profughi e alla rete idrica.
Dopo la sua morte gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele un’inchiesta sull’accaduto. Proprio come decine di volte è accaduto in questi setti mesi di guerra a Gaza. Quando Tel Aviv ha dichiarato che si è trattato di un “incidente” e che non avrebbe indagato oltre, Washington si è detto soddisfatto e ha chiuso la questione senza domandare un’inchiesta indipendente: per gli Stati Uniti Israele ha istituzioni che gli permettono di indagare su se stesso. Seguendo questa convinzione l’amministrazione Biden si è detta contraria anche al coinvolgimento della Corte Penale Internazionale.
In realtà varie associazioni per i diritti umani, anche israeliane hanno ormai da tempo testimoniato con dati e relazioni precise che molto raramente Israele persegue i propri soldati.
«Sono passati due anni da quando l’esercito israeliano ha ucciso una dei giornalisti palestinesi più emblematici della regione» ha scritto venerdì 10 maggio Reporter senza frontiere. «Due anni dopo l’omicidio di Shireen Abu Akleh in Cisgiordania e un anno dopo le scuse ufficiali di Israele che ha riconosciuto la sua responsabilità, si aspetta ancora che venga fatta giustizia. Reporter senza frontiere (RSF) condanna questa impunità e invita la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, a fare pressione sull’esercito israeliano per rispondere dell’uccisione di Abu Akleh».
Più di cento giornalisti sono stati uccisi nella Striscia di Gaza in sette mesi di guerra. Un numero altissimo, che rende il conflitto in corso il più letale della storia per i reporter. Fino a questo momento, tuttavia, Israele gode della stessa impunità di cui si è avvalso per l’omicidio di Shireen. Il governo Netanyahu ha inoltre attaccato il network Al Jazeera, chiudendo le sue trasmissioni, gli uffici, sequestrando computer, apparecchiature e oscurandone i siti web.
«“Protezione” è la risposta enfatica dei giornalisti di Gaza quando gli viene chiesto da RSF di cosa hanno più bisogno oggi. Hanno vissuto in costante terrore dal 7 ottobre, contando la morte di persone care e colleghi. Secondo il conteggio di RSF, almeno 105 sono stati finora uccisi da attacchi aerei israeliani, razzi e spari, di cui almeno 22 nel corso del loro lavoro.
Nonostante le ripetute richieste da parte delle Ong, tra cui RSF, per l’apertura del valico di frontiera di Rafah, solo i giornalisti incorporati nelle forze di difesa israeliane sono stati in grado di entrare a Gaza e si limitano a coprire le aree consentite dall’esercito. Nel frattempo, Israele ha permesso solo a una manciata di giornalisti di Gaza di essere evacuati».
(Pagine Esteri, 11 maggio 2024)
Da il manifesto, Alias – Chi ama e ha amato il lavoro di Francesca Woodman sa che quella ricerca pulsa intorno a una disparizione di sé: paradossalmente proprio nel suo autoritrarsi ossessivamente attraverso il mezzo fotografico l’artista pareva quasi sempre eludere quest’ultimo, e ritrarsi dal suo mortifero incantesimo – peculiarità della fotografia, il legame fotografia-morte, così accoratamente individuato da Roland Barthes nella Chambre claire. Gran parte del fascino enigmatico esercitato dal lavoro della Woodman risiede appunto in una sorta di continua e baluginante oscillazione tra offuscamento ed evidenza, che scandisce quelle sue fotografie in fondo alle quali era usa, mostrandosi, nascondersi, mai rivelarsi, pur dandosi, allo stesso modo in cui il corpo suo si dissimulava nell’incastro tra gli oggetti e gli ambienti.
Nonostante la tentazione di connettere intimamente arte e vita della Woodman – chi non ha mai anche solo sospettato, a una lettura postuma, che dietro quelle messe in scena da cui tracimavano sensazioni di perdita, di desiderio, di costrizione del corpo, di un camuffarsi esistenziale nel mondo, non si celassero sinistri presagi? –, va ribadito che l’artista tenne sempre separate le proprie nature identitarie: quasi mai appare come persona nei suoi autoritratti – sempre velata, mascherata, la testa girata, nascosta, esclusa dalla fotografia, fuori fuoco –, dove appare invece come modella di se stessa, la modella più complice e affidabile che potesse trovare per comprendere ed eseguire le proprie istruzioni di artista, e questo è stato letto, per esempio da Rosalind Krauss in anni recenti, in relazione a un metodo operativo che voleva essere formalistico, non interessato alla narratività, né tanto meno espressionistico.
È la disparizione che strega letteralmente Bertrand Schefer, autore del volumetto Francesca Woodman ora tradotto da Johan & Levi (pp. 68, euro 14,00). Il filosofo e romanziere francese e l’artista americana si incontrano idealmente nel 1999, quando lei era già morta da diciotto anni, toltasi la vita all’età di ventuno, e lui, già traduttore in francese di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, si trovava alla Fondation Cartier pour l’art contemporain per iniziare un lavoro nel settore editoriale. Gli mostrarono allora, a scopo esemplificativo, il catalogo di una mostra sulla Woodman da loro appena pubblicato. Schefer ne rimase estremamente colpito, forse inizialmente disturbato, ma fu l’innesco di un’ossessione dai risvolti personali che, anni dopo, verrà attizzata e intensificata dalla visione di alcune fotografie amatoriali scattate alla Woodman da un compagno di corso durante i tempi della Rhode Island School of Design.
Schefer inizia proprio da tali immagini un’indagine dai toni a tratti intimi, alla ricerca di quella Woodman più autentica – la ragazza americana adolescente, che cercava di affermarsi come artista, senza sacrificare la sua genialità alla costruzione della carriera, opportunisticamente, e per questo forse rimasta ai margini –, che in anni e anni di rimuginio sul suo lavoro era rimasta per Schefer, per noi tutti, una figura necessariamente evanescente e indeterminabile. Per quanto possa sembrare opinabile questa posizione dello scrittore, che appare ribaltare il senso di lettura della vita e dell’opera della Woodman, spostando l’interesse del proprio racconto su quell’aspetto estremamente privato che lei aveva teso a obliterare, il suo libro nasce da qui.
Rimarrà quindi profondamente deluso il lettore che cerchi un’esaustiva biografia dell’artista americana, o una dotta sistematizzazione storica e critica, poiché il libro di Schefer si propone piuttosto come un racconto letterario e affettivo, a tratti poetico, forse cinematografico nel ritmo, che vuole essere «une sorte de dialogue entre elle et moi», e che risuona dell’urgenza di un atto d’amore – un amore impossibile, come quelli tra uomini e fantasmi.
Il libro ben si inserisce in prospettiva con le altre produzioni di Schefer, dotto traduttore dall’italiano, sì, eppure anche autore di riflessioni ellittiche sospese tra racconto autobiografico, saggio e poesia in prosa, in cui entra spesso e volentieri la riflessione sul mezzo fotografico, e che prendono la forma ora di intime meditazioni sul ricordo di una persona scomparsa, amata e mai nominata (Cérémonie, 2012), ora di un processo di ricomposizione della figura della madre, e della propria esistenza, innescato proprio da una fotografia vista da bambino, e ricordata (La photo au-dessus du lit, 2014), ora di un ennesimo svolgimento sul tema della relazione tra immagini e parola, teso a definire il filmare la disparizione come elemento motore del cinema (Disparitions, 2020).
La Woodman pure, d’altra parte, mostrava interesse per il rapporto fotografia-scrittura. Alcuni suoi scatti erano corredati di brevi frasi, per non parlare dei quaderni fotografici, sulla scia del misterioso Nadja di André Breton, libro che il vate del surrealismo aveva composto con testo e immagini associati, a restituire il ricordo e l’essenza di una donna amata, svanita, e di se stesso insieme: «Vorrei che le parole avessero con le mie immagini lo stesso rapporto che le fotografie hanno con il testo in Nadja di André Breton – enunciava la Woodman in una dichiarazione riportata da Roberta Valtorta –. Egli coglie tutte le illusioni e i dettagli enigmatici di alcune istantanee abbastanza ordinarie e ne elabora delle storie. Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza». E Nadja aleggia anche tra i convitati di pietra, assenti eppure mai eludibili, che infestano la poetica di Schefer: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio, in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto», attaccava del resto Breton il suo libro. Va insieme al Barthes che cerca in fondo alle fotografie la madre scomparsa.
«You cannot see me from where I look at myself», scriveva Francesca sul suo diario, frase citata nel libro e associata al primo, potentissimo quanto inconsapevole, autoscatto realizzato a tredici anni con la Yashica appena regalatale: si direbbe quasi che Schefer l’abbia presa come una sfida personale.