Da Radio Popolare

La Libreria delle donne compie 50 anni nel 2025. Parliamo con Vita Cosentino e Laura Giordano della storia di questo luogo, dei gruppi, di alcune delle iniziative per l’anniversario. A seguire, una nuova puntata dedicata alla nostra rubrica su educazione sessuale e affettiva: Elena Lolli presenta la Tabooteca di Bologna e Nicoletta Landi parla del suo lavoro di formatrice e del suo libro “Il piacere non è nel programma di Scienze! Educare alla sessualità oggi, in Italia”.

Sui Generis | 31 gennaio 2025

da L’Eco di Bergamo

Nata nel 1975 con un antesignano “fundraising”, la libreria raccoglie libri di scrittrici e offre uno spazio di riflessione femminista. Generazioni diverse discutono di parità, violenza e educazione, promuovendo un pensiero critico e la rete tra donne

È sabato pomeriggio, sono a Milano, in via Pietro Calvi 29, vicino a piazza Cinque Giornate. L’insegna è in una via defilata, ma non sfugge allo sguardo dei passanti più attenti: «Libreria delle donne». Lì incontro le protagoniste che mi invitano ad unirmi a loro in una foto all’esterno della libreria. La storia di quel luogo è iniziata molto tempo fa, in una via diversa del capoluogo meneghino: via Dogana 2. Sono passati cinquant’anni dall’ottobre del 1975, quando ha aperto i battenti, la “Libreria delle donne”. Il resto me lo hanno raccontato le femministe, alcune che in quell’ottobre di cinquant’anni fa erano lì, chi è arrivata qualche anno dopo e chi da poco si è unita al gruppo.

Lia Cigarini, Giordana Masotto, Traudel Sattler, Laura Minguzzi, Silvia Baratella, Laura Colombo e Daniela Santoro… Mi invitano a entrare e non appena mi guardo intorno, sono circondata da libri. Che è normale, trovandosi in libreria. Con la sola differenza che le autrici sono solo donne: su uno dei ripiani di fronte alla porta ci sono esposti i testi di Dacia Maraini, Sally Rooney, Sylvia Beach, Arianna Farinelli.

Sedute in gruppo, in quell’ambiente caldo e famigliare, prende la parola Lia Cigarini, avvocata milanese e femminista tra le storiche a dare il via a quella rivoluzionaria e coraggiosa scelta di aprire una libreria per donne. «Abbiamo ricevuto un invito a prender parte a un incontro in Normandia, era un periodo di festività politica – racconta Cigarini – Quel gruppo di donne ci aveva colpito e siamo state prese da un grande entusiasmo, ispirate dal fatto che loro avevano già aperto una libreria». Si riferisce alle femministe della “Librairie des Femmes” di Parigi, a cui il gruppo milanese si è ispirato. Si sono dovute dotare di una formula, per l’epoca rivoluzionaria, una sorta di “fundraising” dei tempi: erano quindici socie riunite nella cooperativa Sibilla Aleramo.

«Non c’era un modello del genere in Italia – raccontano – aperto sulla strada, dove potevi trovare pubblicazioni di donne». Era una novità, e come tale generò uno shock sulla scena editoriale. «Fece rumore– dicevano generando un sovrapporsi di voci che riproponeva l’energia e la grinta di quando qualcosa di bello sta per nascere –. Era una bomba dal punto di vista editoriale e poi nelle librerie era una rarità trovare libri di sole donne. I quotidiani ne parlavano molto, naturalmente, e le aziende editoriali ci facevano templi d’oro, ogni settimana arrivavano con proposte».

Uno scatto della libreria

Tutto questo accade nel cuore della seconda ondata femminista, dove il panorama – spiega Giordana Masotto, anche lei tra le fondatrici insieme a Luisa Muraro ed Elena Medi – «era di un femminismo caratterizzato dalla pratica di autocoscienza, che nasceva all’interno delle case, e poi veniva portato al di fuori durante gli incontri dove si produceva pensiero, scrittura, pratica politica». La Libreria è diventata fondamentale perché ha dato alle donne uno spazio, ha fornito gli strumenti per stare nei luoghi misti ed è diventata punto di riferimento per la società milaneseoltre che ispirazione dentro e fuori i confini della Penisola.

«Voler far incontrare la creatività di alcune con la volontà di liberazione di tutte» recitava il manifesto di apertura, infatti parte dei finanziamenti erano arrivati anche grazie alla vendita di cartelle di opere d’arte realizzate da artiste di rilievo (alcune opere sono ancora appese in Libreria, ndr) coordinate da Lea Vergine.

Era il 1982 quando Traudel Sattler si avvicina alla Libreria e tratteggia quegli anni con un clima di frenesia: «In Germania, il femminismo era quello delle rivendicazioni, delle manifestazioni di piazza per la parità dei diritti e le consigliere della parità erano ovunque». Traudel parla di volontà da parte delle donne di “uscire dal safe-space e di sessualizzare i rapporti sociali”, nel senso di far emergere il fatto di essere donna in ogni contesto della società. «Questo ha scatenato un’attività frenetica tra le insegnanti, le filosofe, le scienziate, e le storiche. Fior fiori di libri vennero pubblicati mentre la stampa mainstream titolava “il femminismo è morto” perché non vedeva più le manifestazioni di piazza, ma in realtà la produzione proliferava».

Da sinistra Giorgia Basch, Giordana Masotto e Laura Colombo
Da sinistra Giorgia Basch, Giordana Masotto e Laura Colombo

È proprio alle donne della Libreria che chiediamo di darci delle dritte, di illuminarci, forti della loro attività di studio e dell’esperienza, su alcuni temi che sono ancora oggi oggetto di discussione.

Pari… ma pari a chi?

La scintilla dell’epoca era creare un movimento che fosse contro la parità di genere. In che senso? «La parità – spiega Laura Colombo, che appartiene alla generazione successiva di femministe arriva in Libreria verso la fine dello scorso millennio – presuppone che entri nel mondo con una misura già data, che è quella maschile. Tutto è modellato, al lavoro, in famiglia, tra le donne stesse, da un simbolico che è maschile. E quindi se devi essere pari lo devi essere a chi? A un uomo».

Fare rete non ha scadenza

È uno strumento di cui sempre più aziende si stanno dotando, ed è la certificazione della Parità di genere. Ma è davvero lì che si giocano le pari opportunità tra uomo e donna? Ci spiegano che si tratta di concessioni calate dall’alto che, nel caso specifico, sta ad indicare quante donne ricoprono ruoli dirigenziali. È però una misura di policy che non ha garanzia di durata. Un esempio: è sufficiente un cambio di governo, e con esso vengono spazzate vie anche tutte le politiche sulla diversity.

L’incontro di sabato 22 febbraio
L’incontro di sabato 22 febbraio

In questo ci aiuta a comprendere meglio cosa davvero porterebbe al cambiamento la sindacalista Michela Spera: «Una pari opportunità la si identifica con l’espressione della soggettività – dice –. Quando le relazioni tra donne permettono di esprimersi, poter contare sulle altre, riconoscersi e sentirsi valorizzate in una misura che non è quella degli uomini, altrimenti si rincorrono comportamenti che estraniano la donna dalla sua soggettività». Il contesto cambia, per davvero, solo se si dà alle donne la possibilità di esprimersi secondo il loro sistema di valori. Le donne devono fare rete. «Negli anni sono sempre venuta in Libreria per poter attingere il pensiero e portare la pratica politica in altri luoghi, per avere la possibilità di stare nei luoghi misti con qualche strumento», aggiunge Spera.

Bambine e bambini vanno educati alla parità di genere?

La risposta è no. Non ha alcun senso e questo è in parte dipeso dal fatto che il ruolo della donna è molto cambiato negli anni. Le bambine prendono le madri come modello. E le ragazze «anche se non hanno una madre femminista, hanno una madre segnata dal femminismo» dicono le intervistate. Il ruolo che la scuola ha nell’educazione sia dei maschi che delle femmine gioca invece un ruolo importante: possiamo pensare che il problema sia solo per le figlie femmine invece ci sono fenomeni che riguardano anche gli adolescenti maschi. Daniela Santoro, classe 1999, incarna la nuova generazione al fianco delle Libraie femministe e pone l’accento su un problema meno risentito: «Un aspetto che riscontro a scuola, ma anche in università o al lavoro, è la mancanza di soggettività dei ragazzi e delle ragazze sotto le pressioni di standard sociali che appiattiscono e livellano le peculiarità del singolo. Lo standard invece è il singolo. – dice –. Questo si espande a macchia d’olio sui ragazzi adolescenti maschi che sono sempre più fragili, e proprio perché lo standard impone che “non devi essere fragile” loro soffrono il doppio».

Il patriarcato è finito?

«Questa crisi dei maschi ha molto a che fare – aggiunge Laura Colombo – con la rivoluzione femminista che ha sovvertito l’ordine simbolico: il patriarcato come lo conoscevamo cinquant’anni fa non c’è più». E questa è, senza dubbio, una vittoria del femminismo. «Esiste una libertà femminile iscritta nell’ordine simbolico, sono saltati dei cardini». Il concetto è quello del caos post-patriarcale, dove d’altro canto, sono gli uomini, i padri ad aver perso dei riferimenti chiave e di conseguenza è più difficile per i maschi adolescenti orientarsi in un sistema dove è diventata la madre il punto di riferimento.

Il linguaggio della violenza

I media hanno una grande responsabilità quando scrivono di casi di violenza sulle donne o di femminicidio. «La necessità è quella di risemantizzare il discorso sulla violenza, come viene “pubblicizzata”». La descrizione ricca di particolari, minuzie, quasi fosse un’inquisizione si trasforma in pornografia della violenza invece che in dovere di informazione. «In un mondo in cui la pornografia è resa sempre più accessibile e ad età sempre minori – spiega Santoro – si alza la soglia della violenza e non si genera altro che una doppia vittimizzazione della vittima dando l’idea di quale è lo standard della violenza». La conseguenza, quindi, è che dal momento in cui si “devia” dallo standard che viene identificato allora cominciano le domande come “Ma come era vestita?”, o i commenti “Forse se l’è cercata”, fino ai dubbi “Ma si è trattato davvero di violenza?”.

Quanto spesso leggiamo titoli come “Donna violentata da un uomo”, e mai il contrario, “Uomo violenta una donna”. L’oggetto della comunicazione è sempre la donna violentata e non l’uomo che ha commesso la violenza. «Noi la percepiamo come paziente dell’azione, la protagonista c’è ma non si vede e questo provoca una seconda vittimizzazione», conclude Santoro.

Per quanto riguarda il futuro della Libreria, mi dicono, «è un eterno presente, una relazione senza fine. Non c’è mai stato l’intento di agire per obiettivi o di creare una società ideale, ma sempre una compresenza di generazioni, e un via vai di donne».

Pratiche politiche contro la guerra”, incontro tenuto alla Libreria delle donne il 1° marzo 2025 con Clelia Pallotta e Daniela Dioguardi, prendendo spunto dal libro “Corpi e parole di donne per la pace” a cura di Mariella Pasinati, Navarra editore, 2024.

Ai primi di aprile del 2022, qualche settimana dopo l’inizio delle “operazioni speciali” russe in Ucraina, su uno spunto venuto dall’Unione Donne in Italia, la Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UdiPalermo dava inizio ad un Presidio permanente per la pace a cui si unirono altri gruppi di donne palermitane (Le Rose Bianche, Donne CGIL, Coordinamento Donne ANPI, Emily, Donne Caffè filosofico Bonetti, Fidapa Palermo Felicissima, Il femminile è politico. Governo di lei, Donne no Muos no War, CIF, Le Onde, Arcilesbica). Nel primo anno il presidio si è tenuto tutte le settimane, poi dal febbraio 2023 una volta al mese, il 24. Gli incontri avvengono alla Statua, cioè davanti al monumento dei caduti che come in ogni città celebra i morti nelle guerre, il loro eroismo e il sacrificio per la Patria. Un luogo simbolico dunque, da cui mostrare l’assurdità della guerra e la necessità di espellerla dalla storia umana: «Fuori la guerra dalla storia». Questa frase, ripresa da Bertha von Suttner e adottata dal presidio, è una parola d’ordine fatta propria da tutto il movimento femminista, in tutte le sue declinazioni; e poi «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» lo dice l’articolo 11 della Costituzione, per salvare «le future generazioni dal flagello della guerra» ammonisce il preambolo della Carta costitutiva delle Nazioni Unite. E nel loro pezzo, in questo libro, che ha titolo Un cambio di sguardo per rendere impensabile la guerra, Daniela Dioguardi e Anna Marrone raccontano di uno striscione portato alla grande manifestazione a Palermo del 24 febbraio 2023, a un anno dall’inizio della guerra, da un gruppo di studenti arrivate/i numerosissimi, grazie anche all’intenso lavoro fatto con le scuole di Palermo dalle promotrici del presidio: «Per favore non fate più guerre, non vogliamo studiarle più», con ironia hanno affermato una verità condivisa da gran parte dell’umanità più giovane, almeno in quella parte del mondo in cui ci sono scuole e condizioni per frequentarle.

Questo libro, curato da Mariella Pasinati, testimonia dunque l’esperienza del presidio permanente per la pace di Palermo. Oltre all’introduzione della curatrice, raccoglie dieci testi prodotti da dodici autrici per seminari e incontri organizzati nella Biblioteca delle donne o come articoli. Quattro sono stati pubblicati sulla rivista Il Segno nei primi mesi, per informare e riflettere sulla guerra e sulla pace, anche richiamando il pensiero e le opere di pensatrici, filosofe, donne che hanno cercato di trovare parole e pratiche per dare forma e contenuto a «un rifiuto sessuato della guerra».

E nei saggi di queste pagine entriamo in contatto, attraverso le autrici, con Svetlana Aleksiević, Judith Butler, Agnes Heller, Vandana Shiva e con Maria Luisa Boccia presente ad un seminario con il suo libro Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista. La seconda parte del volume ospita i cinquantacinque volantini prodotti per ogni appuntamento del presidio, fino al 24 febbraio 2024, quando i testi sono stati chiusi per la composizione e la stampa del libro. Nei volantini si parla via via degli avvenimenti che si susseguono nel tempo, riflessioni in tempo reale e a caldo sugli scenari vecchi e nuovi delle guerre. Anche di quelle guerre che le donne si trovano a vivere nella loro vita quotidiana (Giulia Cecchettin).     

Le guerre comunque nella storia umana non sono mai cessate, nemmeno dopo Auschwitz e Hiroshima, i due nomi che hanno simboleggiato e dovrebbero simboleggiare ancora l’orrore e l’impossibilità di altre guerre, in teoria, perché in pratica secondo Oxfam dopo la seconda guerra mondiale, anche se nel mondo il numero totale dei morti per cause belliche è diminuito, il numero dei conflitti armati non è mai sceso sotto il centinaio. Anche adesso ci sono almeno un centinaio di conflitti armati in giro per il globo, di alcuni non sappiamo quasi niente, altri sono più o meno documentati e segnalati dai media nazionali o internazionali, altri soprattutto se coinvolgono in qualche modo i paesi occidentali hanno l’onore quotidiano delle cronache e portano scompiglio e lutto nelle nostre giornate e nei nostri cuori.

Certo non tutte le guerre sono della stessa entità e dello stesso tipo, ce n’è di grandi e di piccole, agite da eserciti o da gruppi irregolari, ad alta e a bassa intensità, endemiche e lampo, mondiali, regionali o    locali, simmetriche e asimmetriche, convenzionali, e poi le devastanti e famigerate guerre non convenzionali; ci sono poi le definizioni retoriche legate alle occasioni imperiali che a seconda del bisogno comunicativo e didattico nominano la guerra giusta o la guerra preventiva, la guerra umanitaria (che porta libertà, democrazia e progresso, cioè consumo) o la guerra per le donne; la guerra etica o la guerra per la pace. Esiste tutto un universo verbale, gerarchico, classificatorio, tipologico che distingue e sistema secondo una logica ordinatrice questa passione maschile organizzata per l’assassinio e per la distruzione, motivata nella maggior parte dei casi con argomenti umanitari e altruistici, ma che nella stragrande maggioranza dei casi è prodotta da progetti di espansione territoriale, di predominio commerciale, di accaparramento di risorse preziose e limitate, come il petrolio, il gas, l’ acqua, le terre fertili e le terre rare, minerali preziosi e indispensabili per la produzione di tecnologia avanzata. Da intenti predatori, in sostanza.

È impressionante consultare Wikipedia con la parola guerra, si apre un territorio sterminato di racconti e approfondimenti che si ramificano in tutte le discipline dello scibile umano, dall’economia alla filosofia, dall’alimentazione alle canzoni, dall’abbigliamento al linguaggio, una bibliografia sterminata, la declinazione dell’argomento ha occupato il tempo e la fatica emotiva e intellettuale di milioni e milioni di persone nel corso dei secoli, con una forte intensificazione a partire dalla metà dell’800. Voci favorevoli, soprattutto di uomini, e voci avverse, soprattutto di donne. Ma l’essenziale rispetto alla guerra nella sostanza non è mutato, anzi le tecnologie applicate alle armi, la globalizzazione del capitalismo liberista, l’enorme potere delle aziende che producono strumenti bellici hanno peggiorato e non di poco le cose. I civili, le donne, i bambini e le bambine, le persone anziane sono direttamente esposte e inermi davanti alla distruzione e alla morte, come vediamo tutti i giorni dai resoconti approssimativi e spesso menzogneri che trapelano dai media.

Come donna pacifista mi schiero con le vittime a prescindere da etnie, religioni, posizioni politiche, lavoro tra me e me e nelle mie relazioni per mantenere una posizione empatica e non polarizzata sulle cose. Ho una storia, ho una visione del mondo maturata nell’esperienza, ho un modo di amare le persone e il mondo. Però sono capace di pensare ai torti e alle ragioni, alla forza e alla debolezza, alla giustizia e all’ingiustizia da cui consegue la crudeltà della guerra. C’è un prima da cui origina l’orribile sequenza della guerra, e voglio pensarlo, indagarlo, giudicarlo secondo la mia visione e la mia esperienza, che compongono un frammento della verità delle cose. Però non mi schiero davanti alla morte e al dolore, al terrore dei bambini e allo scempio delle loro morti. Al dolore delle madri, al peso per le donne, alla distruzione dei luoghi della vita. Le donne perdono anche le guerre che per gli uomini sono vinte. Nelle guerre le donne (che hanno la potenza di dare la vita) patiscono la morte e il lutto, cercano tra le rovine, portano civiltà tra le macerie, lavano e stendono i panni negli accampamenti di fortuna, rassicurano, curano, nutrono. Mantengono in vita la vita, anche in condizioni estreme. Ma come femminista della differenza non posso sopportare l’orribile gerarchia, legalizzata dai media e dalla cultura coloniale e razzista, delle vite e delle morti. Una sorta di decimazione del vivente che non conta e che non viene contato. Cosa muove o cosa lascia indifferenti davanti alla violenza e alla morte? Non so ignorare l’evidenza del razzismo, del suprematismo, del disprezzo per l’altro, anche se è una bambina o un bambino.

C’è una crisi evidente della democrazia, si fa strada da più parti l’ipotesi, credibile, che il capitalismo liberista algoritmico, favorito dai reticoli tribali dei social e dalla così detta intelligenza artificiale, che non è né intelligente né artificiale, non abbia più bisogno della democrazia. Ci troviamo di fronte a poteri arroccati, sordi al dissenso e all’opposizione, incuranti delle norme condivise e delle convenzioni che hanno regolato le relazioni nazionali e internazionali. Che fare?

Trascrivo le ultime frasi dell’intervento di Maria Luisa Boccia (Siamo in guerra e non è una guerra giusta, pag. 64), fanno riferimento al pensiero della differenza, non danno soluzioni ma offrono secondo me spunti utili per continuare a pensare insieme.

«La differenza, proprio perché inquieta nella sua irriducibilità, richiede il lavoro, pratico e simbolico, della relazione. È un lavoro inverso a quello dell’identificazione, perché rinuncia alla pretesa di unire sulla base di un’unica verità – chi sono, chi siamo, in quale mondo viviamo. Un lavoro inverso alla guerra, perché tiene viva e attiva la passione della differenza, non restringendo le relazioni a quelle con il proprio simile – la sola sembianza dell’amico – e non caricando di inimicizia il conflitto, imprescindibile nelle relazioni di differenza, e dunque depotenziandone la distruttività. Per costruire un assetto del mondo basato sulla pace, il pensiero femminista della differenza, costruito sulla critica dei valori dominanti e dell’identità occidentale, offre l’orizzonte teorico-politico più efficace. Invece di proporre un unico modello di società, di valori, di identità, possiamo assumere il rapporto con l’altro/a da sé come reciprocità e interdipendenza, a partire dal riconoscimento della differenza. Possiamo riattraversare la storia e le diverse tradizioni, rinunciando ad assumere la “modernità” occidentale come tappa irrinunciabile di progresso dell’umanità».

da L’Altravoce il Quotidiano

Genoeffa Cocconi è la madre dei sette fratelli Cervi – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore – fucilati a Reggio Emilia uno dopo l’altro dai fascisti repubblichini in una fredda mattina del 28 dicembre 1943. Lei morirà di crepacuore un anno dopo, il 14 novembre 1944. Di lei si sa poco o niente e le storiche e gli storici in questi ottant’anni dalla sua morte l’hanno lasciata nell’insignificanza e nell’oblio. Ma una donna, un’artista anche lei di Reggio Emilia, Clelia Mori, l’ha riportata in vita dopo averla incontrata in una fotografia al Museo Cervi ed essersene innamorata. Visto che lì di lei «non c’era un grande ritratto a figura intera» decise che l’avrebbe disegnato lei. Per due anni l’ha guardata nella piccola foto con la lente d’ingrandimento per disegnarla, provare a capire di più le sue gioie e il suo dolore e trovarne una forma. Ha incominciato a pensare a come sarebbe stata male se fosse successo a lei di vedere morire suo figlio e intanto la disegnava con sguardo libero di donna, staccandola dal contesto familiare e dandole esistenza autonoma. I suoi disegni sono diventati dodici e ha incominciato a esporli in giro per l’Italia, ieri, venerdì, sono approdati a Roma alla Casa della Memoria e della Storia. Con la sua arte ha riscattato la sua morte, assumendosi l’autorità di darle un nuovo senso e riconoscere in lei «l’ottava vittima dei fascisti della famiglia Cervi» e una donna della Resistenza. Una Resistenza, la sua come quella di tante altre donne rimaste nell’oblio, che passa non dalla lotta armata ma dall’aprire, dopo l’8 settembre, la porta della propria casa a sbandati e disertori, dando così «forse, inizio alla Resistenza». Una mostra, la sua, fatta per «cominciare a cambiare il punto di vista da cui si guarda Genoeffa e le molte donne sconosciute che hanno fatto a modo loro la Resistenza, che quasi nessuno e nessuna è andata a cercare». Facendone l’ottava vittima dei fascisti dei Cervi reinterpreta il concetto di “vittima del fascismo” ancora troppo legato a quello di “morire sparati” e ripensa l’idea, ancora troppo presente nell’antifascismo reggiano e non solo, secondo cui «per essere inseriti in un libro sulla Resistenza delle donne si debba aver imbracciato le armi ed essere andate, come e con gli uomini, sui monti». Prova ne sia la “rivalutazione” tardiva delle staffette e il fatto che «una versione sul differente apporto femminile alla Resistenza non è ancora del tutto presente nell’antifascismo reggiano e forse non solo in quello». Genoeffa è stata uccisa dalla «ferocia fascista» che sicuramente nessun’altra donna ha conosciuto nel modo come l’ha conosciuta lei. Il suo dolore, al di là di ogni immaginazione, porta l’artista a farne «una Maria laica». Un dolore abnorme per quei figli che, come ogni donna, ha portato in grembo per nove mesi, li ha partoriti, accuditi, accompagnati nella crescita, educati, vestiti, nutriti facendoli diventare gli uomini che sono stati, amanti della lettura, della conoscenza, della libertà e della giustizia. Lei che «discuteva sempre le prediche del prete quando la famiglia tornava dalla messa domenicale tra i campi». Per un anno portò il peso di quel dolore, accudì il marito malato a cui dopo essere uscito dal carcere disse dei figli due mesi dopo, si fece carico delle quattro nuore e di undici nipoti. Quando i fascisti, dieci mesi dopo la fucilazione dei figli, per la seconda volta le bruciarono il fienile disse «ci vogliono proprio fare morire di fame» e cominciò a stare male fino a morire un mese dopo. Genoeffa, grazie a Clelia Mori, ha trovato il posto che le spetta nell’arte e tra le donne, si aspetta che lo trovi anche nella storia della Resistenza e nelle celebrazioni di quest’anno per gli ottant’anni dalla liberazione dai nazifascisti.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 1° marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da la Repubblica

È difficile, in questo periodo storico, parlare di scelte e di capacità di agire in modo naïf. Non è un tema da dibattito superficiale. Bisogna innanzitutto proporre una contestualizzazione storica per cogliere come questa problematica sia tipica dell’Occidente moderno e muova proprio da un paradigma e un’ontologia (nel senso di Descola) ben precisi. La Modernità occidentale, con le sue molteplici sfumature e non senza eccezioni (pensiamo a Spinoza), ha eletto l’Uomo unico ente a essere, oltre alla divinità, causa sui, causa di se stesso, capace di scegliere razionalmente e quindi libero di agire secondo volontà. La libertà coincideva con il dominio: essere libero significava poter dominare le proprie passioni, le tentazioni, la propria fragilità – tutto ciò che ci sovra-determina. Soltanto l’umano, essere razionale e cosciente, poteva aspirare a un tale statuto. Ma in questo paradigma antropocentrico, l’anthropos che si trova al centro non è l’essere umano in quanto appartenente alla specie umana, ma l’Uomo prodotto dal dispositivo della Modernità, che corrisponde a un ritaglio ben preciso. L’Uomo della modernità, ossia l’individuo razionale e libero, si definisce ed è costruito per esclusione da tutti coloro che sono totalmente sovra-determinati, quindi non liberi: le donne, i bambini, i pazzi, gli indios e così via. La capacità di sfuggire alle sovra- determinazioni è data dalla ragione e dalla coscienza, come mostra bene il classico esempio di Buridano: di fronte a due fasci di fieno con accanto un secchio d’acqua ciascuno, un asino affamato e assetato non sa cosa scegliere e finisce per morire di fame e di sete. Le parole usate da Popper quando riprende il paradosso di Buridano sono chiare: «non c’è niente che lo determini ad andare da una parte o dall’altra», le sovra-determinazioni si equivalgono e la scelta, senza un’istanza “superiore” che sfugga alle determinazioni, risulta impossibile. Insomma, la problematica della scelta resa possibile dal libero arbitrio e dalla ragione umana è tipica della cultura occidentale. La libertà non è intesa, nelle culture para-moderne, come una proprietà dell’individuo razionale che deve emanciparsi dalle proprie determinazioni.

Ma l’individuo razionale e libero situato al centro del dispositivo antropocentrico della Modernità, oggi, non esiste più. Esso era infatti il prodotto di tale dispositivo e dell’epoca che l’ha modellato. I processi concreti di autoproduzione del mondo e dell’epoca attuale producono invece un profilo sovra-determinato, che può, tutt’al più, funzionare. In questo nuovo dispositivo caratterizzato dal funzionamento totale, l’umano ha perso il ruolo di causa sui a profitto della macchina e sperimenta un’impotenza senza pari. Se, in ogni caso, essere causa sui corrisponde più a una narrazione che a una realtà concreta, questa narrazione accompagna processi concreti e materiali. I processi di delega di funzioni alle macchine contribuiscono al sentimento di impotenza degli esseri umani, che ormai si sentono svuotati della loro singolarità e sovra-determinati dalle macchine e dal mondo digitale. È un’esperienza quotidiana e comune a tutti. L’entrata in scena di nuove sofisticate forme di intelligenza artificiale porta con sé la domanda angosciante: «cos’ha la macchina in più di noi?». Il problema è che, ponendoci questa domanda, stiamo accettando di porre il vivente – l’umano in questo caso – sullo stesso piano della macchina, negando quindi ogni alterità. Come se la differenza risiedesse in un modulo in più che mancherebbe agli umani per essere come la macchina. La vera sfida, oggi, è quindi capire come ristabilire un’alterità possibile tra il vivente e la cultura e il mondo digitale. Le macchine “di aiuto alla decisione”, ormai, “decidono” da sole e l’umano segue, “funzionario della tecnica” (Galimberti) che è ormai l’unica fonte di normatività (ciò che la tecnica rende possibile, diventa obbligatorio). In questo contesto, quindi, parlare di scelta e azione diventa ancora più complicato.

Sembra ormai chiaro che bisogna rinunciare a ogni divisione astratta tra “volontà” e “azione”. Lo schema classico di un individuo separato dal mondo che sceglie liberamente per poi agire non regge più ed è impotente nel capire i cambiamenti cui assistiamo. Seguendo Leibniz e Wittgenstein, possiamo affermare che non esiste una distinzione tra volontà e azione, che non esiste un soggetto libero che prima “vuole” e poi “agisce”, estraendosi dai processi che lo attraversano e dalle determinazioni che lo caratterizzano. Tutt’al più, possiamo affermare che la volontà si svela nell’agire: non è perché lo voglio che alzo il braccio, ma perché l’ho alzato che posso dire che lo volevo. È quindi nell’agire e nelle pratiche cui si partecipa che si svela la voglia di ciascuno, e l’agire emerge sempre da corpi territorializzati, sicuramente sovra-determinati, situati. La libertà, in senso spinozista, non consiste tanto nel poter scegliere liberamente ma nel riuscire a conoscere le determinazioni che ci fondano, il desiderio che ci attraversa, per sostenerlo o meno. Per far ciò, è necessario però prendersi il rischio di dare ascolto e fiducia ai nostri corpi, di sperimentarne la potenza, resistendo quindi a una colonizzazione digitale opprimente che schiaccia l’interiorità profonda di ogni persona da cui emerge ogni azione possibile, per renderla un profilo catturato in un funzionamento in cui non c’è né scelta né agire.

da il manifesto

Femministe di un unico mondo, un libro di Bianca Pomeranzi (per Fandango), e Il gruppo del mercoledì, un volume di Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi e Stefania Vulterini (per Futura editrice). I volumi verranno presentati venerdì e sabato a Roma, nell’ambito dell’ottava edizione di “Feminism”, fiera della editoria delle donne

«Mai come ai giorni nostri il mondo ci è apparso così brutale. Un piccolo pianeta animato da sopraffazione e prepotenza, ma al tempo stesso luccicante “fiera” del possibile». Nel chiaroscuro di un tale passaggio, epocale e incerto, si apre il volume di Bianca Pomeranzi, Femministe di un unico mondo (pp. 247, euro 18.50) pubblicato postumo da Fandango per le cure di Carla Cotti (sabato 1° marzo ne discuterà a Roma nell’ambito di «Feminism» con Carla Pagano in Sala Zalib alle 17), che dà conto di una vita sovvertita dalla passione inaggirabile per la politica. Si comincia da un incontro, nel caso di Pomeranzi (1950 – 2023) carico di epifanie, foriero di un mondo sì terribile eppure dotato di innumerevoli strade, nel loro farsi e disfarsi, in cui la parola delle donne assume la potenza tellurica transnazionale di un percorso. Il femminismo, convocato e chiarito lungo le pagine del libro da Pomeranzi, è l’esperienza attraversata, trasformativa di quel «partire da sé» che si misura con il mondo diventando antidoto agli «inganni della memoria» – da cui in larga parte, e con dolo, questo presente è assediato.

Due i punti cruciali che collocano l’autrice in un orizzonte situato di presa di coscienza: il primo è il lesbismo, perché il «partire da sé» per Bianca Pomeranzi ha coinciso con la ricerca di un modo di vivere la sessualità allargandosi in uno sguardo sul mondo. La questione non ha riguardato solo quegli anni Settanta che l’hanno vista protagonista e interna al collettivo separatista di Pompeo Magno, eppure il suo primo nominarsi lesbica avviene pubblicamente proprio in un’assemblea romana. É il 1976 e l’iniziativa è stata una tappa fondamentale perché nel novembre dello stesso anno prende corpo la manifestazione contro la violenza sessuale «Riprendiamoci la notte». Convergenza, taglio vivente che rende il femminismo una esperienza generativa è riscontrabile anche nella costante dimensione transnazionale. Separatismo, violenza maschile, legge 194, insieme con le pratiche che andavano mutando e le lotte intraprese in Italia in quel decisivo torno di anni, davano il segno di un agire politico e di una libertà femminile che nel percorso di Pomeranzi erano presenti nello scenario internazionale. È il caso delle quattro Conferenze (convocate dalle Nazioni Unite) che, «spazio dell’apparire» non privo di contraddizioni, vengono descritte come occasioni di confronto su temi fino ad allora sfiorati o a cui perlomeno mancavano discussioni tra donne. Razzializzazione, differenze di classe, oppressione coloniale, materialità delle vite e non solo delle latitudini, molti sono gli episodi che emergono tra cui uno importante che avviene tra la prima conferenza mondiale a Città del Messico (1975) e quella di Copenaghen (1980) – cui seguiranno Nairobi, Pechino (di cui ha seguito la preparazione e l’attuazione), New York e Milano.

L’evento è l’arrivo di Kate Millett a Roma nel marzo del 1979, espulsa dall’Iran e accolta a via del Governo Vecchio dalla lungimiranza anzitutto di Alma Sabatini. La cooperazione internazionale era allora uno degli aspetti di cambiamento dell’immaginario che non potevano più ignorare la scena internazionale. Attivista e saggista, leggere Femministe di un unico mondo permette di solcare insieme a Bianca Pomeranzi le strade che lei stessa, e spesso per prima, ha spalancato. Componente dal 2013 al 2016 del Cedaw, ha diretto a lungo la cooperazione italiana in Senegal e in Africa Orientale, oltre ad aver fondato insieme ad altre l’ong Aidos e il Centro internazionale Alma Sabatini. Nel 2008, insieme a Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti (che aderirà presto ad altri progetti), Bia Sarasini, Rosetta Stella e Stefania Vulterini, Pomeranzi è stata anche tra le fondatrici del Gruppo del mercoledì.

Questa storia femminista, che continua ancora oggi, è un libro, mancava e la sua pubblicazione è da salutarsi con gioia e vivo interesse perché sono questi volumi che si fanno strumenti utili per la apertura di discussioni collettive, prestandosi inoltre alla ricostruzione di storie e comunità viventi assai preziose. Soprattutto in questo presente così fosco di guerre, morte e passioni tristi. Il gruppo del mercoledì (Futura editrice, collana «Sessismo e razzismo», pp. 119, euro 15) è a firma di Bandoli, Boccia, Paolozzi (che ha scritto anche l’introduzione) e Vulterini (le autrici ne discuteranno a Roma venerdì 28 febbraio nell’ambito di Feminism con Marina D’Amelia e Manuela Fraire in Sala Lonzi alle 19).

L’acuta e preziosa postfazione al volume, che si rivolge alle pratiche, è di Viola Lo Moro. Si tratta di una raccolta di testi e documenti – ricollocati e ulteriormente commentati in relazione al contemporaneo – che a iniziare dal primo, proprio del 2008, “Dire No… manifesto alla sinistra” fino all’ultimo, del 2022, “La cura maltrattata”, rammenta e tesse una discussione pubblica stagliata in oltre quindici anni di incontri prendendo parola su questioni e problemi a partire da sé. Ancora una volta è questo l’elemento non negoziabile ed è esattamente da ciò che avvia il lavorio dell’autenticità, per cui non sorprenderà leggere di percorsi biografici e politici diversi: l’operaismo, il pensiero della differenza sessuale; il giornalismo, il Pci e i modi diversi con cui ne hanno osservato la svolta, insieme alla Carta delle donne comuniste, e tanto altro.

Quelle donne però, d’accordo sul tramonto delle liturgie partitiche, mortifere e foraggiate da una politica maschile ormai inservibile oltre che disinteressata alla realtà, sono intervenute su parole e scommesse cruciali: dalla fine del corpo alla fine della sinistra (il testo è del 2009); la cura del vivere (pubblicato come supplemento al numero di settembre 2011 di “Leggendaria” e ancora adesso di grande e controversa attualità); c’è poi “Mamma non mamma” che nel 2017 interrogava l’esperienza delle donne a partire dai non pochi, e non pacificati, desideri. Il salto dalla espressione di questi desideri alla loro validità per tutte e tutti può essere spericolato, oltre che insensato. Ed è appunto una forza sorgiva ad abitare quei documenti, pungoli a un presente non ricomponibile. Il volume affronta infine i nodi della violenza, della pandemia, dei luoghi della nostra libertà e il movimento che dall’io arriva (o potrebbe arrivare) al noi, soprattutto parole importanti, perché dal limite vanno all’inconsumabile, ovvero quel che si sottrae al divoramento sfrenato. Che tiene vive alle proprie esperienze, alle pratiche politiche, alle relazioni.

SCHEDA. A Roma, da venerdì a lunedì, tavole rotonde e focus per interrogare l’oggi

Feminism, la fiera della editoria delle donne è arrivata alla ottava edizione e aprirà le danze venerdì 28 febbraio per concludersi lunedì 3 marzo negli spazi della Casa Internazionale delle Donne di Roma. Con oltre 70 case editrici coinvolte, le quattro giornate della fiera – realizzata da Archivia, dalla Casa internazionale delle donne, dalla rivista Leggendaria, dalla collana sessismo&razzismo di Futura editrice, della casa editrice Iacobelli – saranno anche l’occasione di ascoltare molte scrittrici, autrici e attiviste che interverranno in tavole rotonde e presentazioni su temi stringenti del presente. In gioco i nostri corpi, le pratiche, fino ai percorsi della interiorità. Già l’inaugurazione, alle 15 di venerdì in Sala Lonzi, offrirà la possibilità di ammirare due madrine d’eccezione: Manuela Fraire e Giulia Caminito. Sabato un focus sul fare rete tra micro-editrici e librerie indipendenti alla presenza di Marta Capesciotti, Cristina Anichini, Maria Corona Squitieri, Alessandra Barbero e Hanna Suni con il coordinamento di Silvia Di Tosti e Maria Palazzesi (tra le impareggiabili organizzatrici e ideatrici di Feminism). Domenica da non perdere Senka Maric (il suo Corpo Kintsugi è stato recensito su queste pagine); inoltre Giuliana Sgrena dialogherà, insieme a Chiara Cazzaniga di Femminicidi d’onore, con le curatrici Isabella Peretti e Ilaria Boiano; sempre domenica Luisa Passerini, Alessandra Chiricosta, Cecilia Dalla Negra, Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini saranno in dialogo con Fraire sull’autocoscienza. Tanti i libri importanti e gli scambi in presenza; interverranno tra le altre Nicoletta Dentico, Maria Rosa Cutrufelli, Daniela Finocchi, Gloria Zanardo, Donatella Franchi, Annarosa Buttarelli, Rosella Prezzo, Monica Pietrangeli, Amal Oursana, Claudiléia Lemes Dias. E ancora Paola Cavallari, Gabriella Caramore, Antonia Tronti, Luciana Percovich, Neria De Giovanni, Floriana Coppola, Gisella Modica, Elvira Federici, Nadia Tarantini, Maristella Lippolis, Silvia Neonato. La fiera ha il sostegno di ADEI – associazione degli editori indipendenti – della SIL – Società italiana delle letterate – del Concorso Nazionale Lingua Madre; con la collaborazione del Centro giovani del I Municipio e dell’associazione culturale Zalib.

Il programma completo qui: www.feminismfieraeditoriadelledonne.com

Da Noi Donne

In America autorevoli attrici e scrittrici alzano la voce e scendono in campo contro la censura di Trump alla cultura e di più! Una speranza, questa reazione femminile, a cui guardare con curiosità e attenzione.

Migliaia di opere, bestseller di autrici internazionalmente famose come Toni Morrison, Margaret Atwood, Stephenie Meyer e molti altri scritti importanti, in America sono stati banditi da scuole e biblioteche pubbliche. L’allarme è stato lanciato da Pen America, l’associazione che difende il diritto di parola degli autori di tutto il mondo.

In diversi Stati, come la Florida o lo Iowa, sono state messe al bando opere con protagonisti di colore o queer, storie con riferimento implicito al sesso e altro. Fortunatamente la reazione non si è fatta attendere con la ribellione, in particolare, di migliaia di donne. Interessante l’iniziativa della scrittrice Lauren Groff, due volte finalista del National Book Award, che in Florida, uno degli stati più colpiti, ha aperto una libreria dove espone in primis i libri oscurati.

E ancora Sarah Jessica Parker, una delle più amate protagoniste della serie “Sex and the City” che ha preparato un docufilm “The Librarians” sui bibliotecari che resistono, con cui ha vinto un premio. Incredibile ancora la storia di una altrettanto famosa artista, Julianne Moore, che ha visto “cacciare” dalle scuole il suo libro “Freckleface Strawberry”, un’opera di letteratura per l’infanzia che narra la storia di una bimba con dei problemi che imparerà ad accettarsi per com’è. Incredibile e significativo lo stupore dell’artista, che ha sottolineato come pensasse di vivere in un Paese – l’America – in cui la libertà di espressione è un diritto costituzionale! Per lei la messa al bando del suo libro è risultato un vero shock. E ci ha tenuto a precisare di avere scritto la storia per i suoi figli e i bambini in generale per ricordare loro, e sottolineare, che tutti affrontiamo difficoltà, ma ci unisce la nostra umanità e il senso di comunità.

Sempre in Florida è stata aperta la libreria The Lynx dalla scrittrice Lauren Groff, (che tra l’altro il 19 marzo sarà in Italia con il suo nuovo libro “Nel vasto mondo selvaggio”) come reazione al clima d’intimidazione che si sta instaurando con l’elezione di Trump. Un luogo, The Lynx (la Lince che è il simbolo della Florida), dove tutti i volumi messi al bando vengono esposti, volutamente e provocatoriamente in evidenza. Il rischio più grande, sottolinea Groff, è che il clima di intimidazione che si è instaurato possa impaurire insegnanti, bibliotecari e altri portandoli ad autocensurarsi. Preoccupazioni comprensibili, se si è arrivati al punto che in una contea la mannaia dei divieti e cancellazioni ha coinvolto l’Otello di Shakespeare.

Fra le reazioni, da registrare che alcuni volumi oscurati vengono anche distribuiti in dono come “Il racconto dell’ancella” e altri. Groff nella sua reazione alle censure culturali che caratterizzano le politiche dell’amministrazione Trump sottolinea come la libertà di espressione non significa essere obbligati a leggere opere che non si condividono o si ritengono offensive, ma è importante non proibire ad altri di farlo, se interessati o magari, possiamo pensare, semplicemente incuriositi.

Per dare il senso di come la reazione di donne significative e ascoltate possa essere davvero il segno, fortunatamente, di un’opposizione e resistenza che si va esprimendo e organizzando per contrastare alcune inimmaginabili politiche del governo Trump, come non parlare di Jane Fonda? La grande attrice, due volte Premio Oscar, in occasione del ritiro del premio alla carriera ha attaccato chiaramente Trump senza mai nominarlo e ha invitato Hollywood a «resistere con successo» difendendo l’ideologia woke: «Il nostro lavoro è capire un altro essere umano in modo così profondo da poter toccare la sua anima. E non vi sbagliate: essere empatici non vuol dire essere deboli o woke. Tra l’altro. Woke significa solo non fregarsene degli altri».

Dall’alto dei suoi ottantasette anni Jane Fonda non ha nessuna intenzione di smettere di occuparsi dei diritti civili e dell’ambiente, sottolineando poi la sua grande preoccupazione per il progetto dell’amministrazione Trump di tagliare posti di lavoro federali. Ed è a tal fine che invita alla coesione, all’ascolto, facendosi carico dei problemi anche oltre il diverso orientamento politico che possono avere le persone, facendo appello all’empatia, al non giudicare ma ascoltando col cuore e accogliendo tutti nella nostra grande tenda, perché, spiega «avremo bisogno di una grande tenda per resistere con successo a ciò che ci sta per colpire» e aggiunge «Non dobbiamo isolarci, dobbiamo trovare modi per proiettare una visione incoraggiante del futuro».

Quelli qui appena accennati sono piccoli ma interessanti segnali di reazioni, finalmente, per quanto arrivi sull’informazione a politiche di carattere antidemocratico che sembrano caratterizzare il governo del Presidente Trump e conseguentemente dell’America per come l’Occidente l’ha percepita fino ad ora.

È interessante sottolineare, sempre per quel che ci fornisce la stampa, che questa seppur parziale ma significativa opposizione venga da donne e donne della cultura e dell’arte cinematografica e non solo. Grazie, allora. E vi seguiamo con attenzione sperando in una crescita e successo degli obiettivi che state perseguendo.

dal profilo Facebook di Arcilesbica

di donne in relazione nella rete femminista Dichiariamo

L’8 marzo accomuna da più di un secolo chi vuole la libertà delle donne, quindi ci sentiamo coinvolte in questa data. Da alcuni anni, tuttavia, proviamo sconcerto per l’uso di parole neutre a base di asterischi: come può essere celebrata la giornata delle donne, se si rifiuta la parola “donna”? E l’estetica truce dei cortei, con i fumogeni e a volto coperto, non fa pensare al femminismo, che è conflittuale ma non violento. La rivoluzione delle donne è e rimane nonviolenta, fa leva sulla presa di coscienza soggettiva e sul partire da sé.

In Italia i temi dell’8 marzo ormai classificano l’umanità in base al grado di oppressione. Può sembrare un modo solidale di fare giustizia, di non lasciare indietro nessuno e di dare priorità ai bisogni più gravi, ma così si ricalcano conflitti che oppongono storicamente tra loro gruppi di uomini, non si mettono al centro le donne. Tutte siamo state educate ai valori universali che fanno apparire insufficiente occuparsi di una parte invece che di tutti e siamo state abituate a mettere gli altri prima di noi: sarà questo che fa considerare riduttivo il femminismo se non si fonde nelle lotte a favore di altri? Si propone allora un femminismo del 99% in marcia contro l’1% dei privilegiati, ma in questo magma proprio le donne rischiano di scomparire.

In questa Lettera aperta mettiamo a fuoco alcuni concetti per aprire una discussione, da tempo soffocata.

[…]

Il testo completo

Trattato di proibizione delle armi nucleari, a New York terzo incontro degli Stati Parte.

I Disarmisti esigenti partecipano, tra la società civile, con una nutrita delegazione caratterizzata dal protagonismo delle donne. In forse la presenza dell’attivista bielorussa Olga Karatch, cui è negato il visto USA

«Mancano 89 secondi alla fine del mondo». Corrono le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse e non solo: tra pochi giorni l’ONU organizzerà il terzo incontro dedicato al TPAN – Trattato di proibizione delle armi nucleari. Il Palazzo di Vetro a New York del Segretariato delle Nazioni Unite è quasi pronto per accogliere i 73 Paesi che lo hanno ratificato tra i 122 che lo hanno adottato il 7 luglio del 2017.

Vi sarà non solo la loro voce istituzionale degli Stati, poiché sarà nutrita la presenza di ONG accreditate con ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons, Premio Nobel per la Pace 2017 – proprio in rappresentanza della società civile che lotta per il disarmo a livello mondiale.

Il terzo incontro degli Stati parte si svolgerà dal 3 al 7 marzo 2025 presso la sede ONU a New York, sotto la presidenza del Kazakistan, e sarà preceduto, il 2 marzo, da una assemblea della rete ICAN, oltre seicento organizzazioni di cui i Disarmisti esigenti sono tra i membri italiani.

Cos’è il TPAN: concetti chiave, tempi e un po’ di storia

Il Trattato di proibizione delle armi nucleari (testo completo in inglese qui) è un documento nato per contrastare non solo la loro proliferazione, ma per condurre le scelte politiche internazionali a un abbandono dello strumento di deterrenza nucleare, nelle relazioni fra Stati, per la risoluzione dei conflitti e intimare la distruzione dei suddetti ordigni. Lo stesso possesso delle armi nucleari è dichiarato illegale e stigmatizzato.

Il Trattato prevede che gli incontri degli Stati parte si svolgano su base annuale (o biennale) e che si tengano conferenze di revisione a intervalli di cinque o sei anni per «considerare e, ove necessario, prendere decisioni in merito a qualsiasi questione riguardante l’applicazione o l’implementazione di questo Trattato».

Il primo incontro degli Stati parte si è tenuto a Vienna dal 21 al 13 giugno 2022 con la partecipazione di 49 Stati parte, 34 Stati osservatori e rappresentanti delle Nazioni Unite, di organizzazioni internazionali e regionali, del Comitato Internazionale della Croce Rossa e della società civile. L’incontro ha adottato una serie di decisioni ambiziose, tra cui la Dichiarazione di Vienna e il Piano d’azione.

Il secondo incontro degli Stati parti si è svolto dal 27 novembre al 1° dicembre 2023 presso la sede delle Nazioni Unite a New York, con il Messico in qualità di presidente. Hanno partecipato 94 Stati parte e altri osservatori, insieme a rappresentanti di agenzie internazionali, tra cui l’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) e la CTBTO (Organizzazione del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari), il CICR(Il Comitato Internazionale della Croce Rossa), nonché organizzazioni della società civile, comunità colpite, giovani, parlamentari e istituzioni finanziarie. La riunione ha adottato una dichiarazione politica e una serie di decisioni che rafforzano il processo.

La nostra delegazione

È ora la volta del terzo incontro, ed è proprio direttamente dal territorio americano che la delegazione dei Disarmisti esigenti riporterà tutti gli aggiornamenti in diretta riguardo a ciò che accadrà alla conferenza generale e nei numerosi side events previsti durante tutta la settimana. In questa edizione sono stati depositati tutti i Working paper delle ONG accreditate, tra i quali quello predisposto da noi (firmato insieme a Costituente Terra); ciò significa che la società civile espone proposte su come integrare il Trattato, dando un contributo fondamentale alla rete internazionale che, vista la situazione geopolitica attuale, va crescendo sempre di più.

Della delegazione fanno parte: Giovanna Cifoletti, Ennio Cabiddu, Sandro Ciani, Greta Triassi, Monica Bertino e Totò Schembari (della Pagoda per la pace di Comiso), Paola Paesano (di Costituente Terra). Olga Karatch è in forse perché gli USA le stanno negando il visto. Lei è l’attivista bielorussa fondatrice di Our House (‘Casa Nostra’), candidata al premo Nobel per la pace nel 2024, che è stata condannata a dodici anni di carcere dal regime di Lukashenko e allo stesso tempo in Lituania, dove si è rifugiata, non ha ottenuto l’asilo in quanto “spia di Putin”…

Gli obiettivi della nostra missione a New York

Secondo la loro natura di antimilitaristi non violenti, i Disarmisti esigenti si muovono con la priorità della denuclearizzazione, sia militare che civile, a livello globale. La nostra nascita, nel 2014, avviene in risposta all’appello di Stéphane Hessel e Albert Jacquard a «esigere il disarmo nucleare totale». Oggi c’è l’ambizione, da parte nostra, che la necessità di una rapida transizione dalla proibizione legale delle armi nucleari (un processo aperto dal Trattato del7 luglio 2017) alla loro totale eliminazione fisica sia condivisa a livello globale.

Questo obiettivo, incoraggiato dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’ICAN (www.icanw.org), richiede a nostro avviso pianificazione strategica e lavoro, con una prospettiva generale e internazionale che rappresenta il nucleo della nostra ragion d’essere.

In particolare, in questo momento la nostra priorità è lavorare per armonizzare e integrare la Campagna ICAN con la Campagna No First Use (NFU). È necessario che le potenze nucleari avviino un tavolo che dia seguito alla Campagna No First Use con misure concrete contro la guerra nucleare per errore: forse la Cina, il più sensibile finora, potrebbe prendere l’iniziativa anche su nostra richiesta dal basso.

Abbiamo organizzato, all’interno del meeting di New York, due eventi collaterali per discutere e approfondire insieme i seguenti temi:

3 marzo 2025 – dalle 10:00 alle 11:15, dal titolo: “Lezioni dal movimento contro gli euromissili”

4 marzo 2025 – dalle 11:30 alle 12:45, dal titolo: “Le armi nucleari russe in Bielorussia portano alla luce il rischio di una guerra nucleare limitata in Europa”.

Sosteniamo la performance proposta dalla Pagoda per la Pace di Comiso: alziamo le braccia, con un minuto di silenzio, per invocare: «Mai più Auschwitz! Mai più Hiroshima!» Con l’energia che speriamo questa iniziativa trasmetta, ribadiamo che il futuro del mondo è nelle nostre mani: vi invitiamo a vivere, insieme a noi, la forza della vita, la visione dell’unica umanità appartenente alla Terra, che prevarrà sulle forze della distruzione.

I punti essenziali del working paper che abbiamo presentato con Costituente Terra: sicurezza degli Stati (uno contro l’altro) oppure sicurezza comune dell’umanità?

1) Nonostante i numerosi successi del TPNW (numero elevato di adozioni, firme e ratifiche, disinvestimenti delle banche negli armamenti nucleari, numerose richieste di città a favore del TPNW) siamo in una situazione di stallo perché nessuno Stato nucleare né i suoi alleati hanno aderito al TPNW fino ad ora, quindi sono necessarie nuove strategie che tengano conto della complessità della situazione geopolitica.

2) Un processo di disarmo nucleare dovrebbe essere realizzato dall’interno del “club” dei nove Stati nucleari e dei loro alleati (a partire dalla Cina?): il nostro ruolo di attivisti è quello di promuovere tale processo sottolineando che il rischio di una guerra nucleare è inaccettabile prima di tutto per gli Stati nucleari stessi.

3) Un primo passo utile potrebbe essere un accordo No First Use tra gli Stati nucleari. In questo contesto, le “mini-armi nucleari”, più facili da usare sul campo di battaglia, dovrebbero essere esplicitamente vietate dall’articolo 1 del TPNW.

4) Un altro passo potrebbe essere la rimozione delle armi nucleari dislocate nei territori degli “Stati alleati” (Italia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Turchia e Bielorussia) e, naturalmente, il rifiuto totale di qualsiasi tipo di euromissili.

5) Diversi Stati NATO (Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Belgio) hanno espresso interesse per il TPNW, ma la loro inclusione nell’alleanza NATO impedisce loro di aderire al TPNW. Questa categoria di Stati “a cavallo” potrebbe trovare posto nell’articolo 4 del TPNW.

6) Cambiare radicalmente l’attuale opposizione Est-Ovest, come era già avvenuto nel periodo 1991-2003. Per questo: aprire un tavolo di negoziazione tra la Russia e il resto dell’Europa (attraverso OSCE/ONU) per risolvere pacificamente i problemi esistenti (bombe a orologeria) lungo i quasi 4000 km di confini, più gli Stati di Moldavia e Georgia. Se l’associazione Costituente Terra, che promuove un progetto di costituzione globale, rivolge un appello agli Stati che hanno aderito al TPNW in almeno uno dei modi possibili (adozione, firma, ratifica), in effetti la grande maggioranza nell’Assemblea generale dell’ONU, al fine di ottenere la convocazione di una sessione speciale permanente di tale assemblea per negoziati senza sosta fino a quando non si raggiungerà la pace nella guerra d’Ucraina.

7) Inoltre l’associazione Costituente Terra promuove un ancora più ambizioso “Appello per un disarmo totale” nel mondo. Se ciò avesse successo, renderebbe inutile la NATO e renderebbe più facile un disarmo nucleare. La necessaria gradualità della strategia non significa sottrarre radicalità al TPNW, che è legato nel progetto costituzionale mondiale all’art. 52 che proclama l’eliminazione delle guerre: la vera ragione di esistenza delle Nazioni Unite. Altri articoli salienti del progetto: l’art. 53 per la messa al bando delle armi e il monopolio pubblico della forza; l’art. 77 per il superamento degli eserciti nazionali.

8) È necessario un potente movimento di base per sostenere e promuovere queste iniziative.

Per contatti generali: Alfonso Navarra, coordinamentodisarmisti@gmail.com

Per contatti in questi giorni del 3MSP: Ennio Cabiddu (+39 366 653 5384); Greta Triassi (+39

327 786 8943); Costituente Terra, p.paesano@gmx.com (+39 348 763 5966); Casa Nostra,

olga.karatch@gmail.com (+370 607 65718); Pagoda per la pace a Comiso,

monicabertino23@gmail.com (+351 961 596 666).

Messaggio e-mail a pacifiste e pacifisti italiani

Cari amici,

Ho notato che molti di voi si sono persi questa storia incredibile, quindi sento il dovere di condividerla e fornire alcune conferme, visto che non tutti credono che una cosa del genere possa accadere in Polonia.

Pare che nell’estate del 2024, durante lo scarico di un treno carico di equipaggiamento militare su un binario secondario a Mosty, vicino a Szczecin [Stettino], i soldati non abbiano completamente disimballato tutto il carico. Di conseguenza, alcune mine anticarro sono rimaste nel vagone e sono state inviate per errore al magazzino IKEA. La maggior parte delle mine di questo tipo pesa tra gli 8 e i 15 kg, con gran parte del peso costituito da cariche esplosive progettate per colpire veicoli militari pesanti come carri armati e mezzi blindati.

Secondo i media, almeno alcune decine di mine anticarro hanno viaggiato per un po’ in Polonia prima di essere scoperte, per caso, in un magazzino IKEA dove erano state consegnate. La situazione è venuta alla luce quando IKEA ha contattato il personale militare per chiedere quando qualcuno sarebbe venuto a ritirare le loro mine.

Sembra che una terza guerra mondiale per errore – o per pura negligenza – sia sempre più vicina.

Per rassicurarvi che questo livello di negligenza non è un caso isolato, vorrei sottolineare che incidenti simili si verificano anche nelle forze armate della nostra regione. Ci sono molte storie tragicomiche che coinvolgono le forze armate di Bielorussia, Russia e Ucraina (e anche di altri Paesi).

Link al caso:

https://www.politico.eu/article/poland-general-fired-after-missing-anti-tank-mines-were-found-in-ikea

https://wiadomosci.wp.pl/general-odwolany-bo-mu-sie-miny-zgubily-miny-przeciwczolgowe-7112435853499104a

E dato che apprezzo l’umorismo nero in situazioni del genere, vi mando anche una vignetta divertente che i polacchi hanno condiviso sui social media, così potete sorridere anche voi.

La vignetta dice: «Non importa di chi è la colpa. Guarda questa bellissima mina anticarro», con il logo di IKEA e il prezzo. Davvero un bel senso dell’umorismo, non trovate?

Cordiali saluti, Olga Karatch

(messaggio e-mail a pacifiste e pacifisti italiani, 25 febbraio 2025)

(*) pacifista bielorussa, fondatrice di Our House, candidata al premio Nobel per la pace 2024.

APPELLO DI OLTRE 200 EBREE ED EBREI ITALIANI

NO ALLA PULIZIA ETNICA!

Oltre 200 ebree ed ebrei italiani hanno firmato un appello pubblico contro la deportazione dei palestinesi proposta da Trump e contro le violenze israeliane a Gaza e in Cisgiordania, chiedendo al governo italiano di non rendersi più complice di queste azioni.

L’iniziativa riprende i temi di un analogo appello promosso da ebree ed ebrei statunitensi, che ha già raccolto migliaia di adesioni, tra cui quelle di trecentocinquanta rabbini.

Promotori dell’appello italiano sono L3a – Laboratorio Ebraico Antirazzista e Mai Indifferenti – Voci ebraiche per la pace, due reti che si battono per una giusta pace in Medio Oriente, in opposizione alle politiche di segregazione e occupazione in Palestina, e contro l’antisemitismo e ogni forma di razzismo presente all’interno delle nostre società.

Molte persone che non appartengono ai due gruppi hanno aderito condividendo lo spirito dell’iniziativa.

Questo il testo dell’appello, che uscirà il 26 febbraio sui quotidiani Repubblica e Manifesto:

Trump vuole espellere i palestinesi da Gaza.

Intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani.

Ebree ed ebrei italiani dicono:

NO alla pulizia etnica!

L’Italia non sia complice.

Ulteriori adesioni verranno raccolte tramite il sito https://nopuliziaetnica.org/ al link https://nopuliziaetnica.org/sottoscrivi/ .

(Comunicato Stampa, 24 febbraio 2025)

da L’Altravoce il Quotidiano

Ci sono libri di profonda sapienza femminile, come l’ultimo della teologa e suora domenicana Antonietta Potente In Amorosa Fedeltà – Leggere e trasmettere le Scritture, edito Paoline, che vanno letti lentamente, ascoltati, meditati prima di poterne scrivere qualcosa. Un libro scritto con affetto, a partire dalla propria esperienza, sulle Scritture ebraicocristiane – il termine è scritto volutamente tutto attaccato perché «le scritture ebraiche hanno fatto nascere quelle cristiane […], e il cristianesimo esiste grazie all’ebraismo». Un libro che non ha capitoli ma temi sparsi e che l’autrice non vuole venga classificato tra i libri esegetici, commentari e riflessivi su alcuni testi biblici. Il tema principale non sono le Scritture in quanto oggetto di studio, ma l’esperienza delle parole scritte e tramandate da secoli. Scrive non «per convincere qualcuno riguardo a una via da seguire» o per «difendere una trasmissione orale e scritta come l’unica tradizione possibile, e soprattutto, non per evangelizzare» ma perché in questo momento storico «c’è grande confusione su ciò che è tradizione e molta ignoranza sulle Scritture». Scritture che vanno schiodate dalle “pareti della storia” e le loro parole rese vive, prendendo ciò che serve per vivere (poesia, passione per la verità, bellezza, ispirazioni e visioni) e lasciando andare ciò che è contro la vita (guerre, violenza, patriarcato, esclusione). Esse appartengono a tutta l’umanità e se non si leggono è per l’errore delle religioni ebraica e cristiana che se ne sono appropriate «pensando di dire tutto di essi senza permettere che altre e altri li possano toccare». Come ricollocare questi testi […] nel mondo di oggi, come suscitare un interesse non per fare proselitismo, ma per il gusto della bellezza e del Mistero? Perché non fare delle Scritture un dono e una ricchezza della cultura universale? Perché chi fa studi classici dedica ore a studiare la letteratura della Grecia antica con tutti i suoi miti e non sa niente o poco dei testi biblici? «Nessuno è proprietario delle Scritture» e si possono comprendere solo «guardando la vita» e imparando a considerarli «non tanto come sacri e proprietà delle religioni» ma come «tradizione letteraria di differenti popoli», come «storia umana» con le sue contraddizioni e le «interpretazioni che talvolta facciamo di lei». A ogni pagina del libro, l’autrice ci esorta a leggere lentamente, ci chiede ascolto e ci lascia pagine in bianco per meditare e aggiungere ai suoi pensieri i nostri, perché «è così che la Scrittura “cresce” con chi legge o l’ascolta». La seguiamo nella volontà di trovare in quei testi «il filo del legame ancestrale con l’origine materna e allo stesso tempo divina» che con abilità i biblisti e coloro che li hanno seguiti nei secoli hanno cancellato, «instaurando un nuovo legame, quello con il padre e solo con il padre», come anche nel racconto della parabola del figliol prodigo «dove tutto gira attorno alla figura paterna e a quella di due figli maschi. La casa oltre che un luogo è un simbolico materno. Ma la madre non c’è». Tutto delle Scritture ha origine da una lunga tradizione orale che prima di essere scritta passa «di bocca in bocca», «di orecchio in orecchio». Fatti, esperienze, fiabe, visioni, detti, ascoltati e narrati «secondo punti di vista e modi di sentire la vita così diversi tra loro». Una tradizione simile a quella che «la gente comune crea di nonna in madre e figlia o figlio. La nonna ha detto qualcosa alla madre che lei, a sua volta, racconta alla figlia o al figlio», come certamente Maria che, per prima, racconta a Gesù le sue parabole, nate dalle leggende ebraiche. L’invito finale è di «restare in piedi» per respirare dalle Scritture la vita e il Mistero che la abita. Un libro profondo, da leggere più che raccontare.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 22 febbraio 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da la Repubblica

Se non sei padrone della tua lingua non sei in grado di imparare le altre. Lo diceva Cesare Segre, uno dei più grandi critici letterari e linguisti del Novecento, per intendere che la nostra lingua madre custodisce la nostra identità e visione del mondo. Insomma è la nostra prima patria.

E proprio questo lo spirito che anima la Giornata internazionale della Lingua madre che si celebra oggi. A istituirla nel 1999 fu l’Unesco per commemorare i drammatici moti del 21 febbraio 1952 a Dacca, capitale dell’attuale Bangladesh, dove molti studenti furono colpiti e uccisi dalla polizia mentre manifestavano per il riconoscimento della loro lingua, il bengalese, come una delle due lingue nazionali del Pakistan.

L’iniziativa dell’organizzazione culturale delle Nazioni Unite è un segnale importante soprattutto in un tempo come il nostro in cui molti pensano che conoscere l’inglese sia quasi quasi più importante che conoscere l’italiano. Nulla di più falso. È ovvio che la conoscenza delle lingue straniere è fondamentale nel nostro mondo globale e interconnesso. Ma i nostri ragazzi non domineranno mai né l’inglese né il cinese, se non possiedono il nostro idioma.

Perché le idee e i pensieri, per essere ben tradotti devono essere compresi e formulati correttamente da chi parla. Che è il contrario di quel che succede oggi visto che una percentuale sempre maggiore di connazionali non riesce a comprendere il significato di ciò che legge nella nostra lingua. Figuriamoci in un’altra. La verità è che i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo.

E l’idioma nel quale nasciamo è la nostra fabbrica della realtà. Il luogo di formazione del nostro patrimonio di giudizi, valori. competenze e sentimenti. Se perdiamo questa ricchezza non diventeremo certo poliglotti, ma apolici.

Stranieri anche a sé stessi. Che vagano per le vie di Babele. Senza nemmeno sapere a che santo votarsi.

da Centro Riforma dello Stato

Il nuovo asse Trump-Putin, l’umiliazione dell’Ucraina, la triplice sconfitta del fronte bellicista europeo. Terremotato il sistema di alleanze che ha sorretto l’Occidente nel secolo scorso e archiviata l’agenda neocon che ha orientato la politica estera statunitense in questo, il vecchio continente paga il prezzo economico, politico e geopolitico più salato, nella cecità inguaribile della sua classe dirigente.

Com’era largamente prevedibile, Donald Trump ha preso in mano il dossier della guerra d’Ucraina per gestirlo a modo suo, cioè con pugno autocratico e imperiale, rivolgendosi unicamente all’altro autocrate imperiale della situazione, Vladimir Putin, e schiacciando sotto il tacco l’Ucraina, cioè la vittima dell’aggressione russa fin qui “protetta” – o usata – dagli Stati uniti ma oggi chiamata a saldare i debiti col protettore firmando un contratto capestro e destituendo il suo presidente Volodymyr Zelensky, per tre anni esibito dal protettore e dai suoi alleati nei summit internazionali e nei festival del cinema come il simbolo immacolato della democrazia sotto attacco ma oggi scaricato da Trump come “comico mediocre” e “dittatore non eletto” colpevole di aver voluto lui la guerra. E con l’Ucraina e Zelensky finisce nel cestino della storia l’Europa, fin qui partner fedelissimo degli Stati Uniti nella difesa del paese aggredito e nella crociata della democrazia contro l’autocrazia. Ci fosse in giro un briciolo, solo un briciolo, di onestà intellettuale, il fronte atlantista di centrodestra e di centrosinistra che ha deciso e gestito per tre anni, negli USA e in Europa, la risposta occidentale all’aggressione russa dovrebbe quanto meno ammettere una

sonora e triplice sconfitta: sul piano ideologico, sul piano geopolitico globale, sul piano dei rapporti fra le due sponde dell’Atlantico.

Sul piano ideologico, perché a Trump, campione in casa propria della demolizione della democrazia liberale, di fare la guerra in nome della democrazia importa meno di zero: per lui le guerre si fanno e si chiudono sulla base di convenienze e contrattazioni economiche, non di crociate ideali o morali. Sul piano geopolitico globale, perché se è vero che la mossa di Putin del 2022 non mirava tanto o soltanto alla conquista dell’Ucraina quanto alla riconquista di un ruolo nella ridefinizione dell’ordine mondiale, Trump – diversamente da Biden e dai suoi alleati europei, arroccati a difesa dell’assetto unipolare nato dalla fine della Guerra fredda – accetta la sfida di Putin, ritenendo di avere lui stesso qualcosa da guadagnarci, che si tratti dell’accesso alle terre rare in Ucraina o in Groenlandia, di una riesumazione delle sfere d’influenza o di un rilancio del primato americano sulla base neo-tecnologica fornita dalla Silicon Valley. Sul piano delle relazioni transatlantiche, perché il sodalizio fra USA ed Europa, apparentemente rafforzato sotto la presidenza di Biden ma in realtà programmaticamente indebolito dalla conduzione americana della guerra d’Ucraina, è stato fatto a pezzi in quattro e quattr’otto da Trump e dal suo vice, come un ferrovecchio novecentesco ormai desueto e inutilizzabile nello scenario del terzo millennio.

Detto in altri termini, e sempre giocando con il numero tre. Delle tre guerre che fin dall’inizio si sono combattute sul suolo ucraino, la prima, quella territoriale fra Russia e Ucraina, ha tuttora un esito incerto, appeso al negoziato appena aperto, ma di certo vede – per tacere delle vittime che gridano vendetta da ambo le parti – una Ucraina sconfitta militarmente e devastata sul piano economico e demografico, con Zelensky destinato a essere sacrificato, e una Russia contenuta nelle sue mire espansioniste ma con Putin saldamente in sella, a onta delle scommesse occidentali della prima ora sul crollo del suo regime. La seconda, ovvero la guerra per procura fra la Russia e gli Stati Uniti che nel disegno americano puntava all’implosione della Russia e all’indebolimento dell’Europa (e segnatamente della Germania), approda con una sorprendente giravolta all’intesa fra Putin e Trump. ma lascia sul campo un’Europa sconfitta, isolata e indebolita, con costi economici enormi da smaltire, un sistema di sicurezza da reinventare, un baricentro spostato verso Est e – soprattutto – un asse politico spostato nettamente a destra. La terza, ovvero la guerra per la ridefinizione dell’ordine mondiale, vede un successo quantomeno momentaneo della Russia, che riconquista un posto nel club dei grandi e torna a essere riconosciuta dagli Stati Uniti come interlocutore, almeno fino a quando questo inedito sodalizio farà comodo a Trump per scongiurare quello fra la Russia e la Cina e a Putin per demolire quello fra gli Stati Uniti e l’Europa.

Nell’incertezza dei tempi che si aprono ci sono dunque due dati incontrovertibili con cui fare i conti. Il primo è la marginalizzazione geopolitica e la crisi economica e politica dell’Europa. Il secondo è la patente sconfitta del paradigma della guerra condotta in nome della democrazia contro l’autocrazia, che si risolve nella vittoria sulla democrazia non di uno ma di due autocrati, uno, Putin, esterno al fronte democratico occidentale, l’altro, Trump, partorito dal suo interno. Sono due dati strettamente connessi, eppure sono in pochi quelli che sembrano in grado di metterli insieme e di trarne qualche conseguenza autocritica.

Più facile è oggi, per il fronte democratico-progressista europeo sotto schiaffo, denunciare l’accelerazione verso il peggio innescata dall’avvento della presidenza Trump e lamentare l’ingerenza indebita di J.D. Vance nella politica europea. Ma Trump, Vance e Musk non sono tre alieni piovuti dal cielo: sono il frutto perverso ma non inspiegabile di una deriva di crisi inesorabile che ha eroso in profondità i fondamentali della democrazia statunitense, non per caso nello stesso arco di tempo in cui essa, troppo sicura del proprio primato, si è armata e ha chiamato i propri alleati ad armarsi contro tutti i regimi politici e le forme di vita non conformi al modello occidentale.

Né l’accelerazione trumpiana può far dimenticare che è stato l’allineamento supino agli USA di Biden a condannare la UE al suicidio politico: con l’adesione incondizionata alla narrativa americana della guerra d’Ucraina in stridente contrasto con gli interessi europei; con l’identificazione incondizionata con Kiev assunta a paradigma della democrazia; con la condivisione di un paradigma semplificato di interpretazione del mondo – democrazia vs autocrazia – dimentico della complessità del Novecento europeo; con la sostituzione del linguaggio della politica con quello delle armi. E di conseguenza, con la rinuncia a quel ruolo di mediazione politica del conflitto che oggi i leader europei reclamano fuori tempo massimo elemosinando un posto al tavolo delle trattative di pace. Il tutto – a proposito di democrazia – mentre qualunque voce critica veniva messa al bando, e la bandiera della contrarietà alla guerra veniva regalata a formazioni di estrema destra come la Lega in Italia e AfD in Germania.

Di fronte a questa débâcle, che a sua volta porta al pettine molti nodi irrisolti della costruzione europea, e di fronte al radicale cambio di paradigma delle relazioni internazionali innescato dal ciclone-Trump, è disperante la povertà della reazione della classe dirigente europea in preda al panico per la perdita della garanzia dell’ombrello militare americano. Una reazione tutta incentrata al peggio sull’ossessione per la sicurezza e sull’urgenza del riarmo, come nel vertice parigino improvvisato da Macron, al meglio su un improbabile recupero di competitività e sull’invocazione di un ancor più improbabile stato unitario europeo, come nell’ultimo discorso di Mario Draghi.

Ma prima o poi bisognerà pur ricominciare a parlare di politica, su questa e sull’altra sponda dell’Atlantico. Nel cambio di paradigma azionato da Trump non c’è solo la svolta di 180 gradi rispetto al sistema di alleanze novecentesco degli Stati Uniti. C’è anche l’archiviazione dell’agenda neocon che ha dominato la politica estera statunitense dal 2001 in poi, con la sua giaculatoria dello scontro di civiltà fra la democrazia occidentale e, a turno, il terrorismo internazionale, i fondamentalismi, le dittature, le autocrazie. Un’agenda dalla quale le presidenze democratiche non sono riuscite a emanciparsi, e che ha fornito il quadro di riferimento per l’intervento degli Stati Uniti sulla scena ucraina fin dai fatti del 2014. Inquieta che questa agenda venga archiviata da Trump e non da sinistra come sarebbe stato auspicabile, ma si può sperare che la sua archiviazione liberi qualche energia sia nella sinistra minoritaria statunitense che non l’ha mai condivisa, sia fra i Dem che l’hanno dissennatamente fatta propria.

Quanto all’Europa, la débâcle del fronte bellicista e l’avvento del nuovo asse autocratico romperanno inevitabilmente l’unità soffocante del mainstream politico e mediatico che ha tenuto banco negli ultimi tre anni, e porterà inevitabilmente allo scoperto i conflitti fin qui oscurati dallo zelo per la guerra. Due su tutti: quello fra le nuove destre radicali e il campo che dovrebbe contrastarle, un conflitto che comincia già a dividere chi salta e chi non salta sul carro di Trump. E quello, ben più radicato nella storia di lungo periodo, fra Europa occidentale ed Europa centro-orientale, una faglia che la guerra d’Ucraina ha ricomposto solo in superficie ma che dalla guerra esce in realtà approfondita, e che sottostà allo spostamento a destra degli equilibri politici dell’intera Unione. Chi ha davvero a cuore le sorti della democrazia europea non può che scommettere sulla agibilità pacifica e sulla potenziale generatività di queste contraddizioni, scongiurando la possibilità che soprattutto la faglia Est-Ovest inneschi una nuova deriva di guerra, questa volta fra europei secondo il codice genetico del Vecchio continente. Sul campo sacrificale dell’Ucraina restano pur sempre troppi soldi e troppe armi fuori controllo.

da Le parole e le cose

Nei suoi primi lavori si è occupata di Platone e Locke e la sua formazione filosofica è passata per la partecipazione al gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso presso l’Università di Padova. In seguito è stata fondatrice, assieme a Luisa Muraro, della comunità filosofica Diotima di Verona. Ricostruirebbe questo passaggio dall’inizio della sua formazione filosofica a Padova all’apertura dell’orizzonte della differenza sessuale a Verona?

Cavarero: Padova per me è stata molto formativa come esperienza. Innanzitutto, perché ho imparato a leggere i classici con rigore, possibilmente in lingua originale. Mi sono formata con impegno, studiando sodo. Ho partecipato al gruppo di ricerca sui concetti politici con Duso ed altri, tra cui anche Pierangelo Schiera, che ci raggiungeva da Trento. Ho beneficiato particolarmente della sua presenza perché ci indicava testi fondamentali come quelli di Schmitt – ovviamente – ma anche di Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel… Ma sin dall’inizio ciò che studiavo di più era Platone, sotto la guida di Franco Chiereghin. Ho conosciuto Hannah Arendt approcciandola come critica della filosofia platonica. Al tempo Arendt era davvero poco nota ma la profondità della sua lettura di Platone ha catturato da subito il mio interesse. Così ho scoperto la sua genialità, che mi ha spinto a leggere praticamente tutta la sua produzione. Alcuni testi non erano tradotti in italiano o erano difficili da reperire. Infatti, riuscii a trovare e leggere in italiano – se non ricordo male – solo Le origini del totalitarismo e Vita activa, il resto lo lessi in inglese. Da allora non l’ho più abbandonata poiché reputo che il suo pensiero offra una metodologia di indagine e di scrittura che è assolutamente originale. Per farsi un’idea, basti pensare che lei – in quell’epoca molto polarizzata tra tendenze marxiste e tendenze liberali (o cattoliche, soprattutto in Italia) – era stata in grado di elaborare una posizione autonoma e critica nei confronti di entrambe. Si tratta pertanto di un pensiero in grado di resistere alle polarizzazioni ideologiche. Al tempo trovai che quella di porre al centro della riflessione politica la categoria di nascita, così come la morte al centro della metafisica, fosse un’indicazione davvero preziosa. Mi sono poi trasferita a Verona semplicemente per comodità personale perché abitavo lì, avevo un bambino e quindi mi pesava molto questa pendolarità. A Verona ho incontrato Luisa Muraro, che era già una femminista di punta e aveva tradotto Irigaray del cui pensiero, perciò, aveva una buonissima conoscenza. Parlando con lei mi sono convinta che la differenza sessuale fosse un tema estremamente innovativo, se non eversivo. L’assunzione di questo problema centrale ha comportato, nella tradizione femminista, un lavoro di critica al patriarcato: la cosiddetta decostruzione. Questa operazione mi risultava abbastanza facile, perché se si conosce bene il testo della tradizione – non solo per sentito dire o di seconda mano, ma si frequentano direttamente i testi di Hegel, di Platone, di Aristotele – farne poi la decostruzione critica diventa molto più agevole. Sapevo come muovermi nei testi per individuare i punti deboli nella loro tessitura, riuscivo a comprendere dov’era celata una lacerazione o dove la logica conduceva ad un’aporia. Quindi abbiamo fondato Diotima che consisteva, da un lato, nella decostruzione del testo occidentale (ripeto, questa era la parte più facile) e, dall’altro, intendeva rispondere all’invito di Irigaray per cui la differenza sessuale è ciò che la nostra epoca ha da pensare. Così, si è cominciato a discutere in gruppo, a scrivere, e ne è nato il primo libro pubblicato per La tartaruga1, ovvero Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, nel quale il mio contributo era quello maggiormente teoretico.

Da cosa è scaturita l’idea della sua ultima pubblicazione, scritta con Olivia Guaraldo: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa)?

Cavarero: L’idea nasce sulla base di una proposta di Mondadori. Mi hanno contattata chiedendomi di scrivere un libro sul femminismo in grado di fare chiarezza sul vocabolario che circola attualmente, spesso in modo molto confuso e concettualmente non fondato. Mi riferisco al linguaggio che ruota intorno a categorie come gender, transgender, intersex, fluidity, nonbinary… La parola gender viene utilizzata in maniera completamente diversa, da un lato, da coloro che fanno studi di genere o dalla comunità LGBTQIA+ e, dall’altro, da coloro che contrastano ideologicamente questo tipo di impostazioni come le forze neocattoliche e conservatrici. Avendo altri lavori in corso, mi sono avvalsa della collaborazione di Olivia Guaraldo che è stata, diciamo, una mia allieva e ora è professoressa ordinaria di filosofia politica a Verona. Olivia, come me, ha sempre studiato il femminismo e Hannah Arendt, del cui pensiero è una specialista. È stata una grande scommessa perché lo abbiamo scritto veramente a quattro mani: io facevo un pezzo, lei faceva un pezzo, poi ce lo scambiavamo e ognuna correggeva lo scritto dell’altra, cancellava e aggiungeva. Questo processo è stato naturalmente accompagnato da molte discussioni e mi ritengo soddisfatta del risultato. Certo, come tutti i testi è imperfetto, però è la nostra proposta. Insomma, il fine del testo è fare chiarezza sul linguaggio che circola, sui concetti che lo organizzano, tentando anche di spiegare posizioni che spesso vengono fraintese come quella di Judith Butler. I fraintendimenti derivano dal fatto che i testi di Butler sono molto difficili, per cui mi sembra che molti e molte di quelli che citano Butler non l’abbiano compresa fino in fondo. La sua scrittura è molto complessa e bisogna fare la fatica di seguire il suo ragionamento che si sviluppa attraverso tutta una serie di interrogativi, servendosi di un linguaggio molto articolato, quasi contorto. Per queste ragioni, abbiamo fatto anche un capitolo su Butler, cercando di fare chiarezza. L’idea, dunque, è stata in primo luogo della casa editrice, anche se io, Olivia e altre studiose pensavamo da tempo fosse necessario un intervento di chiarificazione del lessico femminista contemporaneo e degli equivoci a cui si espone. A noi che abbiamo seguito tutta la vicenda fin dagli albori e che conosciamo il panorama americano, internazionale, europeo, italiano, risultava insopportabile il livello di confusione nell’uso del vocabolario inerente al genere. Si pensi a quando le forze neocattoliche conservatrici hanno inventato la fantomatica “teoria gender”. Non esiste alcuna “teoria gender”, esistono gli studi di genere. La teoria gender è un’invenzione polemica.

Quali punti di continuità e di discontinuità possono esserci fra il suo pensiero e la prospettiva di Judith Butler? Ha parlato di una “radice filosofica” del pensiero di Butler che sarebbe in qualche modo venuta meno nella circolazione contemporanea del pensiero dell’autrice. Che cosa intende?

Cavarero: Judith Butler ha ottenuto il dottorato di ricerca all’Università di Yale, terminandolo con una dissertazione su Hegel. Inoltre, durante il dottorato ha avuto l’opportunità di soggiornare per un anno ad Heidelberg in Germania, dove ha potuto approfondire maggiormente il pensiero dell’autore. Questo denso percorso di formazione filosofica si sente nella sua scrittura. Intanto dal punto di vista della complessità: voi sapete che il linguaggio di Hegel – basti pensare alla Fenomenologia dello Spirito – non è proprio un linguaggio semplice. Dopodiché sono da tenere in considerazione anche le altre sue due radici filosofiche principali: Michel Foucault, che tramite il suo insegnamento a Berkeley ha esercitato una forte influenza sul pensiero americano post-moderno, e J.L. Austin da cui Butler ha tratto la nozione di performatività, mutuandola dal celebre How to do things with words. Il pensiero di Butler riposa, pertanto, almeno su questi tre importanti fondamenti filosofici. Inoltre, lei procede per problematizzazioni, per domande su domande che si specificano in altre domande ancora. Questo è un carattere – per così dire – rabbinico della sua argomentazione, probabilmente derivato dalla sua educazione ebraica. Altro tratto stilistico che, insieme alla già menzionata complessità del linguaggio, rende lo sviluppo del suo pensiero molto interessante ma al contempo molto complesso da seguire. Questo riguarda in particolare le sue prime opere come Gender Trouble: feminism and the subversion of identity (1990) e Bodies That Matter (1993) che ho fatto tradurre io stessa per Feltrinelli con il titolo Corpi che contano, scrivendo l’introduzione. Infine, Butler condivide con pressoché tutte le studiose e gli studiosi americani suoi contemporanei il riferimento alla psicanalisi, che complica ulteriormente le cose. Per ciò che concerne il mio rapporto con Butler – a parte l’amicizia personale che risale al 1990 – l’affinità principale è stata, almeno all’inizio, la critica al patriarcato. Mi sono occupata di elaborare una critica decostruttiva del patriarcato – per esempio – in Nonostante Platone, traendo da essa l’occasione per la parte costruttiva. Relativamente a questa pars construens ho un metodo su cui insisto spesso e che consiste nel riprendere dei concetti o delle figure del macrotesto patriarcale tentando di decodificarli per risignificarli diversamente. In questo modo intendo elaborare concetti o categorie che possano offrire una prospettiva femminista sulla differenza sessuale. Judith non ha questo metodo, ha piuttosto quello che definirei un “metodo a carrarmato hegeliano-rabbinico” che opera non tanto una risignificazione quanto una parodizzazione. Butler prende quelli che sono ritenuti i fondamenti del sistema patriarcale sovvertendoli. Come fa, ad esempio, in Gender Trouble, dove valorizza il potenziale eversivo del drag. Per Butler, infatti, lo scambio di genere posto in atto attraverso il travestimento non è uno scambio a somma zero bensì uno scambio che destabilizza e mette in ridicolo. Secondo lei questa destabilizzazione è un’operazione sovversiva che può avere un forte impatto critico sulla saldezza del sistema patriarcale e sulla sua immaginazione. Dunque, le nostre proposte sono molto diverse anche se abbiamo sempre dialogato con grande amicizia. Lei mi ha introdotto negli Stati Uniti, facendo tradurre i miei libri in inglese e scrivendone i blurb. Nel 2005 ha pubblicato il testo Giving an account of oneself dove dedica un capitolo al mio libro sulla narrazione [n.d.r. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (1997)]. Lei stessa ha dichiarato pubblicamente più volte che le ho insegnato a leggere Lévinas, lo dice sempre: «Adriana Cavarero taught me how to read Lévinas». Dunque il nostro è sempre stato uno scambio intenso. Inoltre, ultimamente la parte più teoretica, prettamente filosofica, del nostro lavoro intellettuale si è sempre più avvicinata, convergendo sul pensiero di Hannah Arendt. Nella nostra ultima produzione, io e Butler siamo entrambe interessate a concetti arendtiani come quelli di vulnerabilità, esposizione e soggetto relazionale. Io la cito molto nei miei libri e lei mi cita molto nei suoi. Trovo interessante il fatto che per ambedue si sia un po’ sopito l’interesse per i problemi relativi a sesso e genere mentre è aumentato l’interesse strettamente politico relativo a violenza, non-violenza e comunità.

Il suo pensiero e quello di Butler interrogano in modo molto determinato il concetto di ordine simbolico. Potrebbe spiegare in che cosa si differenziano i vostri approcci in relazione a questa nozione?

Cavarero: Sostanzialmente usiamo la nozione di ordine simbolico in maniere molto diverse. Butler, come ho detto, frequenta la psicanalisi e Jacques Lacan. Il pensiero dello psicoanalista francese era molto diffuso in America. Al tempo non si poteva assistere ad un talk, anche di un giovane ricercatore o di una giovane ricercatrice, che non cominciasse chiamando in causa il mirror stage di Lacan. Stava diventando veramente un ritornello ripetuto. Oggi non è più così in voga, per fortuna. Ad ogni modo, per chi studia Lacan, il Simbolico ha un significato tecnico che si può comprendere solo se lo si colloca tra gli altri due registri dell’Immaginario e del Reale. Per quanto mi riguarda invece, utilizzo la nozione di ordine simbolico come la possono usare gli antropologi o gli storici delle religioni. Preferisco questo genere di riferimenti culturali al Lacan “americano” con cui si confronta Butler. Per me le parole ordine simbolico indicano semplicemente quell’insieme di interpretazioni e di valori che è predominante. Quindi, uso questo concetto in una maniera più ampia e meno specifica di Butler che invece lo adopera in un senso più vicino a quello lacaniano. Sinceramente il pensiero di Lacan mi interessa poco. Per ciò che concerne la psicoanalisi ho letto con piacere Freud, Jung, Klein… Naturalmente come studiosa sono informata di queste teorie. Tuttavia, non mi affascinano e detesto l’uso che spesso se ne fa. Mi sembra che ci sia una tendenza a ricondurre tutto all’inconscio e che questa esponga al rischio di semplificare un po’ troppo.

Nel testo Nonostante Platone: figure femminili della filosofia antica (1990), cui ha fatto cenno, lei opera una risemantizzazione in chiave femminista di varie figure appartenenti alla cultura patriarcale dei greci. Ricostruirebbe l’operazione che ha effettuato sulla figura di Penelope per fornire un esempio di ciò che lei intende con risignificazione?

Cavarero: Certo, la figura di Penelope è una di quelle su cui mi sono maggiormente concentrata in Nonostante Platone. A ottobre ho tenuto una conferenza su Penelope a Roma, è stata organizzata una mostra che prevede una serie di incontri su Penelope la tessitrice. Ho trovato la mostra molto interessante perché è anche un omaggio a Maria Lai, la grande artista italiana che faceva opere con la tessitura e la filatura. Nel suo paese natale, in Sardegna, metteva fili di lana che attraversavano tutta la città. Penelope è una figura ancora viva, che non appartiene solamente al passato. La mia tesi in Nonostante Platone è che accanto alla Penelope canonica, tradizionale – la moglie fedele che sta nella stanza dei telai a filare con le ancelle, dove è destinata dall’ordine simbolico e sociale dell’epoca – ce ne sia un’altra, ben più interessante, che si tratta di far emergere. Ci sono dei segni, degli strappi, dei sintomi nel testo omerico che divengono rivelatori di altre possibili interpretazioni, qualora se ne faccia una lettura attenta. Ad esempio, quando torna dal suo viaggio, Ulisse è riconosciuto da tutti tranne che da Penelope. Altro elemento che non torna è l’attesa dei Proci: si può presumere avessero una minima intelligenza; eppure, credono che ci vogliano dieci anni per tessere il sudario di Laerte, il padre di Ulisse. Questa storia ripetuta da sempre è attraversata da alcune stranezze. Approfittando di questi due punti ambigui del racconto omerico, ho ricostruito la figura di Penelope rendendola una donna che non aspetta il marito e che, quando Ulisse torna, capisce che ciò significa la fine della sua funziona politica ad Itaca. Con il suo trucco di tessere e disfare, Penelope teneva di fatto in scacco il potere sull’isola. Attraverso questa ricostruzione ho offerto un’immagine, un simbolo all’esperienza femminista del separatismo, perché lei sta separata nella stanza delle ancelle e con la loro complicità elabora il trucco del sudario. Come il marito, ha una metis che non si esaurisce in un solo campo. L’uomo è guerriero, la donna tessitrice, questi sono i doni di Atena. Ma la metis di Ulisse non è solo guerriera, come dimostrano l’invenzione del cavallo di legno e l’inganno teso ai troiani facendo leva astutamente sulle comuni credenze religiose. In maniera analoga Penelope non è solamente tessitrice: stando nella stanza del telaio ed elaborando il suo stratagemma, tiene in scacco la politica, ambito al quale non dovrebbe avere accesso. Anche se, quando si reca nelle stanze dove si tengono le discussioni tra uomini, Telemaco le intima di tornare nella stanza del telaio, da questa Penelope riesce nondimeno a gestire la politica della città. Questa figura dà fiducia alle donne, simboleggia il fatto che anche a partire dal confinamento domestico o dalla costrizione a farsi carico della maggior parte del lavoro riproduttivo, come Penelope si può trovare il coraggio di sfidare il patriarcato e costruire la propria autonomia. Ma Penelope è solo un esempio, io non rubo una sola figura, ne rubo molte. Possono esserci molte vie di risignificazione dell’esperienza femminile, molti percorsi generativi.

Un riferimento significativo in Donna si nasce è quello al noto saggio Il contratto sessuale di Carole Pateman nonché a due importanti figure femminili contemporanee ai fatti della Rivoluzione francese, quali Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft. Che ruolo svolgono queste autrici nell’economia complessiva del vostro libro?

Cavarero: Dovreste porre questa domanda ad Olivia Guaraldo perché questa parte è stata scritta da lei! Ad ogni modo, approvo e condivido le sue tesi, quindi credo di poter rispondere in questo modo. Il discorso di Pateman sul contratto sessuale è molto interessante perché si pone in dialogo con l’antropologia e con la struttura portante della teoria politica moderna, ovvero il giusnaturalismo. Pateman ha come riferimento autori che a me e Guaraldo sono molto noti: Hobbes, Rousseau, Locke. In poche parole, i pensatori del contratto sociale, che è una specialità tutta moderna. Nessuno aveva mai teorizzato prima nulla di simile, la dichiarazione di un’uguaglianza e una libertà come determinazioni di ogni individuo. De Gouges e Wollstonecraft, invece, sono proprio sul terreno in cui queste cose si realizzano concretamente. Sia chiaro, non si tratta di studiose, di filosofe che si occupavano della teoria giusnaturalista. Wollstonecraft era una scrittrice inglese che aveva seguito da vicino gli eventi immediatamente successivi alla Rivoluzione francese, così come de Gouges che aveva pubblicato proprio in quegli anni alcuni pamphlet rivendicando l’uguaglianza delle donne agli uomini. Queste autrici si trovano di fronte a queste novità straordinarie vedendole trasformarsi, da puri concetti astratti, in elementi costituzionali, temi di operatività politica. Le teorie di Hobbes e Locke, prima di allora non avevano ancora avuto un risvolto pratico effettivo. Circolavano come pure teorie, come quelle mie e di Butler. Con la Rivoluzione americana e, soprattutto, con la Rivoluzione francese, quelle teorie e quei concetti avevano fatto irruzione nella scena della storia. Queste donne agiscono e scrivono mentre questi fatti si stanno verificando. Si capisce dunque che l’idea che donne e uomini siano titolari degli stessi diritti è davvero molto avanzata al tempo. Wollstonecraft è forse ancor più interessante di De Gouges, perché si avvicina molto alla struttura teorica della differenza sessuale sostenendo che vi sia una specificità femminile, come una maschile, che non deve però essere utilizzata come base per una discriminazione e una subordinazione. Questa specificità non corrisponde, infatti, a quella imposta al femminile dall’ordine simbolico patriarcale, cioè al fatto che le donne, a differenza degli uomini, non possono studiare, sono relegate in casa, devono essere lavandaie – se povere – o bamboline in attesa di marito – se appartenenti a famiglie abbienti. Questo è il giogo imposto dagli uomini sulle donne. Le donne, in forza della loro libertà e dell’uguaglianza agli uomini, sul piano dell’estensione dei diritti, devono avere accesso all’istruzione e alla libertà di movimento. Ma questo, sottolineo, non significa per Wollstonecraft che esse debbano identificarsi con gli uomini. Secondo lei, le donne hanno una certa esperienza di cura, di riflessione, che possono essere valorizzate nella costruzione complessiva di una buona società. Il suo orizzonte è quello di una società giusta, costituita da uomini e donne con uguali diritti ma differenti specificità. Divengono, a questo punto, complementari. Certo, io da sempre contesto la teoria della complementarietà dei sessi, ma se la si contestualizza nell’epoca in cui scrive Wollstonecraft, se ne comprende la dirompenza.

Le chiediamo, in riferimento a quest’ultimo tema, per quale ragione la sua riflessione sulla maternità, sviluppata nell’ultima parte del testo, giunga alla conclusione che la gestazione per altri riproduca surrettiziamente il controllo patriarcale sul corpo della donna?

Cavarero: Io parlerei proprio di una riproduzione diretta, nemmeno surrettizia. Nel senso che il vecchio padre della famiglia tradizionale controllava quando le donne potevano accoppiarsi, quando potevano rimanere incinte. Si trattava di un controllo immediato, esplicito per così dire. Ora si profila un tipo di controllo della capacità generativa della donna che penso sia per alcuni aspetti peggiore perché si tratta di uno sfruttamento commerciale. Ciò che non finirà mai di stupirmi è che la sinistra istituzionale sostenga questo o quanto meno che non vi si opponga con durezza. Mi chiedo come la sinistra possa sostenere quella che è un’evidente operazione di mercato. Ci sono agenzie che si reclamizzano per sfruttare il corpo di donne povere al fine di produrre bambini che, a loro volta, diventano merci vendibili. Resta da chiedersi: come si è giunti a questo? Attraverso la “scienza”, certo. La scienza progredisce strutturalmente, pertanto, fare una critica della scienza dal punto di vista della tendenza allo sviluppo mi sembra del tutto deleterio. La scienza ha un intrinseco desiderio di conoscere ed esplora ogni campo possibile. Un nuovo campo possibile, ora, è diventato quello della fecondazione in vitro. All’inizio essa permetteva di ovviare a problemi organici a causa dei quali la fecondazione non poteva avvenire in utero. A partire da questa opportunità, il mercato ha assorbito la rilevanza e il profitto che potevano generarsi dalla fecondazione in vitro. Questo profitto è cospicuo perché il flusso di denaro che circola in questo settore è in crescita costante. Io non ho molto da dire, se non mettere in guardia rispetto alla falsità di alcune narrazioni nelle quali si sostiene che le donne lo facciano gratuitamente perché vogliono donare la vita. Si tratta di invenzioni di marketing. Sono ipocrite. Se persone istruite che conoscono le retoriche delle strategie di marketing accettano queste narrazioni come vere e genuine, allora io, personalmente, non posso che parlare di ipocrisia.

Nel testo ricorre più di una volta la sottolineatura di un rischio che è quello di spostare l’asse del riferimento dalla differenza sessuale a un’altra modalità di concepire la differenza, ovvero nei termini di pura diversità individuale. In particolare, questo scivolamento viene da voi attribuito alle tendenze interne ai movimenti transfemministi contemporanei, che dal punto di vista teorico appaiono essere influenzati dalle riflessioni di Butler. In cosa consiste questa distinzione? Secondo lei è possibile elaborare una critica significativa al sistema patriarcale prescindendo dal riferimento alla differenza sessuale?

Cavarero: A questa seconda domanda voglio rispondere immediatamente: no. Il patriarcato è quel sistema che gerarchizza i sessi, garantisce privilegi agli uomini e subordina le donne, in una molteplicità di modi che divergono notevolmente a seconda del contesto storico, dagli antichi alla modernità, passando per il cristianesimo. Dal mio punto di vista, se prescindiamo dalla differenza tra uomo e donna, cioè dal fatto che si tratta di due soggetti sessuati diversi, bisogna tenere in considerazione che il patriarcato – al contrario – non dimentica questa differenza. Un esempio concreto: nell’organizzazione del lavoro la relazione patriarcale è ancora in vigore sebbene sottaciuta e apparentemente oscurata dalle agende che impongono di non considerare la differenza tra uomo e donna. Questo vale solo teoricamente. Il mercato del lavoro, dal punto di vista del riconoscimento del sesso maschile e femminile, non si sbaglia. Non si può elaborare il concetto di patriarcato se non si mette in primo piano che i sessi sono due e sono disposti gerarchicamente. Per quanto riguarda la distinzione tra differenza sessuale e differenze singolari, voglio chiarire che, essendo una studiosa di Hannah Arendt, penso che scopo della politica sia garantire uno spazio di interazione alle singolarità, alle “unicità incarnate”. Su questo tema ho scritto anche un libro, Democrazia Sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019). Tuttavia, la differenza sessuale è un dato strutturale che attraversa le singolarità. Chi nasce è sempre un’unicità incarnata, ma ha anche, sempre, un sesso o l’altro. Abbiamo, ciascuno, una storia di vita, un’esperienza soggettiva che è singolare e unica. Il modo di esprimere questa singolarità è l’interazione in uno spazio comune, la costruzione di movimenti politici di riconoscimento delle differenze articolate all’interno della pluralità. Sottolineo pluralità, da non confondere né con la molteplicità delle diversità individuali, il cui rovescio è la radicale indifferenza, né con la moltitudine di Toni Negri. Eppure tutti noi abbiamo due gambe. Questo, forse, ci rende uguali? Certamente no. Il problema delle due gambe si pone a molti livelli, anche a livello filosofico perché siamo animali che non corrono molto in fretta, mentre le pantere, che hanno quattro zampe disposte diversamente, corrono più veloci. Ciò significa che esse hanno una modalità di adattamento ecologico e noi ne abbiamo un’altra. Nelle cacce primitive erano le pantere a cacciare noi, non viceversa. Questo ha determinato che la civiltà umana si organizzasse diversamente. Tutti gli elementi corporei non sono secondari rispetto alla storia umana, se è la storia umana che ci interessa… Ovviamente la differenza sessuale rientra fra questi elementi, non è secondaria quanto piuttosto strutturale, esattamente come lo è possedere uno stomaco.

Adriana Cavarero è professoressa onoraria all’Università di Verona dal 2019 ed ha insegnato come Visiting Professor nelle seguenti università americane e inglesi: University of California (Berkeley e Santa Barbara), New York University, Harvard University, University of Warwick e University of Chicago. Nel 1971 si è laureata cum laude in filosofia all’Università di Padova, dove ha poi svolto il dottorato di ricerca conclusosi nel 1974 con la pubblicazione della sua tesi di dottorato: Dialettica e politica in Platone. Ha poi collaborato con il gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso, occupandosi del pensiero politico di John Locke e David Hume. Nel 1983, insieme, tra le altre, a Luisa Muraro, ha fondato la comunità filosofica Diotima a Verona, dove è stata professoressa ordinaria. Cavarero è riconosciuta, in Italia e all’estero, come una figura decisiva del pensiero della differenza sessuale. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Nonostante Platone. Figure femminili della filosofia antica (1990), Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofie della narrazione (1997), Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019) e l’ultimo testo, scritto assieme ad Olivia Guaraldo e pubblicato nel 2024 per Mondadori: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa).

Note

  1. N.d.r.: La Tartaruga è una casa editrice italiana fondata, nel 1975, da Laura Lepetit e Anna Maria Gregorietti Gandini. Si occupa di pubblicare libri di narrativa, critica letteraria, filosofia e politica scritti unicamente da donne. Legata a doppio filo con i movimenti femministi italiani, a partire dagli anni ’70 ha pubblicato – tra le altre – le opere di Virginia Woolf e Gertrude Stein oltre che la saggistica femminista prodotta da autrici appartenenti a Diotima come Adriana Cavarero, Luisa Muraro, Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Dal 2017, La Tartaruga fa parte del gruppo La Nave di Teseo e, dal 2021, è curata da Claudia Durastanti. Nel 2023 la casa editrice ha ripubblicato Sputiamo su Hegel (1970) e nel 2024 Taci, anzi parla (1978) di Carla Lonzi, nel contesto di un progetto editoriale che prevede una nuova pubblicazione dell’intera opera dell’autrice fiorentina. ↩︎

da Il Corriere della Sera

Nella coda delle celebrazioni per i cent’anni del movimento di André Breton, Palazzo Reale di Milano

Nel 2024, anno delle celebrazioni ufficiali per i cent’anni del Surrealismo, l’ondata delle riscoperte aveva (finalmente) toccato Leonora Carrington (1917-2011), Ithell Colquhoun (1906-1988), Remedios Varo (1908-1963), Dora Maar (1907-1997), Dorothea Tanning (1910-2012): artiste irrequiete ma consapevoli del proprio talento, alle quali quel movimento surrealista del poeta André Breton e di Max Ernst, Salvador Dalí, Man Ray, Jean Cocteau, Georges Bataille sembrava andare terribilmente stretto.

Proprio come Leonora, Ithell, Remedios, Dora e Dorothea anche Leonor Fini (Buenos Aires, 30 agosto 1907 – Parigi, 18 gennaio 1996), protagonista della personale che si inaugura il 26 febbraio al Palazzo Reale di Milano (Io sono Leonor Fini, a cura di Tere Arcq e Carlos Martín) riconquista con questa mostra (nata sempre sull’onda del centenario) quel ruolo che in qualche modo le era stato troppo a lungo negato: forse per quel carattere spinoso e orgoglioso che traspare dall’Autoritratto con il cappello rosso (1968); forse per quelle sue figure troppo inquietanti e troppo oscure per un salotto alto-borghese (Stryges Amaouri, 1947); forse per quell’erotismo molto fluido e transgender (Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen warten!, 1975).

L’universo di Leonor Fini è l’universo trasgressivo di Démons et sortilèges (1943), dell’Escalier dans la tour (1952), della Cérémoine (1960), della Grande Racine (1943), di Crâne de poisson africain (1945-1950). Dopo la Biennale di Venezia (Il latte dei sogni) che nel 2022 l’aveva ospitata nel Padiglione Centrale ai Giardini e dopo la mostra Insomnia al Mart di Rovereto nel 2023 che l’aveva messa a confronto con un altro visionario come Fabrizio Clerici (1913-1993), Palazzo Reale propone la definitiva riscoperta dell’universo di Leonor attraverso un centinaio tra dipinti (una settantina), disegni, fotografie, costumi, libri, video che di fatto superano ogni possibile confine di stile, genere, ruolo, convenzioni. Con la sua dedica una retrospettiva alla pittrice che indagò e stravolse genere, identità, appartenenza, ribaltando i ruoli di uomo e donna in società e sulla tela

pittura, pervasa di una nuova mitologia costellata di creature inquietanti e fantastiche (L’ange de l’anatomie, 1949), Leonor rilegge la realtà attraverso una lente intrisa di sensualità, magia e potere. Mettendo in scena un potere tutto o quasi al femminile che trova degna rappresentazione in un’altra opera simbolo della mostra milanese, Femme assise sur un homme nu (1942), dove una donna vestita con un sontuoso abito di velluto torreggia letteralmente seduta su un uomo nudo addormentato, sullo sfondo di un paesaggio neo-rinascimentale: un modo per invertire i ruoli, negando le tradizionali caratteristiche maschili (potere, virilità, stoicismo) ed esplorando allo stesso tempo le tematiche della dominazione e della sottomissione.

Nata a Buenos Aires da Herminio Fini, argentino di origini italiane (proprietario di numerose haciendas) e Malvina Braun, triestina appartenente all’alta borghesia ebraica, all’età di due anni Leonor si rifugia con la madre a Trieste per fuggire da un padre oppressivo. I molteplici tentativi con cui quest’ultimo prova a riportarla in Argentina nel corso degli anni la spingono a camuffarsi da ragazzo, gettando le basi per i suoi travestimenti e le sue inversioni di genere. Durante un breve “passaggio” milanese Leonor conoscerà Carlo Carrà, Gio Ponti (che le commissiona alcuni disegni per la rivista “Domus”), Mario Sironi, Giorgio de Chirico, e poi Achille Funi, con cui stringe una relazione sentimentale e grazie al quale scopre l’arte classica e la pittura quattrocentesca.

Sarà proprio de Chirico che le consiglierà di trasferirsi a Parigi e che le farà conoscere i surrealisti. Pur sviluppando legami significativi con artisti di spicco come André Breton, Luis Buñuel e Max Ernst, Fini rifiuterà l’invito a unirsi ufficialmente al gruppo, rigettando l’idea tradizionale che Breton e gli altri avevano delle donne. Comincia così a lavorare per la stilista italiana Elsa Schiaparelli (per lei inventerà la boccetta del profumo «Shocking» ispirata al busto dell’attrice Mae West) e a disegnare costumi per il balletto, il teatro e il cinema. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Leonor Fini lascia Parigi e si rifugia in un primo momento nella casa di campagna di Max Ernst e Leonora Carrington (all’epoca amanti assai turbolenti), poi a Montecarlo. Dove conosce il console italiano Stanislao Lepri, che abbandonerà la carriera diplomatica per la pittura. La loro storia d’amore durerà fino alla morte di lui nel 1980, con un (breve) soggiorno a Roma, dove Leonor stringerà amicizia con Anna Magnani, Elsa Morante («Leonor unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà»), Mario Praz, Carlo Levi, Luchino Visconti, Alberto Moravia.

L’arte di Fini (che guarda sempre ai grandi maestri come Piero della Francesca e Michelangelo e ai manieristi) è dunque un veicolo non solo per esplorare le sfide della condizione femminile, ma anche per contemplare la spiritualità e l’esoterismo. Un destino che ancora una volta avvicina Leonor Fini a Leonora Carrington (il titolo della Biennale di Venezia 2022 era una citazione di un suo libro di favole), un destino confermato dalla scelta di Palazzo Reale di dedicare proprio alla Carrington una grande retrospettiva che si inaugurerà a settembre 2025. Entrambe le artiste hanno fatto «da modello» per intere generazioni di artisti. Non a caso Leonor Fini – Italian Fury era il titolo della mostra che Francesco Vezzoli le aveva dedicato nel 2022 alla Galleria Tommaso Calabro («The Italian Fury» era uno dei soprannomi di Leonor): «Fini è l’antidoto a questo momento storico dominato dal mercato: – aveva spiegato Vezzoli – è identità, eccentricità, messa in scena, tutto ciò che il mercato non può controllare. È insieme la Contessa di Castiglione, Eleonora Duse, Marina Abramović: anticipando la contemporaneità, la sua opera d’arte era la performance della sua esistenza».

da Il Corriere della Sera

Alla palestinese nel 2023 alla Buchmesse fu assegnato ma poi non consegnato il LiBeraturpreis: «Non è questa la cosa che fa male…». In Italia torna il suo romanzo “Sensi”

Adania Shibli ama ascoltare storie, quelle che sua mamma – che non sapeva scrivere – invece sapeva raccontare così bene. L’ha spiegato qualche anno fa in un’intervista al «Guardian». E c’è una mamma che non legge, che resta esclusa dal mondo della bambina alla scoperta dei libri anche in Sensi, il piccolo capolavoro che Shibli ha scritto quasi vent’anni fa, all’esordio, e che, uscito in Italia per Argo nel 2007, torna ora con La nave di Teseo.

Nel frattempo, Adania Shibli, palestinese, è diventata un’autrice di culto. Ha pubblicato pochissimo: Sensi, Un dettaglio minore, alcuni racconti e ha completato un romanzo che sta per uscire in arabo. Su Un dettaglio minore – 128 pagine, sempre per La nave di Teseo – ha lavorato dodici anni. Eppure è tra i nomi più ammirati della letteratura mondiale, fu candidata con quest’ultima opera sia al Booker Prize che al National Book Award, i due più importanti premi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il suo nome è diventato noto a un pubblico ampio quando nel 2023 alla Buchmesse di Francoforte le fu conferito il LiBeraturpreis ma la consegna venne sospesa per non urtare certe suscettibilità tedesche, subito dopo il 7 ottobre e l’inizio della guerra di Israele contro Hamas. Ne è nata una sollevazione internazionale, con premi Nobel come Olga Tokarczuk, Annie Ernaux e Abdulrazak Gurnah intervenuti in suo favore. Quando ci risponde, dice che non vuol parlare di politica. Nessuna intenzione di tirarla a forza in polemiche, precisiamo. «Ci mancherebbe, nessun problema, non me ne potrebbe importare di meno – dice – di finire in controversie politiche. È che mi piacerebbe parlare di letteratura».

Un dettaglio minore è la storia di uno stupro, compiuto da un ufficiale israeliano su una ragazza beduina nel 1949, e la ricerca molti decenni dopo da parte di un’impiegata palestinese per conoscere la verità della ragazza. Sensi potrebbe anche essere l’educazione (esistenziale, più che sentimentale) di una ragazzina palestinese – mentre la vita del suo popolo è letta attraverso le esperienze dei suoi famigliari – fino alle nozze che lei non vuole, o non vorrebbe.

Shibli vive tra Berlino, Bir Zeit (in Palestina, dove insegna) e Londra, dove ha ottenuto un dottorato in Studi culturali. Ed è estremamente colta, con una solida base teorica, dentro il dibattito contemporaneo: si potrebbe anche dire che sia una delle voci dell’antirazzismo mondiale. Ma quando scrive, la sua è una lingua pura, fatta di pochi elementi, scorre quasi come una poesia: non a caso l’ha notata e incoraggiata a scrivere il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. Fluisce per immagini, quasi come un’installazione letteraria. E non la si dimentica più. «È un miracolo che la fiction che Shibli compone da un materiale abbondantemente politico sia così strettamente esistenziale», ha scritto di lei l’autore e critico inglese Adam Thirlwell. Difficile trovare parole più precise.

Lei sceglie spesso ragazze giovani come soggetto dei suoi libri, o adotta il loro punto di vista. In Sensi, la protagonista è una ragazza particolare: sente suoni, a poco a poco scopriamo che è molto intelligente. Perché?

«Non sono sicura che sia così, ma è certamente vero per Sensi, e forse per altre due storie brevi. In Sensi, la dimensione di essere una ragazzina suscita incontri con il mondo a molti livelli, e questo mondo è vissuto ogni volta per la prima volta. Man mano che la protagonista cresce, il modo in cui lo percepisce cambia. Infatti, è attraverso questi cambiamenti portati dai suoi sensi che vive la crescita, piuttosto che attraverso gli strumenti usuali per misurare il tempo, come contare i giorni e gli anni».

La morte del fratello, il suicidio di un vicino che si impicca in Sensi, l’uccisione della ragazza beduina in Un dettaglio minore. La morte sembra quasi una presenza naturale.

«Ma anche la vita. I personaggi in questi romanzi sono affascinati dalla vita che continua dopo la morte o la precede; da come la vita continua con le assenze degli altri. Forse i miei testi sono segnati da queste assenze, tormentati dalla domanda su come portiamo nelle nostre vite la presenza di coloro che non sono più con noi. O su come le morti stanno formando le nostre vite, talvolta deformandole».

Perché non dà nomi ai protagonisti?

«Finora non ho incontrato un personaggio che richiedesse un nome. I personaggi richiedono cose diverse in un testo: movimenti, passati, emozioni, amore, solitudine e a volte richiedono un nome, ma non sempre. Nel nostro rapporto intimo con noi stessi difficilmente abbiamo bisogno dei nostri nomi, per esempio».

L’ufficiale-assassino non prova empatia. E forse neppure la donna palestinese che indaga. Quant’è importante per lei esplorare come si partecipa alla vita degli altri, o l’impossibilità di farlo?

«La scrittura e la lettura, e l’arte in generale, ci permettono di fare spazio in noi per gli altri. Non soltanto condividiamo qualcosa con loro, piuttosto questi altri fittizi, attraverso la lettura o la scrittura, possono abitare in noi. Spesso possiamo dimenticarci di noi stessi quando leggiamo o scriviamo, a favore di ciò che stiamo leggendo e scrivendo. E questo è ciò che alcuni definiscono come l’effetto trasformativo della letteratura e dell’arte. Non è qualcosa che pianifichiamo, piuttosto qualcosa che ci accade. Non si tratta di identificarsi con un personaggio, ma di come i personaggi risvegliano qualcosa in noi che alla fine ci rende consapevoli di un luogo dentro di noi che non conoscevamo fino a quel momento, o che non avevamo notato. Una tale consapevolezza, per esempio, è la nostra capacità di causare dolore, che l’ufficiale potrebbe risvegliare quando stupra e uccide la ragazza».

Lei ha vinto premi importanti. La consegna del LiBeraturpreis alla Buchmesse, nel 2023, fu sospesa a causa delle controversie legate alla guerra israelo-palestinese. Si è sentita ferita?

«Innanzitutto, non chiamerei questo conflitto “guerra israelo-palestinese”. Lo definirei occupazione militare israeliana e colonizzazione della Palestina da decenni. Ed è questo che fa male, fa profondamente male, la distruzione che dura da decenni e che viene inflitta ai palestinesi e agli israeliani, ciascuno con il proprio ruolo e la propria posizione all’interno di tutto ciò. C’è stata una sottomissione continua dei palestinesi mediante l’oppressione militare e politica, attivata da un sistema di dominazione basato su una gerarchia etnica che è stata implementata in Palestina/Israele. Come questo sistema di gerarchia etnica continui a essere mantenuto e le sue conseguenze, che distruggono i palestinesi ma anche gli israeliani, ciascuno in modo diverso a seconda del proprio ruolo e delle proprie azioni in questo sistema, è ciò che fa male. Non la cancellazione del premio che era previsto».

È affascinata dalla storia come materiale di scrittura?

«Piuttosto, sono attratta e incuriosita da ciò che la storia non può narrare, o da ciò che la storia abbandona. La storia è stata la materia scolastica che ho odiato di più, perché già allora era evidente la moltitudine di assenze e esclusioni su cui si basa come disciplina».

Il dolore sembra centrale nei suoi libri. Rimane sospeso, osservato, spesso sembra indicibile.

«Fin dall’inizio la scrittura mi ha insegnato come esistere nel mondo causando il minor danno possibile, e permettendomi di vivere alcune esperienze che non possono essere vissute nella realtà in sé. Ciò che ha reso possibile tutto questo è la capacità della letteratura di orientare lo sguardo verso il dolore senza la necessità di praticarlo, e senza permettergli di diventare una forza distruttiva. In Sensi, per esempio, la bambina fatica a comprendere l’entità di un massacro come quello di Sabra e Shatila nel 1982, e ciò che potrebbe essere l’esperienza delle sue vittime, ma questo le consente di cercare di tentare di comprenderlo. In altre parole, di creare una consapevolezza che va oltre la questione dell’esperienza diretta».

Le sue storie sembrano dipinti: il deserto, le stelle, i fiori di mandorlo. È perché ama le arti visive?

«Se scrivo in questo modo, è probabilmente perché amo la lingua più di quanto ami le arti visive».

Perché è necessario raccontare storie?

«Sono più attratta dall’ascoltare storie che dal raccontarle. Qual è l’importanza di ascoltare storie? Suppongo sia un’espressione d’amore: permettere all’orecchio di essere presente e vicino agli altri, in ascolto».

Una donna australiana residente da anni in Italia interviene in una trasmissione radiofonica per raccontare che cosa avviene nel suo paese d’origine a proposito di quel che noi chiamiamo “suicidio assistito” e che le cronache recenti hanno riportato in prima pagina*. Con questa espressione, quasi un ossimoro, in Italia si indica la scelta consapevole di un essere umano di porre fine alla propria vita a motivo della sofferenza causata da una malattia gravemente invalidante, e di provvedervi per via di un farmaco che garantisca un passaggio dolce tra la vita e la morte.

La testimone comincia segnalando che in Australia si parla di “morte assistita”, e nota che l’espressione definisce tutt’altro modo di affrontare il problema. Racconta di un’amata sorella di ottantadue anni che ha contratto una malattia di natura progressiva che la porterà alla morte con notevoli sofferenze. In quel paese, medici competenti hanno valutato attentamente il caso e si sono impegnati a dare alla donna la possibilità di interrompere la vita quando vorrà. Le telefonano una volta alla settimana e si informano sul suo stato. L’anziana dice che per il momento riesce ancora ad avere una vita abbastanza piacevole, anche perché rasserenata dall’opportunità di avere a disposizione una dignitosa via d’uscita. Anche la nostra testimone dichiara di essere confortata dal sapere che la sorella potrà assumere a casa sua, quando vorrà, un farmaco adeguato. C’è una bella differenza – conclude – e sottintende con quanto previsto in Italia: e cioè commissioni, autorizzazioni, lunghissimi tempi burocratici.

Sono rimasta fulminata da questa testimonianza e mi è parso chiarissimo che si tratta della libertà che desidero per me. Anche Almodóvar nel suo ultimo film, La stanza accanto, l’ha messa sotto i nostri occhi ma, i miei almeno, non l’hanno saputa vedere. Abbagliati dalla bellezza e bravura delle due attrici, dai paesaggi, dai dialoghi raffinati, non hanno visto che il motore essenziale dell’azione sta proprio nella piena libertà di una delle due di porre fine alla propria vita scegliendo il luogo e la compagnia desiderata, quella dell’amica cara. Quanto al tempo, la protagonista si riserva di compiere il gesto con altrettanta libertà, in un momento di intimità con se stessa, lasciando delicatamente un segnale concordato – la porta della sua camera da letto chiusa – per avvertire l’amica del fatto compiuto.   

In occasione della recente legge della Regione Toscana sul cosiddetto suicidio assistito, ho discusso del tema con qualche amica che si chiedeva se fosse necessario o addirittura nocivo legiferare sulla materia. Avrebbe preferito affidarsi alla comprensione del personale sanitario che però, come notava un’altra, è ormai molto esposto e attaccabile sul piano penale, se il proprio operato non è garantito dal diritto. Quanto a me non ho saputo far altro che abbozzare una difesa della legge, pur sapendo che è incardinata tutta sui vincoli del sistema sanitario.

Mi è apparso chiaro, così, quanto è difficile tenere stretto il bandolo del mio desiderio. Lascio prevalere le distorsioni del dibattito pubblico che offuscano il mio più intimo senso della libertà, e mi impediscono di concepire un assetto della società e dei rapporti, nel rispetto del mio desiderio, fosse anche di fronte a una materia tanto delicata e urgente. E la libertà che è in gioco per me, riguarda tutti, specialmente noi donne, per più di un motivo. Siamo noi ad accompagnare più spesso verso la fine della vita quelle donne e quegli uomini particolarmente doloranti che rischiano di dipendere in tutto o per gran parte dalla cura degli altri. Siamo inoltre le più longeve e la nostra generazione è la più numerosa. Molte hanno deciso di non avere figli e quelle che ne hanno li vedono, sempre più spesso, nell’impossibilità di farsi carico della vecchiaia dei loro cari. Dovremo cavarcela, tutte, in compagnia delle nostre amiche. Che la fine ci sia lieve il più possibile è una battaglia che possiamo combattere e vincere. Prima di finire nelle note pastoie del paese, medici obiettori in prima fila, facciamo che il diritto intervenga solo per il minimo indispensabile a garantire la nostra libertà e la serenità di chi abbiamo vicino, al di là di ogni inutile e forzata medicalizzazione.

(*) https://www.raiplaysound.it/audio/2025/02/Prima-pagina-del-15022025-b9dc3527-38b3-4100-924d-7889cb3049f9.html da 1:08:58

da il manifesto

Il regista Gianni Torres racconta «Le mamme di San Vito», nel progetto Puglia-Brás

«Quando ho letto a proposito del film di Walter Salles che si parlava del quartiere Brás di San Paolo e poi che il nome della protagonista Eunice Paiva da ragazza era Eunice Facciolla, ho avuto come un’illuminazione: Facciolla è un cognome tipico di Polignano e il quartiere è abitato dai polignanesi, discendenti degli immigrati dell’Ottocento. La tempra di questa gente l’ho vista chiara e nitida nella storia di Eunice». Gianni Torres è il regista di Le mamme di San Vito, documentario che si può vedere gratis su youtube, proiettato negli Usa e in vari altri paesi che ci svela un collegamento sorprendente con tra la protagonista delle vicende raccontate da Walter Salles e la nostra storia di emigrazione: «Andai a San Paolo a girare Le mamme di San Vito: A San Paolo del Brasile ci sono donne discendenti da immigrati da Polignano alla fine dell’Ottocento che sei giorni su sette alla settimana si ritrovano a preparare e vendere prodotti tipici pugliesi. All’interno di questa operazione cade la festa di San Vito che è la festa del patrono di Polignano a Mare e che alcuni mesi fa il presidente Lula ha dichiarato manifestazione di interesse culturale del Brasile, quindi è diventata un’istituzione del paese. Durante questa festa loro vendono orecchiette, panzerotti, i prodotti tipici, con numeri impressionanti: ottocento focacce a sera, duemila panzerotti, quattromila piatti di spaghetti al sugo. I soldi che raccolgono servono a mantenere un asilo dove sono passati più di ventimila bambini brasiliani poveri dagli zero ai tre anni, con cinque pasti al giorno, assistiti da un’infermiera e un medico. «I brasiliani ci hanno aiutato quando siamo arrivati e noi ora aiutiamo loro», dicono quelle donne.

Io sono ancora qui è scritto sulla storia di Eunice. I suoi nonni sono stati tra i fondatori dell’Associazione benefica di San Vito, gli organizzatori della festa, costruttori prima di una cappella, poi della chiesa e poi del palazzone dove i vari piani servivano a formare al lavoro i nuovi migranti, un piano per le dattilografe, uno per le sarte, uno per l’accoglienza, uno per gli altri mestieri.

Eunice e sua sorella hanno conosciuto, frequentato queste anziane donne, la sofferenza della migrazione, la sofferenza dell’identità perduta con la partenza, la ricostruzione della propria identità con la creazione del quartiere Brás dove l’architettura è identica a quella di Polignano a Mare, dove si mettono con le sedie fuori all’uscio, la sera, quella che puliva i pomodori, quella che faceva il chiacchierino, quella che lavorava a maglia, come fanno le donne al sud.

Eunice è vissuta respirando questa caratteristica della comunità di Polignano con tutta la sua forza che è emersa nella storia del film. Nel film c’è un passaggio chiave che la riporta nella comunità, quando lei dice: «Ho affittato questa casa, diventerà un ristorante, torniamo a San Paolo dove i vostri nonni ci aiuteranno». Tornano al quartiere Brás dove Eunice è cresciuta nella comunità di Polignano. Quando lei torna in braccio alla comunità, tutti cercano di aiutarla perché la tragedia che ha vissuto era stata vissuta dalla gente della comunità stessa in altro modo, morti per incidenti sul lavoro o la malattia. Lei ha fatto la stessa cosa, di fronte al problema è rientrata nella comunità per cercare di andare avanti, si iscrive all’università, perché voleva diventare avvocato e si laurea a quarantotto anni.

Il nonno di Eunice è stato tra i fondatori, il presidente del Banco dei cereali di San Paolo che poi è diventato il Mercado Municipal che è a tutt’oggi il mercato che distribuisce frutta e verdura in tutto il sud America. Eunice ha colto dalle proprie radici quella forza che si coglie nel film e nella sua vita. Questa donna ha avuto la capacità di contrastare la dittatura, di esporsi contro i ladri di terre per gli indios, diventando paladina dei diritti degli indios. Tra l’altro il suo lavoro per gli indios è stato preso dalle Nazioni Unite come esempio da riprodurre per tutte le altre comunità degli indios del mondo, indiani d’America, Inuit in Canada.

Quindi Eunice non solo è stata straordinaria per il temperamento che ha avuto, ma è stata ispiratrice della nascente Costituzione del Brasile per i diritti dei popoli. Tutta questa forza nasce in parallelo a tutto quello che hanno fatto i suoi parenti che l’hanno forgiata. È fatta della stessa pasta delle “Mamme di San Vito” che dal lunedì al sabato vanno a fare orecchiette e taralli, tutto gratuitamente per l’asilo. Lei è rientrata nella comunità per cercare di andare avanti. Sono donne che si portano un bagaglio di sofferenza, di tenacia. Quando partivano c’erano due tipi di persone sulla nave, quelli che guardavano a poppa e quelli che guardavano a prua. Chi guardava a poppa falliva e tornava indietro, chi guardava a prua rimaneva e andava avanti. Chi parte come migrante e continua a guardarsi indietro a quello che ha lasciato, viene divorato quando arriva nella nuova terra. Nel mio film c’è una frase molto forte che dice un signore: «Noi siamo la feccia della società perché non siamo riusciti a vivere nel luogo dove siamo nati». I migranti si portano dietro questo bagaglio, hanno sempre pensato che loro erano gli scarti, quelli che non avevano combinato niente nella loro terra.

La comunità di Polignano a differenza di altre comunità non è andata a sostituire gli schiavi, perché loro arrivarono alla fine dell’Ottocento quando in Brasile fu abolita la schiavitù nel 1882, l’ultimo paese al mondo ad abolire la schiavitù. I governi statunitense, argentino, brasiliano, venezuelano, invitavano italiani, giapponesi, tedeschi ad andare a lavorare perché avevano bisogno di manodopera. La comunità di Polignano andò tutta in Brasile e quando arrivarono gli fu offerto di sostituire gli schiavi nei campi. Loro che venivano dalla povertà non accettarono, non andarono nelle fazende e rimasero tutti a San Paolo. Da contadini e pescatori si trasformarono in “cittadini” dando un contributo determinante allo sviluppo della città.

da il manifesto

C’è qualcosa di terribile nel silenzio con cui filosofi, giuristi, intellettuali specie accademici assistono oggi non solo alla violazione su larghissima scala, ma all’ostentato ripudio da parte di molti governi occidentali dei principi di civiltà enunciati nelle costituzioni rigide delle democrazie e nelle Carte del costituzionalismo globale che la seconda metà del Novecento ha prodotto. A esemplificare questo assunto, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Guerre e politiche di escalation bellica illimitata.

Riarmo selvaggio nei programmi della maggior parte dei governi europei, genocidi tollerati alla luce del sole, deportazioni annunciate di interi popoli, respingimenti di massa di migranti e immigrati, detenzioni illegali, razzismo ostentato ai vertici dei governi, attacchi violenti all’indipendenza dei sistemi giudiziari nazionali e al diritto internazionale, asservimento delle politiche pubbliche a enormi concentrazioni di ricchezza privata, privatizzazione dello spazio cosmico, recesso dai pochi vincoli esistenti alla devastazione dell’ecosistema. Assistiamo del resto – come ai tempi in cui fu scritto il famoso romanzo di Camus, La peste – al contagio inquietante con cui il cinismo della Realpolitik, sdoganata ai livelli di governo in alcuni stati democratici occidentali, si diffonde nella sfera dell’informazione e del dibattito pubblico; e al fenomeno complementare del silenzio, della non-partecipazione, quindi dell’apparente indifferenza che vi risponde.

Ma si può tacere quando su un grande giornale nazionale di tradizione progressista si legge, a proposito del piano trumpiano di deportazione di massa della popolazione di Gaza, che si tratta di una proposta, «fuori dagli schemi», e che da parte europea sarebbe segno di «poco coraggio» non prenderla in considerazione (Molinari, Repubblica 13 febbraio)? Oltre certi limiti cinismo o silenzio e indifferenza, i sintomi più classici della «banalità del male», equivalgono a complicità nei crimini: è il fenomeno che Luigi Ferrajoli chiama «l’abbassamento dello spirito pubblico» e il «crollo del senso morale a livello di massa» (L’ostentazione della disumanità al vertice delle istituzioni e il crollo del senso morale a livello di massa, sito di Costituente Terra).

La domanda che sottende questa angosciata constatazione è: c’è una corresponsabilità del dotto, dello studioso, del “filosofo” in senso lato in questo «abbassamento dello spirito pubblico»? E una risposta è: certamente. È la lettura puramente politologica che ha prevalso della democrazia, tanto diversa da quella ancora prevalente da Calamandrei al primo Bobbio, e, sul piano globale, nel pensiero che portò alla Dichiarazione Universale del ’48. Un pensiero che sta al polo opposto di quello che, a destra e a sinistra, riduce l’idealità, il vincolo etico in funzione di cui sono progettate tutte le istituzioni democratiche, a ideologia. Cioè a pura retorica di battaglia. Quel pensiero etico non si è prolungato fra gli intellettuali della guerra fredda prima, e di un atlantismo triumphans poi, ma nei documenti della perestroika e della politica dell’«Europa Casa comune» dello sconfitto Gorbaciov, assai più dei “nostri” leader consapevole della connessione inscindibile fra ordine internazionale e democrazia in ciascuno stato. E pensare che la sciagurata storia della nostra democrazia incompiuta, sempre di nuovo violentemente intimorita, avrebbe dovuto rendercene fin troppo consapevoli.

A proposito di Alleanza atlantica. Giova accostare gli estremi, il grande statista sconfitto e la visionaria che de Gaulle fece confinare in uno stambugio di Londra perché non intralciasse la politica, nel ’43 – e crepasse pure d’inedia e di dolore: Simone Weil. Profetici entrambi. «Nella politica mondiale odierna non c’è compito più importante e complicato di quello di ristabilire la fiducia fra la Russia e l’Occidente», scrisse Gorbaciov (appena prima di morire). «Sappiamo bene che dopo la guerra l’americanizzazione dell’Europa è un pericolo molto grave», scrisse Simone nel suo stambugio. La perdizione dell’Oriente (non solo mediterraneo) è la perdita del passato e dello spirito.

Ciò che accade oggi, e di cui siamo responsabili, è l’esito dell’avvenuta politicizzazione (ovvio, se l’idealità non è che ideologia) di ogni sfera di valori e di norme, dunque in particolare dell’etica e del diritto, una politicizzazione nel senso più arcaico e tribale di “politica”, intesa come sfera delle relazioni amico-nemico e continuazione della guerra con altri mezzi. Un’evoluzione dell’autoritarismo – più ferino e insieme indissociabile dalla tecnologia, e soprattutto radicato ormai nel potere aziendale e digitale, un completo rovesciamento del Leviatano o “stato etico” fascista, un nazismo a guida privata. Dove l’abolizione della differenza fra il vero e il falso avviene in nome della libertà di opinione e di espressione, e con la forza degli algoritmi che governano i social, per cui poi l’attacco allo straccio di stampa che resta sembra ancora quasi onesto: ti bastono perché non mi piace ciò che dici, all’antica. Intanto il re non riscrive il passato (che importa) ma i nomi sul mappamondo. E noi? Vorrei rispondere con le parole di Raji Sourani, fondatore e direttore del Centro per i diritti umani a Gaza: «Mi sarei aspettato che l’Europa ci chiedesse di rinunciare alle armi. Macché. Ci chiedeva di rinunciare al diritto».