Da il manifesto – Seconda guerra mondiale. Il rumore delle armi risuona nel rombo dell’aereo che i bambini chiamano Pippo, nel vuoto degli uomini partiti al fronte, fra le lettere che non arrivano e nel ritorno di chi è scappato per non farsi ammazzare dai tedeschi come quei due soldati, uno del paese e l’altro suo amico siciliano che lo ha salvato, che vivono nascosti. Gli uomini più anziani li criticano e gli danno dei vigliacchi ma la guerra la vivono da lontano. Si sa tutto di tutti a Vermiglio, paesino di contadini al confine dell’Italia, sulle Alpi retiche dove il dialetto è più parlato dell’italiano, la lingua che si studia a scuola, e che il maestro insegna in una classe unica ai ragazzi e ai bambini e la sera agli adulti che non sanno né leggere né scrivere. Vermiglio è anche il titolo dell’opera seconda di Maura Delpero, bolzanina, che racconta di essersi ispirata ai luoghi della sua infanzia e alla figura del padre che non c’è più per il personaggio di questo maestro ma anche patriarca – Tommaso Ragno – per il quale la cultura, l’amore per i libri, e per Chopin al punto da comprare dischi quando la moglie fa fatica a trovare il cibo, non si traduce in altrettanta vicinanza umana alla sua famiglia, a quei figli che ha messo al mondo numerosi. Sono dieci, due morti piccoli ma mentre morivano la moglie che sembra una donna anziana ne aveva in pancia un altro e di ciascuno è sempre lui a decidere il destino: se rimanere contadini al paese, sposarsi, lavorare o studiare, quest’ultimo un lusso permesso a una sola, perché si deve eccellere e i sogni non bastano.

A partire da qui Delpero costruisce la sua narrazione modulata su quattro stagioni, dalla festa di Santa Lucia all’estate, con un riferimento abbastanza esplicito all’Albero degli zoccoli di Olmi, “citato” nell’ambientazione, nella texture dei dettagli, nelle luci, in quel dialetto parlato dai personaggi, nel lavoro con interpreti non professionisti. Per il regista bergamasco però i contadini e il loro universo erano il mondo da esplorare mentre qui rimangono sullo sfondo. Non è la loro voce e storia in un momento di passaggio e sofferenza che la regista cerca, al centro c’è piuttosto la donna in diverse età nel confronto con un patriarcato che la soffoca con le sue leggi, e in una idea di maternità salvifica che era già nel precedente Maternal, di cui riprende anche la figura della suora che bada ai bambini.

Così Lucia, la maggiore, si innamora di quel soldato che parla una lingua diversa dalla sua – e non sa leggere e scrivere ma le disegna cuori e nella sua inconsapevolezza diventa l’eroe. Si sposano, lei è già incinta, la figlia nasce insieme all’ultimo fratello della ragazza ma lui non c’è già più, a “salvarla” rimane la bambina, e da lei Lucia troverà la forza di andare in città a servizio – come un personaggio di Pietrangeli nell’Italia non ancora in pieno boom (Il sole negli occhi). Ada che si tormenta perché ha scoperto la sessualità vuole studiare ma il padre la lascia a casa, mentre Flavia stupefatta dal sangue nelle mutande – perché alle povere donne appunto nulla è detto del loro corpo in quel mondo – continuerà gli studi in collegio a Trento e magari si salverà in un’altra Italia a venire. Chissà.

Parliamo di donne: basta davvero l’intenzione di una “storia”? O forse è invece soprattutto una questione di sguardo che nella programmaticità di questo film non apre spiragli né entra in profondità, che non ama i bordi per porsi invece in una posizione netta. Ogni passaggio sta lì come sappiamo lo vedremo, il cappio del peccato, la negazione del desiderio, masturbarsi e pentimento e il padre severo che nel cassetto segreto conserva donne nude, e viene chiedersi se nonostante tutti quei figli abbiano mai davvero avuto un istante di piacere con la madre. E quell’Italia divisa come è ancora, il nord estremo e il sud che sembra in quel paese quasi l’Africa, la Sicilia di mandarini e donne vestite tutte di nero che i ragazzini guardano sulla carta geografica del sussidiario paterno. Ma anche queste rimangono piste interrotte che la regista mette in ordine e deposita per rispondere alle intenzioni di una scrittura, di un progetto, di una dimensione “maternale” (sui titoli di coda c’è il pianto di un neonato) che diviene una resistenza fra gesti segretissimi di ribellione e sguardi di bambine – la cosa migliore del film – capaci di mettere sottosopra la visione del mondo. Peccato trascurarli.

Da Viottoli – Dialogo in occasione di un incontro del ciclo “Eretiche”, organizzato dall’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne (OIVD) a Pinerolo il 5 maggio 2024.

Doranna – Il femminismo è stato un modo in cui io e altre donne ci siamo date reciprocamente voce fuori dall’ideologia patriarcale. Nel vostro libro intitolato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, oltre alle numerose immagini e illustrazioni inedite, avete raccolto più di sessanta testimonianze di donne protagoniste di questa storia. Molte di queste nella Libreria delle donne di Milano inventarono pratiche che contribuirono all’elaborazione di pensieri. A partire dagli anni ’70, la Libreria è infatti uno dei luoghi più vivi del femminismo italiano, un laboratorio sulle pratiche politiche del presente, basato sulla condivisione di esperienze e verità soggettive che illuminano la vita di tutte e di tutti, anche la mia. Vorrei sentire da voi, femministe e anche storiche, quali sono state le pratiche e le scoperte che hanno contribuito a far nascere la Libreria.

Luciana e Marina – L’idea di aprire una libreria, simile alla Librairie des femmes di Parigi, dove vendere libri scritti da donne e documenti prodotti dal movimento, è nata dal desiderio di alcune che da una decina d’anni avevano fatto autocoscienza: una pratica in cui sole donne, riunite in piccoli gruppi periodicamente, parlavano a partire da sé della propria esperienza di disagio fino a quel momento sentito come personale, senza ordini del giorno, con un ascolto non giudicante. Il personale diventava politico. Vi erano incontri più allargati in collettivi e in confronti internazionali dove le parole scambiate diventavano scritti che mostravano la parzialità e i danni del dis-ordine patriarcale e le modalità valorizzanti di stare tra donne. Su come realizzare la Libreria, dodici donne per un anno discussero tra loro, proponendo un progetto aperto alla collaborazione di altre per reperire scritti, opere artistiche e per contribuirvi economicamente. Dal 15 ottobre 1975 divenne un luogo aperto sulla strada dove si discuteva di tutto, illuminando la scrittura dei testi politici con la lettura delle scrittrici, alla ricerca di parole che dicessero l’esperienza femminile.Ad esempio, dadiversi incontri su autrici significative nacque il Catalogo giallo. Le madri di tutte noi e la scoperta dell’importanza di avere una genealogia femminile per non essere schiacciate in un presente in cui il senso della propria vita dipenda dall’annullarsi nell’altro.

Da allora la gestione è rimasta non gerarchica, le scelte avvengono attraverso il consenso non a maggioranza e le proposte nascono dal desiderio di una che prende vita dalla relazione con un’altra e cresce di due in due, fino ad arrivare, tra l’altro, alla pubblicazione nel 1987 di Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, un libro tradotto in spagnolo, tedesco, inglese, francese, che ne racconta scoperte e storia.

D. – Ho conosciuto la Libreria delle donne di Milano negli anni ’90 grazie a Pinuccia Corrias. Con lei ho imparato che il femminismo della differenza non è il presupposto per una rivoluzione sociale bensì per una rivoluzione simbolica, iniziando a misurarmi con la complessità della pratica del partire da sé. Con lei ho condiviso percorsi importanti di pratica delle relazioni tra donne, primo fra tutti il lungo percorso del gruppo pinerolese di ricerca teologica al femminile e il gruppo intergenerazionale sulla differenza sessuale, costituitosi in occasione del festival della filosofia di Pinerolo Pensieri in Piazza. In questi ambiti siamo entrate in relazione con alcune della Libreria delle donne di Milano, soprattutto con Luisa Muraro, di cui ho frequentato in Libreria nel 2015 il corso di scrittura pensante, che ha profondamente segnato il mio approccio alla scrittura. Per me è diventato un luogo politico fondamentale. Come lo è diventato per voi?

L. e M. – Entrambe abbiamo fatto autocoscienza con donne con cui ancor oggi ci incontriamo. Compravamo testi in Libreria per discuterli in altre associazioni, mentre abbiamo cominciato a considerarla il luogo principale di confronto politico dalla metà degli anni Ottanta, dopo che il Sottosopra verde (1983) propose di superare il separatismo per investire i luoghi di lavoro con il sapere e le pratiche femministe. Essendo insegnanti, contribuimmo alla Pedagogia della differenza, conosciuta attraverso Marirì Martinengo: utilizzavamo sempre il linguaggio sessuato; ricercavamo il contributo delle donne alla costruzione di civiltà e lo facevamo conoscere, anche modificando i libri di testo; sperimentavamo alcuni momenti in cui nelle classi separate per sesso permettevamo alle ragazze di trovare parole per dire la loro esperienza rispecchiandosi tra loro e in opere di donne, e ai ragazzi di cogliere la loro parzialità; valorizzavamo pratiche di relazione tra le ragazze e tra noi donne insegnanti.

Per noi è stata ed è fondamentale la riflessione sul rapporto con la madre che fonda, come dice il titolo del libro di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, che rompe con l’idea patriarcale dell’individualismo prometeico illuminista e mostra invece l’origine duale della vita, la dipendenza e la necessità del riconoscimento delle relazioni.

D. – Recentemente, all’interno di una mostra pittorica di un liceo artistico, campeggiava al centro della sala un quadro intitolato Tessitrici di relazioni: un girotondo di donne danzanti. Mi ha colpito veder raffigurato da una artista il segno tangibile di un cambiamento in atto, ciò che per me è stato il filo conduttore del mio agire politico nel femminismo:la pratica politica delle relazioni tra donne. Nel patriarcato le relazioni tra donne, fuori dalla sfera privata, non avevano esistenza sociale, tant’è che le donne spesso venivano rappresentate come nemiche, rivali, futili, invidiose l’una dell’altra. A me sembra invece, per esperienza diretta nel mio percorso, che alcune pratiche politiche femministe abbiano portato buoni frutti. Sempre più donne, in relazione tra loro, si danno autorità, sanno vedere nel presente e nella realtà ciò che ancora non è evidente, dicono ciò che è buono e ciò che non lo è e agiscono perché il positivo possa realizzarsi. Questo genera forza femminile.

Marina, nel suo saggio sulla storia vivente in La spirale del tempo, sostiene che una pratica si comprende facendola, parlarne può solo permettere di intuirla, di far nascere la voglia di provare. Condivido questa osservazione e vi chiedo di raccontarci quali pratiche sono importanti per voi oggi.

L. e M. – Il racconto di pratiche create per un particolare contesto può solo “autorizzare” all’invenzione, non si tratta di “ricette” o tecniche da imparare e applicare. È necessario continuare a riflettere sul presente, su come agiamo e sulle conseguenze di ciò che facciamo, cioè su quali pratiche mettiamo in atto, come fa il libro Femminismo mon amour che raccoglie articoli significativi nati dalle redazioni aperte dello scorso anno della rivista on line Via Dogana 3.

Come dici tu, è importante riconoscere autorità femminile. Si ha paura di questa parola per il fantasma patriarcale del potere che crea gerarchie per mantenersi, mentre autorità deriva da augere, far crescere. La si riconosce a una in un momento preciso, quando ti aiuta nella comprensione e realizzazione di un tuo desiderio, quando ti fa capire qualcosa del mondo. Abbiamo bisogno, come dice Vita Cosentino, del massimo di autorità con il minimo di potere.

Rimane importante partire da sé e dare credito alla parola dell’altra, come fa il movimento MeToo; riconoscere anche nei gruppi la forza creativa del rapporto duale di disparità, non esclusivo, dove si gioca il di più dell’altra; mantenere momenti di separazione dagli uomini, avere dunque, quella che Ina Praetorius chiama una “stanza della tessitura”, come fanno anche oggi Le Compromesse, alcune giovani attive in Libreria, per trovare parole con cui dire la propria esperienza e modi per renderle pubbliche.

Fin dall’inizio per il femminismo la scrittura è stata importante per sviluppare e far circolare il pensiero, dai Sottosopra, sorta di manifesti che escono senza periodicità, alla rivista Via Doganaprima cartacea e ora on line, daiQuaderni di VDal sito la cui redazione carnale si riunisce ogni giovedì, fino al coinvolgimento di case editrici su singoli progetti. Inoltre la libreria è un luogo di incontro pubblico in cui vengono proposti testi politici, letterari, artistici, soprattutto di donne, a partire dal desiderio di una e dopo una riunione di programmazione per individuare con quale taglio discuterne, lasciando molto tempo al dibattito e alla convivialità.

Fra le pratiche di scrittura quella relazionale generativa, che noi pratichiamo, nasce dal bisogno di non lasciarsi imbrigliare nelle letture già date per dire il nuovo che la singolarità di ciascuna può apportare: si tratta di chiedere il giudizio di un’interlocutrice a cui si riconosce autorità, non sentirsi sminuite per questo, non aver paura di essere defraudate dell’autorialità ma trovare modi per segnalare la pratica relazionale da cui il testo nasce.

D. – Entrambe fate parte di Comunità di Storia Vivente dal 2006. Condivido con voi e con la Comunità di Storia Vivente in faccia al Monviso questa pratica di ricerca e di scrittura femminile della storia che ci permette una lettura differente della realtà. Per me è stato importante, insieme alle donne della mia comunità, risignificare la mia storia personale alla luce di questa pratica. Voi che insieme Marirì Martinengo e Laura Minguzzi siete le fondatrici della Comunità di Milano potete ricordare qual è stata l’intuizione originaria e come si è sviluppato e continua questo percorso.

L. e M. – Ci piace cominciare con la citazione dal libro di Marirì Martinengo La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”, in cui nel 2005 per la prima volta emerge l’intuizione originaria della storia vivente: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; […] una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo» (p. 21). Da qui siamo partite per una pratica di comunità diversa da quella di ricerca storica che ci aveva portato a scoprire tracce di libertà femminile nella vita di donne del passato. Fu un lavoro di quasi vent’anni con incontri, ricerche, convegni, pubblicazioni, come il libro Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo. Con la pratica della storia vivente, invece, ciascuna ricerca in sé nodi irrisolti che sono tali perché non c’è ancora un simbolico che li rappresenti in modo aderente alla verità soggettiva. La scommessa è trovare parole per dirli e così scioglierli, individuando concetti che diano una chiave di lettura per rileggere il passato. Si liberano così energie bloccate dalla menzognera lettura patriarcale, sia di uomini sia di donne, e si apre la possibilità di una trasformazione del presente.

La pratica consiste in incontri periodici di poche donne in relazione di fiducia tra loro, in cui ciascuna fa emergere un proprio nodo mentre le altre ascoltano con attenzione ed empatia, rilanciando ciò che risuona in sé, e la scrittura e riscrittura chiariscono e rendono pubblico ciò che può cambiare il simbolico. Il lavoro è molto lungo perché sui nodi si sono creati degli equilibri, anche se a volte difficili. Attualmente noi due stiamo continuando la ricerca con Giovanna Palmeto e Laura Modini nella Comunità Sami e siamo nella fase della scrittura finale di nuovi racconti.

Sono già state pubblicate su riviste e libri diverse scoperte che è riduttivo riassumere per evitare di banalizzare e creare fraintendimenti, proprio perché hanno una dirompenza trasformativa rispetto alle interpretazioni correnti. Accenniamo che queste letture della realtà riguardano tra l’altro l’economia, la guerra, la violenza maschile, le forme di resistenza e la parola pubblica delle donne, la trasmissione genealogica femminile, la devianza dai modelli. Oggi possiamo riferire che trovano molti riscontri anche in giovani donne provenienti da varie parti del mondo, in quanto dal 2019 teniamo il corso di Historia viviente nel Master on line La política de las mujeres dell’Università di Barcellona. Le allieve, che seguono con noi un percorso di lettura di ciò che finora è stato prodotto e di scrittura in dialogo con i testi e la propria esperienza, sottolineano gli spostamenti nel loro modo di rapportarsi a momenti imbriglianti della loro esistenza e della realtà che le circonda. Scoprono la violenza e parzialità della storia finora appresa e riconoscono come pratiche politiche positive i comportamenti propri e di altre donne, anche della loro genealogia, spesso invisibili o svalorizzati, accrescendo la loro forza.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Santini Marina, Tavernini Luciana, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua,Il Poligrafo, Padova 2015.

Libreria delle donne di Milano, Le madri di tutte noi (Catalogo giallo), Milano 1982.

Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

Sottosopra, i numeri della rivista sono in vendita o consultabili in https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/sottosopra/

Muraro Luisa, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma (1991) 2022.

Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti & Vitali, Bergamo 2018.

Redazione di Via Dogana 3, Femminismo mon amour, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 2024.

Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005.

Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, SEI, Torino 1996; ipertesto nel sito curato da Donatella Massara “Donne e conoscenza storica” http://www.donneconoscenzastorica.it/vecchio/testi/libere/apertura.htm

(Viottoli, n. 1/2024)

Da Nuova Ecologia – Femminista, comunista, ambientalista. Il testo che segue è un “montaggio” dell’intervento della giornalista allo Youth climate meeting, l’incontro su giustizia climatica e transizione rivolto alle attiviste e agli attivisti di Legambiente, e non solo.

Mi chiamo Luciana Castellina, sono nata molti secoli fa e avrei tante cose da raccontarvi, ma andrei troppo per le lunghe. Sono presidente onoraria dell’Arci, di cui Legambiente è figlia. Faccio anche parte di un partito politico, Alleanza Verdi Sinistra, sebbene creda molto poco nei partiti in questo momento storico. E poi faccio un milione di altre cose, soprattutto necrologi, perché sono l’unica “sopravvissuta”.

L’imbroglio del neutro

Credo si debba salutare con forza l’espressione “ecofemminismo”, perché ogni cosa dovrebbe essere vista dal punto di vista delle donne, non solo l’ecologia. Se dobbiamo spiegare la questione femminile, bisogna innanzitutto dire che c’è stato un imbroglio storico, quello che chiamo l’imbroglio del “neutro”: utilizzato come riferimento di tutte le regole, di tutte le leggi, dell’intera organizzazione della società. Si è inventato un cittadino neutro e tutto è stato riferito a “lui”. Ma non nascono bambini neutri: nascono femmine, maschi e anche bambini di qualsiasi altro genere… Il cittadino neutro è stato disegnato come un maschio, come se questo potesse andar bene sia per le donne che per gli uomini, ma è un imbroglio appunto. Non è vero che maschi e femmine sono uguali: hanno esigenze diverse, corpi diversi, menti diverse. Parlare di “ecofemminismo” mi sembra quindi un grande passo avanti, perché almeno sull’ecologia si è cominciato a pensare in termini più articolati. Questo imbroglio è così forte che ho scoperto, e non volevo crederci, che anche nei sindacati quando ci sono trattative per il rinnovo di un contratto – e molto spesso dentro ci sono questioni relative al corpo di chi lavora, pensiamo alle malattie professionali – non viene mai preso in considerazione il corpo delle donne ma solo quello degli uomini, anche se il sindacato ormai ha una fortissima percentuale di donne al suo interno. Adesso si tratta di metterlo in pratica, l’ecofemminismo, di cominciare a pensare ai problemi della transizione ecologica e concentrarsi sul che fare. Le donne hanno un ruolo molto importante, per una ragione in particolare: perché bisogna ripensare il mondo in modo diverso da prima e se c’è qualcosa da ripensare è come ci collochiamo noi. Le donne non hanno mai determinato il modo in cui si deve fare il mondo, l’hanno sempre fatto gli uomini e noi ci siamo dovute adattare facendo finta di essere uomini, cosa spesso complicata, soprattutto durante una gravidanza.

Città femminista

Un aspetto fondamentale della transizione è come ridisegnare la città. E noi donne abbiamo il diritto di farlo a partire dal nostro punto di vista. Fino ad oggi non è stato possibile perché eravamo chiuse in cucina, e quindi si trattava al più di ridisegnare la cucina. Ridisegnare la città vuol dire, innanzitutto, pensare alla vita delle donne perché tutte le regole sono state fatte senza pensarci. E poi c’è un grande problema sul lavoro di cura, che serve a uomini e donne ma che ad oggi sembra riguardare soltanto la fatica gratuita delle donne. Con un gruppo di compagni e amici abbiamo messo su una task force in cui dentro c’è il meglio dei vari settori di cui la questione ecologica si compone, dalle politiche energetiche alla città. La prima iniziativa è stata proprio aprire un dialogo con il sindacato degli edili. Perché, se è vero che non si può più continuare a cementificare le città, che anzi si devono “rammendare”, cambiare senza consumare altro suolo, bisogna anche ripensare il lavoro degli edili. Questo lavoro di “rammendo” ha un interlocutore fondamentale: il femminismo. Così abbiamo fatto un’assemblea con il segretario generale del sindacato edili e i collettivi femministi di Roma per discutere della “Città femminista”. Va ripensato tutto, a partire dal cambiare l’abitare. Servono spazi, non basta l’asilo, ammesso e non concesso ci sia. Ma anche quando c’è, nessuno ha pensato al fatto che se il bambino prende il morbillo non posso portarcelo. E se lavoro, dove lo metto? Serve una soluzione. Lo stesso vale per il nonno: che faccio se si ammala? Bisogna ricostruire i quartieri affinché in ogni complesso ci siano “due stanze”, dove mettere nonni e bambini. Abbiamo bisogno di servizi che svolgano quel lavoro di cura che ricade esclusivamente su di noi. Questo cambia il mestiere degli edili, perché un conto è costruire Tor Bella Monaca, un altro è stare nel quartiere e vedere insieme a noi donne cosa, come e dove cambiare.

Il lavoro di tutta la vita”

Per capire che ero donna ci ho messo un bel pezzo. Non so se voi avete fatto prima, ma la mia generazione ha fatto fatica. Ho pensato a lungo che le donne fossero un po’ meno degli uomini: lo stesso essere umano ma un po’ più scemo, deboluccio. Abbiamo passato la giovinezza a cercare di nascondere di essere donne, a dimostrare che eravamo come gli uomini. E non è un grande obiettivo nella vita. Dovevamo scoprire chi fossimo. Lo ha spiegato bene Simone de Beauvoir: «Capire cosa vuol dire essere donna è un lavoro di tutta la vita». Ci si arriva poco per volta. Per questo la mia generazione ha capito così poco quando è esploso il femminismo. Le donne hanno cominciato a essere insofferenti nei partiti e in tutte le organizzazioni. Hanno creato i gruppi di autocoscienza, motivo di battaglia all’interno di tanti partiti. Ricordo quando al manifesto, negli anni ’70, decidemmo di organizzare un gruppo di lavoro sulla questione femminile: arrivammo e c’erano solo uomini, neppure una donna. Non era voluta venire nessuna, giustamente. Organizzammo quel gruppo senza aver capito che cos’erano i gruppi di autocoscienza, che sono stati invece momenti di riflessione fondamentali per capire qual era la nostra identità, avendone patita una che ci era stata cucita addosso. Fondamentalmente, i gruppi di autocoscienza sono stati un’inchiesta su noi stesse. E sono stati straordinariamente utili.

Meno carità, più politica

Un paio d’anni fa, all’ennesima richiesta di sottoscrivere un appello, mi sono ripromessa di non firmarne più neanche uno. La politica non può ridursi all’appellismo… Si mette una firma per rivolgersi a chi? Chi crede al Padreterno fa bene a rivolgersi a lui. Ma chi non ci crede a chi si rivolge? Il timore è che la politica si riduca a questo, quando invece è dire come io cambio il mondo, non chiedere a qualcuno che lo cambi per me. Ci si può rivolgere alle istituzioni, certo, ma è importante ricordarsi che ognuno di noi è un soggetto che può scegliere come ridisegnare il mondo. Sei tu quello che caratterizza la democrazia, non cosa sei tu. Sei tu, in qualche rapporto con gli altri. Anche il Papa l’ha capito. In uno dei suoi discorsi ai giovani, il pontefice ha detto che non serve la politica per i poveri, la carità, ma la politica dei poveri. È quello che diceva Marx, riferendosi alla classe operaia: i poveri devono conquistare la forza per essere loro la forza del cambiamento. Poi Bergoglio, nel timore di non essere capito, c’è tornato sopra: «La carità è una bellissima cosa, però ci vuole la politica». La politica è la soggettività, innanzitutto. E questo vale anche per noi donne, dobbiamo essere noi le protagoniste di quello che vogliamo fare. Non voglio la politica per le donne, voglio la politica delle donne. Altrimenti è carità.

Rivoluzione in corso

Abbiamo così tante cose su cui protestare che qualcuno potrebbe pensare che noi donne, poverette, stiamo malmesse. Stiamo benissimo, invece, e stiamo facendo la rivoluzione. Altre non ne vedo. Ne abbiamo fatta una straordinaria: ci stanno a sentire, quando prima non eravamo credute. Pensiamo alla cosa più banale: le ragazze americane che hanno denunciato i potenti di Hollywood riuscendo a mandarli in galera. Quando mai le donne hanno avuto questo potere? Qualcuno dirà: «Sì, ma continuano a essere ammazzate». Cito Lenin: «Non c’è rivoluzione senza spargimento di sangue». Ecco, non c’è niente da fare: la rivoluzione costa cara, e credo che l’esplosione di femminicidi lo dimostri. Loro ammazzano le donne che si evolvono, che si stanno liberando, che li stanno lasciando. Rossana Rossanda ha scritto un bellissimo libro, pubblicato dopo la sua morte: Un secolo, due movimenti. Si chiedeva, e chiedeva: «Possiamo ricomporci politicamente superando questa fase in cui siamo in lotta, maschi e femmine?». Domanda difficile. Penso che siamo lontani, ma che debba esserci l’obiettivo di una visione del mondo capace di superare la crisi che stiamo vivendo. La risposta di Rossanda era: «Sì, possiamo stare nello stesso partito, perché è vero, siamo due movimenti diversi perché la nostra condizione è diversa, però lo stare nello stesso partito è quello che dà, anche a noi donne, la forza di essere parte di un grande movimento popolare».

Quote rosa

Credo che la campagna di Giorgia Meloni sulla natalità – «non nascono più figli perché le donne sono pigre» – sia pericolosa, perché quelle argomentazioni rischiano di diventare popolari. E dobbiamo stare attente perché c’è un modo di combatterle che può diventare a sua volta pericoloso: le quote rosa. Per un verso le capisco perché sono simboliche. Non possiamo però nasconderci un fatto: come fa una donna con due figli a fare la parlamentare? Queste scelte comportano sempre una rinuncia: una può decidere se i figli li vuole o no, ma chi li vuole, e cioè la maggioranza delle donne, come fa? Mi spiego meglio. Se facciamo la battaglia solo sulle quote rosa rischiamo di essere perdenti, perché prevarrebbe il buon senso. Ho visto i dati delle donne manager: hanno figli nel 30% dei casi, i maschi manager nel 95%… Servono battaglie tradizionali, come quella per gli asili nido. Parlare di quote rosa senza includere questo equivale di fatto a dire che l’unica soluzione per noi è smettere di lavorare, che le lotte passate ci si rivoltano contro. Scusate se insisto ma ribadisco che ci sono vecchie lotte da continuare. E che la più importante di tutte è socializzare il lavoro di cura, altrimenti finiremo tutte a casa a fare le madri e le badanti.

Da Il Quotidiano Nazionale – Lo sguardo dell’altro e la narrazione come significante dell’unicità di un’esistenza. Il femminile e la maternità quale esperienza da pensare senza stereotipie. Il linguaggio, le parole per nominare il mondo anche quando si tratta delle sue forme di distruzione, la guerra e la violenza sugli inermi. Da sempre Adriana Cavarero, filosofa, figura di spicco del pensiero della differenza sessuale, docente universitaria e autorevole esponente di studi arendtiani, si confronta con i grandi temi della contemporaneità, a partire dal proprio essere donna e in costante dialogo con pensatrici e scrittrici quali Simone de Beauvoir, Simone Weil, Virginia Woolf, Karen Blixen, Elena Ferrante e Annie Ernaux. Nel nuovo “Donna si nasce”, scritto con Olivia Guaraldo e in uscita per Mondadori il prossimo 10 settembre, Cavarero affronta la questione del linguaggio.

Adriana Cavarero, quale ritiene essere, al momento, il tema più urgente?

«Ce ne sono diversi. Dal punto di vista della politica internazionale è sicuramente inevitabile la riflessione sulla violenza, sulle forme della distruzione contemporanea. Dopo l’11 settembre 2001 scrissi “Orrorismo”, dove già affrontavo la tematica della violenza sugli inermi che è molto attuale. La guerra ha cambiato forma: se nel periodo napoleonico era scontro tra eserciti a partire dalla prima guerra mondiale, e poi con un’accelerazione nella seconda, è diventata eccidio di civili. Oggi il guerriero espone poco il suo corpo mentre i tecnici della guerra distruggono attraverso sofisticatissime tecnologie avendo però come oggetto i corpi della popolazione civile».

Rispetto alla guerra emerge il tema della narrazione della stessa. Il flusso ininterrotto d’informazioni che provengono dai social e dai media sollecitano la riflessione?

«La narrazione richiede vicinanza, prossimità fisica. È colloquio tra corpi in presenza, all’interno di relazioni e nella dimensione della scoperta di sé e dell’altro. Quella sui social e sui media è una narrazione costruita per essere partigiana, per sostenere tesi e quindi spesso piena di falsità e di forzature ideologiche. Questo quando si parla di argomenti generali: quando si tratta, invece, di argomenti personali, i social spesso non sono altro che vetrine narcisistiche. Non c’è interesse per gli altri né scambio, è quella che io chiamo vetrinizzazione».

A partire da “Tu che mi guardi, tu che mi racconti”, il suo lavoro sulla narrazione come strumento di restituzione dell’unicità di un’esistenza si colloca in opposizione alla filosofia che persegue, invece, l’astrazione e l’universale, rimuovendo di fatto le peculiarità individuali, prima tra tutte la differenza sessuale.

«Questa è un’idea che ho preso da Hannah Arendt, che non parla né di soggetti universali, per esempio quello cartesiano, né dell’individualismo moderno, che non sarebbe altro che una moltiplicazione di soggetti tutti uguali. Arendt parla dell’unicità come diversità assoluta: ciascuno di noi è unico e occorre avere cura di questa unicità, che è anche una fragilità che caratterizza ogni essere umano».

La narrazione dà significato a questa unicità?

«Credo che ognuno di noi voglia un senso. Non è detto che poi esso ci sia, tuttavia tutti noi desideriamo che la nostra vita sia narrabile e narrata dagli altri, traducibile in una storia che abbia un significato. Non è un caso che Karen Blixen, che è stata una narratrice eccezionale, abbia scritto che tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia. E con lei Arendt, quando afferma che la storia rivela il significato di ciò che, altrimenti, rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi».

Nell’ultimo “Donne che allattano cuccioli di lupo – Icone dell’ipermaterno” (Castelvecchi) riflette sulla maternità con Elena Ferrante, Annie Ernaux e Simone de Beauvoir. Le donne restituiscono un racconto autentico del femminile?

«Diffido del termine autentico, come della parola verità, è un vocabolo molto pericoloso. Preferisco dire che queste donne esprimono certi lati dell’essere donna che sono interessanti perché escono dagli stereotipi. Siamo tutti abituati a una narrazione stereotipica del femminile, pensiamo alla maternità. Loro invece mettono in luce un lato di questa esperienza, cioè la gravidanza e il parto, che ha a che fare col corpo e che non a caso chiamano oscuro, tremendo, che si tende a tacere».

Generare è prima di tutto un’esperienza corporea?

«Generare ci mette in contatto con la natura, che è rigenerazione continua, rendendoci complici del processo generale della generazione. In questo senso l’esperienza della maternità, che è tutt’altro dalla cura dei bambini, permette una forma di conoscenza».

Rispetto al parto, nel libro riprende un tema presente già in “Nonostante Platone” l’appropriazione da parte del maschile dell’atto di generare.

«Platone disse che la filosofia è partorire con l’anima le idee. Attraverso i discorsi, il maestro faceva partorire agli allievi le idee delle quali erano gravidi. Nel “Simposio” Platone utilizza il linguaggio del parto, ginecologico, per descrivere la nascita delle idee. Da una parte si appropria del potere generativo delle donne, dall’altra lo squalifica come poco importante, non interessante in quanto mera produzione di corpi. Il parto vero, per lui, è quello delle idee, universale, ovviamente maschile».

Parlare di maternità oggi è rischioso?

«È difficile parlarne in termini positivi, e non della sua incidenza negativa rispetto al libero affermarsi di una soggettività femminile. Nella nostra cultura la maternità è stata tradotta nel dovere di generare. Il femminismo, soprattutto a partire da “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir, ha messo in luce la costrizione delle donne in un ruolo riproduttivo, domestico. In quanto trappola, e in favore di un discorso sulla libertà della soggettività femminile, la maternità è diventata un tema da evitare. Penso tuttavia che occorra riflettere su questo strano potere di generare, come lo definiva Virginia Woolf: come filosofa il mio compito è di restituire significato ai fatti, e un fatto è che ogni essere umano nasce dal corpo femminile».

Cosa pensa del dibattito attuale intorno al linguaggio?

«Il linguaggio è un tema fondamentale, così tanto che ne ho scritto il libro, insieme a Olivia Guaraldo, che uscirà il 10 settembre per Mondadori. S’intitola “Donna si nasce” e riflette sul linguaggio inclusivo, sull’utilizzo della schwa, sulla questione gender e della differenza sessuale. È un libro divulgativo che ritengo molto coraggioso, che ci ha richiesto un enorme sforzo di chiarezza».

Nell’attesa di leggerlo, quali letture ci consiglia?

«Tutta la grande letteratura: Mann, Tolstoj, Balzac, Woolf, Austen, Blixen. E pensatrici come Arendt, Weil, de Beauvoir, personalmente mi fido poco della mano maschile che descrive la maternità perché temo sia molto stereotipica».

Alla luce delle sue riflessioni, quale può essere la libertà per le donne?

«La libertà femminile non è un’imitazione pura di quella maschile. Su certi aspetti si somigliano, l’uguaglianza dei diritti risale alla Rivoluzione Francese e vale per tutti, ma per altri è qualcosa di diverso. La libertà è una costruzione politica che si concretizza nella comunità, pertanto l’esperienza della libertà si realizza insieme agli altri, nella relazione all’interno di un contesto. Non ci può essere una via individuale, solitaria verso la libertà ed essa non coincide mai, come si pensa erroneamente oggi, con il fare ciò che si vuole».

Siamo tutti individualisti?

«Il grande vizio della modernità è l’individualismo, quello che chiamano neoliberale, il cui unico rimedio è, a mio avviso, la valorizzazione della relazione. Questo significa che, per il fatto di essere al mondo, ognuno di noi è legato agli altri, condizionato dagli altri ma nell’accezione positiva del termine. La parola condizionamento ha spesso un significato negativo, pregiudicante la libertà individuale, mentre sottintende un legame, una relazione con gli altri. Credo sia una bella parola, sentirsi legati e anche in debito verso la natura, gli altri. La relazione è il rimedio».

Da Il Foglio – La sororité celebrata alle Olimpiadi ma mortificata dalla pretesa inclusività del gender. Dieci femministe firmano “Vietato a sinistra”

Sororité. Sorellanza è stata una delle parole, accanto a liberté égalité fraternité, del mega evento che la Francia ha messo in scena per l’apertura a Parigi delle Olimpiadi 2024. Da Olympe de Gouges a Simone Veil, le statue dorate delle pioniere del femminismo sono spuntate dalle acque della Senna, a testimoniare l’eredità della cultura e delle lotte delle donne. Nello stesso giorno i media hanno dato notizia della dichiarazione di Elon Musk contro uno dei suoi undici figli, il ventenne Xavier, diventato transgender con il nome di Vivian. «Mio figlio per me è morto». Ecco, proprio questa questione del gender, che sembra ossessionare tutto l’occidente, pro e contro – e l’ultimo caso è stato quello dell’impari incontro di boxe femminile, con la vexata quaestio dell’identità di genere della boxeuse algerina – è uno dei temi che sta dividendo il mondo femminista, con un contraccolpo negativo proprio sulla sorellanza (che presuppone non solo la relazione ma anche la capacità di vivere le diversità per ottenere i propri obiettivi). Da noi, dove Elly Schlein ha ballato sul carro del Gay Pride romano insieme all’onorevole Zan, sì, quello della legge sull’omofobia mai approvata perché conteneva un articolo controverso, dieci femministe hanno pubblicato un libro-manifesto sul conformismo ideologico dei progressisti: Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi). Tutte con le carte in regola, ricercatrici, attiviste, docenti, anche ex militanti di partito, hanno deciso di mettere in fila i cosiddetti temi “divisivi”, uno per ognuna di loro, e di sottoporli alla discussione con franchezza, senza reticenze e timori. La cosa ha una certa rilevanza, perché il femminismo, soprattutto quello italiano, ha sempre avuto uno stretto legame con il mondo della sinistra. Il libro arriva giusto giusto in un momento in cui il femminismo, o meglio i tanti femminismi sembrano essere diventati afoni, chiusi in piccoli gruppi diffidenti e riottosi, non più in grado di fare rete e soprattutto rimasti senza obiettivi, se non difendere i princìpi della società dei diritti individuali, l’adesione al “correttismo” dei nostri tempi, diventato ormai morale pubblica. Il linguaggio inclusivo rivendica infatti la fluidità e stigmatizza chi si riconosce nell’affermazione che i sessi sono due, maschile e femminile. Così identità di genere, gravidanza per altri, sex work, farmaci per bloccare la pubertà, trans che occupano gli spazi delle donne, ecc. sono diventati oggetti contundenti da lanciarsi l’una contro l’altra. Sembrano diventatati la questione dirimente, identitaria, anche rispetto ad altri temi decisivi come quello dell’aborto, che è ancora un nervo scoperto, e sui cui l’offensiva delle destre è potente e visibile. «Chi osa manifestare un pensiero diverso, esprimere una critica, un dissenso viene bollato come di destra, reazionario, bigotto, conservatore, perfino fascista, e si tenta in vari modi di metterlo a tacere», scrive la curatrice del libro Daniela Dioguardi.

Ma cosa sta succedendo al femminismo? Si sta suicidando ritornando al neutro universale? Siamo davanti a una mutazione antropologica che di fronte alla società neoliberista basata sui diritti ha come contrappeso etico il caos cognitivo e valoriale? Se lo chiede la filosofa Annarosa Buttarelli recensendo il libro su Doppiozero: «Si dà il caso che, oggi, il femminismo come soggetto politico si sia diviso in correnti, in pratiche differenti, in prese di posizione molto distanti tra loro. Tutto grazie al mercato neoliberista dei diritti. Così sinistra istituzionale e femminismi difensori della libertà individualistica si trovano d’accordo nel dare addosso al femminismo delle origini che non crede di avere (solo) dei diritti». Secondo la filosofa, in libreria con la “sua” Carla Lonzi (Feltrinelli), si è creata nel pensiero una forbice dicotomica, che produce concetti come l’affido condiviso che “cancella la madre”, la prostituzione come “lavoro” parificato agli altri neoliberisti, la maternità surrogata come diritto ad avere figli a prescindere dall’unità psicofisica materna, l’identità di genere che nega l’unità psicofisica di ogni corpo. Gender per tutti, quindi, a prescindere se c’è una donna di sesso femminile o una donna di gender femminile, e via così di dicotomia in dicotomia, di identità spacciate per fluidità. «Ogni dicotomia che si presenti nella storia», dice ancora Buttarelli, «tende a cancellare le donne di sesso femminile dalla cittadinanza e dall’autorità guadagnata dal pensare radicalmente. Forse abbiamo davanti una nuova èra che tende all’insignificanza del soggetto sessuato? Forse un revanchismo misogino di maschi che intendono riprendersi di nuovo l’autorità assoluta?».

Di fatto è guerra guerreggiata tra transfemminismo e femminismo intersezionale – che vedono entrambi le lotte delle donne accanto a quelle delle minoranze e in generale degli oppressi, fino quasi ad esserne il motore propulsore – e il femminismo della differenza, che oggi viene chiamato anche femminismo radicale. Il femminismo delle origini tiene saldamente al centro la parola Donna, contro tutte le tentazioni neolinguistiche della cultura gender, come “persona con utero” per la definizione in relazione al sesso biologico, e “persona non binaria” per l’orientamento sessuale. Vietato dire donna è infatti il titolo del capitolo di Laura Minguzzi, della Libreria delle donne di Milano: «Nell’epoca del transpatriarcato/fratriarcato, in cui identità fittizie sfidano la libertà femminile e il senso della differenza, mi sono domandata: quando è accaduto che il fatto di generare cominciasse a erodere la differenza dei sessi, la disparità/asimmetria della donna nella procreazione? Ci siamo accorte, a nostre spese, che con la proclamazione dell’inclusione universale qualcosa resta escluso: noi, per l’appunto, quelle che non vogliono rinunciare alla potenzialità del corpo sessuato. L’origine, la nascita come evento fondante, è cancellata in nome di un neutro performante di un’identità di genere, costruzione artificiale dell’origine del mondo».

«Donne e uomini devono essere uguali». «Uguali agli uomini o alle donne?». Messa in esergo al libro, è la storica battuta della disegnatrice satirica Pat Carra, come a dire che tra chi è differente non esiste una misura comune. L’attuale presenza nelle professioni e soprattutto la visibilità, l’assertività e la reputazione delle donne veicolata dalla comunicazione mainstream sembrerebbe dimostrare che almeno l’obiettivo della parità sia stato in gran parte raggiunto. Non è vero, sostiene Silvia Baratella, e nel primo capitolo smonta l’equazione passo per passo, dopo aver ricordato le grandi conquiste iniziate dagli anni Settanta, frutto di una sinergia particolarmente felice tra movimento delle donne e istituzioni, al tempo della Carta delle donne voluta da Livia Turco. Non solo divorzio e aborto, ma anche divieto di licenziamento per gravidanza, riforma del diritto di famiglia, patria potestà condivisa, parità di retribuzione… «Ma le nuove norme», scrive Baratella, «si inquadravano in un sistema che era perfettamente compatibile con l’esclusione femminile senza rimetterlo in discussione alla radice». E così il reddito delle donne resta inferiore a quello degli uomini, le carriere non vengono incoraggiate, la parità può rivoltarsi contro… «Il soggetto legittimante è sempre lui, l’uomo, perché è preso a modello e misura», sostiene Baratella. E l’esempio più evidente è quello della politica e delle alte cariche nelle aziende, dove si conta quante donne sono state elette o nominate, ma non in quale ruolo. C’è differenza tra parità ed equità, una differenza che penalizza ancora le donne. La mancanza di equità più clamorosa e più recente è quella che riguarda la bigenitorialità, riformata nel 2006 con la legge 54. Mentre prima nelle separazioni si attribuiva l’affido prevalentemente alle madri, con anche l’assegno di mantenimento, adesso, per renderla veramente “paritaria”, la madre è costretta ai traslochi bisettimanali. Se si oppone, rischia che servizi sociali e tribunale dei minori le tolgano i figli, perché colpevole di ledere l’immagine paterna. Le madri, intimidite, perdono potere pur di non perdere i figli. Non è questa una restaurazione della patria potestà? Se lo chiede Marcella De Carli Ferrari, autrice del capitolo La cancellazione della madre. Dalla maternità al corpo il passo è breve. Il corpo con la sua fisicità, le sue percezioni, le sue trasformazioni. Fare del nostro corpo ciò che vogliamo, dicono le autrici, sembra la nuova frontiera del neoliberismo, il corpo vissuto da un mercato in cerca di nuovi spazi e di nuova merce. «Attenzione, femminismo sta diventando una parola svuotata, bisogna risignificarla. Viene utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne, e con i prefissi trans, post, o con gli asterischi e schwa viene espropriata». Lo scrive la giovane performer di Arcilesbica Stella Zaltieri Pirola, che firma l’ultimo capitolo. Lo slogan storico il corpo è mio e lo gestisco io è diventato il corpo è mio e lo vendo io. «Le transfemministe credono davvero che prostituirsi o partorire figli che non si desiderano siano forme di libertà? E che la mancanza di prospettive economiche per le giovani donne legittimi la minimizzazione dei rischi dell’esporsi alla pornografia a fronte della prospettiva di guadagni? Invece per me è necessario schierarsi ancora e ancora dalla parte delle bambine».

Che ci siano dei problemi lo riconosce anche una femminista che al campo progressista fa esplicito riferimento. È Giorgia Serughetti, filosofa della politica, in libreria con Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica (Donzelli). Serughetti fa un’ampia analisi dei femminismi contemporanei, attribuendo loro un forte valore mobilitante, pur ricordando che la contraddizione tra uguaglianza e differenza è stata la cifra del femminismo del secondo Novecento. «La presenza più numerosa di donne nei luoghi decisionali, e la capacità di alcune leader di rompere il soffitto di cristallo, obbliga a ripensare i rapporti tra femminismo, politica della presenza e politica delle idee. Perché – l’esperienza ormai insegna – la crescita di protagonismo femminile non porta necessariamente con sé, come effetto automatico, una migliore rappresentazione delle esperienze plurali né degli interessi comuni delle donne; in alcuni casi può, contraddittoriamente, coincidere con l’affermarsi di idee e politiche contrarie ai diritti conquistati dall’attivismo femminista, in particolare quelli sessuali e riproduttivi». Serughetti si chiede se l’antinomia uguaglianza/diseguaglianza è ancora adeguata a rappresentare gli obiettivi del femminismo. Il fatto è che quando le donne acquisiscono pieni diritti, anche se solo formali, è più evidente la contraddizione tra donna e cittadina, e si crea una sorta di doppia appartenenza, in cui è difficile districarsi. La conquista dell’uguaglianza non risolve quindi il problema della cittadinanza femminile, perché all’origine c’è proprio il modello egualitario neutro di matrice maschile.

«La piazza insorgente del 25 novembre contro la violenza sulle donne,» scrive Serughetti, «come quelle che in tutto il mondo sfidano l’ordine patriarcale, non cerca rappresentanza ma autorappresenta le proprie istanze». Fra queste istanze, c’è tutto un mondo che pensa che ci debbano rientrare anche gender, Gpa e sex work… In nome della libertà femminile, ovviamente, ma non solo: sono diritti e quindi riguardano tutti. «Per il progressismo contemporaneo ogni riferimento a valori e realtà superindividuali viene considerato oppressivo e lesivo della libertà e autonomia dell’individuo», conclude la storica Francesca Izzo nella sua introduzione a Vietato a sinistra. Il tono è rovente, ma ha il merito di rompere l’ipocrisia. A settembre uscirà un altro saggio, scritto da altre due filosofe – è a loro che saggiamente dobbiamo chiedere di districare l’ingarbugliata matassa: sono Adriana Cavarero, che già aveva iniziato il percorso con Donne che allattano cuccioli di lupo, e Olivia Guaraldo. Entrambe rivendicano la differenza delle donne, in primis di essere il sesso che genera, che mette al mondo, e la necessità per il femminismo di considerarlo non un ostacolo, ma una forza. Il dibattito su sesso e genere oggi, ci dicono, è opaco e strumentalizzato, privo di chiarezza e polarizzato tra le istanze Lgbtqia+ e le forze cattoliche tradizionaliste, e la liberazione femminile non può avvenire con la cancellazione della differenza sessuale. Titolo del libro, che uscirà da Mondadori, è Donne si nasce, in aperta e scandalosa opposizione con la famosissima frase di Simone De Beauvoir, Donne si diventa, che metteva in evidenza come l’identità femminile fosse un prodotto culturale della società patriarcale. Questo assioma ha nutrito la seconda ondata femminista del Novecento e formato tutte le generazioni che sono seguite. Ma forse è ora di ritornare all’essenziale.

Da il manifesto – Il movimento è stato fondato in Austria sei anni fa da Monika Salzer. «Le minacce dei fascisti non ci spaventano» tuona la leader Anna Ohnweiller

Piccola fotografia delle oltre 30.000 Omas gegen Rechts (Nonne contro la destra): la terza età della Resistenza tedesca in prima linea contro i neonazi e i fascio-populisti di Alternative für Deutschland fin dal 2018. Reduci dal primo congresso nazionale a Erfurt chiuso cinque giorni fa, le irriducibili pensionate annunciano la lotta dura senza paura, letteralmente. «Le minacce dei fascisti non ci spaventano» tuona la leader Anna Ohnweiller davanti a 300 delegate rappresentanti le 200 sezioni del movimento fondato in Austria sei anni fa da Monika Salzer. Segue la standing-ovation prolungata spenta solo dal coro «Alerta, alerta, le nonne son più dure». Età media della platea: settant’anni. «Ogni giorno registriamo nuove iscritte» confermano all’ufficio tesseramento delle Omas gegen Rechts, ricordando il picco delle adesioni avvenuto la settimana dopo la pubblicazione sul magazine Correctiv dello scandalo della riunione nazista per deportare gli immigrati.

Ma la chiave del successo delle nonne antifa è tutta interna: organizzazione capillare e linea politica basata non solo sulla protesta in piazza bensì sui diritti delle donne a tutto campo, come provano i 15 workshop tematici organizzati al congresso di Erfurt.

«Abbiamo la responsabilità di lasciare ai nostri nipoti una società in cui valga la pena vivere» precisano le Omas, a partire dalla difesa del clima, altra forma di resistenza praticata insieme ai Fridays For Future. Non solo gli stretti contatti fra i due movimenti sono conclamati ma apertamente rivendicati da entrambe le parti nel nome della battaglia comune.

Del resto, le agguerrite pensionate sono una risorsa politica riconosciuta da tutti gli antifascisti. Il loro congresso è stato aperto dai saluti del presidente della Turingia, Bodo Ramelow (unico governatore della Linke in Germania) con il solenne ringraziamento per «l’instancabile impegno a difesa della democrazia».

Proprio nell’est della Repubblica federale risuona da anni l’allarme per l’ascesa di Afd, diventata oggi il secondo partito a livello nazionale e il primo negli ex Land della Ddr. Per questo le nonne hanno partecipato attivamente al dibattito sulla messa fuori legge del partito guidato da Alice Weidel, soppesando i pro e i contro insieme agli esperti giuristi.

Sempre con lo sguardo attento anche a ciò che accade oltreconfine: di recente le Omas gegen Rechts sono intervenute pubblicamente per censurare le incredibili espressioni contro le donne dell’aspirante vicepresidente Usa, James D. Vance. Il ministro italiano Matteo Salvini, invece, certamente le ricorda in prima fila nelle proteste per la liberazione di Carola Rackete, mentre gli austriaci si sono misurati con le loro manifestazioni contro «la neutralizzazione della Storia» innescate dall’inquietante proposta di smantellare l’insegna commemorativa sulla casa natale di Adolf Hitler. L’opposto del “consiglio” di molti esponenti della destra tedesca di stare a casa a fare la maglia, insomma, anche se le nonne sono diventate famose per via dell’inconfondibile berretto lavorato a uncinetto: si chiama Pussyhat, come il cappello usato nelle proteste contro Donald Trump, ed è ormai un simbolo identitario del gruppo.

Mentre la radicalità delle Omas paga anche istituzionalmente. Nella bacheca del movimento fanno bella mostra uno accanto all’altro il premio per l’integrazione della città di Friburgo ricevuto nel 2019, la medaglia “Paul Spiegel” per il coraggio civile consegnata dal Consiglio centrale degli ebrei tedeschi nel 2022 e la coppa per la cultura e pace della città-Stato di Brema. Ultimo arrivato: il premio per la pace di Aquisgrana 2024.

Plurititolate a difendere la democrazia mai così sotto attacco dei disvalori dell’ultradestra. Più e meglio dei leader politici seduti al Bundestag, la cui assenza è denunciata a voce alta: «Dove sono i partiti?» chiedono le nonne antifa che rischiano in prima persona.

Le minacce dei nazi ricordate da Anna Ohnweiller sono reali e da prendere seriamente, come dimostra il caso delle nonne di Sonneberg, piccolo borgo della Turingia amministrato da Afd, costrette a chiudere il loro profilo social in quanto «postare contenuti è diventato troppo pericoloso: riceviamo commenti di odio e le minacce di morte sono all’ordine del giorno. Mai la situazione è stata grave come ora. Dobbiamo proteggere perfino le nostre famiglie, è in gioco la nostra esistenza».

Solo l’anno scorso a Sonnenberg si sono registrati venti attacchi di matrice fascista, senza contare i tentativi di tagliare i fondi alle nonne: i dirigenti locali di Afd hanno denunciato il movimento alla Corte dei conti lamentando l’impegno «unidirezionale contro di noi» delle anziane antifa.

Da Quotidiano del Sud – La “Signora del giornalismo italiano” è la protagonista del libro Matilde Serao – la voce di Napoli, edito da BeccoGiallo. Un libro bello da leggere e da guardare, con disegni della fumettista Lidia Aceto e la sceneggiatura della giornalista Francesca Bellino che ci restituiscono una Matilde Serao, tra vita privata e vita pubblica, poco conosciuta e raccontata. Donna audace, coraggiosa, trasgressiva, fu la prima in Italia, in un mondo di uomini, a fondare e dirigere un giornale. Fece del giornalismo, oltre che della letteratura, la sua passione e ragione di vita, sorretta dall’amore per la sua Napoli e la sua gente, in particolare per le napoletane. Con i suoi articoli, reportage, inchieste «sapeva entrare nel cuore della gente» e quando nel 1906 vi fu l’ eruzione del Vesuvio, raccontata nel libro con disegni suggestivi, lei divenne «la voce di Napoli», la testimone di un popolo inizialmente curioso e euforico di fronte allo spettacolo dell’eruzione, poi muto, spaventato, colpito da cenere e lava, sopraffatto, schiacciato, impotente davanti alla più devastante eruzione vulcanica del Novecento, che causò oltre 216 vittime, 112 feriti gravi, 30mila sfollati e distrusse case e campi. Durante i giorni dell’eruzione (dal 4 al 23 aprile) la si vede andare «avanti e indietro tra la redazione e i paesi vesuviani per raccogliere storie, fatti e umori. Vuole essere in prima linea […] per descrivere gli avvenimenti con cuore sincero, affidandosi all’istinto» perché suo “dovere” di cronista è “di vedere”, raccontare, testimoniare. Così per il giornale Il Giorno da lei diretto e fondato insieme al suo compagno, dopo la separazione dal marito con cui aveva fondato Il Mattino, la si vede salire sul treno, entrare nelle città ai piedi del Vesuvio e dal vulcano sventrate, tra le viuzze martoriate, a contatto con anziani sgomenti, piccoli terrorizzati, uomini e donne disorientate, file di sfollati. Guarda, osserva e scrive, scrive, sempre. «Noi possiamo fare poco, noi, poveri cronisti dei dolori umani – scrive di ritorno dalla montagna – ma noi vogliamo vedere coi nostri occhi, questo dolore, noi vogliamo raccontarlo, perché esso commuova il cuore della gente all’eroismo e alla pietà, e vogliamo raccontarlo com’è, come esiste, come abbiamo fatto sempre, sulla testimonianza personale». Un amore, il suo, per la scrittura che affonda nell’amore per la madre. «Matilde ha cominciato a leggere e scrivere tardi. A otto anni non sapeva ancora leggere e scrivere. Venne stimolata a prendere in mano i libri solo quando la madre si ammalò e, allettata, le chiedeva di leggerle delle storie. Matilde scoprì così di amare la lettura e la scrittura». Amore per la madre, amore per le donne che la porta ad accogliere e crescere come una figlia la neonata nata dal tradimento del marito con una cantante e ballerina francese. Abbandonata dall’amante, in preda alla disperazione, la donna lasciò la creatura davanti alla casa di Matilde e lì, davanti all’uscio, si sparò. Matilde rimase al suo capezzale fino alla morte e si separò dal marito. Dopo l’eruzione torna sui luoghi desolati per non dimenticare «i morti che giacqueroۛ» e i vivi «che furono privi del tetto, del pane, delle vesti». Incontra tante persone tra cui la levatrice Vincenza Arpia tornata per «raccogliere […] un bambino nato tra le macerie». «Questa popolana dice una cosa profonda e grande. Un bimbo è nato nelle rovine. O resurrezione sempiterna della vita! O bimbo che sei un simbolo! Mai perisce, la vita: ed è un eterno germoglio di forza e di beltà». E con la vita rinasce la speranza di «un popolo che non ha altro conforto che questo: sperare». Un libro bello, un omaggio da donna a donna a una grande giornalista, che seppe scrivere restando sempre fedele a sé stessa. 

Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.

Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.

Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.

Da ied.it – IED News – «Sono per una progettualità senza confini, qualcosa che nel mondo di oggi corrisponda ai nostri bisogni ma anche ai sogni».

È con alcune sue parole che IED saluta Rossella Bertolazzi, appena scomparsa a Milano: donna dallo spirito indomabile e generoso, dotata di uno sguardo sagace, schietto e genuino sulla contemporaneità, sempre aperto al confronto con studenti, docenti, creativi, intellettuali. Femminista impegnata, professionista dalla cultura e dalla curiosità sconfinate nel campo delle arti visive, del design, delle contaminazioni virtuose fra i mondi del progetto.

Rossella Bertolazzi è stata questo, e molto altro.

Dal 2001 a capo della Scuola di Arti Visive IED Milano, ha trasferito in IED tutta la sua esperienza professionale e le competenze acquisite nei molti progetti che l’hanno coinvolta e in cui la relazione con studenti e docenti ha sempre occupato un posto centrale. In lei non è mai mancata un’entusiasta curiosità per tutto ciò che è nuovo e diverso, e che ha fatto nascere in IED percorsi formativi inediti, come quello di Sound Design.

Nel 2020 ha ricevuto il Premio Compasso d’Oro ADI alla Carriera in occasione della XXVI edizionedel riconoscimento mondiale nel design. «Le personalità e le imprese cui è stato conferito il Compasso d’Oro ADI alla Carriera hanno tutti ideato e creato opere che hanno fatto storia. Quando ho saputo del Premio mi sono chiesta: io cosa ho fatto? Nulla di tutto questo – così aveva dichiarato in occasione del conferimento del Premio. – Sono sempre stata un’outsider, da ragazzina ad esempio impazzivo per i film western; avrei voluto scrivere di cinema, invece ho scritto di società e ambiente. La possibilità di lanciare lo sguardo un po’ più lontano mi ha portata a fare molte cose nella vita, tutte apparentemente diverse, ma tutte con qualcosa in comune: la progettualità».

Ripercorrendo la sua carriera emergono le diverse redazioni e i contesti artistico-culturali in cui Rossella Bertolazzi ha operato: caporedattrice per Sapere, SE Scienza Esperienza, IKON, Ottagonoe per la testata dicultura materiale La Gola; direttrice per Cronache filmate del XX secolo, uno dei primissimi esperimenti di periodico multimediale e poi autrice televisiva per Mediaset, Telepiù e Rai. A fine anni Novanta è stata capo-progetto della trasmissione “La scuola in diretta” per Rai Educational, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione e pensata per promuovere le nascenti consulte degli studenti. Ha preso parte alla giuria della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (Bjcem) per diverse edizioni. Ha curato mostre e collaborazioni come quella con Mini Bmw per “Personal Design: dall’oggetto al soggetto” (2003, con Studio Azzurro) e quelle per MINI Design Award su “Il Futuro della città: slow o fast? La luce” (2005), “La città su misura” (2006), “La città che comunica” (2007) e “Il futuro della Città: l’ambiente. Dare valore all’acqua” (2008), oltre alla partecipazione al Noir in Festival di Courmayeur con i lavori degli studenti IED. 

Nel 2017 ha curato, insieme a Davide Sgalippa della Scuola di Arti Visive IED Milano, la mostra La luna è una lampadina per i 50 anni dell’Istituto Europeo di Design, che ha preso forma negli spazi de La Triennale ricostruendo il contesto in cui IED è nato e si è evoluto attraverso lo sguardo e i tracciati geografici dei suoi Alumni. Un’incursione interattiva nelle aule del passato, in un percorso fatto di idee e progetti, volti e avvenimenti che hanno tracciato lo sviluppo del network IED insieme a quello della nostra società, dal 1966 ad oggi. Un percorso di memoria resa attuale nella riproposizione di un metodo progettuale nell’ambito di workshop creativi che per tre settimane hanno coinvolto attivamente studenti e pubblico. Nel 2019 infine, ha curato il volume Dialogues – Architecture Interiors Design sui 25 anni dello studio Locatelli Partners (Rizzoli International).

Oggi le sue intuizioni, i suoi insegnamenti restano in quanti l’hanno conosciuta, nelle generazioni che ha visto formarsi, crescere e affermarsi attraverso innumerevoli progetti di design.

(ied.it – IED News, 17 luglio 2024,  https://www.ied.it/news/ied-saluta-rossella-bertolazzi)

Rossella Bertolazzi non è più tra noi

di Laura Minguzzi

Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SE\Scienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.

Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.


Rossella e l’anello

di Silvia Baratella

Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.

Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.

Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.


Rossella per me

di Fiorella Cagnoni

Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.

Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.

Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –

A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.


Paola Mattioli, Rossella Bertolazzi 2018

Da il manifesto – Alias – A MILANO. Triennale, la mostra di Gae Aulenti, a cura di Giovanni Agosti. Il percorso si sviluppa «in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica» (Aulenti). Edifici negozi mostre musei, e il teatro con Luca Ronconi. E in un gioco di carte, gli «attori» della sua vita professionale e privata…

Come avrebbe immaginato Gae Aulenti una mostra dedicata al proprio percorso creativo? Possiamo dedurlo da qualche suo pensiero: «Il sistema espositivo non può essere un semplice supporto del materiale da rappresentare, ma deve partecipare ad esso, esserne coinvolto e insieme coinvolgere lo spettatore, con chiara volontà». Quanto al percorso, dovrebbe essere immaginato «in modo che l’esperienza spaziale, procedendo per amplificazioni e variazioni continue, si sviluppi con forme autonome successive, in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica». Si coglie immediatamente un’idea espositiva orientata al teatro; non a caso il visitatore, con un upgrade di status, diventa spettatore. Il coinvolgimento è reale se contempla però anche uno spaesamento: perdersi per ritrovarsi con un’aumentata consapevolezza. Di qui la necessità di cambi di ritmo che interrompano la linearità del percorso e stimolino uno sforzo di conoscenza e di critica.

La mostra che la Triennale di Milano ha dedicato a Gae Aulenti (fino al 12 gennaio) prende avvio da una sala che immediatamente inghiotte lo spettatore nel meccanismo della macchina espositiva: sotto un soffitto di onde di stoffa si procede circondati dalle sagome ritagliate nel legno delle donne picassiane che corrono felici verso il mare. Il prototipo è il piccolo capolavoro dipinto dal malagueño nel 1922 durante le vacanze sulle spiagge di Dinard. La sala ripropone l’allestimento, pensato insieme a Carlo Aymonino e Steno Paciello, per la sezione italiana alla Triennale milanese del 1964, che era valsa a Gae Aulenti il Gran premio internazionale assegnato dalla stessa Triennale. Nel gioco di squadra quell’idea così teatrale è come una firma: infatti quindici anni dopo Aulenti avrebbe voluto un dettaglio di quell’allestimento sulla copertina del catalogo della sua prima mostra monografica al PAC di Milano. Questo impatto trascinante fa subito i conti con il brusco cambio di passo dell’allestimento del negozio Olivetti di Buenos Aires del 1968: macchine da scrivere e oggetti di design disposti su gradoni, ricavati entro spicchi di piramide che precipitano in direzione dell’osservatore. Così siamo calati immediatamente in un territorio aulentiano, nel segno di una calcolata discontinuità.

Una mostra su Gae Aulenti non poteva essere pensata secondo i canoni di una mostra di architettura. Anche per questo la curatela è stata affidata a Giovanni Agosti, che, come lui stesso ammette nell’introduzione alla guida che accompagna i visitatori (in attesa del catalogo, la cui pubblicazione è prevista per l’autunno: l’una e l’altro per i tipi di Electa), non è né storico dell’architettura, né del design, né del teatro, «ma solo uno storico dell’arte che le ha voluto però molto bene». Hanno affiancato Agosti Nina Artioli, nipote dell’architetto e contitolare dello studio Tspoon che ha progettato l’allestimento, e Nina Bassoli, curatrice del settore Architettura della Triennale.

Il congegno drammaturgico del’esposizione prevede una sezione «tradizionale» in cui sono esposti materiali documentari (incuriosiscono i diari e alcune lettere) e disegni, tra i quali spiccano gli splendidi lucidi a china e retino con le piante e gli alzati di alcuni dei progetti più famosi di Aulenti. È un lungo corridoio perimetrale che si innesta nel tratto superstite della Galleria dei disegni, che lo stesso architetto aveva progettato per la Triennale del 1994. Dal corridoio si può gettare l’occhio sulla «macchina evocatoria», come la definisce Agosti, che in tredici spazi incastrati l’uno nell’altro, rispettando l’ordine cronologico, restituisce, con spezzoni ricostruiti in dimensioni reali, altrettante tappe fondamentali della storia di Gae Aulenti.

Per una felice combinazione il percorso aperto dalla corsa delle amazzoni picassiane si chiude con i due progetti per, rispettivamente, la stazione Museo della metropolitana di Napoli (2001) e l’«aeroportino» di Perugia (2012), che è l’ultimo lavoro: una chiusura che suona come un commiato, con il tocco struggente dato dall’apparire sui monitor degli arrivi e partenze dei disegni dell’amatissimo nipote Pietro, inseriti come lampi nell’elenco dei progetti, realizzati e non, di nonna Gae.

Tra l’incipit e l’exit della mostra, lo spettatore ha sperimentato continui spiazzamenti. Davanti a lui si è palesato uno spaccato del negozio Fiat di Zurigo (1973) con le automobili disposte spericolatamente su una parabolica, come se la strada avesse fatto irruzione nel negozio. Ha messo piede nel salotto di casa Brion a San Michele di Pagana (1973), dove il senso di morbidezza dato dalla moquette è chiamato a una resa dei conti con le complicazioni introdotte dai rialzi, dai gradini e soprattutto dal brusco presidio dei pilastri.

I pilastri sono un marchio di fabbrica, una cifra «psichica» più che stilistica che pervade, in modo trasversale, i lavori di Gae Aulenti: dominano con la loro caratura drammatica sulla scena

della celebre Elektra scaligera con la regia di Luca Ronconi (1994); stipano lo spazio aggraziato dell’aeroportino di Perugia; si fanno foresta urbana nel rifacimento di Piazza Cadorna a Milano (2000); diventano elementi attorno ai quali far ruotare lo spazio labirintico immaginato per la mostra dedicata a Christo alla Rotonda della Besana a Milano (1973). Il pilastro è una sorta di costante drammatica che vigila sulla scena architettonica mettendosi di traverso rispetto a ogni rischio di percezione accomodante. È il segno, volutamente invasivo, del pensiero e dell’energia critica che abita ogni progetto della Gae.

Per lei, scriveva Alberto Arbasino, c’è un’equivalenza di piani tra «riflessioni critiche, idee, muri e mattoni», tutti allo stesso modo «strumenti culturali e concreti». Un concetto chiarito nel meraviglioso incipit dello scritto dedicatole in Ritratti italiani (Adelphi): «Gae Aulenti dice, con calma: mai Decoration; soltanto Design. Spiega meglio, criticamente: Struttura non superficie. Cioè Forma, non epidermide, né rivestimento».

Questa visione emerge liberata in tutta la sua drasticità nei due allestimenti teatrali riproposti nella «macchina evocatoria» della mostra milanese: l’Elektra, dove la reggia di Micene era trasformata in un mattatoio insanguinato, e le Baccanti (1977), sempre per la regia di Ronconi, al Laboratorio di Progettazione di Prato. In mostra ci si addentra nello spazio claustrofobico dove davanti a due letti d’ospedale gli spettatori (solo 24) assistevano alla recita di una parte del secondo stasimo della tragedia. La traduzione era di Edoardo Sanguineti, che dopo lo spettacolo ammise di aver capito «per la prima volta cos’è una tragedia greca».

Quello con Ronconi è un rapporto chiave per Gae Aulenti. Si erano conosciuti nei camerini della Scala nel 1974, dopo la prima contestatissima dellaWalkiria con le scene di Pier Luigi Pizzi. Lei si era fatta avanti per esternare tutta la propria ammirazione, e da lì era scattata la voglia di iniziare a collaborare. Ronconi, semplicemente «Luca», non poteva mancare nel mazzo delle 88 carte (disegnate da Giovanna Buzzi) dei personaggi, pubblici e privati, che hanno popolato i mondi di Gae Aulenti. Un «Gioco», in vendita a 20 euro, che è parte integrante del congegno della mostra. Come scrive Agosti «gli spazi sono degli stati in luogo, quasi la realizzazione delle didascalie di un dramma, dove gli attori sono quelli figurati dalle carte da gioco».

Ma sulla scena di Gae Aulenti si poteva entrare anche per vie privilegiate aperte in forza di tenerezza, come testimonia la foto indimenticabile di lei che tiene per mano la nipotina Nina nel tumulto del cantiere del Musée d’Orsay.

Da L’Urlo, anno XI, Speciale arte, maggio 2024 – Immaginatevi una ragazza milanese degli anni ’30 del secolo scorso, con occhi che brillano di curiosità e un cuore pieno di passioni travolgenti. Questa è Antonia Pozzi, una delle voci più intense e sensibili della poesia italiana del Novecento. Nata nel 1912 in una famiglia borghese, Antonia Pozzi si distingue presto per il suo talento letterario e il suo spirito ribelle. Le sue poesie esplorano i punti più reconditi dell’animo umano e riflettono la bellezza e il dolore della sua esistenza. Leggendola, abbiamo l’occasione di fare un viaggio colmo di emozione, essendo i suoi versi finestre aperte sui pensieri più intimi. Antonia Pozzi trovava ispirazione nelle montagne di Pasturo, un piccolo paese in Valsassina dove trascorreva le vacanze, e dove cercava rifugio dal tumulto della vita cittadina.

Dopo aver studiato nel nostro Liceo classico, si laurea in Lettere all’Università degli Studi di Milano. Nonostante il suo brillante percorso accademico, è sempre stata in conflitto con le aspettative della sua famiglia e della società dell’epoca. Tragicamente, la sua vita è stata breve: Antonia Pozzi si dà la morte nel 1938, a soli ventisei anni.

Ho avuto modo di conoscere Graziella Bernabò alla Libreria delle donne di Milano, una studiosa che ha svolto un ruolo importante nella divulgazione della vita e dell’opera di Antonia Pozzi e l’anno scorso è stata anche nel nostro liceo per una conferenza sulla poetessa. Ha accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Come è nata la tua passione per Antonia Pozzi e cosa ti ha spinto a scrivere una biografia su di lei?

Verso la fine degli anni Settanta, alla Libreria delle donne di Milano, acquistai un libro di poesie curato da Biancamaria Frabotta (Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra a oggi, con una nota critica di Dacia Maraini, Savelli, 1976). Benché riguardasse un’epoca successiva a quella di Antonia Pozzi (che aveva scritto i suoi versi tra il 1929 e il 1938), la raccolta iniziava proprio con alcune sue liriche, considerate come l’ideale introduzione alla scrittura di autrici più recenti. Rimasi estremamente colpita dall’originalità e dal vigore con cui la giovane poetessa – grazie a un linguaggio raffinato ma anche sensoriale, corporeo e comunicativo, quindi lontano dalle rarefazioni e dalle oscurità in auge nella lirica italiana degli anni Trenta – riusciva a esprimere la difficoltà da parte di una donna di trovare un proprio posto nel mondo. Successivamente lessi, in varie edizioni man mano accresciute, la sua raccolta di poesie, le lettere, i diari e i saggi critici; ed ebbi anche la possibilità di visitare una bella mostra dei suoi scatti fotografici. Potei apprezzare in questo modo la sua ardente personalità di donna e la sua poliedrica creatività; e mi venne allora il desiderio di restituirle in qualche modo, con un lavoro adeguato, quella voce che le era stata negata in vita, non solo dalla famiglia – ligia a convenzioni aristocratico-borghesi – ma anche dall’ambiente culturale in cui era inserita all’Università Statale: il gruppo del filosofo Antonio Banfi, innovativo per l’epoca ma ancora chiuso all’alterità femminile.

Quali poesie ti hanno colpito maggiormente in occasione del tuo primo accostamento ad Antonia Pozzi?

Inizialmente sono stata impressionata soprattutto da “La porta che si chiude” e da “Rossori”: due liriche in cui la poetessa esprime con inedito vigore l’angoscia di non ritrovarsi più nel proprio corpo, quindi il senso di «depersonalizzazione» che le derivava dall’impossibilità di vivere conformemente ai propri desideri più profondi. Su questo pesarono sia l’opposizione del padre al suo rapporto d’amore con il grande classicista Antonio Maria Cervi, sia varie incomprensioni con lo stesso uomo amato, che, pur volendole bene, era imbarazzato dalla sua indole appassionata e poco convenzionale, essendo su vari piani tradizionalista e di fatto inscritto in un sistema patriarcale. Le poesie che ho citato sono oltretutto storicamente interessanti rispetto alla situazione della donna in età fascista.

Com’era l’indole di Antonia Pozzi? Puoi raccontare qualche aneddoto a questo proposito?

In realtà Antonia, di per sé, non era assolutamente chiusa e cupa: al contrario era libera, ardente, innamorata della vita per tutto ciò che essa poteva offrirle: dal contatto profondo con la natura, soprattutto con la montagna attraverso l’alpinismo, agli studi, ai viaggi, al rapporto con gli altri, comprese le persone più umili. Antonia sapeva trarre piacere anche dalle piccole cose. Alcuni passi di diario della prima adolescenza, poi diventati temi scolastici, ci mostrano, per esempio, quanto riuscisse a divertirsi con gli amici al Palazzo del Ghiaccio di Milano. La sua amica Elvira Gandini, principale testimone della mia biografia, oltre a moltissime vicende importanti di Antonia, mi riferì un semplice, ma indicativo, episodio. Una volta si trovavano insieme a sferruzzare, come spesso le ragazze facevano in quell’epoca, e Antonia stava completando una sciarpa di un vivace colore arancione; a un certo punto se la accostò al viso, dicendo, con un sorriso radioso (il suo sorriso era molto bello, a detta di vari testimoni): «Mi dona?». Nel suo studio di Pasturo ho potuto vedere fiori essiccati e tanti piccoli oggetti, a volte proprio minuscoli, che Antonia conservava perché erano legati a lieti momenti di vita e ai viaggi che spesso faceva in Italia e all’estero. Fu il mondo esterno, inteso come famiglia, uomini amati e compagni di università, a inibire più volte, nel corso della sua breve esistenza, questa capacità di gioia che le era connaturata.

Quali sono state le maggiori sfide nella ricerca e nella scrittura della biografia di Antonia Pozzi? Hai scoperto qualcosa di inaspettato durante il tuo lavoro?

Sono partita da un’idea tradizionale di biografia ma poi, grazie a un lungo lavoro con alcune storiche della Libreria delle donne, ho capito che le categorie interpretative utilizzate per le vite degli uomini non erano assolutamente adatte a raccontare la vita di una donna in genere, tantomeno di una poetessa che, come Antonia Pozzi, si poneva al di fuori degli schemi della sua epoca, dato che, a dispetto dei molti condizionamenti subiti, era interiormente libera e in anticipo sui tempi, perciò tanto poco capita nel suo tempo quanto meravigliosamente capace di parlare al nostro presente. Per cogliere il senso della sua vita ho evitato stereotipi, luoghi comuni e discorsi generici, basandomi invece sulle molte testimonianze orali che ho potuto reperire, sulla ricostruzione delle sue reti di relazioni (affettive e intellettuali) attraverso le lettere, i diari e altri materiali dell’archivio Antonia Pozzi di Pasturo. Ma soprattutto mi sono concentrata sulla vivida e originale simbologia delle sue liriche, cercando di rintracciarvi il suo più autentico sentire, i suoi desideri più profondi: penso, per esempio, allo schietto eros di donna espresso dai molti e carnali fiori che compaiono nei suoi versi, oppure alla forza femminile delle sue montagne, insieme concrete e mitiche, sorta di ancestrali madri capaci di riscattare dall’inautenticità del vivere sociale. Ho scoperto così, anche al di là delle mie previsioni iniziali, un meraviglioso immaginario poetico che, nell’esprimere in modo pregnante l’anima e il corpo di una donna, non trovava niente di analogo nella lirica contemporanea ad Antonia Pozzi, mentre precorreva per certi aspetti la poesia di altre grandi autrici del secondo Novecento: da Sylvia Plath ad Anne Sexton, a Ingeborg Bachmann, ad Alda Merini, per fare solo pochi nomi.

Antonia Pozzi ha iniziato a scrivere poesia da giovanissima. Che consiglio daresti ai giovani poeti e poetesse che vogliono seguire le sue orme?

Ai giovani, ragazzi e ragazze, che avvertono in sé una vocazione poetica, consiglierei di leggere molti poeti di epoche e paesi diversi; e di partire certamente da sé, dalla propria soggettività, avendo però sempre chiaro che la vera poesia non può essere immediata ed effusiva, in quanto richiede un notevole senso critico e un duro lavoro di elaborazione formale. Questo Antonia Pozzi lo aveva ben chiaro, come affermò Eugenio Montale, suo scopritore, e come appare dalle tante varianti presenti nei suoi autografi, che attestano un accurato lavoro di lima, evidente anche nelle sue liriche dell’adolescenza.

Qual è, secondo te, l’eredità più importante che Antonia Pozzi ha lasciato alle generazioni future?

Antonia Pozzi ha lasciato al mondo l’eredità di una poesia che potremmo definire della “relazione” con la totalità dell’esistente, quindi con le persone, gli animali, i luoghi e le cose (le «cose sorelle», come le chiamava lei). Una poesia che partiva dalle sue esperienze personali, ma che, nel suo grande respiro, sapeva restituire il senso vivo della natura, le profondità del cuore umano, la bellezza e il dolore del mondo, comprese le tragedie della storia: la guerra e la miseria dei ceti più svantaggiati.

Come è stato il tuo percorso professionale e personale da biografa? Ci sono momenti particolarmente significativi che vorresti condividere con noi?

Ho sempre amato le biografie: ne ho lette molte e ne ho scritte due: La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2016 e Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, Milano 2004; nell’ultima versione Àncora, Milano 2022. Dietro il mio modo di intendere questo genere di scrittura c’è il rapporto, iniziato negli anni Ottanta, con un gruppo di storiche della Libreria delle donne, insieme alle quali ho sviluppato l’idea di una biografia non romanzata, perché basata su una lunga ricerca delle fonti scritte e orali, ma assolutamente non fredda. Penso infatti che, se si vuole scrivere un libro su una persona che ci interessa profondamente, ci deve essere la disponibilità a porsi nei suoi confronti con un’assoluta empatia e a immergersi nel suo mondo. Questo comporta il fatto di ricostruirne con pazienza e impegno non solo le vicende e i contesti, ma anche i luoghi prediletti, le abitudini, le letture, gli interessi culturali, gli svaghi e qualunque ulteriore elemento, non importa se minimo, utile a delinearne la fisionomia, perché a volte anche particolari apparentemente insignificanti, se interrogati con attenzione e disponibilità, possono contribuire alla comprensione più articolata e profonda di una vita. Questo mio modo di lavorare ha comportato per me innumerevoli scoperte, tanto su Antonia Pozzi quanto su Elsa Morante; ed è sfociato in due volumi che mi hanno dato molta soddisfazione, perché hanno contribuito a promuovere la conoscenza di queste due grandi autrici, oltre che tra gli addetti ai lavori, presso un ampio pubblico, come ho potuto constatare in occasione delle numerose presentazioni che mi è capitato di farne nel tempo.

Antonia Pozzi mi ha insegnato che la poesia può essere un rifugio, un modo per comprendere e affrontare le complessità della vita. Dalle parole di Graziella Bernabò abbiamo capito bene la ricchezza e il tormento del suo animo poetico. Ma se volete davvero vivere la sua poesia, immergetevi nelle sue parole, leggetele, sussurratele. Scoprirete una giovane donna che, nonostante le difficoltà, ha saputo trasformare il suo dolore in bellezza eterna.

Da la Repubblica – Per il New York Times il primo volume della tetralogia della scrittrice che non ha mai rivelato la sua identità, è il libro del secolo. Superando Franzen e Bolaño, tra quelli usciti dal 2000. Il commento dello scrittore che ha collaborato alla sceneggiatura della serie.

Le classifiche sono un gioco, ma i giochi vanno presi sul serio. E questa specie di sentenza del New York Times serve a ragionare su un po’ di cose: in questa classifica, nei primi dieci posti c’è Franzen con le sue “Correzioni”; Whitehead con il grande romanzo americano; ci sono scrittori di romanzi storici e distopici. C’è un immaginario perfettamente americano. E poi c’è il romanzo fatto di tanti romanzi di Bolaño; e al primo posto un romanzo lunghissimo pubblicato nel tempo in quattro volumi, che racconta la vita intera di due amiche cresciute insieme in un rione poverissimo di Napoli e che poi si dividono e si riuniscono per l’intera esistenza, attraversando la storia del Paese, la politica e la letteratura, la camorra e gli amori fallimentari, la povertà e la ricchezza, l’invisibilità e il successo. Cioè, l’immaginario di una scrittrice napoletana che forse su per giù racconta la sua vita nella sua città, supera (certo, è un gioco, ma questo dice il gioco) l’immaginario americano per gli americani.

I giochi vanno presi sul serio, così come sul serio è stata presa la quadrilogia di Elena Ferrante negli Stati Uniti (e non solo lì, ovviamente). E davvero non bisogna per forza svelare il mistero del rione dove passa il treno, diviso dal resto della città da un tunnel che sarà il momento epico e decisivo dell’amicizia di Lenù e Lila, quando lo attraverseranno per la prima volta per andare a vedere il mare, e sveleranno a loro stesse ancora inconsapevoli, e ai lettori ancora inconsapevoli, il destino che le attende: Lila ostinata e feroce avrà paura del diluvio e vorrà tornare indietro, nel rione – dove infatti resterà tutta la vita; Lenù, timida e impaurita, che scopre dentro sé stessa che indietro non vuole tornare – e infatti andrà via per il mondo. Ma senza la spinta della sua amica non avrebbe mai scoperto di essere quella che sarà. Non bisogna per forza svelare il mistero del perché quel tunnel, quel mare lontano, quell’amicizia, l’ostinazione di due bambine a non essere ignoranti e succubi come le loro madri, colpisce in pieno l’immaginario dei lettori di tutto il mondo: sono loro che trasformano quel tunnel nel loro tunnel del loro rione della loro cittadina; della loro magra o grassa esistenza.

Non bisogna per forza svelare il mistero dei romanzi popolari. Ma dobbiamo sapere che noi italiani di grandi romanzi popolari ne abbiamo fatti pochi, pochissimi, e la scrittrice a cui la Ferrante si è esplicitamente ispirata, Elsa Morante, quando ne ha fatto uno, “La storia”, è stata insultata da amici e nemici, da destra e sinistra. Ma ha avuto dalla sua parte, pronti a combattere al suo fianco, i suoi lettori, migliaia e migliaia. Esattamente come li ha avuti, e li ha adesso Elena Ferrante. È questa la forza dei romanzi popolari, riuscire a cogliere dentro il melodramma di una vita intera, di un mondo che non sparisce mai ma ritorna a ogni età, la forza ancestrale dell’esistenza degli esseri umani. E di conseguenza conquistarli, tenerli accanto, sentirli dalla propria parte.

È questa la risposta alla decisione dei circa cinquecento critici che hanno proposto L’amica geniale come miglior libro degli anni Duemila, ed è una risposta generica e semplice, ma specifica e profonda allo stesso tempo: provate a cercare un tema, un conflitto, un genere narrativo, un mito letterario, un archetipo o qualcosa che vi riguardi direttamente, che sia successo nella vostra vita: e nell’Amica geniale c’è. Chiunque lo legga sente che lo riguarda, è questo il miracolo.

Nell’averci a che fare per lavoro, avendolo dovuto scavare e rivoltare e cercare di comprendere in tutti i modi, quello che ho capito è che questo romanzo è ciò che si può definire opera-mondo. E c’è di più. Non so se è un azzardo, anche perché la Ferrante è invisibile e parla poco, ma questo ritmo avvolgente che ti trascina per molte centinaia di pagine, sembra avere una consapevolezza di fondo, ma anche una inconsapevolezza di fondo: è come se chi lo ha scritto fosse andato avanti, con la certezza che i personaggi, veri o inventati che fossero, potessero vivere, cadere, incontrarsi più volte, perdersi, sparire, tornare, vendicarsi, soccombere – fare tutto questo un po’ da soli, mentre la storia si scriveva, andando avanti. Ora, ogni scrittore sa che questo è impossibile, che il controllo è il punto di partenza di ogni libro. Ma ogni scrittore sa anche che un libro speciale, può diventare tale solo se a un certo punto sovrasta chi lo scrive, lo tira da una parte, decide il cammino, fa la rivoluzione. E questo può succedere soltanto se l’impianto iniziale è così perfetto che libera i personaggi e li fa vivere da soli.

Ecco, nessuno dei romanzi che compare in questa classifica, è così “popolare” e libera così tanto i personaggi, togliendo loro le briglie. Anzi, alcuni di questi sono amati per quanto lo scrittore li sopravanzi. Molti dei romanzi di questa classifica sono di scrittori in atto di pensare; Elena Ferrante non sembra mai in atto di pensare.

E così, in cima agli altri, c’è questa storia lontanissima, nel tempo e nello spazio, dal New York Times. Ma lì lontano, in quelle famiglie povere con tutti a dormire negli stessi letti, con l’idea che la scuola sia costosa e inutile, appare Dickens, appaiono i pionieri americani e i primi emigrati, c’è l’inizio di tutto, e c’è l’inizio della ribellione di due ragazzine a un mondo che le aveva già destinate a non essere altro che quello che già c’era.

E quindi le aveva destinate a non entrare in un libro, a non diventare mai letteratura.

Da il manifesto – Hebron Road è la strada che da sempre ha dato la possibilità di raggiungere Al Khalil (Hebron) da Gerusalemme. Se una volta questa via era continua, oggi è interrotta dall’enorme muro che Israele ha costruito dopo la seconda intifada nel 2002. Palazzi abbandonati a fianco di grattacieli nuovi danno vita a un contrasto che assume tratti surreali quando si inizia a scorgere l’immensa struttura di cemento che blocca l’orizzonte.

«Questa strada è un microcosmo, rappresenta la situazione generale in tutte le sue contraddizioni» dice Emily Jacir, direttrice del centro culturale e residenza artistica Dar Jacir. Il centro sorge proprio su questo grande viale a Betlemme. Una struttura costruita nel 1880 da un avo di Emily, che oggi ospita artisti da tutto il mondo e, soprattutto, da tutta la Palestina storica, rendendolo luogo di eredità radicate nella terra. «I palestinesi non hanno accesso ai musei di Gerusalemme dove è conservata la nostra storia», dice Emily, che aggiunge «la nostra comunità è frammentata e disseminata in tutto il mondo, la nostra narrazione è interrotta».

Dar Jacir è un luogo di salvaguardia del patrimonio culturale palestinese: «Quando le persone vedono le vecchie fotografie di questa strada, riconoscono il nostro passato. Noi veniamo da qua». «I nostri vicini sono i campi profughi di Aida e di Azza, qui lavoriamo molto con i bambini, offriamo corsi di musica, agricoltura, arte e danza – prosegue Emily – questo è uno spazio interdisciplinare e transgenerazionale dove le persone si riuniscono per vivere insieme, farsi domande e creare progetti».

Ad Al-Khalil, al capo opposto di questa lunga strada, è stato concepito il progetto Artist + Allies x Hebron (AAH), fondato dal fotografo sudafricano Adam Broomber e dall’attivista palestinese Issa Amro. Il collettivo artistico si propone di preservare l’arte e la natura agricola della Cisgiordania meridionale e di sostenere gli artisti palestinesi e internazionali impegnati nella resistenza culturale contro l’occupazione.

Dalla collaborazione tra Dar Jacir e AAH è nata l’esposizione South West Bank: Landworks, Collective Action and Sound a Palazzo Contarini Polignac, come evento collaterale alla 60a Biennale di Venezia. I territori palestinesi non hanno mai avuto uno spazio all’interno dei Giardini, pur essendo sempre rappresentati da un notevole numero di artisti. Quest’anno le proteste contro il genocidio a Gaza hanno portato alla chiusura del padiglione israeliano.

«Penso che sia molto importante che in un momento come questo la Palestina sia presente alla Biennale» sostiene Broomberg. La mostra South West Bank comprende sia le opere di artiste palestinesi, come Dima Srouji e Shaima Hamad, che quelle di internazionali. Tra queste il progetto fotografico “Anchor in the Landscape” di Adam Broomberg e Rafael González, che riflette sul ruolo totemico dell’ulivo nell’identità palestinese.

L’albero era già stato protagonista di un’altra opera firmata AAH, “H2 – Counter Surveillance”. Per sensibilizzare sull’uso pervasivo della video sorveglianza da parte dello Stato israeliano, gli artisti hanno inserito alcune telecamere di sorveglianza tra le fronde degli alberi, registrando giorno e notte le colonie israeliane. I filmati sono stati proiettati in tempo reale in musei di tutto il mondo, capovolgendo la prospettiva di ipervigilanza militare di Israele.

Adam Broomberg, di famiglia ebraica di origini lituane, è nato e cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, in cui riconosce somiglianze e differenze con l’occupazione nei territori palestinesi. Tra gli obiettivi del collettivo AAH c’è anche quello di portare la comunità internazionale in Cisgiordania, «perché si può parlare e parlare, ma una volta lì, ci vogliono cinque minuti per capire cosa significano discriminazione e apartheid», spiega Broomberg. Il fotografo è stato definito antisemita e ha perso la sua posizione di professore all’università di Amburgo per le sue dichiarazioni a sostegno della Palestina. «Il lavoro culturale come questo funziona, perché altrimenti non vorrebbero fermarci», sostiene Broomberg: «Penso che l’arte sia un modo sottile di rendere le persone consapevoli di ciò che sta accadendo».

A due passi dall’enorme struttura divisoria di cemento armato, Dar Jacir sembra un’oasi in mezzo al caos. Ulivi, diversi tipi di piante e grandi alberi che «nascondono il muro ai nostri occhi per qualche istante», dice Bisho, un giovane artista di Betlemme in residenza. Il ragazzo palestinese, che si occupa di riciclo di tessuti e tinture naturali, racconta di aver trovato un luogo di pace ma anche di incontro, dove gli artisti palestinesi scambiano idee e visioni con quelli internazionali. Bisho crede «nella condivisione delle esperienze. Per noi è difficile spostarsi e quindi siamo molto aperti a scambi con gli stranieri, è una possibilità di viaggiare senza muoversi».

Da Il Tascabile – «Il letto, mio caro, è tutta la nostra vita. Qui si nasce, qui si ama, qui si muore»: sono le parole della protagonista di un breve racconto di Maupassant del 1882 che s’intitola, per l’appunto, Il letto. La donna, di cui non conosciamo e non conosceremo il nome, è allettata da giorni e descrive così in una lettera al suo amante, l’abate d’Argencé, quel tempo di degenza obbligata:

Mio caro amico, sono malata, soffro veramente, non posso lasciare il letto. La pioggia batte contro i vetri e io me ne sto a fantasticare languidamente al caldo, nel tepore dei piumini. Ho qui un libro che amo e che mi sembra fatto con un poco di me stessa. Devo dirvi quale? No. Mi rimproverereste. Poi, dopo aver letto un po’, mi metto a pensare, e voglio dirvi a cosa. Dato che da tre giorni sono a letto, penso proprio al mio letto, e persino nel sonno continuo a pensarci. Se solo possedessi la penna di Crébillon, scriverei proprio la storia di un letto.

Costretta a trascorrere il suo tempo distesa, la donna fantastica, legge, scrive lettere, pensa. E pensa proprio al giaciglio che la accoglie, e ci pensa così intensamente che perfino mentre dorme il letto – quel letto – diviene il pensiero fisso delle sue giornate. Oh, se solo avesse il talento di un grande scrittore come Crébillon! Ma no, è soltanto una donna, senza nome né (apparentemente) talento. Una donna malata, che pensa al suo letto, mentre è a letto. Quasi cinquant’anni dopo – è il 7 gennaio del 1926 – un’altra donna, con un nome e un talento, scrive una lettera alla sua amante, in quei giorni costretta a letto per una breve malattia: «Solo per chiederti come stai – hai la febbre? 38? 39? 40? Non ti senti bene? Mezzo addormentata sorseggi il tè, mangiucchi una fetta di pane tostato, e poi verso sera ritorni luminosa e remota e irresponsabile distesa nel tuo baldacchino come un minuscolo chicco nel guscio?». L’amante ammalata risponde: «Sei un angelo ad avere scritto. E mi piace il tuo atteggiamento nei confronti della malattia: “luminosa e remota”, quando la maggior parte delle persone avrebbe detto “calda e appiccicaticcia”».

Già, Vita Sackville-West – l’amante ammalata – ha proprio ragione: nessuno più di chi le ha scritto quelle parole, ovvero Virginia Woolf, è capace di raccontare la malattia in modo così diverso, originale, inconsueto. A testimoniarlo, appena qualche giorno dopo quello scambio di lettere, è il breve e indimenticabile saggio On Being Ill, “Dell’essere malati”, pubblicato per la prima volta proprio sul numero del gennaio 1926 della rivista “New Criterion”, diretta da T.S. Eliot. In Dell’essere malati, Woolf riflette – e ci fa riflettere – su come il fatto di essere costretti a letto da una malattia non sia sempre, non sia solo, una sciagura. È anche, più spesso di quanto crediamo, un’occasione. Lo è nel senso etimologico del termine. Se pensiamo alla parola occasio, dal latino ob + cídere, subito ci rendiamo conto che la parola “occasione” porta con sé un movimento di caduta, una parabola discendente. La malattia è un’occasione perché ci ac-cade, “ci cade davanti”. O siamo noi che, andando avanti, ci cadiamo dentro. Eppure questa caduta, avverte Woolf, non è necessariamente un male. Molto spesso, infatti, “cadere ammalati” significa essere costretti a cambiare prospettiva, ad abbandonare la verticalità, a divenire orizzontali. Sdraiati a letto, non più feminae e homines erecti, obbligati a rinunciare alla postura che l’evoluzione, la storia, il mondo, ci chiedono per essere parte attiva del consorzio civile, noi, gli ammalati, i distesi, gli inetti, abbiamo improvvisamente la possibilità di abitare un altro spazio, di guardare qualcosa di diverso. Qualcosa che, in piedi, continuava a sfuggirci e che da sdraiati, invece, ci si rivela.

Con la malattia la simulazione cessa. Appena ci comandano il letto, o sprofondati tra i cuscini in poltrona alziamo i piedi neanche un pollice da terra, smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eretti; diventiamo disertori. Loro marciano in battaglia. Noi galleggiamo tra i rami nella corrente; volteggiamo alla rinfusa con le foglie morte sul prato, capaci forse per la prima volta dopo anni di guardarci intorno, o in alto – di guardare, per esempio, il cielo.

Quella che credevamo una disgrazia, la malattia, può diventare, in alcuni casi, uno stato di grazia, una modificazione posturale che, imponendoci di abbandonare le file dell’esercito degli eretti, degli attivi, dei produttivi, ci obbliga (o autorizza) a sostare, a non agire, a osservare. Il cielo, per esempio. «Diventati una foglia, o una margherita, supini, lo sguardo rivolto in alto» – continua Woolf – «scopriamo che il cielo è qualcosa di così diverso, ma così diverso che ne siamo scioccati. Ecco dunque cos’è che da tanto tempo andava avanti senza che lo sapessimo! […] Solo i supini sanno ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare».

I supini lo sanno. Sanno ciò che gli eretti dimenticano, tutti presi dalla propria verticalità, dalla propria “rettitudine”, per usare il termine che la filosofa Adriana Cavarero mette al centro del suo saggio Inclinazioni. Critica della rettitudine, proprio per ragionare sulla «centralità della postura verticale, tanto cara all’individuo sovrano e ai suoi sogni di autonomia» e che per la filosofa, come per Woolf, non è che un «patetico abbaglio». Chi si pensa dritto e intero, chi guarda sempre davanti a sé, chi procede senza sosta nell’esercito degli eretti, illudendosi di dominare lo spazio – e dunque il mondo – confortato dal proprio orientamento verticale, (o dalla propria erezione), è completamente fuori strada. Ignaro, o dimentico, «di ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare».

Essere orizzontali, per Woolf, significa avere la possibilità di sfuggire a questo abbaglio, a questa fatale dimenticanza. Significa allenare lo sguardo a un’altra prospettiva, una prospettiva eccentrica, fuori dal centro di un’autoreferenzialità che è in realtà miope. A letto, distesi come «una foglia, o una margherita», al cospetto di un cielo che non ricordavano, i supini ritrovano i confini di un corpo vulnerabile e vivo, che patisce, che dipende da un altro, dagli altri, che è in contatto con i propri bisogni, con la propria parzialità. E, insieme, con la propria creatività. Sì, perché è proprio quando siamo distesi, ammalati, che siamo più disponibili a lasciarci attraversare dall’incomprensibile. Spesso, quando siamo in piedi, e in salute – scrive ancora Woolf – «il senso usurpa il ruolo del suono. L’intelligenza domina sui sensi. Ma nella malattia, con la polizia non più in servizio, le parole liberano il loro profumo, sussurrano come fanno le foglie, ci coprono di luci e ombre». Liberi dall’imperativo categorico del dover capire, del dover dare senso e ordine al mondo, affrancati dall’asse verticale della ragione, i supini fantasticano, leggono, scrivono. Proprio come la donna protagonista del racconto di Maupassant. Proprio come Virginia Woolf, che scrive Dell’essere malati subito dopo – o dovremmo dire grazie al fatto – di essere stata costretta a letto per un mese, nell’autunno del 1925.

Quello di Woolf non è certo l’unico caso. Sappiamo bene che la maggior parte della Recherche Proust la scrive a letto. E che è a letto, mentre è ammalato di pleurite, che il grande poeta Attilio Bertolucci compone la sua seconda raccolta di versi, Fuochi in novembre, del 1932. Ed è sempre a letto che, dieci anni prima, nel 1922, Katherine Mansfield, malata di tubercolosi, scrive uno dei suoi racconti più belli e più crudeli: La mosca. Ed è ancora a letto, o addirittura stesa sul pavimento, che Karen Blixen, malata da tempo di sifilide, scrive o detta uno dei suoi capolavori: la raccolta di racconti Capricci del destino, pubblicata nel 1958. Perfino Via col vento, il romanzo di Margaret Mitchell da cui sarà poi tratto il celebre film, nasce in posizione orizzontale: l’autrice inizia a scriverlo proprio perché costretta a letto per settimane a causa della frattura di una caviglia. La storia della letteratura è piena di scrittrici e scrittori orizzontali. Autori e autrici per cui stare a letto, o a terra, o su un divano è non solo la condizione migliore, ma talora l’unica condizione, la condizione necessaria per creare. Edith Warthon, che da ragazzina è solita leggere stesa sul tappeto della biblioteca paterna, da adulta scrive quasi solamente a letto, libera – così dice – dalla dittatura femminile del corsetto, che asfissia qualsiasi slancio creativo. Mark Twain e George Orwell scrivono a letto. William Wordsworth scrive addirittura a letto e al buio… non si sa come. E così Truman Capote, che in una intervista del 1957, dichiara: «Sono uno scrittore assolutamente orizzontale. Se non sono sdraiato a letto o su divano, non riesco a pensare». «Io sono verticale/ ma preferirei essere orizzontale», scrive dal canto suo Sylvia Plath, in una delle sue più celebri poesie, I am vertical.

Io sono verticale

ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero

con radici nel suolo

succhiante minerali e amore materno

così da poter brillare

di foglie a ogni marzo,

né sono la beltà

di un’aiuola ultradipinta

che susciti grida di meraviglia,

senza sapere che presto

dovrò perdere i miei petali.

Confronto a me,

un albero è immortale

e la cima di un fiore, non alta,

ma più clamorosa:

dell’uno la lunga vita,

dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera,

all’infinitesimo lume delle stelle,

alberi e fiori

hanno sparso i loro freddi profumi.

Ci passo in mezzo

ma nessuno di loro ne fa caso.

A volte io penso

che mentre dormo

forse assomiglio a loro

nel modo più perfetto

con i pensieri andati in nebbia.

Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo ed io

siamo in aperto colloquio,

e sarò utile il giorno

che resto sdraiata per sempre:

finalmente gli alberi mi toccheranno,

i fiori avranno tempo per me.

In questa bellissima poesia, che troppo spesso è stata banalizzata e interpretata solo come uno dei tanti annunci della poeta americana rispetto al suo futuro suicidio, c’è molto altro, c’è ben altro. Anche Plath, come Woolf, si pensa supina, come foglia o margherita, vicina alle radici degli alberi, ai traffici minerali del terreno, ai fili d’erba che guardano le stelle. «Sono verticale / ma preferirei essere orizzontale» non è semplicisticamente il verso-manifesto di chi è vivo ma preferirebbe morire. È il canto di chi sa la richiesta di verticalità che le fa il mondo – la richiesta di assennatezza, appropriatezza, conformità all’esercito degli eretti – la separa da ciò che le è più caro, da ciò che le permette di essere vicina a sé stessa.

Sylvia Plath, come Virginia Woolf, come Truman Capote, come William Wordsworth, come Amelia Rosselli – che in un suo celebre verso tratto da Serie ospedaliera scrive proprio questo: «non staccarsi dalle cose basse scrivendone / supina» – per essere vicina a sé stessa deve disertare. Sottrarsi al traffico quotidiano, rinnegare il negotium, in favore di un otium che non è semplice inerzia, pigrizia, al contrario, è un’inattività attiva, una inoperosità fertile che pesca nel doppio fondo dell’esistenza, nei suoi recessi, nelle sue falde, in tutto ciò che è basso, e perciò stesso in aperto colloquio con l’alto. È dal basso che ci si accorge del cielo. È da stesi che si vedono le nuvole. Nuvole come «isole felici, pecorelle, cavolfiori e pannolini – che si asciugano al sole» (sono versi di Wisława Szymborska, questi). Nuvole come quelle che Marina Cvetaeva vede mentre, distesa a terra nel bosco, sta scrivendo una lettera al giovane letterato Aleksandr Bachrach: «Caro, vi scrivo tra il muschio, nel cielo avanza una enorme, minacciosa nube nera – rilucente. Stavo leggendo la Vostra lettera e di colpo ho avvertito la presenza di qualcosa… Il muschio corto mi punge le braccia, scrivo distesa, se sollevo la testa eccola, lucente». Lucente sul corpo della poeta stesa sulla nuda terra, nell’umidore del muschio, la nuvola avanza e entra nella scrittura, il cielo finisce sulla pagina, la contamina, alimenta, decentrandola dalla sua autrice, che è insieme testimone e cantrice di qualcosa di più grande, di cui è ospite e ospitante, orizzontale e protesa. Il cielo fa così. Preferisce i supini. Visita gli orizzontali. I corpi guasti, stanchi. I corpi in abbandono. Gli inservibili. Come inservibili sono i corpi dei burattini Totò – nel ruolo di Jago – e Ninetto Davoli – in quello di Otello – gettati in una discarica a cielo aperto alla fine del film Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini.

Otello: Iiiiih, che so’ quelle?

Jago: Quelle sono… sono le nuvole…

Otello: E che so’ le nuvole?

Jago: Mah!

Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!

Jago: Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!

Dice così Jago, con la sua faccia verde, che si illumina tutta, proprio quando non ha più un ruolo, quando la pantomima è finita, quando non c’è nessun filo a tenerlo in piedi. Orizzontale, derelitto, incongruo, e per ciò stesso rinato al mondo che lo coglie dall’alto, e che può cogliere perché è in basso. Lì dove la vita accade come una scoperta. Un ritorno. Un mistero.

(*) Sara De Simone ha conseguito un dottorato di ricerca in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha tradotto, con Nadia Fusini, “Scrivi sempre a mezzanotte”, il carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West (Donzelli, 2019). È vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society. Ha scritto “Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia” (Neri Pozza, 2023).

Caro Presidente,

siamo due donne legate da un’amicizia politica più che ventennale. Una di noi vive in Calabria, a Catanzaro, l’altra in Veneto, a Spinea (Venezia). La nostra relazione politica, fatta di scambio, fiducia, stima, affetto e amore per il mondo, ci ha tenute sempre unite, nonostante la distanza geografica. Entrambe ci sentiamo prima di tutto donne e poi cittadine di questo Paese dove siamo nate, cresciute e abbiamo vissuto la nostra vita, restando fedeli a noi stesse. Abbiamo deciso di scriverLe per avere da Lei una risposta a domande che ci siamo poste dopo che ha firmato, senza alcun rilievo, la legge approvata dalla Camera sull’autonomia differenziata. Ci siamo chieste: «Il presidente della Repubblica non è il garante dello Stato e dell’unità nazionale (art. 87 della Costituzione)? Non è dovere dello Stato assicurare a tutte/i le/i cittadine/i uguali diritti (art. 3 della Costituzione)? Lo Stato non ha il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza?» Presidente ritiene che l’autonomia differenziata risponda a questi dettati costituzionali, di cui Lei è il garante? Non siamo due costituzionaliste ma sappiamo leggere la realtà con sapienza femminile, a partire dalla nostra esperienza. Capiamo, per esempio, che quella legge demolirà il tanto o poco di buono che ancora resta del Servizio Sanitario Nazionale, voluto da una donna, la Ministra Tina Anselmi, che aveva come principi fondanti la solidarietà, l’universalismo e la gratuità delle cure per tutte/i, da Nord a Sud. Sappiamo come il primo colpo per indebolire e frantumare quel sistema, come la pandemia da Covid19 ci ha mostrato, l’hanno dato la riforma dell’art. V (n. 3/2001) della Costituzione e l’introduzione in essa del pareggio di bilancio (20.04.2012). L’autonomia differenziata, che dà a ogni regione la possibilità di trattenere e spendere le entrate fiscali esclusivamente all’interno di sé stessa e non più distribuirle a livello nazionale, rilancerà o distruggerà definitivamente quel sistema sanitario? Lei come noi conosce le disuguaglianze tra Nord e Sud, tra la Calabria e il Veneto, il cui presidente Zaia si è già affrettato a chiedere 9 deleghe delle 23 previste, e per la sanità il problema non è garantire alle regioni ricche del Nord una sanità di eccellenza e al Sud i Livelli Essenziali di assistenza (LEP). Noi, come Tina Anselmi, pretendiamo una buona sanità uguale per tutte/i, da Nord a Sud dove, tra tanti disastri e mala politica, non manca la buona sanità. Io l’ho trovata a Catanzaro al Centro oncologico “Ciaccio-De Lellis” dove sono stata curata con professionalità e umanità dal dottore Stefano Molica e dal personale infermieristico. Non ho avuto la necessità di emigrare al Nord, come sono costrette tante/i calabresi. L’autonomia differenziata fermerà l’emigrazione sanitaria o l’aumenterà? Le eccellenze che abbiamo anche nel Sud da chi saranno garantite? I mali che Lei e noi conosciamo della sanità pubblica – carenza di posti letto, mancanza di personale medico e infermieristico, costretto a turni massacranti, lunghe liste d’attesa che spinge chi se lo può permettere a rivolgersi a pagamento al privato e chi no a restare in attesa o rinunciare a curarsi, anche nel ricco Nord – chi li risolverà? La fiscalità regionale con le assicurazioni private che lucrano solo profitti, come negli USA? No, tutto andrà per il peggio. E che dire della scuola, Presidente? Ogni regione avrà il suo sistema scolastico finanziato dalla fiscalità regionale e dalle Fondazioni private? È questa l’unità nazionale di cui è garante? Presidente, noi siamo propense a pensare che quella legge non la doveva firmare, perché l’ha fatto?

Con cordialità

Franca Fortunato e Adriana Sbrogiò

(Quotidiano del Sud Calabria, 6 luglio 2024, rubrica “Io, Donna” curata da Franca Fortunato)

Franca Fortunato e Adriana Sbrogiò fanno parte della rete delle Città Vicine. Questa lettera si può firmare: https://chng.it/tZBNY6JvjW

L’apertura della legislatura in cui la guerra è costituente di un presunto “arco costituzionale” europeo

Interpreto il comunicato di Disarmisti esigenti a cui partecipo con altre donne.
Il nostro presidio, di Disarmisti esigenti e altri, dal 16 al 19 luglio davanti alla sede del Parlamento europeo rimarca un impegno preciso: contrastare l’uso della retorica della pace di chi poi vota a presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen.E l’abitudine di votare solo per motivi di schieramento partitico, andando poi ad appoggiare con il voto gli aiuti militari a Zelensky.

Lo illustriamo in una conferenza stampa a Roma, il 9 luglio 2024, alle ore 11:00, presso la Libreria D’Amico, via Silvio D’Amico 1.

Ci chiediamo se sia utile che buona parte della sinistra cosiddetta radicale del gruppo Left sostenga la posizione che sia giusto che l’“aggredito” resista militarmente all’“aggressore”. Molti, tra cui molti elettori del PD che pure è un pilastro della maggioranza per la guerra, si proclamano e si credono pacifisti. Ma dimostrano di non avere alcuna strategia, alcuna vertenzialità contro i governi che fomentano la violenza della guerra, sono assenti e in silenzio assoluto nei momenti in cui viene deciso di accettare solo una “pace giusta”, cioè di andare avanti fino alla completa sconfitta militare dell’avversario, legittimando così concretamente la corsa agli armamenti e ai massacri. Lo abbiamo visto quando, in Italia, si sono approvati gli aiuti militari all’Ucraina.

Noi siamo molto sospettose anche rispetto a certe “unità contro la destra” che considerano l’opposizione contro la guerra addirittura divisiva. Non è forse il clima bellico, con la militarizzazione dell’intera società, il più fertile incubatore dei fascismi?

Noi donne e uomini di Disarmisti Esigenti saremo a Strasburgo appunto per vigilare e documentare, per mettere in evidenza che ci vuole coerenza tra parole e opere! Vogliamo cercare eurodeputate ed eurodeputati onesti, disposte/i a lavorare per i popoli che non vogliono essere massacrati, a prendere seriamente l’impegno di opporsi alle guerre, perché facciano da sponda istituzionale ai movimenti di base che si danno da fare con le azioni dirette, le obiezioni, la disobbedienza civile nonviolenta!

Non sarà affatto facile, perché l’atlantismo e la guerra contro la Russia sono il perimetro dell’“arco costituzionale” che, a livello europeo, andrà a formare la nuova versione della “maggioranza Ursula”. Ma è probabile che anche chi voterà contro la Commissione UE sarà a favore della sua politica di sostegno all’“autodifesa armata” dell’Ucraina in forma di guerra ad alta intensità.
Quello che invece noi sosteniamo è che, nelle condizioni tecnologiche e sociali contemporanee, da “villaggio globale” di fatto, non si può più immaginare una “guerra giusta”, come ha capito, tra i leader mondiali, Papa Francesco.

Ad esempio in Africa, dove sono del tutto estranei alle dispute territoriali in Ucraina, come conseguenza del conflitto che ha ostacolato le esportazioni di grano, la fame ha già fatto più morti delle centinaia di migliaia dei soldati periti sul campo di battaglia.
Non esiste nessuna causa territoriale che oggi valga la pena di difendere con le armi. Perché esse provocano problemi sempre peggiori di quelli che si ripromettono di risolvere, comportano il rischio di escalation incontrollabili, fino alla guerra atomica. E perché ogni rivendicazione tribale ci distoglie dal compito principale che oggi compete a tutte e tutti ai quattro angoli del Pianeta, alla comune umanità che siamo: la pace con la Natura, una nuova civilizzazione che riduca gli inquinanti, con tutto ciò che comporta in cambiamento degli stili di vita troppo lussuosi per la sostenibilità. La guerra costa e inquina più di ogni altra cosa, dev’essere evitata. L’essere a Strasburgo di pochi pacifisti che attivano il rapporto tra i popoli e gli eletti mi sembra uno sforzo da sostenere.

Bassam Aramin, palestinese, già condirettore del Parents Circle-Families Forum, ha trascorso sette anni in un carcere israeliano per il suo ruolo nella resistenza palestinese. Nel 2007 sua figlia Abir, dieci anni, è stata uccisa da un soldato israeliano. Vive a Gerico, in Cisgiordania.

Prima di tutto vorrei chiederti di raccontare brevemente la tua storia e di come sei entrato nel “Parents Circle”.

Ho trascorso sette anni nelle carceri israeliane, ci sono entrato quando avevo diciassette anni. Proprio in prigione ho visto un film sull’Olocausto, ed è così che ho scoperto della sua esistenza. Fino ad allora pensavo fosse una bugia, mi dicevo: «Non ne ho mai sentito parlare…». All’epoca fu molto difficile per me guardare quelle immagini; quella visione mi ha segnato al punto che, venticinque anni dopo, ho conseguito un master sull’Olocausto. A muovermi era stato il desiderio, la necessità di saperne di più sull’altra parte.

Quando sono stato rilasciato, sette anni dopo, mi sono sposato, ho avuto sei figli, e nel 2005 sono stato uno dei co-fondatori dei “Combatants for peace”, un’organizzazione israelo-palestinese impegnata in un’azione non violenta contro «l’occupazione israeliana e tutte le forme di violenza» in Israele e nei territori palestinesi, costituita da ex soldati israeliani e ufficiali che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori occupati ed ex detenuti palestinesi.

Il 16 gennaio 2007 un poliziotto israeliano di servizio al confine ha sparato e ucciso mia figlia Abir, che all’epoca aveva dieci anni. Le ha sparato alle spalle da una distanza ravvicinata colpendola alla testa. È caduta a terra e due giorni dopo è spirata all’ospedale Hadassah, dove era stata ricoverata.

Due giorni dopo sono entrato nel “Parents Circle – Families Forum”, realtà che già conoscevo perché uno dei cofondatori di “Combatants for peace”, Rami Elhanan, aveva subìto un lutto, aveva perso la figlia Smadar in un attentato suicida palestinese il 4 settembre 1997, dieci anni prima della morte di mia figlia Abir. Avevo conosciuto Rami nel 2005 ed eravamo presto diventati molto amici. Due anni dopo eravamo legatissimi, praticamente di famiglia. Nei media palestinesi avevo letto anche del lavoro di Robi Damelin, per cui insomma conoscevo l’associazione, la apprezzavo, era davvero un impegno nobile. Certo nemmeno nel peggiore dei miei incubi immaginavo che mi sarebbe capitato di entrare a far parte di un gruppo di parenti di vittime.

È stato così che sono entrato nei “Parents Circle”, organizzazione che oggi conta oltre settecento famiglie di israeliani e palestinesi che hanno perso un proprio caro. Con Rami negli anni ci siamo talvolta detti che per quanto tra la morte di Smadar e quella di Abir siano passati dieci anni, l’assassino è lo stesso, è lo stesso criminale ad averci portato via le nostre figlie: l’occupazione israeliana, che ha provocato la resistenza e ha portato violenza e atrocità.

Quando sei entrato nel “Parents Circle” i tuoi famigliari ti hanno seguito? Dopo una tale tragedia sarebbe stato facile far prevalere il desiderio di vendetta.

È stato decisivo il fatto che fossi già un attivista pacifista; se non fossi stato impegnato con i “Combatants for peace” non so come sarebbe andata, credo che difficilmente sarei entrato a far parte dei “Parents Circle”.

All’epoca per la mia famiglia è stato molto difficile e doloroso, ma alla fine siamo entrati tutti. Mia moglie già conosceva il mio impegno. Ci è voluto più tempo per mio figlio Arab: quando aveva tredici anni aveva così tanta rabbia da assentarsi qualche volta da scuola per andare a tirare pietre. Mi ci sono voluti quattro anni per fargli capire che quella non era la strada giusta. Dopo si è unito anche lui ai “Parents Circle” e lì ha trovato un amico israeliano della sua età, con cui ha cominciato ad andare in giro a raccontare la sua storia. Il suo amico si chiama Yigal Elhanan: è il figlio di Rami. Così anch’io ho potuto finalmente fare pace con me stesso e con mio figlio.

Come hai reagito ai fatti del 7 ottobre, qual è stata la prima cosa che hai pensato?

Vorrei parlare anche dell’8 ottobre… il 7, l’8 ottobre… dipende da come si vedono le cose. Naturalmente non posso ignorare il 7, ma per noi palestinesi è come se fossero due cose separate. L’8 ottobre è stato l’inizio dell’ennesima operazione militare, che è la nostra quotidianità ormai da settantacinque anni. Per gli israeliani il 7 ottobre è stato invece vissuto come qualcosa di inedito dopo l’Olocausto.

Devo dire che per me quanto successo a partire dall’8 ottobre fino ancora a oggi non è stata una grande sorpresa. Anche parlandone con Rami ci siamo spesso ripetuti che non si può pensare di chiudere due milioni di persone in una scatola, chiudere il coperchio e ignorarle. Non può funzionare; temevamo che sarebbe successo qualcosa, che ci sarebbe scoppiato tra le mani e così è stato il 7 ottobre. In confidenza, la mia prima previsione era che fino a che Israele non avesse ammazzato 15-20.000 palestinesi, tra soldati, bambini, donne innocenti, non si sarebbe decisa a trattare per concludere l’operazione. Purtroppo ero stato troppo ottimista: abbiamo superato i 35.000 morti e ancora non è finita. Sfortunatamente questo è un conflitto feroce, l’occupazione si è fatta estremamente brutale, e a pagarne il prezzo sono principalmente degli innocenti, donne e bambini che non c’entrano nulla, la parte più debole sia in Palestina sia in Israele, anche se è più dura per i palestinesi: noi non abbiamo posti dove scappare, non abbiamo rifugi né qualcuno che ci avvisi. Ci hanno chiesto di andarcene a sud e poi ci hanno bombardato.

I membri di Hamas che hanno condotto l’attacco del 7 ottobre fin da bambini hanno assistito alle atrocità commesse da Israele contro Gaza. Hanno agito per vendetta. Se non cerchiamo la pace, se non poniamo fine a questa pulizia etnica, a questo genocidio che si svolge sotto i nostri occhi, sfortunatamente dovremo aspettarci altri 7 ottobre. Perché l’origine di questa tragedia è l’occupazione; entrambi, israeliani e palestinesi, ne sono vittime.

Fino a che continuerà l’occupazione siamo destinati a veder versato altro sangue, da entrambe le parti. La sicurezza di Israele dipende dal riconoscimento della dignità dei palestinesi; se vuole davvero la stabilità, deve far pace con i palestinesi.

Come siete riusciti a continuare il vostro lavoro in un periodo tanto difficile?

È dura. Siamo tutti esseri umani e ognuno guarda alla sua parte. Vediamo ciò che succede ai palestinesi e non ce ne capacitiamo, ma poi vediamo anche i bambini israeliani, le donne, quei ragazzi al rave… Come dicevo, siamo esseri umani, ma noi del Parents circle siamo anche persone abituate a vedere la dignità dell’altro, per cui guardiamo a entrambe le parti. Sin dal primo giorno abbiamo deciso di far sentire la nostra voce e di mantenere fede al nostro impegno. Per noi l’unica via d’uscita rimane il dialogo, il parlarsi l’uno con l’altro e l’agire insieme contro l’occupazione e contro ogni atto di violenza. Diversamente noi sappiamo bene cosa ci attende: un futuro doloroso, segnato dalla perdita di un proprio caro, un dolore, una ferita al cuore dalla quale non ci si riprenderà mai. Dopo il 7 e l’8 ottobre abbiamo cominciato a parlare tra di noi, anche se è stato faticoso, tanto più che non possiamo incontrarci fisicamente, visto che anche la Cisgiordania, dopo il 7 ottobre, è finita sotto assedio, per cui i nostri meeting, tutte le attività, le conferenze, dobbiamo tenerle via internet, su Zoom, su Skype…

Per quanto riguarda i coloni, la situazione è peggiorata?

Si parla sempre di Gaza perché lì la situazione è più grave, ma ci si dimentica della Cisgiordania, dove dal 7 ottobre a oggi sono morte più di quattrocento persone, e più di settemila sono state arrestate. Immaginate, settemila persone in una popolazione di cinque milioni.

Poi ci sono le atrocità dei coloni, che sono organizzati in bande paramilitari legalizzate perché di fatto supportate dall’esercito. È un problema grave: per loro non esiste alcuna legge. Loro non ci considerano persone: ogni giorno prendono di mira i nostri villaggi, le nostre auto, i nostri bambini, persino i nostri animali. Quando gli israeliani si interrogano su come sia potuto accadere il 7 ottobre, devono comprendere che tutto ciò è stata una reazione alla loro brutalità, alla loro oppressione. Chi vive sotto occupazione non accetterà mai questa situazione, vorrà reagire e questo è il risultato. Sfortunatamente, ci saranno ancora altre vittime, altro sangue.

La tua comunità, i palestinesi attorno a te come vedono questo sforzo per tenere aperto il dialogo con l’altra parte?

Non è facile: siamo una minoranza che nuota controcorrente. Nel mio caso nessuno mi ha mai dato del traditore, non ho mai sentito pronunciare quella parola. Conoscono la mia storia: ho passato sette anni nelle carceri israeliane, ho perso mia figlia, quindi ho il diritto di parlare.

Magari ti sorprenderà, ma oggi è più facile essere un attivista pacifista in Palestina di quanto non lo sia in Israele. In Israele ti possono arrestare per un post su Facebook, e parliamo dell’“unica democrazia del Medio Oriente”; lì le persone ora hanno paura; si sente sempre parlare di agguati contro gli attivisti israeliani, di docenti universitari costretti a dimettersi per aver condiviso qualcosa in un gruppo WhatsApp. Tra i palestinesi non ci sentiamo minacciati, le persone apprezzano quello che facciamo. Certo ora che a Gaza sono in corso dei massacri è tutto più difficile ma, nonostante la rabbia, le persone apprezzano ciò che facciamo.

Alcuni sondaggi di qualche settimana fa registravano un crescente appoggio per Hamas tra i giovani in Cisgiordania, tu cosa ne pensi?

Mi dispiace, ma se vivi sotto occupazione e qualcuno attacca l’occupante tu ne gioisci. A essere sincero penso che il 7 ottobre per molti palestinesi, dovunque fossero, sia stato un giorno felice. Noi di “Parents Circle”, impegnati per una via nonviolenta, sappiamo che non è così che si può ottenere un cambiamento. Il prezzo che si paga è sempre troppo alto. Dobbiamo far capire agli israeliani: «Avete speso miliardi e miliardi in tecnologia militare, nel costruire muri, nella sicurezza, e poi è arrivato il 7 ottobre. Tutto questo non è bastato a proteggervi. L’unica cosa che può garantire davvero la vostra sicurezza è un accordo di pace con il popolo palestinese». Dopodiché i palestinesi dovranno rispettare i patti e difendere i loro confini, come è accaduto tra Giordania e Israele e tra Egitto e Israele. Ognuno ha il diritto di difendersi, certamente, ma nessuno ha il diritto di occupare la terra altrui. Chi vive sotto occupazione non chiede il permesso per resistere. Resisterà comunque, intanto la nostra gente muore, muoiono i nostri figli. Dobbiamo porre fine a questa spirale, e lo si può fare solo riconoscendo la dignità dei palestinesi e il loro diritto di popolo all’autodeterminazione, ad un proprio stato.

Quando parli ai giovani cosa dici? È dura per un ragazzo cresciuto a Gaza o in Cisgiordania…

Assolutamente. Se sei palestinese la tua vita è difficile ovunque, che tu sia in Cisgiordania, nei campi profughi o a Gaza. Quello che dico sempre è che i palestinesi non hanno ucciso sei milioni di israeliani; neppure gli israeliani – finora – hanno ucciso sei milioni di palestinesi. Ebbene, oggi c’è un ambasciatore tedesco a Tel Aviv e uno israeliano a Berlino. E solo quattro anni dopo l’Olocausto, dopo sei milioni di morti, Israele e Germania intrattenevano regolari relazioni diplomatiche. Se ci sono riusciti loro, possiamo farcela anche noi. Siamo destinati a condividere questa terra, che potrà essere organizzata con uno, due o cinque stati, altrimenti la condivideremo comunque ma come due enormi tombe per i nostri figli, le nostre famiglie, la nostra gente.

Nessuno sparirà solo perché l’altra parte lo desidera. Siamo qui, insieme, e possiamo dimostrare di poter vivere in libertà e uguaglianza, dignità e giustizia sociale. Senza che nessuno occupi l’altro. Sfortunatamente abbiamo a che fare con una minoranza, oggi al potere, che porta avanti un tipo particolare di razzismo e di discriminazione. Il problema non è che noi siamo scuri e loro biondi. È che proprio non riescono a immaginare di dover condividere questa terra con nessun altro al di fuori degli ebrei, e per questo vorrebbero sbatterci fuori dal confine. Questo è il problema principale, e finché non si sbarazzeranno del loro senso di superiorità e capiranno che qui ci siamo anche noi e che non ce ne andremo da nessuna parte; che non è scritto da nessuna parte che dobbiamo continuare ad ammazzarci l’un l’altro, solo allora capiranno che c’è un’unica soluzione logica. Certo, è difficile, ma la pace si fa con i nemici, non con gli amici.

Se guardiamo indietro nella storia, all’impero romano, dov’è finito, ora? Lo sapete quante nazioni nella storia hanno cercato di occupare questa terra, la Palestina? Dove sono ora? Noi siamo ancora qui e ci rimarremo.

In una conferenza che ho ascoltato su YouTube dici che i gazawi sono più ottimisti degli israeliani di Tel Aviv. Puoi spiegare cosa intendi dire?

Certo, è molto difficile capire che cosa significhi per un popolo vivere sotto occupazione, sotto assedio per decenni. Le persone devono conservare una speranza, altrimenti impazziscono. Hanno più speranza perché soffrono di più: sono costretti a credere che in futuro vinceranno, che si troverà una soluzione.

Nessuno pensa di distruggere Israele; se lo chiedi loro, le persone rispondono che ciò che vogliono è la pace. Chiedilo alle madri: vogliono solo poter mandare i figli a scuola e vederli tornare indietro tutti interi, al sicuro. Lo stesso vale per gli abitanti della Cisgiordania, è un valore fondamentale. Gli israeliani sono diversi per un motivo: soffrono della mentalità della vittima. Sin da bambini crescono portando sulle spalle il peso di una lunga e tragica storia: schiavitù, antisemitismo fino ad arrivare all’Olocausto… così non è facile crescere ottimisti. Vedono un mondo pieno di nazisti, antisemiti o negazionisti. Le cose non stanno così; dovrebbero accantonare questa mentalità e vedere gli altri per quel che sono, smettendo di averne paura. D’altro canto, non si può continuare a far pagare il prezzo dell’Olocausto a noi palestinesi. Il fatto è che noi siamo le vittime delle vittime.

Come ti sei appassionato alla storia degli ebrei e alla vicenda della Shoah?

Quando ero piccolo sentivo dire che «Hitler aveva ucciso sei milioni di ebrei», ma non sapevo chi fosse; per me era solo un nome, una storia inventata. Nulla del genere poteva essere davvero accaduto. Poi, in prigione, mi è capitato appunto di vedere un film sull’Olocausto. Pensavo di godermi appunto una storia, poi ho visto le scene di tortura, gli arresti, le invasioni, e anche se mi trovavo nelle loro prigioni, dopo pochi minuti mi sono ritrovato a piangere, a provare empatia per quegli innocenti. Quello che avevo visto era davvero troppo per me, era una cosa contro la natura umana e la legge degli uomini. Mi ripetevo: è solo un film, non è la realtà, non è possibile che un essere umano faccia cose del genere ad altri esseri umani… Così ho sentito il bisogno di saperne di più. Devo dire che l’interesse nasceva anche dal bisogno di capire il brutale comportamento dei soldati israeliani quando venivano al mio villaggio. Sono le stesse cose che si vedono oggi a Gaza; quei soldati sono macchine per uccidere, non distinguono tra bambini, vecchi, insegnanti, donne, per loro sono tutti uguali. Quel film l’ho visto quando avevo credo diciassette anni e mezzo, non avevo idea di ciò che era successo ai palestinesi nel 1948, non sapevo della Naqba, della catastrofe. In prigione ho imparato che solo conoscendo il nemico lo puoi sconfiggere. Così ho studiato l’ebraico, la lingua del nemico, e poi ho approfondito la loro storia, ho anche visitato i campi di concentramento. Nella vita, più cose sai, meglio puoi agire. In arabo diciamo che quando impari qualcosa di nuovo cominci a soffrire, perché dopo non puoi più tacere. Ed è questo che è successo a me.

Come si svolge la tua giornata? Cosa stai facendo in questo difficile momento?

La nostra non è una vita quotidiana normale: per andare al lavoro devi passare i checkpoint e talvolta puoi metterci anche due-tre ore, è un disastro. Se sei studente, per raggiungere la scuola devi passare dal checkpoint di Anata, è quasi impossibile arrivare in orario. In Palestina non abbiamo il senso del tempo. Tra di noi ci diciamo: «Ci vediamo alle sei o forse alle nove» perché non possiamo saperlo prima. Immaginati di poterti aspettare di incontrare un checkpoint ogni minuto, quando sei in viaggio per andare a trovare la tua famiglia o quando rincasi dal lavoro; lo devi sempre preventivare, per cui non riesci mai a gestire il tempo, non sei libero di muoverti. In più non hai libertà di parola, vivi sotto una dittatura, sotto una brutale occupazione militare. In ogni momento potrebbero venire a prenderti e metterti in galera, senza accuse, anche per dieci anni! La chiamano “detenzione amministrativa”. Poi, dal momento che non sai le cose, non hai neppure un avvocato. Immagina, quando sentiamo parlare di democrazia, di diritti umani, di libertà di parola, noi sappiamo esattamente di cosa si parla: loro possono giocare con questi termini davanti al resto del mondo, ma non davanti a noi palestinesi. Dovrebbero confrontarsi su questo innanzitutto con noi, visto che siamo qui.

Si è molto parlato dell’inadeguatezza dei leader di entrambe le parti.

Si parla di “entrambe le parti” ma qui non ci sono due parti, ce n’è una sola, gli occupanti: un governo fascista e radicale. Non lo diciamo noi palestinesi, sono gli stessi israeliani a dirlo. Per noi è come se da settantacinque anni ci fosse lo stesso governo. Un governo che porta avanti l’occupazione, le detenzioni, le confische, che costruisce sempre più insediamenti, ruba altra terra, uccide altre persone, incarcera… Dal 1967 si stima siano stati incarcerati oltre un milione di palestinesi. Questo per dire che per noi sono tutti la stessa cosa. Ma questo governo attuale, sempre in base alle denunce fatte dagli israeliani, comprende anche due persone che in passato sono state accusate di terrorismo e incitamento all’odio dai tribunali israeliani. Penso a Itamar Ben-Gvir e a Bezalel Smotrich, per esempio. E loro sono i responsabili della sicurezza, te lo immagini?

Ora ci hanno vietato di andare nelle scuole a parlare ai ragazzini della nostra esperienza, di pace e riconciliazione. Per loro siamo molto pericolosi, e in effetti lo siamo, visto che ci contrapponiamo al loro programma di razzismo, odio e tenebre. Per questo ci combattono, accusando noi di essere terroristi. Un terrorista che mi accusa di essere terrorista è per me un grande onore, ma non è questo il punto: il punto è che noi rimaniamo determinati a diffondere il nostro messaggio di pace e riconciliazione contro questo brutale governo e continueremo fino a che non saranno costretti a vederci, a riconoscerci.

Sul lato palestinese fortunatamente ci sostengono, non hanno nulla contro di noi, siamo stati a visitare il presidente molte volte, tutte le autorità ci appoggiano, perché anche loro vogliono la pace, ma non sono loro ad avere potere. E come potrebbero? Ogni giorno nelle strade di qualsiasi città palestinese ci sono i soldati israeliani. Quindi come si può parlare di “entrambe le parti”? Anche il presidente palestinese ha spiegato che per spostarsi nella sua Ramallah gli serve un permesso rilasciato da israeliani e americani.

Vuoi aggiungere qualcosa?

Spesso quando parlo in pubblico concludo con le parole di Martin Luther King: alla fine ci ricorderemo non delle parole dei nostri nemici, ma del silenzio dei nostri amici. Per favore, non restate in silenzio.

(Una Città n° 301 / 2024 – aprile-maggio, traduzione di Stefano Ignone)

Da Doppiozero – È decisamente confortante assistere al ritorno in libreria, tra inediti e ristampe, degli scritti e dei diari di Susan Sontag, saggista, romanziera, drammaturga, cineasta, attivista di sinistra e femminista, molto famosa fin dagli anni Sessanta. Una mente multiforme, il cui pensiero, pur muovendosi nelle diverse pieghe della sua contemporaneità, supera in modo folgorante l’esame del tempo che passa, arrivando a noi con la ferma padronanza delle prospettive teoriche e l’ostinazione di un nucleo antagonistico di sorprendente agilità che punta dritto ai problemi, in ragione di un tenace desiderio di conoscenza.

I saggi raccolti in Sulle donne (a cura di David Rieff, Einaudi 2024) coprono gli anni dal 1972 al 1975, e li vorrei scorporare in due momenti per cercare di rendere conto di alcune fra le molte sollecitazioni e riflessioni di un tema sì ben identificato, ma variamente declinato, nel tempo e in paesi diversi. Naturalmente gli scritti sono tutti legati, più o meno sottotraccia, da un contesto che è costituito sempre, nell’orizzonte di lavoro di Sontag, di fatti, viaggi, incontri, libri e lotte. Scenario primo dei suoi bersagli sono, negli anni della guerra del Vietnam, il neoliberismo, l’anticapitalismo e l’antimperialismo, la sua postazione quella di un’intellettuale anticonformista e anti-ideologica, anche tra le femministe. Tre saggi e una lunga intervista definiscono il primo campo, con al centro il corpo delle donne, il secondo campo è costituito da un lungo e importante saggio (“Fascino fascista” del 1974, già ristampato in Sotto il segno di Saturno, Nottetempo 2023), da uno scambio polemico, di grande interesse, tra l’autrice e Adrienne Rich (poeta e saggista, suo un classico del femminismo, Nato di donna, 1976), e da un’intervista che riprende e rilancia alcuni momenti della storia intellettuale di Sontag.

Nella prima parte salta agli occhi con grande evidenza come il suo pensiero sia insieme per certi aspetti datato e per molti altri di estrema lungimiranza, il che significa che la lente storica con cui lo leggiamo oggi registra uno sguardo critico, finemente antropologico, in grado di cogliere elementi naturali, culturali, sociali ed economici propri del suo tempo, ma di rivelare anche, spesso, piccole o abbaglianti verità, balenio di intuizioni che ancora ci interrogano. Se prendiamo ad esempio il saggio di apertura, “Invecchiare: due pesi e due misure”, la messa a fuoco più rilevante riguarda la brutalità dell’asse patriarcale che, distribuendo a uomini e donne privilegi e potere in modo violento e dispari, rende l’invecchiamento femminile «osceno», perché quel corpo è ormai orfano di ogni potenza desiderante (attribuita solo alla giovinezza), e dunque soggetto a un giudizio sociale umiliante, una «demonizzazione della femminilità» che è arrivata persino a cristallizzarsi «in caricature mitiche come la megera, la virago, la vamp e la strega». Questo da un lato, ma dall’altro è la subalternità interiormente introiettata a rendere le donne complici attive di questa minorità. Distinguendo tra vecchiaia e invecchiamento, Sontag vede in quest’ultimo «un’ordalia dell’immaginazione – un malessere morale, una patologia sociale –» tale che la donna finisce per viversi con «vergogna» e «disgusto»; si innestano qui pagine ancora importanti sul teatro della femminilità, sulle forme di un’autorappresentazione asservita al gusto dominante (e dominato dall’uomo, con «regole» utili a rafforzare «le strutture del potere»), sull’acquiescenza delle donne, nutrita di bugie, riflesso penoso di un insultante paternalismo (ricordo le donne-specchio di Woolf, le donne-alibi di de Beauvoir). I profondi pregiudizi e gli inveterati privilegi maschili, che hanno costruito nei secoli un così radicato «tabù estetico», indicano chiaramente le forme di una manipolazione culturale tale da lasciare ben salda nelle mani degli uomini la leva del potere, perno e volano di ogni ragionamento sulla sessualità e sul corpo delle donne. Sesso, potere, soldi: non ne siamo uscite del tutto nemmeno oggi, se è vero che le donne vecchie sono diventate una buona fetta del mercato cosmetico mondiale da blandire, e le più giovani, afferma una recente indagine, chiedono come regalo per il loro diciottesimo compleanno interventi estetici soprattutto sul seno. Affari e profitti colossali.

Altri due scritti intitolati alla bellezza (Fonte di discredito o di potere e Come cambierà?) annodano un filo costante del suo pensiero, il rapporto tra estetica ed etica, e ripropongono la questione del potere, il potere, ben noto a tutte noi, della seduzione, con il suo volto bifronte, che per un verso garantisce il piacere dello scambio erotico e vitale, dall’altro si riduce a potere di “attrarre” e dunque nega se stesso, perché rinuncia a essere trasformativo della relazione. Se “farsi bella” diventa un lavoro, un dovere di sopravvivenza in un mondo diseguale, allora la bellezza stessa diventa in definitiva un’altra fonte di auto-oppressione. Ma ancor peggio, ci racconta il secondo articolo, la bellezza e il consumismo vanno a braccetto, perché non solo la bellezza naturale non esiste, ma in quanto mito è una perversa invenzione maschile che imprigiona le donne e, «democratizzandosi», fa pensare che si possa e si debba acquisirla per diventare «uniche, eccezionali».

È il vecchio gioco del divide et impera, pensiero che torna prepotente in “Il terzo mondo delle donne”, assieme ai temi già in parte nominati, dal mai intaccato privilegio maschile, ai pregiudizi, all’oppressione millenaria che radica una delirante idea proprietaria del corpo dell’Altra e che, in Occidente, a fronte dell’avvento della libertà femminile, arriva troppo spesso al femminicidio. Necessità dunque di una rivoluzione economica, culturale, linguistica, necessità che il cambiamento passi da una nuova coscienza femminile, necessità di un’etica sessuale non più incardinata nell’eterosessualità, lotta alla mistica della natura (non a caso La mistica della femminilità, di Betty Friedan, è del 1963) e al biologismo, lotta per il potere e non per la parità, lotta agli stereotipi sessuali sul lavoro…

Alcune questioni di questo lungo ragionamento tornano in modo aspro anche nella seconda parte del libro, a partire da “Fascino fascista” in cui, con lucida passione, Sontag mette a fuoco l’intreccio perverso di etica ed estetica sia nel libro dedicato ai Nuba sia nei film documentari di Leni Riefenstahl (in particolare Il trionfo della volontà e Olympia), sottolineandone una continuità tale da non permettere da non permettere alcuna riabilitazione in nome dell’arte (è una tematica questa che ritroviamo nella conversazione finale per la rivista “Salmagundi”, con richiami a Kracauer e Benjamin). Premesso che quei due documentari – scrive Sontag – «sono indubbiamente magnifici […] ma non hanno una reale importanza nella storia del cinema come forma d’arte», tuttavia un «giro di ruota culturale» non può rendere «irrilevante» il passato nazista di Riefenstahl, l’insieme di opere tanto funzionali e fondative dell’estetica fascista da essere finanziate direttamente da Hitler e Goebbels: masse «in inquadrature panoramiche», «primi piani in cui è isolata una singola passione, una singola, perfetta sottomissione», estasi della vittoria, culto del capo, e ancora i corpi nudi dei primitivi, i bellissimi Nuba (un’intera comunità destinata all’estinzione), e infine il legame intrinseco e «naturale» fra fascismo e sadomasochismo. Non si salva il passato di una donna solo perché è una donna.

La lettura di questo articolo sul New York Times stranisce Adrienne Rich, che obietta a Sontag di non essere ben informata sulle proteste femministe per la presenza di questi film nei diversi festiva, ma soprattutto per aver tradito il saggio precedente, Il terzo mondo delle donne, dopo il quale molte si aspettavano opere con «un rigoroso rispecchiamento dei valori femministi». Ridotto a «puro esercizio intellettuale», questo scritto secondo Rich mostra Sontag vittima di una vera scissione tra l’acutezza intellettuale e la base emotiva della conoscenza, che è la forma in cui meglio si profila la colonizzazione patriarcale. La replica è esplosiva e tagliente, mostra lo scatto orgoglioso di una mente indipendente, sempre lontana dal cercare approvazione o dall’inchinarsi a qualsiasi dettato ideologico, indica con veemenza una «persistente aberrazione della retorica femminista: l’anti-intellettualismo», afferma che il «discredito delle virtù normative dell’intelletto […] è una delle radici del fascismo». La lotta alla misoginia, che passa dal separare le «eccezionali» da tutte le altre, come ha già scritto Sontag, vive della consapevolezza che una cosa è accettare «con compiacimento» il proprio privilegio partecipando «all’oppressione di altre donne», dunque tradendole, altra cosa è rivendicare la libertà di pensare, di distinguere, di contestualizzare, per non sacrificare tutto a una generica «storia patriarcale» («Sono una femminista militante, non una militante femminista», leggo nel diario). Quel «sospetto nutrito contro il pensiero e le parole rientra a pieno nella grande tradizione dell’anti-intellettualismo americano» ribadirà ancora nel 2002, e le donne non devono peccare dello stesso errore. Errore ancora attuale, sul quale molto avremmo tutti da pensare, così come, per una migliore comprensione, va contestualizzata la sua polemica contro il separatismo, in cui l’affinità con Simone de Beauvoir le impedisce di capire la necessità storica di quel taglio generatore di libertà femminile che dobbiamo a Irigaray e Lonzi. Ora l’ultimo nodo da rilevare, con rispetto e discrezione, riguarda quella crepa interiore, intuita da Rich, e che la lettura dei diari (Rinata e La coscienza imbrigliata nel corpo, Nottetempo) conferma come sua dolorosa ferita, a riprova che se il pensiero vitale e polemico di Susan Sontag è invecchiato benissimo, certo il suo corpo di donna ha pagato un alto prezzo all’eresia della sua mente.

Da Doppiozero – Siamo in un’epoca di “caos cognitivo” che si è preso molti cervelli nel mondo. Spesso anche quelli che si ritenevano cervelli migliori, a sinistra, paiono brancolare nel buio e non comprendere cosa accade veramente nella realtà quotidiana. Concordemente nei luoghi di osservazione indipendenti, si pensa sia perché la sinistra istituzionale si è adattata all’andamento confuso del cosiddetto capitalismo neoliberista finanziario. Il fatto è che questo adattamento collabora con la fine del pensiero critico attraverso l’elaborazione del cosiddetto “politicamente corretto”, altrimenti pensabile come morale pubblica imposta soprattutto attraverso i media, social compresi. Il combinato disposto caos cognitivo e politicamente corretto conduce velocemente in uno stato mentale e comportamentale che potremmo definire di dominio, poiché si esplica soprattutto attraverso slogan, parole d’ordine, formule morali, ma soprattutto al fumo con cui si ricopre ogni cosa grazie all’attivazione continua dell’appello ai “diritti”. Si dimentica, allo stesso tempo e a sinistra, che nel sistema giuridico occidentale i “diritti” sono individuali e si richiamano strettamente a proprietà individuali. Tutto questo, fino al femminismo della seconda ondata compreso, le donne lo avevano chiaro, perché in tutto questo non erano mai state considerate, grazie al cielo. Si dà il caso che, oggi, il femminismo come soggetto politico, si sia diviso in correnti, in pratiche differenti, in prese di posizione molto distanti tra loro. Tutto grazie al mercato neoliberista dei diritti. Così sinistra istituzionale e femminismi difensori della libertà individualistica si trovano d’accordo nel dare addosso al femminismo della origini che “non crede di avere (solo) dei diritti”.

Questa premessa si è resa necessaria per dare molti motivi alla necessità di raccogliere dati e testimonianze confluiti nel libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femmnisti su temi scomodi, curato da Daniela Dioguardi, femminista della differenza sessuale, cioè del femminismo della libertà non individualistica. L’eccellente introduzione di Francesca Izzo, spiega molto chiaramente come, lei e molte altre, si siano trovate allontanate «da partiti e organizzazioni della sinistra a cui erano appartenute o avevano guardato con simpatia». La mia premessa dà una traccia per capire i motivi di questo allontanamento che trova ulteriori ragioni nella lacerazione prodotta, anche tra donne, da temi e appelli “divisivi”. Mi sembra chiaro che la divisione deve ringraziare i dettami politicamente corretti che ammaliano anche una parte delle femministe, creando nella mente una forbice dicotomica. Eccone alcuni: affido condiviso che “cancella la madre”; prostituzione come “lavoro” parificato agli altri neoliberisti; maternità surrogata come diritto ad avere figli a prescindere dall’unità psicofisica materna; identità di genere che nega l’unità psicofica di ogni corpo; gender per tutti, a prescindere se c’è una donna di sesso femminile o una donna di gender femminile, e via così di dicotomia in dicotomia, di identità spacciate per fluidità, ecc. ecc. L’inaccettabilità, sia logica sia umana, di queste risorse della confusione del presente, risulta sottolineata da un’evidenza: ogni dicotomia che si presenti nella storia tende a cancellare le donne di sesso femminile dalla cittadinanza e dall’autorità guadagnata dal pensare radicalmente. Forse una nuova era che tende all’insignificanza del soggetto sessuato? Forse un revanchismo misogino di maschi che intendono riprendersi di nuovo l’autorità assoluta?

Fatto sta che le autrici del libro si sono sentite nella necessità di mettere nero su bianco «i problemi che ci stanno di fronte, non affrontabili accumulando e sovrapponendo diritti. Si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti, i paradigmi della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento defgli assetti istituzionali», compreso tutto quanto supporta questi assetti, come fa il “politicamente corretto”. Le esperienze e i contributi di riflessione contenuti nel libro (scritti da Silvia Baratella, Marcella De Carli Ferrari, Lorenza De Micco, Anna Merlino, Daniela Dioguardi, Caterina Gatti, Cristina Gramolini, Roberta Vannucci, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Stella Zaltieri Pirola) cercano di rispondere alla domanda: perché per porre fine alle discriminazioni e alle violenze si deve annullare la differenza sessuale? Scrive Francesca Izzo: «Nei fatti ciò che viene dissolto è la donna (dell’uomo non se ne parla…) per raggiungere un’uguaglianza secondo imperativi sociali pensati e voluti dagli uomini per gli uomini». Perciò chi, a sinistra, aderisce ai veti all’espressione della dissidenza rispetto agli “Imperativi sociali”, chi cerca di marginalizzare le femministe del pensiero della differenza, dovrebbe prendersi la responsabilità politica e storica di rappresentare la misoginia contemporanea. «Cosa succede quando la sinistra cosiddetta progressista si chiude al confronto su alcuni temi e l’inclusione diventa dogma? Oltre a lasciare spazio in maniera allarmante alla destra sugli stessi temi, rischia di contribuire all’affermazione di nuove censure e ingiustizie, anziché allo sviluppo di nuove pratiche democratiche». Non lasciamo ai posteri l’ardua sentenza. I tempi che corrono hanno già giudicato.

Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, a cura di Daniela Dioguardi, introduzione di Francesca Izzo, Castelvecchi, pp. 91, euro 14,00