dal Corriere della Sera

«Dare ai figli solo il cognome della madre». E poi: «È una cosa semplice ed anche un risarcimento per una ingiustizia secolare che ha avuto non solo un valore simbolico, ma è stata una delle fonti culturali e sociali delle disuguaglianze di genere». Al Senato, ieri, si stava svolgendo quella che doveva essere un’assemblea di routine del gruppo del Pd. Ma a un certo punto l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini ha sparigliato, spiegando ai colleghi senatori la volontà di presentare «un disegno di legge» per sancire una svolta «dopo secoli in cui i figli hanno preso il cognome del padre». Gli eletti del Partito democratico stavano discutendo delle proposte di legge sul doppio cognome, quando l’ex ministro (e peso massimo dei dem) ha preso in contropiede molti dei presenti, tanto che, quando a ruota è partito il fuoco di fila dal centrodestra, non c’è stata una risposta altrettanto forte dal Pd. C’è però, dall’ala sinistra dem, Laura Boldrini che applaude: «Ne parleremo e troveremo la strada migliore da seguire. Ma quello che è sicuro è che questo tema non si può più rimandare».

Il commento più duro, da destra, è quello di Matteo Salvini: «Ecco le grandi priorità della sinistra italiana: – attacca via social il leader della Lega – invece del doppio cognome, togliere ai bimbi il cognome del padre! Ma certo, cancelliamoli dalla faccia della terra questi papà, così risolviamo tutti i problemi… Ma dove le pensano ’ste idee geniali?». Gli ribatte Annalisa Corrado: «Per Salvini, dare ai figli il cognome della madre significa cancellare i padri dalla faccia della terra – scrive l’eurodeputata del Pd. – Ammette quindi che, per secoli, le donne sono state sistematicamente rimosse dalla storia e dalla memoria formale delle proprie famiglie. Ammette, dunque, la grande ingiustizia che hanno subito». Sarcastica la reazione di Galeazzo Bignami: «Quindi invece che il cognome del padre, gli diamo il cognome del nonno», scrive il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera.

Critiche alla proposta del senatore del Pd, un po’ a sorpresa, arrivano anche dagli ipotetici alleati: «Io ho fatto un salto sulla sedia quando ho visto la proposta di Franceschini – afferma Alessandra Maiorino, vicepresidente del M5S a Palazzo Madama–. Evidentemente al buon Dario sfugge quanto sia stato difficile già lavorare alla giustapposizione dei cognomi di entrambi i genitori». E poi: «Quindi interpreto la sua proposta come una provocazione, una boutade… Anche perché non si risponde a una discriminazione, sia pur millenaria, con un’altra discriminazione». Anche Carlo Calenda è piuttosto perplesso: «Altre priorità non ne abbiamo? Boh». Dal punto di vista prettamente legislativo, c’è infine l’opinione di Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, che non ha dubbi: «Il ddl Franceschini sarà criticabile ed impugnabile per illegittimità costituzionale: introduce una diseguaglianza».

da Erbacce

La città dove mi trovo, Rafah, è ora sottoposta a pesanti bombardamenti, gli abitanti rimasti sono stati sfollati e non sappiamo quale sarà il nostro destino. Paura e ansia stanno prendendo il sopravvento.

Quando finirà questo incubo?

Vi informo, sto avendo un problema con internet e sta diventando difficile accedervi.

Le vostre preghiere.

da Exibart

Prima io la guerra non sapevo proprio cosa fosse. Ho visto tutti i film e letto tutti i libri che ti consigliano, ma non sapevo nulla. Ci ha provato anche il mio nonno a raccontarmi dell’Italia, del fascismo e delle montagne emiliane che custodiscono il coraggio di chi non si voleva arrendere, ma le sue parole sapevano di storie lontane, da “c’era una volta”, come quelle che ti raccontano quando sei piccolo e fortunato appena prima di addormentarti. Questa volta invece la guerra è vicina e io sono andata a visitarla. Cosa significa andare a visitare un paese in guerra quando il tuo ha il privilegio di essere in pace ancora non lo so, di sicuro la prospettiva te la cambia. Prima banalità: la guerra è uno strumento per vedere le cose in modo diverso, vorrei essere originale, ma a volte la verità è banale. Ho scritto qui di seguito un diario di viaggio delle lezioni super-banali e mai-scontate che la guerra mi ha insegnato in una settimana.

Kyiv, giorno 1 – Il primo allarme drone non si scorda mai

O meglio notte 1, sono le 23.30 e sono molto stanca. Per raggiungere Kyiv da Milano ho preso un treno alle 6.00 del mattino, poi un aereo per arrivare a Varsavia in Polonia e dopo circa sei ore di attesa ho preso il pullman. Quello che sembrava essere l’ultimo step del viaggio in realtà inaugura la mia epopea. Sedici ore di pullman dopo, quattro di controllo alla frontiera e un panino con lisiecka arrivo a Kyiv, capitale dell’Ucraina, paese in guerra contro la Russia dal 2014 e che dal febbraio 2022 si difende dall’invasione su larga scala. Alla fermata del pullman mi aspetta un giovane biondo ucraino, Andrys Lutsiv, vestito con colori camouflage. Seconda banalità, ma la verità è banale. Andrys ha le braccia piene di tatuaggi e le scritte in latino Veni Vidi Vici io le riconosco subito, mi sorride e mi porge un bellissimo mazzo di fiori rosa: «Benvenuta in Ucraina». È tardi, mi faccio la doccia più desiderata di sempre e corro sotto le coperte. Tutti mi hanno sempre detto che ho il sonno pesante, «non ti svegliano neanche le bombe» mi dicevano e invece eccome se mi svegliano. All’improvviso, durante la notte, il mio cellulare squilla all’impazzata con un volume così alto che neanche lo sapevo potesse arrivare a questi decibel. «Allarme-allarme» ripete l’app del governo e qualche secondo dopo si aggiunge anche l’allarme dell’albergo «Pericolo: attacco droni. Correre immediatamente nel rifugio». Mi sveglio di soprassalto, mi ricordo dove sono e capisco quello che sta per succedere. Con una velocità da gazzella mi infilo le scarpe, prendo una felpa e faccio otto rampe di scale volando e corro al rifugio sotterraneo. Io non lo so dove ho imparato a reagire così alle situazioni di pericolo, sinceramente prima di venire qui pensavo di essere una schiappa, una di quelle persone che si paralizza e diventa un cubetto di ghiaccio. Evidentemente no, beh meglio così, penso. Il rifugio è quasi vuoto e ancora il perché non lo capisco, lo scoprirò solo tra qualche giorno. Le ore nel rifugio mentre c’è un pericolo di attacco drone in corso sono noiosissime. Niente a che vedere con i film, dove è tutta un’azione, adrenalina e elaborazione di piani per la fase successiva. Il telefono nel bunker non prende, quindi non puoi neanche collegarti alle news in tempo reale e fare finta che si rivolgano a te. Il libro nel mio scatto da gazzella me lo sono dimenticata e allora prendo una copertina sintetica gentilmente offerta dall’albergo, bevo un tè e mi metto a sonnecchiare sulla sedia. Dopo qualche ora l’allarme passa, possiamo tornare in camera. Che bello finalmente il letto!

Kyiv, giorno 2 – Quando le città vanno a dormire

È tardo pomeriggio e raggiungo lo studio dell’artista ucraino Nikita Kadan. Insieme a me ci sono gli altri compagni che sono venturi a fare visita alla guerra: due artisti (Stefan Klein e Nicola Zucchi), una giornalista esperta di zone ad alto rischio (Marie-Line Deleye), un curatore/artista che studia la danza come strumento di esorcizzazione del trauma in situazioni di conflitto (Bogomir Doringer) e un operatore e educatore culturale di Magnum Photo Agency (Pierre Mohamed-Petit). Insieme a Nikita ci sono altri artisti ucraini, il pittore Yuriy Bolsa, la curatrice Alona Karavai, le artiste Sana Shahmuradova Tanska e Olga Stein. Trascorriamo la serata sul terrazzo del suo studio all’ultimo piano di un elegante palazzo di Kyiv. Se gli artisti hanno studi enormi in palazzine borghesi della capitale significa che il mercato immobiliare è proprio crollato. Mangiamo pizze dal cartone e beviamo champagne. Parliamo di tutto e poi di niente. Di fronte a noi fa capolino la luna, piena come non lo è mai stata. Nel cercare le sigarette faccio un fermo immagine: artisti, una luna piena e discorsi sulla resistenza. La sera di un martedì e una dose di verità dritta in vena. In Ucraina la notte è stata rapita tre anni fa, da quando c’è la legge marziale e il coprifuoco obbligatorio per tutti. Sono le 23 ed è ora di rientrare in albergo. Rientro a piedi e Google Maps mi accompagna a casa passando a fianco a un parco. È notte e buio, eppure io non me lo ricordavo che fosse così buio di notte. Mi guardo attorno e non c’è neanche un lampione acceso, neanche un’insegna luminosa per chilometri. O almeno così penso, sono miope quindi le distanze le calcolo un po’ a spanne. Mi sembra veramente tanto buio, ho paura e inizio a guardarmi attorno. Se sei una donna cresciuta in Italia sai benissimo che dei parchi di notte devi avere paura, che qualcuno arriva, ti assalta, nessuno ti sente e poi ti tocca convivere tutta la vita con il trauma e combattere contro la magistratura che non ti crederà. Poi però mi viene in mente che uno dei compagni che visita la guerra insieme a me aveva già notato il buio e qualcuno gli aveva detto che è una precauzione militare, che anche le città devono andare a dormire non solo gli abitanti, perché se le luci sono accese e i lampioni raggianti, i russi lo vedono meglio dove colpire. Buio per camuffarsi e coprifuoco per tutti. Allora il drone fa più paura di un parco di notte.

Kharkiv, giorno 3 – Il negozio di pennelli con la porta spalancata

Quando penso a Kharkiv la mia mente fa un gioco strano, è come se il cricetino che regola i miei pensieri iniziasse a correre fortissimo e la mia memoria diventa in modalità x4-x6-x8, come quando clicchi il telecomando per velocizzare un film. Immagini di case bombardate, militari mutilati, futuri mancati scorrono velocissimi e poi appaiono immagini del parco rigoglioso della città, Viktor che chiede a Marija di sposarlo in stazione con un mazzo di rose rosse e la panetteria di quartiere. Quel giorno è a frammenti, come tanti pezzi di vetro rotto, non riesco ancora a ricostruire cosa fosse prima di schiantarsi a terra. Forse ci vuole tempo anche per ricordare meglio. O forse il tempo lenisce il ricordo e a un certo punto te ne freghi dei frammenti di vetro pungenti che ti tagliano i ricordi.

Eppure quando penso a Nataliia tutto rallenta. Nataliia Ivanova è la curatrice del centro Yermilov aperto dal 2012 come museo, prima come strip club. Da sempre in un rifugio antibomba, prima una scelta cool per uno spazio di arte contemporanea, ora una scelta salvavita. La direttrice ha curato la recente mostra Sense of Safety e nell’installazione di Thomas Hirschhorn insieme ai compagni che visitano la guerra abbiamo fatto una discussione, una tavola rotonda dove ci siamo chiesti se l’arte può avere un potere curativo, di healing. Mi siedo sulla sedia-opera d’arte del Yermilov Center e mi chiedo cosa ne so io del potere curativo dell’arte, ché prima di venire qui quando parlavo dei musei come spazi sicuri pensavo alla sicurezza del pensiero critico e il libero dibattito, robe teoriche mica spazio sicuro “se no ti esplode la testa”. A Kharkiv ho imparato che più sei vicino alla guerra, più la vita si impone rigogliosa. Siccome di immagini di dolore e di morte è pieno il mondo e anche il web e tanto frega poco a quasi tutti, io vi racconto della gioia e della felicità che ho trovato a Kharkiv. All’angolo con uno dei tanti monumenti impacchettati, non da Christo e Jeanne-Claude ma dallo stato perché alle bombe delle firme degli artisti d’arte pubblica non interessa nulla, c’è un duo rock and roll che canta al bordo della strada e da lì sono vicinissimo alla panetteria per provare «i dolcetti alla cannella più buoni del mondo». Sono seduta fuori dalla panetteria con i miei compagni che visitano la guerra e da quando siamo in compagnia di chi invece con la guerra ci abita, abbiamo tutti abbassato la suoneria del cellulare perché gli allarmi sono tantissimi e non smettono mai e non ti fanno neanche finire una conversazione in pace. Allora meglio abbassare la suoneria e godersi ogni momento, ché quando la vita ti obbliga a scegliere preferisco morire con un biscotto alla cannella in bocca e la luce del sole addosso invece che come uno scarafaggio sottoterra.

Ora di cena, ora di provare la famosissima zuppa boršč di Kharkiv. Per raggiungere il ristorante passiamo in una strada bombardata, dove i palazzi le cicatrici le hanno ancora sanguinanti, ma siccome per le tragedie ci sono i giornalisti e io sono una curatrice vi racconto del negozio di pennelli. Nella tragedia urbana, il frastuono degli allarmi e le cicatrici dei palazzi, il negozietto a conduzione famigliare di tempere e pennelli è aperto. Non vende né acqua, né cibo, né altri beni di prima necessità, solo strumenti per fare arte. Lo so che sembra assurdo ma quando non hai più nulla da perdere, l’arte torna a essere essenziale. Poter disegnare è un modo per sopportare, buttare fuori quello che altrimenti ti mangia dentro. Qualcuno dice che così ti traumatizzi da solo, non lo so forse ha ragione, ma a volte non hai scelta e da qualche parte come ti senti lo devi vomitare. La porta del negozio è letteralmente spalancata, come a voler urlare che le bombe fanno paura, ma da lì non ci si muove, qui si resiste perché se qualcuno oggi avesse bisogno di dipingere, il negozietto di pennelli sul confine con la guerra è aperto.

Kyiv, giorno 4 – Parla come mangi

Da oggi cambio il linguaggio con cui mi esprimo. Non sono più “stanca morta” e non ti “bombarderò” più di mail. Esistono luoghi nel mondo dove queste parole non sono metafore e allora vale la pena fare uno sforzo e pensare a immagini nuove per veicolare idee diverse da questo schifo.

Kyiv, giorno 5 – Pensieri di cui mi vergogno

Stare in una zona di guerra mi è piaciuto. Lo so suona pazzesco e forse perché un po’ pazza lo sono davvero, ma se scrivo è perché ho deciso di essere sincera altrimenti cosa lo perdo io il tempo a scrivere e voi a leggere. Credo che la guerra mi sia piaciuta perché mi ha fatto sentire “la vertigine della storia”. Quando sei in una zona di guerra, non sei più in un paese a caso, a fare cose a caso, con persone che a caso ti trovi vicino, o meglio forse sei comunque tutte queste cose, ma ti senti che un senso ce lo hai. La sensazione è quella di essere nel centro degli eventi, di stare nel nucleo delle cose, di essere parte di qualcosa di più grande e anche la tua piccola azione a caso in realtà ti sembra possa plasmare il corso degli eventi e il futuro delle generazioni che verranno: vertigine della storia. Un artista ucraino durante un allarme drone e una bottiglia di vino rosso affacciati in un cortile di Kyiv mi ha rivelato un altro pensiero di cui si vergogna. Mi dice che vivere in Ucraina è sempre stato piuttosto noioso, che era tutto banale e piatto e che ora in qualche modo è felice perché anche se si muore la sensazione è quella di fare la storia.

La guerra è una dose di verità in vena. Crudele che ti mangia l’anima e che ti ama fortissimo, non lo so come è possibile ma più sei vicino al dolore e più risuona l’amore. È tutto così fragile e temporaneo che i momenti si vivono con il cuore e l’anima aperta verso tutto e tutti. Le anime spalancate come la porta del negozio di pennelli di Kharkiv. Allora chissenefrega se perdo la metro e alla mail magari ti rispondo domani, ora brindo alle dieci del mattino al primo studio-visit della giornata perché anche oggi sono viva io, sei vivo tu e lo studio esiste ancora con le opere che custodisce. Come una droga, la guerra ti entra in vena e dopo che ha iniziato a circolare nel corpo e l’adrenalina pulsa insieme al sangue, allora i pensieri si armonizzano su livelli di amore e di dolore così intensi che quando torni tutto è lento, stupido e inutile. O almeno questa è la sensazione di chi la guerra è andata a visitarla, per chi la abita sono sicura che sarà molto diverso.

Giorno 6 – Studio-visit in guerra

Sono venuta in Ucraina per conoscere la scena artistica locale, fare studio-visit, incontrare gli artisti, i colleghi e le colleghe e immaginare progetti culturali internazionali. Networking, solo in una versione più pericolosa del solito. Non me lo aveva detto mica nessuno che la Sofia che è partita una settimana fa ora non esiste più, che quando vedi la guerra per la prima volta è come se perdessi la verginità e poi ti tocca renderti conto di chi sei e di quale spazio occupi nel mondo. Dopo che vedi la guerra adulto lo diventi per forza, anche se hai otto anni e giochi a palla. Siccome io a palla ho avuto la fortuna di giocarci per tanti anni e di non dover pensare ad altro che correre, ora bisogna che anche io protegga la partita a palla di qualcun altro. Quindi networking, quindi curatrice, quindi fare progetti internazionali con artisti ucraini. Io non lo so se gli artisti ucraini fossero già bravi prima della guerra, forse sì ma io qui prima non c’ero mai stata, quello che posso dire è che – loro malgrado – tra un’esplosione e l’altra, la guerra li ha resi dei maestri. Non ci sono più ricerche che si possono permettere di viaggiare in superficie, di galleggiare fra una tematica e l’altra e di sfiorare i materiali. Fuori dalla finestra dello studio c’è la guerra, la gente muore e i bambini salutano i papà alla stazione del bus per andare al fronte. Come un incantesimo inquietante, tutte queste energie rientrano dalla finestra dello studio e si impossessano della mano dell’artista per produrre opere straordinarie. Uso il termine impossessarsi perché la guerra non è una tematica che gli artisti affrontano, è a tutti gli effetti la co-autrice delle opere. Quando fai gli studio-visit e gli artisti ti mostrano i lavori e inizi a confrontarti, poi devi chiacchierare anche con la guerra che anche lei ha le sue cose da raccontarti. Ho riscontrato che questa co-autorialità fra artista e guerra ha nella produzione artistica la conseguenza di essere un crudele inno alla vita. Sembra paradossale ma è così.

Qui le tensioni ricorrenti fra gli artisti ucraini che abitano la guerra:

1. Sono ossessionati dalla memoria. C’è una generale postura compulsiva alle date e al ricordo preciso. Dimenticare è un peccato perché quando sei morto il mondo si scorda di te.

2. Presenza dei sogni e dell’onirico. Non importa se dipingono nel Medioevo, nel Novecento, a metà anni 2000: se la realtà fa schifo, allora ne inventano di altre.

3. Infanzia. Se la guerra è il fallimento totale degli adulti, allora gli artisti tornano ai bambini, all’infanzia, a chi puro e innocente lo è per forza. Morte e vita si rincorrono sempre.

4. Disegnano tantissimo, forse perché un foglio e qualche pastello te li porti appresso facilmente, anche se devi correre veloce.

5. Molti di loro sono ossessionati dal sottosuolo e dalla terra. Io che la guerra sono andata solo a visitarla ero ossessionata dal cielo, che per me era tramonto e alba con gli amici, mentre qui avevo paura del cielo perché è da lì che vengono i missili.

6. Tanti lavorano con il sonoro, perché la guerra oltre che negli occhi, ti entra nelle orecchie.

7. Mediamente sanno come costruire un drone. Se non lo sai fare te lo insegnano, anche a un techno-party il venerdì sera, perché se i droni li sai fare magari in prima linea ci va qualcun altro.

Kyiv, giorno 7 – Le paure degli uomini

Sul pullman di ritorno siamo tutte donne, alcune anziane altre meno, molte mamme e tanti bambini. Gli unici pullman su cui possono salire gli uomini sono quelli verso la guerra. Sì, perché in Ucraina c’è la legge marziale, nessun uomo lascia lo stato e tutti (almeno fino ai sessantacinque anni di età) possono essere mobilitati. Essere mobilitati, mi spiegano, significa che ti arriva una lettera a casa e in tre mesi se ti va bene o in uno di norma ti insegnano a fare la guerra. Ora che sono ormai dieci anni dall’inizio della guerra e due dall’invasione di larga scala gli uomini servono sempre di più, un po’ perché i militari sono stanchi, un po’ perché altri sono stanchi e morti. Allora la polizia ogni tanto decide di mobilitare la gente per strada. Tu stai camminando per la capitale e la polizia ti ferma e ti manda a fare la guerra, magari volevi solo bere un caffè o leggere il giornale all’aria aperta perché è domenica, ma ora devi fare la guerra. Qui gli uomini sembrano tutti grandi, forti e palestrati eppure io non ci credo che non hanno paura. Forse se sei grande, grosso e palestrato impari a nasconderla bene e le pressioni della società ti obbligano a chiuderla in un cassetto e buttare via la chiave. Certe emozioni non puoi proprio permetterti di provarle, perché devi salvare la famiglia, la madre e la patria. E se hai paura poi ti ricordi che i codardi non piacciono a nessuno e che non esiste neanche un monumento ai vigliacchi, allora deglutisci ti fai un tatuaggio sul braccio e appendi la bandiera della nazione. Forse mi sbaglio, io d’altronde un paese in guerra sono venuta solo a visitarlo e ci sono venuta da donna.

(Exibart, 23 marzo 2025. L’articolo è stato tradotto dall’inglese da Sam Vassallo. La sua versione originale è stata pubblicata su NERO. Fotografie su: https://www.exibart.com/attualita/una-settimana-per-imparare-la-guerra-viaggio-di-una-curatrice-in-ucraina/)

da il manifesto

Nell’ancoraggio a sé Carla Lonzi trova il punto di partenza per affrancarsi dagli assunti oppressivi della metafisica patriarcale, e della psicoanalisi, rivale ombra della filosofia: “Taci, anzi parla”, 1972-1977

A due anni dal “Manifesto di Rivolta Femminile” (1970) e dai primi esplosivi scritti femministi, l’anima radicale di Carla Lonzi avverte la necessità di avanzare in prima persona. Incompleto sul piano delle domande, teso nelle relazioni fra donne, il passaggio storico di Rivolta l’aveva mantenuta “in incognito”, intenta a schivare o mimetizzare l’espressione diretta di sé: «rischiavo di continuare a cogliere in me stessa dati di coscienza generali per il femminismo, piuttosto che ricostruire i momenti che li avevano prodotti». Senza conoscere il movente di quei dati, i capisaldi di Rivolta le parevano un lessico di intuizioni senza collegamento con possibilità reali della sua vita. Restava sospesa nelle generalità anche «l’illuminazione improvvisa» che le aveva rivelato quel suo rifugio incognito e misconosciuto come «il nuovo campo di soggettività della donna».

Le proclamazioni teoriche di “Sputiamo su Hegel” (1970) e di “La donna clitoridea e la donna vaginale” (1971), dopo aver fornito il propellente ai gruppi separatisti di autocoscienza e all’avanzata del femminismo di seconda ondata, andavano esposte alla prova di fuoco dell’esperienza personale.

L’opera che ne esce è un diario, la diuturna scrittura in prima persona congeniale alle donne tacitate. Comparso nei libretti verdi di Rivolta nel 1978, “Taci, anzi parla – Diario di una femminista 1972-1977” viene ora riedito a cura di Annarosa Buttarelli come tappa imprescindibile dell’opera omnia, in corso di pubblicazione per La Tartaruga (ora nel catalogo di La Nave di Teseo, pp.1082, € 25,00).

«Questo lavoro mi ha assorbito anni, giorno dopo giorno», «mi teneva in uno stato di concentrazione fortissima», «immersa in un’impresa al limite delle mie forze». Preso congedo da ogni programma di emancipazione e dalle promesse dell’oggettività – trappole tutte del patriarcato – il diario di Lonzi attraversa la densità dell’esistenza tenendosi alla sola fune dell’autenticità e di una caparbia fedeltà a sé: «Mi sono incamminata senza seguire nessuno».

Una struttura ardita articola i resoconti quotidiani con sogni, lettere non spedite, citazioni, vecchi scritti, poesie – registrazioni sensibilissime tanto dei moti di coscienza quanto delle vibrazioni sotterranee dell’incoscienza.

Tutte le scritture sono riportate alla dimensione generativa del presente e qui si riattivano e si connettono fino a rendere leggibile il profilo di una vita intera. Nessuna identità personale vi compare come già data e neppure è conquistata una volta per tutte – «Mi sento come una pupilla al variare della luce, sono un continuo dilatarmi e restringermi»; al lavoro sono piuttosto le relazioni – oppressive o liberatorie, sempre condizionanti e cariche di illusioni – col padre e la madre, con l’uomo e le amiche.

Una lunga introspezione, condotta «all’apprendistato di ciò che vivevo» e affidata a lettere, diari di adolescenza, poesie, era rimasta chiusa nel baluardo della cittadella interiore fino alla prova di fiducia ricevuta da Ester (Carla Accardi), che aveva sgretolato la prima cerchia di difesa facendo prorompere il femminismo e i gruppi di autocoscienza.

Quasi epilogo e traguardo della fase di Rivolta, è il riconoscimento imprevisto di Sara – l’atto circolare per cui si diventa soggetti «reciprocamente, cioè di fatto e non solo nelle intenzioni» – che consente a Lonzi, ancora inceppata nell’autodifesa, di proiettarsi in una vita nuova «con tutta la freschezza di persona inespressa».

Risalire la corrente della messa in secondo piano – quella che lei chiama inferiorizzazione – richiede in realtà costosissimi sforzi di coerenza sul piano delle relazioni e gesti radicali di svuotamento dalle acquisizioni culturali interiorizzate. In primis dalla dialettica, che era stata il lasciapassare di Lonzi per entrare nel mondo della cultura e reggere il confronto con il «momento più alto raggiunto dall’uomo». Dopo la sicura confutazione di “Sputiamo su Hegel”, è ora la volta di «sputare questo Hegel che ho dentro di me».

Sparite come “assoluti” e sganciate da ogni meccanismo necessario, arti, religioni e filosofie compaiono nel diario come estrazioni impreviste dalla fucina del singolare presente, «atti vitali per superare la solitudine, il dubbio, la disperazione». Il braccio della filosofia in particolare cessa di essere armato di teorie per caricarsi di tonalità personali: «Adesso ogni filosofo che incontro mi sembra di ritrovarlo dentro di me». Leggendo Bergson: «vi ho trovato quello che sto facendo, cioè registrare tutti i mutamenti della coscienza, che sono infiniti»; quanto a Spinoza: «L’ho letto d’un fiato: come tutto è chiaro, comprensibile, quante riflessioni in comune», «è proprio uno che parla di sé, ha la certezza dall’avere trovato in sé. Certo, questo è il filosofo, cosa pensavo che fosse?».

Una a cui scappa da ridere

In questo ancoraggio a se stessi senza altre garanzie Lonzi trova il punto di partenza per la liberazione dagli assunti oppressivi non solo della metafisica patriarcale, ma anche della concezione psicanalitica, che crede a una normalità senza autocoscienza.

Anche la psicoanalisi – rivale ombra della filosofia e della filosofa Carla Lonzi – viene infatti superata d’un balzo assieme all’intero costrutto dei sensi di colpa: «Inconscio, tu e io andiamo alle Bahamas. Non mi metterai più bastoni tra le ruote, adesso ti colgo sul fatto, te e i tuoi simboli»; e, ancora, «Se ti affacci, in qualsiasi enigma tu sia travestito, mi butto su di te. Ti spoglio in quattro e quattr’otto». 

Nella pulsazione tra discese fino alla perdita del senso di sé e risalite spensierate verso la leggerezza del proprio essere – «sono una a cui scappa da ridere» – affiora nell’animo di Lonzi una mancanza di unità mai saturata, anzi quasi salvaguardata come premessa autentica del sé.

Nessuna conciliazione armonica risolve le fratture della coscienza, che sono tenute insieme solo dal filo ininterrotto della scrittura.

Fra sdegno e dolore

Nelle poesie giovanili come nel procedere concentrato dei primi scritti femministi, Lonzi trova il grande piacere della corrispondenza a sé: «ci vedevo il riserbo, la lucidità, il tremito impercettibile che ha il mio modo di ragionare tra lo sdegno contenuto e la sofferenza risolta ma non dimenticata e il giro del pensiero che sdrammatizza il contenuto e raffredda l’urgenza espressiva».

Scrivere si rivela strumento necessario proprio nella sua funzione originaria di fermare i pensieri, precisarli e renderli comunicabili, immetterli nella relazione. Una modalità a un tempo espressiva e architettonica, che non richiede vocazioni e talenti eccezionali, né ambisce a inserirsi nelle forme della cultura maschile, ma è alla portata di tutte e di ciascuno, sulla via di una società «basata sui rapporti umani». 

Proprio in virtù di una scrittura priva di movenze letterarie, che pare aderire direttamente ai moti del pensiero, pagina dopo pagina il diario trova l’eloquenza splendente di una lingua senza eguali e può apparire con la sua “montagna di parole” il romanzo avventuroso di una vita esaminata.

da L’Altravoce il Quotidiano

In questi tre anni di guerra in Ucraina, più volte la paura di essere sull’orlo di una terza guerra mondiale atomica si è materializzata e adesso, che si apre qualche spiraglio per porne fine, quella paura riprende corpo di fronte a un’Europa che parla di riarmo e non di disarmo, di guerra e non di pace, di inimicizia e non di distensione. «L’Europa se vuole evitare la guerra deve prepararsi alla guerra», dice Von der Leyen, chiedendo ai Paesi europei di spendere per “difenderci” e per una “pace attraverso la forza”. La rappresentante della politica estera europea, Kaja Kallas, dichiara che lo scopo del riarmo è mostrare i muscoli a Russia e Cina; nel mentre il Parlamento tedesco, cambiando la sua Costituzione, approva un piano di riarmo che va dai 1000 ai 1700 miliardi per i prossimi dieci anni e Macron e il suo collega britannico offrono lo scudo nucleare. Cosa fare in questa follia collettiva? Cosa fare con le donne che si credono uomini? Più volte in questi tre anni di guerra ho cercato orientamento nelle parole di donne come Virginia Woolf a cui anche oggi, su queste pagine, sento il bisogno di tornare per non essere sopraffatta dalla paura e dal disorientamento che imperversano. Nel 1938 nel saggio Le tre ghinee, scritto in risposta a uno scrittore suo amico che le aveva chiesto di unirsi alla sua Associazione per fermare il fascismo e prevenire la guerra di cui si cominciava a parlare, rivolgendosi alle donne lei scrisse: «Dove ci conduce il corteo degli uomini colti? Pensare, pensare, dobbiamo. Noi non dobbiamo mai smettere di pensare dove ci conduce quel corteo». Pensare, pensare dobbiamo per prendere coscienza che, ieri come oggi, seguire quel corteo ci porta solo alla guerra. Pensare, pensare dobbiamo per tornare a quel sentimento di “estraneità” alla guerra che lei ci ha lasciato come insegnamento. «Combattere è sempre stata un’abitudine dell’uomo, non della donna […]. Come possiamo comprendere un problema che è solo vostro, e, quindi, come rispondere alla domanda, in che modo prevenire la guerra? Non avrebbe senso rispondere basandoci sulla nostra esperienza e sulla nostra psicologia: che bisogno c’è di combattere? È chiaro che dal combattimento voi traete un’esaltazione, la soddisfazione di un bisogno, che a noi sono sempre rimaste estranee». Tornare a quel sentimento di estraneità è quello che ha chiesto la femminista Alessandra Bocchetti nell’incontro di sole donne del 22/23 febbraio scorso a Roma. «Sentimento di estraneità che ci fa dire che questa storia non è la nostra storia anche se sempre ne siamo state travolte e a volte ne siamo complici. Bisogna avere il coraggio di dirlo. Questa è la storia degli uomini […] il cui principio ordinatore è la forza […] la cui massima espressione è il potere». Storia di uomini, storia del patriarcato dal cui «recinto è terribilmente faticoso portare fuori le donne» e anche gli uomini che guardano alla guerra come unico scenario futuro. «È ora di andare via» dicono le donne col numero speciale della rivista Via Dogana pubblicata in occasione del cinquantenario della nascita della Libreria delle donne di Milano. È ora di andare via dal pensiero maschile della guerra, della forza e delle armi come ha chiesto, con parole diverse, anche papa Francesco nella sua lettera al Corriere della Sera. «Dobbiamo disarmare – ha scritto – le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra».

Andare via dal patriarcato, come insegna la storia del femminismo della differenza sessuale, storia poco conosciuta o mal insegnata alle nuove generazioni, non vuol dire indifferenza ma guadagnare uno sguardo libero sul mondo, orientato dall’amore per la madre, per la donna, generatrice di vita e non di morte. Pensare, pensare dobbiamo, donne e uomini, per come fermare la folle corsa al riarmo, prima che sia troppo tardi.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 22 marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da Erbacce

Lakes International Comic Art Festival (UK) in collaborazione con il fumettista palestinese Mohammad Sabaaneh e con il supporto promozionale di Cartoonists Rights ha pubblicato Safaa and the Tent, il diario della fumettista di Gaza Safaa Odah. La traduzione è di Nada Hodali.

Safaa ha conseguito un master in psicologia che si intreccia con il lavoro di fumettista. Oltre a rivolgersi a un pubblico palestinese, il suo desiderio è di raggiungere altre persone in tutto il mondo e generare un impatto positivo.

Create tra ottobre 2023 e dicembre 2024, alcune delle vignette del libro sono state disegnate su una tenda. Dall’inizio della guerra a Gaza, Safaa è stata sfollata più volte, ma continua a disegnare e a pubblicare ogni volta che può sui suoi social. In Italia è pubblicata da marzo 2024 su Erbacce nella rubrica Una tenda in Palestina in cui abbiamo raccolto fumetti, video, interviste e articoli della psichiatra palestinese Samah Jabr da lei illustrati.

Secondo il fumettista Joe Sacco «alcune delle immagini più potenti e toccanti provenienti da Gaza, che non siano foto, si trovano in questa incredibile raccolta di disegni di Safaa Odah».

«Safaa si è opposta alla brutalità del genocidio con sincerità senza filtri», osserva Mohammad Sabaaneh. «Attraverso un istinto crudo, ha smantellato la narrazione ufficiale che cercava di disumanizzare i palestinesi, trasformando la sua arte in una potente confutazione. Quando la carta è diventata rara come il pane, la sicurezza e il conforto, non si è fermata: le pareti della sua tenda sono diventate la sua nuova tela, a testimonianza di una resilienza che non poteva essere cancellata. Noi palestinesi sappiamo bene che Naji al-Ali, il leggendario fumettista assassinato a Londra nel 1987, ha iniziato il suo percorso artistico anche sul muro della sua tenda».

Il libro Safaa and the Tent è disponibile su Etsy Store del Lakes International Comic Art FestivalLakes International Comic Art Festival (UK) in collaborazione con il fumettista palestinese Mohammad Sabaaneh e con il supporto promozionale di Cartoonists Rights ha pubblicato Safaa and the Tent, il diario della fumettista di Gaza Safaa Odah. La traduzione è di Nada Hodali.

Safaa ha conseguito un master in psicologia che si intreccia con il lavoro di fumettista. Oltre a rivolgersi a un pubblico palestinese, il suo desiderio è di raggiungere altre persone in tutto il mondo e generare un impatto positivo.

Create tra ottobre 2023 e dicembre 2024, alcune delle vignette del libro sono state disegnate su una tenda. Dall’inizio della guerra a Gaza, Safaa è stata sfollata più volte, ma continua a disegnare e a pubblicare ogni volta che può sui suoi social. In Italia è pubblicata da marzo 2024 su Erbacce nella rubrica Una tenda in Palestina in cui abbiamo raccolto fumetti, video, interviste e articoli della psichiatra palestinese Samah Jabr da lei illustrati.

Secondo il fumettista Joe Sacco «alcune delle immagini più potenti e toccanti provenienti da Gaza, che non siano foto, si trovano in questa incredibile raccolta di disegni di Safaa Odah».

«Safaa si è opposta alla brutalità del genocidio con sincerità senza filtri», osserva Mohammad Sabaaneh. «Attraverso un istinto crudo, ha smantellato la narrazione ufficiale che cercava di disumanizzare i palestinesi, trasformando la sua arte in una potente confutazione. Quando la carta è diventata rara come il pane, la sicurezza e il conforto, non si è fermata: le pareti della sua tenda sono diventate la sua nuova tela, a testimonianza di una resilienza che non poteva essere cancellata. Noi palestinesi sappiamo bene che Naji al-Ali, il leggendario fumettista assassinato a Londra nel 1987, ha iniziato il suo percorso artistico anche sul muro della sua tenda».

Il libro Safaa and the Tent è disponibile su Etsy Store del Lakes International Comic Art Festival

da il manifesto

Ursula von der Leyen ritiene che l’unico modo di sventare la crisi esistenziale dell’Unione europea sia “riarmarsi”: ha già ventisette eserciti a disposizione, più quattro di complemento; spende in armi una volta e mezza più della Russia da cui si sente minacciata, ma ritiene che occorra spendere il doppio: da ripartire tra l’industria delle armi degli Stati Uniti e quelle di ogni singolo Stato membro; comprese le fabbriche di armi atomiche di Francia e Gran Bretagna, in barba a quanto deliberato dall’Assemblea generale dell’Onu che le ha messe al bando.

Certo, con tutti quei soldi si potrebbe “risanare la Sanità”, ma forse anche l’istruzione e un po’ di ambiente, che sono da diversi anni troppo trascurati.

Il fatto è che per “riarmarsi” le armi non bastano. Ci vogliono anche uomini disposti a combattere, ma l’Europa – e l’Italia più di tutti – sembra esserne a corto: più dell’Ucraina, che quelli da mandare al fronte li ha consumati quasi tutti tra morti, feriti, invalidi, imboscati a pagamento, disertori e renitenti. A giustificare quel senso di superiorità che dovrebbe sostenere gli europei nella guerra, naturalmente per difendersi, ci ha comunque pensato dal palco del 15 marzo di Piazza del Popolo Roberto Vecchioni, snocciolando il rosario delle perle (letterarie) che “gli altri” non hanno. Mentre a promuovere una nuova leva di combattenti disposti a uccidere e a morire e un sano spirito guerriero ha provveduto oltre a Galli della Loggia, Antonio Scurati, con un articolo illustrato da autentici lanzichenecchi.

Ma qui sta il problema: non (solo) negli 800 miliardi a cui attingere per comprare sistemi d’arma per uccidere i nemici, e sistemi di sorveglianza per individuare i bersagli e respingere i migranti. Bensì, e molto di più, in quell’intreccio tra il primatismo eurocentrico vantato da Vecchioni e il perduto spirito guerriero rimpianto da Scurati e Galli della Loggia. Che cos’è quell’intreccio? È il virilismo di chi vede nella guerra, e nel saperla fare (e vincere, a qualsiasi costo) il complemento e il completamento ineludibile di un’umanità che non tradisca la sua storia di guerre, stragi, efferatezze e sofferenze inflitte dagli uomini ad altri esseri umani: cioè la quintessenza del maschilismo e del patriarcato, anche quando quel “sentire” e soprattutto quel “subire” ha riguardato e riguarda sia uomini che donne.

Per questo è limitativo contrapporre allo spirito guerriero che sta dilagando su tutti i media e, a seguire, sui social e nel discorso politico, la rassegna di quanto di meglio si potrebbe fare con quegli 800 miliardi e più. Il richiamo a quello spirito bellico non sente ragioni e travolge tutto, in attesa che chi non ne è stato ancora investito – la maggioranza dei cittadini europei, ma anche degli abitanti della Terra – venga travolto dal vento di quel “maggio radioso” ben noto alla storia patria, ma simile se non uguale in tanti altri Stati europei nel corso dei due ultimi secoli e più.

Ne risulta, in quella contrapposizione tra Occidente e Oriente mai rinnegata, o tra democrazia e dispotismo, “pezza forte” del primatismo Nato-centrico e bianco, una inversione delle parti: mentre rinuncia a farsi forte della maggior libertà che le donne si sono conquistate con le loro lotte nei rispettivi paesi, l’“Occidente democratico” sta riproducendo al suo interno i modelli del dispotismo orientale e del maschilismo islamico: il cittadino impregnato di virilismo guerriero – e per forza di cose, patriarcale – che si cerca di promuovere assomiglia sempre più a quel prototipo maschilista oggi impersonato da Putin non meno che da Trump, ma che ha un riscontro preciso nei capi carismatici del Jihad islamico o della teocrazia iraniana: quella contro cui sono in lotta le donne libere di tutti i paesi islamici al grido di «Donna Vita Libertà». Ma anche le madri e le mogli che in Russia come in Ucraina protestano contro il sequestro dei loro uomini mandati al fronte.

Non sono le bombe e i razzi degli Stati Uniti e di Israele a minare lo Stato islamico, né le bande jihadiste sostenute da Erdoğan a portare democrazia e libertà in Siria. In entrambi i casi la minaccia esistenziale per i regimi islamici è rappresentata dalla rivolta delle donne contro l’oppressione a cui la loro controparte maschile non sa e non vuole rinunciare. Ed è il confederalismo democratico del Rojava, egualitario, multietnico, partecipato e femminista a rappresentare una minaccia mortale per il maschilismo dei regimi islamici, mentre vent’anni di guerra e occupazione della Nato hanno fatto regredire allo zero assoluto la condizione delle donne afghane. D’altronde, neanche la democrazia è mai stata esportata da qualche parte con le armi.

Perché una cultura e una politica contrarie al vento guerriero che soffia in Europa si possa affermare è necessario riconoscere che anche da noi la sacrosanta battaglia contro il velleitario riarmo dell’Europa non può svilupparsi che a partire dalla capacità di scovare, riconoscere, smascherare e dissolvere di tutte le forme in cui il modello patriarcale, virilista e guerriero si presenta nelle diverse circostanze della vita quotidiana, prima ancora che nelle forme di potere attraverso cui si esercita. Una battaglia a cui tutte e tutti ci dovremmo sentire chiamati dal riconoscimento del ruolo che spetta alle forme più radicali dei movimenti femministi.

da L’Altravoce il Quotidiano

Guerre che ho (solo) visto è il titolo dell’ultimo libro della filosofa Rosella Prezzo edito da Moretti & Vitali. L’autrice ci fa riflettere sulle guerre che hanno “costellato” negli anni la vita di chi, come lei e me, è venuta/o dopo la seconda guerra mondiale/europea, dalla guerra in Vietnam passando per la guerra in Jugoslavia fino a quelle più vicine a noi. Guerre viste solo attraverso le immagini televisive che arrivano nelle nostre case e che lei da spettatrice vuole mettere “a fuoco” per capire e ragionare su come e perché, a partire dalla prima guerra nel Golfo, il linguaggio di guerra è cambiato, cambiata è la figura del soldato e delle vittime, cambiata è la guerra stessa con i progressi della tecnoscienza e l’avvento dell’intelligenza artificiale. È cambiato il linguaggio usato per giustificare la guerra agli occhi dell’opinione pubblica, si sono inventati termini come guerra “giusta”, “preventiva”, “difensiva”, “chirurgica”, “di bassa intensità”, “al terrore”, in nome del “diritto d’ingerenza”, “umanitaria”, “per la liberazione delle donne”. È scomparsa la figura del guerriero, del soldato che fronteggia la morte in battaglia, su cui gli uomini per secoli hanno costruito lo stereotipo della virtù virile e dell’identità del “vero uomo” e la retorica dei caduti in battaglia. Al reduce della prima guerra mondiale, al “sopravvissuto” dei lager della seconda, è subentrato il soldato tecnologico e burocratizzato che “sgancia l’ordigno sul bersaglio e va via”. Il suo corpo, vivo o morto, viene messo fuori scena, occupata questa dalle immagini di droni, missili, robot killer interconnessi, in grado di operare attraverso un algoritmo per individuare un bersaglio e attaccarlo, dando la “garanzia” di non mettere a rischio i propri uomini e di colpire i “corpi altrui” senza alcuna considerazione. «Come durante la guerra fredda furono alcuni scienziati a mettere in guardia rispetto ai pericoli di un conflitto nucleare spingendo i governi ai trattati di non proliferazione, anche oggi gli scienziati cercano di fare lo stesso per l’intelligenza artificiale applicata ai conflitti armati, al potere distruttivo della tecnoscienza.» Armi micidiali di una guerra “disumanizzata”, “spersonalizzata”, “postumana”, “vigliacca”. Quand’è che in Europa è iniziato il processo di “riabilitazione della guerra”, in antitesi al “ripudio” della guerra quale strumento di offesa e mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali? Quando è avvenuta la rottura del tabù della guerra sancita dalla carta di Helsinki del 1975, che prospettava un’Europa del dialogo e di pace, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti e il fungo atomico? È con la guerra nell’ex Jugoslavia, risponde l’autrice, con il coinvolgimento degli stati europei e la loro “operazione umanitaria”. Nella guerra delle armi micidiali della tecnoscienza emerge una nuova figura della “vittima”, la/il “profuga/o” che diventa la/il “rifugiata/o” e “richiedente asilo”. Pensare e dire la pace, oggi, significa «pensare l’impensato della pace» in quanto si tratta di uscire dal pensare la pace come assenza o conclusione della guerra. E per pensare l’impensato l’autrice convoca tre grandi scrittrici e pensatrici del novecento: Simone Weil, Virginia Woolf e Maria Zambrano, che «ci porgono un filo per uscire dal labirinto in cui sembriamo perderci, tra rinnovati massacri, stupidità guerrafondaia, svuotamento della democrazia». È il filo del «combattere con la mente» per fabbricare idee nuove e pensare «il destino del mondo», una «nuova costituente europea», «re-immaginare la democrazia», e combattere «contro le idee acquisite dal dominio patriarcale» come quella che la pace si crea con la forza delle armi. Il libro, molto intenso, si chiude con un’antologia di testi, scelti per ulteriori approfondimenti.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 15 marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da Avvenire

Don Riccardo Mensuali (Pontificia Accademia per la vita) riflette sui riferimenti culturali per gli uomini del nostro tempo: abbiamo un modello antropologicamente sicuro, quello di Gesù nei Vangeli

Maschi contestati e processati, ai margini delle relazioni sociali e di quelle familiari. Ma maschi anche che hanno deciso di costruirsi una nuova identità, più presentabile e interessante. La traccia potrebbe essere rappresentata da quell’antropologia cristiana che sull’argomento offre, a chi li sa cercare, modelli spiazzanti proprio perché ispirati all’immagine maschile di Gesù nei Vangeli. È la lunga cavalcata alla ricerca del maschio, del padre, del marito presentata da don Riccardo Mensuali nel libro Pieno di grazia. La sfida cristiana per il maschio del nostro tempo (San Paolo, pagg,192, euro 18).

Le quotazioni della paternità non sono mai state così basse, ma le statistiche ci dicono che i ragazzi – più delle ragazze – raccontano che a loro piacerebbe avere molti figli, desiderio che poi nella maggior parte dei casi non viene realizzato. Perché questa contraddizione?

Si potrebbe banalmente dire che i ragazzi sono meno consapevoli di quanto “costi” una maternità. Invece credo che nel cuore di un giovane esista un vero desiderio di realizzarsi anche a partire dalla paternità, da un servizio che per forza ci porta a renderci più gentili, più attenti e pazienti, più impegnati nella cura. Come se tanti ragazzi avvertissero che l’antidoto a violenza, modi bruschi, durezza è far da padre ad un figlio. È un po’ quello che ha cantato a Sanremo Lucio Corsi: Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.

Il maschio, programmato da secoli di vita sociale a usare la parola in pubblico, nella vita familiare sceglie spesso il mutismo, o al massimo i monosillabi. Perché imparare ad esprimere emozioni e sentimenti attraverso la parola può essere una via privilegiata per far crescere la qualità delle relazioni?

La scarsa loquacità maschile nelle relazioni è quasi proverbiale, come se dovessimo spendere le nostre energie solo davanti a un gran pubblico. Ma anche questo comincia a diventare uno stereotipo vecchio. Ai corsi matrimoniali ormai si parla moltissimo, anche di sé, e lo fanno volentieri anche i futuri mariti. Per noi cristiani, figli della Parola, è una grande occasione. Dare le giuste parole alle emozioni, descrivere con sobrietà e saggezza quel che si sente non è solo da lettino da psicologo. È da vero uomo. Ricco di interiorità.

Qualcuno ha ipotizzato che la crisi del maschio è andata in questi decenni di pari passo alla crescita di responsabilità e di ruoli della donna, come se la parità fosse il più grande problema dell’uomo. Traguardo, sotto sotto, inaccettabile. Quanto c’è di vero in questa posizione?

Bisogna stare attenti a come si parla. Perché si fa presto a dire che siccome l’uomo non accetta di buon grado l’emancipazione, fa fatica, allora la colpa è delle donne. Qualcuno non solo lo pensa, ma lo dice pure. Direi, più precisamente, che troppi maschi li troviamo arretrati, impreparati al nuovo mondo, più femminile, dove prevale la forza del cervello, dell’empatia, della ricchezza di capacità relazionali. In questa nuova e buona “gara” bisogna allenarsi. Se il maschio rimane indietro, è colpa sua. Come lo è reagire con l’istintiva e non curata violenza del frustrato.

Molto interessante, tra le tante riflessioni che lei propone, quella sull’ultima paternità, quella dei grandi anziani che spesso hanno figli prossimi alla pensione. Si tratta però di valorizzare il loro ruolo e rispettare la storia che c’è alle spalle di ciascuno di loro. Come riuscirci?

Spesso non ci si riflette molto su quanto non sia semplice invecchiare bene, con serenità e costituire buoni padri anche sugli ottanta, novant’anni. Si dà per scontato che sia tutto sorgivo. Non è così. Si impara anche a diventare vecchi. Lo spirito cristiano ci propone di essere figli e discepoli del Maestro sempre. Prepararsi bene e con cura a lasciare questo mondo per entrare nella vita eterna può costituire una testimonianza importante per figli ormai molto adulti, che ricorderanno di certo come il padre se n’è andato.

Perché ritiene che il modello di uomo, di maschio, di marito offerto dall’antropologia cristiana possa rappresentare una strada percorribile e auspicabile per “vivere da uomini”, oltre tutte le contraddizioni e i luoghi comuni?

Semplicemente perché noi uomini potremmo, con qualche scaltrezza, quasi “approfittare” del fatto che abbiamo già un vero modello d’uomo nella figura di Gesù, come emerge dai Vangeli. Lo sappiamo, non era sposato né aveva figli, ma chi più di lui è maestro d’amore, maestro privilegiato di relazioni umane? Sapeva avvicinare una donna come un uomo, sapeva parlare o ascoltare a seconda del momento, adirarsi o essere maschio dolce e diverso da tutti quando occorreva. Sapeva sbrigarsi ma anche fermarsi. Ha saputo far da padre agli Apostoli delegando loro poteri e responsabilità, li ha fatti scontrare coi loro limiti perché li superassero. E quando tutti volevano che rimanesse, se ne è andato per agire attraverso di loro, cioè di noi e della Chiesa. Non vedo, al mondo, modello di maschio più efficace ed attraente. Un uomo che conquista.

da Doppiozero

Una donna incinta, nuda, siede sul letto. Rivolge un sorriso complice e sereno al bambino dentro di lei, con una mano accarezza la pancia, mentre l’altra la sostiene dolcemente dal basso. In questo gesto semplice e potente c’è tutto il senso dell’attesa, della trasformazione, della vita che sta per nascere. È l’idea che percorre il volume Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, 2024), con le fotografie di Paola Agosti e il commento di Benedetta Tobagi. Noi non eravamo artisti, noi eravamo dei reporter, eravamo dei testimoni del nostro tempo, l’arte c’entrava relativamente poco, noi facevamo quel lavoro per vivere, afferma la fotografa con asciutta schiettezza.

Eppure in “quel lavoro” c’è qualcosa che si spinge oltre la semplice testimonianza. Come la donna incinta accarezza il futuro che porta in sé, lo sguardo della Agosti dà vita a qualcosa che sta nascendo, un mondo femminile che si svela, si afferma e reclama il proprio spazio. Donne tra loro differenti, legate dalla forza con cui hanno cercato un destino diverso, dal coraggio con cui hanno sfidato le regole di un mondo che le voleva silenziose, sottomesse, chiuse fra le mura di casa. E grazie a loro, il cammino di chi è venuta dopo si è fatto più libero.

È questa determinazione che lega Paola Agosti alle donne, un filo teso tra lo sguardo e l’azione, tra chi racconta e chi si fa racconto. Determinare non è solo fissare un confine, dare un contorno netto alle cose, ma è anche un atto di volontà, una scelta precisa. Significa tracciare un sentiero là dove sembrava non esserci strada, prendere posizione accanto a chi è stato troppo a lungo escluso dalla narrazione ufficiale. È un gesto che incide, segna e restituisce dignità a chi, altrimenti, resterebbe nell’ombra. La Agosti non si limita a osservare, mette a fuoco. E nel farlo, si schiera.

Sono stata femminista come molte. Mi riconoscevo sicuramente nelle lotte che il movimento portava avanti. Grazie al lavoro mi consideravo una donna emancipata; tra l’altro venivo da una famiglia dove le donne erano tenute in grande considerazione e avevano studiato e lavorato.

Fra le fotografie del suo archivio, ben ventimila dedicate alle donne, ci sono le anziane militanti del Partito comunista, le donne dell’Udi, le avanguardie femministe radicali, le singole attiviste fra cui la linguista Alma Sabatini con un enorme cartello, la scrittrice Dacia Maraini che guida un corteo, la radicale Adele Faccio arrestata durante una conferenza internazionale sul divorzio, Gigliola Pierobon con l’avvocata ed ex-partigiana Bianca Guidetti Serra che la difendeva contro l’accusa di aver abortito a diciassette anni.

Se il personale è politico è il principio con cui le femministe mettono in discussione la società, per la Agosti è il filtro da porre sull’obiettivo, la sfumatura che dà una tonalità nuova al reale. La maternità al lavoro, la sessualità femminile, la violenza domestica, non sono semplici questioni private, ma riflettono strutture di potere e disuguaglianze radicate nella società. Compagni nella lotta, padroni nella vita, con questa ambiguità facciamola finita è il pensiero che anima sindacaliste, operaie, casalinghe, impiegate e studentesse, nella manifestazione organizzata a Roma dai metalmeccanici il 2 dicembre 1977.

Grazie al fatto di essere una donna, e di avere una fotocamera, la Agosti viene accolta all’interno dei collettivi e delle manifestazioni con una confidenza che difficilmente sarebbe stata concessa a chi non ne condivideva l’impegno. Le femministe, infatti, erano consapevoli del potere dell’immagine e della necessità di raccontarsi con un proprio sguardo, senza mediazioni esterne che potessero distorcere il loro messaggio. In un contesto in cui i media tradizionali banalizzavano o travisavano le istanze femministe, il lavoro della Agosti era visto come una forma di militanza.

Si aprono le porte dei consultori, quelle delle case dove le donne lavorano a domicilio e accudiscono i figli, quelle di Radio città futura,emittente romana legata alla sinistra extraparlamentare, che all’interno del palinsesto quotidiano concede due ore alle femministe, una delle quali è riservata alla trasmissione Le donne escono dalle cucine.

Si aprono le porte delle redazioni, EFFE, Quotidiano Donna, e poi quelle di Noi Donne,la rivista dell’Udi con cui la Agosti collabora per più di vent’anni. È stato un lavoro molto, molto bello… Ho girato l’Italia, e grazie a Noi donne sono entrata nelle case di chi faceva una vita ben diversa dalle ragazze che sfilavano a Roma nei cortei femministi: le operaie, le mondine, le vecchie partigiane […], per me rimane una tappa fondamentale della mia vita di fotografa e di donna.

Nel 1976 molte di quelle immagini confluiscono in Riprendiamoci la vita, un libro pubblicato dall’editore Savelli da cui sono germogliati altri progetti, nati quasi per necessità, per il bisogno di continuare a raccontare. Con Firmato Donna, Agosti ha dato un volto a cinquantasei tra le più grandi scrittrici italiane del Novecento, donne che con le parole hanno costruito nuovi spazi di libertà. Con La donna e la macchina (1983), è entrata nelle fabbriche del Nord-Ovest, mostrando le operaie nel loro quotidiano, rivelando la fatica di chi ha avuto un posto nel mondo del lavoro, ma quasi mai nel racconto ufficiale.

Nel 1977 Paola Agosti sente il bisogno di allontanarsi dalla frenesia della vita in città, dai tempi stretti della cronaca, dalla ressa dei fotografi. Chiede a Nuto Revelli, che conosceva sin da bambina perché era stato partigiano con suo padre, di poter ripercorrere con la sua macchina fotografica l’itinerario di Il Mondo dei vinti (1977) e di L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1985). Dai suoi numerosi viaggi nelle Langhe nascono Immagine del mondo dei vinti (1979) e Il destino era già lì (2015).

Se Riprendiamoci la vita era il grido di battaglia del femminismo, un’esortazione a spezzare vincoli e ridefinire il proprio cammino, Il destino era già lì evoca invece il peso di una storia già scritta, di un futuro tracciato ancor prima che si possa scegliere. Nate in famiglie contadine, spesso numerose, queste donne si trovavano fin da bambine immerse in una realtà di fatica e privazioni, il lavoro nei campi era l’unico orizzonte possibile ed i ruoli erano rigidamente definiti. Fotografarle non significa solo raccontare, ma riconoscere. Significa dare un volto e una voce a chi è stato relegato ai margini della storia, celebrare la forza silenziosa delle donne che, senza dichiararlo apertamente, hanno lottato per procurarsi un frammento di libertà.

Qui la sua determinazione di fotografa è anche un atto di resistenza, un modo per non lasciare che quelle storie svaniscano, una resistenza presente anche nel carattere delle donne ritratte, che con il loro radicamento alla terra e il lavoro manuale raccontano una lotta quotidiana per rimanere ancorate alla propria esistenza. Su quei visinon c’è traccia di autocommiserazione, mostrare la loro “solitudine” non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo. L’anziana donna seduta come su un trono in mezzo alla sua cucina, le contadine, divertite e divertenti, ad onta della fatica e delle dure condizioni di lavoro, mentre giocano con i loro cani, esprimono una condivisione di sentimenti che crea solidarietà.

Riusciamo, oggi, a cogliere fino in fondo il valore che queste foto avevano quando comparvero per la prima volta sulla carta stampata? Allora non erano icone. Lo sono diventate nel tempo, perché hanno saputo parlare, emozionare, raccontare storie in cui un numero incalcolabile di donne si è riconosciuto. Il loro potere non sta solo nell’immagine, ma nel modo in cui sono state vissute, condivise, fatte proprie. Per raccontare davvero qualcosa, bisogna esserci dentro. Non basta osservare, bisogna immergersi, vivere la situazione. Le sue foto sono diventate simboli perché le donne le hanno diffuse, riprodotte, fatte circolare ovunque, manifesti, riviste, volantini, libri. Hanno smesso di essere semplici scatti per trasformarsi in pezzi di vita, tracce di un’esperienza collettiva. Davanti a una fotografia, ognuno di noi deve decidere se ignorarla o lasciarsene attraversare, se renderla parte della propria memoria e delle proprie lotte, se usarla per conoscere, per capire, per agire.

Alla fine del libro le autrici accostano due immagini. Nella prima alcune giovani donne appendono uno striscione con la scritta Le streghe son tornate, nella seconda, un’anziana, sola nella sua cucina, solleva un pentolino da cui si sprigiona un vapore denso. Il confronto svela due modi diversi di esistere, da un lato, giovani donne che gridano per rivendicare il diritto alla parola e all’autodeterminazione, dall’altro, un’anziana che, con un gesto silenzioso ma carico di significato, compie un rito di magia bianca. Le femministe si riappropriano di un passato simbolico attraverso la figura della strega non più vittima della persecuzione patriarcale, l’anziana rivela un sapere prezioso trasmesso di donna in donna; le une rivendicano il diritto a trasformare il proprio destino, l’altra lavora per dissolvere un destino avverso. Due modi diversi di agire, due forme di lotta che sembrano lontane e invece si parlano, le urla delle donne che vogliono cambiare il mondo ed i sussurri di chi lo ha sfidato in silenzio.

dall’Ansa

Il Ministero dell’economia ha dato questa mattina parere negativo all’emendamento presentato dalla maggioranza al ddl per le liste d’attesa che stanziava 6 milioni di euro l’anno per tre anni per la prevenzione dei tumori al seno.

«Hanno fatto una becera propaganda – commenta la senatrice M5S Elisa Pirro – e oggi ci troviamo col Mef [Ministero per l’Economia e le Finanze, Ndr] che dà parere negativo a questo emendamento che avremmo appoggiato volentieri. Non hanno trovato i soldi, mentre in questo Paese si continua a parlare di un piano di riarmo che dovrebbe aprire spazi fiscali per circa 30 miliardi.

È una cosa immorale».

da Avvenire

L’approccio prudente lascia da parte ormoni e bloccanti della pubertà che ormai tutti i Paesi occidentali stanno abbandonando, e indaga attentamente nel vissuto di ragazzi e famiglie

Esiste un fenomeno sociale e sanitario a cui in Italia non si presta la dovuta attenzione. Riguarda la sofferenza di bambini, ragazzi (e le loro famiglie), derivata da rifiuto del proprio sesso, turbamenti dovuti al sentirsi “intrappolati nel corpo sbagliato”, stato ascrivibile a incongruenza o disforia di genere. Il fenomeno è difficilmente quantificabile in Italia, a causa dell’inspiegabile assenza di dati di affluenza agli oltre 40 ambulatori (pubblici o privati in convenzione; dati desunti da siti non istituzionali) sparsi per la penisola. Nonostante le segnalazioni informali e allarmanti di genitori e insegnanti di scuole di ogni ordine e grado, questi casi sono stati finora intesi come da “risolvere in fretta”, con approcci che meglio dettaglieremo e che portano a una vera e propria transizione da maschio a femmina o viceversa. Il fatto che questo si pratichi in corpi molto giovani, pare non preoccupi o allarmi.

Per i casi di incongruenza o disforia, sono state messe in campo terapie di diverso orientamento. Quelle dette riparative, che cercavano di convincere forzatamente la persona, anche giovane, di non essere omosessuale o transgender, sono ormai largamente condannate. Le terapie “affermative”, invece, non ancora superate, hanno trovato consenso quasi unanime. Si basano sull’interpretare come attendibile ciò che un/a bambino/a o un adolescente afferma essere il suo “vero” sesso. La terapia affermativa, applicata dagli anni Novanta, non basata su certezze scientifiche ha dimostrato di non risolvere le difficoltà personali, anzi: si stanno moltiplicando i casi di “detransizione” – ragazzi ormai adulti che non si vivono più come transgender e che vorrebbero tornare indietro. Spesso in drammatiche condizioni di impossibilità. Si è forse perso di vista il principio di cautela (primum non nocere) che dovrebbe essere alla base di tutte le pratiche medico-cliniche? L’approccio affermativo, oggetto di clamorosi recenti fatti di cronaca, è in corso di abbandono nella maggior parte dei Paesi europei e non solo, tranne che in Italia. Cerchiamo di capire perché. Esistono a livello internazionale due manuali diagnostici: il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, noto con la sigla Dsm (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione psichiatrica americana), e l’Icd (International Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità).

Dai testi si desume la strana situazione dell’incongruenza di genere (Idc) e della disforia di genere (Dsm), dichiarate di per sé come non vere e proprie patologie, necessitanti però di una diagnosi clinica effettuata da medico o psicologo. In assenza di segni visibili, il/la professionista clinico/a si basa su ciò che la persona riferisce di sé stessa. Quanto può essere “vera per sempre” l’autonarrazione di soggetto in età evolutiva (bambino o adolescente), periodo in cui le capacità cognitive, psicologiche, emotive e sociali, nonché di descrizione di sé stessi/e, sono tutt’altro che definite? Ecco perché sarebbe da tenere in debito conto non solo la plausibile mutevolezza della descrizione, ma anche l’incerta permanenza dello stato riferito. Inoltre, dato non trascurabile, un bambino/a (o ragazzo/a) non ha ancora maturato la capacità di prevedere appieno le conseguenze di ciò che decide e fa.

Il dogmatico approccio affermativo alla disforia di genere ha un nome e un inizio. Siamo negli anni Novanta, la psicologa Peggy Cohen-Kettenis, fondatrice della Clinica pediatrica di Utrecht, sviluppa il “Protocollo olandese”, base di ogni terapia affermativa: per accompagnare i/le ragazzini/e con incongruenza di genere è opportuno assecondarli – “affermarli” – nella loro richiesta di una nuova identità, senza mettere in discussione le loro opinioni. Qualunque età abbiano, quasi sempre senza approfondire l’origine del disagio (in termini tecnici “diagnosi differenziale”) che, come ormai dimostrano diversi studi, può derivare da altre cause da considerare (disturbi dello spettro autistico, depressione, omosessualità fraintesa, sofferenze psicologiche di altra natura). Si passa quindi alle terapie farmacologiche (bloccanti della pubertà e ormoni cross-sex – fanno assumere i caratteri sessuali secondari del sesso opposto: per esempio barba, pomo d’Adamo e voce maschile nelle femmine) e chirurgiche.

Non ci sono riscontri oggettivi, ma il “Protocollo olandese”, trova immediata approvazione nei contesti scientifici internazionali. La stessa ideatrice, nel 2006 afferma in uno studio che i bloccanti della pubertà sembrano fornire un contributo importante “nella gestione clinica del disturbo dell’identità di genere” e indica le età più adeguate per trarre il miglior profitto dai trattamenti: 12 anni per i bloccanti della pubertà e 16 anni per il trattamento cross-sex. Alla fine dello studio viene perfino espresso un ringraziamento alla casa farmaceutica che produce i bloccanti. Intanto la macchina del consenso si era messa in moto, con un’evoluzione che nei Paesi occidentali ha toccato il massimo della “propensione affermativa” tra il 2015 e il 2020, a cominciare dal Regno Unito, con migliaia di ragazzini (oltre 5.000 nel 2021) avviati al percorso di transizione presso la clinica Tavistock del servizio sanitario pubblico.

A quel punto parte un piccolo terremoto: fioccano le denunce di giovani trattati fin da piccoli con terapia ormonale e chirurgia, che all’avvio del percorso non avevano compreso le implicazioni a lungo termine di trattamenti così devastanti. La battaglia passa in tribunale e alla fine arriva il rapporto commissionato dal Servizio sanitario del Regno Unito, la citatissima Cass Review, che afferma che non esistono prove per valutare gli effetti dei trattamenti ormonali per quanto riguarda la salute mentale e psicosociale, lo sviluppo cognitivo, il rischio cardiometabolico, la fertilità. Un anno fa – il 29 marzo – la clinica Tavistock ha chiuso i battenti, avviando un serio ripensamento, presto diffuso anche in tanti altri Paesi: Finlandia, Svezia, Francia, Norvegia, Germania, Svizzera, Australia, Stati Uniti. Una piccola rivoluzione. Il caso francese, in particolare, è di grande interesse: l’Académie Nationale de Médicine spiega il meccanismo con cui i casi di disforia si sono moltiplicati, parlando esplicitamente di “focolaio di casi” e avallando, per la prima volta anche in campo medico, l’ipotesi del contagio sociale. Si tratta del resto di un meccanismo che la psicologia ben conosce per il dilagare dei disturbi alimentari, la dipendenza da internet, il fenomeno degli hikikomori, il cyberbullismo. È quindi plausibile e ormai dimostrato che riguarda anche l’incongruenza e la disforia di genere.

Cosa stanno elaborando in merito gli altri Paesi? In alternativa alla terapia “affermativa” e alla ricerca di un approccio il meno invasivo possibile, che lasci aperta una vasta gamma di risultati, si sta prefigurando una nuova via di accompagnamento e supporto per i giovani alle prese con incongruenza o disforia. Un approccio non ancora oggetto di interesse e formazione in Italia, definito “Terapia Esplorativa-Neutrale” o “Terapia Esplorativa del Genere”. Si basa sull’attenta indagine dell’esperienza personale della giovane persona in difficoltà e della sua famiglia, riguardo il vissuto di genere. Si esplicita nell’aiuto a far sì che sia il soggetto interessato che la famiglia si pongano nella condizione di “prendere tempo”, arrivando così a non assumere decisioni affrettate e senza darne per scontato l’epilogo.

Un approccio prudente. Il ragazzo o la ragazza in temporanea disforia, prendendo tempo, può arrivare a identificarsi con il proprio sesso di nascita e accettare il proprio corpo così com’è, ma può anche decidere di procedere con la transizione di genere, nella comprensione delle complesse fonti del proprio disagio e delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. Insomma, tutti i risultati sono accettati e legittimi, a patto che non vengano bruciate le tappe e non si ricorra in modo sbrigativo a interventi farmacologici e chirurgici, come pretenderebbe l’approccio affermativo. Un approdo di buon senso a cui stanno arrivando tanti Paesi occidentali.


Fulvia Signani è psicologa e docente incaricata di sociologia di genere, nonché fondatrice e componente del Centro Universitario di Studi sulla Medicina di Genere dell’Università degli Studi di Ferrara. In staff alla Presidenza del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, fa parte dell’Osservatorio Nazionale sulla Medicina di Genere presso l’Istituto Superiore di Sanità. È fondatrice e presidente di Engendering Health APS e autrice di La salute su misura. Medicina di genere non è medicina delle donne (2013).

dal Corriere della Sera

«[…] La donna d’oggi non è più quell’essere impersonale, senza individualità e senza cultura, che una volta fu. Siamo ben lungi dai tempi che la donna si considerava come un animale domestico, da potersi maltrattare, scacciare od uccidere a capriccio del suo padrone». Sono questi alcuni dei versi più celebri contenuti in Il Monopolio dell’uomo (1890), uno dei primi scritti di Anna Kuliscioff. Un simbolo di impegno civile e di emancipazione femminile, ricordato nel centenario della morte – avvenuta nel 1925 a Milano – con una mostra al Museo del Risorgimento di Palazzo Morando (prorogata fino al 30 marzo 2025). Tra le figure più influenti del movimento socialista italiano, Kuliscioff fu un esempio di coraggio e determinazione nel perseguire ideali di giustizia sociale, emancipazione e difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (qui abbiamo raccontato la sua figura, attraverso le pagine d’archivio, e la sua eredità).

Un personaggio rivoluzionario anche sul fronte degli studi: nata in Crimea, si trasferì in Svizzera per studiare e laurearsi in medicina, e fu tra le prime donne dell’epoca. Il suo impegno si concentrò, in particolare, sulla questione femminile: fu tra le prime a denunciare le disuguaglianze economiche e sociali subite dalle donne, battendosi per il diritto al voto (scontrandosi anche con l’eccessivo gradualismo del Partito socialista e del compagno Filippo Turati) e per migliori condizioni di lavoro.

Si legge in un articolo botta-risposta su Critica sociale, la rivista del socialismo riformista italiano, che diresse insieme a Turati fino al 1891: «Direte, nella propaganda, che agli analfabeti spettano i diritti politici perché sono anch’essi produttori. Forse le donne non sono operaie, contadine, impiegate, ogni giorno più numerose? Non equivalgono, almeno, al servizio militare la funzione e il sacrificio materno, che danno i figli all’esercito e all’officina? Le imposte, i dazi di consumo, forse son pagati dai soli maschi? Quale degli argomenti, che valgono pel suffragio maschile, non potrebbe invocarsi ugualmente per il femminile? Domandate ai socialisti belgi ed austriaci se l’aiuto delle lavoratrici, nella loro campagna pel suffragio, non ebbe “alcuna influenza benefica immediata”! Vi risponderanno che proprio nelle donne trovarono i più coraggiosi entusiasmi e le maggiori abnegazioni». Il suo sogno si sarebbe avverato solo nel 1946.

Una donna che lasciò il segno in numerose città: Firenze, dove venne incarcerata e contrasse la tubercolosi che la segnò tutta la vita; Imola, la città di Andrea Costa da cui ebbe la figlia Andreina; Torino, dove approfondì le ricerche sulle febbri puerperali e visse presso la famiglia di Cesare Lombroso; Pavia, dove seguì il futuro premio Nobel per la medicina Camillo Golgi; Padova, dove studiò con Achille De Giovanni; Napoli, dove si laureò e incontrò Turati, compagno di vita e azione fino alla morte; Milano, dove come medico si dedicò ai più poveri, curando gratuitamente operai e indigenti, guadagnandosi l’appellativo di “dottora dei poveri”. A cento anni dalla sua scomparsa, il suo pensiero resta di grande attualità e ci invita a riflettere sull’importanza di proseguire il suo cammino per un mondo più equo e inclusivo.

da Erbacce

Andata e ritorno degli sfollati

A maggio 2024 sono arrivata da Gaza al campo profughi di Ain Jalut di Khan Yunis, dove vivevo in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finiva disegnavo sulla tenda.
All’inizio della tregua, in gennaio 2025, sono ritornata a Gaza e ho disegnato sul muro della nostra casa, distrutta e inabitabile.
Da febbraio sono tornat a Khan Yunis, nel campo profughi Mawasi.

*Video e disegni di Una tenda in Palestina qui

da Noi Donne

Opera di Karipbek Kuyukov

Oggi si è conclusa la settimana del disarmo nucleare (Nuclear ban week, 1-7 marzo 2025) alla sede centrale dell’ONU a New York per discutere il Trattato di Proibizione delle armi nucleari (TPNW). I Disarmisti Esigenti vi hanno partecipato in quanto delegazione italiana appartenente alla coalizione di ong ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear weapons). Fin dal primo giorno la nostra delegazione ha presentato tre prospettive che pongono l’abolizione delle armi nucleari come una necessità in considerazione della crisi climatica ed ecologica e per scongiurare la violazione dei diritti umani. I danni irreversibili all’ambiente e agli esseri umani sono stati dimostrati dopo l’uso della bomba in Giappone e nel corso dei numerosi test nucleari. Questi temi hanno poi attraversato molti side events presentati dalla società civile. La prima prospettiva è l’esperienza perfettamente riuscita della mobilitazione del popolo di Comiso contro gli euromissili negli anni ’80, che non solo ha permesso di cogliere immediatamente l’opportunità di eliminarli, ma ha creato anche un presidio pacifista, femminista, ecologista stabile. La prima proposta più recente è l’idea e le iniziative di Costituente Terra. La seconda proposta riprende gli studi dovuti alla politica delle donne, recepiti dall’ONU, riguardanti le conseguenze nefaste delle armi nucleari sui corpi degli esseri umani. Essi hanno rivelato degli effetti particolarmente gravi delle radiazioni ionizzanti sugli organi sessuali femminili, quindi sulle bambine, sulle donne e sul patrimonio genetico umano. Si tratta di danni irreversibili, come quelli provocati sull’ambiente (questo punto è stato ripreso anche da un altro side event dedicato alle questioni di genere, con particolare riguardo alle centinaia di test nucleari effettuati in Kazakstan). Il martedì abbiamo presentato, come Disarmisti Esigenti, la visione degli attivisti che hanno vissuto la denuclearizzazione in Bielorussia e propongono ora un’ampia zona smilitarizzata ai confini con la Russia, ma anche una politica, una diplomazia e un diritto internazionale basato sulla bona fides nei rapporti su questi confini. Abbiamo poi presentato l’attività di alcuni nostri attivisti per implementare la decisione ONU del 1947 sulla smilitarizzazione del porto di Trieste, questione ritornata di grande attualità nell’attuale crisi in Centro Europa. Le sedute plenarie hanno poi permesso, nel corso della settimana, a tutti gli ambasciatori degli Stati firmatari di esprimere le diverse sensibilità e circostanze geopolitiche, ma anche la comune convinzione della bontà dell’iniziativa del trattato per evitare quella che può ben dirsi la fine del mondo. Da notare è anche un punto sull’attuale politica di delegittimazione dell’ONU e sulla legalità internazionale: almeno due visti sono stati negati a due delegati a questa riunione internazionale all’ONU: si tratta di una bielorussa della nostra delegazione e di un iraniano. Se questa fosse la politica statunitense dei visti nei confronti di cittadini delegati all’ONU, la presenza della sua sede centrale a New York diventerebbe problematica.

La tematica femminista del corpo umano come sede della massima distruzione provocata dagli ordigni nucleari, simbolo dei danni irreversibili all’umanità e al suo habitat, ha trovato espressione nell’opera e nell’esperienza dell’artista kazako presente con le sue opere nei locali dell’ONU. Karipbek Kuyukov dipinge corpi martoriati dalla casualità genetica determinata dalla bomba. Nato senza braccia, dipinge con la bocca e i piedi ed è un attivista antinucleare e anti-test nucleari. Egli dipinge anche madri che abbracciano o cullano il loro figlio deforme. Al radicale potere di chi distrugge non solo la vita dei contemporanei, ma anche quella di generazioni a venire, egli oppone il radicale potere dell’arte, dell’intelligenza e dell’amore della madre che fa trionfare la vita di un essere umano anche sulla più irragionevole malvagità e la più insopportabile insensatezza dei rischi accidentali. Che con l’8 marzo appaia con nuova forza questa consapevolezza femminile del valore della vita, capace di eliminare un incubo artificiale, creato dagli uomini, quindi suscettibile di essere risolto.

Giovanna Cifoletti fa parte dei Disarmisti Esigenti

dal Corriere della Sera

Mauro Bonazzi – “Differenza” è una parola decisiva, nel tuo vocabolario e non solo, se guardiamo al mondo della filosofia. Sono lontani i tempi della filosofia intesa come ricerca e analisi di concetti universali, validi per tutto e tutti, dovunque e comunque. Il Novecento, e anche il nostro secolo, sembra piuttosto il tempo della diversità, della molteplicità e della pluralità.

Adriana Cavarero – Il tema della differenza ha invaso i dibattiti filosofici soprattutto negli anni Settanta del secolo scorso, con i cosiddetti post-moderni, pensiamo ad esempio a Jacques Derrida o Gilles Deleuze. Anche se la mia provenienza è diversa (mi sono formata a Padova su Hegel e Platone) li conosco: e ho guardato a loro con interesse, ma anche diffidenza. Apprezzo, certo, la parte decostruttiva, il tentativo di smontare l’idea di un soggetto auto-fondato, saldo in sé, indipendente e autonomo (pensiamo al cogito di Cartesio, il penso dunque sono). Ma questa strategia di decostruzione mi sembra fine a sé stessa: si spegne nella glorificazione della frammentazione del soggetto stesso, nella negazione di un’identità unitaria; non aspira alla costituzione di altre forme di soggettività. Si passa insomma dall’uno (il soggetto classico, l’io sicuro di sé, chiuso nei suoi confini inviolabili) ai molti (a questo soggetto frammentato, ai mille rivoli di un’identità sfuggente perché sempre in movimento). Ma non si va oltre. È un risultato apprezzabile dal punto di vista estetico, ma poco praticabile dal punto di vista etico o politico. Se si parte da una enfatizzazione delle differenze infinite non si può costruire nessuna plausibile etica della responsabilità, perché viene a mancare ciò che ci unisce. È una scelta che non porta lontano, e apre piuttosto a forme di disimpegno.

Mauro Bonazzi – Qual è allora la tua “differenza”?

Adriana Cavarero – Seguendo Luce Irigaray, fin dall’inizio io ho insistito sulla differenza sessuale. Ora, la differenza sessuale non appartiene a questo panorama di frammentazione, tutt’altro. Ha a che fare con un dato di partenza ben preciso: siamo esseri viventi che si riproducono. Non si tratta di frammentare il soggetto in mille identità diverse, ma di ripartire da ciò che siamo nella concretezza dei nostri corpi, femminili e maschili. Smantellare costruzioni ideologiche che rischiano di opprimere va bene, ovviamente: non c’è dubbio che donne o omosessuali e tanti altri siano stati imprigionati in pregiudizi che li hanno ostacolati fin troppo a lungo nel libero sviluppo delle loro potenzialità. Ma bisogna anche provare a costruire alternative.

Mauro Bonazzi – Insomma, la contestazione di questa idea astratta, universalista, di un essere umano razionale e pienamente racchiuso in sé stesso non necessariamente deve culminare in una dissoluzione dell’idea stessa di soggetto umano.

Adriana Cavarero – Aristotele diceva che solo dell’universale si dà conoscenza; del particolare, dell’individuale no. E in parte ha pure ragione. Ma a me interessa anche il particolare. Basta la conoscenza universale della filosofia a chiarire chi siamo? Un buon filosofo aristotelico è Edipo, quando risponde alla sfida della Sfinge, offrendo una definizione generale dell’essere umano – di “che cosa è” un essere umano (l’essere umano è quell’essere che cammina con quattro gambe da bambino, due da adulto e tre nella vecchiaia). Poi Edipo scopre davvero “chi è” (l’assassino del padre, il marito della madre), lui nella sua specificità; e che avesse due o tre gambe non appare poi così importante… La filosofia non deve occuparsi solo delle questioni universali, ma anche di questa nostra unicità, del fatto che ognuno di noi è allo stesso tempo qualcosa di singolare, unico, irripetibile. Tra i due estremi di un soggetto assoluto e chiuso in sé stesso da un lato, e di una soggettività frantumata in una pluralità di impulsi non più ricomponibili dall’altro ci deve essere lo spazio per un discorso capace di parlare della nostra unicità, dei soggetti unici, concreti che noi tutti siamo.

Mauro Bonazzi – Ecco spiegata l’importanza della letteratura, come nel tuo bellissimo Tu che mi guardi, tu che mi racconti: la filosofia si è troppo spesso chiusa nel suo mondo – un mondo glorioso, certo, ma che nella sua ricerca di verità universali rischia spesso di perdere di vista la ricchezza del mondo umano, tutte le storie che si intrecciano nelle nostre vite…

Adriana Cavarero – E le storie, la storia di chi siamo, delle nostre vite, come spiegava Hannah Arendt, non ce le possiamo raccontare noi. Abbiamo bisogno degli altri per capire noi stessi. Senza gli altri non riusciremo mai a dare un significato alla nostra esistenza. In questo senso siamo esseri relazionali, fin dall’inizio (nasciamo da altri, non ci generiamo da noi stessi) e sempre, nelle nostre giornate, intessiamo relazioni con gli altri che determinano le nostre vite.

Intendendoci: l’altro non è l’Altro metafisico, né un altro generico. L’altro sei tu, in carne e ossa: sei tu che mi guardi, tu che mi racconti, sei mia madre che mi ha messo al mondo, sei la persona che amo, qui e ora. Chi sei tu? Chi sono io? Anche di questo deve occuparsi la filosofia.

Mauro Bonazzi – Insistere sulla nostra unicità significa anche riconoscerci nelle nostre imperfezioni e diversità. Siamo esseri contingenti, siamo «figli del caso», come dice il già ricordato Edipo subito prima di scoprire veramente chi è.

Adriana Cavarero – È vero, proprio come Edipo siamo fragili, vulnerabili. Anche questo fa parte della nostra condizione, inutile illudersi che non sia così.

Ma anche questa nostra fragilità ha una sua bellezza.

Forse non è così negativa, come troppo spesso si ripete…

Mauro Bonazzi – … Il paradigma vittimista, che ritorna oggi a tutte le latitudini. In effetti, c’è una tendenza fin troppo diffusa a lamentarsi della propria condizione, del destino che ci è toccato in sorte, quale che essa sia.

Adriana Cavarero – Ma anche questa vulnerabilità, i nostri limiti e persino le nostre debolezze, concorrono a determinare la nostra unicità, ciò che noi siamo concretamente. Hannah Arendt, ancora lei, scriveva: «C’è una fondamentale gratitudine per ciò che è dato». È un invito a cercare il senso di quello che si è, come si è, nella nostra singolarità incarnata. E una bella sfida.

Mauro Bonazzi – Quello della vulnerabilità è un tema caro anche a Judith Butler, una pensatrice al centro di molti dibattiti. Il suo tentativo di negare la differenza sessuale tra maschi e femmine sul piano biologico ha scatenato polemiche furibonde. So che siete molto legate, eppure constato anche una divergenza profonda su quest’ultimo punto, come peraltro spieghi molto bene nel tuo ultimo libro, scritto con Olivia Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa).

Adriana Cavarero – Con Judith siamo legate anche perché siamo in disaccordo. Non funziona così nel mondo delle idee? E infatti niente è più lontano da Judith di quella esigenza di normare e censurare parole o pensieri altrui, che ritroviamo invece in molte sue accolite e accoliti. Significativa è, per esempio, la regola di sostituire le desinenze maschili o femminili con la cosiddetta schwa – o con l’asterisco – per eliminare il più possibile il riferimento a identità specifiche che non sarebbero inclusive delle persone sessualmente fluide o trans. La difesa della vulnerabilità di queste persone si trasforma così in un sistema di disciplina e controllo sul linguaggio che le può vulnerare, con l’imposizione di regole sempre più restrittive. Si vulnera la grammatica, questo sì, e si perdono parole.

Mauro Bonazzi – Perderemmo anche noi stessi, in questo modo. Lo dicevamo prima: per capire chi siamo abbiamo bisogno delle storie che gli altri ci raccontano di noi. Ma se gli altri non possono più parlare, cosa ci racconteranno?

Adriana Cavarero – Il punto di disaccordo con Butler è la sua posizione, che vorrei chiamare “transmetafisica normativa”: una concezione della realtà che va al di là (trans, meta) del dato naturale, perché ritiene che anche il dato naturale (la distinzione maschio/femmina, nel caso specifico) sia il risultato di discorsi, non abbia consistenza reale. Il punto di disaccordo tra noi due, allora, non è soltanto la mia difesa del fatto che i sessi sono due in opposizione alla sua tesi che anche questa divisione è una costruzione culturale, e non naturale. Quello su cui non concordo sono soprattutto certe conseguenze iperindividualiste della sua tesi, vale a dire una concezione dell’individuo che si crea da sé, che decide la sua identità sessuale autopercepita. Insomma, che di sé può fare quello che vuole, prescindendo dai dati di realtà.

Mauro Bonazzi – Un’idea molto popolare nella Silicon Valley, peraltro, e che l’Intelligenza artificiale non farà che acuire, in un futuro (remoto? vicino?) in cui riproduzione e sessualità fossero finalmente separate: tutto sarà possibile, fate quello che volete.

Adriana Cavarero – All’io sovrano solitario nel suo regno continuo a preferire il noi in carne e ossa fatto da me e te, fatto da una pluralità di esseri unici in relazione concreta. Di nuovo, è uno spunto che ho letto e riletto nelle pagine di Hannah Arendt, laddove parla di felicità pubblica. La gioia di stare insieme, di agire insieme per assaporare il gusto della libertà e tentare di cambiare il mondo.

da Avvenire

Il tentativo di normalizzare il “lavoro sessuale” cede di fronte alla realtà della prostituzione

Il “lieto fine” è solo sul palco di Los Angeles dove sono stati consegnati gli Oscar: ben cinque. Perché il film più premiato del 2025 non è affatto un Pretty Baby contemporaneo. Di “grazioso” non c’è nulla. C’è una giovanissima dei bassifondi newyorchesi che balla appesa al palo in un locale notturno per poi trasferirsi nei privé per una danza più intima con l’uomo di turno. Anora è stato accolto come una rivincita delle cosiddette “sex workers” perché ne racconta senza moralismi le “normali” ore di lavoro. L’inglese The Guardian ha rincarato, spiegando che il film «è stato proposto come un segnale che la società sta compiendo un altro passo verso la normalizzazione del lavoro sessuale».

Dal canto suo, la protagonista Mikey Madison, premiata come migliore attrice, nel suo discorso di accettazione dell’Oscar ha ringraziato la comunità delle “sex workers”, che tanto supporto le ha dato nella preparazione del personaggio: «Meritate rispetto, sarò sempre un’amica e un’alleata». Che il cosiddetto “lavoro sessuale” sia di fatto normalizzato non c’è dubbio, a partire dalla stessa espressione, di conio relativamente recente, di “sex work”.

L’esplosione dell’offerta e della domanda di sesso online ha edulcorato la percezione della realtà, “sterilizzandola” e rendendola attrattiva per un certo numero di giovanissime. Infine, i contratti collettivi di lavoro entrati in vigore poche settimane fa in Belgio consolidano l’idea che vendere il corpo e l’intimità femminile possa essere considerato un lavoro come un altro. Cosa che invece non è, come dimostrano tutte le ricerche sui rischi insiti e le violenze subite dalle prostitute. Tuttavia il regista Sean Baker ha spiegato che con Anora voleva «rimuovere lo stigma che è stato posto sul lavoro sessuale. È un lavoro, è una carriera, è un modo per sostentarsi, e dovrebbe essere rispettato». Eppure.

Eppure il film premiato a Los Angeles dice tutt’altro. Innanzitutto perché mostra, per ammissione di un collettivo di spogliarelliste inglesi interpellate da The Guardian, solo una piccola parte della realtà, e non quella della maggior parte delle prostitute.

Anora-Ani infatti è libera di scegliere, di trattare sul prezzo delle sue prestazioni, ma sappiamo da decine di ricerche e libri che è il cliente pagante a comandare. Senza molti margini di manovra.

Nel film non c’è lo sfruttamento dei magnaccia, ma alla fine è uguale per lei come per tutte le prostitute: la donna ridotta a puro corpo. Lo sguardo del regista è asettico, apparentemente realistico e non giudicante: libertà d’espressione. Ma gli spettatori vedono bene l’altra gamba della questione, che riguarda la domanda maschile. In una delle scene iniziali, alla provocazione del “cliente”: «Ma i tuoi genitori sanno che sei qui?», Ani risponde: «E tua moglie lo sa?». Uomini, babbei storditi dai balli erotici, infilano bigliettoni nelle micromutande di ragazzine più giovani delle loro figlie. Sono loro ad alimentare l’industria del sesso: su di loro lo sguardo del regista sorvola. Non il nostro.

E resta la devastazione umana della giovanissima Ani-Anora: il film non racconta nulla di quello che è ma tutto di quello che fa: un fulmine a spogliarsi, una contorsionista alla sbarra della lap dance e un’amante più che disponibile. Noi non abbiamo visto in Anora nessuna «rivincita delle sex workers»: anzi, intuiamo con limpida chiarezza tutta la violenza insita nello strapazzo del corpo femminile, pur consenziente.

È violento anche lo pseudo-amore ostentato dal ragazzino russo, obnubilato dal sesso e dai suoi stessi soldi: usa Ani, la fa entrare nel suo mondo ancora più sballato di quello di lei. Ani però ci crede, nel suo sogno da “Pretty Woman” sgangherata: si aggrappa a quell’amore stile Las Vegas, lotta fino all’ultimo per la sua illusione. Non per il patrimonio del ragazzino, pargolo imbelle di una famiglia di oligarchi russi, bensì per quella favola che le aveva sventolato sotto gli occhi, insieme alle banconote, alla droga e all’alcol (spoiler ma non troppo). E la sua umanità è talmente devastata che Ani non è emotivamente in grado, alla fine, di dire un semplice grazie all’unico uomo che non aveva avuto uno sguardo di compravendita su lei, se non offrendo gratis quello che sa fare.

Eccolo, dunque, il mondo delle “sex workers”, per quello che è: la strada per l’uscita non c’è, Ani non diventerà una Pretty Baby redenta, ma resterà un piccolo ingranaggio nell’industria dell’usa e getta dei corpi femminili. Una libera scelta? Davvero non si direbbe. E comunque un destino di degrado della dignità che nessuna innovazione lessicale può imbellettare, nessun “contratto” può riscattare e rendere “umano”.

da La Sicilia

Catania. In occasione della Giornata internazionale della donna La Città felice, La RagnaTela, il Coordinamento donne Cgil, Femministorie e Udi Catania organizzano due mostre particolari nella sede della Comunità di Sant’Egidio, con ingresso da via Garibaldi 89. Si tratta di centinaia di opere di “arte postale”, o “mail art”, lavori di piccole dimensioni, poco più grandi di una cartolina, creati da artiste/i e da persone comuni che si sono impegnate sui temi specifici lanciati negli ultimi due anni: “Trame di vita trame di pace” (2024) e “Donna Vita Libertà” (2023), le parole d’ordine della rivolta delle donne iraniane.

Le opere, “esposte” lungo le pareti del salone che le ospita, appese a grappoli, legate da fili colorati, si possono anche ammirare ingrandite nei video. […] Le mostre sono curate da Katia Ricci e Rosy Daniello con le associazioni La Merlettaia di Foggia, Le Città vicine, e l’Alveare di Lecce.

L’arte postale è una forma artistica nata negli anni Sessanta, e poi sviluppatasi nel decennio successivo, basata sulla libera comunicazione, sulla reciprocità e sullo scambio creativo senza censure. Chiunque ha la possibilità di esprimersi attraverso piccole opere che vengono scambiate per posta creando così una rete di relazioni e rapporti tra il mittente/artista e il destinatario/spettatore. A partire dal 1974 alcune donne, in Inghilterra, hanno cominciato a usare anche vecchi imballaggi, a riciclare oggetti d’uso comune e ad esprimersi in omaggio alle diversità, in particolare a quella femminile, rivendicando un uso politico dell’arte contro ogni genere di discriminazione e per la giustizia sociale. La mail art – dicono le protagoniste – «è una trincea artistica contro le mode, i condizionamenti e tutte le forme di potere». E non è un caso che sia stata utilizzata da molti artiste/i perseguitate/i in varie parti del mondo, da quanti si opponevano alle dittature in Sud America agli oppositori dei regimi nei Paesi dell’Est.

Tema del 2024 è quello della pace nell’attuale drammatico contesto di guerra. “La guerra non ha un volto di donna” è il titolo di un libro di Svetlana Aleksievič che dice che «le donne sono legate all’atto di nascita, alla vita». Tante le immagini proposte dalle piccole opere della mostra “Trame di vita trame di pace”. Ci sono collage, poesie, fiori che nascono dalle ferite della terra, carte geografiche rammendate, mandala di tessuti, cactus fioriti, fili che tramano merletti di donna, scarpe di carta, mani che si stringono, bambini di tutti i colori. Le opere di “Donna Vita Libertà” sono dedicate alla rivolta delle donne iraniane che «apre ad un mondo nuovo in cui la pace è il pilastro di una società improntata ai valori materni, modello di civiltà per donne e uomini». Opere forti, drammatiche. Donne che si tagliano ciocche di capelli, forbici che squarciano chador multicolori, corpi nudi, feriti, legati da un filo rosso, e poi primi piani di donna, e altre donne che corrono libere a braccia aperte sulla spiaggia, che si prendono per mano, che alzano il pugno chiuso sul volto magnifico dell’Annunciata di Antonello da Messina.

«Una mostra – sottolinea Anna Di Salvo, una delle organizzatrici – importante per il suo valore relazionale dal momento che mette insieme donne da ogni parte d’Italia e perché favorisce la circolazione delle opere attraverso i centri in cui vengono ospitate».

(La Sicilia, 7 marzo 2025)

Nota. È ancora in corso, fino al 15 aprile, la raccolta della Mail art 2025, dedicata a “Amore e/è politica”: https://www.libreriadelledonne.it/altri_luoghi_altri_eventi/mail-art-amore-e-e-politica-entro-il-15-aprile-2025/ (Ndr sito)

da Agenzia Cult

Una voce che continua a interrogare il presente

Ci sono voci che attraversano il tempo senza perdere urgenza, che sembrano disperdersi ma tornano con rinnovata intensità, capace di interrogare il presente, e Carla Lonzi ne è un esempio. Nata a Firenze nel 1931 e morta a Milano nel 1982, Lonzi ha attraversato il secondo Novecento con uno sguardo tagliente, sempre teso a mettere in discussione i codici della cultura dominante, facendo della scrittura un gesto radicale di autenticità. Fondatrice di Rivolta Femminile, nei primi anni Settanta ha dato vita a una casa editrice che è stata molto più di un marchio editoriale: uno spazio di elaborazione collettiva e un luogo di parola in cui il femminismo ha preso corpo e si è fatto linguaggio. I suoi libri – Sputiamo su Hegel (1970), il Manifesto di Rivolta Femminile e Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) – hanno segnato generazioni di lettrici, aprendo possibilità di libertà e nuove forme di vita.

Negli ultimi anni l’interesse per la sua opera si è rinnovato grazie a un importante lavoro editoriale, prima con le ripubblicazioni di Et al. Edizioni, poi con La Tartaruga, che ha avviato la pubblicazione dell’opera completa sotto la cura di Annarosa Buttarelli. In questa direzione si inserisce anche Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, edito da Moretti & Vitali nella collana Pensiero e pratiche di trasformazione, che esplora il rapporto tra scrittura e soggettività nell’opera di Lonzi, restituendone la complessità e l’attualità.

La scrittura come pratica di trasformazione

Il corpo delle pagine è un libro prezioso sia per il valore introduttivo alla vicenda intellettuale e politica di Carla Lonzi, sia e soprattutto per il suo taglio inedito, che mette al centro la scrittura come pratica viva, processo in divenire, luogo di trasformazione. Per Carla Lonzi scrivere era un atto primario, un gesto continuo e necessario che ha accompagnato ogni giorno della sua vita sin dall’infanzia. Non un semplice strumento di espressione, ma il luogo stesso in cui la soggettività prende forma, in cui il pensiero si fa esperienza concreta, mai separato dalla vita. Il libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini esplora questa materia viva, arrivando al cuore della scrittura lonziana e restituendone tutta la forza trasformativa e il carattere radicale.

Questa ricerca si manifesta con particolare evidenza nell’ultimo capitolo, una conversazione tra le due autrici che non si limita a un confronto teorico, ma si fa pratica, esperimento, esposizione. Qui la riflessione su Carla Lonzi si traduce in un atto che richiama l’autocoscienza femminista, un dialogo che diventa esperienza di scrittura, in cui il pensiero si incarna nella relazione tra le due autrici. Raccontare Lonzi significa infatti misurarsi con un pensiero non separato dalla vita, una parola che nasce dal corpo e al corpo ritorna. Il libro diventa quindi un’esperienza di scrittura che si fa carico del suo senso più profondo, trasformandosi in un corpo a corpo l’eredità lonziana.

A confermare il valore del volume è anche la preziosa bibliografia conclusiva, che per la prima volta raccoglie in ordine cronologico tutte le sue pubblicazioni, comprese le edizioni successive, le traduzioni in lingua straniera e i testi apparsi su periodici e quotidiani. Si tratta di un repertorio inedito, che assume un’importanza fondamentale come strumento di consultazione e cometraccia del percorso di Carla Lonzi, un lavoro che rende questo libro ancora più prezioso nel panorama della riscoperta lonziana, offrendo finalmente una mappa per orientarsi nella sua opera.

Scrittura, autocoscienza, libertà

Il libro ripercorre i temi fondamentali del pensiero e della pratica di Carla Lonzi, restituendo la forza della sua critica alla cultura patriarcale. Il gesto di scrivere, per Lonzi, non è mai stato separato dalla vita, né concepito come un prodotto da offrire al consumo culturale, ma piuttosto come un atto politico e trasformativo, un processo continuo di autocoscienza attraverso il quale sottrarsi all’ordine simbolico maschile e costruire un linguaggio proprio, capace di esprimere un’esperienza femminile autonoma. Per questo la scrittura non è per lei un semplice strumento espressivo, ma il luogo della libertà, della rottura con le aspettative imposte e della costruzione di una soggettività non conforme ai modelli patriarcali della femminilità. La differenza femminile, in questa prospettiva, non è un dato biologico o un’identità predefinita, ma la possibilità di significare liberamente il proprio essere donna, sottraendosi alle strutture del dominio e ai modelli imposti.

Nel contesto degli anni Sessanta e Settanta, questa presa di parola prende forma nell’esperienza dei gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne iniziano a riconoscersi reciprocamente come soggetti autonomi ribaltando il paradigma della storia: da sempre raccontate da altri, le donne cominciano a trovare parole fedeli alla propria esperienza, fuori dalle categorie della cultura maschile. In questo quadro, Carla Lonzi sviluppa una riflessione che sposta l’attenzione dal prodotto finale della scrittura alla sua pratica, dove non è l’opera compiuta a essere imprescindibile, ma il processo, la relazione tra le donne, la parola che circola senza farsi sistema.

Scrittura, parlato e registrazione: un nuovo rapporto con il tempo

Proprio su questa tensione tra scrittura, parlato e presenza si innesta l’originalità del libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, che esplora in profondità un aspetto ancora poco indagato nel pensiero lonziano: l’uso della registrazione come strumento di autocoscienza e di rifiuto della linearità del discorso. Carla Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile utilizzano la registrazione come pratica fondativa del loro processo creativo, non solo per documentare il confronto nei gruppi di autocoscienza, ma anche per sovvertire il rapporto tradizionale tra parlato e scritto, tra presenza e memoria. In questo libro, le autrici riprendono e analizzano questa pratica, mostrando come la registrazione introduca una frattura nel tempo lineare, interrompendo la logica della produttività e aprendo la possibilità di ritornare continuamente sulle parole e recuperare ciò che rischia di essere rimosso o scartato. «L’uso della registrazione spezza l’ordine cronologico, poiché consente di tornare continuamente su quanto avrebbe potuto essere scartato, rimosso ed è in grado in questo modo di aprire al nuovo, all’imprevisto». [1]

Questo slittamento temporale è fondamentale nel pensiero lonziano, poiché mette in discussione l’idea di storia come processo lineare e progressivo. Le donne, escluse dalla narrazione storica, possono far leva su questa assenza, evitando la trappola dell’integrazione in un sistema che le ha sempre relegate ai margini: «La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo?» [2]

L’assenza femminile dalla storia non è una mancanza da colmare, ma un punto di partenza per costruire un altro modo di stare nel mondo, un’altra temporalità, che non risponda alle logiche del progresso e della produttività capitalista. In questo senso, la registrazione diventa uno strumento di attivazione del passato nel presente, un modo per riarticolare il rapporto tra sé e il tempo, sottraendosi alla fissità del già detto e del già scritto.

Nel loro dialogo le autrici mostrano come questa concezione del tempo sia ancora oggi politicamente necessaria. La possibilità di interrompere la linearità storica, di rifiutare l’integrazione in modelli prestabiliti, di rimanere fedeli a una ricerca di autenticità che non accetta compromessi è una questione ancora aperta, una pratica che riguarda tutte le soggettività non conformi.

Un libro che è anche esperienza

Ciò che rende Il corpo delle pagine un libro esemplare è la capacità di tenere insieme l’analisi teorica e l’esperienza vissuta e questa tensione trova la sua massima espressione nell’ultimo capitolo, che segna un punto di svolta nella lettura. Qui il testo abbandona la forma più tradizionale dell’analisi critica per farsi spazio di esperienza, mettendo in atto un confronto diretto tra le due autrici. Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, infatti, scelgono di pubblicare tre giorni di dialoghi tra loro. Il punto di partenza di questa conversazione è la mostra mai realizzata su Carla Lonzi, un progetto a cui la sorella Marta Lonzi ha lavorato dal 1997 al 2004. L’assenza di questo originale, il suo perenne differimento, diventa una chiave di lettura per l’intero libro e per il modo in cui il pensiero di Lonzi continua ad agire nel presente. Come scrivono le autrici: «A partire dallo studio dei materiali d’archivio e dall’immaginare una mostra mai realizzata, un originale assente, la nostra conversazione andava soprattutto tornando sugli aspetti del pensiero e della pratica di Lonzi non storicizzabili, quelli in grado di illuminare, ancora oggi, il nostro posizionarci, spesso con scomodità, rispetto alla cultura e alle sue istituzioni». [3]

Il confronto tra le due studiose è una riflessione sulla loro stessa esperienza politica e intellettuale, sulla possibilità di praticare oggi un pensiero non addomesticato, che non risponda alle logiche di efficienza e produttività che regolano il mondo accademico e culturale: «Il nostro tempo di scrittura, di pensiero e di progettazione è incontrovertibilmente incompatibile con i tempi e i modi attuali del lavoro intellettuale». [4]

Questa tensione è parte dell’eredità lonziana: il rifiuto di aderire a forme imposte di sapere, il privilegiare un rapporto tra soggettività che sia espressione di libertà e non di funzione. Il dialogo finale del libro è un corpo a corpo con i limiti e le contraddizioni del presente. Il differimento, quella continua sospensione tra il desiderio e la sua realizzazione diventa una forma di resistenza, non un fallimento: «Se si intende tenere legati il senso di sé e il proprio fare, pensando alle nostre esistenze come espressioni di questo legame […], non si può che esporci maggiormente al fallimento della mancata realizzazione». [5]

In questo libro, il pensiero di Carla Lonzi non è un archivio da esplorare ma una pratica da esperire, un modo di stare al mondo e di stare nella scrittura. Il dialogo tra le due autrici, proprio come le deregistrazioni di Rivolta Femminile, si fa gesto politico, abbandona la rigidità del saggio per restituire un movimento, un processo, un’apertura. Un esempio concreto di come la scrittura possa essere ancora oggi un atto radicale di autenticità.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, Moretti&Vitali, Bergamo 2024, p. 85

[2] Ibid., p. 86 dove si riporta la citazione di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974

[3] Ibid., p. 186

[4] Ibidem

[5] Ibid., p. 187

Abstract:

Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi by Linda Bertelli and Marta Equi Pierazzini explores Lonzi’s writing as a political and transformative act. Founder of Rivolta Femminile, Lonzi saw writing not as a finished product but as an ongoing process of self-awareness and liberation from patriarchal structures. The book’s originality lies in its analysis of her use of recording as a tool for collective consciousness, breaking linear time and traditional discourse. The final chapter, a dialogue between the authors, embodies this method, merging theory and experience. With a comprehensive bibliography, the book is both an introduction and a critical engagement with Lonzi’s work, reaffirming her legacy and the radical power of writing as an act of resistance.

da Internazionale

“Essere una donna” dice l’artista sul palco davanti a me, “non significa che io sono qui solo per crescere figli. Significa che sono qui per scrivere la storia. Noi donne possiamo parlare. Possiamo cantare. Nessuno ci ridurrà al silenzio”. Intorno a me esplode un boato di approvazione.

Mi trovo in un’enorme sala conferenze ad Hasakah, nel nordest della Siria. Sul palco c’è Mizgîn Tahir, una cantante dai capelli ricci e corti, in gonna e stivali. Le donne in platea sono vestite in modi diversi: lunghe vesti curde ricamate di lustrini, foulard con cappotti semplici, copricapi yazidi ornati di perline. Tutte applaudono. Tahir ha concluso il suo intervento e sta tornando al posto, ma il pubblico non glielo permette. «Canta per noi!», grida. «Canta!». Lei si volta, afferra il microfono e comincia a cantare. La sua voce intensa riempie la sala. Quando finisce, tutte le donne si alzano in piedi e intonano «Jin, jîyan, azadî» (Donna, vita, libertà), con la mano destra alzata in segno di pace.

Sono arrivata in questa sala conferenze il mio secondo giorno nel nordest della Siria, la regione nota come Rojava. (*) Il viaggio mi ha portato dal Kurdistan iracheno attraverso il fiume Tigri, dove gli aironi bianchi solcano le acque lente, fino allo spoglio paesaggio invernale della Siria settentrionale. Campi aridi si estendono a perdita d’occhio, l’aria è densa di fumo per il petrolio in fiamme e ogni pochi chilometri uomini armati ai posti di blocco scrutano chiunque passi. Per questo essere qui, circondata da tante donne piene di determinazione e passione, mi infonde energia e calore.

Tutto il mondo ha guardato i siriani festeggiare la caduta del brutale regime di Bashar al Assad. Anche in Rojava la popolazione ha festeggiato, contenta di vedere la fine di un governo che aveva portato tanta sofferenza. Anche qui sono state abbattute le statue e le persone sono scese in strada, mentre altre hanno pregato per il ritorno dei loro cari scomparsi nelle prigioni del regime. Ma la situazione in Rojava è diversa dal resto della Siria. Innanzitutto da qui il regime si era già ritirato. Nel 2012, mentre in altre parti della Siria le rivolte erano soffocate nel sangue, una ribellione guidata dai curdi ha preso il controllo della maggior parte di quest’area. È nata così un’amministrazione autonoma, oggi conosciuta come Amministrazione autonoma della Siria del nordest (Daanes). La Daanes ha dovuto affrontare sfide continue. Tra il 2014 e il 2019 il gruppo Stato islamico (Is) ha scatenato il panico in tutta la regione, e migliaia di prigionieri jihadisti sono ancora detenuti in campi sovraffollati creati in questa zona. Il governo turco, che accusa l’Amministrazione di essere alleata con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, il gruppo militante curdo attivo nell’est della Turchia, non ha mai smesso di attaccarla e oggi occupa alcune aree del nord della Siria dove ha recentemente intensificato raid aerei e offensive condotte tramite milizie locali. Anche se gli Stati Uniti hanno sostenuto la lotta della Daanes contro l’Is, nessuno nella comunità internazionale la riconosce come governo. Eppure è andata avanti più di dieci anni, e non solo. I suoi coraggiosi esperimenti di condivisione del potere e di democrazia diretta l’hanno resa una fonte d’ispirazione per molti socialisti e molte femministe. 

Impegno incrollabile

Sono qui proprio per capire meglio questi esperimenti, perché sto scrivendo un libro che ruota attorno a una domanda: di quale femminismo abbiamo bisogno oggi? In un mondo in cui misoginia, conflitti e crisi ambientale sono in crescita, dove si riuniscono ancora le donne, nonostante tutte le avversità, nella speranza di creare un mondo migliore? Come stanno procedendo? Che possibilità di successo hanno? Anche se qui non è sempre facile capire dove finisce la retorica e comincia la realtà, una cosa mi è subito chiara: queste donne sono probabilmente le femministe più determinate che abbia mai incontrato. 

«Questa è una rivoluzione delle donne», dichiara Rihan Loqo, la prima relatrice della conferenza. Rappresenta Kongra Star, la rete femminile del Rojava che mi ospita durante il soggiorno. Parla con sicurezza e un sorriso aperto, avvolta in un lungo abito verde e oro, i capelli scuri sciolti sulle spalle. «È una lotta storica contro ogni forma di violenza, contro ogni oppressione», afferma. 

Lo slogan Donna, vita, libertà è nato in Rojava, ma le azioni di queste donne vanno molto oltre. Un giorno incontro Leyla Saroxan, copresidente del comitato locale per l’agricoltura e l’economia. Già il suo titolo rivela un aspetto cruciale: le strutture di governo del Rojava si basano su una divisione del potere rigorosamente paritaria tra uomini e donne. Il sistema prevede una rete articolata di comitati e consigli, dal livello di quartiere a quello regionale, ciascuno con due copresidenti, un uomo e una donna. In altre parole, l’Amministrazione potrebbe essere il modello politico più paritario al mondo. 

Nonostante il suo aspetto austero (un foulard beige, un vestito nero e scarpe lucide) Saroxan è chiaramente guidata dalle idee progressiste che circolano qui. «La maggior parte degli stati nel mondo si regge su princìpi capitalistici. Il principio da cui partiamo qui è quello di un’economia sociale. Ci chiediamo come servire i bisogni delle persone, non solo come fare soldi», afferma con decisione. 

Mentre discutiamo quanto sia davvero possibile, un giovane entra ed esce, portandoci tè e caffè. L’interprete fa una battuta sui ruoli di genere e Saroxan ride: non devono essere solo le donne a ricoprire ruoli che sfidano la tradizione, devono farlo anche gli uomini. Ammette di essere stata spesso interrotta mentre parlava dagli uomini intorno a lei, ma di aver continuato a fare il suo lavoro e a mantenere la sua posizione. 

Il suo impegno incrollabile per i diritti femminili la rende scettica nei confronti del nuovo governo di Damasco. Non è l’unica. Anche se hanno accolto con sollievo la caduta di Assad, ora le donne qui si sentono sull’orlo di un precipizio. Non sanno se questi leader politici rispetteranno i progressi che hanno compiuto né cosa farà la comunità internazionale per sostenerle o ostacolarle. 

Il gruppo che ha rovesciato il regime di Assad, Hayat Tahrir al Sham (Hts), è guidato da Ahmed al Sharaa, un ex esponente di Al Qaeda in Iraq. Nelle aree della Siria un tempo sotto il controllo dell’Hts sono state registrate pratiche di segregazione di genere e abusi contro donne e minoranze, ma ora Al Sharaa e i suoi alleati cercano di presentarsi con un volto molto più moderato. Saroxan ci crede? No. «Dobbiamo essere realistiche su chi sono. Tutti gli esponenti di spicco dell’esercito che ha sconfitto il regime in passato erano criminali e islamisti». Altre mi raccontano con orrore del video diffuso sui social media, in cui il nuovo ministro della giustizia sovrintende all’esecuzione di due donne nel 2015. E parlano con timore della stretta relazione tra i nuovi leader siriani e il governo turco.

Quando chiedo a Saroxan quale sia la sua opinione sulla libertà religiosa, risponde in modo pratico. «Io porto il velo, la mia amica no», dice, indicando una collega a capo scoperto, «però lavoriamo insieme». Passeggiando per Hasakah e Qamishli, due delle principali città della regione, noto che la maggior parte delle donne non indossa il velo. Nei negozi, nei caffè e all’università camminano da sole o con le amiche, fumano il narghilè nei locali e ballano per strada alle manifestazioni. 

Durante un’animata protesta contro il femminicidio a cui partecipo un giorno a Qamishli sotto il sole di mezzogiorno, mi ritrovo a parlare con un gruppo di ventenni. Chiedo a una, Iman, cosa vorrebbe che si sapesse di loro all’estero. «Che non torneremo indietro», risponde senza esitare. «Abbiamo fatto tanta strada. Abbiamo combattuto, facciamo ogni tipo di lavoro. Il nuovo governo deve ascoltarci».

Il giardino della lettura

Questa determinazione non è frutto del caso. Le donne hanno costruito consapevolmente la loro rivoluzione, partendo dal basso. Un giorno visito una mala jin, una casa delle donne, a Qamishli. Questi spazi sono stati creati per offrire supporto e protezione alle vittime di violenza domestica o a persone coinvolte in dispute familiari. La responsabile del centro, Bahiya Mourad, è una signora sulla sessantina con un sorriso sempre pronto. «Le prime mala jin sono nate nel 2011», racconta, «quando il regime di Assad ancora controllava Qamishli. Un giorno le autorità vennero e ci ordinarono di chiudere. Prendemmo dei bastoni e le cacciammo via». Mourad e le sue colleghe sono andate di casa in casa, contribuendo a creare tra le donne una consapevolezza dei loro diritti.

All’inizio erano poche a rivolgersi ai centri. «All’epoca», dice Mourad, «non conoscevamo la nostra forza. Tutte temevano le conseguenze se avessero cercato di farsi avanti. Potevano perdere i figli, subire ritorsioni». Negli ultimi tredici anni la situazione è cambiata radicalmente. Mourad e le sue colleghe sono andate di casa in casa, contribuendo a far diventare le donne consapevoli dei loro diritti. Racconta con un sorriso un episodio dei primi tempi. Avevano saputo di una giovane tenuta prigioniera nella casa del fratello. Lei e un’altra signora più anziana bussarono alla porta dicendo di cercare un posto per pregare. Una volta dentro, chiesero della ragazza e convinsero il fratello a lasciare che la aiutassero. Le trovarono un lavoro. «Abbiamo cambiato la sua vita e quella della famiglia. Ci hanno fatto entrare pensando: che male potranno mai fare due vecchie? Ma il potere delle donne è grande. Sono anziana ma agguerrita». 

Mi raccontano che dieci anni fa aiutavano una o due donne al mese; oggi il numero è salito a cento. Ora, per esempio, esistono leggi contro i matrimoni precoci, e quando vengono a sapere che una ragazzina sta per sposarsi, vanno a convincere la famiglia a ripensarci. Si occupano anche dei casi in cui un ragazzo e una ragazza s’innamorano e vogliono sposarsi contro il volere dei genitori. «Spesso finiamo per ballare ai loro matrimoni».

La trasformazione politica è stata guidata dalle donne curde, per le quali l’emancipazione è intimamente connessa alla riappropriazione della loro identità curda. Durante la conferenza mi si avvicina una signora dall’aria seria, Anahita Sino. È copresidente del sindacato degli intellettuali e vuole capire cosa abbia portato una scrittrice britannica nel nordest della Siria. Qualche giorno dopo vado a casa sua, un tranquillo appartamento a Qamishli. Sedute sui divani disposti lungo le pareti della stanza, insieme alla figlia e al marito, parliamo di libri e di libertà. La cultura curda è stata talmente repressa sotto il regime di Assad che lei e altri scrittori erano costretti a scrivere poesie e racconti a mano, nascondendo i fogli tra i vestiti e distribuendoli di casa in casa. «Quando organizzavamo le letture piazzavamo dei ragazzi sui tetti e agli angoli delle strade per avvisarci se arrivava la polizia». 

Sino e i suoi colleghi hanno allestito una biblioteca in un giardino, uno spazio di incontro per scrittori e lettori. Qualche giorno dopo vado a visitare questo “giardino della lettura”. Qamishli è una città caotica e inquinata, ma qui le aiuole di rose sono bordate di ciottoli bianchi e gli eucalipti schermano la strada. Al centro ci sono la biblioteca, una sala lettura e una fontana, asciutta a causa della scarsità di acqua, a forma di albero e di libro. La cura con cui lo spazio è stato creato è evidente. Sino mi regala uno dei suoi libri, dicendomi che parla d’amore. «Gli scrittori non possono lavorare senza libertà», afferma. «Neanche in occidente sono sempre liberi di dire quello che vogliono. Dobbiamo lottare per la nostra libertà ovunque». 

Fuori della gabbia

Ma la trasformazione qui non riguarda solo le donne curde. Quella siriana è una società incredibilmente variegata, dove armeni, siriaci, turkmeni e altre minoranze etniche e religiose convivono con la maggioranza araba. Georgette Barsoum, una donna cristiana siriaca, mi ricorda che anche queste minoranze erano oppresse dal regime di Assad, «che ci ha minacciato fino alla fine. Quando è caduto è stata una felicità indescrivibile: mi sono sentita come un uccello che vola fuori della gabbia».

Barsoum ci tiene inoltre a ricordarmi che le donne siriache, insieme ad altre, hanno partecipato e sostenuto l’Amministrazione autonoma della Siria del nordest fin dall’inizio. Tuttavia non mancano le voci critiche, secondo cui lo scarso sostegno all’Amministrazione tra la popolazione araba nel nordest della Siria è un segno dei suoi limiti, e che sottolineano altri problemi. Come per esempio lo stretto legame tra il Partito dell’unione democratica (Pyd), dominante nell’Amministrazione, e il Pkk, considerato un’organizzazione terroristica da molti paesi, che ostacola il riconoscimento internazionale. Oppure il fatto che l’impegno del Pyd in favore della libertà di espressione e del dissenso politico non è sempre effettivo, e che all’Amministrazione sono state rivolte accuse di violazioni dei diritti umani, tra cui maltrattamenti su alcuni prigionieri dell’Is. 

Altri sono semplicemente scettici sul fatto che la Daanes sia riuscita a realizzare le sue promesse. Pensano che l’avanguardia femminile della rivoluzione non abbia ancora ottenuto i profondi cambiamenti culturali necessari. «Questa rivoluzione delle donne funziona per alcune», mi dice una scrittrice che chiamerò Aliya. «Ma non per la maggior parte». Aliya lavora nel settore dell’informazione e racconta che il suo stile di vita emancipato l’ha portata a scontrarsi con alcuni uomini e con la sua famiglia. «Gli uomini dicono di accettarlo, ma poi finiscono per sposare una ragazza con valori tradizionali. Non si può cambiare una società così in fretta». 

In questo momento di transizione, tutto – ogni progresso, ogni fallimento – è motivo di dibattito. Però, mi ha colpito il fatto che nessuna delle persone con cui ho parlato desideri che l’amministrazione autonoma sia separata dal nuovo governo siriano. Tutti affermano di voler far parte di una Siria in cui le donne e le minoranze possano godere dei loro diritti. Molte spiegano che il federalismo democratico dell’Amministrazione e la condivisione del potere su base paritaria di genere possono essere un modello per tutta la Siria. Ma nessuna ha la certezza che questo possa accadere e alcune si stanno preparando a combattere. Come ha detto Rihan Loqo alla conferenza: «Abbiamo pagato questi progressi con centinaia di martiri, e combatteremo per difenderli». 

Questione di sicurezza

Non è solo retorica. In occidente abbiamo visto le immagini delle soldate curde, con i capelli scuri intrecciati e i kalashnikov, che hanno avuto un ruolo cruciale nella sconfitta dell’Is. Nel 2014 le Unità di protezione delle donne (Ypj) hanno affrontato la forza più misogina del mondo e gli è stato riconosciuto il merito di aver ribaltato le sorti della battaglia a Kobane. Ora le Ypj fanno parte delle Forze democratiche siriane (Fds), l’esercito della Daanes, attualmente impegnato in delicati negoziati su un’eventuale integrazione in un nuovo esercito nazionale siriano guidato da Damasco.

Quello che non avevo compreso prima di venire qui è quanto siano celebrate le combattenti. Mizgîn Tahir, per esempio, dice con il suo tipico slancio: «Perché nessuno può mettermi a tacere? Perché le Ypj mi appoggiano». Ovunque vedo ritratti delle soldate cadute affissi sui muri. Più volte il canto Jin, jîyan, azadî si trasforma nel più aggressivo şehîd namirin (i martiri non muoiono mai).

Un pomeriggio visito il quartier generale delle Ypj a Hasakah. Mi accoglie una delle portavoce, Ruksen Mohammed, una giovane dall’aria pensierosa, insieme ad altre combattenti delle Ypj e della forza di difesa civile femminile. Beviamo il tè e discutiamo di femminismo e guerra. Mohammed considera le incursioni dell’Is in Rojava come un attacco deliberato ai progressi delle donne: «Ci hanno attaccate perché avevamo un ruolo di avanguardia nella società». Sono orgogliose di quello che hanno realizzato. «Non abbiamo sconfitto l’Is solo per noi, ma per l’umanità e per il mondo. Stiamo lottando per un domani libero per tutti».

Quando dico che riconosco il loro coraggio ma fatico ad accettare l’esaltazione del militarismo, accolgono con entusiasmo la discussione. Una combattente delle Ypj rilancia con la storia del femminismo nel Regno Unito: «Quando è stato necessario, anche le suffragette hanno scelto la militanza». Un’altra aggiunge che è una questione di sicurezza: «Se non possiamo difenderci, sappiamo quali sono i rischi. Cosa può succederci? Guarda le donne in Afghanistan, in Iran. Non prendiamo le armi perché ci piacciono, ma perché siamo costrette».

Ho la sensazione che troppo spesso, quando in occidente si discute del futuro siriano, questo appassionato femminismo sia completamente trascurato. Forse è troppo curdo. Forse è troppo militarizzato. Forse è troppo socialista. Forse è semplicemente troppo improbabile. Forse quello che gli osservatori occidentali vogliono quando pensano al femminismo in Medio Oriente è qualcosa di più educato, meno deciso, meno arrabbiato? Eppure, ogni giorno che trascorro nel nordest della Siria – che sia in una università o in un comitato per la giustizia, in una facoltà di ecologia o a una manifestazione – resto senza fiato davanti alla profonda dedizione con cui le donne sostengono quello che hanno creato. Come ha detto la femminista statunitense Robin Morgan: «Puoi fingere un orgasmo, ma non puoi fingere un movimento». Che parlino di dee mesopotamiche o di Rosa Luxemburg, del loro odio per l’occupazione turca o dell’amore per la libertà, l’irriducibile desiderio di difendere i loro diritti risuona forte e chiaro.

Un luogo speciale

Un pomeriggio viaggio per un paio d’ore da Qamishli a Jinwar. Nato come centro d’accoglienza, è un villaggio dove vivono circa venti famiglie di donne e bambini. Tra loro ci sono una yazida sopravvissuta al genocidio con suo figlio e altre persone che hanno bisogno della solidarietà di questo luogo speciale. Le casette hanno ciascuna un giardino, le donne coltivano erbe e ortaggi, e contribuiscono alle attività del villaggio, come infornare il pane e produrre rimedi erboristici tradizionali. Cammino nella luce del pomeriggio, respirando un’aria più dolce. Sul forno c’è un disegno di Nisaba, l’antica dea mesopotamica della scrittura e del grano. Più volte durante le conversazioni le donne hanno ricordato di essersi ispirate all’idea che, prima del patriarcato, in questa regione c’erano antiche società egualitarie in cui le donne condividevano il potere con gli uomini. A Jinwar hanno cercato di incarnare quelle tradizioni in una nuova forma.

Salgo sul tetto di una casa. Da quassù il villaggio sembra piccolo, quasi perso nella pianura che si estende fino al confine turco. Da un lato c’è un boschetto di melograni e ulivi, tra i cui rami cinguettano fringuelli; in un campo pascolano mucche e pecore. In questa terra martoriata, Jinwar sembra un’oasi di speranza. Sotto di me donne e bambini si radunano intorno a un fuoco: tostano frutta secca e semi, ridendo al tramonto. Donne di fedi e storie diverse possono condividere la cura dei figli, della terra e di loro stesse. Le loro risate si mescolano, salendo nell’aria fredda.

Ripenso alle parole di una delle poche arabe intervenute alla conferenza. Shah­ra­zad al Jassem, del gruppo Zenobiya, che riunisce le donne arabe del nordest della Siria, ha parlato con fermezza: «Non faremo passi indietro, non perderemo i nostri diritti, costruiremo una Siria fondata sui diritti femminili, abbiamo acceso una nuova fiamma». Nella tenue luce dorata, ascolto le risate delle donne e spero, con tutto il cuore, che la fiamma che hanno acceso possa resistere.

Natasha Walter è una scrittrice e attivista britannica, tra le fondatrici di Women for refugee women, un’associazione per i diritti delle donne che chiedono asilo politico nel Regno Unito.

(*) Rojava. Dalla rivoluzione all’inclusione (scheda):

– In Siria i curdi costituiscono tra il 7% e il 10% della popolazione. Prima della rivoluzione del 2011 vivevano in condizioni di marginalità a Damasco, Aleppo e intorno a Kobane, Afrin e Qamishli.

– Nel 2012 i curdi siriani hanno espulso l’esercito e le autorità di Damasco da tre zone del nord del paese. Nel 2014 hanno istituito l’Amministrazione autonoma del nordest della Siria, nota come Rojava.

– Nel settembre 2014 il gruppo Stato islamico (Is) ha attaccato Kobane, ma è stato respinto dai combattenti curdi e dai loro alleati. Le Forze democratiche siriane (Fds, un’alleanza a maggioranza curda sostenuta dagli Stati Uniti) hanno combattuto contro i jihadisti fino alla loro sconfitta nel marzo 2019.

– Dal 2016 l’esercito turco e l’Esercito nazionale siriano (Sna, una milizia sostenuta da Ankara), hanno lanciato varie operazioni militari contro le Fds e conquistato centinaia di chilometri lungo il confine.

– Dopo la caduta di Bashar al Assad nel dicembre 2024, l’Sna ha lanciato una nuova offensiva contro le Fds.

– Il leader siriano Ahmed al Sharaa ha promesso di formare un governo inclusivo e ha chiesto a tutte le fazioni armate di deporre le armi. Sono in corso negoziati con le Fds per trovare una soluzione per il nordest della Siria.

(Bbc, Rojava information center)

(Pubblicato con il titolo La resistenza femminista, https://intern.az/1LMqInternazionale, 7 marzo 2025, da The Guardian, 9 febbraio 2025)