Da Il Fatto Quotidiano – Voi ebrei! Anche lei a usare il plurale? Abbiamo perso l’identità, è andata al macero la storia personale, la reputazione personale, la memoria e anche, se permette, il senso della misura. Questo flagello quotidiano è insopportabile.
Edith Bruck, potrei controbattere dicendo che ogni critica a Israele, anche la più fondata e prudente, è spesso tacciata di essere freccia nell’arco degli antisemiti.
Non lo sentirà mai da me come del resto sono pronta a riconoscere che Netanyahu sia la vera disgrazia, il cappio al collo di Israele, la frusta che allontana quella terra dalla pace. La insozza di sangue, la tiene in preda a una nevrosi quotidiana. Io contesto e duramente la politica di quel governo, come lo contesta la maggioranza degli israeliani. Altro che voi ebrei!
Si sente particolarmente afflitta dal timore di essere ricompresa in quella che viene accusata d’essere la trincea oltranzista, quella di chi lotta per allontanare la pace e non la guerra?
Un giorno Calvino mi venne a trovare a casa e mi disse: voi ebrei. Gli risposi a brutto muso: Italo, voi chi? C’è qualcosa in più dell’approssimazione, c’è un giudizio, e troppo spesso spregiativo, sull’insieme, sul popolo. È questo che offende. Un ebreo ricco non vuol dire che ogni ebreo è ricco. Se quel tizio è particolarmente rapace, nessuno è autorizzato a pensare che siamo un popolo di Rasputin.
Pensa che il “voi” che lei sente affibbiato addosso abbia un tratto schiettamente razzista?
Anche mio marito un giorno mi disse: voi ebrei. È proprio dentro non al linguaggio ma all’animo, alla coscienza collettiva. E questo è il vero dramma.
Ha letto degli ultimi incredibili fatti di sangue?
Mostruoso! Immettere dentro i cerca-persone cariche di esplosivo per compiere una strage è sinceramente un atto barbarico.
Si dice che sia stato Israele.
Israele dice di no.
Tutti i sospetti portano al Mossad, il servizio segreto di Tel Aviv.
Israele ha il problema di Netanyahu e costui alimenta la guerra perché è il suo unico modo per rimanere sulla poltrona. Per lui rimanere sulla poltrona significa anche allontanare i processi.
La questione personale del primo ministro, condivisa dalla compagine di governo, diviene la bomba su cui esplode il conflitto con i palestinesi?
Io penso così e dico di sì. Il governo di Israele non sembra avere altra chance e non sembra avere altro interesse che proseguire la guerra infinita con i palestinesi.
Hamas è l’autore della strage dei civili israeliani portata a termine il 7 ottobre scorso. Barbarica, indicibile, disumana. La risposta di Israele è altrettanto terribile: Gaza rasa al suolo, la striscia occupata, 40mila morti nella parte palestinese. Non crede che Israele stia tirando troppo la corda?
Credo che Israele sia piegato a questa malvagia dottrina della guerra in permanenza. E credo pure che la maggioranza degli israeliani, parlo del popolo, rifiuti di dare spazio unicamente alle bombe. Le bombe producono altre bombe.
C’è un modo per fare la pace?
Un modo c’è: dare ai Palestinesi uno Stato, una terra su cui issare la propria bandiera. Solo così ci sarà pace.
La sua idea non ha molte speranze di successo. Da quanto manca da Israele?
Sono oramai quarant’anni. Ho lasciato lì un nipote che mi racconta della nevrosi collettiva, del fatto che non si vive più ma si corre da un rifugio all’altro, da una crisi all’altra, da un’allerta all’altra. È un popolo in preda alla paura, un popolo nevrotico e non potrebbe essere altrimenti. Anche questo bisogna valutare quando si giudica.
Lei lasciò Israele per non arruolarsi nell’esercito…
Chi ha conosciuto i campi di concentramento può accettare di indossare una divisa militare? Corsi via, sbarcai a Napoli dopo aver sposato un marinaio solo per ottenere la cittadinanza. A Napoli incrociai gli sguardi amichevoli, quegli occhi e quei sorrisi, gente sconosciuta che però mi fecero sentire subito a casa. Capii allora che l’Italia sarebbe stata il mio Paese. E sono stata felice e fortunata.
Com’è cambiata l’Italia da quando è stata accolta?
Era sorridente ed è divenuta ombrosa. Era generosa, ora è egoista. L’Italia ha avuto una regressione anche nei comportamenti, nella postura collettiva. Non è un caso che oggi la guidi una donna della destra estrema e non è un caso che ci sia Salvini al governo.
Lei dice purtroppo?
Putroppo, sì. L’Italia è cambiata in peggio. E si vede!
Da Facebook – Papa Francesco critica la democratica Kamala Harris di essere favorevole all’aborto e la paragona a Trump in quanto contrario all’immigrazione. Sostiene che ambedue sono favorevoli alla morte.
A parte il fatto che trovo assurdo un simile paragone (vedere in proposito il post di Massimo Lizzi), vorrei che papa Francesco leggesse quello che ha scritto Luisa Muraro nel 2018:
«Quando papa Francesco ripete che manca una teologia della donna, ha ragione del suo punto di vista, a lui manca davvero perché la teologia cattolica si basa sulla sintesi di Tommaso d’Aquino che si è basato sul pensiero di Aristotele secondo cui le donne sono regolate per definizione da autorità e poteri di questo mondo. Manca al papa un’idea compiuta e articolata della libertà delle donne in sé e per sé, viste cioè in rapporto a Dio e non alle autorità di questo mondo. Che è una lacuna grave per un uomo nella sua posizione, chiamato a pronunciarsi anche su questioni in cui ne va della libertà femminile, come l’aborto. Legiferare sull’aborto è difficile in generale, per la stessa ragione. Ci sono complicazioni dovute alla mancata formulazione di un principio basico della libertà femminile che dice: Niente e nessuno può costringere una donna a diventare madre» (Luisa Muraro, Cambio di civiltà, Sottosopra, 2018).
Da il manifesto – I raccapriccianti atti di terrorismo avvenuti nei giorni scorsi in Libano attraverso cercapersone e ricetrasmittenti sono una eclatante manifestazione di uno degli aspetti meno compresi della rivoluzione digitale.
Relativamente poche persone, infatti, hanno messo a fuoco il fatto il mondo si sta computerizzando, processo che sta causando, oltre al resto, alterazioni profonde nei rapporti con l’ambiente in cui viviamo, oggetti inclusi.
La prima fase della computerizzazione del mondo è stata palese perché è stata semplicemente la fase della diffusione dei computer tradizionali, dai cosiddetti mainframe agli attuali desktop e notebook. Negli ultimi 20-30 anni, però, la miniaturizzazione dei componenti e il drastico calo dei costi (anche della connessione a Internet) ha avviato una seconda fase, meno visibile e soprattutto meno compresa, che sta portando a computerizzare un numero crescente di esseri umani, di spazi e di cose.
Gli esseri umani si stanno computerizzando – volontariamente, ma in larga parte senza essere pienamente consapevoli delle implicazioni – innanzitutto tramite l’adozione e l’uso molto intenso dello smartphone, ormai posseduto da oltre quattro miliardi di persone. Allo smartphone in anni recenti si stanno aggiungendo – in attesa di impianti sottopelle – orologi, braccialetti, occhiali e anelli smart, dove smart è sinonimo di «con computer a bordo dotato di sensori e connesso a Internet». Le persone godono delle spesso notevoli funzionalità degli oggetti smart, che spesso portano con sé anche quando dormono, ma allo stesso tempo si prestano a una raccolta dati, anche estremamente sensibili, su di loro e sull’ambiente in cui si trovano, una raccolta dati assolutamente senza precedenti per vastità e capillarità, con conseguenze – per gli individui e per la società – ancora tutte da mettere a fuoco.
Per gli spazi, invece, basta pensare alla smart city, dove smart vuole innanzitutto dire la disseminazione di computer connessi a Internet negli spazi pubblici. Innanzitutto le migliaia di telecamere smart che stanno distopicamente presidiando le strade e le piazze delle nostre città (oltre che scuole, università, ospedali, uffici pubblici…), ma anche computer (dotati di sensori, ovvero, microfoni, telecamere, geolocalizzatori…) sui mezzi di trasporto (sia pubblici, sia quelli gestiti da privati come auto, scooter, biciclette e monopattini in condivisione), computer nei cassonetti dell’immondizia per controllare la raccolta differenziata, computer ai semafori e agli attraversamenti pedonali, e molto altro ancora.
Una computerizzazione degli spazi che riguarda anche moltissimi spazi privati, non solo molti luoghi di lavoro, ma anche le stesse case delle persone, sempre più popolate di oggetti computerizzati che ascoltano e magari anche vedono, come, per esempio, gli assistenti personali tipo Alexa e le televisioni smart. In generale, sta diventando sempre più difficile passare del tempo in spazi non computerizzati, ovvero, spazi che non ci spiano, un cambiamento fondamentale del nostro rapporto con lo spazio.
E infine, appunto, gli oggetti. Tutti quelli che abbiamo già citato, a partire dagli smartphone, ma anche molti altri che in questi anni si sono progressivamente computerizzati: frigoriferi, lavatrici, termostati, lampade, bilance, forni, allarmi, televisori e molti altri ancora, tra cui le automobili e in generale i mezzi di trasporto, dai monopattini elettrici a elicotteri e aeroplani. Tutti oggetti che, dotati di computer (per quanto rudimentali nel caso degli oggetti più semplici), e di una connessione con l’esterno (quasi sempre senza fili), hanno mutato in maniera radicale la loro natura.
Sono, infatti, diventati – quasi sempre all’insaputa di chi ingenuamente pensa di esserne il padrone – da una parte, oggetti che posso spiare il comportamento di chi li utilizza (eventualmente anche tramite microfoni o telecamere) e, dall’altra, oggetti che possono in linea di principio essere comandati dall’esterno per mutarne le funzionalità (per esempio rallentando o fermando un’automobile in corsa), fino al caso estremo – ma purtroppo di tragica attualità – della deliberata attivazione di una carica esplosiva nascosta come è avvenuto in Libano.
La computerizzazione del mondo finora è avvenuta in larga parte sottotraccia, con al limite qualche preoccupazione per la privacy delle persone. In realtà, è un processo di importanza capitale per il futuro delle nostre società, un processo di cui – senza minimizzarne i potenziali benefici – vanno problematizzati tutti gli aspetti. In particolare, invece di vedere solo gli aspetti positivi, lasciando mano libera alle imprese, peraltro tendenzialmente le solite Big Tech, dovremmo democraticamente decidere se, quando, come e a beneficio di chi computerizzare persone, spazi e oggetti, dando massima priorità alla trasparenza e alla libertà – non solo di scelta – delle persone. Naturalmente per fare ciò è necessario, oltre al resto, padroneggiare le tecnologie della computerizzazione lungo tutta la filiera produttiva. Una sfida, e tra le più importanti, per l’Europa del presente e dei prossimi anni.
Da Il Quotidiano del Sud – Due anni fa il 16 settembre moriva la giovane curdo iraniana Masha Amini, studentessa ventiduenne arrestata e pestata brutalmente dalla “polizia morale” per aver indossato il velo in modo improprio. Seguì la “rivolta” delle donne iraniane al grido “Donna, Vita, Libertà”, a cui si unirono anche uomini. Allora Maysoon Majidi, la regista curda iraniana e attivista per i diritti umani, in particolare delle donne, detenuta da nove mesi nelle carceri calabresi con l’accusa di essere una scafista, era nel Kurdistan iracheno, dove – come ha scritto in una lettera dal carcere – era fuggita col fratello dopo aver ricevuto minacce da parte del regime iraniano. In Iraq, dove aveva lavorato in televisione oltre che come reporter e giornalista indipendente, prese parte alla “rivoluzione” organizzando «la prima performance davanti alla sede delle Nazioni unite» e aprendo «il canale “Ack news” per pubblicare notizie in tempo reale». Due giorni dopo quell’anniversario al tribunale di Crotone si è svolta la terza udienza del processo a suo carico e questa volta non è stata lasciata sola, fuori e dentro il Tribunale. A scuotere le coscienze hanno contribuito certamente la sua lettera dal carcere e un appello che il padre, Ismael, vecchio e ammalato, ha rivolto dall’Iran «a tutte le associazioni e organizzazioni che si impegnano nella difesa dei diritti delle persone perché si occupino del caso» della figlia e ha chiesto giustizia perché «le accuse sono prive di fondamento». «Questa è la mia voce! Mi chiamo Maysoon Majidi – si legge nella lettera –, sono nata il 29 luglio 1996. Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membra dell’organizzazione dei diritti umani “Hana”, partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iran) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni.» Poi, la fuga con il fratello e l’arrivo, dopo tante peripezie, in Turchia, le violenze subite, la partenza e la traversata che, ancora una volta, ha raccontato nei particolari in Tribunale, per dimostrare la sua innocenza. «Fin da piccola – ha scritto il padre – Mayson ha dimostrato capacità artistiche, si è espressa con le matite colorate ancor prima di andare a scuola, sempre incoraggiata da noi di famiglia. Nella classe che corrisponde alla quarta elementare ha cominciato a scrivere poesie, alla scuola media è diventata redattrice della rivista della scuola e nell’ultimo anno ha vinto il premio tra gli studenti narratori in Iran. Appassionata d’arte, si è iscritta all’Università per studiare teatro e regia teatrale» e quando si è «impegnata in politica e nell’attivismo per la difesa dei diritti umani» ha subito «interventi pesanti da parte delle guardie dell’Università, che l’hanno picchiata e torturata molte volte.» Come avrebbero mai potuto immaginare padre e figlia che quello che doveva essere il viaggio verso la libertà si sarebbe trasformato in un “incubo” e in un’accusa “assurda” di “scafista”? Accusa da cui nel tribunale di Crotone si sta difendendo anche un’altra donna iraniana, Marjam Jamali, fuggita dal regime con il figlio di otto anni. È stata accusata da due uomini, che durante la traversata hanno tentato di molestarla. Dopo sette mesi di carcere, vive a Roccella Jonica ai domiciliari insieme al figlio, cosa che è stata negata per tre volte a Maysoon, separata dal fratello. Mi auguro che alla fine a queste due “Donne” sarà resa giustizia, restituendo loro “Vita” e “Libertà”.
Da l’Università di Verona – Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 4 ottobre 2024, dalle 17.20 alle 19, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 22 novembre.
Venerdì 4 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Diana Sartori – Se manca la terra sotto i piedi, vivere in lacuna
Venerdì 11 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula da destinarsi Wanda Tommasi – Terre ferite.
Venerdì 18 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi Snejanka Mihaylova – Metanoia: il cuore dell’ascolto.
Venerdì 25 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Margherita Morgantin – L’esilio ereditato. Dov’è il mio accento?
Venerdì 8 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Antonietta Potente – La terra dentro.
Venerdì 15 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Elisabeth Jankowski – Dentro la Torre di Babele.
Venerdì 22 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Vittoria Ferri – Scrivere la terra. L’immaginazione come posizione politica.
Gli incontri si terranno in aula Menegazzi, ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.
Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia e alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.
Camminare sulle acque per pensare la terra
Siamo arrivate al tema della terra, che quest’anno proponiamo al seminario, attraverso le domande politiche che le guerre contemporanee e le emigrazioni coatte sollevano. In una guerra è sempre questione di terra e di lingua assieme, così come lo è in un esilio costretto che porta lontano da dove si è nati.
Terra occupata, strappata, martoriata, bombardata e poi divisa, spartita alla lettera. Metaforicamente, terra delle radici, delle origini, dei miti, terra dei luoghi amati nei quali ci si riconosce, terra della speranza, del futuro. L’aspetto letterale e quello metaforico non possono mai essere del tutto separati e occorre tenere conto di questo intreccio.
Abitare e pensare la terra significa percepirla dentro un contesto comune che coinvolge sia gli esseri umani sia quelli non umani, dagli animali alle rocce, agli esseri tutti.
Allo stesso tempo portiamo la terra dentro di noi. Siamo presso il mondo e in noi stessi contemporaneamente e senza contraddizione. Questo modo di sperimentare la terra tra dentro e fuori ne fa una sorgente di possibili esperienze e significati. Mai esauribile.
Le domande politiche che sentiamo riguardo la terra, la guerra, la lingua e le migrazioni sono molto forti. In un certo senso schiaccianti. Lasciano poco spazio e chiudono in sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, che risultano sterili. Quello che possiamo davvero fare è invece rivolgerci alla pratica del simbolico, la pratica femminista di esprimere il reale, guardandolo con tutte noi stesse e legando le parole, il corpo, e l’esperienza del mondo, che noi patiamo, con quella finezza che ci viene dall’aver imparato a mettere a frutto la differenza sessuale. Le azioni ne verranno di conseguenza, con la misura che viene da questa pratica e non dalle risposte suggerite dal simbolico già circolante e ripetitivo. Piuttosto che entrare nei conflitti già disegnati, questa pratica propone di stare sulla terra e vicino ad essa, di guardarla dal punto di vista delle acque, che scivolano, confondono i confini. Camminare su di esse. È un’immagine di leggerezza: sfiorando la nostra paura di andare a fondo, invita ad avere una visione più ampia, aperta, a partire da ciò che riusciamo a vedere come vitale e che di solito emerge come imprevedibile, là dove meno ce lo aspettavamo. Aprendo nuove strade.
Bibliografia:
Mahmud Darwish, Oltre l’ultimo cielo. La Palestina come metafora, Milano 2007.
Anna Maria Mori e Nelida Milani, Bora. Istria. Il vento dell’esilio, Venezia 2021.
Hannah Arendt, Vita activa, Milano 2019.
Eva-Maria Thüne, All’inizio di tutto la lingua materna, Torino 1999. Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano 2002.
Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli 1996.
Da Eredi Biblioteca Donne – Con la pubblicazione della recensione di Betti Briano Eredibibliotecadonne non vuole offrire soltanto un consiglio di lettura ma si propone di anticipare spunti di riflessione in vista di un’occasione di dibattito sui controversi temi trattati nel libro che potrebbe avvenire con un pubblico incontro con alcune delle autrici da tenersi a Savona in autunno/inverno (ndr).
A giugno è uscito un volumetto snello, ma assai ‘corposo’ nei contenuti, il cui titolo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Ed. Castelvecchi) dichiara l’intenzione di rompere la cappa del politicamente corretto che grava a sinistra su una serie di temi che hanno pesanti ricadute sulla condizione delle donne, sulla loro esistenza materiale e simbolica. Un libro di cui c’era bisogno per aprire un dibattito necessario; un pamphlet coraggioso, che le autrici hanno dato alle stampe pur sapendo che non avrebbe avuto vita facile e che la sua promozione sarebbe stata un percorso a ostacoli; una raccolta di saggi che scoperchia la malsana minestra che sobbolle nella pentola progressista, dove ogni saggio prende in esame un ingrediente per svelarne la tossicità e ad ogni ingrediente corrisponde una delle questioni che risultano più urticanti, divisive, se non addirittura dei veri e propri tabù, nell’ambiente politico e culturale al quale il testo è principalmente rivolto.
Il primo saggio, La misura della parità di Silvia Baratella, introduce i paradossi che si vengono a creare per effetto di leggi, nate nella seconda metà del secolo scorso per rispondere alle nuove domande di agio e possibilità da parte delle donne, che finiscono per risolversi in limiti e danni alla libertà femminile; perseguire l’uguaglianza con gli uomini non ha significato ‘liberare’ le donne, ma in molti casi aggiungere iniquità e svantaggio nella loro vita. L’autrice mette in guardia da politiche (assai in voga nella sinistra e in certo femminismo) scaturenti dall’equivoco che moltiplicare le leggi volte a ‘parificare’ diritti e opportunità sia la strada maestra per realizzare la giustizia tra i sessi, e auspica un cambiamento di paradigma in cui “le donne in relazione siano fonte e legittimazione della propria libertà e negozino con gli uomini un nuovo e più civile spazio pubblico”.
L’intervento di Marcella De Carli Ferrari La cancellazione della madre attraverso la legge sull’affido condiviso disvela la minaccia che rappresenta per le madri e i bambini la Legge 54/2006, voluta dalle associazioni dei padri separati (appoggiati dalle destre), votata da tutti i partiti e accolta persino da qualche frangia del femminismo paritario. L’idea contrabbandata di coinvolgere maggiormente i padri nella gestione dei figli si risolve concretamente in un sistema atto “a mantenere il controllo paterno sui figli e sulla ex moglie”. La legge non solo non tiene conto del differente legame del figlio e della figlia con la madre rispetto a quello col padre, ma costringe le madri a ripartire la convivenza con i figli persino col coniuge violento e maltrattante per non incorrere nell’accusa di alienazione parentale con le vicissitudini sociali e legali che ne conseguono.
Lorenza De Micco e Anna Merlino in C’era un’assemblea civica sulla genitorialità sociale a Milano raccontano attraverso una personale emblematica esperienza come può avvenire che attraverso il condizionamento, se non addirittura la manipolazione, di ‘assemblee’ di democrazia diretta mirate a fornire ‘pareri’ in merito a questioni d’interesse trasversale, si vengano a formare orientamenti che danno origine specie in sede europea a deliberazioni e proposte legislative su materie sensibili (quali genitorialità e Gpa) che di fatto non sono rappresentative del sentiment popolare ma riflettono gli interessi di determinate categorie e lobby influenti e abili nel farsi ‘ascoltare’ da chi detiene il potere.
Anche Daniela Dioguardi parte dalla propria esperienza per denunciare in Mercato, libertà e censura del pensiero i pesanti attacchi con cui si cerca di intimidire e silenziare chi oggi esprime posizioni critiche nei confronti di alcune idee e politiche che caratterizzano il mondo Lgbtq+, Non Una di Meno e il transfemminismo. Chi si oppone alla teoria dell’identità di genere, alla Gpa come al riconoscimento delsex work‘da sinistra’, in contrasto ad un’idea liberista e mercantile dell’uso dei corpi e dell’esercizio della libertà personale, non solo deve scontare le accuse classiche di bigottismo, conservatorismo e fascismo o a quelle più trendy di omo-transfobia e avversione ai/alle sex worker, ma va spesso incontro anche a ‘scandalosi’ episodi di negazione di agibilità politica e di spazi di dibattito proprio da parte degli ambienti che dovrebbero vantare i maggiori tassi di democrazia nel DNA.
Nel testo Prostituzione, pornografia e libertà Caterina Gatti mette in luce una delle conseguenze più aberranti cui sta portando la degenerazione del principio di libertà che ha preso piede nel campo progressista e in parte del movimento delle donne; si tratta dell’idea che il sex work sia un lavoro come un altro e che la conquista dell’autodeterminazione includa anche la possibilità di scegliere di vendere il proprio corpo attraverso l’attività prostitutoria o quella pornografica. Ci sono note scrittrici che, avendo raccontato, partendo proprio dalla conoscenza diretta, la condizione di degrado fisico e psichico cui vanno incontro le donne nel mondo della prostituzione, hanno incontrato ostacoli alla promozione dei loro libri e subito veri e propri boicottaggi, come successo a Rachel Moran per la presentazione di Stupro a pagamento addirittura presso la Casa Internazionale delle donne. D’altronde le posizioni abolizioniste vengono non solo marginalizzate ma osteggiate con veri e propri attacchi intimidatori e ‘squadristici’ nei confronti di chi le porta avanti.
Cristina Gramolini parla con amarezza di una “Rivoluzione gentile” che non è più gentile. Si riferisce alla trasformazione della originaria gentilezza, con la quale molte istanze del mondo Lgbtq+ erano state portate avanti con successo, in intolleranza e violenza nei confronti delle donne contrarie ai nuovi cosiddetti diritti sostenuti da quel movimento: maternità surrogata, blocco della pubertà, sex work. Descrive alcuni sconcertanti episodi esemplificativi: la cacciata di ArciLesbica dalla sede che condivideva con Arcigay nel 2018, la contestazione di una conferenza di Sheila Jeffreys da parte di un’assemblea transfemminista a Milano nel 2020, l’interruzione della presentazione di Sex work is not work (Ilaria Baldini et al., Ortica 2023) alla Fiera dell’editoria femminista di Roma nel 2023. Nel precisare che dall’ambiente progressista non è levato alcun cenno di indignazione per così gravi attacchi alla libertà di pensero e al dibattito democratico, conclude che il consenso delle nuove lobby e del popolo dei pride viene considerato con tutta evidenza irrinunciabile.
Persino esperienze significative di dialogo tra associazioni femministe con gruppi di uomini impegnati nella lotta alla violenza nei confronti delle donne subiscono i contraccolpi dell’assalto che il transfemminismo intersezionale sta portando alla differenza sessuale in nome dell’inclusione dei soggetti non binari. Anche Doranna Lupi in I sessi sono due come oltraggio all’inclusività porta come esempio paradigmatico una vicenda avvenuta a Pinerolo, la sua città, di cui è stata diretta testimone: la trasformazione dell’ottima prassi di celebrare la Giornata del 25 Novembre con un simbolico incontro tra le donne e gli uomini, che avevano intrapreso un percorso di presa di coscienza e di fuoriuscita dalla violenza sulle donne, in una anonima e neutra occasione di lotta contro la ‘violenza di genere’, dove la ‘donna’ sparisce per lasciare il posto a tutte le altre ‘identità’ e la Giornata finisce per celebrare la lotta contro la violenza nei confronti di chi non si sa, da parte di chi nemmeno.
Laura Minguzzi in Vietato dire donna si chiede se del vecchio ordine patriarcale tramontato non sia rimasta la pesante eredità della misoginia, che si manifesta con la cancellazione delle “donne di sesso femminile” in nome dell’inclusività, della nuova morale dettata dal politicamente corretto. Tutto è iniziato, secondo l’autrice, quando si è preso a banalizzare l’esperienza della nascita e a negare la “disparità/asimmetria” tra donne e uomini nella procreazione dissolvendo così il fatto fondativo della differenza sessuale in una generica e neutra attività generativo-produttiva. Il risultato è che pur essendoci liberate dal patriarcato ci vediamo ricacciate, ad opera di fratrie violente quanto pervasive, nel “cono d’ombra dell’insignificanza… e rappresentate da un neutro indifferenziato che si propone di cancellare la madre”.
In Il femminismo al tempo del RUNTS Laura Piretti riporta un esempio eclatante di quale assurda conseguenza arrivi a comportare l’ossessione paritaria nell’applicazione di norme che regolano aspetti qualificanti della vita politica come l’agibilità di spazi pubblici da parte dell’associazionismo femminile. Si riferisce all’avviso, rivolto dal RUNTS (Registro unico nazionale del terzo settore) dell’Emilia- Romagna ad alcune sedi UDI della regione, di non conformità dei loro statuti alle regole di “democraticità e apertura che devono caratterizzare le APS” in quanto queste, prevedendo l’iscrizione di sole socie, discriminerebbero gli uomini; vale a dire che una gloriosa istituzione nata dai Comitati di difesa della donna che porta il nome Unione Donne Italiane dovrebbe aprirsi agli uomini per avere riconoscimento pubblico…
Tocca in ultimo a Stella Zaltieri Pirola denunciare in “Per me le cose sono due” lo svuotamento che sta subendo la parola ‘femminismo’ qualora venga “utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne” e la risignificazione cui va incontro quando si presenta accompagnata dai prefissi trans e post o quando alla desinenza si sostituisce l’asterisco o la schwa. La neo-lingua che viene avanti si accompagna non a caso con un uso sempre più degenerato del principio dell’autodeterminazione, che viene ormai esteso fino alla vendita del corpo per pornografia, prostituzione o Gpa; ne consegue così che mentre ci si adopera per esecrare la violenza domestica, si finisce per acclamare la violenza sessuale a pagamento.
Le vicende paradossali e persino grottesche raccontate nei dieci interventi richiamano tutte in qualche modo la storia del disegno di legge Zan, ricordata da Francesca Izzo nell’introduzione alla raccolta; una proposta di legge che, pur riscuotendo un ampio consenso intorno alla lotta all’omotransfobia, ha finito per cadere a causa delle rigidità sul principio dell’identità di genere, proprio quello su cui molte femministe avevano sollevato obiezioni e proposto modifiche che erano state respinte dai sostenitori e bollate come “assist alle pulsioni omofobe e reazionarie”. Tutto ciò- sostiene Francesca Izzo- rivela la “crisi dissolutiva delle culture politiche” che stanno alla base della nostra democrazia, la loro inadeguatezza a confrontarsi col nuovo protagonista della storia che è la libertà femminile.
Non si può non convenire sull’evidenza che le politiche democratiche ad oggi non solo non sono state in grado di andare oltre l’orizzonte della parità ma rivelano sempre più dimestichezza con l’idea, prevalente nel mondo Lgbtq+ (di grande successo anche nel mainstream mediatico e accademico), che per affrontare alla radice la discriminazione nei confronti delle donne si debba annullare la differenza sessuale. Siamo al punto in cui sostenere l’indifferenziato e il neutro è di sinistra e progressista, parlare invece di ‘donne’ e ‘uomini’ anziché genericamente di ‘persone’ è retrogrado e reazionario. C’è da chiedersi dove si vuole arrivare, a quale deriva di civiltà si stia andando incontro. Il libro lancia un allarme che non deve restare inascoltato, ma va accolto e rilanciato, per le generazioni future e per il rispetto delle donne che negli ultimi due secoli hanno lottato per farci uscire dal “cono d’ombra”.
Da il manifesto – C’è sempre un albero. Nei ricordi e nei racconti di chi giunge nel Levante c’è sempre un albero. Spesso più di uno. A volte non è un albero, è un arbusto o un campo coltivato. Un essere vivente inanimato – i nonumani li chiama Paola Caridi – fa sempre da sfondo a una narrazione, un viaggio, un’avventura, una scoperta. Da sfondo o, ancora più spesso, da protagonista: che sia dove ha le sue radici, o dentro una cucina dove i suoi frutti si preparano a far danzare il palato, nell’esplosione di un sapore insolito, ma familiare.
C’è sempre un albero, e stupisce non averci pensato prima. C’è quando in un angolo di Palestina ci si sente a casa – «sembra la Puglia», «sembra l’Umbria» – o quando la prima volta si resta a bocca aperta perché il Levante è lì, a due passi, appena al di là del Mediterraneo, eppure l’immaginario europeo è irragionevolmente piatto e banale: deserto, sabbia, rocce, venti caldi.
E invece no, in un fazzoletto di terra convivono e si danno il cambio tanti habitat diversi, tante biodiversità, dal mare alla collina, dal deserto alle foreste del nord.
L’AMBIENTE non è uno sfondo, o una coreografia. È parte integrante delle storie e della storia. E allora leggereIl gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi significa davvero addentrarsi in un manifesto di botanica politica. Scritto dalla giornalista e autrice Paola Caridi, edito da Feltrinelli (pp. 160, euro 17), ricorre ai ricordi personali e alla leggenda, agli archivi e all’attualità per provare a raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista di chi c’è e c’è sempre stato, silenzioso ma inevitabile, sfruttato, servito, amato o perduto.
Nei complessi equilibri regionali la flora ha un ruolo, anzi ne ha tanti: strumento di propaganda sionista agli inizi del Novecento (il deserto da far fiorire), ancora a cui aggrapparsi per mantenere un legame con la propria terra (le arance di Giaffa nell’immaginario dei rifugiati palestinesi e l’appropriazione successiva dello Stato di Israele, a dire «noi possediamo questa terra»), bacino di sfruttamento del colonialismo europeo (i gelsi libanesi e la catastrofe annunciata), alleato inconsapevole della rimozione (i pini importati dall’Europa dal Jewish National Fund per assecondare il gusto del nuovo arrivato e occultare il peccato originale, la distruzione dei villaggi palestinesi).
Nel caso palestinese è la memoria di una presenza, lo è la flora in sé ma lo è anche il modo in cui si è intrecciata alle vite delle persone, fin dall’antichità assecondata perché fornisse l’opulenza dei suoi frutti. La rete idrica di Battir, meritevole del riconoscimento dell’Unesco, sta là a testimoniare l’equilibrio con la terra, come i giardini in miniatura che spuntano sui terrazzi nelle viscere dei campi profughi stanno a testimoniare il sollievo antico di uno spazio verde, ampio e senza confini.
CARIDI, profonda conoscitrice della regione, dove ha vissuto per anni, ci regala una piccola perla, inusuale e inattesa, un viaggio storico e politico dalle tinte fosche ma che non tace la dolcezza: la bellezza che emerge dalle pagine, il colore e il sapore del nonumano che è sempre lì, presente. Testimone silenzioso o quieto alleato, quando segnala la vita che fu. Come i fichi d’india: vecchie linee di confine, continuano a crescere nei villaggi palestinesi svuotati con la Nakba e guidano alla scoperta dei resti di case e piazze. O come i sicomori alla cui ombra dolce tante storie sono state narrate e trasmesse; o lo za’atar, il timo della tradizione culinaria, la cui raccolta è una sfida ai divieti posti dalle autorità israeliane, perché a volte basta un sapore o un odore per sentirsi a casa propria.
Il libro di Paola Caridi è un atto politico in un periodo di buio della ragione, una sfida al colonialismo che fu e che è, che come Israele modifica i luoghi per piegarli alla propria immagine o che come quello europeo dei secoli scorsi impone monocolture feroci o si impossessa della terra battezzando a proprio gusto i nonumani. Come se un nome non ce l’avessero già. Sono parte della famiglia.
Da il manifesto – Non cessa lo spettacolo inquietante e misero di un mondo in cui sentiamo le nostre vite appese ai cattivi sentimenti di uomini che stanno lì a misurarsi il missile dalla gittata più lunga. Tra Ucraina, con i suoi alleati, e Russia, o tra Israele e gli Houthi dello Yemen. In mezzo la tragedia degli uomini, delle donne e dei bambini che muoiono, anche in altre parti del mondo, a migliaia, decine e centinaia di migliaia. Soldati e civili.
Oggi me la cavo citando due testi che osano parlare della politica come amore. A prima vista non sembra che ci siano relazioni possibili tra il “dialogo notturno” che intrattiene un uomo con la persona che ama, addormentata (ma il suo corpo forse è in ascolto), e la pluralità di voci diurne femminili e femministe (ma c’è anche qualche voce maschile) che si susseguono in incontri alla Libreria delle donne di Milano. Femminismo mon amour, è il titolo del volumetto che raccoglie questi ultimi. Riunioni domenicali sotto il segno della storica rivista Via Dogana, che da un po’ di anni è un luogo virtuale sul web, ma che ora sente il bisogno di riprodurre anche una testimonianza cartacea.
Eppure è proprio Lia Cigarini, tra le fondatrici della Libreria (spazio che l’anno prossimo celebrerà mezzo secolo di vita) a citare l’autore in questione: «…molti uomini l’hanno già capito, dopo il disastro della politica maschile, che quella del partire da sé e della relazione è una forma politica viva ed efficace…». E in nota si legge: Niccolò Nisivoccia, Il silenzio del noi, Milano 2023. Un altro piccolo libro di cui mi è capitato qui di parlare. Del testo più recente, Un dialogo notturno, ha scritto su queste pagine Alberto Fraccacreta. Io mi limito a due citazioni: «L’amore è un discorso, innanzitutto, è una conversazione…». «…secondo me non esiste differenza fra la politica e l’amore, fra l’amore e la politica. Anche la poesia: è politica anche quando nasce come poesia d’amore. L’amore come gesto anche politico, quindi; e la politica come forma d’amore, come forma di cura, come gesto concreto».
Anzi tre. Citazione di una citazione. Il padre del bambino morto su quella spiaggia turca, che ci aveva tanto commosso, quasi 10 anni fa. «Vi prego, chiamatelo Ãlãn e non Aylan, come hanno scritto tutti i media del mondo…». Un’imprecisione da poco? Ma sbagliare un nome, da parte della politica e dell’informazione, parla di una commozione finta. «Teniamo la vita a debita distanza, non vogliamo che ci tocchi…».
Amore e linguaggio diventano politica, cambiano le cose, solo se si incarnano nelle vite, nei nostri corpi, nelle relazioni con altre e altri. Forse questa è la chiave per leggere anche Femminismo mon amour. C’è una traccia forte nei 4 capitoli del libro, che corrispondono a altrettanti dialoghi. “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare”. Dalle domande su quanto resta vivo di invenzioni e esperienze del passato, al che pensare e che fare oggi, come interpretare le emergenze che viviamo. Delle tante opinioni e analisi espresse, mi resta l’ansia e la passione per la ricerca delle parole giuste e attuali. E anche la convinzione che l’amore e l’amicizia «è politica in quanto ha a cuore il mondo»: c’è un terzo tra noi due. E questo può avvenire anche se non c’è «accordo con l’altra».
Qualcosa di fondamentale quando anche il femminismo è attraversato da conflitti acuti. E che mette in guardia tutti dalla trappola delle identità chiuse e contrapposte.
Un video in cui si narra la storia di un libro eretico medievale e della sua Autrice, una donna morta sul rogo per aver rifiutato di rinnegarlo.
Conobbi l’esistenza di questo libro molti anni fa quando incontrai casualmente la filosofa Luisa Muraroche mi chiese di tradurre in forma teatrale un manoscritto mistico di una donna del trecento intitolato Lo specchio delle anime semplici, scritto in medio-francese e in forma dialogata. Fu come un colpo al cuore fin dalle prime righe e, da allora, ho cercato di divulgarlo in teatro e ora con il video Margherita Porete, il libro e la vita in cui racconto le parti più laicamente accessibili del libro e anche la storia della sua Autrice. Una storia che venne alla luce a sei secoli di distanza, nel 1946, quando la studiosaRomana Guarnieriscoprì, in un verbale dell’Inquisizione di Parigi, che quel sublime libretto non era stato scritto da un ignoto monaco, come credette anche Simone Weil, ma da una donna, certa Margherita, detta Poirette da Valenciennes.Il predetto verbale riportava che lei non si era pentita ed era rimasta in prigione per due anni in totale silenzio, fino alla sua morte come eretica relapsa, cioè non pentita. E dunque il video persegue l’intento di far conoscere in estrema sintesi tutta questa stupefacente storia, a mio avviso più significativa di quella ben più celebre di Giovanna d’Arco.
La realizzazione è stata possibile grazie alla sensibilità e collaborazione di attori e attrici del calibro di Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e di Paolo Tedesco che ha anche realizzato il filmato con alta professionalità e perfetta aderenza al mio intento.
Lo specchio delle anime semplici è oggi universalmente considerato dagli studiosi uno dei massimi capolavori della letteratura spirituale di tutti i tempi e paragonato alle opere di Platone, Hegel, Spinoza e, come livello di scrittura, alle opere di Dante e Shakespeare.
Bibliografia essenziale di riferimento
Romana Guarnieri, “Quando si dice il caso”, rivista Bailamme, 1990
Luisa Muraro, Lingua materna scienza divina, M. D’Auria editore,1995
ead., Le amiche di Dio, a cura di Clara Jourdan, M. D’Auria editore, 2001; 2a ed. Orthotes 2014
ead., Il Dio delle donne, Mondadori, 2003; Marietti, 2020
Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, ed. San Paolo, 1996
Immagine di Donatella Franchi, per gentile concessione dell’artista.
Da il manifesto – Settembre 2022. Da anni la società iraniana vive delusione e amarezza. La pesante pressione delle sanzioni economiche occidentali, l’alto costo della vita e l’inflazione, insieme a un potere statale oppressivo che nega libertà e dissenso, provocano una depressione nazionale, una diffusa stanchezza e una passività collettiva.
La speranza di rilanciare l’accordo sul nucleare è ai minimi quando, il 13 settembre, una giovane donna viene fermata a Teheran per non aver rispettato il copricapo islamico. Tre giorni dopo, il 16, Mahsa Amini muore mentre è ancora in custodia dei servizi di sicurezza. La tragedia risveglia la rabbia repressa della società, ridando voce a corpi un tempo silenziosi.
Le donne, represse per anni all’ombra dell’umiliazione, diventano la forza di cambiamento, trascinando in piazza migliaia di ragazze e ragazzi, donne e uomini, riuniti in una solidarietà nazionale in tutte le città dell’Iran e tra gli iraniani nel mondo. Il potere reagisce con una repressione brutale su vasta scala. In pochi mesi, il movimento «Donna Vita Libertà» paga un pesantissimo tributo in termini di vite umane: secondo alcune stime 550 persone, tra cui 68 bambine, vengono uccise.
Le manifestazioni diminuiscono con il passare dei mesi, ma le proteste assumono la forma di disobbedienza civile: boicottaggi di eventi governativi, proteste simboliche, rifiuto di pagare le nuove tasse e mancanza di collaborazione. Intanto giovani ragazze continuano a mostrarsi pubblicamente senza copricapo, sfidando i mille controlli e rendendo di fatto irreversibile in pratica un diritto che il governo rifiuta di riconoscere. La nuova legge proposta dal governo conservatore nel 2022 sul copricapo delle donne viene bloccata in un ping pong tra il parlamento e il Consiglio dei Guardiani.
Oggi, due anni dopo, il sistema subisce un forte choc dopo che la maggioranza della popolazione diserta le urne delle elezioni parlamentari del primo marzo 2024, segnando la percentuale di partecipazione più bassa della storia della Repubblica islamica. La nomenclatura ha la conferma di non avere più l’appoggio della maggioranza delle classi sociali su cui aveva costruito il suo potere. La morte del presidente conservatore Raisi, a maggio, dà la possibilità al regime di ricorrere a ripari abbandonando il piano di uniformare politicamente il paese e aprendo alla formazione di un governo riformista.
Secondo molti analisti iraniani, l’apertura del sistema a i riformisti è un effetto diretto del movimento cominciato due anni fa che ha avuto il merito di mettere in luce una frattura profonda tra la popolazione e il potere. Un passo avanti, anche se dall’insediamento del moderato Pezeshkian, avvenuto il 28 giugno di quest’anno, non ci sono stati segni di sensibile cambiamento percepiti dalla popolazione.
Tuttavia, si nota un maggior cambiamento nella politica estera del paese. La mancata (per ora) ritorsione promessa dalla Repubblica islamica in risposta all’uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, eseguita da Israele secondo molti osservatori, è considerata il primo risultato del governo Pezeshkian.
L’apertura dei negoziati sul nucleare per rimuovere le sanzioni e migliorare la situazione economica del paese rimane l’obiettivo centrale del governo iraniano, anche se emergono segnali contrastanti. La fornitura di 200 missili balistici alla Russia non sembra allinearsi al tentativo di ridurre le tensioni con l’Occidente, anche se l’Iran l’ha smentita.
Perseguendo la nuova politica estera, Pezeshkian – dopo la sua prima visita ufficiale a Baghdad l’11 settembre – è diventato il primo presidente iraniano a visitare il Kurdistan iracheno. La storica visita, con incontri a Erbil e Sulaimaniyah, ha cercato di bilanciare le relazioni con i due partiti curdi al potere e segna un miglioramento nelle relazioni, a meno di un anno dall’attacco iraniano contro presunti obiettivi israeliani a Erbil.
Per capire la prossima mossa di Pezeshkian per riavviare i colloqui sul nucleare con l’Occidente, bisognerà attendere la fine di settembre quando farà la sua prima apparizione internazionale all’Assemblea generale dell’Onu. Nel frattempo, la popolazione iraniana resta in attesa dei miglioramenti economici e sociali promessi dal nuovo presidente.
Da Il Quotidiano del Sud – Nella vicenda Gennaro Sangiuliano – Maria Rosaria Boccia quello che mi ha interessata di più è il comportamento di Giorgia Meloni, che non perde occasione per sottolineare di essere una donna e alcune femministe le hanno dichiarato la loro simpatia per aver portato nella politica il “femminile”. Meloni è una donna che gode della libertà conquistata dalle femministe a cui deve se è arrivata dove è arrivata, ma di “femminile” in politica ha portato solo il suo corpo di donna, che ha subito cancellato facendosi chiamare al maschile, il presidente. Per il resto le sue politiche e il modo arrogante di gestire il potere, come comando – da qui l’idea del premierato – la rendono simile ai suoi “Fratelli d’Italia”. Delle sue politiche contro le donne basta ricordare l’apertura dei consultori alle associazioni pro-vita, col fine di dissuadere le donne che decidono di abortire, colpevolizzandole. E che dire del suo bellicismo a oltranza? Del suo decreto Cutro fatto per impedire alle Ong di salvare vite umane in mare? Ma torniamo a Sangiuliano e Boccia. Mi chiedo che cosa ha fatto o detto Meloni di fronte alla potenza politica e mediatica della destra che si è scatenata contro la donna, per screditarla e renderla non credibile agli occhi dell’opinione pubblica? È andata in Tv per difendere il ministro e farsi garante della “sua” verità, smentito poi da Boccia. Ha liquidato la vicenda come gossip e questione personale e ha umiliato la donna chiamandola “quella persona”. Niente c’è di più politico di questa vicenda in quanto ha a che fare con i rapporti tra uomini e donne. Il punto politico, come scrive Ida Dominijanni su fb, è l’idea di «molti uomini politici che prendono il proprio potere come licenza sessuale, lo usano di conseguenza pensando di avere a che fare con delle bambole mute invece che con donne dotate di parola che prima o poi la usano per confutare le loro menzogne», come hanno fatto con Berlusconi Patrizia D’Addario e le olgettine pentite, e Maria Rosaria Boccia con Sangiuliano. Torna il passato e Meloni non si contraddice. Anche allora difese Berlusconi liquidando la vicenda che metteva a nudo un “sistema di scambio tra sesso e denaro” come “vicenda privata”, votò in parlamento senza scomporsi sulla nipote di Mubarak mentre la stampa di destra si scagliò violentemente contro quelle donne per screditarle. Non fu risparmiata neppure l’“ingrata” Veronica Lario per aver denunciato il “lerciume” di quel sistema. Oggi, come allora, per discreditare una donna la si accusa di essere “falsa”, “infida”, bugiarda”, “arrampicatrice”, “seduttrice”, “ricattatrice”, “spia”. Meloni non ha dato, oggi come ieri, alcun credito alla parola di una donna neppure quando Boccia rispondendo alla domanda “perché ha registrato tutto da un certo punto in poi?”, ha detto: «Perché il ministro mi ha detto una frase che mi ha colpito molto. Ha detto: “Io sono il ministro, io sono un uomo, io rappresento l’istituzione e in futuro nessuno crederà a tutto quello che tu dirai”». Quanta misoginia c’è in queste parole! Quanta protervia per il solo fatto di essere un uomo! Quanta arroganza del potere! All’uomo tutto è perdonato, per la donna nessun rispetto. «Non credo di dovermi mettere a battibeccare con questa persona – dice Meloni ai giornalisti – lo dico per tante donne che hanno guardato a questa vicenda come me. La mia idea di come una donna debba farsi spazio nella società è completamente diversa da quella di questa persona» considerata meno di “niente”. Comunque, al di là di tutto, di questa vicenda resta il fatto che le donne parlano, non accettano più di stare zitte e sfidano gli uomini di potere pur sapendo cosa rischiano e a volte fanno dimettere ministri e cadere governi, come nel caso di Berlusconi.
(Giorgia Meloni e la faccenda Sangiuliano-Boccia, Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 14 settembre 2024)
Da Avvenire – La “gestazione per altri” sta cambiando i suoi equilibri: la guerra in Ucraina ha fatto spostare le rotte dei commerci sulle mamme in affitto verso Tblisi. E non solo. Ma lo squallore resta uguale
In Georgia molti tirano un sospiro di sollievo: la temutissima legge che avrebbe messo al bando la Gestazione per altri (Gpa) per le coppie straniere a partire dal primo gennaio 2024 è definitivamente naufragata, seppellita sotto le pressioni delle cliniche e dei mediatori che accolgono clienti da ogni parte del mondo. Presentata a giugno 2023 dall’allora primo ministro conservatore Irakli Garibashvili (dimessosi nel gennaio scorso) come un passo necessario per fermare lo sfruttamento delle donne e il potenziale traffico di neonati, messa a punto dal Ministero della Salute e appoggiata dalla Chiesa ortodossa georgiana, la bozza di legge, che avrebbe permesso la sola Gpa altruistica ai propri cittadini, è vissuta fino alla terza lettura in Parlamento, poi non se ne è saputo più nulla. Necessita di ulteriori approfondimenti, è stato detto in via ufficiale, ma secondo altre versioni – compresa quella del quotidiano francese La Croix che al tema della Gpa in Georgia ha dedicato nei giorni scorsi un approfondito reportage – sono state le cliniche «a saper convincere il governo della manna finanziaria che maneggia questa industria».
Quindi il business continua. Le cliniche, nei loro siti, hanno provveduto a rassicurare le coppie straniere (ammessi solo gli eterosessuali, sposati o conviventi, in possesso di certificato medico di infertilità o altre patologie). Salvo poi suggerire che in caso di ripensamento del Parlamento c’è già una soluzione pronta. Sul sito di Vireo, ad esempio, si informa della possibilità di spostare le proprie attività nella vicina Armenia. Intanto si affaccia con prepotenza sul mercato dell’utero in affitto l’Albania, con i suoi prezzi ancora più convenienti. La Georgia si è affermata come destinazione per le coppie committenti dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha fatto saltare centinaia di contratti. Le tariffe sono competitive: il pacchetto completo in una delle 25 cliniche che operano in un Paese di 3,7 milioni di abitanti costa intorno ai 50mila euro, un terzo di quanto si spende negli Usa. Alle madri portatrici arrivano all’incirca 20mila euro. Tanto, per nove mesi di lavoro, se si pensa che il Pil pro capite del Paese è circa 8mila euro.
Il problema sono proprio loro, le madri: nonostante le garanzie di trasparenza e tutela sbandierate dalle cliniche, le testimonianze raccolte da alcune testate giornalistiche e anche dalla piccola Chiesa cattolica con il suo Ufficio per la vita e la famiglia parlano di donne molto povere, incapaci di mantenere sé stesse e i figli, in cerca di una possibilità per acquistare un piccolo appartamento o semplicemente sopravvivere. Il boom della domanda – nel 2022, dicono i dati, in Georgia sono nati 2.000 bambini con la Gpa – rende difficile trovare abbastanza giovani donne disposte a portare avanti una gestazione per altri. Così le agenzie si rivolgono alle vicine Repubbliche centro-asiatiche, Kazakhistan in testa. Lo status del bambino, spiegano ancora i centri per la Gpa, è molto chiaro: è figlio, fin da subito, della coppia committente, o almeno così appare sui documenti. Ma non sempre tutto fila liscio, né tutte le ambasciate sono disposte a chiudere un occhio.
Così è accaduto che una coppia italiana al suo rientro in patria si sia vista contestare, con un avviso di garanzia, la dichiarazione di nascita del neonato. Le accuse poi sono state archiviate dalla Procura di Piacenza. Una vera e propria industria, quindi, con risvolti problematici sul piano dello sfruttamento delle donne più vulnerabili. Questa è una delle motivazioni che hanno portato l’aula di Montecitorio ad approvare nel luglio 2023 la legge che descrive l’utero in affitto come reato universale, cioè contestabile a cittadini italiani dovunque sia commesso. Si attende il passaggio al Senato.
Da Avvenire – Un anno fortunato, per Fatou Baldeh: due premi prestigiosi ricevuti a Washington (International Women of Courage Award, 8 marzo) e a Ginevra (International Women’s Rights Award, 15 maggio). E lei, attivista contro le mutilazioni genitali femminili, sopravvissuta al “taglio” (così lo chiama, the cut) subìto a 8 anni, ad Avvenire dice che è orgogliosa di tanta visibilità, per sé stessa e il suo lavoro, ma soprattutto perché le ragazze del suo Paese, il Gambia, che non hanno opportunità e pensano di non poter far altro della propria vita che sposarsi molto giovani e aver molti figli, guardando lei potranno capire che sì, anche una donna può cambiare il mondo.
Un modello di ruolo, dice parlando su Whatsapp dal suo ufficio a Brusubi, località sulla costa atlantica a pochi chilometri da Banjul, la capitale di questo piccolo Paese dell’Africa occidentale, 2,5 milioni di abitanti, tutto stretto dentro il territorio del Senegal. Fatou Baldeh, appena superati i 40 anni, sorriso aperto, inglese sciolto e velocissimo, una gran massa di capelli scuri che le incorniciano il volto affilato, è la fondatrice e la presidente di Will, Women in Liberation & Leadership. «Siamo in 8, tutte “tagliate” (infibulate, ndr): giriamo per villaggi e comunità rurali a parlare con gli abitanti per spiegare che le mutilazioni non sono un bene per le donne, che provocano malattie fisiche e mentali e che tradizione e abitudini si possono cambiare».
Un lavoro difficile, in un Paese che detiene il record mondiale del 75% di ragazze e donne sottoposte a mutilazioni genitali (Fgm) nonostante dal 2015 esista una legge che le vieta. «Io stessa, quando da ragazza sono andata in Scozia per procurarmi un’istruzione, pensavo che la mia situazione fosse normale. Ho dovuto leggere e studiare molto per capire che è una tortura, deleteria per la salute fisica e psichica. Sono tornata in Gambia con l’obiettivo di aiutare il mio Paese a svilupparsi, a crescere. Nessuno può farlo per noi, dobbiamo impegnarci noi gambiani. Ma il “taglio” ha radici profonde nella nostra società, nelle credenze e nelle superstizioni, è parte della nostra identità, considerato un rito di passaggio all’età adulta e spesso sono le nonne che lo impongono alle nipoti. Talvolta mi trattano come se fossi una traditrice dei valori tradizionali, mi accusano di essermi fatta corrompere dall’ideologia occidentale. Serve tempo e soprattutto educazione».
Quando è accaduto a lei, non sapeva cosa stesse succedendo, c’erano altre 10 bambine, furono stese a terra e una donna iniziò a inciderle gli organi genitali, senza farmaci, senza antidolorifici, solo con un coltellino affilato. «Può immaginare quanto è stato traumatico», dice. Fu trattata per diversi giorni con acqua e sale e impacchi di erbe, lei non smetteva di piangere dal dolore. Quando la ferita si rimarginò, ci fu una grande cerimonia, una festa. Era diventata grande. Le mutilazioni genitali femminili sono talmente radicate in Gambia che lo scorso luglio per un soffio non è stato abrogato il divieto del 2015, rendendo nuovamente legale ciò che ancora viene praticato ma perlomeno fuorilegge.
«È stata la prima volta che ho visto le donne del mio Paese lottare per se stesse», racconta. «Per fortuna la legge non è passata e il bando alle Fgm è rimasto. Ero contenta, ma anche arrabbiata: un Parlamento di soli uomini (58 i seggi, solo 5 le donne, ndr) ha messo a repentaglio la salute e la vita delle ragazze del Gambia».
La donna a cui Fatou si ispira – racconta – è la madre, che prima si opponeva al suo lavoro e oggi è la sua prima supporter, tanto da aver salvato una nipote, la prima della famiglia a non essere stata “tagliata”. Ma non sono solo le Fgm a rendere inquieta e nello stesso tempo combattiva Fatou: la violenza di genere è così endemica in Gambia che «le donne pensano di meritarsi le botte dai mariti se escono senza il loro permesso. E purtroppo nel Paese non esistono case di accoglienza, strutture che possano salvarle. Vengono da noi, facciamo il possibile, ma non riusciamo a dare sufficiente protezione. Questo mi rende tristissima». Fatou è sposata e ha due figli maschi. E questa è la sfida della sua vita: «Crescere ragazzi che rispettino le donne e le diversità. Da qui inizia il vero cambiamento».
Da Altraeconomia – Quasi 17mila vaccini contro morbillo, parotite e rosolia, un milione di alberi piantati, 535 case convertite all’energia solare. Sono solo alcuni esempi di quanto si potrebbe ottenere se Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, India, Israele, Pakistan e Corea del Nord decidessero di destinare rispettivamente un secondo, un minuto e un’ora della loro spesa per la produzione e manutenzione delle armi nucleari a rispondere ai reali bisogni delle persone.
Li ha conteggiati la Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari (Ican) –insignita del Premio Nobel per la pace nel 2017 –, coalizione di più di seicento organizzazioni in cento Paesi, impegnata nella lotta per l’abolizione delle armi nucleari e nella promozione per la firma del Trattato per la loro proibizione (Tpnw), approvato dalle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 e attualmente ratificato da settanta nazioni, tra cui non c’è l’Italia.
Dal 16 al 22 settembre ha infatti lanciato una settimana di mobilitazione dedicata all’attivazione contro l’assurda quantità di denaro destinata alle armi nucleari con lo slogan: “No money for nuclear weapons – Niente soldi per le armi nucleari”.
I programmi sulle armi nucleari tolgono fondi pubblici all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ai soccorsi in caso di calamità e ad altri servizi vitali. Ci sono pertanto 91,4 miliardi di altri impieghi per cui questo denaro potrebbe essere investito meglio che corrispondono ai 91,4 miliardi di dollari di spesa annua –173.000 dollari al minuto o 2.898 dollari al secondo – sostenuta dai nove Paesi dotati di armi nucleari per i loro arsenali, secondo l’ultimo rapporto dell’Ican “Surge: Global Nuclear Weapons Spending 2023”.
Nello specifico sono gli Stati Uniti a spendere la quota maggiore, pari a 51,5 miliardi di dollari e superiore a quella di tutti gli altri Paesi dotati di armi nucleari messi insieme. A seguire, troviamo la Cina che ha speso 11,8 miliardi di dollari e, al terzo posto, con 8,3 miliardi di dollari, la Russia.
Dal report emerge inoltre che la spesa è aumentata del 13,4%, pari a 10,8 miliardi di dollari, rispetto all’anno precedente. La cifra è in crescita già da alcuni anni. Allo stesso tempo i dati del rapporto annuale dello Stockholm international peace research institute (Sipri) sullo stato degli armamenti del 2023, rilevano che all’inizio del 2022, il numero complessivo di testate nucleari nel mondo era in diminuzione.
“Quello che sta succedendo, e che penso sia molto grave, è che i Paesi in possesso di armi nucleari affermano che non ricorreranno mai a queste perché sono troppo pericolose, troppo distruttive –commenta Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo. – Eppure, guardando i numeri, i Paesi stanno investendo le loro risorse non tanto in termini quantitativi ma qualitativi, stanno cioè ammodernando i propri arsenali, le proprie testate, i propri lanciatori e questo è in contraddizione con le loro dichiarazioni.”
Secondo Vignarca campagne come quella lanciata da Ican sono quindi fondamentali non solo a livello comunicativo per accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica sulle spese nucleari, soldi pubblici di cui il settore privato ha guadagnato almeno il 30%, “ma servono anche a rendere evidente la direzione dello sviluppo strategico delle armi nucleari – osserva Vignarca. – Contrariamente a quanto viene detto, sono un pericolo reale in quanto stanno diventano sempre più centrali per le superpotenze, e questo non ci fa stare tranquilli”.
La Rete pace disarmo, in Italia uno dei partner principali di Ican, aderisce e promuove la settimana che sarà l’occasione per organizzare momenti di confronto e webinar in collaborazione con Ican stessa, pubblicare materiale di approfondimento e rilanciare i dati della campagna internazionale focalizzandosi sul nostro Paese.
Sarà importante anche ampliare la discussione e far emergere quanto il tema delle spese nucleari sia strettamente connesso con quello del coinvolgimento delle banche che finanziano il settore. “Rendere chiaro questo aspetto può contribuire a orientare le scelte dei consumatori e spingerli a fare pressione affinché gli istituti finanziari siano più trasparenti e rendano conto dei loro investimenti”, spiega Vignarca.
Con Rete pace e disarmo ci sarà anche la campagna Senzatomica. Insieme dal 2016 promuovono la mobilitazione “Italia, ripensaci” per l’adesione del nostro Paese al Trattato di proibizione delle armi nucleari.
“Questa settimana di mobilitazione ci aiuta a rilanciare un’idea che noi promuoviamo da quando siamo nati, nel 2011: il fatto che sia necessario rimettere al centro le persone e la società civile – dice Alessja Trama coordinatrice delle politiche e della ricerca di Senzatomica. – È così diffuso il senso di impotenza e rassegnazione sul tema del nucleare, alimentato anche dall’assenza di dibattito pubblico in merito, che uno dei lavori più impegnativi per noi è quello di andare a disinnescare questo sistema di convinzioni che finisce per rendere accettabile la loro esistenza.”
Senzatomica lavora quindi principalmente con i giovani, attraverso laboratori nelle scuole e una mostra itinerante, multimediale e gratuita che dal 2011 ha raggiunto 420mila persone in più di 80 città. L’obiettivo è quello di aiutarli a prendere consapevolezza affinché rivendichino un mondo senza armi nucleari e rifiutino il paradosso della sicurezza fondata su queste. Come è possibile parlare di sicurezza ricorrendo agli gli unici dispositivi mai creati in grado di distruggere tutte le forme di vita complesse sulla Terra? Second Ican, basterebbe infatti meno dello 0,1% della potenza esplosiva dell’attuale arsenale nucleare globale per provocare un devastante collasso agricolo e una carestia diffusa.
Nonostante ogni 29 agosto si celebri la Giornata internazionale delle Nazioni Unite contro i test nucleari e si ribadisca l’impatto negativo dello sviluppo di questi ordigni inumani sulle comunità che vivono nelle vicinanze dei luoghi di queste esplosioni. E nonostante il prossimo anno ricorreranno gli ottant’anni dalle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. C’è ancora bisogno di parlare di armi nucleari.
Da Il Quotidiano del Sud – Il libro “Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini” a cura della Redazione della rivista online Via Dogana 3 della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del femminismo italiano e non solo, raccoglie la maggior parte degli articoli usciti online nel 2023, frutto delle discussioni nelle redazioni aperte. Discussioni su: “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare” rivolto soprattutto agli uomini, il cui filo conduttore è la politica delle donne e l’efficacia delle sue pratiche, inventate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso. «Avere voce, parlare e parlarsi esponendosi agli scambi per una modificazione di sé e del proprio rapporto col mondo. È questa la politica delle donne» scrivono le curatrici nell’introduzione. Un parlare e un parlarsi che crea nuovo pensiero e aiuta a comprendere questo nostro presente, la cui parola giusta per dirlo è “post- patriarcato”. Tante le riflessioni e le domande che emergono dai vari interventi che, con la pubblicazione, aprono ad ulteriori scambi, «a creare incontri di discussione, gruppi di lettura […] e nuovo pensiero». Si parte dalla pratica che sta all’origine del femminismo, l’autocoscienza con cui ogni donna è autorizzata a parlare a “partire da sé”, dal proprio vissuto. Ci si chiede se, finita quella fase storica, è ancora viva. «L’autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia» e talvolta si presenta in forme diverse da quelle del passato come con il #MeToo. «Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare […] una cosa da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione: la rete». La rete è il luogo privilegiato anche dei giovani per fare politica, impegnarsi in movimenti di protesta.
«La politica sta cambiando», in crisi è la politica eredita dal patriarcato. C’è la politica delle donne e le sue pratiche – autocoscienza, partire da sé, affidamento, pratica delle relazioni – e ci si interroga sulla loro efficacia e sul perché sono ancora sconosciute e circolano poco fuori dagli ambiti femministi. Una politica orientata dall’amore: l’amore della figlia per la madre, l’amore delle donne per le loro simili, l’amore di sé e per il mondo che rende politica l’amicizia tra donne e tra donne e uomini. Politico è il movimento delle donne con i suoi luoghi: librerie, case delle donne, libere università, centri antiviolenza, volontariato, associazionismo. Politica sono le giovani femministe che scendono in piazza «unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando l’eredità delle storiche e ridando vita, da un punto di vista diverso, alle lotte condotte negli anni ’70». E gli uomini? «È ora di cambiare» dopo la svolta di consapevolezza suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla presa di parola della sorella Elena e di suo padre Gino. Uomini interrogano e si interrogano su ciò che ostacola il dissociarsi dalla violenza e il saper stare davanti alla libertà e alla grandezza femminile. Che gli uomini parlino tra loro, a partire da sé, nella disponibilità delle donne «all’ascolto e al dialogo per capire come ricostruire maschi e padri liberi dall’obbligo del dominio». “Femminismo mon amour” è un libro per donne e uomini che pone domande, fa riflettere e dà consapevolezza del contesto storico in cui viviamo.Il libro “Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini” a cura della Redazione della rivista online Via Dogana 3 della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del femminismo italiano e non solo, raccoglie la maggior parte degli articoli usciti online nel 2023, frutto delle discussioni nelle redazioni aperte. Discussioni su: “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare” rivolto soprattutto agli uomini, il cui filo conduttore è la politica delle donne e l’efficacia delle sue pratiche, inventate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso. «Avere voce, parlare e parlarsi esponendosi agli scambi per una modificazione di sé e del proprio rapporto col mondo. È questa la politica delle donne» scrivono le curatrici nell’introduzione. Un parlare e un parlarsi che crea nuovo pensiero e aiuta a comprendere questo nostro presente, la cui parola giusta per dirlo è “post- patriarcato”. Tante le riflessioni e le domande che emergono dai vari interventi che, con la pubblicazione, aprono ad ulteriori scambi, «a creare incontri di discussione, gruppi di lettura […] e nuovo pensiero». Si parte dalla pratica che sta all’origine del femminismo, l’autocoscienza con cui ogni donna è autorizzata a parlare a “partire da sé”, dal proprio vissuto. Ci si chiede se, finita quella fase storica, è ancora viva. «L’autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia» e talvolta si presenta in forme diverse da quelle del passato come con il #MeToo. «Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare […] una cosa da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione: la rete». La rete è il luogo privilegiato anche dei giovani per fare politica, impegnarsi in movimenti di protesta.
«La politica sta cambiando», in crisi è la politica eredita dal patriarcato. C’è la politica delle donne e le sue pratiche – autocoscienza, partire da sé, affidamento, pratica delle relazioni – e ci si interroga sulla loro efficacia e sul perché sono ancora sconosciute e circolano poco fuori dagli ambiti femministi. Una politica orientata dall’amore: l’amore della figlia per la madre, l’amore delle donne per le loro simili, l’amore di sé e per il mondo che rende politica l’amicizia tra donne e tra donne e uomini. Politico è il movimento delle donne con i suoi luoghi: librerie, case delle donne, libere università, centri antiviolenza, volontariato, associazionismo. Politica sono le giovani femministe che scendono in piazza «unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando l’eredità delle storiche e ridando vita, da un punto di vista diverso, alle lotte condotte negli anni ’70». E gli uomini? «È ora di cambiare» dopo la svolta di consapevolezza suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla presa di parola della sorella Elena e di suo padre Gino. Uomini interrogano e si interrogano su ciò che ostacola il dissociarsi dalla violenza e il saper stare davanti alla libertà e alla grandezza femminile. Che gli uomini parlino tra loro, a partire da sé, nella disponibilità delle donne «all’ascolto e al dialogo per capire come ricostruire maschi e padri liberi dall’obbligo del dominio». “Femminismo mon amour” è un libro per donne e uomini che pone domande, fa riflettere e dà consapevolezza del contesto storico in cui viviamo.
Da la Repubblica – Attenzione. Sembra “La Bionda, la Moglie, la Capa” e invece è House of Cards. Prendere appunti, risceneggiare, uscire dall’inerzia del remake. No, non è una commedia sexy trucida, ridicola e scadente, l’infermiera, la supplente, la preside, quella roba lì, quella che tutti capiscono di cosa si tratta e ridono e si tranquillizzano (vedi, anche il ministro) e fanno la ola, le battutacce sessiste a darsi di gomito coi doppi sensi, due giri a scopone scientifico, la pompeiana esperta, chissà che numeri avrà fatto a letto per annebbiargli la vista perché l’uomo, povera creatura, è debole, la donna è tentatrice, alzi la mano chi non si è confuso almeno una volta nella vita, dai, chi non ha deragliato e mentito per poi dire scusa amore mi sono sbagliato, la donna della mia vita sei tu. Professoressa glielo giuro, mi perdoni, non lo faccio più. D’altra parte si sa che i maschi alla guida tamponano se metti il cartellone di una bionda agli incroci, gli automobilisti hanno le reazioni delle cavie lobotomizzate, poveri cari, la soluzione per la sicurezza stradale è semplice: togliere le bionde dagli incroci e nessuno si farà più male.
Invece no. Invece è la perfetta istantanea dello stato del potere, questa pochade di fine estate. Una storia a tratti persino livida: il tramonto della democrazia rappresentativa per difetto di rappresentanza, per inconsistenza delle classi dirigenti, il potere inteso come privato privilegio, l’onnipotenza proporzionale all’incompetenza, la paura del ricatto e quindi il ricatto. Anche un po’ il ribaltamento delle parti in commedia (James Bond, la pupa: chi dei due porta a termine la missione?) e l’incrinarsi – pensa te – del detestato patriarcato. Ha fatto più la Bionda in una settimana che tanti saggi, tanti panel, tante amazzoni delle opposizioni in mesi e anni. Esagerato? Vediamolo insieme, allora, questo film.
La Bionda. Nella mirabile intervista tv di Marianna Aprile e Luca Telese sta ridente e tranquilla. Fa il suo mestiere: quello di un’imprenditrice di provincia che ha l’ambizione di fare carriera. È una colpa? Direi che è la norma. Vedete forse in questa storia altri, primari, comprimari e comparse, privi di ambizione? Vedete forse qualcuno che punti a distruggere anziché incrementare il suo patrimonio di consenso? Non mi pare.
Dice io ho votato Meloni. Certo, pensavate che avesse votato Mimmo Lucano? Dice mi dispiace che il ministro si sia dimesso, io lo stimo: bastava che dicesse la verità, mi sono solo difesa. Poi dice alcune cose di altissimo valore istituzionale. Era lui l’uomo delle istituzioni, non io. Cioè: è lui che ha giurato sulla Costituzione di servire il popolo italiano, non io. È lui che mi ha inserito nelle chat, nelle mailing list, è lui che è venuto a prendermi per portarmi ai sopralluoghi. È lui che mi ha chiamata per farmi ascoltare la moglie, al telefono, senza che lei lo sapesse. Io l’ho sempre aiutato. L’ho visto ingenuo, in difficoltà: gli ho regalato un salvaschermo da mettere sul telefono, una protezione anti-spia. Era lui che chiamava e riceveva chiamate da ministri e presidenti, non io. «Si è trovato in una situazione che non ha saputo gestire». Infine, colpo di scena per i fan del boccaccesco, della Mantide che fa pesca a strascico fra potenti fino ad abbindolarne uno (a parte il fatto che, eventualmente, se ti fai abbindolare sei tu l’allocco). Dice, la Bionda: io avevo con lui un rapporto personale, non affettivo. È lui ad aver detto che c’è stata una relazione, un «fatto privato», non io.
Ecco il dettaglio che ci porta direttamente alla scuola dell’infanzia, dove lui è convinto di essere fidanzato con lei ma lei non lo sa. Il «fatto privato» secondo lui. Lei che si limita ad accettare gli inviti: prendere il passaggio, fare il sopralluogo, andare al concerto. Pensa se non ci fosse stata sessuale ricompensa, che storia ridicola.
Sono altre le donne in questa storia, non io – dice la Bionda. Cioè dice: io non sono la donna di questa storia. Ce ne sono altre, il ministro era ricattato: da direttori di settimanali, per esempio. So che c’è una talpa al ministero. Infine: ho registrato e conservato traccia di ogni cosa perché è stato lui a dirmi «non ti crederanno». Tu sei una donna, io un uomo. Io sono il ministro, tu non sei nessuno. Che storia antica. Quindi d’ora in avanti le bionde con le extension di cui danno credito sui social sanno come fare. Barbie bondgirl, powerbarbie. Poi la domanda capitale: per quale ragione al mondo una dovrebbe lavorare gratis? Per accrescere la sua reputazione, i follower, per fare curriculum, è ovvio. Un reddito reputazionale. Ma lui? Lui cosa sperava di ottenere in cambio di quell’incarico gratuito? Che storia da terza elementare. E noi? Noi cittadini italiani, cosa potevamo ottenere?
La Moglie. Una voce fuori campo, nel film. Un’altra bionda, anche lei molto alta (sul debole degli uomini di modesta statura per le donne che li sovrastano lascio la parola agli psicoanalisti) che sobriamente non compare mai se non nelle occasioni istituzionali, tipo Venezia, si vede che ha altri problemi da risolvere ma che in privato, giustamente, gli dice non renderti ridicolo.
Anche lei lo protegge. Gli dice straccia quel contratto di consulenza, gentilmente, stupido. Cerca di stare nella decenza. Lo sappiamo, questo, perché lui la mette in viva voce con la Bionda. Che caduta di stile, che violazione dell’intimità familiare. La donna più importante della sua vita messa in viva voce con l’altra. Altra che non è, fino a prova contraria, l’amante. Lei non conferma, e sì che ne trarrebbe beneficio. Anzi, dice non sono io. Cercate altrove.
La Capa. C’è un grande vulnus nella selezione dei maschi affidabili, nel pubblico e nel privato, qui. Ma in questo la Capa ci è sorella. Chi di noi non ha creduto all’uomo sbagliato. Perché aveva un ciuffo, perché era un simpatico sbruffone che chissà come mai si stava interessando proprio a noi non così fighe, perché ci lusingava, perché ci pareva devoto. Ci siamo sbagliate, ci sbagliamo sempre. Siamo brave solo con gli uomini delle altre.
Però va detto che la Capa se ne sbarazza, alla fine, dei suoi errori. Anche qui. Prendere appunti. La Capa li mette alla porta. Tardi, sì certo, ma lo fa.
Sceneggiatori: riscrivere la trama. La Capa non ha nessuno di cui fidarsi. La Capa dovrebbe infine risolversi a scegliere i competenti, non i devoti. Piano piano. Si rende conto del pericolo del ricatto. I maschi protervi fanno scemenze guidati dal testosterone. Del resto. Quelli che dicono, nei talk, pover’uomo, irretito da una bionda che l’ha annebbiato, da una bionda opportunista: non stanno forse parlando di sé, del loro passato e presente?
E basta un po’, con questa commedia sexy permanente in cui la tentatrice di fa deragliare. Tenete saldi i pantaloni, amici. Stringete la cintura. Siete voi a deragliare. Siete voi a presumere favori sessuali in cambio, anche quando li sperate e non ci sono. La nuova sceneggiatura del film: l’esercizio del potere richiede una quota di fedeltà, di castità. Siete in grado, o siete inadatti per difetto di controllo? Le bionde vincono, altrimenti.
Le bionde, qui, hanno vinto la partita. Barbie premier. Barbie moglie. Barbie influencer. Ragazze: avete visto come si fa? D’ora in avanti: occhiali a raggi X, controllo delle mail e a voi il governo. Non date quello che vogliono: promettetelo solo. Coi cuoricini, gli emoticon.
In Tecnologia della rivoluzione Diletta Huyskes apre una riflessione sulle responsabilità sociali di chi innova. Dal forno a microonde all’AI
L’idea che la tecnologia sia una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali, è un mito radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, come dimostra Diletta Huyskes nel suo libro Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale (Il Saggiatore, 2024), questo mito è ben lontano dalla verità. La tecnologia non è mai stata neutrale e spesso amplifica le ingiustizie esistenti.
Un esempio significativo che viene raccontato nel libro è il caso di ProKid+, l’algoritmo di polizia predittiva impiegato nei Paesi Bassi nel 2015, che ha condannato preventivamente un adolescente, Omar (nome fittizio), a un futuro da criminale. Reddito basso, background migratorio e un’età inferiore ai diciotto anni, sono solo alcune delle caratteristiche utilizzate dai sistemi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di migliaia di persone ogni giorno. Il progetto, noto come Top400, inizialmente pensato come una lista di adolescenti precedentemente condannati per almeno un reato, è stato successivamente ampliato includendo anche bambini e ragazzi che, pur non avendo ancora avuto problemi legali, erano considerati dall’algoritmo a rischio di esserlo presto.
Una tecnologia a sfavore delle minoranze
Questo algoritmo, che avrebbe dovuto rappresentare un approccio innovativo alla prevenzione del crimine, non ha fatto altro che reiterare stereotipi e pregiudizi preesistenti, privando i soggetti come Omar di qualsiasi possibilità, riscatto ed emancipazione e lasciandoli intrappolati in un circolo di sospetti e discriminazioni: «Questa sentenza è il risultato di una raccomandazione proveniente da un modello matematico che prometteva il rilevamento della criminalità utilizzando principalmente metodologie di apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che utilizza modelli statistici e algoritmi per analizzare e fare previsioni basate sui dati».
La pretesa di prevedere il crimine attraverso l’analisi dei dati ignora il fatto che tali modelli sono costruiti su basi che riflettono le disuguaglianze sociali, contribuendo a perpetuarle piuttosto che risolverle. Non a caso Huyskes cita Andrew Feenberg che nel suo testo, Transforming Technology, asserisce che la progettazione della tecnologia è una decisione ontologica ricca di conseguenze politiche. Huyskes ci guida attraverso una riflessione critica, evidenziando come ogni nuova tecnologia sia il risultato di un preciso percorso storico e sociale. Contrariamente all’immagine romantica del genio inventore che cambia il mondo con un’illuminazione improvvisa, la realtà ci mostra come le innovazioni tecnologiche siano frutto di compromessi, conflitti e distribuzioni ineguali di potere.
L’idea di un progresso lineare e inevitabile si sgretola di fronte all’analisi che Huyskes offre, svelando una verità fattuale: la tecnologia è costruita, modificata e implementata per servire interessi specifici, spesso a scapito delle fasce più vulnerabili della società. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’introduzione delle tecnologie domestiche nel ventesimo secolo. Queste invenzioni, come il forno a microonde, venivano presentate come soluzioni liberatorie per le donne, promettendo di alleviare il carico del lavoro domestico.
Tuttavia, come dimostra Huyskes, la realtà è stata ben diversa: piuttosto che emancipare, queste tecnologie hanno rafforzato gli stereotipi di genere, relegando ulteriormente le donne al loro ruolo tradizionale di casalinghe. Invece di liberarle, le hanno intrappolate in un ciclo di lavori domestici sempre più standardizzati e invisibili: «La speranza era che la tecnologia domestica avrebbe sollevato le donne dal loro lavoro non pagato nelle case, un tema politico su cui il movimento femminista stava concentrando quasi interamente le sue lotte in quegli anni».
Il controllo dei corpi
Infatti, nel 1974, Joann Vanek dimostrò come la condizione femminile nel lavoro casalingo non avesse subito nessun cambiamento con l’introduzione delle tecnologie domestiche; l’industrializzazione del lavoro domestico e la meccanicizzazione del focolare aveva creato nuove aspettative, un aumento della produttività e nuovi compiti: «Lungi dal sentirsi liberate, le donne che lavoravano nelle case, che quotidianamente e instancabilmente portavano avanti tutto il lavoro di cura necessario al sostentamento della vita economica e politica di intere nazioni, si sentivano sempre più meccanizzate, ma anche sempre più affaticate».
Nell’analisi di Diletta Huyskes emerge con forza il tema del controllo dei corpi come uno dei nodi cruciali nell’intersezione tra tecnologia e genere: «Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere?». L’esclusione delle donne dalla tecnologia non ha significato solo tenerle lontane dai luoghi di potere, formazione e creazione, ma anche privarle della possibilità di utilizzare e beneficiare di tali innovazioni. Questo schema di esclusione, che continua a persistere anche dopo molti decenni, rappresenta ancora il modello dominante nella gestione del rapporto tra genere e tecnologia.
Nel libro si racconta anche come a partire dal 1980, il gruppo di ricerca su donne e tecnologia della Fondazione per la ricerca scientifica e industriale dell’Istituto norvegese di tecnologia (Sintef), con le studiose Anne-Jorunn Berg e Merete Lie, ha iniziato a riflettere sulle conseguenze pratiche dell’esclusiva presenza maschile nelle fasi di progettazione e sviluppo tecnologico. Inizialmente, le domande riguardavano l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle donne. Tuttavia, con il progredire delle loro ricerche, la questione si è evoluta in: «Gli artefatti hanno un genere?».
Questo ha portato a un ampliamento della ricerca, dall’analisi delle donne all’indagine sul genere e sul design in generale, invece di concentrarsi solo sulle conseguenze delle tecnologie. Berg e Lie hanno scoperto che gli artefatti tecnologici riflettono un genere, poiché vengono progettati con specifiche configurazioni di genere in mente. In altre parole, nascono con un’idea chiara di chi dovrà utilizzarli.
AI e stereotipi sociali
Automobili, computer, smartphone sono alcuni esempi di tecnologie usate da uomini e donne, ma progettate principalmente tenendo conto delle caratteristiche e delle abitudini di un uomo medio: «La testimonianza più forte degli ultimi anni sulle persistenti disuguaglianze di genere nel design di ciò che diamo più per scontato l’ha scritta l’attivista e scrittrice Caroline Criado-Perez. Un catalogo di fatti e cifre che raccontano di un mondo a misura d’uomo, forse tra i più scioccanti quello sulle case automobilistiche statunitensi che solo nel 2011 hanno iniziato a effettuare crash test anche con manichini femminili. Prima di quel momento, tutti i dati a disposizione e gli interventi necessari riguardo agli incidenti automobilistici avevano a che fare esclusivamente con i corpi maschili, per cui l’accuratezza nei casi di corpi femminili era sconosciuta».
Nel panorama contemporaneo, l’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera di questa riflessione critica. Lungi dall’essere una tabula rasa, l’AI porta con sé i bias e le ingiustizie del passato, riflettendo le stesse logiche di potere che hanno caratterizzato le tecnologie precedenti: «Non solo incorporano cultura, valori, pregiudizi durante le fasi di design iniziale, ma continuano ad alimentarsi di questi input sempre nuovi durante la loro intera esistenza». Oggi, le nuove tecnologie sono progettate per mantenere lo status quo e perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, contribuendo a rafforzare ciò che la studiosa femminista Patricia Hill Collins chiama «la matrice del dominio», un sistema sociologico che comprende diverse forme di oppressione come il capitalismo, l’eteropatriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo.
Uno degli esempi più emblematici dell’automazione di sistemi istituzionali già particolarmente discriminatori ed escludenti è quello della giustizia penale. Con l’obiettivo di trovare una formula matematica che potesse prevedere con precisione la probabilità di recidiva, sempre più dipartimenti di giustizia hanno sperimentato l’uso dell’intelligenza artificiale: quasi tutti gli stati nordamericani hanno adottato o testato software basati su AI per questo scopo. Questi sistemi calcolano le probabilità attraverso la valutazione del rischio: un punteggio di rischio elevato indica una maggiore probabilità che l’individuo commetta nuovamente un crimine in futuro: «Il calcolo che porta a questi punteggi è basato solitamente su delle domande rivolte direttamente alle persone imputate e i dati estratti dal casellario giudiziario. Si tratta di previsioni sul futuro in base a comportamenti passati, frequenze, statistiche, e i dati per addestrare modelli come questi spesso includono variabili proxy come “arresto” per misurare il “crimine” o qualche nozione di “rischiosità” sottostante».
Ripensare la tecnologia: giustizia e inclusione
Negli Stati Uniti, dove i dati relativi al crimine sono stati influenzati da decenni di pratiche di polizia basate su pregiudizi razziali, e dove alcuni gruppi sociali ed etnici sono stati storicamente più esposti a controlli di polizia, la mappatura del crimine non può essere considerata neutrale. A partire da questi presupposti, l’etnia viene tracciata indirettamente attraverso altre variabili correlate, come il codice postale o la condizione socio-economica.
Il risultato è un modello che presenta un tasso significativamente più alto di falsi positivi, cioè attribuisce un rischio elevato di recidiva a individui neri rispetto a quelli bianchi. Alcuni di questi strumenti mirano a prevedere i rischi di criminalità associati a singoli individui, basandosi sulla loro storia personale e su altre caratteristiche. È proprio ciò che è accaduto a Omar: giudicato da un software di polizia predittiva come un adolescente ad alto rischio di diventare un criminale, è stato trattato come tale fin da subito.
Come asserisce l’autrice, «L’intelligenza artificiale è molto più di una tecnologia. È un discorso utilizzato attivamente per plasmare le realtà politiche, economiche e sociali del nostro tempo». La tecnologia può essere un potente strumento di liberazione, ma solo se siamo disposti e disposte a interrogarci su chi ne controlla lo sviluppo e su chi ne beneficia davvero. È essenziale che il dibattito sulla tecnologia non rimanga confinato a un’élite specifica, ma diventi un discorso collettivo, aperto e inclusivo, in grado di affrontare le domande fondamentali su giustizia, equità e democrazia. In questo senso, Tecnologia della rivoluzione è un invito a ripensare il nostro rapporto con il progresso e con le forze che plasmano il nostro presente e il nostro futuro. Huyskes ci ricorda che ogni innovazione porta con sé una responsabilità, e che è nostro compito vigilare affinché il futuro tecnologico sia costruito su basi più giuste e consapevoli.
(Wired, 6 settembre 2024, apparso con il titolo No, la tecnologia non è neutrale ed ecco come ha condizionato la vita delle donne)
Da la Repubblica – Diritti, nuovi linguaggi, cultura woke, donne sono al centro del Festivaletteratura. Da sempre Mantova è un laboratorio per discutere senza preconcetti intorno ai temi che dominano il dibattito pubblico.
Nella seconda giornata di festival, in una città fiaccata da una pioggia battente ma non tradita dai lettori, Goldie Goldbloom, ebrea ultraortodossa attivista Lgbtqia+, ieri ha raccontato la sua storia all’interno della comunità chassidica. E oggi Olivia Laing (con Chiara Valerio in Piazza Castello alle 19,15) promette di concentrarsi su corpi e desideri, mentre l’ecuadoriana María Fernanda Ampuero parla di violenza di genere in contesti svantaggiati (Seminario vescovile, ore 19). Sabato sarà la volta di Deborah Levy e domenica di Jessa Crispin e Mona Awad.
Uno degli incontri più affollati, sotto il tendone di Piazza Sordello, ha visto protagonista la filosofa Annarosa Buttarelli, allieva e assistente di Luisa Muraro, curatrice delle opere e dell’archivio di Carla Lonzi, radici dunque nel femminismo della differenza. Libri recenti: Bene e male sottosopra (Tlon) e Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione (Feltrinelli). Sarà il titolo dell’incontro, “Contro il politicamente corretto”, sarà che a Mantova il pubblico è motivato e non si lascia sfuggire momenti di discussione, non c’è un posto libero e qualcuno rimane in piedi. Per Repubblica è un’occasione per proseguire a Mantova il dibattito sul diritto di parola. Con una sorpresa, che emerge parlando con la filosofa alla fine del suo incontro: può e deve essere cercato un punto di conciliazione.
Ci sarà pure un modo per sanare le rigidità degli opposti estremismi, per tentare di ricucire gli strappi tra femministe di ieri e di oggi, tra chi segue la teoria del gender e chi ne diffida?
Quel punto di equilibrio si chiama “discernimento”.
Vale a dire?
Sta nella capacità di recuperare un pensiero critico che sappia contestualizzare, mettere le cose in una prospettiva storica. Non si può ragionare a prescindere dai dati di realtà. Le posizioni differenti vanno sempre valutate dentro le situazioni per non cadere nei pre-giudizi che sono appunto giudizi formulati a priori.
Ottimo, proviamo a dare concretezza a quanto sta dicendo, visto che lei è una intellettuale che non ama le speculazioni astratte ma la filosofia concreta. Che pensa dello schwa e del linguaggio inclusivo?
È un’astrazione, e perdipiù non è pronunciabile. Non si può imporre una regola calata dall’alto al linguaggio che è qualcosa di vivo. La lingua materna, quella del cuore e delle lacrime, ci riconnette con ciò che sentiamo. Tutto il resto è una neolingua che rischia di diventare un codice astratto, studiato a tavolino. E poi noi donne abbiamo lottato tanto per conquistarci le declinazioni femminili, nei mestieri ad esempio, e ora ci viene proposto il neutro.
Quel neutro è un tentativo di inclusione. Non si tratta di escludere ma semmai di evitare di tenere fuori qualcuno. Perché dovrebbe dar fastidio?
In realtà anche la parola inclusività non mi convince del tutto. Mi sembra sia una forma di annessione. Mi viene in mente l’ambra che cattura dentro di sé gli insetti. Insomma, mi pare una forma di egemonia. La vera inclusività democratica per le donne è iniziata nel 1946 con il voto.
Passi che non le piace parlare di inclusione, che propone?
Mi piace il verbo accogliere.
È cattolica?
Né cattolica, né credente. Come Margherita Hack credo nel mistero e sono attratta dalla spiritualità.
Le sembra che questo sistema di regole per rendere i nostri comportamenti e modi di parlare più rispettosi delle minoranze manchi forse di spiritualità?
A volte manca di quella che Flannery O’ Connor chiamava la grazia, che è una forma di imprevisto, una sorta di folgorazione. Non vorrei rinunciassimo a produrre pensieri originali, autonomi, per attenerci ai diktat del politicamente corretto.
Non è un peccato che ci si divida tra femminismi? Non sarebbe meglio unire le forze del mondo progressista?
Si è creata una frattura nel femminismo, vero. Faccio notare che l’ondata queer ha radici nella cultura americana, lacerata da una schizofrenia tra il puritanesimo e l’idolatria delle libertà individuali.
Dunque?
Ho l’impressione che si stia cadendo in un paradosso, che il superamento di quello che viene detto il binarismo possa portare a una ricaduta in un’altra forma di identitarismo. Non è un caso che si parli di “identità di genere”. Gli stereotipi vanno smontati, sempre. È questo in fondo il significato ultimo del femminismo della differenza. All’università sono stata una volta processata perché avevo detto “noi donne”. Processata perché uno studente con barba e sottane si era sentito escluso, anzi esclusa. Poi abbiamo trovato un punto di conciliazione: avrebbe potuto essere considerato donna a patto di assumersi sopra le spalle la storia di noi donne: i roghi, gli abusi subiti durante le guerre, le lotte….
Non è una grande libertà potersi definire al di là della biologia?
Certo, a patto che anche io possa chiamarmi “donna” e non “persona che mestrua”. Su questo fronte ha ragione J.K. Rowling. Ha però sbagliato quando ha attaccato la pugile olimpionica Imane Khelif, che è una donna a tutti gli effetti nonostante un eccesso di ormoni maschili.
Provi a proporre una formula concreta che sostituisca lo schwa?
A volte dico: “noi qui, donne, uomini e altri generi”.
Tenda la mano anche filosoficamente.
Noi filosofi abbiamo la responsabilità di portare luci. Possiamo incontrarci sul rispetto della condizione umana.
Da il manifesto – La nuova raccolta di Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, pubblicata dalla Nave di Teseo (pp. 80 euro 18), prende il titolo da due versi di una poesia che vi troviamo collocata più o meno al centro: «nell’estremo forte degli occhi/ mai si stanca la sorte di accadere». E forse non è casuale, la collocazione centrale di questi due versi, perché è nella constatazione che esprimono che va cercato il significato più essenziale della raccolta. Va detto che non si tratta di un poema e che l’idea stessa di individuare per forza un nucleo tematico centrale, che tenga insieme le singole poesie, potrebbe essere considerata arbitraria. Non solo: il fatto in sé che i versi appaiano spesso imprendibili, nei loro singoli contenuti semantici, potrebbe perfino sconsigliare di coltivarla, un’idea simile.
Ma il punto è che sembra aver ragione Elisabetta Sgarbi, quando osserva, in epigrafe, che sono poesie in cui «Si entra accompagnati da un’immagine lieve e si impara per negazione nel poco a poco in rovina». Perché è questo senso di «negazione» e di «rovina» ciò che tutte le poesie della raccolta sembrano avere in comune l’una con l’altra, seppur nelle differenze di ciascuna: è il senso di un vuoto, di un’assenza. D’altronde qualcuno sostiene che scrivere è sempre raccontare un’assenza: e qui in effetti è come se, poesia dopo poesia, l’io poetante non facesse altro che questo: raccontare un’assenza – continuamente evocandola e convocandola, un’immagine dopo l’altra, quasi narrativamente. Esisteva, quell’assenza, è stata presenza in carne e ossa nella vita di chi ora le sta parlando: corpo, sensi, odori, sapori, gesti. È più di una semplice assenza: è una scomparsa, dunque ancor più dolorosa. Al tempo stesso, è come se le parole servissero anche a ricomporre i pezzi dello sgretolamento e della rovina che quella scomparsa ha procurato nell’esistenza di chi le è sopravvissuto.
Come se, in realtà, scrivere fosse uno strumento, oltre che di lacerazione, anche di purificazione: un modo, oltre che per raccontare un’assenza, anche per recuperare una presenza, assumendola e tenendola dentro di sé (come quando, rivolgendosi a quell’assenza, l’io poetante le dice: «Tu che mi diventi biografia»). O quantomeno come un modo per «reggere la frattura del vuoto», e cioè quantomeno per ritrovare un proprio posto, una propria collocazione nella vita che intanto continua a scorrere, anche se «in mezzo/ siamo stati già sconfitti».
L’unica possibile salvezza è in quell’accettazione delle cose a cui allude la constatazione dei versi che danno origine al titolo: nel prendere atto, da parte dell’io poetante, che si può vivere solo come si può («Come posso/ dove posso/ fino a qui/ dopo di me non so»). È tutto già accaduto, e tutto quel che è stato non può essere né omesso né dimenticato: ne «paghiamo le notti in sudore» e «facciamo l’alba sui vetri/ con le dita», ma dobbiamo fare «come se/ non lo sapessimo ancora».
E da qualche parte non è detto tuttavia che non possano ancora essere vissuti dei momenti di grazia, quasi pacificati: «voglio rimanere fra le tue cose», leggiamo infatti in uno dei versi finali. E poco dopo, addirittura: «dovendomi vivere/ mi sorrido fra le fughe/ del tuo esistermi/ in azzurre risonanze di grigio/ e ringrazio ogni cielo». Ecco: come una forma di definitiva inscrizione dell’altro dentro di sé, non più solo biografia ma parte acquisita della propria autobiografia.
Da indiscreto.org – Una ragazza cammina, da sola, per le strade di New York. È pieno giorno e indossa una t-shirt e un paio di leggings neri, delle scarpe da ginnastica, sulle spalle uno zainetto. Le immagini, che proietto quando entro in classe per fare formazione, sono tratte da un filmato che dura circa un paio di minuti. Quando chiedo all’aula cosa potrebbe accadere dopo i primi fotogrammi, le persone di genere femminile indovinano al primo colpo. La clip contiene la sintesi di dieci ore di cat-calling, cioè continue molestie, abusi e commenti non richiesti, subiti dalla protagonista, Shoshana B. Roberts, per il solo fatto di camminare da sola in città, e fanno parte di una campagna lanciata nel 2014 dall’organizzazione Hollaback per portare attenzione nei confronti di questa particolare forma di violenza. Anche se non ha mai visto il video, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile che incontro sa rispondere alla mia domanda.
Una donna che cammina da sola sembra costituire un’anomalia del sistema. I recenti, tragici, fatti di cronaca, lo confermano: nei trenta giorni che sono trascorsi dall’omicidio di Sharon Verzeni – la barista di Terno d’Isola uccisa a coltellate mentre passeggiava, di notte, vicino alla propria abitazione – al fermo dell’assassino Moussa Sangare, abbiamo ascoltato vicini di casa e giornalisti commentare l’abitudine della giovane di uscire di casa a tarda sera. Secondo i dati sul rapporto Istat sul “Benessere Equo e Sostenibile” (Bes) del 2022, in Italia una donna su due ha paura a uscire da sola di sera. Al contrario, gli uomini che percepiscono la strada come un luogo tutto sommato sicuro sono circa il 70% (percentuale che supera il 78% se si prende in considerazione la popolazione maschile tra i 20 e i 24 anni).
Il fatto che la sensazione di pericolo aumenti dopo il tramonto non significa che durante le altre ore del giorno scompaia: ogni donna sa che, a prescindere da ciò che indossa, dall’accurata scelta del tragitto e dei mezzi di locomozione per evitare strade o individui poco raccomandabili, il rischio di incorrere in commenti, sguardi e tentativi di approccio non richiesti è sempre presente, così come il timore che queste affermazioni si trasformino in veri e proprio agiti. In seguito al video del 2014 si sono moltiplicate le iniziative volte a portare attenzione sul fenomeno. Sempre a New York, nel 2017, Sophie Sandberg ha raccolto centinaia di molestie subite dalle sue follower di Instagram, le ha trascritte con gessetti colorati proprio in quelle strade in cui sono avvenute per poi fotografarle e postarle sul social, dando vita al profilo “Catcalls of New York”. Molte altre ragazze l’hanno seguita facendo lo stesso nella propria città e mostrando così come nessun luogo – non importa quanto ricco, quando rispettabile, quanto turistico o centrale – sia sicuro per una donna.
Secondo Leslie Kern, autrice de La città femminista, «i luoghi fisici come le città contano quando vogliamo pensare al cambiamento sociale». Ogni spazio, infatti, è plasmato dalle relazioni di potere che si manifestano nei rapporti sociali, nelle diseguaglianze, nelle discriminazioni che si reiterano nelle strade, nei locali, tra le panchine di un parco o dentro i vagoni di una tramvia. I contorni assunti da qualsiasi spazio urbano fanno sì che «alcune cose continuino a sembrare normali e giuste, mentre altre “fuori luogo” e sbagliate». Utilizzare le lenti proprie della geografia femminista, allora, consente, da una parte, di vedere «il modo in cui la discriminazione di genere si collega ad altre diseguaglianze sociali e il ruolo che lo spazio ha svolto nei sistemi di oppressione» e, dall’altra, di tentare nuove soluzioni urbanistiche per dare vita al cambiamento.
Dentro la città, i corpi delle donne sono concepiti come elementi da monitorare. Fin dai tempi antichi, strade e piazze sono i luoghi dove gli uomini intessono scambi commerciali ed economici, stipulano alleanze e definiscono rapporti di potere. Alle donne è consentito attraversarli per svolgere le mansioni quotidiane, ma non sostarvi liberamente. Non è un caso che i centri commerciali nascano, sul finire del XIX secolo, proprio come un vero e proprio spazio “di genere”, in cui le donne potevano essere accompagnate per trascorrere qualche ora dedicandosi ad acquistare oggetti per se stesse o per abbellire la casa. Oggi come un tempo, i grandi magazzini sono luoghi vasti ma recintati, a cui si accede in assoluta sicurezza perché sorvegliati da personale in divisa. Il filosofo francese Michel Focault li descriverebbe come “eterotopie”, cioè luoghi altri, soggetti a dispositivi di controllo e precise regole che ne determinano le relazioni che si svolgono all’interno.
È sempre Kern a ricordarci come oggi, complice il capitalismo, stiano sorgendo sempre più “luoghi terzi”, spazi informali pensati per le donne e le loro esigenze, luoghi che si dichiarano “friendly” e ben disposti ad accogliere altre soggettività marginali, anche loro a rischio di incorrere in soprusi e violenze fuori da ambienti considerati protetti. La geografa sottolinea però come queste novità non siano di per sé delle soluzioni. Da una parte perché la riorganizzazione degli spazi non garantisce a prescindere l’opportunità, per chiunque, di accedervi. I luoghi conquistati dalle donne e dalle persone LGBTQIA+ rischiano comunque di lasciare indietro minoranze etniche e poveri, schiacciati e spinti ancora più lontano dalla gentrificazione che muta il volto di ogni città medio-grande, facendoli sentire presenze indesiderate. Per trovare una soluzione, allora, e lasciare per un attimo l’ambiente chiuso – case, grandi magazzini, bar a misura di mamme con bambini e coworking in salsa diversity&inclusion – e tornare alla strada, cercando di capire cosa possiamo fare per riprendercela.
Nel suo Storia del camminare, Rebecca Solnit sottolinea come «la stessa parola strada (street) ha in sé una magicità sordida, perché assomma il basso, il banale, l’erotico, il pericoloso, il sovversivo». Sovversiva è, in effetti, non solo la presenza delle donne lungo le strade ma anche l’azione del camminare.
A lungo si è creduto che le donne non fossero portate a stare in movimento. Tra i sostenitori di questa ipotesi vi era l’anatomista Owen Lovejoy che, nel 1981, ha firmato un articolo scientifico intitolato The origin of men in cui tentava di dimostrare come il bipedismo rientrasse in un nuovo schema riproduttivo che consentiva al maschio ottenere maggiore successo nell’accoppiamento. Sollevandosi sulle zampe posteriori, i nostri antenati avrebbero non solo cambiato andatura ma cominciato a impostare l’ideale della famiglia patriarcale, in cui il maschio procaccia il cibo e lo porta alla femmina (grazie alla possibilità di trattenerlo tra gli arti superiori, non più impegnati nello spostamento) che può quindi stare in uno spazio protetto, portare avanti le gravidanze in sicurezza o sorvegliare la prole garantendone la sopravvivenza. Nonostante la teoria di Lovejoy sia stata ampiamente criticata e superata, qualcosa del suo ragionamento permane ogni volta che qualcuno ci ricorda che il posto più sicuro, per noi donne, è la cucina. I presunti benefici che ottenevano le nostre antenate – sfamarsi senza rischiare la pelle – erano funzionali a garantirne altrettanti alla controparte, in particolare il controllo sessuale, la garanzia che gli unici geni trasmessi attraverso la riproduzione fossero i loro.
Il controllo sulla sessualità è, ancora oggi, quello che impedisce alle donne di attraversare liberamente le strade. Tornando al femminicidio di Sharon Verzeni, non è un caso che i primi articoli si siano concentrati sul fatto che la giovane uscisse non per fare sport ma per incontrare qualcuno. Se il flâneur – il libertino che si perde volontariamente nella sua stessa città, resa irriconoscibile dai mutamenti del XIX secolo – è un uomo che cammina per pensare ed elaborare teorie su ciò che vede, spostandosi da un angolo all’altro della metropoli, la flâneuse è una donna pubblica, sulla cui sessualità bisogna agire un controllo coatto.
E il controllo è proprio ciò che subisce Caroline Wyburgh, colpevole, nel 1870, di essere uscita per una passeggiata con un marinaio inglese. Qualche ora dopo il suo rientro a casa, fu trascinata fuori dal letto, fatta arrestare dall’ispettore della polizia e obbligata a un’ispezione corporale con cui accertarne la verginità. Raccontandone la storia, Solnit sottolinea come «il solo fatto di passeggiare all’ora o nel posto sbagliato poteva rendere una donna equivoca e la legge permetteva di arrestarla sulla base di un’accusa specifica o di un semplice sospetto».
La vicenda di Wyburgh è triste e violenta:
Al quinto giorno, accettò di essere esaminata, ma la sua disponibilità venne meno quando, dopo essere stata portata nell’ambulatorio in camicia di forza, venne gettata sul lettino con le gambe divaricate e legate, e tenuta distesa a forza da un assistente che le piantò un gomito sul petto. Lottò e, rotolando giù dal lettino con le caviglie ancora assicurate dalle cinghie, si ferì malamente. Ma l’ufficiale medico rise, perché gli strumenti di ispezione l’avevano deflorata e il sangue le scorreva tra le gambe. «Dicevi la verità» fu il suo commento. «Non sei una cattiva ragazza».
Le ispezioni corporali, oggi, hanno lasciato il campo ai processi e alle accuse che si ascoltano ogni volta che una donna denuncia (o viene ritrovata morta) per il semplice fatto di aver attraversato una strada o un parco per fare due passi o una sessione di jogging occupando cioè uno spazio che avrebbe, almeno sulla carta, diritto a vivere.
Cercando su internet articoli o post che dovrebbero convincermi a comprare un tapis roulant per replicare, dentro una stanza, quello che potrei fare, gratuitamente, tra le vie del mio quartiere, il tema della sicurezza è sempre al primo posto. Prima ancora della garanzia di potersi allenare sempre, a prescindere dalle condizioni atmosferiche, chi scrive sottolinea l’importanza di fare movimento senza rischi per la propria incolumità. Sarà un caso, ma le immagini a corredo dei contenuti in cui mi imbatto ritraggono giovani donne felici, sole, mentre corrono sul nastro e guardano dalla finestra di un set allestito per l’occasione.
Non è un caso che il treadmill nasca proprio con l’obiettivo di controllare il corpo e la mente di alcuni soggetti. A partire da metà Ottocento, faceva bella mostra di sé in molti istituti penitenziari d’America. Si trattava ovviamente di un apparecchio rudimentale, diverso da quello a cui siamo abituati oggi, costituito da una struttura cilindrica di ferro, cava, su cui erano posizionati dei pioli a intervalli regolari. Tenendosi ai corrimano laterali, i carcerati salivano sui pioli e il loro peso faceva ruotare il cilindro che li costringeva quindi a muoversi ininterrottamente. Si trattava al contempo di una punizione per espirare la condanna e di un modo per ricavare energia dal movimento coatto dei detenuti.
Oggi, per molte donne, i tapis roulant mantengono questa duplice funzione che è al contempo di controllo sui corpi e di liberazione da molestie, denigrazioni e tentativi di approccio subiti ogni volta che si attraversa uno spazio pubblico. La libertà che sembra concedere è, tuttavia, illusoria.
Occupare spazio significa mettere in discussione le attuali relazioni di potere tra i generi. Rafforzare la dicotomia tra luoghi domestici sicuri e luoghi esterni pericolosi è fuorviante, se pensiamo che la maggior parte delle violenze di genere avviene proprio dentro le mura di casa, per mano di chi ci conosce. Abbiamo bisogno di entrare dentro ogni luogo interrogandoci, afferma Kern, «su come si evitino le norme di genere»: un’azione impossibile se non portiamo il nostro corpo nel mondo. Negli anni Settanta, le attiviste femministe americane avevano coniato lo slogan “take back the night” che urlavano marciando insieme per le strade, cercando di portare attenzione intorno al fenomeno delle violenze subite dentro e fuori gli ambienti familiari. Camminare continua ad essere un atto sovversivo, mai come oggi necessario.
(*) Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counselor, lavora e scrive sui temi della violenza intrafamiliare e sugli stereotipi di genere, realizzando interventi formativi su queste tematiche per enti, associazioni e cooperative. Ha collaborato con numerosi Centri Antiviolenza. Nel 2023 ha pubblicato “Si è sempre fatto così: spunti di pedagogia di genere”, edizioni Tlon.
(indiscreto.org, 4 settembre 2024, pubblicato con il titolo “È difficile camminare, se sei una donna”)