da Pressenza

Testo letto in classe da 200 insegnanti in Israele per l’inizio dell’anno scolastico.

Per i bambini – Fermate la guerra!

Noi, insegnanti provenienti da tutto Israele, vogliamo aprire l’anno scolastico con un grande grido: non si può continuare così!

In questo giorno, il giorno di apertura dell’anno scolastico, un giorno emozionante e speciale dedicato a nuovi inizi e alla speranza, dobbiamo gridare: un bambino è un bambino. E troppi bambini e bambine sono già stati uccisi, rapiti, feriti, orfani, affamati, sradicati dalle loro case e colpiti in questa guerra.

L’educazione è il centro della nostra vita e del nostro mondo. Operiamo con fiducia verso i bambini e i ragazzi: crediamo nelle loro forze, nelle loro capacità, nei loro sogni e nei loro diritti. Il nostro impegno come educatori e educatrici è educare e agire affinché i bambini, ovunque si trovino, possano crescere e vivere in un mondo che permetta a tutto ciò di esistere e fiorire, un mondo di vita e prosperità – e non di morte e sofferenza.

E quindi, in quanto persone che hanno dedicato la loro vita al futuro dei bambini, chiediamo: non togliete loro questo futuro! Fermate le uccisioni, la distruzione e la fame a Gaza! Fermate il terribile ciclo di dolore e lutto in Israele e a Gaza! Ritirate i soldati da Gaza! Restituite i genitori ai loro figli! Liberate gli ostaggi – sono in immediato pericolo di vita! Salvate la vita dei bambini di entrambi i popoli!

Per i bambini e le bambine, per il futuro di tutti noi, fermate la guerra adesso!

Qui il link al video delle/gli insegnanti (in ebraico)

Ringrazio Gian Giacomo Migone, che mi ha girato il testo di questa giornalista,Valerie Zink, che si è dimessa da Reuters per i motivi che farete bene a leggere…:

Lezione di dignità

«Non posso più indossare questo tesserino senza provare vergogna e dolore».

Valerie Zink è una fotoreporter.

Per otto anni ha collaborato con Reuters e le sue immagini sono state pubblicate dal New York Times, da Al Jazeera, dai principali media internazionali.

Ma oggi, dopo l’ennesimo massacro israeliano contro cinque giornalisti, ha scelto di dire basta: ha lasciato l’agenzia. E lo ha fatto con parole che sono un’enorme lezione di dignità:

«Negli ultimi otto anni ho lavorato come collaboratrice per l’agenzia Reuters. Le mie foto sono state pubblicate dal New York Times, da Al Jazeera e da altri media in Nord America, Asia, Europa e altrove.

A questo punto è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza.

Devo almeno questo – e molto di più – ai miei colleghi in Palestina.

Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al Jazeera a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’infondata accusa israeliana secondo cui Al-Sharif sarebbe stato un operatore di Hamas – una delle tante bugie che i media come Reuters hanno ripetuto e legittimato con diligenza.

La disponibilità di Reuters a perpetuare la propaganda israeliana non ha risparmiato nemmeno i suoi stessi giornalisti dal genocidio in corso. Altri cinque giornalisti, tra cui il cameraman di Reuters Hossam Al-Masri, sono stati uccisi questa mattina in un attacco all’ospedale Nasser.

Si è trattato di un cosiddetto attacco “double tap”: Israele bombarda un obiettivo civile, come una scuola o un ospedale, aspetta che arrivino soccorritori, medici e giornalisti, e poi colpisce di nuovo.

I media occidentali sono direttamente responsabili per aver creato le condizioni in cui tutto questo può accadere.

Come ha scritto Jeremy Scahill di Drop Site News, “ogni grande testata – dal New York Times al Washington Post, da AP a Reuters – ha funzionato come un nastro trasportatore per la propaganda israeliana, ripulendo i crimini di guerra, disumanizzando le vittime, abbandonando i propri colleghi e ogni presunto impegno verso un giornalismo vero ed etico”.

Ripetendo le invenzioni di Israele senza nemmeno verificarne la credibilità – abbandonando volutamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione, in due anni e su una sola striscia di terra, di più giornalisti che nella Prima e Seconda guerra mondiale, in Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messi insieme. E questo senza nemmeno parlare della popolazione affamata, dei bambini dilaniati, delle persone bruciate vive.

Il fatto che il lavoro di Anas Al-Sharif avesse vinto un Premio Pulitzer per Reuters non è bastato per spingerli a difenderlo quando le forze d’occupazione israeliane lo hanno inserito in una “lista nera” di giornalisti accusati di essere militanti di Hamas o della Jihad Islamica.

Non è bastato nemmeno quando Al-Sharif ha implorato protezione alla stampa internazionale, dopo che un portavoce dell’esercito israeliano aveva diffuso un video in cui dichiarava apertamente di volerlo uccidere, dopo un suo reportage sulla carestia.

Non è bastato neppure quando è stato davvero assassinato, poche settimane dopo. Reuters non ha avuto nemmeno il coraggio di raccontare con onestà la sua morte.

Ho apprezzato il lavoro che ho svolto per Reuters in questi otto anni, ma ora non riesco a immaginare di indossare quel tesserino stampa senza provare una profonda vergogna e dolore.

Non so nemmeno da dove cominciare per onorare il coraggio e il sacrificio dei giornalisti a Gaza – i più coraggiosi e i migliori che siano mai esistiti – ma da oggi in poi, ogni mio contributo sarà guidato da questa consapevolezza».

(Facebook, 3 settembre 2025)

da The Guardian

Era la star numero uno al botteghino alla fine degli anni ’50, ma per decenni Kim Novak, la protagonista del capolavoro di Alfred Hitchcock “La donna che visse due volte”, ha vissuto una vita di tranquilla reclusione. Ora, all’età di novantadue anni, una delle ultime grandi e glamour star del cinema dell’epoca d’oro di Hollywood è tornata sotto i riflettori. Le è stato conferito un premio alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia , dove è stato presentato in anteprima un documentario sulla sua vita e carriera, “La donna che visse due volte” di Kim Novak.

Per Novak, si tratta di un omaggio non solo alla sua recitazione, ma anche al suo rifiuto, durato tutta la vita, di essere controllata e manipolata da Hollywood o da chiunque altro.

«È incredibile sentirmi apprezzata e ricevere questo dono prima della fine della mia vita», dice con la sua inconfondibile voce roca quando ci incontriamo su Zoom. «Penso di essere onorata tanto per la mia autenticità quanto per la mia recitazione. È come se il cerchio si chiudesse».

L’inquietante interpretazione di Novak in Vertigo – sia nei panni di Madeleine, un’enigmatica moglie dell’alta società, sia di Judy, la normale commessa assunta per impersonarla – è al centro di ciò che rende il film il più grande di tutti i tempi. La fragile presenza che ha conferito ai ruoli è stata possibile solo perché la storia è stata percepita come personale.

«Mi sono identificata molto con Judy e Madeleine perché a entrambe è stato detto di cambiare la loro vera identità», ricorda. «Dovevano trasformarsi in qualcosa che non le rappresentava».

La dedizione dell’attrice nel preservare la propria identità può essere fatta risalire alla sua infanzia timida e introspettiva e ai suoi primi anni a Hollywood.

Nata a Chicago con il nome di Marilyn Novak, figlia di un controllore ferroviario e di un’operaia (entrambi immigrati cechi), crebbe in un quartiere difficile dove subì bullismo per la sua diversità. Trovò rifugio nell’arte, studiando al Chicago Art Institute e sostenendosi con lavori come modella. Fu durante un viaggio a Los Angeles che fu notata dalla Columbia Pictures, che la ingaggiò nel 1954.

Fu allora che iniziò la trasformazione. Harry Cohn, che governava la casa di produzione cinematografica con il pugno di ferro, le chiese di cambiare nome perché a Hollywood poteva esserci una sola Marilyn e «nessuno andrebbe a vedere una ragazza con un nome polacco» (vinse una battaglia per mantenere il suo cognome). La costrinse anche a perdere peso, le fece mettere una capsula ai denti e le fece decolorare i capelli.

«Ti assumevano perché pensavano che avessi qualcosa di speciale, e poi la prima cosa che facevano era cercare di darti un nuovo volto», ricorda Novak. «Volevano la bocca di Joan Crawford, i capelli di Jean Harlow. Quindi, quando lasciavi la postazione del trucco, non eri nemmeno più tu. Dovevo lottare per mantenere la mia identità».

Novak è vivace ed energica, con una memoria straordinaria e un pronto senso dell’umorismo. È facile capire perché il pubblico ne sia rimasto subito affascinato. La sua svolta arrivò con Picnic nel 1955, che le valse un Golden Globe, seguito da ruoli acclamati al fianco di Frank Sinatra in L’uomo dal braccio d’oro e Pal Joey, in cui interpretò My Funny Valentine.

Quando La donna che visse due volte uscì nel 1958, Novak aveva venticinque anni ed era all’apice della fama. Sul set, trovò una rara libertà creativa. «La cosa che adoravo di Hitchcock era che ti permetteva di diventare il personaggio nel modo che ritenevi più opportuno. I registi più insicuri vogliono pensare per te, recitare per te, e quindi non hai nulla da offrire».

Ha anche aiutato il fatto che il suo co-protagonista, James Stewart, rispecchiasse la sua vulnerabilità emotiva, in un’epoca in cui le performance teatrali e vistose erano all’ordine del giorno. «Lavorare con Jimmy è stata la cosa più bella che mi potesse capitare. Era un reattore, non un attore, proprio come me. Ci siamo confrontati a vicenda».

Al contrario, trovava difficili altri attori. Kirk Douglas, ad esempio, «usava costantemente movimenti e look… diceva: “Ti mostro il ritmo della scena”. Mi spiazzava. Era innaturale», ricorda.

La lotta di Novak per mantenere la propria identità si estese anche alla sua vita privata. Con Sinatra, il lavoro si trasformò in una storia d’amore ampiamente raccontata sulle pagine di gossip. Così come la sua storia d’amore clandestina con Sammy Davis Jr., che finì dopo che Cohn minacciò Davis di violenza mafiosa, insistendo che sarebbe stato “dannoso per gli affari” se Novak avesse avuto una relazione con un uomo di colore. Quasi settant’anni dopo, un nuovo film, Scandalous!, diretto da Colman Domingo, drammatizzerà quella relazione, con Sydney Sweeney nei panni di Novak.

Novak non è d’accordo con il titolo. «Non credo che la relazione fosse scandalosa», dice. «È una persona a cui tenevo davvero. Avevamo così tanto in comune, incluso il bisogno di essere accettati per quello che siamo e per quello che facciamo, piuttosto che per il nostro aspetto. Ma temo che finiranno per fare tutto per motivi sessuali».

Nonostante la coercizione di Cohn, o proprio per questo, Novak ritiene che il capo della Columbia abbia svolto un ruolo cruciale nel dinamismo di Hollywood dell’epoca. Dopo la sua morte, nel 1958, iniziò a ricevere copioni scadenti, che lei stessa descrive come «dolorosi e umilianti».

Realizzò altri film di qualità, tra cui Bell Book and Candle e Strangers When We Meet, ma a metà degli anni ’60 si stancò delle incessanti pressioni dell’industria. «Temevo di diventare “Kim Novak”. Ogni volta che interpretavo un ruolo, ne assumevo una parte. Stavo iniziando a perdere me stessa e ciò che rappresentavo».

Quando la sua casa a Big Sur fu devastata da un incendio e poi distrutta da una frana di fango, lo considerò un segnale che era giunto il momento di allontanarsi completamente. Si trasferì in Oregon, dove incontrò e sposò Robert Malloy, un veterinario equino, nel 1976. «Era molto autentico», racconta. «Mia madre mi diceva: “Dovresti sposare quest’uomo, potrebbe portarti con i piedi per terra”. Ed era vero».

Lontano dai riflettori e dai pettegolezzi, Novak è finalmente tornata al suo primo amore: la pittura. È diventata un’ancora di salvezza durante gli attacchi di depressione (a Novak è stato diagnosticato un disturbo bipolare all’inizio degli anni 2000) e dopo la morte di Malloy nel 2020.

«L’arte è la cosa che mi ha salvato, dipingo almeno otto ore al giorno», dice. «Robert mi manca molto. Ma vivere da sola mi dà soddisfazione. Ho imparato da mia madre che dovevo essere il capitano della mia nave».

Ha trovato conforto anche nei suoi animali. «Potevano dirmi più cose di me di quante ne potessi dire io. Come la mia capra: se osassi indossare un profumo, tirerebbe fuori le corna e cercherebbe di mordermi, perché sente che non sono io».

È rimasta perlopiù lontana dai riflettori, fatta eccezione per una rara apparizione agli Oscar del 2014, quando presentò due premi. Ma quell’esperienza le ha ricordato dolorosamente il motivo per cui aveva lasciato Hollywood. Per l’evento, Novak si è sottoposta a iniezioni di grasso alle guance e la reazione online alla sua apparizione è stata rapida e crudele. Donald Trump si è unito all’assalto, twittando che Novak avrebbe dovuto fare causa al suo chirurgo estetico (per coincidenza, il presidente degli Stati Uniti ha recentemente elogiato Sweeney dopo che è emerso che era una repubblicana iscritta).

Novak è rimasta sconvolta dalle critiche, ma invece di ritrarsi ha parlato apertamente di bullismo e salute mentale. Come si sente ora a riguardo?

«Ho sempre avuto una forte antipatia per i bulli», dice. «Quello che provo per il presidente non ha nulla a che fare con quello che ha detto di me agli Academy Awards. Non mi è piaciuto quello che ha detto, ed è stato allora che ho parlato dei bulli. Ma da allora è diventato molto più di un semplice bullo. Anche se ho tollerato quello che ha detto e non gli ho risposto, non tollererò quello che dice a me e a tutti gli altri di fare».

«Le dittature stanno prendendo il sopravvento in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti», aggiunge. «Troppe persone non si battono per i propri diritti e per ciò che conta nella vita, come la verità, l’onore e la decenza. Per la nostra democrazia e le nostre libertà. Non posso esprimere quanto mi stia a cuore questa situazione. La gente ha paura di parlare, e lo capisco. Ma dobbiamo restare uniti e farci sentire».

Quell’istinto che spinge Novak a parlare apertamente oggi era presente nei modi in cui sfidò il sistema all’apice della sua carriera, tra cui la creazione di una propria società di produzione e lo sciopero perché il suo stipendio era inferiore a quello dei suoi co-protagonisti maschi. Annunciando il premio, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, l’ha definita «una ribelle nel cuore di Hollywood».

Crede che siano stati fatti progressi per le donne nel settore oggi? «Facciamo progressi, ma purtroppo poi torniamo sempre indietro», dice. «Si torna inevitabilmente sempre al sex-appeal. Il nostro aspetto è ancora troppo importante. I social media e l’intelligenza artificiale sono in grado di mostrare ogni genere di cose che non sono reali. Sono i cattivi registi di oggi, che cercano di rimodellare le donne».

Nel nuovo documentario di Alexandre O’ Philippe, Novak ripercorre le ombre del suo passato. Se la sua vita è stata un lungo viaggio alla scoperta di sé, mi chiedo se sia giusto dire che abbia finalmente trovato sé stessa. «Sì», dice con fermezza. «Sono orgogliosa di essermi aggrappata a ciò che è importante. Certo, ci sono molte cose che avrei voluto fare diversamente, ma sono piccole cose per cui Dio e tutti gli altri possono perdonarmi».

E come vorrebbe essere ricordata? Fa una pausa. «Vorrei che pensassero che sono stata fedele a me stessa. Che ho mantenuto alti i miei standard e li ho rispettati».

Nell’anonimato dei forum e dei social si consuma un fenomeno che non ha nulla di nuovo, ma che trova oggi una cassa di risonanza senza precedenti: lo sfogo di frustrazione sessuale collettiva. Non si tratta di desiderio, ma di un rituale tossico. L’utente isolato, protetto da un nickname, cerca appartenenza mimando il linguaggio del branco: battute sessiste, commenti degradanti, iper-sessualizzazione di chiunque capiti a tiro, dalle attrici alle sportive.

Il punto non è l’oggetto del desiderio, ma la dinamica: ridurre l’altro a corpo, riaffermare una maschilità di facciata, ottenere riconoscimento dagli “amici invisibili” del thread. È pornografia sociale senza erotismo, un collante tra individui che condividono soprattutto rabbia e risentimento.

Chi ne rimane coinvolto non percepisce la gravità: «è solo una battuta, è solo internet». In realtà è un addestramento quotidiano alla violenza simbolica, che costruisce consenso e normalizza il disprezzo. La rete non crea questi impulsi, li amplifica.

La vera sfida non è solo “moderare” o censurare, ma riconoscere il meccanismo psicologico: una generazione di maschi frustrati che usa lo spazio digitale per sfogare ciò che nella vita reale non riesce a gestire. L’anonimato non li libera: li rende gregari.

(www.libreriadelledonne.it, 30 agosto 2025)

Inti Maria Enrico Seveso ha un passato da giornalista multimediale e una lunga esperienza diretta nei forum online a tema sessuale. Oggi riflette criticamente sul rapporto tra maschilità frustrata e cultura digitale.

da Internazionale

Una scrittrice palestinese racconta la sua partenza dal territorio martoriato dall’offensiva israeliana. Il dolore per il distacco dai familiari, il senso di colpa e la determinazione a non dimenticare mai le radici

Scrivo queste parole da Parigi, con la pioggia di luglio che mi bagna dolcemente le guance. Come se si scusasse per me del dolore che provo. Come se potesse sentire quanto sono fragile, dopo aver lasciato tutto il mio mondo per inseguire il mio sogno.

I giorni precedenti alla partenza sono stati i più sanguinosi che abbiamo mai visto. Il cielo bruciava ancora più forte. La terra si è crepata ancora più in profondità. Il numero dei bombardamenti, degli ordini di evacuazione e dei massacri è diventato incalcolabile. Il consolato francese ha dichiarato che era il momento di andare, non perché fosse sicuro, ma perché Israele aveva finalmente dato la sua autorizzazione, e ci siamo spostati a Deir al Balah per attendere la partenza. Io non ho dormito. Ho guardato i miei familiari respirare, memorizzando le loro voci come se stessero per scomparire. Perché stavano per scomparire. Ho lasciato Gaza senza nient’altro che i vestiti che indossavo, la carta d’identità e il dolore insopportabile di sapere che mia madre e la mia sorella minore, tutto il mio mondo, sarebbero rimaste indietro, in una guerra pensata per cancellarci.

Le discussioni su un cessate il fuoco imminente e le speranze di mettere fine alla guerra mi avevano tranquillizzata un po’, ma erano le solite menzogne. È uno spettacolo ricorrente, e ogni volta ci caschiamo. Non perché siamo idioti, ma perché siamo disperati.

Il consolato di Francia qualche giorno prima ci aveva detto: «Preparatevi, se volete ancora partire». Per seguire i miei studi sono stata ammessa alla facoltà di scienze politiche dell’École des hautes études en sciences sociales a Parigi. Ma come preparare le valigie per l’esilio? Come chiudere i ricordi in un bagaglio che non abbiamo il diritto di portare?

Come una ladra

La notte prima della partenza ho provato a memorizzare le ciglia di mia sorella. Ho dormito tra lei e mia madre, tutte abbracciate come se fosse l’ultima volta. Una grande parte di me e di loro voleva tanto negarlo. Mia sorella era silenziosa. Troppo silenziosa. Quel genere di silenzio terrificante tipico dei bambini quando sanno più di quanto vorremmo che sapessero. Non mi ha detto: “Non andartene”. Mi ha guardata e mi ha stretta ancora più forte tra le sue braccia. E il suo sguardo mi seguirà più a lungo di questa guerra.

Quanto a mia madre, non ho la forza di scriverlo: non posso dimenticare come mi guardava e il modo in cui ha pianto con tutto il cuore spingendomi fuori della stanza per farmi andare. Sono partita come una ladra, non rubando, ma lasciandomi alle spalle tutto quello che amavo.

Al punto d’incontro concordato dal consolato ci siamo uniti ad altre persone scelte per questa evacuazione umanitaria. Trenta, forse di più. Ciascuno di noi porta con sé storie che non finirà mai di scrivere. Siamo saliti sugli autobus come dei fantasmi che trasportavano corpi, ognuno con gli occhi pieni di lacrime, gonfi per la mancanza di sonno, ognuno più triste e più confuso dell’altro. Mi sono seduta vicino al finestrino e mi sono costretta a guardare, ad assistere alla morte di quella che era casa mia. Khan Yunis, Rafah. O meglio, quelle che un tempo erano Khan Yunis e Rafah. Era tutto svanito. Appiattito in un’architettura di silenzio. Scheletri di cemento. Panni bruciati. Perfino gli uccelli volavano più basso, come in lutto.

Non ho parole per descrivere la portata della distruzione – e la scarsa consapevolezza che ne avevo – sulla strada diretta al valico di frontiera di Kerem Shalom-Abu Salem. Non credevo ai miei occhi, sembrava un film sulla fine del mondo, ma non lo era. Poi siamo passati davanti ai camion degli aiuti umanitari. Allineati come oggetti sulla scena del crimine. Ce n’erano a decine. Carichi di prodotti alimentari, di farina, di acqua. Parcheggiati a pochi metri dal cadavere di Gaza, non sono mai stati autorizzati a entrare. Il pane marcisce mentre i bambini nelle tende fanno bollire erbe per mangiarle. Come lo chiamate voi questo, se non un crimine di guerra? Questo non è un assedio. È una carestia usata come strumento di politica estera. È un omicidio burocratizzato, firmato a Washington, eseguito a Tel Aviv, con l’Europa a fare da testimone.

Niente lacrime

Abbiamo raggiunto il posto di controllo. Dopo aver verificato la nostra identità, i soldati israeliani ci aspettavano, i fucili imbracciati, come se fossimo la minaccia e non le vittime. Ci hanno detto: «Non portate nulla con voi». Niente computer, libri né auricolari. Non sono stata autorizzata neanche a tenere il taccuino di poesie riempito durante la guerra, che mia sorella mi aveva regalato per il compleanno. Le parole, a quanto pare, sono troppo pericolose per l’occupante.

Ci hanno perquisito come se portassimo delle bombe, invece che dolore. Ci hanno toccato la schiena, hanno controllato i nostri calzini, scandagliato i nostri occhi. Un soldato, se così può definirsi un criminale, ha guardato uno studente che viaggiava con noi e ha cominciato a interrogarlo sulla sua provenienza e i suoi contatti. Il personale del consolato ha verificato di nuovo i nostri nomi ed è stato gentile e affettuoso. Ci ha dato qualcosa da mangiare e ci ha informati che i colleghi dell’ambasciata francese ci avrebbero aspettato al nostro arrivo in Giordania.

Nell’autobus per Amman nessuno parlava. Ma la sofferenza ha un linguaggio tutto suo. Il nostro silenzio era un inno. Un canto funebre per le famiglie che abbiamo lasciato. Per i bambini che forse non rivedremo. Per la verità che ci è vietato portare con noi. Due posti dietro il mio, una ragazza ha sussurrato qualcosa. Non mi ha chiesto il mio nome, io non le ho chiesto il suo, ma mi ha detto: «Mio padre è rimasto. Ha detto che preferiva morire a casa sua piuttosto che in una tenda. Ho detto al mio fratellino di cinque anni che gli porterò del cioccolato dalla Francia, lui ha sorriso. Non sa che questo potrebbe essere un addio per sempre». Ha infilato le mani dentro le maniche, e guardando a terra ha mormorato: «Ho l’impressione di aver lasciato l’anima sotto le macerie. E ora ho paura che qualcuno ci cammini sopra». Ma c’è una sua frase che ancora oggi mi perseguita: «Sono convinta che tornerò da mia madre e le racconterò il mio viaggio, e lei mi dirà: “Buongiorno figlia mia, sei in ritardo!”».

L’offensiva sulla città

Niente lacrime. Niente singhiozzi. Solo il silenzio, un silenzio tanto pesante da toglierci l’aria. Come me, questa ragazza ora è da qualche parte in Francia, dove mangia il pane, studia francese, diritto o qualcos’altro. Ma una parte di lei, una parte di tutti noi, è sempre a Gaza, a piangere dietro un muro crollato senza che nessuno riesca a oltrepassarlo.

Abbiamo attraversato i territori palestinesi occupati. Quattro ore in un territorio che non avevo mai visto. Perché noi siamo di Gaza. Non abbiamo mai visto la nostra stessa terra. Il resto della Palestina ci è sempre stato proibito. Eppure, era là: montagne, vigneti, colline coperte di ulivi. Il Mar Morto e, infine, gli stabilimenti balneari. Gli alberghi a cinque stelle, le europee che si abbronzano in bikini mentre a trenta chilometri da lì molti bambini sono sepolti sotto una tenda. È il teatro crudele dell’occupazione: genocidio nel Mediterraneo, cocktail sul Mar Morto.

Ci hanno sistemato in un hotel ad Amman, l’InterContinental Jordan, un albergo magnifico, tutto a spese della Francia. Non ci mancava niente, tranne quello che volevamo davvero. Ci abbiamo passato due notti, da mercoledì 9 all’alba di venerdì 11 luglio. Sono stati due giorni interi di silenzio e di solitudine in una camera d’albergo molto lussuosa. Poi ci hanno portati all’aeroporto, con altre attese e verifiche, prima di metterci finalmente su un volo per Parigi.

Il viaggio è stato davvero sconvolgente. Era la prima volta che prendevo l’aereo. Mi sentivo male e intanto mi stupivo dell’immensità del mondo e di come un minuscolo pezzo di terra gli ha permesso di svegliarsi e di comprendere quanto si stava sbagliando. Siamo atterrati all’aeroporto Charles de Gaulle. Siamo stati di nuovo controllati e abbiamo ottenuto un visto per studenti. I miei amici mi aspettavano con i fiori più belli e un abbraccio molto caloroso.

E ora eccomi qui a Parigi. Al sicuro. Dormo in un letto caldo molto comodo. E ogni notte fisso il soffitto e mi chiedo: li ho traditi? Ho abbandonato mia madre, mia sorella, il mio popolo? Il senso di colpa mi brucia lo stomaco e m’impedisce di trattenere quello che c’è dentro, che sia cibo o lacrime. Partire è stato un atto di coraggio o di diserzione? Una cosa però la so: non ho lasciato Gaza per dimenticarla. L’ho lasciata per vendicarla con la lingua, con la politica, con una memoria più viva delle pallottole. Sono partita per imparare la lingua dei tribunali che non ci hanno mai salvati. Per usare i loro stessi strumenti così da scolpire il nostro nome nella storia.

Voi, nelle vostre ambasciate, nelle vostre redazioni e nei vostri studi televisivi, sentirete parlare di me. Non sarò la vostra storia di successo, sarò il vostro specchio. E quello che ci vedrete non vi piacerà.

Ho lasciato Gaza senza niente. Senza una borsa. Senza libri. Senza un regalo d’addio. Solo rabbia.

(*) Nour Elassy è una giornalista, scrittrice e poeta della Striscia di Gaza. Ha 22 anni e ha studiato letteratura inglese e francese. Grazie a una mobilitazione guidata dallo scrittore palestinese Karim Kattan, è stata selezionata per seguire un master in scienze politiche all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi ed è tra le 37 persone fatte uscire dalla Striscia dalle autorità francesi il 9 luglio 2025.

da Il Tascabile

In seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e di altre giovani donne, siamo stati inondati da una marea mediatica di approfondimenti, interviste a esperti, statistiche. Poi, quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito. Sempre in tv non sono mancati momenti di tensione, come quello in cui un filosofo italiano, impersonando la parte dell’intellettuale stizzito, ha affermato che l’ideologia patriarcale è in crisi da più di duecento anni, senza aggiungere nulla di significativo che potesse inquadrare il fenomeno della violenza sulle donne.

Dall’altra parte arrivava la voce pacata di Elena e Gino Cecchettin, che mai hanno perso la disponibilità a condividere il loro dolore, esprimendo la volontà di trasformare una perdita così dolorosa in un impegno sociale incrollabile (si veda la Fondazione Giulia Cecchettin). Proprio sulla scia delle parole di Elena Cecchettin, è stato usato il concetto di patriarcato come categoria interpretativa utile a rintracciare le cause della violenza di genere.

Premesso che le dinamiche patriarcali esistono ancora (eccome!), in effetti la parola “patriarcato” non basta a cogliere la natura dei gesti violenti o mortali commessi da uomini che difficilmente potrebbero essere definiti patriarchi. Sarebbe forse più corretto dire che sono figli di patriarchi? O essere più specifici affermando che sono figli di un sistema basato su un’idea della donna che proviene da retaggi culturali di tipo patriarcale?

In antropologia, il patriarcato corrisponde a un tipo di sistema sociale in cui vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Per estensione ‒ ed è il significato che ci interessa ‒ fa riferimento a un complesso di radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto dagli uomini, specialmente verso le donne.

Torna utile, a mio avviso, l’obiezione mossa dall’antropologia femminista degli anni Settanta-Ottanta (Paola Sacchi), cioè che la nozione di patriarcato pone la questione della subordinazione delle donne in modo semplificato, «nei termini cioè di un’universalità che maschera le specificità di formazioni sociali, di culture e di fasi del ciclo di vita diverse, nel cui contesto invece dominio e subordinazione sempre si collocano» (MicroMega, 2024, 2, Vecchi e nuovi patriarcati una prospettiva antropologica). Oltre a Debating patriarchy (Julia Adams, Benita Roth, Pavla Miller), citato da Micromega, si può rimandare ad alcune studiose che hanno ritenuto il concetto di patriarcato troppo universalistico: Sherry Ortner, Gayle Rubin, Rayna Rapp con Toward an Anthropology of Women (1975) o Sylvia Yanagisako, secondo la quale parlare di “patriarcato” in senso assoluto oscura le specificità storiche e le modalità con cui le gerarchie di genere si articolano in diversi contesti culturali.

Nell’articolo Ai lettori, dello stesso numero di MicroMega, si dichiara che il femminicidio di Giulia Cecchettin «ci riguarda tutti perché non è il frutto di una mente malata ma il depositato stratificato di secoli di oppressione, misoginia, violenza. In una parola patriarcato». Sebbene la premessa ci trovi tutti d’accordo, la conclusione “in una parola patriarcato”, non è esaustiva. Sostenere che le orride motivazioni dei fautori di femminicidio scaturiscano soltanto dal depositato di qualcosa che abbiamo ereditato comporta il rischio di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente in cui viviamo e di non vedere i nuovi elementi che interferiscono con le strutture tramandate dal passato.

Bisognerebbe indagare, credo, quelli che Pierre Bourdieu definisce fattori di permanenza e fattori di cambiamento. Come scrive nel volume Il dominio maschile (1998), «non si tratta tanto di negare le permanenze e le invarianti, che fanno incontestabilmente parte della realtà storica» ma di affermare la necessità di storicizzare le strutture del dominio maschile. In altre parole, bisogna riscrivere «la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono ad assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare, nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni».

È recente la notizia della morte di Martina Carbonaro, ragazza di quattordici anni uccisa dal suo ex fidanzato Alessio Tucci ‒ di quattro anni più grande ‒ perché «aveva deciso di troncare la relazione con lui»: sono le parole dell’assassino, riportate poi da tutti i media. E qui, forse, tocca fermarsi. Secondo la prospettiva della giudice Paola Di Nicola Travaglini, se ci fosse una «corretta tipizzazione del reato di femminicidio», non leggeremmo «che una donna è stata uccisa da un uomo che non ha accettato la separazione», ma «che un uomo ha ucciso una donna perché questa voleva essere libera e lui non glielo consentiva». Alessio Tucci non voleva che Martina Carbonaro guardasse gli altri uomini e lei, come riportato dalle amiche, aveva cominciato a camminare con lo sguardo rivolto verso il basso.

Varie voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga che germina a partire dalle dinamiche psicologiche legate al nucleo famigliare. Risulta evidente, però, che in Italia ci sia un’indisponibilità, una sfiducia di carattere quasi scaramantico, nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico, come se queste mancassero di storicità o autorevolezza. Eppure la storia delle dinamiche patriarcali non può essere scissa ‒ tantomeno oggi ‒ dallo studio delle dinamiche psichiche, le quali vengono erroneamente immaginate come entità fossili avulse dalle relazioni tra gli esseri umani.

Cosa ci dice il fatto che il femminicida Filippo Turetta dormisse con un orsacchiotto, secondo quanto rivelato dalla sua famiglia? Che fosse un bravo ragazzo improvvisamente diventato un assassino per un raptus di rabbia? No. Questo dettaglio ci dice, come scrive Laura Pigozzi nel suo libro Mio figlio mi adora (2019), che «rimanere infantili ci rende feroci». Secondo la posizione di Pigozzi, oggi l’etichetta di patriarcato viene adottata come alibi per non parlare adeguatamente di quella istituzione chiamata “famiglia”, ambiente in cui i genitori crescono «figli dipendenti dalla disponibilità di un oggetto», fattore che dovrebbe essere collocato nell’insieme delle specificità del contemporaneo più che in quello ereditato dal passato. Soprattutto tra i giovani, ci dice Massimo Recalcati, si nota una vita dominata dagli oggetti e dall’esigenza di ottenere un godimento immediato, perdendo la capacità generativa del desiderio (vedi Il complesso di Telemaco, 2015; Le nuove malinconie, 2019). Sullo stesso fenomeno ha scritto Éric Laurent, il quale ha parlato di una «mutazione antropologica del godimento», dove la dimensione simbolica viene bypassata da pratiche immediate, tecnologiche, medicalizzate.

Se torniamo alla tesi di Pigozzi, scopriamo che il femminicidio è responsabilità di un «soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé». La donna «viene uccisa non in quanto donna, cioè come rappresentante del genere femminile, ma come colei che occupa in lui un posto psichico a cui non riesce a rinunciare». Secondo la psicoanalista e saggista, la «questione implicata nel femminicidio non è il genere ma la dipendenza» (Mio figlio mi adora).

Forse bisognerebbe correggere in “non è solo il genere”, perché senza dubbio questo ha un peso primario. L’idea della coppia come simbiosi porta a relazionarsi all’altra/o come «oggetto d’uso da consumare per sentirsi esistere». Una prospettiva simile trapela da alcune analisi elaborate a seguito del femminicidio di Martina Carbonaro. In un articolo di Maria Novella De Luca su La Repubblica del 29 maggio ‒ giorno successivo al femminicidio ‒ si legge che per l’assassino «avere Martina vuol dire avere status, esistere in un mondo fatto di video e selfie». Anche se questa analisi è convincente, bisogna tenere conto di un punto di vista che invece rimarca la prospettiva di genere. Cito ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la quale nel dossier Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, pubblicato dalla rivista Sistema penale (2025, 5), fa riflettere sul fatto che,

innanzitutto, il femminicidio è «un crimine di potere come tutti i delitti di violenza maschile contro le donne».

Anche la realtà giuridica, sebbene ancora restia alla prospettiva di genere, «è andata molto avanti ammettendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere» (vedi anche Preambolo della Convenzione di Istanbul). «L’appartenenza al genere femminile di chi viene uccisa e del genere maschile di chi uccide, in una relazione proprietaria e gerarchica, costituisce l’elemento cruciale del reato di femminicidio». In sintesi, le donne vengono uccise dagli uomini in ambito familiare o di coppia in seguito ad aggressioni che sono espressioni di «potere, controllo e sopruso nei loro confronti in quanto donne».

Di potere ha parlato Massimo Recalcati nell’approfondimento Origini psicopatologiche e culturali della violenza femminicida (2023), trasmesso da Radio1 per commentare il femminicidio di Giulia Tramontano e l’infanticidio del figlio che portava in grembo. Lo psicoanalista ha invitato a riflettere su un’altra nozione centrale: il limite. Secondo la sua analisi, si è verificato un esempio di «esercizio brutale del potere che non accetta nessuna esperienza del limite», che in questo caso sarebbe connesso alla responsabilità della paternità. Allargando il discorso, dichiara che in quasi tutti i casi di femminicidio la violenza deriva dalla frustrazione generata dalla libertà della donna quando questa dichiara di non amare più il proprio compagno. Nella logica maschilista, «che è un derivato della logica patriarcale», la donna viene percepita come un “oggetto” o “proprietà del corpo dell’uomo” (Eva che nasce da una costola di Adamo ne rappresenta il mito fondativo).

Inoltre, l’esercizio della violenza subentra laddove viene a mancare «la portata simbolica della parola». La situazione conflittuale o dolorosa non viene risolta con la parola, ma attraverso il gesto violento o criminogeno. A questo punto la conduttrice del programma pone una questione centrale chiedendo quale sia il peso del vissuto familiare nell’esperienza psichica e relazionale dei giovani. Con ottimismo, e con la premessa che «stiamo assistendo agli ultimi rantoli del patriarcato», Recalcati afferma che «il ruolo della famiglia dovrebbe essere quello di disinnescare la tentazione alla violenza» dando esempio ai figli non attraverso «attività persuasive» ma attraverso i comportamenti: se un padre umilia la madre, questo diventa un messaggio ‒ sbagliato ‒ che ribadisce la superiorità del maschio sulla femmina. Tuttavia, aggiunge, «non c’è un nesso deterministico tra il disfunzionamento della famiglia e il passaggio all’atto criminogeno». Se nella famiglia, conclude, «il messaggio passa attraverso gli atti, nell’istituzione scolastica in primo piano vige la legge della parola», nel senso che il conflitto viene simbolizzato attraverso dispositivi verbali. Secondo Recalcati ‒ ed è forse questo l’aspetto più complesso da sviscerare ‒ non esiste una «dimensione sistemica del patriarcato», ma «espressioni erratiche di una visione maschilista e sessuofoba».

Ma è davvero possibile definirle “erratiche”? Probabilmente, queste manifestazioni maschiliste e sessuofobe, sebbene introiettate, appaiono nel contesto famigliare meno evidenti o ingombranti, per rivelarsi di fatto più subdole, dunque difficili da decriptare. Servirebbe un’educazione allo svelamento della violenza simbolica – suggerisce ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini – invitando a «disvelare le forme simboliche del dominio maschile» perché senza questa operazione, si rischia di minimizzare la violenza aperta ed esplicita. Come non ricordare, qui, Carla Lonzi che in Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) aveva definito il patriarcato come «sistema simbolico e culturale totalizzante»?

Durante una lectio magistralis tenuta in memoria di Silvia Gobbato, praticante avvocata assassinata nel 2013 a Udine mentre correva nel Parco del Cormor, Di Nicola Travaglini afferma che «solo chi legge e riconosce l’apparato simbolico di questo potere discriminatorio sarà in grado di riconoscere la violenza». Il discorso vale soprattutto ‒ afferma ‒ per i giudici che, in primis, devono affinare gli strumenti culturali per decriptare queste strutture di potere, per non correre il rischio di delegittimare le testimonianze o derubricare, per esempio, la violenza sessuale a raptus o impulso sessuale incontenibile.

Per non parlare del fatto che nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli, madri, figlie. Oltre che per una necessità derivante dagli «obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese», l’introduzione nel nostro codice penale del delitto di femminicidio deriva anche «dall’urgenza che la comunità dei giuristi, grazie a nuove strutture interpretative, acquisisca la consapevolezza che i delitti di violenza maschile contro le donne sono fondati su una relazione di potere strutturalmente discriminatoria e diseguale ad oggi mai nominata e, anche per questo, mai rimossa», si legge nel dossier citato prima. Per ricapitolare, il femminicidio «si fonda su radicati stereotipi socioculturali che non consentono al genere femminile l’esercizio delle libertà fondamentali in condizioni di parità rispetto agli uomini in ogni contesto, soprattutto familiare (le donne hanno obblighi di cura e le loro ambizioni devono retrocedere rispetto a questi) e lavorativo».

Nel magnifico La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (2004) bell hooks si presenta come strenua sostenitrice della necessità di continuare a usare il termine “patriarcato” dedicando alla questione il capitolo “Capire il patriarcato”: «sono più di trent’anni che tengo conferenze sul patriarcato. È un termine che uso quotidianamente e gli uomini che mi sentono usarlo spesso mi chiedono che cosa intendo dire». Messo l’accento sul bisogno di associare al termine degli attributi più specifici, hooks racconta di preferire ‒ siamo nel contesto americano ‒ l’espressione «patriarcato capitalista suprematista bianco imperialista» per descrivere meglio «l’interconnessione tra i sistemi che sono alla base della politica in America». Ci sono persone capaci di criticare il patriarcato, scrive, ma incapaci di agire in modo antipatriarcale.

In linea con l’intuizione di molti esperti qui citati, bell hooks sostiene che le forme più comuni di violenza patriarcale sono «quelle che avvengono in casa tra genitori e figli» dove è più facile mantenere (omertosamente, aggiungo io) «i segreti del patriarcato, proteggendo così il dominio del padre». Questa regola del silenzio, continua l’autrice, «favorisce la negazione delle dinamiche patriarcali». Il grande contributo di hooks consiste nel sottolineare che anche gli uomini sono delle vittime del sistema patriarcale quando gli si nega il diritto a parlare di emozioni o a dare sfogo al dolore. Infine, ci suggerisce hooks, le donne hanno creduto erroneamente di poter «salvare gli uomini della loro vita dando loro amore, che questo amore sarebbe servito come cura per tutte le ferite inflitte dagli attacchi tossici al loro sistema emotivo». «Il nostro amore li aiuta, ma da solo non li salva». È infine necessario, suggerisce hooks, evidenziare il ruolo che le donne svolgono «nel perpetuare la cultura patriarcale» per poter infine «riconoscere il patriarcato come un sistema che donne e uomini sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante».

La prima operazione da fare, dunque, consiste nel riconoscere l’interdipendenza tra tutti i saperi della conoscenza, rigettando qualsiasi approccio fondato sulla purezza interpretativa e accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche, linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche. L’altro passo da muovere consiste nel riconsiderare tutto ciò che di significativo abbiamo teorizzato su patriarcato e differenza di genere in relazione alle nuove, sempre più inquietanti, espressioni di dominio e possesso, praticate o subite online, da uomini giovani o adolescenti. Dico “subite” perché il riferimento è al mondo virtuale della manosfera o uomosfera (da manosphere), termine utilizzato per descrivere un gruppo eterogeneo di forum e comunità online dedicate a problemi e temi riguardanti il mondo maschile. Alcuni esempi sono i Men’s right activists, gli Incel (i celibi involontari), i Men Going Their Own Way (MGTOW), i Pick-Up Artist (PUA) e i gruppi per i diritti dei padri. Sebbene ogni gruppo presenti la propria ideologia, i «movimenti sono generalmente accomunati dalla convinzione che la società sia discriminatoria nei confronti degli uomini».

Come chiarisce il professor Marco Scarcelli su Il Post, «il fatto che questo genere di discorso attecchisca tra i giovani non è dovuto soltanto al fatto che vengano esposti spesso e volentieri a contenuti attinenti alla manosfera online, ma anche al fatto che il terreno è già fertile». Contrariamente a quanto si pensi, i giovani non devono essere considerati «menti innocenti che vengono traviate»; abbiamo a che fare con «convinzioni già ben radicate nella nostra cultura, che circolano da decenni». Convinzioni sessiste e teorie misogine, provenienti da queste comunità online, arrivano anche a Jamie, protagonista della serie TV Adolescence.

Nonostante sia per ora complicato disegnare filologia e sviluppo della manosfera, sappiamo che all’inizio questi forum sono nati come spazi in cui gli utenti si scambiavano consigli, incoraggiamenti, convinzioni. Negli anni Settanta il nascente movimento per i diritti degli uomini cominciò ad attribuire i problemi degli uomini al femminismo e all’emancipazione delle donne. Il pilastro ideologico di tutti i gruppi si fonda sulla convinzione che i movimenti femministi abbiano delegittimato la mascolinità e contribuito a creare un clima d’odio contro gli uomini. Prendere la pillola rossa, metafora tratta dal film Matrix, vuol dire riconoscere questa verità, accettare questo stato di cose.

«Quella rossa vuol dire vedo la verità» ed «è un invito da parte della manosfera», rivela Adam al padre poliziotto nel secondo episodio di Adolescence. Il padre, disorientato, chiede al figlio di spiegargli. Così, quest’ultimo riassume il principio 80-20, secondo cui l’80% delle donne sarebbe attratto da un ristretto numero di maschi (il 20%). Allora, «sei obbligato a ingannarle, altrimenti non riuscirai a conquistarle» aggiunge Adam. L’altra idea alla base di questi blog misogini ‒ più subdola ma più pericolosa ‒ è che avere una donna sia un diritto inalienabile per un uomo. Pertanto, la violenza è giustificata se finalizzata a ristabilire questo diritto. Questo è il centro focale da cui bisognerà ripartire.

La normalizzazione della misoginia entro l’universo tecnologico (e psichico?) ci impedisce di pensare che le nuove forme di sessismo siano erratiche. Esse sono virali, associate a gravi forme di analfabetismo emotivo, a una mancanza di istruzione, alla tentazione di ritenere plausibili complotti e macchinazioni orchestrati da donne accusate di delegittimare quel sacramento chiamato mascolinità.

da Effimera

Della Milano che amiamo, non per rimpianto o nostalgia ma perché nutre la nostra immaginazione presente, fa senza dubbio parte l’esperienza del circolo femminista separatista Cicip&Ciciap, fondato nel 1981 da Nadia Riva e Daniela Pellegrini, nella casa occupata di via Morigi 8.

Questo riconoscimento si innesta da vicino sui ragionamenti che stanno circolando in questi giorni dopo lo sgombero del Leoncavallo. Si tratta di riflettere sugli spazi sociali e sulle forme di vita, di cultura e di politica, di creazione di legami e comunità, insomma su modalità della riproduzione sociale create in autonomia dai tessuti sociali per i tessuti sociali, senza intermediazioni di alcun tipo. Oggi questo tipo di processi è grandemente a rischio. In parte sono stati espropriati e convogliati altrove da “operazioni di capitale” (cambi di paradigma produttivo, allargamento delle forme di accumulazione e sfruttamento, finanziarizzazione, gentrificazione), oppure sono diventati porzioni sussidiarie dello stato sociale che si immiserisce, un passo dopo l’altro. Ma per quasi cinquant’anni hanno arricchito esclusivamente le relazioni e l’incontro, il sapere collettivo, la creatività e il piacere, la produzione di pensiero critico. Daniela Pellegrini mi invita a insistere non sulla teoria e sul pensiero ma sulla vita e niente più, sulla materialità, sulle pratiche. Un fare per la vita, semplicemente vivendo: bastano poche, trasparenti, parole.

L’esperienza del Cicip è, al di là dei termini infilati in un articolo, parte integrante, fondamentale, di questo fare e dei riferimenti delle donne della metropoli lombarda e non solo. Eppure viene spesso dimenticata, rimossa.

Insieme alla storia del Cicip si scopre quella del palazzo di via Morigi 8, situato non nella periferia, locazione tipica degli spazi occupati, ma nel cuore del centro cittadino e occupata nel 1976. Per chi non conosce la città, siamo nella Milano romana e nelle cosiddette, dai milanesi, Cinque vie, vicino a piazza Borromeo, a pochissima distanza da Piazza degli Affari, tra il Carrobbio, piazza Cordusio e piazza Duomo. Negli anni Settanta e Ottanta una zona storica, con antichi palazzi dal fascino délabré, oggi contesto trasformato, con ristrutturazioni di lusso, locali eleganti, gallerie d’arte.

Nadia Riva e Daniela Pellegrini determinate a creare «spazi liberi per nuove scoperte», dopo vari mesi di ricerche scelsero, infatti, l’ultima porzione rimasta libera al piano terra della torre e casa dei Morigi, che si affaccia su via Gorani, proprietà del Comune di Milano. «Spazio allora davvero fatiscente e nel più completo abbandono e che è stato ristrutturato (sarebbe meglio dire ricreato, dal pavimento al soffitto mancanti) in prima persona e con il pervicace olio di gomito e autofinanziamento» da chi lo fondò, come si può leggere ancora sul sito del Cicip, dove si raccontano gli esordi ma non la fine di questa avventura.

Con tutta l’energia e la passione che ci riversano, in cinque o sei mesi Nadia e Daniela riescono a dare una forma a ciò che diverrà il Cicip&Ciciap, Circolo culturale e politico delle donne, bar e ristorante. Rifanno con le loro mani il pavimento, tirano su i muri, imbiancano, inchiodano, abbelliscono. 

Il Cicip fiorì in quella sede per trent’anni, festeggiati in loco il 22 giugno 2011. Qual era l’obiettivo di fondo lo spiegano le fondatrici, alle quali, in un primo periodo, si aggiunse Giorgia Reiser che scelse poi altri percorsi. Si desidera «uno spazio apparentemente informale dove l’incontrarsi delle donne possa creare consapevolezza di sé e aprire loro strade insospettabili». Strade, scrivono, che possano stupire anche loro stesse.

In quel luogo, invero piccolo ma molto accogliente, tutti i giorni si organizzano incontri, presentazioni di libri, gruppi di discussione per riflettere su temi dirimenti, come la guerra, gruppi di autocoscienza. Il Cicip è mosso «dalla fiducia e la speranza di un movimento delle donne che modifichi le regole del “gioco di potere e di guerra maschile” […] E per cominciare a costruire questo nostro sguardo, è molto importante saper vedere, capire e valorizzare l’agire di quelle donne che sembrano “invisibili” alle trombe dei media e che non se ne preoccupano, occupate a costruire materialità e senso nuovo ovunque si trovino, pur nella fatica di affrontare tutte le contraddizioni che ciò comporta».

Un programma che vorremmo varare anche adesso, poiché sentiamo, assai più di allora, come lo “spaesamento confusionale” e divisivo di fronte alla realtà si stia, con maggior forza, facendo strumento di azzeramento di ogni alternativa e opposizione, strumento di controllo. Mentre le trombe dei media starnazzano o nascondono notizie, a seconda delle necessità, e tutti siamo sommersi e indirizzati dallo spettacolo del potere.

Nel 1986 al Cicip nasce anche una rivista, Fluttuaria. Ne verranno pubblicati 17 numeri. Ci sono un bar e un ottimo ristorante, serate di musica, danze, feste. «A proposito di politica… ci sarebbe qualcosa da mangiare?» ed è Sabina Moroni a prendere, per diversi anni, la guida della cucina. Nel tempo si sono allestite mostre e mercatini, avviati corsi di tango e di drammaturgia, si son fatti concerti di musica classica, ingaggiate gare di cucina con Stefania Giannotti, è stato sede di una squadra di calcio femminile o delle “cercatrici d’oro” che andavano a setacciare fiumi e torrenti, anche a scopo di finanziamento. Da qui sono passate, tra le altre, anche Anna Del Bo Boffino e Angela Finocchiaro, Rosi Bindi e Gianna Nannini, Barbara Alberti e Lella Artesi. Di casa, al Cicip, erano Ida Farè, Laura Lepetit, Tiziana Villani, Giuliana Peyronel, Rosella Simone, Francesca Pasini, Renata Molinari, Sandra Bonfiglioli, Antonella Nappi, Chiara Martucci e tante altre. Insomma, in questo luogo «si sono incontrate intellettuali e sottoproletarie, artiste e calciatrici, musiciste e poete, tutte quelle che cercavano un luogo per esercitare la propria libertà»[1].

Nonostante fosse diventato, grazie a tutta questa vita e a tutti questi corpi, un punto di riferimento (insieme ad altri) per il femminismo milanese, nel 2011 viene sfrattato. Le donne non provarono a resistere, impacchettano idee, pentole e ricordi e se ne vanno (da un’altra parte, ma non si ritroverà la medesima alchimia).

L’esperienza dell’intero stabile, risalente al 1400, occupato nel 1976 dopo dodici anni di assoluto abbandono da parte del demanio pubblico, termina nel 2011, come da accordi con il Comune, con una s-vendita da parte di BNL Paribas Real Estate Investment Management Italy a privati per 10 milioni di euro (una cifra ridicola vista la dimensione e la posizione del palazzo). La delega per l’operazione era stata data a BNL Paribas nel 2010, dalla giunta Moratti. L’elezione a sindaco di Giuliano Pisapia, nel 2011, aveva riacceso qualche speranza negli abitanti e nelle associazioni occupanti, speranza che si rivelerà mal riposta[2].

È chiara ormai, da questa data o giù di lì, la svolta verso la Milano affarista con la quale ci confrontiamo pienamente adesso. Il problema non riguarda solo il capoluogo lombardo ma appare chiaro che nel presente il territorio è esplicito luogo di accaparramento e destrutturazione del vivente e della forza simbolica delle sue forme di invenzione, protezione, collegamento, autorganizzazione. Deve prevalere non solo un modello di metropoli, ma deve anche sparire una soggettività pensante, non egoista ed ego-riferita, capace di spendersi per la collettività e la civiltà senza che ciò venga subito iscritto nelle strutture politiche tradizionali, traducendo il proprio fare in eredità culturale per tutti. Cosicché, la politica assolve la funzione governamentale di favorire la speculazione e il guadagno del privato a spese di ciò che è pubblico, con estromissione, anche violenta, di tutto ciò che può essere d’inciampo a tale logica: eccedenze, devianze ma anche cooperazione, collaborazione, sostegno reciproco. Si direbbe, biopolitica.

Il sacrificio di questo processo è, infatti, la vita del Cicip&Ciciap e di tante altre associazioni che, dopo aver contribuito alla salvaguardia del palazzo con ininterrotti interventi di manutenzione a proprie spese, verranno sacrificati. Ricordiamo che in via Morigi avevano sede anche Punto Rosso, Attac, Greenpeace, Survival, Servizio Civile Internazionale, Donne Internazionali. Oltre alle associazioni la casa era abitata da 23 nuclei famigliari. Primi occupanti, nel ’76, erano stati un gruppo di ragazzi del COM, Collettivo di liberazione omosessuale, vicini a Mario Mieli. Nel ’78 arrivarono le “Bororo” che danno vita a una comune femminista.

Il Cicip dopo via Morigi approderà in viale Col di Lana, grazie anche alla sovvenzione personale di Genevieve Vaughan, ma non riuscirà a ritrovare quel tipo di clima e ambiente favorevoli che ne avevano agevolato lo sviluppo. Nessun Comune si è mai fatto vivo e questa storia, come scrivevo all’inizio, è, perlopiù, trascurata.

Viceversa, altre associazioni hanno trovato nuovi spazi. Alcune sono diventate estremamente note e solide.

La morale di questa vicenda, proprio ricostruendo quanta vita, quanto movimento, quanti affetti, quanto divenire siano coinvolti, con-mossi in tutta la miriade di imprese sociali su cui poggia l’ossatura di Milano, è che questa città, in forza della sua storia e della composizione sociale che l’ha sempre contraddistinta, non è Citylife, non è il laboratorio della rigenerazione urbana che si vuole trapiantare contro la sua natura. È stata, ed è, una città colma di senso, di cultura e di politica, sempre avanguardia di tutte le sperimentazioni sociali (nel bene e nel male).

Identica rimane ancora oggi la ricerca, poiché tale è l’ineludibile propensione dello stare al mondo, la meraviglia che ancora si fa largo tra le macerie, anche nei periodi bui della storia come questo. La traccia marcata, citando Daniela Pellegrini, dalla “materia sapiente”.

La manifestazione nazionale del 6 settembre a difesa del Leoncavallo e di tutti gli spazi sociali, tenendo conto degli insegnamenti del passato ma puntando soprattutto al futuro, deve servire a difendere un’idea di condivisione tra corpi e perciò non può dimenticare la densità storica dell’esperienza femminile. Questo significa scavare al fondo dell’oppressione più marcata dalla società per rivendicare la costruzione di comunità autonome dove ritrovare una parola politica che non sia solo una tecnica come le altre. Politica come pensare e sentire collettivo, ma nella libertà di ciascuna, che concepisce, dà vita e cura ciò che è disconosciuto, sottoutilizzato o assente o non garantito o depauperato e sfruttato dal mondo presente. Fuori da identitarismi e autoreferenzialità. Un’altra, o meglio una nuova politica, non astratta ma incarnata, che valorizzi la differenza e l’unicità di ogni essere umano. Una riconquista faticosa, al fondo delle cose, che il punto di vista femminile conosce bene e che gli uomini, forse, debbono ancora imparare a riconoscere.

Nadia Riva è stata una figura di primo piano del movimento femminista milanese e internazionale. È morta nel 2021 nella sua casa di Milano, in via Col di Lana. Nel 1981 fondò insieme a Daniela Pellegrini il Circolo culturale e politico delle donne Cicip&Ciciap e la rivista “Fluttuaria”. È stata una viaggiatrice, una donna di grande spirito con un linguaggio sempre ironico e rock, una amabile provocatrice, capace di sovvertire ogni regola e di uscire sempre da ogni conformismo.

Daniela Pellegrini, tra le principali figure del femminismo milanese e non solo, nel 1964 ha l’intuizione di riunire un gruppo di donne, con le quali sente di avere un “terreno comune”, per iniziare a ragionare insieme. Da questa iniziativa nasce il primo gruppo del neofemminismo italiano, il DACAPO (Donne contro l’autoritarismo patriarcale), che presto cambierà nome in DEMAU (Demistificazione autoritarismo patriarcale). Negli anni Settanta fa parte della comune di San Martino, del collettivo di via Cherubini, della Casa delle Donne di viale Col di Lana e partecipa ai grandi convegni nazionali di Pinarella di Cervia e Paestum. Nel 1981, insieme a Nadia Riva e Giorgia Reiser, fonda il Cicip&Ciciap: il primo circolo culturale e politico femminista di Milano, e l’unico a rimanere separatista nel tempo. Nel 1986 fonda la rivista Fluttuaria. Ha scritto Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare, Franco Angeli Editore, Milano 2012; Liberiamoci dalla bestia. Ovvero di una cultura del cazzo, Vanda Edizioni, Milano 2016; La materia sapiente del relativo plurale. Ovvero il luogo terzo della parzialità, Vanda Edizione, Milano 2017.

NOTE

[1] Necrologio di Nadia Riva, Casa delle donne di Milano, febbraio 2021. https://www.casadonnemilano.it/ci-ha-lasciato-nadia-riva/

[2] Per chi volesse approfondire la storia del palazzo e dell’occupazione dello stabile si rimanda a Fabio Antoniotti, Casa Morigi. Trentasei anni di abitare sociale a Milano, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, 2011/2012.

A Salerno, un uomo ha strangolato una donna. Ha scritto ai genitori di aver fatto una “cavolata”. In un gruppo pubblico di Facebook, trentaduemila uomini hanno scambiato tra loro le foto intime di mogli e fidanzate. Al Policlinico Umberto I di Roma, di fronte ai colleghi, un operatore sanitario ha detto alla paziente in attesa di fare la tac: “Se vuoi togliere il reggiseno ci fai felici tutti”.

Per un certo senso comune maschile, il primo caso è un delitto inaccettabile, e la lotta contro la violenza dovrebbe concentrarsi contro questi atti assassini. Il caso dei mariti guardoni è uno scandalo, quando viene scoperto, che merita un severo rimprovero, ma forse non la denuncia o la separazione, perché “in fondo è solo un gioco, una finzione”. Il caso della frase sul reggiseno pare una battuta innocua: protestare e farlo in pubblico è una reazione esagerata e pesante.

La gerarchia della gravità è corretta. Ma separare nettamente un caso dall’altro, senza riconoscere il minimo denominatore comune, finisce per disperdere le energie invece di concentrarle su qualcosa di preciso. Quel denominatore è la violenza sessista, dall’annientamento, all’oggettivazione, allo svilimento, con i suoi ingredienti: il senso proprietario, la cultura dello stupro, l’abuso di potere. Nell’insieme, la concezione della donna come cosa: che si può distruggere, scambiare, strapazzare. Non ci sarebbero il femminicidio, nella dimensione in cui esiste, con il vasto contorno di maltrattamento, se non poggiasse su una base culturale che svaluta la vita delle donne, tanto da ridurre l’atto di ucciderla a una “cavolata”. Espressione che ricorre non di rado nelle parole degli autori.

Questa base culturale si esprime ogni giorno in violenze e molestie di grado diverso. Reagire a una battuta può sembrare sproporzionato se si guarda al singolo episodio. Ma ogni episodio è la goccia che cade in un vaso già colmo e traboccante. La “pesantezza” di quel vaso non è l’esagerazione delle donne: è la pervasiva e persistente esagerazione dei maschi, la realtà accumulata di una violenza quotidiana.

Molti uomini ribattono: «Ma io amo le donne». Persino chi è violento, molesto o guardone spesso dichiara di amare. E c’è discussione e contestazione sulla verità di questo amore. Comunque sia, l’amore non garantisce il rispetto. L’amore, da solo, non obbliga a trattare con cura, la cura la si vive come un dono, una concessione, che si può revocare e persino invertire quando l’oggetto amato non soddisfa più o addirittura si ribella. Io amo la mia bicicletta e la tratto bene, ma chissà come la tratterei se si rifiutasse di trasportarmi.

Il punto decisivo non è l’amore, ma il rispetto interiorizzato. Quella barriera che ti impedisce di violare l’altra persona perché non potresti sfuggire alla tua stessa sanzione interiore. Per arrivarci servono l’educazione dei maschi al rispetto, alla parità, alla valorizzazione delle differenze. Ma soprattutto serve che cresca il potere e il prestigio sociale delle donne: proprio ciò a cui molti uomini resistono, anche con il femminicidio, la violenza e le molestie.

da L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”

Il libro di Annie Ernaux Gli anni, considerato il suo capolavoro, è il magistrale racconto di una storia soggettiva e di una intera generazione di donne in cammino verso la propria libertà nella cornice di fatti ed eventi storici lungo un arco di tempo che va dal dopoguerra alla metà del primo decennio del nuovo millennio. Un libro pensato e preparato per molti anni, che decide di scrivere quando in lei si fa viva l’impressione che «più aumenta la distanza che la separa dalla perdita dei genitori, più si avvicina a loro» e «la paura che invecchiando la memoria torni ad essere nebulosa e muta come nei primi anni dell’infanzia – anni di cui non si ricorderà più». Scrive per salvare «qualcosa del tempo in cui non ci saremo mai più». «Tutto si cancellerà. Sarà il silenzio. Nelle conversazioni saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.» Ciò che conta per lei «è afferrare la durata che costituisce il suo passaggio sulla terra in una determinata epoca, il tempo che l’ha attraversata, il mondo che ha registrato in sé semplicemente vivendo». E così si immerge con la memoria dentro un lungo percorso di cambiamento di sé e delle donne della sua (mia) generazione che cambiando se stesse hanno cambiato la società patriarcale in cui sono nate e cresciute, le idee, i comportamenti, le credenze, le sensibilità, il rapporto tra i sessi, consegnando alla generazione “venuta dopo” un mondo più libero, per donne e uomini. Ricostruisce con la memoria soggettiva una memoria collettiva di «un tempo comune, quello che è trascorso da un’epoca lontana sino ad oggi, per restituire […] la dimensione vissuta della Storia», ciò che ha conosciuto e vissuto. Man mano che ci si allontana dagli anni del dopoguerra si perdono i racconti a tavola della guerra e dei bombardamenti, di chi li aveva vissuti e visti. «Nei tempi andati di cui si narrava c’erano soltanto guerre e fame.» Torna la memoria di lei negli anni Cinquanta, anni di speranza, quando «le persone potevano contare su un’esistenza migliore» e le madri riponevano le loro speranze per le figlie nello studio e nel lavoro. «Quella gioventù sana di figli e figlie della Francia avrebbe dato il cambio alla generazione precedente, uscita dalla Resistenza.» Centinaia gli eventi e i fatti di cronaca ricordati e di cui è stata testimone e a volte protagonista come le elezioni presidenziali, l’ascesa al governo della sinistra, la delusione e l’avanzata della destra, il Maggio francese del ’68, le manifestazioni contro la guerra, da quella in Algeria, colonia francese, al Vietnam fino all’Afganistan dopo l’11 settembre, la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss e l’ascesa di Putin. Intanto le donne si liberano del controllo maschile sui loro corpi e sulle loro vite, a cui Ernaux negli anni si era ribellata, pena la disapprovazione sociale. La rivoluzione femminista mette tutto in discussione: i rapporti sessuali fuori dal matrimonio non fanno più scandalo come anche una ragazza madre, il matrimonio per le donne diventa una scelta e non più un destino, la convivenza non è più proibita, così il divorzio, la pillola anticoncezionale e l’aborto, arrivare vergini al matrimonio non è più una virtù. «Per la prima volta ci figuravamo la nostra stessa vita come una marcia verso la libertà.» Le ragazze studiano più dei ragazzi, si laureano e lavorano, vanno ovunque, nel mentre viene avanti la “società dei consumi”, nascono i centri commerciali e la Tv si impone come fonte di verità. «La generazione successiva alla nostra, le ragazze in prima linea insieme ai ragazzi» manifestano contro il razzismo, la guerra e per salvare il pianeta. Storia del (nostro) passato e del (nostro) presente che il libro Gli anni, con cui mi congedo da Annie Ernaux, ci restituisce in tutta la sua complessità.

Due donne, la Puglia, l’idea di un camper e un inizio più che incerto ci insegnano quanto sia importante non smettere di sognare, anche quando la vita sembra imporlo.
Le cose belle non accadono dal nulla: ci vuole volontà, forza, capacità di stare insieme, prendersi la responsabilità di scegliere. Daniela Romano e Antonella Ingrosso hanno scelto di stare accanto a donne e bambini vittime di violenza mettendosi in cammino con loro. 

Camper Evviva nasce da un incontro, non casuale, come precisano Daniela Romano (31 anni) e Antonella Ingrosso (41), entrambe pugliesi: il caso non esiste, non c’entra niente. Loro hanno scelto, hanno fatto in modo che dal loro incontro e dalle loro affinità nascesse qualcosa di importante, di duraturo e necessario: l’idea del camper è arrivata tramite un amico e un messaggio whats app che avvertiva della vendita del mezzo.
Che l’amico in questione disse loro di affidarsi a un meccanico di fiducia, che dopo mesi di attese e denaro investito il veicolo fosse ancora immobile, e che l’amico si rivelò alla fine un truffatore è soltanto un gigantesco dettaglio, che le ideatrici del progetto raccontano solo perché funzionale alla dichiarazione di forza e tenacia che fin da subito ha necessariamente caratterizzato l’impresa.
«Pensammo subito alle donne e ai bambini accolti presso la nostra comunità Balbis, in particolare a due bambini, C. e S., di rispettivamente 4 e 5 anni, che provenivano da una storia di estrema povertà educativa, economica e in assenza di legami affettivi sani. Entrambi erano residenti in una piccola cittadina del Salento, in una fattoria senza acqua ed elettricità, a pochi passi dal mare, eppure non lo avevano mai visto, non ne conoscevano l’esistenza: la consistenza, l’odore della brezza marina e il senso di libertà che questo può donare. Non erano mai stati al cinema, non avevano mai assaporato un cornetto caldo a colazione, non avevano mai provato la gioia di mangiare un fresco gelato nell’afoso caldo salentino. Tutte azioni ed esperienze che spesso si danno per scontate, soprattutto se riguardano i bambini». Rendere possibile le esperienze “scontate” mai vissute, poter viaggiare nella propria regione, sentirsi accolti nella realtà che spesso esclude e isola, riconquistare insieme la libertà che una relazione violenta ha completamente annientato, fatto a pezzi, lasciando spesso piccoli testimoni privati anche loro della spensieratezza e della serenità che dovrebbe caratterizzare la loro età, l’infanzia.
Sono questi i principi guida del percorso che Camper Evviva ha avviato e che continua a portare avanti, superando difficoltà ed ostacoli sempre nuovi, con la certezza che solo insieme si possono realizzare i sogni di tutti, nessuno escluso.
Come vi siete conosciute?
«Io, Daniela Romano, ho 31 anni e sono un’assistente sociale all’interno di una comunità d’accoglienza per donne e gestanti con bambini di Brindisi. Antonella Ingrosso, 41 anni, oltre a essere mia amica, è anche una mia collega e facciamo parte della stessa equipe professionale; essendo una maestra d’arte ha il valore aggiunto di mescolare i colori dell’arte all’educazione.
La nostra amicizia è nata nel 2018 durante un progetto Erasmus di formazione professionale organizzato dalla cooperativa sociale “Il Faro”, l’organizzazione presso la quale lavoriamo attualmente. Penso che sia stato solo un ritrovarsi, un incontro di anime che viaggiano lungo la stessa strada e che, come diciamo sempre, nulla accade per caso. Abbiamo subito cominciato a realizzare l’idea che ha dato vita al progetto: unire la passione per quello che facciamo alla volontà di esserci per l’altro, di aiutare coloro che sono in una posizione di svantaggio». 

Perché l’idea del camper per aiutare e unire le persone?
«Noi crediamo fortemente che il viaggio possa essere uno strumento educativo alternativo per i bambini e non solo: il camper insegna la condivisione del tempo e dello spazio a 360 gradi. È una piccola casa viaggiante all’interno della quale si dorme, ci si lava, si mangia e tutte queste azioni vengono svolte da più persone in un perimetro molto piccolo; questo comporta necessariamente l’osservanza e il rispetto dei bisogni di tutti, altrimenti regnerebbe il caos. Tra le esperienze più belle che si possono condividere in un viaggio in camper ci sono sicuramente le emozioni: ogni trasferta ci ha regalato e ci restituisce tutt’ora sensazioni e sentimenti unici e indimenticabili, ogni chilometro percorso è fatto di momenti colmi di tristezza, gioia, malinconia, allegria, spensieratezza, ansia, paura, stanchezza e tanto altro. Conserveremo per sempre nei nostri ricordi il viaggio con V., una giovanissima donna vittima di violenza con i suoi due figli, M. e M., in età adolescenziale, anche loro vittime di violenza assistita. Una notte V, io ed Antonella, quando i ragazzi erano già a letto, eravamo sedute attorno a un tavolo, sotto un tendalino di Evviva per rilassarci e godere della frescura di una notte estiva dentro un agricampeggio. La donna a un certo punto inizia a raccontare la sua storia, il suo racconto, parole che le nostre orecchie non avevano mai sentito, sino a quel momento. Decise di aprirsi con noi su dettagli e situazioni circa la violenza subita, che mai si era sentita libera di raccontare in comunità.
Il valore aggiunto di Camper Evviva è anche questo: l’opportunità di essere al di fuori di uno spazio istituzionalizzato e di sentirsi in un’atmosfera di piena libertà e intimità».

In che modo sostenete e supportate la cura delle donne e dei bambini vittime di violenza?
«Oltre alla condivisione agevolata, il viaggio permette, specialmente alle donne vittime di violenza, di poter toccare con mano la libertà e l’indipendenza, che una relazione violenta ruba totalmente, senza alcun consenso. Incontriamo donne che spesso sono abituate a vedere solo le mura della loro casa, che non sanno più cos’è la gioia di passeggiare da sole all’aria aperta, o di esplorare e conoscere un posto del tutto nuovo. I loro occhi non sanno più sorprendersi davanti alle cose belle, sono stati costretti a non vedere più oltre, privati di ogni forma di speranza per un futuro diverso.
Per una donna vittima di violenza il viaggio può essere l’opportunità di indossare un nuovo abito, uno sguardo originale sul mondo fatto di tutto ciò di cui era stata privata prima di allora, permettendole di godere della straordinaria e bellissima sensazione di tornare a sognare.
Per un bambino privato della sua infanzia e di tutto ciò che a questa è legato, il viaggio in camper, oltre a essere opportunità per riaccendersi alla vita e vivere situazioni del tutto muove, può essere anche un ottimo strumento educativo. Viaggiare in questo modo insegna a non sprecare risorse importanti come l’energia e l’acqua, in quanto la disponibilità è sempre limitata, educa al rispetto reciproco e all’ottimizzazione dei propri spazi e di quelli altrui.
Infine il viaggio dà anche a loro la possibilità di vedere la propria mamma finalmente serena e condividere con lei i momenti di sana e libera tranquillità e gioia». 

Quali sono i fattori che determinano la meta del vostro viaggio?
«A livello organizzativo sicuramente la stagione fa la differenza. Spesso i viaggi che organizziamo sono in estate, perché è molto più semplice, sia per i posti da visitare e per la possibilità di andare al mare, sia perché in inverno i ragazzi o bambini frequentano la scuola. Crediamo fortemente che non sia la meta l’aspetto essenziale del progetto, quanto il viaggio, il tragitto e il percorso che bisogna tutti attraversare per arrivarci. La nostra bellissima e amata Puglia naturalmente aiuta, perché soprattutto in estate ci dà la possibilità di raggiungere spiagge paradisiache e di godere di acque cristalline, che spesso le donne e i bambini accolti nella nostra comunità non hanno mai potuto vedere. E poi ci sono città stupende da visitare tra cui Ostuni, Locorotondo, Alberobello, Gallipoli, presso le quali siamo già state. Possiamo dire con certezza che, sebbene i viaggi siano stati realizzati con bambini e donne per la maggior parte pugliesi, per molti di loro questi luoghi erano del tutto nuovi: diamo per scontato che tutti possano fare o vedere cose e posti a noi così vicini, come ad esempio il mare, che ogni bambino in estate possa godere di un tuffo nel mare o di giocare con paletta e secchiello sulla riva, ma purtroppo questa non è la realtà. È proprio per questo motivo che preferiamo scegliere tutte insieme destinazioni vicine, ma spesso sconosciute». 

Riscontrate difficoltà a svolgere un progetto di questo tipo in Italia?
«Possiamo sicuramente affermare che mancano sostegni a progetti piccoli come il nostro, soprattutto istituzionali. Non è semplice tenere in piedi Evviva Camper economicamente senza alcun tipo di attenzione o supporto. Ma questo non ci ha scoraggiato, anzi ci ha spinto ad andare avanti con le nostre forze, attraverso la realizzazione di gadget fatti a mano, che ci permettono di raccogliere le risorse necessarie a garantire la continuità del progetto come la manutenzione e assicurazione del camper e dei soci, i costi legati all’associazione, al carburante, al commercialista che ci aiuta con le pratiche, comprese tutte le spese relative ai viaggi con donne e bambini ecc.
Il sistema burocratico italiano non ha di certo agevolato il nostro cammino e tutt’ora non lo rende semplice, ma nonostante tutto andiamo avanti, grazie anche a tutti gli italiani che scelgono di donarci un contributo personale. Sono loro il nostro più potente motore, la nostra “gasolina”, è grazie a loro che Camper Evviva oggi è ancora presente e pronto a percorrere altri infiniti chilometri di emozioni». 

(www.libreriadelledonne.it, 21 agosto 2025)

“In ultima analisi”, di Amanda Cross alias Carolyn Heilbrun, prima edizione La Tartaruga 1987 (nella collana La Tartaruga nera), è oggi dato alle stampe da Sellerio. Per informazione, era stato editato sempre dalla Tartaruga, nel 1985, il più divertente rompicapo intellettuale “Un delitto per James Joyce”.

Ricorre in questo 2025 il cinquantenario della Tartaruga edizioni fondata nel 1975 da Laura Lepetit, anno importante perché sempre nel ’75 si aprirono a Milano la Libreria delle donne e altre case editrici femministe che poi non ressero il mercato. Proprio in quegli anni pionieristici fui compagna d’impresa di Laura: mi aveva conosciuto in Libreria e nei primi ’80 mi prese a lavorare con sé. Erano anni in cui una donna (lei) riusciva a «fiutare i libri come un cane da tartufi», (“Memorie di una femminista distratta”, Nottetempo 2016). A partire da un piccolo capitale ma con uno smisurato desiderio, aveva aperto una casa editrice piccola di dimensioni ma grande di intenti. Fu capace di pubblicare autrici come Virginia Woolf (“Le tre ghinee”, 1975), Gertrude Stein, Alice Munro, Anita Desai; italiane come Fabrizia Ramondino, Grazia Livi, Anna Maria Ortese, Francesca Duranti, Lalla Romano, Bibi Tomasi, insieme a esordienti di successo – Silvana La Spina, Silvana Grasso – Patrizia Zappa Mulas, Francesca Avanzini e tante altre ancora, senza dimenticare filosofe come Luisa Muraro e altre studiose del Gruppo filosofico di Diotima formatosi a Verona. Insomma, scrittrici di prima grandezza nel panorama letterario internazionale e italiano. Consapevole di stare a lato della grande storia, come Laura scrive, in realtà è proprio lei ad aver fatto la Storia dell’editoria e della letteratura prima che le grandi case editrici le portassero via, a suon di anticipi, le sue scrittrici, peraltro ristampandole senza citare la loro prima edizione. Ora questa del pur serio editore Sellerio è l’ultima omissione di una lunga serie. Formalmente consentita, moralmente eccepibile.

Io, noi, amiche, lettrici autrici e consulenti della prima e originale Tartaruga edizioni, chiediamo che questa ricorrente messa in ombra della geniale scopritrice di talenti che fu Laura Lepetit, delle sue scoperte e pubblicazioni, abbia termine.

Allego a queste mie righe di presentazione, la bella e inconsapevole (della questione) recensione a “In ultima analisi” di Francesca Lazzarato, in prima di copertina di Alias – il manifesto del 3 agosto corrente anno, col titolo “L’enigma di Amanda Cross”.

(www.libreriadelledonne.it, 7 agosto 2025)

da il manifesto

Correva l’anno 1948, quando «Harper’s pMagazine» pubblicò un breve saggio intitolato The Guilty Vicarage (nel 1956 Giorgio Manganelli lo tradusse per la rivista «Paragone»), in cui W.H. Auden analizzava personaggi, luoghi e procedimenti delle detective stories, distinguendole dai thriller – «libri che di rado mi piacciono» – e concludendo che a leggerle è soprattutto chi desidera essere restituito a uno stato d’innocenza, che lo si spieghi «in termini cristiani, oppure in termini freudiani, o di qualsiasi altro genere».

Un testo, il suo, che unisce la competenza del lettore all’acume del critico, e rende evidente come Auden, in netto contrasto con le spocchiose opinioni espresse nel 1945 da Edmund Wilson sul «New Yorker» – «Ci sono tanti bei libri da leggere, c’è tanto da studiare e da conoscere, che non c’è bisogno di annoiarsi con questa robaccia» – condividesse con altri intellettuali la passione per i romanzi polizieschi, pur non arrivando a seguire l’esempio del suo amico Cecil Day-Lewis, che col nome di Nicholas Blake ne scrisse una ventina; o di John Innes Mackintosh Stewart, professore al Christ Church College di Oxford, che firmandosi Michael Innes ne diede alle stampe addirittura cinquanta.

Forse è pensando a loro, autori di academic misteries, che Auden scrive: «Un sano istinto ha indotto tanti autori di romanzi gialli a scegliere come ambiente un college universitario». Il poeta non poteva sapere, allora, che nel 1970 lui stesso sarebbe diventato personaggio di un giallo ambientato in un campus nordamericano in cui non è difficile riconoscere la Columbia University, intitolato Giustizia poetica (Fazi 1998) e firmato da Amanda Cross, che aveva debuttato sei anni prima ed era già così apprezzata da venire proposta per il premio Edgar della Mistery Writers of America.

Non possiamo sapere se Auden abbia mai letto Giustizia poetica, ma è probabile che ne conoscesse l’autrice, sia pure con un altro nome: dietro Amanda Cross c’era Carolyn Gold Heilbrun, che tra il 1964 e il 2002 pubblicò una serie di undici romanzi sotto mentite spoglie, perché la sua identità di scrittrice non entrasse in conflitto con quella di illustre studiosa.

Per trent’anni, infatti, Heilbrun insegnò letteratura alla Columbia, occupandosi in particolare del modernismo inglese, pubblicò saggi importanti, fu presidente della Modern Language Association e creò con Nancy K. Miller la collana di Gender and Culture per la Columbia University Press.

Un curriculum di tutto rispetto per una donna che, nata nel 1926, riuscì a fare una brillante carriera in un ambiente dove il potere era saldamente in mani maschili, e che nel 1992, esausta e furibonda per le battaglie sostenute (qualcuno la ricorda ancora come «la madre del femminismo accademico»), si ritirò polemicamente, per vivere una feconda pensione, negli introiti della quale Amanda Cross non ebbe un ruolo secondario.

Sei gialli della serie, tutti in qualche modo legati all’Università e alla materia insegnata da Kate Fanslet (si può commettere un omicidio per un inedito di James Joyce? Certo che sì!), sono apparsi in Italia presso editori diversi, ma è dagli anni Novanta che i libri di Amanda Cross mancano dalle nostre librerie.

Almeno fino a oggi, perché Sellerio ha appena riproposto il suo primo romanzo, In ultima analisi (traduzione di Adriana Bottini, pp. 280, € 15,00): un piccolo avvenimento, per chi come Auden, Yeats o Borges ama il giallo «a enigmi».

Il romanzo di Cross, tuttavia, non si limita a costruire una trama-puzzle ben congegnata: come tutte le sue opere, anche questa offre un quadro d’ambiente perfetto (la New York liberal dei primi anni Sessanta, il ritratto di un’altra e perduta America), personaggi riuscitissimi, una ironia condita di battute da commedia brillante alla George Cukor, una succinta ma puntuta critica della psicoanalisi – la vittima viene pugnalata a morte sul lettino di un freudiano ortodosso – e infinite citazioni disseminate con adeguata leggerezza, il tutto legato da una scrittura raffinata, che coniuga leggibilità ed eleganza.

Al centro dell’indagine c’è la bella Kate con il suo Martini ghiacciato, in parte alter ego dell’autrice, in parte figura di una modernità anticipatoria: intelligente, coltissima, indipendente, anticonformista, audace, una favolosa zitella che nulla ha in comune con le tante versioni di Miss Marple cui il giallo della cosiddetta «età d’oro» ci ha abituato, e nemmeno con la maggior parte delle rudi detective che appariranno negli anni successivi.

Le vicende di Kate e il suo garbato femminismo, sempre più esplicito di libro in libro, sono spesso servite a Heilburn/Cross per suggerire alle donne la possibilità di inventarsi o di scegliersi altre vite, oltre che per regolare alcuni conti con i colleghi più tenacemente maschilisti, alcuni dei quali si saranno riconosciuti in certi personaggi (si dà per certo, ad esempio, che l’antipatico professor Canfield Adams scaraventato giù da una finestra in A Trap for Fools, del 1989, sia in realtà una caricatura di Edward Said).

Heilbrun, che ha dedicato al personaggio di Kate Fanslet qualche pagina di un suo brillante saggio del 1988, Scrivere la vita di una donna (La Tartaruga, 1990), dice di lei: «Senza figli, nubile, libera dal giudizio degli altri, bellissima e ricca… Volevo darle tutto e vedere cosa ne avebbe fatto». Provvista di un fondo fiduciario e di un paziente fidanzato che lei rifiuta a lungo di sposare, Kate finirà per cedere a un matrimonio celebrato negli anni della maturità. Lo stesso approdo cui giungerà la Harriet Vane creata da Dorothy L. Sayers; ma non è l’unico punto di contatto con i personaggi o le trame dell’autrice inglese, amatissima da Heilbrun/Cross.

Su Sayers, che fu tra le prime donne laureate a Oxford e, dopo aver confezionato undici romanzi attorno alla figura di un bizzarro e aristocratico investigatore dilettante, si dedicò alla sua passione più vera (la letteratura medievale e la traduzione della Divina Commedia), Carolyn Heilburn scrisse un incantevole saggio, e non mancò di confessare che a farle abbracciare la carriere di giallista era stata, almeno in parte, la lettura di Gaudy Night (1936), penultimo romanzo della serie Wimsey, ambientato in un college oxfordiano: un altro giallo accademico, dunque, in cui si parla, più che di delitti, del diritto delle donne all’istruzione superiore, all’indipendenza e alla scelta di consacrasi allo studio.

Ed è una coincidenza tanto curiosa quanto felice che il ritorno in libreria di Amanda Cross preceda di pochi giorni la pubblicazione di due dei più celebri romanzi di Sayers, Il cadavere senza nome e Il segreto delle campane (Rusconi Libri). A Edmund Wilson, inutile dirlo, non piacevano affatto: Sayers gli era insopportabile perché, «consapevole di essere più colta della maggior parte degli scrittori di romanzi polizieschi», osava parlare di incunaboli, architettura sacra o campanologia. Ma altri critici, altri lettori e soprattutto il passare del tempo si sono incaricati di confutare e perfino dileggiare il suo esibito disprezzo.

(Alias – il manifesto, 3 agosto 2025)

da La Notizia

Lo chiamarono attivismo giudiziario. Le affibbiarono un’etichetta politica. Diffusero video privati, la accusarono di faziosità, di sabotaggio, di militanza mascherata. Ma oggi la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dice una cosa sola: Iolanda Apostolico aveva ragione. Aveva ragione nel ritenere che la Tunisia non potesse essere considerata “Paese sicuro” senza un esame serio. Aveva ragione nel difendere il diritto di ogni giudice a valutare, in autonomia, la fondatezza delle designazioni governative. Aveva ragione nel non piegarsi al decreto Cutro.

[…] La Corte ha stabilito che gli Stati possono redigere liste di Paesi sicuri, sì, ma solo se quelle liste sono sottoponibili a “controllo giurisdizionale effettivo”. Non un dettaglio: un principio cardine del diritto europeo. Principio che il governo Meloni ha tentato di aggirare, bollando come “incredibile” il lavoro della giudice, e minando la sua credibilità professionale con una pressione politica che ha raggiunto il livello del dossieraggio.

L’infamia di una campagna politica

Il 2023 è stato l’anno della caccia ad Apostolico. Salvini rilanciava un video del 2018 in cui la giudice manifestava contro le politiche migratorie del governo. Meloni attaccava pubblicamente la sua decisione di non convalidare un trattenimento a Pozzallo. Nordio avviava accertamenti ispettivi definiti dall’ANM come un tentativo di intimidazione. I media di area montavano il caso, insinuando incompatibilità, mancanza d’imparzialità, abuso di ruolo.

Nessuna di queste accuse ha trovato conferma in sede disciplinare. Ma Apostolico, esposta alla gogna pubblica e istituzionale, ha anticipato la sua uscita dalla magistratura. Una sconfitta dello Stato di diritto, consumata nel silenzio colpevole delle istituzioni. Ora, la Corte europea riconosce la legittimità di quel gesto che le costò l’isolamento: disapplicare la presunzione di sicurezza per uno Stato che non garantisce diritti fondamentali a tutta la popolazione.

La sentenza che restituisce verità

Nel pronunciarsi sul protocollo Italia-Albania, la Corte ha stabilito che un Paese terzo può essere considerato sicuro solo se rispetta i diritti fondamentali per tutte le categorie di persone. E soprattutto: che tale classificazione non può essere sottratta al vaglio dei tribunali. Tradotto: nessuna lista blindata, nessuna immunità ministeriale, nessun automatismo amministrativo può prevalere sull’indipendenza della giurisdizione. È esattamente quello che Apostolico rivendicava nella sua ordinanza: la possibilità per il giudice di valutare, caso per caso, la fondatezza della “sicurezza” dichiarata. Oggi la massima autorità giuridica europea le dà ragione. E dà torto al governo, che aveva fatto della Tunisia l’emblema della sua politica dei respingimenti accelerati.

Il verdetto colpisce al cuore l’ideologia del decreto Cutro, la logica dei trattenimenti arbitrari, il modello Albania e il mito del “controllo totale” sui migranti. Meloni sperava in una sentenza favorevole per legittimare retroattivamente le sue scelte. Ha ricevuto invece una bocciatura che smonta giuridicamente l’intera impalcatura politica del suo operato.

[…] Il governo viene smentito nel merito, dai fatti e dal diritto. Ma soprattutto, viene inchiodato alla responsabilità di aver perseguitato una giudice per aver applicato la legge. Di aver trasformato l’autonomia della magistratura in un capro espiatorio. Di aver cercato vendetta, e non giustizia.

Chi ripagherà il danno?

Oggi Apostolico non siede più su uno scranno. La sua carriera è stata piegata da una pressione politica indegna di una democrazia costituzionale. Ma la sua posizione giuridica, quella sì, è stata pienamente confermata. Chi le ha dato della faziosa, chi ha montato il caso per delegittimare un potere indipendente, chi ha chiesto la sua testa per accontentare un’agenda politica, oggi tace.

Tace davanti a una sentenza che certifica l’abuso. Tace perché ha perso. Ma resta una domanda, amara e urgente: chi restituirà ad Apostolico la dignità istituzionale che le è stata strappata?

dal Corriere della Sera

«Caro diario, se tutte le madri allevassero con la giusta educazione i propri figli nel rispetto di sé stesse e degli altri, se tutte le mogli amministrassero l’intimità del matrimonio come fanno per il salario del proprio marito, se tutti i padri si preoccupassero di dare sempre il buon esempio più che portare a casa il pane, il nostro lavoro di prostitute non avrebbe più nessun senso di esistere, perché saremmo tutte disoccupate». Lo scriveva il 17 aprile 1934, nel suo diario, la sventurata ospite di uno dei bordelli disseminati in ogni angolo dell’Italia. E lo si può leggere oggi in un libro piccolo ma prezioso, Cronache di una casa chiusa (Biblioteca dell’immagine editrice) dove Rossella Menegato ha raccolto, con garbo e rispetto per le donne finite in quei gironi infernali color pastello, foto, storie e documenti che oggi sembrano irreali. Come il tesserino del «Regno d’Italia. Ministero della guerra. Regio esercito. Documento di identità per il Meretricio Militare» concesso alla signora XY «arruolata» nel «reggimento Campobasso» della «Brigata Sassari». O altri documenti sempre del Ministero della Guerra distribuiti come «certificato di idoneità al meretricio militare» dove la schiava sessuale, perché altrimenti non si può chiamare, era marchiata come «Abile Arruolata» nel «Corpo degli alpini Brigata Julia». Tutto materiale recuperato dalla demolizione, anni fa, a Casarsa, di una di quelle «case di tolleranza» introdotte in Italia da una legge nel 1860 (con successivi ritocchi nel 1891) e chiuse nel 1958 grazie alla legge promossa da Lina Merlin, che tre anni prima aveva infranto l’omertà sul tema grazie al libro di testimonianze Lettere dalle case chiuse firmato insieme a Carla Voltolina, moglie di Sandro Pertini. Quanto fosse indecente l’ipocrisia che copriva la vergogna e il dolore di quella schiavitù sessuale lo ricorda, ad esempio, la pubblicità del «Lupanare dell’Imperatore Real Casa Poppea» di Udine: «La tenutaria Aurora dà un cordiale benvenuto augurando buon divertimento a tutti i signori ospiti. La nostra casa è rinomata per le sue dame di compagnia, selezionate per le loro forme generose, e l’infinita dolcezza, e vi rammenta di adeguare il costume, e la cura della vostra persona a quello della casa presentandovi all’accettazione per l’ispezione sanitaria in abito gessato, camicia bianca e cravatta». L’inferno era dietro il paravento…

dal Corriere dello Spettacolo

Iaia Forte ha un background stellare. Napoletana, si è diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia e, fin dagli inizi, ha lavorato con registi e attori del calibro di Toni Servillo, Mario Martone, Carlo Cecchi, Marco Ferreri, Pappi Corsicato, Paolo Sorrentino, con cui ha vinto anche l’Oscar per La grande bellezza, Ferzan Ozpetek e con quasi tutti i nomi più noti della nostra cinematografia di qualità. Vincitrice di un Nastro d’argento per il film Luna e l’altra (1996) di Maurizio Nichetti, non solo il nostro miglior teatro e cinema ma anche i programmi televisivi come Avanzi e La tv delle ragazze fanno parte delle sue tante e varie esperienze.

D. Può parlarci dei suoi esordi? Quali timidezze o difficoltà o ostilità iniziali ha dovuto superare?

R. Ho un ricordo felice e vivo dei miei esordi. Forse perché era la fine degli anni Ottanta, e quel momento storico era molto diverso da quello attuale. Desiderare di fare questo lavoro non comportava, per la maggior parte delle persone che ho incontrato, solo ambizioni di carriera e soldi. Ci si incontrava e si desiderava condividere teatralmente azzardi, si cercavano linguaggi nuovi guardando anche ad altre forme d’arte. E, sopra tutto, si desiderava farlo insieme.

D.Oltre che per il suo talento, lei è particolarmente ammirata per la sua grande versatilità, ha anche interpretato un personaggio maschile molto particolare, Toni Pagoda, tratto dal romanzo Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino. Può parlarci di quest’esperienza sia teatrale che cinematografica?

R. Una delle ragioni per cui amo il teatro è la possibilità di abitare uno spazio che accoglie ogni forma di antinaturalismo. La realtà in teatro ha regole unicamente sue. E io questa sregolatezza me la concedo tutta, perché mi diverte interpretare creature polimorfiche.

D. C’è un personaggio, un testo, un film che finora non ha fatto e che vorrebbe fare in futuro?

R. Sicuramente, ce ne sono moltissimi. Ma, stranamente, i miei desideri sono difficilmente proiettivi. Avendo la possibilità di mettere in scena me stessa, quando appaiono vengono velocemente realizzati. Amo lavorare con i registi, e ho avuto la fortuna di incontrare i più grandi, ma amo anche il mio spazio di personale creazione.

D.«Mettere in scena me stessa», credo che questa sua breve frase sottintenda la capacità/necessità per l’attore di saper attingere alle proprie emozioni ed esperienze di vita per riuscire ad essere credibile in qualsiasi personaggio. È d’accordo con questa mia interpretazione?

R. Sì, perché un personaggio è anche un territorio di esplorazione esistenziale. Un grande personaggio è, come dice Juvet, un faro. Avere relazione con un grande testo, ritrovarlo tutte le sere e interrogarlo tutte le sere in modo diverso, è il vero, grande privilegio di ogni attore.

D. Fra i personaggi femminili interpretati, qual è quello che l’ha maggiormente coinvolta emotivamente e perché?

R. Ho amato molto l’incontro con Erodiade di Testori. La forza fragile, la meravigliosa lingua di Testori, gli slittamenti continui tra il tragico ed il comico. Un’esperienza più che un personaggio.

D. Rispetto ai suoi inizi, intorno agli anni ’80-90, ci può dire com’è cambiata la modalità di lavorare e di relazione in teatro, nel cinema o in tv sia con i produttori che con i colleghi e le colleghe?

R. Io ho la sensazione che sia cambiato molto. Mi chiedo se in realtà sono cambiata io, ma so di detestare gli atteggiamenti nostalgici, e sono vigile su me stessa, non me li faccio passare. Eppure è innegabile che a quei tempi, sia nel teatro che nel cinema, c’era più spazio per la ricerca, e un pubblico più curioso ad accoglierla. Oggi il pubblico tende consumare il teatro e il cinema spesso solo come forma di intrattenimento.

D. Lei ha affermato di lavorare bene con le donne. Le chiedo: c’è una donna che per lei rappresenta un modello, una personalità a cui fare riferimento nei momenti di difficoltà?

Patrizia Cavalli. Era una grande poetessa, e un’amica. Qualcosa di più di un’amica, essendo per me un riferimento fondamentale, e riconoscendole una intelligenza superiore. Quando è scomparsa mi mancava. Leggevo spesso le sue poesie per rincontrarla. Lo spettacolo è stato generato dal sentimento della mancanza.

D. Molti attori e attrici di cinema, una volta arrivati all’apice della carriera, sono passati dietro la macchina da presa, lei ha progetti di questo genere?

R. Nessun progetto di regia cinematografica. Troppo pigra.

D. In Italia proliferano le scuole di teatro e molte si pubblicizzano creando una distinzione fra corsi per il teatro e corsi per il cinema. Lei pensa che esista differenza fra i due tipi di recitazione?

R. Io ho fatto il Centro sperimentale di cinematografia, dove ci insegnavano il controllo del viso, dell’uso delle mani. Questi insegnamenti mi sono stati utilissimi in teatro. Sono bacini che, personalmente, si alimentano a vicenda. C’è la differenza del mezzo tecnico, ma alla fine io quando li pratico non cambio attitudine recitativa.

D. A beneficio dei giovani aspiranti attori, può parlarci del metodo con cui lavora sul personaggio? È sempre lo stesso o varia a seconda del personaggio?

R. Personalmente non ho un metodo codificabile. Ogni personaggio mi si impone chiedendomi un metodo a lui congeniale. Sicuramente mi piace studiare. Se devo fare Molière leggo tutto di lui o su di lui. Ma queste letture, più che a erudirmi, servono ad alimentare la mia immaginazione. E mi aiutano a leggere il testo con più profondità. Poi a volte è un costume, altre volte una musica o un’immagine che mi suggeriscono possibilità interpretative.

D. Sempre a beneficio dei giovani aspiranti attori, fra ingredienti come: talento, determinazione, creatività, cultura, fortuna qual è quello che lei ritiene indispensabile per avere successo nel mestiere dell’attore?

R. La serietà. I bambini quando giocano sono seri, credono fino in fondo al loro play. Anche gli attori devono giocare così!

D.Può dirci quali sono i suoi programmi per il futuro?

R. Lavorerò con i Muta Imago, il cui lavoro mi interessa molto, su Viale del tramonto. In scena con me ci sarà Cecchi, che considero il mio maestro più importante. Naturalmente, date le premesse, non vedo l’ora.

Anticipazioni dall’intervento per la manifestazione “Profana. Festa d’arte, spiritualità e pensiero” (Monastero di Fonte Avellana, da giovedì 31 luglio a domenica 3 agosto 2025).

C’è un sapere che nasce dalla carne. Un pensiero che non si formula nei salotti dell’astrazione, ma prende voce nella pelle, nei muscoli, nel tremore, nel piacere e nella fatica. È il pensiero delle femministe, che parte da sé. Ma è anche il pensiero di chi – donne, soggettività queer, e uomini disposti a disarmarsi – riconosce che non si può parlare del mondo senza partire dalla propria esperienza situata, non come una forma di narcisismo ma come atto politico.

Nella genealogia della parola incarnata, Audre Lorde è una delle voci più radicali e luminose. Nera, lesbica, madre, poeta, militante, Lorde ha fatto della scrittura un atto di sopravvivenza e della poesia uno strumento di disarmo. Il suo corpo è stata la sua prima lingua, la sua prima verità. Non c’è idea, in lei, che non sia passata per l’intensità dell’esperienza. «Il corpo è la mia poesia», scrive, e in questa affermazione vibra una intera teoria del sapere come pratica erotica, sovversiva, profanante.

Audre Lorde ha abitato i margini, non per scelta, facendone un’arte. Come lei, ogni donna, a suo modo, ha fatto esperienza del margine – un margine spesso sinonimo di estromissione, ma anche, nei momenti di grazia politica, di uscio, apertura, soglia. Lorde ci insegna che il margine non è solo esclusione: è anche un luogo epistemologico, un punto di vista radicale a partire da cui rovesciare il mondo.

Una ferita che si trasforma in feritoia. Non c’è scissione tra teoria e biografia, tra conoscenza ed esperienza, tra discorso e pelle. Il pensiero non può trascendere il corpo, è destinato ad attraversarlo.

Nel pensiero femminista, dal margine come soglia corporea si genera un sapere che si fa critica e radicale possibilità. Non si tratta di romanticizzare l’esclusione, ma di riconoscere che da quel bordo si può vedere il centro per ciò che è: costruzione storica, arbitraria, sacralizzata. Da questa posizione liminale, Lorde e altre e altri iniziano a disattivare i meccanismi che mantengono il centro intatto. È qui, in una posizione precaria ma generativa, che nasce un gesto dirompente: profanare.

Nel lessico di Giorgio Agamben, profanare è l’atto di restituire all’uso ciò che è stato sottratto alla vita mediante la sacralizzazione. Se il sacro separa, la profanazione riconnette. Non è distruzione né oltraggio: è gioco, riappropriazione, reinvenzione del possibile. Profanare significa disattivare i dispositivi resi sacri nel tempo: le parole rese intoccabili, i tabù che ci avvolgono, i codici religiosi e culturali inviolabili. Il potere funziona così: sottrae al comune per dominare.

Il primo luogo che il pensiero incarnato delle donne profana è il proprio corpo storicamente sacralizzato dal patriarcato. Separato, regolato, coperto, controllato. È diventato tabù, simbolo, campo di proiezione delle leggi maschili.

Per millenni i corpi delle donne sono stati smembrati, i linguaggi femminili sanzionati come isteria, il desiderio femminile convertito in colpa o in silenzio. Ma tutto ciò che è stato sottratto può rifiorire grazie a forme di resistenza quotidiane e simboliche, grazie allo strumento della profanazione, un’arte politica del disinnesco.

Il corpo parla – anche quando viene zittito. Lorde lo dice con chiarezza: «Nel nome del silenzio, ciascuna di noi disegna la faccia delle proprie paure… Ma più di ogni altra cosa, abbiamo paura proprio di quella visibilità senza la quale non possiamo veramente vivere». Parlare diventa allora un atto liturgico, una forma di visibilità radicale che rompe il sacro del dominio.

Scrivere sul corpo, non cercando il centro, ma disattivandolo, contaminandolo, restituendolo all’uso. Le parole si piegano, si aprono, si fanno porose. La lingua delle donne è una lingua di soglia, che non aderisce al dettato del potere ma si radica nella materia viva del corpo, al contatto, al piacere, alla rabbia, alla comunità.

Audre Lorde ci consegna una litania per chi non era destinata a sopravvivere. Una litania per dire l’inesprimibile, per attraversare il linguaggio istituzionale con parole incarnate. Il suo diviene un rito sovversivo e profanatorio: parlare, per chi è stata espropriata della voce, non più una supplica alla divinità del potere, ma un’invocazione tra corpi che si ascoltano, che resistono, che si parlano da margine a margine.

Le donne – e chiunque si metta in questa traiettoria – non profanano per disonorare. Profanano per restituire. Per riportare alla terra ciò che era stato isolato. Per rimettere in circolo ciò che era stato congelato dal dominio. E questa è la nostra arte: «una forma di sopravvivenza e cambiamento».

È la via attraverso cui dar nome a ciò che non aveva nome, a ciò che era già sentito ma non ancora detto. Per rompere il silenzio e restare vive. Nonostante tutto. Perché, come scrive Lorde, «non era previsto che noi sopravvivessimo». E invece siamo ancora qui. A parlare. A profanare. A vivere.

da La Stampa

Critica e curatrice, traccia un ritratto concettuale e visivo della comunità dell’arte degli ultimi decenni

Mi sono fatta «le ossa nelle discussioni sulla differenza sessuale nelle lunghe serate al Cicip e Ciciap, alla libreria delle donne di Milano, nella collaborazione al corso di Ida Farè alla Facoltà di Architettura di Milano, dove presento giovani artiste come Luisa Lambri, maestre e maestri come Marisa Merz, Luciano Fabro e Spalletti. Intanto l’amore con Giorgio e il suo libro su gnostici, streghe, baccanti (Occidente misterioso) mi fanno toccare con mano che il femminismo è necessario anche agli uomini».

Slalom. Arte contemporanea scritti e letture 1990-2024 (Mimesis) è un mosaico che restituisce un vivace ritratto concettuale, politico e visivo della comunità dell’arte degli ultimi decenni. È una specie di arazzo che lega tra loro persone, opere, micro e macro-eventi. Le parole riattivano il fluire dell’esperienza intellettuale e affettiva della critica e storica dell’arte medievale Francesca Pasini, cofondatrice della rivista Grattacielo – Occhi di donna sul mondo (1980), collaboratrice della rivista Alfabeta2 e curatrice, tra l’altro, del progetto “La quarta vetrina” alla Libreria delle Donne di Milano, iniziato da Corrado Levi nel 2001.

Minimale e universale, la sua scrittura fa emergere ricordi che ci portano lontano, in una dimensione domestica: ad esempio nella casa dei nonni paterni a La Fossa (Fagarè della Battaglia), con la signora Rita Liverani maestra privata, la nonna Maria che aveva studiato con orgoglio al collegio di Graz e il nonno Gigi che «leggeva a voce alta il giornale e mi faceva ascoltare la radio».

Lo Slalom di Pasini parte dal personale e si fa pubblico, raccoglie e attualizza articoli, saggi e presentazioni di mostre di un trentennio su figure molto diverse tra loro: dai notissimi Maurizio Cattelan, Carol Rama, William Kentridge, ai più giovani Marzia Migliora, Elisabetta Di Maggio, Maria Morganti, Sergio Racanati. Dentro le loro opere scorre la vita e si percepisce l’eco di progetti polifonici e di discussioni post o pre-vernissage.

Sono percorsi sia introspettivi sia collettivi che decodificano e disvelano le singole ricerche. «Quando ho visto nell’arte dei soggetti con cui parlare e discutere – scrive l’autrice – e non solo degli oggetti da ammirare e studiare, ho capito che i quadri, i libri, i film sono strati della mia biografia, come gli amori, gli affetti familiari, le amicizie, gli incontri quotidiani. Così ho deciso di fare degli slalom, tra i testi che ho scritto e quelli che mi suggeriscono gli eventi mentre scrivo. Sono andata spesso “fuori pista” non per aggiornarli, ma per trattarli come una persona a cui raccontare cosa penso». E al lettore suggerisce di farsi il proprio slalom personale stando di qui e di là. «Sottolineo libri e giornali perché mi piace parlare – scrive – l’ho capito con l’oralità teorica delle donne (autocoscienza e discussioni collettive) e con Radio Popolare di Milano dove ho imparato a far vedere a chi ascoltava le mostre che avevo visto io».

Il libro racconta come sono nate le idee delle mostre da lei curate e come si sono sviluppate. Peccato di novità alla Galleria Emi Fontana (1993) è stata ispirata dalla regola nemini licere insolita ponere immagine del Concilio di Trento che afferma: «Commettono “peccato di novità” gli artisti che disubbidendo all’iconografia stimolano il fantasticare della mente invece che la divozione». L’autrice ci rende partecipi della processualità generatrice dei suoi percorsi mentali e affettivi. Sullo sfondo c’è sempre Giorgio, il suo amore. La relazione con Giorgio Galli, prolifico intellettuale dalle intuizioni geniali, scomparso cinque anni fa, ha rappresentato per lei un brillantissimo confronto quotidiano sin da quando, poco dopo averlo conosciuto, gli invia un proprio testo. «Temendo di essermi lasciata troppo andare dall’intreccio arte/Heidegger/muro di Berlino, ho telefonato al politologo Giorgio Galli, chiedendogli se poteva leggere quello che avevo scritto e darmi un giudizio sincero. […] Il 2 febbraio 1990 ci vediamo, condivide quello che ho scritto. Galeotto fu il libro. Non ci siamo pi lasciati».

Questo anomalo “fuori pista” letterario è un incrocio fra il diario, l’autobiografia e il saggio, con inciampi, riflessioni, pensieri e ritorni a ricciolo sugli argomenti che stanno a cuore all’autrice. Il pregio è di avere redatto una sorta di antologia del contemporaneo che raduna le opere di numerose artiste e artisti, altrimenti disperse in innumerevoli cataloghi. Il confronto con la letteratura, la scienza e la storia, è serrato e continuo ed è focalizzato su dettagli che diventano argomento universale. Un giorno, di fronte all’Ultima Cena di Paolo Veronese, Pasini nota un bicchiere vuoto uguale a quelli con i quali brindava con Giorgio ad ogni suo compleanno. Quando però torna di fronte all’opera non lo trova più. Lo cerca ossessivamente e pensa «se me lo fossi sognato?». Con la tenacia della ricercatrice analizza più volte l’immagine al computer e lo ritrova. Quel bicchiere vuoto, misterioso, tenuto da un Moro vicino alla testa di Gesù è per lei un “peccato di novità”.

da Il Corriere della Sera

Le statistiche mostrano una significativa riduzione dei femminicidi in Spagna. Con una capillare e costosa rete di attenzione ai «reati sentinella». Introdurre un reato invece non costa niente

Il Senato ha approvato il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio e lo punisce con l’ergastolo. La nuova legge porterà ad una diminuzione dei femminicidi? No. Da anni in Italia si susseguono leggi volte a contrastare la violenza di genere, senza significativi miglioramenti. Il nuovo reato non cambierà le cose. Il problema non è solo italiano, ma ha una estensione mondiale.

Vi è un solo Stato nel quale le statistiche mostrano una significativa riduzione dei femminicidi: la Spagna.Da un report pubblicato dal ministero per l’Uguaglianza spagnolo emerge che i femminicidi dal 2003 al 2024 sono diminuiti del 30%. Come si è ottenuto questo risultato? Nel 2004 è stata approvata una legge organica sulla violenza di genere. Per contrastare i femminicidi, grandissima attenzione è dedicata alle forme meno gravi di aggressività verso le donne. Il femminicidio è infatti spesso preceduto da una serie di comportamenti «sentinella», in sé poco gravi, ma chiari sintomi dell’attitudine del futuro femminicida. Le pene previste sono lievi, ma catalogare questi comportamenti come reato consente alla polizia specializzata di mettere sotto controllo il responsabile, al quale quindi viene impedito di agire indisturbato.

È stato istituito un numero telefonico sempre operativo al quale le donne possono informalmente rivolgersi per segnalare comportamenti o semplici paure. Un grande numero di operatori specializzati raccoglie queste segnalazioni: qualche volta interviene, qualche volta si limita ad osservare con discrezione. Quando i reati «sentinella» vengono commessi, l’osservazione e l’intervento si traducono in forme pressanti di controllo e protezione. 

Tutto ciò costa molto denaro. In Spagna, al ministero per l’Uguaglianza è stato assegnato un budget di 600 milioni di euro l’anno, in costante aumento. Dalla nuova legge italiana, invece, non potranno derivare maggiori oneri per le finanze pubbliche. Sono previsti solo tre capitoli di spesa per un totale di 636.000 euro l’anno. Affrontare un problema costa, prevedere un nuovo reato non costa nulla ma non risolve il problema.

da il manifesto

Al Festival della Valle d’Itria per la prima volta in Italia “Owen Wingrave”, tratto da un racconto di Henry James

Le opere di Benjamin Britten pongono domande sull’identità maschile: cosa vuol dire essere uomini, come lo si diventa, a che prezzo. Mentre i protagonisti fanno i conti con se stessi, la musica smaschera le tecniche che li rendono sottomessi, e suggerisce strategie di resistenza. Per farlo, crea contrasti tra linguaggio tradizionale e moderno, imbastendo temi conduttori e un raffinato montaggio sonoro, asso nella manica di un compositore che a vent’anni si era fatto le ossa lavorando per il cinema documentario.

Succede anche in Owen Wingrave, da un racconto di fantasmi di Henry James: l’opera che il Festival della Valle d’Itria propone per la prima volta in Italia domani, a più di mezzo secolo dalla creazione. Obiettore di coscienza durante la Seconda guerra mondiale, Britten la scrive negli anni del Vietnam e dell’invasione della Cecoslovacchia, identificandosi col pacifismo del protagonista. Questi, avviato alla carriera militare, di nascosto legge Shelley e non ci sta a «preparare la mente e il corpo per la distruzione», tanto da abbandonare gli studi, disconoscendo così i valori perseguiti dalla famiglia di cui è ultimo rampollo.

La sua mascolinità dissidente si rispecchia nella storia del giovane antenato colpito a morte dal padre per sospetta pavidità, racconto evocato nella scabra ballata medievale del secondo atto; solo un sacrificio placherà i due spiriti, padre e figlio, la cui presenza Owen avverte nell’antica dimora dei Wingrave, Paramore.

Come spesso accade nel teatro di Britten, Paramore è un luogo che si anima di vita propria e produce musica ispida, spigolosa e urticante, a iniziare da una strana marcia che detta il tono militaresco alla partitura. Simbolo di virilità guerrafondaia, la fanfara è caratterizzata da accenti sghembi, orchestrazione eccentrica (glockenspiel, xilofono, pianoforte, arpa, violoncelli pizzicati) e ritmo irregolare. Manca qualcosa: se è una marcia, c’è qualcuno che zoppica.

D’altronde a Paramore il tempo è fluido, i morti si confondono coi vivi, il passato col presente. A parte sir Philip, anziano generale a riposo, in casa non ci sono uomini, tutti morti in battaglia. Rimangono le donne, custodi della memoria dei defunti, insieme al vegliardo che ormai non canta più, nemmeno lui, da vero uomo. Questa voce di tenore che non si comporta da tenore è uno dei tratti più graffianti usciti dalla penna di Britten, che la spinge al polimorfismo, alla coloratura virtuosistica, a glissandi e vocalizzi come se sir Philip fosse la vera Primadonna dell’opera e la virilità in congedo producesse il suo rovescio, un belcanto malfermo e traballante. Accade quando egli va sulle furie perché teme che la ribellione di Owen nasconda altro: il pacifismo non sarà mica défaillance di genere e sessuale? Dubbio che si insinua anche nel racconto di James, quando il ragazzo riferisce le accuse del nonno: «Mi ha chiamato… mi ha chiamato…», ma non riesce a pronunciare quella parola.

La mascolinità normativa, rappresentata dai temi musicali scheletrici degli antenati, i cui ritratti incombono accigliati dalle pareti, è il vero fantasma dell’opera, che genera morte non solo per Owen. Giustamente la librettista Myfanwy Piper vedeva Wingrave come «a very personal coda» del War Requiem scritto pochi anni prima, di cui chiarisce il messaggio pacifista: il passato coloniale europeo ha portato solo tragedie, l’imperialismo soffoca le vite di tanti giovani uomini e di quelle donne, madri e compagne, che lo sostengono convinte.

“Family” e “war”, virilità e bellicismo si nutrono a vicenda; ma se da un lato il compositore denuncia le responsabilità della famiglia in quella che negli stessi anni Mario Mieli definiva “educastrazione”, dall’altro affida al protagonista parole dure, per esprimere il rifiuto di ogni esercito di stato: «considero un crimine impugnare la vostra spada in difesa del vostro paese e un crimine da parte del governo il fatto di ordinarlo». Il discorso che chiude il primo atto è preparato dall’episodio più delirante dell’opera, in cui la vena di Britten, fino a quel punto un po’ sulla difensiva, prende il volo verso la dimensione dell’assurdo come in un finale rossiniano: sulla parola “scruples” (scrupoli), incautamente pronunciata a difesa del ragazzo, i familiari si lanciano compatti in una serie di sillabati e vocalizzi di scherno.

Le parole di Owen – e di Britten – hanno dunque una valenza politica che non si può disconoscere col pretesto che l’opera riguardi più che altro un conflitto psicologico dovuto alla mancanza del padre o alle incertezze della virilità acerba. Combattere per la patria è un crimine, i governi che lo ordinano sono criminali, la patria è impostura: affermazioni scomode ancora oggi in ogni nazione il cui governo giustifichi immani spese militari.

Owen afferma che sarebbe sufficiente dire di no: basta una parola, se a dirla sono in tanti. «One little word: no! No! No! No!»: è la scena più anarchica e provocatoria mai scritta dal compositore.

da Avvenire

Il filosofo Assael: «Sarebbe uno strumento di pressione su Israele. Ha ragione Zuppi, ora tutti devono fermarsi. Hamas? Ha solo la guerra come strumento di sopravvivenza politica»

Tutti parlano di un piano per arrivare al cessate il fuoco, ma la verità è che nessuno sa da dove cominciare. E questo conflitto tra la necessità di una nuova tregua armata tra Israele e Hamas e il bisogno di giustizia per i popoli dopo il disastro umanitario che è sotto gli occhi di tutti, lacera anche le coscienze di chi, come Davide Assael, filosofo italiano di origine ebraica, dice che «il primo passo da fare è innanzitutto non assecondare le logiche di guerra che si sviluppano quotidianamente nello scenario di Gaza e che, via via, hanno portato a sentimenti di antisemitismo, antigiudaismo, islamofobia, cristianofobia. Non posso che condividere al cento per cento – aggiunge Assael – l’appello lanciato nei giorni scorsi dal cardinale Matteo Zuppi e dal presidente della comunità ebraica di Bologna, Daniele De Paz, che invita tutti a fermarsi. Non c’è altra soluzione».

L’annuncio del riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Francia di Macron cambia le carte in tavola?
Da ebreo sono favorevole a questo pronunciamento, perché penso possa essere uno strumento di pressione diplomatica indispensabile per portare lo Stato di Israele al negoziato. E sono favorevole non da oggi, ma da quando Abu Mazen ha posto la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Intendiamoci: non è un passaggio decisivo, ma può aiutare a fare chiarezza. Soprattutto perché entrambe le parti, ora come ora, si trovano in un vicolo cieco.

Perché?

Perché dopo il cessate il fuoco terminato a marzo, che non ha affrontato nessuno dei problemi sul campo, tutte le contraddizioni già emerse sono esplose. Prendete Hamas: ha solo la guerra come arma di sopravvivenza politica e, nel lungo periodo, non può trattare nemmeno in nome e per conto del mondo arabo. Dirò di più: chi può farsi carico dei palestinesi se, fuori dai confini della Palestina, nessuno davvero li vuole? Guardate all’Egitto, al Libano, alla Giordania per capire cosa sto dicendo… Quanto poi a Israele, è evidente la responsabilità storica che si è assunto Netanyahu: non aver sfruttato lo scenario a suo favore, concretizzatosi con gli accordi di Abramo e l’alleanza con il mondo sunnita.

A Gaza adesso non si intravedono spiragli, sembra esserci solo devastazione e distruzione…
Io non sono così atrocemente pessimista. È tutto vero, per carità: la guerra doveva finire da tempo, Israele non ha un piano per uscire dal pantano in cui si è cacciata, le dichiarazioni di alcuni ministri di Tel Aviv sembrano evocare il genocidio. Però gli aiuti alimentari stanno arrivando in ogni caso: via terra, via mare e via aria. Il piano umanitario c’è e, se il cibo non arriva, la responsabilità è anche di Hamas.

Affamare un popolo come arma di guerra non è un crimine?
Le parole di Papa Leone XIV sul tema sono state illuminanti. Ripeto: molti ebrei provano vergogna per come il governo israeliano sta conducendo il conflitto nella Striscia. Chi delle due parti pensa solo all’eliminazione completa dell’altra è fuori dalla storia. Poi è giusto dire che la comunità internazionale e l’opinione pubblica devono prendere atto che siamo esposti a una guerra che è anche di propaganda e che è difficile orientarsi in questo caos mediatico. Ma non c’è dubbio che a Gaza attualmente regni il caos, con bande armate, spesso finanziate da Israele stesso, che vogliono prendersi un pezzo di territorio che l’esercito non ha mai controllato.

Perché Netanyahu sembra essere così irremovibile nella sua strategia?
Perché è consapevole che la sua sorte è legata alla continuazione del conflitto. Il problema è che la sua leadership ha assunto tratti paranoici, giustificati anche dal conflitto evidente che egli stesso ha aperto con altri corpi dello Stato. Quando si tornerà ad elezioni, e non accadrà molto tardi, il confronto sarà una specie di referendum sul suo operato e sulle tante ombre che hanno portato al 7 ottobre.