da lucysullacultura

«Quando un uomo si dichiara femminista, tirati su le mutande» dice Natalia Aspesi. Questo è il primo impulso di qualunque donna avvertita davanti a un uomo che si dichiara femminista. Se questa è anche la vostra paura di fronte al nuovo libro di Francesco Pacifico, La voce del padrone (add editore), potete rilassarvi. Pacifico, a differenza dei molti autori maschi che ormai affollano mestamente le sezioni “femministe” delle librerie, femminista non si dichiara mai. Anzi, fin dal principio premette ciò che tutte sappiamo: un uomo non può essere femminista, perché il femminismo realizzato presuppone che l’uomo abbia meno privilegi materiali di un tempo – ed è ovvio che qui non ci siamo ancora arrivati. Pacifico suddivide dunque gli uomini in “conservatori” e “progressisti-capibara”. I primi lo sappiamo cosa professano, mentre i secondi sono più subdoli. Si dichiarano entusiasti del femminismo, come se le loro vite non fossero intaccate dal movimento.

Pacifico si avvicina al femminismo grazie a sua moglie. Lavorano nello stesso ambito, e in appena una decina d’anni lui sostiene che lei sia diventata più ambita, più “amata” di lui. Qualcosa è successo negli ultimi dieci anni, complice anche il MeToo, qualcosa che in realtà si stava preparando da molto più tempo, con le donne che sono più brave negli studi, più determinate, più indipendenti economicamente e quindi meno disposte a sopportare gli uomini. Parallelamente a questa maggiore libertà e assertività femminile, monta la frustrazione maschile per gli antichi privilegi sbeccati; sebbene questo scenario riguardi tutti, per molto tempo si è creduto che questa frustrazione appartenesse solo a uomini abietti e ai margini. Incel, estremisti, lubrici vecchi che postano foto delle loro mogli online quando non le offrono direttamente al… primo che passa, ovvero a un uomo qualunque. E infatti, dice Pacifico – così come Francesco Piccolo, un altro scrittore che si è spesso occupato di questi temi – gli stessi sentimenti che abitano questi uomini abitano anche tutti gli altri. Paura di perdere il posto, paura di rimanere soli, paura dell’abbandono, paura di essere visti per ciò che si è e non per ciò che si vuole far credere di essere. Questo è un libro che dovrebbero leggere gli uomini, scrive Pacifico, ma temo che lo leggeranno soprattutto le donne, dico io, e che lo troveranno più o meno ingenuo, più o meno tenero, più o meno sincero, più o meno intelligente. Io ho trovato che fosse più o meno tutte queste cose, ben scritto come tutto ciò che scrive Pacifico. Il tentativo riuscito di un uomo di fare autocoscienza – anche se non può dirlo – dopo aver letto e frequentato donne liberate, e che arriva a cinquant’anni alla conclusione a cui tutte noi siamo arrivate a dodici: più se ne parla, meglio si sta. Così ne abbiamo parlato.

[…]

Nel libro tu dici di avere paura. Paura che non ci sia più posto per te nel momento in cui la concorrenza raddoppia a causa delle donne. Ho chiesto ai miei amici se per loro era lo stesso. Mi hanno risposto di sì, con qualche esitazione. Mi ha stupito perché spesso si dice che gli uomini hanno paura delle donne, ma a dirlo sono le donne, cosa che mi è sempre sembrata arrogante. D’altro canto, quando ho posto la stessa domanda alle donne, cioè se avessero paura della concorrenza maschile o femminile sul lavoro, mi è stato risposto di no. Anzi, molte di loro mi hanno detto che non ci hanno mai pensato troppo perché sono in generale contente di lavorare e stupite dai buoni risultati e tendono a non vedersi sostituibili come individui da altri o altre.

Secondo me l’elemento che spiega la differenza di visioni è la gerarchia. Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia. La gerarchia è un elemento chiave nella nostra percezione di lavoro e competizione. Per questo si è sostituibili, perché si occupa una casella in una piramide.

Poi c’è il tema della paura degli uomini davanti a questi argomenti. Ieri ho fatto un incontro al festival di Tlon a Piacenza, Conversazioni sul futuro. A un certo punto il compagno di una femminista mi ha chiesto: «Secondo te c’è un modo per far capire alle donne che alcuni uomini vogliono impegnarsi e non sono come gli altri?». C’è stata una pausa molto densa e poi ho risposto «No». Lui aveva una faccia molto aperta, molto buona. Abbiamo sentito le risate delle donne. Non si possono convincere le donne della propria bontà. Dopo questi anni passati a discutere con le femministe mi pare che la questione sia l’attitudine, la disposizione. Forse la postura […]. Ma gli uomini non vogliono mai essere colti in castagna, pensano di doversi mostrare zelanti o dover spiegare fino allo sfinimento di essere “bravi”.

Tu scrivi che “l’autocoscienza di genere” esiste nel momento in cui si fa parte di una categoria marginalizzata. Sto semplificando naturalmente, ma diciamo che nel potere che gli uomini hanno detenuto così a lungo risiederebbe la ragione dell’assenza di autocoscienza. Se niente ti mette in discussione, non ti frammenti mai e non puoi riflettere su te stesso. E questo avviene perfino quando la tua vita non ti soddisfa poi così tanto, perché come scrivi tu neanche all’uomo andava di tornare a casa, avere una moglie che gli rompeva le palle, i figli che magari non voleva avere, essere l’unico a lavorare, per non parlare dell’andare a morire in guerra.

Qui hai toccato il punto fondamentale. Non potendo essere femminista, perché sono uomo, l’ho scritto dal nostro punto di vista, cercando di capire cosa la struttura patriarcale ci ha portato via. E io credo che il genere maschile sia oppresso dalla gerarchia. Basta pensare a Cristiano Ronaldo, che malgrado sia un giocatore stratosferico sembra sempre che debba convincerti di esserlo, perché ha avuto la sfortuna di essere della stessa generazione di Messi che ha vinto più palloni d’oro.

Carla Lonzi dice una cosa bellissima, ovvero che sia la religione sia l’arte come ambiti dell’espressione umana sono stati ridotti dalla cultura patriarcale (traduco a parole mie) a una serie di gerarchie, tassonomie, elenchi di cose da fare, classifiche. La religione e l’arte sono state due componenti fondamentali della mia biografia, e ha ragione Lonzi: lo spirito quando cerca l’arte e la religione scivola spesso in secondo piano perché queste due frequenze della vita sono usate a fini gerarchici. Chi è più buono, chi è più bravo.

Quindi il punto è che secondo me gli uomini sono oppressi da se stessi e anche dalle bugie in cui credono. Lonzi dice che la donna è oppressa dall’aver creduto al mito dell’uomo.

Sì, mia madre dice che gli uomini sono tutti Maghi di Oz, ombre enormi e potentissime proiettate da uomini minuscoli e privi di incanto dietro una tenda verde.

Sì. Ma a quel mito ci hanno creduto pure gli uomini! Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista. C’è un’immagine che io cito sempre: una volta ho letto che nel Medioevo le vedove a volte costruivano delle case attaccate ai conventi per vivere con qualcuno, perché ovviamente a quel punto non valevano più niente in quanto vedove, e volevano appoggiarsi ai monaci. Io immagino la stessa cosa, case di uomini orfani della gerarchia che si appoggiano ai monasteri di femministe.

(Non so come suonerà questa cosa una volta trascritta).

Senti, ma questa ferita gerarchica maschile secondo te è biologica o culturale?

La cosa che mi ha più scioccato leggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir è che lei passa un sacco di tempo a spiegare la biologia della femmina del mammifero umano dicendo mamma mia che mammifero sfortunato ma poi rovescia tutto dicendo: «noi siamo esistenzialiste, noi crediamo che l’esistenza sia il compimento della natura umana e quindi trascendiamo la biologia». Io ispirandomi a lei dico la stessa cosa sul maschio: mettiamo pure che certe cose vengano dalla natura; che il maschio alfa esista nel branco – comunque lo scopo della nostra vita è trascendere la biologia.

La stessa cosa che Simone de Beauvoir ha scoperto sulla biologia, io la penso di tutto ciò che di violento, di gerarchico possediamo in quanto uomini e che magari è insito nella nostra natura: si può trascendere.

Mio nonno diceva: «Quando sono nato io, avevo quattro serve: mia figlia, mia madre, mia moglie e la serva vera e propria, perché al tempo se avevi un po’ di soldi ne avevi una fissa. Ora che sono vecchio non ne ho manco una. Ho divorziato, mia figlia non c’è più, mia madre è morta e non ho più soldi per avere una serva fissa. La qualità della mia vita è peggiorata notevolmente».

Bene, hai praticamente fatto un ritratto della crisi del maschio. Questo è un punto fondamentale anche per me perché la crisi del maschio ha due facce e ovviamente questa è la faccia ridicola – anche se è bene tenere presente che quando un popolo decade diventa violento. E poi l’altra faccia è invece quella che riguarda la gerarchia: l’uomo è oppresso dalla gerarchia che ha creato e quindi si deve sfogare su questo essere – la donna – che lui stesso ha dichiarato inferiore e che gli serve per tollerare la propria oppressione.

Ho dovuto molto sforzarmi per scrivere degnamente di queste cose perché suoniamo molto ridicoli – il vero problema è quello che ha detto tuo nonno. Io nel libro cerco di dare una dignità narrativa al fatto che se vado al festival femminista organizzato da mia moglie penso mia moglie mi sta levando il lavoro. Mia moglie è l’esercito di riserva… Questo è il livello. La teoria della sostituzione etnica siete voi donne. Capito? E questi sono pensieri che dobbiamo reclamare, dobbiamo dire cosa sentiamo, anche se sono cose brutte, meschine, perché quella pancia spaventata non la usino solo i reazionari. Tutto l’umorismo di destra recente (Pepe the Frog…) è brutale perché dice che la realtà è più brutale di quanto non si dica a sinistra. Allora voglio essere io a dire che la realtà è brutale. La realtà è che se io sono stato abituato a vincere sempre su una donna e mi viene tolta questa vittoria sarò uno stronzo che sta male. E questo però ci porta a un fatto fondamentale: dobbiamo fare i conti con un soggetto politico che non ha più a disposizione una cosa che pensava che gli fosse dovuta.

Nel libro c’è un capitolo sull’adolescenza. Tu incredibilmente hai tenuto dei diari, cosa che ti invidio molto. Pagherei oro per aver tenuto dei diari in adolescenza. Dai tuoi emerge il ritratto di un ragazzo che sta vivendo secondo dei falsi desideri che gli sono stati forniti dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, da tutto quello che ha intorno. Così non riesce neanche a individuare qual è il suo desiderio più autentico, soprattutto nei confronti delle donne. Questa cosa l’ho trovata interessante. Tu dici: «Questi sentimenti adolescenziali sono molto simili ai discorsi degli Incel». E in effetti queste ragazze nel tuo diario sono sempre una proiezione della tua onnipotenza o della tua frustrazione, no? Però mi chiedo se questo vissuto non sia un prodotto dell’adolescenza più che del genere. Cioè che tanti adolescenti, maschi e femmine, abbiano questo tipo di impulsi, di pensieri. Se potessi leggere i miei pensieri dell’adolescenza credo troverei delle cose analoghe alle tue.

A volte infatti mi chiedo se non esistano due tipi di evoluzione per quanto riguarda le dinamiche di genere. Una filogenetica, cioè della specie umana, che ora si trova a fare i conti, in Occidente, con questo grande cambiamento. L’altra invece è ontogenetica, cioè si dispiega durante la vita dell’individuo. E mi pare che questa seconda faccia sì che fino ai venti, venticinque anni le dinamiche tra generi siano più “primitive”, e quindi patriarcali. Poi all’improvviso cambia proprio il panorama valoriale, le femmine scoprono il femminismo, si scoprono brave a studiare e via dicendo. Mi chiedo se la prima dinamica, quella più classica rispetto ai ruoli di genere che vediamo in adolescenza sia influenzabile da una diversa educazione o cultura.

Nei libri di psicologia ho letto che una crescita psicologica sana consiste nel vivere anche un periodo in cui sei sottomesso all’ideologia degli adulti che hai intorno. Poi te ne distanzi. Essere completamente sganciati dall’influsso degli adulti è praticamente un disturbo psichico. Io però ho visto figli con disturbi simili ai miei trovarsi davanti genitori che si sono messi a studiare come capirli meglio, e quei disturbi sono passati. L’ho visto sia in bambini figli di donne molto interessate dall’educazione, sia in bambini figli di femministe, che quindi applicano una loro cornice educativa.

E ho visto nei maschi una varietà di espressione emotiva – in quelle famiglie – che mi fa pensare che il maschio becero tredicenne sia il prodotto del mancato ascolto da parte dei genitori della sua parte emotiva. Nel concreto, a un certo punto una mia cara amica ha iniziato a incoraggiare e ascoltare le emozioni del figlio, perché lo aveva visto un po’ sfasato. Il figlio è improvvisamente diventato una creatura molto più articolata, che non rimaneva intrappolato nelle solite due reazioni in croce.

Io vedo figli di femministe molto forastici, ma al tempo stesso con aspetti che noi da piccoli avremmo definito “da femmina”. Poi certo, magari sei parte di una famiglia tradizionale, borghese o meno, frequenti una scuola pubblica italiana, ci sta che tu sia incasinato e contraddittorio, però quella parte dell’espressione secondo me è fondamentale e infatti io penso di non aver avuto l’infanzia giusta per me. Ero troppo delicato per diventare un maschio etero che aspettava il primo bacio e imparava a giocare a pallone.

Se avessi espresso cos’ero da piccolo mi avrebbero massacrato. Agli scout dovevo sempre dominare le situazioni perché quando non lo facevo venivo subito trattato come un freak.

Mi sembra sia stata Ferrante a far notare che l’Arturo di Elsa Morante è in realtà una femmina, perché fino ai dodici anni gli uomini non sono ancora uomini. È una cosa che io mi sto chiedendo molto davanti a mio figlio maschio appena nato, perché penso che adesso lui è femmina, ma prima o poi diventerà maschio.

Ti dico solo che agli scout mi resi conto che dovevo cambiare il modo in cui mi sedevo, cioè con le gambe ripiegate da una parte, un po’ a sirena. Ai maschi viene detto di nascondere le proprie parti da sirena, e di imparare a dominare.

Mi sorprende sempre quanto gli uomini accettino di essere soli… Non so quanto tu segua TikTok, però mi fanno molto ridere i video delle fidanzate che danno al fidanzato le liste di cose da chiedere agli amici. Tipo se un amico di lui si lascia, le fidanzate gli danno una lista per sapere perché, chi ha tradito chi, chi ha detto cosa. A prima vista sembra solo un modo per fare pettegolezzo – un termine malvisto, associato al mondo femminile ma che, se ben fatto, è letteratura, è psicologia, è introspezione – ma che in realtà è un modo per conoscere meglio l’altro. Tutt’ora io ho amici maschi che non parlano tra di loro delle cose che gli capitano. E questo non può che generare malessere. I sentimenti violenti, brutali, negativi si esorcizzano anche rivelandoli a una persona fidata.

L’altro giorno a Milano Francesca Coin a una presentazione mi ha detto: «Sono contenta che esista questo libro perché almeno ho saputo un po’ cosa pensano gli uomini». C’è un mistero dato dal fatto che neanche tra di noi (non io personalmente) ci chiediamo le cose importanti.

Io non frequento gruppi di soli uomini. L’ultimo è stato il calciotto, è finita molto male. C’è questo movimento molto più vario che sento nei gruppi di donne, che si costruisce anche sul parlare, sul gossip, sul raccontarsi i vari fatti, gli amanti, i litigi. Ovviamente ci sono uomini che mi piacciono molto. Certi baristi del quartiere, certi musicisti. Però se dovessi descrivere in maniera puntuale com’è sedersi a chiacchierare con un uomo… Abbiamo gli attacchi panico, ci vogliamo suicidare, andiamo dallo psichiatra, ma non possiamo sederci e dire «Ciao, mi sento così e cosà». Il mio migliore amico, che invece è un uomo meraviglioso, una volta, mentre eravamo seduti a un tavolino mi fa: «Guarda quelle tre». Erano delle donne sulla trentina. Una stava raccontando un fatto alle altre due, e lui mi disse: «Guarda l’attenzione con cui loro due stanno ascoltando quella che sta parlando, guarda come sono protese in avanti, hanno questi occhi tutti trasparenti, e stanno reagendo alle cose che sta dicendo l’altra. Guarda che bello».

Che poi sono le cose che ho imparato da Francesca, mia moglie. Come si sta ad ascoltare qualcuno.

[…]

L’articolo originale in versione integrale può essere letto qui: https://lucysullacultura.com/e-la-gerarchia-che-frega-gli-uomini-non-il-femminismo-intervista-a-francesco-pacifico/

Testimonianza dalla Striscia: «Guardando i video ho capito che ciò che ci succede a Gaza non passa inosservato»

La tristezza aleggiava sul campo di Nuseirat dopo che il nostro edificio era stato colpito per la terza volta consecutiva. Ricordo il momento dell’evacuazione, a mezzanotte, e come abbiamo trascorso tutto quel tempo per strada. Il mio cuore era pesante dal dolore.

Pochi giorni dopo l’evacuazione, mentre cercavo di elaborare le nostre perdite interminabili, mi è arrivato sul telefono un video dall’Italia. La scena mi sembrava quasi irreale: strade gremite di persone, striscioni che chiedevano la fine della guerra e bandiere palestinesi che sventolavano ovunque. Le voci gridavano slogan che non riuscivo a comprendere del tutto, ma ne percepivo l’emozione. In quel momento ho capito che ciò che ci sta accadendo a Gaza non passa inosservato, e che ci sono persone che alzano la voce per noi da luoghi lontani, che non abbiamo mai visitato.
Le dimensioni delle manifestazioni in Italia, nei video che ci arrivavano, erano sorprendenti: centinaia di città piene di manifestanti che impugnavano cartelli con scritto “Stop alla guerra” e “Palestina libera”. Perfino i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale di 24 ore in solidarietà con noi. Quelle immagini non erano soltanto scene su uno schermo: erano un messaggio chiaro che non siamo soli, che il mondo ci guarda e ci sostiene, nonostante la distanza che ci separa e le diverse circostanze.

Il sostegno italiano non si è limitato alle parole; ci sono state iniziative concrete che ci hanno dato speranza. Tra queste, la Sumud Flotilla, salpata verso Gaza nonostante i tentativi di fermarla. La loro incrollabile decisione di proseguire ci ha ricordato la nostra stessa resistenza, e come un singolo gesto di determinazione possa fare una significativa differenza. Queste iniziative hanno reso la solidarietà tangibile, dimostrando che il sostegno altrui non è passeggero, ma un’azione reale che lascia un segno nelle nostre vite, in mezzo a tante difficoltà.

Quando le persone a Gaza hanno visto quelle immagini e quei video, hanno percepito che qualcuno stava al loro fianco. Le conversazioni tra vicini e amici erano piene di racconti di solidarietà, e si percepiva una strana sensazione di speranza, nonostante tutto il dolore e la perdita. Non aleggiava più solo tristezza; cominciava a farsi strada la sensazione che il mondo non ci avesse dimenticati, che le nostre voci arrivassero lontano, e che non fossimo soli di fronte alla guerra e alla distruzione. Questo impatto psicologico è stato molto importante, perché ha dato alle persone la forza di andare avanti, anche solo per un momento, di fronte a una realtà così dura.

Alla fine, è evidente che anche un piccolo gesto può fare una grande differenza. La solidarietà che ci è giunta dall’Italia non è stata solo fatta di parole, ma di messaggi e azioni concrete che ci hanno ridato un senso di speranza. Siamo profondamente grati al popolo italiano per essere al nostro fianco e per il suo sostegno costante in questi tempi difficili. Gaza ha bisogno che il mondo continui a ricordare la sua gente e a offrire il proprio aiuto, con le parole o con i fatti. Nonostante tutte le difficoltà e la distruzione, il nostro legame con il resto del mondo resta una fonte di motivazione per resistere e perseverare – e speriamo che tutti si rendano conto che le nostre voci e le nostre storie contano, e meritano di essere ascoltate.

da L’Altravoce il Quotidiano

Israele può fermare, sequestrare e arrestare, come ha fatto, in spregio ad ogni sentimento di umanità prima che del diritto internazionale, le donne e gli uomini della flotta della Global Sumud Flotilla, ma non può arrestare e fermare l’indignazione, lo sdegno, il senso di giustizia e solidarietà verso il popolo palestinese. Lasciare morire di fame bambine/i, usare la fame come arma di guerra contro un popolo inerme, impedire di portare loro viveri e medicinali, è di una crudeltà e una barbarie che grida giustizia. Un grido che in questi giorni è risuonato forte e potente nelle piazze e nelle città di tutto il mondo; un risveglio delle coscienze, grazie alla missione umanitaria della Flotilla, di fronte all’ignavia dei governi e degli stati verso il genocidio di un popolo. Manifestazioni pacifiche con migliaia e migliaia di persone, di ragazze/i, a gridare “Palestina libera” e sventolare bandiere palestinesi. Quelle piazze sono palestre di politica per le nuove generazioni di tutto il mondo, come lo sono state per la mia quelle per la guerra in Vietnam. Anche noi, con Arafat, gridavamo “Palestina Libera” e sventolavamo la bandiera palestinese. Questo per dire che lo sterminio dei palestinesi non è iniziato dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre. Anche allora, come oggi, ci accusavano di antisemitismo, ma oggi ormai questa accusa non funziona più di fronte all’uccisione di 20.000 bambine/i palestinesi, di fronte a migliaia di bambine/i feriti, mutilati, orfani, affamati, ammazzati mentre in fila cercano un po’ di pane e di acqua per sopravvivere. Quanta crudeltà! Impedire alla Flotilla di portare il suo carico di viveri e medicinali ai sopravvissuti al genocidio, ancora in corso, è un crimine contro l’umanità. Che fine hanno fatto quei viveri e quei medicinali? Arriveranno mai ai palestinesi? Impedire di aprire una breccia nel blocco navale che Israele ha imposto sin dal 2009 in un mare che appartiene ai palestinesi e non agli israeliani, è un crimine contro l’umanità. Impedire di aprire un corridoio umanitario via mare per portare aiuti ad esseri umani stremati, è un crimine contro l’umanità. Di questi crimini e di genocidio Israele, l’Europa, gli stati e i governi suoi complici, come quello italiano, dovranno pur rispondere in qualche tribunale per essere giudicati e condannati. La storia e l’umanità li ha già condannati. Adesso, per ripulirsi la coscienza, accettano acriticamente il cosiddetto “piano di pace” di Trump e Netanyahu. Un piano su cui si sono accordati due uomini, due suprematisti, due vecchi del secolo scorso, residui di un mondo patriarcale violento e cultori della forza, che sia dei soldi o delle armi. È a questa visione del mondo che risponde quel piano. Una visione dentro a quella logica coloniale che la scrittrice palestinese in esilio Nada Elia nel suo libro La Palestina è una questione femminista chiama “colonialismo d’insediamento”. Il colonialismo d’insediamento è «furto di terre, spossessamento, sfollamento, supremazia ebraica», sul cui progetto è nato il sionismo e lo Stato d’Israele nel 1948. Con il “piano” di Trump e Netanyahu e il coinvolgimento della Gran Bretagna attraverso Tony Blair, l’immobiliarista che dovrà sovrintendere alla ricostruzione di Gaza, ai palestinesi sarà imposta la supremazia americana, israeliana e britannica. L’esercito israeliano continuerà ad occupare Gaza sine die, e i coloni in Cisgiordania a cacciare i palestinesi dalla loro terra e dalle loro case. Per quanto ingiusto sia, quel piano i palestinesi dovranno accettarlo vista la minaccia dei due cowboy di ammazzarli tutti, se non l’accettano. Tra morire e vivere, è sempre meglio vivere, anche a caro prezzo. Intanto, mentre scrivo, le manifestazioni non si fermano e una nuova flottiglia è partita per Gaza, dalla Turchia (45 navi) e dalla Sicilia (11), con medici e infermieri. Il mondo intero oggi è con Gaza e con la Flotilla.

da La Stampa

Per Ilan Pappé, Israele sta vivendo una crisi politica, morale e istituzionale che segna la fine di un capitolo della sua storia: l’inizio della fine del progetto sionista.

Rinomato storico israeliano, una delle voci più forti dei nuovi storici nel Paese, è professore di storia presso l’università di Exeter, in Gran Bretagna, dove dirige anche lo European Center for Palestinian Studies. Noto soprattutto per il suo libro del 2006 La pulizia etnica dei palestinesi, esce in Italia con il suo nuovo libro La fine di Israele, in libreria dal 7 ottobre nella traduzione di Nazzareno Mataldi.

Vorrei iniziare con gli eventi delle ultime ore. Le risposte di Hamas e Netanyahu al piano di pace proposto da Trump. L’ottimismo del presidente statunitense e lo scetticismo degli analisti. Partiamo da qui, da storico, come giudica i venti punti del piano Trump per il dopo Gaza?

«Il piano di Trump ha tutte le caratteristiche delle proposte di pace del passato e dei processi falliti finora. La prima: nessuno parla con i palestinesi. Tutti dicono loro quale dovrebbe essere il futuro della Palestina senza capire che ogni proposta che non sia discussa con i palestinesi è destinata a fallire. E anche questa fallirà. Dopodiché nel prossimo futuro penso che ci sarà lo scambio di ostaggi e prigionieri, credo che l’esercito israeliano darà un po’ di tregua alla popolazione di Gaza, ma non credo che questo risolverà il problema principale che abbiamo in Israele e Palestina, cioè l’incapacità degli israeliani di accettare i palestinesi come cittadini con pari diritti, come uguali esseri umani. Il programma non ha alcuna risposta alla natura di base del progetto sionista, che è un progetto volto a eliminare i palestinesi in Palestina, non necessariamente attraverso il genocidio, ma rinchiudendoli in enclave come piccoli bantustan, cosa che la maggior parte dei palestinesi non accetterà mai. Quindi è un piano che non affronta davvero la questione alla radice. In parte è una messa in scena, in parte un gioco, in parte il modo di Trump di pensare che tutto sia un problema di business, e di molti altri come Tony Blair che pensano che ci sia molto denaro coinvolto in tutto questo. Quindi credo che sì, ci sarà un tentativo, ma non avrà successo».

Partiamo dal titolo del suo libro: Israel on the brink nella versione inglese, La fine di Israele in quella italiana. Dove vede i segni della fine di Israele?

«L’Israele per come lo vediamo oggi non può sopravvivere a lungo, perché stiamo vivendo la fine di un capitolo della storia del sionismo. È già sotto i nostri occhi. Il sionismo è diventato colonialismo quando gli europei, gli ebrei non europei e una minoranza di ebrei in Europa hanno deciso che gli ebrei non avessero futuro in Europa ma dovessero in qualche modo “restare europei”. Così il sionismo ha mirato a costituire uno Stato europeo nel mondo arabo, con l’idea che il futuro degli ebrei sarebbe stato meglio servito da uno Stato ebraico nel cuore del mondo arabo e a spese dei palestinesi. Qualcosa che si può ottenere e sostenere solo con la forza, con la pulizia etnica e che col tempo è diventata un’ideologia di Stato. Un’ideologia di apartheid».

Quali questioni considera cruciali per comprendere la crisi del progetto sionista che descrive nel libro?

«Il primo è un problema interno del sionismo: cercare di definire l’ebraismo come nazionalismo. Oggi, dopo ottant’anni, sappiamo che non funziona. È come se fosse impossibile parlare del cristianesimo come nazionalità, o dell’islam come nazionalità. È anche impossibile parlare dell’ebraismo come nazionalità, e il risultato di questa impossibilità è che ora ebrei laici e più religiosi trovano impossibile accordarsi su cosa significhi essere ebrei. E questo non è solo un problema individuale, è un problema collettivo, dello spazio pubblico, cioè il carattere dello Stato: è governato da idee ebraico-teocratiche o è governato da idee moderne? Questo problema non risolto per ottant’anni si è trasformato, oggi, in un conflitto sociale. Dunque questo è il primo dato: il fallimento nel far coincidere ebraismo e nazionalismo».

Nel suo libro descrive e divide fra uno Stato laico, Israele, e uno Stato religioso, lo Stato di Giudea. Quanto è diventata irreversibile questa divisione nella società e nella politica israeliana?

«È una divisione molto acuta. Parlo dello Stato di Giudea, del tipo di Stato alternativo rispetto all’attuale Stato di Israele che è emerso, prima di tutto, negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma che si è diffuso, nei fatti, in tutto Israele. Il modo migliore per descrivere questo processo è che lo Stato di Giudea sta inghiottendo lo Stato di Israele.

Gli esponenti e i rappresentanti di quello che chiamo Lo Stato di Giudea, hanno già una presenza dominante in politica, nei servizi di sicurezza, tra i generali dell’esercito e nei media ufficiali. Dobbiamo ricordare che non sono affatto pochi gli israeliani che non sanno cosa sia Haaretz [in ebraico, “la terra” (sottinteso di Israele), ndr] e ora stanno assalendo il sistema giudiziario.

L’ultimo bastione che devono conquistare è la Corte Suprema di Israele, e sono sulla strada per farlo. Hanno già il parlamento. Hanno il governo.

Ora, anche se alcuni cambiamenti potrebbero verificarsi a causa della particolare personalità di Netanyahu, rimarrà comunque una forza dominante nella politica e nella vita israeliana. Ed è molto difficile intravedere dinamiche di cambiamento che possano veramente sfidare in modo efficace la loro predominanza nella politica e nella vita israeliana».

Parliamo dell’importanza della memoria collettiva e della rimozione della storia palestinese, della catastrofe degli sfollamenti e della pulizia etnica nella sfera pubblica israeliana.

«Questa questione riguarda il rapporto storico con i palestinesi. Il Dna del progetto sionista è un progetto coloniale di insediamento che ritiene che la popolazione indigena nativa sia un problema che deve essere risolto. Di solito rimuovendola o eliminandola. E questo è qualcosa che permea il sistema educativo, il sistema politico, il sistema culturale. Gli israeliani, fin da bambini, vengono indottrinati a pensare ai palestinesi come esseri umani inferiori, come un problema demografico, come un ostacolo alla loro vita in “sicurezza”. Se ci pensa, è davvero notevole che il sionismo sia presente in Palestina da 120 anni e che il 99% degli ebrei israeliani non conosca l’arabo. Questo la dice lunga su quanto siano distaccati dalla società, dalla comunità e dalla cultura palestinese».

Che ruolo hanno, e che ruolo potrebbero avere, le narrazioni storiche e la memoria nel mettere in discussione il progetto sionista?

«Vede, negli ultimi venti o trent’anni quella che sembrava essere una posizione ideologica palestinese – la memoria della catastrofe, della Nakba – è stata supportata dalla ricerca accademica. Fino a trent’anni fa quando i palestinesi dicevano di essere stati vittime di pulizia etnica nel 1948, la gente intorno diceva “è la vostra propaganda, non la verità”. Dunque oggi i ricercatori sono d’accordo nel sostenere che nel 1948 si sia verificato un crimine contro l’umanità a danno dei palestinesi. Analogamente, l’affermazione che Israele non sia una democrazia è corroborata da studiosi e organizzazioni per i diritti umani – Human Rights Watch, Amnesty International – la Corte Internazionale di Giustizia, la Corte Penale Internazionale. Quindi qualcosa è cambiato nella percezione della narrazione sionista come propaganda non basata sui fatti, ma come manipolazione e fabbricazione della verità».

La sinistra israeliana oggi appare paralizzata.

«La sinistra sionista funziona a malapena. Ma è chiaro, non si può essere un colonizzatore di sinistra. La sinistra antisionista è cruciale, molto coraggiosa, ma minoritaria. Sono gli unici che manifestano contro la guerra perché a Gaza è in corso un genocidio. Una delle storie tristi qui è che la forza di contrasto – chiamiamola l’élite liberale e laica in Israele – ha deciso, invece di combattere, di lasciare il paese, e quelli che sono rimasti, soprattutto a Tel Aviv, quelli che chiamiamo i kaplanisti e animano le manifestazioni del sabato, non hanno davvero una visione alternativa allo Stato di Giudea. Quello che vogliono è continuare la loro privilegiata vita a Tel Aviv senza esserne toccati, ma non hanno una percezione alternativa di quale sia il problema con i palestinesi e di come affrontarlo; perciò credo che perderanno, o che forse hanno già perso perché l’altra parte – lo Stato di Giudea – è molto chiara nella sua visione, nella sua ideologia, nei suoi mezzi, nel modo in cui vuole procedere verso il futuro per raggiungere i propri obiettivi, e ci sta riuscendo».

Nel libro sostiene la decolonizzazione anziché gli aggiustamenti alla soluzione dei due Stati. Decolonizzazione come unico quadro morale e politico duraturo. E dalla decolonizzazione un percorso che unisca misure di giustizia riparativa, riorientamento giuridico, risarcimenti, riparazioni. Come risponde alle critiche che definiscono la soluzione politica che lei propone nel libro come una soluzione irrealizzabile, e impraticabile?

«È un’utopia? Forse, ma non c’è nulla di sbagliato in questo, perché le utopie possono dare un orientamento. Ma io credo che i processi di disgregazione – che forse non sono visibili a tutti – siano già cominciati. Sono uno storico e so che il crollo degli Stati e dei regimi può, all’inizio, essere molto lento e poi accelerare rapidamente. L’espressione del potere, soprattutto quello militare da parte dello Stato populista messianico di Israele lo farebbe istintivamente pensare come uno Stato forte. Ma pensiamoci bene, uno stato che lancia bombe in Qatar, in Yemen, che ha occupato parte della Siria e parte del Libano, che commette un genocidio a Gaza, è uno stato che non può che generare ostilità e alienazione. Uno Stato che con questa condotta non può essere tollerato e sostenuto ancora a lungo. Sa, l’’Egitto, la Giordania, la Siria e il Libano – a cui si possono aggiungere l’Iraq e l’Arabia Saudita – ora pensano di poter tollerare Israele; pensano persino che questo tipo di Israele dia loro dei dividendi. Ma questa non è una posizione condivisa dalle loro popolazioni.

Quindi qualsiasi cambiamento nella relazione tra società e regimi nel mondo arabo cambierebbe la posizione dei Paesi intorno a Israele. C’è un momento – lo dico come storico, naturalmente non sto predicendo il futuro – in cui un tale comportamento non è più tollerato, Israele sta alienando tutti intorno anche molti – molti amici. È qualcosa con cui gli israeliani devono cominciare a fare i conti».

da Techeconomy2030 -Digital Transformation For Sustainability

L’uomo è diventato una specie di dio-protesi: quando si serve di tutti i suoi organi ausiliari è veramente magnifico; ma non li porta con sé e spesso non riesce a usarli senza difficoltà”

A volte ci spaventiamo dell’intelligenza artificiale come se fosse una potenza autonoma pronta a ribellarsi, e nello stesso tempo sembriamo distratti di fronte agli usi concreti che governi e imprese ne fanno quotidianamente. È questa la vera contraddizione del nostro tempo: non la macchina in sé, ma il modo in cui la usiamo o, peggio, lasciamo che altri la usino per noi.
L’inchiesta che ha svelato l’impiego dei servizi cloud e di intelligenza artificiale di Microsoft da parte dell’Unità 8200 israeliana per la sorveglianza massiva dei palestinesi ne è un esempio clamoroso. Il contratto risaliva al 2021 e permetteva di immagazzinare e processare milioni di chiamate telefoniche, con una capacità impressionante: fino a un milione di conversazioni l’ora. Tutto questo è avvenuto per anni, lontano dallo sguardo pubblico, fino a quando non è esploso lo scandalo. Solo allora Microsoft ha interrotto i servizi del suo sistema Azure – che sembra voler trasmettere anche nel nome calma e tranquillità, come un fondo pensione –, quando i dati erano già stati raccolti e utilizzati. Un classico caso di stalla chiusa a buoi già scappati, che mette in luce la sproporzione tra la rapidità con cui la tecnologia si insinua nelle nostre vite e la lentezza con cui reagiamo quando se ne svela l’abuso.
Il tema, però, non è nuovo. Già i Greci avevano intuito che la téchne, l’arte del fare, non fosse una licenza illimitata ma una forma di supplenza, un modo per colmare la nostra fragilità. Pensiamo a Dedalo, che con la sua inventiva dona le ali al figlio Icaro, ma non può impedirne la caduta quando la spinta dell’eccesso lo porta troppo vicino al sole. O all’automa di bronzo Talos, creato da Efesto per vigilare su Creta, metà prodigio e metà minaccia. In questi racconti la tecnologia appare come un dono ambiguo: estensione delle nostre capacità e, insieme, potenziale dismisura, hýbris contro gli dèi.

Che cosa significa téchne (e i miti che la raccontano)

In greco antico, téchne non era “tecnologia” nel senso moderno, ma arte, mestiere, capacità pratica. Era distinta dalla epistéme (conoscenza teorica) e indicava il saper trasformare un’idea in azione o in oggetto.

I miti ci mostrano bene la sua ambivalenza: Dedalo, inventore geniale, costruisce le ali che permettono a Icaro di volare ma leccesso porta alla caduta. Efesto forgia automata di metallo capaci di muoversi e servire, straordinari e inquietanti antenati dei nostri robot. La lezione resta attuale: la téchne colma una mancanza, ma se usata senza misura diventa hýbris.

Questi miti ci ricordano che la questione non è mai stata tecnica, ma sempre etica e politica. Lo vediamo anche oggi, nell’ipocrisia con cui giudichiamo certe piattaforme e ne tolleriamo altre. TikTok, per esempio, negli Stati Uniti è stato trattato come una minaccia alla sicurezza nazionale, al punto da imporne la vendita forzata per proteggerne la democrazia. Ma la stessa lucidità non si applica a piattaforme americane come Meta o X, che ogni giorno plasmano le nostre bolle informative e influenzano le opinioni politiche senza che questo sollevi allarmi equivalenti. Condanniamo la propaganda “straniera” e ci abituiamo a quella domestica, anche quando la sua portata non è meno invasiva.
Chi controlla gli algoritmi, in fondo, controlla l’accesso all’informazione e con esso la trama stessa delle relazioni sociali. È qui che la tecnologia smette di essere un tema da ingegneri per diventare un nodo di potere. Se il dibattito pubblico resta limitato a slogan e a paure generiche sull’IA “buona” o “cattiva”, perdiamo di vista il punto centrale: lasciamo che soggetti privati, spesso stranieri, stabiliscano le regole invisibili della nostra democrazia informativa. Il rischio sistemico non sta tanto nella provenienza di una piattaforma, quanto nella concentrazione di potere e nella mancanza di trasparenza con cui viene esercitato.
Qui entra in gioco la politica, o meglio la sua assenza. Se la tecnologia è un attore di scena, chi scrive il copione? Chi decide i limiti, le regole, le conseguenze? Non possiamo più accontentarci di reazioni tardive, come quella di Microsoft. Servono norme chiare e strumenti di controllo democratico che riducano al minimo la possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali. In mancanza di ciò, continueremo a inseguire gli scandali a giochi già fatti.
E infine c’è un equivoco che vale la pena di sfatare: l’idea che l’intelligenza artificiale abbia una sua “etica intrinseca”. È una narrazione rassicurante, che sposta il problema dalle nostre responsabilità alla macchina. Ma, come ricorda Stefano Epifani nel suo ultimo libro Il teatro delle macchine pensanti, l’IA non possiede etica: ha istruzioni, vincoli, dati e obiettivi che noi definiamo. L’etica appartiene alle persone, alle società, ai governi che decidono come usarla. Illudersi che la macchina possa in qualche modo sostituire questo compito significa ripetere, in versione digitale, la stessa hýbris che i Greci avevano già messo in guardia nei loro miti.

Tre priorità per la politica

1. Trasparenza: aprire dati e algoritmi a controlli indipendenti.
2. Simmetria: regole uguali per tutte le piattaforme con impatto sistemico, non solo per quelle “straniere”.
3. Legislazione efficace: norme capaci di ridurre al minimo le possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali.

Tra Prometeo e Azure, il messaggio resta lo stesso: non è la tecnologia a renderci più o meno giusti. Siamo noi, con le nostre scelte, a darle una direzione. E se vogliamo evitare che le nostre protesi diventino catene, dobbiamo assumere fino in fondo la responsabilità politica ed etica del loro governo.

da Sette

L’AI (e non solo) nasce da un incontro che si è sedimentato fra matematica, informatica, neuroscienze, filosofia… Marilù Chiofalo*, fisica quantistica, spiega perché «uscire dal modello unico» è l’approccio giusto

Il principio di sovrapposizione quantistica dice che una particella può trovarsi in più stati contemporaneamente: zero e uno, qui e lì. È una delle basi della meccanica quantistica, ed è anche la prova di quanto questa scienza sia distante dall’evidenza dei nostri sensi e dal modo consueto di comprendere il mondo. Eppure, incontrando Marilù Chiofalo si ha l’impressione che quell’astrazione, che ci è sempre sembrata un paradosso inconcepibile, trovi una forma viva, concreta, proprio davanti a noi.

Un dottorato di ricerca alla Scuola Normale, professora di Fisica della materia condensata all’Università di Pisa, il suo approccio alla ricerca è interdisciplinare, così come assume diverse dimensioni il suo modo di insegnarla e raccontarla, tra radio, video, riviste, attività per le scuole e molto altro. Parlare con lei è come intraprendere un viaggio che non conosce confini: scienza, arte e cultura si intrecciano senza mai separarsi.

«Da piccola correvo scalza tra i torrenti della Magna Grecia, osservavo le stelle, mi sbucciavo sempre le ginocchia, giocavo a pallone (da centravanti) e a pallavolo (facendo punto in tre tocchi di cui uno, il mio, come alzatrice), suonavo strumenti, fondavo associazioni (per l’ambiente, contro la mafia) e pensavo che la fisica è la poesia della matematica». La sua curiosità non può essere contenuta, si muove in tutte le direzioni e non è rivolta soltanto ai contenuti, ma al come esplorarli. È affascinata soprattutto da questo: dai percorsi, dalle prospettive, dai linguaggi. E il suo preferito è quello di chi sa stare tra le discipline, senza lasciarsi ingabbiare da una sola. Così, seguendo un cammino non convenzionale, Marilù Chiofalo si è ritrovata a studiare tecnologie quantistiche per esplorare il cosmo e la mente, e a inventare nuove realtà grazie alle simulazioni al computer.

«La scienza del futuro che voglia svelare i grandi misteri dell’umanità come l’universo, la mente, la coscienza, è necessariamente interdisciplinare e connettiva: richiede puzzle di competenze e risorse, connessione fra astrazione ed esperienza, in ambienti di ricerca complessi per dimensioni, dinamiche ed enorme qualità di diversity», dice. E in effetti, se pensiamo all’Intelligenza Artificiale di cui parliamo per il suo potenziale trasformativo, non possiamo non notare che non nasce da una sola disciplina, ma è frutto di un incontro di saperi molto diversi che si sono intrecciati nel tempo: matematica, statistica, informatica, neuroscienze, psicologia cognitiva, ingegneria, linguistica, filosofia, e scienze sociali ed economiche. Se adottiamo un atteggiamento interdisciplinare ci accorgeremo che «ciò che appare distante non lo è perché lo sguardo di chi osserva, che è uno, collega e associa, manipola e trasforma. Così nasce qualcosa di nuovo, capace di contenere e persino riconciliare le contraddizioni».

Ma nel mondo accademico non è facile assumere questo atteggiamento. Come sottolinea Marilù Chiofalo: «Se lavori al confine tra due o più discipline, per il mondo non sei specializzata né in una né nell’altra.» Per chi vuole intraprendere un percorso come il suo, la strada è più faticosa. La svolta è arrivata con l’incontro a Labodif, il primo istituto di ricerca e formazione sulla differenza, fondato dalla regista Gianna Mazzini e dall’economista Giò Galletti. Lì, racconta, ha imparato come riconoscere le donne che sanno tracciare nuove direzioni. «In fisica questa sarebbe un’accelerazione. A Labodif le chiamiamo madri».

La sua interdisciplinarità si è trasformata in una in-disciplina. «Essere in-disciplinata per me non è solo costruire ponti tra saperi diversi. È ricomporre la bambina di allora con la donna che sono oggi». Vuol dire affrontare prima di tutto una trasformazione interna, più che un conflitto con l’esterno e con le regole del sistema. Vuol dire imparare a guardarsi dentro e avere il coraggio di mostrarsi interamente, in tutto ciò che si fa.

Un’urgenza, soprattutto nel mondo della scienza, dove di donne ne «entrano poche, e restano meno». C’è ancora molto da fare. Essere una ricercatrice significa affrontare una fatica doppia: muoversi dentro un sistema che porta impresso un punto di vista maschile e che misura quasi tutto con un metro valido, certo, ma che non può essere l’unico. Lo sottolinea con chiarezza: «Il problema non è che esista un metro maschile. Il problema è quando quel metro diventa l’unico possibile. L’auspicio è che più metri possano convivere».

L’attuale metro rischia di incastrarci in un meccanismo escludente, soprattutto per le donne. «Capita spesso», mi dice Marilù Chiofalo, «che le donne non vengano viste. O, se viste, non vengano riconosciute. Anche per il modo diverso con cui fanno le cose.»

La scienza, dopotutto, è fatta da persone. Eppure, ce ne dimentichiamo. Dove ci sono persone che fanno scienza, ci sono sempre due dimensioni: quella oggettiva, legata ai risultati della ricerca; e quella soggettiva, legata al percorso unico e irripetibile con cui si arriva a quei risultati. È proprio questa dimensione soggettiva che andrebbe valorizzata. Non solo per le donne, ma per tutti. Perché abbiamo bisogno di nuovi metri narrativi, capaci di dare spazio e valore a questa diversità.

Alle donne, dice, servono due cose. La prima è decolonizzarsi: disimparando quel modo di fare ordine astratto tra i contenuti e smettendo di misurarsi con il metro altrui, di vivere nella schiavitù della perfezione che impone di sapere sempre più di chiunque altro. La seconda è stabilire un nuovo metro. E un metro nuovo non nasce mai in solitudine: prende forma solo nella risonanza con altre donne. Questa, mi dice, è l’autorità femminile: allargare gli spazi, aprire il campo del possibile e del dicibile. Lo dimostrano due ricerche che Marilù Chiofalo cita con entusiasmo. Entrambe sono nate grazie all’accoglienza e alla generosità di altre donne, ricercatrici in campi diversi, che hanno condiviso con lei l’idea di una collaborazione “in-disciplinata”. La prima utilizza la meccanica quantistica per simulare sistemi complessi come quelli del nostro cervello. Un esempio? La percezione della numerosità: quella capacità straordinaria di guardare un gruppo di persone e sapere quante sono, senza doverle contare a una a una. La seconda prova a ridefinire il tempo.

Un’impresa che sembra impossibile: mettere insieme la visione della meccanica quantistica, dove il tempo è solo un parametro, e quella della relatività, dove invece il tempo è un attributo fondamentale. In altre parole, cercare un modo di pensare il tempo… senza tempo.

Ma come possiamo diventare anche noi un po’ (in)disciplinate, a modo nostro? Ecco i consigli che offre alle sue studentesse: «Se hai un desiderio, non rinunciarvi mai. Cerca madri, come una rabdomante cerca l’acqua nel deserto. E, soprattutto, vai tu stessa nella realtà. Non mandare la tua controfigura, non mascherare la tua natura: così non lascerai indietro pezzi di te.»

Marilù Chiofalo sembra vivere in un tempo senza tempo, come quello che studia. E, in effetti, è insieme la bambina che è stata, la ragazza, la donna di oggi e quella di domani. Tra le tante cose che ci consegna, forse la più preziosa è questa: la possibilità di assumere una postura quantistica nei confronti del grande gioco della vita. Una postura che rifiuta di incasellarsi in uno zero o in un uno, in un qui o in un lì. Che non esclude, ma accoglie. E che, proprio per questo, ci rende massimamente libere.

(*) Marilù Chiofalo è professora di Fisica della materia condensata all’Università di Pisa. Nata nel 1968 a Reggio Calabria, ha praticato sport a livello agonistico (pallavolo, calcio, tennistavolo), studiato flauto al Conservatorio, è appassionata di giochi di ruolo, fumetti e fantasy.

da l’Avvenire

La Chiesa anglicana d’Inghilterra avrà per la prima volta nella sua storia come primate una donna, Sarah Elizabeth Mullally, sessantatré anni, che è stata eletta arcivescovo di Canterbury, titolo che la rende anche primus inter pares tra i primati della Comunione anglicana.

L’annuncio è stato dato stamattina al numero 10 di Downing Street, al termine di un processo iniziato con un’articolata consultazione ecclesiale affiancata da una consultazione pubblica, poi con la scelta del nome di Mullally da parte della Canterbury Crown Nominations Commission – organo composto da 17 membri di nomina reale – il quale l’ha proposto al primo ministro Keir Starmer, che a sua volta l’ha sottoposto al re. E Carlo III l’ha approvato in qualità di governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra. L’insediamento ufficiale è previsto a marzo 2026 dopo una serie di passaggi nei prossimi mesi tra cui l’elezione formale da parte del decano e del Capitolo della Cattedrale di Canterbury.

Mullally succede nell’incarico a Justin Welby, che aveva annunciato le sue dimissioni da arcivescovo di Canterbury il 12 novembre 2024 – diventate effettive il 6 gennaio di quest’anno – dopo essere stato accusato di non aver preso provvedimenti adeguati nei confronti di un abusatore seriale di adolescenti che frequentava da volontario i campi giovanili anglicani.

Mullally, nata nel 1962 a Woking, città di sessantamila abitanti nella contea del Surrey, ha abbracciato la fede anglicana all’età di 16 anni. Ha studiato infermieristica, specializzandosi in infermieristica oncologica, e nel 1999, all’età di 37 anni, è arrivata a ricoprire il ruolo di responsabile del Servizio infermieristico d’Inghilterra presso il Ministero della Salute, la più giovane di sempre. Divenuta sacerdote anglicano nel 2002, nel 2004 ha deciso di lasciare gli impegni civili e di dedicarsi a tempo pieno al servizio pastorale. Ricevuta nel 2015 l’ordinazione episcopale – quarta donna a diventare vescovo nella Chiesa d’Inghilterra – ha guidato prima la piccola diocesi di Crediton e dal 2018 la prestigiosa arcidiocesi Londra.

È sposata dal 1987 con Eamonn Mullally, consulente aziendale in pensione, ed è madre di due figli adulti, Liam e Grace.

«Lavare i piedi ha plasmato la mia vocazione cristiana: come infermiera, poi come sacerdotessa, poi come vescova» ha detto la nuova primate anglicana in un breve discorso nella cattedrale di Canterbury, «nel caos apparente che ci circonda, nel mezzo di una così profonda incertezza globale, la possibilità di guarigione risiede in atti di gentilezza e amore».

Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha dato il suo benvenuto a Sarah Mullally in un comunicato a nome della Conferenza episcopale cattolica di Inghilterra e Galles di cui è presidente. «Porterà con sé molti doni personali e la sua esperienza nel suo nuovo ruolo» ha scritto il porporato, «insieme risponderemo alla preghiera di Gesù affinché “siamo tutti una cosa sola” (Giovanni 17,21) e cercheremo di sviluppare i legami di amicizia e di missione condivisa tra la Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa cattolica romana».

Parole di augurio anche da parte del cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, che ha inviato una lettera al nuovo arcivescovo di Canterbury. […]

da https://obiezioneallaguerra.webnode.it/l/

Oggi, 2 ottobre, celebriamo la Giornata Internazionale della Nonviolenza, un’occasione che onora la data di nascita del Mahatma Gandhi, il pioniere di una filosofia e strategia sì «antica come le montagne», ma che – resa efficace nella dimensione politica pratica – ha cambiato il mondo.

La “vittoria”, sotto la guida di Gandhi, della liberazione dell’India dal colonialismo, nelle straordinarie modalità di svolgimento, ispirate al principio etico del “non uccidere”, ha introdotto la speranza di una “rivoluzione” che sia al contempo profonda conservazione delle basi durature dell’esistenza.

Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 giugno 2007 e commemorata per la prima volta nello stesso anno, questa giornata è un richiamo all’azione per tutti i membri della comunità globale. La risoluzione delle Nazioni Unite invita infatti a «divulgare il messaggio della nonviolenza, anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica», riaffermando la sua rilevanza universale.

La ricorrenza ci invita a riflettere sul potere e sulla forza del principio di nonviolenza come strumento essenziale per costruire un futuro di pace, comprensione reciproca e cooperazione della umanità globale nella conversione ecologica.

La nonviolenza che siamo chiamati a propugnare non è una semplice astensione dall’agire o una tecnica pragmatica. È una forza poietica – cioè innovativa e concreta – ancorata al valore fondamentale del rispetto della vita universale.

Essa rappresenta la strategia di trasformare le relazioni di potere (il “potere con” contro il “potere su”), mutando i gruppi umani nemici in gruppi umani amici. La nonviolenza è un progetto di terrestrità: un impegno a salvare non solo l’umanità dai conflitti, ma a curare, da “custodi dell’evoluzione naturale”, la nostra Terra stessa, radicando la civiltà umana in rapporto armonico con l’unico ecosistema vivente cui apparteniamo come specie.

In linea con questi principi, i Disarmisti Esigenti (www.disarmistiesigenti.org), membri di un’organizzazione centenaria della nonviolenza come la War Resisters’ International (WRI), propongono, in modo prioritario, un impegno fondamentale su due “fronti”:

– L’abolizione delle armi nucleari: in collegamento con la Rete ICAN, per eliminare la minaccia più grave alla sopravvivenza umana e planetaria.

– L’obiezione alla guerra: quale tendenza che si sta pericolosamente estendendo, in particolare nei conflitti come quello in Ucraina e in Medio Oriente, riaffermando il rifiuto radicale del metodo della violenza per risolvere le controversie.

A questo proposito ricordiamo la dichiarazione di impegno da sottoscrivere al seguente link:

https://www.petizioni.com/obiezione_alla_guerra_e_al_servizio_militare_impegno_per_la_difesa_nonviolenta

La Giornata Internazionale della Nonviolenza ci sfida a rendere questi ideali un’azione quotidiana, con impegno personale e collettivo, contribuendo al futuro della pace “disarmata e disarmante”, nel rapporto armonico da ricercare tra società umana e Natura.

C’è in giro un fantasma vendicativo che si aggira indisturbato tra le folle, accompagnando la sete di giustizia di uomini e donne, giovani e anziane, indifferentemente. Proclamandosi riparatore di torti, trova accoglienza in social, piazze e salotti, nutre nuove generazioni, intossica. Invocando riparazione trova plauso in un mondo a ragione assetato di giustizia. Il sentimento, l’emozione prorompe e deborda, ingoiando la distanza necessaria per patire il dolore, ma anche per trascenderlo, trasformandolo in progetto per un mondo futuro vivibile, perché la sopraffazione non rimbalzi, cambi direzione, per perpetuarsi.

La manifestazione per la Giornata Internazionale della Pace, che si è tenuta all’interno del Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano [la “Tenda del Lutto”, organizzata il 21 settembre 2025 dalla Fondazione Gariwo, ndr], è stata una rara occasione per rivedere un pacifismo sincero, fondato sul lavoro di mediazione e nonviolenza, in cui le parole e le pratiche di pace delle donne, quelle che ci hanno dato strumenti per andare oltre alle logiche dello scontro, hanno potuto trovare pubblica rappresentanza. Il momento più emozionante è senza dubbio stato l’incontro con Aisha Khatib e Irit Hakim dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace. Un’organizzazione nata da ex combattenti di entrambe le parti che hanno deciso di abbandonare lo scontro armato per cercare una soluzione nonviolenta.

Nelle parole di Aisha Khatib, nella ferita per la perdita del fratello, in quella vita distrutta da un proiettile sparato da un soldato israeliano che a distanza di dieci anni ha raggiunto il suo esito fatale, nel racconto della rabbia e del successivo smarrimento, nell’incontro prima con i Parents Circles e poi con Combatants for Peace, è emerso un travaglio vitale più forte degli esiti mortiferi della guerra e della vendetta. La stessa cosa che è accaduta a Irit Hakim, israeliana da sette generazioni, sopravvissuta per puro scherzo della sorte al massacro di ventidue giovanissimi israeliani compiuto da un gruppo di terroristi provenienti dalla Siria, sopravvissuta alla morte di un amico d’infanzia, passata attraverso la detenzione del marito per il suo rifiuto di prestare servizio nei territori occupati. Donne che hanno trasformato il dolore, le diffidenze e il desiderio di giustizia in una risorsa per il futuro, nella volontà di conoscersi, parlarsi comunicando le proprie ferite, scoprendo che «non si può essere nemici se conosci tante cose dell’altro».

Non a caso fino alla vigilia del 7 ottobre sono state le donne israeliane e palestinesi riunite in Women Wage Peace in collaborazione con Women of the Sun che hanno costituito la spina dorsale di grandi espressioni pacifiste. Le pacifiste sono state presenti ovunque, anche nelle organizzazioni miste, portando la capacità di riconoscersi reciprocamente il comune dolore e lavorare per la conciliazione.

La celebrazione del Memorial Day (in Israele il Memorial Day è il giorno in cui si commemorano le vittime del terrorismo e i soldati caduti in guerra) in chiave bi-nazionale, per ricordare anche le tante vittime palestinesi, è stata fondamentale per Irit Hakim per scoprire il posto giusto dove lavorare per la pace insieme ad altri uomini e donne: i “nemici” con i quali trovare spazi collettivi per costruire insieme la trasformazione delle memorie.

Il 7 ottobre è stato un momento drammatico per tutti, anche per i Combatants for Peace, un momento di confusione, paura, diffidenza e silenzio. Riprendere a parlarsi e lavorare insieme è stato faticoso e i primi incontri su Zoom sono stati inondati di lacrime.

Oltre alla violenza di questi anni c’è una luce, non ricordiamo solo il male, ma anche le luci che in queste tenebre brillano.

da la Repubblica

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(afp)

Jane Goodall, etologa e antropologa scomparsa ieri all’età di 91 anni, la donna che ha saputo dialogare con gli scimpanzé, era nata il 3 aprile 1934 ad Hampstead, un quartiere chic di Londra. Ma lei amava vivere nella foresta. Da bambina era innamorata di Tarzan ed era gelosa perché lui aveva sposato la Jane sbagliata. Giovanissima, aveva cominciato le sue ricerche sulla vita familiare e sociale dei primati nel Parco Nazionale di Gombe Stream, in Tanzania.

È stata la scienziata che più ha contribuito a farci capire che fra noi e i primati il passo è breve, anzi brevissimo. Le sue ricerche pionieristiche hanno fatto affiorare l’anello mancante dell’evoluzione, quella soglia impalpabile che ci fa amici e fratelli di quei quadrumani dallo sguardo dolce che sorprende e commuove. Perché ci mostra a noi stessi sotto un’altra luce, come in uno specchio un po’ deformante, ma non abbastanza da non fotografare la nostra stessa animalità. Le sue battaglie animaliste per difendere gli scimpanzé a rischio di estinzione si fondavano sull’importanza della conservazione di questa specie sorella della nostra.

Negli anni Settanta aveva fondato l’Istituto Jane Goodall, che dal 1998 ha anche una sede italiana, attualmente diretta da Elisabetta Visalberghi, a sua volta grande specialista dei bonobo, le scimmie più simpatiche che esistono. Perché sono capaci perfino di costruire strumenti come le cannucce per risucchiare le formiche. O aprire una noce senza schiacciarla, per mangiare il frutto intero senza mandarlo in frantumi come facciamo spesso noi, nonostante lo schiaccianoci.

La sua mission era lo studio del rapporto tra umani, animali e ambiente. Per questo le sono sempre interessati gli esemplari selvatici, nel loro habitat prima che il contatto con gli uomini li trasformasse. In un video del 2013 che ha fatto il giro del mondo, Dame Jane viene abbracciata teneramente da Wounda, una scimpanzé che lei con il suo staff aveva strappato al traffico illegale di animali esotici. Alla fine Wounda, dopo essere stata curata e guarita dai ricercatori, è stata rimessa in libertà nella riserva di Tchimpounga, un autentico santuario per scimpanzé creato nel 1992 attraverso un accordo tra il Jane Goodall Institute e il governo congolese. Tra le eredità di Jane c’è anche la scena indimenticabile del video che riprende il momento del commiato. Quando la scimmia si gira verso la donna e la abbraccia con un trasporto che ci strappa il cuore. Come per dirle “mi hai salvato la vita e io non lo dimentico”. Quella sequenza riflette con una immediatezza quasi poetica la coappartenenza della scienziata e del quadrumane allo stesso regno del creato.

Stupiva tutti per la sua calma olimpica, tipica di chi osserva la natura e i suoi tempi lenti senza forzarla con la nostra fretta isterica. E la natura la ricambiava aprendosi a lei, senza nascondersi come diceva Eraclito, il filosofo greco passato alla storia per la frase “La natura ama nascondersi”. In realtà Jane e la natura erano diventate una cosa sola andando al di là dell’opposizione tra cultura e natura. E d’altra parte lei aveva dimostrato che la personalità non è esclusiva della persona umana e che le scimmie antropomorfe intrattengono vere e proprie relazioni interpersonali, simili a quelle delle signore inglesi che chiacchierano bevendo il tè.

Sosteneva, prove alla mano, che gli animali vivono emozioni e hanno una vera cultura. Infatti, amava concludere le sue conferenze parlando la lingua appresa dalle creature della foresta per mostrare che il linguaggio non è appannaggio esclusivo della specie umana. E che tutti gli animali comunicano anche senza parole, con i loro versi e suoni che qualche volta assomigliano più alla musica che alla grammatica.

Il suo impegno per la difesa dell’ecosistema le era valso la nomina a messaggera di pace per le Nazioni Unite. Era una conferenziera instancabile e ha percorso il mondo in lungo e in largo in un never ending tour come quello di Bob Dylan. Senza fermarsi mai fino alla fine. Infatti è morta in California, mentre stava svolgendo un ciclo di conferenze per raccogliere i fondi per le 23 sedi del suo istituto sparse ai quattro angoli del pianeta. E, più in generale, per portare a tutti il suo messaggio ecologista. Come una missionaria dell’ambiente che al collo, al posto della croce, portava un ciondolo con il disegno dell’Africa.

Nel 1991 aveva fondato Roots and Shoots, (Radici e germogli) che suona come un titolo dei Beatles, ma in realtà è un grande programma di educazione alla sostenibilità rivolto ai giovani di ogni età per formarli all’impegno civico nelle proprie comunità. Perché solo chi è di casa nel proprio villaggio può esserlo anche nella foresta. La inquietava molto il fatto che i nostri bambini passassero il loro tempo nell’astrazione senza corpo dei social, invece che a contatto con le piante e con gli animali.

In fondo questa signora a suo agio nella giungla è stata l’equivalente di Konrad Lorenz, padre dell’etologia. Lui studiava le oche e lei le scimmie. Amava ripetere che il suo maestro non era stato un accademico, ma il suo cane Rusty. E in questa frase c’è la semplicità disarmante, ma potente, di Jane delle scimmie.

da Doppiozero

Insegno da diversi anni e negli ultimi tempi sento, davanti alle nuove classi, un po’ di imbarazzo nel presentare questa colossale istituzione, la scuola, che non muta. Ho come l’impressione di dover giustificare gli anacronismi e difendere quel che resiste e ha valore. Molte cose hanno valore, smetterei di insegnare se non lo pensassi, e tuttavia quest’anno, con non poco disagio, ho messo a tema il “vietato” con cui ci siamo ritrovati a settembre.

Una mia alunna, in Canada per il quarto anno di liceo, mi ha mandato qualche giorno fa un video con cui si candida per il ruolo di ambassador dell’agenzia con cui è partita: montato con sapienza, contenuti interessanti, foto ricercate, ammiccamenti alla camera, lipgloss e un inglese che mi sogno. Non sarei in grado di creare un prodotto del genere e la mia idea di aprire le pagina Instagram dei filosofi, con cui avevo conquistato una quinta di ormai troppi anni fa, è un poco ridicola e di certo invecchiata. Davanti a questo scarto tra loro e me, spegnere il cellulare rassicura, così come stabilire norme sull’abbigliamento: sanzionare e punire. Perché interrogare, perché implicarmi, perché studiare per aprirmi a delle trasformazioni che fuori da queste mura procedono a vele spiegate senza intoppi né divieti? Perché mettere in discussione il fuori, i comandamenti della società che ci divora. Cambiamo la scuola, è più semplice; insegniamo lì un altro alfabeto e lasciamo immutato, fuori, l’alfabeto del mondo, continuando in questa evoluzione rapida che priva homo sapiens delle mani libere, condannato come è a stringere tra le dita lo scettro che lo rende potente e connesso. Tra le competenze richieste da acquisire durante un triennio ci sono le competenze di cittadinanza – sì, anche di cittadinanza digitale: dovremmo essere in grado, noi adulti, di mostrare come ci si confronta con le differenze e le novità, con sufficiente fiducia in quello che si propone e nelle contaminazioni che si renderanno necessarie. Non è questa una competenza di cittadinanza?

Insegnare significa, oggi più di prima, costruire ponti tra un mondo, quello scolastico, che percepiscono come alieno, e l’universo in cui vivono, rispetto a cui mi pare abbiano fame di istruzioni per l’uso, molto più delle generazioni precedenti. Non credo ci siano mai stati adolescenti così sensibili allo sguardo adulto, e anche così capaci di intercettare chi non è disponibile a relazionarsi con loro.

Non possediamo risposte e forse, per la prima volta – e per fortuna – non ci illudiamo di averle; ma possiamo vederli, questi ragazzi e ragazze. Cosa voglia dire questo vederli è ben mostrato in Non siamo capolavori(Laterza, 2025) di Marco Rovelli, libro che non è un manuale di istruzioni – lo abbiamo detto, istruzioni universali non esistono – né una classificazione con intenzioni esaustive: il tentativo in atto in queste pagine è dare spazio a una pratica che sarebbe bene si diffondesse come un contagio. Al di là dell’istituzione scuola, dunque, con le sue malattie e le sue trasformazioni, con il suo conservatorismo e le sue paure, c’è una dimensione del “cosa significa insegnare veramente oggi”, per riprendere le parole di Enrico Manera, che riguarda l’imparare a leggere, decifrare, stare, con quel che non si può catalogare né spiegare; un “lavorare per limitare il peggio del nostro tempo inquieto e ferito”.

Che esagerati gli adolescenti! Scena muta per un esame così semplice. Che esagerati, che fragilità esagerata. Lo detesto il termine “esagerata”: sì, sono esagerate le scenate, i pianti, il corpo. Esagerato è uno dei nomi dell’alterità, del femminile; esagerato è quello che non sta nei confini imposti dal discorso sociale e chiede di trovare una via per poter esistere. Esagerato è un gesto che scuote, che dice di no, che fa rumore. Sono esagerati gli adolescenti. Sì. Esagerato è spesso il loro silenzio.

Non siamo capolavori si fa carico del dissenso e del disagio di una generazione. E si apre con un assunto: la sofferenza è politica. È necessario leggerla e mettere in discussione il discorso sociale che la determina: “l’ipermodernità dunque, per far fronte alla propria crisi, strappa a se stessa la vulnerabilità, la piega alla logica dell’individualizzazione, ne fa veicolo per un ulteriore ripiegamento su un Sé individuale e isolato”; eppure, continua Rovelli, “fragilità e vulnerabilità, se rivendicate collettivamente, possono essere strumenti di cambiamento sociale, perché quando due fragilità si incontrano e si riconoscono producono una nuova situazione, un nuovo concatenamento che permette di guardare alle cose e di agire in esse da una nuova prospettiva, e in termini trasformativi”. Non ho mai visto una generazione così preparata ai termini psichici; conoscono il linguaggio medico, apprendono informazioni in rete, si diagnosticano disturbi ossessivi e anoressie che diventano etichette con le quali definiscono la propria identità: “se conosco la mia diagnosi, divento uguale a tutti gli altri che hanno la stessa diagnosi: vengo omologato e questo mi rende parte di un meccanismo”. Rovelli insiste sulla necessità che sia il contesto, collettivamente, a farsi carico di rompere tale meccanismo, mettendo in comune il disagio, creando spazi che consentano di aggiungere parole alle etichette, articolare vissuti, portare a visibilità il legame tra le condizioni materiali di vita e la sofferenza, magari facendo anche dei sintomi occasione di legame sociale: non la diagnosi che chiude, ma il luogo dove tutto possa essere interrogato, dove sia possibile scriversi in una comunanza, un ritmo condiviso che rimetta in moto la potenza vitale di ognuno.

La scuola, oggi, non sembra in grado di essere il luogo di quel “processo di intensificazione del desiderio che è il cuore di ogni crescita personale”. Cosa possiamo dunque fare nel tempo della catastrofe? Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci: per aprire il presente, le sue possibilità, e rendere meno minaccioso il futuro, Marco Rovelli interpella voci e competenze diverse. Non siamo capolavori è un libro plurale: un dialogo tra saperi, tra persone, con adolescenti, psichiatre, psicoanalisti, filosofe, insegnanti, professioniste. Rovelli riporta le opinioni, discute le teorie. Questa modalità di scrittura – in debito e in relazione – mi pare una prima lezione politica. Se vogliamo immergerci nella scuola, se vogliamo provare ad ascoltare gli adolescenti, dobbiamo procedere con quelle due arti che qualsiasi studente al terzo anno scopre, addirittura con incanto, se ha un buon insegnante di filosofia: dialogo e epoché. Dialogare, chiedere suggerimenti, fidarci di altri saperi; sospendere il “già pensato”, le convinzioni e i luoghi comuni. Provare a capire la dose di sofferenza che vediamo a scuola significa imparare a tenere conto dei fattori politici, economici e sociali; del discorso in cui gli adolescenti sono immersi; di come tutto questo venga elaborato nell’uno a uno della loro differenza singolare. E questo singolare mi consente di esplicitare un’ulteriore ragione per cui ritengo questo un libro politico: non c’è determinismo. Rovelli lo ripete in più occasioni, le spiegazioni causali lineari non tengono conto della complessità, dell’individualità, dei rapporti: questa è la ragione per cui è necessario, per leggere le forme del dissenso, porsi in ascolto e dotarsi di un dizionario sempre in divenire. Dissenso che può essere esplicito o tacito, che può sfociare in una rabbia autodiretta o eterodiretta, in un “non poter stare” che si fa inquietudine o in un silenzio che problematizziamo troppo poco, visto che non disturba le nostre lezioni e non sporca la bella immagine di una macchina funzionante.

Soffrire è dissentire: “dobbiamo vedere le forme di sofferenza come un non sentirsi accordati al mondo: dove il soggetto di questo non sentirsi accordati al mondo è il corpo”. Il corpo, o meglio, i corpi espostiche siamo. Il corpo non è solo quello sottoposto allo sguardo, quello che deve essere in forma, che deve funzionare, che deve essere plasmato e perfezionato, oggetto di desiderio e di giudizio. Leggere i corpi e quel che vogliono dirci significa recuperare il corpo carne, per dirla con linguaggio fenomenologico, il corpo vivo, l’essere-nel-mondo, il corpo vissuto dall’interno e non visto dall’esterno: “ogni corpo è un campo di battaglia” e i sintomi parlano. Il corpo è la questione dell’adolescenza: “che fare con il mio corpo (che sono io)? Che fare con gli altri corpi? Sono le questioni più proprie dell’adolescenza, che diventano tanto più pressanti quando si vive sempre meno nella relazione con l’altro perché l’altro è lo specchio che guarda e giudica”. Il corpo sono gli ammiccamenti della mia studentessa in America, il suo lipgloss, le unghie vietate dai dress code (ebbene sì, sono riusciti a farmi difendere quell’orrore di artigli); il corpo è Tik Tok e lo stile creativo che hanno bisogno di trovare; il corpo è quel che parla anche se si prova a negare il dolore: “nella pratica dell’autolesionismo, nel ritiro sociale dell’hikikomori, nei disturbi del comportamento alimentare, nell’attacco di panico, nella sintomatologia ansioso-depressiva, è sempre il corpo che sta sulla scena come il soggetto che resiste attraverso la sua sofferenza”. Che fare davanti a questi corpi? La dimensione virtuale può essere certamente un vettore di isolamento, colma un vuoto, così come l’acquisto compulsivo di oggetti, ma davvero la scuola è impotente rispetto a questo vuoto? Non è il nostro compito di insegnanti quello di fornire loro competenze emotive e affettive necessarie per trovare altre vie? Non è la scuola il luogo in cui la grammatica identitaria si articola e si modella nel confronto con la differenza, con l’alterità, con l’istituzione e con le sue regole?

Possiamo insegnare il limite se insegniamo il senso del limite; e se questo senso, e il suo valore, li ritroviamo anche al di fuori delle aule scolastiche.

Insegnare oggi è “creare possibili”, lasciandosi toccare dai corpi degli adolescenti e dai corpi che siamo. Erich Fromm, nel 1953, quando tiene le sue quattro lezioni sul tema della salute psichica presso la New School for Social Research di New York (I cosiddetti sani, Mimesis, 2025) racconta di Toro Ferdinando, personaggio di un libro per l’infanzia: toro anomalo, che ama i fiori del pascolo e odia la corrida; scomodo in una società di guerrieri, costruita per combattere. Cosa accadrebbe allora se questo Toro Ferdinando ci infettasse con la sua differenza, sconvolgendo la struttura della nostra società? Una società ha bisogno di una certa dose di conformità; e però non può non subire, ogni tanto, scarti che rappresentano i passaggi di paradigma. Si va avanti così, alternando momenti di progresso e altri di riconfigurazione del mondo; e, in uno di questi ultimi, un Toro Ferdinando potrebbe averla vinta. Certo, poi si ripresenterà l’esigenza di tornare a istituire norme che regolano il gioco della vita. E tuttavia la società moderna soffre di una strana immobilità. Cosa infatti la caratterizza? Certo, l’individualismo; sicuramente la paura che l’uomo ha della libertà e una situazione in cui l’uomo è dominato dalle macchine che ha creato per controllare la natura. Ma c’è di più: un’idolatria scientifica che ha smarrito l’approccio scientifico. Manca, cioè, la disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero con la scoperta di nuovi dati. Così oggi – e lo diceva Fromm nel 1953 – siamo giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo è da considerarsi normale e sano: insomma, a questo benedetto migliore dei mondi possibili ci crediamo davvero, e abbiamo fatto di quel che è, quel che deve essere.

In questo quadro la distinzione tra salute e malattia psichica viene operata con una tale sicurezza, ed è così perfettamente rispondente al far prosperare il tipo di società in cui siamo immersi, che, in fondo, ad ammalarsi sono le persone più sensibili alla questione del senso della vita. Chissà che tra gli adolescenti non ci sia un Toro Ferdinando, chissà che non possiamo provare a lasciarci contagiare dalle sue battaglie, da un amore per i fiori, economicamente poco seducente, che non capiamo.

da Il Fatto Quotidiano

“È stato un discorso allucinante, ma un discorso inutile. Ha paragonato Israele ai nazisti, complimenti”. Gideon Levy, editorialista di Haaretz tra i più noti, è atterrato in Italia (dove ha ricevuto ieri un premio Kapuscinski dell’istituto polacco a Roma) qualche ora dopo aver finito di vedere in televisione il discorso di Benjamin Netanyahu all’Onu. “L’unica cosa rilevante del discorso è stata la platea vuota, segno dell’isolamento di Israele”.

Ieri hanno ripreso a circolare ipotesi di tregua a Gaza, Netanyahu le sembra pronto?

Dovrà farlo per forza, se sarà Trump a costringerlo. Gli Stati Uniti sono rimasti l’unico alleato di Israele, dopo che Netanyahu è riuscito a perdere il sostegno degli europei. Senza gli Usa, Israele non sarebbe la potenza militare che è. Per questo l’unico vero evento che conta è l’incontro di lunedì con Trump a Washington.

Cosa resterà di Gaza dopo la fine della guerra?

Nessuno di noi può anche solo immaginare la dimensione della distruzione. Mi fanno ridere i piani di ricostruzione che circolano: 1 o 2 anni non basteranno mai a rimettere in piedi la Striscia. E poi, vogliono mettere a capo di tutto Tony Blair. Cioè, tornare alle colonie britanniche? La verità è che l’unica alternativa reale è che si torni al 6 ottobre. Hamas non se ne andrà, non la cacceremo così, nessuno, né i sauditi né gli americani, vogliono finanziare la ricostruzione di un posto che sanno che Israele distruggerà di nuovo tra 5 anni.

Il suo ultimo libro (Mimesis) si chiama Killing Gaza, non Killing Hamas

Da mesi ho capito che non possiamo chiamare quest’offensiva in nessun altro modo che un genocidio. La Striscia viene sistematicamente distrutta, muoiono decine di palestinesi al giorno, non c’è un giorno in cui non muoiano bambini. Ci sono prove indubitabili della fame. E quello che vediamo è una minima parte di quanto accade. Una risposta militare dopo il 7 ottobre era attesa e legittima, ma subito dopo il 7 ottobre è diventato una scusa per portare avanti il vecchio piano di pulizia etnica dell’estrema destra al governo.

AllOnu il premier ha detto che lIdf evita vittime civili, consente aiuti umanitari e chiede alla popolazione di lasciare le zone di guerra

Ha detto che i nazisti non hanno trasferito gli ebrei, è falso: lo hanno fatto eccome, ed era parte della strategia dell’Olocausto. È quello che stiamo facendo a Gaza: pulizia etnica. Gli unici a credere alle bugie di Netanyahu ormai sono gli israeliani.

Non sono abbastanza i critici di Netanyahu in Israele?

La maggioranza degli israeliani purtroppo non vuole sapere, non vuole vedere. Cercano di evitare il dilemma morale di sapere che sono i loro figli che, nell’Idf, stanno massacrando i palestinesi. Le proteste sono per gli ostaggi, in troppi dicono ‘fate tornare gli ostaggi e poi ricominciamo la guerra’. E la cosa grave è che i media israeliani li assecondano e non mostrano immagini di Gaza nei notiziari e sui giornali. Da due anni sembra che a Gaza vivano solo 20 persone: gli ostaggi. Qualsiasi italiano di provincia ha visto più immagini dalla Striscia di noi. E non c’è la censura, è tutta auto-censura. La colpa non è del governo, ma dei miei colleghi che hanno tradito la professione. Siamo peggio della Russia, almeno lì la censura esiste e i giornalisti che tacciono la verità sono giustificabili.

Come spiega questa mancanza di critica dellopinione pubblica israeliana?

Con un lavaggio del cervello lungo decenni. E poi c’è stato il 7 ottobre. Quando faccio vedere ai miei amici i video da Gaza la loro prima reazione è dire che sono fake.

La Flotilla è ripartita per Gaza, le autorità israeliane minacciano di arrestarli o peggio. Gli europei possono mediare corridoi umanitari?

Su Haaretz abbiamo scritto un editoriale col titolo Fateli entrare.Lasciateli andare a Gaza per raccontarci la realtà di quella tragedia! Ma non succederà, e quanto agli Stati europei, direi che prima di trattare con la Flotilla dovrebbero fermare Israele, militarmente o meno.

da L’Altravoce il Quotidiano

Luisa Muraro è una delle più importanti pensatrici della contemporaneità, come l’ha definita Vita Cosentino della Libreria delle donne di Milano nel convegno tenuto sabato scorso all’Università Cattolica di Milano, dove 60 anni fa una giovane Muraro si è laureata. Il convegno dal titolo “Come quando si accende la luce” è stato organizzato per il 50esimo della Libreria delle donne – di cui Muraro è stata una delle fondatrici – in collaborazione con i dipartimenti di Sociologia, Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica e la Comunità filosofica femminile Diotima. Molte le donne, e anche uomini, c’ero anch’io, venute da tutta Italia per rendere omaggio a Muraro ed esprimere, con lei in presenza, la propria riconoscenza per tutto quello che ognuna/o ha ricevuto dal suo pensiero e dai suoi libri. «Siamo qui oggi per celebrare l’autorità che per noi tutte ha rappresentato e incarnato Muraro», che ci ha regalato la sapienza delle mistiche «buona per noi oggi per non farci sprofondare nell’impotenza di fronte alla violenza della storia, delle guerre» (Wanda Tommasi, Diotima). Un’autorità, come insegna Muraro, di origine materna, che non schiaccia, non è «dominio ma relazionalità» (Paolo Gomarasca, Università Cattolica). È nel femminismo “sorgivo” di Lia Cigarini, in sodalizio da una vita, che Muraro ha trovato «le condizioni per portare avanti la sua più grande passione e desiderio, pensare e scrivere». Moltissime donne, come me, si sono rispecchiate nelle sue parole che «fanno luce e orientano». “Maestra” e “amica geniale” per Vita Cosentino, ha insegnato ad altre a pensare e scrivere. Muraro mi/ci ha insegnato, a donne e uomini, la “gratitudine” e la “riconoscenza” per la madre reale e simbolica. «II saper amare la madre è la chiave del femminismo della differenza e del pensiero di Muraro» (Diana Sartori, Diotima). Il concetto di madre, che riconduce alla relazione primaria e all’imparare a parlare da lei, fa di Muraro, nella storia della filosofia contemporanea e nella linguistica del ’900, una filosofa “anomala”, come l’ha definita Cesare Casarino (Minnesota University). Alle origini di tale anomalia c’è una “schivata”, mossa tipica del pensiero di Muraro, che vuol dire «non farsi trovare dove si pensa di trovarla», «guardare da un punto di vista imprevisto», «aprire una nuova prospettiva». Una mossa inaugurata da Muraro all’inizio degli anni ’70 in un dialogo con Bontadini, ricordato da Riccardo Fanciullacci (Università di Bergamo). All’affermazione di Muraro «Sono una donna», non un essere umano, il filosofo, cancellando la differenza sessuale, rispose «Tra uomini e donne non c’è differenza rispetto al filosofare», riportandola in una genealogia maschile. È da una “schivata”, la separazione dagli uomini, che negli anni ’70 nasce «il soggetto imprevisto della differenza sessuale» che ha messo al mondo pratiche e parole nuove che «avevano come solco la pace» (Ida Dominijanni, Centro per la Riforma dello Stato). Oggi che il contesto geopolitico è cambiato, come rilanciare la scommessa originaria? Come declinare la libertà femminile all’altezza di un mondo che va in rovina? Secondo Dominijanni occorre ripensare quello che abbiamo fatto alla luce di tre parole che oggi sono in gioco: democrazia, comunicazione, violenza. Di soggetto sessuato nella ricerca storica ha parlato María Milagros Rivera Garretas (Università di Barcellona): «Non sono gli archivi ad essere sessuati ma chi li frequenta». Storia sono i fatti di cronaca che Muraro, come «le donne di ingegno», ama leggere quotidianamente e da cui si lascia ispirare e ne scrive per sottrarli alle spiegazioni già confezionate (Annarosa Buttarelli, Diotima). Oggi, in un mondo in fiamme, il pensiero di Luisa Muraro, offerto a donne e uomini, si rivela necessario per un cambio di civiltà in nome della madre, della vita e non della morte.

Mi è capitato, negli anni, di scrivere a Luisa Muraro. E di ricevere risposta. Con le scuse per il ritardo!! «Cara Luisa – la rassicurai quella volta – a me dà una grande libertà questa circolazione epistolare, che non è a stretto giro di posta, ma a largo giro di vita. Non c’è ritardo e non c’è fretta…» La data era 30-XII-13.

E il 12-5-25 mi è arrivato un pacchettino che conteneva Esserci davvero.

Non era una lettera, non me l’aveva spedito lei, era un Quaderno di Via Dogana appena pubblicato conteneva una intervista datata 2003. Eppure l’ho letto come fosse una lettera indirizzata a me, con la curiosità, la partecipazione e la sorpresa di conoscere aspetti nuovi e vicende personali di una donna, di una filosofa, che considero mia maestra non solo di pensiero… Non c’è ritardo e non c’è fretta… La memoria torna, il tempo si snoda, ricompare la gratitudine per la vicinanza che Luisa Muraro ha manifestato per l’Ordine della Sororità dopo la morte di Ivana Ceresa, che ne è stata la fondatrice, in forza anche della stima e dell’amicizia che ha avuto per lei.

È che in Esserci davvero si intrecciano molti fili e si incrociano molti specchi e si squadernano le molte relazioni costruite negli anni e si fa fatica a metterne in evidenza solo alcune.

Mi piacerebbe partire – e non sembri stonato o irriverente – da una parentesi aperta e chiusa a pag. 57, a proposito delle discussioni che precedettero la stesura di Non credere di avere dei diritti. «Allora – scrive Muraro – ci trovavamo nel sottoscala della Libreria, in via Dogana 2, sottoscala che all’epoca aveva più correnti d’aria, ma eravamo comunque molte riunite in un posto così… (io sono claustrofobica), e si discuteva. Si discuteva e io prendevo appunti».

Ho trovato, in quella dichiarazione tra parentesi, una richiesta – non solo fisica – d’aria: non volersi chiudere in spazi angusti, polemizzare anche confliggendo per aprirsi varchi o vie di fuga, fino a raggiungere l’aperto – dove l’aperto è anchel’Aperto – così che spostarsi diventa non essere dove gli altri credono che tu sia, fare la schivata, non coincidere con quello che era previsto, prescritto, promesso pensato di te, praticare un nomadismo di pensiero che è la condizione per non farsi intrappolare dall’ideologia perché c’è altro o Altro.

In un testo – che abbiamo considerato prezioso così da chiederle di poterlo inserire negli Atti del Convegno su Romana Guarnieri dell’ottobre 2022 a Bologna – intitolato Come quando si accende la luce, Luisa Muraro riprende nelle ultime battute la domanda «Che cosa ci sarebbe da fare? Una schivata, come gli animali inseguiti dai predatori, uscire di colpo dalle traiettorie del potere e saltare nella mancanza: di organizzazione, di successo, di prestigio, di dottrine, di nomi propri… in una parola, mancanza di tutti i surrogati. Così che ci nasca dentro e ci venga incontro da fuori la rispondenza tra le cose che viviamo e le parole che diciamo, dalla quale si accresce l’essere di ogni cosa che è […]».

E da qui nasce anche la scrittura: si vede bene nello scambio teso e vivace – riportato con felice complicità a pag. 45 – tra la filosofa e Clara Jourdan, l’intervistatrice, che le chiede «È come nella pratica politica delle donne di rigiocare al presente cose che sembravano chiuse nel passato? Tu fai questo nella scrittura, cioè è la scrittura che ti fa questo?» Risposta: «Sì, ma non è solo la scrittura, perché può esaurirsi la possibilità di scrivere… Ho preso la pratica politica delle donne come forma simbolica che mi permetteva la scrittura… Comunque non si scrive mai lo stesso: solo gli scrittori standardizzati, non certo io che scrivo per salvarmi l’anima. Io scrivo per salvare qualcosa che ha il valore dell’anima per le civiltà religiose, scrivo per non essere dannata. Chi scrive per salvarsi l’anima è chiaro che ogni volta ne va di tutta la faccenda, ogni volta».

Si tocca qui, se pure da lontano, quello che in altri termini e in altri libri lei chiama mediazione vivente, che le mistiche di ieri come di oggi hanno insegnato «[…] aprendo il passaggio al pensiero di altro… ma non basta dire che fanno nascere pensiero. Nel vuoto di una mancanza incolmabile e accettata, esse ospitano l’incontro fra le cose che capitano a caso e per forza, con la loro possibilità di libertà e di gioia, e quello che rendono pensabile comincia già a essere» (da Il Dio delle donne pag. 157).

La “mia” lettera, quella che pretendevo indirizzata a me, che è questo quaderno rosso che tengo tra le mani, si è rivelata così ramificata da toccare la storia del femminismo italiano, e non solo, degli ultimi cinquant’anni, da interessare le tante lettrici e lettori che hanno condiviso gli stessi passaggi storici e culturali, da spostare continuamente l’orizzonte e fare intravedere paesaggi ancora sconosciuti, da rivelare connessioni imprevedibili con l’oggi.

Il quaderno – nella prima metà, che precede l’amplissima bibliografia – si va ora configurando ai miei occhi come una mappa: una mappa – e ancora Muraro mi addita il lavoro delle Preziose – che non può che essere la Carte du Tendre. Una mappa, dove anche i sentimenti hanno una geografia, dove il paese di partenza si chiama Nuova amicizia; lo attraversa un fiume di nome Inclinazione e verso la foce si aggiungono altri due fiumi, Riconoscenza e Stima, si attraversano villaggi piacevoli e non (bontà, sincerità, orgoglio, oblio…) in un percorso comunque verso l’amore.

da Enciclopediadelledonne.it

Da dove cominciare? È una domanda che mi sono posta dozzine di volte di fronte alla pagina bianca. Come se mi fosse necessario trovare la frase giusta, quella che mi avrebbe permesso di entrare nella scrittura del libro e avrebbe dissolto in un solo colpo tutti i dubbi. Una specie di chiave… oggi questa frase non ho bisogno di cercarla lontano da me. Sorge lapidaria, in tutta la sua chiarezza… l’ho scritta sessant’anni fa nel mio diario. Scriverò per vendicare la mia razza.

(Discorso tenuto a Stoccolma alla consegna del Premio Nobel 2022)

Nata Annie Duchesne a Lillebonne, nel dipartimento della Senna inferiore in Normandia, il 1° settembre, del 1940, la bambina trascorre la sua infanzia felice tra il retrobottega del negozietto “alimentari-merceria-bar” dei genitori, il cortile, la scuola e i giochi con le amiche. Dotata di grande spirito di osservazione e di una memoria formidabile, Annie è una delle allieve migliori, tanto che i genitori decidono, a un certo punto, di iscriverla in un’ottima scuola cattolica frequentata dalle figlie della buona borghesia. La profonda adesione al mondo che la circonda inizia così a incrinarsi. Nel romanzo d’esordio Gli armadi vuoti la scrittrice ci fornisce una descrizione di cos’era stata la sua vita sino a quel momento:

Domeniche primaverili, biancheria che si asciuga stesa al sole, galline che cantano perché hanno fatto l’uovo. Com’è che diceva la vecchia stronza a scuola? «Non si scrive siamo tal giorno, è sbagliatissimo». E invece io ero domenica dalla testa ai piedi, mi ci sentivo nel vestito da non sporcare, nella bocca gonfia di crema e di ostie immaginarie. Adoravo tutto, le sardine sott’olio, le visite ai poveretti, ai crebacks, agli arabi di cui mia madre andava pazza. Mi piaceva tutto.

Annie studia per diventare insegnante, professione che svolgerà tutta la vita, marcando così quel distacco dalla felicità infantile. Nella costruzione della sua genealogia Ernaux scava nei suoi ricordi e nelle vite dei suoi genitori dedicando loro svariati romanzi. Blanche, sua madre, sarà la protagonista di Gli armadi vuoti (1974), La vergogna (1997), Una donna (1988), L’altra figlia (2011), dove la scrittrice viviseziona la vita della donna che l’ha messa al mondo e le difficoltà della loro relazione:

Di nuovo ci rivolgevamo la parola in quel particolare tono fatto di irritazione e di perpetuo risentimento che faceva sempre pensare, a torto, che stessimo litigando e che riconoscerei, tra madre e figlia, in qualsiasi lingua.

(Una donna)

Alla stessa implacabile disamina sarà sottoposta anche la vita paterna a partire dal libro Il posto:

Mio padre è entrato nella categoria delle persone semplici, o modeste, la brava gente. Non osava più raccontarmi le storie della sua infanzia. Non gli parlavo più dei miei studi.

Ma è ne La vergogna che esplode il racconto tremendo del giorno in cui suo padre tentò di uccidere sua madre, e in cui inizia il tradimento della classe sociale di nascita, tanto che Ernaux potrà dare ai propri genitori un posto nel mondo dei dominatori che usano anche la scrittura per discriminare ed è in questo senso che la sua scrittura è sia vendetta che riscatto sociale, perché «scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito» rivendica Ernaux citando Jean Genet. Se i romanzi sono il primo livello di analisi e di riscatto, sarà poi in articoli, conversazioni, saggi e pagine di diario che la scrittrice arriva in profondità nell’esaminare e giudicare con lo stesso sguardo acuminato i propri libri e a realizzare anche «il grande sogno della mia infanzia: partire, vedere il mondo».

La scelta di eleggere a protagonisti assoluti dei suoi libri i genitori, se stessa e alcuni degli uomini che ha amato, ci offre una chiave di lettura plausibile anche in merito al successo della Ernaux presso un pubblico sempre più vasto. La Madre, Il Padre, La Ragazza, Il Ragazzo, L’Uomo, L’Amante, Il Posto diventano archetipi dell’immaginario della scrittrice e anche nostri. Quella madre diventa tutte le madri, quel padre tutti i padri, quella «ragazza della foto è un’estranea che mi ha lasciato la sua memoria in eredità», ha sollecitato intere generazioni di donne occidentali che hanno infranto i tabù religiosi e combattuto il regime patriarcale in cui sono nate e cresciute.

L’apertura di Ernaux sulla storia del mondo si concretizza con il romanzo Gli anni che inizia con una dichiarazione folgorante: «Tutte le immagini scompariranno». Ed è proprio a partire da questa certezza che la scrittrice richiama dalle profondità della sua memoria tutto quel che riesce a ricordare, consapevole però che: «la nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo».

Le riflessioni sulla scrittura e le sue origini sono frutto di un ricco scambio con molti altri scrittori e scrittrici, Ernaux non si sottrae mai al tornare sui propri passi e cercare nuove parole e nuove immagini per dire di nuovo cose già raccontate. Dopo il racconto della vita di coppia e della sua evoluzione dal dopoguerra agli anni Settanta in La donna gelata, è con Passione semplice e Perdersi che Ernaux racconta tutto lo strazio e il piacere dell’amore e del sesso con un uomo molto più giovane di lei, così come l’ossessione che la divora e la disperazione quando lui è lontano. S. è russo, bello, scatenato e ha all’incirca quindici anni meno di Annie che è prossima alla cinquantina. Niente può fermare la ricerca di quel piacere senza tempo e senza progetti che la incalza. Gli unici pensieri tra un incontro e l’altro sono rivolti a lui, al piacere che gli ha dato e al piacere che ha ricevuto. La vita quotidiana sprofonda nel gorgo dei timori, che lui muoia, che lui non torni, che le preferisca una donna più giovane. È solo dopo la fine di questa relazione infuocata che la scrittrice ritrova sé stessa, non identica a chi era stata, ma vicina al nudo piacere dell’esistenza.

Per la prima volta dal 6 novembre (l’ultima in cui ho visto S.) mi sveglio con un’inspiegabile sensazione di felicità. Malgrado tutto, il fatto che si tratti di una felicità senza motivo mi fa uscire dall’incanto, ma giusto un po’.

L’intreccio tra passione erotica e scrittura si ripresenta ancor più violento quando Ernaux inizia una relazione con A. – così lo chiama in Il ragazzo, un giovane uomo che ha ventinove anni meno di lei. Dopo l’inizio in clandestinità – perché lui vive con la sua ragazza – la relazione riporta Ernaux a rivivere sensazioni ed emozioni del passato. Sonnecchiare accanto a lui la domenica pomeriggio, la fa ritornare accanto alla madre che si è addormentata esausta e vestita dopo pranzo. Il frigorifero che non raffredda, il fornello che non scalda, l’umidità dell’appartamento la riportano alla precarietà dei suoi anni da studentessa e all’inizio della relazione con il marito Philippe. Ma il segreto di questa relazione stava tutto nel «fervore che mi riservava che non mi era mai stato, fino ai miei cinquantaquattro anni, consacrato da nessun amante» che tale resterà sino a quando la scrittura prenderà il sopravvento sulla vita e anche quest’ultima passione verrà immolata sull’altare del libro.

Da poco è uscito il libro autobiografico di Philippe Vilain, scrittore francese che insegna all’università di Napoli, il ragazzo che Ernaux, dopo cinque anni di relazione, lascia, salvo poi ripensarci dopo un anno e invitarlo a vivere con lei, senza però riuscire a riallacciare il legame. In possesso di oltre duecento lettere di Ernaux, lo scrittore, in realtà, parla di lei il minimo indispensabile per poter raccontare se stesso e la propria evoluzione, Ernaux e le sue sofferenze restano in qualche modo ai confini della narrazione e forse, chissà, questa è per l’uomo non più ragazzo la forma più sottile di vendetta che potesse mettere in atto.

Leggere in sequenza e poi rileggere i libri di Ernaux, dove le riflessioni sulla scrittura sono spesso centrali, offre nell’ombra dei margini e del non detto la sua vita da insegnante, da moglie e da madre, ruoli che non appaiono però centrali nelle sue narrazioni. Ernaux mi pare sia soprattutto figlia e amante, le due versioni di se stessa che più le si confanno e rendono giustizia all’implacabile desiderio di scrivere che si alterna in lei con la passione di esistere:

La passione è innanzitutto uno stato: di totale godimento dell’essere – un godimento immediato – e di chiusura nel presente. La scrittura non è uno stato, è un’attività. La perdita di sé, che vedo in entrambe e a cui probabilmente tendo, non porta allo stesso risultato.

Segue, a partire al 1984, una regola : «evitare, scrivendo, di lasciarmi andare all’emozione», e riesce per questa strada, attraverso una scrittura asciutta e scarna, a dire quel che per generazioni di donne era stato impossibile: essere un corpo, avere le mestruazioni, provare desiderio, temere una gravidanza indesiderata, abortire, smettere di mangiare, rimpinzarsi di cibo, in un gioco perpetuo in cui il corpo rimanda sempre a qualcosa d’altro, a una relazione indicibile e totalizzante, forse proprio quella con la propria madre. Ernaux si muove in un universo tra «la letteratura, la sociologia e la storia», diventando inventrice di quella forma di auto-socio-biografia che racconta non solo dell’individuo ma della classe sociale cui appartiene. La sociologia, secondo Ernaux, «potrebbe essere considerata parte integrante della mia poetica», una poetica che sfugge perché «la letteratura è l’esatto contrario di una disciplina. È dare forma al desiderio».

Dare una forma, una struttura, è una delle ossessioni letterarie di Ernaux ed è proprio questo l’insegnamento che deve a Virginia Woolf:

Mi sono allontanata da Woolf quando mi sono rimessa a scrivere dopo nove anni di interruzione. Di nuovo, la questione era la realtà. Quel che volevo mettere in luce era la questione sociale e necessitava di un corpo a corpo violento tra le cose e il linguaggio. La mia preoccupazione era di trovare la voce, la mia voce, molto meno la forma del romanzo.

Anche Gli anni deve in qualche modo la sua struttura a Le Onde di Woolf, nel medesimo tentativo di trovare una forma nuova per rendere il passaggio del tempo. Oltre a Woolf, Ernaux ama ricordare le altre letture giovanili che le hanno causato «più che gioia, uno choc, perché dopo non ho più guardato il mondo allo stesso modo». La Recherche di Proust, La nausea di J. P. Sartre, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, L’educazione sentimentale di Flaubert, Nadja e il Manifesto del surrealismo di André Breton, Le onde e Al faro di Virginia Woolf.

Con Simone de Beauvoir ci fu anche uno scambio occasionale di lettere in occasione dell’uscita di Gli armadi vuoti, e il femminismo di Ernaux ha preso vita anche grazie al Secondo sesso che sembra dialogare con La donna gelata di Ernaux.

Mi ricordo di questa esperienza di lettura, in un mese di aprile piovoso, come di una rivelazione. Tutto quel che avevo vissuto gli anni precedenti nell’opacità, sofferenza e malessere, si sono rischiarati all’improvviso. È da questa esperienza che mi sono persuasa che la presa di coscienza, anche se non cambia nulla in sé, è il primo passo verso la liberazione e l’azione.

Il dialogo a distanza e il sentimento di riconoscenza sono profondi anche nei confronti di Marguerite Yourcenar. In particolare Ernaux ricorda la prima lettura delle Memorie di Adriano scoperto durante l’inizio dell’università e poi i due volumi – Care memorie e Archivi del Nord, riletti in preparazione alla scrittura de Gli anni dove l’attitudine sociologica di Ernaux prende il sopravvento, anche se «è partire dalla propria esperienza che differenzierà lo scrittore dal sociologo».

La scrittrice fa risalire il desiderio di scrivere questo libro quando, intorno alla metà degli anni Ottanta, resta colpita dall’improvvisa consapevolezza che niente del mondo dell’infanzia esiste ancora. Così inizia a progettare Gli anni attribuendogli un titolo ben due anni prima di averlo terminato, sapendo che «la scrittura è un alternarsi di disperazione e contentezza».

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Annie Ernaux

Romanzi

Gli armadi vuoti, Rizzoli, 1996, (Les Armoires vides, Gallimard, 1974).

Ce qu’ils disent ou rien, Gallimard, 1977.

La donna gelata, L’orma, 2021. (La Femme gelée, Gallimard, 1981).

Il Posto, L’orma, 2014 (La Place, Gallimard, 1983).

Una donna, L’orma, 2018, (Une femme, Gallimard, 1988).

Passione semplice, Rizzoli, 1992, (Passion simple, Gallimard, 1992).

Diario dalla periferia, Rizzoli, 1994, (Journal du dehors, Gallimard, 1993).

Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli, 1998, (Je ne suis pas sortie de ma nuit, Gallimard, 1997).

La vergogna, L’orma, 2018, (La Honte, Gallimard, 1997).

L’evento, L’orma, 2019, (L’Événement, Gallimard, 2000).

La Vie extérieure, Gallimard, 2000.

Perdersi, L’orma, 2023 (Se perdre, Gallimard, 2001)

L’Occupation, Gallimard, 2002.

L’Usage de la photo, avec Marc Marie, textes d’après photographies, Gallimard, 2005.

Gli anni,L’orma, 2015, (Les Années, Gallimard, 2008).

L’altra figlia, L’orma, 2016, L’Autre Fille, coll. « Les Affranchis », NiL Éditions, 2011.

Retour à Yvetot, éditions du Mauconduit, 2013.

Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022, Regarde les lumières mon amour, éditions du Seuil, 2014.

Memoria di ragazza, L’orma, 2017, (Mémoire de fille, Gallimard, 2016).

Hôtel Casanova, Gallimard, 2020, 96

Il ragazzo, L’orma, 2022, (Le Jeune Homme, Gallimard, 2022)

Altri libri e risorse

L’Atelier noir, Éditions des Busclats, 2011.

I miei anni Super8, film, 2022.

con Michelle Porte, Le vrai lieu, Gallimard, 2014.

Alice Figini, Annie Ernaux, doppiozero, 2019

con Pierre Bras, Scrivere è un dare forma al desiderio, Conversazione, Castelvecchi, 2020.

con Frédéric-Yves Jeannet, La scrittura come un coltello, L’orma, 2024.

con Rose-Marie Lagrave, Una conversazione, Oligo, 2024.

Pierre-Louis Fort e altri, Ernaux, L’Herne, 2022.

Ornella Tajani, Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux, Marsilio, 2025

Philippe Vilain, Lo studente, Gremese, 2025.

Valeria Lo Forte, La scrittura come un coltello, inedito

Signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni,

mi rivolgo a Lei nella speranza che quanto mi propongo di sottoporre alla sua attenzione possa trovare modo di raggiungerla.

Come tutta Italia, ho appreso dai mezzi di comunicazione del grande Piano casa per le giovani coppie che il governo da Lei presieduto intende attuare.

Io mi chiamo Simona Olivito, sono una donna di 48 anni single e senza figli, che lavora da più di 20 anni a Roma pur non essendo originaria di questa città.

Svolgo un lavoro molto impegnativo e di responsabilità, che assorbe gran parte delle mie giornate, senza che questo mi impedisca di avere una soddisfacente vita di affetti e di aver cura della mia famiglia di origine, benché lontana.

Accade però che quando anche questo governo pianifica aiuti e incentivi per l’acquisto di una casa per giovani coppie, una persona come me si chieda come mai la fascia di età e lo stato civile a cui appartiene non rientri mai nei focus di chi governa in relazione al tema casa.

Lo stesso è stato per i precedenti governi, che hanno consentito a categorie di volta in volta definite come «giovani al di sotto dei 35 anni» e simili di poter comperare una casa a prezzi calmierati.

Ora, facendo una rapida sintesi: non sono giovane, non sono in coppia, non ho figli, ma non credo questo faccia di me una persona e una lavoratrice meno degna di avere accesso a una necessità primaria come l’avere un tetto sulla testa, proprio per poter contribuire alla vita del paese nel modo più proficuo possibile e avere una serenità personale che agevoli questo scopo.

Le possibilità economiche di chi vive solo ed esclusivamente del proprio lavoro, come nel mio caso, senza quindi l’agio di accedere a beni derivanti da eredità o comunque sostegni familiari, sono particolarmente ridotte, pur a fronte di un indefesso impegno quotidiano nel più alto rispetto dei valori sui quali il Paese è fondato.

Il fatto di svolgere onestamente questo lavoro, sostentandosi solo grazie al proprio salario, e di vivere secondo i valori della convivenza civile, avendo cura anche dei propri familiari, nei casi di donna single senza figli vicina ai cinquant’anni parrebbe però con ogni evidenza escludere dalla possibilità di avere accesso alla prima necessità che permette tutto questo: una casa. Perché?

Ciò significa che se non si è più considerate giovani (pur avendo ancora all’orizzonte molti anni di lavoro prima di accedere alla pensione) e se il proprio percorso sentimentale non ha portato a una vita di coppia, questo fa di noi automaticamente persone meno degne di accedere a questo bene primario, pur contribuendo proprio fin dalla tanto considerata giovane età alla vita economica e civile di questo paese?

Sono felicissima di sapere che in alcuni casi si guardi con occhio molto attento a precise circostanze, come appunto a progetti di vita impegnativi che vedono coinvolti partner e prole. Penso però che le condizioni di partenza che permettono di avere accesso a un supporto, a un bene come la casa nel momento in cui non si dispone di patrimoni familiari né di stipendi di alta fascia debbano essere uguali per tutte coloro che, pur non avendo né mariti né figli, allo stesso modo contribuiscono giornalmente con abnegazione e serietà alla vita civile ed economica, facendo anzi fronte da soli a impegni economici e non economici di ogni tipo.

Mi rivolgo a Lei quindi perché mi riesce molto difficile pensare che una donna mia coetanea con una storia personale di grandissima determinazione individuale e profuso impegno, attestato dalle altissime responsabilità che la vedono oggi protagonista, possa considerare del tutto trasparente a un simile provvedimento una fascia di cittadine quasi cinquantenni lavoratrici single e senza rendite diverse dal proprio salario, ma che onora quotidianamente la patria col proprio operato. Mi riesce altresì difficile pensare che non sia evidente l’apporto che queste cittadine danno al Paese.

Se è vero che senza una casa è più difficile costruirsi una famiglia, ritengo altrettanto vero che per chi non vive in un nucleo familiare tradizionale sia più complicato far fronte alle enormi sfide quotidiane nel momento in cui non si è nati in condizioni di agiatezza.

Spero di non averle sottratto troppo tempo prezioso e la ringrazio sentitamente per l’attenzione che avrà voluto dedicarmi,

Simona Olivito

(Lettera, 26 settembre 2025)

da diotimafilosofe.it

Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 3 ottobre 2025, dalle 17,20 alle 19, in aula Menegazzi, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 7 novembre.

Venerdì 3 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Oriella Savoldi – Creare relazioni, creare libertà nel lavoro

Venerdì 10 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Maria Dolores Santos Fernandez – Nel divenire delle pratiche c’è un punto fermo e uno da scoprire

Venerdì 17 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Elena Migliavacca – Le pratiche e la visione

Venerdì 24 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Debora Pasini – L’efficacia trasformativa delle pratiche tra visibile e invisibile

Venerdì 7 novembre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Antonietta Potente – La vita si nasconde

Gli incontri si terranno in aula Menegazzi, ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.

Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia, alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione, al corso di laurea di Servizio sociale e a quello di Studi strategici verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.

Grande Seminario di Diotima 2025

L’arte delle pratiche politiche: un’invenzione del femminismo

Riprendendo Carla Lonzi quando diceva che il femminismo è la propria pratica artistica, possiamo dire che l’azione politica femminista è tessuta di tante diverse pratiche, ognuna delle quali è un processo creativo. Tiene conto infatti della necessità del contesto e del desiderio di trasformarlo dall’interno per fare spazio e far esistere ciò che orienta profondamente, ma senza conoscere in anticipo quale sarà il risultato. Come nelle pratiche artistiche si approfitta delle condizioni materiali in cui ci si muove e si aprono possibilità impreviste.

Sono processi che si modificano nel tempo, senza regole definite esplicitamente e senza obiettivi già pensati, se non quello di aprire spazi di libertà. Questo le differenzia dalle tecniche di comportamento – nella gestione organizzativa, nella formazione, nella comunicazione – per le quali viene indicato il ventaglio di risultati da ottenere e dove gli obiettivi sono definiti e le regole precise.

Perché riprendere oggi il discorso sulle pratiche, dato che è stato sempre tema centrale del femminismo? Innanzitutto per mettere in chiaro che l’attività simbolica non è affidata soltanto alle parole, ma anche a processi materiali molto più ampi, nei quali le parole prendono rilievo all’interno di un agire sensato. In secondo luogo perché tante, ma anche tanti, raccontano che nei luoghi di lavoro gli spazi di libertà si sono molto ristretti. Per questo è diventato necessario ripensare e mettere in atto nuove pratiche. Ma soprattutto perché il disordine simbolico, che stiamo subendo a livello internazionale e della politica italiana, ci spinge a immaginare un agire con altre e altri che crei un tessuto di relazioni capace di sostenere il vivere comune.

Alcune pratiche rimangono sempre efficaci, come quella di fare riferimento politicamente a quelle donne che sentiamo guidate dal nostro stesso desiderio. Altre vanno però scoperte e inventate con l’intenzione di trasformare i contesti e far sperimentare un vivere sensato nelle situazioni comuni.

Occorre arte in questo: ogni pratica infatti richiede un pizzico di creatività, una capacità di visione e quanto più sapore possibile.

Bibliografia:

– Giulia Siviero, Fare femminismo, Nottetempo 2024.

– Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori 1999.

– Donatella Franchi (a cura di), Matrice. Pensiero delle donne e pratiche artistiche, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano 2004.

– Chiara Zamboni, Una contesa filosofica e politica sul senso delle pratiche, «Per amore del mondo» n. 5 (2006).

da Contexto y Action

L’ignoranza della storia e la concezione manichea delle relazioni internazionali di molti politici, militari, esperti e giornalisti europei lasciano presagire un’estensione del conflitto tra Russia ed Europa.

Il 17 luglio, il capo delle truppe degli Stati Uniti in Europa, generale Christopher Donahue, ha dichiarato a Wiesbaden che la NATO ha un piano dettagliato per attaccare e conquistare la regione russa di Kaliningrad «in un lasso di tempo senza precedenti, più rapido di quanto siamo mai stati capaci». Kaliningrad è un punto militarmente vulnerabile della Russia, incastonato tra Polonia e Lituania, territorialmente disconnesso dal resto della Federazione Russa. Per questo Mosca mantiene lì numerosi soldati, 75 navi da guerra, aviazione supersonica da combattimento e missili nucleari tattici Iskander M.

Poiché la Russia attacca sistematicamente l’industria militare ucraina, Kiev sta delocalizzando in paesi della NATO alcune fabbriche. L’azienda ucraina Fire Point aprirà a dicembre uno stabilimento di carburante per missili in Danimarca. Anche la Germania produrrà armi per l’Ucraina. È la prima volta che paesi della NATO ospitano industrie di un paese in guerra o producono armi sul proprio territorio per conto di altri. Tutti dichiarano che i missili che verranno fabbricati e/o forniti all’Ucraina in (e da) Europa possono e devono colpire la profonda retroguardia russa, città come Mosca e San Pietroburgo. Lo affermano il cancelliere tedesco, il suo ministro della Difesa, i principali politici europei, la responsabile degli Esteri dell’UE e i generali tedeschi, i quali prevedono che il conflitto militare aperto dell’Europa con la Russia comincerà nei prossimi quattro o cinque anni.

[…]

Coloro che prendono le decisioni a Mosca, e il presidente Putin in particolare, sono stati finora molto più moderati dei loro strateghi. Ma gli avvertimenti si susseguono. È ovvio che la Russia non lascerà senza risposta attacchi contro le proprie città condotti con missili tedeschi o prodotti in Danimarca. Una risposta che non avverrà in Ucraina, ma contro i paesi d’origine di tale capacità. L’ampliamento/trasformazione della guerra in Ucraina è servito e ben annunciato.

I politici che sostengono la linea della NATO nell’Unione Europea, ovvero la presidente della Commissione Von der Leyen, la responsabile degli Esteri Kallas e gli attuali dirigenti di Germania, Francia e Inghilterra, stanno mettendo a rischio la sicurezza dell’Europa, provocando la Russia e chiedendole di attaccarli. Si tratta di un’intera generazione europea di politici, militari, esperti e giornalisti che, nella loro grande maggioranza, ignorano la storia e hanno interiorizzato una concezione manichea profondamente stupida delle relazioni internazionali, che li porta a perdere di vista la realtà.

«Nei circoli politici e mediatici di Washington, Bruxelles, Parigi e Londra, gli argomenti storici sono diventati inutili. I loro interlocutori semplicemente non capiscono di cosa si stia parlando e mancano sia delle conoscenze di base sia della vitalità intellettuale per provare a comprenderlo. Chi non sa che la relazione tra Russia e Ucraina (a volte molto conflittuale, a volte consensuale) si è protratta per oltre 400 anni, probabilmente non si rende conto che, impegnando i propri paesi a trasformare l’Ucraina in una barriera militare contro la Russia, stanno assumendo un impegno non solo per le generazioni future, ma per i secoli a venire», afferma l’analista britannico Anatol Lieven.

Uno dei grandi malintesi è non accettare la realtà e gli interessi della Russia, il più grande e popoloso paese del continente che (al di là dei motivi endogeni, che esistono) è stato spinto per tre decenni a riprendere il proprio militarismo ideologico ed economico, che Mosca aveva abbandonato durante la fallita trasformazione successiva alla grande riforma democratizzante e alla fine dell’URSS.

L’Europa ha trasferito agli Stati Uniti tutte le decisioni strategiche in materia di sicurezza e politica estera continentale. Il problema era che Washington considerava che la Russia non fosse più una grande potenza, mentre i russi si consideravano e si considerano tuttora una grande potenza e non hanno, né avevano, alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità e autonomia mondiale.

A questo punto, il lettore potrebbe pensare: «ma non è forse la Russia che in questi giorni ha lanciato droni sulla Polonia e sulla Romania, disturbando gli aeroporti di Oslo e Copenaghen, e violando lo spazio aereo dell’Estonia?» Sì, probabilmente si tratta di avvertimenti alla cosiddetta “coalizione di volontari” che proclama la propria intenzione di intervenire militarmente in Ucraina e di test della loro posizione militare, che mettono in evidenza la loro grande vulnerabilità per assenza di sistemi di difesa aerea e antimissile. Tutto ciò dovrebbe invitarli a riflettere sulle conseguenze delle loro azioni.

In realtà, considerate nel loro contesto, tutte queste “provocazioni” sono state piuttosto innocue. I droni sulla Polonia non erano armati e, nel quadro generale, la presunta violazione dello spazio aereo estone è stata una minuzia. L’Estonia cerca di ampliare la propria zona economica esclusiva aerea e marittima nel Baltico, cosa che la Russia non riconosce, e i dodici minuti di violazione dichiarati impallidiscono rispetto alle oltre 200 violazioni turche dello spazio aereo greco registrate nel 2022 intorno all’isola di Samos. La Turchia e la Grecia sono membri della NATO, ma tali incidenti non hanno mai generato grandi titoli mediatici né accese dichiarazioni o convocazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e del Consiglio della NATO, come è stato invece per l’Estonia, coincidente proprio con l’annuncio del Pentagono di ridurre l’aiuto degli Stati Uniti nel Baltico…

Il problema è che la retorica aggressiva fa parte della natura stessa di una spirale bellica. «A qualsiasi violazione militare della frontiera si risponderà con mezzi militari, incluso l’abbattimento di aerei da combattimento russi», ha detto il politico della CDU tedesca Jürgen Hardt. «Sono stati avvertiti: se un altro missile o aereo entra nel nostro spazio aereo senza permesso, sia deliberatamente sia per errore, e viene abbattuto, non venite qui a lamentarvi», ha dichiarato mercoledì il ministro degli Esteri polacco Radoslav Sikorski durante la sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Una volta che iniziano gli spari, anche in modo fortuito e indesiderato da tutti, la pressione è sempre verso una maggiore distruzione. E ci troviamo chiaramente in quella situazione.

Man mano che maturano le condizioni per un ampliamento territoriale del conflitto militare in Ucraina o per il previsto secondo attacco israeliano contro l’Iran cresce allegramente l’accettazione politica e mediatica dello scenario di una grande guerra con possibile uso di armi nucleari tattiche. La stessa dottrina nucleare russa è stata significativamente riformata in tal senso. La dottrina del governo britannico, approvata quest’anno nella National Security Strategy, avverte che «per la prima volta dopo molti anni dobbiamo prepararci attivamente alla possibilità che il nostro territorio sia oggetto di una minaccia diretta in un potenziale scenario di guerra». La cronaca europea è ormai piena di questo tipo di preparativi e annunci: la spesa del 5% in “difesa”, la fine degli statuti di neutralità (Austria, Svizzera), la ricerca di risorse nucleari (Polonia) o l’avvio del dibattito in Germania… Ma il fenomeno va oltre l’Europa.

Dalla sua Legge di Pace e Sicurezza del 2015, il Giappone ha archiviato la nozione di “autodifesa” che aveva caratterizzato l’interpretazione della Costituzione del dopoguerra. Ora si giustifica l’uso della forza militare non solo in caso di attacco diretto al Giappone, ma in qualsiasi eventualità di “crisi esistenziale”, un concetto ampio e ambiguo che include, ad esempio, la chiusura dello stretto di Ormuz (via di approvvigionamento energetico del paese) e persino cyberattacchi. Perfino la prudente e sempre moderata Cina ha dovuto mostrare i muscoli con un’insolita esibizione delle sue armi di ultima generazione nella recente parata dell’anniversario della vittoria a Pechino. Tutto indica l’ampliamento del conflitto e delle tensioni militari. E non solo in Europa.

(*) Rafael Poch-de-Feliu (Barcellona) è stato corrispondente de La Vanguardia a Mosca, Pechino e Berlino. Autore di vari libri: sulla fine dell’URSS, sulla Russia di Putin, sulla Cina, e di un saggio collettivo sulla Germania della crisi dell’euro.

da Altraeconomia

Martina Pignatti Morano, presidente del Comitato etico di Banca Etica, interviene nel dibattito sugli effetti delle sanzioni a danno della Relatrice speciale Onu e sui reali margini di manovra che ha l’istituto di credito, «nel suo difficile ma riuscito esercizio della finanza di pace in un mercato assetato di sangue». Ecco quali sono i rischi e le valutazioni che hanno portato la banca schierata «contro l’apartheid in Palestina» a fermarsi

Ho iniziato a scrivere questo articolo il 22 settembre, da una missione in Siria per la mia Ong, ma alle mail che ho inviato ai dirigenti e al personale di Banca Etica in Italia rispondeva un messaggio automatico: «Oggi manifestiamo per il cessato il fuoco a Gaza, ci vediamo in piazza!».

Questa è la mia banca, che tra l’altro destinerà i salari giornalieri delle lavoratrici e lavoratori che hanno aderito allo sciopero generale a progetti di emergenza umanitaria per Gaza. Come presidente del Comitato etico osservo ogni giorno Banca Etica nel suo difficile ma riuscito esercizio della finanza di pace in un mercato assetato di sangue, che non esita a trarre profitto persino dal genocidio in corso in Palestina, come ha documentato nel suo ultimo rapporto la Relatrice Speciale dell’Onu sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese. Per questo la dottoressa Albanese è stata inserita nella lista delle sanzioni americane dell’Ofac, alla pari di narcotrafficanti e di chiunque gli Stati Uniti designino come terrorista.

Molti di voi sanno che Francesca Albanese ha contattato Banca Etica per tentare di aprire un conto corrente bancario. Voleva comprendere assieme a noi se lo potessimo fare nonostante le sanzioni americane, tramite un controllo dell’antiriciclaggio che appurasse l’autentica natura delle sue attività, improntate all’assoluta correttezza legale e pratica nonviolenta, suggellata dal rinnovo recente del suo incarico da parte delle Nazioni Unite. Un gruppo di dieci persone ai massimi livelli della banca ha lavorato a questa pratica con grande passione personale oltre che rigore professionale per due settimane: funzione antiriciclaggio, ufficio legale, colleghi del back office e staff di direzione. Purtroppo hanno confermato quello che ciascuno di voi può chiedere all’intelligenza artificiale on line, se volete approfondire: le banche che offrono servizi a individui o entità presenti nelle liste Ofac sono passibili di sanzioni civili (multe di milioni di dollari, confisca di fondi e asset delle persone sanzionate, etc.) e penali, restrizioni operative su tutta l’operatività in dollari di tutti i clienti, controlli più rigidi e audit da parte delle autorità, implementazione di programmi di compliance più severi che ne possono bloccare interamente l’operatività anche per lunghi periodi di tempo.

Diverse banche europee hanno subito multe o sanzioni per aver intrattenuto rapporti con soggetti segnalati nelle liste Ofac: Swedbank Latvia in Svezia, Bnp Paribas in Francia, Deutsche Bank in Germania, Efg International in Svizzera e Unicredit per dirne alcune, con multe che sono arrivate a 8,9 miliardi di dollari per transazioni con Sudan, Cuba, Iran.

Banca Etica, a dir la verità, era disponibile ad accettare il rischio di pagare multe salate pur di rimediare alla discriminazione del sistema bancario verso Francesca Albanese, ma si è fermata davanti al rischio di vedersi bloccata l’operatività in dollari per tutti i propri clienti, tra cui le Ong che devono poter operare in valuta per l’invio di fondi in tantissime zone di conflitto, dall’Afghanistan all’Iraq. Ad esempio, Commerzbank in Germania nel 2015, dopo aver pagato 1,45 miliardi di dollari di multe per transazioni con Sudan e Iran, ha subito pesanti limitazioni sui conti in dollari e un monitoraggio esterno continuo che ha reso estremamente complesso effettuare trasferimenti verso Stati fragili.

A volte Banca Etica riesce, con controlli attenti tramite Ong fidate, istituzioni nazionali e internazionali, ad appurare che alcuni propri clienti, inseriti ad esempio nelle liste internazionali delle persone sanzionate dalla Turchia per terrorismo, sono in realtà vittime di discriminazione politica. Io stessa per conto del Comitato etico ho contribuito a raccogliere informazioni su casi di questo tipo e ho partecipato a Cda in cui questi clienti sono stati accettati dopo un intenso lavoro delle funzioni di controllo, sulle quali comunque né il direttore né il Cda possono esercitare alcuna pressione, come richiesto dalle Disposizioni di vigilanza per le banche (circolare n. 285 del 17 dicembre 2013) con riferimento ai requisiti di indipendenza delle funzioni stesse.

Va detto infine che Banca Etica si avvale di banche corrispondenti per le operazioni internazionali, che a sua volta passano da altre banche corrispondenti (inclusa Intesa Sanpaolo, per fare un esempio) che, avendo filiali in tutto il mondo, devono attenersi a delle regole di conformità della normativa internazionale e non solo europea. Pertanto, in modo molto semplice, potrebbero decidere di declinare l’esecuzione di un’operazione in quanto non conforme alle loro policy interne o includerci nelle liste interne di clienti non desiderati, precludendoci anche operazioni in euro.

Allora che cosa possiamo fare per resistere alla profonda ingiustizia delle sanzioni Usa – che diventano vincolanti anche in Italia tramite i gangli del sistema finanziario globale – verso una persona di altissimo profilo umano e una testimone di giustizia come Francesca Albanese, nonché verso i membri della Corte penale internazionale? Banca Etica ha intensificato il dialogo con attivisti palestinesi e internazionali che promuovono la campagna di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni su Israele per chiedere il rispetto delle risoluzioni dell’Onu e la fine dell’apartheid. Continua l’azione di sostegno a diverse organizzazioni palestinesi per il microcredito e alle Ong che sostengono la popolazione di Gaza nella sopravvivenza quotidiana al genocidio, dialoghiamo con le aziende socie per chiedere anche a loro di interrompere la complicità con il sistema di colonizzazione e sfruttamento dei territori palestinesi, abbiamo escluso dai fondi etici le imprese segnalate sia da database dell’Onu sia da società civile perché traggono profitto dall’occupazione. Ma soprattutto la Banca fa advocacy con parlamentari italiani e europei affinché risolvano la questione alla radice, chiedendo che il Parlamento italiano si faccia promotore presso il governo, insieme agli altri governi e istituzioni europee, della richiesta di immediata esclusione della dottoressa Francesca Albanese dalle liste sanzionatorie statunitensi, e che venga definita a livello europeo un’azione strutturale che garantisca agli operatori finanziari europei la possibilità di operare liberi da vincoli arbitrari decisi da governi extra-europei.

Restiamo umani ma soprattutto restiamo uniti, la resistenza al genocidio è una causa più grande di noi, che richiede un onesto e profondo esercizio di ricerca della verità e costruzione collettiva di una pace giusta.

(*) Martina Pignatti è presidente del Comitato etico di Banca Etica e direttrice di una Ong italiana. Lavora da vent’anni nella cooperazione in zone di conflitto

da il manifesto

Nata a Vienna e cresciuta negli Stati Uniti, Lara Dizeyee è una stilista e artista curda. Figlia del noto artista Homer Dizeyee, dopo anni di attività nel settore petrolifero e del gas, ha deciso di dedicarsi interamente all’arte e al design della moda. Coniugando tradizione e modernità, ha portato l’abito curdo sulla scena internazionale, partecipando a eventi come la Paris Fashion Week 2023 e la Milano Fashion Week 2025. L’Università di Sulaymaniyah le ha conferito il titolo di Ambasciatrice dell’abito curdo per il suo impegno nella promozione di questo patrimonio culturale.

Sta dedicando la sua nuova collezione di Milano a «Jin, Jiyan, Azadî» («Donna, vita, libertà») e alle donne curde. Perché ha scelto di portare questo messaggio politico nella moda e quale impatto globale si aspetta?

Questa non è una dichiarazione politica ma umana. È un tributo a tutte le donne che affrontano ingiustizie e un promemoria del fatto che siamo in solidarietà con loro. Quello che è successo a Jina Amini, e a tante altre giovani donne come lei, è stato profondamente ingiusto e ha toccato i cuori delle persone in tutto il mondo. Come artista e come persona impegnata sul piano umanitario, non creo abiti solo per la moda in sé: creo per raccontare storie e onorare la resilienza. Con questo design voglio mettere in risalto la forza delle donne che, nonostante gli ostacoli, continuano a rialzarsi con orgoglio.

I curdi hanno una storia millenaria ma nessuno Stato indipendente. Considera la presentazione dellabito curdo sulla scena internazionale una forma di «soft power»? Che ruolo può avere la moda come linguaggio simbolico per le culture senza Stato?

Sì, lo considero una forma di soft power e di diplomazia culturale. La moda è un linguaggio universale che permette alla cultura curda di essere vista e compresa, senza parole. Portando l’abito curdo sulle passerelle globali, non solo preservo il patrimonio, ma condivido anche la storia di resilienza e orgoglio di un popolo senza Stato. La moda diventa sia bellezza che voce.

L’industria della moda è in gran parte guidata dal capitalismo e dal consumismo. Come rimane fedele alla sua cultura e storia allinterno di questo sistema?

Credo che la moda abbia due lati: può essere guidata dal consumismo, ma può anche essere un mezzo per raccontare storie e preservare culture. Per me non si tratta mai solo di produrre abiti da vendere, ma di creare design che portino con sé significato, storia e identità. Come stilista curda, sento la responsabilità di intrecciare le voci del mio popolo in ogni collezione, così che ogni pezzo sia non solo couture ma anche narrazione culturale. Rimanere fedele alla cultura significa radicare il mio lavoro nell’autenticità, attingendo a tessuti tradizionali, motivi e storie, reinterpretandoli in chiave moderna. Così garantisco che il patrimonio curdo non venga mercificato, ma piuttosto elevato e onorato sulla scena mondiale. Ciò che mi mantiene con i piedi per terra è lo scopo del mio lavoro. Ogni design è un tributo al mio popolo, alla bellezza di una cultura che merita di essere vista. Questo scopo è più grande delle mode o del profitto e mi permette di restare fedele a chi sono e alle mie radici.

La sua presenza a Milano e Parigi è artistica ma anche politica. «Milan Enchanted» va letto come puramente estetico o come portatore di identità e lotta curda? Quali simboli e design hanno più significato: il sole, le forcine e corone tradizionali o i motivi tatuati sui modelli?

Milan Enchanted è una sfilata di moda narrativa, è arte e passione. Per me è un tributo alla rinascita e alla resilienza. Sono semplicemente una stilista orgogliosa delle proprie origini, il Kurdistan. Quando creo, non è per provocare o irritare qualcuno, ma per condividere la storia del mio popolo. I simboli che uso – il sole, le forcine tradizionali o le corone – non sono semplici decorazioni ma parti vive della nostra identità. Portano con sé le voci delle generazioni che mi hanno preceduta. C’è bellezza e trionfo nella lotta: diventiamo più forti quando sopportiamo molto. Alcuni miei design riflettono quella lotta, ma la portano con grazia e cuore.

La moda rischia sempre di scivolare nellesotismo quando reinterpreta la tradizione. Come evita stereotipi orientalisti?

Credo che la chiave sia il rispetto: rispettare la mia cultura, onorare il passato e collegarlo con cura al futuro. Il mio lavoro non riguarda trasformare la tradizione in qualcosa di “esotico” solo per la moda ma presentarla con dignità e autenticità. Mi avvicino al patrimonio curdo con profondo orgoglio e responsabilità. Ogni motivo, tessuto o simbolo è radicato nella storia reale e nell’esperienza vissuta, non negli stereotipi. Unendo questi elementi autentici al design moderno, creo pezzi contemporanei ma fedeli alle loro origini. Non sto prendendo in prestito dalla cultura, la sto portando avanti mostrando al mondo che la moda curda non è una tendenza, ma una voce, un’identità e un’eredità.

Alcuni sostengono che inserire labito curdo nell’«haute couture» lo trasformi in un lusso per élite, distaccandolo dalle sue radici sociali.

Cosa c’è di sbagliato nel lusso e nell’eleganza? Per me elevare la cultura curda sulla scena mondiale è un atto di orgoglio. La cultura non è congelata nel tempo, si evolve sempre, si adatta e trova nuove espressioni. Portando l’abito curdo nell’haute couture non lo sto staccando dalle sue radici; gli sto dando visibilità, dignità e un posto accanto alle tradizioni più rispettate del mondo. Sono molto orgogliosa di rappresentare il mio patrimonio nel modo più elegante e senza tempo possibile. Il mio obiettivo è che, quando qualcuno vede i miei design, non veda solo un capo ma senta un ventaglio di emozioni: orgoglio, bellezza, resilienza e connessione. In questo senso, la couture diventa più di un lusso: diventa un tributo vivente a una cultura che merita di essere celebrata al massimo livello.

Come ha reagito il pubblico curdo e non curdo al suo lavoro? I curdi la vedono come rappresentante della loro cultura o come artista della diaspora?

Sia i curdi che i non curdi hanno risposto con moltissimo affetto. Spesso mi dicono che percepiscono il rispetto, l’onore e la forza che intreccio in ogni design, questo significa tutto per me. Ciò che mi tocca di più è che chiunque, curdo o meno, indossi i miei abiti si senta trasformato nel personaggio e nella storia dietro al capo. Quella connessione emotiva va oltre la moda: diventa un’esperienza più profonda di identità e bellezza.

L’industria «fast fashion», soprattutto in Turchia, impiega lavoratori marginalizzati, inclusi curdi e rifugiati, in condizioni precarie e informali. Come può la moda essere ripensata attraverso inclusione e giustizia sociale?

Questo è un problema globale. Noi stilisti dobbiamo assumerci la responsabilità di ripensare la moda in una prospettiva più inclusiva ed etica. Per me ciò significa rallentare, valorizzare l’artigianato e lavorare con artigiani in un modo che rispetti la loro dignità e il loro lavoro. La moda non dovrebbe sfruttare la vulnerabilità, ma dare potere alle comunità, preservare la cultura e creare opportunità. Allontanandoci dalle logiche del fast fashion e avvicinandoci all’inclusione e alla giustizia sociale, possiamo trasformare la moda in qualcosa di più significativo: una piattaforma che solleva le persone mentre celebra bellezza e patrimonio.

È la sua ambizione creare una «maison» di moda curda che possa competere a livello globale servendo anche come progetto collettivo culturale e politico?

Ho già creato il mio marchio, la mia intenzione non è mai stata quella di competere: Lara Dizeyee Haute Couture è una linea che unisce invece di dividere, una maison costruita sulla narrazione, sul patrimonio e sulla convinzione che la bellezza abbia il potere di avvicinare le persone.