da Il Corriere della Sera

Yasmina Reza è Yasmina Reza. Scrittrice, drammaturga, nessuna di queste. Definirla significherebbe circoscrivere l’esistenza. Cos’è Yasmina Reza? Per afferrare la portata della scrittrice parigina, autrice di una ventina di opere, dobbiamo smetterla di mentire. Ammettere chi siamo, a favore del mondo. Leggere Reza è estrarre la verità dalla retorica: riappropriarci di certi sguardi inconsueti, saper maledire il passare del tempo, imparare a goderci chi si arrabatta al posto nostro. Liberazioni.

I suoi libri sono questo. Questo, più qualcosa che sfugge, come succede a un grande autore finché non arriva un testo che lo contiene tutto. La vita normale è Yasmina Reza per intero. Un romanzo a più ritratti? Una raccolta di racconti? Chiarirlo è ridurre un dipinto di Rothko a uno sfondo colorato. O una partitura di Bach a un susseguirsi di note musicali. Si potrebbe banalizzare così: cinquantacinque spari narrativi tra Venezia e i tribunali francesi, con Reza a testimoniare il corso naturale delle cose. Di più non si può.

E se invece esistesse una parola, una sola parola, per catturare liridescenza di questopera?

«Se una parola simile esistesse – e non esiste – io sarei l’ultima a trovarla. Non ho uno sguardo critico né tantomeno speculativo sul mio lavoro. Lei adopera un termine che mi piace molto, l’iridescenza, una proprietà magica che dipende dall’angolo visuale. Intuitivamente lo approvo e ne sono commossa. Nel mio libro si affiancano, senza alcun ordine gerarchico, racconti apparentemente anodini o domestici e racconti di processi che sembrano esulare dall’ordinario. A seconda del modo in cui li osservo, assumono tutti i molteplici e sconcertanti colori della “vita normale”».

Forse dobbiamo scomodare Céline: la normalità è labisso. Quanto ha deciso questo libro e quanto è venuto naturale come la vita stessa?

«Sono anni che vado ad assistere a processi. All’inizio era per semplice curiosità e per il desiderio di sottrarmi alla specificità sociologica del mio ambiente professionale. Non avevo intenzione di farne un libro, e per un bel pezzo non ho neanche preso appunti. Finché poi ho cominciato a prenderne, e a scrivere brevi resoconti personali, come faccio da sempre in svariate situazioni. Così sono nati Hammerklavier e Nulle part. Fotografie soggettive della vita. Un giorno mi sono resa conto che quei testi si facevano eco e come da contrappunto gli uni con gli altri. La vita non è suddivisa in compartimenti stagni, è incasinata, e passa in un batter d’occhio dall’estremamente banale all’eccezionale».

È un libro che vince la morte, perché ne contrasta il patetico. Dopo averlo letto è più facile confrontarsi col destino. “Spoon River” mi fece lo stesso effetto.

«Oh, quanto mi piacerebbe! Lei è troppo generoso. La mia prima commedia si intitolava Conversazioni dopo un funerale. Ho cominciato a scrivere, per così dire, con lo sguardo rivolto a una tomba. E non ho mai smesso. Vedo ogni cosa alla luce del limite. Si ricorda qual era, per Epicuro, il rimedio alla morte? “Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”. È vero, ma solo al livello dello stato di coscienza. Per il resto, la morte è onnipresente, come inclusa in noi stessi, e viene esperita, ahimè, quando si tratta degli altri».

Spoon River” gioca con i rimpianti nella tomba. “La vita normale” lo fa con i rimpianti in corso, forse. Ma forse sotto sotto dà una possibilità ai suoi personaggi di invertire la rotta, avvicinandoli a una forma di tenerezza.

«La sua domanda mi ricorda, ammesso che sia necessario, a che punto un libro appartiene al lettore. Personalmente, non mi sembra che nella Vita normale si parli poi tanto di rimpianti, tranne forse in un paio di testi. In compenso, la vera costante, secondo me, è l’irreversibilità del tempo. Sono felice, tuttavia, che lei citi la tenerezza. Su questo sì che sono d’accordo».

Vorrei confidarle una cosa: leggendolo, mi è venuta in mente una riflessione di Goliarda Sapienza sugli effetti imprevedibili dei libri nei lettori. Diceva: quando un libro è stato scritto in libertà – la vera libertà – dopo farà quel che gli pare. C’è un sentimento (o unurgenza), magari sottotraccia, di cui si è nutrito?

«Lei mi tortura, caro Marco! Ma la frase di Goliarda Sapienza è assolutamente giusta. Penso che qualsiasi scrittura dotata di un qualche valore scaturisca da una ricerca sotterranea e ostinata. Proprio in questa ricerca risiede la libertà. Le parole non dicono che una parte visibile, in realtà costruiscono un certo silenzio. Il silenzio è predominante, è ciò che resta, e ciascuno lo interpreta a modo suo. Per quanto riguarda la sua domanda, ho cercato invano una risposta. Forse è qualcosa di indicibile».

La questione del silenzio è capitale. Avevamo definito “acquari” gli spazi in cui i suoi personaggi si muovono, perimetri teatrali dove vanno in scena non-detti. “La vita normale” ha acquari e silenzi già nella struttura, brevi racconti dove le anime nuotano nellesistenza. In questo, il capitolo su Roberto Calasso mi sembra esemplare. Lattendere il taxi di Calasso, il sospetto che si annoi e che tempo dopo la verità su questa noia venga a galla. Perché Calasso come scelta? Cosa trasforma una persona in qualcosa che valga la pena di essere raccontato?

«Se una persona si inscrive nel tuo universo sensibile te ne accorgi subito. Io ho un debole per quelle angosciate e quelle inclassificabili. Ero a conoscenza delle formidabili qualità intellettuali dell’uomo. Ma Roberto Calasso “dal vivo” mi è subito piaciuto enormemente. Il suo terrore di essere costretto a fare conversazione con un nuovo scrittore (terrore che capisco benissimo), la sua incapacità di fingere un’amabilità mondana, la sua immediata facilità alla noia (che si annoiasse non era un sospetto, per me, era un dato di fatto inequivocabile). Il cappotto abbottonato fino al collo come un bambino che aspetta che vengano a prenderlo! Tutto questo è materia preziosa».

Il cappotto abbottonato di Calasso, ma anche la postura «leggermente curva» di Bruno Ganz al tavolino. Mentre si legge il racconto che gli ha dedicato, la sensazione è di una malinconia luminosa (e a sorpresa) che ci sfugge. È come se questo libro l’avesse catturata, ma ho il sospetto che sia stato possibile perché il narratore ne è testimone a pelle viva. Una prima persona singolare normale e proprio per questo, totale.

«Le sue parole mi colpiscono. In quanto narratrice mi situo sempre esattamente alla stessa altezza delle persone che osservo. Non saprei che cosa aggiungere, dato che lei descrive alla perfezione ciò che tento di cogliere ogni volta, nell’aula di un tribunale come nella vita quotidiana».

Ma gli eventi giudiziari non la corrompono? Truman Capote disse che con i potenziali criminali rischiava di perdere la giusta distanza perché gli regalavano storie meravigliose.

«Truman Capote aveva stabilito un legame reale, fisico, con gli imputati. Si era addirittura affezionato a loro. Anch’io mi affeziono. Ho un debole per alcuni, ma resto a distanza, tra me e loro non esiste alcun rapporto. Nessuno mi ha raccontato storie meravigliose! Nella frase di Capote intravedo un lieve romanticismo. Ma capisco quello che dice, dal momento che appena ci si avvicina davvero alle persone le affinità umane alterano il giudizio morale».

E siamo arrivati a Venezia. La città di questo libro, una delle sue città. Che storia c’è tra Yasmina Reza e Venezia?

«Un amico mi aveva detto: è una città propizia all’ispirazione letteraria. Lui ci stava girando un film. Sono andata sul set ed è stato un colpo di fulmine. La bellezza, la storia incredibile, la libertà di movimento, i rumori notturni, la strana e incomprensibile laguna… Il mio attaccamento alla città non è mutato, ma Venezia non è quasi più una città reale. È ormai totalmente in balìa di quella calamità che è il turismo di massa, e si sta tragicamente spopolando. Da quando ci abito una parte dell’anno, il mercato si è ridotto della metà. I negozi chiudono l’uno dopo l’altro per diventare o ristoranti o assurde bottegucce di souvenir. Tutto ciò mi rattrista enormemente».

Sa cosa diceva W.G. Sebald? A un certo punto rischiamo di innamorarci di una città che rispecchia la nostra architettura di storie. Se penso a Venezia, e a libri come “Felici i felici”, “Babilonia”, “Serge”, gli scritti teatrali, “La vita normale”, ecco, mi appare che la sua pagina sia questa mappa: per le “isole” circoscritte che crea nelle strutture, la brevità, gli ambienti dove incontrarsi quasi per caso e svelarsi, il mondo della notte, linvasione dei destini altri, una certa dose di disincanto rispetto al passato.

«Un’osservazione che mi sconcerta, la sua. Non ci avevo mai pensato – del resto, non rifletto mai sulla mia scrittura –, ma non posso negare che lei abbia ragione. Sì, certo, gli spazi circoscritti, le unità classiche di tempo e di luogo, un certo mondo conchiuso, il caso che governa gli incontri, gli eventi che si producono all’angolo di una calle e sono come catastrofi in miniatura. Anche la questione del tempo è onnipresente a Venezia. Il tempo che lascia un segno sui muri, la schiuma dei canali, l’abbandono in cui versano tante sue zone. Credo si possa trovare traccia di tutto ciò nelle emozioni che mi guidano e su cui si basano i miei testi. Ma lei l’ha detto meglio di me. Mi viene in mente un’altra cosa: in genere, i posti in cui agiscono i miei personaggi mi diverto a inventarli. Invento nomi di città, di strade. Venezia è la sola città di cui cito i veri toponimi».

Probabilmente perché è un teatro a cielo aperto. In questo Venezia unisce le sue arti capitali, la drammaturgia e la narrativa, attraverso il passare inesorabile del tempo, che forse è la sua più grande ossessione.

Quanto fa incazzare il passare inesorabile del tempo. Secondo lei i libri, la vita normale che scorre nei libri, ne sono antidoto?

«Sarebbe stupendo se fosse così! Direi, piuttosto, che i libri confermano la fuga inesorabile del tempo. La vita normale che scorre nei libri è ancora più effimera della vita normale che viviamo. È una vita che si è già svolta. Nel passato. Anche se la narrazione è al presente si tratta di un presente compiuto. In un certo senso, la letteratura è incapace di fissare il presente. Nel migliore dei casi illumina un presente universale che potrebbe riprodursi ma che ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che la vita è fragile e breve. La lettura, in compenso, è un atto che, come la preghiera, consiste nel sottrarsi al tempo».

Da lettrice, ha libri – o autrici, autori – che lhanno sottratto alla maledizione del tempo? Ne “La vita normale” cita “Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksievič.

«Non è una questione di autori: parlo del semplice fatto di leggere. Leggere ci separa dal contesto immediato. È un una pausa tecnica, se me lo consente. Il tema centrale di Tempo di seconda mano sono proprio le epoche, la nostalgia, il senso della perdita. Un capolavoro, questo, che non può in alcun modo strapparci alla percezione del tempo».

Una domanda da non fare mai a Yasmina Reza: a questo punto della sua esistenza, e del suo percorso artistico, e contro lo scorrere del tempo, cosa la rende felice?

«Anche ammesso, caro Marco, che io fossi disposta a rispondere a una simile domanda, non ci riuscirei! La gioia è inattesa, ci prende alla sprovvista. Anzi, non sono nemmeno sicura che dipenda dalle circostanze. In passato, quando ritenevo di star costruendo la mia esistenza, ero più eccitata, più nervosa, ma certo non più gioiosa. In definitiva, le cose che contano sono sempre le stesse. E sono infinitamente banali. Camminare nella natura, discutere dei massimi sistemi e ridere con i miei cari, con i miei amici».

Era un interrogativo che avrei voluto porre ai suoi personaggi. Soprattutto alle anime della Vita normale. Cosa li rende felici? Non sapevo immaginare una risposta e forse ho capito perché: perché la banalità della gioia è un atto straordinario. Normali i normali, ribaltando Borges.

«In Babilonia la narratrice, pur travolta da eventi tragici, accenna alcuni passettini di danza al centro del salotto di casa. Nella Vita normale il personaggio di N., dopo una serata in cui non ha fatto altro che lamentarsi, canta scendendo le scale. Sempre nello stesso libro, un assassino di donne ride nel sentire la frase di una delle sue vittime miracolosamente scampata alla morte. E anche la vittima ride, di cuore, e anche la corte. Niente a che vedere con la felicità, in tutto ciò: sono solo attimi di gioia. La gioia per effrazione. La gioia insolente che si intrufola nella vita, spesso controcorrente. Si trovano molti esempi di questo tipo di gioia nelle mie opere teatrali e nell’insieme dei miei testi. È una forma di frivolezza esistenziale. Ho sempre pensato che sia questa predisposizione a salvarci».

La gioia insolente, oltre la felicità. E la leggerezza, intesa come sostanza delle parole nella loro precisione e necessità. Il prossimo Salone del Libro di Torino avrà come tema proprio questo essere leggeri – attraverso la parola – nellincontro con il mondo. Lei lo inaugurerà, e trovo la sua partecipazione puntualissima, vista la spinta che ha nel delineare la realtà.

«La leggerezza non si impone per decreto. È un’attitudine originaria, diciamo così. Nella vita come nella letteratura. Spesso la si confonde con un difetto di sostanza o di profondità. È un errore. Mi piace, inoltre, il nesso che lei stabilisce tra leggerezza e precisione. Sì, la leggerezza presuppone la precisione».

«Gli annegati parlano ai vivi». È lincipit di uno dei tasselli de “La vita normale”. Potrebbe avere a che fare con lintero suo percorso artistico. Una sorta di richiamo, che viene dallabisso, e che tocca chi è su questa terra, avvertendolo che il destino nascosto nella normalità è sempre «prendere il mare e non tornare più in porto». Lo sente come filo conduttore dei suoi scritti?

«Sì, noi tutti prendiamo il largo, ci imbarchiamo, e non facciamo mai ritorno al porto da cui siamo salpati. Mi viene da citare un poeta francese che ammiro, Charles Pennequin: “Prima della notte del vivente c’è la notte del prima di vivere. La grande notte. E dopo, poi, c’è la grande notte del dopo. E a noi dicono di vivere proprio al centro”. Il che mi ricorda una frase di uno degli epitaffi di Spoon River: “Entrate nella stanza – ovverosia nascete;/ e poi dovete vivere – affaticarvi l’anima”. La letteratura fa eco alla letteratura. È una grande sfida mantenere il proprio posto di vivente quando la destinazione finale è opaca. Questo miscuglio di slancio vitale e incertezza non è forse il filo conduttore di tanti scrittori?».

da L’Altravoce il Quotidiano

Ci sono giornalisti televisivi che con le loro inchieste rendono onore a se stessi e al giornalismo. Mi riferisco a Riccardo Iacona con la sua trasmissione Presa Diretta e a Sigfrido Ranucci con Report, l’uno subentrato all’altro quasi come un passaggio di testimone. Domenica scorsa Iacona ci ha regalato un reportage straordinario dentro Gaza, raccontato, attraverso le immagini e le testimonianze raccolte durante la tregua e poi nella ripresa feroce dei bombardamenti, da due giovani palestinesi, Fatena, una fotografa di venticinque anni che vive a Gaza City nel nord della striscia e Hassan, giornalista che si trova a sud. Case distrutte, emergenza sanitaria, quotidianità stravolta dall’assenza di luce, cibo e acqua, la morte che colpisce donne e bambine/i, è questo l’orrore dell’occupazione e dei bombardamenti d’Israele che, come ha denunciato il segretario generale dell’Onu, António Guterres, «ha trasformato Gaza in un campo di sterminio. I civili si trovano in un circolo di morte senza fine. Bombardati senza sosta, nessun posto è al sicuro. Non hanno accesso agli aiuti umanitari. Dobbiamo liberare i palestinesi». Alle sue parole fa eco l’iniziativa “Marcia verso Gaza” lanciata in Francia per giugno, tramite un gruppo Telegram a cui stanno aderendo in migliaia da tutto il mondo. Una marcia per raggiungere a piedi il valico di Rafah, forzare l’apertura della frontiera per permettere l’ingresso degli aiuti umanitari e, se necessario, arrivare fino in Cisgiordania. Intanto Riccardo Iacona con il suo reportage è stato accusato di antisemitismo e di “parzialità” per aver intervistato Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. La diplomatica ha denunciato come dall’ottobre 2023 a Gaza accadano «crimini di guerra e contro l’umanità, in violazione delle regole di guerra, crimini diffusi e sistematici contro la popolazione in maniera intenzionale». Scuole, ospedali, università, rete fognaria ed elettrica, tutto raso al suolo. Uccisi 60.000 palestinesi di cui 18.000 bambine/i e «dieci volte tanto quelli feriti molti dei quali menomati a vita, 1500 famiglie sterminate, tra le quattro e le cinque generazioni cancellate dalla terra». Israele che ha uno degli eserciti più potenti al mondo e del Medio Oriente sta facendo quello che chiamiamo acriticamente guerra, contro la popolazione di Gaza. «Non c’entra molto Hamas e non c’entra la liberazione degli ostaggi come ormai i politici israeliani lo dicono liberamente […]. Israele sta commettendo atti genocidari, volti a distruggere, a infliggere sofferenze fisiche e psichiche con l’intento di distruggere i palestinesi in quanto tali. Ad ogni guerra Israele porta avanti la pulizia etnica di quello che resta della Palestina, distruggendo tutto e ammazzando quanti più palestinesi possibili. È successo nel ’48, è successo nel ’67 e succede anche oggi. L’ Occidente, incluso il nostro Paese, continua a trasferire armi a Israele […], quando in realtà l’obbligo di tutti, inclusa l’Italia, è quello di non riconoscere, né aiutare, né assistere un Paese che commette violazioni come quella che la Corte di giustizia delle Nazioni Unite ha riconosciuto essere un’occupazione illegale, finalizzata all’acquisizione di terra, sfollando o mantenendo il regime d’apartheid dei suoi abitanti». Vedere e ascoltare cosa sta succedendo a Gaza, dove ancora oggi i reporter stranieri non possono entrare e i giornalisti locali vengono uccisi a centinaia, non è antisemitismo. Fare capire cosa sta subendo il popolo palestinese dopo un anno e mezzo da quel tragico 7 ottobre, non è antisemitismo. Togliere il velo a ogni giustificazione allo sterminio del popolo palestinese, non è antisemitismo. Riccardo Iacona per il suo reportage dentro Gaza va ringraziato e ogni tentativo di intimidazione va respinto.

da il manifesto

Caro manifesto,

ho letto l’articolo di Lea Melandri Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre pubblicato il 24/04/2024 e vorrei condividere alcune osservazioni perché a mio parere contiene fraintendimenti, confusioni e accostamenti impropri. In primo luogo, c’è un equivoco sulla critica al dualismo sesso-genere. Lea Melandri lascia intendere che il femminismo della differenza sessuale utilizzi in modo rigido e tradizionale questa coppia di opposti, ma in realtà il pensiero della differenza ha espresso, fin dalle sue origini, una critica radicale al binarismo imposto dal patriarcato. Come scrive Chiara Zamboni, «la differenza sessuale non è un contenuto», non è un’essenza, ma un’apertura simbolica, uno squilibrio che ciascuno, ciascuna porta nell’ordine già dato che permette un guadagno di libertà per tutti.

C’è poi un fraintendimento dell’ordine simbolico della madre, che Melandri considera una valorizzazione della maternità come destino biologico inevitabile, il perpetuarsi di un ruolo imposto alle donne. In realtà rappresenta una discontinuità: il riconoscimento della genealogia femminile è stata la mossa politica che ha permesso di rompere con l’ordine patriarcale fondato sulla figura del padre come unico garante di autorità e senso. La creazione di un nuovo ordine simbolico allarga la prospettiva, è ben lontana dalla conservazione ed essenzializzazione del ruolo materno.

Inoltre, trovo difficile comprendere il riferimento alla presunta paura di alcune donne di «perdere potere» a causa della presenza di donne trans. La differenza non è essenzialismo biologico, è movimento simbolico e relazionale che coinvolge il corpo, la lingua, l’immaginario e il desiderio. Nel corpo vivente natura e cultura sono intrecciate sin dal principio: il corpo è immaginato, nominato, avvolto da desideri e significati a partire dalla relazione con la madre e con la lingua che ci forma. Il corpo è attraversato da linguaggio e desiderio e si trasforma nel tempo e nella relazione con gli altri: non è l’anatomia a definire l’essere donna, ma un percorso soggettivo, simbolico e politico, che si costruisce nella relazione con altre donne, con la lingua, con il mondo. È per questo che non capisco cosa sia un potere fondato sul sesso biologico: la differenza è un orizzonte simbolico in cui le donne possono esistere e parlare a partire da sé, dalla propria singolarità. Un orizzonte che può incontrare e dialogare con altre soggettività in cammino, anche trans, senza negare la forza e la necessità della differenza femminile come categoria simbolico-politica.

Infine, nel suo testo Lea Melandri lascia intendere che il richiamo alla differenza sessuale possa essere facilmente strumentalizzato da posizioni conservatrici, come quelle espresse dalla ministra Roccella, finendo così per essere assimilato a una difesa reazionaria della biologia e dei ruoli tradizionali.

Le posizioni conservatrici che vedono le persone trans come una minaccia all’identità femminile si fondano su una separazione rigida tra biologia e linguaggio, tra sesso e cultura. Il pensiero della differenza, al contrario, parte dalla porosità tra natura e cultura, essendo lontano tanto dalla naturalizzazione del corpo quanto dalla sua determinazione normativa. Accostare il pensiero della differenza a politiche che vogliono restringere diritti o congelare ruoli di genere significa fraintenderlo radicalmente, essendo il suo intento originario la trasformazione del simbolico per dar spazio al desiderio, alla soggettività, alla relazione, come elementi fondativi della vita e della politica. «Per noi essere donna non è riducibile a biologia naturale né identità linguistica», scrive Chiara Zamboni e questo significa che l’essere donna è un processo in divenire, una ricerca di senso in relazione con altre e altri, mai un confine da difendere con le armi della legge o del rigore normativo.

*Libreria delle donne di Milano

Intervista a Luca Cultrera

“[…] Mi piacerebbe organizzare a Caltagirone […] una manifestazione in cui a sfilare siano solo uomini: ragazzini, adolescenti, giovani, adulti, anziani. Nessuna bandiera politica, nessuna sigla. […] Solo uomini che in silenzio sfilino assumendosi la responsabilità della continua violenza perpetrata sulle donne, dal patriarcato infame ai femminicidi. […] invito […] chiunque voglia aderire, a scrivermi […] per capire insieme se e come realizzare questo evento”.

È partita così, con un post scritto il 2 aprile scorso dall’avvocato Luca Cultrera sulla sua pagina Facebook, l’iniziativa che sabato 19 ha portato in piazza centinaia di ragazzi e di uomini che hanno aderito alla sua proposta.

Un impulso, racconta al telefono l’avvocato Cultrera, «nato dalla profonda angoscia che ancora una volta ho provato dopo i femminicidi di Ilaria Sula a Roma e – ancor di più, per la sua vicinanza geografica e “di contesto” – di Sara Campanella a Messina, ma che viene da lontano: da molto tempo mi interrogo sulla violenza agita dagli uomini sulle donne. Come penalista me ne sono occupato sia dalla parte delle vittime che da quella dei carnefici. E anche “a partire da me” ho partecipato a molte manifestazioni, a eventi e dibattiti, trovando sempre vergognosa la scarsa presenza maschile: sempre donne che parlano ad altre donne, e gli uomini quasi del tutto assenti, come se questo fenomeno non ci riguardasse. Il senso di impotenza che ho provato per altri due brutali femminicidi mi ha spinto a fare qualcosa. Mi sono interrogato. Ho pensato alle volte in cui mi sono lasciato andare a battute meschine, sessiste, in cui il mio modo di pensare o di comportarmi ha potuto mettere a disagio una donna. Mi sono chiesto cosa possiamo fare noi uomini, cosa posso fare io, in prima persona. E ho sentito il desiderio di cercare altri uomini che vogliano mettere in moto insieme un percorso di presa di coscienza e di impegno per avviare un cambiamento culturale profondo e duraturo. Ma non mi aspettavo una reazione così positiva… Una condivisione così ampia e partecipata, che mi ha davvero sorpreso…».

Al suo messaggio, infatti, hanno da subito risposto in moltissimi: uomini che oltre a dare la loro adesione si sono messi a disposizione operativamente e hanno partecipato alla definizione dei contenuti e del “format” della manifestazione (come ad esempio Giovanni Canfailla, fotografo professionista che ha proposto una postazione dove chi voleva poteva farsi scattare una foto, per rappresentare concretamente il desiderio di “metterci la faccia”). Ma anche donne, che hanno appoggiato l’iniziativa e contribuito significativamente a diffonderla.

Una presenza e un contributo, quello femminile, a cui Luca Cultrera dà grande importanza: «Nel comitato organizzatore che abbiamo formato ho invitato una donna molto impegnata su questo tema, al cui pensiero e alla cui esperienza riconosco grande valore, perché ci restituisse il suo sguardo e il suo punto di vista sui contenuti e le modalità che andavamo elaborando fra uomini. Ed è stato, il suo, un contributo essenziale, che ci ha aiutato a mettere a fuoco meglio molte cose, oltre a consentirci di entrare in contatto con singole, gruppi e associazioni con cui lei è in rapporto. Dallo scambio con lei e altre è nata anche la frase che ha dato il nome all’iniziativa e al comitato che è stato costituito, #noncisonoscuse», e hanno preso forma le modalità con cui l’iniziativa si è svolta: «la manifestazione degli uomini, aperta da un telo bianco (perché troppe sono state le parole spese invano negli anni scorsi. È il tempo dell’azione, dei fatti concreti, dell’impegno), ha incontrato sul ponte di S. Francesco un corteo delle donne, alla cui testa c’era invece lo striscione con la scritta #noncisonoscuse: un momento ricco di significati simbolici, dalla scelta del luogo (perché per noi qui quello è proprio il ponte dell’incontro), all’immagine delle donne che da troppo si aspettano che gli uomini facciano i conti con il patriarcato e la violenza».

Insieme i due cortei hanno raggiunto Piazza del Municipio, «metafora del desiderio di un cammino comune, dopo il riconoscimento da parte dell’uomo che il percorso è lungo, che è rimasto indietro e che è sua, nostra responsabilità fare passi verso il cambiamento».

Lì dove ci sono stati diversi interventi ed è stato letto il “decalogo” elaborato dagli uomini: riconosco la fragilità e la sensibilità come qualità che rendono migliori gli esseri umani; esprimere le emozioni non è debolezza, ma forza; rispetto la libertà, l’autonomia e l’indipendenza di ogni donna: nessuno ha potere assoluto sull’altro; rimango fuori da ciò che non mi è concesso: il “no” di una donna non è una sfida da cogliere, ma un confine sacro e inviolabile; rifiuto l’uso della forza, della prepotenza e dell’aggressività come forme di interazione tra uomini e donne: non alzo la voce, non punto il dito, non mi impongo con la forza, non faccio commenti umilianti; non faccio battute sessiste e prendo le distanze da chi le fa; intervengo e denuncio qualsiasi forma di violenza contro le donne, anche se coinvolge qualcuno a me vicino: l’indifferenza è complicità; educo e mi educo: parlo apertamente di femminicidio e violenza di genere con figli, amici e colleghi; non cerco alibi: non ci sono scuse che giustifichino la violenza; non oserò mai fare a una donna ciò che non vorrei fosse fatto a mia figlia, a mia madre o alle persone a me più care; scelgo di non restare a guardare, agisco per il cambiamento: parteciperò alle manifestazioni #noncisonoscuse per onorare la memoria delle donne uccise finora».

Dopo il successo dell’iniziativa, «il sogno – l’ambizione», dice Luca Cultrera «è che da Caltagirone possa partire un’onda che si allarghi a macchia d’olio a tutto il nostro territorio – un Sud ancora molto segnato da una cultura patriarcale – e anche a livello nazionale».

Intanto il comitato ha deciso di proseguire nel suo percorso: i primi passi, «la richiesta che nelle scuole siano attivati spazi di educazione all’affettività, perché i bambini e i ragazzi, che siamo stati felici di vedere numerosi in corteo, imparino un’altra “grammatica delle relazioni” che li aiuti a uscire dal disagio che registriamo, dalla violenza che li circonda e che in troppi giovani agiscono; e l’apertura di centri d’ascolto per i maschi violenti, che qui sono del tutto assenti».

da Mag Verona

Testimoniare il male senza dimenticare il bene

Convegno Città Vicine

Circolo della rosa Libreria delle donne di Milano in Via Pietro Calvi 29

17-18 maggio 2025

Testimoniare il male senza dimenticare il bene (Maria Concetta Sala)

con un filo di pazzia… (Marguerite Duras)

Testimoniare il male delle 56 guerre nel mondo senza dimenticare il bene di chi lavora per capirne le ragioni e trovare soluzioni, di chi piange per l’assurdità di tanto dolore, di chi invita a “disarmare le parole, le menti, la Terra” (Papa Francesco), di chi vede nell’opera materna il mezzo per eliminarle dalla Storia.

Testimoniare il male di un’Europa bellicista, fortezza e vassalla neoliberista “dall’anima perduta e senza madre” (Stefania Tarantino) senza dimenticare il bene dell’Europa di Ventotene, di María Zambrano e di Simone Weil, delle “altre” istituzioni, sconosciute e da inventare, che guardino oltre “l’ingiustizia, la menzogna, la bassezza”, che facciano tesoro delle tante esperienze di comunità fondate principalmente sulle relazioni.

Testimoniare il male dell’urbanistica della solitudine e della sofferenza, umana e ambientale, quella delle panchine coi cilindri di acciaio e dei cancelli chiusi (Valeria Parrella), delle torri abusive e dello sterminio dei campi e degli alberi, senza dimenticare il bene del “senso delle donne per la città” (Elena Granata) fatto di relazioni, arte, cura, salute, creatività, pensiero per chi è più fragile.

Testimoniare il male delle politiche securitarie e delle zone rosse che vogliono imbrigliare le pratiche di libertà e il pensiero divergente senza dimenticare il bene di donne e di uomini che cercano nuove mediazioni necessarie che vogliono fare dialogare la politica delle donne con quella delle istituzioni. Testimoniare il male di donne al comando nei poteri forti che agiscono in soccorso e al fianco delle nuove fratrie patriarcali, incapaci di cogliere le potenzialità germinative di un nuovo ordine senza dimenticare il bene delle tante donne impegnate a costruire insieme la civiltà delle relazioni di differenza per essere due nel mondo.

Testimoniare il male di derive neutrali del linguaggio che annullano la differenza sessuale senza dimenticare il bene della potenza della lingua materna che abita le relazioni e i corpi, che sa dei bisogni e delle singolarità, che non conosce il collettivo neutro indifferenziato.
Testimoniare il male dei sussulti violenti del post-patriarcato, senza dimenticare il bene di un’interrogazione sulla crisi irrisolvibile delle democrazie occidentali e la ricerca di forme di amministrazione della cosa pubblica ispirate a un orientamento “post dicotomico dell’economia” (Ina Praetorius).

Testimoniare il male senza dimenticare il bene delle nostre pratiche,

per aprire a un futuro già radicato nel presente.

Sabato 17 maggio 2025 ore 16.30-19.30. Domenica 18 maggio ore 10.00-13.00.
La sera di sabato sarà possibile cenare al Circolo della rosa previa prenotazione a info@libreriadelledonne.it
Per informazioni rivolgersi a Anna Di Salvo: annadisalvo9@gmail.com +393332083308

da Biblioteca delle donne – UdiPalermo

È possibile una rivoluzione che dall’arte si estenda al mondo e sovverta il pensiero dominante.

È possibile una rivoluzione intellettuale che sfidi il paventato ritorno a tempi bui e riconosca “definitivamente” i diritti conquistati dalle donne con la parola e la ribellione non violenta.

Quelle conquiste oggi sono sotto assedio, a noi il compito di alimentarle.

Al di là delle piccole o grandi rivoluzioni che molte donne accendono nei propri ambiti territoriali: nel lavoro, in famiglia, nella società, sento possibile un coro unanime di voci che si alzi dall’infamia per risalire le vette inesplorate della nobiltà dei cuori, della sensibilità dell’anima, dell’humanitas e della pietas.

Ma le voci sembrano silenziose, inghiottite da una costante, progressiva eclisse. Ecco perché – qui e ora – desidero ricordare un’artista che ha reso la “voce” e la musica veicolo per assurgere ai valori simbolici delle grandi rivoluzioni.

Il campo dell’arte ha la vastità degli oceani; ne ritaglio un rivolo per rendere onore a quella voce e al respiro musicale che raggiunge le sommità della poesia e agita la terra, come l’aratro quando libera le zolle incatenate tra loro.

In una società come quella americana che negava agli/alle afroamericani/e la dignità e l’uguaglianza, le grandi cantanti blues come Nina Simone, Bessie Smith, Billie Holiday e altre davano visibilità all’intima e personale esperienza “blues” della propria vita e di quella della comunità nera; quelle artiste divennero simbolo di lotta e contribuirono in modo dirompente ad indicare un lento e difficile processo di emancipazione.

Sento prepotente il desiderio di ricordare Billie Holiday (nata a Philadelphia il 7 aprile 1915) non solo perché è una delle voci più grandi di sempre del panorama jazz e blues, ma anche perché è stata la prima a esporsi contro le crudeli forme di violenza verso il popolo nero. Nessuno/a più di lei conosceva la sofferenza. A soli dieci anni fu violentata e, giudicata corrotta, rinchiusa in un riformatorio. Da lì fu facile diventare prostituta e poi, per caso e per fortuna, essere assunta come cantante in un locale di Harlem.

Nel 1939 il cinema celebrava una pacifica coesistenza tra bianchi e neri con il film Via col Vento, ma la verità era un’altra. Le tragedie del razzismo, causate in gran parte dal Ku Klux Klan, vengono portate in musica da una canzone dal testo crudo e straziante cantato dalla voce sofferta di Billie. Nessuna casa discografica, all’inizio, accetta di pubblicare il brano. La cantante, però, crede nel potere di quelle parole e continua a cantarlo.

Strange fruit parla dei/delle neri/e linciati/e, penzolanti come “strani frutti” dagli alberi. Il testo ruota intorno alla metafora della gente nera impiccata. La canzone venne successivamente definita come “la prima significativa protesta in parole e musica, il primo lamento non tacito contro il razzismo”.

La diffusione di Strange Fruit è importante non solo perché segna una svolta fondamentale contro il razzismo imperante, ma anche perché riesce a connettere elementi di protesta e di resistenza, al centro della cultura musicale del popolo nero, con un processo di legittima riappropriazione delle origini africane.

A New York lo spettacolo sta per terminare. Nel silenzio assoluto Billie canta Strange Fruit. La canzone vola fino ai piedi degli alberi del sud, quelli insanguinati sui tronchi, sulle foglie, sui rami fino alle radici. Lady Day, così era chiamata Billie, con la gardenia bianca tra i capelli, canta davanti al suo pubblico che applaude incantato. Ancora non sa che per troppe volte le impediranno di cantare e di incidere quella canzone.

Non è per caso che proprio un uomo, lo scrittore Stefano Benni, abbia scritto di lei:

E quando tornerete a casa dite
Ho sentito cantare un angelo
Con le ali di marmo e raso
Puzzava di whisky era negra puttana e malata
Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate
Sono la regina di un reame di stracci
Sono la voce del sole sui campi di cotone
Sono la voce nera piena di luce
Sono la lady che canta il blues
Ah, dimenticavo … e mi chiamo Billie.

da La Stampa

Non riusciamo a notarlo perché lo abbiamo (sempre) aperto davanti agli occhi.

Wittgenstein

In questi giorni, in Francia, si discute di una miniserie che tratta di violenza contro le donne: Da rockstar ad assassino – Il caso Cantat. Non ha le ambizioni estetiche di Adolescence, ma merita di essere guardata: ripercorrendo con la sensibilità di oggi un caso di cronaca di venti anni fa è un’esemplare esperienza di straniamento storico.

L’attrice francese Marie Trintignant fu uccisa nell’estate del 2003, in un albergo di Vilnius, dal compagno Bertrand Cantat. Il carismatico cantante del gruppo rock Noir Désir la massacrò di botte nel corso di una lite dovuta a gelosia, lasciandola in coma per ore prima di chiamare i soccorsi. Processato in Lituania, Cantat fu condannato a otto anni di carcere per omicidio preterintenzionale, ma ne scontò solo quattro. L’epilogo della storia comprende il suicidio della moglie, Krisztina Rády, la cui testimonianza era stata decisiva per dimostrare la tesi dell’incidente: la ricostruzione lascia intendere che anche lei sia stata vittima di abusi prima e dopo la morte di Marie. Cantat, cui non è mai mancato il sostegno dei fan, ha poi cercato di rilanciare la sua carriera musicale, ma il suo ritorno in scena si è scontrato con l’ostilità dell’opinione pubblica maturata in seguito al movimento MeToo.

La serie è sensazionalistica e un po’ superficiale; affronta la vicenda da troppi punti di vista, interrogandosi, oltre che sulla violenza di genere, sull’omertà dell’industria discografica e sul rapporto tra arte e morale. Il suo interesse risiede nel materiale documentario, in particolare quello relativo al dibattito mediatico sul crimine che oggi sarebbe definito “femminicidio” ma che all’epoca fu commentato come “delitto passionale”. Non solo chi difendeva Cantat, ma anche opinionisti neutrali empatizzavano con l’assassino, rilasciando dichiarazioni che oggi suonano allucinanti. Che grande storia d’amore finita male: più che un crimine, un dramma! Marie se l’era cercata: castrante, isterica, poteva “uccidere con le parole”. Bertrand l’amava troppo. Come non sospettare di infedeltà una donna che ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi? (Questa è di un collaboratore degli Inrockuptibles, rivista culturale della sinistra alternativa, per nulla turbato invece dal fatto che Cantat avesse abbandonato sua moglie a poche ore dal parto). A ripetere tali assurdità erano spesso persone in buona fede – come una giornalista intervistata che ammette di faticare a riconoscersi nelle opinioni di allora, e non si dà pace all’idea di essere stata complice di un simile accecamento collettivo.

La cecità della giornalista è stata anche la mia, la nostra. Ne soffre chiunque sia immerso in un ordine simbolico, nell’ideologia di un sistema sociale. Chi ci vive dentro non può vederla, la considera trasparente, come un pesce non fa caso all’acqua in cui nuota. Chi osserva l’acquario da fuori perché appartiene a un altro sistema di valori, come un visitatore straniero o come la spettatrice del 2025, viene colto dalla vergogna e dall’orrore: come era possibile, solo due decenni fa, e nella civilissima Francia, parlare di una donna uccisa a pugni e calci come se fossimo nella Sicilia dei film di Germi?

La visione della serie suscita altre domande. Come avvengono le mutazioni ideologiche? Come si passa da un regime percettivo e valutativo fondato su costumi patriarcali alla critica che li mette in causa? Una risposta approfondita meriterebbe un libro, ma suppongo che le svolte avvengano per l’azione congiunta di piccole trasformazioni progressive – le gocce che scavano la roccia – e di cambi di paradigma comparabili a rivoluzioni. Su un piano agiscono le rivendicazioni dei movimenti e dei partiti politici, le modifiche del diritto, l’educazione familiare e scolastica, la diffusione e l’imitazione di nuovi costumi. Sull’altro, gli eventi improvvisi e irreversibili che squarciano il cielo di carta: qualcuno grida per la prima volta “Il re è nudo!”, e nulla sembra più come prima. Da questo punto di vista, trovo condivisibili le conclusioni suggerite dalla miniserie: l’equivalente della presa della Bastiglia per la rottura dell’illusione patriarcale è stato probabilmente il MeToo.

Un’altra questione, di ordine diverso, riguarda la situazione italiana. Il confronto con lo stato del discorso pubblico in Francia è deprimente. Dopo una stagione dominata dalle rivelazioni sui casi di incesto e allo stupro collettivo di Gisèle Pelicot, sono usciti i risultati della commissione parlamentare sulle violenze sessiste e sessuali nel mondo dello spettacolo; le inchieste ora coinvolgono la scuola e la chiesa, e si parla del fenomeno – boccaccesco ma sintomatico, anche perché molto esteso – del voyeurismo nelle piscine pubbliche (filmare sotto le gonne è un reato in Francia). La stessa vitalità nel mondo intellettuale: per citare solo qualche lettura recente, la filosofa Manon Garcia ha appena pubblicato il pamphlet femminista Vivere con gli uomini; la sociologa del diritto Irène Théry ha descritto, nel notevole Moi aussi (Anch’io),l’intreccio tra la storia della giurisprudenza sessuale e la sua esperienza biografica di bambina molestata a otto anni. Leggendo i giornali francesi ci si sente parte della riflessione collettiva su un sistema ormai percepito come intollerabile – un dibattito controverso, non immune da ingiustizie ed eccessi (quale rivoluzione ideologica non ne comporta?). Ma che costringe l’opinione pubblica a confrontarsi con i presupposti inaccettabili della nostra forma di esistenza e a immaginare delle vie d’uscita.

Passando le Alpi, si ritorna nell’acquario. Malgrado lo choc per Giulia Cecchettin ci abbia fatto credere che qualcosa si fosse definitivamente smosso, il copione continua a ripetersi identico: Ilaria Sula, Sara Campanella. Allo sgomento collettivo dopo i casi di cronaca seguono analisi impressionistiche o solo psicologiche, mentre servirebbe un approccio sistemico, cioè globale, in cui collaborino tutte le scienze umane e sociali. Mancano soluzioni concrete, proposte politiche che vadano oltre il richiamo generico all’importanza dell’educazione affettiva; e non mi sembra che una delle poche iniziative meritevoli, la commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere, abbia avuto la giusta eco mediatica. Molti storcono il naso persino davanti alla parola femminicidio. Viene da chiedersi se una delle possibili cause di questa incoscienza non sia il diniego del MeToo, inteso non come delazione selvaggia, ma come liberazione pubblica della parola, indispensabile tanto per rompere l’incantesimo quanto per inaugurare la ricostruzione simbolica, quella che Théry chiama la «nuova civiltà sessuale». Il discorso dominante nel nostro paese – che, d’altra parte, non ha mai fatto vere rivoluzioni – sembra considerarlo una minaccia felicemente scongiurata, una caccia alle streghe puritana che non avrebbe ragione di essere da questa parte dell’oceano. Per non parlare di chi, nemmeno troppo celatamente, attribuisce al movimento la colpa suprema dell’elezione di Trump.

Qualunque sia la ragione dell’apnea italiana, rivedere i filmati del processo Cantat offre una spinta per provare a tirare la testa fuori dall’acqua.

Barbara Carnevali, EHESS

da Internazionale

Dieci anni fa Beeban Kidron ha incontrato quella che lei chiama “Gola profonda”, una dirigente di un’azienda tecnologica. «Tutti nella Silicon Valley sanno che stiamo facendo del male ai ragazzi di oggi», spiegava la dirigente. «Sanno che la gente prima o poi ne chiederà conto, ma al momento c’è da guadagnarci su. Nella Silicon Valley se ne parla sempre, la definiscono la “generazione perduta”».

Questa conversazione ha convinto Kidron a impegnarsi ancora di più per contrastare le aziende tecnologiche. «Ero arrabbiata. E tutte le volte che mi sento stanca penso: “Generazione perduta?”». Con uno sguardo intenso dietro le lenti degli occhiali rotondi tartarugati, Kidron scandisce ogni parola: «Dovranno. Passare. Sul. Mio. Cadavere». Questa convinzione ha spinto la donna, sessantatré anni, a condurre una battaglia per garantire maggiori tutele ai bambini su siti internet, app e servizi di messaggistica, e più di recente per difendere l’industria creativa dagli abusi dell’intelligenza artificiale.

C’incontriamo dopo che l’uscita della serie tv Adolescence su Netflix ha aumentato la preoccupazione per gli adolescenti e la cultura tossica online e ha messo in discussione l’efficacia delle leggi britanniche sulla sicurezza online. Grazie al suo lavoro, Kidron ha incontrato molti genitori preoccupati e ha assistito a «molta violenza, abusi sessuali su minori, cose orribili».

Le chiedo se ha mai avuto la tentazione di tornare alla sua carriera passata di regista di documentari e film di successo (tra cui Che pasticcio, Bridget Jones!). Scuote la testa. «Fare politica è creativo tanto quanto fare film». Rendersi conto del “potere smodato nelle mani delle aziende tecnologiche” – come quello di Mark Zuckerberg di Meta, Sundar Pichai di Google ed Elon Musk di X, presenti a gennaio alla cerimonia d’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti – non ha fatto altro che rafforzare la sua determinazione: «A che serve svegliarsi al mattino se non si prova a fare qualcosa che valga la pena fare?».

Kidron sprizza energia quando mi raggiunge a un tavolo con sedili in pelle verde nel suo “posto felice”: il ristorante mediterraneo Toklas. Situato nei pressi dello Strand, grande arteria nel centro di Londra, è di passaggio nel tragitto tra la sua casa a Islington e la camera dei lord, dove ha un seggio da deputata indipendente. Decidiamo di evitare le portate principali e ordinare tutti gli antipasti. Cominciamo ad assaggiare pezzi di pane a lievitazione naturale mentre parliamo della sua decisione di cambiare lavoro una decina d’anni fa, una scelta che lei definisce “frutto del caso”.

Incuriosita dall’impatto degli smartphone sugli adolescenti, nel 2013 ha raccontato nel documentario In Realife aspetti come il consumo di pornografia, gli stati d’ansia e il ciberbullismo. Un esperto di tecnologia le aveva fatto notare che su internet tutti gli utenti sono considerati uguali e lei aveva capito che seguendo questa logica i bambini sono trattati come adulti. «Ho cercato di parlarne con i politici. Ho discusso con alcune persone nelle aziende tecnologiche e con associazioni che si occupano di minori. La cosa non interessava a nessuno. Pensavano solo che fossi una donna di mezza età che non capiva la moda del momento».

Un misticismo da sfatare

Kidron si affanna a precisare che non sta pensando di tornare ai giocattoli di legno, lo dice più e più volte: «Non ho paura della tecnologia. La adoro». Ma vuole sfatare il misticismo che la circonda, rimetterla al suo posto: «È uno strumento». La preoccupazione per i bambini nel 2012 l’ha portata a creare un’organizzazione non profit, la 5Rights. Nello stesso anno è stata nominata baronessa ed è entrata alla camera dei lord.

Aver fatto la regista l’ha preparata sorprendentemente bene alla politica: in entrambi i casi serve testardaggine. «Ho fatto film in un’epoca in cui praticamente non c’erano registe», osserva. Ci sono altre somiglianze tra i due ambiti. Le persone pensano che il cinema sia magico, ma secondo lei «serve a creare una visione collettiva. Si tratta di parlare al portafoglio e alla mente di uno studio cinematografico, a una star del cinema pagata milioni, ma anche di farti seguire da chi manovra la macchina da presa. E significa creare qualcosa dal nulla per un pubblico che puoi solo immaginare».

Kidron è orgogliosa di aver fatto alzare l’età della maturità online da 13 a 18 anni con il suo emendamento al Data protection act, la legge britannica sulla protezione dei dati. L’emendamento, tra le altre cose, chiedeva alle aziende tecnologiche d’impostare in modo predefinito la modalità privata e di disattivare i servizi di geolocalizzazione per gli account dei minorenni; ha costretto YouTube a disattivare la riproduzione in automatico nei canali per bambini e ha obbligato TikTok a disattivare le notifiche push per gli utenti tra i 13 e i 17 anni. Cosa ancora più significativa, ha dimostrato che «si può modificare la progettazione di un sito o un’app per ragioni sociali». Alcuni di questi provvedimenti sono stati adottati in tutto il mondo.

Questo dimostra che i governi possono fare delle richieste alle aziende, spiega. Kidron non vuole passare il pranzo «a difendere la camera dei lord perché ci sono tante cose indifendibili». Ma dal suo punto di vista è stata collaborativa, mettendo a disposizione competenze in ambito scientifico, educativo, legale e sanitario. Il supporto dell’aula è stato fondamentale quando ha avuto contatti con aziende e ministri della cultura. I provvedimenti contenuti nella legge sulla sicurezza online del 2023 sono stati introdotti in fasi successive. Alcuni sono entrati in vigore a marzo e obbligano le aziende a adeguarsi alle normative, oscurando per esempio i profili dei minorenni agli estranei, pena multe fino a 18 milioni di sterline (21 milioni di euro) o fino al 10 per cento dei ricavi globali. Provvedimenti ulteriori entreranno in vigore nei prossimi mesi.

Cosa ne pensa? «Non sono contenta. Il governo precedente, quello conservatore, ha sbagliato a non adottare un approccio basato sull’obbligo di tutela. Diversi funzionari, la camera dei comuni e l’autorità garante per le comunicazioni hanno indebolito la legge. Hanno pensato che dovevano equilibrare gli interessi delle aziende tecnologiche e quelli di chi usa i loro prodotti. Ma dov’è l’equilibrio tra un adolescente e una piattaforma che spende miliardi di dollari per mantenere alta la sua attenzione?». Siamo, sostiene la deputata, nell’«epoca della negazione», un periodo in cui potere e profitto sono sempre più concentrati nelle mani di una manciata di aziende statunitensi «che non vivono nelle nostre comunità e non ne hanno a cuore le sorti».

Lontano dai troll

Una delle sue più grandi frustrazioni riguarda il fatto che i servizi online dicono di avere difficoltà a verificare l’età degli utenti. Se le big tech pensano di poter andare su Marte, perché non riesce a risolvere un problema semplice come questo?

Si tiene alla larga dai social media per paura di essere attaccata dai troll, anche se questo non l’ha messa al riparo da minacce, che ha denunciato alla polizia.

Quando ha cominciato a fare campagna per i diritti dei minori in rete si sentiva isolata, ma ora le cose sono cambiate, dopo che ex dipendenti delle aziende tecnologiche come Frances Haugen della Meta hanno svelato alcuni segreti del settore. Purtroppo alcune famiglie sono state distrutte da queste dinamiche. Quando le ricordo che ha lavorato con genitori che portano su di sé il peso di un dolore inimmaginabile, m’interrompe: «Purtroppo è del tutto immaginabile». Le campagne del 5Rights per un mondo digitale sicuro per i minori sono state “generose e commoventi”, racconta, e hanno garantito ai medici legali di avere accesso alle informazioni in possesso delle aziende tecnologiche dopo la morte di un’adolescente. Gli sforzi di Ian Russell, il padre della quattordicenne Molly che si è suicidata nel 2017 dopo essere stata esposta sui social network a contenuti che rappresentavano atti di autolesionismo, ha aumentato la pressione sul governo britannico. «Mi sono trovata a cena con alcune di queste famiglie e, mentre mi guardavo attorno, mi rendevo conto di essere l’unica persona a quel tavolo che aveva ancora tutti i suoi figli. È stato difficile».

Il settore tecnologico ha un potere enorme, dice, e le sue tattiche possono essere insidiose. «Se pensi come si comportavano le lobby a favore del tabacco o delle armi, capisci che agiscono nello stesso modo. Non ti attaccano direttamente, ma cercano di seminare dei dubbi. Finanziano ricerche che gli fanno comodo. Hanno delle relazioni poco sane con il governo». La cameriera arriva con un’altra tornata di antipasti, fette di orata, piccoli pezzi di razza fritta e pomodori. «È un pasto completo», dice Kidron, mentre scrive un messaggio al marito, Lee Hall, autore per il teatro e il cinema, tra le altre cose sceneggiatore del film Billy Elliot, per dire che più tardi non cenerà.

Un progetto tossico

Dare la colpa alle grandi aziende tecnologiche non assolve forse i genitori dalle loro responsabilità? Questa argomentazione è tratta parola per parola dal manuale della Silicon Valley, risponde Kidron. «È come se dicessero “Adesso creiamo un progetto tossico, lo mettiamo in mano ai bambini e poi diciamo a te di controllarlo”. Non è colpa dei genitori». Il rischio è permettere che a fare da mamma e da papà ai nostri figli «siano Elon Musk e Mark Zuckerberg», aggiunge.

Kidron non chiede di vietare l’uso degli smartphone ma di mettere dei vincoli alle aziende. «La cosa su cui pubblichi i compiti, con cui chiami tua madre, che contiene l’abbonamento dell’autobus, la carta di credito, la tua macchina fotografica, che insomma racchiude ogni aspetto della tua vita, è progettata per creare dipendenza. Perché stiamo permettendo una cosa simile?».

«Non abbiate paura di fare i genitori», aggiunge Kidran. A casa ha imposto una regola ai suoi figli: niente bibite gassate. L’organizzazione Smartphone Free Childhood ha creato un movimento globale per convincere i genitori a ritardare il momento in cui danno un telefono ai figli. La settimana in cui ci siamo incontrati, la serie tv di Netflix Adolescence, che racconta la storia di un ragazzo di tredici anni accusato di aver ucciso una compagna di scuola, aveva sollevato in tutto il mondo un dibattito sulla “maschiosfera”. Jack Thorne, uno dei creatori della serie, è intervenuto pubblicamente per chiedere un’azione radicale nei confronti della tecnologia. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato alla camera dei comuni: «È importante che tutta l’aula affronti questo problema».

Kidron ha guardato la serie? «È fantastica», dice, scegliendo le parole con attenzione, perché è anche frustrata: «Che fallimento per il governo in carica e per tutti gli altri. Perché dobbiamo aspettare che siano le serie tv a dirci le cose?». C’è un doppio paradosso, sostiene: dato che le notizie sono consumate individualmente e in modo frammentato a causa della pervasività della tecnologia, la “visione collettiva” è diventata rara.

Le faccio notare che c’è il rischio di essere troppo catastrofisti riguardo agli adolescenti. Alcuni ragazzi sono interessati a misogini come Andrew Tate, è vero, ma sono più consapevoli delle politiche di genere rispetto al passato. Kidron è in parte d’accordo, ma sottolinea i rischi presenti su internet. Pochi mesi fa è stata contattata da un avvocato alle prese con i casi di ragazzi che non sapevano che strangolare una ragazza non era una cosa ammissibile. «Sono vittime anche loro, proprio come le ragazze».

Il passato da fotografa e regista mette Kidron in un’ottima posizione per difendere le industrie culturali britanniche. Sostiene con forza la loro scelta di difendere il diritto d’autore, in un’epoca in cui le aziende d’intelligenza artificiale ne saccheggiano i contenuti. Sottolinea ancora una volta di non essere contraria alla tecnologia. «L’IA mi interessa. Sarà una parte rilevante del nostro futuro». Ma non crede che i protagonisti del settore debbano maltrattare l’industria della creatività.

Sarebbe facile mettere in relazione l’impegno politico di Kidron con quello che le è successo quando andava a scuola: per alcuni mesi non aveva potuto parlare a causa di un problema alle corde vocali ed era stata costretta a scrivere su un taccuino per poter comunicare con gli altri. Si è sentita privata di un diritto? «E quale ragazza non avrebbe avuto questa sensazione?», risponde. Non solo doveva stare in silenzio, ma era costretta a osservare. «Ho capito cos’è il potere, chi viene ascoltato e chi no. Se stai zitta e osservi, vedi tutte le macchinazioni».

Suo padre, Michael Kidron, era un economista ed è stato tra i fondatori del partito di estrema sinistra Socialist workers party e lavorava con sua madre Nina alla casa editrice di sinistra Pluto Press. E le hanno insegnato che, ancor più della politica, è importante l’idealismo.

Divertente, veloce, birichina

Nei mesi in cui è stata in silenzio Kidron ha sviluppato un interesse per la fotografia. In seguito ha lavorato nel negozio Photographer’s Gallery di Londra, dove ha conosciuto la fotoreporter statunitense Eve Arnold. A sedici anni ha cominciato a farle da assistente. È ancora palpabile l’affetto che Kidron prova nei confronti della sua mentore «molto divertente, veloce, intelligente, birichina», che le ha insegnato che «il lavoro non finisce finché non è finito». Ancora oggi Kidron segue i consigli di Arnold quando fa le valigie e ci mette dentro scarpe per andare a correre e un completo elegante. È stata Arnold a suggerirle di darsi alla televisione e al cinema. Amava girare film: gli attori, le dimensioni e gli odori, le mattine presto sul set.

Riflettendo sul suo impegno politico dice: «Ogni tanto penso a questa parte della mia vita, al numero di persone che mi hanno scritto per dirmi: “Mi hai dato speranza”, o “Mi hai dato fiducia”». Un esempio su tutti è quello di un ragazzo canadese che l’ha ringraziata per essersi battuta contro le notifiche notturne di TikTok e le ha detto: «Mi sono laureato grazie a te». Le si spezza un po’ la voce. «Ho pensato solo: wow».

Guarda l’orologio e si rende conto di essere mezz’ora in ritardo per il suo appuntamento successivo, proprio mentre arriva la cameriera con i nostri avanzi. La imploro di prenderli e lei afferra il sacchetto di carta marrone. «Magari altri avranno una vita più facile grazie alle campagne che conduco», dice. «O forse avranno successo dove io ho fallito, o mi supereranno e mi guideranno. C’è sempre qualcun altro».

da il manifesto

La verità – questo vincolo donato dai fatti alla libertà dell’opinare, e insieme quest’ultima barriera all’arbitrio del potere sul pensiero –, dunque la verità nella sua relazione con la libertà umana, l’autonomia personale e la democrazia: questo è il tema profondo e il filo non invisibile dei cinque scritti qui raccolti (Fascismo e democrazia, traduzione di Elena Cantoni, in libreria dal 24 di aprile per le edizioni Fuoriscena, pp. 96, euro 12, ndr). Furono pubblicati fra il 1940 e il 1945 da George Orwell, nom de plume di Eric Blair, nato nel 1903 a Motihari, nell’India britannica, e morto a Londra nel 1950. Sono interventi scritti quando l’autore aveva fra i trentasette e i quarantadue anni, dopo che aveva attraversato con il corpo e con l’anima l’Oriente colonizzato e l’Occidente sconvolto da totalitarismi e guerre.

Uno sguardo a volo sulla vita di Orwell ci aiuterà a mettere meglio a fuoco questa chiave di lettura. Transfuga del college di Eton, dove aveva appreso la lingua e la letteratura francesi da Aldous Huxley, a diciannove anni fu spedito nell’estremo avamposto orientale dell’Impero britannico, in Birmania, per divenirvi ufficiale della polizia imperiale, ma già a venticinque anni lasciò la carriera di funzionario coloniale per farsi esploratore e partecipe della miseria degli ultimi nelle metropoli europee, raccoglitore di luppolo nelle campagne del Kent, girovago e barbone per conoscere la vita delle prigioni britanniche. Ferito quasi a morte fra i combattenti del Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista) nella Guerra civile spagnola del ’36, e sfuggito miracolosamente all’eccidio staliniano degli antistalinisti che concluse tragicamente la sconfitta della rivoluzione spagnola, quest’uomo sembra un discendente di Erodoto, con un’anima francescana e uno spirito critico sulfureo, ignaro di orizzonti celesti, una sorta di viandante cherubico intriso di humour britannico. Scrittore e pensatore fra i più lucidi dell’intero Novecento, capace di sopravvivere ai mestieri più umili della campagna e alle redazioni dei quotidiani metropolitani, voce che si levava inconfondibile e identica dalle pagine di prestigiose riviste accademiche, dai microfoni della Bbc, dalle colonne dell’Observer, di cui fu corrispondente di guerra, Orwell bruciò la sua breve vita come divorato da una passione di conoscenza esatta ed empirica delle leggi dell’anima nel suo rapporto con le società e le loro istituzioni: tradizionali, coloniali, liberali, democratiche, totalitarie. A proposito di verità, o della sua ricerca.

Gli scritti raccolti in questo libro furono pubblicati appena prima che il loro autore raggiungesse finalmente il successo mondiale con La fattoria degli animali (1945), la novella satirico-swiftiana che nel suo fiabesco humour inscena, con il nitore e la levità di un teatrino di marionette, l’involuzione di una società dell’eguaglianza verso una società totalitaria. Che avviene precisamente attraverso l’accettazione collettiva, più o meno impotente, più o meno corriva, di una manipolazione graduale e sistematica della verità da parte di pochi; la quale presto si fa manipolazione del linguaggio e della sua anima logica, fino al celeberrimo «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri», unico e nuovo comandamento rimasto al posto dei sette a cui si era ispirata la gloriosa rivoluzione degli animali di Manor Farm.

La manipolazione del linguaggio: passaggio obbligato perché si costituisca quel «rapporto obliquo con la verità» in cui si di sfa ogni vincolo di ragione e ogni limite all’arbitrio del potere, come si disfa ogni vincolo etico quando si dissolvono quelli logici. Nessuno più di Orwell ci aiuta a esplorare il senso della celebre frase di Musil: «Ciò che chiamiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, e tuttavia nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità». Ed ecco, troneggiante sulle nostre città, la luccicante piramide bianca del ministero della Verità, con iscritti i Principi del bipensiero (doublethink): La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza.

Di lì a poco, nel 1949, uscirà 1984, il capolavoro che crea una nuova categoria dello spirito, o piuttosto dà nome a una nuova qualità del demoniaco: «orwelliano»; dove lo humour satirico della Fattoria degli animali vira al tragico e lo studio della decostruzione dell’identità personale attraverso la rinuncia alla distinzione fra il vero e il falso raggiunge livelli di profondità – e di attualità – da mozzare il fiato.

La verità nella sua relazione con la politica e con l’esercizio del potere, con l’etica e con il coraggio di pensare con la propria testa, addirittura con la costruzione della propria identità, con il pensiero critico e la democrazia, non costituisce certo un tema nuovo. Non dovrebbe stupire che un tema simile sopravviva al secolo passato, non sbiadisca in seguito al crollo dei totalitarismi novecenteschi e ridiventi tanto attuale in questo, se già lo era ai tempi di Socrate, che per primo lo portò alla luce del pensiero. Forse non è solo il filo rosso della meditazione saggistica e narrativa di Orwell, forse è il filo stesso della filosofia, ogni volta che si sfila dalla sofistica. Non aveva torto Simone Weil quando consigliava di scrivere di cose eterne per essere attuali. Ma ora dobbiamo vederle più da vicino, le due cose: il filo del pensiero di Orwell sulla verità, da un lato, e l’attualità di questo pensiero per noi dall’altro. Cominciamo dalla seconda. Proprio là dove sono stati istituiti, in «Oceania», la «libera ricerca della verità oggettiva e (il) libero scambio delle idee e delle cognizioni», che compongono il diritto umano fondamentale cui è dedicata la carta dell’Unesco, sono oggi di nuovo a rischio.

La ragione di questo pericolo più che incombente non è difficile da scoprire: quando la politica uccide la sua stessa ragion d’essere, che è quella di risolvere i conflitti senza guerra, essa diventa letteralmente una continuazione della guerra con altri mezzi. E la guerra è da sempre la più grande nemica della verità anche nello spazio pubblico delle democrazie, che è certamente lo spazio del confronto delle idee e delle ragioni, ma anche – e in modo più basilare – dell’informazione sui fatti. Anzi: sui fatti e sulle norme, per esempio quelle del diritto internazionale vigente, appunto. Anche se «nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra», secondo una pagina famosa di Hannah Arendt, questi rapporti cessano del tutto quando la politica si rovescia, suicidandosi, nella guerra. Oggi sull’arena internazionale tutte le potenze dominanti investono soltanto nella legge del più forte, calpestando e irridendo il diritto; ma per farlo su così vasta scala anche in «Oceania» occorre prima rimuovere la verità dei fatti dallo spazio dell’opinione pubblica. Peggio: non rimuoverla sempre, ma ora sì e ora no, secondo convenienza. È la bomba logica dei doppi standard, per cui se invadi, uccidi e deporti sei un criminale di guerra ed è giusto che ne sopporti le conseguenze anche giudiziarie, nel caso tu sia – poniamo – l’autocrate russo; ma se per caso sei il premier israeliano stai solo difendendo il diritto di Israele a esistere. «La cosiddetta oggettività» la stessa Arendt l’aveva definita, a mio parere del tutto infondatamente, «questa curiosa passione, sconosciuta al di fuori della civiltà occidentale».

Ma il fenomeno oggi più pervasivo – e insieme il più ignorato – è che la distruzione dell’oggettività sia più insidiosamente praticata, nei media e sulla stampa più influente, anche in «Oceania», dove, almeno per i media di grande tradizione democratica, non si può contare sul metodo «Pravda», che ha il suo antidoto (non credere a una sola parola). Ciò a cui assistiamo è invece che il verificabile, l’inverificabile, le omissioni, i doppi standard e l’attribuzione al destino delle più sciagurate pulsioni (l’illusione della pace è finita, la guerra è un male necessario) sono equamente distribuiti. Certo, tutto questo non accade per la prima volta. E ben lo sapeva Orwell, che nell’ultimo degli interventi qui raccolti ricorda il cumulo di menzogne che abitavano la stampa di entrambe le parti durante la Guerra civile spagnola nel ’36, e ricorda anche con quale sconcerto aveva «visto i giornali londinesi ripetere le stesse bugie, intellettuali volonterosi costruire intere sovrastrutture emotive su eventi che non avevano mai avuto luogo».

La notizia della morte di Papa Francesco mi ha raggiunta mentre ero immersa nella mostra De Bello a Bergamo, un’esposizione che riflette sulle rappresentazioni della guerra nell’arte contemporanea. In quel momento lo spazio attorno a me si è ristretto, saturato dalla presenza della morte: quella evocata dalle opere e quella reale, annunciata dalla notizia. Sembrava non ci fossero alternative, tutto convergeva su un’unica, dolorosa realtà.​
Papa Francesco è stato una figura che ha incarnato la difesa dei deboli e la promozione della pace. Ha denunciato le ingiustizie sociali e si è opposto alla guerra, definendola un inganno e un crimine contro l’umanità. Ha sempre cercato di costruire ponti e ha lottato per dare voce agli invisibili, ai migranti, ai poveri.
La sua scomparsa ha riaperto in me ricordi della mia giovinezza e della mia educazione cattolica. Per me, l’essenza del cristianesimo risiede nella compassione, nella giustizia sociale, nella solidarietà con gli ultimi. Valori che ho ritrovato anche in una parte della sinistra e che continuano a definire chi sono oggi. Anche se mi sono allontanata dalla religione, questi principi restano vivi in me, senza contraddizione con il mio essere femminista. Sono io, intera.​
Le cose finiscono, è vero. Ma non dobbiamo pensare che tutto sia perduto. Il femminismo mi ha insegnato che la vita è fatta di continue trasformazioni, di passaggi, di nuove forme che prendono corpo dal desiderio di cambiamento e anche dall’impegno per la giustizia. E io voglio continuare a credere nella possibilità di un mondo più giusto e umano.

Recentemente ho scritto per la rivista Duoda del Máster in Política de las Mujeres dell’Università di Barcellona un testo su che cosa è Duoda per me, dove narro come fu che vi ho incontrate quasi per caso o forse perché il mio destino era scritto, incontrare voi insieme a Luisa Muraro. Questo mi ha fatto pensare di scrivervi con molto affetto per i vostri cinquant’anni.

Grazie alla Universidad Nacional Autónoma de México nel 2012 ebbi l’opportunità di uscire per la prima volta dal mio paese per un soggiorno di ricerca presso l’Università di Barcellona nell’ambito del master che frequentavo in quel momento. Ricordo come fosse ieri quel primo giorno, quando entrai nella Facoltà di Belle Arti di calle Florensa per incontrare colei che sarebbe stata la mia tutrice, Ascensión Moreno González: salii le scale e trovai attaccato al muro un foglio che diceva… Corso La Grandezza di Essere Donna, Luisa Muraro e immediatamente mi dissi “Lo voglio”. Così la seconda cosa che dissi a Ascensión dopo essermi presentata fu: ho appena visto che c’è un corso e voglio iscrivermi, pensando che forse lei avrebbe dovuto chiedere che mi accettassero, cosa di cui non ci fu bisogno.

Quello che è successo dopo la prima lezione è qualcosa che ancora non finisce, qualcosa che continuo a vivere ogni giorno. Per la prima volta trovai una manciata di donne che pensavano in modo molto simile a quello che pensavo io, e come intendevo il mondo era qualcosa di cui non avevo parlato con nessuno. Trovandole seppi così per la prima volta che non ero pazza, né sola con il mio modo di pensare e di intendere la vita, solamente che avevo dovuto attraversare “la grande pozzanghera” (l’oceano) per trovarle. Dunque, la prima volta che lessi, sul n. 38 di Duoda, parlare di Diotima, il Circolo della rosa e la Libreria delle donne di Milano pensai: Wow, dev’essere stato incredibile! Sì. Così, “dev’essere stato”, al passato: non so per quanto tempo ho creduto che si trattasse del passato, pensavo che erano ormai scomparse e cercavo di immaginare come sarebbe stare insieme, tutte quelle donne in quei momenti tanto intensi della storia delle donne e della nascita del femminsmo, e che dovette essere incredibile poter stare lì e conoscerle. Non ricordo il momento esatto in cui scoprii il mio errore, ricordo solo di aver sentito una grande emozione al sapere che continuavano a esistere, che erano presente e non passato e che sarebbe davvero incredibile poter accedere a quegli spazi e conoscerle, soltanto che per me, una donna latinoamericana, vedevo molto lontano, quasi impossibile poterlo fare.

Apro una parentesi per dirvi che quando incontrai Duoda e con loro Luisa Muraro, non avevo la minima idea di chi fossero le une né l’altra. Fu solo quando tornai in Messico sei mesi dopo che la prima cosa che riuscii a fare fu cercare L’ordine simbolico della madre nella biblioteca della mia università – detto en passant la più grande dell’America Latina – e quale è stata la mia sorpresa? Non lo trovai, trovai soltanto Il Dio delle donne, stranamente nella biblioteca della Facoltà di Diritto, ma degli altri testi niente, né di Lia Cigarini, tanto meno di Carla Lonzi. Mi sentii immensamente triste, perché, che potevo fare? Se quello che c’era in Messico era la Teoria del Genere, io non la volevo più, non mi ci trovavo, mi sentii talmente sola, senza avere con chi parlare dei miei pensieri, che parlavo continuamente con le due uniche riviste cartacee che ero riuscita a portarmi da Barcellona, i numeri 38 e 33 di Duoda: a Luisa domandavo tutto il tempo che avrei riflettuto su questo o su quello, e più avanti a María Milagros Rivera Garretas. Passarono otto lunghi anni, finché mi invitarono a Duoda a parlare del dolore dell’incesto, potei tornare a Barcellona e sorprendentemente mi imbattei nel fatto che ci sarebbe stato il Convegno Femminista alla Fabbrica del Vapore a Milano ed ebbi le risorse per andarci. Scrissi a Christine, di cui avevo conservato il contatto dal corso di Luisa, e lei si offrì di ospitarmi a Milano; ricordo che per il lavoro non poteva venirmi a prendere alla Stazione Centrale e dovevo aspettare l’orario di uscita per andare a casa sua, così mi disse puoi visitare la libreria, fai in tempo prima che chiuda; rimasi stupefatta, per qualche ragione avevo solo pensato di andare al convegno e rivedere Luisa, non in libreria. Mi indicò quale mezzo prendere e la fermata, presi il bus ma a metà strada successe un incidente e non andavamo avanti, temevo che non sarei arrivata, allora guardai la mappa sul cellulare e scesi, cominciai a camminare più in fretta che potevo seguendo le indicazioni finché arrivai all’angolo di via Pietro Calvi e mi mancò il fiato, vidi l’insegna che diceva Libreria delle donne e ancora adesso mi si riempiono gli occhi di lacrime per l’emozione, che io Patrizia potevo essere lì, in un lugo così grande per il pensiero delle donne; feci un respiro profondo e entrai, non erano i libri, era lo spazio, il luogo, era il simbolico, credo che l’unica cosa che riuscii a dire in italiano fu “Ciao”. La libraia mi ricevette gentilmente, provai a presentarmi ma non ce la feci e il pianto dell’emozione affiorò nei miei occhi, riuscii a dire che era e continua a essere molto grande per me stare lì, che ero del Messico e che era uno sforzo molto grande per me e continua a esserlo aver potuto giungere alla libreria; lei rapidamente si alzò e mi offrì un bicchiere d’acqua, quando riuscii a calmarmi mi mostrò lo spazio, il luogo degli incontri e delle presentazioni, la cucina, mi spiegò che la libreria stava per chiudere, tornammo a sederci e allora le chiesi con chi avevo il piacere… Clara Jourdan mi rispose, non le dissi credo per l’emozione e la vergogna di non ricordare in quel momento qualche titolo di qualcuno dei suoi testi perché ovviamente l’avevo letta e la conscevo solo per il nome. Niente meno che Clara Jourdan mi aveva ricevuto e presentato lo spazio, che esperienza! La custodisco nel mio cuore e la ricordo come se fosse ieri.

In quel momento non sapevo che mesi dopo ci sarebbe stato un concorso per una borsa di studio completa per studiare il Master in politica delle donne di Duoda, master a cui anelavo non per motivi accademici ma per un bisogno come quello di respirare. Ebbi la fortuna che me la concessero, cosa che mi portò a studiare con Luciana Tavernini, Marina Santini, Donatella Franchi, Anna María Piussi, Diana Sartori, Clara Jourdan; sfortunatamente ci fu di mezzo la pandemia e solo nel 2022 potei partecipare al seminario di Chiara Zamboni e vivere la straordinaria esperienza di stare al Circolo della rosa a Verona, di nuovo con l’emozione a fior di pelle: come io, una donna semplice, potevo essere lì in un luogo tanto grande.

Ho saltato di proposito di essere stata per la seconda volta nella Libreria delle donne, prima di andare a Verona. Questa volta in una visita annunciata insieme ad altre compagne del master, invitate a una riunione di lavoro della rivista online, che fu appassionante perché c’eravate tutte, non vorrei saltare nomi ma veramente non lo so, Wanda Tomasi, Lia Cigarini, Luisa Muraro, Clara Jourdan… È che no, non potevamo crederlo, stare con tutte voi, mi ha lasciato un apprendimento enorme, essere presente non solo al lavoro ma alla discussione intensa perché mi ha permesso di non idealizzare, perché quanto danno può fare idealizzare le persone, gli spazi, se una non sta attenta e crede che tutto sia perfetto, perché non c’è luogo né spazio perfetti; ovviamente abbiamo capito poco di quella discussione, ma vedere che nonostante gli anni di riflessione, pensiero e lavoro continua a essere complesso giungere a un punto di accordo ed è così perché siamo diverse, che indipendentemente dall’essere le basi del pensiero della differenza continuano a discutere giorno per giorno, perché il pensiero della differenza non è finito, continua a essere conforme al fatto che la vita è vita.

Quando ho saputo dei cinquant’anni della Libreria mi sono resa conto, per quanto incredibile mi sembri, che adesso benché io sia in un puntino nonostante la distanza geografica ne faccio parte, dato che vi conosco, perché sono stata lì, perché ho partecipato a Diotima e perché la mia esistenza di donna e il mio modo di chiamare, di pensare e di vedere il mondo come mondo guadagnò autorità a partire dall’incontro con il pensiero della differenza perché ho potuto nominare ciò che non sapevo si potesse nominare, e con quello tutto ha avuto senso.

Felici cinquant’anni a voi e a tutte le donne che a partire dal pensiero della differenza abbiamo riacquistato il senso della grandezza di essere donna.

Libreria delle donne le porto nel mio cuore sempre.

A la Librería de Mujeres de Milán en sus cincuenta años

Recientemente he escrito para la revista DUODA del Máster en Política de las Mujeres de la Universidad de Barcelona un texto de lo que es DUODA para mí, en donde narro como fue que las encontré casi que de casualidad o quizás porque mi destino estaba escrito para ello, para encontrarlas junto con Luisa Muraro, lo cual me hizo pensar en escribirles este texto por sus cincuenta años con mucho cariño.

Gracias a la Universidad Nacional Autónoma de México en el año 2012 tuve la oportunidad de por primera vez salir de mi país y viajar a realizar una estancia de investigación en la Universidad de Barcelona dentro del programa de posgrado en el que me encontraba en aquel momento. Recuerdo aquel primer día en el que entré a la Facultad de Bellas Artes de la calle Florensa para encontrarme con la que sería mi tutora en mi estancia Ascensión Moreno González como si fuera ayer, subí las escaleras y me encontré de frente con una hoja de papel pegada al muro que decía… Curso La Grandeza de Ser Mujer, Luisa Muraro e inmediatamente me dije “Lo quiero tomar”, así que la segunda cosa que le dije a Ascensión luego de presentarme con ella fue, hay un curso que acabo de ver y lo quiero tomar, pensando que a lo mejor necesitaba yo que ella solicitara fuera aceptada, algo de lo que no tuve necesidad.

Lo que sucedió después de la primer clase es algo que aún no termina, es algo que sigo viviendo cada día, por primera vez encontré un puñado de mujeres que pensaban muy parecido a lo que pensaba y como entendía el mundo, era algo que no había hablado con nadie, así que al encontrarlas supe por primera vez que no estaba loca, ni sola con mi manera de pensar y de entender la vida, sólo que tuve que cruzar el gran charco(océano) para encontrarlas. Pues bien, la primera vez que leí en el número 38 de la revista DUODA, Diotima, el Círculo de la Rosa y la Librería de Mujeres de Milán, pensé ¡Wow! Debió de ser increíble, ¡Sí! Así “debió” en pasado, no sé por cuanto tiempo creí que eran pasado, pensaba que ya habían desaparecido e intentaba imaginar como sería estar todas aquellas mujeres juntas en esos momentos tan intensos en la historia de las mujeres y del nacimiento del feminismo y que debió ser increíble poder estar ahí y conocerlas. No recuerdo el momento exacto en que descubrí mi error, sólo recuerdo sentir una gran emoción de saber, que seguían existiendo, que eran presente y no pasado y de que sería realmente increíble poder acudir a esos espacios y conocerlas, sólo que para mí, una mujer latinoamericana, se veía muy lejano, casi imposible poder hacerlo.

Quiero hacer un paréntesis para compartirles que cuando encontré a DUODA y con ellas a Luisa Muraro, no tenía la menor idea de quienes era unas, ni quien era la otra, fue hasta que volví a México seis meses después, que lo primero que llegué a hacer, fue buscar El orden simbólico de la madre en la biblioteca de mi universidad y dicho de paso la más grande de Latinoamérica y cual ha sido mi sorpresa que no lo encontré, sólo encontré El Dios de las Mujeres, extrañamente en la biblioteca de la Facultad de Derecho, pero de los demás textos nada, ni de Lia Cigarini, ni que pensar de Carla Lonzi, me sentí sumamente triste, porque, ¿Qué iba yo a hacer? Si lo que había en México era la Teoría del Género, yo no la quería más, ahí no me encontraba, me sentí tan sola sin tener con quien hablar de mis pensamientos, así que todo el tiempo hablaba con las dos únicas revistas físicas que logré traerme de Barcelona, la número 38 y la 33, a Luisa le preguntaba todo el tiempo que reflexionaría sobre esto o aquello y más adelante a María Milagros Rivera Garretas, pasaron ocho largos años, hasta que me invitaron en DUODA a hablar del dolor del incesto que pude volver a Barcelona y sorpresivamente me encontré con que se realizaría el Congreso Feminista en la Fabbrica del Vapore en Milán y tuve los recursos para asistir, le escribí a Christine de quien había conservado el contacto del curso de Luisa y me ofreció alojamiento en Milán, recuerdo que debido a su trabajo no podía acudir por mí a la Gran Central y tenía que esperar a su hora de salida para llegar a su piso, así que me dijo puedes visitar la librería, llegas a tiempo antes de que cierren, me quedé estupefacta, por alguna razón sólo pensé en acudir al congreso y volver a ver a Luisa, nunca en la librería, me indicó que transporte tomar y en que parada debía bajar, tomé el bus y como a mitad del camino sucedió un accidente vehicular, no avanzábamos, yo sólo pensaba que no llegaría, así que vi el mapa en mi celular y me bajé, empecé a caminar lo más rápido que podía siguiendo las indicaciones que me daba, al fin llegué a la esquina de via Pietro y se me fue el aliento, vi el anuncio en el muro que decía Libreria delle Donne y todavía ahora se me llenan los ojos de lagrimas de la emoción, como yo, Patricia podía estar ahí, en un lugar tan grande para el pensamiento de las mujeres, respiré profundo y entré, no eran los libros que se encontraban ahí, era el espacio, el lugar, era lo simbólico, creo que lo único que atiné a decir en italiano fue “Ciao”, quien atendía me recibió amablemente, intenté presentarme, pero no pude más y el llanto de la emoción afloró en mis ojos, alcancé a decir que era y sigue siendo muy grande para mí estar ahí, que era de México y que era un esfuerzo muy grande para mi y lo sigue siendo poder haber llegado a la librería, rapidamente se levantó y me ofreció un vaso de agua, cuando logré calmarme, me mostró el espacio, el lugar de los talleres y presentaciones, la cocina, me explicó que la librería estaba por cerrar, volvimos a sentarnos y fue cuando le pregunté con quién tenía el gusto… Clara Jourdan me contestó, no se lo dije creo de la emoción y de la vergüenza de no recordar en ese momento algún título de alguno de sus textos porque por supuesto la había leido y la conocía sólo por su nombre. Nada menos que Clara Jourdan me había recibido y presentado el espacio ¡Que experiencia! La atesoro en mi corazón y la recuerdo como si fuera ayer.

En aquel momento no sabía que meses después saldría una convocatoría para otorgar una beca completa para estudiar el Máster en Política de las Mujeres de DUODA, máster que anhelaba estudiar no por lo académico, sino por una necesidad como la de respirar. Tuve la fortuna de que me la otorgaran lo que me llevó a estudiar con Luciana Tavernini, Marina Santini, Donatella Franchi, Ana María Piussi, Diana Sartori, Clara Jourdan, desafortunadamente la pandemia se atravesó, y fue hasta 2022 que logré acudir al seminario de Chiara Zamboni y con ello vivir la extraordinaria experiencia de estar en el círculo de la Rosa en Verona, nuevamente con la emoción a flor de piel, como yo, una mujer simple, una mujer de a pie podía estar ahí en un lugar tan grande.

Me he saltado a propósito haber estado previo a Verona por segunda vez en la Libreria delle done, esta vez en una visita anunciada junto con otras compañeras del máster y ser invitadas a una reunión de trabajo de la revista online, la cual fue apasionante porque estaban todas ustedes, no quiero saltarme nombres, pero en realidad no los sé, Wanda Tomasi, Lia Cigarini, Luisa Muraro, Clara Jourdan, es que no, no podíamos creerlo, estar con todas ustedes, a mí me dejó un aprendizaje enorme, presenciar no sólo el trabajo, sino la discusión intensa porque me permitió no idealizar, porque cuanto daño puede hacer idealizar a las personas, a los espacios sino está una atenta y se cree que todo es perfecto, porque no hay ni lugar, ni espacio perfectos, por supuesto poco entendimos de aquella discusión, pero ver que a pesar de los años de reflexión, pensamiento y trabajo sigue siendo complejo el llegar a un punto de acuerdo y es así porque somos diversas, que independientemente de de ser las asedoras del pensamiento de la diferencia, siguen estando en la discusión del día al día, porque el pensamiento de la diferencia no está acabado, sigue siendo conforme la vida es vida.

Cuando me he enterado de los cincuenta años de la librería, me he dado cuenta por increíble que me parezca que ahora aunque sea en un puntito a pesar de la distancia geográfica formo parte de ella, pues porque las conozco, porque he estado ahí, porque he participado en Diotima y porque mi existencia de mujer y mi manera de llamar, de pensar y de ver al mundo como mundo cobró autoridad a partir de encontrarme con el pensamiento de la diferencia porque pude nombrar lo que no sabía que podía nombrarse y con ello todo tuvo sentido.

Felices cincuenta años para ustedes y para todas las mujeres que a partir del pensamiento de la diferencia hemos recobrado el sentido de la grandeza de ser mujer.

Libreria delle donne le porto nelle mio cuore sempre.

Patricia Meza Rodríguez

Primavera 2025

da il Fatto Quotidiano

Le donne della Guinea-Bissau dicono “basta” allo sfruttamento delle miniere di zirconio e ai danni ambientali che questo provoca al loro Paese. “Tutte le installazioni sono state bruciate“, ha dichiarato alla stampa il ministro dell’Interno, Botche Candé, che si è recato a Nhiquin, luogo dell’incidente e non lontano dal confine con il Senegal, senza fornire ulteriori dettagli. Per “strutture” il membro dell’esecutivo intende quelle gestite da aziende cinesi nel nord-ovest del Paese.

Alcune donne e un capo villaggio sono stati arrestati in seguito agli scontri. Secondo i testimoni, diverse centinaia di manifestanti hanno preso di mira le strutture gestite dai cinesi che sfruttano il sito dal 2022. Stando a Edmundo Infanda, sottoprefetto di Suzana, da cui dipende il villaggio di Nhiquin, “le donne erano numerosissime”. Le forze dell’ordine presenti nella vicina Varela, “pur armate, non sono riuscite” a impedire che incendiassero le strutture.

“Quando lo Stato si impegna a cercare partner, nessuno ha il diritto di distruggere i loro beni”, ha dichiarato il ministro Candé, visibilmente irritato. “Le donne che hanno compiuto questi atti di vandalismo sono tutte fuggite nella foresta. Devono essere ricercate e arrestate. È inaccettabile che simili atti vengano commessi e tutto passi come se nulla fosse”. Dall’altra parte, a dare voce alla ribellione ci pensa Aissato Cadjaf, una delle manifestanti, contattata da Afp a Bissau: “Abbiamo spiegato loro che non vogliamo che la sabbia venga estratta senza il nostro consenso. Tutte le nostre risaie sono distrutte. Non ci sono più pesci nel canale vicino al sito di estrazione. Nessuno ha preso sul serio la nostra situazione, nonostante i nostri appelli accorati”.

da Avvenire

Niente è cambiato all’Educational Bookshop di Gerusalemme Est. Il piano terra trabocca di libri: quasi due migliaia di testi in inglese, altri in arabo, francese, tedesco. Perfino degli esemplari in italiano. Ciascuno racconta nella sua lingua – e dalla sua prospettiva – la Palestina. L’ultimo travagliato secolo della Terra Santa è il tema ricorrente ma non mancano volumi di archeologia, musica, guide di viaggio, romanzi degli scrittori più differenti, inclusi molti israeliani. Sopra, al termine della scala di legno, si respira la tradizionale quiete da biblioteca che attira studenti e lavoratori in smart working: intorno ai tavoli quadrati, i primi preparano gli esami e i secondi prendono una pausa dalla scrivania di casa.

Ahmed Muna saluta chiunque entri con il solito misto di gentilezza e ironia. Anche sui guai con la polizia scherza: «I sette agenti israeliani in borghese che hanno fatto la prima perquisizione conoscevano solo l’ebraico. Prima hanno provato a orientarsi con il traduttore automatico sul telefono. Così, però, impiegavano troppo tempo. Allora si sono basati sulle copertine ed eventuali foto all’interno… ». Dopo due ore e mezza di ricerche, il 9 febbraio scorso, sono usciti con trecento testi e due dei proprietari in stato di fermo. «Per cosa? Non l’abbiamo capito. Prima dicevano di cercare materiale terroristico che, ovviamente, non c’era. Poi, dopo l’interrogatorio, ci hanno accusato di “disturbo alla quiete pubblica”», aggiunge Ahmed, portato al commissariato insieme allo zio Mahmoud.

Il caso nei loro confronti è ancora aperto, come gli ha precisato il giudice prima di rilasciarli dopo averli tenuti in custodia un giorno e mezzo. Nel frattempo, l’11 marzo, c’è stato un secondo blitz con sequestro di altri 50 libri e l’arresto per alcune ore di Imad, padre di Ahmed.

L’Educational Bookshop, però, rifiuta di cedere al clima di guerra che ha fatto irruzione anche fra i suoi scaffali. «Abbiamo riaperto subito e lo siamo sempre rimasti. Poiché mio zio e io siamo stati interdetti dalla libreria per venti giorni, abbiamo contrattato dei sostituti. Non potevamo chiudere. Questo luogo è un’icona». In arabo, il suo nome, oltre a educazione, vuol dire “conoscenza”. «E la conoscenza è la precondizione per l’inclusione».

Non a caso la libreria è un riferimento per la comunità della Porta di Damasco ma anche per il resto della città, ben oltre l’ex linea di spartizione tra le due metà. Nata 41 anni fa come rivendita di libri arabi e cartoleria, è cresciuta grazie all’idea della famiglia Muna di aprirsi al mercato estero, importando testi in inglese. Nel 2009 è arrivata la seconda sede specializzata in volumi internazionali e situata di fronte al negozio originario, ancora in funzione, sul lato opposto di Salah al-Din road.

All’interno anche un bar: il primo caffè letterario di Israele e Palestina. «Non ci limitiamo a vendere libri. Attraverso eventi e corsi di arabo promuoviamo l’incontro. L’Educational Bookshop è aperto a tutti, di qualunque nazione, fede, quartiere di Gerusalemme – conclude Ahmed –. È un luogo di scambio, di discussione e riflessione dove ognuno è benvenuto. Forse è questo a spaventare quanti, in questo momento come non mai, cercano di schiacciare le differenze ed esasperano le divisioni. La conoscenza unisce. Ciò che fa l’Educational Bookshop».

da RivistaStudio

Aveva 25 anni, era un’artista, fotogiornalista e attivista. Nello stesso bombardamento è stata uccisa anche tutta la sua famiglia.

Al prossimo Festival di Cannes, nella sezione Acid (una sezione “parallela” del Festival, l’unica in cui film sono selezionati tutti da registi della Association for the Diffusion of Independent Cinema), parteciperà anche la regista Sepideh Farsi con il documentario Put Your Soul on Your Hand and Walk. Assieme a lei avrebbe dovuto partecipare alla prima del film anche la protagonista del documentario, l’artista, fotogiornalista e attivista palestinese Fatima Hassouna. Alla prima di Put Your Soul on Your Hand and Walk Fatima Hassouna non ci sarà: è morta, assieme a tutta la sua famiglia, uccisa da un bombardamento dell’esercito israeliano.

La notizia della morte di Hassouna l’ha data Farsi, in un editoriale pubblicato su Libération. «Aveva un sorriso magico, era una donna ostinata. È stata una testimone, ha fotografato Gaza, portava cibo a chi ne aveva bisogno anche mentre cadevano le bombe, nonostante i lutti, nonostante la fame. Abbiamo scoperto la sua storia, ogni volta che la incontravamo eravamo felici perché era la prova che era ancora viva, avevamo sempre paura per lei». Hassouna aveva appena compiuto 25 anni, scrive Farsi. «L’ho conosciuta tramite un amico comune che viva al Cairo. Io ero alla disperata ricerca di un modo per raggiungere Gaza nonostante il blocco di tutti gli accessi alla Striscia. Cercavo risposte a domande semplici e complicate allo stesso tempo. Come si fa a sopravvivere a Gaza, rimanendo sotto assedio per tutti quegli anni? Che cos’è la vita quotidiana dei palestinesi?», continua Farsi.

Della morte di Hassouna, Farsi ritiene responsabile il governo israeliano «e tutti i suoi complici». Nel suo editoriale per Libération, la regista cita anche una poesia scritta da Hassouna:

L’uomo che indossava i suoi occhi:

Non ho un curriculum / Riconosco due occhi / Misteriosi / E credo / Non ho una storia / Una / chiara / Perché uno sconosciuto possa crederci. E lui crede./ Non ho alcuna caratteristica fisica definita/ Per volare/ Fuori da questa gravità/ E credo./ Forse annuncio la mia morte ora/ Prima che la persona di fronte a me carichi/ Il suo fucile da cecchino/ E finisca il suo lavoro./ Così che io finisca./ Silenzio.

da La Stampa

Manca il reato, il fatto non lo configura. La formula con la quale la Corte d’Appello di Bologna assolve con formula piena due imputati dall’accusa di violenza sessuale di gruppo per induzione con abuso delle condizioni della vittima, è sintetizzata così. La giovane che aveva sporto la denuncia al tempo, appena diciottenne, il reato lo aveva visto benissimo. Era andata in pronto soccorso e poi dalle forze dell’ordine, aveva raccontato con puntualità cosa fosse accaduto quella notte a Marina di Ravenna, nella discoteca dove aveva conosciuto i due uomini e dopo quando l’avevano portata a spalla a casa di uno di loro. Non stava bene, aveva bevuto: i due le avevano fatto fare docce «per farla riprendere» e fatto bere caffè. Poi l’abuso, secondo la denuncia, ripreso e documentato in tre video; il rapporto sessuale filmato consenziente, secondo la corte.

Le parole della ragazza portano in carcere i due giovani che presentano istanza di scarcerazione al tribunale del riesame e vengono rimessi in libertà dal Tribunale di Bologna. Il fatto risale al 2017, ma complice la pandemia, l’iter è lungo: gli indagati sono rinviati a giudizio e poi assolti in primo grado dal collegio penale ravvenate nel 2022. Non c’è reato, avevano affermato i giudici, perché sì, la ragazza era ubriaca ma non aveva subito forzature. Il fatto resta, c’è, persino documentato ma non si traduce in crimine.

Il salto da un piano all’altro è impedito dalla presenza del consenso che la sentenza afferma di aver accertato, maturato nel tempo – tre ore – tra le strategie dispiegate per farla rinvenire e il momento del rapporto con video. Verrebbe voglia di fermarsi qui, nel commento. Perché le norme che puniscono la violenza sessuale, almeno da quando viene intesa come reato contro la libertà personale e non contro la pubblica moralità, sottolineano la gravità dell’abuso determinata dalle «condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto, a prescindere dalla violenza o minaccia». E dovrebbe essere superfluo ribadire come l’assunzione – volontaria o involontaria – di alcolici diminuisce o annulla la capacità di fornire un valido consenso, come ripete la Convenzione d’Istanbul (art. 36). Sul punto è intervenuta anche la Cassazione che ha ribadito come il sì della persona offesa – chiaro, inequivoco e continuo – costituisca l’elemento discriminante nella definizione del reato e soprattutto, debba essere chiarito tenendo conto della situazione e del contesto. Ora, nel viaggio a braccia dalla discoteca all’appartamento, nelle docce, nei caffè e nei video circolati, si fatica davvero a rintracciare le condizioni per l’espressione di ciò che definiamo consenso. Ma usciamo dalle norme per tornare alla cultura, anzi osserviamo bene l’intreccio di cui sono fatte.

Perché il mutamento che auspichiamo, quello che dovrebbe portare a intendere i no come no e gli abusi come abusi, passa anche per i messaggi che mandano le sentenze. In un bellissimo documentario di Soldini dedicato alla violenza contro le donne Un altro domani, il procuratore Francesco Menditto afferma senza come la denuncia per violenza sessuale per una donna possa rappresentare a volte, l’avvio di un calvario. Perché lei può diventare la vittima, deve dimostrare la sua opposizione nonostante il quadro normativo affermi l’opposto: perché hai bevuto, com’eri vestita, perché l’elastico è rimasto integro, perché hai accettato l’invito, perché hai potuto scrivere a tua madre, perché non hai urlato, morso, picchiato. Ma senza denunce la vergogna non cambia lato, per riprendere il bel monologo di Francesca Mannocchi. Dobbiamo ricordarlo, anche se certe sentenze fanno passare la voglia di farlo.

da il manifesto

Invasione di campus. L’università «non rinuncerà all’indipendenza e ai suoi diritti costituzionali». L’amministrazione congela 2,2 miliardi di fondi

«Harvard non rinuncerà alla propria indipendenza né ai propri diritti costituzionali. Né Harvard né nessun’altra università privata può permettersi di essere sottomessa dal governo federale». Dichiarazione che sarebbe sembrata scontata un paio di mesi fa. Con la quale l’ateneo più prestigioso d’America ha respinto l’intimazione della Casa Bianca a cessare ogni iniziativa di pari opportunità, pena la perdita dei finanziamenti pubblici. Il contesto che ha reso singolare la nota è quello in cui atenei come la Columbia hanno accettato le condizioni imposte fino all’eliminazione di facoltà e la riformulazione di programmi di studi dettata dalla Casa Bianca. Per non parlare dell’espulsione d’ufficio di centinaia di studenti stranieri per reati d’opinione (di solito opposizione al massacro di Gaza qualificato come «apologia di antisemitismo»). Ad oggi più di 600 visti sono stati revocati senza appello direttamente dal ministro Rubio. In alcuni casi i “colpevoli” sono stati prelevati a casa o per strada da squadre di incappucciati e fatti sparire nel gulag dei penitenziari federali o in lager offshore.

Per quanto logico il rifiuto di Harvard è risaltato dunque come uno squarcio dell’assordante silenzio e della connivenza che ha accompagnato l’inquietante spirale autoritaria. E ha rappresentato un’inversione di rotta rispetto alla genuflessione dello scorso anno, quando l’ateneo aveva licenziato la rettrice, Claudine Gay, per non aver sufficientemente represso il movimento contro la strage di Gaza e revocato le lauree di studenti “dissenzienti”.

Anche l’attacco al “Dei” (diversity, equity and inclusion) è stato motivato col «contrasto all’antisemitismo», ma nel panorama ideologico Maga la «sacrosanta crociata» contro il politically correct è in realtà quella dal più diretto retaggio razzista, una rivalsa promessa da Trump ai sostenitori bianchi che hanno dovuto subire il “sopruso” del «riequilibrio dell’accesso» vinto a suo tempo dal movimento per i diritti civili.

«Harward ha dato l’esempio ad altre istituzioni – ha commentato Barack Obama – respingendo un goffo e illegale tentativo di sopprimere la libertà accademica e assicurando invece che gli studenti possano beneficiare di un’atmosfera consona all’indagine intellettuale, il dibattito rigoroso e il mutuo rispetto. Speriamo che altri la seguano».

Almeno un secondo ateneo, il Mit (Massachusetts Institute of Technology), sembra aver accolto l’appello dell’ex presidente, allineandosi ai “vicini di casa” di Cambridge Massachusetts. Il parlamentare del Maryland (e altro alumnus della Harvard Law School) Jamie Raskin ha dichiarato che «il presidente di Harvard Alan Garber ha difeso la libertà accademica e la ricerca della verità libera da controlli governativi e propagande di stato. Ogni college e università dovrebbe unirsi in coalizione contro le oltraggiose tattiche mafiose (godfather offers) e i ricatti della Casa Bianca».

Sulle università si sta giocando una partita cruciale della crisi costituzionale che attanaglia oggi gli Stati uniti. Oltre all’attacco agli studenti stranieri e “dissidenti” il programma Maga come delineato prevede la decostruzione dell’intero impianto universitario in quanto incubatore di «eversione antiamericana». A questo riguardo Chris Rufo, uno degli architetti del Project 2025 ha dichiarato al New York Times che «l’obiettivo dovrà essere quello di usare i finanziamenti pubblici per indurre negli amministratori universitari un terrore tale da comprendere che se non cambieranno atteggiamento non quadreranno il bilancio». D’accordo col programma è in corso una sistematica smobilitazione, su pretesti ideologici, del finanziamento dei grant e delle borse che sostengono il lavoro di centinaia di migliaia di ricercatori, docenti, studenti e dottorandi che oggi versano nel caos e nel panico.

Le università sono dunque fronte incandescente dell’assalto trumpista all’ordine costituzionale. La rappresaglia contro Harvard è stata immediata con il trattenimento di 2,2 miliardi di dollari, nello stile ormai noto del regime, lo stesso che si applica ad avversari politici, nazioni sovrane da tassare o chiunque si ritenga debba soggiacere alla volontà del padre padrone degli Stati uniti. In questo contesto per molti universitari l’aspetto più sconfortante è stata la sottomissione anticipata di atenei che, come la Columbia, erano stati il vanto del sistema americano oltreché motore mondiale di ricerca e innovazione, il fulcro del soft power Usa. Come ha affermato sempre Raskin, «l’obbiettivo di Trump è la distruzione dell’istruzione superiore e del pensiero critico in America».

In un briefingalla Casa Bianca la portavoce Karoline Leavitt ha contrattaccato con uno sproloquio a base di «efferati criminali stranieri», «indottrinamento da parte di campus elitari» e una difesa a oltranza anche delle trasgressioni più clamorose allo stato diritto, come le rendition extralegali di studenti come Mahmoud Khalil e Rümeysa Öztürk e il rifiuto di rispettare la sentenza della Corte suprema che ha ordinato il rimpatrio di Kilmar Abrego García. Il padre di famiglia spedito nel lager salvadoregno non è uno studente ma il suo caso – e in particolare lo sprezzo plateale della sentenza costituzionale che lo riguarda costituisce un avvertimento – questo sì “in stile padrino” – a chiunque osi sfidare il regime.

da il manifesto

Articolo apparso sulla rivista israeliano-palestinese +972

Nessuno sa dare numeri precisi. Nessun partito o leader politico lo chiede esplicitamente. Ma chiunque abbia trascorso del tempo alle proteste antigovernative o sui social media in lingua ebraica nelle ultime settimane sa che è vero: sta diventando sempre più legittimo rifiutarsi di presentarsi al servizio militare in Israele – e non solo tra la sinistra radicale.

Nel periodo che ha preceduto la guerra, il discorso del rifiuto – o, più precisamente, della “cessazione del volontariato” per le riserve – era diventato una caratteristica significativa delle proteste di massa contro la riforma giudiziaria del governo israeliano. Al culmine di queste proteste, nel luglio 2023, oltre mille piloti e personale dell’aeronautica dichiararono che avrebbero smesso di presentarsi in servizio a meno che la legislazione non fosse stata bloccata, causando avvertimenti da parte degli alti ufficiali militari e del capo dello Shin Bet: la riforma giudiziaria metteva in pericolo la sicurezza nazionale.

La destra israeliana sostiene ancora oggi che quelle minacce di rifiuto non solo avrebbero incoraggiato Hamas ad attaccare Israele, ma avrebbero anche indebolito l’esercito. Ma in realtà tutte le minacce sono scomparse nell’etere il 7 ottobre, con i manifestanti che si sono arruolati volontariamente e con entusiasmo.

Per diciotto mesi la stragrande maggioranza della popolazione ebraica israeliana si è radunata intorno alla bandiera a sostegno dell’assalto a Gaza. Ma dopo che il mese scorso il governo ha deciso di far fallire il cessate il fuoco, sono cominciate ad apparire delle crepe.

Nelle ultime settimane, i media hanno riportato un calo significativo dei soldati che si presentano al servizio di riserva. Sebbene i numeri esatti siano un segreto strettamente custodito, a metà marzo l’esercito ha informato il ministro della difesa Israel Katz che il tasso di presenza si è attestato all’80%, rispetto al 120% circa registrato subito dopo il 7 ottobre. Secondo Kan, l’emittente nazionale israeliana, questo numero è falso: il tasso reale è più vicino al 60%. Altri rapporti parlano di tassi di partecipazione del 50% o inferiori, con alcune unità di riserva che hanno cercato di reclutare soldati attraverso i social media.

«Il rifiuto arriva a ondate, e questa è la più grande ondata dalla Prima Guerra del Libano del 1982», dice a +972 Ishai Menuchin, uno dei leader del movimento di rifiuto Yesh Gvul (C’è un limite), fondato durante quella guerra.

Come per i diciottenni che devono prestare servizio militare nelle forze regolari, anche per gli altri israeliani fino all’età di quarant’anni è obbligatorio prestare servizio nella riserva quando vengono convocati (anche se l’età può variare a seconda del grado e dell’unità). In tempo di guerra, l’esercito dipende molto da queste forze. All’inizio della guerra, l’esercito ha dichiarato di aver reclutato circa 295mila riservisti oltre ai circa 100mila soldati in servizio regolare. Se i rapporti sul 50-60% di presenze nelle riserve sono accurati, significa che oltre 100mila persone hanno smesso di presentarsi al servizio di riserva. «È un numero enorme – osserva Menuchin – Significa che il governo avrà problemi a continuare la guerra».

«Il 7 ottobre ha inizialmente creato un sentimento di “Insieme vinceremo”, ma si è ora eroso», dice Tom Mehager, un attivista che si è rifiutato di prestare servizio durante la Seconda Intifada e che ora gestisce una pagina di social media che pubblica video di passati refusenik che spiegano la loro decisione. «Per attaccare Gaza bastano tre aerei, ma il rifiuto traccia comunque delle linee rosse. Costringe il sistema a capire i limiti del suo potere».

La maggior parte di coloro che sfidano gli ordini di arruolamento sembrano essere i cosiddetti “obiettori grigi”, persone che non hanno una vera e propria obiezione ideologica alla guerra, ma piuttosto sono demoralizzate, stanche o stufe del fatto che si stia trascinando così a lungo. A questi si affianca una piccola ma crescente minoranza di riservisti che si rifiutano per motivi etici.

Secondo Menuchin, Yesh Gvul è stato in contatto con oltre 150 obiettori ideologici dall’ottobre 2023, mentre New Profile, un’altra organizzazione che sostiene i refusenik, si è occupata di diverse centinaia di casi del genere. Ma mentre gli adolescenti che rifiutano la leva obbligatoria per motivi ideologici sono soggetti a pene detentive di diversi mesi, Menuchin è a conoscenza di un solo riservista che è stato punito di recente per il suo rifiuto, ricevendo una condanna a due settimane di libertà vigilata. Hanno paura di mettere in prigione chi rifiuta, perché se lo facessero potrebbero affossare il modello dell’«esercito del popolo. – spiega – Il governo lo capisce e quindi non insiste troppo; si accontenta di licenziare qualche riservista, come se questo risolvesse il problema».

Di conseguenza, per Menuchin è difficile stimare la reale portata di questo fenomeno. «Durante la guerra del Libano, la nostra valutazione era che per ogni obiettore che andava in prigione, ce n’erano altri 8-10 ideologici – dice – Quindi se 150 o 160 persone hanno dichiarato di non voler servire per motivi ideologici, è ragionevole stimare che ci siano almeno 1.500 obiettori ideologici. E questa è solo la punta dell’iceberg [dato il numero molto più elevato di obiettori non ideologici]».

Tuttavia, secondo Yuval Green – che si è rifiutato di continuare a prestare servizio a Gaza dopo aver disobbedito all’ordine di dar fuoco a una casa palestinese, e che ora guida un movimento contro la guerra chiamato “Soldati per gli ostaggi” con 220 riservisti che hanno firmato la dichiarazione di rifiuto – questa categorizzazione binaria non racconta l’intera storia.

«Ci sono sempre più persone che non si preoccupano necessariamente dei palestinesi, ma che non si sentono più d’accordo con gli obiettivi della guerra – spiega – Io lo chiamo “rifiuto grigio-ideologico”. Non ho modo di sapere quanti siano, ma sono sicuro che sono molti». «In passato, le persone che conoscevo erano molto arrabbiate con me [per aver obiettato] – continua Green – Ora sento molta più comprensione. Siamo diventati più rilevanti. I media si occupano di noi; siamo stati invitati a Channel 13 e a Channel 11. Giorno dopo giorno, vedo dichiarazioni di rifiuto».

Gli esempi recenti abbondano. La settimana scorsa, Haaretz ha pubblicato un articolo della madre di un soldato che dichiarava: «I nostri figli non combatteranno in una guerra messianica per scelta». In un altro intervento dello stesso giornale, scritto da un soldato anonimo, si leggeva: «L’attuale guerra a Gaza ha lo scopo di comprare la stabilità politica con il sangue. Non vi prenderò parte». Altri sono meno espliciti, ma l’effetto è simile.

In una recenteintervista, l’ex giudice della Corte suprema Ayala Procaccia ha evitato di appoggiare il rifiuto, ma ha invitato alla «disobbedienza civile». Il 10 aprile, quasi mille riservisti dell’aeronautica hanno pubblicato una lettera aperta in cui chiedevano un accordo sugli ostaggi che ponesse fine alla guerra; a loro si sono presto aggiunti centinaia di riservisti della marina e della unità d’élite di intelligence 8200. Il primo ministro Netanyahu ha risposto: «Il rifiuto è un rifiuto – anche quando viene detto implicitamente e con un linguaggio eufemistico».

Yael Berda, sociologa della Hebrew University e attivista di sinistra, ha spiegato che il calo della disponibilità a presentarsi al servizio di riserva deriva innanzitutto da preoccupazioni economiche. Ha fatto riferimento a un recente sondaggio del Servizio israeliano per l’occupazione, secondo il quale il 48% dei riservisti ha dichiarato di aver subito una significativa perdita di reddito dal 7 ottobre e il 41% ha affermato di essere stato licenziato o costretto a lasciare il proprio lavoro a causa di periodi prolungati nelle riserve.

Anche Menuchin attribuisce un peso significativo ai fattori economici, ma offre un’ulteriore spiegazione: «Gli israeliani non vogliono sentirsi dei fessi, e ora stanno raggiungendo un punto in cui si sentono sfruttati. Vedono altri che ricevono esenzioni e scommettono che, se dovesse succedere loro qualcosa, nessuno sosterrà loro o le loro famiglie. C’è un senso di abbandono: vedono le famiglie degli ostaggi che fanno crowdfunding solo per sopravvivere. Il punto è che lo Stato non è davvero presente ed è diventato chiaro a sempre più israeliani».

«C’è molta disperazione – continua Menuchin – La gente non sa dove sta andando a parare. Si vede la corsa ai passaporti stranieri – anche prima del 7 ottobre – e la ricerca di luoghi “migliori” in cui emigrare. C’è un crescente ripiegamento sulla preoccupazione per il proprio gruppo di interesse. E soprattutto, gli ostaggi non vengono riportati indietro».

Per quanto riguarda il rifiuto ideologico, Berda individua diverse categorie. Un tipo di rifiuto deriva da «quello che ho visto a Gaza», ma è una minoranza, spiega. «Un altro tipo è la perdita di fiducia nella leadership, soprattutto perché il governo non ha fatto tutto il possibile per riportare indietro gli ostaggi. C’è un divario intollerabile tra ciò che il governo ha detto di fare e ciò che ha effettivamente fatto. E questo divario fa sì che la gente perda la fiducia».

Un’ulteriore categoria, prosegue Berda, è il «disgusto per il discorso del sacrificio» promosso dall’estrema destra religiosa, guidata da personaggi come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich: «È una sorta di contraccolpo contro la narrativa dei coloni che dice che è bene sacrificare la propria vita per qualcosa di più grande. Le persone reagiscono alla nozione che il collettivo è più importante dell’individuo dicendo: “Gli obiettivi dello Stato sono importanti, ma io ho la mia vita”».

Pur notando che le minacce di rifiuto sono state una parte importante delle proteste antigovernative del 2023, Berda afferma che «ora, dopo il crollo del cessate il fuoco, si può dire che l’intero movimento di protesta si oppone alla continuazione della guerra sulla base del fatto che è la guerra di Netanyahu. È una novità assoluta, non c’è mai stata una frattura del genere, in cui la legittimità del regime è in pericolo».

«Nel 1973 si diceva che Golda fosse incompetente, che commetteva errori, ma nessuno dubitava della sua lealtà – continua Berda – Durante la prima guerra del Libano, c’erano dubbi sulla lealtà di Sharon e Begin, ma era una cosa marginale. Ora, soprattutto alla luce del Qatargate, la gente è convinta che Netanyahu sia disposto a distruggere lo Stato per il suo tornaconto personale».

Tuttavia, l’ondata di rifiuti e di mancata partecipazione non ha ancora messo in ginocchio l’esercito. «La gente dice: “C’è il governo e c’è lo Stato” – spiega Berda – Queste persone vanno ancora a prestare servizio perché si aggrappano allo Stato e alle sue istituzioni di difesa. Perché se non credono in loro, non avranno più nulla».

«Il pubblico capisce che nel momento in cui la fiducia nell’esercito viene meno, la storia è finita, e questo è spaventoso – conclude – Hanno paura di essere coinvolti nel crollo dell’esercito perché questo li renderebbe complici. Bibi sta costringendo gli israeliani a una scelta terribile. Qualunque cosa facciate, sarete complici di un crimine: o il crimine del genocidio o il crimine dello smantellamento dello Stato».

da Il Fatto Quotidiano

Cinquant’anni fa, il 20 novembre del 1975, il presidente del governo spagnolo Carlos Arias Navarro annunciò la morte del dittatore fascista Francisco Franco. Due giorni dopo, il re Juan Carlos di Borbone giurò come re di Spagna e nuovo capo dello Stato. Un anno dopo, le Cortes approvarono una legge che aprì le porte alla democrazia. Per ricordare la ricorrenza, l’editore Giunti ha pubblicato il romanzo La pasadora della scrittrice barcellonese Laia Perearnau. Si tratta di un omaggio vibrante al contributo dato dalle donne di Spagna, a lungo ignorato oppure rimosso, alla causa antifascista e antinazista. In particolare riporta alla luce quelle donne, soprattutto catalane, come Teresa Carbò, che militarono nelle reti di resistenza portando in salvo (come passadores, portatrici, appunto) dai tedeschi che occupavano la Francia partigiani del maquis, ufficiali delle missioni alleate, ebrei, sulle montagne dei Pirenei. Diverse di loro alimentarono poi anche la lotta clandestina contro il franchismo, che si attivò, principalmente per opera degli anarchici, dopo la sconfitta della Repubblica nel 1939.

In epigrafe al suo libro, peraltro molto ben costruito e appassionante, Laia Perearnau, classe 1972, giornalista televisiva e narratrice, ha voluto citare la frase di una di quelle donne straordinarie, Antonina Rodrigo, “Mujer y exilio”: «Gli uomini hanno partecipato alla guerra, alla Resistenza […] e sono passati alla storia ricevendo onorificenze e monumenti a loro dedicati. Anche le donne hanno fatto la guerra, hanno preso parte alla Resistenza […] eppure sono ancora assenti dai libri di storia, le loro battaglie non sono state registrate».

L’autrice de La pasadora ha spiegato che «nei libri di storia, nei documentari e in tutte le fonti scritte che ho consultato, nessuna testimonianza attestava il coinvolgimento attivo di donne nell’immane compito di aiutare migliaia di individui ad attraversare le montagne per poter sfuggire al Terzo Reich. Per questo ho deciso di mettere da parte i libri, tutti sostanzialmente scritti da uomini, e di addentrarmi nel mondo degli storici e delle storiche locali, delle testimonianze orali e della documentazione degli archivi storici». Nonostante «tale silenzio autoimposto, tuttavia, sono riuscita a trovare qualche nome e delle storie, alcune più epiche di altre ma tutte ugualmente degne di essere salvate dall’oblio».

Tre di quelle donne compaiono nel romanzo. Una di loro si chiama Conxita Grangé. Faceva «da intermediaria con i guerriglieri e i maquis di Tolosa. Lei e sua zia Elvira Ibarz furono consegnate alla Gestapo, imprigionate e torturate in quella stessa città francese, dalla quale in seguito furono deportate in Germania. Attraversarono la Francia da sud a nord insieme ad altri settecento detenuti nel cosiddetto “treno fantasma”, in un viaggio durato due mesi sotto i bombardamenti alleati e gli attacchi del movimento maquis. Il 9 settembre furono internate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Conxita fu insignita dal governo francese della Legion d’Onore e della Medaglia della Resistenza, e dedicò buona parte della propria vita a raccontare la sua esperienza nelle scuole e a mantenere viva la memoria delle donne deportate».

da Il Fatto Quotidiano

La storia umana ci insegna che nei momenti di crisi la paura è il sentimento che guida le azioni e i pensieri umani, e di conseguenza le tensioni reazionarie risultano rischiosamente dominanti.

Semplificazione, omogeneizzazione, fine del pensiero critico, calo dell’ascolto, scomparsa del conflitto generativo.

La guerra in ogni sua forma, che attua tragicamente la cancellazione dell’empatia e della fragile concretezza dell’esistenza, è più efficace della negoziazione, così come la cancellazione di ogni differenza, perché ogni differenza è, di per sé, una faticosa ma necessaria domanda di dialogo.

Per questo non mi ha sorpresa la (brutta) decisione assunta dalla Suprema Corte che ha confermato la dicitura “genitori”, al posto di “padre” e “madre” sulla Carta d’identità elettronica dei e delle minori, rigettando il ricorso del governo dopo la richiesta di una coppia di donne ai giudici per ottenere sui documenti del figlio la corretta indicazione, e non “padre” per una delle due madri. Domando: se la coppia era formata da due donne la corretta indicazione per l’altra coniuge non sarebbe stata, accanto a “madre” l’aggiunta di convivente, o madre adottiva? Perché cancellare due donne, di cui una la madre biologica? Cosa non va in “chi ne fa le veci”?

«La dicitura padre/madre sulla carta d’identità elettronica è discriminatoria», – si legge nella sentenza n. 9216 che respinge il ricorso presentato dal ministro dell’Interno e conferma la decisione della Corte d’Appello, secondo cui la dicitura padre/madre «non rappresenta tutti i nuclei familiari e i loro legittimi rapporti di filiazione. L’indicazione corretta è dunque genitore». Sì, non tutti i nuclei familiari sono composti da una donna e un uomo, e ci sono molti modi per essere madri e padri, oltre a quelli biologici. Ma domando: perché per rappresentare la varietà di combinazioni, di parentela e di legami di responsabilità e cura per figlie e figli si cancella il legame dell’origine, quello materno, senza il quale non c’è esistenza?

A volte ritornano: nel 2013 scrissi già di questo, quando una parte del movimento Lgbt celebrò come una vittoria il precedente che aboliva, in alcune modulistiche, la dicitura madre e padre sostituita da genitore (maschile, non è stata mai prevista la parola genitrice, che sarebbe corretta nel caso di una donna). I tempi complessi che viviamo non facilitano né la produzione di pensiero né lo scambio, ma provo comunque a chiedermi: perché se c’è da “includere” (verbo che ritengo pericoloso, perché prevede il reclutamento e l’assimilazione) o da “non discriminare” o da “valorizzare” si cancellano, in automatico e sempre, le donne?

Per oltre trent’anni si è penato per poter aggiungere – aggiungere, non sostituire – il cognome della madre a quello, scontato, del padre; per decenni, e non è ancora ovvio sebbene la grammatica lo preveda, si è detto dell’importanza di nominare la differenza sessuale nelle professioni dove le donne prima erano escluse, e in virtù di questa negazione ancora molte, tra le donne, non si nominano come avvocate, magistrate, architette, ingegnere, perché “quello che conta è il ruolo”. Peccato che tale “ruolo” venga pensato come maschile: come mai alle elementari la frase “il maestro Paola” sarebbe errore rosso per non concordanza?

Se nelle spinte alla conservazione dei ruoli e delle funzioni c’è la paura del cambiamento, e i regimi fondamentalisti cristallizzano le donne e gli uomini nelle gabbie degli stereotipi funzionali alla discriminazione, a me pare che in chi pensa che la cancellazione della madre sia una vittoria e un trionfo della molteplicità (madre non è, però, solo una parola) ci sia uno scivolamento tragico e pericoloso verso l’esatto opposto dell’apertura e della disponibilità a modificare l’esistente. Consiglio la lettura del testo di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) nel quale, come sottolinea Silvia Acierno, «c’è un grande desiderio di riportare il femminismo a casa, in una sua dimensione, di ridare a questo femminismo, inglobato quasi dal movimento Lgbtq+ e che questa dispersività e l’aggressività del transfemminismo sembrano rendere ‘obsoleto’, una sua autonomia, un suo senso proprio. Oggi ancora più necessario».

Proprio Cavarero, in un dibattito alla Fondazione Einaudi, ha illuminato la tendenza di parte del movimento transfemminista verso la deriva metafisica: cosa c’è di meno vicino ai corpi, la prova incarnata della differenza sessuale e dell’unicità di ogni esistenza, delle soluzioni “inclusive” nella lingua scritta, come asterisco, schwa o l’uso comico della u, dove si sacrifica, cancella e nega il femminile? L’appiattimento giurisprudenziale su un lessico apparentemente rispettoso di casi singoli a me pare il frutto della scarsa volontà di trovare soluzioni personalizzate per una minoranza che, giustamente, chiede di essere nominata.

Le soluzioni ci sarebbero, come ho provato a dimostrare prima. Ma se si fa piazza pulita del femminile del mondo (oltre la metà delle persone sulla terra), e se si è così disinvoltamente veloci a eliminare (per ora nel lessico) le madri allora c’è di cui pensare.

da il manifesto

La regista parla di «The Vanishing Point», premiato al festival di Nyon Visions du Réel. Una storia famigliare e collettiva, il tabù del silenzio, la rivoluzione da fare

The Vanishing Point, il punto di fuga, o il punto zero, è una figura rimasta intrappolata nel silenzio: si chiama Nasanin, è la cugina della regista, aveva ventisette anni quando nel 1988 il regime di Teheran l’ha arrestata, rinchiusa nel carcere di Evin dove è scomparsa. Di lei non si è saputo più nulla, l’hanno uccisa ma il corpo non è stato restituito. La famiglia però nel terrore è rimasta in silenzio. Non se ne è mai parlato, e poi? A Nasanin però Bani Koshnoudi arriva a poco a poco nel suo nuovo film, The Vanishing Point, che ha vinto il concorso Burning Light del festival svizzero Visions du Réel. Prima ci sono alcuni détours tra le immagini accumulate negli anni, il suo archivio di disubbedienza, alcuni incontri che diventano frammenti di memoria. Le fotografie di una zia, che racconta di quando un’altra donna voleva denunciarla per avere le unghie smaltate durante il Ramadam. Lo ha ricevuto in eredità quell’album, quasi una trasmissione di racconti non scritti. E poi la casa vuota dei nonni, in Iran, dove lei è nata e che ha lasciato coi genitori per l’America quando era piccola, dopo l’arrivo di Khomeini. Ci è tornata, ha filmato l’Onda verde nel 2009, in un film anonimo, The Silent Majority Speaks; appena ci ha messo il nome non ha potuto mai più andarci, dagli Usa si è spostata prima in Messico, ora a Parigi. Anche di quel film vediamo dei frammenti, così come delle lotte di oggi, la stessa violenza brutale del regime, mentre sempre più ragazze e anche ragazzi sono lì a occupare col corpo lo spazio rivendicato della vita.

Poi arriva Nasanin, una mujaheddin, quando dalla Svizzera dove studiava è rientrata l’hanno arrestata subito. E intanto la geografia muta, la montagna che si vede dalla casa dei nonni e che sormonta il carcere diventa minacciosa. The Vanishing Point è un film di resistenza che tesse una storia al femminile, le donne e la loro lotta contro la repressione, quelle madri che oggi gridano forte esibendo sui social le foto dei figli uccisi, combattono per la libertà di tutti da un regime che soffoca in una brutale violenza. Abbiamo parlato con Bani Koshnoudi a Nyon.

The Vanishing Point” racconta la resistenza delle donne e non solo in Iran oggi, e quella di tua cugina, Nasanin, scomparsa nel carcere di Evin negli anni ’80. La sua storia, come ci dici, è stata sepolta nel silenzio, nessuno in famiglia ne ha parlato. Il film rompe questo tabù ma tu non hai detto della sua realizzazione ai tuoi famigliari, perché?

I miei genitori sapevano che ci stavo lavorando, ne ho discusso con mia madre ma per me non era questo il punto. La mia famiglia e il suo segreto sono una piccola parte di una realtà che in Iran riguarda migliaia di famiglie rimaste in silenzio sui figli o le figlie scomparse, sugli arresti, gli omicidi. È un silenzio che riguarda il Paese intero e il sistema che lo impone nell’ideologia della rivoluzione. Sono cresciuta sentendomi ripetere che ero una ribelle come mia cugina Nasanin di cui non ho alcun ricordo, è morta quando io avevo due anni. Questo preoccupava moltissimo i miei genitori, temevano che potessi fare qualcosa e sparire come lei. La sua figura mi ha attratta da quando ero molto giovane, e l’interesse è cresciuto insieme al mio sentimento di ribellione verso qualsiasi ingiustizia. Quando ho cominciato ad andare in Iran e ho scoperto cosa succedeva lì – anche se molto lo sapevo già prima – ho capito che il silenzio fa parte di un programma sistemico; non si limita a oscurare chi è sparito perché accusato di essere un oppositore politico ma copre molto altro permettendo a questo regime fascista di continuare a esistere. Al tempo stesso, come puoi accusare le persone che vivono in Iran di stare zitte se pensi a ciò che rischiano? La censura riguarda ogni aspetto della vita, come parli, cosa dici in strada, le tue scelte in quanto artista, filmmaker o scrittore, che diciamo fra di noi, di chi possiamo fidarci. Fare un film sul segreto di una famiglia per quanto terribile deve necessariamente uscire dai confini personali – anche se questo è un film molto personale – e rivolgersi a una dimensione collettiva. Quando nel 2009 siamo scesi in strada contro il regime si è cominciato a rompere qualcosa: potevamo fidarci di chi avevamo accanto senza doverci giustificare, dire chi sei, cosa fai a casa, piegarci alle autorità. L’Iran è condizionato da una cultura molto paranoica che rende difficile avere delle relazioni. Le ultime rivolte hanno rotto definitivamente il muro permettendo di andare dall’altra parte. Le giovani generazioni non hanno più paura, lottano insieme, si confrontano fra di loro. È vero che tanti non fanno nulla, e quando sei in una dittatura non agire è come partecipare al sistema e persino collaborare. Ma dobbiamo vivere insieme e incolparsi e punirsi reciprocamente serve a poco, si deve capire in che modo riparare a questo.

Negli ultimi mesi l’Iran è stato al centro di forti attacchi, ci sono stati i bombardamenti di Israele e gli interventi militari in Libano che è un Paese di influenza iraniana. Credi che questo possa condizionare la politica interna?

È una questione ingannevole. Non sono d’accordo con gli iraniani che pensano che questi attacchi possano essere di aiuto per liberarci dal regime. La resistenza c’è sempre stata, sin dagli inizi della Rivoluzione khomeinista, hanno ucciso migliaia di persone pensando così di stroncarla. La loro tattica è sempre la stessa: accusare i movimenti di opposizione di essere pagati da questo o quel paese straniero, che poi sono le strategie di qualsiasi dittatura. Se oggi l’Iran venisse attaccato non sappiamo cosa accadrebbe, sappiamo che sono in uso armi terribili, lo vediamo ogni giorno a Gaza, ma senza fare speculazioni geopolitiche mi viene in mente ciò che si disse all’epoca della guerra con l’Iraq che aveva armi americane in dotazione. Eppure il regime iraniano vinse, avevano migliaia di combattenti anche giovanissimi, e la guerriglia ha spesso ragione sugli eserciti – il Vietnam ce lo ha mostrato. Penso che ci sia un mondo parallelo, quello dei media, delle tv che continuano a mostrare un forte sostegno interno al regime. Ma la resistenza oggi si è estesa, e questa è la sola risposta possibile per una liberazione. Le donne combattono per la libertà e grazie alla rete comunicano attraverso il Paese raggiungendo anche le zone più lontane. È una battaglia intersezionale che cerca di affermare l’idea di una libertà per tutti, e pian piano anche chi non comprende comincia ad appropriarsi di alcuni slogan. Credo che la resistenza continui a crescere, al di là dei bardamenti o meno di Usa o Israele, c’è un linguaggio di resistenza che riguarda una parola, un gesto, chi siamo, come costruire la nostra società. Le persone oggi si difendono reciprocamente, si aiutano l’esatto opposto di ciò che accadeva anni fa quando la gente denunciava gli altri.

Ci sono molti fantasmi nel film, tua nonna, tua zia, e naturalmente Nasanin che diviene il riferimento di una battaglia di cui le donne sono le protagoniste – pure se abbiamo visto tanti ragazzi in strada.

Gli uomini adesso sono totalmente coinvolti, hanno capito che se le donne non sono libere non lo saranno neppure loro. La cultura patriarcale deve cambiare, abbiamo dei modelli rigidi ma il fatto che il padre o il nonno decidano per l’intera famiglia non è più sostenibile. Riguardo al film non ho lavorato su una scrittura, all’inizio avevo alcune immagini riprese negli anni, è vero che le donne della famiglia sono centrali, questa è una storia di donne – anche se ci sono stati uomini importanti. Il padre di Nasanin ha smesso di parlare dopo la sua scomparsa, si è autodistrutto fisicamente fino alla morte. La madre invece ha reagito con forza, aveva altre figlie, poi sono arrivati i nipoti, doveva esistere; danzava e rideva tutto il tempo portandosi dentro questa tragedia. Non ne ho mai parlato con lei, ma non volevo ferirli, forse ho fatto il film adesso perché sono tutti morti – la sorella di Nasanin è ancora viva ma non ho rapporti con lei. Ripeto, spero che il mio film sia per tutti, voglio che non si dimentichino le persone che lottano. Di Nasanin non abbiamo mai trovato il nome sulla lista dei deceduti, il carcere è stato poi svuotato nelle fosse comuni, come è accaduto in altri paesi, la Spagna, l’Argentina, la Cambogia… Questi fantasmi sono come una traccia che seguo, con cui costruisco una storia perché appunto non vengano cancellati, perché si sappia di loro semmai un giorno scavando ne scoprissimo i resti come accade nel film di Guzmán Nostalgia de la luz.

A proposito di silenzio: la madre che a un certo punto grida ovunque il nome del figlio dimostra quei cambiamenti di cui parlavi.

Probabilmente la forza che ha questa donna mi ha spinta a raggiungerla nel coraggio di chi prende la parola ogni giorno. Lei posta su Instagram quotidianamente qualcosa sulle altre madri, contro l’oblio. La storia si ripete in modo diverso, si uccide sempre in prigione ma le famiglie adesso sono là insieme, e anche se non si conoscono sono unite dal fatto di avere un figlio o una figlia assassinati, condividono le immagini, i fuochi, le luci, è un movimento collettivo che agisce a livello individuale. Le ragazze prendono dei rischi incredibili, pensa alla giovane donna che si è spogliata all’università: non sappiamo cosa le è accaduto, è in un ospedale psichiatrico, ma è un simbolo come era il ragazzo a Tienanmen. Perché ciò che ci è chiaro ora è che dobbiamo fare una rivoluzione, questo sistema non può essere riformato.