Da Altraeconomia – L’hanno definita una mossa storica: il procuratore capo della Corte penale internazionale (Icc), Karim Khan, il 20 maggio, ha chiesto che vengano emessi mandati di arresto per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e quello dell’ala militare, le Brigate Qassam, Mohammed Deif, per crimini di guerra e contro l’umanità, compiuti nell’attacco del 7 ottobre e nella guerra a Gaza.

«È uno sviluppo importantissimo», commenta Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati da Israele dal 1967. «In corso, nel mondo, c’è una rivoluzione culturale e il treno ormai non si ferma». Nello specifico, il procuratore Khan ha accusato i leader di Hamas di sterminio, omicidi, rapimenti, stupri, violenze sessuali, tortura e atti disumani sugli ostaggi. Mentre Netanyahu e Gallant sarebbero responsabili, almeno dall’8 ottobre 2023, di affamare i civili di Gaza come strategia di guerra, di causarne intenzionalmente grandi sofferenze e lesioni al fisico o alla salute, di omicidi e attacchi intenzionali contro la popolazione civile, di sterminio e persecuzione. Abbiamo chiesto ad Albanese un commento.

Relatrice Albanese, che cosa pensa della richiesta avanzata dal procuratore Khan?

È uno sviluppo importantissimo dal punto di vista legale, della giurisprudenza internazionale e della possibilità di fare giustizia per le vittime delle atrocità, che sono state commesse in Israele, a Gaza e speriamo anche nel resto del territorio palestinese occupato negli ultimi anni.

Ma la richiesta di mandati darresto non è legata solo a quanto avvenuto il 7 ottobre in Israele e poi a Gaza?

Il procuratore è stato molto chiaro: questi sono i primi capi d’accusa e imputazione che ho individuato – ha detto – ma l’inchiesta è aperta e attiva, e mi riservo di comunicare altri crimini e individuare altre persone per fatti accaduti anche prima del 7 ottobre. E questo è molto importante: ha fatto proprio un riferimento alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove c’è stata un’impennata della violenza dal 7 ottobre in poi. Khan ha ribadito che la Corte esercita la sua giurisdizione penale in tutto lo spazio che comprende Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est e che il suo mandato d’investigazione è in corso e non si limita a Gaza.

D’altronde è dal 2015 che la Corte si doveva pronunciare su quanto avvenuto a Gaza, tanto che lo stesso procuratore è stato accusato finora di un certo immobilismo.

L’investigazione è cominciata nel marzo del 2021 ed è stata aperta dalla precedente procuratrice, Fatou Bensouda, anche se la giurisdizione è stata riconosciuta a partire dal 2014, dopo che nel 2012 la Palestina è stata ammessa alle Nazioni Unite come Stato osservatore. Sì, c’è stato un certo immobilismo del procuratore fino ad oggi e c’erano già una serie di crimini sui quali non ha dato cenno di voler investigare, mandando i suoi investigatori o visitando lui stesso la regione, prima del 7 ottobre. C’erano le colonie che continuavano a essere rafforzate ed espanse, gli arresti arbitrari, incluso di minori, in numeri massicci, le uccisioni extragiudiziali: insomma c’erano una serie di cose che avrebbe potuto fare e, invece, ha peccato di inerzia. E la Corte non è esente da considerazioni politiche, basti guardare che cosa si è scatenato nei suoi confronti nelle ultime 24 ore: una serie di Stati – tra cui chiaramente Israele e gli Stati Uniti, ma anche qualche Stato europeo, membro cioè della Icc – ha contestato le richieste di arresto, «perché Israele è una democrazia». Ma che cosa c’entra che è una democrazia se è incapace e non intenzionata a investigare e perseguire i crimini rilevati dallo Statuto di Roma nel suo territorio?

C’è qualche legame tra quanto lei ha sostenuto nel suo ultimo rapporto, intitolato Anatomia di un genocidioe quanto affermato dal procuratore? È stata interpellata?

No. La Corte è indipendente, non ne fa mistero ed è giusto così. Il mio rapporto ha influenzato il dibattito, lo sta influenzando enormemente e non è stato contestato nella sostanza. Sicuramente la Corte conosce ciò che ho scritto. Il procuratore, in un’intervista, ha detto che il genocidio è un crimine che rileva e non ha escluso di investigarlo.

Quali saranno i primissimi passi della Corte?

Ora i giudici della Camera preliminare dovranno verificare se ci sono prove sufficienti e se ci sia una base ragionevole per procedere all’emissione degli ordini di arresto. Nel caso dovessero accogliere le richieste del procuratore, scatterebbe l’obbligo per tutti gli Stati membri dell’Icc, tra cui l’Italia, di arrestare le persone oggetto dei mandati. Una volta arrestati, come avvenne per Slobodan Milošević, verranno portati all’Aja e avranno inizio le udienze.

Quindi, se si verificassero tutti questi passaggi e Netanyahu venisse in Italia, potrebbe essere arrestato? O dovrebbe essere arrestato?

Il mandato d’arresto ha esecuzione immediata e non si prescrive per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. In tal caso l’arresto deve scattare.

Sia Hamas sia Israele, oltre agli Stati Uniti, hanno criticato le richieste del procuratore Khan, contestando, da entrambe le parti, il fatto di essere stati equiparati gli uni agli altri. C’è un’equiparazione, secondo lei?

No, sono argomenti senza alcuna connessione con la realtà, così come dire che Israele è una democrazia e che quindi non può essere accusata. Che cosa diciamo allora del sistema giudiziario di una democrazia che tiene sotto occupazione militare cinque milioni di persone, soggette a un sistema giudiziario totalmente diverso? Non c’è giustizia per i palestinesi ed è per questo che la Corte ha già dichiarato la sua giurisdizione per i territori palestinesi nel 2015.

I soggetti, palestinesi e israeliani, per cui sono stati richiesti mandati di arresto possono essere definiti criminali di guerra?

No, prima la Corte deve stabilirlo. Anche se, secondo me, sono già dei criminali.

Tutti?

Assolutamente sì. Secondo me, i membri del gabinetto di guerra israeliano, che hanno ordito e ordinato l’operazione militare a Gaza, sono colpevoli di genocidio e dovrebbero essere investigati per tale crimine.

E per quanto riguarda i leader di Hamas?

Sicuramente quelli delle Brigate Qassam (l’ala militare di Hamas) vanno assolutamente investigati e giudicati per i crimini commessi il 7 ottobre in Israele. Ho qualche perplessità su Ismail Haniyeh, perché lui ha sempre detto che non c’entrava niente e non sapeva niente. Ma non ho elementi sufficienti per commentare questa cosa, evidentemente la Corte ha a disposizione materiale che io non ho e di cui non sono a conoscenza.

Ma è favorevole alla richiesta di mandati di arresto per entrambe le parti?

Assolutamente sì, è quello che ho chiesto fin dall’inizio: mandati di arresto per coloro che hanno ordito e commesso i crimini, anche senza aver voluto, cioè coloro che hanno la responsabilità, perché sono nella catena di comando, per ciò che è successo il 7 ottobre. Poi, se le cose sono sfuggite di mano, questo è un altro problema, ma loro hanno la responsabilità effettiva di quello che è successo e vanno giudicati. Poi sarà la Corte a stabilire se sono dei criminali oppure no.

Qual è la differenza rispetto al Tribunale penale internazionale che venne istituito per l’ex Jugoslavia?

Semplicemente quello è stato un po’ un precursore, nel senso che era un tribunale con un mandato specifico, quello di investigare i crimini che erano stati commessi nel contesto del conflitto, all’indomani dello scioglimento dell’ex Jugoslavia. Quindi era un tribunale speciale, come quello sul genocidio in Ruanda. Questa, invece, è una Corte universale, nata anche sulle fondamenta gettate con quelle esperienze, ma che si applica a tutti i Paesi che ne sono membri e anche ai cittadini di Paesi non membri, che abbiano commesso violazioni nel territorio di uno degli Stati membri. In questo caso, gli israeliani (che non riconoscono la Corte, come russi e statunitensi), ma anche, per esempio, americani, francesi e belgi, che fanno parte dell’esercito israeliano e che hanno commesso crimini o altri, di diverse nazionalità, che possono essersi uniti ad Hamas e aver commesso crimini.

L’ultima mossa del procuratore è stata preceduta di poco da minacce, nemmeno troppo velate, di dodici senatori repubblicani statunitensi, che in una lettera gli hanno sconsigliato di prendere posizione contro Netanyahu e Israele, pena ritorsioni. Anche lei ha ricevuto delle minacce, è vero?

Dico solo che se ne stanno occupando gli organismi competenti.

Sono riconducibili a soggetti italiani?

Non lo so.

Ha paura?

No.

Se laspettava?

No, assolutamente. O almeno non mi aspettavo di dover essere preoccupata per la mia sicurezza e per la sicurezza della mia famiglia. Adesso mi rendo conto che è un sistema molto più violento di quanto immaginassi e non solo per queste minacce, ma per quello che vedo succedere a qualsiasi manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese.

La questione palestinese è tornata nelle piazze, i giovani e gli studenti di mezzo mondo chiedono che venga non solo cessata loffensiva contro Gaza ma che i diritti dei palestinesi siano riconosciuti una volta per tutte. I governi però sembrano andare in senso contrario. Lei è ottimista?

I giovani chiedono che i palestinesi siano liberi, è una cosa meravigliosa: c’è una rivoluzione culturale in corso, che riconosce il colonialismo come non si è mai riconosciuto universalmente prima, che riconosce l’interconnessione tra le lotte, quella per la giustizia ambientale, climatica e le lotte dei popoli del Sud del mondo, che non sono così diverse da quelle nelle nostre società post-democratiche. Io dico che è la lotta contro l’erosione dei diritti che si ritenevano acquisiti. La politica la fa la gente e questo è un momento di grande rinnovamento politico. Ci vorrà ancora un decennio, forse, perché le cose si assestino, ma ormai il treno non si ferma.

Da il manifesto – «È strano veder arrivare condoglianze da tanti paesi, come se Raisi fosse stato un normale presidente regolarmente eletto. L’ambasciata italiana a Teheran ha espresso le sue condoglianze. Capisco la consuetudine politica, ma colpisce che chi dice di sostenere i diritti delle donne iraniane poi esprima dolore per un uomo che le ha oppresse».

Della morte di Raisi e di quanto si muove nella società iraniana abbiamo parlato con un’attivista femminista iraniana, in condizione di anonimato. Attiva fin dal 2006 nel movimento per i diritti delle donne e poi nel movimento verde seguito alle elezioni del 2009, nel 2013 ha partecipato al lancio della campagna sul diritto delle donne a entrare negli stadi per poi diventare attiva nella rete di movimenti femministi mediorientali.

Cosa ha rappresentato Raisi per l’Iran?

Credo sia utile tornare al gennaio 2020, quando fu abbattuto l’aereo ucraino sopra i cieli di Teheran e furono uccise quasi duecento persone. Il regime mentì per due giorni per poi ammettere la responsabilità. È stato un punto di svolta per moltissimi iraniani: eravamo abituati a partecipare alle elezioni e a scegliere tra il male e il peggio, ad avere una piccola finestra di azione e negoziato con il regime. Ma in quel momento abbiamo capito che non era possibile. Abbiamo completamente ignorato le elezioni dell’anno successivo, quando Raisi fu eletto. Fu registrata la più bassa affluenza della storia della Repubblica islamica: il leader supremo Khamenei ci stava dicendo che era lui a decidere, che il presidente era solo una sua marionetta. Le decisioni venivano prese dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie, il braccio del leader supremo. È stato di nuovo chiaro dopo l’uccisione di Mahsa Amini e la rivolta: il controllo del paese è sempre di più nelle mani delle forze militari e del leader supremo.

Molti descrivono Raisi come un presidente debole. È sempre stato così? Il potere concentrato nelle mani di Khamenei e dei pasdaran, a prescindere da chi sia il presidente?

Sono stata attiva nella società civile sotto Khatami, Ahmadinejad, Rouhani e se ora guardo indietro a quegli anni capisco che la strategia del regime è sempre stata quella di creare una sorta di opposizione interna per motivare le persone che si opponevano al regime ad andare a votare. Pensavamo di poter trovare uno spazio in un regime brutale in modo democratico, per migliorare le condizioni dei diritti umani. Con il tempo quella strategia di armonia è diventata obsoleta, il regime si è reso conto che creare un’opposizione interna, come Khatami o Rouhani, generava troppi problemi. Con Raisi la strategia è diventata la voce unica: il regime non vuole una voce più grossa di quella di Khamenei. Non ci sono altre opzioni. In un certo senso è un bene: ora sappiamo che non possono più manipolarci.

Dopo la notizia dell’incidente aereo prima e della morte di Raisi poi, qual è stata la reazione dei cittadini e degli attivisti?

Quando sono sotto una grande pressione, gli iraniani reagiscono con l’umorismo nero. È successo anche il mese scorso con l’attacco israeliano. Siamo onesti, quella di domenica è stata una notte “divertente”, l’umorismo iraniano è da sempre un meccanismo di difesa. Il clima è cambiato il giorno dopo, quando abbiamo saputo della morte di Raisi: sulle piattaforme social la gente ha iniziato a scrivere altro, a ricordare le persone che lui mandò a morire negli anni ’80. Dopo l’ironia, è venuto il momento del ricordo di parenti, amici. C’è chi ha ricordato lo zio, chi il fratello, tutto in forma anonima. Altri di noi hanno ricordato chi è stato ucciso negli ultimi due anni.

Diversi esperti avvertono del pericolo di una nuova ondata repressiva dopo la morte di Raisi, un modo per dire che il regime non ne esce più debole.

È una paura sempre presente, lo abbiamo visto anche nel recente passato dopo l’uccisione del generale Soleimani o dopo calamità che hanno colpito la popolazione. È il regime che ci dice “non è cambiato nulla”. Ora ci troviamo in un periodo di grande oppressione. Se nei mesi successivi alla morte di Mahsa Amini non c’era la polizia morale nelle strade, è tornata in contemporanea alle nuove minacce israeliane. Il regime voleva mostrare che nulla era cambiato. Come donna non uscivo molto se non in auto, temevo di essere arrestata. Ma l’oppressione la vedi anche altrove, nella vita di tutti i giorni a causa dell’aumento dei prezzi di beni necessari.

A fine giugno si terranno le elezioni. Cosa vi aspettate?

È un lasso di tempo molto breve e tra gli uomini del regime non ce ne sono molti che possono fare il presidente. In ogni caso alla gente non importa. Ho quarant’anni e ho visto tante elezioni, ma mai un’affluenza così bassa. Alle ultime, a marzo, non c’erano nemmeno tanti manifesti per strada. Perché il regime lo sa che alla gente non importa più. È uno spettacolo già scritto.

Si aspetta nuove proteste in futuro?

Basta esprimere una minima forma di dissenso, anche solo un tweet, per essere arrestati. In questi giorni chi ha scritto commenti sulla morte di Raisi è stato convocato in tribunale. La sollevazione di due anni fa è stata come l’esplosione di un vulcano, oggi è un fuoco che brucia sotto la cenere. Non vedo molti elementi per una rivolta nell’immediato, ma è anche vero che l’arrivo dell’estate può provocare nuove proteste, soprattutto nelle province meridionali per la mancanza d’acqua e di elettricità come accaduto in passato. A Teheran sarà più difficile: siamo davvero esausti e moltissimi giovani hanno ancora casi pendenti, sono fuori su cauzione, stanno scommettendo sulle proprie vite.

Da Corriere della Sera – Essere giovani oggi è tremendo. Perché sei senza punti di riferimento.

Cosa intende, Ultimo?

Non conosco nessun ragazzo della mia età che vada a votare, e nessuno che vada in chiesa.

Forse c’è un legame tra le due cose. Lei cosa vota?

Io non ho mai votato in vita mia. Non dico sia giusto. Non me ne vanto, non me ne vergogno. Certo non è colpa dei giovani.

Di chi allora?

Della politica. La politica è scarsa. Non parla ai ragazzi e non ci prova neppure. Non parla a me che ho ventott’anni; figuriamoci a un diciottenne. Siamo stufi di questa spaccatura tra destra e sinistra. Immagini quale effetto avrebbe un politico che dicesse: io non scelgo né la destra né la sinistra. Scelgo l’alto.

Destra e sinistra esistono. Da sempre.

Sono contrapposizioni che hanno stancato. Fascisti e comunisti: i giovani non ne possono più. Cos’è la sinistra? L’ipocrisia del buonismo? Cos’è la destra? Il cattivismo di chi chiude i porti a coloro che muoiono in mare?

Lei come la pensa?

«Sono temi complessi, non mi piace chiuderli in tre righe, ma nemmeno nascondere quello che penso. L’immigrazione esiste da sempre e tutti siamo immigrati di qualcuno: nascere a Roma anziché a Bamako, dove con Unicef ho visto di persona come si vive, non è talento, è culo; chi nasce in zona di guerra e di terrorismo ha diritto a vivere la propria vita altrove. Questo è di sinistra?

Così dicono.

Ma per fare un altro esempio, se sono in casa con la mia ragazza, la mia famiglia, ed entra un criminale, io per difendere la mia ragazza, la mia famiglia, gli sparo. Questo è di destra?

La vedo bellicoso.

Ma no, non ho neppure la pistola, non ci penso neanche. E legalizzare le droghe leggere? È di destra o sinistra? Io non capisco perché uno può scolarsi una bottiglia di whisky fino a morirne, e un altro non può farsi una canna in pace.

Non so se la Schlein sarebbe d’accordo.

Boh, sa che io a volte fatico a capire di cosa parla?

La Meloni rivendica di essere una donna del popolo, di borgata.

Forse è per questo che è la più votata? Ma non sento nessuno, neppure la Meloni, affrontare quello che sta a cuore ai giovani. Non vedo politici in strada, nei bar, tra la gente. In tv non c’è una buona notizia. Guerre. Bombe. Su X già annunciano la prossima pandemia. Ma ci rendiamo conto di quale trauma sia stato per i ragazzi la pandemia?

Lei come l’ha passata?

A scrivere canzoni. Ho dovuto rinunciare a un tour con quindici stadi già organizzato. Ma per carità, so benissimo che per altri è stato molto peggio. C’è una generazione che non ha fatto il viaggio della maturità, che si è vista bloccata in casa al momento di spiccare il volo, che ha perso per sempre opportunità che non tornano.

Parlare di salute mentale non è più tabù. Lei ha sempre la psicoterapeuta?

Certo. Troppi ragazzi passano dieci, dodici ore al giorno a scrollare video su TikTok. I social ti anestetizzano. Ti stuprano il cervello.

Lei su Instagram ha 3 milioni e 600 mila follower.

Nei social siamo dentro tutti. Ma un conto è postare una foto; un altro passarci la giornata. Qualche volta ci casco pure io; figurarsi un dodicenne. Guardi il video di uno che cucina, il video di uno che cade dal terzo piano, il video sulla tua squadra preferita, il video sul tuo cantante, il video di uno che cade in bicicletta… Ti dà dipendenza. Ci stiamo addormentando. Stiamo diventando amebe.

La vita virtuale prevale su quella reale?

Non lo so, ma vedo che la gente non esce più di casa. Per strada ha paura, in periferia e non solo. I giovani sono anestetizzati. Fermi. Aspettano un domani che non arriva e non arriverà. Postano cose che non hanno. Mangiano a casa ma fingono di essere al ristorante.

Per cambiare la politica bisognerebbe farla.

Ma i cantautori fanno politica. Io nel mio piccolo penso di fare politica con le mie canzoni. «Dalla parte degli ultimi per sentirmi primo» è un verso politico. “Alba”, credo sia una canzone politica: parla dell’interiorità, dell’idea di superare se stessi. Un medico che lavora nel privato e il sabato va negli ospedali a curare i malati gratis fa politica. Come un medico che va in zona di guerra a curare i feriti. Ognuno deve fare politica con i propri mezzi e conoscenze. Certo, la politica conta fino a un certo punto.

Cosa intende?

Credo non sia Biden a comandare. Biden è un interlocutore tra la gente e quelli che comandano davvero.

Chi sono?

I padroni del Mercato. I giganti del commercio digitale. Quelli che non pagano le tasse: un menefreghismo vergognoso. Lo Stato perseguita l’idraulico che ha evaso venti euro, e si disinteressa di quelli dei paradisi fiscali. Chi ha di più deve dare di più. Invece abbiamo costruito un mondo in cui più sei ricco, meno paghi. Un mondo al contrario.

Qui siamo a Vannacci.

Vannacci è incommentabile.

Cos’altro non le piace della politica?

Mi sembra che si stia esagerando con il globalismo. La bellezza è nel fatto che siamo diversi. Io sono diverso da un cinese. Non sopra, né sotto; diverso. La diversità va difesa, non strumentalizzata dalla politica.

Nelle università molti studenti si impegnano per la Palestina.

La guerra è sempre sbagliata, certo. Io sono del 1996, sono nato con la guerra, i miei primi ricordi sono legati alla guerra in Iraq, la mia generazione è cresciuta vedendo bombe alla televisione. Non impugno la bandiera palestinese come non impugno quella di Israele, perché non è una partita di calcio.

E in chiesa ci va?

Da piccolo ci andavo. Crescendo diventi più realista.

Crede in Dio?

Sono sempre alla ricerca. Ho bisogno di credere, sento una grande fede dentro. Ma un conto è credere in un dio, in un’entità, nelle energie; e io credo nelle energie, in quelle che Jung chiamava le sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto. Un altro conto è credere nella Chiesa.

Papa Francesco?

Lo ascolto quando invoca la fine delle guerre. Condivido, ovviamente. Non so se il Papa possa fare di più, certo non può andare al confine di Gaza. Sinceramente, non mi pare che neppure lui sia un punto di riferimento per i giovani. Ne conosco pochi che si dicono cristiani. Anche se in realtà lo siamo.

Lo diceva Benedetto Croce.

Se sei fidanzato e tradisci, ti senti in colpa: e questo ti viene dalla cultura cristiana. Come l’attaccamento alla famiglia. Ma se ti rivolgi alla Chiesa per trovare un senso alle cose, puoi restarne deluso.

Perché?

Noi proviamo a dare un senso alle cose. Ma la realtà non è sensata. La realtà è tremenda. È schifosa. Guerra, paura, sottomissione, chiusura: stai attento a quello, non fare quell’altro. Per questo ci costruiamo un altrove.

[…]

(Corriere della Sera, 12 maggio 2024, apparso con il titolo Ultimo: «Non conosco coetanei che votino o vadano in chiesa. Essere giovani è tremendo»)

Da Pagine Esteri – Due anni fa, l’11 maggio 2022, veniva assassinata la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh. Si trovava nel campo profughi palestinese di Jenin per raccontare uno dei tanti raid dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata. È stata uccisa da un proiettile che l’ha colpita alla testa nonostante la scritta PRESS fosse chiaramente visibile su casco e giubbotto di sicurezza.

Tra le altre, un’indagine dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha concluso senza dubbio che il colpo è stato sparato da un soldato israeliano. Le immagini dell’esercito che carica e colpisce i palestinesi che portano sulle spalle la bara di Shireen, durante il suo funerale, hanno fatto il giro del mondo, suscitando sdegno e disapprovazione.

Dopo aver tentato di incolpare i palestinesi per l’accaduto, Israele ha definito la sua morte un “incidente” e si è rifiutato di aprire un’indagine penale.

Palestinese con doppia cittadinanza statunitense, Shireen Abu Akleh era una giornalista molto conosciuta, di grande esperienza ed estremamente apprezzata. In Cisgiordania sono decine i murales che la ritraggono e i luoghi dedicati alla sua memoria, presenti anche in molti altri Paesi del mondo. È diventata un simbolo di coraggio e di libertà non solo per i giornalisti ma per tante persone che hanno conosciuto la sua storia e ne hanno apprezzato il lavoro. Nel campo profughi di Jenin, nel punto in cui è stata uccisa si ergeva un memoriale che l’esercito israeliano ha distrutto in un raid nello scorso mese di ottobre, insieme alle strade del campo profughi e alla rete idrica.

Dopo la sua morte gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele un’inchiesta sull’accaduto. Proprio come decine di volte è accaduto in questi setti mesi di guerra a Gaza. Quando Tel Aviv ha dichiarato che si è trattato di un “incidente” e che non avrebbe indagato oltre, Washington si è detto soddisfatto e ha chiuso la questione senza domandare un’inchiesta indipendente: per gli Stati Uniti Israele ha istituzioni che gli permettono di indagare su se stesso. Seguendo questa convinzione l’amministrazione Biden si è detta contraria anche al coinvolgimento della Corte Penale Internazionale.

In realtà varie associazioni per i diritti umani, anche israeliane hanno ormai da tempo testimoniato con dati e relazioni precise che molto raramente Israele persegue i propri soldati.

«Sono passati due anni da quando l’esercito israeliano ha ucciso una dei giornalisti palestinesi più emblematici della regione» ha scritto venerdì 10 maggio Reporter senza frontiere. «Due anni dopo l’omicidio di Shireen Abu Akleh in Cisgiordania e un anno dopo le scuse ufficiali di Israele che ha riconosciuto la sua responsabilità, si aspetta ancora che venga fatta giustizia. Reporter senza frontiere (RSF) condanna questa impunità e invita la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, a fare pressione sull’esercito israeliano per rispondere dell’uccisione di Abu Akleh».

Più di cento giornalisti sono stati uccisi nella Striscia di Gaza in sette mesi di guerra. Un numero altissimo, che rende il conflitto in corso il più letale della storia per i reporter. Fino a questo momento, tuttavia, Israele gode della stessa impunità di cui si è avvalso per l’omicidio di Shireen. Il governo Netanyahu ha inoltre attaccato il network Al Jazeera, chiudendo le sue trasmissioni, gli uffici, sequestrando computer, apparecchiature e oscurandone i siti web.

«“Protezione” è la risposta enfatica dei giornalisti di Gaza quando gli viene chiesto da RSF di cosa hanno più bisogno oggi. Hanno vissuto in costante terrore dal 7 ottobre, contando la morte di persone care e colleghi. Secondo il conteggio di RSF, almeno 105 sono stati finora uccisi da attacchi aerei israeliani, razzi e spari, di cui almeno 22 nel corso del loro lavoro.

Nonostante le ripetute richieste da parte delle Ong, tra cui RSF, per l’apertura del valico di frontiera di Rafah, solo i giornalisti incorporati nelle forze di difesa israeliane sono stati in grado di entrare a Gaza e si limitano a coprire le aree consentite dall’esercito. Nel frattempo, Israele ha permesso solo a una manciata di giornalisti di Gaza di essere evacuati».

(Pagine Esteri, 11 maggio 2024)

https://ilmanifesto.it/cdn-cgi/image/width=1400,format=auto,quality=85/https://static.ilmanifesto.it/2024/05/1905-pg11-f02-1.jpg
Francesca Woodman da Angel series, Roma 1977

Da il manifesto, Alias – Chi ama e ha amato il lavoro di Francesca Woodman sa che quella ricerca pulsa intorno a una disparizione di sé: paradossalmente proprio nel suo autoritrarsi ossessivamente attraverso il mezzo fotografico l’artista pareva quasi sempre eludere quest’ultimo, e ritrarsi dal suo mortifero incantesimo – peculiarità della fotografia, il legame fotografia-morte, così accoratamente individuato da Roland Barthes nella Chambre claire. Gran parte del fascino enigmatico esercitato dal lavoro della Woodman risiede appunto in una sorta di continua e baluginante oscillazione tra offuscamento ed evidenza, che scandisce quelle sue fotografie in fondo alle quali era usa, mostrandosi, nascondersi, mai rivelarsi, pur dandosi, allo stesso modo in cui il corpo suo si dissimulava nell’incastro tra gli oggetti e gli ambienti.

Nonostante la tentazione di connettere intimamente arte e vita della Woodman – chi non ha mai anche solo sospettato, a una lettura postuma, che dietro quelle messe in scena da cui tracimavano sensazioni di perdita, di desiderio, di costrizione del corpo, di un camuffarsi esistenziale nel mondo, non si celassero sinistri presagi? –, va ribadito che l’artista tenne sempre separate le proprie nature identitarie: quasi mai appare come persona nei suoi autoritratti – sempre velata, mascherata, la testa girata, nascosta, esclusa dalla fotografia, fuori fuoco –, dove appare invece come modella di se stessa, la modella più complice e affidabile che potesse trovare per comprendere ed eseguire le proprie istruzioni di artista, e questo è stato letto, per esempio da Rosalind Krauss in anni recenti, in relazione a un metodo operativo che voleva essere formalistico, non interessato alla narratività, né tanto meno espressionistico.

È la disparizione che strega letteralmente Bertrand Schefer, autore del volumetto Francesca Woodman ora tradotto da Johan & Levi (pp. 68, euro 14,00). Il filosofo e romanziere francese e l’artista americana si incontrano idealmente nel 1999, quando lei era già morta da diciotto anni, toltasi la vita all’età di ventuno, e lui, già traduttore in francese di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, si trovava alla Fondation Cartier pour l’art contemporain per iniziare un lavoro nel settore editoriale. Gli mostrarono allora, a scopo esemplificativo, il catalogo di una mostra sulla Woodman da loro appena pubblicato. Schefer ne rimase estremamente colpito, forse inizialmente disturbato, ma fu l’innesco di un’ossessione dai risvolti personali che, anni dopo, verrà attizzata e intensificata dalla visione di alcune fotografie amatoriali scattate alla Woodman da un compagno di corso durante i tempi della Rhode Island School of Design.

Schefer inizia proprio da tali immagini un’indagine dai toni a tratti intimi, alla ricerca di quella Woodman più autentica – la ragazza americana adolescente, che cercava di affermarsi come artista, senza sacrificare la sua genialità alla costruzione della carriera, opportunisticamente, e per questo forse rimasta ai margini –, che in anni e anni di rimuginio sul suo lavoro era rimasta per Schefer, per noi tutti, una figura necessariamente evanescente e indeterminabile. Per quanto possa sembrare opinabile questa posizione dello scrittore, che appare ribaltare il senso di lettura della vita e dell’opera della Woodman, spostando l’interesse del proprio racconto su quell’aspetto estremamente privato che lei aveva teso a obliterare, il suo libro nasce da qui.

Rimarrà quindi profondamente deluso il lettore che cerchi un’esaustiva biografia dell’artista americana, o una dotta sistematizzazione storica e critica, poiché il libro di Schefer si propone piuttosto come un racconto letterario e affettivo, a tratti poetico, forse cinematografico nel ritmo, che vuole essere «une sorte de dialogue entre elle et moi», e che risuona dell’urgenza di un atto d’amore – un amore impossibile, come quelli tra uomini e fantasmi.

Il libro ben si inserisce in prospettiva con le altre produzioni di Schefer, dotto traduttore dall’italiano, sì, eppure anche autore di riflessioni ellittiche sospese tra racconto autobiografico, saggio e poesia in prosa, in cui entra spesso e volentieri la riflessione sul mezzo fotografico, e che prendono la forma ora di intime meditazioni sul ricordo di una persona scomparsa, amata e mai nominata (Cérémonie, 2012), ora di un processo di ricomposizione della figura della madre, e della propria esistenza, innescato proprio da una fotografia vista da bambino, e ricordata (La photo au-dessus du lit, 2014), ora di un ennesimo svolgimento sul tema della relazione tra immagini e parola, teso a definire il filmare la disparizione come elemento motore del cinema (Disparitions, 2020).

La Woodman pure, d’altra parte, mostrava interesse per il rapporto fotografia-scrittura. Alcuni suoi scatti erano corredati di brevi frasi, per non parlare dei quaderni fotografici, sulla scia del misterioso Nadja di André Breton, libro che il vate del surrealismo aveva composto con testo e immagini associati, a restituire il ricordo e l’essenza di una donna amata, svanita, e di se stesso insieme: «Vorrei che le parole avessero con le mie immagini lo stesso rapporto che le fotografie hanno con il testo in Nadja di André Breton – enunciava la Woodman in una dichiarazione riportata da Roberta Valtorta –. Egli coglie tutte le illusioni e i dettagli enigmatici di alcune istantanee abbastanza ordinarie e ne elabora delle storie. Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza». E Nadja aleggia anche tra i convitati di pietra, assenti eppure mai eludibili, che infestano la poetica di Schefer: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio, in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto», attaccava del resto Breton il suo libro. Va insieme al Barthes che cerca in fondo alle fotografie la madre scomparsa.

«You cannot see me from where I look at myself», scriveva Francesca sul suo diario, frase citata nel libro e associata al primo, potentissimo quanto inconsapevole, autoscatto realizzato a tredici anni con la Yashica appena regalatale: si direbbe quasi che Schefer l’abbia presa come una sfida personale.

Il Giornale di Sicilia – Sicuri di vivere in una società democratica, progressista e inclusiva? Sicuri si possa dibattere di temi cruciali per le donne? A occhio e croce chiunque risponderebbe di sì. E, invece, leggendo il volume curato da Daniela Dioguardi, Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi editore, 92 pp., 14 €), le certezze in cui ci siamo cullate vengono demolite con la logica dei fatti messi nero su bianco da dodici (scomodissime) femministe, Daniela Dioguardi, Silvia Baratella, Marcella De Carli, Lorenza De Micco, Anna Merlino, Caterina Nuccia Gatti, Cristina Gramolini, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Roberta Vannucci e Stella Zaltieri Pirola. Donne che parlano di donne ma soprattutto della sinistra politica che si definisce progressista ma che, invece, chiudendosi al confronto sulle questioni chiave del terzo millennio, sta diventando antidemocratica se non oscurantista. Dalla maternità surrogata all’affido condiviso nelle separazioni passando per l’identità di genere (che sostituisce il sesso), le autrici del pamphlet con i loro interventi (criticissimi) hanno il pregio di riportare al centro la prospettiva delle donne per evitare che l’inclusione indifferenziata le cancelli nuovamente.

Francesca Izzo (che nel 2018 ha abbandonato il Pd, in polemica sul tema della surrogazione di gravidanza), nell’introduzione lo scrive chiaro e tondo: «In questo volumetto troverete fatti, racconti di esperienze, pensieri meditati su alcune questioni che hanno provocato aspri contrasti nel modo femminista e hanno allontanato molte (me compresa) da partiti e organizzazioni della sinistra a cui erano appartenute o a cui avevano guardato con simpatia». E passa in rassegna quanto le dodici autrici illustreranno su temi divisivi, sugli effetti paradossali e a volte grotteschi prodotti dalla ricerca imperante e ossessiva, nella cultura mainstream, dell’inclusione, della parità, del diritto eguale a scapito della differenza sessuale. Possibile che, in nome di questi principi, a prima vista corretti e democratici, accada oggi che venga cancellato il riferimento alle donne nel contesto della violenza maschile? Che venga ignorata la asimmetria tra madre e padre nell’affido condiviso? Oppure che «venga fatto cadere il riconoscimento di una peculiare storia politica delle donne […] e sempre in nome della libertà si sdoganino prostituzione e pornografia e si tenti di archiviare tra i reperti del patriarcato il dato reale e simbolico che i sessi sono due»?

Da Altraeconomia – Si fatica a respirare tra la folla di manifestanti, dall’alto si vede una distesa immensa di bandiere con la stella di David. Ad altezza uomo, invece, centinaia di migliaia di cartelli. I cecchini dell’esercito di Tel Aviv presidiano i tetti delle case di Gerusalemme Ovest, mentre un fiume di manifestanti sfila verso la Knesset, il Parlamento israeliano.

«Edan Alexander, 20 anni, riportatelo a casa», si legge in uno degli striscioni. Il fratello lo tiene gelosamente tra le mani, lo sguardo dritto di fronte a sé e la voce rauca di chi ha trasformato il dolore in rabbia: «Bibi, è il momento di dimetterti!». A fine marzo e poi ancora il movimento contro Benjamin Netanyahu è tornato in piazza con quella forza e quella determinazione che il 7 ottobre aveva improvvisamente congelato.

«Protestiamo da diverse settimane. Vogliamo che Netanyahu si dimetta e vada in prigione, stiamo cercando di fare più pressione possibile per chiedere il rilascio delle persone ancora trattenute a Gaza. Il mio governo sta uccidendo la mia gente e anche altre persone innocenti. Noi vogliamo la pace che in questa terra si traduce nella possibilità di vivere qui e fare in modo che i palestinesi abbiano il loro posto. Non vogliamo che questa guerra continui, e non vogliamo essere governati da persone fasciste e corrotte. Il governo non sta facendo niente per risolvere la situazione, la sta solo peggiorando perché Netanyahu ha paura di andare in prigione e sa che, quando finirà la guerra, lui verrà arrestato. Sta proteggendo i suoi interessi e non quelli delle persone», spiega una manifestante.

«Molti qui non vogliono la guerra a Gaza – continua – non vogliono che persone innocenti vengano ammazzate. Pensiamo che Hamas non meriti di esistere ma distinguiamo Hamas dai palestinesi. Speriamo che la guerra finisca ma non vogliamo più che Hamas governi Gaza. Ciò che è accaduto il 7 ottobre è stato un massacro e le persone di Hamas non sono parte della resistenza, sono criminali, noi ne siamo le vittime adesso, ma tutto il mondo potrebbe esserlo un giorno».

È il primo pomeriggio di quelli che saranno sette giorni ininterrotti di proteste in Israele per chiedere l’immediato rilascio degli ostaggi ancora trattenuti a Gaza e la caduta del governo Netanyahu. Una protesta che rispecchia tanto le tensioni interne, quanto i paradossi della società israeliana. Sebbene moltissimi cittadini del Paese siano furiosi contro Netanyahu e ne chiedano le dimissioni, la maggior parte dei manifestanti fa riferimento ai massacri del 7 ottobre come se il tempo si fosse fermato a quel giorno. La centralità e la violenza dell’esercito nella società israeliana non sembrano messe in discussione neanche di fronte al genocidio in corso a Gaza.

D’altronde, tra le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza in questi mesi, ci sono israeliani di diversi orientamenti politici che si sono uniti in solidarietà alle famiglie degli ostaggi e all’indignazione per il loro abbandono dentro la Striscia. La maggior parte dei manifestanti, comunque, gravita intorno all’area di centrosinistra, sionisti liberali che già l’anno scorso protestavano contro il governo Netanyahu e la riforma della giustizia.

Allora al centro del movimento di protesta c’era il tentativo di difendere la Corte suprema israeliana dalla riforma portata avanti dal ministro della Giustizia Yariv Levin per conto del governo. Ma quello che sembra mancare nelle rivendicazioni democratiche dei manifestanti israeliani liberali di ieri e di oggi sono i diritti dei cittadini palestinesi, che non hanno mai avuto fiducia nel sistema giudiziario israeliano né tanto meno nella sua democraticità. D’altronde si tratta dello stesso tribunale che non ha impedito l’espropriazione indebita delle terre palestinesi, non ha protetto i cittadini arabi dalle demolizioni delle case, non ha difeso lo status della lingua araba, e ha permesso che altre leggi ingiuste e razziste venissero approvate.

Intanto in coda al corteo, distanti diversi metri dal resto dei manifestanti, alcuni cartelli recitano «nessuna democrazia sotto occupazione», «free Palestine», «stop the genocide», «democrazia per tutti».

Ada, una manifestante all’interno del piccolo gruppo di persone contro l’occupazione militare israeliana in Palestina, urla: «La democrazia non è possibile senza uguaglianza, la democrazia non può coesistere con l’occupazione e il controllo militare in Cisgiordania».

«Il governo in carica non è un’eccezione ma parte di un’ideologia e di un progetto fondato su supremazia etnica e razzismo – spiega l’attivista – Noi sappiamo di non avere solo un problema con il nostro governo ma con tutto il sistema di occupazione e colonizzazione della Palestina. Non vogliamo questa guerra, che non ha nessuno scopo, ma neanche l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania. Non condividiamo le idee della maggior parte dei manifestanti qui oggi, ma questo è un grande gruppo che si oppone al governo, e dobbiamo sfruttarlo – continua – Personalmente non nutro nessuna aspettativa rispetto al dibattito in parlamento perché anche l’opposizione oggi è di destra, la sinistra sionista non è davvero sinistra, e la maggior parte dei cittadini israeliani è a favore della guerra. Ma noi siamo qui, anche se solo un piccolo gruppo, per alzare la nostra voce e ricordare che non esiste democrazia sotto occupazione».

All’interno delle proteste contro la coalizione di estrema destra è presente, infatti, una parte della popolazione israeliana che chiede anche la fine dell’occupazione, del regime di apartheid e del massacro in corso a Gaza. Si tratta del “blocco contro l’occupazione” che raccoglie diverse sigle tra cui Hadash (partito comunista con sede in Israele formato per il 90% da arabo-palestinesi) e il suo movimento giovanile, Breaking the Silence, Ong fondata da ex militari israeliani per far luce sulle politiche di occupazione, Standing together e altre. Insieme a loro anche i giovani israeliani che rifiutano il servizio militare, tre dal 7 ottobre a oggi, e diversi palestinesi con cittadinanza israeliana.

Lo spezzone in coda procede con rigorosa distanza dal resto dei manifestanti, quasi fosse un corpo estraneo. A seguire solo le forze dell’ordine. I metri che separano fisicamente il corpo centrale della manifestazione dal blocco contro l’occupazione sono una rappresentazione in scala ridotta della distanza che, dopo il 7 ottobre, divide le posizioni di chi sostiene la lotta contro l’occupazione dall’ampio movimento che è tornato a sfidare il governo Netanyahu.

Ma se da un lato la continuazione degli orrori della guerra in atto ha radicalizzato e reso sempre più distanti tutte le posizioni in campo, facendo carta straccia di ogni forma precedente di convergenza e collaborazione arabo-israeliana, dall’altra rende quest’ultima ancor più necessaria, mostrando in tutta evidenza l’impossibilità di far scomparire la questione palestinese sotto il tappeto della storia. Rimane così solo il fragile filo della speranza che il movimento guidato da liberali e familiari degli ostaggi possa portare a una riflessione più ampia e aprire nella società israeliana una discussione sui rapporti di dominio e supremazia a cui le comunità arabo palestinesi sono sottoposte da decenni. Questo nell’interesse di tutti coloro che vivono “tra il fiume e il mare”.

Da Radio Popolare – Elena Mordiglia, giornalista di Radio Popolare, è venuta a trovarci alla Libreria delle donne un piovoso venerdì pomeriggio. Abbiamo parlato con lei di libri, di come si lavora in libreria e naturalmente di femminismo. Dalla nostra conversazione è nata una puntata della sua trasmissione “Sui generis”, andata in onda nella serata di venerdì 17 maggio 2024.

Qui di seguito il link al podcast

(Radio popolare, 21 maggio 2024)

Da Avvenire – «Vado io al commissariato». Con questa frase secca, pronunciata in preda all’angoscia, Nora Morales de Cortiñas ha cominciato la sua seconda vita. Era il 16 aprile 1977. Nora aveva da poco compiuto quarantasette anni e meno di 24 ore prima il suo figlio maggiore, Gustavo, era desaparecido. Due militari in borghese gli si erano avvicinati mentre si accingeva a prendere il treno alla stazione di Castelar per raggiungere il lavoro a Buenos Aires, a mezz’ora di distanza. Gli avevano puntato una pistola alla schiena e l’avevano caricato sull’auto. Da quel momento, Gustavo ha smesso di vivere senza poter morire. Questo significa essere un desaparecido. Accadeva spesso nell’Argentina dell’ultima dittatura, tra il 1976 e il 1983. Oltre trentamila donne e uomini – per lo più giovani – sono stati risucchiati dalla macchina repressiva del regime. Sequestrati e rinchiusi in oltre cinquecento campi clandestini, torturati, drogati, caricati sugli aerei e gettati ancora in vita nelle acque dorate del Rio de la Plata. I loro corpi, la stragrande maggioranza delle volte, non sono mai stati ritrovati. Nora tutto questo l’avrebbe scoperto molto dopo.

All’epoca, come le ripeteva il figlio, «vivevo rinchiusa tra quattro mura». Poi, quel giorno, ha deciso di uscire. «E non sono mai più tornata indietro» racconta la cofondatrice delle Madres de Plaza de Mayo nonché pilastro di Madres – Línea fundadora – uno dei due rami in cui si è diviso il movimento nel 1986 – nel giardino della sua casa di Castelar dove riceve gli ospiti vestita con cura impeccabile e un filo di matita azzurra intorno agli occhi, i capelli color argento liberi dal fazzoletto. La voce è flebile e cammina grazie all’aiuto di un bastone. A novantaquattro anni, però, Nora continua ad andare avanti, inarrestabile. Agli scioperi generali contro i tagli alla spesa pubblica del governo di Javier Milei, è stata in prima fila. E, ogni giovedì alle 15.30, la si incontra puntuale alla “Piramide” di Plaza de Mayo per la “ronda”: la marcia di mezz’ora intorno al monumento di fronte alla Casa Rosada che le Madres compiono da 2.448 settimane.

Nora, avrebbe mai pensato di diventare un’attivista?

Assolutamente no. Per quarantasette anni sono stata una semplice casalinga. La moglie innamorata di Carlos e la madre di due figli maschi studiosi e grandi lavoratori. Due giovani coraggiosi il cui sogno di migliorare le condizioni dei più poveri li ha portati a militare nel gruppo peronista dei Montoneros. Per questo la dittatura li ha perseguitati. E Gustavo è “desaparecido” quando aveva ventiquattro anni.

Chi è Nora ora?

La donna che Gustavo l’ha portata ad essere.

Mi spieghi…

Quando mio figlio è scomparso non sapevo che cosa fare. Sono uscita di casa e ho cominciato a bussare a tutte le porte. Sono andata dalle organizzazioni per i diritti umani, nei commissariati, nelle caserme, nelle prigioni, ovunque. A tutti ripetevo le stesse domande: «Dove si trova Gustavo? Sta bene? È vivo?»

Che cosa le rispondevano?

Tutti dicevano di non sapere niente. I responsabili degli organismi per i diritti perché effettivamente non avevano informazioni. Agenti, giudici, militari perché la menzogna era parte della strategia repressiva. Negano tuttora. Così ignoro cosa sia accaduto a Gustavo. L’unico modo era imbattersi un ex detenuto sopravvissuto che potesse dare qualche notizia. A differenza di altre madri, non l’ho mai trovato.

Come sono nate le Madres?

Abbiamo iniziato a trovarci con le altre madri nei corridoi delle istituzioni in cui ci recavamo a chiedere notizie. Pian piano ci siamo conosciute. Tutte eravamo là per la stessa ragione: un figlio o una figlia erano scomparsi nel nulla. In modo spontaneo, abbiamo capito che insieme avevamo maggior forza. E abbiamo cominciato a organizzarci. Ad avere l’idea di marciare in Plaza de Mayo è stata Azucena Villaflor, una gran donna e una leader naturale. La prima volta, il 30 aprile 1977, si sono ritrovate in tredici di fronte alla Piramide. Oltretutto era un sabato e c’era poco movimento di funzionari. Sono, così, tornate il venerdì successivo ed erano il doppio. Io sono arrivata al terzo appuntamento, il 13 maggio. Era ancora un venerdì ma, nel giro di qualche settimana, l’abbiamo spostato al giovedì su consiglio di una madre un po’ superstiziosa. Diceva che il venerdì era il giorno delle streghe e i giorni con la “r” portavano sfortuna…

E, invece, il simbolo del fazzoletto bianco come è nato?

È stata una delle madri, Eva Márquez de Castillo Barrios, ad avere l’idea. Avevamo deciso di partecipare al tradizionale pellegrinaggio alla Basilica di Luján, previsto il 1° ottobre 1977. Ciascuna di noi arrivava da un punto distinto, come riconoscerci in mezzo alla folla che quell’anno si prevedeva di oltre 100mila persone? Eva allora ha proposto di metterci in testa un pannolino di tela dei nostri figli…

Non avevate paura di protestare contro la dittatura?

Certo che ne avevamo, ma l’amore per un figlio è più forte della paura. E noi avevamo 30mila figli. Passo dopo passo, nella piazza, abbiamo imparato ad essere madri di tutti i desaparecidos.

Quale è stato il momento più duro della vostra lotta?

Ce ne sono stati tanti. Di sicuro quando hanno fatto scomparire tre delle madri fondatrici: Azucena Villaflor, Esther Ballestrino de Careaga e María Eugenia Ponce de Bianco nel dicembre del 1977. Poi quando abbiamo saputo che i nostri figli venivano gettati nel fiume ancora vivi. E che i militari si appropriavano dei bambini delle detenute desaparecidas.

Madres de Plaza de Mayo è, come dice il nome, un movimento di mamme. E i padri?

C’erano e hanno lottato, solo in modo diverso. Siamo state noi a chiedere ai nostri mariti di non venire in piazza. Con loro si sarebbero accaniti in modo ben più crudele. Comunque ci accompagnavano, si mettevano in disparte e ci osservavano in disparte, senza perderci mai d’occhio. Quando ci portavano al commissariato, poi venivano a riprenderci.

Crede che il fatto di essere donne vi proteggesse in qualche modo dalla ferocia della repressione?

La desaparición di Azucena, Esther e María Eugenia ha dimostrato che non eravamo invulnerabili. Potevano colpirci in qualunque momento. Perché non ci hanno fatto sparire tutte? Non ci consideravano una reale minaccia. E sbagliavano.

Voi avete combattuto una dittatura senza armi. Qualcuno direbbe che è una stata una scelta ingenua…

La nostra esperienza dimostra che la lotta nonviolenta è possibile ed efficace. Abbiamo scelto di non essere come coloro che torturavano e assassinavano i nostri figli. Di rispettare la sacralità di ogni vita. Per questo, tuttora, ci rifiutiamo di odiare. Non è per rancore o vendetta che abbiamo chiesto il processo e la condanna per i responsabili della repressione. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo, per quanto ormai la macchina giudiziaria si sia messa in moto, affinché una simile tragedia non si ripeta. Per carità, non amo i militari che hanno collaborato con il regime. Solo non voglio essere parte di questa storia di violenza.

Che cosa augura all’Argentina?

Che si realizzino i sogni per cui lottavano i nostri figli. Pane e dignità per tutti. Mi ha insegnato a sognarlo Gustavo, con la sua assenza. E a combattere affinché si avveri. In molti modi. Dalla fine della dittatura, accanto all’impegno per la verità, la memoria e la giustizia, ho accompagnato le resistenze di tanti in Argentina e nel mondo impegnati nella costruzione di una società più umana. Ho imparato che qualunque progresso è il frutto di battaglie incruente di tanti e tante: per questo ogni mattina mi sveglio con la voglia di combattere. E ho imparato anche che insieme si può vincere. Specie quando la lotta la fanno le donne. Siamo delle inguaribili rivoluzionarie.

Da Internazionale – Sono tornata a lavorare nelle scuole femminili. Ho ricominciato ad ascoltare le voci delle ragazze e a interrogarmi sui silenzi delle donne. Negli anni ottanta ho ascoltato e parlato con centinaia di ragazze tra i sette e i 18 anni in varie scuole negli Stati Uniti. Ricordo il giro di boa dell’adolescenza quando, crescendo, le ragazze chiamavano stupida, maleducata, egoista, cattiva o pazza ogni voce onesta. Spiacevole e insopportabile erano gli aggettivi usati da Anna Frank.

Ricordo le adolescenti che descrivevano quello che era successo alla loro voce. Neeti, 16 anni: «La voce che combatte per ciò in cui credo è rimasta sepolta dentro di me». Iris, 17 anni: «Se dovessi dire cosa sento e cosa penso, nessuno vorrebbe stare con me, la mia voce sarebbe troppo forte» e poi, quasi per spiegarsi, «ma bisogna pur avere delle relazioni». Ricordo di averle detto: «Se non dici cosa senti e cosa pensi, allora perché accetti queste “relazioni”?»

Soprattutto, ricordo di essere rimasta colpita da quanto la gente s’impegnasse a chiudere la bocca alle ragazze. Come se fosse impossibile ascoltarle e continuare a vivere come avevamo sempre vissuto. Come se, in qualche modo, le ragazze potessero far saltare una copertura. Mi sconcertavano gli incentivi che venivano offerti alle ragazze per non dire quello che avrebbero voluto dire, la pressione esercitata per fare in modo che, una volta cresciute, le loro voci – voci che si sentono comunemente tra le ragazze giovani, voci che gli artisti hanno sentito e registrato in ogni epoca e cultura – rimanessero coperte o, se esplicitate, fossero considerate troppo forti, eccessive o in qualche modo sbagliate e non fossero ascoltate o prese sul serio.

Ascoltare le ragazze mi ha fatto ripensare a ciò che intendiamo quando parliamo di relazioni. Il dipartimento della sanità degli Stati Uniti ha parlato del dilagare della solitudine e di come i contatti siano essenziali per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere. Ma mettere a tacere le ragazze è la spia di un problema più profondo. Da loro ho imparato cos’è il momento in cui si decidono le sorti di una relazione. Quello in cui se dici cosa senti e cosa pensi nessuno vuole stare con te e se non lo fai se ne vanno tutti. In un modo o nell’altro, sei sola. È un problema diffuso, ma ascoltare le ragazze è stato rivelatore e rivoluzionario nel definire un problema – la crisi di connessione – che è diventato pervasivo e urgente.

La scorsa primavera, quando ho ricominciato a intervistare le ragazze, mi sono trovata a ripetere le cose che avevo detto a Iris negli anni ottanta. Liza, 16 anni, mi dice che si «trattiene» per non mettere a rischio dei «legami più profondi». Parla di «attenzione e protezione» e altre ragazze mi parlano di non ferire i sentimenti degli altri o di mantenere il quieto vivere o di non creare problemi o di non provocare esclusioni o rappresaglie: motivazioni a cui le ragazze si appigliano per mettere a tacere ogni voce onesta e concludere, come fa Liza, che la lotta per la relazione è «una battaglia che non vale la pena di combattere».

«Le persone non apprezzano se dici queste cose», sento ripetere continuamente alle ragazze. So bene cosa vuol dire. Jane Eyre ha dieci anni all’inizio del romanzo di Charlotte Brontë. Quando sua zia le dà della bugiarda, risponde che, se fosse una bugiarda, le direbbe che le vuole bene, quando in realtà non è vero. È questa la voce che la gente non vuole sentire.

Quando qualcuno mi dice che vuole che le ragazze facciano sentire la loro voce, penso a Elise, undici anni, che fa la quinta elementare in una scuola pubblica. Quando le chiedo se in certi casi sia giusto dire bugie, risponde: «La mia casa è tappezzata di bugie». Nella tragedia di Euripide, Ifigenia dice al padre, Agamennone, che è «pazzo» se pensa di sacrificarla per compiacere gli dèi e fare in modo che i venti portino l’esercito greco a Troia. Ifigenia mette in discussione la cultura difesa dal padre, una cultura che dà più valore all’onore degli uomini che alla vita. Nel film La bicicletta verde, del 2012, scritto e diretto da Haifaa al Mansour (che, essendo una donna in Arabia Saudita, è stata costretta a girare all’interno di un furgoncino), Wadjida, una bambina di dieci anni, vuole una bicicletta. Non si lascia scoraggiare da una cultura in cui le donne non possono guidare e le bambine non possono andare in bicicletta. S’iscrive a una gara di recitazione del Corano, la vince e, con l’aiuto della madre, ottiene la bicicletta verde che desiderava. Alla fine del film, la vediamo pedalare felice.

Judy, 13 anni, dice che sta perdendo la mente. Indicandosi la pancia, spiega che la mente «è collegata al cuore e all’anima, ai sentimenti profondi e ai sentimenti reali». Mette in contrapposizione la mente e il cervello che, dice, è localizzato nella sua testa ed è collegato alla bravura, all’intelligenza e all’educazione. Nel corso della crescita, osserva, i bambini rischiano di dimenticarsi della loro mente per colpa di tutte le cose che «ti ficcano nel cervello». È responsabilità delle scuole – questo è il sottinteso – se i bambini perdono il contatto con quella che Judy definisce «una forma più profonda di conoscenza».

È per questo che sono tornata a lavorare nelle scuole. Ed è per questo che le dirigenti delle scuole femminili stanno lanciando l’allarme o forse, più precisamente, stanno prendendo in mano la situazione, vedendo il potenziale per una trasformazione che parte dalle ragazze e coinvolge la loro istruzione.

Ecco cosa ho imparato ascoltando le ragazze e cosa mi ha stupito. La gente parla di ragazze che devono trovare la loro voce, ma in realtà le ragazze una voce ce l’hanno. La loro fiducia in se stesse, la loro chiarezza e il loro coraggio possono essere sorprendenti. Quando le chiedono di raccontare di una volta in cui si è sentita incerta o indecisa, Diane, otto anni, dice che è dispiaciuta perché ogni sera, a cena, quando prova a parlare suo fratello e sua sorella la interrompono “rubando” l’attenzione di sua madre. «Tu cosa fai?», le chiede l’intervistatore. Una sera, risponde Diane, ha portato un fischietto a tavola e, quando l’hanno interrotta, ha fatto un fischio. «La mamma, mio fratello e mia sorella hanno subito smesso di parlare e si sono girati verso di me. A quel punto ho detto senza alzare la voce: “Così va molto meglio”».

La scorsa primavera ascoltando Talya, una bambina di prima elementare, ho sentito la stessa chiarezza nel descrivere ciò che avviene nelle relazioni e lo stesso spirito d’iniziativa nel reagire a ciò che conosciamo. «Ho delle amiche stupende», mi ha detto, ma ha anche un’“amica-nemica”. L’amica-nemica «all’asilo mi ha messo la sabbia negli occhi» e, in prima elementare, «ha costretto tutta la classe a comportarsi come lei mentre a me non piace come si comporta. È come se dicesse: “Sono la padrona della classe, siete ai miei ordini”». Alla domanda se ha fatto qualcosa, Talya ha risposto: «Semplicemente… dobbiamo usare il potere d’ignorare».

Queste bambine illustrano il concetto di consapevolezza che il neuroscienziato António Damásio descrive nel suo saggio Emozione e coscienza (Adelphi 2000). Le bambine registrano l’esperienza di ogni momento nei loro corpi e nelle loro emozioni, associandola alla musica o alla sensazione di quello che sta succedendo per poi riprodurla nelle loro menti e nei loro pensieri. In questo modo riescono a descrivere quelli che possiamo considerare dei crimini e misfatti relazionali – rubare l’attenzione di qualcuno, comportarsi come il padrone di qualcun altro – e imparano a fidarsi della loro forza di reazione. In L’incontro e la svolta (Feltrinelli 1995), io e Lyn Mikel Brown abbiamo presentato i risultati del nostro studio quinquennale su cento ragazze tra i sette e i 18 anni. Le abbiamo chiamate le delatrici del mondo relazionale. E sappiamo tutti cosa succede ai delatori.

«Non lo so… non lo so… non lo so». Quando le ragazze attraversano la soglia che le porta dall’infanzia all’adolescenza, nelle interviste questa frase si ripete continuamente. Ascoltate e interrogate con attenzione, spesso le ragazze dimostrano di sapere quello che dicono di non sapere: su se stesse, sugli altri e sul mondo in cui viviamo. Sembra quasi che abbiano smesso di fidarsi della loro conoscenza e abbiano imparato a nascondere ciò che sanno per paura di offendere qualcuno o di dare la risposta sbagliata. Di non dire quello che gli altri vogliono sentire.

Anna, una brillante studente di 14 anni, scrive due temi distinti sulla leggenda dell’eroe: uno per prendere un voto alto, l’altro per dire quello che vuole dire. Anna viene da una famiglia della classe lavoratrice e ha bisogno di un buon voto per prendere una borsa di studio e andare al college. Ma ha anche bisogno che la sua insegnante sappia cosa pensa davvero sulla leggenda dell’eroe, perché per Anna, che ha un padre disoccupato e violento, è una leggenda pericolosa, che può portare gli uomini a coprire la loro vulnerabilità con la violenza. E così consegna due temi: uno che piacerà all’insegnante, e l’altro che la farà arrabbiare. A suo credito, l’insegnante li ha letti entrambi.

Anjili, che frequenta l’ultimo anno delle superiori, interpreta la poesia Alla sua timida amante (1681) di Andrew Marvell in modo giudicato sbagliato. L’insegnante scrive: «Questo non è un compito per l’università». Anjli, però, ascolta il narratore di Marvell, un uomo preoccupato della propria mortalità, e sente la sua voce dal punto di vista dell’amante, la dama di cui vuole vincere la ritrosia. La traccia diceva di analizzare il tono della poesia, e Anjli ne avverte la potenza: quella di Marvell, alle sue orecchie, è una poesia “terrificante” e “spaventosa”.

Nella sua recensione di Emozione e coscienza sul New York Times, Carolyn Heilbrun, una nota intellettuale femminista, giudica la lettura che Anjli ha dato della poesia di Marvell come «una nuova interpretazione della potenza dell’opera», citando le parole della sua insegnante. Tuttavia, osserva, «ci sono scuole che ancora non sono in grado di apprezzare questo genere di reinterpretazione». Il sottinteso è che per essere ammessa all’università probabilmente Anjli dovrà tenere a freno la sua originalità.

Heilbrun ha definito Emozione e coscienza “rivoluzionario”. «Dovrebbe far suonare un allarme nazionale», ha scritto sul Boston Globe, definendo il libro “rivelatore”. Oggi negli Stati Uniti è fuori catalogo. La ricerca parlava di ragazze che lottavano per non perdere la loro voce, ma la cultura voleva fortemente che la perdessero. Eppure le studenti del mio seminario alla New York University sulla resistenza all’ingiustizia si sono riconosciute in Emozione e coscienza in modi che si discostano dalle letture precedenti. Una studente scrive: «Mi ricordo una lunghissima fase della mia vita in cui la mia risposta a tutto era “non lo so” e qualsiasi cosa dicessi facevo sempre questa premessa (lo faccio ancora oggi)». Riflettendo sulle implicazioni per la resistenza all’ingiustizia, introduce un’immagine sorprendente: «Quando insegniamo alle persone a non usare in modo autentico la loro voce, cuciamo e stendiamo un velo di dubbio su tutto ciò che sappiamo, che soffoca la loro volontà di parlare e di affrontare il conflitto». Per un’altra donna del corso, questo è stato «il trauma dell’esperienza formativa della mia infanzia».

Ecco una “poesia io” composta ascoltando la voce in prima persona di una ragazza di seconda media che ho intervistato la scorsa primavera:

Che cosa ho fatto?

Ero confusa

Ho detto

Che non lo sapevo

Cosa ho detto?

Ero

Non sono stata io

Mi dispiace

Non lo sapevo

Ho solo

Mi sono dimenticata

Ho provato

Ho provato

Capisco

Sono stata io

Non m’importa

Mi sono scusata

Ho parlato

Posso

Davvero non m’importa

Ho detto

Che non m’importa

Una voce alla seconda persona, un “tu”, si rivolge allora all’“io” e le dice:

C’è un lato buono e un lato cattivo

Non puoi sempre combattere tutte le battaglie

Devi scegliere quali battaglie vuoi combattere

Ed ecco l’“io”, che ci prova e poi non le importa più:

Ci sto provando

Voglio dire

Non

Onestamente non m’importa

Non me ne importa niente.

Nel saggio L’errore di Cartesio (Adelphi 1995) Damásio presenta i risultati della sua ricerca in campo neurobiologico. La separazione cartesiana tra ragione ed emozione, considerata per secoli la condizione necessaria della razionalità, si rivela in realtà come la manifestazione di lesioni o traumi cerebrali. Questa separazione lascia intatta la nostra capacità di risolvere problemi logici, ma ostacola la nostra capacità di ragionare in modo induttivo, d’imparare dall’esperienza e dunque orientarci nel mondo sociale umano. La psichiatra Judith Lewis Herman sostiene una tesi analoga in Guarire dal trauma (Magi Edizioni 2005). La separazione del sé dalle relazioni, considerata in passato come un passaggio dalla dipendenza all’indipendenza, è in realtà il residuo di un trauma, la reazione del sé all’esperienza di essere stato sopraffatto.

È stato l’ascolto delle ragazze ad attirare la mia attenzione verso la natura di genere di queste separazioni e a farmi capire quanto siano parte integrante di un rito di passaggio che compromette la capacità dei bambini di vivere in relazione con se stessi e con gli altri. Staccando il pensiero (“maschile”) dall’emozione (“femminile”) e separando il sé (“maschile”) dalle relazioni (“femminili”), la codifica di genere delle capacità umane crea una crisi di connessione. Ciò che sembrava ordinario (avere una voce e vivere in relazione) diventa quindi straordinario. Sono state le adolescenti a portare allo scoperto tutto questo. Le relazioni dipendono dal possedere una voce e la cultura del patriarcato dipende dal silenzio delle donne.

Dico questo in un momento storico in cui le voci di due ragazze hanno avuto un impatto enorme. Penso a Greta Thunberg, 15 anni, con il suo cartello scritto a mano, in piedi, da sola, davanti al parlamento svedese. Il suo sciopero studentesco individuale ha innescato la più grande manifestazione sul clima nella storia, con milioni di persone che sono scese in strada per protestare contro l’incapacità dei politici di prendere sul serio la crisi climatica. Quando è stata invitata negli Stati Uniti per parlare al congresso e i parlamentari sono corsi a ringraziarla, la sua risposta è stata, in sostanza: «Non ringraziatemi, fate qualcosa». Al World Economic Forum di Davos ha detto: «Dovete sentire la paura che sento io ogni giorno. E poi dovete agire». A chi le diceva che avrebbe dovuto essere a scuola, ha risposto: «Dato che a voi adulti non importa un accidente del mio futuro, non importa neanche a me».

E penso a Darnella Frazier, 17 anni. Tra le tante persone che hanno assistito all’omicidio di George Floyd per mano del poliziotto Derek Chauvin, è stata l’unica a tirare fuori il telefono, accendere la videocamera e registrare tutta la scena. La sua registrazione è la prova che ha portato all’arresto di Chauvin. Se non avesse registrato ciò che aveva visto, ha detto, nessuno le avrebbe creduto. Eppure, come ha raccontato, «quell’uomo stava soffrendo» e «non era giusto». In un certo senso, ciò che stava succedendo era ovvio, eppure Darnella è stata l’unica a fare qualcosa.

Ho intitolato il mio nuovo libro In a human voice (‘Con voce umana’) perché quello che prima era confuso adesso è diventato ovvio. La “voce diversa” del mio libro precedente (la voce dell’etica della cura e dell’attenzione), anche se considerata inizialmente come “femminile” e associata alla donna, è in realtà una voce umana. La voce da cui si differenzia è la voce del patriarcato, legata alle gerarchie di genere. E quando il patriarcato è al potere ed è imposto, la voce umana è una voce di resistenza. Dalle ragazze ho imparato ad ascoltare una voce umana che è andata in clandestinità, e a riconoscere la differenza tra la voce di copertura (accettata culturalmente) e la voce sotterranea (radicata nell’esperienza). Dalle ragazze ho imparato a fare caso alle parole “davvero” e “in realtà”, all’espressione “onestamente” e a riconoscere come possono segnalare il passaggio dalla voce di copertura, la voce che dice cosa penso e sento, alla voce sotterranea, la voce che dice cosa penso davvero, cosa penso in realtà o cosa direi se dovessi essere completamente onesta. Le ragazze mi hanno insegnato che la voce sotterranea è più accessibile di quanto immaginassi, ma anche che, per sentirla, devo mettere in dubbio la voce di copertura. In uno studio con le coppie, ho scoperto che questo vale anche per gli uomini. La mia capacità di sentire la voce umana dipendeva dalla capacità di dubitare di una voce di copertura che suonava più maschile. Ciò che ho imparato ascoltando le ragazze si è rivelato molto più universale di quanto pensassi, perché, quando ho cominciato, la riduzione al silenzio delle ragazze era liquidata come irrilevante o come una correzione necessaria.

L’anno scorso una studente mi ha scritto un’email. Alla soglia dei trent’anni, era tornata all’università per fare un master in diritto e si era iscritta al mio seminario sull’ascolto. Mi scriveva per ringraziarmi. «Esercitarmi ad ascoltare me stessa e ciò che so nel profondo mi ha fatto aprire gli occhi. Mi rendo conto che troppo spesso, in vari momenti della mia vita, non mi sono fidata del mio intuito, o non sono riuscita ad arrivare a conclusioni che erano evidenti, e non capivo perché». Voleva ringraziarmi soprattutto per averla contraddetta quando un giorno, presentando il suo lavoro alla classe, aveva detto che non sapeva perché la parola «dissociativo» fosse stata usata due volte dalla persona che aveva intervistato. Ascoltando la sua presentazione, era chiaro che sapeva benissimo quale fosse la funzione di «dissociativo» nel contesto della sua intervista. Come lei stessa aveva sottolineato, l’espressione «non lo so» era «onnipresente». E così, quando ha detto anche lei «non lo so», le ho risposto che non ci credevo. In realtà, mi ero fidata di lei quando lei non si era fidata di sé. «Il fatto di dare a me e a tutta la classe il permesso di ascoltarci e fidarci di noi stesse ha significato moltissimo per me, più di quanto lei forse non immagina».

Secondo i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, oggi negli Stati Uniti i livelli di depressione e pulsione suicida tra le ragazze adolescenti sono ai massimi storici. In uno studio su diecimila adolescenti negli Stati Uniti, è stato chiesto alle ragazze se a volte rinunciano a dire quel che pensano davvero o a discutere solo perché vogliono essere accettate dagli altri: il 46% delle intervistate ha risposto di sì, e la percentuale sale al 62% tra le ragazze con una media dei voti alta. Credo che il motivo sia che hanno più opportunità, e quindi hanno anche più da perdere.

La responsabilità degli altissimi livelli di disagio psicologico tra le ragazze è spesso attribuita ai social network, ed è innegabile che con questi il costo di parlare sia diventato più alto. La scorsa primavera, durante un’intervista, è stato chiesto a due ragazze cosa avrebbero voluto cambiare del mondo, ed entrambe hanno risposto «il giudizio degli altri». La facilità nel giudicare ricade pesantemente sulle ragazze – spesso senza motivazioni concrete – una volta che raggiungono l’adolescenza, e i social network non fanno che amplificare gli effetti dei giudizi negativi. Ma il mio sospetto è anche un altro, e cioè che per le ragazze e per le donne con l’aumentare delle opportunità aumenti anche la pressione a non dire cosa pensano e sentono per non compromettere i contatti professionali e le possibilità di crescita.

Mettere a tacere il sé, tuttavia, è la ricetta della depressione, e la perdita della relazione può portare alla disperazione e al distacco. La crisi di connessione è sempre caratterizzata da segni di disagio psicologico. Ma, dal punto di vista della società, ridurre al silenzio le ragazze è un modo per permettere alle donne di accedere alle strutture patriarcali senza sottolineare l’evidenza o creare problemi.

Sono tornata a lavorare nelle scuole femminili perché ho imparato a vederle come dei laboratori in cui sperimentare a livello educativo la liberazione della democrazia dal patriarcato. Con questo, intendo dire che la battaglia per la relazione è una battaglia che vale la pena di combattere ed è una parte ineludibile dell’educazione delle ragazze. Per educare le ragazze è necessario anzitutto appoggiarle nella loro sana resistenza e dare loro il coraggio di non fare quello che è sempre un pessimo affare, cioè scendere a patti con il patriarcato e cedere al silenzio. E poi incoraggiarle ad accettare la sfida di scoprire come essere presenti e vivere in connessione profonda, sia con se stesse sia con gli altri, soprattutto di fronte al conflitto e al disaccordo.

Carol Gilligan è psicologa, studiosa di etica e femminista statunitense. Tra i suoi libri pubblicati in Italia Con voce di donna (Feltrinelli 1991) e La virtù della resistenza (Moretti & Vitali 2014). Questo articolo è stato pubblicato in originale sulla rivista culturale on line Aeon con il titolo Silencing of the girls.

(Internazionale n. 1562, 17 maggio 2024)

Da Corriere della Sera – L’avevano paragonata ad Anton Cechov e a Guy de Maupassant, in quanto magistrale autrice di racconti. Ma la canadese Alice Munro, scomparsa all’età di novantadue anni, aveva una sua spiccata originalità e una sensibilità tutta femminile, frutto di travagliate esperienze di vita, che la rendevano inconfondibile e avevano indotto l’Accademia di Svezia ad assegnarle il premio Nobel per la Letteratura nel 2013.

Nessuno come lei sapeva raccontare in modo nitido, con un linguaggio colloquiale, senza fronzoli di alcun genere, le vicende prosaiche delle persone comuni, la vita famigliare, le scelte e le pene quotidiane, i momenti di ripiegamento interiore e quelli di faticoso cambiamento. La povertà, le frustrazioni e la voglia di riscatto.

Alice Munro aveva però anche una capacità impressionante di far svoltare le esistenze dei suoi personaggi, di introdurre nelle sue brevi storie fattori del tutto imprevedibili, destinati a colpire e appassionare. Un talento cristallino che l’aveva fatta amare da lettori di tutto il mondo, dopo l’esordio negli anni Sessanta sulle riviste letterarie del suo Paese.

Non era certo cresciuta nella bambagia. Nata il 10 luglio 1931 a Wingham, nella regione canadese dell’Ontario, il suo nome originario era Alice Laidlaw. Veniva da una famiglia colpita duramente dalla Grande Depressione seguita alla crisi del 1929. Il padre allevava nella sua fattoria animali da pelliccia, in particolare volpi argentate, e la madre, insegnante, lo aiutava sul versante commerciale di quell’attività faticosa e precaria, alla quale poi il marito avrebbe dovuto rinunciare per lavorare in fabbrica.

L’ambiente intorno era difficile e malfamato, con una notevole presenza di contrabbandieri e prostitute. «Vivevamo al di fuori di ogni struttura sociale, in una specie di piccolo ghetto», raccontava Munro. Ma aggiungeva che «era una vita interessante»”, nel quale provava un «grande senso di avventura».

La situazione era peggiorata quando la madre, a soli quarant’anni, si era ammalata del morbo di Parkinson, che l’aveva relegata a letto. E Alice, dodicenne, aveva dovuto assisterla: sostanzialmente reclusa in casa, tra le faccende domestiche e l’esigenza di non lasciare sola la mamma, aveva trovato una preziosa valvola di sfogo nella scrittura.

La passione di narrare era immensa, il talento non mancava. E così nel 1949 la ragazza aveva vinto una piccola borsa di studio biennale per frequentare l’University of Western Ontario. Ma i soldi erano davvero pochi, solo attraverso lavoretti saltuari riusciva a mantenersi. Poi aveva incontrato James Munro, di origine borghese. Si erano innamorati e sposati nel 1951, nonostante l’opposizione della famiglia di lui, ed erano andati a vivere lontano, a Vancouver, sulla costa del Pacifico. In seguito avrebbero aperto e gestito una libreria.

Alice aveva assunto così il cognome Munro, che avrebbe mantenuto anche dopo il divorzio da James. Dalla loro unione erano nate tre bambine, mentre una quarta era morta, nel 1955, poco dopo essere venuta alla luce. Un evento doloroso che avrebbe segnato la scrittrice.

Nonostante i lavori domestici e la cura delle figlie, Alice Munro non aveva certo smesso di scrivere, era la sua vocazione profonda. Ma proprio perché la sua giornata era così densa d’impegni minuti, ricordava, non aveva mai pensato di impegnarsi nella stesura di un romanzo vero e proprio. Aveva esercitato il suo talento nei racconti, mettendosi al lavoro mentre le bambine dormivano o erano a scuola.

Nel 1950, quando era all’università, era riuscita a pubblicare una short story su una rivista studentesca, ma poi per lungo tempo la sua attività era rimasta un fatto privato, noto solo ai suoi cari e a una ristretta cerchia di amici. Nel 1959, alla morte della madre, aveva scritto un racconto di forte impatto dedicato al suo rapporto con lei, La pace di Utrecht, con cui aveva cominciato a farsi conoscere.

Molto importante era stato a tal proposito l’incoraggiamento di Robert Weaver, autore radiotelevisivo e fondatore della rivista letteraria “Tamarack Review”, che ne aveva subito colto le potenzialità e l’aveva incoraggiata e presentata al pubblico. Lei lo avrebbe ricordato come «l’uomo a cui devo quasi tutto».

La prima raccolta di racconti firmata da Alice Munro, La danza delle ombre felici, era uscita in volume nel 1968 e aveva ottenuto un notevole successo di critica, vincendo subito il Governor General’s Award, il più prestigioso premio letterario canadese. In Italia sarebbe uscito solo nel 1994 presso la piccola casa editrice La Tartaruga nella traduzione di Susanna Basso, alla cui fine sensibilità erano state in seguito affidate da Einaudi le successive versioni delle opere di Munro nella nostra lingua.

Era seguito poi un lavoro particolare, La vita delle ragazze e delle donne (1971): nelle intenzioni un romanzo, ma sempre composto di varie storie collegate tra loro. Una caratteristica che si può riscontrare anche in un’altra e più nota opera di Alice Munro, Chi ti credi di essere?, uscita in Canada nel 1978 e in Italia nel 1995 presso le Edizioni e/o.

Con il tempo Alice Munro si era affermata non solo in Canada ma in tutto il mondo anglosassone e dagli anni Settanta in poi aveva pubblicato regolarmente le sue raccolte, con un riscontro crescente anche tra un pubblico di affezionati lettori. Nel frattempo anche la sua vita era cambiata: nel 1972 si era separata dal primo marito e poi era tornata a vivere nell’Ontario con il geografo Gerald Fremlin, che aveva sposato nel 1976.

Nonostante fosse ormai considerata una personalità di notevole rilievo, fino al momento del Nobel la sua fama, notava non senza polemica un convinto ammiratore di Munro, Jonathan Franzen, era rimasta molto inferiore alla sua bravura. Forse anche perché gran parte della produzione di questa autrice propone vicende ambientate nel Canada rurale, un piccolo mondo apparentemente angusto e poco affascinante, a cui la sua arte narrativa giunge a conferire un’esemplarità universale.

Nel 2012 Alice Munro aveva annunciato che avrebbe smesso di scrivere e aveva mantenuto il proposito nonostante il riconoscimento dell’Accademia di Svezia. Personalità schiva, aveva però una straordinaria capacità di osservazione e di comprensione: «Parlo molto con la gente. Ascolto le storie della comunità in cui vivo». La sua “poetica del quotidiano” le aveva procurato un successo crescente anche in Italia: in coincidenza con il Nobel le era stato dedicato un Meridiano Mondadori, già preparato in precedenza e curato da Marisa Caramella. «Voglio emozionare le persone – aveva detto Munro – con delle sorprese, ma non dei trucchi. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così». Un obiettivo che le sue opere avevano sempre raggiunto in pieno.

Video di PDH Paroles D’Honneur, traduzione di Margherita Giacobino

La Nakba è ricordata dal popolo palestinese ogni anno il 15 maggio, un giorno dopo la fondazione dello stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948.

Faire Bloc, organizzazioni ebraiche anticoloniali di diversi paesi, insieme ad associazioni e attivisti, si sono riunite a Parigi il 30 marzo 2024 nella sede di Paroles D’Honneur, per riaffermare la legittimità della causa palestinese e la solidarietà internazionale. Pubblichiamo l’intervento in italiano di Rima Hassan, giurista franco-palestinese e fondatrice dell’Osservatorio dei campi dei rifugiati. Nel video, la versione integrale in francese e inglese [NdR].

Da Erbacce – La Nakba è il punto di partenza dello spossessamento dei palestinesi

Comincio col dire da dove parlo: io sono una discendente della Nakba. La mia famiglia è stata cacciata dal territorio che oggi appartiene a Israele e mandata nei campi di rifugiati in Siria. Io sono nata in uno di questi campi.

Quindi dico con molta emozione che vorrei che i miei nonni prima di morire avessero visto ciò che sta avvenendo qui oggi. Mando un pensiero a loro e alle persone che si trovano ancora nei campi e che possono trarre una speranza da ciò che si fa qui, e vi ringrazio.

Edouard Saïd ha detto che la Shoah è stata la catastrofe dell’Europa e la Nakba è stata la catastrofe del mondo arabo.

Nel primo caso di tratta di sterminio, nel secondo di cancellazione.

Per me la Nakba è il solo quadro efficace per affrontare la questione palestinese, perché la Nakba è una meccanica di sparizione, di cancellazione del soggetto palestinese, che si materializza in modi diversi, oggi con l’occupazione, la colonizzazione, l’apartheid e il genocidio.

Il termine Nakba, che significa catastrofe, è stato usato per la prima volta da Constantin Zureiq, un intellettuale siriano, che l’ha definita la madre di tutte le catastrofi, soprattutto riguardo al nazionalismo arabo.

Elias Khoury, un intellettuale libanese, nel 2011 ha cominciato a fare sulla Nakba un lavoro teorico che continua ancora oggi. Si tratta di intendere la Nakba non come un evento storico datato e ormai passato, ma come un concetto basilare per la narrativa palestinese in tutte le sue dimensioni, il punto di partenza di questa cancellazione che oggi si materializza nelle sue diverse realtà, perché i palestinesi si trovano in diversi territori e vivono con statuti diversi.

Io sono nata arrabbiata, perché mi sono trovata prestissimo di fronte alla dimenticanza, che è l’inizio della cancellazione.

Quando sono arrivata in Francia ho dovuto sistematicamente fare un lavoro di educazione per sopravvivere in quanto rifugiata palestinese. Ho dovuto commemorare la Nakba quotidianamente. Quando si è rifugiati palestinesi, spossessati della propria terra e identità, non si aspetta il mese di maggio per commemorare la Nakba, lo si fa tutti i giorni.

Quando noi lasciamo i campi, perdendo anche questo legame, cominciamo quasi a scomparire anche noi.

Il campo rappresenta la cancellazione perché materializza l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, ma allo stesso tempo è anche lo spazio di sopravvivenza. Un luogo di memoria, a cui i palestinesi sono legati. Perché, in mancanza del legame con la propria terra, ci sono cose che si vanno perdendo da una generazione all’altra.

Che cos’è la Nakba? L’espulsione, al momento della creazione dello stato di Israele, di 800.000 palestinesi dalle loro terre. Più di metà dell’intero popolo di 1.400.000 persone. Tra cui la mia famiglia. Ma non solo: la distruzione di 532 villaggi, completamente rasi al suolo. Quindi per i palestinesi spossessati alla sofferenza dell’esilio si aggiunge la perdita dei luoghi della memoria, del passato e delle usanze.

Si parla spesso della Palestina e dei palestinesi come di un popolo che ha un’identità nazionale unitaria. Ma i palestinesi hanno anche delle identità regionali, che vanno perdute. Per me è una cosa molto dolorosa, che fa parte della cancellazione.

Pensiamo al ricamo tatriz, che era una specie di carta d’identità delle donne palestinesi, in cui i disegni, i colori, i tipi di ricamo, indicavano da che località venivano le donne, quanti figli avevano, qual era la loro identità regionale.

Lo stesso avviene per gli accenti.

Questi elementi sono andati perduti con la Nakba. E tutto ciò ha una stretta relazione con quello che accade oggi a Gaza.

La popolazione di Gaza non ha un’identità unica, ma è composta all’85% da rifugiati, provenienti da diverse regioni. È per questo che il ruolo dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i palestinesi, è importante.

I media occidentali e quelli del mondo arabo hanno usato termini diversi per quel che è successo il 7 ottobre: Hamas ha parlato di territori ‘liberati’, parola che in Occidente è stata completamente occultata. E questo significa che i combattenti di Hamas sono figli della Nakba.

Finché non avremo tutti collettivamente trovato una soluzione e dato delle risposte ai figli della Nakba, ovunque si trovino, resteremo all’interno di questa cancellazione e del conflitto che oggi si vive a Gaza.

Quasi nessuno ha analizzato i fatti in questa dimensione storica, e io credo che si tratti di un errore gravissimo.

Oggi si parla di quello che accade a Gaza, ma la situazione è la stessa in Cisgiordania, dove ci sono 19 campi e milioni di palestinesi costretti all’esilio.

E il punto di partenza di tutto è la Nakba. È per questo che si parla di “Nakba continua”.

Da Alias il manifesto – A volte è sorprendente provare molte e differenti emozioni solo leggendo un piccolo libro. È quanto può succedere con la Corrispondenza tra Victoria Ocampo e Virginia Woolf, che arriva in libreria per l’editore Medhelan, sapientemente curato da Francesca Coppola, e con un saggio introduttivo di Nadia Fusini (pp. 200, euro 18,00).

Nonostante il corpo delle lettere sia esile, ventitré della Woolf e tre della Ocampo, l’insieme dei paratesti che accompagnano questo dialogo a distanza lo abbracciano in modo preciso e competente, così che possiamo leggere nella condizione migliore per scoprire quante cose si nascondono dietro e dentro alle righe di due grandi donne così intelligenti e sensibili, così diverse. Il loro ritratto è brillantemente disegnato nelle prime pagine da Fusini, al punto che le vediamo nella loro presenza fisica e intellettuale, ascoltiamo la voce sempre ironica e spesso affrettata dell’una e quella ammirata e devota dell’altra, in un racconto del senso profondo del loro legame, la cui radice è per entrambe la fiducia nella libertà femminile, la fiducia che una donna debba essere libera di cercare da sé il proprio posto nel mondo.

Da questa radice spontanea nasce lo sguardo amoroso di Victoria per Virginia, da lei Victoria si sente autorizzata a credere in se stessa, nella propria scrittura, a lei sente di fatto di dovere l’essenziale: «Se c’è qualcuno nel mondo – scrive – che può darmi coraggio e speranza è lei. Per il semplice fatto di essere com’è e di pensare come pensa».

Giustamente Nadia Fusini sottolinea che siamo di fronte a qualcosa di inedito, e non è la prima volta, qualcosa che smentisce quella «febbre che regnerebbe nell’universo delle donne, e cioè l’invidia», cui molto facilmente crediamo per una falsa tradizione, una febbre ancora oggi spesso all’ordine del giorno ma che per fortuna studi, analisi e racconti di molte donne finalmente smentiscono (non perché questi sentimenti negativi non esistano, ma per illuminare quanto è sempre stato tenuto fuori scena).

L’accurata ricostruzione di Manuela Barral ci avvicina a vita, opere e desideri di Victoria, e alla sua impresa forse da noi più nota, la rivista e casa editrice Sur, che pubblicherà, affidate a Jorge Luis Borges, due importanti traduzioni di Woolf, Una stanza tutta per sé nel 1936 e Orlando nel 1937; nel ’38 “arriva” Gita al faro, tradotto da Antonio Marichalar, ma altre scritture e conferenze l’amica argentina dedica alla scrittrice inglese, consapevole che anche questa invenzione, non solo di una scrittura per sé, ma di una casa editrice per altre e altri (come la Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf) è comune passione, comune intenzione di incidere in una tradizione mirabile per l’una, a ridosso del vuoto per l’altra.

Ma il vero, puro piacere è posare direttamente lo sguardo sulle loro lettere: si tratta di dettagli, quelli in cui le signore della scrittura diventano impareggiabili, tra scambi di fiori e farfalle, il ritrarsi puritano di Virginia di fronte a regali «meravigliosamente inopportuni» e la sovrabbondanza di doni, omaggi che viaggiano da un continente lontano, segnati dalla nostalgia («Come fare, Virginia, per incollare l’Europa all’America e asciugare l’oceano che le separa?»), ma intanto, a Londra, l’amica dalla mente visionaria la immagina «mentre ascolta il vento muovere migliaia di ettari di erba della pampa».

Lo stile, anche il semplice stile epistolare di Virginia è sempre riconoscibile e scintillante, mai innocente perché vivo di insaziabile curiosità, quando ad esempio chiede di minuzie della vita quotidiana vuole sapere tutto: «Mi dica che cosa fa, con chi esce, mi descriva la campagna, la città, la sua casa, la sua stanza, tutto, anche quello che mangia, i gatti, i cani, e il tempo che passa a fare questo e quello». Lei deve vedere, immaginare, sognare anche quando legge una lettera. Certo poi è sobria nel suo dolore quando accenna alla morte dell’adorato nipote Julian, e franca quando mostra tutta la sua irritazione per l’inaspettato arrivo di Victoria in compagnia di Gisèle Freund con la sua macchina fotografica. Suo è infatti uno dei più famosi ritratti della Woolf, che compare insieme a molte altre immagini in questo prezioso e delicato libro il cui arrivo è bene festeggiare.

Da 27esimaora.corriere.it – Letizia sale sul palco, si avvicina al microfono e dice: «Come stai?». È la prima domanda per Elena Cecchettin. Lei risponde senza incrinare la voce: «In quattro mesi mi sono ammalata una decina di volte. Quando stai male, stai male anche fisicamente. Adesso mi sto riprendendo, ma non posso dire di stare bene». Nella Sala Azzurra del Salone Internazionale del Libro di Torino tutte le poltrone sono prese. Le occupano soprattutto ragazze e ragazzi. Sono venuti – in tanti anche quaranta minuti prima in coda – per ascoltare la sorella di Giulia, uccisa a coltellate l’11 novembre 2023 dall’ex fidanzato Filippo Turetta. L’ultima volta che Elena aveva parlato in pubblico era nell’Aula Magna dell’Università di Padova alla laurea in memoria di Giulia, lo scorso 2 febbraio. Dopo oltre tre mesi, torna a esporsi per dialogare con i coetanei e le coetanee della Generazione Zeta attraverso un incontro realizzato in collaborazione con La27ora e D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, che hanno raccolto le domande.

Giovanni le chiede come si convive con tanto dolore. «In famiglia ci manca Giulia in momenti diversi. Io sto cercando il mio modo per convivere con la sofferenza che non se ne andrà mai. Sto tentando di riappropriarmi della mia vita». Agata domanda quali sono gli aspetti di sessismo della nostra vita quotidiana a cui non facciamo più caso. «Bisogna cercare di prevenire: dal cat calling ai commenti che sessualizzano le donne o a quelli che le sminuiscono. Sono tutti atti di violenza». Eleonora vorrebbe invece sapere quanto ritenga ostacolante il fenomeno del victim blaming (colpevolizzazione della vittima ndr) nel percorso di denuncia. E lì la risposta di Elena fa partire un forte applauso: «Se le donne denunciano e non vengono credute, saranno meno spronate a farlo. Ma al di là delle denunce io dico alle persone che subiscono violenza: parlatene con gli amici, con la famiglia. Cercate di comunicarlo in giro, anche tramite i social, fate in modo che si sappia: può aiutare».

Denis chiede se esistano dei modelli per una mascolinità più consapevole. «Gli uomini devono mettersi in discussione. Noi donne non dobbiamo smettere di avere delle pretese, dobbiamo richiedere il nostro spazio, se dico no è no». Letizia ha un’altra domanda. Come si reagisce allo sguardo giudicante della società? «La cosa più brutta della mia vita è successa l’11 novembre 2023. Trovo assurdi i commenti d’odio sui social. Ci rido sopra. Ma è importante circondarsi di persone che ci ricordano veramente chi siamo».

Risponde a tutto Elena mentre scava dentro di sé riflessioni e pensieri. Il suo sguardo a volte è ondivago, sempre gentile. Accanto a lei ci sono Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicaria del Corriere della Sera e Alessandra Campani, operatrice di centro antiviolenza e referente del gruppo prevenzione di D.i.Re. Dice Stefanelli: «La famiglia Cecchettin sta portando il discorso della violenza fuori dalle accademie e lo sta mettendo nelle nostre case. La loro generosità ci aiuterà a cambiare». Proprio per cambiare dobbiamo continuare a fare rumore, non solo con le chiavi in mano, anche con le parole, insiste Campani. «In Italia gli omicidi diminuiscono, i femminicidi no. Spesso la parola stessa – femminicidio – viene contestata. Bisogna ripartire dal linguaggio per contrastare questo fenomeno», aggiunge Stefanelli. Poi Campani insiste su un punto: «Il femminismo è per tutte e tutti. Non è per le donne, è per la libertà che garantisce a uomini e donne».

Ecco allora il parallelismo tra la lotta delle partigiane nella Resistenza e le battaglie delle donne. Elena, che cos’è la forza? «Forza è anche resistenza. Dobbiamo voler essere forti, non solo tirare i pugni ma resistere. Magari ci vorrà tantissimo tempo ma sono convinta che il cambiamento prima o poi arriverà. È rivoluzionario credere di valere». Valere, valgono – senz’altro – le sue parole per le quali, alla fine, in moltissimi la ringraziano.

Da Erbacce – In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20.00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere. Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito. Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante. Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo. Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così. Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore. Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria. Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca. Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio. Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra. Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto l’aeroporto di Heathrow a Londra. Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie. Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia. Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato l’assenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi. La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla. Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie d’erba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola. Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio. Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi. Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg. Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli. Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete. La farina è scarsa e più preziosa dell’oro. Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno. E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti. Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri dodici in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino. Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare. Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt] e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale. Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria. La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca. Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso. A un certo punto l’umiliazione della sporcizia è inevitabile. A un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco. Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco. Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se fosse stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri. Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese? Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale. Di storie. Di ricordi, libri e cultura. Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo. Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università. Il genocidio è la demolizione intenzionale dell’umanità di un altro. È la riduzione di un’antica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare l’indicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino. È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dell’umanità dei palestinesi. Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming l’immagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti. Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel XXI secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo. La traduzione dall’inglese è di Aldo Lotta.

L’articolo è tratto dal sito Zeitun – Notizie e libri sulla Palestina (https://zeitun.info/).

Da La Stampa – In un dipinto di William White Warren dai tenui colori rosa e giallo crema le due sorelle Nightingale – Parthe diminutivo di Parthenope, classe 1818, e la più giovane Florence detta Flo – appaiono raffigurate in perfetta armonia. Ma il bel quadro è mendace. Le ragazze che avevano visto la luce a Napoli e a Firenze (da cui i loro nomi) durante un lungo tour dei facoltosi genitori, quando rientrarono in Inghilterra, a Embley Park, non trovarono pace. La rivalità tra le sorelle stravolse la quiete campestre, con la mamma Fanny spalleggiata da Parthe nell’osteggiare le ambizioni della ribelle Florence. Quest’ultima però vincerà su tutta la linea: diventerà la grande madre dell’assistenza infermieristica moderna, la creatrice dei più avanzati ospedali da campo, l’ideatrice della ricerca statistica d’avanguardia per la cura e l’assistenza ai malati. Adesso in America e in Inghilterra la bella biografia scritta come un romanzo di Melissa Pritchard, Flight of the Wild Swan [‘il volo del cigno selvatico’, Ndr] (Bellevue Literary Press, elogiata dal New York Times), dedicata a Florence Nightingale ha suscitato un grande dibattito sui modi e sulle forme con cui il “cigno selvatico” riuscì ad emergere nonostante l’ostilità della famiglia patriarcale.

Come e dove nacque la tempra di Flo, prima donna a lottare per dare alle altre donne un ruolo nella medicina moderna e fu capace di sconfiggere gli esponenti del mondo accademico, medico e militare che la ostacolavano?

Flo, come scriveva nel diario, sia a Londra che in campagna si sentiva prigioniera. Furono le tate a dare lezioni di buone maniere e di comportamento a Parthe e a Flo. Papà William impartiva invece nozioni di greco, latino, italiano, francese, tedesco, storia, filosofia e matematica: Florence era un’appassionata di questi studi che l’indolente Parthe non considerava adatti a una signorina. A ventiquattro anni Flo annunciò la sua vocazione: non voleva sposarsi bensì diventare infermiera. Le reazioni della madre e della sorella furono incontrollate: era un lavoro inadatto alla sua condizione sociale e le infermiere erano considerate alcoliste e frequentatrici di lupanari e bassifondi. La testarda Flo, però, passava il tempo a compulsare i primi rapporti sulla salute pubblica inglese, che stavano iniziando a uscire attorno a metà ’800.

Nel 1853 fu finalmente libera di realizzare la sua vocazione medica grazie al contributo annuo versatole dal padre. Partì, assieme ad altre trentotto infermiere, per Scutari, sede dell’ospedale militare dopo che nel 1854 l’Impero britannico, alleato della Turchia, era entrato in guerra contro la Russia. All’arrivo la giovane donna fece una scoperta tremenda: più di diecimila soldati giacevano non curati e abbandonati nella sporcizia, pieni di pustole e colpiti da malattie infettive. Miss Nightingale riuscì a imporre una situazione più vivibile ed elaborò importanti teorie su come un ambiente sano e una dieta appropriata limitassero la diffusione dei microbi.

Gli alti comandi militari la consideravano una mestatrice, non tolleravano la sua ingerenza e cercarono di sabotarla in tutti i modi. In Inghilterra, però, grazie alla pubblica opinione e a giornali come The Times, si verificò un importante cambio di passo: si diffuse la leggenda della “signora con la lampada”, di Flo, un angelo che di notte, in ospedale, portava sollievo a feriti e moribondi. Nightingale riuscì ad avviare una riforma completa della sanità militare. Dopo essersi gravemente ammalata, ripartirà per la Crimea, e darà vita a una personale “unità di combattimento”, fatta di amici e di sostenitori dei suoi progetti di cura che mantenevano i contatti con i politici e con i giornali, che diffondevano i dati clinici da lei analizzati e rappresentati tramite grafici colorati, “torte” e istogrammi.

Per Florence, dunque, in un primo momento le istanze del patriarcato furono incarnate dalla madre e dalla sorella e poi dalla società maschile tradizionalista. Non è un caso che a vent’anni Flo componesse un saggio sulle convenzioni sociali che opprimevano le donne, che le costringevano alla pigrizia mentale e a sottovalutare le proprie potenzialità. La sua capacità di “resilienza” al diktat sociale nacque dunque proprio resistendo alla famiglia. Ma si trasformò in un impulso a elaborare, a partire da una condizione personale, strategie e programmi che coinvolsero l’intera società.

Nel 1860 pubblicò Notes on Nursing, pietra miliare del curriculum delle scuole per infermieri che ancora oggi rappresenta l’introduzione classica a quell’attività di cura.

Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona, 5 aprile 2024

Secondo incontro del ciclo Pensare il presente 2024

Ida Dominijanni, Realtà e verità: la pornografia dell’orrore

Giulia Siviero, Il giornalismo occidentale e la narrazione del conflitto


Da Odessa – In occasione della presentazione in Libreria, il 17 maggio 2024, proponiamo la ricca recensione di Claudia Mazzilli al libro di Gabriella Galzio Ritorno alla Dea, Agorà & CO. 2022, pubblicata il 5 maggio 2022 su ODISSEA, Blog di cultura, dibattito e riflessione diretto da Angelo Gaccione:

https://libertariam.blogspot.com/2022/05/lo-sguardo-giano-dellutopia-diclaudia.html

Da Il Fatto Quotidiano – Uno dei capisaldi intorno a cui, sin dall’inizio di quest’epoca di guerra, ruota la propaganda bellicista è la riduzione sistematica di ogni discorso sulla pace alla favoletta dei soliti buonisti. Ecco le “anime belle”, coloro che si pretendono candidi e puri, disarmati e incontaminati, ma che al dunque si rivelano incapaci di guardare in faccia la realtà, di operare sul corso degli eventi e mutarlo. La favoletta dei buonisti si va riaffermando in questi giorni di concitata campagna elettorale, dato che le vecchie accuse sembrano ormai tutte cadute. Susciterebbe almeno ilarità dare del putinista o putiniano a chi, già due anni fa, aveva sollevato dubbi sul crollo imminente della Federazione Russa, sulla caduta ingloriosa di Putin, sulla magica e sfavillante vittoria dell’esercito ucraino, forte di armi e sostegno occidentali. I pacifisti avevano ragione su tutti i fronti. A parlare sono i fatti. E non è certo gradevole il ruolo delle cassandre inascoltate. Ma il paradosso è che quegli stessi che allora promuovevano la campagna di Russia con articoli boriosi e interventi altisonanti, ora si sono rimangiati tutto; fischiettano e fanno finta di nulla o, peggio, si impossessano delle parole dei propri oppositori. Dato che in questo Paese non ci sono tradizionalmente limiti a piroette ciniche, capriole impudenti, voltafaccia e ribaltoni di ogni risma, si può perfino condire qui e là il proprio eloquio in patria con le due sillabe “pa-ce”, per poi infilarsi l’elmetto in Europa, pronti all’invio continuo e moltiplicato di armi. E i pacifisti? Quelli che sin dai primi giorni dell’invasione russa chiedevano trattative? Ebbene restano nel torto ontologico: sono miopi buonisti, antiquati cattocomunisti, neoperonisti seguaci del papa argentino, pericolosi esponenti di un francescanesimo militante, ecc. Gente che immagina di risolvere tutto a colpi di slogan, senza fare i conti con la “dura realtà”, quella della linea del fronte, degli eserciti che si combattono, dei metri guadagnati o persi. Il loro grande rimosso sarebbe la dura, inaggirabile realtà della guerra. Senonché le cose stanno esattamente all’opposto. Le fiamme, i proiettili, le schegge di bombe, le sventagliate di mitra non hanno risolto nessun problema, né nelle pianure ucraine né nelle tendopoli desolate di Gaza. L’unico risultato è stato un numero spropositato di corpi umani immolati sull’altare del vetusto rito della guerra e del nuovo profitto tratto dalle armi. Non uno scontro di civiltà, bensì un incontro di interessi. Questo non ha nulla a che vedere con la politica il cui scopo, oggi più che mai, è quello di preservare le vite. Che cosa dovrebbe venire prima? La posizione dei pacifisti è dunque quella di chi ragiona, argomenta, analizza e considera le vie concrete e percorribili che può aprire una politica assennata, cauta, lungimirante. Abbiamo ancora sempre nelle orecchie quella propaganda gridata, gli insulti e gli attacchi personali che coprono ogni serio confronto. I pacifisti non si arrendono all’invio di armi, né credono alla favola (questa sì, favola) della guerra asettica e intelligente, condotta da qualche parte, magari in un cielo lontano, da dispositivi neutri e neutrali. La guerra è sempre sporca e sempre stupida. Soprattutto: non riguarda un cosmo lontano. Miete vittime continuamente e si avvicina a noi. Perciò vogliamo parlare di prospettive e avere da coloro che si candidano per il Parlamento europeo risposte precise. Come immaginano nel futuro prossimo il rapporto con la Russia? Lavoreranno per ristabilire i contatti venuti meno oppure ritengono che quella crepa, anzi quella cesura in territorio europeo, che passa per il Donbass, sia definitiva? E sarebbe anche opportuno che i vari candidati ci parlassero dei modi per salvare ciò che resta dell’Ucraina, per ricostruirla. Ci sarà – speriamo – un dopo-Zelensky. E allora si pone necessariamente anche il problema dell’Europa. Mai se ne è parlato così poco. Segno del terribile degrado, culturale e politico. Ma sintomo anche di un grande disorientamento che investe anche una Unione europea che sembra disgregarsi e perdere definitivamente i propri obiettivi sotto i colpi della guerra e dell’avanzata ovunque della destra estrema. E vogliamo anche sapere da candidati e partiti come intendono rilanciare il ruolo, delicatissimo e indispensabile, dell’Europa in Medio Oriente. Che ne sarà dei sopravvissuti alla carneficina di Gaza? Ci sarà una sorta di protettorato arabo, saudita? Come vedono il futuro del popolo palestinese? E come si può sostenere quella parte, per quanto piccola, della società israeliana che si è opposta a Netanyahu? Questi sono i temi di una politica della pace che vengono intenzionalmente aggirati da chi vuole continuare a far parlare solo di armi e a lasciare la parola solo alle armi.

Ieri, 8 maggio 2024, è morta a ottantasette anni Giovanna Marini. Compositrice, cantante, etnomusicologa e ricercatrice sul campo, autrice di ballate, ha “salvato” e fatto conoscere un enorme patrimonio di brani di musica di tradizione orale del nostro paese. Per me è stata importantissima. Dai dodici-tredici anni ho cominciato a conoscere le sue opere, presenti in casa nella collezione de “I dischi del sole” di mio padre. Era una delle poche donne in quell’ambito che non si limitasse a raccogliere e interpretare le canzoni popolari ma producesse anche testi, e dunque parola propria: le sue famose ballate. Ancora oggi in parte vedo la società statunitense con gli occhi del suo Vi parlo dell’America, un 33 giri di due facciate sul suo soggiorno a Boston nel 1965/66. Per me era importante dare credito a un pensiero e una voce di donna come la sua, anche se lei non sottolineava il suo sesso né si dichiarava femminista.

Non era femminista, ma ha tracciato un filo di genealogia femminile riconoscendo il suo debito con Giovanna Daffini, ex-mondina che le insegnò il modo di usare la voce nel canto tradizionale e le trasmise il suo patrimonio di canzoni.

Non era femminista, ma ha saputo affondare il suo sguardo lucido, intelligente e spietato nel groviglio complesso del materno e delle relazioni tra madre e figlia, e qui voglio ricordarla proprio con la sua opera La creatora (ovvero in nome della madre) del 1972. È una ballata che mette in scena una creazione traposta al femminile e gli effetti deleteri del rifiuto della figlia di riconoscere il debito con la madre, della sua incapacità di agire il conflitto, della sua sterile negazione. Da ragazzina l’avevo interpretato come un atto d’accusa alla tirannia delle madri, aiutata in questa lettura di comodo dal fatto che Giovanna Marini non faceva sconti a nessuna delle sue due protagoniste, finché non lessi un’intervista in cui lei stessa spiegava, spiazzandomi, di essere «ovviamente» dalla parte della madre… Chissà che la mia attuale idea di femminismo non la debba anche un po’ a questa sua lezione imprevista.