Esserci davvero, un volume a cura di Clara Jourdan edito dalla Libreria delle donne di Milano
«Il femminismo era una correzione di un esserci facendo carte false: è stato un esserci in prima persona in qualcosa che accade. Che certo ha una sua importanza […] ma era un esserci davvero, è stata la cifra più importante». A dirlo è Luisa Muraro nella lunga conversazione (quasi cento pagine) con Clara Jourdan depositata nelle pagine di Esserci davvero (Libreria delle donne, Quaderni di Via Dogana, pp. 245, euro 15). Comparsa in versione ridotta nel 2006 e registrata tra maggio e luglio del 2003, l’intervista è ora pubblicata in forma integrale e inedita.
Grazie a Clara Jourdan, nella seconda parte del libro, interamente a sua cura, c’è la bibliografia che va dal 1963 al 2024, un lavoro che Jourdan ha iniziato nel 1998 insieme a Franca Cleis, e che dà conto cronologicamente di una poderosa quantità di scritti, monografici, in riviste, collettanee, giornali (tra cui non manca il manifesto); tutti luoghi e occasioni di un impegno attivo e infaticabile che nasce già in relazione e che, nel caso di Muraro, si è profuso anche nell’ambito della traduzione (basterebbe forse citare la prima traduzione italiana di Speculum, di Luce Irigaray, nel 1976 per Feltrinelli).
La prima parte dialogante consegna allora il percorso, qui intimamente umano e politico, della filosofa che indica quanto grande sia stato quell’esserci davvero quando le è stato chiaro che se il cattolicesimo e il comunismo erano «a certe condizioni che non si sono realizzate», è stato l’incontro con il femminismo a fornirle delle condizioni «che si sono realizzate». La chiama, questa, la sua «logica esistenziale» ed è forse il primo dei numerosi fili del procedere, nel confronto con Jourdan, che le consentono di indicare alcuni dei termini del suo apprendistato, mai solitario ma sempre con altre donne accanto, con alcuni nomi (e nel libro ce ne sono davvero tanti) che brillano dal primo incrocio restando con lei tutta la vita, come Lia Cigarini dalla fine degli anni Sessanta.
Il movimento delle donne, il separatismo, l’autocoscienza, la scommessa del femminismo che era a quell’altezza, anche in Italia, un accadere, con diverse pratiche e gruppi, e che diventa spazio collettivo e di libertà femminile, oltre che di elaborazione teorica in cui, nel 1975, nasce la Libreria delle donne di Milano segnando un’attenzione, già inaugurata, a quella parte del femminismo francese che arrivava da Psychanalyse et Politique.
C’è in un tale fervore sorgivo, che in quel momento non può più essere di mera partecipazione alla cosiddetta società degli uomini colti, un modo che ha Muraro di farsi leggere (o di farsi ascoltare, poiché la sua produzione ha seguito in questi anni scambi pubblici, mai pacificati e per questo ancora più preziosi, in presenza) facendoci attraversare, insieme a lei, la sostanza di una donna che pensa, che riconosce di questo suo procedere la circostanza imperfetta di una ricerca a partire da sé.
Sempre ha scritto per la lettrice anonima, per una donna che non sa chi sia, dice a Jourdan in uno dei molti momenti della conversazione, perché «il lavoro della scrittura mi portava e mi porta in una vicinanza, nel confine tra simbolico e fisiologico».
Già nel 1976, con La Signora del gioco, assume la qualità di un inaggirabile posizionamento, facendone affondare i prodromi nell’autocoscienza: «ho preso la pratica politica delle donne come forma simbolica che mi permetteva la scrittura». Del resto, anche nella esperienza della lettura «il libro diventa una macchina pensante dentro di me».
Quell’oggetto che non resta mai fermo, che «non è mai se stesso» le consente di consegnarci la passione autentica di una relazione: è infatti l’oggetto dentro di lei che, racconta, si muove e la muove. Succede però altro perché l’oggetto, in questo caso un libro, le permette di contrattare la sua libertà, «perché do ammirazione e dopo delle strattonate per significare la mia libertà». In questo alternarsi, movimento nei riguardi di ciò che ha scritto e di come sia stata letta anche lei stessa, ha ripetuto spesso che «tutto è storia ma la storia non è tutto». Elemento utile perché «c’è qualcosa che eccede e questo qualcosa è vuoto, non è nominabile, non è dicibile, è un niente, è un niente che però io considero un passaggio all’essere». Vengono forse qui a chiarirsi parte delle critiche che le sono state mosse riguardo l’approdo metafisico soprattutto del suo L’ordine simbolico della madre (1991, varrebbe la pena conoscerne l’origine tutta interna, e plurale, al movimento delle donne e di cui lei stessa dice: «il libro che mi fa più problemi, ancora oggi»).
Ma anche per capire ciò che è stata la modificazione della sua esperienza nella conoscenza delle scrittrici mistiche (il primo articolo su Margherita Porete è del 1988, stesso anno in cui scrive di Clarice Lispector). Ad esempio nel raffinare l’ascolto per «captare il silenzio, la presenza di un silenzio». Qui il legame può essere rintracciato per un verso nello strabismo di aver confuso, strumentalmente ma anche storicamente, l’assenza delle donne con uno statuto di inesistenza, per un altro verso vi è l’apertura a una cavità della stessa storia che «permette di scrivere quello che non è storia».
La mistica, libera ricerca di Dio «come forma della libertà femminile», rispondente politicamente al «primato delle pratiche» in cui il posto delle cose non viene occupato dalle costruzioni intellettuali, astratte e neutralizzanti, in cui i corpi scompaiono o non hanno udienza, porge una connessione alla «necessità del metonimico», di cui Muraro ha scritto nel suo libro forse meno letto e più sorprendente: Maglia o uncinetto (1981, se ne segnala la ristampa per manifestolibri del 1998 con la postfazione, splendente, di Ida Dominijanni).
Un procedere tra i libri, dunque, pensando nel frattempo con le altre: è il caso almeno di Guglielma e Maifreda (1985) e di Non credere di avere dei diritti (1987, nel 1990 viene tradotto negli Stati Uniti grazie alla mediazione di Teresa De Lauretis), cui segue Il pensiero della differenza sessuale (1987), primo volume della comunità filosofica femminile di Diotima in cui affiora il «taglio simbolico», perché «facendo un taglio si forma pensiero», sono – prosegue Muraro – «operazioni di ordinamento di un campo».
SCHEDA. Alla Cattolica il convegno “Come quando si accende la luce”
Promosso dai Dipartimenti di Sociologia e di Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica, la Libreria delle donne di Milano e la comunità filosofica femminile Diotima (Università di Verona), il 20 settembre 2025 all’Università Cattolica di Milano si è tenuto il convegno internazionale «Come quando si accende la luce», dedicato al pensiero di Luisa Muraro.
Dopo l’introduzione di Raffaella Iafrate, con il coordinamento della prima sessione di Carla Lunghi, interventi di Vita Cosentino, Diana Sartori, Ida Dominijanni, Cesare Casarino e Riccardo Fanciullacci. A seguire, dalle 15, con il coordinamento di Maria Livia Alga, interventi di Wanda Tommasi, Carla Lunghi, María-Milagros Rivera Garretas, Annarosa Buttarelli e Paolo Gomarasca.
da il manifesto
«Mentre le diplomazie votano “dichiarazioni di intenti” e “condanne”, i bulldozer avanzano».
Francesca Mannocchi ha descritto bene ieri su La Stampa la situazione reale sul campo a Gaza e in Cisgiordania: una realtà di violenza bellica (e ideologica) senza più limiti che rende ormai irrealistico parlare di “due popoli e due Stati”.
È certo positivo, aggiungo io, che si allarghi la condanna internazionale della condotta di Netanyahu, e che si moltiplichino i riconoscimenti allo “Stato palestinese”. Ma visto che nessuna azione concreta contro un uomo considerato criminale di guerra, al pari di Putin, dalla Corte penale internazionale viene decisa dalle nazioni che contano, il risultato sarà proprio quello annunciato dal premier israeliano e dai suoi ministri di estrema destra: “non ci sarà mai uno Stato palestinese. Questo posto è nostro”.
Per Giorgia Meloni – lo ha gridato rivolgendosi agli integralisti di Vox – «violenza e intolleranza stanno a sinistra, ma non ci intimidiranno, lotteremo per la libertà…». Non varrebbe la pena di parlarne se non fosse a capo del governo (che non riconosce lo Stato palestinese) e non facesse parte di un coro di fratelli che sono giunti a paragonare l’attuale scontro politico in Italia al tempo delle Br (un tempo in cui, va ricordato, si sono susseguite anche molte stragi e violenze di matrice neofascista). Così si soffia sul fuoco, ovviamente.
Ma anche a sinistra non tutte le parole pronunciate sulla violenza, in particolare dopo l’uccisione di Charlie Kirk, mi sono sembrate appropriate.
Ho letto con attenzione le spiegazioni di Odifreddi, e ascoltato con altrettanta attenzione il video di Saviano. Intellettuali così noti e seguiti non potevano evitare una frase equivocabile come: un conto è sparare a Luther King, un altro a Kirk? Oppure la condanna dell’uccisione dell’esponente Maga come un errore politico – la lotta armata non conviene mai – prima che come un atto disumano e contrario all’etica che dovremmo tutti condividere: non uccidere. Mai.
Le parole che dovremmo imparare a usare, noi che non imbracciamo armi, non abbiamo funzioni di governo, e possiamo “solo” rivolgerci alle menti altrui con il linguaggio e i nostri comportamenti, noi che siamo contro ogni guerra, e per una pace che non ignori la realtà necessaria del conflitto tra idee e interessi diversi e opposti, dobbiamo sapere che sono parole molto difficili. Ho messo tra virgolette quel “solo”, perché credo, come spesso si dice, che il potere della parola sia in realtà fortissimo.
Un confronto vero su questo dovrebbe aprirsi.
Intanto segnalo un documento che ne parla in modo interessante. È la “Carta dell’impegno per un mondo disarmato”, scritta dal movimento “10, 100, 1000 piazze di donne per la pace”, tra cui amiche femministe che dal momento dell’invasione dell’Ucraina hanno organizzato un presidio permanente a Palermo, pratica che si è estesa in molte altre città, e che sarà presente quest’anno alla marcia Perugia-Assisi.
«Il linguaggio bellico – vi si legge tra l’altro – permea notizie, leggi, discorsi. Alimenta l’idea che la guerra sia inevitabile, necessaria, legittima. Rivendichiamo una grammatica della pace, una grammatica della relazione, non della sopraffazione: parole che costruiscono senso, raccontano la vita, nominano l’ingiustizia, aprono immaginari. […] Nelle fratture del presente, siamo consapevoli che costruire la pace richiede una postura capace di sottrarsi alla logica binaria delle contrapposizioni, di non rispondere al conflitto con nuove esclusioni…».
dal Corriere della Sera
Concordo pienamente con la polemica del signor Stefano Zamberlucchi (Corriere, 9 settembre). Mi chiedo da tempo se i “geni” che cambiano le procedure dal manuale (umano) al digitale sappiano che un quarto della popolazione italiana (tra poco saremo un terzo) ha più di 65-70 anni. E se ha senso escludere una così gran parte della popolazione da tutte le incombenze che la vita moderna ci impone. Se molti di noi non possono, non vogliono o non sanno usare la tecnologia, dovrebbe, anzi deve essere lasciata in atto l’antica funzione manuale di tutte le procedure che oggi sono passate al sistema tecnologico. Poi ognuno sceglierà di quale servirsi. Ho 85 anni, guido, faccio bonifici online, uso il computer e lo smartphone, ma non voglio essere obbligata a imparare in continuazione nuovi sistemi! Noi vecchietti abbiamo ancora poco tempo da vivere e non vogliamo perdere ore dietro a istruzioni astruse che spesso ci innervosiscono e non portano a facili soluzioni. Inoltre ci viene detto che dobbiamo uscire, camminare, muoverci per tenerci in salute, ma se ci tolgono la banca, la posta, i negozi, il dottore, la farmacia e invece siamo costretti a stare in casa e passare ore seduti davanti a uno stupido computer per risolvere tutti i problemi che sarebbero risolti meglio davanti a un essere umano… allora? Come dice il signor Zamberlucchi, questo non ci piace! Infine desidero il giovane, gentile, efficientissimo impiegato della Posta di Castro (Bergamo) che, da solo, ascolta, aiuta, risolve ogni problema in tempi rapidi e sempre con il sorriso.
il manifesto
Il secondo volume dei «Meridiani» curati da Liliana Rampello raccoglie i romanzi composti da Jane Austen a Chawton: di Persuasione (concluso nel 1816) propone un capitolo cancellato e completamente riscritto, che mostra un indizio rivelatore…
Si può pensare che ai lettori di “Nuovi Argomenti” l’idea non fosse dispiaciuta, se nella primavera del 1959 il direttore Alberto Moravia decide di riproporre la stessa formula sperimentata tre anni prima: nove domande rivolte a dieci intellettuali. Invece che politico in questo caso l’argomento è letterario, non si parla dello «stalinismo» ma del «romanzo». Risponde per primo Giorgio Bassani, il secondo è Italo Calvino. La guerra tra neorealismo e neoavanguardia si direbbe lontana; il caso della stagione è Il Gattopardo. In autunno Calvino conclude con Il cavaliere inesistente la sua araldica e massimamente fantastica trilogia I nostri antenati. Il questionario finisce con questa domanda: «Quali sono i romanzieri che preferite e perché?».
Calvino è generoso, ne indica più di venti. Trova per ognuno motivazioni brillanti, spesso fulminee; le stringe con un’anafora che imprime alla sua risposta il ritmo di una filastrocca. Tra tanti scrittori le scrittrici non sono che due e anzi una, maestra assoluta nell’arte del racconto, di romanzi non ne ha mai pubblicati: «Amo la Mansfield perché è intelligente». Cosa vuole dirci Calvino? Che di solito le scrittrici proprio intelligenti non sono? Oppure che lei è solo intelligente? Si tratta di un elogio o del suo opposto? Il lettore è perplesso, si sente anche un po’ sciocco, indeciso se l’affermazione sia più o meno lusinghiera di quella che la precede: «Amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia». Qui il gioco diventa più provocatorio e ambiguo. Calvino intende dire che non ha mai letto Jane Austen o che ritiene inutile rileggerla? E perché allora è contento che «ci sia»? Lo rassicura pensare che oltre a chi ha narrato battaglie e viaggi per mare esista una signorina capace di raccontare balli e cestini da lavoro e tazze di tè? Il pregiudizio, più che l’orgoglio, è un sostantivo ostinato e non solo in letteratura.
La più perfetta artista tra le donne
«Che genio, che integrità bisognava avere davanti a tutta quella critica, in mezzo a quella società puramente patriarcale, per insistere coraggiosamente nella realtà così come la vedevano gli occhi di una donna!» aveva scritto esattamente trent’anni prima Virginia Woolf a proposito di Jane Austen, secondo lei «la più perfetta artista tra le donne». Talmente «perfetta», inafferrabile nel mistero della sua cristallina profondità e della sua affilata leggerezza, nella sua imperturbabile lucidità di sguardo, nella sua irridente modernità che spiace pensare a quanto si è perso Calvino. Se esiste una delizia, anzi una gioia più grande di leggere Jane Austen è la possibilità di rileggerla, una seconda volta e ancora e ancora. Io non sono solo contenta che «ci sia»: mi sembra che il mondo sarebbe intollerabile, più difficile il destino femminile, se non ci fossero i suoi libri. Per avvicinarli o ritrovarli, in questo duecentocinquantesimo anniversario della nascita, il lettore italiano può cogliere la magnifica occasione offerta dall’uscita nei Meridiani del secondo e ultimo volume di Romanzi e altri scritti (Mondadori, pp. LVIII-1616, € 80,00), curato come il primo (2022) da Liliana Rampello e ugualmente affidato per la traduzione dei romanzi alla mano di Susanna Basso.
Se la rilettura si addice a Jane Austen, e se un’esperienza immersiva come quella proposta dai Meridiani non potrà non rivelarsi prodiga di scoperte inattese, la traversata del secondo volume regala forse a chi vi si avventuri una felicità più intensa. La cesura tra i due volumi, naturale poiché allo stesso tempo letteraria e biografica, coincide tanto con l’abbandono nel 1801 della casa di Steventon dove Austen era nata, quanto con la morte del padre, avvenuta quattro anni dopo. I tre romanzi raccolti nel primo volume, qui disposti secondo l’ordine della loro stesura, furono composti prima che il reverendo Austen decidesse di cedere la canonica al primogenito James per stabilirsi con le due figlie e la moglie a Bath. Malgrado un paio di tentativi, a quell’altezza l’autrice non era però riuscita a pubblicare nessuno dei tre: li riscriverà tutti e tre dopo il 1809, quando troverà con la madre e la sorella un’abitazione definitiva a Chawton, nel cottage offerto alle tre donne dal fratello Edward.
A distanza di molti anni e molti cambiamenti Jane Austen ultima dunque in una redazione completamente nuova prima Ragione e sentimento (1811) e poi Orgoglio e pregiudizio (’13), pubblicandoli entrambi anonimi con il solo appellativo “a Lady”. Tornerà più tardi a lavorare anche su Northanger Abbey, venduto a un editore nel 1803 con il titolo Susan, rimasto inedito e da lei riacquistato nel ’16. Dell’ultima revisione di quel libro, in cui muta anche il nome della protagonista, non si sentirà tuttavia mai soddisfatta, tanto che nel ’17 confiderà all’amata nipote Fanny di averlo messo «in un cassetto» senza sapere se lo avrebbe tirato «più fuori»: uscirà infatti solo dopo la sua morte a cura del fratello Henry insieme a Persuasione (1818). Il primo Meridiano, al cui centro sta incastonata l’opera più celebre di Austen, riunisce dunque tre romanzi su cui l’autrice ha esercitato per un periodo davvero lungo la pratica della rilettura. Genesi e stampa si collocano dentro spazi anche interiori distanti tra di loro, i tempi della storia non solo letteraria si evolvono; mentre lei stessa cambiava con il secolo, Jane Austen ha potuto indugiare sulla pagina e ancora ripensare. Il titolo di Northanger Abbey è congetturale così come il suo testo rispecchia uno stadio non definitivo di revisione; né stupisce il riverbero che il molto citato dialogo sulla narrativa irradia verso le pagine iniziali dell’incompiuto Sanditon, cui Austen dedicò nel 1817 gli ultimi mesi in cui la malattia le consentì di continuare a scrivere.
Fanny, Emma, Anne: coscienza di sé
Oltre a Sanditon, il secondo volume raccoglie i tre romanzi composti a Chawton in tempi molto ravvicinati: Mansfield Park (’14), Emma (’15) e Persuasione, concluso nel ’16. Per quanto l’universo narrativo di Jane Austen sia compatto, la rilettura degli ultimi libri svela un’opera non granitica ma elastica, attraversata da variazioni tonali e mutamenti atmosferici, sottoposta a un’inesausta ricerca espressiva. Veramente, come sosteneva Woolf, se l’artista «perfetta» non fosse morta a quarantadue anni «avrebbe inventato un nuovo metodo, chiaro e misurato come sempre, ma più profondo e più suggestivo, per esprimere ciò che la gente dice, ma anche ciò che non dice: non soltanto ciò che la gente è, ma ciò che la vita è». Tutte le protagoniste sono chiamate a rivedere i loro giudizi, emendare i loro comportamenti, rileggere le loro aspirazioni. Non fanno eccezione Marianne e nemmeno Elinor, non certo Elizabeth né Catherine: è del resto il senso di ciò che Liliana Rampello ha definito il «romanzo di formazione femminile» inventato da Jane Austen. Ma la differenza climatica tra la turbolenza primaverile dei due primi romanzi – il temporalesco Ragione e sentimento come il lussureggiante Orgoglio e pregiudizio – e la quiete degli ultimi tre – la bruma invernale di Mansfield Park o il fulgore estivo di Emma o il crepuscolo autunnale di Persuasione – suggerisce una trasformazione in atto, una diversa postura espressiva e una nuova tensione stilistica, una più ardimentosa creatività. Ha senso che tanto le pagine di Mansfield Park quanto quelle di Persuasione siano percorse dall’aria del mare e imbevute di salsedine.
Benché tra loro molto dissimili, Fanny, Emma, Anne condividono una coscienza di sé ignota alle prime due protagoniste: «io sono diversa dagli altri» dice Fanny, «la mia è una mente piena di risorse indipendenti» dice Emma, «devo credere di aver avuto ragione» dice Anne. Con l’eccezione di Emma – capace tuttavia di riconoscere per prima la propria «cecità» e di vedere benissimo se frena la fantasia – le tre ragazze rileggono se stesse trovando una conferma invece di smentirsi. Soprattutto non si rileggono mai in funzione esclusiva dell’amore (il matrimonio diventa una fine sempre più accessoria nella trama di Jane Austen), ma di un equilibrio interiore in cui oltre alla felicità delle relazioni contano la soddisfazione di sé e la serenità della coscienza. Sono tutte capaci di plasmare il loro destino leggendo da sole dentro il proprio cuore: sanno rivolgere gli occhi al passato e guardare attraverso la memoria.
Più o meno a metà di Mansfield Park la ragazza Fanny parla del tempo che fa crescere le siepi e le fa diventare boschi e parla anche della memoria che fa dimenticare che i boschi prima di essere boschi erano siepi. «È stupefacente, davvero stupefacente il lavoro del tempo, il mutare del pensiero umano!» dice aggiungendo dopo una pausa: «Se una delle nostre facoltà naturali può essere definita più stupefacente delle altre, io penso che sia la memoria». È davvero «stupefacente» che Jane Austen offra qui a una «figlia della cenere», come l’ha definita Antonia Byatt, frasi che descrivono il percorso delle sue protagoniste dentro i loro libri e anche la qualità più propria della sua scrittura. Nei tre romanzi il ripensamento del passato e l’esercizio della memoria conducono non solo alla rassicurazione dei sentimenti e alla salvezza dalle insidie che la vita dissemina sul percorso di ogni ragazza, ma alla conferma di sé, all’autonomia, alla valorizzazione di una personale diversità. Mentre aspetta l’amica Harriet fuori da un negozio Emma guarda la strada: «Una mente attiva e serena può accontentarsi di non vedere nulla, e non vede nulla che non la soddisfi» chiosa l’autrice, che attraverso gli occhi della sua protagonista più dotata di «immaginazione creativa» e per questo più «pericolosa», come sostiene Penelope Fitzgerald, torna ancora una volta a parlare del proprio mestiere.
Il dialogo tra Anne e il capitano
Non esistono manoscritti dei sei romanzi canonici di Jane Austen. Si conservano però alla British Library, insieme al suo scrittoio portatile, gli autografi degli ultimi due capitoli di Persuasione. Numerati 10 e 11 (secondo l’originale suddivisione in due volumi), disseminati di interventi riconducibili a uno stadio di revisione addossato alla stesura, sono datati tra l’8 e il 18 luglio 1816. La redazione non coincide con quella a stampa: dopo avere scritto, cassato e riscritto la parola «Finis» interpolando un intero capoverso, Austen rivede minutamente il capitolo 11 (che diventerà il 12) e ripensa da cima a fondo il 10.
Ne modifica gli eventi, lo amplia fino a sdoppiarlo, assembla dentro una struttura completamente rinnovata le battute principali del dialogo tra Anne e il capitano Wentworth. In appendice al secondo Meridiano il lettore troverà in traduzione anche il vecchio capitolo 10, la cui trascrizione fu resa nota per la prima volta dal nipote James Edward Austen-Leigh. Si tratta di una vera sorpresa. A proposito della «scena straordinaria» che si svolge al White Hart, osserva Elizabeth Bowen: «nel suo genere, la suspense costruita in Persuasione è la più intensa possibile in narrativa». Di quella scena però non c’è traccia nel capitolo manoscritto. Aggiungendo un giorno intero alla trama, collocando il colloquio decisivo tra Anne e Wentworth non durante una cena ma nel corso di una passeggiata, Austen fabbrica lo spazio per inserire nel testo l’intera sequenza della locanda che consente a entrambi i protagonisti di avere più tempo per decifrare le loro emozioni e scrutare dentro il passato.
Permette in particolare ad Anne di prendere la parola e affermare che gli «uomini hanno avuto ogni vantaggio» rispetto alle donne nel raccontare la loro storia poiché «la penna è da sempre nelle loro mani», ma che le donne hanno il privilegio «di amare più a lungo, anche quando la vita o la speranza sono finite».
In tre settimane Austen ripensa l’intera zona conclusiva di Persuasione e compone una scena inedita offrendo alla sua protagonista tanto il coraggio di afferrare il proprio destino quanto la lucidità di scolpire frasi definitive sulla vita e la scrittura femminile. Vediamo l’autrice assumere una posizione differente nei confronti del suo romanzo: lo rilegge da un punto prospettico nuovo. Dopo la scena al White Hart il dialogo tra Anne e Wentworth lungo la strada verso Camden Place non è in sostanza troppo diverso da quello stabilito nella redazione precedente. Austen aggiunge però un dettaglio di valore solo in apparenza neutro. Il complimento rivolto dal capitano ad Anne sul suo aspetto fisico, immutato malgrado il passare degli anni, figura già nel vecchio capitolo 10: però in questo caso l’autrice sembra avere dimenticato che all’inizio del romanzo Wentworth si era espresso in modo opposto, per lui Anne era «talmente cambiata che non l’avrebbe riconosciuta». Riscrivendo l’attuale capitolo 11 l’autrice al contrario ricorda e non solo inserisce l’indispensabile richiamo, ma aggiunge un commento pieno di echi: «il valore di quell’omaggio era indicibilmente accresciuto dal confronto con le affermazioni precedenti, perché capiva che era l’effetto e non la causa del riaccendersi in lui dell’amore». Eccola qui la mente della scrittrice che si rilegge, ne percepiamo il fervore mentre guarda all’indietro il testo appena finito. Trasforma la “gaffe” in una riflessione sottile, acquerella per Anne un’emozione delicata, crea un’intercapedine in cui dispiega con abilità vera di miniaturista la sua straordinaria comprensione del cuore umano. Ha detto Woolf che «di tutti i grandi scrittori lei è la più difficile da cogliere nel momento della grandezza»: ora però quella grandezza possiamo toccarla, se ne sta sigillata dentro una variante.
«La sera saremmo disperati se non fosse per Jane Austen» scriveva dalla Svizzera più o meno un anno prima di morire l’“intelligente” Katherine Mansfield a sua cugina Elizabeth von Arnim. «La stiamo rileggendo tutta. È una di quegli scrittori che andando avanti sembrano non solo migliorare ma rivelare deliziose qualità del tutto nuove». Possiamo sentirla sospirare mentre aggiunge: «che rara creatura!». Lei e il marito John Middleton Murry avevano cominciato da Emma, ma da qualunque romanzo il lettore decida di cominciare la sua felicità sarà esattamente la stessa. Ci sentiremo “disperati” solo quando arriveremo alla pagina in cui il testo di Sanditon si interrompe; là dove la “rara creatura” ci ha congedato lasciandoci orfani.
da L’Altravoce il Quotidiano
«Salvami, salvami!» è il grido disperato di Hind Rajab, bambina palestinese di cinque anni uccisa dall’esercito israeliano il 29 gennaio 2024, che la regista tunisina Kaouther Ben Hania ha fatto risuonare alla Mostra del cinema di Venezia con il suo film La voce di Hind Rajab, premiato con il Leone d’Argento.
In attesa che il 25 settembre il film arrivi nelle sale cinematografiche, la voce della bimba è risuonata in tutto il mondo e con il suo volto e la sua storia ha dato un volto e una storia alle bambine e bambini palestinesi (20.000) uccisi dall’esercito e dal governo genocida d’Israele e a quelle/i che continuano a morire sotto le bombe, per fame o per malattie. Hind era una bambina, una delle tante, fuggita con gli zii a cui l’aveva affidata la madre e i cugini dopo l’ennesimo ordine di evacuazione dal nord di Gaza. L’automobile su cui viaggiavano era stata crivellata di colpi dai carri armati dell’esercito occupante e tutti, tranne la bimba e la cugina Layan, quindicenne, erano stati uccisi. Sole e sotto attacco, riescono a mettersi in contatto con gli operatori della Mezzaluna Rossa. «Ci stanno sparando, il carro armato è di fronte a me», dice al telefono Layan, prima che una raffica interrompa la comunicazione e l’uccida. Hind, intrappolata nell’auto con accanto i corpi senza vita dei suoi parenti, resta sola e impaurita. Quando gli operatori della Mezzaluna riescono a mettersi in contatto con lei, disperata grida più volte: «Ho tanta paura… vi prego venite a salvarmi». Ma passano ore prima che ottengano il permesso dai militari israeliani di poterla raggiungere con un’autoambulanza e nel frattempo cercano in ogni modo di tranquillizzarla. Quando finalmente arrivano, contravvenendo agli accordi presi, li crivellano di colpi e uccidono la bambina e i due paramedici accorsi in suo aiuto. Quanta disumanità! Quanta crudeltà! Quanto odio! Gli ordinano di evacuare e durante il viaggio li ammazzano. Li affamano e li bombardano mentre fanno la fila per un sacco di farina o una tanica d’acqua. Li lasciano morire di fame e di malattie, impedendo l’entrata a Gaza dei camion carichi di viveri e medicinali. Non conoscono pietà, l’odio li divora e la forza, che domina, schiaccia, annienta, disumanizza, li possiede. Chi pagherà per questi crimini? Chi farà giustizia di tante vittime innocenti? Chi redimerà Israele? Quante generazioni dovranno passare per estinguere l’odio dall’una e dall’altra parte? Potrà mai essere riparata quella rete di pacifica convivenza che donne israeliane e palestinesi, insieme a uomini, hanno tessuto per anni? Chi redimerà la storia del popolo ebraico se non chi da ebrea/o, dentro e fuori Israele, si è opposta/o al governo genocida d’Israele? A Gaza non c’è una guerra contro Hamas per liberare gli ostaggi ma la volontà di cacciare un popolo, vivo o morto, più morto che vivo, da quella che Israele rivendica essere la sua terra, come la Cisgiordania per i coloni. «Vi prego, venite a salvarmi!» grida ancora Hind da Gaza.
Ad ascoltare e raccogliere quel grido sono le migliaia e migliaia di manifestanti che hanno accompagnato in tutti i porti la partenza della flotta della Global Sumud Flotilla, che sta navigando verso Gaza con a bordo tonnellate di viveri, medicinali, solidarietà e umanità. Il governo israeliano ha minacciato di impedirne l’arrivo ad ogni costo e ha bollato gli equipaggi come “terroristi” da arrestare e mettere in galera. I droni che hanno colpito due navi nel porto di Tunisi non sono che un primo avvertimento. Non li hanno fermati, hanno ripreso la navigazione accompagnati dalla solidarietà di migliaia di tunisine/i. Una solidarietà che sta montando in tutto il mondo e, se il governo israeliano dovesse portare a termine le sue minacce, come una marea si abbatterà su Israele e i suoi complici, e li sommergerà. Buon vento Global Flotilla! Il mondo intero è con voi.
(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 14 settembre 2025)
da il manifesto
Sono trascorsi cinquant’anni dalla prima apparizione di Le rire de la Méduse (nella rivista «L’Arc», n. 61) di Hélène Cixous, segnando in quel 1975 uno spartiacque, non solo nel femminismo francese che nel 1972 conosceva Il corpo lesbico di Monique Wittig e nel 1974 Speculum, di Luce Irigaray – autrici, insieme ad altre, per Cixous più che presenti. L’occasione di leggere oggi in italiano – per la prima volta in volume, seguendo l’edizione Gallimard apparsa in Francia pochi mesi fa – Il riso della Medusa (Feltrinelli, pp. 80, euro10), è un evento. Grazie alla traduzione e alla cura critica e sapiente di Francesca Maffioli*, raffinata studiosa dell’opera di Cixous (anche sulle pagine di questo giornale).
Intorno a una parola intera e sessuata si è concentrata l’autrice fin dagli anni Settanta, consegnandoci, nel tempo, decine di libri: saggi di teoria letteraria, di critica femminista, conversazioni e testi teatrali di una poetica segnata da una rara ricerca tra parola e linguaggio. Il risultato è una scrittura politicamente insorta, da pronunciare a voce alta. A Hélène Cixous, il primo ottobre a Madrid, sarà riconosciuto il Premio Formentor. E il 25 alla Maison Heinrich Heine – Fondation de l’Allemagne della Cité Universitaire di Parigi, avrà luogo una tavola rotonda sulla traduzione di Le Rire de la Méduse, in cui si celebrerà l’anniversario (1975-2025) dalla sua prima pubblicazione. La giornata sarà animata dalla professoressa Marta Segarra.
Nel suo libro, lei squaderna ciò che Freud racconta della Gorgone. Non è mortale, Medusa, e non ha alcun interesse né a farsi decapitare né a pietrificare alcunché. L’invito è a guardarla, la si scoprirebbe talmente vitale da illuminare una strada di liberazione imprevista.
«Secondo il mito quando guardiamo Medusa siamo pietrificati, e Medusa rappresenta una minaccia. La guardi e sei punito. Ne Il riso della Medusa ho cercato di non essere schiava del mito perché affermo effettivamente che è proprio guardandola che si comprende essere una leggenda quella della pietrificazione, dell’irrigidimento mortale.
È guardando che si ribaltano le sorti delle donne. Essendo viste. Intendo dire che il destino delle donne è sembrato essere irrimediabilmente quello di essere cancellate, l’effacement insomma, ed è invece propriamente guardandole che le loro e le nostre sorti cambiano. Le esistenze delle donne sono state annullate dal cliché per cui si passava dall’essere immaginate come ignoranti, a puttane, a megere e molto altro, ma senza guardare le donne per quello che sono, nella loro luminosa complessità. Scrivere questo libro ha significato a suo tempo anche fare dichiarazione di solidarietà nei confronti delle donne, perché negli anni Settanta, quando scrissi il testo, la scena dell’invisibilizzazione delle donne mi era parsa talmente generalizzata. Anche nel milieu della ricerca. Venendo dal Nord Africa mi domandavo: anche in Francia dunque non vogliono vedere che le donne esistono?
Il riso detta il ritmo di una irriverenza, sia per disallineare alcune delle ingiunzioni della psicoanalisi (almeno fino a Lacan) che per abbattere altre mitologie su cui si è costruita una donna a uso e consumo dello sguardo scotomizzante maschile. Tra le buone notizie, c’è però che «nulla ci obbliga a depositare le nostre vite nelle loro banche della mancanza». Dopo cinquant’anni, si potrebbe rispondere che sì, la Medusa ride ancora, soprattutto di questa sua abbondanza.
Al tempo della pubblicazione de Il riso della Medusa si parlava molto della “Mancanza”, e di Penisneid, dell’invidia del pene e dell’angoscia di castrazione. Al di là dei concetti psicoanalitici teorizzati da Freud si leggevano e si rileggevano i suoi testi, anche per scandagliare le ipotesi freudiane. Sì, è una buona notizia ed è vero, la Medusa ride ancora, certamente. All’epoca rideva e irrideva, trovando grottesca l’ipotesi per cui le donne avrebbero avuto invidia e fossero state vittime di questa “Mancanza”. Tuttavia dopo cinquant’anni la relazione delle donne con questa “mancanza” che era stata loro attribuita è cambiata, nel senso che dalla sola e necessaria ridicolizzazione di questa ipotesi siamo passate a redouter, a temere, e a cercare di difenderci. Penso al movimento femminista #metoo e alle modalità di reazione degli uomini coinvolti, perché in questo movimento contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne ho visto un vero e proprio tentativo d’insurrezione contro gli aggressori».
«Bisogna che la donna si metta al testo – come al mondo, e alla storia – di sua iniziativa». Il suo «manifesto femminista» si apre nella esortazione alla scrittura, che parte dal corpo e che è essa stessa corpo sessuato. Una tale esposizione, che genera forza e al contempo è tremante, è spazio di libertà e parola in cui chi scrive e chi legge si incontra?
«Questa domanda è molto importante perché mi pone un interrogativo a proposito della potenza della scrittura: un’arma davvero potente che si accorda al bisogno inesauribile di libertà. Non si tratta di un’arma assassina però, ma che illumina, anzi che rischiara. Non c’è bisogno di un’industria militare, bastano carta e penna. Anche il computer volendo, ma io preferisco dire ancora carta e penna. Con la scrittura si dispone di un sistema apparentemente più fragile, ma di una forza straordinaria perché essa penetra nell’inconscio dell’avversario. Alle donne è stata attribuita un’incapacità essenziale e quelle che, per ragioni diverse, hanno potuto scavalcare tale opprimente attribuzione hanno potuto anche manifestare uno sguardo pertinente e talmente acuto sul mondo. Intendo dire che ad esempio hanno saputo abbozzare un ritratto sociale del mondo e del posto occupato da ogni essere vivente e l’hanno fatto in maniera ardita e necessaria. In Francia se penso al XVII secolo, il Secolo Grande, il mio pensiero va agli scritti di Madame de la Fayette, o a quelli di Madame de Sévigné. In particolare quest’ultima, quando ritrae la corte di Luigi XIV, lo fa indirizzandosi alla figlia e attraverso di lei a tutte le donne lettrici. Per i secoli a venire penso a Georges Sand, e spostandomi nel Regno Unito a Emily Brontë, che sola, nella sua desolazione solitaria e desertica, scrive dei capolavori, e scrive per se stessa – e per le altre. Come lei anche noi siamo liberate dal testo. Nel senso che il testo ci libera e la scrittura (ci) permette di agire una libertà assoluta, perché di ciò sono convinta: non c’è più grande libertà che quella della parola».
Fin dagli anni Settanta, lei sostiene che l’immaginario delle donne, e delle scrittrici, sia inesauribile. Si aggiunga delocalizzato, poiché fluisce e “soffia”, quando va via per riemergere trasformato da un’altra parte insospettabile. Cosa ha significato il suo incontro con Clarice Lispector?
«Sì, l’immaginario delle scrittrici è inesauribile, a condizione che il suo soffio e il suo respiro siano liberati. E allora esso si apre all’inatteso. L’incontro con la scrittura di Clarice Lispector è avvenuto precocemente, nel 1975, quando in Francia era un’autrice poco conosciuta nonostante alcuni dei suoi testi fossero già stati tradotti. Una delle mie studentesse mi propose di scrivere una tesi sull’opera di Lispector e prima di accettare le chiesi di tradurmene qualche pagina. Ne fui folgorata. Capii senza esitazione che mi trovavo di fronte a qualcosa di straordinario. Spinsi affinché le Éditions Des Femmes la pubblicassero in francese e chiesi a Regina Prado di tradurre dei passaggi dei suoi libri per i miei Séminaires. Mi risolsi a imparare il portoghese brasiliano, non potevo non farlo. In quegli anni la scrittura di Clarice Lispector mi salvò. Mi sentivo incredibilmente sola, anche se certo mi sono sempre sentita accompagnata da Kafka, tuttavia la scrittura mi sembrava un luogo troppo pieno di uomini. Dopo Lispector fu il tempo di Ingeborg Bachmann a riconfortarmi. Insomma avevo bisogno che fossero delle scrittrici mie contemporanee o quasi a farlo, e accadde».
Nei suoi testi c’è una capacità di creare mondi, anche da brevi espressioni, parole o sillabe. Istanti o visioni, tra il sogno e la visitazione, che arrivano e si fanno presto carne sconfinata. Uno di questi esempi è «La nuotatrice aerea, l’involata». Del termine «voler», Francesca Maffioli spiega nella postfazione il doppio significato di volare e rubare e che poi sceglie di tradurre come «involare», ovvero «piombar sopra volando».
«L’omonimia, cioè la coincidenza sonora di parole diverse, è una delle grandi ricchezze della lingua francese. Derrida l’ha detto bene. Tuttavia l’omonimia è più o meno possibile, dipende dagli idiomi. La lingua e il linguaggio ci fanno costantemente dei doni, nel senso che ci dicono più di quello che noi abbiamo l’impressione ci dicano. Il linguaggio ha più di una portée. Ecco qui un’altra bella parola! Che indica ora la distanza percorsa, ora una cucciolata o uno stuolo di pulcini, ma che troviamo anche nel solfeggio musicale e pure altrove. Il significante, è lui che ci porta e il francese è una lingua portatrice. In effetti “voler” è anche lei una parola portatrice e generatrice di senso. Da una parte contiene il volare, il decollare nell’aria e dall’altra il rubare nel senso di appropriarsi ad esempio di un gesto altrui. La scelta in italiano di “involare” riesce a rendere questa polisemia e in particolar modo la rapidità del gesto, quello del volo in picchiata di un rapace. Tutti i traduttori e tutte le traduttrici de Il riso della Medusa si sono trovati di fronte al dilemma e alla difficoltà di rendere tale omonimia. Come Maffioli anche Eric Prenowitz, che sta curando la nuova traduzione in inglese del testo, ha cercato a lungo una parola che rendesse il doppio significato di voler, e ad esempio ha trovato “to lift”. Ecco allora, “La nuotatrice aerea, l’involata” contiene tutto ciò, perché è ora una fuorilegge, ora un essere capace di librarsi, libera, e di diventare una praticante dello spazio, una sua abitatrice».
(*) Grazie della collaborazione a Francesca Maffioli.
SCHEDA. In Italia, brevi cenni bibliografici
Nel 1997 Catia Rizzati traduce «Il riso della Medusa» in «Critiche femministe e teorie letterarie» (Clueb), a cura di Raffaella Baccolini, M. Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli. Nel 1977, Luisa Muraro traduce «Ritratto di Dora» (Feltrinelli). Nel 2000, a cura di Paola Bono, esce per Sossella «Scritture del corpo. Hélène Cixous variazioni sul tema». Nel 2002, con traduzione e cura di Silvana Carotenuto e postfazione di Nadia Setti, esce per Bulzoni «Tre passi sulla scala della scrittura». Riguardo Setti su Cixous: si veda almeno «L’approccio di Clarice Lispector» (Dwf, 7, 1988); «Il teatro del cuore» (1992, Pratiche); «La mia Algeriance» (Dwf, 41, 1999); «Lettera a Zohra Drif» (Leggendaria, 14, 1999); «La scrittura in movimento di Hélène Cixous» (Diotima, 4, 2005). Nel 2001, a cura di Adriano Marchetti, postfazione di Monica Fiorini, per Il Capitello del Sole, «Esordi della scrittura». Nel 2012 Fiorini cura il libro di Derrida, «Hélène Cixous, per la vita» (Marietti)
Dal 12 settembre al 3 ottobre 2025 presso la sede della Fondazione dei Monti Uniti a Foggia sono esposte le opere di Rosy Daniello nella mostra dal titolo Il cielo siamo noi.
Generosa, accogliente, versatile, curiosa, aggettivi che connotano il profilo umano e artistico di Rosy Daniello. Il suo itinerario si svolge tra due secoli densi di avvenimenti che hanno modificato e continuano a cambiare il volto delle società e del mondo in cui viviamo. Grandi speranze di giustizia sociale, attenzione all’ambiente e alla natura, emergere di culture trascurate e misconosciute contrastate da forze che con la violenza e l’esercizio del potere cercano di ostacolare le conquiste. L’avvenimento più eclatante, che ha prodotto una rivoluzione impetuosa e incruenta è stato il femminismo degli anni ’60 e ’70 del Novecento che ha travolto un sistema culturale e simbolico durato millenni, trasformando visioni del mondo, linguaggi, coscienza di sé.
Rosy Daniello ne è rimasta affascinata, soprattutto l’ha appassionata l’impulso creativo che ha animato dall’inizio il movimento delle donne, che mette insieme arte e politica come amore per il mondo e che ha trasformato struttura e metodi in ogni ambito delle scienze, rinnovando il rapporto uomo-donna, dando nuovo senso a temi come corpo e sessualità, riconoscendo autorevolezza reciproca tra donne e creando relazioni anche nelle differenze di desideri, provenienza e cultura.
Parlare delle opere di Rosy Daniello significa convocare le tante donne, artiste, scrittrici, intellettuali del passato e del presente con cui è in relazione e da cui ha tratto ispirazione, omaggiandole con la sua arte che si ispira alle opere di quelle donne. Marguerite Yourcenar, Etty Hillesum, Simone Weil, Carla Lonzi, Grazia Livi, Marirì Martinengo sono solo alcune delle sue ispiratrici.
La ricerca di un linguaggio artistico e forme più confacenti alla propria sensibilità e a un’identità di donna sempre in divenire l’ha resa un’artista poliedrica che ha praticato l’arte in tutte le sue declinazioni: di generi, tecniche, forme, scopi.
Tra le fondatrici del La Merlettaia nel ’93, di cui disegnò il logo, ispirandosi alle stele daunie e a cui Rosy ha dedicato molta parte del suo impegno politico e artistico, ha curato mostre, installazioni, organizzato laboratori stimolando la creatività di ciascuna/o. La città delle donne, ispirata a La città delle dame, opera scritta da Christine de Pizan agli inizi del XV secolo, rappresenta simbolicamente la nuova civiltà che il movimento delle donne sta costruendo.
Importanti sono state le relazioni che ha intrecciato con artiste di varie città italiane che avevano dato vita ad associazioni e aperto gallerie d’arte.La mostra Memoriale è stata esposta a Roma al circolo Virginia Woolf, e a Torino nella Galleria Sofonisba Anguissola. Le porte della scrittura del ’99, esposte al Circolo della Rosa di Verona, sono ispirate ai due Quaderni di Via Dogana di Marirì Martinengo Le trovatore I e Le trovatore II. Per quest’ultimo fu scelta una sua opera per la copertina. Nei ringraziamenti per il suo lavoro Marirì Martinengo si rivolge a «Rosy Daniello, pittrice, che ha acconsentito al mio desiderio di inserire in esso alcune immagini tratte dalla sua collezione ispirata alle poesie delle trovatore».
La serie Le lettere del mio nome è ispirata dall’omonimo libro di Grazia Livi. Con un gruppo di lettura della Merlettaia ha lavorato sugli scritti e la figura di Etty Hillesum, scoprendo analogie profonde con la grande pensatrice olandese. L’installazione, Intelligenza del cuore, formata da dipinti e oggetti, è diventata la copertina del libro collettaneo Le forme del destino, a cura di Pia Marcolivio (Palomar edizioni, 2005).
Dal 2006 Rosy Daniello si dedica alle opere della serie Tra terra e cielo, esposte nella sede della Merlettaia, in cui racconta un’umanità, vulnerabile, donne e uomini legati l’uno/a all’altro/a, figure che formano un intreccio, una trama di un tessuto compatto e leggero al tempo stesso. Il suo sguardo, sempre amorevole li segue e fissa i momenti, gli episodi, i sentimenti che oggi si agitano nel mondo e che come artista è pronta a comprendere, abbracciare e consolare.
Attualmente Rosy Daniello è impegnata con la comunità di storia vivente di Foggia, pratica di ricerca storica, un’invenzione di Marirì Martinengo e altre della comunità di storia vivente di Milano, che indaga un nodo irrisolto, l’oscuro groviglio che «giace nell’interiorità di ognuna/o».
Il risultato della ricerca della Comunità di Milano e di Foggia sono i racconti pubblicati nel libro La spirale del tempo, edito Da Moretti e Vitale nel 2018. Il contributo di Rosy Daniello consiste in due libri d’artista dal titolo Accadde, in cui illustra la pratica della storia vivente, «il doppio movimento della ricerca, guardare dentro di sé e guardare fuori di sé», come scrive nelle note che accompagnano le foto dei libri con il particolare delle donne del gruppo di Foggia impegnate a dipanare il racconto della propria storia.
La ricerca continua…
da L’indiscreto
Le storie di mare sono le mie preferite e quella di Greta Thunberg è spesso stata una storia di mare.
Nell’agosto del 2019 aveva 16 anni quando arrivò a New York a bordo di una barca a vela per partecipare al summit sul clima di settembre e chiedere ai politici, nelle stanze più alte del potere. How dare you? Fu un viaggio potente, importantissimo per la sua carica immaginifica: ci aveva regalato una favola, un’eroina. Greta, giovanissima, era partita da Plymouth come la Mayflower nel 1620, solcava le acque fredde dell’Atlantico come una condottiera, aveva un principe per scudiero e andava ad affrontare faccia a faccia i potenti del mondo. Aveva una missione che, per quanto enorme, sembrava realizzabile.
Era un altro mondo. I movimenti per il clima crescevano e si espandevano in ogni angolo del pianeta, al governo degli Stati Uniti c’era già Trump, ma era un Trump molto meno potente e pericoloso di quello di oggi. C’era ancora una forte fiducia nelle istituzioni e nella comunità internazionale, la Cop di Glasgow di novembre sarebbe stata la più partecipata di sempre in termini di attivismo, pochi mesi più tardi sarebbe stato varato il Green New Deal europeo.
Sono passati solo sei anni ma sembra un’altra epoca. Era un Covid fa. Una guerra fa. Una crisi energetica fa. Un Trump fa. Soprattutto una Gaza fa. Greta parlava ai potenti del mondo, pur arrabbiata, pur severa, ma con l’impressione, ancora, di trovarsi davanti a un interlocutore credibile. E l’interlocutore, a sua volta, doveva almeno dare l’impressione di curarsi delle sorti del pianeta e dell’umanità che vi abita. Insomma di noi e di chi verrà dopo di noi. Era il loro mandato.
Oggi Greta non entra più nelle stanze del potere, è finito il tempo delle promesse accondiscendenti e le ragioni sono due.
Greta, e con lei tutti noi, tutti gli attivisti e tutta la società civile, a quelle promesse ha smesso di credere: alcune non sono state mantenute del tutto, molte altre sono state infrante appena sono arrivate una pandemia, una guerra, una crisi energetica, un nuovo Trump.
Ma soprattutto i potenti hanno smesso di farne. Senza che ce ne rendessimo conto, il mondo ha smesso di aver bisogno di ipocrisia. Prima lentamente, poi tutto insieme.
Il clima è stato accerchiato, lo si è fatto capro espiatorio dell’inflazione, dei malesseri degli agricoltori, della fatica dell’automotive in Europa, dell’isolamento della classe media bianca negli USA. Poi si è smesso di parlarne. Nessuno faceva più finta che salvare il pianeta e dunque l’umanità – soprattutto l’umanità più vulnerabile – fosse di interesse ai vertici dei governi occidentali. Negli Stati Uniti sono cominciate le purghe di scienziati, sono stati tolti 4 miliardi di dollari al fondo Onu per il clima, è stata smantellata l’Epa, l’agenzia federale per l’ambiente. Le elezioni europee del 2024 hanno avuto per caratteristica principale il cambio di lessico e priorità di von der Leyen, il clima ha lasciato spazio e priorità alle armi.
E intanto c’era e c’è Gaza.
La Greta Thunberg del 2025 non parla solo di clima, non lo ha mai fatto. Eppure ora più che mai il clima è dappertutto, necessario, sottinteso. Non si può parlare di clima, cioè di salvare milioni di vite, se si guarda un genocidio a braccia conserte. Non si può parlare di clima se i migranti muoiono in mare o vengono chiusi in prigioni albanesi. Non si può parlare di clima se non si parte dal lavoro. Eppure si sta parlando sempre di clima e di ecologia, di possibilità per l’umano e le altre specie di esistere, che sia attraversando il mare per fuggire da un paese o volendoci restare, nel proprio di paese, nonostante le democrazie occidentali ne vogliano fare una riviera di lusso.
Così Greta ultimamente l’abbiamo vista alla ex GKN di Campi Bisenzio, davanti ai centri di detenzione in Albania, a giugno sulla nave Madleen della Flotilla, a novembre in Norvegia davanti al terminal petrolifero di Mongstad, ora sulla Family Boat partita da Barcellona e bombardata a Tunisi.
In tutte queste lotte, Greta non è più sola, ma in mezzo a moltissimi altri attivisti, una fra le tante e i tanti. Non parla più con i potenti nelle stanze del potere: i potenti la arrestano e la bombardano in mare aperto. Quella che raccontano oggi Greta e la Flotilla è una storia in cui i nemici hanno tolto ogni maschera e in cui le lotte non si vincono con una sola condottiera.
C’è stato un momento preciso in cui Greta Thunberg ha deciso che il centro della scena non era il posto giusto in cui stare e si è spostata, non indietro ma di lato. Era il 2022, un luglio caldissimo, gli ultimi scampoli del movimento ambientalista come lo abbiamo conosciuto nel 2018. Era prevista al Climate Camp di Torino, aveva addirittura fatto intendere di essere già in Italia, i giornalisti si erano presentati in una sala del Campo Einaudi aspettando solo lei. Invece lei si era collegata per tre minuti, aveva detto di essere in Svezia, accanto a lei c’era suo fratello. Non sarebbe venuta. Ora, aveva detto, lascio la parola ai rappresentanti Mapa (most affected people and areas), i rappresentanti delle popolazioni e regioni più vulnerabili. I giornalisti ormai erano lì, costretti ad ascoltare non l’eroina Greta Thunberg ma loro, attivisti sconosciuti provenienti dall’Africa sub sahariana o dal Sud America. Da allora Greta ha smesso sia di frequentare le aule del potere, sia di farsi ritrarre come condottiera. In Germania nel gennaio 2023 si faceva arrestare davanti alla miniera di carbone di Lutzerath, nel fango, insieme a centinaia di altre persone. Nelle foto di rappresentanza era sempre accompagnata da altre attiviste, in particolare l’ugandese Vanessa Nakate.
Per lo storico e mitologo Furio Jesi, l’insidia per un’idea, un ideale, una storia, una lotta è che si cristallizzi. Greta Thunberg ha saputo scampare questo pericolo scostandosi quando i media e i politici hanno cercato di imbalsamarla. Si è scrollata di dosso il ruolo di leader e ha deluso e sfidato chiunque la volesse apolitica ed ecumenica. E oggi la sua storia è più potente che mai. Solo che è una storia non solo sua, tutt’altro. È la storia collettiva e plurale della Global Sumud Flotilla.
Quello che sta accadendo in questi giorni nel Mediterraneo ha una potenza e una carica immaginifica enorme. È la storia in cui ora abbiamo bisogno di stare tutti.
Le barche della Flotilla sono partite cariche di aiuti umanitari, con l’ambizione alta e rischiosa di aprire finalmente un corridoio umanitario per Gaza, con il coraggio di essere piccoli, con l’intelligenza di essere in tanti, con la forza di partire da molti porti e di provenire da tutto il mondo.
Dappertutto, da Genova alla Tunisia, preparativi, partenze e arrivi sono stati accompagnati da una partecipazione e un calore umano sorprendenti. Tutto il Mediterraneo sembra aver perfettamente chiara l’importanza di questa missione, il potere simbolico immenso di questa storia che si sta facendo e dentro cui abbiamo bisogno di essere, che abbiamo bisogno di raccontarci.
Se non sono i governi a salvarsi la faccia (e la ragion d’essere) intervenendo su questo orrore a cielo aperto, sarà la Flotilla, la flotta pirata del Mediterraneo che raccoglie attivisti da 44 paesi. C’è buona parte del movimento ambientalista degli ultimi anni, dal Messico alla Croazia, attivisti che di solito si battono contro il Tren Maya nello Yucatan o che battono il Mediterraneo su navi di soccorso e si erano conosciuti nel 2023 al Congresso mondiale per la giustizia climatica di Milano.
Pochi giorni fa Von der Leyen ha chiesto se siamo pronti a combattere. Vengono in mente le parole di Greta di qualche anno fa: This is all wrong. È tutto sbagliato e no, non siamo pronti a combattere per quella guerra. Quella è la guerra del capitalismo e dell’Occidente contro tutti.
La Flotilla è la dimostrazione che invece siamo pronti a combattere per la pace: insieme, dal basso, disarmati. Se le partenze sono state così emozionanti è perché non c’è niente di più vivo, di più importante, di più coraggioso che stia succedendo a queste latitudini. La resistenza di Gaza, la flotta pirata che parte a combattere per la pace, carica di viveri e non di armi. Il coraggio e lo stomaco non mancano: ma coraggio, diceva la sindaca Salis a Genova il 30 luglio, è rischiare per gli altri, non per se stessi. È stare vicino a chi resiste.
La storia di Greta Thunberg è diventata una storia collettiva ed è questa trasformazione che va raccontata e tenuta stretta. Abbiamo sempre bisogno di storie, io ho sempre bisogno di storie di mare. Ci servono per credere in qualcosa, per darci senso, per dare senso a ogni più timida forma di militanza, per proiettarci nella Storia con la S maiuscola. Questa è una storia di navi pirata, come navi pirata sono quelle che ormai illegalmente salvano i migranti nel Mediterraneo, come illegali sono spesso le azioni di protesta non violenta dei movimenti per il clima e i diritti in quasi tutto l’Occidente. È una storia di resistenza e di alleanze, di attivisti da 44 paesi e battaglie diverse che si uniscono e solcano il mare verso la Palestina. Mentre tutti nelle stanze del potere si aggrappano a egemonie perdute e a identità nostalgiche, in mare c’è qualcosa di nuovo, che sa di futuro e di vita nonostante le bombe che piovono dal cielo.
La distruzione a Gaza procede inesorabile e avviene qualcosa di irreversibile: l’esercito israeliano sta per mandare in fumo quanto resta del patrimonio archeologico di Gaza e con esso le radici della cultura mediterranea tra Oriente e Occidente. Leggiamo nel sito del progetto Gazahistoire. Inventaire d’un patrimoine bombardé che dopo quasi due anni di devastazioni sistematiche siamo giunti al cuore del patrimonio archeologico di Gaza, raccolto durante venticinque anni dagli specialisti francesi e palestinesi. Sono state concesse poche ore per sgomberare la sede della scuola biblica e archeologica a Gaza: «Distruzione annunciata del deposito archeologico della École biblique et archéologique française a Gaza». Così l’archeologo francese René Elter, da anni responsabile degli scavi a Gaza, ha diramato una nota secondo cui l’esercito israeliano ha avvisato ieri mattina di voler procedere dopo mezz’ora al bombardamento del sito. Grazie all’intervento del Patriarcato di Gerusalemme l’esercito ha poi concesso una mezza giornata per mettere in salvo il patrimonio plurimillenario di Gaza, cioè 180 metri quadri di opere. Trasferire questo deposito richiederebbe almeno dieci giorni. L’esercito israeliano impone agli archeologi e a tutti noi di assistere in diretta alla polverizzazione della cultura materiale ed etnologica di una civiltà millenaria alle origini della nostra.
Ci si chiede se l’ardua sentenza di genocidio spetti agli storici o ai contemporanei. Certamente spetta ai contemporanei ribellarsi a tanta indifferenza o disprezzo o voluta negazione nei confronti del patrimonio comune dell’umanità. Cosa diranno gli storici di questa distruzione intenzionale? Forse l’attribuiranno al messianismo che investe solo nell’archeologia che avvalorerebbe il sentimento nazionalista, mentre nega l’evidenza che le radici del luogo non sono disgiunte ma intrecciate. O si rifaranno alla spiegazione di Primo Levi, secondo cui gli esseri umani non sono tanto violenti quanto eccessivamente obbedienti, «eseguono gli ordini».
Ignorare il presente, cancellare un capitolo di storia del Mediterraneo è la propaganda di guerra del presente. La distruzione dei reperti archeologici è la violenza irreversibile contro molti popoli che riempirà il vuoto nella coscienza del futuro.
(*) Giovanna Cifoletti, directrice d’études à l’EHESS – Centre Alexandre Koyré, Parigi
da La Stampa
Silenziose, mai zitte, sono tornate in piazza, abito lungo rosso e cuffia bianca in testa, come nel romanzo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood. Siamo a Madrid, ma la loro immagine ha fatto il giro del mondo. Le femministe e militanti spagnole tornano in protesta per dire no alla pratica della gestazione per altri, che chiamano solo “utero in affitto”. Donne, e tutte di sinistra, che sfidano la politica e l’opinione pubblica con posizioni integraliste, inequivocabili. E con parole definitive, come “tratta” di esseri umani.
Ángeles Álvarez, ex deputata socialista, attivista e rappresentante di Alianza contra el Borrado de las Mujeres [‘alleanza contro la cancellazione delle donne’] – il movimento che rivendica il principio «essere donna non è un sentimento» – che ha organizzato la manifestazione, parla per la prima volta di questo alla stampa italiana.
Il 6 settembre eravate in piazza, con l’abito da ancella che evoca un mondo di violenza sulle donne. Perché, da donne e femministe, siete contrarie alla gestazione per altri?
«Noi ci opponiamo alla maternità surrogata perché rappresenta una pratica di mercificazione e sfruttamento del corpo delle donne, riducendoci a meri oggetti o strumenti. La serie Il Racconto dell’ancella illustra, in tutta la sua crudezza, le implicazioni dell’uso del corpo delle donne per soddisfare i desideri altrui, disumanizzando le donne e trasformandole in ancelle riproduttive».
E se una donna, libera e consapevole, non in condizioni di fragilità economica, volesse farlo come atto di altruismo, di benevolenza?
«I bambini non si comprano né si regalano. Non esiste generosità in un evento come questo, i bambini non sono un dono».
Le coppie omosessuali o le famiglie omogenitoriali non hanno diritto ad avere un figlio, con qualsiasi strumento la scienza renda possibile?
«Non esiste alcun diritto ad avere un figlio; avere un figlio è un desiderio, non un diritto. L’orientamento sessuale di una persona è irrilevante. La maternità surrogata non è una tecnica di riproduzione assistita: è tratta di esseri umani».
La vostra manifestazione è stata convocata da diverse associazioni e sigle femministe, undici promotrici e altre venti di supporto. Ma il movimento è spaccato sul tema anche in Spagna. È una rottura insanabile?
«A Madrid abbiamo fatto un atto di protesta organizzato da diversi gruppi femministi abolizionisti e unito donne provenienti da diverse parti della Spagna. Questo tema non dovrebbe essere controverso all’interno del movimento. Tuttavia, abbiamo visto persone di organizzazioni esterne al femminismo presentarsi ai media come “femministe” e usare questo termine come scudo. Difendere lo sfruttamento delle donne non può essere considerato femminismo».
Anche in Spagna, la pratica della gestazione per altri è illegale. Tra il 2010 e il 2023, secondo i dati da voi diffusi, quasi 400 bambini sono nati da coppie spagnole attraverso la GPA in altri paesi. Ma come si regolano i diritti di questi bambini, come deve riconoscerli e registrarli lo Stato?
«In Spagna, il problema risiede nel fatto che una norma [adottata da un ente] di rango inferiore (un’istituzione amministrativa interna del Ministero della Giustizia) consente la registrazione di questi casi a determinate condizioni. Sosteniamo che tale norma sia in contraddizione con la legge, poiché esistono già due leggi che considerano questa pratica una forma di violenza contro le donne e dichiarano nulli i contratti correlati. Non ha senso che, se la legge è così categorica, a questi individui debba essere consentito di mantenere la potestà genitoriale sui minori acquisita attraverso contratti abusivi e pratiche illegittime. Pertanto, chiediamo coerenza e la revoca della potestà genitoriale, poiché viola la legge».
In questi casi, qual è allora secondo voi il supremo interesse del minore?
«La Corte Suprema spagnola, in una sentenza del 2025, ha negato ai genitori che hanno accettato la maternità surrogata la possibilità di modificare all’anagrafe le informazioni relative alla filiazione materna e al Paese di origine. L’interesse superiore del minore è quello di poter conoscere le proprie origini, una volta raggiunta la maggiore età».
Nel vostro Paese, i partiti della sinistra parlamentare come di quella militante sono contrari alla gestazione per altri, che invece è tollerata dai gruppi liberali di destra. Il contrario di quanto avviene in Italia, ad esempio. Come lo spiega?
«I liberali di destra credono che non dovrebbero esserci limiti al mercato e sono chiaramente disposti a oltrepassare i confini che violano la dignità umana».
La vostra protesta andrà avanti? Cosa chiedete al governo?
«Sì, continueremo. Il nostro obiettivo è sensibilizzare le persone sul business spregevole che si cela dietro questa pratica, spiegando come funzionano i contratti e come vengono sfruttate le donne. Condurremo attività di educazione sociale per sensibilizzare sul fatto che non possiamo essere trattate come semplici incubatrici».
“L’utero in affitto”, come lo chiamate voi, dovrebbe essere un reato ovunque?
«La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Reem Alsalem, ha chiarito che è necessaria una legislazione universale per opporsi a questa pratica e criminalizzare l’uso improprio delle capacità riproduttive delle donne come crimine contro l’umanità».
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha fortemente rivendicato la legge che considera la gestazione per altri reato universale. È una scelta femminista?
«Non sto dicendo che Giorgia Meloni sia femminista, assolutamente no, ma una legge che proibisce lo sfruttamento riproduttivo delle donne è, per definizione, una legge femminista. Queste leggi dovrebbero essere fatte dalla sinistra, eppure la sinistra sembra aver abbandonato l’agenda femminista».
da Adista News
1. La guerra: forma estrema del patriarcato
Le guerre che devastano il mondo non sono un’anomalia, ma la conseguenza ultima di un sistema patriarcale che legittima la violenza come linguaggio e il dominio come unica forma di potere.
Ogni guerra devasta corpi, popoli, territori, animali e ambienti; non distrugge solo vite, ma la possibilità stessa della vita sulla Terra. In questi anni anche i soli conflitti a Gaza e in Ucraina hanno generato impatti ambientali devastanti: milioni di tonnellate di CO₂ emesse in pochi mesi, inquinamento persistente da esplosivi e macerie, distruzione di infrastrutture civili con conseguenze ecologiche a lungo termine. In entrambi i casi, il danno ambientale si somma al disastro umanitario, aggravando la crisi climatica globale.
Oggi il sistema patriarcale che per millenni ha realizzato il “progresso”, utilizzando anche i mezzi più brutali, sembra giunto al collasso e i dispositivi che gli uomini si sono dati per regolare, temperare la logica della forza, non reggono più.
La guerra non è inevitabile: sono i governi, gli eserciti, le industrie belliche a volerla. «Non è il destino o una legge naturale a condannarci alla guerra», scriveva Rosa Luxemburg dal carcere nel 1917, «sono i padroni della terra, i potenti che, per difendere i loro profitti e il loro dominio, mandano milioni al macello. Ma noi abbiamo la forza di opporci, se solo ci uniamo.»
2. La differenza femminista nella critica della guerra
La nostra critica non si limita alla condanna dei conflitti armati:
* sottolineiamo la continuità tra patriarcato e guerra, visibile nella volontà di controllo e annientamento dell’altro e – in forma radicale – dell’altra, come testimoniano lo stupro praticato come arma e i regimi che fondano il proprio potere sul dominio dei corpi femminili, in Iran come in Afghanistan;
* denunciamo la volontà di sopraffazione in tutte le sue forme e l’alleanza tra poteri armati ed economie predatrici;
* smascheriamo la mascolinità militarizzata e l’uso della forza travestita da difesa.
Già Virginia Woolf, nel secolo scorso, aveva svelato il legame tra potere, privilegio maschile e violenza armata riconoscendo alle donne la capacità di immaginare civiltà fondate su altri valori.
Nel 2003, Leymah Gbowee (premio Nobel per la pace nel 2011) ha dato vita in Liberia a un movimento per la pace capace di unire donne cristiane e musulmane in una lotta nonviolenta: preghiera, sciopero del sesso, occupazione degli spazi pubblici. Un esempio potente di dissenso incarnato, attivo, collettivo, radicato nei corpi e nelle relazioni.
A partire dagli anni ’90 del XX secolo, gli studi di Heide Göttner-Abendroth sulle società matriarcali hanno mostrato che la guerra non è un destino inevitabile: comunità senza gerarchie né dominazioni di genere, basate su valori come il prendersi cura, il nutrimento, la mediazione, la nonviolenza – valori universali, per chi è madre e per chi non lo è, cioè per tutti gli esseri umani – costituiscono oggi un esempio concreto di convivenza pacifica e dimostrano come l’estraneità storica delle donne alla guerra possa diventare strumento di trasformazione e giustizia.
È a queste parole, pratiche e visioni che ci ispiriamo: forme di pensiero e immaginazione politica di donne che hanno saputo sottrarsi alle logiche della violenza, e che continuano a offrire orientamento e pensiero per percorsi di pace, giustizia e trasformazione.
3. Disarmare il sistema
L’industria bellica, l’export di armi e la militarizzazione dei territori costituiscono il cuore stesso di un’economia della distruzione. In questo sistema i corpi delle persone vengono ridotti a strumenti da sfruttare o sacrificare a fini economici e militari, i territori diventano scenari di occupazione, le vite semplici numeri calcolabili. A sostenerne la legittimità intervengono narrazioni distorte della sicurezza che normalizzano la violenza e occultano le responsabilità politiche.
Oggi la guerra a distanza e le armi guidate dall’intelligenza artificiale interpretano in pieno questa logica. Appaiono pulite, precise, chirurgiche, ma invece riducono il controllo umano, il coinvolgimento critico e la responsabilità individuale, attenuano la percezione delle sofferenze inflitte e rendono ancora più difficile immaginare soluzioni di pace.
Disarmare il sistema certamente significa fermare la produzione e il commercio di armi, interrompere la corsa al riarmo, sottrarre risorse alla guerra per restituirle alla vita; si tratta però di condizioni necessarie ma non sufficienti.
Disarmare il sistema infatti è disarmare anche le menti;
* è disinnescare le logiche di potere, i linguaggi, le immagini, le economie e i gesti che legittimano il conflitto;
* è decostruire i discorsi dominanti, che chiamano “pace” l’occupazione, “sicurezza” il controllo, “giustizia” la punizione;
* è restituire alla giustizia un corpo vivo, capace di cura, di riparazione, di trasformazione;
* è mettere al centro la vita, la nascita, non la morte, la relazione non la competizione, la libertà non il dominio, la pace come giustizia attiva.
4. Pace: un modo diverso di stare al mondo
La pace non è assenza temporanea di guerra, né ritorno a un ordine imposto. Non è accordo tra poteri né semplice tregua tra forze. È un modo diverso di stare al mondo: parola, riconoscimento, possibilità. È relazione, responsabilità, costruzione di convivenze. È pratica quotidiana.
Come femministe non ci limitiamo a desiderare la pace né a proclamarla in forma astratta: la coltiviamo ogni giorno nei nostri percorsi politici e umani, intrecciandola alle nostre lotte e alla nostra visione del mondo.
Il nostro pacifismo non è neutro né disincarnato, ma una pratica politica che nasce dal rifiuto attivo della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento dell’altra/o.
Conosciamo il dolore, la paura, l’angoscia della guerra dai racconti delle nostre madri e dalle storie che attraversano i nostri corpi. Li affrontiamo con la capacità della cura e della resilienza: vivere il dolore e la forza di continuare è una competenza politica che ci appartiene.
Scegliamo di stare con tutte le vittime, senza distinzioni. Non ci schieriamo davanti alla morte, al terrore, al lutto, alla distruzione dei luoghi della vita.
La costruzione della pace è una sfida storica, che richiede impegno collettivo e responsabilità verso l’altra/o. Si realizza nel riconoscimento della pluralità e nella trasformazione delle differenze in occasioni di relazione (Hannah Arendt); si nutre di rapporti giusti e compassionevoli (María Zambrano); si fonda su un’etica del radicamento, della giustizia sociale e del riconoscimento della dignità (Simone Weil).
Siamo consapevoli che non tutte le vite vengono trattate allo stesso modo: alcune sono riconosciute come “vite che contano”, altre invece “non meritano il lutto” – sono quelle che non si conformano alla «norma occidentale dell’umano» (Judith Butler), e le vite palestinesi ne rappresentano oggi l’esempio più evidente. Smascherare la gerarchia delle vite è parte del nostro impegno politico per la pace che richiede coscienza critica, capacità di nominare la violenza, di attraversare il conflitto senza riprodurre logiche di dominio e di interrompere la spirale di aggressione, vendetta e sopraffazione.
5. Costruire una grammatica della pace
Il linguaggio bellico permea notizie, leggi, discorsi. Alimenta l’idea che la guerra sia inevitabile, necessaria, legittima.
Rivendichiamo una grammatica della pace, una grammatica della relazione, non della sopraffazione: parole che costruiscono senso, raccontano la vita, nominano l’ingiustizia, aprono immaginari.
La parola è politica, a partire da quella delle nostre madri simboliche che hanno “scolpito” il termine PACE con il pensiero, l’arte, la vita. Custodire e tramandare queste parole è già un gesto di trasformazione, perché è proprio da loro che abbiamo imparato a immaginare un’altra posizione: non neutra, non armata, non competitiva.
Per questo, riteniamo centrale il ruolo dell’educazione. Non si tratta di addestrare alla convivenza, ma di educare alla libertà intesa non come assenza di limiti, ma quale possibilità di scegliere e agire responsabilmente: una pratica e una postura che implica non l’assenza del conflitto, ma la capacità di attraversarlo senza cancellare l’altra/o. Maria Montessori ricordava che la pace comincia proprio da un ambiente che favorisce libertà, autonomia e cooperazione. Solo così, a partire dall’infanzia, la pace diventa pratica concreta e le bambine e i bambini cresciuti in questo modo potranno essere veri «missionari della pace nel mondo».
6. Per una diplomazia incarnata
Crediamo nella mediazione, nel dialogo, nella possibilità di percorsi alternativi al dominio e alla violenza. Rivendichiamo la forza politica dell’ascolto e la necessità di relazioni internazionali fondate sulla coesistenza, non sulla sopraffazione e l’annientamento dell’altro.
Rifiutiamo una diplomazia basata sul ricatto geopolitico, sull’asimmetria, sull’uso della forza come leva negoziale. Sosteniamo una diplomazia capace di riconoscere le soggettività, di ascoltare, di elaborare soluzioni condivise.
Le Donne in Nero lo dimostrano da decenni: donne israeliane in solidarietà con le palestinesi, poi donne serbe con croate, bosniache e kosovare. La loro protesta silenziosa ma radicale ha trasformato la memoria in presenza viva e si è estesa a molti altri luoghi del mondo, dimostrando che resistenza e solidarietà non hanno confini.
Ancora oggi in Medio Oriente, le donne israeliane di Women Wage Peace e le palestinesi di Women of the Sun rifiutano la logica della vendetta e dell’odio e provano a tracciare insieme una via concreta per uscire dalla spirale della contrapposizione mortale.
Non basta tuttavia invocare una maggiore presenza femminile ai tavoli delle trattative: è necessario che le donne che vi siedono sappiano rompere con l’orizzonte simbolico maschile e con il linguaggio della forza, sappiano «approfittare dell’assenza» (Carla Lonzi) delle donne da millenni di storia per attingere all’esperienza storica femminile di cura e responsabilità verso la vita, condizione necessaria per aprire nuovi spazi e nuove modalità di pensiero e di trasformazione del conflitto. Essere state fuori dalla storia è oggi un vantaggio per le donne che vogliono entrarci non per essere incluse, ma per trasformarla.
7. Disertare l’odio: per una politica femminista e nonviolenta della relazione
Nel cuore di ogni guerra si annida una pedagogia dell’odio: un addestramento alla disumanizzazione, che insegna a cancellare l’altro/a.
Da quasi due anni a Gaza il popolo palestinese affronta un’escalation di violenza genocida che ha raggiunto livelli di disumanità inauditi, plasmando le fondamenta simboliche e affettive del mondo che verrà. L’odio si espande come unica grammatica relazionale possibile, imposta e interiorizzata. In questo senso, Gaza è specchio e laboratorio di un ordine globale in cui la violenza di Stato diventa infrastruttura emotiva e politica del presente.
Ma Gaza non è un’eccezione: i conflitti armati africani – dal Sudan al Sahel, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Somalia – continuano nell’indifferenza mediatica, mentre l’Occidente vi è complice e attore diretto, con basi militari, forniture di armi, sfruttamento minerario e accordi che alimentano instabilità e massacri. Questi conflitti, pur lontani dalle prime pagine, sono parte integrante dello stesso meccanismo globale di violenza e profitto.
Per questo disertare l’odio è un atto radicale di responsabilità politica. Significa rompere l’automatismo tra offesa e risposta armata, tra paura e annientamento, tra vulnerabilità e dominio. Non è disimpegno: è scelta attiva, relazionale, che si oppone alla coazione a ripetere della violenza e apre ad altre possibilità.
Dalla nostra esperienza femminista abbiamo imparato a decostruire le retoriche della forza e della sicurezza, a riconoscere la vulnerabilità come fondamento dell’umano, a trasformare la cura in gesto politico.
Rifiutare la guerra – che si svolga a Gaza, in Ucraina, in Africa o lungo i confini blindati dell’Occidente – significa per noi rifiutare anche le violenze sistemiche contro gli immigrati, le stragi in mare, l’espulsione dei poveri dal campo del vivente. Sono facce diverse dello stesso sistema patriarcale, coloniale e capitalista che si nutre di esclusione, paura e morte. Per questo, è urgente rilanciare un’etica della vita, dell’amore e della giustizia, da far vivere ogni giorno come pratica attiva di opposizione.
La diserzione non è rinuncia, ma atto di renitenza verso l’obbligo di addestrarsi alla logica del togliere la vita, un rifiuto che si colloca nel solco delle più alte tradizioni di resistenza civile. È rottura consapevole dell’incantesimo della violenza, dettata non da sola paura, ma dall’imperativo interiore di non voler uccidere un altro essere umano.
8. Trame vive di relazioni tra donne per la pace
Da nord a sud, da est a ovest le nostre pratiche sono diverse, ma condividiamo:
* la denuncia delle complicità tra guerra, potere e profitto;
* la condanna della cancellazione di popoli, corpi, storie;
* il desiderio di dare valore alla parola, al dialogo, alla responsabilità;
* l’impegno per una politica basata sull’ascolto, la cura e il legame con la Terra.
Nelle fratture del presente, siamo consapevoli che costruire la pace richiede una postura capace di sottrarsi alla logica binaria delle contrapposizioni, di non rispondere al conflitto con nuove esclusioni. Proprio per questo riteniamo che ogni sforzo debba essere fatto per tenere viva l’umanità anche quando le fratture sembrano irriducibili. È un lavoro difficile, che comporta rischio e responsabilità. Ma è lì, nel tenere aperta la possibilità del riconoscimento, che si gioca la pratica politica della pace.
Con questa Carta vogliamo unire voci e corpi, tessere relazioni, coordinare azioni per cercare nuovi linguaggi e nuove visioni del vivere insieme per una convivenza disarmata, fondata sulla cura, sulla giustizia e sulla responsabilità. Per una società che non giustifichi la morte in nome della sicurezza e capace di scegliere la pace non come rifugio, ma come orizzonte trasformativo.
È tempo di andare oltre le sigle e riconoscerci in una presenza collettiva: 10, 100, 1000 piazze di donne per la pace, unite nel rifiuto della violenza, custodi della possibilità di un futuro condiviso e impegnate ogni giorno a riscrivere il senso del vivere comune.
da Haaretz
Questa settimana, sul Guardian è apparsa una lettera firmata da migliaia di miei colleghi internazionali dell’industria cinematografica, che chiedeva il boicottaggio di registi, festival cinematografici e film israeliani a causa della guerra a Gaza. Sono una documentarista che lavora in Israele da oltre trent’anni. Questo boicottaggio avrebbe colpito me e i miei colleghi. Ma dopo la mia reazione difensiva, ho capito la verità. Ciò di cui noi israeliani abbiamo più bisogno dal mondo è che ci boicottino.
La reazione immediata della maggior parte dell’industria cinematografica israeliana è stata quella prevista. Siamo rimasti scioccati, feriti e abbiamo provato un profondo senso di ingiustizia. Come hanno potuto prenderci di mira? Noi, gli artisti, noi che ci opponiamo alla guerra, che creiamo arte che critica gli atti orribili commessi contro i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Firmiamo petizioni, partecipiamo alle proteste. L’Associazione dei Produttori Israeliani ha immediatamente dichiarato nella sua risposta che «i firmatari di questa petizione stanno prendendo di mira le persone sbagliate».
La dichiarazione dell’associazione sostiene che per decenni l’industria cinematografica israeliana è stata la «voce principale» che ha messo in luce le complessità del conflitto e ha smascherato le narrazioni palestinesi. Ha aggiunto che il boicottaggio è «profondamente fuorviante» perché cerca di mettere a tacere proprio le persone che promuovono il dialogo.
In una certa misura, hanno ragione. Prendere di mira noi, produttori di TV e film, sembra profondamente ingiusto. Quando ho visto il video dell’amato regista Pedro Almodóvar, di cui ammiro il lavoro, che invitava a boicottare Israele, mi sono sentita profondamente colpita. Ci consideriamo gli israeliani buoni, la coscienza della nazione, coloro che si oppongono alla guerra. Allora perché veniamo puniti?
Ma mentre riflettevo sulla mia reazione iniziale, è emersa una verità più dura e onesta, una verità che le nostre associazioni e corporazioni professionali non hanno ancora articolato. Benché la loro risposta sia vera, è anche insufficiente. Atrocità vengono commesse in nostro nome, con i soldi delle nostre tasse, dal governo che ci rappresenta sulla scena mondiale. Questa è la prova che non stiamo facendo abbastanza. La semplice e dolorosa verità è che ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania è anche nostra responsabilità.
Mi chiedo se la pressione internazionale derivante da questo boicottaggio e da altri simili possa ottenere ciò che anni di film critici, petizioni accorate e proteste del fine settimana non sono riusciti a fare.
Forse dovremmo chiedere al mondo di fare tutto il possibile per costringere il mio governo a fermare questa guerra? Forse, se smettessero di venderci armi, richiamassero i loro ambasciatori, riconoscessero uno Stato palestinese e inviassero flottiglie a rompere l’assedio e portare aiuti a Gaza, qualcosa potrebbe cambiare? Forse un boicottaggio della cultura israeliana, delle istituzioni accademiche e delle squadre sportive sveglierebbe il nostro popolo e il nostro governo a fermare questa guerra?
Se questo significa che i nostri film e i nostri mezzi di sussistenza sono danneggiati, allora così sia.
Forse il dolore dell’isolamento culturale è un prezzo necessario da pagare per porre fine a questa guerra orribile e iniziare a guarire questa regione ferita e sanguinante. La pressione internazionale mette in discussione la nostra comoda identità di “israeliani buoni”, che ci permette di continuare a operare all’interno dei sistemi finanziati dallo Stato pur mantenendo un senso di opposizione morale. I boicottaggi riconsiderano la nostra partecipazione ai festival sponsorizzati dallo Stato non come creatori indipendenti, ma come rappresentanti complici dello Stato di Israele. Ci mettono davanti uno specchio e ci chiedono: il vostro dissenso sancito dallo Stato è un atto di resistenza significativo o è semplicemente un modo autorizzato e innocuo per lo Stato di mantenere una facciata di accettabilità nel mondo delle nazioni democratiche?
Questa lettera di boicottaggio mi sfida a porre queste domande scomode. E dovrebbe fare lo stesso per tutti gli israeliani, sia all’interno che all’esterno delle industrie che affrontano il boicottaggio.
Cosa si aspettano Almodóvar e coloro che hanno firmato la lettera da noi, registi israeliani e da tutti coloro che si oppongono alle azioni dell’attuale governo? Si aspettano che la maggioranza del popolo israeliano, che afferma di voler davvero porre fine a questa guerra, lo dimostri.
Dobbiamo rovesciare il nostro governo. Dobbiamo rifiutarci di prestare servizio nell’esercito. Dobbiamo dichiarare uno sciopero generale, smettere di fare film, smettere di mandare i nostri figli a scuola, smettere di comprare cose, smettere di fare qualsiasi cosa.
Chiudere tutto finché l’orrore che viene perpetrato in nostro nome non cesserà.
Il momento attuale richiede un inasprimento radicale. L’attuale movimento pacifista israeliano, guidato dalle eroiche famiglie degli ostaggi e da una crescente ondata di riservisti militari che si rifiutano di prestare servizio, non è sufficiente. Viene accolto con idranti, arresti e un governo che liquida i nostri desideri come una minaccia alla sicurezza nazionale. Non riusciremo a fermare tutto questo da soli.
Ecco perché, se l’Associazione Israeliana dei Produttori Cinematografici e Televisivi mi avesse chiesto un parere, avrei suggerito una dichiarazione pubblica molto diversa. Sarebbe stata più o meno così: «Grazie colleghi di tutto il mondo. Grazie agli autori che si preoccupano e che si rifiutano di rimanere in silenzio di fronte a queste atrocità. Grazie per averci fornito il necessario supporto esterno di cui abbiamo così disperatamente bisogno. Speriamo che con il vostro aiuto riusciremo finalmente a fermare questo orrore».
Questo non è un grido di vittimismo. È un’ammissione di fallimento e una richiesta di aiuto. Riformula il boicottaggio non come un attacco, bensì come un doloroso ma necessario atto di solidarietà. È uno specchio indesiderato, sì, ma ci mostra la verità. L’immagine è orribile, ma non possiamo più permetterci di distogliere lo sguardo.
(*) Avigail Sperber è una direttrice della fotografia, regista cinematografica e televisiva israeliana. È fondatrice e proprietaria della Pardes Film Productions. Sperber è anche un’attivista sociale e fondatrice di Bat Kol, un’organizzazione religiosa per ebree ortodosse lesbiche.
(Haaretz, 10 settembre 2025. Traduzione: pagina fb La Zona Grigia)
da Letterate Magazine
La giornata di studi “Come quando si accende la luce. Il pensiero di Luisa Muraro” si terrà il 20 settembre a Milano all’Università Cattolica per mettere a fuoco il nesso tra vita, esperienza e pensiero, cifra distintiva della sua ricerca che spazia dalla centralità della madre, alle mistiche al dibattito teorico femminista. “Esserci davvero” è il libro in cui la filosofa colloquia con Clara Jourdan e ripercorre la sua vita
I generi letterari vanno stretti alle donne che desiderano esprimersi con autenticità e in relazione. Questo non restare in schemi dati può spingere chi legge a seguire il percorso inaspettato delle autrici coinvolgendosi in un confronto con la propria esperienza. Così mi è successo leggendo Esserci davvero, la conversazione tra Luisa Muraro e Clara Jourdan, che nella sua stesura scritta mantiene, grazie al lavoro editoriale di Marina Santini, la vivacità dello scambio in presenza; una conversazione che nel dispiegarsi diventa un’autobiografia di Muraro e un disvelamento, anche a lei stessa, dei legami più profondi che hanno mosso le sue scelte esistenziali e intellettuali.
Innanzitutto mi ha interrogato il suo rapporto con la scrittura come bisogno vitale per articolare il pensiero, per riuscire così a fare ordine simbolico dentro di sé, a riprendere la contrattazione con la madre e dunque con lo strato primario del suo vivere, e l’esperienza di provare, «quando la scrittura è riuscita, un senso di intimo, profondo, grande star bene, vicino a uno stato di felicità, di beatitudine» (p. 53). Ma anche la necessità per poter scrivere di avere a disposizione una domanda che motivi e autorizzi, una domanda che nasce da relazioni concrete all’inizio soprattutto con uomini e col femminismo con donne. E poi il lavoro sulla scrittura altrui che parte dal «passaggio da una cosa che è abbozzata, semipensata, ma vissuta, alla sua forma scritta» (p.13), pratica che le fa nascere l’idea di una “scuola di scrittura politica”, che dal 2006 Muraro porterà avanti, insieme a Clara Jourdan, per oltre dieci anni col nome di Scuola di scrittura pensante, a cui anch’io ho partecipato come allieva.
Partendo dalla concezione relazionale della persona, in questo dialogo biografico si delinea un percorso storico soggettivo dai primi anni quaranta del secolo scorso fino al 2003, anno in cui si è svolta la conversazione, dove pubblico e privato sono sempre connessi, dove Muraro si mette in gioco perché anche questa è per lei, come sempre, un’occasione di cercare senso a ciò che accade, un senso mai chiuso, consapevole di una parte di mistero che è la spinta stessa del cercare.
Tante sono le situazioni che emergono come illuminate da lampi di luce dallo scambio tra le due interlocutrici in cui si avverte fiducia, conoscenza reciproca e desiderio di scoperta. Impossibile accennarle a tutte. Alcune le ho sentite vicine alla mia esperienza perché me ne hanno mostrato sfaccettature nuove: l’infanzia nel Veneto cattolico con l’importanza del rapporto tra fratelli e sorelle all’ombra della potenza materna, la formazione del rapporto con la storia che entra nella quotidianità della cucina, l’inquietudine delle giovani dell’Università cattolica che anch’io ho frequentato, il sentirsi partecipe della storia nel Sessantotto a Milano, le riflessioni sull’educazione antiautoritaria de L’Erba Voglio e quelle più politiche della fucina dei Quaderni piacentini, e soprattutto il femminismo con la possibilità di esserci in prima persona in ciò che accade, «un esserci davvero». Nel libro ne ho potuto ripercorrere con le protagoniste momenti fondativi e di svolta, mai presentati in una piatta narrazione celebrativa: dal Demau alla Libreria delle donne di Milano, dalla scrittura di Non credere di avere dei diritti alla creazione della Comunità filosofica Diotima, dal rapporto con Irigaray a quelli con le femministe spagnole e all’insegnamento nel master di Duoda, dalla redazione della rivista “Via Dogana” alla genesi dei libri di Muraro, che in me hanno suscitato visioni e stimolato pratiche più felici. E la felicità che possono dare le relazioni tra donne nel femminismo traspare dalle fotografie in cui Muraro è ritratta sola, con altre o in gruppo.
All’enorme lavoro di creazione di senso attraverso la lingua nella seconda parte del libro è dedicata la ricchissima Bibliografia 1963-2024, che raccoglie non solo libri, articoli, saggi, atti di convegni, seminari, dibattiti ma anche interventi sul web, registrazioni audio e video, traduzioni e persino dattiloscritti inediti.
Mi soffermo inoltre sulla storia perché dovendola insegnare nella scuola media ne avvertivo la violenza ermeneutica, che escludeva o immiseriva le donne, e per questo mi sono dedicata anche alla ricerca storica. Muraro ha aperto strade: in La signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, ha saputo dai documenti dei processi per stregoneria far emergere la soggettività delle donne, facendone non solo delle vittime ma delle protagoniste come accadeva nei gruppi di autocoscienza, dove il dolore vissuto nell’oscurità di una non veniva cancellato ma risuonava nell’ascolto delle altre. E poi in Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista ha offerto un racconto storico in cui la storia di due donne della seconda metà del Duecento, di cui una aveva assunto grande importanza e l’altra ne aveva raccolto l’eredità, viene mostrata come «una storia di grandezza femminile, anche se finisce tragicamente» (p. 54), grazie a una narrazione a partire da testi storici, che dà spazio all’immaginario, senza violare le regole di correttezza storica, offrendo una delle possibili scritture storiografiche.
Un altro punto a me caro è il lavoro sulle mistiche, in cui Muraro delinea «la libera ricerca di Dio come forma di libertà femminile nell’Europa premoderna, ma anche nella scrittura femminile moderna e contemporanea» (p.82), mostrando, anche a me, la possibilità di sapere che c’è altro, che ogni impresa umana è caratterizzata da incompiutezza e che l’esaustività dei saperi costituiti è dunque una falsa pretesa. Inoltre le mistiche attribuivano, come accade nel femminismo, un primato alle pratiche, «che ha la preziosità che il posto delle cose non viene mai occupato dalle costruzioni intellettuali» (p.89). «Ciò fa sì che l’esperienza mistica femminile dia luogo a racconti, in Margherita (Porete) anche a speculazioni, ma non si trasformi mai in un concetto di Dio e in una teologia scientifica; resta sempre un discorso incompiuto, un discorso scandito da un indicibile, da quello che può capitare» (p.89). Una strada quella mistica in cui vi sono veri legami tra uomini e donne e spesso «uomini che si mettono alla scuola di donne» (p.87). Una riflessione pubblicata in diversi libri e che l’ha portata alla scrittura de Il dio delle donne, un dio detto in lingua materna, che rompe la convenzionalità teatrale di molti discorsi religiosi.
Infine sottolineo che l’intuizione della centralità della relazione con la madre, sviluppata ne L’ordine simbolico della madre, libro tradotto in diverse lingue e soprattutto sentito da molte come liberatorio del nostro amore per lei, mi ha permesso di rendermi conto dell’origine del mio modo di stare al mondo fuori dalle pretese universalistiche del patriarcato.
Molti altri sono gli aspetti messi in luce in questa conversazione che ha anche offerto una traccia preziosa quando, per i cinquant’anni dall’apertura della Libreria delle donne di Milano, si è pensato a realizzare un convegno sul pensiero di Luisa Muraro all’Università Cattolica di Milano, dove si è era laureata in filosofia della scienza e aveva iniziato a lavorare.
La giornata di studi, Come quando si accende la luce. Il pensiero di Luisa Muraro si terrà il 20 settembre. Promossa dal Dipartimento di Sociologia e da quello di Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica, dalla Libreria delle donne di Milano e dalla Comunità filosofica femminile Diotima dell’Università di Verona intende rilanciare l’opera e la voce di Muraro, mettendo a fuoco il nesso tra vita, esperienza e pensiero, cifra distintiva della sua ricerca. Gli interventi rifletteranno sui suoi contributi alla filosofia del linguaggio, alla ricerca storica, agli studi sulla mistica e al dibattito teorico femminista per metterne in luce l’attualità politica. Anche solo dal loro elenco e dai nomi e provenienze di relatrici e relatori, che trascrivo sotto, si può cogliere l’interesse, anche internazionale, che Muraro suscita in ambiti diversi perché nell’ esserci davvero ha saputo uscire dagli schemi, aprendo squarci di luce sul sapere e sulle nostre vite.
Luisa per noi Vita Cosentino della Libreria delle donne di Milano
Saper amare la madre inizia alla filosofia Diana Sartori, Comunità filosofica Diotima
Madre, intuizione, senso Cesare Casarino, Minnesota University
Nell’interno muto e taciuto del moderno Ida Dominijanni, Centro per la Riforma dello Stato
Quello che lei pensa è pensiero per tutti. Il dialogo tra Muraro e Bontadini Riccardo Fanciullacci, Università degli Studi di Bergamo
Il femminismo milanese cattolico e la Libreria delle donne di Milano Carla Lunghi, Università Cattolica di Milano
Ciò che mi manca è il mio meglio. Libertà femminile e sapienza mistica Wanda Tommasi, Comunità filosofica Diotima
Nell’archivio femminile della storia María-Milagros Rivera Garretas, Università di Barcellona
La folla nel cuore Annarosa Buttarelli, Comunità filosofica Diotima
Dire e fare fuori sesto. L’attualità politica di Luisa Muraro Paolo Gomarasca, Università Cattolica di Milano
Queste due iniziative offrono dunque, con diverse modalità, la possibilità di avvicinarci o di approfondire il percorso intellettuale e umano di una grande pensatrice vivente e di attraversare con lei le vicende di un intenso periodo di cambiamenti epocali.
Il libro: Luisa Muraro e Clara Jourdan, Esserci davvero, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne 2025, pp. 264 – € 15,00
Il Convegno: Come quando si accende la luce. Il pensiero di Luisa Muraro
20 settembre 2025 – 10:30-18:30
Aula Sant’Agostino, Università Cattolica del Sacro Cuore di Gesù, Largo Gemelli 1, 20123 Milano
Il Convegno è rivolto a tutte e tutti, in particolare a docenti, ricercatori e ricercatrici, studentesse e studenti, donne del movimento femminista.
È prevista un’iscrizione gratuita attraverso il sito della Libreria delle donne di Milano: https://www.libreriadelledonne.it/
Per informazioni si può scrivere a: info@libreriadelledonne.it
Per la prima volta, oltre cento donne sudcoreane che per decenni hanno lavorato nei locali attorno alle basi USA hanno depositato una causa collettiva per chiedere scuse formali e risarcimenti, accusando l’esercito statunitense di aver promosso e regolato il commercio sessuale nelle “città-campo” (kijichon) e di aver imposto controlli sanitari e internamenti forzati.
Le ricorrenti indicano una richiesta di 10 milioni di won a testa (circa 7.200 dollari) e puntano a chiamare in causa direttamente il comando americano, non solo lo Stato coreano già condannato in precedenza.
Gli avvocati sostengono che la responsabilità sia congiunta: la Corea del Sud avrebbe organizzato e incoraggiato quel sistema in nome dell’alleanza, mentre il comando USA ne avrebbe dettato regole e prassi, a partire dal controllo delle malattie veneree e dall’accesso dei militari ai distretti “speciali”.
Il comando delle Forze USA in Corea (USFK) replica con la linea ufficiale: tolleranza zero verso prostituzione e tratta, locali “off-limits” se collegati a sfruttamento e policy interne contro i “juicy bar”, in vigore dal 2014. Ma proprio quelle policy – nate tardi e applicate a macchia di leopardo – sono oggi sul banco degli imputati morali.
Sul terreno, intanto, riemerge la memoria fisica del sistema: a Dongducheon la disputa sul destino della “Monkey House”, l’ex struttura di quarantena dove le donne risultate positive ai test venivano confinate e imbottite di penicillina, contrappone municipio (che vorrebbe demolire) e associazioni che chiedono un museo della memoria. È la prova che non si litiga solo sul diritto, ma anche sul modo in cui un Paese ricorda.
Non è il primo processo. Nel 2022 la Corte Suprema sudcoreana ha stabilito che il governo ha incoraggiato e regolato la prostituzione nelle città-campo per ottenere dollari e consolidare il legame con gli USA, condannandolo a risarcire decine di donne.
Quelle sentenze hanno riconosciuto anche la “cura” coatta come pratica sistematica e violenta: prelievi due volte a settimana, rastrellamenti nei club, badge numerati, “hot sheet” [lista dei ricercati, Ndr] con foto e dati per tracciare i contatti dei soldati infettati. La nuova causa cerca ora di estendere quella responsabilità alla catena di comando americana.
Un nodo giuridico pesa da sempre: il SOFA (Status of Forces Agreement) disciplina giurisdizione e tort claims [‘reclami’, ‘denunce di illeciti’, Ndr]. Molti contenziosi devono passare dai comitati coreani e sono limitati agli atti “in servizio”, circostanza che ha spesso immunizzato il lato americano della filiera. Anche per questo le ricorrenti hanno scelto di notificare nuovamente lo Stato coreano “per fatto altrui”, mirando però esplicitamente alla responsabilità USFK.
Dopo la guerra di Corea, i kijichon diventano una macroeconomia di frontiera: distretti a ridosso delle basi dove, pur essendo illegale, la prostituzione è tollerata e regolata. In un Paese poverissimo, quel circuito alimenta stipendi, affitti, cambisti, dogane. Funzionari coreani chiamano le donne [prostituite] «patriote che guadagnano dollari»; manuali e circolari definiscono igiene, dress code, lingue da imparare per servire i GI.
La prassi sanitaria è ferrea: test bisettimanali, controlli a campione nei club, cartellini numerati e foto in clinica, detenzione per chi risulta positiva o priva del tesserino. Testimonianze riportano morti per shock da penicillina nelle strutture di isolamento.
Dai numeri alla vita quotidiana: decine di migliaia di donne – molte minorenni all’accesso – reclutate dalla povertà, ricattate dal debito con i protettori, o arrivate dall’estero (Filippine, Russia, Sud-est asiatico) negli anni Novanta-Duemila con visti “spettacolo” poi sequestrati. Nelle città-campo si stratifica perfino la segregazione razziale dei club (bianchi/neri) ereditata dall’esercito USA del tempo. In parallelo, ONG come Durebang / My Sister’s Place (dal 1986) costruiscono resistenza: sportelli legali, riparo, alfabetizzazione, lavoro alternativo.
Negli anni 2000 l’USFK dichiara la tolleranza zero e mette off-limits i “juicy bar” che lucrano su drink e compagnia a pagamento; l’Aeronautica a Osan stringe le maglie nel 2013; nel 2014 il comandante Scaparrotti firma la policy 12. Ma mentre le regole cambiano, molte donne rimangono invisibili: fuori età, senza reddito, marchiate dallo stigma. Oggi bussano alla porta della giustizia perché lo Stato ha riconosciuto di averle usate; ora tocca all’alleato assumersi la propria parte.
Le ricorrenti chiedono scuse ufficiali, danni individuali e un impegno concreto su memoria e archivi: conservare i siti come la “Monkey House”, aprire i documenti sanitari e di polizia, interrompere l’ultima forma di violenza, il silenzio.
Perché quella storia non fu un “mercato grigio” cresciuto al margine, ma un dispositivo istituzionale in cui interesse strategico, valuta estera e disciplina militare fecero sistema. E perché nessuna politica di “off-limits” nel presente cancella la catena di comando del passato.
da il manifesto
Altro sangue sulla terra di Palestina, che si chiami Israele o Cisgiordania o Gaza. L’ennesimo massacro di civili, questa volta cittadini israeliani che viaggiavano su un autobus a Gerusalemme, aggiunge altro dolore alla colata di morte e di sofferenza che scorre da quasi un secolo «dal fiume al mare», dal Giordano al Mediterraneo. Aggiunge poco o nulla invece a un’analisi minimamente lucida e onesta dell’abisso definitivo in cui lo Stato di Israele è precipitato da quando ha deciso – lo Stato, non solo il governo – di “ripulire” Gaza e annettere buona parte della Cisgiordania.
Un parallelo con la storia italiana può aiutare in questo sforzo di comprensione. In un articolo del novembre 1922, Piero Gobetti battezzava il fascismo appena giunto al potere con una formula che diventerà celebre: «autobiografia di una nazione». Giudizio opposto darà Benedetto Croce dopo la Liberazione, qualificando il ventennio come «eccezione», infelice e tragica ma un’eccezione, nella storia d’Italia.
La metafora gobettiana si adatta bene a definire l’estrema destra di Netanyahu, dei suoi ministri fascisti e razzisti: non un’eccezione, molto di più un’autobiografia del Paese-Israele.
Da quando comincia l’autobiografia? Lasciando pure da parte la storia complessa e per molti aspetti contraddittoria del primo sionismo, la cui ambizione di creare in Palestina un «focolare nazionale ebraico» recava certo un’impronta colonialista ma rispondeva anche all’urgenza di liberare gli ebrei europei da secoli di persecuzioni destinate poi a esplodere nella Shoah, si può farla cominciare con la guerra dei sei giorni del 1967.
Da allora Israele non è più una democrazia: è antidemocrazia governare, ormai succede da sessant’anni, su milioni di abitanti palestinesi nei territori occupati cui è negato il diritto di votare per i loro rappresentanti nel parlamento di Gerusalemme, ed è antidemocrazia praticare forme evidenti di apartheid, di discriminazione civile e sociale anche verso altri milioni di cittadini arabo-israeliani.
L’Israele di Netanyahu e del genocidio a Gaza è una catastrofe, lo è prima di tutto per il popolo palestinese, ma come l’Italia di Mussolini non è un’eccezione, un epifenomeno. Semmai Netanyahu è l’incarnazione massima di un Paese perduto, il cui «suicidio» – citando il titolo perfetto dell’ultimo libro di Anna Foa – ha radici antiche.
I segni di questo lungo cammino di imbarbarimento della “nazione” israeliana sono oggi evidentissimi. La guerra di annientamento del popolo gazawi è opera diretta di Netanyahu, ma sarebbe impossibile se i vertici militari, buona parte dei media (qui è da sottolineare una preziosa eccezione: il quotidiano Haaretz), lo stesso presidente della repubblica non vi collaborassero più o meno attivamente. Forse ancora più desolante è il tasso minimo di indignazione per i crimini sistematici commessi a Gaza nella società israeliana. Parole indignate e disperate sono venute da voci autorevoli della cultura israeliana e da piccoli gruppi militanti che da sempre si battono per i diritti dei palestinesi, ma risuonate assai poco nel corpo sociale di Israele, anche nella sua parte «progressista» e nelle stesse manifestazioni antigovernative di queste settimane: invocano le dimissioni di Netanyahu non per fermare il genocidio in atto, ma solo – non è poco, non può essere tutto – per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Più d’uno in questi mesi ha letto nella degenerazione ultranazionalista di Israele la traccia inequivocabile di una sorta di fallimento morale del progetto dello «Stato ebraico» legato a un suo peccato d’origine. Così Stefano Levi della Torre, che ha dedicato studi importanti alla storia dell’ebraismo. Per Levi della Torre, una frattura concettuale divide l’ebraismo della diaspora dall’identità di Israele.
L’ebraismo, ha scritto in un saggio pubblicato sulla rivista Studi bresciani (n. 1/205), «per più di duemila anni ha elaborato una visione del mondo dalla sponda dei vinti e della minoranza», mentre il sionismo e poi Israele hanno voluto trasformare l’ebreo-vittima in ebreo-vincitore: «Ma la vittima che vince, e tuttavia conserva il carisma della vittima, non è più solo vittima ma anche vittimista. E il passaggio dalla figura della vittima a quella del vittimista denota una transizione verso destra, perché la vittima aspira alla liberazione, elabora le prospettive di un’emancipazione propria e magari universale, il vittimista elabora invece la giustificazione di un proprio potere acquisito: a giustificare non la responsabilità del potere, ma l’arbitrio del proprio potere, come se il proprio arbitrio fosse la doverosa ricompensa di chi rappresenta le vittime. Tutte le demagogie autoritarie di massa sono vittimiste. Lo è stato il fascismo, il nazismo, lo stalinismo. Da ultimo lo è Trump che si presenta vendicatore dell’America offesa».
Illuminanti queste righe di Levi della Torre. Anche poco inclini alla speranza: sembrano dire (è una mia impressione, non posso né voglio attribuirla a chi le ha scritte), che Israele come «Stato ebraico» è definitivamente perduto, che il suo suicidio non è un pericolo incombente ma un fatto compiuto.
dal Corriere della Sera
Quando, nel 2017, Jacinda Ardern si è candidata alla massima carica politica del suo Paese, la Nuova Zelanda, non ha avuto dubbi: «La gentilezza sarà il mio principio guida», annunciò decisa. Non sapeva ancora che nei cinque anni vissuti da Prima Ministra avrebbe dovuto affrontare uno degli attacchi terroristici più gravi che abbiano mai colpito lo stato dell’Oceania, la pandemia da Covid-19 e un pesante terremoto. Ma oggi, nella sua nuova vita – di ricercatrice e docente universitaria di politiche internazionali, attivista per l’ambiente e speaker in numerosi eventi – conferma che quel principio guida iniziale, la gentilezza, è stato il perno intorno al quale costruire e far muovere non solo una carriera politica, ma un’intera vita. E, soprattutto, per Ardern è nata lì la decisione più difficile, quella rinuncia alla premiership che nel 2023 l’ha portata ad annunciare le dimissioni davanti a cinque milioni di persone (tanti sono gli abitanti della Nuova Zelanda), ammettendo, in estrema sintesi: «Sono stanca».
Nella seconda settimana di settembre, per Baldini + Castoldi, esce [il 5 settembre 2025, Ndr] anche in Italia “Un altro genere di potere”, la sua autobiografia, un libro che Ardern porterà anche al Tempo delle Donne, la Festa-Festival del Corriere della Sera, in un incontro esclusivo con il pubblico alla Triennale di Milano, il 12 settembre alle 15, nel Giardino.
“Professor”, “Dame”, “signora”: come preferisce essere chiamata oggi?
«Va benissimo Ardern, o Jacinda se preferisce. L’empatia è stato uno dei cardini della mia missione politica, anzi parte tutto da lì, compreso questo memoir».
Nei suoi libri e nelle lectio magistralis che tiene negli atenei del mondo, lei ribadisce spesso che a suo modo di vedere la gentilezza non è una semplice attitudine, ma un vero e proprio atto politico.
«È così. Quando sono stata eletta prima ministra del mio Paese mi sono accostata a questa carica con molti timori, sia perché ero molto giovane, trentasei anni, sia anche perché ricordavo bene quando, tempo addietro, avevo detto no a un’altra occasione politica in quanto convinta che la mia innata sensibilità, la mia tendenza alla gentilezza non sarebbe stata utile, anzi, ero sicura che non sarei sopravvissuta in quell’ambiente così competitivo».
E poi?
«Poi ho capito che non è così, al contrario: in politica la gentilezza è la chiave per arrivare alle persone, è lo strumento attraverso il quale comprendere che cosa vogliono davvero quelli che ti affidano il voto. In questo caso, per gentilezza intendo empatia, ascolto, comprensione, sensibilità. Ho imparato che una vera leadership non può prescindere da questo, che alla lunga questa attitudine ripaga. Almeno, nel mio caso è stato così».
Già, perché lei si è dimessa con nove mesi di anticipo in un momento di robusto consenso, dopo due mandati e una vittoria schiacciante della sua compagine, il Partito Laburista, nel 2020. Non di certo perché costretta dalle proteste o da debolezza.
«Quell’ormai famoso addio alla politica ha fatto nascere numerose interpretazioni, io stessa mi sono meravigliata di quante spiegazioni sono state trovate. La complessità di quel gesto è, tutto sommato, semplice: proprio perché ho sempre cercato di restare in ascolto, non solo degli altri ma anche di me stessa, ho capito che a un ruolo così privilegiato è connessa una grande responsabilità, prima di tutto quella di sapere se sei o no la persona giusta alla guida».
E che risposta si è data?
«Che cominciavo a non esserlo più, o, almeno, che quelle energie che mi avevano sostenuta all’inizio stavano venendo a mancare. Io mi sono ritrovata a essere ricercatrice in Parlamento, consulente nell’ufficio del primo ministro, deputata e poi leader del mio partito. Tutto questo a sole sei settimane dalle elezioni, quando sono diventata prima ministra che nemmeno ci credevo».
Non solo: a poche settimane dall’elezione lei ha scoperto di essere incinta. Nel libro racconta delle nausee che l’hanno colta persino durante il discorso di insediamento.
«Ed è stata la regina Elisabetta a darmi il suggerimento più apprezzato. Quando la incontrai, in uno dei viaggi ufficiali che feci mentre aspettavo Neve, le chiesi come fosse riuscita a gestire una vita pubblica così straordinaria e incessante, pur rimanendo madre e nonna, lei mi rispose: “Vai avanti e basta”. Aveva ragione, perché fino a quando sei consapevole del perché sei lì, a ricoprire quell’incarico, hai la lucidità per trovare una soluzione a tutto».
Ecco, forse, il punto: essere sempre consapevoli del «perché sei lì», per quale motivo ricopri quella carica? Il potere spesso annebbia questa consapevolezza.
«Sì, la gentilezza di cui parlo serve anche a non perdere mai di vista il tuo compito e, dunque, serve a capire quando è il momento di staccare perché tu non sei più quello che avevi in mente, non rispondi più a una vocazione. Ma c’è un problema: in politica la gentilezza non è ammessa, perché la si scambia per debolezza».
Come hanno insinuato in molti, all’indomani delle sue dimissioni.
«Questo è il nodo: io non me ne sono andata perché quell’incarico era difficile, se fosse stato così avrei dovuto fare i bagagli molto tempo prima, perché era difficile eccome. Me ne sono andata perché sapevo benissimo quale impegno richiedesse quella carica e le forze mi stavano venendo meno».
E se calano le energie è più probabile che si ceda al facile consenso e che si smetta di prendere decisioni impopolari, sì, ma giuste per il Paese.
«Viene a mancare il coraggio politico, chiave essenziale per una buona leadership. Ricordo benissimo quando arrivarono le prime notizie della pandemia da Covid-19 e decidemmo subito di chiudere le frontiere. Quello, come ricordo nel libro, per noi voleva dire danneggiare il turismo, elemento essenziale per la nostra economia. Ma la gestione della pandemia da parte nostra è stata poi elogiata».
Dopo il duplice attentato a una moschea e a un centro islamico nel 2019, lei era fermamente decisa a cambiare la regolamentazione sull’uso delle armi.
«Ma la legge che vietava le armi semiautomatiche di tipo militare venne approvata con l’ampio sostegno di tutti i membri del Parlamento, tranne uno. Dunque, ecco un’altra dimostrazione del concetto di gentilezza applicata alla politica: se resti all’ascolto dei reali bisogni delle persone non farai fatica. Ho come la sensazione che ci impegniamo molto a insegnare la gentilezza ai bambini ma poi, nelle professioni da adulti, come la politica appunto, la accantoniamo come un elemento di fragilità. Non sono d’accordo ed è quello che cerco di diffondere».
Be’, se ci guardiamo intorno e osserviamo Donald Trump, Vladimir Putin o Benjamin Netanyahu non possiamo negare che la nascondono molto bene.
«Mi piace credere che una buona leadership possa prescindere dal genere. In fondo, tanti leader eletti da poco come Mark Carney in Canada o Anthony Albanese in Australia hanno messo al centro questi valori».
Però certamente le avranno chiesto qualche volta se la gentilezza in politica non sia una prerogativa femminile. Proprio perché in questo caso non parliamo di “fragilità”, ma anzi, di “un altro genere di potere”.
«Me lo hanno chiesto molte volte, sì. Il punto è che tante persone la pensano in questo modo, elemento che a mio avviso andrebbe scardinato: personalmente mi piace pensare che siano semplicemente buone qualità di leadership. E quindi credo che dovremmo sostenerle come qualità di leadership indipendentemente dal genere. E ho sicuramente lavorato con leader di entrambi i sessi che sono considerati leader empatici».
Lei crede che non ci sia una differenza sostanziale tra il modo di affrontare una crisi da parte di un uomo e quello di una donna?
«Guardi, dopo la pandemia da Covid sono state fatte diverse analisi su questo tema e in tanti ritenevano che le decisioni prese dai paesi guidati da donne durante quel periodo fossero state diverse da quelle prese dai paesi guidati da uomini. Uno dei punti è come giudichiamo una leadership: siamo portati a guardare subito dove nasce il sostegno, chi forma la fan-base, da dove viene ideologicamente un leader, ma poco spesso ci fermiamo a considerarne valori, peso delle scelte e altro».
Però è innegabile, limitandoci a parlare della gestione del Covid, che i Paesi guidati da donne abbiano fatto meglio. Penso, oltre che a lei, alla taiwanese Tsai Ing Wen e alla norvegese Erna Solberg.
«Non ho mai esaminato la questione abbastanza da vicino da poter formulare ipotesi sul fatto che gli uomini o le donne siano più bravi nelle situazioni di crisi. Preferisco focalizzarmi su quello che ci si aspetta – al di là del genere – da un leader nel corso di una situazione difficile. Certo, va detto che ancora oggi la maggior parte dei Paesi è a guida maschile, quindi dovremo aspettare per poter fare un confronto. Ecco perché, piuttosto, sarebbe meglio impegnarsi perché tanti ostacoli che ancora oggi rallentano le donne in politica vengano rimossi».
Lei ha fortemente voluto sua figlia Neve e, come racconta nel memoir, assieme al suo allora compagno Clarke Gayford, avete deciso di intraprendere una terapia della fertilità. Oggi pensa che la maternità per molte donne sia ancora un dissuasore dell’ambizione?
«Le donne non dovrebbero essere costrette a scegliere – come purtroppo spesso accadeva alle nostre madri – tra l’essere brave nel proprio mestiere e l’essere buone madri, o figlie. Dovrebbero avere reti di supporto che le aiutino a essere tutte queste cose senza perdere del tutto sé stesse. Però durante il mio mandato io volevo scardinare l’idea che essere prima ministra e madre fosse un presupposto da Wonder Woman. Un Paese deve poter permettere di essere entrambe le cose, anche perché non si ha bisogno soltanto di madri, ma anche di figli, caregiver, persone single».
Di certo il suo attuale marito ha aiutato molto: nel libro lei racconta che nel periodo del suo mandato è stato lui a curare la casa e vostra figlia.
«Clarke ha rotto certi parametri mentali, sì, ed è quello che ci si aspetta da un Paese capace di cogliere tutte le sfumature sociali al suo interno».
Un’ultima domanda: non ha la sensazione che oggi la leadership politica abbia essenzialmente due strade? Una, fatta di complessità, che invita alla pazienza e all’ascolto e l’altra – purtroppo sempre più battuta – fatta di semplificazione, che incita invece all’insulto e all’aggressività?
«Sì, ma sostituirei la parola “semplificazione” con “pensiero binario”, un elemento che ho avuto modo di indagare all’indomani degli attentati terroristici alle moschee nel mio Paese. L’ho fatto assieme a Louise Richardson, grande esperta di terrorismo. Il pensiero binario è l’idea che “quello che sto cercando di fare è giusto”. Tutto il resto è malvagio e cattivo. Quando la penso così sono in grado di disumanizzare qualcuno: io sono buono, loro sono cattivi. Si perde il senso della propria umanità condivisa. E quindi penso che, per tutta una serie di ragioni, il pensiero binario sia incoraggiato dall’ambiente in cui viviamo, dal modo in cui consumiamo le notizie, dal modo in cui interagiamo e ci relazioniamo gli uni con gli altri. E la risposta è cercare di ricostruire il legame umano, di ricostruire quella comprensione comune e di vedere la complessità del mondo».
da Il Fatto Quotidiano
L’architetto israeliano Eyal Weizman è il fondatore di Forensic Architecture, un laboratorio multidisciplinare che si è fatto conoscere negli ultimi anni indagando sui crimini di guerra in Siria e in Ucraina. Nel settembre 2022, il team aveva dimostrato che l’esercito israeliano ha volontariamente ucciso la giornalista Shireen Abu Akleh di Al Jazeera, mentre realizzava un reportage a Jenin, in Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre, il laboratorio ha iniziato a lavorare sulla guerra a Gaza e a costituire una “cartografia del genocidio” in corso. A luglio, uno dei loro rapporti ha dimostrato come Israele abbia pianificato la carestia nella Striscia. A Mediapart Eyal Weizman ha spiegato perché la sua organizzazione, che ha sede presso la Goldsmiths University di Londra e ha una dozzina di uffici in tutto il mondo, ha deciso di sostenere la denuncia per genocidio intentata contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
Come state procedendo a Gaza?
Raccogliamo prima informazioni su decine di migliaia di casi isolati e poi cerchiamo se tra loro si possono stabilire delle correlazioni. Nel caso di crimini di guerra, cerchiamo di stabilire se gli attacchi israeliani sono proporzionati alla minaccia e se sono rimasti uccisi anche civili oltre che miliziani. Nel caso del genocidio, cerchiamo di capire se c’è un disegno. L’intenzionalità è al centro del concetto di genocidio, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio.
Concretamente come operate?
Qualunque sia il caso su cui indaghiamo – per esempio il bombardamento di un centro per la distribuzione del cibo o la distruzione di un terreno agricolo – salviamo i video e le immagini che riceviamo, li autentichiamo e analizziamo l’“incidente” nel suo complesso. Abbiamo diversi modelli matematici che ci permettono di individuare gli elementi che creano connessioni tra i diversi fatti, in modo da stabilire se esiste un piano per distruggere il popolo palestinese, tutto o in parte. Se constatiamo che Israele sistematicamente distrugge i terreni agricoli, impedisce agli aiuti alimentari di entrare a Gaza e prende di mira i centri di distribuzione del cibo, allora un piano c’è, che è quello di ridurre la popolazione alla fame. L’articolo II, comma c), della Convenzione delle Nazioni Unite lega la «sottomissione intenzionale» di una popolazione a «condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale». Le persone cioè non si uccidono direttamente, ma indirettamente, distruggendo le infrastrutture, gli ospedali, le scuole, le case, impedendo loro l’accesso al cibo. La chiamo “violenza architettonica”: un po’ alla volta le condizioni di vita vengono distrutte e la morte arriva lentamente.
Nell’ultimo rapporto, che copre il periodo dal 18 marzo al 1° agosto, mostrate come la carestia corrisponda a un obiettivo di annientamento metodicamente perseguito.
Gaza è una striscia di terra lunga e sottile che presenta due tipi di terreno: uno sabbioso a ovest e uno argilloso a est. Quasi tutta l’agricoltura di Gaza si trova a est della strada Salah al-Din, l’arteria principale della Striscia di Gaza. Ed è proprio quest’area che è stata presa di mira per spingere la popolazione verso le terre più difficili da coltivare. Dall’inizio del genocidio abbiamo assistito a una campagna sistematica per distruggere la sovranità alimentare dei palestinesi. Sono stati distrutti i campi, i frutteti e gli strumenti per la pesca, in particolare tutte le barche. I palestinesi non possono più permettersi di nutrirsi. Dipendono interamente dagli aiuti umanitari che passano attraverso i checkpoint controllati da Israele. È tutta la società palestinese che si vuole cancellare. Bisogna pensare a Gaza come a una zona di demolizione e di costruzione: i bulldozer israeliani distruggono gli edifici palestinesi, ma con le macerie costruiscono altro. Per esempio, centri di distribuzione di cibo in aeree ristrette che si trasformano in “trappole mortali”, secondo quella che io chiamo “un’architettura di morte”. Le macerie delle case vengono utilizzate anche per costruire moli in mare e piccole colline che permettono all’esercito di sorvegliare Gaza.
E questo lavoro è alla base del vostro contributo alla denuncia sporta dal Sudafrica contro Israele davanti alla Corte internazionale…
Esatto. Questo lavoro ci ha permesso di produrre un rapporto di 825 pagine. Ai legali del Sudafrica abbiamo fornito prove sulla distruzione degli ospedali, dell’istruzione, dell’agricoltura, prove della pianificazione della carestia. La causa del Sudafrica, un Paese che ha subito l’apartheid e sa cosa è il colonialismo dei coloni, un Paese del Sud, contro Israele, difeso da tutti i Paesi occidentali, è un’opportunità per i diritti umani e il diritto internazionale.
Il clima in cui lavorate a Gaza è particolarmente difficile…
Venendo da una famiglia ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, è molto doloroso per me sentirmi dire di essere antisemita. In Germania il nostro ufficio ha dovuto chiudere perché lo Stato ha ritirato i finanziamenti. La mia università a Londra è sotto inchiesta per antisemitismo e so che questo è in parte dovuto al lavoro di Forensic Architecture. Voglio essere molto chiaro: l’antisemitismo esiste, anche in Francia, ed è mortale. La sicurezza degli ebrei nel luogo in cui vivono deve essere garantita. Ma Israele, spacciando per antisemitismo la difesa dei diritti umani e del diritto internazionale, alimenta altro antisemitismo.
Nel suo libro che esce a breve, parla di quello che lei chiama “genocidio coloniale”. Che cosa intende?
Quando pensiamo al genocidio, pensiamo all’Olocausto. Un crimine perpetrato in un breve lasso di tempo. Ma il genocidio può assumere forme diverse e quello dei palestinesi non è iniziato il 7 ottobre. Ha una lunga storia. Lavorando con le mappe, è possibile ripercorrere la storia della creazione della Striscia di Gaza, l’espulsione dei palestinesi dal sud della Palestina e il modo in cui i villaggi palestinesi sono stati letteralmente cancellati dalle carte geografiche. Dobbiamo capire come sono localizzati gli insediamenti israeliani sul territorio, in particolare i kibbutz, costruiti sulle rovine dei villaggi palestinesi. Gran parte degli abitanti di Gaza erano beduini, non nomadi, ma agricoltori che vivevano lungo il fiume Waadi Gaza. Lì hanno sviluppato tecniche agricole molto sofisticate. Sto lavorando in particolare sul villaggio di Al-Ma’in, da cui provengono lo storico Salman Abu Sitta e il famoso medico palestinese Ghassan Abu Sitta. Stiamo cercando di ricostruire esattamente come la colonizzazione ha trasformato il paesaggio e l’ambiente. Questo ci permette di collocare il genocidio successivo al 7 ottobre all’interno di un processo molto più lungo di colonizzazione degli insediamenti, che è una forma di genocidio. Dopo il 7 ottobre, Israele ha trasformato Gaza in un deserto. L’affermazione di Israele di aver “fatto fiorire il deserto” è ben nota. Ma Gaza non è mai stata un deserto. I beduini palestinesi coltivavano orzo per gli inglesi, che lo usavano per fare la birra. Fino al 1948, era un territorio rigoglioso.
Lavorate anche sulla cancellazione delle tracce…
Quando Israele distruggeva i villaggi palestinesi, non si limitava a demolire gli edifici, ma anche i cimiteri e le strade, e dissodava la terra. Se c’era un campo che era stato arato in una direzione, loro lo aravano nell’altra. E questo per cancellare ogni traccia di vita che era esistita fino a quel momento. Io lo chiamo “sradicamento” di Gaza.
È per questo che avete voluto concentrarvi sul suolo?
Sì, perché la pianificazione della desertificazione a Gaza è politica. Costruire dighe per deviare l’acqua verso Israele significa utilizzare l’ambiente per cacciare i palestinesi dalla loro terra. La creazione del deserto è una caratteristica continua del genocidio. Anche nel caso del genocidio armeno e del genocidio in Namibia da parte dei tedeschi, il deserto è stato uno “strumento” di distruzione. Le bombe israeliane, che esplodono a trenta metri di profondità, ufficialmente per distruggere i tunnel di Hamas, contengono enormi quantità di sostanze chimiche che contaminano il suolo per decenni. Penso che il “colonialismo di insediamento”, come ha detto l’antropologo Patrick Wolfe, abbia una logica di eliminazione. Certo, ci sono i massacri, ma la maggior parte delle persone non muoiono in modo violento, ma per cause secondarie. Il genocidio coloniale è come un genocidio che si consuma nel tempo.
da Il Sole 24Ore
Il libro qui recensito da Diego Marani è uscito in edizione italiana il 5 settembre 2025 con il titolo Un altro genere di potere per Baldini + Castoldi – collana I Fenicotteri, pp. 512
In un tempo in cui la politica sembra aver smarrito ogni vocazione al servizio, A Different Kind of Power, il libro con cui Jacinda Ardern riflette sulla propria esperienza di leadership, si impone come un testo controcorrente che rivela un modo dimenticato di impegno pubblico. Ex prima ministra della Nuova Zelanda divenuta simbolo globale di una leadership empatica e risoluta, Ardern racconta in queste pagine cosa significhi esercitare il potere senza cadere nella tentazione del culto di sé e soprattutto senza perdere la propria umanità.
Non è un’autobiografia né un pamphlet ideologico ma piuttosto una meditazione civile, in cui vita personale e responsabilità pubblica si intrecciano. Ardern racconta gli eventi epocali che ha vissuto, dall’attentato di Christchurch all’eruzione del vulcano Whakaari, fino alla gestione della pandemia, ma lo fa evitando ogni trionfalismo e celebrazione dei propri successi. A colpire è il tono: composto, essenziale, sempre rivolto al “noi” più che all’“io”. L’esempio dell’attentato di Christchurch è emblematico: la premier non tuonò contro il nemico che aveva vilmente colpito il suo pacifico Paese, non invocò repressione o vendetta. Indossò il velo in segno di rispetto, abbracciò le famiglie delle vittime, scelse parole di compassione e di vicinanza. Il Parlamento neozelandese in pochi giorni approvò una stretta durissima sulla vendita di armi. Un gesto politico deciso ma radicato in un’etica dell’ascolto.
Nel panorama occidentale e ancor più in quello italiano questo stile è l’opposto della logica politica dominante dove prevalgono l’invettiva, il marketing dell’ego e la costruzione permanente di nemici. La Ardern invece propone un’etica della responsabilità e della misura. Le sue decisioni, anche le più complesse, sono sempre ispirate all’interesse collettivo, mai al proprio tornaconto politico.
Il libro è attraversato da un altro filo conduttore: la maternità. Ardern è stata la seconda leader al mondo a partorire durante il mandato (la prima fu Benazir Bhutto) e nel raccontare questa esperienza non si sottrae alla complessità. Racconta un episodio illuminante: durante una riunione diplomatica fu costretta a interrompere i lavori per allattare la figlia. Lo fece senza esibizionismi né giustificazioni, con il senso tranquillo di una normalità che ancora oggi fatica a farsi spazio nella vita pubblica. In Italia, dove la leadership femminile è spesso costretta a mimetizzarsi sotto il codice maschile della “donna con le palle” – durezza, decisionismo, presunta infallibilità – Ardern offre un modello diverso. Non rivendica una “diversità femminile” astratta: dimostra, piuttosto, che si può essere leader senza sacrificare la propria interezza di donna, madre, persona.
Ma il gesto forse più potente di Jacinda Ardern è quello che conclude il libro: la rinuncia. Nel gennaio 2023 annunciò le sue dimissioni con una motivazione tanto semplice quanto rivoluzionaria: «Non ho più abbastanza energia per fare bene questo lavoro». Nessuna crisi, nessuno scandalo. Solo il riconoscimento dei propri limiti. Un atto inaudito nel nostro tempo dove i potenti proiettano nel potere tutto il loro narcisismo. Mentre da noi leader di ogni schieramento si aggrappano ad ogni carica in una occupazione ad oltranza di posti e poltrone che spesso sfocia nel logoramento delle istituzioni stesse, Ardern, al contrario, ha scelto di lasciare quando ha sentito che non poteva più dare il meglio di sé. Il libro non contiene mai toni moralistici, eppure muove indirettamente una critica durissima a questo modo di intendere la politica che vive di polarizzazione, semplificazione, esibizionismo. La sua risposta non è una “contro-narrazione” ma una prassi alternativa: concreta, silenziosa, composta.
A Different Kind of Power non è un manuale, e non pretende di offrire formule replicabili. È piuttosto una testimonianza, capace però di sollevare domande profonde: cosa cerchiamo davvero in chi ci governa? È possibile immaginare una politica che non sia guerra, ma cura? E soprattutto: siamo pronti a riconoscere il potere come responsabilità e non come possesso?
Nell’epoca delle leadership tossiche, Ardern ci ricorda che un altro modo di fare politica è possibile. Servono visione, coraggio e anche la forza di farsi da parte quando è giunto il momento.
dal Corriere della Sera
Trasporta le storie bibliche nella «brughiera lombarda», con una lingua che attinge ampiamente al dialetto. Qui Eva trascende sé stessa e si fa memoria, e memoria «vuol dire imparare oggi e domani da ieri»
Mi ha riportato al maggio 1993 Primamà di Laura Pariani: ai racconti del suo esordio con Di corno o d’oro e in particolare alla «ronda dei ricordi» del Carle’n, ambientati nella brughiera di quel territorio tra il Ticino e Magnago, e in quel dialetto milanes furestee (a dirla con il poeta Delio Tessa in trasferta da Milano) che tornano anche qui e con il consueto impasto linguistico-sintattico nel quale la parola scivola di continuo dall’italiano a quel dialetto, alla sua italianizzazione o alla deformazione dialettal-litanica, alla proverbialità contadina. E, però, con la significativa variante di i dónn che lasciano posto a le dónn, per un testo che ha a protagonista la primamà. Ossia Eva; e, con lei e attraverso lei, «il volto di tutte le donne», e «inevitabilmente il volto di tutte le nonnàve che ho conosciuto, la loro competenza in fatto di disgrazie, la sapienza nel contare le storie-belòrie della brughiera lombarda, nonché la fede antica nella Mamagrànda della Préa Krüa che conforta le donne che si rivolgono a lei nel bisogno». Un’Eva raggiunta attraverso un lungo giro di lune, grazie alla «ronda del ricordo» che ha quali tramiti «Nonna Giuàna, la paziente», «Biszia Marién, l’audace» e la «mapuche» «doña Rosa, la sapiente». Un viaggio nel quale Laura stessa si fa personaggio direttamente interrogante anagrammandosi in «Ràula-storta», per «infine con tutti quei dubbiosi suoni di memoria» comporre questa «storia-belòria per conservare alle generazioni future l’immagine di Primamà».
Un approdo, quello a Primamà nel quale «rivive dall’interno» le storie bibliche, che ne fa il vertice della sua storia di narratrice. E ne viene un’Eva letteralmente strepitosa, rivisitata «con l’esperienza di millànta inverni sul gobbo», sino all’incontro col Tristo Trappoliere, e proprio mentre la Famiglia intera decide per l’abbandono di quel paese Senzanome, fatto di «cabáne nere e mute», e «dove sotto il peso degli inverni crudi le cabáne si sfasciano e le febbri strozzano i bambini, e rende taciturne».
Una Eva che nel raccontare le sue «storie-belòrie» ai piccoli, al tempo stesso si racconta: da quella nascita nel paese Senzapaura della quale ha il solo vago ricordo «di una grande mano che la rivoltolava nella polvere e un acre odore di fango»; alla cacciata di lei e Adam da quel «Onnipòssio-di-lassù infastidito dalla frégola di carnalità da cui loro due erano stati presi nei prati argentati». Quell’Adam Primopà dalla «mania soffocante di controllare tutto» impiccatosi a quasi mille anni poco tempo prima «al grande nùs, quella pianta che per tutta la vita gli ha dato noci e olio e ombra».
E i tanti figli: a partire da Kaìn che, «suggestionato dalle raccontazioni di Eva», ha scelto di occuparsi di piante, arbusti, semenze; e Abel, dal «carattere malmostoso e tuttonervi», tutto dedito alla caccia, come il padre; e l’omicidio: non per gelosia e qualità dei doni offerti a Dio, ma, assai più umanamente, come reazione di Kaìn al bullismo gratuito e sempre più pesante di Abel. E poi l’allora «giovane Matusalèm – un gambecorte malmostoso» che decide di invertire «l’antica legge, da sempre osservata, secondo la quale le persone più deboli vanno protette» reclamata a gran voce da Eva, in nome dei «tempi che kambiano» e impongono l’obbedienza «alle decisioni della Ragunànza degli òmm!», per i quali «ogni disastro che accade nel paese Senzanome sta nella volontà dell’Onnipòssio-di-lassù che comanda con un rigore smisurato contro cui non c’è difesa».
Una legge maschile alla quale Eva e le «primefiòle» oppongono «i suggerimenti di Mamagrànda-di-laggiù, che viveva nelle profondità della terra e dell’acqua», da lei generate. Una Guardiana del mondo-di-sotto che riceve «le maloròse» «in una radura di brughi e lischi nel folto della brughiera», presso la Préa Krüa verdazzurra, e che quando appare loro «sembra una forma nebbiosa che fluttua nel fogliame» (capovolgendo al femminile Esodo, come avverrà pure con Matteo per le Beatitudini e Giovanni per la «veste» cinta da «qualcun altro» da vecchi).
Una Eva dalla «vista gùzza, passo silenzioso e sapienza di segreti» che «ne ha viste tante di dónn maltrattate; e sempre ha cercato di intervenire, separare, far ragionare», e che «quando apre la bocca, tutti tacciono fascinati, sentendosi risvegliare nel cuore un fondo di insospettate memorie». E ne vengono storie che incrociano miti, realtà terrene di violenza proprie di ieri e di oggi, sogni e desideri, nelle quali serpeggiano le domande di sempre su bene e male (le morti di bambini), colpa e giudizio, «pietà» e «klemenza»; e l’interrogazione su quella verità che «è difficile dire cosa sia, niente è fisso, tutto muta senza alcun preavviso», tanto da convincersi «che non si possa dire la verità delle cose».
Che è quanto fa di Eva ben più che un personaggio. Perché Eva è la Memoria. Memoria che «vuol dire imparare oggi e domani da ieri». Ed «è una vera grazia che la memoria custodisca le immagini di chi non c’è più. E non solo l’immagine, ma anche il suono delle loro parole e risate, il soffio tiepido del loro alito, l’odore forte di resina e fumo che ha sempre impregnato l’affollata cabána delle dónn, il profumo lattoso che emanava dalla pelle dei piscinèl».
Esistono solo due opere artistiche dedicate a Genoeffa Cocconi e sono tra loro, per simboli e cultura, molto differenti. Stanno entrambe girando l’Italia e si sono incontrate per la prima volta a Brescia il 25 luglio scorso per la tradizionale Pastasciutta dei Cervi del 25 agosto del 1943, grazie all’ANPI di Lucio Pedroni e a Vanna Chiarabini, Marisa Veroni e Laura Forcella che le hanno messe assieme. È una novità politica il confronto che queste due opere propongono su Genoeffa.
La mia mostra del 2022 è la prima su di lei e si intitola: Genoeffa Cocconi Cervi: l’Ottava Vittima, una Maria Laica. Sono dodici grandi disegni solo su lei, in dimensione reale per dare la sua complessità, a matita, a volte con fondi scritti o colorati di rosso, oro o nero. Contiene anche un video di mezz’ora: Maria Morotto racconta la nonna. Maria, ancora vivente, era la nipote più grande dodicenne quando sono stati arrestati gli uomini di famiglia nel novembre del 1943 e fu mandata dalla madre Diomira Cervi ad aiutare Genoeffa. Starà con lei fino alla sua morte il 14 novembre 1944.
La novità della mostra per Genoeffa è nella definizione di vittima a ottant’anni dalla sua morte e nella licenza poetica di “Maria laica” che mi sono presa nel definirla. Io sono Clelia Mori, una pittrice reggiana.
L’altra versione del 2024 è quella di un regista parmense: Marco Mazzieri. È il primo docufilm su Genoeffa, dura cinquantacinque minuti e il titolo è Genoeffa Cocconi. I miei figli, i fratelli Cervi. Nasce due anni dopo la mostra e lei nel film non è una vittima.
Confrontando i due titoli salta agli occhi un conflitto interpretativo su Genoeffa che sposta l’analisi dalle opere, entrambe artisticamente interessanti, alle idee che l’hanno definita. La Genoeffa del docufilm si muove in un pensiero storico/patriarcale che non consente a una donna, pur se madre di sette figli fucilati insieme dai fascisti reggiani, di diventare l’ottava vittima della sua famiglia essendo morta di “crepacuore” neanche un anno dopo i figli. Nel film Genoeffa è una dolce, colta e buona madre di famiglia e il suo crepacuore un fatto personale e materno. Una visione genoeffiana che riflette quella pluridecennale del Museo Cervi che ha collaborato al film. Il regista ha affermato in pubblico, nel paese del Museo, che definirla vittima è fare del vittimismo. Forse c’è confusione sul significato di vittimismo e di vittima.
La mia mostra non lega Genoeffa ai figli, cerca la donna diventata dieci volte madre e guarda con lo stesso valore “tutti” i componenti della famiglia scomparsi. Lei nei disegni non è mai finita perché è la misconosciuta da rimettere nella storia al centro della famiglia che ha creato. Nessuno la conosce per nome e cognome, devi specificare che è la madre dei sette fratelli Cervi e allora gli occhi si illuminano. Come è stata possibile questa invisibilità per ottant’anni dalla sua morte?
La morte è sempre una scomparsa dalla vita. Ma, stare dallo stesso lato della storia non può voler dire togliere dignità alla morte della madre per il modo in cui ti uccidono i fascisti. Lei è vittima, come i figli, dei fascisti, anche se è morta di crepacuore e non è stata fucilata.
Se non la si vede vittima per via del crepacuore, la si incastra nella madre e donna patriarcale e nell’idea che una donna che non ha scelto le armi non ha fatto la Resistenza. È un di meno per lei, i figli, la Resistenza e la democrazia. Circoscrivere la presenza della portata delle donne nella Resistenza misconosce il lavoro generativo e accuditore della madre. Mettiamo “al mondo il mondo”, ma per Genoeffa non ha contato. Si dice che era colta, che aveva educato i figli e si nomina come rezdora. Dei di più, di cui come madre non aveva bisogno, che non sono bastati per dirla vittima come i figli. Non un’eroina, ma almeno la vittima in più della famiglia, un numero in più sulla infinita ferocia fascista da far vedere.
Non l’avevano già colpita abbastanza, come si fa a non sentire questo dolore spropositato di donna? Calamandrei nel 1954 dice che forse non esiste un popolo che ha vissuto una storia così crudele come quella dei Cervi e la paragona a Niobe, e Rodari nel 1955 la definisce “uccisa” nella sua lirica sui Cervi, ma sono state poetiche invisibili per la storia.
Lei non avrebbe mai potuto dire «dopo un raccolto ne viene un altro» come dirà il marito Alcide. I padri si sa non partoriscono. Ma Genoeffa il suo raccolto della foto dell’aia, da cui l’ho disegnata con il suo invisibile sorriso, non l’aveva più intorno e non ne poteva fare un altro. La donna e la madre avevano consumato tutte le loro energie e dopo un mese dalla malattia se ne sono andate. La malattia era arrivata quando i fascisti le avevano incendiato ancora il fienile appena rattoppato, con undici nipoti piccoli da sfamare, quattro nuore e un marito anziano a cui aveva persino nascosto per più di un mese la morte dei figli, temendo per la sua salute perché era appena tornato dal carcere. Il vittimismo non è per Genoeffa.
Possedeva anche una capacità critica che da cattolica praticava, mettendo in discussione perfino le prediche del prete per l’eccesso di compiacenza col potere, mentre tornavano dai campi dopo la messa.
Le due opere artistiche così diventano un volano per una ricerca ampia e complessa sulla concretezza della storia della Resistenza e sulla cristallizzazione delle parole.
Il concetto di vittima è tutto centrato sull’uso delle armi anche per troppe storiche donne, ma c’è stata pure una lotta femminile non armata. Pensiamo a tutte quelle donne che come Genoeffa hanno aperto la porta di casa a sbandati, disertori e renitenti alla leva che non volevano più sacrificare la loro vita per la guerra dei nazifascisti e cercavano un’altra idea di giustizia e libertà. Dove andavano dall’otto settembre in poi, se non fossero stati accolti e accuditi da queste tante donne che rischiavano la casa, la famiglia e la propria vita, come è successo a Genoeffa, dando forse inizio alla Resistenza, ma fornendo pure su un piatto d’argento il loro indirizzo di casa ai fascisti locali…
La lotta senza armi è ancora troppo poco illuminata insieme a quella del concetto di vittima femminile dell’antifascismo, che, nel caso di Genoeffa, insiste proprio sulla differenza tra morire di crepacuore o essere uccisi sparati, impedendo a Genoeffa di essere riconosciuta come figura inaugurale della sua storia familiare. Oltre a nascondere uno strisciante conflitto nella relazione tra donna e uomo, già dalla costruzione dell’antifascismo.
Non a caso l’autore del docufilm è un uomo e l’autrice della mostra è una donna. Proveniamo entrambi dallo stesso Istituto d’arte: il Toschi di Parma, abitiamo vicino al Museo e io, come artista, ho una visione del simbolico femminile molto differente da quella maschile e una libertà di pensiero che forse un regista non si può permettere se non ha la fortuna di produrre in proprio, come me, la sua opera.
Il potere di un video è grande, ma il confronto col disegno prima o poi arriva e a Brescia è successo.
Lei nel Museo di casa sua non ha antenati nell’albero genealogico che invece Alcide possiede. Sembra nata sotto al cavolo, ma all’anagrafe di Campegine dove è nata e sepolta li ho trovati e sono nel video. Volevo darle la sua importanza. Senza di lei che ha generato i figli la famiglia Cervi non sarebbe mai esistita.
La “Maria laica” e il mistero dell’oro nascono dalla sua posa in una delle sue due foto, quella dell’aia, dove sembra una Maria medioevale seduta in trono, con intorno, proprio come nei Giotto e i Boninsegna, le due file di angeli di figli e figlie. Come Maria, subirà la sua stessa innominabile sofferenza di madre, moltiplicata per sette in un attimo.