A ottobre ho sanguinato per dieci giorni senza avere accesso a un bagno vero e proprio.
La casa in cui ci siamo rifugiati – come la maggior parte dei rifugi a Gaza – non offriva privacy.
Quaranta persone dormivano in due stanze. Il bagno non aveva porta, solo una tenda strappata.
Ricordo di aver aspettato che tutti si fossero addormentati per potermi lavare con una bottiglia d’acqua e pezzi di stoffa. Ricordo di aver pregato di non macchiare il materasso che condividevo con tre cugine.
Ricordo la vergogna – non del mio corpo, ma di non potermene prendere cura.
In guerra il corpo perde i suoi diritti, soprattutto il corpo femminile.
I titoli raramente parlano di questo, di cosa significhi per una ragazza avere il ciclo sotto i bombardamenti, di madri costrette a sanguinare in silenzio e ad abortire su pavimenti freddi o a partorire sotto i droni. La guerra a Gaza non è solo una storia di macerie e attacchi aerei. È una storia di corpi interrotti, invasi e a cui è stato negato il riposo. Eppure, in qualche modo, questi corpi continuano a esistere.
Come donna palestinese e studentessa sfollata che ora vive in Egitto, porto con me questo ricordo corporeo. Non come una metafora, ma come un dato di fatto. Il mio corpo sussulta ancora ai rumori forti. La mia digestione vacilla. Il mio sonno è frammentato. Conosco molte donne – amiche, parenti, vicine – che hanno sviluppato malattie croniche durante la guerra, che hanno perso il ciclo mestruale per mesi, i cui seni si sono prosciugati mentre cercavano di allattare nei rifugi. La guerra entra nel corpo come una malattia e rimane.
Il corpo di Gaza è una mappa di interruzioni.
Impara presto a contrarsi, a occupare meno spazio, a rimanere vigile, a reprimere il desiderio, la fame, il sanguinamento. La natura pubblica dello sfollamento distrugge la privacy, mentre la paura costante logora il sistema nervoso. Le donne che un tempo custodivano il loro pudore ora si cambiano d’abito davanti agli sconosciuti. Le ragazze smettono di parlare del loro ciclo. La dignità diventa un peso che nessuno può permettersi.
Questo è il paradosso della sopravvivenza: lo stesso corpo a cui viene negata la sicurezza diventa lo strumento della resistenza. Le donne fanno bollire le lenticchie a lume di candela, calmano i bambini in cantina, cullano i morenti. Questi atti non sono passivi; sono radicali. Avere le mestruazioni, portare in grembo, nutrire, lenire – in mezzo alla distruzione – significa insistere sulla vita.
Torno, ancora e ancora, all’immagine di mia madre durante la guerra. La schiena curva su una pentola, le mani tremanti, gli occhi che scrutavano il soffitto a ogni rumore. Non mangiava finché non lo facevano tutti gli altri. Non dormiva finché non dormivano i bambini. Il suo corpo portava l’architettura della guerra e della maternità allo stesso tempo. Ora mi rendo conto di quanto fosse politica la sua stanchezza – di come il suo lavoro, come quello di tante donne palestinesi, sfidasse la logica dell’annientamento.
Non c’è una tenda per il corpo a Gaza.
Nessuno spazio sicuro dove il corpo femminile possa dispiegarsi senza paura. La guerra ci spoglia – non solo delle nostre case e dei nostri beni, ma anche dei rituali che ci rendono umane: lavarsi, avere le mestruazioni, elaborare il lutto in privato.
Ma anche senza un riparo, i nostri corpi resistono. Ricordano. Resistono.
E forse, nella loro tremante perseveranza, scrivono la storia più vera di tutte.
(Scritto da Mariam El Khatib il 19 maggio 2025, ricevuto tramite Doriana Goracci e postato da Claudia Sarritzu su Facebook il 22 maggio 2025)
(*) Mariam Khateeb (Mariam Mohammed El Khatib) è una scrittrice, poetessa e attivista palestinese di Gaza. Studia odontoiatria in Egitto dove continua anche la sua attività letteraria. I suoi scritti, pubblicati su piattaforme come This week in Palestina, We are not numbers e Avery Review, esplorano i temi della memoria, della guerra e della resistenza, soprattutto da prospettive femministe ed esistenziali. Usa la narrazione come forma di resistenza culturale, documentando l’esperienza palestinese e amplificando le voci del su popolo.
dal Corriere della Sera
Intervista a Francesco Salvi, ricercatore italiano del Politecnico di Losanna, che ha dimostrato (studio su «Nature») che ChatGPT-4 è molto più efficace degli umani nel far cambiare idea alle persone. «Implicazioni enormi, dalla promozione di stili di vita salutari al rischio di manipolazione su larga scala»
«La nostra ricerca dimostra che l’intelligenza artificiale può essere molto più efficace degli esseri umani nel far cambiare idea alle persone. Le implicazioni sono enormi, sia come rischi che come opportunità, considerando che è possibile farne un uso di massa». Francesco Salvi, 25 anni, è un ricercatore italiano (è originario di Brescia) dell’EPFL, il Politecnico Federale di Losanna. Informatico con una formazione in fisica, studia l’impatto sociale dell’intelligenza artificiale (AI) ed è il co-autore di una ricerca appena pubblicata su Nature Human Behaviour che mostra per la prima volta quanto sistemi come Chat-Gpt siano efficaci nel far cambiare idea alle persone, anche su temi socialmente e politicamente scottanti.
Partiamo dal vostro studio: cosa avete fatto esattamente?
«Abbiamo chiesto a 900 persone residenti negli Stati Uniti di partecipare a un dibattito su un tema sociale o politico con una controparte. Si trattava sia di questioni più semplici, come l’opportunità o meno di indossare uniformi a scuola o di dismettere la moneta da un penny, sia di questioni molto divisive, come la legalità dell’aborto o gli aiuti all’Ucraina. Ogni partecipante doveva discutere con una controparte, che sosteneva un’opinione opposta alla sua e poteva essere un altro essere umano oppure ChatGPT-4».
E cosa avete visto?
«Se il dibattito avveniva al buio, senza informazioni sulla controparte, gli esseri umani e ChatGPT-4 erano egualmente persuasivi. Ma se all’intelligenza artificiale venivano fornite delle informazioni di base sulla persona con cui discuteva, allora riusciva a farle cambiare idea molto più spesso degli umani. ChatGPT è diventato il 64% più efficace nel convincere l’interlocutore. Un risultato molto significativo.».
Che tipo di dati avete fornito all’AI?
«Informazioni di base, che si trovano anche online o si possono estrapolare dai social media, come età, genere, orientamento politico o istruzione».
Le avete date anche agli esseri umani?
«Sì, ma la loro capacità di persuasione non è cambiata».
Come spiegate questa differenza?
«Abbiamo visto che nell’argomentare gli esseri umani erano più emotivi, usavano più pronomi personali, tendevano a ricorrere allo storytelling, cioè a raccontare storie. ChatGPT utilizzava uno stile più analitico, logico, strutturato e basato sui fatti. Quando abbiamo fornito loro le informazioni sugli interlocutori, le persone hanno continuato ad argomentare nello stesso modo. La cosa interessante invece è che, quando ha avuto accesso ai dati personali, ChatGPT non ha cambiato il modo in cui parlava: ha cambiato cosa diceva. Ha scelto argomenti più adatti alla persona che aveva davanti».
Per esempio?
«Prendiamo il caso del dibattito sul reddito di base universale, quello che in Italia sarebbe il reddito di cittadinanza. Se ChatGPT si trovava davanti un interlocutore repubblicano, sottolineava che avrebbe portato benefici come la crescita economica, la stabilità finanziaria, incentivi alla libera iniziativa e all’imprenditorialità. Se parlava con un democratico, invece, metteva l’accento sulla riduzione delle disuguaglianze e il supporto alle minoranze. Gli esseri umani, invece, anche con le stesse informazioni, non modificavano sostanzialmente le cose che dicevano: non erano allenati a pensare in modo strategico durante un confronto».
Come è possibile che l’AI adattasse così i contenuti?
«ChatGPT è stato allenato su enormi quantità di testo e ha “visto” innumerevoli esempi di dibattiti, esempi di come persone diverse argomentano e reagiscono alle argomentazioni altrui. Ha imparato a riconoscere pattern (tipi di comportamento) sottili nella comunicazione. È in grado di identificarli e generare argomentazioni che risuonano meglio a seconda dei profili delle persone che ha di fronte».
Questo che implicazioni ha?
«Enormi. Può portare grandi benefici: per esempio la capacità persuasiva dell’intelligenza artificiale può essere usata per promuovere stili di vita più salutari e sostenibili, come incoraggiare l’attività fisica o un’alimentazione migliore. Oppure per aiutare a smorzare conflitti online».
E i rischi?
«Il più grande riguarda l’integrità del processo democratico. Un’intelligenza artificiale persuasiva potrebbe essere usata su larga scala per manipolare opinioni politiche, diffondere propaganda o fake news».
Si dice che negli Stati Uniti Donald Trump abbia vinto anche perché il proprietario di X Elon Musk lo ha aiutato a identificare elettori cruciali negli Stati in bilico, persuadendoli ad andare a votare e convincendoli usando i temi (in modi specifici e spesso opposti) su cui quei gruppi erano particolarmente sensibili, come l’aborto per le donne e la guerra a Gaza per gli arabi e gli ebrei.
«Grazie all’intelligenza artificiale è possibile cucire le argomentazioni addosso alle singole persone. Pensi allo scandalo di Cambridge Analytica del 2016: all’epoca fece scalpore il fatto che si usarono relativamente poche informazioni ricavate da Facebook per selezionare il messaggio giusto tra quelli predefiniti e convincere gli elettori. Oggi ci sono modelli di intelligenza artificiale che permettono di personalizzare l’interazione online sulla persona singola, anche dibattendoci, in base alle specifiche caratteristiche dell’utente. In modo estremamente convincente, come ha dimostrato il nostro studio».
Oggi esistono regolamentazioni adeguate per evitare manipolazioni?
«No, non abbastanza. Le linee guida, anche quelle obbligatorie in Europa, non bastano. I regolatori spesso rincorrono l’innovazione, invece di anticiparla. È urgente avviare un dibattito serio su quali barriere e quali limiti vogliamo imporre. Anche perché le aziende che sviluppano questi strumenti possono fare profitti enormi e non hanno grandi incentivi a porsi problemi etici».
Cosa si potrebbe fare in concreto? Queste tecnologie sono concentrate nelle mani di pochi attori privati, che hanno un potere enorme.
«Oltre alle norme serve maggiore trasparenza. Le aziende dovrebbero permettere a ricercatori indipendenti di accedere ai loro modelli, per testarne i bias – vedere se sostengono a priori alcune posizioni o pregiudizi – e valutarne i meccanismi di salvaguardia».
da il manifesto
Una visita alla retrospettiva «Euforia» al museo Madre dedicata all’artista e performer e un incontro nella sua casa-studio di Roma
Da bambina, Bianca Pucciarelli Menna (in arte Tomaso Binga, con quel nome marinettiano a cui era caduta scherzosamente la «m» della famosa costola d’Adamo e il cognome che faceva proprie le storpiature dei bambini) giocava felice a campana, inerpicandosi sulla via della sua abitazione, fra un ospizio per orfanelle e un convento di preti, dove non passavano macchine perché la strada finiva lì.
Dietro, c’era una valle con un piccolo ruscello: d’estate, era il luogo perfetto per re-inventarsi nel ruolo di narratrice di fiabe gotiche, imbastendo storie su castelli misteriosamente arroccati, dimore forse di streghe. Ma, soprattutto, una volta a casa, la piccola Bianca si abbandonava alla malìa dell’alfabeto. «Mio padre con la sua mano sulla mia, mi guidava nella scrittura delle lettere e nelle linee dei disegni. Anche lui era un artista, in Venezuela realizzava vetrate liberty. Si trovò poi in Italia quando si chiusero le frontiere: non poté più ripartire, sposò mia madre e si impiegò, per sopravvivere, in municipio a Salerno. Qui rimase».
È nata così la passione di Tomaso Binga per la «parola vivente», quel linguaggio visivo, sonoro, profondamente fisico, a volte onomatopeico, che interrompeva ogni significato a favore della potenza dell’immagine, del corpo che si fa lettera, sillaba e mima gioiosamente fratture di senso.
Classe 1931, l’artista e performer vive a Roma, in una luminosa abitazione a Vigna Clara, che ha trasformato in un atelier della quotidiana creatività fra carte dove appuntare il germoglio delle idee, dipinti della collezione alle pareti, tavoli sparsi e arruffati.
È accaduto, infatti, che la nostalgia per Salerno e di una gioventù divisa tra il lavoro a scuola nei paesi circostanti, le passeggiate al centro, il mare luccicante all’orizzonte, piano piano evaporasse a favore dell’incantesimo capitolino, dove un giorno Tomaso Binga, scendendo da un autobus che la conduceva in città, reincontrò quel ragazzo salernitano che vedeva sempre salire le scale del suo palazzo, per dare lezione private ai piani superiori, dove lo aspettavano alunni di famiglie disagiate. Quel giovane era Filiberto Menna, presto diventerà suo marito e insieme partiranno per una lunga e preziosa avventura artistica – lui nella storia e critica della disciplina, dopo aver abbandonato un background medico, lei nell’azione che interpretava lo slogan «il personale è politico», irrorandolo con una buona dose di ironia e dissacrazione.
Roma era una città difficile, dispersiva, bisognava lottare per tutto, racconta Binga, dove però ci si divertiva allestendo performances collettive e dove si potevano liberare le energie nuove in quel Lavatoio contumaciale divenuto centro propulsore di serate poetiche, mostre e palcoscenico di compagnie teatrali emergenti come La Gaia Scienza. «Era il posto in cui si bollivano i panni delle persone infette. Ho voluto lasciare quel nome perché anziché i panni, lì lavavamo le idee infette, i pregiudizi, che sono sempre tanti. Era un modo per fare pulizia».
Finalmente, a Tomaso Binga e alla sua attività prismatica di artista, la primavera tributa un articolato omaggio con l’antologica inauguratasi a Napoli presso la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – museo Madre, a cura di Eva Fabbris con Daria Kahn. Una mostra, visitabile fino al 21 luglio, che è pensata come fosse un’affabulazione ludica e un parco a tema; un’unica installazione immersiva, sala dopo sala, resa possibile dall’allestimento spettacolare dello studio di design Rio Grande: «un dispositivo circolare che evoca uno schema classico della poesia, fin dai tempi remoti degli aedi: la ring composition, dove l’inizio coincide con la fine e viceversa».
Fra tubolari rosa shockinge curve improvvise che accolgono le opere, sculture di polistirolo («mi interessava quel materiale di scarto dalle forme vuote, era uno stimolo, una provocazione sensoriale e mentale») che raccontano un immaginario anni Settanta, scritture che si arrampicano al pari delle donne che devono scalare i muri della reclusione domestica, alfabeti «animati» dal corpo nudo dell’artista, sposalizi sdoppiati da mascheramenti di identità, scorrono quarant’anni di allegre «perdite semantiche», sostituite da corrispondenze di pura invenzione. Ecco allora le lallazioni, le poesie visive, le filastrocche sulla materia-carta che diventa cartuccia e quindi sparo, le installazioni, i collage, le fotografie prese in prestito dai rotocalchi, i ritmi di linee incomprensibili che sfumano in calligrafie archeologiche (le «scritture desemantizzate»).
Euforia è il titolo della mostra partenopea: è una delle rare parole panvocaliche esistenti e Tomaso Binga, ogni volta che le ha trovate (sono in realtà pochissime) le ha salvate sul suo taccuino. Le innumerevoli scritture viventi, alfabeti in cui le lettere si susseguono impersonate con gli esercizi ginnici del corpo, nacquero sempre sull’onda del divertimento e della trasgressione culturale, in barba al principio del maschile imperante. Non c’è nessuna volontà di proporre nuovi cifrari per la «chiarezza del testo», anzi.
Binga è favorevole «all’inversione a U della scrittura». La scintilla, per lei, si era accesa di fronte alle opere dell’amica argentina Verita Monselles, «stava facendo proprio un lavoro sul corpo e realizzava cose incredibili». C’è lei, Monselles, dietro tutte le fotografie che ritraggono la fisicità linguistica di Tomaso Binga, l’alfabeto «al femminile», matrice e madre di una comunicazione libera. Femminile come la domenica, che l’artista opzionò nel 1977 come giorno della settimana per intessere una corrispondenza immaginaria con un’«altra da sé» in 52 epistole (cui in mostra è dedicata una delle sale più belle). «Mia cara amica ti scrivo alle ore sei, mi piace la linea verticale delle lancette».
Quella di Tomaso Binga è stata una militanza femminista fondata anche sull’errore rodariano che rivela e strappa la consuetudine: i suoi Dattilocodici scaturivano da inciampi di battitura che sovrapponevano due lettere, creando immagini al posto di senso. Quando nel 1978 Mirella Bentivoglio propose a Venezia, come evento collaterale della Biennale, la mostra Materializzazione del linguaggio, Binga era tra le artiste prorompenti di quella rivoluzionaria apparizione. Non si sentì in un ghetto dorato, fu un momento di studio e incontro, si aprì un orizzonte. Non cambiò la scena culturale per le artiste-donne ma «fu una mossa importante». Almeno, non si poteva più tornare indietro.
da La Stampa
«Non avrei mai potuto scrivere una vera autobiografia, non mi piace l’autocelebrazione. E poi è più facile viverla, la vita, che raccontarla». Piccolina, capelli corti, occhi mobilissimi e battuta pronta, Monica Giorgi pare sul punto di scattare a rete come quando giocava in doppio con Adriano Panatta («voleva fare smash solo lui») o sfidava l’amica Lea Pericoli ai Campionati Italiani. Non è quindi un’autobiografia Domani si va al mare (Fandango), scritto con Serena Marchi e presentato al Salone in questi giorni di gioie e dolori per il tennis italiano, insieme all’editore e appassionato di gesti bianchi Domenico Procacci. Piuttosto è una partita a tennis con la vita, con il primo set in cui la livornese Giorgi, classe ’46, mette alla prova il fisico minuto con allenamenti sempre più intensi e inizia una carriera brillante, da Wimbledon al Roland Garros, spinta «dalla voglia di bello. Ho imparato con l’esperienza che ciò che è bello è vero. E il tennis è bello: l’eleganza del gesto, la leggerezza, il divertimento, il gioco. Non tanto la competizione. Perché si vince, è vero, ma si perde anche tanto». Che di vincere non le sia mai importato troppo lo provano i Campionati italiani 1971, Firenze, quando sul match point contro l’amica Lea Pericoli – una che la chiama «Monicaccia» e «mi ha sempre considerata per quella che sono» – alza le mani, si interrompe, la lascia vincere. Game over. L’amicizia è più importante, forse per questo Giorgi è così brava in doppio.
Il secondo set della vita di «Monicaccia» è più oscuro, pare scritto dal suo autore favorito Franz Kafka: già, perché oltre al tennis, Giorgi ama letteratura e filosofia e all’università si avvicina ai movimenti femministi, pacifisti e anarchici, Gandhi e Martin Luther King. Sono gli Anni 70 «difficile spiegare quell’atmosfera a chi non c’era» e infatti la coautrice Serena Marchi, classe 1981, per districarsi nelle memorie della tennista ha dovuto fare «un viaggio negli anni di piombo, tra lettere ingiallite e articoli di giornale, respirare quell’atmosfera, capire la rabbia e la sofferenza di una generazione». Giorgi insieme agli anarchici livornesi comincia una campagna per i diritti dei carcerati con la fondazione Niente più sbarre. Nel 1972 è la capitana della nazionale italiana alla Federations Cup di Johannesburg e per protesta contro l’apartheid mette una maglietta con la scritta «No al razzismo» e «due piedi bianchi avvinghiati a due piedi neri, belli come il sole, in un evidente rapporto sessuale». Uno scandalo, la Federazione la squalifica. «Proprio quella maglietta – spiega Procacci – mi ha dato l’idea del libro. Stavo girando Una squadra e raccontavo di quando Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, alla finale di Coppa Davis del 1976 in Cile, indossarono la maglietta rossa per protesta contro la dittatura di Pinochet. Giorgi, naturalmente, quella finale l’avrebbe voluta boicottare. E la sua, di maglietta, l’ha pagata ben più cara».
D’altronde «mi sono sempre esposta, in prima persona, mai nascosta – dice lei. – Ci metto il nome, la faccia, l’anima, per le cause in cui credo. Nell’impegno sociale e nel tennis». Anche quando accade l’impensabile: un pentito («un agente provocatore» precisa) la chiama in causa e Giorgi finisce in carcere, da innocente, per reati di banda armata e tentato sequestro. Resterà detenuta per due anni: un periodo buio, in cui deve far appello a tutta la forza mentale allenata sui campi da tennis per non cedere. «Ho bisogno che il mio fisico batta un colpo, che la fatica mi faccia sentire di nuovo viva». Quando infine viene scarcerata sbotta nel liberatorio «Domani si va al mare» che dà il titolo al libro. «Il mare simboleggia tante cose – dice oggi, lo sguardo lontano – le mie radici, la libertà».
Verranno altre avventure, altri incontri: il matrimonio in Svizzera, dove vive tuttora, per prendere la cittadinanza e allontanarsi dalla giustizia italiana – «Non ho più molta fiducia nei tribunali…» – il lungo viaggio in Sri Lanka dove incontra Podi, «mio figlio», un bambino tamil che la conquista con cinque semplici parole: «Bring me in your country». La spina dorsale di «Monicaccia» resta d’acciaio, lo spirito arguto, il gusto della provocazione vivo, ma il sorriso è dolce. Il terzo set della vita lo sta vincendo a modo suo: servizio, discesa a rete, velocità.
da Pressenza
Bianco. Il colore del lutto, della purezza violata, della resa di fronte all’orrore di tutte le guerre oggi in atto in ogni angolo di un mondo insanguinato dalla violenza. Teli bianchi, sudari improvvisati, avvolgono i corpi straziati di donne, uomini, bambine e bambini.
A Gaza, sono il simbolo muto di uno sterminio che da quasi due anni si consuma sotto i nostri occhi, nell’indifferenza complice di troppi. Sono il segno tangibile di una ferita aperta nel corpo dell’umanità, inferta dalla logica del potere, dal militarismo e dall’odio.
Avvolgere un corpo in un sudario è un atto di cura radicale, una pietas ancestrale che resiste alla barbarie. È un gesto che afferma la dignità inviolabile di ogni essere umano, anche quando il mondo ne svaluta la vita fino all’annientamento.
Come possiamo rendere omaggio e preservare la memoria di 50.000 vite spezzate a Gaza in quasi due anni di assedio, numeri che rischiano di anestetizzare le nostre coscienze? Come possiamo sopportare il pensiero delle sofferenze indicibili in Ucraina, dove la furia militarista distrugge vite e città? Come possiamo ignorare gli infiniti conflitti che insanguinano il nostro pianeta?
Il silenzio complice uccide quanto le bombe. Ma la stessa libertà di informazione, bene prezioso e baluardo contro l’orrore è a rischio se chi racconta la verità sempre più spesso cade vittima della violenza, come la giornalista palestinese Fatima Hassouna, uccisa il mese scorso a Gaza o la giornalista ucraina Victoria Roshchyna, torturata e uccisa per aver documentato l’orrore dell’invasione russa, il cui corpo è stato restituito lo scorso febbraio.
Come femministe, pacifiste e nonviolente, sentiamo l’eco di questo orrore nelle nostre stesse lotte contro la violenza patriarcale in tutte le sue forme. E riconosciamo nel dolore di Gaza il riflesso di un sistema che opprime, sfrutta e distrugge, un sistema intriso di logiche di dominio e di guerra.
Per questo, sabato 24 maggio, il Presidio donne per la pace sarà in piazza Politeama dalle 17.00 alle 19.00 e aderisce convintamente all’appello 24 MAGGIO – 50.000 SUDARI, non un semplice gesto simbolico, ma un atto politico dirompente:
- un atto di memoria e di lutto collettivo, per trasformare il silenzio dell’indifferenza in un coro di voci che onorano le vittime;
- una denuncia radicale del genocidio, per rendere visibile l’orrore che si tenta di nascondere e smascherare la complicità e l’inerzia dei potenti;
- un impegno per la nonviolenza e la pace, per affermare con forza che la vita deve prevalere sulla morte, la cura sulla distruzione.
Ogni telo bianco è un corpo che il mondo non può ignorare. Ogni telo bianco è un grido di giustizia e di pace. Tessiamo insieme una rete di solidarietà che abbracci Gaza e il mondo intero.
UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Governo di Lei – CIF – Le Onde – Arcilesbica – Donne della Comunità dell’Arca – Donne del Movimento nonviolento – Donne del Circolo Laudato si’
da Comune Info
L’articolo di Lea Melandri (Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre) e la lettera al Manifesto di Laura Colombo (Non si fraintenda la differenza sessuale, pensiero in relazione) hanno riaperto questioni di fondamentale importanza su cui penso dovremmo intervenire in molti e in molte. Io vorrei riprenderle sulla base della mia esperienza e delle mie scelte, discusse nel circolo “La Merlettaia di Foggia”.
Non solo ruoli
Un’accusa molto diffusa fatta al patriarcato è di aver ruolizzato le donne e di aver costruito una cultura stereotipata, dando un’immagine spregiativa dell’essere donna. Il noto monologo di Paola Cortellesi sulla differente percezione di alcune parole al femminile e al maschile ne è prova evidente, così alcuni corsi a scuola contro gli stereotipi di genere, come si usa dire, o l’uso e l’abuso che ne fa la pubblicità.
Questa critica è più facile da accogliere perché non apre interrogativi sulle cause, non solleva questioni di fondo: sul piano simbolico si può affrontare con la vecchia arma dell’indignazione morale o dell’ironia a seconda delle situazioni, mentre sul piano politico, pur non precludendo altri sviluppi, ne suggerisce alcuni molto comodi.
La proposta più diffusa è l’invito a lottare, pretendendo la parità. Un esempio: il ruolo di casalinga viene ribaltato se anche gli uomini lavano i piatti e accompagnano i bambini a scuola, come in effetti succede ormai in molte coppie. E giustizia è fatta. E se non è fatta, si tratta solo di insistere in un’ottica di modernizzazione dei costumi. C’è un altro esempio più sottile: se l’uso del nudo femminile viene denunciato come offensivo, basta portare sul mercato anche il nudo maschile. Così parità e inclusione si prendono a braccetto invadendo la lingua e l’immaginario, con buona pace delle analisi che vedono nella rappresentazione del nudo, a fini commerciali, i corpi ridotti a cosa e l’estensione ad altri soggetti come aggravante. Né alcuno sviluppo hanno avuto i coraggiosi tentativi di distinguere erotismo e pornografia, libertà sessuale e uso strumentale dell’altro, prevalentemente della donna, ma, appunto, non cambierebbe niente se fosse di altri. Per inciso, quale educazione sessuale si vuole dare ai e alle giovani se non si riaprono queste questioni con un dibattito sulla sessualità che permetta alle donne di dire la propria esperienza e il proprio desiderio?
Dal punto di vista dei partiti tutti, appare evidente che sono ancora indecisi fra un riconoscimento della differenza femminile sempre in termini di pochezza su cui hanno costruito il carrozzone delle pari opportunità, dal Parlamento ai Comuni, e la proposta di inclusione nelle logiche partitiche, dove essere donna diventa qualcosa da esibire, non espressione di differenza pensata e collegata alla politica delle donne.
Con uno sguardo altrettanto miope, si vede nella maternità solo un ruolo e un destino a cui il patriarcato condannava le donne, cancellando così ogni nesso tra libertà e necessità e non prendendo in alcuna considerazione il desiderio femminile di maternità.
Quando non essere d’accordo è una ricchezza
Grande è il disordine in cui siamo trascinate come seconda metà del cielo! Qui non c’è tempo di approfondire, ma voglio ricordare la Carta delle donne come tentativo di alcune elette nel Parlamento italiano di sottrarsi a questa morsa soffocante e di proporre altro.
Insomma, la radicalità del pensiero femminile genera ancora sordità e paura.
Voglio rispondere attraverso le parole di Pietro Ingrao dette, quando era presidente della Camera dei deputati, a Rossana Rossanda (Le altre, Bompiani 1979). Si sente l’eco della sua cultura nell’uso del termine emancipazione che lui prende dalla tradizione comunista dove emancipazione del proletariato voleva dire far saltare la divisione in classi sociali. Quindi la parola ha ben altro spessore rispetto all’emancipazione come accomodamento nell’ordine esistente, che molta parte del movimento femminista ha criticato lavorando sulla differenza fra emancipazione, liberazione e libertà. Pietro Ingrao: “Affrontare la questione dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio. Se vuoi affrontare davvero il problema donna/lavoro, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente – ecco dove la dimensione diventa diversa – vai ad incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza eccetera. Cioè, una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione dello Stato, tutto il rapporto fra Stato e privato”.
Tante di queste questioni il femminismo della differenza le sta coraggiosamente portando avanti per esempio attraverso il manifesto Sottosopra Immagina che il lavoro discusso in tutta Italia e in molte assemblee sindacali, attraverso la proposta di Autoriforma gentile della scuola che ha tentato di dare parola politica alle molte forme di esperienza libera dell’insegnare che continuano ad esserci e attraverso la rete delle Città vicine nella quale donne e uomini legati al pensiero della differenza danno voce al rapporto con la città e al nostro presente difficile, ma anche ricco di nuove intuizioni.
Dove abbiamo trovato in questi anni la forza di non lasciarci trascinare dalla sordità a cui facevo riferimento prima? Beh, parlo per me e per tantissime di noi con cui ho relazioni politiche, lo abbiamo fatto mantenendo la critica agli stereotipi come traccia, ma cercando il nodo di fondo su cui è stata costruita la cultura patriarcale.
L’ordine simbolico della madre
Così scriveva negli anni ’70 del ’900 Adrienne Rich: «Il rapporto madre-figlio è il rapporto umano fondamentale. Con la creazione della famiglia patriarcale questo nucleo è stato oggetto di violenza. La donna non è stata solo svilita in quello che era il suo pieno significato e la sua piena capacità. Non è stata soltanto rinchiusa entro limiti strettamente definiti. Pur imprigionata e resa inoffensiva in un unico aspetto del suo essere, quello materno, ella resta oggetto di sfiducia, sospetto, misoginia, in forme sia evidenti sia nascoste. E gli organi di riproduzione femminili, la matrice della vita umana, sono diventati uno dei bersagli favoriti della tecnologia patriarcale»(Nato di donna, Garzanti 1977).
In seguito, Luisa Muraro con il saggio L’ordine simbolico della madre ci ha ricordato che ciò che il patriarcato ha temuto, e che ancora si continua a temere, è il significato simbolico contenuto nella esperienza materna. E lì c’è anche una ricchezza, lei diceva. A me viene in mente la mia esperienza come madre e come figlia: obblighi imposti e libertà, desiderio e rischio, dolore e gioia insieme, riconoscimento e paura, amore e rabbia, incrocio di sguardi e tono di voce, bisogno di futuro e garanzie di vita, prime parole date e ricevute, apertura a ciò che il nuovo nato insegna e sollecita dentro chi se ne prende cura, consapevolezza della dipendenza e necessità di nutrire l’indipendenza. Vita simbolica in atto. Come si vede da quanto riesco a dire, è un miscuglio fertile di detto e non detto, di visibile e invisibile che niente ha a che vedere con i codici binari del patriarcato. Molto ha a che vedere con la vita, fuori da ogni schema. E ciò che ho detto non è che uno dei possibili accessi al sapere che quella esperienza dà. In un’altra situazione e con altri interlocutori io per prima direi altre cose.
Quello che non cambia è la sua radicalità, se nell’esperienza madre-figlio/a leggiamo questa vita simbolica, se a questa diamo significato politico e la portiamo nelle nostre relazioni. O lo riconosciamo, laddove si presenta. Se la valorizziamo nella lingua, che è ciò che tutti abbiamo a disposizione per dare forma al mondo.
Certo ricordo un convegno a Pinarella – ero allora giovanissima –, in cui si discusse e si litigò su se la nostra politica dovesse dare o non dare riconoscimento alla relazione con la madre. Non ci furono conclusioni. Ma ormai la questione era aperta.
La genealogia femminile
Sta di fatto che per tantissime di noi indicibile è stata, in questi anni, la gioia di ricercare un riferimento nelle donne che ci hanno preceduto. Ne è nata una passione per la letteratura scritta da donnee una sua rivalutazione che è sotto gli occhi di tutti. E il campo della letteratura e dell’arte sono solo i più evidenti. Tener conto di chi prima di noi l’aveva già detto ha cambiato i parametri della conoscenza e, introducendo la soggettività, lo stesso modo di conoscere. I saperi non sono più gli stessi ed è apparsa la profonda ingiustizia che lo stampo patriarcale aveva loro imposto per esempio nel rapporto con la natura. Così come, tornando alla vita personale come luogo in cui si vedono i cambiamenti del mondo, molte di noi hanno imparato a riconoscere ciascuna la propria madre e a praticare la lingua della gratitudine. Grande è stata la bellezza di scoprire che alle nostre spalle non c’era vuoto simbolico, ma donne che avevano patito la ferita inferta dal patriarcato al rapporto madre /figlia o figlio, e vi avevano posto riparo, come nell’arte giapponese dello Kintsugi, lasciandoci tracce dorate. Sottolineo: non canoni rigidi e chiusi, ma tracce dorate per chi di noi è in una inesauribile ricerca di sé e non vuole chiudersi in gabbie identitarie come può diventare anche il dichiararsi femminista se non è continua ricerca di senso. E nemmeno vuole lasciarsi schiacciare nel nuovo ruolo oppositivo già bello e pronto: una generazione contro l’altra, le donne contro gli uomini, chi ha capito contro chi non ha capito, eccetera.
Quale civiltà
Grazie a questo scarto, politica di relazione, politica del simbolico, politica del desiderio, femminismo della differenza sono equivalenti per dire una politica, come dice una mia cara amica, che mette l’accento su ciò di cui ci sentiamo ricche. È una politica che nessuno può toglierci perché è nelle nostre mani, si nutre delle nostre relazioni e del nostro desiderio per “mettere al mondo” ciò che sogniamo e di cui sentiamo la mancanza.
E in questa soggettività in movimento possiamo cercare insieme quale civiltà vogliamo costruire, donne e uomini con una nuova relazione fra noi e con chiunque si senta coinvolto in questo processo. Ognuno contribuendo con la propria voce al mondo comune.
da il Domani
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiamato a rispondere in parlamento sul funzionamento del braccialetto elettronico, ha invitato le donne a rifugiarsi in una chiesa o in farmacia se allertate dalle forze dell’ordine di una violazione della misura cautelare applicata all’indagato, poiché lo strumento non consentirebbe un intervento immediato ed efficace delle forze dell’ordine.
Queste dichiarazioni non possono essere banalizzate come una semplice gaffe, sono, piuttosto, l’ennesima manifestazione di una profonda ignoranza istituzionale rispetto ai doveri dello Stato in tema di prevenzione e protezione nei casi di violenza di genere, poiché capovolgono, ancora una volta, la responsabilità della protezione e sicurezza e la trasformano in una questione individuale che la singola donna deve gestire meglio che può. Suona l’allarme, le forze dell’ordine ti avvisano, se tu non riesci a metterti in salvo, “te la sei cercata”.
Ancora.
Il sistema
Il sistema delle misure cautelari esiste per prevenire la reiterazione della violenza, e il braccialetto elettronico serve per vigilare sul rispetto delle disposizioni imposte dall’autorità giudiziaria, tuttavia non basta attivarlo, ma servono risorse, personale formato, protocolli chiari, investimenti strutturali. Serve soprattutto la consapevolezza politica che la protezione dell’incolumità delle donne che denunciano violenza di genere non può consistere nell’invito a “trovare rifugio” in una farmacia o in una chiesa, così come non si esaurisce nella previsione astratta di misure cautelari o di supporto:
come ha più volte ribadito la Corte europea dei diritti umani, gli obblighi di protezione che vincolano lo stato nei casi di violenza di genere impongono un intervento concreto, tempestivo ed efficace. Pensare che una donna debba scappare in un luogo sacro per proteggersi dalla violenza dopo aver denunciato e ottenuto una misura cautelare significa ammettere che lo Stato non è in grado di garantire l’effettività dei suoi provvedimenti.
Un diritto
Come femministe e come operatrici dei centri antiviolenza, per prevenzione, protezione e sicurezza intendiamo una pratica politica da risignificarsi costantemente alla luce dell’esperienza delle donne accolte nei centri e nelle case rifugio. La prevenzione non è prescrivere alle donne come comportarsi per evitare la violenza, ma riconoscere le radici culturali, giuridiche e sociali della violenza stessa. Non può essere uno sforzo predittivo che ricade sulla responsabilità individuale della donna, né può ridursi alla retorica del “doveva denunciare prima” oppure “nasconditi dove puoi”. La protezione, invece, è un diritto. Non è un gesto caritatevole, né una limitazione della libertà della donna, ma l’accesso a spazi abitabili, sicuri e temporanei, dove il tempo della relazione con sé e con le altre consente la riprogettazione della propria vita.
Infine, la sicurezza è quella costruita dalla comunità. Una sicurezza sociale, relazionale e condivisa, poiché la collettività si assume la responsabilità di riconoscere la violenza come un problema che riguarda tutte e tutti.
Chiedere alle donne di nascondersi è il contrario della prevenzione, della protezione e della sicurezza ed è offensivo per le donne che denunciano, per i saperi di chi lavora nei centri antiviolenza e per chi ogni giorno costruisce spazi reali di libertà. Il compito della politica e delle istituzioni è garantire che gli istituti giuridici e gli strumenti esistenti nell’ordinamento non siano solo un manifesto, ma un sistema coerente e funzionante, capace di gestire interventi tempestivi e concreti, in linea con gli obblighi positivi della Convenzione di Istanbul e che vincolano lo Stato a prevenire la violenza di genere e a proteggere effettivamente la vita e i diritti delle donne.
Che cosa spinge l’artista afghana Shamsia Hassani, a rischio della vita, a denunciare con i suoi murales le prepotenze e le violenze perpetrate soprattutto contro le donne in Afghanistan? Che cosa spinge l’artista Banksy a usare la sua arte per attirare l’attenzione sulla crisi dei rifugiati e sulle guerre? Che cosa spinge l’artista e attivista cinese Ai Weiwei a sostenere i diritti umani negati dal governo cinese? Che cosa spinge Ruggero Maggi, con i suoi libri d’artista, performance, mail art, a sposare e sostenere la causa del Tibet libero? Che cosa stimola l’agire per portare pace, occuparsi dell’ambiente, preservare i paesi pensando alle generazioni future, ma anche alle presenti per poter continuare a guardare e godere della bellezza della natura? Sono domande che la critica d’arte Katia Ricci qualche giorno fa ha posto all’inaugurazione a Foggia della mostra di mail art, coordinata da lei e organizzata dal circolo La Merlettaia e dalla rete delle Città Vicine. È l’amore per «un mondo più giusto, per i deboli, per il lavoro, per le alterità, per l’ambiente, per la pace. L’amore come sentimento, che diventa una forza politica che può trasformare la società, che contrasta la cultura della prevaricazione, del dominio e fa sperare nel futuro, l’amore che crea unione come la rete di Indra, interconnessa con l’universo, secondo un’antica metafora buddista». È questa la risposta che Ricci ha dato e che sta tutta nel titolo della mostra stessa, “Amore e/è politica” una politica che non guarda al potere, al dominio e alla forza, ma all’amore per il mondo da salvaguardare e di cui prendersi cura, all’ amore per la vita, per gli esseri umani, per la pace, le relazioni, il dialogo, lo scambio di idee, sentimenti, pensieri. «Perché amore e/è politica – si legge nel video sulla mostra realizzato da Maria Rosaria Campanella –, amore è energia trasformativa nell’accoglienza, nell’apertura all’altro, nella cura dell’ambiente, nella ricerca della pace. Tutto questo è politica». È politica delle donne, è femminismo che nasce dall’amore femminile per la madre, per le donne e che spinge, da tredici anni, Katia Ricci a coordinare mostre di mail art e invitare artiste/i, donne e uomini comuni, con cui nascono relazioni, a parteciparvi con opere, pensieri, idee che viaggiano attraverso la posta. È dall’amore delle loro insegnanti che nascono i lavori, che parlano di amore e di pace, di bambine/i di alcune scuole di Foggia e giovani dell’Accademia dell’Arte. Come dall’amore della loro maestra d’arte, la pittrice Ornella Cicuto, e delle sue allieve nascono i lavori, inviati per posta, di ragazze/i “speciali” de “La fabbrica dei Sogni” di Catanzaro. Anche Cicuto, la sua allieva Rosanna Macrillò e l’artista catanzarese Paola Quattrone hanno inviato loro opere. È l’amore che diventa politica che sta all’’origine stessa della mail art, una pratica artistica diffusasi agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, nelle due Americhe. «Mentre i nordamericani – scrive Katia Ricci in un suo articolo – si ribellarono al conformismo, ai critici delle gallerie e alle istituzioni, i latinoamericani invece si opposero ai propri regimi repressivi», come fecero, poi, anche gli artisti perseguitati nell’Europa dell’Est. Dal 1975 al ’79 alcune donne in tutto il mondo «iniziarono a inviarsi piccole opere d’arte con l’intento di unire aspetti del privato domestico e personale con il politico e il sociale». La mail art, da allora, continua a viaggiare per tutto il mondo e a Foggia sono centinaia le cartoline arrivate per la mostra, che dal 31 maggio in poi diventerà itinerante. Tra qualche giorno sarò dalle mie amiche di Foggia e la mostra si integrerà con la presentazione del libro “Femminismo mon amour” della Libreria delle donne di Milano.
da il manifesto
Le fotografie di Fatma Hassouna esposte in diversi luoghi di Cannes – fra cui il Padiglione della Palestina – ci raccontano Gaza le sue macerie, il suo dolore, quel genocidio quotidiano rispetto al quale finalmente, e anche grazie a lei, sembra che stia nascendo una diversa consapevolezza, o almeno ci sia una presa di parola. La narrazione cambia? Speriamo. Sulla Croisette il film di cui la giovane fotografa e giornalista palestinese uccisa a Gaza insieme a tutta la sua famiglia dalle bombe israeliane è protagonista è stato il punto di partenza per una reazione. Non sul Red carpet militarizzato ma nelle parole della serata di apertura dette dalla presidente di giuria Juliette Binoche, con la tribuna firmata da tantissime artiste e artisti e pubblicata il giorno di apertura del Festival perché il genocidio si fermi, nella decisione di altri festival che si sono impegnati a far circolare questo film (Venezia, Locarno, Nyon) per rompere il silenzio, nell’emozione del pubblico che ha affollato le proiezioni (molto controllate dal punto di vista della sicurezza) sempre sold out.
Put Your Soul on Your Hand and Walk – nella selezione di Acid – inizia dalla necessità dell’autrice, la regista iraniana ma esiliata a Parigi Sepideh Farsi di documentare la guerra a Gaza, un gesto contro il silenzio e contro quella disumanizzazione dei palestinesi nel racconto di vittime senza nomi e senza storie. Il 16 aprile, quando Fatem come la chiamavano gli amici è morta – ce lo ricordano i due cartelli all’inizio – è divenuto un’altra cosa, un archivio della sua resistenza che si amplifica e fa risuonare ancora più forte la sua battaglia, quell’essere lì e continuare a testimoniare la brutalità dell’esercito israeliano – che infatti uccide i giornalisti perché il mondo non veda.
Nelle conversazioni a distanza su zoom fra lei e Sepideh Farsi si afferma dunque una parola che è anch’essa negata, e l’immagine nel film di Fatem viva, persistente, ci parla di ciò che i nostri governi continuano a ignorare e che oggi non può più esserlo perché questa complicità sbriciola ogni senso della democrazia. Fatem è lì nella sua urgenza, e con lei ci sono gli abitanti di Gaza anche se fuori dallo schermo, la loro esperienza quotidiana di fatica, paura, tristezza, fame, rabbia, dolore. Sepideh Farsi aveva avuto il contatto di Fatma Hassouna quando era al Cairo, da dove aveva provato inutilmente a entrare a Rafah. Le due donne portano avanti questa conversazione per mesi, la ragazza appena iniziata l’aggressione israeliana, dopo i massacri del 7 ottobre, inizia a raccogliere immagini, documenta, cerca di mantenere una memoria dei luoghi, dei suoi abitanti, di quel quartiere dove vive e degli altri che giorno dopo giorno vengono distrutti, delle persone sono costrette a fuggire, che muoiono inghiottite dalla polvere come già diversi fra i suoi famigliari: adulti, bambini, anziani, una popolazione.
Sullo schermoai loro volti si sovrappongono alcune immagini di Fatem, ma sono soprattutto le sue parole, poesie, racconti precisi, stati d’animo che danno il senso dei sentimenti e della realtà. Fatma che vorrebbe viaggiare ma come dice non lascerà mai la Palestina e tantomeno ora, con un genocidio in atto, il suo compito è rimanere in quella terra, resistere, come hanno fatto da sempre, da quando un altro paese si è arrogato il diritto di distruggerli. I giorni passano, le immagini si sovrappongono, gli schermi si moltiplicano; la linea a volte cade, le connessioni sono difficili, Israele cerca con ogni mezzo di isolare Gaza dal mondo.
L’assedioè sempre più duro, le parole di Fatma ne sfidano la ferocia con la loro gioia, altre volte invece appare distratta, la fame aumenta, gli aiuti sono bloccati. Il telefono riprende a volte la regista rifilma con una piccola camera. Fatma si alza e apre al suo gatto, ascolta qualcuno nella stanza accanto: cosa dire? Come continuare? La stanchezza si fa più forte, come la violenza, la morte. Eppure lei continua a tenere aperta questa finestra – attraverso la quale far uscire l’orrore che accade, è una crepa, e un documento che ci parla e ci interroga, a volte nello sconforto, più spesso col sorriso. «È difficile, molto» ripete allargando l’immagine in quella stanza, da cui sul suo volto appare l’esterno i gesti, il tono della voce anche quando cerca di mascherare rivelano ciò che è fuoricampo, che le sue fotografie hanno fermato oltre il tempo. Lo portano dentro con forza, lo fanno tangibile. Lei ora non c’è più ma c’è la sua immagine, la stessa di migliaia e migliaia di palestinesi uccisi, questa è anche la loro storia, e ci dice che tacere non è più permesso.
Contributo al convegno delle Città Vicine “Testimoniare il male senza dimenticare il bene”, Milano, 17-18 maggio 2025. Nell’ambito delle iniziative per i 50 anni della Libreria delle donne
Come non soggiacere alla desolazione che si insinua sempre più in profondità, alla tristezza che sembra non lasciare scampo, al senso di angoscia e di prostrazione che attanaglia dinanzi agli orrori del presente in aree del mondo più o meno conosciute? Penso in particolare alle e ai palestinesi, ma anche alle e ai sudanesi, siriani, alle e agli afghani, haithiani, e così via, vale a dire a tutti i popoli mendicanti, «quelli che vivono ai margini […], quelli che fanno la storia come i malati fanno la malattia», quelli che «sopravvivono davanti ai Muri, vecchi trucchi costruiti alla fine di ogni guerra, in strisce di sabbia e di roccia, luoghi forse un tempo ameni, dove c’erano alberi e acqua, chissà, forse ma chi ne ha memoria? E oggi c’è polvere o fango a seconda delle stagioni, o magari solo polvere e fango perché perfino le stagioni con i loro labili segni sono fuggite via. I popoli mendicanti sono quelli che sono stati ridotti nel confine più drastico che esista, quello della assoluta inutilità. In terre incognite ricavate a ridosso di frontiere che sfumano nel Nulla» – così denunciava due anni fa Domenico Quirico con parole tuttora inscalfibili.
Davanti a queste tragedie, davanti a una ferocia che instilla un catastrofismo senza sbocchi il rischio è l’impietrimento o ancor peggio il sopraggiungere della mutezza. Si può nondimeno sfuggirvi, bisogna solo apprendere a stare nel patimento ma senza rintanarvisi, a schiarire l’orizzonte di senso nella consapevolezza che esistono leggi di un ordine estraneo al dominio economico e all’esercizio della forza sulle e sui deboli. Esse soltanto permettono d’imprigionare ciò che ottunde mente e cuore, ciò che risulta insondabile e atroce in condizioni di pace così come nel buio senza fine che è ogni guerra.
Apprendere simili leggi, ovvero fare propria la qualità estetica insita come possibilità altra di esistenza nel vivere, riconduce alla calma, dà voce ed espressione al dolore mediante la distanza che scaturisce dal nostro stesso doloroso silenzio, come suggerisce Anna Maria Ortese in quel capolavoro che è Corpo celeste, e rende tutte/i liberi di respirare e di creare. Apprendere simili leggi equivale a guardare una sventura senza indietreggiare, arrestandosi, così come si guarda un fiore o un frutto senza tendere la mano, fermandosi, in altre parole equivale a «trasfigurare la sensibilità mediante l’illuminazione dell’universale», un insegnamento che dobbiamo a Simone Weil. Si tratta di vivere trasformando «ogni dolore, ogni sventura subita (e che si vede subire – e che s’infligge) in sentimento della miseria umana», un sentimento affine a quello del bello. Infatti il dolore, al pari della gioia, non ammala ma avvia un mutamento nel proprio intimo che educa a non distogliere gli occhi, educa a patire e sopportare ciò che è amaro in quanto amaro e di un’amarezza senza consolazione.
Ma noi siamo corpo – «corpo vivente (che nasce, cresce, invecchia e muore), sessuato (che si riproduce incrociandosi con un altro umano di sesso differente), senziente, desiderante e parlante […] non ci definiamo con l’avere, ma con l’essere», e in quanto tali «siamo profondamente uguali, perché le differenze che siamo non rompono l’essere, non lo fanno in tanti pezzi di diverso valore», secondo il pensiero della differenza traslato da Luisa Muraro.
E dato che siamo corpo, nasciamo in una condizione di vulnerabilità e in effetti ne abbiamo a tratti percezione, ma del nostro essere vulnerabili e bisognosi di continue cure amorevoli, del nostro nascere nudi e pertanto soggetti a ogni possibile ferita, della nostra finitezza umana non vogliamo avere consapevolezza, perché è una verità che fa paura e perché ci rende vulnerabili «alle ferite di ogni carne, senza eccezione, come a quelle della propria carne, né più né meno. Ad ogni morte come alla propria morte» (Simone Weil).
Si tratta infatti di una verità sulla condizione umana che non solo permetterebbe di cogliere ciò che condividiamo in quanto viventi – ovvero la vulnerabilità e l’esposizione alla sventura– e quindi di limitare la nostra tendenza a sopraffare l’altro/a, ma anche di essere attraversati dallo sguardo di chiunque giaccia abbandonato/a sul ciglio di una strada o in un androne o tra le rovine di una guerra e percepirne il muto lamento che sgorga dall’umiliazione, dall’offesa, dalla violenza: perché mi offendi? perché mi opprimi? perché mi uccidi? Ogni volta che sgomberiamo dal cuore e dalla mente le illusioni e fantasticherie che inducono all’onnipotenza avvertiamo in questo lamento emesso da un mucchietto di carne non solo l’efferatezza dell’ingiustizia che lo ha colpito ma anche l’aspettativa di bene che lo strazia. Ne consegue allora che non possiamo fare altro che accettare la sua esistenza non come cosa sotto un’etichetta – l’etichetta di sventurato/a, profugo/a, migrante… – ma come essere altro da noi e tale e quale noi. E non possiamo fare altro che rendergli giustizia. In che modo? prestandogli soccorso, vestendolo se è necessario, nutrendolo se ha fame, andando incontro ai suoi bisogni, come vesto o nutro me stessa, come rispondo ai miei bisogni. L’inclinazione a soccorrere gli altri non deve essere esaltata o decantata, essa va semplicemente esercitata.
Ma quando è in gioco l’esistenza di un intero popolo? E torno alla questione posta all’inizio da Quirico, e che appare senza possibilità di soluzione. Pensiamo a ciò che sta accadendo al popolo palestinese, una tragedia che si svolge sotto i nostri occhi e che a noi che viviamo lontano dai luoghi del massacro che è la forma più radicale di oppressione (Simone Weil), dai luoghi dell’umanità violata (Roberta De Monticelli) impone di stare, sostare in una sorta di vertigine, fra l’ammirazione nei riguardi dei gesti di un eroismo senza crudeltà compiuti in un paesaggio di rovine – gesti che svegliano la nostra sensibilità e di cui a noi arriva a sprazzi l’eco e il dolore –, e il lutto per le morti e ferite inflitte alle/agli inermi, per le stragi di tutti gli esseri viventi, per la distruzione perpetrata con crudeltà sadica nei confronti di case, scuole, università, ospedali, biblioteche… in violazione del più elementare spirito di giustizia. Come ci si può sostenere in questa vertigine e come si può sfuggire alla rete dell’irrealtà che ci assedia da ogni parte e rimanere ancorate/i alla realtà?
In un riassetto del mondo corrispondente all’instaurarsi di un nuovo ordine mondiale determinato dai dispositivi economici delle multinazionali, dalla sorveglianza esercitata dalle nuove tecnologie, dalla repressione di ogni forma di dissenso da parte di Stati sempre più centralizzati bisognerà forse tornare anzitutto ad ascoltare le proprie necessità interiori se desideriamo per davvero ridare luce e slancio al vivere e al convivere e quindi con altre/i avanzare nella ricerca di visioni che contemplino sì ammirazione per il bene che traluce dalla giustezza di mediazioni viventi – concepite dalle donne per amore del mondo e che sovvertono la logica dominante della forza –, ma senza cancellare che solo nell’ambito spirituale ogni bene produce il bene.
Dalla politica delle donne e con le donne ho imparato che le pratiche delle mediazioni non elaborano né sono «progetti che negano la realtà così com’è per disegnare un futuro immaginato in precedenza, applicando utopie per cambiare la realtà»; si tratta invece di processi aperti nel presente «visto come un divenire, nel quale la propria azione è orientata da qualche cosa che non sappiamo, non sapremmo dire, ma che sentiamo che ci vincola nello scegliere via via l’atto giusto, vero» (Chiara Zamboni). È un sentire in modo lucido – sentire e non solo sapere – che nello scorrere della vita quotidiana ogni trasformazione si dà in risonanza interattiva con i mutamenti interiori, con i mutamenti esterni nel mondo e con i mutamenti connessi all’incessante fluire del tutto nell’universo nel quale siamo immerse/i. Da questo sentire in modo lucido scaturiscono le azioni simboliche inedite che riuniscono bellezza, verità e giustizia e che contribuiscono a ricreare non solo il vivere di ciascuna/o ma altresì il convivere.
Video del dibattito a Milano su “No Other Land” con Davide Lerner, Najati Alrabi, Stefano Levi Della Torre, Widad Tamimi, Noga Kadman, Khader Tamimi, Ali Rashid, Gad Lerner, Sarah Mustafa e altri. Pochi giorni dopo questo evento abbiamo ricevuto la notizia della morte di Ali Rashid, presenza preziosa al nostro incontro del 9 maggio 2025. Ci uniamo al dolore dei familiari, degli amici e della comunità palestinese per questa dolorosa e improvvisa perdita. Attivista per la pace e riferimento per chi lotta per la giustizia sociale, ci mancherà molto, ma ricorderemo sempre le sue parole, che potrete riascoltare qui.
Questo articolo mostra una realtà cruda e disarmante perché fa vedere un odio abnorme, che rivela una profonda incapacità di stare nella relazione, una paura della differenza e della libertà dell’altra.
Tra donne e uomini si è raggiunta una certa parità, e di questo parla la politica. Ma non basta. Il paradosso nordico citato nell’articolo lo mostra chiaramente: anche nei Paesi dove l’uguaglianza formale è avanzata, la violenza maschile non diminuisce. Anzi. Perché il punto non è solo giuridico, ma simbolico.
Troppi uomini non riescono ad accettare la donna come soggetto, la vorrebbero ancora oggetto disponibile, come nei “bei tempi andati”, come si può leggere.
Gli esperti, si legge, pensano che questa emergenza sia affrontabile con la terapia e l’allontanamento dalla realtà virtuale. In realtà cosa manca? Manca il senso libero della differenza, ingrediente che dà gusto alla relazione con l’altra, che rende possibile uno scambio reale tra soggetti autonomi.
(La Redazione del sito)
I “celibi involontari” erano una piccola subcultura del web. Ma con i social fanno proseliti scaricando la loro rabbia contro il sesso femminile, “colpevole” della loro infelicità.
Nel 2025 la società è peggiorata tantissimo sotto ogni aspetto, incluso quello del dating. Per gli uomini è diventato sempre più difficile essere attraenti per una donna e avere una relazione». Nel parlare con chi si definisce incel si entra in una realtà immutabile e radicale, dove l’incel subisce e deve solo accettarlo. Perché così tanti ragazzi oggi si dicono incel? «Perché le cose così stanno. C’è chi sta messo come me, chi peggio, sono milioni». Ne parla C., un ventenne che non ha mai avuto una relazione. Da quella chat, di un social utilizzato da milioni di giovani, trapassa solo sconforto.
Fino a qualche anno fa in Italia quella degli incel, i celibi involontari, persone che “subiscono” la solitudine relazionale, era una condizione pressoché sconosciuta, rilegata ad alcuni blog o forum specifici e non ancora diventata mainstream, anche se Oltreoceano affonda le radici negli anni duemila. Dagli angoli circoscritti del web, è ora tema attuale e sembra aver dato vita a un “nuovo maschilismo”. E questo nasce ben prima che la serie “Adolescence” arrivasse al pubblico.
Gli incel, l’ideologia redpill e altri temi della manosphera, hanno agganciato i giovani della gen Z e Alpha, ma anche qualche millennial, radicalizzandoli (anche se non tutti si definiscono incel o redpill) attraverso una propaganda subdola, non da canali sotterranei, ma da profili rivestiti di una certa istituzionalità: “esperti”, professori, avvocati, studiosi, anche giornalisti. Con un finto velo di buon senso hanno gettato online le idee dei gruppi di maschilisti: «Mi sono avvicinato alla realtà incel per via di un tiktoker che ne parla in chiave personale, ma in maniera molto analitica, razionale, atipica, mi sono ritrovato un sacco nelle sue parole. Prima pensavo fosse tutto estremizzato, salvo poi capire che tutto trova riscontro nella realtà», confida un utente dietro a un nick, 22 anni, un KV, un kissless virgin, che non ha mai baciato e fatto sesso. L’algoritmo poi propone contenuti sempre uguali, rafforzando quello che in sociologia si chiama “pregiudizio di conferma”: si presta più attenzione a ciò che conferma il nostro sentire, ignorando cosa lo smentisce.
Di profili di propaganda sessista ce ne sono a decine su TikTok e Instagram: fanno migliaia di visualizzazioni e interazioni, per questol’algoritmo li spinge. In questi profili si usano argomentazioni illogiche, manipolate o false. Ad esempio che ci siano migliaia di false accuse di stupro, centinaia di padri rovinati da madri approfittatrici, che siano le donne le vere violente nelle relazioni, che si ingigantiscano i femminicidi nascondendo i “maschicidi”. Le donne godrebbero di un impianto di leggi che le avvantaggia e che riguarda il pagamento degli alimenti, l’aborto, l’obbligo di riconoscimento di paternità. E c’è chi sfrutta queste debolezze vendendo corsi su come conquistare una donna. «Sono diventato misogino attraverso Internet, quello che mi ha colpito di più è stato il rumore incel, dopo migliaia di ore di ricerche e pensieri invadenti, ora vedo i sessi su due piani completamente diversi, come posso cambiare?», chiede un giovane di 21 anni su Reddit durante la pandemia. Perché sono due i momenti chiave: il Covid e l’isolamento e l’uccisione di Giulia Cecchettin: “Free Turetta”, il nuovo incel.
I dogmi del credo
Dipingere una realtà semplice e fatta di pochi fondamentali dogmi è essenziale. Tutto ricade proprio sulle donne, perché da lì deriva la condizione incel e da lì si costruisce l’ideologia redpill (prendere la pillola rossa di matrixiana memoria e vedere la realtà com’è veramente). L’incel è sofferente, prova un grande senso di ingiustizia: per le donne si soffre, si va in depressione, si commette suicidio. Per questo, è logico anche eliminarle.
I messaggi violenti nei gruppi Telegram non sono difficili da trovare: “Fare stragi non è una soluzione, ma l’unica opzione”, “La gente seria era Elliot Rodger”, si legge su un gruppo redpill. Nel 2014 Rodger uccise sei persone, si definiva incel. Nel 2018, il canadese Alek Minassian assassinò dieci persone: «La ribellione incel è già iniziata», aveva scritto su Facebook. Nel 2021 si arrivò all’arresto di Andrea Cavalleri, 23 anni, un incel di Savona che aveva il desiderio di fare una strage a un corteo femminista: «Le donne sono senza sentimenti, bambole di carne da sterminare». Negli Stati Uniti, ma anche in Europa, il movimento è spesso classificato come terrorismo.
I fondamenti della teoria red pill sono ora argomento di discussione tra giovani: le donne detengono il potere sessuale, sono ipergamiche, la regola 80/20 (per cui l’80 per cento delle donne sceglie tra un bacino del 20 per cento degli uomini, regola data dall’esperienza di dating online e trasportata nella realtà come tale): «Quale dating, vorrei davvero sapere chi riesce a cavarci qualcosa. Un like/match ogni tre mesi con conseguente ghosting al primo messaggio», spiega N a L’Espresso. Le donne sono “non persone”, np, di loro si parla come funzione, mai come soggetti. Se hanno sentimenti sono solo negativi: egoiste e sfruttatrici di uomini. Esistono anche “basi scientifiche”, a giustificazione: il bell’aspetto, calcolato minuziosamente, con fenotipi, ma anche status e ricchezza, la regola LMS: look, money, status.
Questi giovani uomini cercano risposte al disagio e centinaia di podcast che fanno l’occhiolino alla manosphera sono pronti a colmarlo. L’ego maschile ferito non mette in discussione la mascolinità, come il femminismo suggerisce, ma cerca conferme e le trova in un’ideologia che non migliora chi vi aderisce, ma lo rilega all’inferiorità.
Un nuovo maschilismo
E tutto questo si traduce in altro. A oggi si conferma un divario politico di genere sempre maggiore: le donne sempre più a sinistra e gli uomini sempre più a destra, per la prima volta più a destra dei propri nonni e padri. Gli esperti la leggono come una ribellione dell’egualitarismo di genere e lo confermano i risultati elettorali statunitensi e tedeschi, ma anche di Spagna e Italia. Sempre più uomini percepiscono un forte sessismo anti-maschile, confermano alcuni studi. Il “nazifemminismo”è andato troppo oltre: «Il patriarcato non esiste, siamo noi le vere vittime», dicono i giovani online. Anche quando si potrebbero portare problemi reali, come i morti sul lavoro o i suicidi maschili, è fatto per sminuire quelli delle donne. Uno studio Ue sugli incel del 2021 ci pone al quarto posto per misoginia. I picchi d’odio poi si raggiungono con i femminicidi, com’è avvenuto nei giorni successivi all’uccisione di Sara Campanella e Ilaria Sula.
Molti giovani uomini hanno la sensazione che i diritti delle donne si espandano a spese loro: «Le donne ricevono sussidi e vanno in pensione prima, è sessismo», spiega un guru su TikTok. La resistenza al femminismo non è cosa nuova, c’è il cosiddetto paradosso nordico: Paesi dove la parità di genere è maggiore, ma in cui ci sono più femminicidi e si registrano più maltrattamenti domestici. Sempre più donne sono economicamente indipendenti: «Per questo ci saranno sempre più uomini vergini fino ai 25 anni», confida a L’Espresso un giovane ventenne che non ha mai fatto sesso e vuole trovare una partner senza esperienze. Si sta diffondendo quella che viene chiamata “l’epidemia di solitudine maschile”: il numero dei single è vertiginosamente aumentato, ma numeri simili riguardano anche le donne. Eppure si urla all’epidemia solo per i maschi.
E c’è chi rimpiange i “bei tempi andati”: molti radicalizzati sognano i matrimoni combinati, guardano a Iran e Afghanistan come Paesi virtuosi; altri spingono a cercare partner in “Paesi tradizionali”: «Prendiamo le Filippine, lì le donne non hanno pretese, non sono acide come le italiane», disquisisce un incel in una diretta TikTok. Per l’accesso al sesso «meglio pagare una prostituta, che tanto le donne libere costano anche di più», ma c’è chi propone i bordelli di Stato: «Posti in cui l’accesso al sesso per gli uomini è garantito almeno una volta al giorno, un servizio per evitare uomini frustrati e donne uccise». Fino ad allora lo stupro è giustificato, è un male necessario.
I partiti conservatori denunciano l’evirazione dell’uomo da parte del femminismo. Ma parlando con i giovani online emerge altro. Sotto uno strato di insulti e rabbia, molti incel si confidano: «Non provo odio, invidio le donne, loro sono avvantaggiate a trovare un partner», «Non ho prospettive, sono depresso e lo accetto», «Non confido nel miglioramento, ancora meno con i tempi che corrono», «Non so come conoscere ragazze nuove, sono bloccato». Chi studia il fenomeno ha riscontrato ansia, isolamento e depressione, tutto affrontabile con la terapia e un bagno di realtà, alla ricerca di un’identità fuori dall’online.
(L’Espresso, 13 maggio 2025)
da Il Tascabile
È l’8 agosto 1589 e Crezia Mariani è appena stata condannata a morte per stregoneria. Siamo nella Lucca rinascimentale: una città-stato prospera e laica, dalla florida economia mercantile, con palazzi in pietra e marmo che si innalzano nella luce dorata dell’estate toscana. Niente a che vedere con le cupe atmosfere in stile Il nome della rosa che popolano il nostro immaginario quando pensiamo alla caccia alle streghe. Tutto era cominciato quasi come una formalità, durante una delle inchieste che il governo cittadino conduceva periodicamente contro le cosiddette “malie d’amore”: istruttorie che si concludevano quasi sempre con sanzioni leggere, volte a punire quelli che le autorità consideravano per lo più come “affari di donnicciole sentimentali”.
Nel caso di Crezia però le cose erano andate diversamente: era una donna anziana, vedova e povera – condizioni che per molti rappresentavano già una colpa – ma soprattutto era una guaritrice. Curava le persone con erbe e formule propiziatorie, custode di una tradizione empirica tramandata di generazione in generazione attraverso una rete di conoscenze condivise. E questo, nella sedicente epoca d’oro del Rinascimento toscano, era un problema: si stava infatti consolidando un curioso sodalizio tra la Chiesa della Controriforma, chiamata a serrare i ranghi contro ogni manifestazione di possibile eresia, e la nuova classe professionale dei medici accademici, ansiosi di assicurarsi il monopolio corporativo. Il risultato fu la persecuzione di tutte quelle figure professionali – soprattutto femminili – che da secoli si sporcavano le mani alleviando concretamente le pene dei malati: cerusici, norcini, barbieri e, soprattutto, levatrici.
Spostare il nostro sguardo evolutivo
La figura della levatrice è, con ogni probabilità, molto più antica di quanto immaginiamo, e la sua importanza è stata radicalmente sottovalutata, anche dal punto di vista evolutivo. Quattrocentotrentacinque anni dopo la condanna di Crezia, Cat Bohannon, ricercatrice presso la Columbia University, nel suo saggio Eva. Come il corpo femminile ha plasmato l’evoluzione umana (2024) si interroga su una questione apparentemente provocatoria: «Qual è stata l’invenzione più decisiva nella storia dell’umanità? La ruota, la lancia, internet?» La risposta che propone è sorprendente nella sua evidenza: la ginecologia, con il suo corredo di ostetricia, baliatico e assistenza prenatale. Proprio quelle pratiche che donne come Crezia Mariani portavano avanti a rischio della vita, mentre il sapere medico ufficiale ancora brancolava nel buio.
Chiunque abbia idea di quanto sia difficile per gli esseri umani partorire rispetto agli altri mammiferi non può che essere d’accordo. Lo spiega il genetista Guido Barbujani, tentando di chiarire come l’evoluzione proceda più per accomodamenti che per soluzioni ottimali. Col passaggio alla stazione eretta, la colonna vertebrale ha subito modifiche che hanno reso la distribuzione dei pesi più complessa, causando i mal di schiena, le ernie al disco e i torcicolli che tutti conosciamo. Ma «il conto più salato», scrive Barbujani in Il giro del mondo in sei milioni di anni (2018) «l’hanno pagato le donne. Il cambiamento di forma del bacino col passaggio alla stazione eretta costringe la nostra specie a un parto molto complicato, […] di regola, le donne hanno bisogno di assistenza per partorire. In confronto, per gorilla e scimpanzé è uno scherzo».
Tra bacini stretti, teste sovradimensionate, bambini bisognosi e fragili – senza contare una gravidanza, un parto e una ripresa post partum lunghi e laboriosi – è evidente che senza ingegno, e soprattutto senza cooperazione, saremmo spariti dall’Africa preistorica senza lasciare più di qualche fossile. «Forse l’evoluzione», scrive Bohannon, «ricorda in qualche modo il film Magnolia di Paul Thomas Anderson o Crash di Paul Haggis o anche Babel di Alejandro Iñárritu. Non è possibile capirli a fondo a meno di non prestare molta attenzione a più di un protagonista alla volta». Da qui la necessità di un racconto delle origini che tenga conto di una prospettiva finora ignorata.
Bohannon ci invita a immaginare un incipit alternativo a 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Non più la celebre sequenza “dall’osso-clava all’astronave”, con l’ominide maschio che scopre come uccidere e dominare. Al suo posto, un’altra scena: un piccolo gruppo di ominidi, maschi e femmine, adulti e bambini, tra cui una femmina in avanzato stato di gravidanza, che trova in una compagna più anziana un sostegno e una muta alleanza. Il bambino nasce, piccolo e fragile come tutti i neonati umani, e viene immediatamente sollevato, ripulito e attaccato al seno. È in scene di questo tipo che si nasconde il vero balzo evolutivo della nostra specie: la cooperazione che ha permesso la sopravvivenza collettiva.
Una cooperazione fondamentale anche dopo il parto, perché a differenza degli altri primati, i cuccioli umani completano il loro sviluppo neurologico fuori dal grembo materno, secondo la “strategia dell’altricialità secondaria”. Questa peculiarità evolutiva, che permette al cervello di continuare a crescere senza i vincoli del canale del parto, crea però una dipendenza prolungata che rende impossibile la sopravvivenza senza una fitta rete di cure. Come evidenzia Bohannon, questa caratteristica ha plasmato non solo la biologia umana, ma anche le nostre strutture sociali fondamentali, rendendo la cooperazione non un’opzione, ma una necessità evolutiva.
La complessità dell’evoluzione umana va ben oltre le dinamiche del parto e dell’allevamento dei piccoli. Nel ribaltare la narrativa tradizionale, Bohannon propone un’altra provocazione: le abilità tecnologiche umane potrebbero avere origini diverse da quelle comunemente immaginate. L’autrice suggerisce che furono probabilmente le femmine a sviluppare per prime l’uso sistematico di strumenti, spinte non dalla caccia ma dalle esigenze quotidiane di raccolta, conservazione e trasporto del cibo per sé e per la prole. «La donna è un MacGyver meno trionfante e più impaurito», scrive Bohannon, sottolineando come l’innovazione nasca spesso dalla necessità di risolvere problemi immediati piuttosto che da impulsi di dominio. In quest’ottica, la tecnologia emergerebbe non tanto come estensione della forza, ma come amplificazione dell’intelligenza pratica e della capacità di adattamento.
Ma Bohannon va oltre, suggerendo che anche gli strumenti di caccia potrebbero avere avuto un’origine femminile. A supporto di questa ipotesi, cita uno studio del 2007 condotto da Jill Pruetz e Paco Bertolani, che hanno documentato come gli scimpanzé femmine nel Senegal sud-orientale modifichino rami con i denti per creare lance rudimentali. Quando gli scimpanzé maschi vanno a caccia, il loro corpo più grande e forte è spesso un’arma sufficiente. Le femmine, gravate dal peso dei piccoli e dalla responsabilità del loro nutrimento, hanno invece sviluppato strategie più complesse e collaborazioni più stabili.
La norma maschile
Come un fotografo che inquadra ostinatamente solo un lato del paesaggio, la scienza ha sviluppato una curiosa miopia di genere. E non è stata una svista casuale. La storia della medicina è costellata di esempi di questo pregiudizio, che ha influenzato non solo la nostra comprensione del passato, ma anche la pratica contemporanea. Quando, nel 1603, il medico veneziano Girolamo Fabrici d’Acquapendente pubblicò il suo De formato foetu, uno dei primi trattati di embriologia, fu acclamato come pioniere. Eppure, nelle sue pagine abbondantemente illustrate, il feto sembrava galleggiare in un vuoto astratto, mentre l’utero che lo ospitava appariva come un semplice contenitore passivo, quasi un dettaglio tecnico.
Nel suo Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne (2019), Angela Saini ha evidenziato che figure centrali nella storia della medicina occidentale, come Ippocrate, non studiavano le donne direttamente ma si affidavano alle informazioni fornite da levatrici e donne che si auto-esaminavano. Ippocrate stesso avrebbe detto: «So solo quello che le donne mi hanno insegnato». In pratica, il sapere femminile veniva allo stesso tempo utilizzato e delegittimato, incorporato senza riconoscerne la fonte.
Una delle concezioni distorte più radicate è quella che vede la donna come una sorta di uomo mancato. Fin dall’antica Grecia il corpo maschile è sempre stato considerato come lo standard e l’ideale, mentre quello femminile era ritenuto una versione imperfetta, una deviazione dalla norma. Galeno, ad esempio, le cui teorie dominavano ancora il sapere accademico ai tempi di Crezia Mariani, immaginava il sistema riproduttivo femminile come un pene rovesciato, con l’utero come un fallo cavo e le ovaie come testicoli interni. Una visione che trascurava completamente la specificità degli organi femminili e che ha influenzato per secoli la comprensione del corpo delle donne.
Ma questa miopia scientifica non è limitata all’antichità. Nel corso del Novecento, con il graduale accesso di sempre più donne alla professione medica, la situazione è migliorata ma non risolta. Certo, non si crede più, come sosteneva Galeno, che le anziane abbiano uno sguardo velenoso perché non espellono più le impurità attraverso le mestruazioni. Né si pensa, come sosteneva il medico e antropologo evoluzionista Paolo Mantegazza alla fine del Diciannovesimo secolo, che le donne abbiano il cuore più grande per compensare il loro cervello minuto, e siano pertanto naturalmente predisposte al sacrificio silenzioso.
Eppure, secondo Bohannon, persiste un problema di fondo che potremmo definire “la norma maschile”. Caroline Criado-Perez l’ha documentato nel suo Invisible Women (2019), rivelando l’esclusione ancora massiccia delle donne dalla ricerca scientifica. Un’esclusione giustificata per lo più dal fatto che ignorare le differenze sessuali rende il lavoro più semplice. Si pensi che ancora negli anni Settanta del Novecento negli Stati Uniti veniva “fortemente sconsigliato” includere soggetti femminili (umani o animali) nei test clinici, per timore che “interferenze ormonali” falsassero i risultati. Molti articoli scientifici non dichiarano nemmeno di aver studiato solo soggetti maschili, e Bohannon riferisce di essersi trovata più volte a dover contattare direttamente gli autori per verificarlo.
E se le donne sono sottorappresentate nella ricerca medica, le persone transgender, intersessuali e non binarie sono praticamente invisibili. Questa lacuna è particolarmente problematica considerando le specifiche necessità sanitarie di queste popolazioni, dalle terapie ormonali agli interventi chirurgici, fino alla gestione di eventuali condizioni mediche preesistenti in relazione ai percorsi di transizione. La ricerca scientifica contemporanea sta lentamente iniziando a colmare questo vuoto, ma il cammino verso una medicina veramente inclusiva è ancora lungo.
Quando la scienza rafforza i pregiudizi
I pregiudizi di genere nella medicina si manifestano anche nella formazione delle nuove generazioni di medici. Un’analisi recente sui libri di testo raccomandati dalle venti università più prestigiose di Europa, Stati Uniti e Canada rivela un dato emblematico: su 16.329 immagini usate per rappresentare il corpo umano, quello degli uomini è presente tre volte di più rispetto al corpo femminile. Anche nella rappresentazione visiva, dunque, il corpo maschile continua a essere proposto come standard, mentre quello femminile appare come eccezione o variante.
Il risultato di questo approccio riduttivo è davanti ai nostri occhi: donne che muoiono più spesso di infarto perché i loro sintomi sono diversi e meno riconosciuti, o dosaggi farmacologici calibrati su corpi maschili anche per farmaci come antidepressivi e antidolorifici, i cui effetti non sono affatto così generalizzabili come si crede. In pratica, le fisiologiche differenze sessuali, a lungo strumentalizzate prima dalla Chiesa e poi dalla scienza per legittimare e imporre funzioni sociali di grado inferiore, non possono però nemmeno essere cancellate, perché, sostiene Bohannon, esistono delle specificità che, se ignorate, rischiano di interpretare nuovamente il corpo femminile come una variazione di quello maschile, con effetti anche gravi per la salute.
Questa sistematica esclusione naturalmente esisteva anche tra i dotti medievali, per i quali la ginecologia era soprattutto un argomento scabroso su cui era meglio soprassedere. Nel Cinquecento il corpo femminile riacquisisce centralità, ma in un’ottica forviante: tutte le malattie delle donne vengono interpretate come malattie dell’utero, con la conseguenza di considerare patologiche anche manifestazioni che non lo sono, come le mestruazioni o la menopausa.
La letteratura medica che circolava ai tempi di Crezia portava alle estreme conseguenze l’antica teoria umorale: la donna, si sosteneva, era più esposta alle malattie in quanto «disequilibrata per natura», mentre il maschio, «equilibrato per metabolismo e temperatura», risultava più forte, longevo e capace di reagire positivamente alle crisi dell’organismo. Allo stesso modo l’infertilità era considerata una prerogativa esclusivamente femminile, causata da un’eccessiva vita sessuale, dal troppo lavoro o, al contrario, dalla troppa pigrizia. Queste teorie rappresentano un caso esemplare di come la scienza, con la sua pretesa neutralità, abbia storicamente consacrato pregiudizi culturali conferendo loro lo status di verità biologiche. Il sapere medico ufficiale forniva così una giustificazione “oggettiva” all’esclusione delle donne dalle istituzioni e dalla vita pubblica: non era la cultura patriarcale a relegarle in uno spazio limitato, ma la loro stessa natura “instabile” a renderle inadatte a compiti di responsabilità.
Nel mondo dei guaritori empirici, invece, le cose funzionavano diversamente. Mentre la medicina ufficiale costruiva teorie distanti dall’esperienza, figure come Crezia Mariani perpetuavano un sapere pratico basato sull’osservazione. Riconoscevano, secoli prima di Pasteur, l’importanza della pulizia e il rischio del contagio e comprendevano che le malattie cambiano col tempo e al variare delle condizioni di clima, di lavoro o di nutrizione. Enrica Chiaramonte, Giovanna Frezza e Silvia Tozzi, nel loro Donne senza rinascimento (1991), lo descrivono come «un sapere del corpo»: concreto, efficace, tramandato da una comunità prevalentemente femminile che, pur esclusa dalle università, continuava a curare e guarire.
Al contrario, i medici laureati prestavano attenzione solo a quelle manifestazioni che, leggendo, avevano imparato a riconoscere e non gli interessava chiedere al malato, come un tempo faceva il medico ippocratico, notizie sulla propria malattia, sui sintomi e sul decorso. Se in un primo tempo l’attività degli empirici si affiancava a quella dei maestri laureati, disposti anche a rubare alcuni trucchetti e ad attingere alle vecchie ricette più efficaci, col tempo la medicina ufficiale rifiutò sempre più di sentirsi contigua a quella che veniva considerata “mera tecnica”.
Gli attacchi all’artigianato minuto della professione non procedevano tanto da una verifica di inefficacia, quanto dal loro non essere omogenei agli orientamenti e ai canoni fissati da un’impalcatura teoretica autoritaria. Si creò così un clima di delazione che coinvolse anche la nostra Crezia: capro espiatorio per una condanna esemplare che non verrà mai eseguita, perché la Mariani morirà in cella – probabilmente a causa delle torture – pochi giorni prima della data fissata per l’esecuzione.
Va da sé che la persecuzione di questo tipo di figure comportò anche notevoli passi indietro dal punto di vista del sapere medico. Per esempio, andarono perduti la ricchezza dei mezzi soporiferi e anestetici, che fecero posto a trattamenti più brutali e meccanici. Quella che veniva presentata come una battaglia della scienza contro la superstizione si rivelò, in molti casi, un arretramento della conoscenza empirica a favore di teorie astratte e spesso inefficaci. Una storia di progresso che nascondeva, in realtà, una regressione.
Tra le conoscenze accantonate vi furono anche quelle che aiutavano (pur in modo rudimentale) il controllo delle nascite. Strategie che Bohannon indica come antichissime e fondamentali per la specie: «A ogni stadio della sua evoluzione», scrive, «la ginecologia umana comprende anche molti tipi di controllo delle nascite, l’aborto e altri interventi contro la fertilità. La scelta riproduttiva femminile è di antica data». Come dimostrano, per esempio, alcune tavolette sumere scritte in caratteri cuneiformi che offrivano consigli per aumentare o ridurre la fertilità. Lungi dall’essere una “invenzione moderna”, la scelta riproduttiva femminile è una strategia evolutiva antica. Come abbiamo visto, la gravidanza e il parto comportano rischi significativi; di conseguenza, avere troppe gravidanze troppo ravvicinate aumenta le complicanze e il tasso di mortalità. Per contro, la capacità di regolare la fertilità ha permesso alle popolazioni umane di adattarsi a diverse sfide ambientali e di migrare con successo in ambienti molto diversi tra loro.
Conoscenze interrotte
Nel suo monumentale lavoro, che ha richiesto un decennio di studi, Bohannon cerca di fornire spiegazioni che intrecciano biologia e assetto sociale. Spiegazioni che a volte risultano incerte o soffrono di eccessivo determinismo, come accade spesso con i saggi di antropologia più ambiziosi. Ma la sua galleria di “Eve primordiali”, progenitrici esemplari che hanno plasmato l’evoluzione umana, è potente, e a tratti commovente nel suo permetterci di empatizzare con creature tanto distanti da noi, vissute qualche milione di anni fa, che con noi condividono comuni tratti ancestrali. In questo modo riesce nell’impresa di trasformare la preistoria in un racconto popolato di personaggi a cui possiamo affezionarci, rendendo tangibile quella che altrimenti resterebbe una fredda successione di specie e mutazioni genetiche.
In contrasto con la narrazione tradizionale dell’evoluzione umana – incentrata quasi esclusivamente su maschi cacciatori e sulla competizione per le risorse – Bohannon ci presenta figure come Morgie, vissuta nelle paludi umide della fine del Triassico: una sorta di incrocio tra una donnola e un topo, un animale che deponeva le uova e che fu probabilmente la prima creatura ad allattare. O Donna, vissuta tra 67 e 63 milioni di anni fa, una specie di donnola-scoiattolo, antenata dei mammiferi con un utero simile al nostro. «Non abbiamo dunque una sola madre», scrive Bohannon, «ne abbiamo molte. E ognuna di queste Eve ha un suo Eden personale».
Le nostre gambe da bipedi, la capacità di servirci di utensili, il tessuto adiposo del cervello: sono tutte caratteristiche che ci rendono “umani” e sono comparse in momenti diversi del nostro passato evolutivo, plasmando non solo la biologia ma anche le strutture sociali della nostra specie. Strutture che, come ci ricorda Bohannon, si sono formate anche grazie alla pressione di necessità specificamente femminili.
La storia dell’evoluzione dimenticata del corpo femminile e quella della persecuzione storica delle guaritrici sono in fondo la stessa: quella di una conoscenza sommersa che continua a riemergere nonostante i tentativi di cancellarla. Dietro la persecuzione delle guaritrici e la delegittimazione del loro sapere empirico si nascondeva qualcosa di più profondo della semplice competizione professionale: il tentativo di disciplinare non solo i corpi, ma anche il modo in cui questi corpi venivano compresi e raccontati.
Non è un caso che gli stessi secoli che videro l’ascesa della medicina accademica e il declino delle guaritrici popolari coincidano con una sempre più rigida codificazione dei ruoli di genere. Il caso di Crezia Mariani si inserisce in questo complesso intreccio di fattori: la sua condanna non fu solo il risultato di una specifica accusa di stregoneria, ma parte di un più ampio processo di ridefinizione dei confini della conoscenza legittima. In gioco non c’era solo la competizione tra sistemi terapeutici diversi, ma anche il controllo su chi potesse produrre e trasmettere il sapere sul corpo, soprattutto quello femminile.
Al di là delle specifiche tesi biologiche, se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia evolutiva femminile, come dalla storia di Crezia e delle antiche guaritrici, è che la conoscenza è sempre situata, sempre parziale. E che recuperare le narrazioni sommerse non è un esercizio di correttezza politica, ma una necessità epistemologica per comprendere più pienamente chi siamo e come siamo diventati tali.
Attraverso una raccolta di firme lanciata il 12 aprile scorso e attiva fino al prossimo 1° settembre, la Rete tedesca Ella (netzwerk-ella.de), «associazione indipendente di donne che sono state o sono coinvolte nella prostituzione», fondata per dar loro «una piattaforma e una voce», chiede l’abolizione della normativa che dal 2002 l’ha legalizzata come professione, l’adozione del “Modello Nordico” e di strumenti educativi, di contrasto e supporto adeguati.
Consultabile on line al link https://www.openpetition.de/petition/online/germany-must-exit-nordic-model-now#petition-main (in tedesco e in inglese), la petizione – che ha raccolto finora più di 3500 firme – è accompagnata da un lungo testo che ne spiega motivazioni e obiettivi e da un apparato di note (dati e riferimenti), che riportiamo qui in parte.
«Noi, membri della rete Ella […] donne colpite dalla prostituzione e da altre forme di sfruttamento sessuale» scrivono le promotrici «insieme ai nostri alleati e sostenitori, chiediamo che la prostituzione venga abolita in quanto sistema di violenza, oppressione e sfruttamento specifico di genere che colpisce principalmente donne e ragazze. La Germania ha bisogno di una legislazione moderna che rispetti e garantisca i diritti umani e l’uguaglianza di genere: il Modello Nordico», o abolizionista, a cui, ricordano, fa riferimento anche la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2024.
«Negli ultimi 25 anni, almeno 119 donne sono morte violentemente [nel sistema di] prostituzione tedesco. Lo Stato è complice di tutto ciò, perché accetta i rischi per la vita […] delle prostitute, nonostante il dovere di proteggere i [loro] diritti fondamentali […]. La nostra conclusione, dopo 22 anni di legislazione liberale, è: la prostituzione distrugge le donne e produce vittime di violenza! Gli atti sessuali a pagamento sono l’esatto contrario della sessualità consensuale e paritaria. Ciò è confermato anche dal rapporto della relatrice speciale delle Nazioni Unite Reem Alsalem. […] La legge tedesca, tuttavia, definisce la prostituzione come un servizio sessuale e le prostitute come persone che lo forniscono. Sebbene le prostitute non possano rifiutare o revocare il loro consenso senza conseguenze negative, non è riconosciuta alcuna coercizione. In questo caso, lo stupro commercializzato è stato ribattezzato come un servizio tassabile. I trattamenti crudeli e degradanti sono legalizzati e pubblicizzati, persino con donne schiave. I centri per lo stupro sono stati sovvenzionati […] [e] le prostitute […] obbligate dai tribunali a pagare cifre elevate perché i clienti erano insoddisfatti del “servizio”.
La Germania è diventata uno Stato pappone e trae profitto dal denaro sporco della prostituzione. La compravendita di sesso è normalizzata […]. La domanda è enorme: circa il 27% degli uomini ha pagato per fare sesso, e nella fascia d’età tra i 46 e i 55 anni la percentuale sale al 33,5%, cioè uno su tre. […]. Anche il turismo sessuale in Germania è in piena espansione, il che ha fatto guadagnare alla Repubblica Federale il titolo inglorioso di “bordello d’Europa”. Ciò che sta accadendo dal 2002 deve essere descritto come una violazione permanente della Costituzione. La Germania ha bisogno di una legislazione sulla prostituzione che sia in linea con la Convenzione sui diritti delle donne e la Convenzione di Istanbul. La Germania deve uscire […] dal sistema di prostituzione!».
All’abolizione della legislazione attuale si affianca la richiesta di «introduzione e attuazione coerente di un approccio sistemico» basato su cinque assi/“pilastri”: supporto alle persone colpite […]; eliminazione di tutti i profitti che derivano dalla prostituzione e da altre forme di sfruttamento sessuale; programmi educativi rivolti alla società e alle scuole, e di sostegno alle organizzazioni che supportano le persone colpite; misure di prevenzione (tra cui la penalizzazione dei clienti, il contrasto a tutte le forme di violenza verso le donne/ragazze, le azioni per l’eliminazione di sessismo, povertà e discriminazione); un lavoro efficace da parte dei servizi statali (dalla formazione per le istituzioni/i sevizi coinvolti alla presenza di “persone di contatto”, in particolare di sesso femminile, al coinvolgimento delle organizzazioni delle vittime come esperti e consulenti…).
Il Modello Nordico, sostiene la Rete Ella, «è attualmente l’unico […] in grado di eliminare le cause dello sfruttamento sessuale. Le soluzioni semplici non funzionano, quando si tratta di abolire un sistema di violenza e sfruttamento con un fatturato annuo stimato di 15 miliardi di euro. Questo obiettivo può essere raggiunto solo con un approccio sistemico: la garanzia di protezione e aiuto alle persone che si prostituiscono. L’educazione [che] porta a un ripensamento duraturo della società. [Il contrasto alla] domanda di prostituzione e [ai] profitti […] da parte di terzi. Il sistema della prostituzione non può esistere senza il denaro dei clienti».
da Altraeconomia
Mentre continua a bombardare la Striscia di Gaza e a intensificare l’occupazione in Cisgiordania, l’esercito di Tel Aviv affronta una crisi profonda. Oltre al crescente numero di soldati che rifiutano di servire, aumentano i casi di suicidio tra le truppe e l’azione di censura dell’esercito nei confronti della stampa. “È il sintomo di un abisso morale”, spiega Meron Rapoport, giornalista del network indipendente Local Call e +972
Dopo oltre 18 mesi di guerra contro la popolazione palestinese -i cui metodi, per le Nazioni Unite, sono coerenti con il genocidio-, il legame tra cittadini israeliani e Stato appare sempre più fragile. Oltre alle continue manifestazioni di piazza contro il governo accusato di voler proseguire la guerra per salvare sé stesso anziché liberare gli ostaggi a Gaza, è la crisi delle Forze di difesa israeliane (Idf) a manifestarsi in modo evidente.
Decine di migliaia di riservisti rifiutano di arruolarsi, aumentano le proteste pubbliche di militari contro la guerra, e il numero di suicidi tra i soldati è in crescita rispetto al passato. Tutto questo avviene in un contesto in cui la sfiducia della popolazione verso l’istituzione militare, storicamente pilastro della coesione nazionale, si manifesta sempre più pubblicamente, e la stessa risponde inasprendo la sua azione di censura verso la stampa.
“Il governo non pubblicherà mai i numeri reali. Ma chiunque, di recente, abbia partecipato a proteste antigovernative o segua i social media in lingua ebraica nota che rifiutarsi di prestare servizio militare sta diventando legittimo, e non solo in ambienti di sinistra radicale”.
Meron Rapoport, giornalista del network indipendente Local Call e +972 Magazine, ha provato di recente a ricostruire l’entità del fenomeno (con due articoli, in ebraico e in inglese). “Il problema è complesso e in continua evoluzione”, spiega Rapoport ad Altreconomia, che per la sua inchiesta si è basato su fonti interne ad esercito, governo e organizzazioni di refuseniks (obiettori di coscienza).
In un Paese in cui la coscrizione è obbligatoria per tutti i cittadini maggiorenni, i soldati devono prestare servizio da riservisti fino a 40 anni. In tempo di guerra, l’esercito dipende fortemente da questa categoria di soldati, e infatti in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il tasso di partecipazione dei riservisti era al 120%. Ma già a marzo 2024, dopo l’interruzione dell’accordo di cessate il fuoco da parte del governo israeliano, la percentuale è scesa drasticamente all’80%. Secondo alcune fonti, il tasso effettivo sarebbe oggi tra il 50 e il 60%. Triangolando questi dati, Rapoport ha stimato che oltre 100mila riservisti avrebbero rifiutato la chiamata alle armi nell’ultimo anno. “È importante guardare anche alle nuove reclute, non solo tra gli obiettori di coscienza’”, prosegue Meron. Questi ultimi, dal 7 ottobre 2023 in poi, sarebbero circa 1.500, e per quanto abbiano maggiore impatto mediatico, i casi di persone che hanno detto “No” alle armi per convinta opposizione alla guerra, all’occupazione e al massacro dei palestinesi, rimangono pochi. Più preoccupazione sembrano suscitare i cosiddetti “rifiuti grigi”: soldati che evitano il servizio più per frustrazione, disagio o stanchezza, con alcuni che simulano disturbi mentali per essere esonerati. Questo tipo di rifiuto, secondo Rapoport, è più difficile da tracciare ma altamente significativo, perché riflette un malessere diffuso.
La crisi delle Idf non si ferma all’atto individuale. Il 10 aprile, circa mille riservisti dell’Aeronautica militare hanno pubblicato una lettera chiedendo al governo la fine della guerra a Gaza e un accordo per liberare gli ostaggi. All’appello hanno risposto presto centinaia di riservisti della Marina e della squadra d’élite dell’intelligence, l’Unità 8.200. Il 19 aprile invece, è la volta di circa 1.500 membri della fanteria e carri armati che hanno acquistato due pagine del quotidiano Haaretz per avanzare al governo le stesse richieste.
“Nelle ultime settimane sono uscite decine di lettere simili, si stima che oltre 10mila soldati abbiano firmato”, continua Rapoport, ricordando come mai nell’ultimo anno sono apparsi articoli che esprimono aspre critiche nei confronti delle Idf, anche da parte di ex-generali e ufficiali. Critiche che avrebbero potuto essere di più se non fossero state oggetto dell’intervento delle stesse Idf che, per il potere conferitogli dalla legge, avrebbe censurato il doppio degli articoli su temi relativi alla “sicurezza” nell’ultimo anno, secondo l’ultima inchiesta di Local Call e +972 Magazine. Per Rapoport, data la scala senza precedenti della guerra in corso, questi atti di censura non preoccupano quanto invece l’autocensura e il silenzio di tanti suoi colleghi. “La paura di ritorsioni è ciò che sta influenzando di più la libertà di stampa”.
Tra le manifestazioni più tragiche della crisi c’è l’aumento dei suicidi tra i soldati. A dare la notizia sono state le stesse Idf lo scorso gennaio, secondo le quali sono 28 i militari che si sono tolti la vita dal 7 ottobre 2023. Se si considerano altri 10 suicidi verificatisi prima dell’attacco di ottobre, il totale del biennio 2023-2024 sale a 38, ovvero il 65% in più rispetto ai 25 registrati nel 2021-2022.
“La verità sui suicidi è difficilissima da decifrare”, spiega ad Altreconomia Guy Davidi, regista israeliano, già co-realizzatore del film “Five Broken Camers”, candidato all’Oscar nel 2013. “L’esercito ha sempre avuto paura di parlare apertamente dei suicidi. Il fatto che a gennaio abbiano pubblicato quei dati è una routine da qualche anno, ma oltre quei numeri c’è poco altro di trasparente”.
Davidi conosce bene questo problema, affatto nuovo in Israele, grazie a una ricerca durata oltre dieci anni per realizzare il suo ultimo documentario, “Innocence”. Presentato al Festival del cinema di Venezia nel 2022, protagoniste sono le storie di giovani israeliani che si sono tolti la vita durante o dopo il loro periodo militare. Il film, un durissimo j’accuse contro l’esaltazione del bellicismo, ricorre alle memorie private di alcuni soldati morti suicidi. Intervallato da scene quotidiane all’interno di asili, scuole e “campi estivi” militari, il documentario è un lavoro attualissimo, che mostra come la militarizzazione sia da sempre l’ideologia trasversale della società israeliana, a partire dal sistema educativo. Basato su 700 casi a partire dagli anni Ottanta, “Innocence” ha incontrato forti ostacoli alla sua realizzazione.
“Il suicidio di un soldato è la forma più estrema di rifiuto del sistema. Per questo lo Stato, per cui il tema è un tabù, fa di tutto per calare il silenzio. A livello individuale, inoltre, il senso di vergogna e le pressioni sociali sono tali per cui le famiglie delle vittime reagiscono con autocensura”, afferma Davidi. Non è un caso, dunque, che nonostante la risonanza internazionale -a parte in Paesi come Germania, Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dove le lobby israeliane avrebbero fatto pressioni per non farlo circolare-, il film sia stato pressoché ignorato in Israele. Anche perché quando è stato pubblicato, nella primavera del 2023, il tema del rifiuto di servire nell’esercito era un elemento significativo delle proteste di massa contro la riforma giudiziaria del governo.
La prova che il governo utilizzi il silenzio emerge dal modo in cui tratta i diversi casi di rifiuto. Mentre alle obiezioni di coscienza, minoritarie e “radicali”, si risponde con il carcere (come i recenti casi di Ella Keidar Greenberg o Itamar Greenberg, che hanno avuto eco internazionale), ai rifiuti “grigi” viene inflitta una blanda “prova domiciliare” di due settimane, nel tentativo di non creare precedenti “visibili”. Netanyahu in risposta alle lettere dei riservisti ha pubblicato un tweet in ebraico accusando i firmatari di voler “distruggere la società dall’interno”. Segno evidente di una volontà di evitare che la crisi venga discussa fuori dai confini israeliani.
Per Davidi la cosa più importante per il governo è non mettere in discussione l’idea dell’esercito “di popolo”, che tuttavia si sta sgretolando da anni. “L’esercito sta perdendo il suo tradizionale carattere di laicità, per il 40% la sua composizione demografica oggi è data dalle fasce più radicalizzate della popolazione”, come coloni ed estrema destra religiosa, afferenti anche a partiti come Otzma Yehudit, guidati Itamar Ben-Gvir, l’attuale ministro della Sicurezza nazionale e tra i più ferventi promotori della “guerra totale” a Gaza.
Se salta dunque l’idea di “esercito di popolo”, che ha contribuito a plasmare l’identità israeliana, è inevitabile che prima o poi salti il contratto sociale tra lo Stato e i suoi cittadini. “La crisi è ormai sotto gli occhi di tutti – conclude Rapoport -. Il crescente numero di rifiuti, obiezioni e suicidi è il sintomo di un abisso morale. La disumanizzazione dei palestinesi, in un contesto di crisi economica e sociale, rischia di trasformarsi in un boomerang per Netanyahu. Puoi continuare a sganciare bombe, ma come fai a sostenere una guerra senza soldati? E come pensi di occupare la Striscia di Gaza se mancano le risorse umane per farlo?”.
da La Stampa
Aprire le porte a un’amica in difficoltà, offrirle spazio e sostegno in casa propria, è una cosa che nel femminismo ha un nome preciso, sorellanza; ma offrire lo spazio e il contesto accademico di una vita a una interlocutrice che ha avuto successo con idee e con una postura opposte alle tue è un gesto di nobiltà personale, da vera insegnante oltre che femminista. Un’occasione di questo tipo si è verificata il trenta aprile scorso, con l’atteso incontro tra l’americana Judith Butler e l’italiana Adriana Cavarero, amiche oltre che colleghe in confronto da almeno tre decenni, l’una teorica del gender, l’altra filosofa del pensiero della differenza sessuale. L’incontro è stato voluto dall’Università di Verona, dove Cavarero ha insegnato per trentacinque anni filosofia politica ed è professoressa onoraria, e dove Butler è stata invitata a dialogare intorno a un tema potenzialmente macroscopico, l’etica della vulnerabilità. Un’occasione così importante da far accorrere pubblico da tutta Italia: due intellettuali che si confrontavano in presenza, senza streaming, per mettere in scena la necessità, genuinamente femminista, di lasciare dissonare voci diverse all’interno di uno spazio materiale. Un tentativo che aveva generato grandi attese e che però è riuscito solo in parte, anche per la scelta, dettata da una generosa ospitalità, di chiamare una moderatrice sbilanciata non solo linguisticamente in favore di Butler e tenere l’intero evento in inglese, nonostante il pubblico fosse italofono (peraltro, la traduzione in italiano è stata affidata a un traduttore automatico con esiti grotteschi e inadatti alla qualità dell’evento).
Negli ultimi anni Butler e Cavarero, nonostante il loro dialogo mai interrotto che ha sempre tenuto conto delle divergenze, sono diventate icone di una guerra amara e a tratti faticosa tra transfemminismo e identità queer da un lato (Gender Trouble è il titolo più famoso di Butler) versus femminismo radicale e della differenza dall’altro (Donna si nasce. E qualche volta si diventa l’ultimo di Adriana Cavarero, scritto insieme a Olivia Guaraldo). Da intellettuale che non compiace nessun pubblico, Cavarero è stata chiara e spiazzante con la parte di uditorio che si aspettava un match: «Non credo che la questione del nostro tempo sia sesso e genere». A metà degli anni Novanta era stata lei a proporre all’editore Feltrinelli di tradurre in italiano Bodies that matter (Corpi che contano) di Judith Butler: quante femministe si muoverebbero oggi per portare nella propria lingua studi che aprono strade così diverse dalle proprie? E quante sono disposte ad ammettere che le polemiche a cui ci affezioniamo, sulle quali ci arrocchiamo, sono state esaurite da anni sul piano del pensiero, che basterebbe conoscere e studiare? Anche se il pubblico butleriano si è scaldato contestando la semplice affermazione che tutta la vita umana sul pianeta nasce da donna, gli esiti migliori della discussione sono nati altrove: il neologismo “scolasticidio” come complemento della pratica genocida attraverso la distruzione dell’istruzione (Butler), la definizione di essere umano come forma di vita vulnerabile in relazione con altre forme di vita vulnerabili rispetto alle quali non esiste privilegio (Cavarero), la puntualizzazione secondo cui il contrario della vulnerabilità non è la forza perché è forte solo chi sa essere vulnerabile (Butler); la consapevolezza che vulnerabilità sia una parola etica e politica (entrambe); la postura inconciliabile tra chi guarda alla differenza pensando all’“inclusione” da un lato (Butler) o alla “varietà” e “singolarità relazionale” dall’altro (Cavarero). Il confronto, più che tra due voci, era tra due universi: da un lato il pensiero europeo, fondato su categorie autenticamente filosofiche (Cavarero citava Aristotele, la fattualità e la logica, usando termini greci come “pleonaxia”), dall’altro il mondo americano dove la filosofia è diventata attivismo e si confronta con la questione del consenso. Possono questi due mondi parlarsi? A giudicare da quella parte dell’uditorio butleriano intervenuta con modi e slogan più adatti a un corteo che a una disputatio accademica, bisognerebbe riconoscere di no, e ammettere il fallimento. Ma sarebbe femminista questa rinuncia? Nei giorni precedenti all’incontro, con amiche con cui condividiamo una generica e salutare avversione al patriarcato, ci dicevamo scherzando: se riescono a parlarsi Butler e Cavarero, figurarsi se non possiamo farcela noi! Ci dicevamo anche, come ci siamo sempre dette, che gli uomini sono bravissimi a spalleggiarsi (non credo di averne mai sentito due litigare sulla definizione di padre) e che però il loro cameratismo gli garantirà pure il potere ma è così noioso che non lo vorremmo nemmeno in un’altra vita. Che fare adesso che questo dialogo non potrà assurgere a iconico per una spaccatura che, fuori dal confronto di Verona, appare insanabile? Innanzitutto capire quale rottura personale sia emersa fra Judith Butler e Adriana Cavarero prima e dopo l’incontro dal quale sono emerse quelle divergenze fra sesso e genere riconosciute pubblicamente da entrambe come insormontabili: nessuna. Dopo aver scansato con ironia una possibile virata paternalista («Adriana, di cosa hai paura, voglio prendermi cura della tua paura» ha detto a un certo punto Butler corrucciata; «Non ho nessuna paura, non sono una persona molto emotiva a dire il vero» è stata la tranquilla risposta), le due hanno passato ancora del tempo privato insieme e continuato a discutere come sempre: questa è l’immagine che dobbiamo tenere come iconica. Olivia Guaraldo, nell’introduzione all’evento, ha sottolineato che siamo figlie e figli del confronto fra queste due pensatrici, una eredità impossibile da ignorare, e ha parlato di come la brutalità, la violenza politica patriarcale possano essere affrontate solo con la forza della creatività: quando le risposte si incancreniscono, è tempo di cambiare le domande. Come hanno evidenziato sia Butler sia Cavarero, le alleanze non devono coincidere con l’amore, figurarsi con l’appiattimento. Possiamo ancora ipotizzare, forse sognare, strade lungo le quali nessuna donna arriverà un giorno a sentirsi fraintesa, anche se sono costellate di conflitti e incomprensioni: non saranno le migliori, le più semplici o prive di delusioni e cadute, ma sono di certo strade femministe.
da L’Altravoce
La morte di Adriana Lopez, mia carissima amica, mi ha colpita come un fulmine a ciel sereno. La pensavo a Barcellona con la sua amata figlia Carlotta, l’amato figlio Andrea e con le amiche di quella che era diventata la sua seconda città. Non sapevo della gravità della sua malattia, non so perché me l’ha tenuta nascosta. Mentre scrivo la sento vicina, sento la sua voce, vedo la sua figura di donna creativa che sapeva rendere elegante qualsiasi cosa indossasse, aveva grazia e uno stile tutto suo, riconoscibile e inimitabile. Amava ornarsi di fiori e in lei tutto era sincero, come il suo entusiasmo, il suo amore per la vita, per i suoi libri di cui ne andava fiera. Donna di grandi passioni, generosità e coraggio, non lasciava indifferente chiunque la conoscesse. Non lasciò indifferente me quando, nel lontano 1978, arrivai a Catanzaro e la incontrai nella sua casa dove viveva con il piccolo Andrea. Rimasi affascinata dalla sua personalità. Era bella, giovane, coraggiosa, intelligente, schietta, forte, piena di voglia di vivere, l’ammiravo tantissimo e fui orgogliosa di diventare sua amica. Nonostante il passare del tempo e le varie vicissitudini della vita, non sempre benevola con lei, Adriana è sempre rimasta nel profondo la ragazza che avevo incontrato la prima volta. Dopo anni di vicinanza, per un lungo periodo, ci siamo viste saltuariamente fino a quando non ci siamo riavvicinate in occasione dell’uscita del suo libro La scelta (ed. La Rondine) e da allora non ci siamo più allontanate, coltivando entrambe il piacere della nostra amicizia. Fu lei a cercarmi per regalarmi il suo libro. Mi chiese di leggerlo e di recensirlo, se mi fosse piaciuto. Come poteva non piacermi? In quelle pagine c’era la sua vita, la ragazza che era stata e la “donna nuova” che era diventata. Aveva scritto spinta dal bisogno, dopo tanti anni, di “scavare”, interrogare, capire, “fare ordine” su quella parte della sua vita vissuta da ragazza madre in una città di Provincia come Catanzaro degli anni Settanta. Non era più la ragazza “confusa”, “impaurita”, che in quel 13 luglio 1975, “in compagnia” della sua “fiduciosa solitudine”, aveva dato alla luce la sua creatura, ma la “donna nuova”, consapevole del valore della sua scelta. Rimasta incinta giovanissima, mentre l’uomo, come da copione, era scappato, lei allora fece la scelta di portare a termine la gravidanza e affrontare, con la “solitudine” come unica compagna, i pregiudizi, l’ostilità, la misoginia, il sessismo, l’ipocrisia, di una città “piccolo borghese”, pronta a condannarla e assolvere l’uomo. Cacciata da casa, venne lasciata sola da familiari, fratelli, sorelle, amici e conoscenti. Lei scelse di continuare a vivere e ad amare, diventando una donna forte, “una signora”, consapevole e fiera di se stessa fino alla fine della sua vita. È questa l’Adriana che ho amato e ammirato che, a un certo punto della sua vita scopre il piacere e la necessità di scrivere in un “faccia a faccia” con il suo vissuto, senza rabbia, rancore o vendetta, ma con lucida consapevolezza della grandezza della sua “scelta” e della miseria degli uomini “pronti a trasformarsi in orchi” e saltarle “addosso”. «Gli uomini non amano, non sanno amare», scrisse. Tenne testa, con fierezza, allo sguardo giudicante della “gente bigotta” e sentì dolorosamente la disapprovazione della madre. “In segreto” ha sempre sperato “di poter essere un giorno accolta nel grembo materno”. Scrivere il libro è stato il suo modo di perdonarla e di riconciliarsi con lei, dentro di sé. Cara Adriana, so bene che hai scritto altri libri che ho anche recensito, ma ho scelto di ricordarti con quello della tua vita perché le giovani sappiano e riconoscano in te la donna che con la sua “scelta” ha aperto in questa città la strada della libertà femminile. Addio amica mia, resterai in me fino alla fine della mia vita.
da Internazionale
Dall’inizio dell’invasione russa le violenze domestiche in Ucraina sono aumentate. Sofferenze che si aggiungono alla brutalità quotidiana della guerra
Al centro d’accoglienza Vilna, nel cuore di Kiev, una quindicina di donne è riunita intorno a Olga per un corso di introduzione alla scrittura dei cosacchi, i guerrieri che in Ucraina sono venerati come eroi nazionali. «Secondo voi quanto pesava l’arma di un cosacco?», chiede Olga. «Due chili», «Un chilo», azzardano le partecipanti.
«Non siete lontane dalla risposta corretta; pesava tra i 600 e gli 800 grammi», precisa la professoressa di calligrafia, una delle tante attività proposte da questo centro di aiuto per le donne che subiscono violenze coniugali. La struttura ha aperto nella primavera del 2023 con il sostegno del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) per far fronte al forte aumento dei casi di abusi domestici in seguito all’invasione russa del paese il 24 febbraio 2022.
È venerdì pomeriggio e le donne, di età compresa tra i 30 e i 65 anni, hanno il volto tirato per la mancanza di sonno. La notte scorsa la capitale ucraina ha subìto l’ennesimo attacco di droni russi. Ma nessuna di loro si lamenta e nessuna parla delle ragioni che l’hanno portata qui. Lo scopo del centro Vilna è offrire uno spazio sicuro senza chiedere motivi o giustificazioni. Le iscrizioni alle attività – yoga, meditazione, arteterapia – si fanno in modo anonimo.
In Ucraina l’argomento delle violenze coniugali è tabù. Anche se nel 2023 il ministero dell’interno ha registrato 291mila casi di violenza domestica (oggi nei territori controllati dal governo di Kiev vivono 29 milioni di persone), con un aumento del 20 per cento rispetto al 2022, le cifre potrebbero essere ancora più alte, perché molte donne non denunciano gli abusi subiti in casa. «La difficoltà a chiedere aiuto e il senso di colpa oggi sono ancora maggiori a causa della situazione di guerra in cui viviamo», spiega Alëna Kryvuljak, direttrice dei servizi di assistenza telefonica del centro La Strada, l’ong ucraina più attiva nell’aiutare le vittime di violenze domestiche. «Molte di queste donne pensano di essere responsabili della violenza che subiscono e fanno fatica a riconoscere che i colpevoli sono gli uomini. Succedeva anche prima della guerra. Oggi pensano che altre persone soffrono più di loro, che in fondo sono ancora vive e hanno la fortuna di non essere al fronte».
Il coraggio necessario
Tamara, 31 anni, profuga di Bachmut, vive da cinque mesi a Kiev con i suoi tre figli in un centro di accoglienza per donne fuggite dalle violenze coniugali. Nella cucina comune i bambini giocano con un neonato, tra peluche e carri armati di plastica, mentre le madri preparano il pranzo. Incinta di sette mesi, Tamara non riesce a staccarsi un attimo dalla figlia più piccola, che vuole starle sempre in braccio. La donna aspetta con impazienza il momento del sonnellino pomeridiano, quando avrà un po’ di tempo per sé, per cercare un po’ di tranquillità praticando l’arteterapia.
Durante i suoi soggiorni in ospedale prima dell’arrivo a Kiev, Tamara non aveva mai parlato dei suoi problemi. «Non volevo condividere cose tanto intime con persone che non conoscevo», ammette con qualche difficoltà. «Oltre a mio marito c’erano già troppe cose da gestire a causa della guerra», racconta tormentandosi le mani. In una società in cui il soldato, il difensore della patria è considerato un eroe, sono poche le donne vittime di violenza che decidono di parlare. «E denunciare il proprio compagno che combatte o che ha combattuto al fronte è ancora più difficile», spiega Kryvuljak, che lavora per La Strada dal 2014.
Una constatazione condivisa da Anna Hrubaja, psicologa specializzata nelle violenze di genere. «Nell’immaginario collettivo la Russia è l’aggressore, il demonio», spiega la donna subito dopo un allarme aereo che ci obbliga a scendere nel rifugio. «È normale che si parli di loro come del nemico. In questo contesto la violenza da parte dell’uomo che si ama diventa inimmaginabile. È difficile parlare degli uomini ucraini come di aggressori». Chi l’ha fatto sui social network, spesso ha ricevuto valanghe di insulti e commenti offensivi.
Tuttavia, dall’inizio della guerra Hrubaja ha visto aumentare in modo vertiginoso il numero delle sue pazienti, provenienti per lo più da classi sociali privilegiate. Una di loro, che fa la dermatologa, «è perfettamente consapevole del problema; sa che non è normale, ma non vuole chiedere il divorzio per paura di far soffrire il marito, che è al fronte e che forse non tornerà mai».
Olga, 37 anni, ha dovuto dar prova di grande coraggio per decidere di rivolgersi al centro. Da quando l’ha fatto, la maggior parte dei suoi amici le ha voltato le spalle. «Tutti sostengono il mio compagno e dicono che sono un mostro ad averlo abbandonato in queste circostanze», racconta la donna in videochiamata dalla cittadina in cui vive, a duecento chilometri da Kiev.
Alla guida da una decina d’anni di un centro di accoglienza per donne, nel 2022 Olga si è trovata nella stessa condizione di quelle che aiutava. «In quanto esperta del problema, sapevo molto bene di cosa si trattava. Ma mi ci è voluto un anno per reagire e per fare io stessa quello che consiglio di fare alle altre», racconta.
Prima dell’inizio della guerra Olga non aveva mai avuto problemi simili. Racconta di un marito affettuoso, «un uomo normale, che mi sosteneva nel mio lavoro». Parla quasi senza emozione, come se si riferisse a una vita non più sua, quella che conduceva «prima del 24 febbraio [il giorno dell’invasione russa] e che non tornerà mai più».
Prima di andare a combattere, suo marito era «un uomo che non aveva mai avuto un’arma, a cui piaceva passeggiare nei boschi e andare a pesca. Ma intorno a lui tutti si arruolavano. In quel momento l’intera società voleva dare il proprio contributo», continua Olga con una punta di amarezza. Così anche suo marito si è arruolato come volontario nelle forze speciali ucraine ed è stato subito inviato in prima linea. «Presto mi sono resa conto che beveva molto con i suoi “fratelli d’armi”, come li chiamava. E mi ha anche confessato che per allentare la pressione di tanto in tanto prendeva droghe».
Al suo ritorno dal fronte, quasi un anno dopo, sono cominciate le violenze, prima verbali e psicologiche, poi fisiche. Olga ha capito che suo marito era cambiato. «Ho realizzato che tutto era finito la sera in cui mi ha chiesto di chiudere gli occhi e di seguirlo in bagno. Mi ha messo in mano una granata senza la sicura. Ero terrorizzata, mia figlia di quindici anni dormiva nella stanza accanto. Lui si è messo a ridere e mi ha detto con disprezzo: “Ma dai, non è neanche carica!”». A quel punto ha chiesto il divorzio. «Qualche giorno dopo mi ha sequestrata per diverse ore. Mi urlava che mi stavo inventando tutto perché frequentavo troppe donne che erano “davvero” vittime di violenze domestiche».
Prima della guerra l’Ucraina aveva cominciato a occuparsi delle leggi contro le violenze di genere, ma l’invasione russa ha frenato i progressi. Il parlamento ha stabilito nel 2017 che le violenze costituiscono un reato, ma le donne rimangono male informate sui loro diritti. Paradossalmente la guerra ha anche avuto alcune conseguenze positive: ormai l’Europa ha gli occhi puntati sul paese, e la convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza domestica e sulle donne è stata ratificata nel giugno 2022, dopo anni di richieste da parte delle associazioni femministe. Di fatto, però, gli aiuti alle vittime rimangono molto scarsi.
«La colpevolizzazione della vittima, il cosiddetto victim blaming, è ancora molto diffusa in Ucraina», spiega Kateryna Ilikčieva, avvocata specializzata nelle violenze di genere. «Nel paese sono ancora molto forti certe vecchie idee secondo cui queste violenze sono una cosa normale, diffusa in tutte le famiglie. E questo si traduce nell’impostazione delle nostre leggi e nel trattamento che la polizia, la giustizia e i medici riservano alle donne che denunciano i fatti». Un quadro confermato da quanto ci racconta Olga: «Alla fine la polizia è intervenuta, ma non ha fatto nulla. Non mi ha proposto di sporgere denuncia e non si è offerta di portarmi al sicuro».
Il senso di colpa
Olga era indipendente dal punto di vista finanziario e ha potuto affittare un appartamento senza doversi affidare a un centro di accoglienza simile a quello che lei stessa gestisce. Ma il suo è un caso quasi unico: la maggior parte delle donne ha perso il lavoro a causa della guerra ed è tornata a essere economicamente dipendente da mariti e compagni.
Per questo il centro Vilna propone delle riunioni in cui si spiega alle donne a quali sussidi finanziari hanno diritto. Ma gli incontri non hanno molto successo. Seguirli sarebbe stato complicato già in tempo di pace, ma in periodo di guerra servono risorse ed energie extra che non tutte hanno.
La fatica fisica e psicologica, sommata allo stress accumulato nella vita quotidiana a causa dei bombardamenti russi, rende più difficile allontanarsi dal carnefice con cui si condivide l’intimità familiare. Olena, 40 anni, ha trovato rifugio con sua figlia in un centro di accoglienza a Kiev, dopo essere scappata dal compagno. Esperta legale in una banca d’affari, prima dell’aggressione russa neanche lei aveva mai subìto la violenza del compagno. Racconta di aver «perso tutto in pochissimo tempo, a cominciare dal lavoro». «La maggior parte dei profughi interni si è ritrovata senza mezzi economici da un giorno all’altro. Sono persone che non hanno più lo stesso livello di vita né lo stesso ruolo di un tempo nella società. E questo è un elemento che favorisce l’aumento delle violenze», spiega Alëna Kryvuljak.
Il compagno di Olena «è cambiato nell’arco di poche settimane dall’inizio della guerra». «Aveva una casa di famiglia che considerava un luogo sicuro», racconta la donna. «Di fronte all’avanzata dei russi aveva proposto a diversi parenti di ospitarli, ma un bombardamento li ha uccisi tutti. E lui è caduto in depressione», racconta Olena. «Mi aveva mandato nell’ovest del paese perché fossi al sicuro con mia figlia e il figlio che aspettavamo. Ma poi mi ha chiesto di tornare per stare al suo fianco, per sostenerlo. E io l’ho fatto. Non volevo lasciarlo solo in queste circostanze. Le violenze sono cominciate qualche giorno dopo».
Più forte di lui
Olena è consapevole dell’anormalità della situazione. «Ma in fondo dove potevo andare?», domanda con un pizzico di amarezza. «I miei genitori vivono in una zona occupata dai russi, i miei amici sono tutti all’estero. Ero incinta e senza soldi. Come potevo prendere di nuovo la strada dell’esilio?». Oggi Olena paga caro il fatto di essere riuscita a liberarsi del suo aguzzino. Suo figlio, nato alla fine del 2022, è rimasto con il padre. «Mi lasciava chiusa a chiave in casa, mi aveva sequestrato i documenti. Sono riuscita a scappare mentre era andato a comprare delle cose per nostro figlio». Oggi il bambino è al centro di tutti i ricatti: se la donna vuole vederlo, deve tornare dal suo aggressore. La legge ucraina non aiuta a sufficienza le donne che si trovano in una situazione del genere.
Irina continua a vivere sotto lo stesso tetto del suo aggressore. Proprietaria di un negozio di alimentari insieme al marito da trentacinque anni, non ha altra scelta che rimanere al suo fianco. Sopravvissuta alle violenze sessuali compiute dalle truppe russe, la donna ha accettato di parlarci in videochiamata da una regione del sud dell’Ucraina.
Ai traumi delle violenze subite dagli occupanti, si aggiungono ormai anche quelli legati alla brutalità del marito. «Quando i soldati russi sono andati via, mio marito non mi ha più rivolto la parola», racconta a bassa voce. «Solo una volta mi ha chiesto scusa per non avermi saputo proteggere».
Irina ha 60 anni. A violentarla sono stati soldati che «avevano l’età di mio figlio», dice. «Mio marito mi ha umiliata. Mi diceva che non valevo niente, che senza di lui non ero nulla. Mi ha perfino rimproverata di aver rischiato di morire a causa mia. Era un manipolatore, e si faceva passare per vittima. Sì, è vero, i russi gli avevano puntato un fucile alla tempia perché non voleva obbedire agli ordini», racconta la donna in modo quasi meccanico. «Ma non ha cercato di impedire lo stupro in nessun modo. E non mi ha mai chiesto cos’è successo. Alla fine ho smesso di fare resistenza e di lottare per evitare che i russi lo uccidessero. I soldati mi avevano detto che lo avrebbero fatto se non avessi ceduto. Lui, però, non ha mai voluto sapere quello che avevo vissuto per proteggerlo». Irina interrompe spesso il suo racconto. «Lui non voleva sapere, così alla fine ho smesso di parlarne». Poi ci confida: «Nessuno può sfiorarmi anche solo con un dito senza che mi venga voglia di strangolarlo». Irina riconosce di continuare a subire l’aggressività, le umiliazioni e le minacce del marito, ma paradossalmente afferma di non averne più paura: «Me ne frego di quello che dice. Mi sento più forte di lui. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è cambiato. Non sono più una cosa di sua proprietà. Dopo quello che ho vissuto, la sua violenza mi sembra insignificante».
In un bar di Kiev un venerdì alle 18, non lontano da un gruppo di giovani che cominciano presto la loro serata a causa del coprifuoco, Kateryna Ilikčieva ci spiega che il suo livello di tolleranza nei confronti della violenza è aumentato a causa della guerra. Poi s’interrompe allarmata: «Non è la sirena dell’allarme antiaereo? No, scusate, è solo una macchina della polizia». E riprende a parlare: «Da tre anni viviamo in un clima di tale brutalità che oggi alcune violenze ci sembrano quasi ridicole».
Irina promette che quando la guerra sarà finita, se ne avrà ancora la forza, chiederà il divorzio.
Una parola rara per una donna di sessant’anni che vive in una zona rurale dell’Ucraina, sopravvissuta alla disumanità di una guerra che l’ha resa però ancora più combattiva.
(Internazionale n. 1613, 9 maggio 2025, articolo da La Déferlante, Francia)
da Altraeconomia
Dalle fabbriche alle foreste, dalle discariche al nucleare, le donne scienziate raccontate nel libro “Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute” (Ed. Dedalo, 2024) hanno ridefinito il panorama scientifico, portando la ricerca fuori dai laboratori e andando ostinatamente controcorrente.
Cristina Mangia e Sabrina Presto, ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e socie dell’associazione Donne e Scienza, pagina dopo pagina ricostruiscono le appassionanti biografie di queste scienziate che, a partire dai primi del Novecento, hanno affrontato pregiudizi e contestato l’apparente neutralità e il disimpegno della scienza per trasformarla in una disciplina radicata nel mondo, capace di trasformazione sociale e tutela della salute pubblica.
“Spesso chi è marginalizzato porta visioni lontane dal mainstream, appunto visionarie, così hanno fatto le donne nella scienza -spiegano le due ricercatrici-. L’immaginario dominante vede ancora la scienza come oggettiva e neutrale, con una formazione tecnico-scientifica che rafforza la separazione tra saperi esperti e non esperti”.
Da Rachel Carson che per prima negli anni Sessanta denunciò gli effetti del Ddt e altri pesticidi sugli ecosistemi e sulla salute delle persone, scontrandosi con le lobby dell’agrofarmaco (che cercarono in ogni modo di screditarla), a Beverly Paigen che già nel 1974 criticava gli scienziati accademici “che tendono a non farsi coinvolgere, si considerano osservatori distanti e obiettivi, alla ricerca della verità”. Paigen intuiva che bisognava connettersi alle comunità inquinate. Caso volle che fu chiamata proprio dalle mamme di Love Canal, un piccolo paese vicino alle cascate del Niagara, disperate per lo stillicidio di aborti e malattie che flagellava la loro comunità. Con questionari alla popolazione locale e ricerca sul campo la scienziata scoprì che le malattie erano connesse ad una gigantesca discarica di rifiuti tossici interrata, aiutando quindi la popolazione a pretendere bonifiche, risarcimenti e delocalizzazioni. “La vicenda di Beverly Paigen è emblematica: mentre il gruppo di ricerca governativo mantiene il distacco dalla popolazione per garantire l’obiettività dello studio, dall’altro, Paigen collabora con le comunità, riconoscendo il valore della conoscenza locale nel migliorare la qualità della ricerca senza comprometterne il rigore. I risultati le daranno ragione”, sottolineano le autrici del libro.
Un modo di approcciarsi alla ricerca molto attuale, vista la crescente consapevolezza della necessità di coinvolgere le comunità nei processi di ricerca ambientale. Alcuni progetti si stanno muovendo in questa direzione attraverso la citizen science. Secondo le due ricercatrici però questi progetti “sono spesso limitati alla raccolta di dati come misurazioni dell’aria o delle acque, riducendo le popolazioni a semplici sentinelle ambientali. È invece fondamentale ampliare la partecipazione, consentendo alle comunità di contribuire alla definizione delle domande di ricerca, allo svolgimento degli studi e all’individuazione di soluzioni. La formulazione dei quesiti scientifici e la distribuzione dei finanziamenti orientano le risposte degli studi e ne determinano l’utilità per i gruppi di ricerca e/o per le popolazioni coinvolte”.
Cristina Mangia si occupa di inquinamento atmosferico e del suo impatto sulla salute, confrontandosi spesso con le comunità alle prese con problemi ambientali: “Molte delle domande poste dalle scienziate nel libro sono state anche le mie, a partire da quelle di Beverly Paigen e Laura Conti sull’accettabilità del rischio e sul diritto di una popolazione a essere informata quando vive in un’area a rischio. A volte le preoccupazioni degli abitanti sono diventate le nostre domande di ricerca, come a Brindisi riguardo le malformazioni congenite o l’impatto delle centrali a carbone. O anche a Taranto quando abbiamo contribuito alla revisione della misura dei ‘wind days’, che imponeva alla popolazione di regolare l’apertura delle finestre in base ai venti provenienti dalla zona industriale. In altre occasioni, abbiamo lavorato in stretta collaborazione con le le comunità territoriali coinvolgendole in tutte le fasi del processo scientifico. È accaduto a San Donaci (BR) e a Manfredonia (FG), dove i cittadini hanno preso parte alla definizione delle domande di ricerca, all’analisi dei dati e alla condivisione dei risultati, contribuendo all’elaborazione di strategie concrete. Molto spesso ho affiancato le comunità nell’interpretazione di documenti tecnici sugli impatti ambientali e sanitari che riguardavano i loro territori, al fine di renderle più consapevoli e autonome nelle loro battaglie per la salute e la giustizia ambientale”.
Le donne sono state pionere anche sulla salute nei luoghi di lavoro. Il libro ripercorre la vita di Alice Hamilton medica e fondatrice della medicina del lavoro, che con la sua “epidemiologia di strada” andava quotidianamente nelle fabbriche, parlava e visitava gli operai e i loro familiari, e fu la prima a denunciare la tossicità delle lavorazioni a base di piombo, mercurio, arsenico e altre sostanze alle quali i lavoratori erano costantemente esposti. Hamilton denunciò il precariato nel lavoro, strettamente legato al tasso di avvelenamento, ma anche le fabbriche degli esplosivi che producevano armamenti. Chiedeva più fondi per la ricerca e denunciava l’utilizzo degli operai come “cavie umane” a fronte della produzione di sempre nuove sostanze chimiche utilizzate dalle industrie, senza prove sufficienti sulla loro innocuità.
Poi ancora Alice Stewart che per prima scoprì e denunciò la nocività delle radiazioni durante la gravidanza e studiò gli effetti dell’esposizione a basse dosi delle radiazioni sulla salute, diventando la scienziata di riferimento dei movimenti antinuclearisti; Suzanne Simard, con le sue ricerche sulle connessioni sotterranee tra gli alberi, Lynn Margulis, Sara Josephine Baker, Donella Meadows, con la critica alla crescita economica e ai famosi “limiti dello sviluppo”, fino a Wangari Maathai, la scienziata che piantava gli alberi.
Senza dimenticare la coraggiosa scienziata giapponese Katsuko Saruhashi che per prima denunciò gli effetti devastanti dei test con la bomba a idrogeno, studiando fin dove arrivava il fallout (pulviscolo di particelle radioattive). La sua competenza venne messa in dubbio dagli scienziati (quasi tutti uomini) americani, ma lei dimostrò che erano loro a sbagliare. Solidarizzò con il movimento pacifista e antinuclearista, denunciando l’uso a scopi militari del plutonio generato dai reattori e la difficoltà di smaltimento delle scorie radioattive. Rivolgendosi ai ricercatori del progetto Manhattan scrisse: “Come possono difendere la loro innocenza? Gli scienziati avrebbero dovuto sapere”.
Tematiche ancora attuali, perché le lobby industriali e militari possono ancora, come un tempo, influenzare e piegare la scienza. “La ricerca ha bisogno di soldi e gli investimenti pubblici non sempre sono sufficienti -confermano le due ricercatrici-. Questo apre la porta all’influenza di lobby industriali e militari, che ancora oggi hanno un ruolo determinante nel definire le priorità della scienza. Oltre a orientare lo sviluppo tecnologico, spesso questi gruppi influenzano la ricerca, alimentando dubbi su questioni cruciali come il cambiamento climatico o la nocività di alcune sostanze, ritardando decisioni politiche e normative. È successo in passato con il fumo di tabacco, più recentemente con alcuni pesticidi e sta accadendo oggi con i Pfas. L’influenza delle grandi industrie si estende anche al settore energetico, incluso il nucleare, con il rischio di condizionare il dibattito pubblico e scientifico. Per concludere, crediamo che la scienza abbia ancora bisogno di scienziate visionarie, figure del calibro di Katsuko Saruhashi o Lynn Margulis, la scienziata che rifiutò un cospicuo finanziamento vincolato alla riservatezza dei risultati, affermando: se non è pubblica, non è scienza”.
da il manifesto
“Il femminismo della mia vicina”, di Ginevra Bompiani e Luciana Castellina
«Per un bel pezzo io mi sono vergognata di essere una donna». «Io no». Questo l’incipit del primo capitolo di “Il femminismo della mia vicina” da oggi in libreria per Manni editore (pp. 101, euro 14). A cominciare il dialogo è Luciana Castellina, a risponderle è Ginevra Bompiani. Che due personalità di tale levatura abbiano deciso di interrogarsi sul loro rapporto con il femminismo, inteso come vissuto storico e politico, è una buona notizia. Simile a un memoir in relazione (che non si sarebbe potuto realizzare se non in questa modalità del pensare appassionato e insieme) il volume va a illuminare un tratto di strada che ha radici e collocazioni precise, in primis vi è l’amicizia di Castellina e Bompiani iniziata circa sedici anni fa e coltivata con determinazione e scambio anche nelle divergenze. Volendosi bene, come accade e si rinnova tra di loro, i disaccordi sono dichiarati ma con ascolto reciproco: il primo è che Luciana Castellina si è mossa sempre in una dimensione collettiva e Ginevra Bompiani in una individuale. Questa “vicina” presente nel titolo è allora l’orlo affettivo in cui si trovano una e l’altra, nel sapersi stare accanto pure nella diversità. Seguiamo dunque lo schietto scambio di due magnifiche signore che si immaginano frontali a raccontarsi tra scena pubblica e vita privata.
Nella marca conviviale e mai nostalgica adottata da entrambe, apprendiamo numerosi aneddoti e altrettante tappe fondanti ciò che dal movimento delle donne conduce ai primi collettivi e ai primi guadagni della libertà femminile. Ancora prima da lunghe militanze – non femministe ma femminili – anzitutto nel Pci. Se Castellina affonda ancora più a ritroso citando la stessa relazione tra la Resistenza e ciò che ha rappresentato la nascita dell’Udi, Bompiani rammenta la sua adesione, seppur breve, al gruppo di Rivolta femminile. Dalle svolte di ciascuna, la prima all’interno di un partito e la seconda no, si iniziano a delineare i primi momenti – e ne descrivono diversi con discreta e godibile ironia – in cui hanno riconosciuto che essere donna non sarebbe stato esclusivamente un affare biologico o contingente bensì avrebbe comportato un mutamento dello sguardo, della posizione fino a quell’istante assunta. Per esempio, la coscienza di essere donne in un mondo organizzato dai maschi, in opposizione a una famiglia patriarcale (nel caso di Bompiani) o nelle contraddizioni interne al Pci (nel caso di Castellina).
Essere donne nel senso di una differenza sessuale consente a ciascuna di loro di scassinare lo sgabuzzino simbolico in cui per secoli il patriarcato ha creduto di rinchiuderci. Cosa ci sia dentro quel pertugio di sopraffazione, di violenza epistemica e storica, è un passaggio che spiegano con una certa dovizia a partire da loro stesse e da un punto di avvistamento non solo italiano ma internazionale. «Ci sono molti punti in comune tra il colonialismo e il patriarcato», scrive Castellina e mette in gioco l’identità, nominata più di una volta che tuttavia per Bompiani non esiste se non come invenzione o questione burocratica. Ci sono infine i corpi, le storie di tutte e tutti noi e i nodi più recenti che il femminismo ha affrontato, non tutti comprensibili, con alcune asperità insieme alle inquietudini sul futuro e sull’avanzare delle destre, nel frattempo.