Da il manifesto – L’autrice e attivista indiana a rischio: sarà processata per le idee espresse sul Kashmir. L’istruttoria è stata aperta sulla base della Unlawful Activities Prevention Act, sempre più usata per criminalizzare il dissenso pacifico

Arundhati Roy, intellettuale e attivista per i diritti umani tra le più note e combattive nel panorama mondiale, è finita nel mirino della repressione del dissenso in India per un caso vecchio di quattordici anni. A dimostrazione che esprimere opinioni divergenti dalla vulgata governativa è un’attività sempre più complicata e rischiosa in un’India che progressivamente si sta allontanando dagli standard democratici che le sono valsi per decenni il titolo ufficioso di «democrazia più grande del mondo». Venerdì 14 giugno, il vicegovernatore di New Delhi ha dato mandato alla polizia locale di aprire una nuova istruttoria nei confronti di Roy e dell’ex professore di legge Sheikh Showkat Hussain per un’ipotesi di reato risalente al 2010, quando i due parteciparono a New Delhi a un evento pubblico organizzato dal Comitato per la liberazione dei prigionieri politici dal titolo “Azadi – The Only Way”, cioè “Libertà – L’unica via”. Il tema dell’incontro era fare il punto sulla situazione del Kashmir amministrato dall’India, l’unico stato della federazione indiana a maggioranza musulmana. Dalla metà del secolo scorso, il Kashmir amministrato dall’India è attraversato da forti spinte indipendentiste sfociate, negli anni Novanta, anche nella lotta armata. La risposta dei governi che per decenni si sono succeduti alla guida del Paese è stata trasformare il Kashmir nel territorio più militarizzato del mondo, con più di 130mila soldati stabilmente di stanza in uno spazio più piccolo dell’Italia settentrionale abitato da 12,5 milioni di persone.

Tra gli invitati all’evento di New Delhi figurava anche Roy, che pochi anni dopo il successo mondiale del suo primo romanzo Il dio delle piccole cose – Booker Prize nel 1997 – si era già affermata come una delle attiviste più schierate dalla parte delle minoranze etniche, religiose e castali del Paese, vittime di ingiustizie sociali ed economiche perpetrate, spesso, in nome del “progresso”.

La solidarietà con la battaglia per l’autodeterminazione del popolo kashmiro l’aveva portata a esporsi pubblicamente a favore di una de-escalation della presenza militare in Kashmir – macchiata da ripetute violazioni dei diritti umani andate impunite grazie alle leggi speciali che tutelano le operazioni militari indiane in Kashmir – e di un referendum che desse la possibilità a chi vive in Kashmir di decidere se aderire al progetto dell’India unita o se tracciare un futuro diverso. Referendum che era stato raccomandato da una risoluzione delle Nazioni Unite nel 1949 e che non si è mai tenuto. Oltre a una serie di saggi brevi e interviste pubblicate sui quotidiani e magazine più prestigiosi del mondo, nel 2007 Roy aveva dedicato alla questione kashmira anche il suo secondo romanzo, Il ministero della suprema felicità. Tre anni dopo, nel 2010, dal palco di “Azadi – The Only Way”, secondo le accuse divulgate nei giorni scorsi in un comunicato ufficiale del vicegovernatore di New Delhi, Roy e Hussain avrebbero pronunciato discorsi a favore della «separazione del Kashmir dal resto dell’India» e per questo entrambi sono accusati di una serie di reati che va dalla «promozione di inimicizia tra diverse comunità», «insulti con l’intenzione di minare la pace» e «asserzioni che pregiudicano l’integrità della Nazione».

Le indagini sono state aperte nello stesso 2010 e dopo quasi quattordici anni, lo scorso mese di ottobre, Roy e Hussain sono stati nominati nel documento dell’accusa ai sensi del Codice penale indiano regolare. Ma la svolta è arrivata venerdì scorso, quando le autorità hanno avuto il permesso di perseguire i due secondo l’Unlawful Activities Prevention Act (Uapa), una legge antiterrorismo speciale introdotta nel 1967 ma sempre più utilizzata per contestare reati di opinione. Ai sensi del Uapa, Roy e Hussain rischiano fino a sette anni di detenzione.

In tutti questi anni Roy ha continuato a sostenere la causa kashmira, compreso nel suo ultimo lavoro, Azadi: Freedom, Fascism, Fiction, che nel 2020 le è valso un premio alla carriera alla 45a edizione European Essay Prize, il primo premio letterario internazionale dedicato unicamente alla saggistica.

Pen International, la più antica associazione internazionale di scrittori e scrittrici al mondo, in un comunicato ha condannato le accuse mosse da New Delhi a Roy e Hussain, specificando che «una legge antiterrorismo non deve essere mai usata come strumento per criminalizzare il dissenso pacifico».

Da Facebook – 2300 a.C. circa. Enheduanna, sacerdotessa sumera nonché prima poeta della storia di cui si abbia notizia, così scriveva sulla guerra:

Lamento allo spirito della guerra

Distruggi tutto in battaglia…

Dio della guerra, con le tue ali spaventose

spazzi via la terra e attacchi

travestito da tempesta furiosa,

ringhi come un uragano ruggente,

urli come una tempesta,

tuoni, infuri, ruggisci e tambureggi,

scateni venti malvagi!

I tuoi passi che si avvicinano

sono pieni di inquietudine.

Sulla tua lira di gemiti

sento il tuo forte grido lamentoso.

Come un mostro infuocato avveleni la terra,

come un tuono ringhi sul mondo,

alberi e cespugli crollano davanti a te.

Sei sangue che scorre da una montagna,

spirito di odio, avidità e rabbia,

dominatore del cielo e della terra!

Il tuo fuoco aleggia sulla nostra terra,

a cavallo di una bestia

con cavalli indomabili,

sei tu a decidere il destino.

Trionfi su tutti i nostri riti.

Chi può spiegare perché continui così?

Mentre le guerre in corso in Ucraina, Palestina e altrove non accennano a spegnersi, alimentate dal delirio di onnipotenza patriarcale, le donne tornano ancora una volta – come ogni mese – in presidio per la pace, alla Statua – piazza Vittorio Veneto, il 24 di giugno dalle 16.30 alle 18.30.

Udipalermo – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Donne Caffè filosofico Bonetti – Il femminile è politico – #governodilei – CIF – Le Onde – Arcilesbica

Da Letterate.Magazine – In “Donne che allattano cuccioli di lupo” la filosofa femminista Adriana Cavarero smonta la dimensione del materno come trappola per le donne e destino biologico per descriverla invece come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza, oltre ogni copione patriarcale

Mai saggio è stato così congruente con i nostri tempi. Donne che allattano cuccioli di lupo è l’ultima fatica di Adriana Cavarero. Con emozione l’ho ascoltata qualche tempo fa a Napoli, a Palazzo Serra di Cassano, già Istituto degli Studi Filosofici, dove nel 1985 nacque il movimento femminista della differenza sessuale a opera sua e di altre militanti. L’incontro è stato organizzato da Stefania Tarantino, con la partecipazione del gruppo di Studi femministi e di Giovanna Borrello.

L’immagine in copertina e il titolo forniscono un indizio importante sull’impostazione filosofica del testo. Il dipinto di Eugène Grasset di tre donne che volano tra gli alberi, con tre lupi accanto, riprende Le baccanti di Euripide, in cui alcune donne, ubriache di gioia e di libertà, allattano cerbiatti e cuccioli di lupo, trasformate dalla forza dionisiaca della maternità, che fa cadere la distinzione tra umano e animale: ed è proprio questa esuberanza nutritiva del materno che viene discussa, esperita e elaborata oltre gli stereotipi di genere.

Da sempre, l’esperienza della maternità ha avuto un’interpretazione retorica, colonizzata e gestita dall’ideologia maschilista cristiano-cattolica dei vertici ecclesiastici. La dimensione femminile della maternità è stata propagandata e vissuta come dimenticanza di sé, sacrificio oblativo, esaltazione del dono della vita all’interno della famiglia patriarcale. Attraverso la letteratura, Adriana Cavarero recupera le ombre di un’esperienza complessa, dove è urgente e necessario individuare ogni verità fino al fondo più buio, affrontando anche gli aspetti repulsivi e attrattivi. Scrittrici come Elena Ferrante, Clarice Lispector e Annie Ernaux hanno esplorato con una lingua dura e viscerale il tremendo del materno, quella vertigine interiore e incarnata nel corpo che viene lacerato nel parto, trasformato nella gravidanza, traumatizzato dal dolore delle doglie, scosso dal contatto fisico con il rischio di morte e con il mistero della vita. Il corpo gravido è l’esperienza della materia pulsante che vibra in ogni sua fibra, attua il processo della vita nel suo qui e ora, superando l’astrattezza algida della tradizione filosofica maschile, che si allontana dai corpi ed enfatizza puramente l’elucubrazione del mentale.

Ogni aspetto oscuro del materno simbolico, scrive Cavarero «viene indagato dalle scrittrici, cercando le parole per narrare quella frantumazione incarnata, che permette all’una di diventare due, oltre ogni retorica tradizionale idilliaca e luminosa». Ogni donna ha in sé la potenza della procreazione, rende possibile la rigenerazione della vita ma viene costretta a pagare per questo un prezzo feroce, nella struttura patriarcale passata e presente: mutilare il proprio progetto di vita, non sentire la fame di mondo. Eppure c’è da riascoltare l’intreccio assolutamente femminile tra parto e physis, che permette alle donne di «sentire con il proprio corpo il legame con la natura, con zoé». Scrive ancora Cavarero: «il processo generativo della materia pulsa nel corpo materno, nel profondo della carne e della psiche». Non c’è separazione ma unione sinergica tra mente e corpo. Siamo tutti vivi perché una donna ci ha partorito. Questo dato è incontrovertibile e Cavarero riprende le parole di Hannah Arendt: «Nessuno e nessuna di noi sarebbe al mondo, sarebbe apparso nel mondo se un corpo di donna, complice del ciclo naturale della generazione, ovvero della necessità della vita organica, non si fosse strappato per generarci».

Ma la società patriarcale e tecnologizzata ha “funzionalizzato” il naturale linguaggio creativo legato al materno. È un’espropriazione del corpo femminile che va invece riconsegnato alle donne. La psicanalisi freudiana ha, a sua volta, schiacciato l’eros femminile sull’invidia del pene senza saper elaborare l’invidia e la gelosia dei maschi della potenza del corpo femminile che dà la vita. Leggendo le belle pagine di Cavarero, viene in mente Donne che corrono coi lupi, il libro della psicanalista femminista Clarissa Pinkola Estés che vuole recuperare la donna selvaggia, libera di vivere con estrema naturalità il suo corpo e di gestire la sua sessualità in modo totale.

Dice Elena Ferrante: scrivere veramente è parlare dal profondo del grembo materno. Attraverso il pungolo incandescente delle scrittrici, Cavarero invita a una riflessione ontologica sul tema dell’origine come orizzonte materiale e carnale del bíos, o meglio della zoé, senza sentimentalismi e senza tecnologismi. La maternità si pone come una esperienza iniziatica di pura animalità, una fonte di conoscenza della vita e della morte, esperienza di un corpo preso nel ciclo violento della riproduzione. La materialità corporea della gravidanza e del parto ci permettono di vivere la complicità con una natura che stringe il corpo gravido in una morsa necessaria, vitale e inevitabile, oltre ogni indulgenza autoconsolatoria. La letteratura che Adriana Cavarero cita è alleata di questa narrazione cruda e violenta, che offre le parole giuste e non retoriche a questo nuovo percorso zoo-ontologico. Le autrici non parlano di obbligo delle donne a diventare madri, non parlano del desiderio della maternità ma narrano semplicemente questa esperienza come materia di conoscenza.

Nella nostra società, la famiglia monogamica si è basata sulla divisione della cura per le donne e del lavoro esterno e politico per gli uomini. E ancora adesso le donne sanno che, per emanciparsi e lavorare, devono marginalizzare il loro desiderio di maternità. Alcune comunità matrilineari vissute in epoche pre-patriarcali avevano dato vita a una struttura organizzativa inclusiva per le donne e i loro figli, senza asservimenti di genere. Queste culture arcaiche, attraverso una simbologia matriarcale, sottolineavano la potenza del corpo materno, che si apre per far nascere e che nutre e allatta. La Dea madre o Madre Terra era considerata una divinità primigenia e veniva rappresentata con caratteristiche genitali e sessuali molto visibili senza celare le differenze del corpo femminile. Lo strano e misterioso potere di figliare era celebrato come sacro e naturale. Per Aristotele, la physis è il perenne processo della nascita e crescita di ogni vivente che partecipa perciò dell’«essere – per – sempre nella natura». Questo principio, ripreso da Arendt è citato nel saggio di Cavarero: il pensiero filosofico maschile ha usato la metafora del parto per rinforzare la scissione tra la creatività intellettuale maschile e il potere riproduttivo della donna. Tale scissione ha sempre voluto sottolineare il primato della ragione sul corpo, spingendo verso la subordinazione e la rimozione del corpo materno nell’immaginario simbolico patriarcale. Invece il culto della Dea madre enfatizza e potenzia le immagini simboliche del corpo materno che nutre e genera.

Cavarero ci ripropone le ricerche dell’antropologa Marija Gimbutas, che a partire dal 1974 studiò la religione della grande Madre nelle civiltà neolitiche, dimostrando attraverso i reperti archeologici le caratteristiche pacifiche e comunitarie della cultura matrocentrica, in sintonia con la natura e in interconnessione tra tutti i viventi, animali e piante. Tesi osteggiata subito dall’ambiente accademico e poi, in seguito, da molte femministe, nel timore che celebrasse troppo la dimensione del materno, col rischio di rinchiudere di nuovo le donne nel recinto della sfera domestica. Non sembra probabile che discutere sulla nascita e sulla maternità voglia dire imprigionare le donne nella trappola di una funzione biologica che diventa un dispositivo normativo. È necessaria comunque, secondo Cavarero, una zoo-ontologia materialista, capace di affrancare la pluralità dei viventi dalla presa antropocentrica, dal suo slancio predatorio, distruttivo e autodistruttivo. In linea con le tesi di Bonnie Honig, si tratta insomma di recuperare la dimensione del materno non come trappola per la donna, ma come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza esistenziale e di selvaggia vitalità nutritiva, oltre ogni copione patriarcale.

La disamina di Adriana Cavarero della mitologia classica legata alle icone dell’iper-materno, come Niobe e Latona, fa comprendere come le orride trasformazioni narrate, fino alla pietrificazione del corpo, abbiano avuto lo scopo di punire la celebrazione della potenza creativa/generativa della donna, considerata un atto di hybris, cioè un atto di tracotanza e di superbia, di arroganza e di insolenza, nella cornice misogina del sistema patriarcale.

Il tema della maternità rimane, oggi più di prima, una questione complessa, in bilico tra un’ingenua, idilliaca e accattivante celebrazione del destino biologico della madre e la denuncia femminista del suo essere prigione, fino al più moderno e controverso dibattito sulla madre surrogata e l’utero in affitto. Cavarero contrasta anche la posizione filosofica di Simone de Beauvoir, che, nel suo famoso saggio, Il secondo sesso (1949), considera la funzione riproduttiva come un rigido destino biologico, da cui ogni donna si deve liberare per realizzarsi come soggetto libero e aspirare alla trascendenza, oltre la mera conservazione della specie. Storicizzando le affermazioni di De Beauvoir, che operava in un’epoca dove il ruolo della donna/madre/schiava del sistema patriarcale era un dato incontrovertibile, dopo oltre settant’anni possiamo condividere la posizione di Adriana Cavarero nell’affermare con Luce Irigaray che non è il dato biologico della riproduzione la trappola principale per la donna: ciò che bisogna superare è questo anti-biologismo filosofico, promuovendo una diversa opinione del bíos, senza combattere la zoé. E in questa direzione di ricerca rimane valida ogni interpretazione filosofica e politica, che sposta il baricentro del primato dell’uomo sulla natura, valorizzando una concezione ecologica, tesa a proteggere il nodo biologico che lega tutti i viventi in un’unica rete, in un’incessante rigenerazione, oltre la violenza maschile e guerrafondaia.

Da ND Noi Donne – Il film della regista Léa Todorov, con Jasmine Trinca e Leïla Bekhti, pone l’accento sull’aspetto dell’emancipazione femminile di una figura di donna, medico e pedagogista che ha rivoluzionato il metodo educativo nel mondo

La storia di Maria Montessori è stata negli anni oggetto di moltissimi studi, ricerche, volumi, ma anche di film, documentari e fiction, ricordiamo fra questi la miniserie televisiva in due puntate Maria Montessori – Una vita per i bambini, con Paola Cortellesi protagonista.

Proprio su questa scia s’inserisce Maria Montessori. La nouvelle femme, presentato con grande successo in anteprima nazionale alla 60a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro – Pesaro Film Festival (14-22 giugno 2024), il nuovo film dell’’attrice, scrittrice e regista Léa Todorov, da lei dedicato a una delle scienziate italiane più iconiche nel mondo. Il film arriverà nelle sale italiane con Wanted dal 26 settembre.

Fra i personaggi femminili italiani più famosi al mondo, Maria Montessori è stata una delle prime donne a laurearsi in medicina in Italia ed è internazionalmente nota per il metodo educativo che prende il suo nome, adottato in migliaia di scuole dell’infanzia, elementari, medie e superiori in ogni Paese.

Maria, che da subito aveva mostrato una propensione per le materie scientifiche, faticò non poco per farsi accettare ed entrare a far parte di una comunità scientifica composta prevalentemente da uomini, visti i tanti pregiudizi che il mondo della medicina nutriva verso la possibilità che le donne diventassero medici. Dopo la laurea si specializzò in neuropsichiatria e pediatria ed iniziò il suo impegno a favore dei bambini dei quartieri poveri di Roma, convinta dai suoi studi che molte tra le malattie più diffuse potessero essere prevenute intervenendo sulla marginalità sociale.

Il film Maria Montessori. La nouvelle femme, che ha come protagonista Jasmine Trinca nel ruolo della pedagogista di origine marchigiane capace di rivoluzionare con il suo metodo l’educazione e l’approccio all’infanzia, è un racconto al femminile, femminista e profondamente illuminante per gli insegnanti e non solo, che vede al centro la Montessori come una figura che ha precorso i tempi, lottando, all’inizio del secolo scorso, per l’eguaglianza dei diritti in un mondo dominato dal paternalismo e dal maschilismo.

L’escamotage attraverso cui la regista Léa Todorov – figlia del più grande filosofo bulgaro e storico della letteratura russa, Tzvetan Todorov, e della scrittrice canadese Nancy Huston – costruisce l’intreccio della vicenda è l’incontro di Maria Montessori e Lili d’Alengy. Quest’ultima è una famosa “femme fatale” parigina che nasconde un segreto vergognoso: una figlia disabile, Tina, che tiene nascosta per proteggere la sua carriera nei salotti dell’alta società fin de siècle.

Lili decide di portare la figlia a Roma da dove arriva notizia di una pedagogista che sa come trattare casi simili: le due donne, interpretate da Jasmine Trinca (La stanza del figlio; Fortunata) e Leïla Bekhti (The Restless; A Man In a Hurry), diversissime in tutto, troveranno lentamente un’intesa inaspettata che porterà alla luce un segreto condiviso.

Maria Montessori. La nouvelle femme mostra la lotta di emancipazione di una donna, sia nella vita privata che in quella pubblica e professionale, e l’ideazione di un metodo, oggi universale, della sua sperimentazione e perfezionamento.

Interessante e centrale è nel film il passaggio dall’applicazione del metodo Montessori con bambini con difficoltà di apprendimento all’uso con bambini normodotati, che evidenzia l’importanza di un approccio all’insegnamento inclusivo e personalizzato, concepito per valorizzare tutte le diversità per un’istruzione accessibile a bambini di ogni condizione sociale e abilità.

Per dare un respiro storico alla questione dell’astensione femminile al voto può essere utile leggere la ricerca di Dario Tuorto e Laura Sartori, Quale genere di astensionismo? La partecipazione elettorale delle donne in Italia nel periodo 1948-2018, (in “SocietàMutamentoPolitica”, 11, 2020, pp. 11-22).

Dopo una prima fase di storia repubblicana in cui la partecipazione femminile al voto era simile a quella maschile, negli anni Settanta emergono dinamiche contrastanti. Nonostante l’aumento della presenza femminile nel lavoro, nella società e nella politica, sostenuto dal femminismo e dalle lotte per l’autodeterminazione e la parità, questa maggiore visibilità non si traduce in una maggiore partecipazione elettorale delle donne.

A partire dalle elezioni del 1976 emerge un divario di genere nella partecipazione elettorale, con un aumento dell’astensionismo femminile e una maggiore mobilitazione maschile. Questo crea un divario negativo per le donne, stabilizzandosi su 1-2 punti percentuali in meno rispetto agli uomini fino alla fine della Prima Repubblica. Ciò indica una disconnessione tra la loro crescente presenza in vari ambiti della società e la partecipazione politica attiva attraverso il voto.

Negli anni Settanta le donne non solo sono state influenzate dalla sinistra e dalla critica femminista alle istituzioni escludenti, ma hanno anche iniziato a spostare il loro voto verso formazioni nuove e trasversali. Tuttavia l’emancipazione femminile si è manifestata anche attraverso l’astensione dal voto.

Dal 1976 al 1992, lo scarto medio di partecipazione elettorale tra uomini e donne è aumentato a circa 2 punti percentuali. Questo divario è cresciuto ulteriormente tra il 1994 e il 2018, arrivando a quasi 4 punti percentuali, con una differenza di 5 punti percentuali nelle elezioni del 2013 e 2018, mentre nelle elezioni del 2022 l’astensionismo delle donne è stato maggiore di quello degli uomini del 3,5%, molto probabilmente per la novità rappresentata da una donna che si candidava al ruolo di Presidente del Consiglio.

Durante la stabilizzazione degli orientamenti politici, la maggiore propensione delle donne a votare può riflettere un civismo più pronunciato rispetto agli uomini, legato alla trasmissione di valori civici e alla consapevolezza del ruolo della partecipazione nell’identità pubblica. Invece l’astensione può rappresentare una forma di contestazione, disaffezione e radicalismo, e un rifiuto degli obblighi tradizionali.

Secondo i due ricercatori il femminismo può essere una chiave per spiegare la diminuzione della partecipazione elettorale femminile. Il rifiuto di una politica percepita come maschile e patriarcale (gli autori richiamano un libro di Adriana Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità) prevalentemente incarnata nei partiti politici tradizionali può aver allontanato le donne dalle urne. Questo rifiuto ha sancito una distanza dalla sfera istituzionale e ha legittimato la scelta di altre forme di attivazione, non convenzionali, come l’impegno in attività sociali e di volontariato. Queste forme di partecipazione, pur essendo diverse da quelle elettorali, rientrano comunque in una sfera politica sufficientemente significativa.

Nel complesso, i dati rivelano in modo inequivocabile come il divario di genere rifletta comportamenti profondamente diversificati in base all’età, con un contrasto forte nelle fasce di età più estreme. Per le donne anziane il maggiore astensionismo può essere ricondotto, almeno

in parte, alla loro marginalità sociale.

Tra i giovani, le donne votano più dei loro coetanei maschi, soprattutto se hanno un titolo di studio elevato. Questo indica che un maggiore senso di efficacia e una percezione positiva del proprio ruolo nel processo politico incentivano la partecipazione. La partecipazione giovanile è meno influenzata da determinanti sociali e territoriali, il che la rende una scelta più autonoma.

Le giovani donne, nonostante i migliori risultati scolastici e la determinazione nella carriera lavorativa, subiscono una doppia penalizzazione in un paese che valorizza poco sia i giovani sia le donne. Questa situazione le rende sensibili e pronte a mobilitarsi su temi come il welfare, la conciliazione lavoro-famiglia e il sostegno per la vita indipendente, ma anche pronte a punire i partiti, anche attraverso l’astensione, se le aspettative non vengono soddisfatte. Ma intanto le giovani donne votano di più, e più dei maschi. Come la spieghiamo? La ricerca non giunge ad alcuna conclusione se non che indicazioni più solide sui fattori determinanti della partecipazione femminile e delle differenze di genere non possono che venire dall’integrazione dell’analisi sociodemografica con quella dei comportamenti e degli atteggiamenti sociopolitici.

Qualche settimana fa, spulciando nella mia vecchia libreria di campagna, mi sono imbattuta in alcuni testi di Sylvia Plath; li ho riletti e, come mi era accaduto altre volte, ne sono rimasta turbata. Molti smarrimenti della poeta mi sembrano, tra l’altro, attualissimi e sovrapponibili a quelli che, oggi, vengono avvertiti soprattutto dalle donne. Ci ritroviamo, infatti, a difendere diritti già acquisiti, oggetto di tante battaglie da parte del femminismo. Così ho pensato di rendere omaggio alla poeta scrivendo di lei e, in tal modo, ricordarla a quante/i l’hanno amata.   

Negli anni settanta la poesia di Sylvia Plath fu letta e analizzata in modo parziale e riduttivo perché ne furono considerati unici temi dominanti la presunta schizofrenia e la denunciata violenza maschile responsabile non soltanto della “follia” della scrittrice, ma anche del suo suicidio.

Certo fu donna e poeta assai scomoda, provocatoria e sovversiva; genio che ambiva alla perfezione, specchio di quante videro riflessa in lei la propria soggettività fino a creare il Plath Myth.

Emerge inequivocabilmente dai suoi scritti un atteggiamento anti-maschile in cui le figure di dio/padre/marito, vestite con abiti nazisti, vengono identificate in quelle di carcerieri e oppressori.

C’è infatti nella poeta, soprattutto negli ultimi anni, una chiara identificazione con gli ebrei vittime dell’olocausto e della perversione maschil-nazista, ma c’è di più in quella che può sembrare solo una identificazione nel ruolo di vittima. C’è qualcosa che tende ad andare oltre il dato biografico e che presenta una condizione di sofferenza esistenziale comune alla generazione vissuta negli anni ’50 e ’60. C’è la violenza di una struttura sociale e storica nominata nelle tragedie di Hiroshima e Dachau. C’è una società che ruota intorno a valori quali «domesticità, religiosità, rispettabilità, sicurezza attraverso l’acquiescenza verso il sistema» e che induce le ragazze ad essere studentesse e figlie perfette, madri e mogli inappuntabili.

Così il sogno di perfezione in Plath si schianta contro un’avvertita inadeguatezza: il sentirsi non all’altezza delle aspettative della madre, dalla quale non era mai riuscita a distaccarsi, al punto da dipendere totalmente dalla sua accettazione fino a perdere il senso di sé.

La ricerca poetica di Sylvia Plath mette in gioco la sfera personale, si connette alla complessità della sua psiche sfociando verso visioni sempre più sconvolgenti e facilmente confondibili con nuove possibilità di essere donna e poeta.

Ma il frutto della elaborazione poetica, intellettuale e psichica finisce per scontrarsi con gli obblighi della vita quotidiana e le sue forme, i ruoli, i legami sociali nei quali viveva immobilizzata e dai quali avrebbe desiderato liberarsi, mentre la madre – così presente e così distante – la costringeva a fingere di essere forte per superare ogni difficoltà, per farcela comunque.

La poeta canta da un luogo di dolore estremo.

La “stanza tutta per sé” è stanza di cristallo che la taglia e l’attraversa. Da quel luogo di dolore non può che rappresentare luoghi di dolore deromanticizzati e resi negli aspetti più umilianti e ghettizzanti: l’orrido, la mostruosità, l’oscenità, l’abiezione, l’isteria sono il tessuto connettivo dei suoi versi. L’ansia e la disperazione evolvono in forme e figure senza corpo con testa di medusa, arpia, gorgone che raccontano esperienze borderline.

Dal dolore insostenibile si può fuggire rifugiandosi nell’asensibilità asettica, come se da dentro una teca di vetro si potesse guardare tutto senza percezione di dolore; come se auto-imprigionandosi e allontanando da sé ogni possibile tattilità, ogni con-tatto, si potesse rendere sordi il corpo e l’anima.

Ma, come scrisse Anne Sexton, amica di Sylvia Plath: a woman who writes feels too much (una donna che scrive sente troppo). Così la scrittura, che avrebbe potuto salvarla, in realtà la pone ancora al centro di un dolore la cui ferocia intollerabile incontra il suicidio, il salto fuori di sé forse come possibilità di estinguere il dolore medesimo, forse come tentativo di cancellare il sé.

La mia scelta è tuttavia quella di non codificare il gesto, bensì ritenerlo un fatto tragico e privato anche nella prospettiva di demolire stereotipi nei quali, ancora oggi, Plath rischia di rimanere ingabbiata.

È la stessa poeta a darsi corpo di strega in poesia come scelta di provocazione che, verosimilmente, mirava a rovesciare la mistica della femminilità americana – e non solo – proposta dai cartelli pubblicitari degli anni cinquanta ed oltre. Strega, luna (dea), olocausto, sono i tre temi ricorrenti nei suoi scritti dove la parola della ribellione solitaria venne considerata pericolosa e sovversiva dall’ipocrita società, tanto da essere letta come follia, e isterico fu definito il corpo da cui quella parola veniva fuori a turbare le coscienze “buone” e “giuste”.

Questa poeta ambiziosa e fragile che avvertiva soffocante indossare solo gli abiti di madre e sposa, rappresenta uno dei sacrifici femminili al mondo e all’arte, perché scardinando in solitudine le porte del disvelamento di sé, mediante la ricerca linguistico-poetica, frantumò se stessa e fu travolta dai suoi stessi demoni creativi ed esistenziali.

Da il manifesto – Sara De Simone da anni si occupa di poesia e letteratura, da Emily Dickinson a Katherine Mansfield e Virginia Woolf, e la incontriamo spesso anche su queste pagine. Di recente ha pubblicato per Viella L’atto sospeso. Azione e inazione dell’eroe dall’Iliade a Virginia Woolf (pp. 188, euro 20), inoltrandosi in un percorso lungo molti secoli e intorno a un tema davvero originale.

Un arco così esteso di tempo e di storie, per non finire in narrazioni banali o già note, doveva di necessità esigere un taglio attento, ben ragionato, e doveva orchestrare la materia per squarci in grado di superare la distanza e affondare in spazi simbolici precisi ma tra loro comunicanti. Una scommessa non facile, a mio avviso felicemente vinta, perché mostra in modo inequivocabile come uno sguardo differente, quando si posa su una grande e comune tradizione, può farci vedere qualcosa che non è stato né visto né registrato prima. Il punto di vista è dunque importante, una specie di gradiente che mette in luce le variazioni possibili di quella stessa tradizione, perché varia la forma stessa dell’avvistamento. Cambia la cartografia del passato, lo illumina là dove qualcosa se ne stava in ombra, o del tutto al buio, non detto o cancellato.

Nell’«atto sospeso» sembra andare in pezzi quell’eterno atto eroico che pensavamo intangibile, soprattutto per l’inerzia con cui spesso viene trasmesso durante il nostro percorso scolastico (absit iniuria verbis, benedico sempre la scuola pubblica). Quando però, come in questo caso, la tradizione viene trafilata alla luce di un pensiero non binario, improvvisamente diventa chiaro che l’inazione non è necessariamente l’opposto, il negativo dell’azione ma, al contrario, genera e rafforza l’azione, e, sbucando dagli interstizi, dalle fessure di un pensiero non ancora pensato, la interpella in modo cogente.

Cosa succede dunque se in una narrazione l’eroe si ferma, smette di agire? Intanto succede che di fronte a questa tesi la nostra curiosità si accende e ci spinge a considerare da vicino un’orchestrazione così radicale della temporalità da tagliarla senza sgomento in tre grandi momenti della letteratura: l’antichità classica, il romanzo medievale del XIII secolo e la prima metà del Novecento.

Il libro di De Simone si apre sull’immagine di Brice Parain, filosofo-personaggio di un film di Godard, Vivre sa vie, che racconta un episodio in cui, nel Visconte di Bragelonne di Dumas, Porthos va incontro alla catastrofe per il semplice fatto di essersi messo a pensare come sia possibile mettere un piede dopo l’altro quando camminiamo. Un’ironia feroce ci fa vedere un eroe che soccombe «sotto il peso di un pensiero», e nasce qui la prima interrogazione del testo, che lavora intorno all’idea di come i tanti eroi «in sospeso», lungo la storia della letteratura, «da Arjuna ad Achille, da Oreste a Pelasgo, da Perceval a Lancelot, fino ad arrivare alla riscritture novecentesche di Orlando e Percival nell’opera di Virginia Woolf», mettano in crisi «lo stesso paradigma eroico di cui sono il simbolo».

Intorno a questo cuore centrale dell’indagine si addensano studi e prelievi che provengono dal cinema alla fotografia, dai miti orientali e occidentali al teatro, alla filosofia, che agiscono tutti muovendo e percorrendo il tema da una colta profondità alla superficie, in modo spesso, e sorprendentemente, divertente. Il primo grande ritaglio temporale, la classicità, è accolto dalla riflessione filosofica di Simone Weil e Rachel Bespaloff, su posizioni diverse per quanto riguarda struttura e argomento del poema omerico (a questo proposito è bene ricordare il bel libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre, precursore di questo ideale confronto). Per Weil, ne L’Iliade poema della forza, è propriamente la forza «il vero argomento, il vero centro» del poema, per Bespaloff è la poesia che ne «tiene assieme» «i ventiquattro libri».

De Simone sposa quest’ultima idea per due ragioni, la prima, subito messa in evidenza, è che è proprio della poesia l’interruzione, la cesura, l’aritmia e dunque la pausa, con la sua sospensione, arresta nell’istante la durata «che scandisce il ritmo indiavolato dell’azione» epica. Leggiamo di Elena, che nel terzo libro, sulle mura delle porte Scee, elenca a Priamo i nomi dei guerrieri achei più famosi, mentre si attende il duello che deciderà della guerra, ma l’esempio decisivo, che informa buona parte dell’Iliade è l’inazione, il non-fare di Achille che, da sola, determina l’intera evoluzione delle molte battaglie in campo.

Una pausa, e una domanda, bloccano anche Oreste, nelle Coefore di Eschilo: il suo braccio resta sospeso prima di infiggere la lama nel petto della madre Clitemnestra, aprendo i versi al teatro di una mente che non può sfuggire a un destino inesorabile.

La seconda ragione a sostegno dell’idea che la poesia sia in sé lo spazio e il tempo dell’interruzione, e dunque idea centrale per il valore dell’inazione in letteratura, si sviluppa con altrettanta coerenza nel capitolo dedicato al ciclo bretone di re Artù, introdotto dalla riflessione portante sulla malinconia, che poggia le sue ragioni sui testi di Warburg, Panofsky e Saxl, Wittkower, il Benjamin del Dramma barocco tedesco, Barthes, Susan Sontag, ma anche sul cinema di Rohmer e il volto di Buster Keaton nella famosa fotografia di Joseph Frank. Tutto converge a illuminare il sonno di Artù, «roi pansif», che fermando ogni azione, terrorizza la sua corte, o l’assenza a se stesso, stupefacente, di Lancilotto nel ciclo del Lancelot-Graal, il cui filo di pensiero lo rende meditabondo e passivo, trasognato eppure capace di azioni improvvise che abbattono il suo avversario, in ragione di un’«energia statica» che si trasforma in «energia cinetica». Perceval, protagonista di Le conte du Graal, è un altro cavaliere immobile, addormentato o in dormiveglia sul suo cavallo, non agisce, non pone le domande giuste, sbaglia tutti i tempi, ma l’incompiutezza della sua azione, così come incompiuto sarà il conte, produrrà tutte le narrazioni seguenti.

Manca ora solo l’ultimo salto che porta alla rilettura critica che Virginia Woolf propone dell’Orlando ariosteo nel suo Orlando. Una biografia e di Perceval nelle Onde. Un capitolo ricco di tensione critica, sentiamo che questo è il punto non finale, ma originario dell’intero percorso che possiamo leggere ora a ritroso, perché questi due romanzi vivono della «memoria dell’eroe», qui il sonno e il tempo esistono come necessità narrative esplicite, non più miticamente alluse. L’ironico rovesciamento del Furioso che qui si addormenta, cambia sesso e attraversa d’un balzo i secoli, l’assenza nelle Onde di Percival che, non essendoci, orienta ogni parola dei personaggi, indicano che il tema della sospensione è giocato con massima consapevolezza dalla Woolf, consapevolezza prima di tutto del ritmo di una prosa che, tra dieci interludi e nove soliloqui, deve inseguire i movimenti della mente, e insieme dello scorrere della vita.

Così come Orlando non compie nessuna azione memorabile, ma si «dimostrerà sempre più incline alla malinconia, alla fantasticheria e al sonno profondo», così Percival non è certo un condottiero, viene disegnato con in testa un caschetto colonialista, su una cavalla «malridotta», eroi entrambi messi a fuoco da uno sguardo ironico, sarcastico, che rivoluziona l’intera tradizione di cui i loro eponimi erano simbolo.

A vincere sui temi, sui personaggi stessi, non è però una «tesi» da dimostrare, ma la geniale intuizione che la sospensione, il ritmo, la pausa non stanno tra l’eroe e il mondo, tra azione e inazione, ma sono elementi connaturati a una scrittura che vuole sfuggire ai “generi” codificati. Una biografia fuori canone e un play-poem sono la forma che Woolf ha trovato per rallentare le scene, dilatarle o diminuirne la tensione, come e quando necessario alla narrazione stessa. È la vittoria ultima della poesia, da lei tanto amata, l’esito di questo lungo attraversamento della tradizione.

Vorrei aggiungere al commento Europee, luci nel vento (12 giugno 2024) di Ida Dominjianni al voto europeo la mancata applicazione in Italia della par condicio nei media, e nella tribuna elettorale delle testate RAI, quello che credo fosse un obbligo: riservare uguale visibilità a tutti i programmi elettorali.

È stato così possibile attuare il silenzio stampa e televisivo sui gruppi presenti al voto e non graditi da emittenti e giornali, o forse soltanto deboli rispetto al governo.

Mi appare una cosa molto grave che i partiti abbiano accettato questo despotismo contro l’informazione della cittadinanza prima del voto. È stato un atto così antidemocratico da farmi riconoscere il Fascismo. Ha certamente avuto un peso nelle votazioni e lo ha per il futuro politico che ci riguarda.

Il potere dei media è mastodontico, ne abbiamo avuto sorpresa io ed Elena Urgnani – di Disarmisti Esigenti, candidata nella lista Pace Terra Dignità – dall’esito dei suoi voti: 35 voti a Milano e 26 ad Abbiategrasso dove vive, tramite propaganda in presenza; il resto, fino al totale di 400, dal Piemonte, dove una televisione locale le ha dato per circa cinque minuti voce e visibilità.

«Ciascuno può informarsi da sé!» (intendendo con questo «in rete»), questa frase, giustificata dall’espansione obbligata che ha avuto la comunicazione digitale, sembra l’epitaffio della cura delle relazioni collettive. L’isolamento individuale che porta a non votare, nei fatti ci sottopone alla sola voce del potere. Senza stimoli alla condivisione delle scelte, la politica dei partiti dà la vittoria di nuovo al fascismo.

Da Robinson – la Repubblica –Torna l’opera che la grande femminista dedicò ai suoi amici più geniali: Pascali, Fontana, Accardi, Twomby. Fotografia collettiva di una rivoluzione

Carla Lonzi pubblicò Autoritratto nel 1969,con l’editore De Donato: era ed è rimasto il suo ultimo lavoro di critica d’arte. Da quel momento e fino alla sua scomparsa, nel 1982, si sarebbe dedicata anima e corpo alla teoria e alla militanza femminista, con l’elaborazione di testi ancor oggi fondativi. Già in queste pagine le ragioni della sua svolta esistenziale sono esposte con perentoria chiarezza: «Quando mi sono trovata a fare la critica d’arte, ho visto che era un mestiere fasullo, completamente fasullo», afferma, e ne parla già al passato. Autoritratto nasce dalla raccolta e dal montaggio di una serie di conversazioni con quattordici artisti, registrate tra il 1965 e il 1969: Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, cui si aggiungono le domande, senza risposta, rivolte a Cy Twombly nel 1962.

Un libro formidabile che, dando seguito alla ripubblicazione delle opere complete di Carla Lonzi iniziata con Sputiamo su Hegel (2023), La Tartaruga restituisce al pubblico in un’edizione curata da Annarosa Buttarelli (pp.416, 22 euro). Non solo l’epoca e il luogo delle registrazioni sono diversi, ma varia anche la composizione degli interlocutori che partecipano a ciascun incontro. Nel trasporne i contenuti dal parlato allo scritto, Carla Lonzi lavora sul montaggio e crea una sorta di flusso di coscienza, o autocoscienza, che solo di rado interrompe con le proprie osservazioni.

Definisce Autoritratto «un libro un po’ divagato». Possiamo intuire le domande – sulla poetica, sulla tecnica, sull’ontologia stessa dell’arte, la politica, il mercato, il pubblico, la ricerca in divenire – ma non sempre sono dichiarate. È dichiarato, invece, lo scopo di questo convivio: dimostrare che l’artista è naturalmente critico e che l’opera d’arte rappresenta naturalmente una «possibilità di incontro e un invito a partecipare» a «un’altra condizione dell’uomo».     

Come nessun altro, la natura “implicitamente” critica dell’artista è innervata di vissuto e di tecnica, di capacità immaginativa e sfondamenti politici, di potenza simbolica e di evocazione. È il motivo per il quale nel 1969 Carla Lonzi inserisce, come racconto parallelo al testo, fotografie le più diverse, pubbliche e private: immagini degli artisti da bambini, da soli o con i genitori, adulti assieme a mogli e compagne, immagini di opere e immagini realizzate in occasioni espositive. In copertina, anziché il Concetto spaziale di Fontana scelto all’epoca dall’editore, avrebbe desiderato l’immagine che ora Claudia Durastanti, curatrice editoriale de La Tartaruga, ha voluto per questa edizione: la fotografia di Teresa di Lisieux (1895) che interpreta Giovanna d’Arco seduta in catene nella sua prigione.

Cosa c’è sullo sfondo di Autoritratto? Ovviamente il Sessantotto, il Maggio francese, la Biennale contestata. «La nostra società – scrive Lonzi nella premessa – ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti». E davanti a sé? Lo dichiara Jannis Kounellis quando osserva che noi «abbiamo fatto di tutto per abolire il mestiere dell’artista e, una volta abolito il mestiere, non per fare un altro mestiere, ma per essere un uomo diverso». O una donna diversa: perché, come dice Carla Accardi, gli uomini «se lo devono levare, eh, un poco, questo terrore della donna che ragiona. Il Potere io l’ho conosciuto, certo che l’ho subìto: come educazione, come ordinamento della società stabilito dagli uomini, con la forza, con l’addomesticamento, con l’asservimento, con l’intontimento, insomma».

È la magnifica utopia dell’artista che, con le parole di Luciano Fabro, si spinge a «prendere possesso del mondo, aprire una breccia attraverso cui possano passare tutti coloro che sono disponibili». Pino Pascali, all’epoca della pubblicazione di Autoritratto scomparso da un anno, confessa che «io cerco di fare quello che mi piace fare, in fondo è l’unico sistema che per me va bene», il che non esclude «una propria identità morale». Lucio Fontana, portentoso, preconizza la liberazione dell’uomo dalla materia: «Diventerà un essere semplice, come un fiore, una pianta e vivrà solo della sua intelligenza, della bellezza della natura e si purificherà del sangue». Ancora Carla Accardi usa un’espressione bellissima nel descrivere il proprio lavoro: «Mi piace che uno capisca dove il mio cuore tocca e dove la mia parola, invece, circonda». È una sintesi perfetta anche per l’altra Carla – l’amica, la femminista, la rimpianta Carla Lonzi.

Da Avvenire – La coda per la strada. L’emozione incontenibile. Il sogno realizzato di salire la scala, entrare nel seggio, pulire la bocca dal rossetto e assicurarsi che, sì, c’eravamo. Abbiamo votato anche noi per il domani dell’Italia. Le immagini finali del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, che hanno commosso le sale dei cinema quest’anno e innescato il dibattito ancora inesaurito sull’importanza del voto delle donne e sul loro ruolo irrinunciabile nella costruzione della Repubblica, sembrano sbiadire davanti agli esiti impietosi dell’ultima tornata elettorale. E va bene, ripetono gli analisti, al non voto femminile eravamo già abituati da anni, la tendenza è assodata a tutte le età e lungo tutta la cosiddetta piramide sociale – che nel nostro Paese aderisce impietosamente alla cartina geografica dello Stivale –, ma il dato messo nero su bianco dai conteggi definitivi dei sondaggi circa quanto accaduto il weekend scorso è di quelli da dimenticare. O meglio, da attraversare e metabolizzare, per capire dove si è sbagliato e come cambiar rotta.

Scomparse

Tra chi non è andato a votare, e cioè oltre la metà degli italiani di cui tanto si è parlato negli ultimi giorni, la maggior parte sono state proprio donne. Del tutto disinteressate alla campagna elettorale, tiepide nei confronti delle istituzioni europee e persino in quelli delle due leader donne (la presidente del consiglio Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia ed Elly Schlein per il Partito Democratico) che per la prima volta si scontravano nell’agone della politica nazionale. Le cifre sono impietose, per Avvenire le ha elaborate in esclusiva Swg: se fra gli uomini la barra dell’astensionismo si è spinta fino a un già drammatico 46%, per le donne è salita oltre il 59%. Un secco 13% di differenza, oltre che un aumento dell’11% rispetto al numero di elettrici che avevano già scelto di non recarsi alle urne nella tornata del 2019 (all’epoca s’erano attestate al 48%). Come dire: la situazione è in peggioramento, senza che le conquiste in termini di rappresentanza a livello politico abbiano sortito effetti concreti, né le forme organizzate di protesta contro discriminazioni di genere e diseguaglianze.

Perché? Cosa ci allontana così tanto dalla politica nonostante la faticosa conquista del diritto a far sentire la nostra voce e la sacrosanta battaglia perché sia ascoltata al pari di quella dei maschi? «Le risposte affondano nelle specificità territoriali e culturali, ovviamente, ma hanno alcune matrici comuni – spiega Cristina Pasqualini, sociologa dell’Università Cattolica che collabora con l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo – prima fra tutte l’evidente incapacità da parte della politica di rappresentarle, le donne. Tanto ci sentiamo sole, tanto mancano decisioni davvero incisive per le nostre vite, attenzione ai nostri problemi concreti, tanto crescono disaffezione e sfiducia. Non è un caso se le dinamiche di voto riscontrate nel segmento femminile sono le stesse che registriamo nelle indagini sui giovani: donne e ragazzi sono in questo momento le due categorie più vulnerabili del Paese perché rimosse quasi del tutto dall’agenda istituzionale e il risultato è la loro delusione e disillusione. Non contano sulla politica, non vi badano, perché la politica li esclude».

Le priorità

Vengono in mente le manifestazioni di donne che hanno infiammato il Paese in autunno, subito dopo il terribile femminicidio di Giulia Cecchettin, la richiesta agitata con rabbia nelle piazze (assieme alle chiavi) di uno sguardo sul dramma delle violenze e dei femminicidi: «Proteste che non sono state incanalate in un percorso realmente costruttivo di cambiamento – rileva la prorettrice dell’Università Bocconi Paola Profeta –, come se l’azione politica non riuscisse a superare la contingenza dei singoli problemi, di volta in volta ridotti a discorso ideologico, in una dinamica di polarizzazione delle posizioni che non arriva mai a incidere davvero nella quotidianità delle donne: così oggi ci troviamo con un Family Act di fatto fermo, con la cancellazione quasi totale di percorsi di empowerment e occupazione femminile, con un dibattito da parte del governo sbilanciato sui figli piuttosto che sul lavoro e da parte delle opposizioni quasi completamente incentrato sui diritti, penso in questo caso a quelli Lgbt o di adozione da parte delle coppie gay, che riguardano una minoranza della popolazione: la maggioranza delle donne non vi si riconoscono», ergo la stessa maggioranza non si riconosce in nessuno.

Un nervo scoperto, quello della distanza tra le priorità dei partiti – di governo e non – e la realtà ben esemplificato dal dibattito in corso sull’aborto: con i presunti “attentati” alla libertà femminile legati alla decisione di prevedere figure pro-vita nei consultori che avrebbero dovuto scatenare una rivolta di popolo (femminile soprattutto, s’intende) e che invece non hanno smosso l’elettorato. Nemmeno a livello di preferenze: «Le donne che hanno seguito la campagna elettorale d’altronde sono state anche meno di quelle che hanno votato, e quelle che hanno votato lo hanno fatto seguendo l’andamento nazionale con pochi discostamenti – spiega Rado Fonda, responsabile ricerche di Swg –: nel 28% dei casi, cioè, hanno premiato Fdi, nel 9% Forza Italia e nel 10%, qui un punto percentuale in più rispetto agli uomini, la Lega». Vale a dire che nel 47% dei casi hanno confermato la linea della maggioranza di governo, non importa la posizione così tanto contestata sull’aborto. «Nel 25% dei casi, invece hanno votato Pd e nell’11% Movimento 5 Stelle, con un picco al Sud relativamente al partito di Conte del 16,4% contro il 13% degli uomini. Segno che il fattore economico, e la variabile reddito di cittadinanza, in questa parte del Paese ha evidentemente non solo più peso, ma più peso per il genere femminile, evidentemente lontano dal mondo del lavoro».

Chi lavora, chi no

Che proprio l’occupazione, per altro, sia la variabile davvero incisiva sul desiderio di partecipazione alla vita democratica del Paese lo dimostrano i dati che guardano oltre a quelli di genere: l’astensione s’è fermata a poco più del 40% dei lavoratori e delle lavoratrici autonomi, tanto per fare un esempio, e ha toccato quasi il 60% nel caso dei ceti bassi: «La disoccupazione femminile è il vero problema, lo ripetiamo da anni – sottolinea Lella Golfo, reduce dall’incontro col presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il Premio Bellisario –. Quando una donna si realizza, conquista la sua autonomia e afferma il suo talento, quella donna combatte anche, scende in campo, non perde l’occasione di far sentire la propria voce. Sei donne su dieci che non sono andate a votare sono donne per cui il domani non è mai arrivato, per cui non è cambiato ancora niente e che sono convinte che niente cambierà. Occorre convincerle del contrario, ciò che da sempre è l’impegno della nostra fondazione». E occorre un impegno serio per il superamento delle diseguaglianze, «perché le donne abbiano le stesse possibilità e gli stessi stipendi degli uomini – rileva ancora la sociologa Pasqualini –, perché possano godere di autonomia e indipendenza, perché banalmente possano gestire un proprio conto corrente. Serve parlare delle donne, a tutte le donne. E non basta, è evidente, che siano leader donne a farlo: è importante, ma non è sufficiente».

Il cambiamento

Le cose cambieranno? Forse. «Ora occorre prendere atto di una doppia sconfitta: – continua Profeta – una di noi donne, che non abbiamo saputo onorare la battaglia fatta sul voto da chi ci ha preceduto; una della politica, per averci anestetizzato». Ma è proprio la politica ora che dovrebbe cogliere l’opportunità di recuperare una fetta di elettorato decisiva muovendo le leve giuste per risvegliarne passione e fiducia. «Deluse non significa perse. Le donne, come i giovani, stanno solo aspettando che cambi l’aria – conclude Pasqualini –, per rimettersi in moto e diventare protagoniste di un percorso di partecipazione senza cui nessuna democrazia può sopravvivere a lungo». Nemmeno la nostra.

Da Altraeconomia – «Quando la bimba non aveva neanche un mese ho affrontato una trasferta da Bologna a Pavia per un reportage. Per allattare mia figlia facevo tredici chilometri in macchina ogni tre ore. Ripetendo il tragitto tre volte in un giorno». Così Alice Facchini, giornalista freelance, non ha mai interrotto il lavoro dopo essere diventata madre. «Non mi sono mai fermata. Mara [nome di fantasia, ndr], la mia bimba, aveva solo quattro giorni quando ho fatto la prima call». La incontriamo per riflettere sulle difficoltà di conciliare la maternità con la carriera giornalistica. La sua esperienza conferma i dati che emergono in un rapporto condotto nel 2022 dal gruppo di ricerca e sondaggi OnePoll: quella da giornalista è la terza carriera meno adatta alla vita familiare.

Durante la gestazione e la maternità molte donne devono scegliere tra famiglia e lavoro, affrontando il peso delle disuguaglianze di genere e della precarietà e il giornalismo non fa eccezione: le giornaliste vengono pagate meno rispetto ai colleghi, firmano meno articoli e ricoprono meno cariche apicali. Per loro concedersi una pausa o un congedo è vissuto come un privilegio, soprattutto se lavorano al di fuori delle redazioni. «Non fermarsi diventa una necessità – continua Facchini – perché manca un mezzo di sostentamento e quindi alcune freelance sono costrette a continuare a lavorare, anche se non vorrebbero».

Un’esperienza simile è toccata anche a Irene Caselli, quarantadue anni, reporter multimediale ed esperta di prima infanzia e genitorialità. «Non avevo un congedo e se avessi smesso di lavorare avrei smesso di guadagnare. Quando è nato Lorenzo [nome di fantasia, ndr] stavo lavorando all’una di notte perché dovevo consegnare un paio di cose. Sono iniziate le prime contrazioni alle due di notte e sono andata all’ospedale. Il pomeriggio ho partorito e alle nove di sera ho mandato una mail chiedendo un’estensione di una settimana, poi sono tornata a casa e l’ho scritto».

Rimanere produttive non è una scelta. Secondo Alice Facchini «c’è anche una questione di pressione sociale di chi dall’esterno guarda e dice “chissà se sarà ancora attiva, se avrà deciso di ritirarsi alla vita privata”. Quindi la mia decisione era legata anche all’ansia di dimostrare che ero ancora sul pezzo, che potevano ancora chiamarmi».

Serena Bersani, presidente dell’associazione GiULiA Giornaliste che si batte per le pari opportunità e una corretta rappresentazione delle donne nei media, ricorda: «Comunicai di essere incinta soltanto quando la pancia al sesto mese era evidente e non potevo più nasconderla. Non l’ho detto prima perché avevo paura che mi togliessero incarichi». Durante un colloquio di lavoro disse al capo del personale della redazione che suo marito aveva preso l’aspettativa proprio per permetterle di essere assunta. Ma non bastò per liberarsi delle supposizioni sulle sue capacità lavorative in quanto giornalista e madre: «Cominciò a dirmi: “Io già immagino che ogni mezz’ora tu chiamerai a casa per sapere se il bambino sta bene, se ha mangiato”. Mi trattava come se non riuscissi a scindere il lavoro da cosa succede a casa, ma non mi conosceva». Questo pregiudizio, noto come maternal bias, è basato sull’idea che le donne diventino meno produttive e interessate alla carriera dopo aver avuto figli.

Le preoccupazioni di Alice Facchini e Serena Bersani sono giustificate. Secondo il rapporto Plus 2022 dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, dopo aver dato alla luce un figlio quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni lascia il lavoro, mentre solo il 43,6% continua a lavorare, con una percentuale ancora più bassa nel Sud e nelle isole (29%). La principale ragione di questa scelta è la difficoltà nel conciliare il lavoro con la cura dei figli. Nonostante un notevole calo nel tempo, persiste uno squilibrio di genere nelle dimissioni post-nascita.

Il timore che la maternità possa incidere sul lavoro non riguarda solo le giornaliste freelance. Come testimonia il recente caso di Lara Ricci, giornalista demansionata da Il Sole 24 Ore da responsabile delle pagine letterarie dell’inserto domenicale a correttrice di bozze, dopo il periodo di maternità obbligatoria. Serena Bersani esprime preoccupazione per il caso: «L’Ordine e il sindacato non sono riusciti a proteggere questa collega e a far valere i suoi diritti. Ricci è dovuta ricorrere al tribunale per riavere il suo posto, questo dimostra che il problema è ancora profondo». Il 22 gennaio 2024 il tribunale del lavoro di Milano ha riconosciuto, per la seconda volta, le decisioni del quotidiano economico come discriminatorie. Per Lara Ricci è stato difficile dimostrare la discriminazione: «È arduo, ad esempio, provare il caso in cui una donna non abbia ottenuto una promozione che meritava a causa del suo genere», racconta. Tuttavia, l’ultima sentenza ha reso più facile la prova delle discriminazioni contro tutte le lavoratrici madri. «La discriminazione si può realizzare non solo in quanto la maternità ne sia la causa – spiega la giornalista, evidenziando l’importanza della sentenza – ma anche solo in quanto sia l’occasione per farlo, approfittando cioè della sua assenza per congedo».

Espulse, un collettivo di giornaliste che indaga sulle molestie e sugli abusi di potere nel giornalismo italiano sottolinea la scarsa risonanza mediatica della sentenza «che invece potrebbe spingere altre donne – giornaliste, ma anche altre lavoratrici – a fare causa ai datori di lavoro che le hanno discriminate durante la maternità». Il demansionamento, come dimostra la vicenda di Lara Ricci, è uno dei timori più grandi, ma non è l’unico. «Io avevo un contratto a tempo indeterminato – commenta Ricci – mentre non è il caso di molte giovani donne precarie, che rischiano il non rinnovo. Inoltre, le freelance spesso lavorano anche subito dopo il parto per paura di perdere collaborazioni».

Tutti questi pregiudizi, ostacoli e timori fanno parte di un settore in cui la salute mentale è ancora un tabù. «Dopo il secondo figlio, mi sono resa conto di essere in burnout. Avevo bisogno di una pausa», ricorda Irene Caselli, sottolineando come, nonostante l’expertise in questi ambiti, non si fosse accorta di quanto fosse difficile ritornare a lavorare così presto e affrontare le conseguenze del mancato distacco da lavoro.

Maria Grazia Flore, psicoterapeuta ed esperta in psicologia perinatale puntualizza: «In Italia il compito della cura è ancora prevalentemente affidato alle donne. Questo crea una situazione ambivalente in cui, nonostante il supporto apparente alla conciliazione lavoro-famiglia, mancano i presupposti come il congedo di paternità più lungo e servizi di welfare adeguati». «La penalità nel mio caso è stata la mia salute mentale e la mia salute fisica – dice con grande consapevolezza Irene Caselli – perché ho continuato a fare le cose come se fossi da sola ma non ero da sola».

In Italia, il tema delle difficoltà affrontate dalle giornaliste durante la maternità è trascurato, come dimostra la scarsa disponibilità di dati. La prima indagine sulla condizione lavorativa delle giornaliste madri è stata condotta tramite un questionario nel maggio 2022 dalla commissione Pari opportunità dell’Ordine della Campania, ma i risultati non sono ancora stati pubblicati. «C’è bisogno di molta flessibilità nel mondo giornalistico – conclude Caselli, con lo sguardo che si fa più serio – e mentre la flessibilità da un certo punto di vista si combina bene con l’essere madre, da altri punti di vista è complicato».

Da Il Quotidiano del Sud – Ci sono donne, le femministe, a cui le altre devono la loro libertà, in particolare le giovani donne. Una di queste è Carla Lonzi che, alla fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta del secolo scorso, con il suo gruppo di autocoscienza Rivolta Femminile ha dato origine, come altre, al femminismo italiano della differenza. A distanza di quarantadue anni dalla sua morte, avvenuta nel 1982, Lonzi non solo continua a essere presente nella mente di chi c’era ma è diventata una delle femministe più studiate in tutto il mondo. A lei, infatti, sono dedicate tesi di laurea, seminari, ricerche, studi, in tutte le università. È riconosciuta come “avanguardia filosofica italiana del XX secolo” e ovunque nascono gruppi di lettura dei suoi scritti la cui riedizione oggi è curata dalla filosofa femminista Annarosa Buttarelli, autrice tra l’altro del recente saggio Carla Lonzi, edito da Feltrinelli per la Collana “Eredi”. «Gli scritti di Carla Lonzi – scrive l’autrice – possono essere considerati di “trasformazione”, ovvero testi non accademici, ma d’esperienza, di vita e di pensiero concreti, capaci di produrre cambiamenti irreversibili in chi ha la fortuna di sentirli risuonare come veri e adeguati a sé». È quello che è accaduto a lei, a me e a tante donne della sua/mia generazione divenute “eredi senza testamento” di un pensiero e di una politica. Eredità oggi da «conservare e trasmettere memoria alle nuove generazioni», alle giovani donne che «pur avendo acquisito la libertà creata dalle loro madri, spesso non sanno dire come, dove e quando si sono combattute le lotte che hanno dato origine alla loro libertà». È questo l’impegno di Buttarelli che nel suo saggio ci porta dentro gli scritti di Lonzi, la quale era consapevole «di essere all’origine della rivoluzione più radicale mai realizzata: la fuoruscita delle donne dalla cultura patriarcale», attraverso la pratica dell’autocoscienza e la trasformazione di sé nella relazione con l’altra, con le altre. «Essere una donna – scrive Lonzi –, che assume di esserlo, comporta il disfacimento di ciò che prevede la società e la cultura per lei» e «ricusa ogni ruolo sociale e intellettuale». Lonzi “traghetta” così se stessa e le donne fuori dalla cultura patriarcale, le rende “donne pensanti e libere” e si misura nelle relazioni “donna con donna”, che altre femministe della differenza renderanno «più praticabili dentro un ordine simbolico femminile, agli albori nel momento in cui lei scrive». Le giovani della “quarta ondata” del femminismo, che oggi lottano contro stereotipi e ruoli patriarcali, non hanno memoria del lavoro di “deculturizzazione” che le madri del femminismo della differenza hanno già fatto, togliendo al patriarcato ogni credito femminile e creando «una genealogia di saperi e sapienze femminili». Buttarelli nel suo saggio ci guida nella comprensione di parole chiave del pensiero e della pratica politica di Lonzi: autenticità, autocoscienza, relazioni tra donne, fare vuoto, auto-inferiorizzazione, andare via, che ci fanno capire come lei della sua vita ne fece «un’opera d’arte dove mente, corpo, relazioni, esperienza sono tenute insieme». […]

Da Il Corriere della Sera – Sofia Corradi, ottantanove anni, è nota come “mamma Erasmus” perché a lei di deve l’invenzione del programma di scambi che ha fatto viaggiare milioni di studenti. Fra questi anche sua nipote Margherita che ha tenuto il discorso di ringraziamento per il titolo conferito dall’università parigina a sua nonna (nella foto: Sofia Corradi e sua nipote Margherita)


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Sofia Corradi e sua nipote Margherita

«Avrei voluto che ci fosse nonna sul palco della Sorbona a ritirare il dottorato honoris causa. Ma non stava bene, e in fondo il fatto che ci fossi io al suo posto ha un valore simbolico perfino più forte. Anch’io sono un’erasmiana, come pure mia sorella Alice: non c’era modo migliore di rappresentare quello che lei ha significato e significa per milioni di giovani». Margherita Ventura, 22 anni, è laureanda in Psicologia a Perugia. È toccato a lei venerdì scorso parlare davanti a 150 persone riunite nel grande anfiteatro dell’università parigina per celebrare Sofia Corradi, che lei e sua sorella chiamano nonna, ma al mondo è nota come «mamma Erasmus». In Italia, forse, il suo nome non è così popolare – nemo propheta in patria – ma quello stesso Premio europeo Carlo V che Mario Draghi ha ricevuto due giorni fa dalle mani di re Felipe VI era già stato conferito nel 2016 proprio alla professoressa Corradi, prima italiana e seconda donna della storia dopo Simone Veil. È a questa caparbia signora romana che oggi va per i novanta, infatti, che si deve l’«invenzione» di uno dei programmi di maggior successo della storia europea: l’Erasmus, appunto.

Tutto cominciò da un’«arrabbiatura», come ha raccontato lei stessa tante volte, perché al suo rientro in Italia da una borsa di studio in Diritto comparato alla Columbia di New York, la sua università, che era la Sapienza, non le aveva voluto riconoscere gli esami sostenuti in America. Corradi amava studiare e senza troppa fatica si era rimessa in pari e presto laureata, ma non era donna da mettersela via. Dieci anni dopo, essendo stata nominata consulente scientifica della Conferenza dei rettori italiani, mise a punto un documento che proponeva il riconoscimento dei periodi di studio all’estero. Il «lodo Corradi», adottato dal ministro dell’Istruzione Ferrari Aggradi nel 1969, naufragò a causa della fine anticipata della legislatura. Ma daccapo Corradi – come ha raccontato lei stessa nell’ultima intervista al Corriere poco più di due anni fa – andò avanti per la sua strada, «rompendo le scatole» ai rettori italiani e ai loro omologhi europei.

Il primo risultato lo spuntò nel 1976 con un progetto pilota della Commissione europea che di fatto spianava la strada all’Erasmus, anche se per il lancio del programma vero e proprio si dovette attendere fino al 1987.Da allora, secondo l’ultimo censimento aggiornato al 3 giugno, i partecipanti sono stati 15.655.169. Fra questi anche Margherita e sua sorella. «I miei sei mesi a Siviglia sono stati l’esperienza più bella della mia vita. – racconta Margherita – Pensi che non sono rientrata neanche a Natale. Inizialmente sia io che Alice, che nel frattempo stava facendo il suo secondo Erasmus a Parigi, pensavamo di tornare a Roma per stare con nonna. Ma lei al telefono ci ha detto: “Non se ne parla proprio. Qui trovate sempre i soliti parenti. Godetevi l’Erasmus”». E così le due sorelle prima hanno festeggiato insieme il Natale a Parigi e poi hanno atteso il nuovo anno a Siviglia.

È andata così anche per il discorso che Margherita ha pronunciato alla Sorbona. Tutta farina del suo sacco. Corradi, che non per nulla è professoressa emerita di Educazione degli adulti, non ha voluto metterci becco. «L’ho scritto di notte, perché ero emozionata e faticavo a prendere sonno. Il mattino dopo l’ho letto a nonna, che mi ha dato il via libera. Quando le abbiamo mandato il video della cerimonia girato da Alice, lei mi ha fatto i complimenti e mi ha detto che si vedeva che stavo leggendo qualcosa che avevo pensato io. E che proprio per questo il discorso funzionava». Cosa ha detto Margherita quel giorno? Che «l’Erasmus non è solo un programma di studio, ma un modo per creare un ponte fra i cuori delle persone, superando barriere culturali e pregiudizi. Un modo per promuovere la pace». Non poteva essere più attuale.

Da Internazionale – Israele è stato sconfitto, e la sua sconfitta continua. E non perché dopo nove mesi di guerra Hamas non è ancora stato neutralizzato. Il simbolo della sconfitta figurerà per sempre accanto a quelli dell’ebraismo, come la menorah, e alla bandiera di Israele perché i leader, i comandanti e i soldati israeliani hanno ucciso e ferito migliaia di palestinesi, seminando desolazione nella Striscia di Gaza. Perché l’aviazione ha bombardato edifici pieni di bambini, donne e anziani. Perché gli israeliani credono che non ci sia alternativa. Lo stato ebraico ha perso perché i suoi politici stanno portando alla fame e alla sete due milioni e trecentomila esseri umani, perché a Gaza dilagano la scabbia e le infiammazioni intestinali. Ha perso in modo schiacciante perché il suo esercito concentra centinaia di migliaia di palestinesi in aree sempre più ristrette, etichettate come zone umanitarie sicure, prima di bombardarle. Perché migliaia di persone rese permanentemente disabili e bambini non accompagnati sono intrappolati in quelle aree.

Perché lì si stanno accumulando montagne di rifiuti l’unico modo di smaltirli è dargli fuoco, sprigionando emissioni tossiche. Perché per le strade scorrono fiumi di liquami ed escrementi. Perché quando la guerra sarà finita le persone torneranno nelle case in rovina piene di ordigni inesplosi e il suolo sarà saturo di sostanze nocive. Perché migliaia di persone soffriranno di malattie croniche.

Perché molte di quelle équipe mediche coraggiose della striscia di Gaza, uomini e donne, dottoresse, infermieri, autiste di ambulanze e paramedici (e sì, anche chi sosteneva Hamas o riceveva lo stipendio dal suo governo) sono stati uccisi dalle bombe e dalle cannonate di Israele. Perché i bambini avranno perso preziosi anni di studio. Perché libri e archivi pubblici e privati sono andati in fiamme, e manoscritti, disegni e ricami degli artisti di Gaza saranno perduti per sempre. Perché è impossibile immaginare il danno psicologico inflitto a milioni di persone.

La sconfitta consisterà nel fatto che uno stato che si ritiene l’erede delle vittime del genocidio compiuto dai nazisti ha prodotto questo inferno in meno di nove mesi, senza che se ne intraveda la fine. Chiamatelo genocidio. O non chiamatelo genocidio. Il fallimento strutturale non risiede nel fatto che questa parola ora è stata affiancata al nome d’Israele nella denuncia presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia. Il fallimento sta nel rifiuto della maggioranza degli israeliani di ascoltare i campanelli d’allarme di quel ricorso. Hanno continuato a sostenere la guerra, facendo in modo che quella denuncia diventasse una profezia.

La sconfitta è nelle università del paese, dove si sono formati giuristi che giustificano come “proporzionato” ogni bombardamento che uccide dei bambini. Sono loro a fornire ai comandanti un giubbotto antiproiettile ripetendo la frase fatta “Israele rispetta il diritto internazionale, avendo cura di non far del male ai civili” ogni volta che viene dato l’ordine di espellere la popolazione.

Le carovane di sfollati, a piedi, con i carretti, con i camion carichi di persone e materassi, con le sedie a rotelle che trasportano persone anziane o amputate, sono una bocciatura per il sistema d’istruzione dello stato ebraico, per le sue facoltà di legge e i suoi dipartimenti di storia. Questa disfatta è anche un fallimento della lingua ebraica: l’espulsione è diventata “evacuazione”; un raid militare è “un’attività”; il bombardamento di un intero quartiere è “un buon lavoro dei nostri soldati”.

La natura monolitica di Israele è un’altra ragione e un’ulteriore dimostrazione della disfatta. La maggior parte dell’opinione pubblica israeliana ebraica, compresi gli oppositori di Benjamin Netanyahu, è prigioniera dell’idea che una vittoria totale sia la risposta al massacro del 7 ottobre.

È vero, Hamas ha commesso azioni orribili: non ci sono parole per le sofferenze degli ostaggi e delle loro famiglie. È vero, aver trasformato Gaza in un enorme deposito di armi pronto all’uso è esasperante. Ma la maggior parte degli ebrei israeliani si è fatta accecare dalla sete di vendetta. Il rifiuto di ascoltare e conoscere è nel dna di questa disfatta. I nostri comandanti onniscienti non solo non hanno ascoltato le soldate ricognitrici che avevano lanciato l’allarme su un possibile attacco, ma soprattutto non sono stati in grado di ascoltare i palestinesi.

I germogli di questa sconfitta sono in quei manifestanti che protestano contro la riforma della giustizia israeliana ma esitano ad ammettere che non può esserci democrazia senza mettere fine all’occupazione dei territori palestinesi. è un fallimento già scritto nei primi giorni dopo il 7 ottobre, quando chiunque cercasse di far notare il “contesto” era considerato un traditore o un sostenitore di Hamas. Quei traditori erano i veri patrioti, ma la disfatta è anche loro.

di Mario Di Vito, Giansandro Merli

Da il manifesto – Nella sua prima intervista da eurodeputata inizia a tracciare il programma: lotta a disuguaglianze, discriminazioni e guerra. «Il segnale più forte è che molti voti arrivano da giovani e studenti: loro possono cambiare la direzione del vento che soffia sul paese», dice al manifesto

«Il mio risultato è un segnale positivo di fronte al successo dei partiti di estrema destra in vari paesi europei. Ma il segnale più forte è che molti voti arrivano da giovani e studenti: solo loro possono cambiare la direzione del vento che soffia sul paese». L’eurodeputata Ilaria Salis si è presa qualche giorno per rispondere alle nostre domande, nella prima intervista che rilascia dopo aver ottenuto la valanga di 176mila preferenze che hanno trainato l’Alleanza Verdi-Sinistra ben oltre il quorum e che la porteranno a Strasburgo. Uno scambio ancora da lontano, che richiede alcune cautele per tutelare la posizione di una detenuta in un paese come l’Ungheria. Non per questo evita di entrare nel merito delle questioni che caratterizzeranno il suo nuovo impegno politico: dalle strade alle istituzioni, valorizzando le «esperienze di tanti anni trascorsi nei movimenti».

Onorevole Salis, con che stato d’animo ha atteso i risultati elettorali?

Direi che l’incredulità era lo stato d’animo dominante. Anche quando tutti ormai festeggiavano io ho aspettato di vedere i risultati numerici. Quando abbiamo superato il milione di voti per Avs sapevo che il 4% era stato raggiunto, ma stentavo ancora a crederci.

Dopo la notizia dell’elezione è riuscita a dormire?

Sì, mi sono addormentata di botto, un po’ come i bambini. Ma dopo poche ore ero già sveglia perché il telefono ovviamente ha iniziato a squillare presto. Quando ho aperto gli occhi non riuscivo a realizzare ciò che era successo, credevo fosse stato solo un bel sogno.

Che tipo di segnale rappresenta l’elezione di un’antifascista militante con questa grande quantità di consensi?

Un segnale molto positivo, soprattutto di fronte al successo elettorale ottenuto dai partiti di estrema destra in molti paesi d’Europa. È rincuorante vedere che tante persone, almeno in Italia, non hanno dimenticato la storia del nostro paese. Ma il segnale più forte è il fatto che molti voti arrivino dai giovani e dagli studenti. Credo che questo sia un dato di grande importanza perché la partecipazione politica dei giovani è fondamentale soprattutto nel mondo di oggi, che muta a ritmo incalzante. Forse solo grazie alle nuove generazioni potrà cambiare la direzione del vento che soffia sul nostro paese.

Sull’Europa soffia un vento di estrema destra. Qualcuno, con una battuta, ha detto che l’eurocamera è il posto meno sicuro dove mandarla in questo momento. Da dove bisogna cominciare per fermare una simile deriva?

Le destre non vogliono creare le condizioni e gli strumenti affinché le persone possano superare le loro insicurezze. Al contrario favoriscono dinamiche di regressione umana, sociale e politica. Perciò è importante impegnarsi per migliorare le condizioni materiali di vita e stimolare percorsi di crescita. Inoltre la solidarietà, forza coraggiosa e collettiva capace davvero di cambiare il mondo, deve essere il faro che ci aiuta a mantenere la rotta. Infine, bisogna dare vita a una nuova cultura popolare antifascista, che affondi le proprie radici nella gloriosa memoria dei partigiani, ma che si nutra anche e soprattutto del presente. Una cultura viva, sentita e vicina alle grandi questioni di oggi: diseguaglianza sociale, discriminazioni, guerra e cambiamento climatico.

Si aspettava di riuscire a trainare Avs a un risultato oltre ogni aspettativa?

No, non me lo aspettavo proprio e anzi ero preoccupata che non si riuscisse a superare lo sbarramento. Quando ho visto che le cifre prendevano il volo stentavo a crederci.

Nelle prossime settimane comincerà il suo impegno in Europa. Quale sarà il suo primo atto da europarlamentare?

Non è importante cosa farò prima o cosa farò dopo, perché i temi su cui voglio concentrare il mio impegno sono tutti ugualmente importanti e spesso legati tra loro. Ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire essere in carcere all’estero e sono tuttora detenuta. Nessuno può accettare che si verifichino simili ingiustizie. Finalmente come parlamentare potrò dare voce alle storie e alle condizioni di tutte queste persone. In Italia la situazione è drammatica non solo all’interno delle carceri, ma anche per le condizioni a cui sono sottoposti i migranti trattenuti nei Centri di permanenza per i rimpatri. Mi batterò anche contro discriminazioni, disuguaglianze, sfruttamento, patriarcato e guerra. Per cambiare radicalmente le condizioni materiali di vita delle persone, per i diritti dei lavoratori, delle lavoratrici e dei precari. Per una scuola di qualità che non lasci indietro nessuno e per la tutela dell’ambiente.

Intorno alla sua candidatura si sono mossi centri sociali, movimenti, studenti e soggetti che di solito restano lontani dalle urne. Che tipo di relazioni pensa di coltivare con queste realtà?

Ho sempre fatto politica in contesti di movimento e fra le persone comuni: la mia intenzione è proprio partire da quello che sono e dalla mia storia. Credo che le esperienze di tanti anni trascorsi nei movimenti e gli scambi che continuerò a intrattenere con tali ambiti potrebbero aprire la strada a un’idea di politica più vicina alla vita reale e che coinvolga tutte le persone che condividono la volontà comune di battersi per ciò che è giusto.

Segnali interessanti: il quotidiano La Stampa ha pubblicato (19 maggio 2024) un articolo di Annarosa Buttarelli dal titolo “Quando abbiamo dimenticato che il ricorso all’aborto è un problema degli uomini?”.

In quell’articolo si fa un passo avanti importante sul tema. Si ribadisce come irreversibile l’autodeterminazione della donna come unità psicofisica inviolabile: da lì non si torna indietro, benché si assista oggi «al tentativo di aggredire questo presidio irreversibile che il “soggetto imprevisto”, le femministe delle origini hanno guadagnato nel corso della rivoluzione delle donne».

Contemporaneamente si sottolinea con decisione il cambio di civiltà necessario perché «l’inculturazione mancata dei maschi riguardo al rispetto dell’inviolabile corpo fecondo delle donne fa attrito con la riuscita de-culturizzazione patriarcale delle donne che si sono assestate nell’autodeterminazione. Sta ai maschi trovarsi all’altezza del coraggio femminile.»

Buttarelli invita a farsi ispirare dalle parole di Carla Lonzi: «Proviamo a pensare una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalle donne. In tale civiltà apparirebbe chiaro che i contraccettivi spettano a chi intendesse usufruire della sessualità di tipo procreativo, e che l’aborto non è mai una soluzione per la donna libera».

Lo sappiamo bene: ci siamo sempre fatte carico del problema contraccettivi, adottando via via le soluzioni che apparivano nel tempo più sicure e meno invasive. Ma oggi il tema minaccia di essere anche più sottilmente invasivo. Come spiega Laura Tripaldi in Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne, siamo entrati/e in una rete di sorveglianza biotecnologica.

Se vogliamo fare passi avanti in questo cambio di civiltà, è imprescindibile che gli uomini si chiedano: come ci rendiamo responsabili in relazione al corpo fecondo delle donne? Lo dice chiaro e semplice Gabrielle Blair che affronta il tema in Eiaculate responsabilmente. 28 buone ragioni (Feltrinelli 2024). Pare che anche nella ricerca qualcosa si muova (vedi Katherine J. Wu, Misure da uomo, articolo su The Atlantic/Internazionale – https://puntodivista.libreriadelledonne.it/misure-da-uomo/ -) e entro i prossimi vent’anni (!) avremo nuovi anticoncezionali maschili (per i quali naturalmente si cercano standard molto più severi di quelli fin qui usati per gli anticoncezionali femminili! E questo potrebbe avere ricadute positive anche per le donne).

Concludo ribadendo, come ci suggerisce Buttarelli, che è importante fare luce su questo cambio epistemologico: la libertà delle donne, con l’autodeterminazione (altro che denatalità e difesa della vita!) ha sottratto la generatività al dominio patriarcale e ha cominciato a ripensarla, ma quando gli uomini non si rendono in prima persona responsabili nel loro rapporto con il corpo fertile femminile, c’è una violenza simbolica che continua.

Forse, oso dire, è solo un primo passo, ma imprescindibile, per mettere in discussione l’indifferenza secolare della filosofia per il corpo materno. Come dice Adriana Cavarero: «Fenomeno esclusivamente femminile, la gravidanza permette di conoscere una “verità” essenziale della condizione umana, che al corpo integro dell’altro sesso non è dato esperire» (A.C., Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno). È più che mai necessario reintegrare la nascita come aspetto centrale della temporalità umana: la nascita ha la precedenza sulla morte. Le donne lo sanno. E il mondo ha più che mai bisogno di saperlo.

Il 30 maggio, 1° e 2 giugno si è tenuto a Torreglia il convegno straordinario “Incontriamoci così come siamo… sulla soglia…”, organizzato da Identità e Differenza di Spinea con la rete delle Città Vicine e le Nuove Beghine. Il convegno riprende gli incontri che si sono tenuti annualmente dal 1995 al 2018, importanti momenti di confronto di pratiche politiche femministe e di relazioni di differenza tra donne e uomini.

In questa occasione, Alberto Leiss di Maschile Plurale ha introdotto il tema della sua ricerca di genealogie maschili che desidera ritessere alla luce dell’incontro con il femminismo e ha avanzato la proposta di una pratica di incontro tra gruppi di uomini e gruppi di donne indipendenti. Ne è nato un dibattito interessante, che si è intrecciato agli altri temi portati da donne e uomini nell’incontro e incentranti in gran parte sul clima di guerra e le possibili risposte.

Umberto Varischio e Stefano Sarfati, entrambi impegnati alla Libreria delle donne, hanno messo a punto efficacemente il senso della loro pratica politica direttamente radicata in un contesto femminista e, come pure Claudio Vedovati, ciascuno con sfaccettature diverse, della scelta di inscriversi in una genealogia femminile. Marco Deriu (anche lui di Maschile Plurale) ha parlato del suo bisogno di ricostruire, come Alberto, una genealogia maschile a positivo, radicandola anche nella sua biografia personale e nella perdita precoce del padre.

Seguono i due interventi di Stefano Sarfati durante il convegno.

(La redazione del sito)

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Mia mamma è una delle fondatrici della Libreria delle donne di Milano, sono cresciuto tra le femministe, e ho sempre trovato una cosa normale dare autorità alle donne. Comunque aldilà di questa vicinanza che ho avuto fin da ragazzo, c’è stato un momento in cui ho letto, riflettuto e frequentato da vicino la Libreria delle donne e dopo un’iniziale difficoltà, il guadagno in termini di libertà è stato enorme. La mia grande scoperta (ma è la scoperta che fa ogni uomo che vi si avvicina) è stata che il femminismo della differenza è buono per gli uomini come per le donne, così come la madre è buona per i figli come per le figlie.

L’intervento di Alberto Leiss come altre volte in passato è stato per me stimolante e mi ha suscitato una riflessione. Quando Alberto ha accennato alle figure maschili da salvare, cosa si può salvare del patriarcato, mi ha fatto ricordare quando ho letto L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro, in particolare quando parla di genealogia materna. All’inizio rimasi spiazzato, ho sentito un senso di vuoto e spaesamento, mi dicevo: e io dove sono in tutto ciò? Mia sorella era inclusa nella genealogia di nostra madre e io no.

Poi ho pensato ok, mia sorella con le sue figlie continua la genealogia, mentre io sono diciamo così “un binario morto”, ma intanto che vivo sono nella genealogia di nostra madre, tanto quanto lei.

Quindi, per tornare all’intervento di Alberto Leiss la mia genealogia di uomo non sono i Montaigne, gli Spinoza eccetera, ma la mia madre naturale e altre madri simboliche.

Questo mi porta anche a essere d’accordo con l’intervento di Umberto, con cui condivido la pratica politica alla Libreria delle donne di Milano, di non ritenere interessante un gruppo di uomini che si esprimano in quanto uomini femministi, ma trovo interessante esprimermi da uomo femminista in un luogo principalmente di donne.

Da quando ci siamo riuniti l’ultima volta qui a Torreglia ad oggi il mondo è peggiorato, si parla di bombe atomiche, e siamo tutti e tutte angosciati. Personalmente credo che se tutti gli uomini dichiarassero la loro genealogia materna, ossia l’ordine simbolico della madre, figure come Trump, o Putin, ma anche Macron o Stoltenberg e le brutte copie nostrane, che in qualche modo esistono grazie alla figura simbolica del padre, perderebbero immediatamente consistenza.

Dopo la fine del patriarcato siamo finiti in un vuoto dove tutto può succedere, il passaggio che manca secondo me è il passaggio in cui gli uomini si rifanno a una genealogia della madre.

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La radicalità del percorso del femminismo italiano dagli anni del Demau ad oggi, ma anche la domanda di Adriana Sbrogiò di ieri: voi uomini cosa fate? meritano da parte di noi uomini che ci diciamo femministi, una risposta radicale. Anzi gliela dobbiamo.

Non è più il momento dei pianti per i padri perduti, non è più il momento dei grandi geni del passato, se vogliamo un cambio di civiltà questi padri si devono lasciar andare, per citare Carla Lonzi: «vai pure».

Ovviamente sto parlando di padri simbolici; non è che non capisca il trauma della perdita di Marco Deriu, rispetto il suo dolore, io qui sto parlando di politica, di guerra e di pace, di vita e libertà.

Ribadisco quello che ho detto ieri: noi uomini che ci diciamo femministi dobbiamo senza esitazione dichiarare la nostra adesione al mondo della madre e dobbiamo trovare delle parole da far dilagare nel mondo per intendere questa adesione simbolica.

Parlerò, e ne avrò sollievo 

Giobbe 32, 20

Da Doppiozero – «Pazienza, assennatezza, speranza, coraggio, lucidità, sete di verità». Ritrovo queste parole tra i miei appunti del 2009, in occasione del Premio letterario Città di Napoli di quell’anno, della cui giuria facevo parte. Le scrivevo a proposito di un saggio autobiografico folgorante, Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (trad. it. e cura di Elena Loewenthal, Neri Pozza, 2008), dell’ebreo israeliano Avraham Burg (1955), presidente della Knesset dal 1999 al 2003, figlio dell’ebreo tedesco Yosef Burg, uno dei padri dello Stato di Israele. Quel libro avvincente, accorato, scomodo, che denunciava apertamente l’implosione etica, ancor prima che politica, di Israele, si poneva come una questione di coscienza. «Mi sono sentito in dovere», scriveva l’autore, «di dire le cose che mi bruciavano dentro». Un atto di responsabilità di contro alle morte gore della convenienza e della comodità. Dall’interno della cultura ebraica, amata e rispettata, amata perché rispettata, Burg denunciava l’establishment politico e la società di Israele, perché «ho la sensazione che il paese si sia trasformato in un regno senza profezia». Quel suo appello autoriflessivo avrebbe ottenuto il massimo riconoscimento, rassicurando in qualche modo tutte e tutti noi: nel microcosmo israeliano, autoproclamatosi la sola democrazia del Medio Oriente, una sorta di Occidente dislocato a Levante, c’era ancora chi aveva a cuore la giustizia e sapeva esercitare con acutezza priva di ideologismi l’arte critica del pensiero.

Sono passati, da allora, quindici anni, cinque cosiddette guerre di Gaza e un aumento vertiginoso degli insediamenti coloniali nei Territori occupati di Cigiordania. Il regime di apartheid si è, se possibile, aggravato e il processo di “pulizia etnica” intensificato. L’ipotesi dei “Due stati per due popoli”, oggi sveltamente riattualizzata dalla vulgata mediatica e dalla prassi poco più che discorsiva di troppi governi nazionali, fa pensare a una cristallizzazione dell’intelligenza, a un inciampo non innocente della volontà, a un deficit di immaginazione politica. 

L’artista ebrea israeliana Sigalit Landau, le cui opere accompagnano questo mio testo, ha osservato da vicino i processi di “incrostazione” provocati dal sale del Mar Morto: il sale si stratifica, corrode e al contempo conserva. Non è quello che sta succedendo da più di un secolo nella Palestina storica? Non è quanto da lì si riverbera sulle diaspore ebraiche e palestinesi di tutto il mondo? Non siamo, tutte/i noi, parte in causa di una situazione di stallo evidentemente voluta, perseguita, facilitata, concessa?

In un libro fresco di stampa, Gaza. Odio e amore per Israele (Feltrinelli, 2024), scritto – io credo – con mani tremanti e un’enorme inquietudine nel cuore, il nostro Gad Lerner sembra porsi quesiti simili, un’analoga tempesta di dubbi. La sua, tuttavia, è una posizione asimmetrica rispetto a quella di Burg: se quest’ultimo ha scelto la nazionalità israeliana e l’impegno civile e politico nel proprio paese, Lerner è un cittadino italiano che in questa nostra povera patria ha combattuto le sue battaglie politiche e intellettuali facendo opera incessante di buon giornalismo. Ed è da qui che oggi si domanda e ci domanda: «Si può vivere in paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?» Postulando, pur senza esplicitarlo, un interrogativo persino più destabilizzante: e se “l’inferno accanto” fosse la precondizione del mio paradiso e, insieme, il suo esito diretto?

A ripercorrere quietamente una serie di imprese coloniali che hanno trasformato il nostro Occidente in un temporaneo paradiso è inevitabile constatare che ogni giardino dell’Eden si fonda su un abuso originario, una sottrazione, un diniego, un atto di cecità, un’amnesia o una memoria a senso unico, un vuoto di empatia, una cancellazione… Eppure, in duecentocinquanta pagine febbrili, affollate di ricordi personali, notizie di cronaca, date e dati storici, incontri, scambi di pensieri con amici e persone della parte “avversa”, riferimenti a opere lette e scrittori amati (magnifiche le pagine sull’intervista del 1984 a Primo Levi), l’autore compie a sua volta una curiosa, forse involontaria, operazione di omissione. La Gaza che dà titolo al volume, sovrastata dalla riproduzione di Sansone l’eroe – la scultura monumentale di Baruch Wind che dal 2009 arreda la città di Ashdod – è alla lettera assente dalla narrazione. Non c’è la sua geografia, non c’è la sua storia, non c’è la sua economia, non c’è soprattutto la sua popolazione.

In un saggio del 2012 sul “contratto civile della fotografia”, la studiosa israeliana Ariella Azoulay, autrice tra l’altro di Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell’occupazione (Bruno Mondadori, 2008) cita Edouard Glissant che cita Gilles Deleuze, dicendo: «Funzione della letteratura e dell’arte è inventare un popolo che manca». Ecco, nelle pagine di Gaza quel popolo continua a mancare, miticamente evocato solo come oggetto della frustrazione e dell’ira dell’accecato Sansone. Mi si dirà che gli interrogativi di Lerner, che nel corso del libro si riconosce più volte il ruolo disagevole dell’“ebreo buono”, sono altri, che il suo corpo a corpo è piuttosto con la sua gente, con la complessità vertiginosa di un’appartenenza dai margini a un centro in caduta libera. Lo capisco e mi sforzo di immaginare i costi di un tentativo controcorrente, per sua natura inevitabilmente solitario. Eppure, rimugino, se il problema fosse proprio questo, questa fissazione su di sé, questo sbarramento dell’orizzonte, questo fermarsi sulla soglia di casa, questo continuare a interrogarsi su ciò che di terribile è accaduto a te, alla tua famiglia, ai “tuoi” senza riuscire ad assumere quello sguardo analogico teorizzato tanti anni fa da Tzvetan Todorov. So che la memoria traumatica crea fortezze e blinda il pensiero. So che l’invito di Gad Lerner a riscoprire il «filone ebraico della tolleranza» – come lo definiva Primo Levi – e a onorare la figura del Giusto dovrebbe bastarmi. E invece credo serva qualcosa di più, una mossa a lato. Perché Gaza, se tutto si riduce a una questione di odio e amore per Israele? Se dici Gaza, devi dire Gaza. E così propongo a lettrici e lettori di leggere attentamente questo libro «dettato dall’urgenza degli eventi» per provare a immaginare quali sono le immagini mancanti, quale il fuoriscena sincronico e diacronico che gli fa da tacito sfondo. «A meno che non si venga colti dal panico», infatti, «l’oscurità tende a ridurre la fretta. C’è più tempo».

Le Ribelli uscì per la prima volta nel 2006. L’intento era di sottolineare l’importanza, anche simbolica, di un filone femminile nella lotta alla mafia, fin lì ricondotta comprensibilmente –nella pubblica narrazione – al coraggio e al protagonismo di figure femminili.

Uomini le decine di sindacalisti uccisi nelle lotte contadine del secondo dopoguerra; uomini i giudici e i rappresentanti delle istituzioni colpiti a ripetizione tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso; uomini i rappresentanti della società civile – imprenditori e giornalisti soprattutto – puniti a morte per non essersi piegati alle pretese di obbedienza e silenzio di Cosa Nostra. […] Le Ribelli provò (e nel volgere di qualche anno riuscì) ad aiutare la diffusione di una lettura diversa. Mise in luce attraverso sei Scene concatenate le storie di donne che, muovendo dal proprio rapporto di sangue o affettivo con alcune vittime, avevano contribuito esemplarmente a rompere un’omertà secolare. Raccontò il coraggio di sfidare un potere criminale che era anche il potere più maschilista sperimentato dalla storia sociale italiana. Donne di ogni età. «Donne di popolo e donne benestanti» recitava la prefazione «vissute nel culto delle istituzioni o allevate nella più piena contiguità ambientale alla cultura mafiosa». Armate, indipendentemente dal titolo di studio o dal rango sociale, di una sola inarrestabile forza: i propri sentimenti. La loro era stata una rivoluzione “per amore”. Esattamente come l’inaudita rivolta delle madri di Plaza de Mayo contro la dittatura argentina che aveva falciato la “meglio gioventù” sotto il regime dei colonnelli tra gli anni ’70 e ’80. Il loro non era stato solo pianto disperato o furia vendicativa, come nel caso da antologia di Serafina Battaglia. Era stata soprattutto lotta per la verità, per la giustizia. E in senso più generale profondissima sfida culturale. Così che era possibile vederle una dopo l’altra, queste donne, su un sentiero sociale insanguinato, quasi cippi di un immaginario, dolente e orgoglioso cammino.

L’immagine delle Ribelli si è fatta strada. […] Film e libri si sono successivamente abbondantemente appropriati della parola per raffigurare le proprie protagoniste. […] Si sono così radicati progressivamente nella consapevolezza del movimento antimafia i nomi di queste donne sole, allineate in una storia civile che pareva scorrere a parte ma che apriva squarci potenti nella Storia d’Italia. E che già aveva visto sorgere al suo fianco alcune esperienze collettive locali. Si pensi all’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa a Palermo nel 1982 da Giovanna Giaconia, moglie del giudice Cesare Terranova, fatto uccidere da Luciano Liggio nel 1979. O all’indimenticabile comitato dei lenzuoli bianchi nato a Palermo dopo le stragi del ’92, dove l’amore che aveva spinto alla rivolta non era quello per un figlio o per un marito ucciso, ma una straziante combinazione di affetto e gratitudine per i propri giudici che aveva scosso la città dopo le bombe del grande trauma. […] Ebbene, in questi vent’anni molto è cambiato, dando al titolo e al contenuto del testo un valore più grande, quasi di annuncio. Che è giusto rimarcare, così da poter meglio cogliere le increspature e le onde che sempre si formano nella Storia. Cosa Nostra, l’onnipotente organizzazione che sognava di ottenere tutta per sé la Sicilia, con Totò Riina nella veste di riverito viceré dell’isola, ha subito rovesci un giorno inimmaginabili. Non è stata solo una sconfitta giudiziaria e militare. È stata anche e soprattutto una sconfitta culturale, certo mai totale, avanzata sotto la spinta decisiva di migliaia e migliaia di donne. Familiari di un numero crescente di vittime […]; ma soprattutto familiari di nessuna vittima, cittadine e studentesse ostili alla violenza mafiosa, maestre e insegnanti desiderose di dare un altro futuro alle nuove generazioni. E in effetti a rivederla oggi la storia successiva al 2006 è costellata di protagonismi femminili diffusi in ogni campo dell’antimafia, capaci anche di creare nuovi campi di pensiero e di azione. Le studentesse di un tempo sono entrate nella carriera giudiziaria e in quella prefettizia, in quella giornalistica e in quella accademica, modificandone fisionomie culturali e prassi operative. Hanno reso più impetuoso il vento di ribellione che arrivava dalle associazioni e dalle scuole, e perfino dalla vita amministrativa. Come non vedere l’impegno straordinario e incessante di tante magistrate nel contrastare Cosa Nostra a Palermo, la ’ndrangheta a Milano, o la camorra a Napoli? Come non ricordare che i colpi subiti dalla ’ndrangheta in Emilia, la regione che si gloriava dei suoi “anticorpi” senza averli, sono arrivati grazie a una prefetta agrigentina? […]

Sarebbero infiniti gli esempi di questa nuova ribellione in nome dell’Italia e delle sue istituzioni che potrei fare, molti avendone visti e vissuti. È stato dunque in questo ciclo di anni che ho cominciato a rigirare nella mia mente e poi a proporre timidamente in pubblico il principio che l’antimafia è donna. Riflettendo su quello che vedevo. […] In realtà vedevo anche che quella mia tesi dell’antimafia donna non suscitava particolari consensi proprio tra le donne, comprese le mie stesse colleghe; facevano eccezione le studentesse, che d’altronde potevano proprio fisicamente verificarla nelle aule ogni giorno. Immaginavo che questo dipendesse dal pregiudizio femminile circa una astuta (e notoriamente maschile) captatio benevolentiae. O che potesse dipendere anche da quella certa incredulità che circonda ogni intuizione in tema di mafia non ancora maturata nel senso comune […]. Come si può dire d’altronde che l’antimafia è donna con tutti gli eroi che sono caduti combattendola da ruoli tipicamente maschili?

Finché la Storia, sempre lei!, mi mise davanti tra il 2011 e il 2013 una vicenda che sembrava fatta apposta per rafforzarmi nel convincimento che andavo coltivando da qualche anno. Una vicenda riassumibile in un nome di tre lettere che per me è diventato nel tempo un autentico spartiacque: Lea. Il nome di una giovane donna giunta a Milano da Petilia Policastro, che rivelò ancor più la forza rivoluzionaria dei sentimenti. Lea Garofalo. Nella sua vicenda si intrecciarono in forma irripetibile, quasi fosse stata immaginata da un sublime regista, la ribellione individuale e solitaria che attraversa la storia della lotta alla mafia della donna nel Novecento, e la ribellione femminile, collettiva, sociale, maturata negli anni Duemila. Un intreccio (lotta personale-lotta collettiva) che in modalità diverse aveva preso forma nella Palermo di fine secolo e successivamente nella campagna elettorale di Rita Borsellino per la presidenza della Regione Siciliana, con cui – non per caso – si chiudeva la prima versione delle Ribelli. Perciò questa edizione delle Ribelli [Le Ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, 240 pp., ed. Solferino 2024, € 16.50], che giunge dopo numerose ristampe, ha sentito il bisogno di arricchirsi di un nuovo capitolo. Quello dedicato appunto a Lea Garofalo, alla sua storia e soprattutto alla storia del processo che le ha dato «verità e giustizia». […] Ossia dal momento in cui donne dai ruoli tanto diversi – magistrate, avvocate, giornaliste, insegnanti, studentesse – messe insieme dalla loro sensibilità e dal destino gridano tra la commozione e l’orgoglio che, sì, l’antimafia è donna. O almeno lo è abbastanza da poter colorare interamente al femminile una vicenda tanto esemplare e di confine nella lotta alla mafia. Dopo di allora anche il rapporto tra donna e mafia non è più stato lo stesso. […] Dopo di allora, sia pure lentamente e molecolarmente, il potere della mafia più antica e impermeabile, la ’ndrangheta, ha tradito scricchiolii crescenti. […] Difficile perciò a questo punto sottrarsi all’intuizione maturata tempo prima. Perché l’asse di scorrimento della lotta alla mafia sembra passare effettivamente oggi come non mai per l’evoluzione della cultura femminile e la sua inedita capacità di rompere schemi e ordini mentali partendo dalla sfera dei sentimenti.

(Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2024, apparso con il titolo «Rivoluzione “per amore”. La mafia sconfitta da Lea e le ribelli»)

Da Facebook – I conti elettorali veri, insegnavano una volta i maestri di politica e di giornalismo, vanno fatti sui voti assoluti, non sulle percentuali. Tanto più se le percentuali sono falsate dalla discesa libera del numero dei votanti. Esempio: FdI vanta da due anni un 26,5% ottenuto alle politiche del 2022, ma tenendo conto dell’astensione quel valore equivale al 17% dell’intero corpo elettorale. Lo stesso vale adesso per le europee: le percentuali di tutti i partiti andrebbero ricalcolate, e scenderebbero di conseguenza, sulla base di quell’implacabile 50% di astenuti che continua a segnalare l’agonia della democrazia rappresentativa senza che nessuno se ne preoccupi granché.

A maggior ragione i conti cambierebbero se si avesse la pazienza di aspettare i valori assoluti invece di fare la gara a chi azzecca per primo le percentuali nelle maratone televisive. Perché poi, con i valori assoluti, arrivano le sorprese. Infatti, sorpresa! Guardando i valori assoluti si scopre che Giorgia Meloni detta Giorgia, nel frattempo proclamata urbi et orbi titolare di un salto dal 26,5 al 29% che proverebbe un aumento dei consensi rispetto al 2022, in realtà rispetto al 2022 di consensi ne ha persi seicentomila: Fdi passa infatti dai 7 milioni e 300.000 voti delle politiche ai 6 milioni e 704.000 delle europee. Idem per Forza Italia e Lega, che perdono 400.000 voti ciascuno. Aumentano invece di 250.000 voti il Pd, e di 500.000 AVS, mentre il M5S ne perde ben 2 milioni e 300.000. Non solo. Nel suo insieme, la coalizione di centrodestra mantiene ma non aumenta il suo bacino di voti, come del resto è avvenuto anche nel 2022 e avviene dal 1994 in poi, mentre la somma dei partiti d’opposizione sarebbe teoricamente superiore a quella della maggioranza di governo. Ma com’è noto il centrodestra si avvale da sempre di un vantaggio coalizionale su un centrosinistra perennemente diviso.

Questi dati non smentiscono, sia chiaro, l’egemonia politica e culturale che la destra può rivendicare oggi rispetto alla sinistra, ma ridimensionano l’entità numerica dell’“onda nera” che attraversa l’Italia. Così come andrebbe correttamente dimensionata – cosa tutt’altro che semplice data la disparità dei sistemi politici nazionali che convergono nelle elezioni europee – quella che attraversa l’intero continente.

Sul piano storico e simbolico l’avanzata delle destre più o meno radicali, soprattutto in Francia, Germania e Austria – ma la destra cresce anche in Bulgaria, Lussemburgo, Belgio e guadagna poco o nulla in Spagna, mentre l’Europa del Nord va in controtendenza e premia socialisti e Verdi – è un dato disperante che riporta le lancette della storia a un secolo fa, con la differenza che un secolo fa a contrastare il fascismo e il nazismo c’erano un socialismo e una socialdemocrazia forti della Rivoluzione russa del 1917, mentre oggi a contrastare sovranismi, nazionalismi, razzismi, tradizionalismi e autoritarismi di varie gradazioni ci sono sinistre pallide e riplasmate dal neoliberalismo e dall’abiura della propria tradizione. Se a questo si aggiungono gli effetti devastanti dell’onda nera sull’asse franco-tedesco fin qui pilastro dell’Unione, effetti che si sommano ai molteplici effetti disgreganti dell’Unione stessa indotti dalla guerra d’Ucraina, è evidente che la costruzione europea rischia un balzo all’indietro più che una battuta d’arresto, tanto più se i venti di guerra continueranno a spirare trasversalmente da destra e da sinistra.

L’allarme va dunque tenuto alto più di quanto lo farebbero suonare i dati elettorali nudi e crudi. Sul piano numerico, infatti, i danni dell’onda nera sembrano più contenuti. I due raggruppamenti di destra, Conservatori e riformisti (Meloni) e Identità e democrazia (Le Pen e Lega), guadagnano rispettivamente 4 e 9 seggi, ma l’attuale maggioranza tiene con i Popolari che guadagnano 10 seggi e malgrado i Socialisti e democratici ne perdano 4 e i liberali di Renew ne perdano ben 23. Formalmente dunque Ursula von der Leyen ha i numeri per puntare a un secondo mandato all’insegna di una continuità «pro-Europa, pro-Ucraina e pro-Stato di diritto», come lei la definisce. Ma in realtà si sa che i giochi sono già aperti per un allargamento o ai Verdi o alla destra di Conservatori e riformisti, cui i Socialisti hanno però opposto un “giammai”. È un quadro perfetto per i giochi di Giorgia Meloni ma aperto anche a quelli di Marine Le Pen, giacché sulla carta è possibile anche una maggioranza di centrodestra (Popolari, Liberali, Conservatori, Identità e democrazia), ancorché più risicata di quella attuale. Ma se anche la maggioranza attuale fosse confermata, è evidente che l’onda nera la condizionerebbe dall’esterno e sui contenuti (immigrazione, questione sociale, politiche di bilancio) molto più di quanto non sia già accaduto negli ultimi anni, tanto più che agli equilibri del parlamento di Strasburgo vanno aggiunti quelli del Consiglio europeo, già ben presidiato da destra da Meloni e Orbán ma destinato a spostarsi ancor più a destra se Le Pen (da oggi ufficialmente sostenuta dai gollisti) vincerà le elezioni francesi indette repentinamente da Macron o se Scholz dovesse cedere lo scettro a un popolare.

Mai come oggi tuttavia il quadro elettorale non basta a fare luce sul quadro politico reale. Non solo per i tassi di astensionismo sempre più elevati in tutto il continente. Ma soprattutto perché resta forte l’impressione che le urne abbiano dato sì entità e contorno ai venti di destra, ma non abbiano né dissipato né profilato con maggior precisione i venti di guerra. Rimossa o evitata dalla campagna elettorale, la guerra – d’Ucraina soprattutto – resta rimossa e evitata nei commenti postelettorali. Nicola Fratoianni fa bene a sottolineare che l’asse guerrafondaio di Scholz e Macron è stato pesantemente penalizzato dal voto. Ma che dire del consenso riconfermato a Donald Tusk, quello che poche settimane fa ci ha informato che siamo in una fase prebellica da un paese come la Polonia, che nell’Europa di oggi (e per volontà degli Usa) conta più della Germania? E come interpretare il crollo dei Verdi a livello continentale e segnatamente in Germania: come un no alla transizione ecologica, o come uno schiaffo alla loro posizione ultra-bellicista?

Tutto lascia presumere che malgrado i mal di pancia filo-putiniani della destra più radicale l’allineamento atlantista sull’escalation ucraina resterà quello che è almeno fino alle presidenziali americane, e che l’Europa continuerà a restare senza voce sul massacro di Gaza e sulla sempre possibile estensione del conflitto mediorientale. Curiosamente, e malgrado Giorgia Meloni, per una volta potrebbe essere proprio l’Italia a fare una qualche differenza. La lista di Santoro com’era prevedibile non ha raggiunto il quorum, ma abbiamo eletto candidati pacifisti nel Pd, in Avs e nel M5S, che si spera facciano sentire la loro voce a Strasburgo. Avs è la forza politica più premiata dal voto, non solo per la sacrosanta difesa dello Stato di diritto rappresentata dalla candidatura di Ilaria Salis, ma anche per il no all’invio delle armi in Ucraina, per il no all’Europa-fortezza rappresentato dalla candidatura di Mimmo Lucano, per un programma orientato al rilancio del welfare e dei diritti sociali e civili. Sarebbe l’abc di un rilancio della sinistra, se anche Elly Schlein, più sicura della propria leadership, cominciasse a osare di più di quanto non abbia saputo o potuto fare finora, disallineandosi dal mainstream atlantista. E se il M5S decidesse finalmente che cosa vuol fare da grande. Il laboratorio politico italiano non dorme mai, come ben sappiamo. Dopo decenni di sperimentazioni a destra, chissà che non si rimetta a girare a sinistra.