da HuffPost
Secondo una inchiesta condotta in 27 paesi europei, riportata dall’Economist, alla domanda «sei d’accordo che i diritti delle donne sono andati troppo oltre e minacciano le opportunità degli uomini» gli uomini della cosiddetta generazione Z (20-30 anni) hanno risposto affermativamente in percentuale significativamente superiore a quella degli uomini delle generazioni precedenti. In Cina nelle chat dei giovani maschi l’espressione “femminista puttana” è diventata frequente. Alla diffusione dei sentimenti antifemministi tra i giovani corrisponde un allontanamento tra i due sessi. La divaricazione non riguarda solo i legami erotici ma pure quelli amicali. Anche sul piano politico si sta verificando una separazione: le donne sono più sensibili dei maschi alle problematiche sociali e più vicine ai valori della democrazia.
Si pensa che il distanziamento tra i sessi che si diffonde tra i giovani sia dovuto all’emancipazione professionale delle donne (e al loro più elevato livello di preparazione), alla loro difficoltà di trovare uomini all’altezza del loro livello culturale e al ripiegamento difensivo degli uomini accompagnato da sentimenti di rancore e di rivalsa. Si è visto che nelle zone in cui aumenta la disoccupazione aumentano tra i giovani maschi l’ostilità contro le femministe e l’adesione alle idee della destra estrema.
In realtà la causa dell’incomprensione e dell’insofferenza reciproca è un’altra. Non è stata l’emancipazione femminile a favorire il progressivo distacco dei sessi tra i giovani. È stata la sistematica dissoluzione dei legami erotici, affettivi, culturali, lavorativi, politici, solidali e conviviali – che un modello di sviluppo economico sregolato e selvaggio (dominato dalla legge del più forte) ha prodotto – a divaricare le prospettive delle donne e degli uomini e a impoverire di emozioni e di pensiero le loro relazioni.
La deregulation totale, l’arbitrio come strumento di governo e lo strapotere dei più forti sui più deboli hanno creato una società performante: l’agire impersonale degli umani che fa di loro degli ingranaggi di una macchina collettiva, li esautora di una vita soggettivamente vissuta e, a lungo andare, minaccia la loro stessa sopravvivenza fisica. Questa società distrugge il tempo libero, la sedimentazione e l’elaborazione delle emozioni e dei pensieri, la conversazione (il dialogo che disloca lo sguardo in entrambi i conversanti senza imporre un punto di vista su un altro) e il senso della comunità (il nostro emozionarsi e comprenderci reciprocamente vivendo la nostra diversità in mezzo a quelle degli altri). Non è più una società patriarcale nel senso tradizionale del termine che reprime la sessualità femminile e restringe la vita delle donne nei limiti imposti dalla sua logica di autoconservazione (a volte più rigidi, a volte più flessibili). È una società di inclinazione totalitaria che si costituisce come antagonista del corpo erotico della donna, dissolvendo tutte le condizioni che consentono la sua libera espressione e realizzazione.
Quando si disattiva la sessualità femminile, perché dovrebbe essere sorprendente il fatto che l’incontro erotico diventi superficiale, nemico della profondità, tutto proteso alla ricerca di effetti eccitanti o calmanti? Se il far sesso si converte in droga o si percepisce come incognita da cui astenersi, perché il legame tra le donne e gli uomini dovrebbe miracolosamente mantenersi vivo e muoversi nel senso della parità e del reciproco rispetto? Gli uomini si aggrappano a una sessualità automatica, ripetitiva che gira a vuoto (aumentando la loro frustrazione e la loro violenza). Le donne sono costrette a rinunciare alla loro interiorità (o a sospenderla) trovando una magra consolazione nell’imitazione dell’efficacia performante maschile (un campo in cui esse possono, attivando la parte maschile di sé, ottenere risultati strabilianti) che le allontana dal loro modo di essere e di sentire e le rende infelici.
L’incomunicabilità erotica tra i due sessi che li porta a competere in un territorio neutro sul piano dei desideri e dei sentimenti (la natura nascosta del patriarcato, il “nuovo che avanza” oggi), aumenta la violenza e il consenso all’autoritarismo. Danneggia gli uomini convertendoli in caricature di sé stessi: che cosa è un essere umano sul piano del desiderio se l’oggetto desiderato è sempre più mortificato sul piano della sua libertà erotica o è percepito come minaccia? Danneggia le donne perché le spinge a tradire la loro intima natura anarchica, libera dalle convenzioni normative, e non dà loro in cambio un potere effettivo (questo resta saldamente in tutto il mondo in mani maschili).
Il capovolgimento silenzioso della prospettiva di una riforma femminile della civiltà (oggetto di resistenza forte radicata nel falso senso di sicurezza che ispirano i sistemi consolidati di potere) in una diluizione della diversità della donna, trova una sua espressione indiretta, ma molto insidiosa, nello spostamento dello sguardo dalla violenza nei confronti delle donne ai conflitti all’interno delle coppie. Si usano le dispute legali sull’affidamento dei minori come prova di una violenza da parte delle donne contro gli uomini. Queste dispute, complesse nella loro configurazione psicologica (che andrebbe valutata con molta cura caso per caso e non lasciata all’inventiva dei legali) sono la manifestazione di un malessere della relazione coniugale, sempre più diffuso e pernicioso, che vede la madre aggrapparsi ai figli e al suo ruolo materno (quando la donna in lei cede allo sconforto) e il padre (poco convinto del suo ruolo reale e in soggezione “filiale” verso la maternità) appellarsi alla sua legittimità formale.
È mistificante confondere l’infelicità coniugale e genitoriale con la violenza della società patriarcale contro le donne che spesso prende la strada della grave violenza fisica, individuale e gruppale, arrivando al femminicidio. Questa violenza avvelena la nostra salute psichica e scardina le nostre relazioni. L’incapacità di trasformare radicalmente in senso non patriarcale la società ci mette nella posizione del “cane che si morde la coda”. Le donne sono sole e non si può confidare all’infinito sulla loro resistenza. Gli uomini si schermano dietro i “difetti” delle loro donne (madri, donne, amanti). Si liberino, se vogliono restare vivi emotivamente e mentalmente (e non vivere come morti viventi), del loro violento vantaggio sociale sull’oggetto amato; si affidino al gioco dell’intesa con il conflitto che, nella buona e nella cattiva sorte, regola il destino dell’amore.
Dal Corriere della Sera
Nei prossimi due decenni, avverrà il maggiore trasferimento intergenerazionale di ricchezza mai registrato. E, da ora alla metà del secolo, saranno le donne a ereditare la maggior parte delle ricchezze in movimento. È un fenomeno che promette di produrre cambiamenti non solo nelle finanze personali di milioni di persone ma anche dal punto di vista sociale. Si tratta del passaggio alle cosiddette generazioni Millenial e Generazione Z di denaro, investimenti, case, opere d’arte, gioielli, vini eccetera accumulati in decenni dai Baby Boomers, dai nati tra il 1946 e il 1964, il vasto gruppo di persone che, in Occidente, ha vissuto anni di boom economico e di conseguente accumulazione. Le stime sulla portata del Grande Trasferimento di Ricchezza variano ma certamente si tratta di ben oltre i centomila miliardi di dollari, probabilmente 120-130 mila nel prossimo venticinquennio. Solo negli Stati Uniti, si calcola che supererà abbondantemente gli 80 mila miliardi. Secondo i calcoli di Kay Hope, analista di Bank of America Global Research, le donne riceveranno il 70% dei 124 mila miliardi che, calcola, passeranno di mano entro il 2048. Precisamente, 54 mila miliardi andranno al partner che è sopravvissuto: il 95% di questi sono donne. Altri 47 mila miliardi saranno ereditati da generazioni femminili più giovani.
Le donne controlleranno grandi patrimoni come mai prima nella storia. Si tratta di un risultato che ha ragioni storiche e sociali: durante il periodo coloniale, quando ricchezze cospicue sono state create nei Paesi europei, leggi, regole e usi tenevano il sesso femminile lontano dall’eredità. Oggi non è più così e il frutto delle ricchezze create durante anni di straordinaria crescita economica postbellica passa in eredità a maschi e femmine su base egualitaria. Le conseguenze possono essere molto rilevanti. Da una parte, sempre più donne saranno alla guida di scelte imprenditoriali e finanziarie di grande portata: già nel 2030, negli Stati Uniti due terzi della ricchezza sarà proprietà femminile, secondo la società di consulenza McKinsey: un protagonismo sociale delle donne molto maggiore di oggi. Certo, l’eredità non è un meccanismo per distribuire diffusamente nella società la ricchezza, a parte i casi di miliardari che costituiscono fondazioni con scopi benefici. Sarà comunque una rivoluzione non da poco.
Da L’Altravoce il Quotidiano
Ci sono nella vita di una donna esperienze indimenticabili di cui, col tempo, si può sentire la necessità di darne conto, scrivendone. È quello che fa Annie Ernaux con L’evento in cui, dopo averci girato attorno per anni, opposto “resistenza” senza smettere di “pensarci”, decide di raccontare il suo aborto clandestino di giovane studentessa universitaria. All’inizio della narrazione non è sicura di voler andare fino in fondo, ma strada facendo diventa determinata ad andare avanti, convinta che si debba scrivere di “qualsiasi cosa vissuta” perché “non ci sono verità inferiori”. Scrive di quella esperienza per non “oscurare la realtà delle donne” e anche se “la clandestinità”, in cui ha vissuto l’aborto, appartiene al passato, a lei non “sembra un motivo valido per lasciarla sepolta”. “E proprio perché nessun divieto pesa più sull’aborto” può “affrontare, in tutta la sua realtà, questo evento indimenticabile”, che per la prima volta la fa sentire in “una catena di donne attraverso cui passavano le generazioni”. Si immerge nel tempo e nel contesto di quella esperienza sconvolgente con la sensazione di “raggiungere la vita passata”, “come se fosse lì”. L’agenda e il diario di quei mesi di fine 1963 inizio 1964 le danno “le prove necessarie alla ricostruzione dei fatti” in una Francia dove, come in Italia, l’aborto era reato, punibile con il carcere, come pure la propaganda anticoncezionale. Sin dall’adolescenza attraverso i romanzi e i pettegolezzi di quartiere, aveva acquisito “vaghe conoscenze sui metodi che venivano utilizzati, il ferro da maglia, il decotto di prezzemolo, le iniezioni di acqua saponata, l’equitazione”. Sapeva però che la soluzione migliore consisteva nel trovare uno di quei medici detti “cucchiai d’oro”, a cui si rivolgevano donne danarose per abortire in sicurezza, e che a quelle come lei, “senza soldi”, “senza le giuste conoscenze”, non restava che cercare “una di quelle donne che venivano chiamate con patetico nome di ‘fabbricanti d’angeli’”. A confortarla c’era “il pensiero che prima” di lei “molte altre avevano fatto ciò che” si “apprestava a fare”. Non pensava che avrebbe potuto morire. Disperata per non sapere a chi rivolgersi, tenta di procurarsi l’aborto da sola con un ferro da maglia. Attraverso la scrittura cerca di rivivere i sentimenti di incredulità, solitudine, ansia, orrore, infelicità, paura, che l’hanno accompagnata in quella esperienza, in cui ha rischiato di morire per emorragia. Trovata la “studentessa sposata che aveva abortito due o tre anni prima, rimettendoci quasi la pelle” e che le presta i soldi per abortire, trova la “signora”, a cui non ha mai smesso di pensare con gratitudine. “È a lei che dovrei dedicare questo libro”.
Il solo a non sembrare interessato era colui di cui era incinta, come se la sua sessualità non c’entrasse affatto. L’aveva lasciata a “sbrigarsela da sola”. Pensandoci comprende che avrebbe dovuto dedurne che non provava più nulla per lei, ma ammette che, pur immaginando di essersene accorta, non aveva “la forza di lasciarlo, di aggiungere alla disperata ricerca di un modo per abortire anche il vuoto di una separazione”. Rivive lo “sconcerto” nell’aver sentito dentro di sé di “essere divenuta una delinquente” nell’ ambiente universitario in cui era immersa. Riascolta parole violente e di disprezzo che l’hanno ferita. E poi l’immagine della camera dell’aborto che “conserva il ricordo delle ragazze e delle donne salite fin lì a farsi trafiggere da una sonda” e lei che piange e urla di dolore. Il racconto di “quell’esperienza umana totale” ci dice come l’aborto per una donna non è mai stato e non è un diritto astratto né un’ideologia, ma una necessità, vissuta attraverso il suo corpo le sue sensazioni e pensieri, che con Annie Ernaux diventano scrittura.
da il manifesto
Fare fuoco Tra le montagne del Kurdistan iracheno la cerimonia che cambia la storia del conflitto turco-curdo
SULEIMANIYA. Non le hanno consegnate, non le hanno seppellite. Le armi le hanno bruciate, una ventina di kalashnikov, qualche fucile automatico e i caricatori appesi alla cintura.
È sempre il fuoco l’emblema della rinascita: come due millenni fa Kawa, fabbro tirannicida che liberò i Medi dal re assiro Dehak, risvegliò la primavera in Mesopotamia; e come ogni anno da allora, per l’equinozio di primavera, le fiamme del Newroz incitano alla resistenza contro l’oppressione e celebrano l’arrivo del nuovo anno.
Le 11 del mattino sono passate da poco quando da una feritoia nella montagna appaiono i combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, quindici donne e quindici uomini, guidati da Bese Hozat, co-presidente del Kck, l’Unione delle Comunità del Kurdistan. Apre la fila la combattente che ha costruito l’auto-organizzazione politica e militare delle donne nel partito. Trent’anni di vita dentro il Pkk e da dodici ai suoi vertici insieme allo storico leader Cemil Bayik, sarà proprio Bese Hozat a leggere il comunicato in curdo (Nedim Seven, accanto a lei, lo ripeterà in turco) che annuncia il disarmo, a una manciata di passi dagli agenti del Mit, i servizi turchi, e ai delegati del ministero della difesa di Ankara. È lì, forse, che si coglie quanto incredibile sia quel momento, l’attimo in cui il Pkk distrugge le proprie armi di fronte allo Stato che più di altri ha soffocato il sogno curdo all’autodeterminazione, lo Stato dentro i cui confini il Pkk è nato e si è trasformato, da partito politico a movimento armato.
Ed eccolo, cinque decenni dopo, di fronte all’ennesima trasformazione. Succede un venerdì mattina di luglio, nelle grotte di Jasana, a 50 chilometri da Suleimaniya nel Kurdistan in Iraq. Le montagne di Qandil, quartier generale politico e militare del Pkk, sono a un centinaio di chilometri. Un palco con quattro sedie, due gazebo per proteggere dal sole, un altro che fa da zona ristoro, chai, dolcetti e acqua fresca: ci sono da accogliere 500 persone, i “testimoni” del disarmo.
Ci sonoTulay Hatimogullari e Tuncer Bakirhan, i co-leader del partito curdo-turco di sinistra Dem, negoziatore tra Stato e Pkk; ci sono i rappresentanti del Governo regionale del Kurdistan e del clan che lo monopolizza, i Barzani; c’è il Puk, il partito del clan rivale, i Talabani, quello che comanda qui a Suleimaniya e lo si capisce dai loghi sulle uniformi dei peshmerga che monitorano l’intero percorso dalla valle alla montagna.
Ci sono le madri dei combattenti uccisi o scomparsi e c’è Leyla Zana, dieci anni di galera e il coraggio di aver parlato in curdo dentro il parlamento di Turchia nel 1991, non era mai successo prima. Ci sono le donne ezide di Shengal, sindacati, associazioni per i diritti umani, movimenti femministi, politici europei.
Sono tutti sedutiquando i combattenti scendono le scale di pietra che seguono la forma spigolosa della montagna. Pochi minuti prima una voce al microfono aveva intimato: no slogan allowed, gli slogan non sono permessi. Non obbedisce nessuno: all’apparire delle uniformi, le persone si tirano su in piedi, battono le mani, gridano «Biji Serok Apo», lunga vita al leader Apo. Lui c’è, in un fermo immagine catturato dal video pubblicato pochi giorni fa e proiettato su un pannello nero.
Bese Hozat legge il comunicato firmato “Gruppo per la pace e la società democratica”, e qualcuno ironizza: «Forse è il nuovo nome del Pkk». Lei ha la voce ferma, rimbomba tra i pinnacoli di pietra: «Noi combattenti per la libertà, donne e uomini, ci siamo uniti al Pkk in tempi diversi e da regioni diverse. Oggi qui rispondiamo all’appello del leader del popolo curdo, Abdullah Ocalan. (…) Distruggiamo volontariamente le nostre armi, davanti a voi, come gesto di buona volontà e determinazione».
«Vista la crescente pressione fascista, lo sfruttamento in tutto il globo e il bagno di sangue in corso in Medio Oriente – continua – i nostri popoli hanno più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, uguale e democratica. In questo contesto comprendiamo a pieno la grandezza, la correttezza e l’urgenza del passo che stiamo prendendo».
Una a uno, si avvicinano a una vasca di metallo e ci poggiano dentro i kalashnikov. Un funzionario del Puk getta una torcia, le fiamme si fanno strada in mezzo a un denso fumo nero. I presenti applaudono, le madri in prima fila piangono. Piange anche Leyla Zana, qualcuno la abbraccia. Lacrime di dolore, di timore, di sollievo. In quei gesti si specchiano quattro decenni di lotta armata, di sangue e resistenza, di figli e figlie mai più rivisti. Sono i figli e le figlie delle famiglie che si affollano in fondo alla valle, non hanno potuto partecipare alla cerimonia ma stanno là, trepidanti.
Quel rogo parlaalle vite individuali e collettive di milioni di persone. Anche per questo, per dare forza alla cerimonia, era intervenuto il video-messaggio di Ocalan, il 9 luglio, a ribadire che l’unica via possibile è l’abbandono della lotta armata e lo scioglimento del Pkk. Per la prima volta dal 1999 è stata la voce del fondatore a consegnare l’appello al suo popolo. Nella Siria del nord-est, dove la rivoluzione è un divenire quotidiano, è esplosa la festa. In poche ore, dicono, nei negozi di abbigliamento le magliette beige con il logo Lacoste sono andate esaurite. È lo stesso modello indossato da Ocalan in video.
C’è anche però chi osserva la nuova fase con timore: è il Bakur, il Kurdistan in Turchia. «Le persone si fidano di Ocalan, ma non del governo turco. E c’è chi non sarà così felice di assistere alla distruzione delle armi, seppur siano poche. Un atto di buona volontà dettato anche dalle circostanze: non è più tempo per la guerriglia, in un mondo in cui le guerre si combattono in aria, con i droni», ci diceva un’alta funzionaria del partito alla vigilia.
Il futurodel processo di pace sta nei due elementi evocati dalla funzionaria: le misure concrete che prenderà (o non prenderà) Ankara e il modo in cui il disarmo verrà narrato. Il presidente Erdogan vuole la sua photo-opportunity: i kalashnikov che bruciano, nell’interpretazione da vendere alla sua gente, sono la vittoria del nazionalismo turco sul terrorismo separatista, con il Pkk che sventola bandiera bianca di fronte a un avversario tenace e invincibile. Per saperlo basta attendere oggi, quando Erdogan terrà un discorso in merito.
Il Pkk, ci dice un quadro del partito dopo la cerimonia, si aspetta l’annuncio di qualche misura reale, tanto più dopo le parole a caldo di Devlet Bahceli, il leader ultranazionalista dell’Mhp che nell’ottobre scorso ha dato il via al processo di pace invitando Ocalan in parlamento: «La leadership fondatrice del Pkk ha mantenuto la sua promessa e onorato il suo impegno». La posturaassunta da una delle forze più ferocemente anti-curde, ci spiega il quadro, sono frutto di una consapevolezza nuova, emersa dopo il 7 ottobre 2023: «Israele minaccia i tentativi egemonici regionali di Ankara che teme che la carta curda possa essere usata da altri. A ciò va aggiunta la dimensione interna: anni di repressione e lo Stato non riesce a sconfiggerci. A Ocalan si è presentata un’opportunità, dopotutto l’aveva prevista: i turchi verranno da noi, diceva. E sono venuti». Il punto non è il disarmo, tanto più in una regione in cui procurarsi armi non è impresa complessa, ma è il processo politico che ne scaturirà e che dovrà necessariamente passare per la costituzione della commissione parlamentare turca incaricata di risolvere la questione dei prigionieri politici e soprattutto quella delle riforme democratiche.
«Sul fronte dei prigionieri – continua la funzionaria – ci sono stati alcuni rilasci, ma si tratta di casi singoli e sporadici, non di una soluzione radicale. La risposta ufficiosa che abbiamo ricevuto da Ankara è che si dovrebbe cambiare la legge anti-terrorismo, lasciando scoperto lo Stato su un fianco, quello dell’altro grande nemico, il gulenismo». Non è un nostro problema, hanno risposto i curdi, la soluzione c’è ed è un’amnistia mirata.
Per il movimento curdo l’alternativa esiste. Lo ha detto ieri con le fiamme della sua ultima rinascita, un fuoco che non muore mai.
da Leggendaria
I cinquant’anni della Libreria delle donne di Milano vengono festeggiati anche con tre numeri speciali cartacei di Via Dogana, la rivista politica delle donne, nata nel 1991. Il n.1 Speciale, il primo di tre, dal titolo È ora di andare via, è uscito in febbraio 2025.
La lettura di questa rivista è un percorso inaspettato perché inaspettato è il filo conduttore che si percepisce sin dall’inizio. Ora chiaro e manifesto, ora sotteso, si nasconde per poi irrompere: è la libertà femminile. Viene declinata in vari modi, o inclusa implicitamente fra le righe dalle autrici degli articoli, ma sempre cattura la nostra attenzione.
Si presenta chiaramente nel titolo dell’articolo Distorsioni di libertà di Daniela Santoro e ammicca in un altro, Shirin Neshat e la liberazione dello sguardo,di Rosella Prezzo. In quest’ultimo articolo, dedicato all’opera dell’artista iraniana Shirin Neshat, la libertà è sottesa nelle «linee vibranti che ne [dell’immagine femminile] liberano il senso» edè nelle vicende biografiche dell’artista, come suo obiettivo di lotta e di vita, espresso dal grido “Donna, vita e libertà”. Di libertà femminile e di architettura ci parla Francesca Pasini, ma il nesso forte di Arte-Politica è, soprattutto, nell’articolo di Laura Minguzzi, là dove la libertà è indicata dall’autrice come la linfa vitale di questo nesso. Minguzzi dipana la storia della band Pussy Riot, quattro donne russe che dal 2011 lottano contro la guerra per la pace e la libertà. E proprio della libertà viene privata la loro leader Maša Alëchina che racconta in un libro la sua persecuzione. Quindi, non solo questo libro, ma tutte le performances della band ci vengono mostrate da Minguzzi come espressioni artistiche con una forte valenza politica libertaria: perché sono mezzi di lotta politica di donne, mosse dal desiderio di libertà e lanciate alla conquista della libertà stessa, per sé e per l’Altra/Altro. Così «la storia diventa un’altra storia»e nell’attributo “altra” c’è tutta la carica rivoluzionaria della libertà. Rivoluzionaria è anche la parola autorevole delle donne sulla scena pubblica: infatti, cambia il concetto stesso di parola umana, perché ha il suo presupposto nella libertà, come si evince dall’articolo di Giordana Masotto.
Nuccia Nunzella sembra andare alla ricerca della libertà nei libri che utilizza come una bussola per arrivare finalmente a scoprire in uno di questi l’incognito di una libertà da conquistare.
Inoltre, la libertà emerge nelle denunce, rispettivamente di Annarosa Buttarelli e di Daniela Santoro, nei confronti dell’attuale destra governativa e delle sue eclatanti mistificazioni ai danni del femminismo.
Buttarelli, andando al di là del contingente, dichiara: «[…] le cosiddette destre di ieri e di oggi, agiscono con la privazione progressiva delle libertà anche individuali[…] Tutto questo è senza ombra di dubbio distruttivo della libertà femminile».
Daniela Santoro focalizza la libertà femminile per evidenziarne le“distorsioni”nel campodel linguaggio, dal momentoche, come ci ricorda, «la lotta per la libertà femminile continua, infatti, a intrecciarsi profondamente con il linguaggio».
Secondo Santoro avviene attualmente, da parte di Meloni e Roccella, «[…] un vero e proprio scippo del linguaggio del femminismo (e di conseguenza del simbolico), trasformandone il nucleo concettuale […] e usandolo come scudo davanti a politiche repressive. Tutto questo […] depotenzia le parti in gioco nel campo di battaglia per la libertà femminile».
Il presente è anche tragico e la tragedia irrompe con un grido di dolore nell’articolo di Renata Sarfati, Israele Palestina pensare le cose come sono, in cui la pace invocata implica la libertà di scegliere la vita e non la morte.
A proposito della storia, non mi soffermo sulla dialettica passato-presente, che appare in parecchi scritti della rivista, e in cui la libertà ha un ruolo fondante, perché meriterebbe un’analisi a parte.
Si possono concludere queste brevi note con la domanda finale di rito: la via da percorrere quale è? Luisa Muraro sottolinea che non è quella della libertà femminile intesa come parità. Eppure, secondo Mirella Maifreda e Tiziana Nasali, il concetto di libertà femminile come equiparazione agli uomini esiste nella narrazione di stampa e dei social. È vero. Allora, che cosa fare? Possiamo, innanzitutto, rispondere con le parole di Daniela Santoro che, alla fine del suo articolo, scrive che è necessaria la «risemantizzazione della libertà delle donne riportandola al centro del discorso a partire dal caos post-patriarcale riconoscendone la portata trasformativa come nel 2022 ci invitava Dominijanni».
Comunque, ineludibile è la dimensione pratica della lotta, come sostiene Poonam Bruni nel suo articolo, il cui titolo Che fine ha fatto la pratica? è un interrogativo carico di molti significati. Il presupposto, secondo l’autrice, è una liberazione:«a lotta contro il proprio maschilismo interiorizzato nemico subdolo dei nostri giorni».
Il traguardo di questo percorso ideale potrebbe essere la conclusione di Lia Cigarini: l’autrice rivolge lo sguardo all’orizzonte, ad una società in cui la libertà si potrà concretizzare in modo preciso e definito, incarnandosi in «donne libere e uomini liberi».
Perciò, superando la dialettica passato-presente, viene prefigurato, fra storia ed utopia, ovviamente intesa in senso rivoluzionario, il futurofondato sulla libertà.
da il manifesto
Quando, molti anni fa, mio nonno ancora ragazzo, si ritrovò in mezzo all’immenso oceano a bordo dell’ultima nave partita dall’Inghilterra verso l’America, in cerca di rifugio dalle oppressive leggi razziali nazi-fasciste, sentì per la prima volta – mi disse – il peso della propria identità ebraica.
Essere ebrei è un’esperienza complessa che trascende la religione. Troppo spesso viene erroneamente semplificata in una etichetta etnica o ridotta ai confini della discendenza matrilineare. Tuttavia, l’essenza del sentirsi ebrei abbraccia configurazioni ben più ampie di queste. Si intreccia a una ricca trama di esperienze di vita, in particolare quelle segnate dalla persecuzione, dall’esilio e dalla continua opposizione dialettica nei confronti delle semplificazioni che chi insiste nel catalogare l’umanità in scatole ordinate ama applicare.
Questo viaggio di identità è un promemoria che ci ricorda il complesso patrimonio che è per ognuno di noi plasmato non solo dall’ascendenza, ma anche dalla resilienza di fronte alle avversità. Riflette la profonda connessione delle storie personali alla Storia grande e ci obbliga a onorare il costante impegno a ricordare le prove affrontate da coloro che ci hanno preceduto. Complessità che è non solo dell’identità ebraica, ma dell’umanità in generale.
Netanyahu, nel suo ultimo intervento negli Stati Uniti e in questi mesi di costante massacro della popolazione di Gaza e della West Bank, si è permesso, al pari di chi lo ha fatto con l’intenzione di ucciderli, di mettere tutti gli ebrei in un’unica categoria. Si arroga il diritto di parlare per loro, e invece è contro di loro, e la verità è che – non si sa se con coscienza o meno – agli ebrei di tutto il mondo, e certamente anche agli israeliani, sta facendo non un favore, ma arrecando un grave danno. Oggi, che solo gli stolti confondono la rabbia del mondo verso Israele con l’antisemitismo, Netanyahu si permette di ringraziare il presidente Trump a nome di tutti gli israeliani e di tutto il popolo ebraico.
Ho provato ribrezzo nei confronti di questo pronunciamento, mi sono sentita, e sono certa molti altri di origini ebraiche con me, violata della mia identità, abusata da un criminale.
Sono mesi che mi sento come in mezzo al mare, al pari di mio nonno adolescente tra l’Europa e l’America, più cosciente che mai dell’impatto che la storia della mia famiglia ebraica e della grande Storia che li ha segnati ha avuto sulla mia vita e sulla cultura cui appartengo.
È una storia di diaspore, di dolori grandi, di molte lingue, di distanze insanabili a causa delle fughe a cui siamo stati obbligati, dell’impegno etico che è sempre stato il vero e unico senso di elezione che abbia motivato la nostra famiglia a sentirsi non superiore agli altri popoli, ma responsabile verso diritti universali comuni a tutta l’umanità. Ed è proprio il nostro dolore a spingerci in testa al corteo di tutti quelli che sentono questo richiamo e a chiamarci ad essere, ancora più degli altri, tutori di un obbligo di compassione, nel senso proprio del patire con gli altri, perché la pena provata dovrebbe offrirci l’opportunità di percepire con più facilità quella degli altri.
Dunque a Netanyahu e a chi osa imbrattare il nostro nome anche solo ringraziando un uomo, uno Stato e i molti altri, anche quelli europei, colpevoli non solo di passività, ma anche del sostegno attivo fornito nella vendita di armi, nel blocco dei corridoi umanitari, nella distruzione della legittimità del diritto internazionale e delle istituzioni dell’Onu, tra cui l’Unrwa (nata per volontà di escludere i palestinesi dal diritto che protegge tutti i rifugiati del mondo tranne loro, sotto la Convenzione del 1951 e gli uffici dell’Unhcr, sottraendoli della possibilità ad avere una soluzione permanente tra cui il ritorno alla loro terra) dico una cosa e una soltanto: non in nome di tutti gli ebrei del mondo. Che nessuno si permetta di ringraziare Trump in nome nostro, non in nome di tutti gli ebrei, perché ciò che il mondo ha fatto per 80 anni alla popolazione palestinese e che oggi sta completando con un atto finale degno solo di questo lungo e macabro spettacolo che un giorno tutti diranno di aver osteggiato, non è stato sostenuto da tutti gli ebrei del mondo. Al contrario: ce ne vergogniamo.
Manca davvero solo l’ultimo colpo di scena, non la condanna dei criminali di guerra per lo sterminio di bambini, donne, malati e anziani, ma invece il conferimento, proprio a loro, del premio Nobel per la pace.
da Il Fatto Quotidiano
«Una norma spot poco efficace. Utilizzano lo strumento penale in funzione prevalentemente simbolica». Silvia Tordini Cagli, professoressa associata all’Università di Bologna, dove insegna Diritto penale, è una delle novanta giuriste firmatarie di un appello al governo Meloni per intervenire sul disegno di legge 1433 del 31 marzo scorso che introduce il delitto di femminicidio.
Professoressa, l’introduzione del reato di femminicidio è però una novità?
Certamente. Questa è la prima specie di reato, forse la seconda dopo quello di mutilazione dei genitali femminili, orientata dal punto di vista del genere alla donna. Normalmente le fattispecie incriminatrici sono neutre da un punto di vista del genere. Dunque, da questo punto di vista, è una novità: c’è la volontà di dare un messaggio culturale, simbolico, di grande impatto.
Quali sono le criticità?
Il nuovo reato, il 577 bis del Codice penale, prevede come pena fissa l’ergastolo. Questo crea una serie di difficoltà per quanto riguarda la compatibilità con le funzioni costituzionalmente previste della pena, in particolare è in contrasto con quella che dovrebbe essere la funzione rieducativa della pena. E poi l’altra grande criticità riguarda il piano della previsione degli elementi descrittivi del fatto. Almeno con riferimento alla prima versione, gli elementi descrittivi, che sono fondamentali anche per distinguere il reato di femminicidio dalle altre ipotesi di omicidio, sono tutti di carattere molto soggettivo che attengono alle finalità, alla psicologia dell’omicida e dunque sono molto difficili da provare. Questo rende la norma poco determinata e in contrasto con il principio di certezza.
Nel ddl si dice che è femminicidio “il fatto commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio” delle sue libertà. Ora la maggioranza ha presentato un emendamento (potrebbe essere votato già oggi) che riscrive il reato: femminicidio è quando l’assassinio è “conseguenza del rifiuto” della donna di avere una relazione o di subire una condizione di soggezione o limitazione. Questo emendamento supera le criticità di cui parlava?
In parte sì. Stanno provando ora a sistemare le cose. Perché nella prima stesura si diceva ad esempio che il femminicidio si poteva contestare quando viene uccisa una donna solo perché donna e per la volontà dell’omicida di limitarne la libertà. Questo diventa dimostrabile solo se lo ammette l’omicida stesso. Immaginiamo le difficoltà che avranno i pubblici ministeri. Se venisse votato l’emendamento il reato sarebbe più facile da dimostrare.
Perché avete deciso di fare un appello al governo?
Perché ci è sembrato di essere davanti a un esempio emblematico di un modo sbagliato di fare diritto penale, che va contro i principi di garanzia richiesti dal diritto penale. Siamo di fronte all’ennesima norma repressiva che non aggiunge nulla: non ha una funzione di prevenzione né di deterrenza. Bisogna lavorare su questo fenomeno in modo diverso: il femminicidio è la punta dell’iceberg. Se non si prevede alcun tipo di supporto alle pratiche antidiscriminatorie e di prevenzione non si risolve niente: è solo un’operazione di immagine. Manca invece tutta la parte degli investimenti nelle strutture, ad esempio per le case che accolgono le donne, e per il personale in genere. Introdurre una nuova ipotesi di reato è molto spesso la via più semplice e più economica, perché di per sé non prevede la necessità di fare degli investimenti.
Siamo di fronte a un’operazione spot?
Assolutamente. Da anni c’è una tendenza a utilizzare lo strumento penale in funzione meramente simbolica, quando poi in sostanza da un punto di vista di quella che è l’efficacia non si arriva a nulla. Questo strumento viene utilizzato con troppa disinvoltura.
da L’Altravoce il Quotidiano
Dopo Una donna Annie Ernaux scrive Il posto dove racconta del padre, a distanza di vent’anni dalla sua morte. Da tempo voleva scrivere di lui, della “sua vita”, della “distanza” che si era “creata tra lui” e lei, del suo “posto” nel mondo di cui lei aveva fatto parte. In un primo momento aveva pensato di scrivere un romanzo il cui protagonista principale era il padre, ma lo lasciò a metà perché un “romanzo è impossibile” per narrare la “realtà” e arrivare alla “verità”. «Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io.» Ed è quello che fa, con una scrittura che lei chiama “piatta”, la stessa che utilizzava un tempo scrivendo ai genitori per dare “le notizie essenziali”. Da questi primi due libri emerge chiaramente come, più che raccontare della madre e del padre, è di se stessa, tramite loro, che parla, del suo percorso di donna che, con la scrittura, fa i conti col patriarcato che, come tutte le donne, la separa dalla madre e dal padre, promettendole libertà nell’emancipazione col passaggio dalla classe sociale considerata “inferiore”, in cui è nata, cresciuta ed è stata persino felice, a quella “superiore” della “piccola borghesia”, che umilia e disprezza le sue origini.
Un mondo che incontra, per la prima volta, al collegio religioso, scelto dalla madre, nelle compagne, nelle loro madri e nella suora/maestra, che la “riprendeva”. Piangendo rimproverava ai genitori: «Come potete pretendere che non mi si faccia osservazione se voi parlate male tutto il tempo!», rendendo “infelice” il padre. È allora, a sedici anni, che inizia il suo allontanamento dal padre, come dalla madre; gli faceva osservazioni “sul suo modo di mangiare e parlare”, non gli parlava più dei suoi studi e lui non le raccontava più storie della sua infanzia. “Lentamente” emigrava in quel mondo piccolo-borghese che la porterà a vergognarsi delle sue origini e la renderà “estranea” a se stessa. Procede lentamente nella scrittura, sforzandosi di «fare emergere la trama significativa di una vita da un insieme di fatti e di scelte», che si intrecciano col racconto del periodo storico in cui avvengono e con la vita sua e di sua madre. Fa fatica a riportare alla luce fatti dimenticati, riconoscendo di essersi “piegata al volere del mondo” in cui vive, «un mondo che si sforza di fare dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto». Scrivendo riscatta la vita del padre, le sue scelte come quella di sposare una donna, sua madre, “moderna”, “anticonformista” tanto che “in paese la si trovò poco raccomandabile” e le sorelle di lui la guardavano “dall’alto in basso”. Ammira l’uomo, «alto, moro, con gli occhi azzurri, la schiena diritta, allegro, giocoso, sempre pronto a raccontare storie, a scherzare». E Il padre “sempre pronto” a portarla «al circo, al cinema, ai fuochi d’artificio, al luna park» e la compensava «ad ogni compito in classe andato bene, più tardi ogni esame» sempre con la “speranza” che lei sarebbe stata “meglio di lui”. Guarda con benevolenza il suo «terrore di essere fuori posto, di avere vergogna», la sua timidezza e l’irrigidirsi «di fronte alle persone che reputava importanti», come lo studente di Scienze politiche, futuro marito della figlia. Con la lontananza lei aveva «levigato l’immagine dei genitori» e trovato «naturali, come erano sempre stati», le «loro maniere di dire e di parlare a voce alta».
Il racconto della storia del padre, che inizia con la sua nascita (1898), si apre e si chiude con il giorno della sua morte (1967). «Ho sentito mia madre camminare lentamente al piano di sopra, cominciare a scendere. Era ancora sulla curva delle scale, ha detto “È finita”». Un bel libro che si legge tutto d’un fiato.
da Minima&Moralia
Scrivo autofiction per capire meglio le cose che mi succedono. Attraverso la scrittura cerco di comprendere quello a cui altrimenti, senza questo processo, non arriverei. Se lo avessi già capito in anticipo, non avrei bisogno di scrivere. Spesso la mia è una prospettiva microsociologica. Mi arrovello domandandomi in che modo la società influisca sul singolo essere umano. Quali forze agiscano all’interno delle famiglie, delle amicizie, delle relazioni amorose. Nella vita di tutti i giorni. Nei gesti, nei sentimenti.
Nel pormi questa domanda ritorno spesso alla mia infanzia o giovinezza, laddove insomma prendono forma i tratti decisivi che ci marcano. È un ritorno singolare, una misteriosa combinazione di ricordi vividi e gusto per la finzione. Ora, occuparsi di se stessi nel XXI secolo è una cosa tutt’altro che innocente. Viviamo in un’epoca iperindividualizzata, in cui molte persone spendono parecchio del loro tempo a “trovare” se stesse. Spesso però ci si dimentica che la conoscenza di sé non è mai stata concepita come fine a se stessa; e mi aiuta tenere sempre a mente l’imperativo sociale della massima antica «Conosci te stesso». L’oracolo di Delfi aprì la strada a molte correnti filosofiche, in primis l’umanesimo e il suo ideale: l’educazione permanente. Tuttavia, l’oracolo è stato a lungo riservato esclusivamente agli uomini. Uomini di stato che dovevano superare una crisi, ma innanzitutto giovani per la cui iniziazione sembrava fondamentale chiarirsi precocemente le idee sulle proprie predilezioni, capacità e inclinazioni. Solo così potevano trovare un posto congruo in società.
Di questo tipo di indagini troviamo traccia nei romanzi di formazione del Settecento. Leggendoli si assisteva alle avventure di uomini che trovavano se stessi, le figure femminili invece si limitavano a sostenere gli eroi nella loro evoluzione. Un esempio emblematico è il Wilhelm Meister di Goethe. A volerlo cercare, il suo pendant femminile potrebbe essere Agnes von Lilien, scritto da Caroline von Wolzogen. Wilhelm Meister alla fine trova il suo posto nella società, mentre Agnes von Lilien – lo avrete indovinato – trova l’amore… Io sostengo che il pendant femminile di un Wilhelm Meister non può esistere in questi termini. Né allora né oggi. Come potrebbe infatti realizzarsi un’educazione compiuta e “armoniosa”? Un’eroina sarà sempre in contrasto con la società, per il semplice fatto che la società è patriarcale.
Proprio per le donne, però, conoscere se stesse è di importanza vitale. È interessante quanto questo desiderio mi appaia ancora proibito ed egoistico. Non c’è da stupirsi. Fin da piccole le donne vengono educate a prendersi cura degli altri. Non certo di se stesse. L’autofiction, così come io la intendo, va ben oltre la dimensione autoreferenziale. Attraverso la scrittura, ciò che si è vissuto personalmente diviene riconoscibile come una struttura “sovrapersonale”. Inoltre, il mio oracolo non mira all’amore o alla riconciliazione, all’adattamento alle circostanze, ma piuttosto a cambiarle. Di conseguenza, probabilmente sono più vicina io all’oracolo di una volta di quanto non lo siano certi signori contemporanei…
Nei secoli l’antico appello si è spostato sempre di più sull’individuo. Lo scopo della psicologia contemporanea è lo sviluppo di una personalità autentica che permetta di condurre una vita buona e serena. Ma ci si dimentica che questo, in un ordinamento sociale capitalistico, sembra essere pressoché impossibile. Le forze esterne che ci isolano, ci separano e ci mettono in concorrenza tra noi sono troppo potenti. La felicità individuale – ammesso che la si trovi – non può né eludere l’ingiustizia collettiva né tantomeno porle rimedio.
Lungi da me condannare la psicologia. Credo che confrontarsi con la propria infanzia sia quasi un dovere civile. Avete mai visto un autocrate che va in terapia? Putin sul lettino? Trump? Orbán o Erdoğan che fanno autocritica interrogando un oracolo? Non è impensabile? E proprio a questi uomini sarebbe da augurare la conoscenza di sé, magari ne smusserebbe un po’ il carattere autoritario. Questo almeno mi suggerisce il mio senso del possibile, che crede imperterrito alla sostanziale bontà di tutti gli esseri umani. Spesso mi immagino quanto sarebbe grandioso se uno di questi uomini fosse ospite del bellissimo podcast Fashion Neurosis, in cui la stilista britannica Bella Freud (pronipote del grande Dottor Freud) dialoga con personaggi famosi dei loro gusti in fatto di moda. Sarebbe affascinante se Bella Freud potesse interpellare i suddetti autocrati sui loro look pretenziosi da cacciatori o cavallerizzi, sui torsi nudi e le catene d’oro. Su motoseghe, parrucchini e mogli trofeo.
Purtroppo, un’autorità capace di indurre un autocrate a occuparsi di se stesso in tal senso non esiste. Semplici cittadine e cittadini, invece, che della terapia hanno molto meno bisogno, sottoponendosi a regolari sedute tornano alla propria infanzia, un gesto importante ed essenziale. Ma lo sguardo resta eccessivamente rivolto al passato. Penso che il punto – e anche questa è un’idea antica – sia la misura con cui ci si occupa della propria persona. Non a caso, la seconda iscrizione scolpita sull’oracolo recitava «niente di troppo». L’oracolo dell’antichità, non a caso, custodiva un imperativo. Un invito al… movimento. Il culmine di ogni classico viaggio dell’eroe sta nel porsi al servizio della società. Questo ritorno si trova già nella Divina Commedia di Dante. Non c’era per l’eroe nessuna sofferenza, tortura o autoriflessione che non avesse precisamente questo scopo: riportare quel che ha imparato ed esperito alla società.
Tra dentro e fuori, tra lettino e società, c’è qui e oggi un vuoto da colmare. È proprio in questo punto che il cerchio sembra non riuscire a chiudersi del tutto. Mentre al singolo la propria vita pare modificabile – permeabile al processo terapeutico –, il contesto sociale sembra, invece, immutabile. Piuttosto che investire energie a sostegno di battaglie comuni, troppo grandi e apparentemente vane, si cambia ciò che si crede di poter cambiare: il proprio corpo, il proprio lavoro ecc.
Penso che la stragrande maggioranza dei mutamenti sociali comincino di fatto nella sfera privata, nell’emancipazione del singolo. Non devono però fermarsi lì. Un mezzo capace di avviare cambiamenti, sia dentro che fuori, è la letteratura. Esistono libri dopo i quali non è più possibile ritornare alla vita di prima. Ciò che abbiamo letto ci tocca talmente nel profondo che non possiamo più restare attaccati alla nostra vecchia identità. Alcune lettrici, dopo aver letto Bugie su mia madre, mi hanno scritto che era stato il mio libro a spingerle a lasciare il marito. Il matrimonio, «la più piccola unità sociale», come la chiamava sempre mia madre, per moltissime donne è ancora un luogo di impressionante mancanza di libertà.
Un solo personaggio può diventare un modello per tutti gli altri. «The function of freedom is to free someone else». «La funzione della libertà è quella di liberare qualcun altro» ha scritto una volta Toni Morrison. Se c’è qualcosa in cui voglio credere, è questo effetto che si propaga come un’onda. Comprendere che ciò che causa sofferenza non è connaturato al proprio essere, percepito come sbagliato e difettoso, ma è insito in alcune strutture sociali, ha qualcosa di estremamente emancipante. Una scrittrice scrive per un pubblico composto da un’unica persona, «an audience of one». Al contempo, però, un libro può spingere a creare comunità. «Al rifiuto della solitudine» come ha detto una volta Spinoza.
Guardando ai diritti delle donne si riesce a comprendere la libertà di una società nel suo insieme. Nel XXI secolo sarà cruciale concepire la libertà non più come qualcosa di essenzialmente negativo, bensì come libertà positiva. Come donna, oggi ho in mano più possibilità e strumenti che in qualsiasi momento storico precedente. Devo sfruttarli prima che lo spazio sociale, che altre e altri hanno conquistato senza risparmiare sangue e coraggio, si chiuda di nuovo.
dal Zibaldone Ecopacifista
Care e cari deputati della Knesset,
Voi credete, con ogni sincerità, che Israele sia una democrazia esemplare, l’unico faro di responsabilità nel tormentato e insanguinato Medio Oriente. Ebbene, se questa è la vostra profonda convinzione, allora è giunto il momento di un gesto. Un gesto chiaro, netto, il coraggio di qualche primo passo unilaterale, da parte del vostro Paese, che spezzi il circolo vizioso della tensione.
Un Segreto di Pulcinella
Da anni, troppi, si parla di un arsenale nucleare israeliano. Cento testate, forse più. Un segreto, sì, ma di quelli che tutti conoscono, un segreto di Pulcinella. Ricordate Mordechai Vanunu, le sue rivelazioni nel lontano 1986? E più di recente, le parole del ministro Amihai Eliyahu, che ha ipotizzato l’ombra di una bomba su Gaza. Non sono fantasie, ma echi di una realtà che non si può più ignorare.
La Strada Pericolosa del Monopolio
Voi pensate di essere al sicuro, con il vostro monopolio nucleare. Ma la storia insegna che nessun monopolio dura per sempre. Se a voi è stato concesso di possedere l’atomica, è inevitabile che altri, prima o poi, cercheranno di fare lo stesso. E allora, il Medio Oriente si trasformerebbe in un vero e proprio “far west nucleare”, un incubo ad occhi aperti, un pericolo per l’intera comunità mondiale.
La Scelta della trasparenza nel disarmo
C’è un’alternativa, una via d’uscita da questa spirale. L’ideale sarebbe l’adesione subito, da parte di Israele, al Trattato di Non Proliferazione (TNP). L’adesione dovrebbe legalmente avvenire (non può essere altrimenti) con l’impegno a rispettare lo status di Stato non dotato di armi nucleari. Questa mossa va accompagnata alla disponibilità dello Stato ebraico a collaborare con il nuovo percorso del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW).
Non si può più navigare nell’ambiguità, né tollerare un doppio standard che mina la credibilità, non solo agli occhi del mondo, ma anche dei vostri stessi cittadini. Il cinismo, lo sapete, corrode la democrazia. La trasparenza, invece, la rafforza.
– Si possono però compiere immediatamente dei passi intermedi nel senso della trasparenza, a partire dalla cessazione dell’ambiguità nucleare. Si tratterebbe di divulgare le dimensioni dell’arsenale israeliano e le scorte di materiale fissile, come suggerito dal Segretario Generale dell’ONU per gli stati dotati di armi nucleari.
– Potrebbero essere dichiarate Moratorie Unilaterali sui test nucleari e sulla produzione di materiali fissili. Sebbene Israele abbia firmato ma non ratificato il CTBT, e non sia noto per aver condotto test dal 1979, formalizzare questo potrebbe essere una misura di costruzione della fiducia.
– Potrebbero essere accettate le Salvaguardie dell’AIEA su Dimona. Porre il reattore di Dimona sotto le salvaguardie dell’AIEA, come suggerito da uno studio delle Nazioni Unite del 1990, sarebbe un passo importante verso la trasparenza. Attualmente, la struttura di Dimona non è sotto le salvaguardie dell’AIEA.
– Israele potrebbe coinvolgersi immediatamente nelle Conferenze sulla WMDFZ. Sebbene Israele abbia storicamente boicottato le conferenze sulla WMDFZ mandate dall’ONU, partecipare a questi incontri annuali, anche come osservatore, potrebbe essere un passo “coraggioso” verso la promozione del dialogo regionale. Il fatto che “tutti gli Stati della regione” siano stati invitati e la maggior parte abbia partecipato, eccetto Israele, evidenzia il suo isolamento su questo tema.
La sfida da raccogliere verso un Medio Oriente Denuclearizzato
Fare dei passi nel senso dell’adesione al TNP, aprire le porte alle ispezioni dell’AIEA, dialogare in termini costruttivi dentro i consessi internazionali con l’obiettivo di proibire lo stesso possesso delle armi nucleari, significherebbe riattivare un percorso negoziale per un Medio Oriente libero da armi di sterminio. Questa è la vera sicurezza, non certo l’illusione di rimanere i “pistoleri” più veloci e armati, che sparano per primi.
In conclusione, l’idea di un Medio Oriente libero da armi di sterminio di massa (WMDFZ – Weapons of Mass Destruction-Free Zone) è un obiettivo dibattuto e coltivato da decenni: raccogliete la sfida, anche se piena di ostacoli!
È tempo, care e cari deputati, di scegliere la strada della ragione, per voi e per la pace nella regione.
Appendice: tavoli Diplomatici per una Zona libera da armi di sterminio di massa
Ci sono diversi forum e iniziative diplomatiche dove questa proposta è stata discussa e continua ad essere un punto all’ordine del giorno, e noi ne citiamo due:
1. Conferenza sul Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP)
Le Conferenze di Revisione del TNP, che si tengono ogni cinque anni, sono il principale forum internazionale per discutere la non proliferazione e il disarmo nucleare. La creazione di una WMDFZ in Medio Oriente è stata una risoluzione chiave della Conferenza di Revisione del TNP del 1995. Nonostante i ripetuti tentativi nelle conferenze successive, non si è riusciti a fare passi avanti significativi a causa delle divergenze tra gli Stati della regione e le potenze nucleari.
2. Conferenze e Incontri ONU sulla WMDFZ in Medio Oriente
Dal 2019, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha avviato una serie di Conferenze per l’istituzione di una zona libera da armi nucleari e altre armi di distruzione di massa in Medio Oriente. Queste conferenze annuali mirano a riunire tutti gli Stati della regione per negoziare un trattato vincolante che stabilisca tale zona. Finora, Israele non ha partecipato a queste conferenze, il che rappresenta un ostacolo significativo.
da il manifesto
In un post su Facebook Claudio Vedovati cita gli articoli sul Sole 24 ore di domenica scritti da Gregory Alegi e Sergio Fabbrini. Senza mezzi termini il primo commenta la decisione della Corte Suprema degli Usa che limita il potere dei giudici contro le decisioni del presidente Trump: è stata «riscritta» la Costituzione americana ribaltandone un «pilastro della separazione dei poteri».
Per il secondo i bombardamenti americani in Iran sono, altrettanto chiaramente, una «violazione del diritto internazionale». E Trump «disconosce la legalità internazionale così come disconosce la legalità costituzionale». Inoltre Fabbrini critica i leader europei: «si genuflettono nei confronti di Trump come fossero i suoi vassalli. Assomigliano ai leader comunisti del Patto di Varsavia, quando si inginocchiavano al segretario generale del partito comunista sovietico».
Se tali allarmi «liberali» vengono dal quotidiano degli industriali – si chiede Claudio Vedovati – «che fine faremo?». «La linea, il punto di equilibrio oltre la quale una democrazia è destinata a soccombere è stato superato?». E «come possiamo cambiare»?
Ho trovato questo post poco fa, mentre mi apprestavo ad affrontare, qui, lo stesso tema avendo letto l’ultimo testo di Mario Tronti (Il proprio tempo appreso col pensiero. Scritto politico postumo. Il Saggiatore, 2024). E soprattutto le sue tesi sulle degenerazioni della democrazia, che dopo il ’45 ha agito generalizzando la pretesa di rappresentare, a mano armata, il «bene» contro ogni altro soggetto giudicato «asse del male».
La logica della guerra – e dell’alleanza tra movimento operaio e borghesie democratiche – che non poteva essere rifiutata contro Hitler e il nazifascismo, ha accompagnato poi la sconfitta della sinistra, il crollo del sistema sovietico, e il dominio capitalistico totale odierno. «La democrazia – disse Churchill – è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora».
Ma la degenerazione spaventosa che abbiamo di fronte non dovrebbe spingerci a pensare a qualcosa di meglio? E a capire, così come va fatto per l’esito fallimentare della costruzione del socialismo, dove si annidano gli errori che corrompono i sistemi democratici?
Claudio Vedovati, amico di lunghe ricerche, con altri, di vivere un cambiamento maschile, cita la «libertà femminile» prodotta dal femminismo – secondo Luisa Muraro il «senso libero di sé, guadagnato e riguadagnato con l’ascolto di sé e degli altri». «Questa libertà – non quella dei diritti liberali, individualistici, che vediamo oggi usata proprio contro la democrazia – è la sola che può dare ancora sostanza alla parola democrazia o meglio a qualcosa che dovremmo considerare come una nuova civiltà dei rapporti umani».
Tronti mutua dal «pensiero della differenza» italiano il recupero dell’idea di «autorità» distinta da quella di «potere». Ma, avendo negato che possa esserci una rivoluzione «di genere», cerca il recupero di autorità democratica in un complesso intreccio di allusioni alla creazione di «aristocrazie» illuminate dall’alto, e alla ripresa di consapevoli battaglie per la libertà dal basso. Il suo sguardo – arricchito da belle citazioni di Musil, Pannikar e San Paolo – resta, mi pare, troppo rivolto al “ponte di comando” di una politica intesa con sensibilità novecentesca, e maschile.
Gli accenni al cristianesimo e al femminismo non dovrebbero far riflettere sul fatto che le idee di S. Paolo hanno vinto sull’Impero romano senza combattere con le armi, e che la rivoluzione delle donne è stata finora certo non “pacifica” ma disarmata (e disarmante)? Non è questo l’“Occidente” a cui guardare?
da RivistaStudio
Nel 2005 lo scrittore Ian McEwan ha deciso di liberarsi di una buona parte della sua biblioteca personale. Con il figlio ha portato pile di romanzi in un parco non lontano da casa per darli via ai passanti. È rimasto sorpreso nel vedere che le donne erano quelle più interessate alla narrativa che stava regalando. Diverse donne si sono portate via anche due o tre volumi. Molti uomini invece dicevano: «No, non fanno per me». Dopo questo episodio ha scritto: «Quando le donne non leggeranno più, il romanzo morirà».
Il Guardian qualche anno dopo, nel 2019, ricordando la frase di McEwan, titolava un pezzo “Senza le donne il romanzo morirebbe”, riportando i dati ufficiali secondo cui le donne compravano più narrativa degli uomini, escluse le categorie fantasy, science fiction e horror. E magari nel frattempo dopo il ripescaggio e la trasformazione in “filosofe” di Octavia Butler e Ursula K. Le Guin, si potrebbe vedere se il mondo maschile si è perso un’altra di queste categorie. E anche l’horror e il weird nel frattempo sembrano più femminili – dopotutto se pensiamo a Frankenstein… – e basta vedere un importatore chiave del genere, Mercurio Books, notando quanto le voci di punta tradotte siano donne. Il romanzo diventa anche uno strumento attivo del femminismo, come è il caso di Margaret Atwood e del suo Il racconto dell’ancella.
Questione di genere
Un sondaggio citato nell’articolo del Guardian diceva che nei mercati anglofoni (Regno Unito, Canada e Usa) il mondo femminile acquistava l’80 percento della narrativa. Allora si diceva anche che se gli uomini, quando leggevano romanzi, preferivano quelli scritti da uomini, le donne invece «leggono e ammirano romanzieri uomini, facendo raramente giudizi di valore in base al genere».
Andiamo avanti di sei anni, cioè a oggi. “Io leggo solo romanzi scritti da donne”. Lo abbiamo sentito dire, da amiche, da parenti, da autrici pubblicate, da sconosciute che si danno un tono coi librai, da librai che vogliono fare gli “alleati”, dagli amici che ci credono davvero (forse). Per alcuni la scelta è una questione di quote rosa, cioè forzare un meccanismo facendo in modo che diventi prassi, e quindi un mondo governato storicamente da un genere viene scardinato imponendo con la “forza” finché l’imposizione non diventa abitudine (a volte funziona).
Per altre scegliere di leggere solo libri scritti da donne (più che per altri, secondo esperienza) è una questione di sensibilità. La cosa si spiega dicendo che ci si ritrova di più nella voce di qualcuna che condivide con noi sesso e/o genere perché è più semplice che ci siano cose in comune. Se usciamo dalla questione di genere, per un momento, è interessante notare come per alcuni lettori e lettrici il romanzo debba creare una situazione e una voce in cui “ritrovarsi” – quante “recensioni” sui social ci concludono con “mi ci sono ritrovato tantissimo, sarà anche che in questo periodo sto vivendo una cosa simile alla protagonista”.
Sorellanza
Torniamo al genere. Per altri la sensibilità coinvolge anche una questione politica quando si dice “leggo solo donne”, e cioè una “sorellanza”, la condivisione di uno struggle, di una sofferenza, di un esser vittime del patriarcato e del male gaze, e del mandare un messaggio, oltre che il piacere a sostenere economicamente un’artista donna. Da “Sorella io ti credo” a “Sorella io ti leggo”. Le donne che leggono donne diventano quindi anche combattenti. L’uomo bianco etero che prova a inserirsi in dei ranghi simili fallisce. Jonathan Franzen ha provato a intitolarsi una guerra – cioè quella contro i gatti che mangiano gli uccellini – risultando ridicolo.
Uno dei problemi è che di fronte a chi dice “leggo solo autrici donne” rispondere con “a me non importa, mi interessa solo che il libro sia scritto bene”, appare simile al “la destra e la sinistra sono idee superate” (che è una frase di destra). Così come “leggo solo autrici donne” è vista come una frase progressista, mentre “leggo solo autori uomini” (non conosco nessuno che l’abbia mai detto, se non con senso di colpa) è una frase che appare provocatoria. È il classico paradosso della minoranza, che si basa ovviamente su presupporti storici. Chi ha il potere, (o chi ce l’aveva) si sente in pericolo perché sta perdendo questo potere secolare, e si aggrappa ai brandelli di ciò che lo separa dagli altri e da chi lo caratterizza.
Ma torniamo – di nuovo – ai libri. Non è un caso che in risposta alle varie case editrici che pubblicano per scelta solo autrici donne, stia nascendo in Inghilterra una casa editrice che vuole pubblicare solo romanzieri uomini: Conduit Books, fondata dallo scrittore e critico Jude Cook, che non è un naziskin o un podcaster complottista novax o un fan di Andrew Tate. Cook dice che non vuole avere un atteggiamento antagonistico con la sua casa editrice, ma vuole «creare uno spazio in modo che gli autori maschi fioriscano». Nel clima editoriale di oggi, dice, la voce maschile è percepita come “problematica”, e spesso è “trascurata”, anche per via di una “scena letteraria occasionalmente tossica degli anni ’80 e ’90”.
Un correttivo, quindi. Anche perché secondo il World Economic Forum da qualche anno (2020) le donne pubblicano più libri dei maschi. Joyce Carol Oates nel 2022 scriveva su Twitter: «Un amico agente letterario mi ha detto che non riesce a far leggere agli editor gli esordi narrativi di giovani autori maschi bianchi, a prescindere da quanto siano validi». Il mercato si piega sempre. Non è un caso che esista una pagina di successo su Instagram come “Hot Dudes Reading”, come se i manzi che leggono in metropolitana fossero più rari di un canguro albino.
Il nuovo canone
Sally Rooney, Ottessa Moshfegh, Elena Ferrante, Donna Tartt, Rachel Cusk, Annie Ernaux, Hanya Yanagihara, Deborah Levy, Yasmina Reza. Ma anche Valérie Perrin e Muriel Barbery. E poi le ondate dal Giappone. Ogni autrice della lista, forse incompleta, ha avuto un momento di fandom simile a quella di una rockstar, più o meno duratura, con esplosioni e canonizzazioni, e numeri diversi di vendita, ma con un’attenzione che nessuno scrittore maschio sembra aver ricevuto nello stesso periodo storico con la narrativa. E a parte Ernaux e Levy e in parte Cusk, si tratta di romanzi duri e puri.
Il Guardian nel listone dei migliori romanzi del secolo ha messo Wolf Hall di Hilary Mantel (al secondo e terzo posto Marilynne Robinson e Svetlana Aleksievič), il New York Times ha incoronato invece L’amica geniale (secondo posto Isabel Wilkerson, terzo Mantel). E poi i ripescaggi, i revival, e le celebrazioni postume, i riconoscimenti ex post, con Goliarda Sapienza, e Natalia Ginzburg tradotta, etc etc. E poi gli immancabili book club, anche qui con grande focus femminile – pensiamo al gettonatissimo Miu Miu Literary Club (che permette agli squattrinati giornalisti culturali di sentirsi in una scena del grande Gatsby per due ore) dove si invitano solo autrici. Pensiamo alle booktoker e alle instagrammer, anche qui grande predominanza femminile. A parte con il giallo – Joël Dicker, uno tra tutti – casi maschili di esplosione simile alle autrici citate sopra ci sono stati solo con la saggistica: Yuval Noah Harari, David Quammen, Carlo Rovelli, e il precursore Jared Diamond.
Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere era il titolo di quel bestseller di John Gray. In effetti se guardiamo alla narrativa di casa nostra, i grandi casi recenti di successo extra-penisola riguarda M, cioè una biografona a puntate non tanto romanzata quanto scritta come fosse un romanzo (c’è differenza), tutto basato su ampia ricerca storica. Forse un trucco, che ha funzionato, per avvicinare entrambi gli emisferi, saggio travestito da romanzo, personaggificazione delle persone. E se si pensa al dibattito italiano nell’editoria, anche lì le romanziere sono sempre meno relegate al genere I leoni di Sicilia (altro caso di cui non esiste paragone maschile), e anche allo Strega sempre più spazio. E se una volta c’erano le polemiche intorno a Saviano, ora al centro, anche dopo l’addio, Michela Murgia è imbattuta.
Uomini nuovi
È interessante notare come Murgia, vincendo un premio come il Campiello con un romanzo, Accabadora, si sia poi dedicata, anche in virtù della loro natura più rapida e politica, alla saggistica – come se i nostri tempi accelerati non avessero più spazio per il romanzo come arma. Qui potrebbe esserci uno dei motivi del declino del romanzo maschile: non è più potente come un tempo. Tutto è troppo veloce per permettere alla narrativa di cambiare il mondo. Tra gli altri motivi della femminilizzazione del romanzo ci potrebbe essere del sano bovarismo di ritorno, certo, o mai sopito – si è passati dal feuilleton, dalle Liale, dagli Harmony fino al romance, ma quella è un’altra categoria di lettori. Oppure, come ha scritto una giovane giornalista sul Washington Post: gli uomini fanno schifo e quindi le donne si cercano dei “fidanzati” nei personaggi dei romanzi, che possono essere “perfetti”, a differenza di quelli reali. Il «book boyfriend è rispettoso e ti ascolta, e non devi pregarlo di buttare via la spazzatura».
Il New York Times la scorsa settimana ha pubblicato un pezzo con il titolo: “Perché sono scomparsi gli uomini che leggono i romanzi?”. Non si dà una riposta, ma si parla di gruppi di maschi che provano a mettere su un book club per tornare al romanzo, e di editori che dicono: il vero nemico sono i videogiochi e lo streaming. David J. Morris, professore dell’università del Nevada, l’anno scorso sempre sulle pagine del Times, azzardava una soluzione: c’è una regressione emotiva, culturale e di scolarizzazione del maschio americano. Preoccupato si chiedeva: «Cosa succederà alla letteratura, e quindi alla società, se gli uomini non sono più coinvolti nella lettura e nella scrittura? Le fortune di uomini e donne sono interconnesse».
Ad azzardare in un’ottica marxista la questione, si potrebbe pensare che uno dei motivi della fine del dominio maschile sul romanzo letterario e della supremazia femminile sia il fatto che da tempo si pensa solo in ottica iper-funzionale. Il nuovo uomo-tipo (non certo la bolla di giornalisti culturali e gente dell’editoria) è stato addestrato dai fondatori di start-up a dormire poco e a far fruttare ogni ora del giorno per fare il loro salterello di carriera (simile allo zuccherino dato ai cavalli da soma per non farli fuggire dalla stalla). Questa nuova piccola borghesia prevalentemente maschile, che un tempo leggeva, non lo fa più come i suoi antenati novecenteschi.
Si fa fatica a leggere, sempre di più – questo lo dicono i dati dopo dieci anni di uso degli smartphone – e l’intrattenimento è limitato a Netflix, che tra l’altro permette allo stesso tempo di scrollare o rispondere alle mail o ordinare su Deliveroo o comprare su Amazon usando un altro schermo. E così se proprio si deve leggere, con la fatica che si fa, che si leggano libri utili, funzionali, per la propria carriera. Libri dove si impara qualcosa, roba come Le 7 regole per avere successo, Il potere di adesso o Come trattare gli altri e farseli amici (non sapendo che tutto questo si può trovare in Bel Ami).
da il manifesto
Un percorso di saggi recenti ripercorre la vita e i testi della femminista autrice di “Sputiamo su Hegel”. A proposito dei volumi di Annarosa Buttarelli, Linda Bertelli, Marta Equi Pierazzini e Silvia Cucchi
«E su questo vuoto, che era me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore. Una volta respinte tutte quelle autorità da cui si può essere tentati di trarre la propria identità». In una intervista di Michèle Causse datata 1976, ora inserita in È già politica a cura di Maria Grazia Chinese, Carla Lonzi, Marta Lonzi e Anna Jaquinta (Rivolta Femminile, 1977), Carla Lonzi precisa cosa sia stato il pungolo all’origine del gruppo femminista di cui faceva parte: «allontanare tutte le suggestioni culturali, soprattutto quelle più insospettabili». Un passaggio ineludibile, perché chiarisce quanto quella laboriosa «tabula rasa» che alla fine degli anni Sessanta Lonzi allestisce e poi in seguito intraprende come elemento del suo metodo incarnato non sarebbe stata possibile senza la relazione con Rivolta Femminile, senza le relazioni con altre donne. In quegli anni Settanta della scoperta del femminismo, erano in molte: da Carla Accardi ed Elvira Banotti alla stessa Chinese e Laura Lepetit insieme alla sorella di Carla Lonzi, Marta.
Generazioni di donne, da un capo all’altro del mondo, studiose, attiviste, artiste e teoriche vengono ancora oggi interrogate da Carla Lonzi, là dove molto già abbiamo potuto scambiare del suo pensiero a cominciare proprio dalle edizioni originali di Rivolta Femminile, grazie alla Libreria delle Donne di Milano che, prima dei progetti editoriali di riedizione da parte di Et al. cominciati nel 2010 e quelli più recenti della Tartaruga, le ha rese disponibili alla distribuzione e alla vendita. Del resto, già Maria Luisa Boccia nel suo L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi (La Tartaruga 1990) segnava un percorso inaggirabile interno alla storia del femminismo italiano, prova ne sono anche adesso numerosi lavori che intorno al profilo della teorica e femminista fiorentina (1931-1982) si sperimentano e diffondono.
I risultati sono ottimi e insieme a ormai ampi apparati bio-bibliografici abbiamo anche occasione di leggere saggi le cui autrici hanno avuto accesso alle preziose carte del Fondo Lonzi (avviato nel 2018 presso la Gnam di Roma e ora depositato alla Fondazione Lelio e Lisli Basso, consultabile da chi ne fa richiesta). Ne sono prova tre volumi: il primo è Carla Lonzi, di Annarosa Buttarelli (Feltrinelli, pp. 105, euro 16) che, nell’ambito della collana Eredi, mostra quanto sia cruciale osservare la parabola lonziana in una più ampia genealogia critica e appassionata di riferimento, ancora oggi trasformativa e rivoluzionaria. Il secondo volume è di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini e si intitola Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi (Moretti&Vitali, pp. 238, euro 18), un saggio di due ricercatrici che, come Buttarelli, si misurano da anni con i testi di Lonzi individuandone, in questo caso, un ordito articolato di spunti politici ed esperienziali. Il terzo è di Silvia Cucchi, Storia di un’ambivalenza. Sul diario di Carla Lonzi (Ets, pp. 208, euro 20) in uscita in questi giorni ed è l’esito approfondito, anche questo con anni di ricerche alle spalle, su quella straordinaria impresa che è stata (e ancora non ha eguali): Taci, anzi parla. Diario di una femminista.
«Scrivere, esprimermi per me, significava raccogliere tutti i brandelli che lasciavo qua e là e ricollegarli l’uno con l’altro, ritrovare un’articolazione di momenti, una specie di completezza». Il 3 ottobre del 1972, Carla Lonzi affida a una pagina del suo diario uno dei numerosi ragionamenti sullo scrivere che è stato anche l’avvio di un seminario a Livorno su progetto di Laura Fortini e organizzato dalla Società italiana delle Letterate insieme all’associazione Evelina De Magistris nel febbraio del 2017 dedicato proprio a Lonzi scrittrice, “Non può essere perduta questa parola”. Il rilievo è a quelli che vengono ora chiamati numerosi registri, soprattutto nel diario, e che segnano (poesie, lettere, frammenti, sogni, cronache) il modo intransigente e libero di fendere sé stessa fino a essere ancora viva e presente nel mondo. Cominciato nel 1972 e concluso nel 1977, Taci, anzi parla è uno degli oggetti più affascinanti, disturbanti e ancora aperti, del femminismo italiano e non a caso è al centro dei volumi dedicati all’autrice.
Come tutti i documenti ad alta densità, esperienziale e politica, è fucina di emersioni a tratti capaci di interrogare anche il presente, nonostante gli anni trascorsi, percorrendone nuove intersezioni, perimetrandone di ulteriori. Pensiamo solamente alla restituzione di cosa significhi oggi un’autocoscienza separatista, le sue conseguenze, o cosa indichi il fare ordine su una radicalità sovversiva che è stata, per Lonzi, la scommessa di una intera vita: la sua. Dalla differenza sessuale alla malattia, dalle relazioni con gli uomini a quelle con le sue compagne, tra cui non si può dimenticare di nominare Sara, ovvero la Tuuli Tarina che firma Una ragazza timida, del 1973, fino alla coscienza politica di non poter più tornare indietro da quel “fuori luogo” che aveva scelto di abitare.
Pubblicato per la prima volta per gli scritti di Rivolta Femminile nel 1978, la circolazione di Taci, anzi parla ritorna nel 2010, in due volumi, grazie al progetto di ripubblicazione voluto dalle edizioni Et al. (che dal 2010 al 2012 ha dato alle stampe cinque volumi, insieme al già citato diario: Sputiamo su Hegel e altri scritti, con una postfazione di Maria Luisa Boccia; Autoritratto con la prefazione di Laura Iamurri; Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra e il postumo Scritti sull’arte, a cura di Lara Conte, Iamurri e Vanessa Martini). Ora Taci, anzi parla (di cui ha scritto su Alias D Michelina Borsarsi il 23/03/2025) è ancora una volta disponibile per La Tartaruga che da qualche anno, grazie a Claudia Durastanti, ha puntato sulla riedizione degli scritti di Lonzi a cura di Annarosa Buttarelli: Sputiamo su Hegel esce nel 2023, Autoritratto un anno dopo e, pochi mesi fa, il diario.
La domandache giace al fondo dei volumi recenti dedicati a Lonzi, come di quelli usciti in questi anni (tra tutti citiamo l’eccellente di Giovanna Zapperi, Carla Lonzi. Un’arte della vita per DeriveApprodi nel 2017) sembra essere la stessa, basterebbe forse guardare la foto che la ritrae da bambina e che Bertelli ed Equi Pierazzini inseriscono nel loro magnifico volume: una giovanissima Carla appare frontale e gli occhi sono gli stessi, inquieti eppure fermi, di chi ancora non sa che morirà di cancro a cinquantun anni e che pure porta già con sé tutta la profondità spiazzante di un desiderio. È un innamoramento che leggiamo nel futuro al di là, un pegno d’amore come quello assicurato alla non sindacabile inclinazione delle “sue” mistiche fin dagli anni del collegio. Ed è una festa del cuore che le arriva dopo aver compreso quanto la critica d’arte non facesse per lei e di quanto il concetto di inferiorizzazione avesse oppresso le donne per millenni. Gli occhi non possono che essere già spalancati, in quel viso minuto che possiede il nocciolo di ciò che diventerà. E di tutta la fatica di una primogenita. Non solo nella sua famiglia di origine ma nel suo gruppo di autocoscienza.
Tra i primi fondati alla fine degli anni Sessanta insieme a Demau e Anabasi, Rivolta Femminile e l’esperienza di chi ne ha fatto parte è ben raccontata, a più riprese, senza inutili romanticismi. E senza indugiare troppo, sia pure dentro una esperienza che sì è ancora condivisibile. I volumi recenti dedicati a Carla Lonzi la rappresentano bene, in mezzo ai corpi e alle storie che dispiegano quanto ancora irreparabile sia la rammemorazione, la vita stessa, questa tela nel suo movimento del “fare e disfare”, come lo chiamerebbe Manuela Fraire. La forza incrollabile e sofferta per la verità di una parola che non può che essere in presenza, storicamente e materialmente non consumabile. Non è eterna eppure non può essere perduta, soprattutto in tempi infelici e di morte come questo che stiamo attraversando.
da Alias Domenica, l’inserto culturale del manifesto
Ho preso la pratica politica delle donne
come forma simbolica che mi permetteva la scrittura.
(Luisa Muraro)
Mi ha lasciato stupito, stupito e coinvolto, ciò che Luisa Muraro ha raccontato di sé in una lunga serrata conversazione con Clara Jourdan che risale al 2003 e solo ora è pubblicata integralmente nei Quaderni di Via Dogana (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano, pp. 244, euro 15,00). Lo stupore è venuto dal modo interrogativo con cui Muraro riferisce del suo itinerario intellettuale e delle scelte esistenziali attribuite a una sua disposizione ad affidarsi alle occasioni, agli incontri più che a una progettualità fermamente perseguita. Cosa che a prima vista contrasta con l’immagine pubblica di leader del femminismo, che negli anni sessanta e settanta ha impresso un segno profondo nella società italiana. «Per me – dice – è stato difficilissimo orientarmi, decidere, capire, risolvere i problemi dentro, risolvere quelli fuori». Si riferisce soprattutto agli anni giovani, difficili per tutti, in particolare per chi porta in sé un bisogno di capire e di esserci, ma avvertendo l’interlocutrice che ora vuol giocare a carte scoperte, che quel suo affidarsi a chi «ha l’aria di sapersi orientare» è costitutivo di sé, è il suo modo di stabilire la relazione non senza una buona dose di egocentrismo.
Né è solo questione di persone (di volta in volta Bontadini, Fachinelli, Grazia Cherchi, Lia Cigarini), ma anche di ciò che queste portavano con sé: la filosofia, la psicanalisi, la politica, infine il femminismo, usati come interfaccia tra sé e la realtà per pensare e scrivere, che per lei è da sempre un bisogno primario. Cosicché, «Era il cattolicesimo? Andava bene il cattolicesimo, a certe condizioni, che non si sono realizzate. Era il comunismo? Poteva essere il comunismo, a certe condizioni, che non si sono realizzate. Per finire è stato il femminismo, a certe condizioni che si sono realizzate. È questa la logica esistenziale mia. Cercare le condizioni entro cui io potessi pensare e scrivere». Una logica che ella stessa scopre come «il punto cieco» di una biografia che rischia un esito nichilistico (lasciare che sia l’altro a «portare il peso della cosa» garantendole l’indispensabile appoggio simbolico), se non si arriva a chiarirlo dipanando il filo lungo degli interessi, degli scritti, delle azioni, ma innanzitutto prendendo atto di un suo modo di esserci e di pensare che scopriva estraneo alla cultura dominante dell’oggettivazione.
Capire Luisa Muraro non è agevole; d’altronde a leggere questo tentativo autobiografico non lo è neppure per lei stessa, che ha la saggezza di non provarci. Non cerca di mettere in fila le cose, di stabilire un ordine a posteriori, di spiegarsi spiegando in prima persona l’enigma di un’esistenza. Preferisce parlare della sua passione dominante: «Io sono una che scrive sempre». Ne è testimonianza questo stesso volume che per più di metà è occupato da una Bibliografia che dà conto di un profluvio di libri, saggi, articoli, interviste, traduzioni e inediti. Su questa passione e le sue ambiguità lei ragiona (aveva puntato dapprima a «entrare nel mondo degli uomini», convinta che solo esso le avrebbe consentito di pensare e scrivere). Ne cerca il significato non solo in termini personali; fa del suo caso un esempio di strategia comune a molti di «tentare di rigiocare sul piano della cultura umana qualcosa che è andato male», lo si faccia con l’agire politico o con il lavoro culturale o col fare famiglia o, nel suo caso, con lo scrivere libri.
Libri che sono in gran parte scritture su donne vissute al confine di un altrove e ciò che questo ha significato e significa per il bene dell’umanità. Così è stato con La signora del gioco, quella prima occasione in cui le è riuscito di dare a una vicenda di caccia alle streghe la forma simbolica della pratica politica delle donne e, a seguire, con Guglielma e Maifreda, una «storia di grandezza femminile finita tragicamente», in cui l’autrice si è autorizzata a dare spazio all’immaginazione per supplire a quanto non è documentato, nel convincimento che sottoporre a tensione le regole del lavoro storiografico, dando spazio all’immaginario, a certe condizioni lo arricchisce. Libro che per lei ha segnato altresì l’inizio di un lungo viaggio nel territorio della mistica, sostenuta dal convincimento che la libera ricerca di Dio fosse «forma di libertà femminile nell’Europa premoderna, ma anche nella scrittura femminile moderna e contemporanea», culminato con lo studio dedicato alla «filosofia mistica» di Margherita Porete.
Un saggio, questo, che a suo tempo ebbi il torto di non capire a fondo per essermi arrestato di fronte all’evidenza della perdita nella modernità di quanto aveva sostenuto l’esperienza spirituale di Margherita Porete, e dunque il venir meno delle condizioni culturali perché a una siffatta esperienza sia ancora riconosciuto un valore per l’insieme della vita sociale. Mentre è pur vero che nel passaggio dall’universo medievale a quello moderno la letteratura mistica ha seguitato a informare sotterraneamente una scienza altra da quella dominante, per dire ancora l’indicibile seppure slegato dalla scienza teologica. Cosicché, come aveva ben mostrato Michel de Certeau, motivi mistici sommersi hanno seguitato a emergere nelle discipline psicologiche, filosofiche, psichiatriche, romanzesche contemporanee e, certo, particolarmente nel linguaggio delle donne, nutrendo ancora la capacità di accogliere ciò che eccede la pretesa di totalità dei saperi costituiti. Un «niente» che non è perciò meno reale. Quell’infinitamente piccolo che per Simone Weil fa la differenza nel modo di concepire la vita sociale a tutti i livelli e che ha condotto Muraro a tentare la difficile via di dire Dio in una lingua altra da quella del possesso, la lingua de «l’umanità che sa che l’essenziale non è nulla che possiamo produrre o conquistare o possedere, ma solo aspettare e ricevere». Una «teologia favolosa» che negli scritti di tante donne, ma non solo, ha trovato esiti sorprendenti quanto liberanti, coniugata con la fede o fiducia nella possibilità di dare forma al desiderio dell’impossibile, nel convincimento che «dire la verità ed essere buoni sono scommesse che siamo destinati a perdere, ma tali che, spinte fino in fondo, perdendo si guadagna».
In definitiva è alla ricerca di un altro pensiero teologico ed etico – attestato negli anni che hanno seguito l’intervista da Il Dio delle Donne e da Al mercato della felicità –, cioè di una scienza altra rispetto a quella praticata dalla cultura moderna, che Luisa Muraro si è mossa, provenendo, come lei ricorda, «da una formazione mista di religione patriarcale e di cultura agnostica». Una «teologia in lingua materna», portatrice di parole ed esperienze non più isolate nello specialismo; messe al riparo dall’universalismo astratto, affinché «possano stare nella nostra mente come il pane sulla tavola: preziose e comuni». E un’etica del desiderio impossibile, pari a quello della vecchia filatrice di lana che va al mercato per l’acquisto di quel che la pochezza dei mezzi non le consente, e che tuttavia non viene meno nel convincimento fermo che «c’è altro», su cui non ci si deve stancare di puntare.
Sono questi, mi sembra, gli scritti che consentono di misurare al meglio gli esiti a cui Luisa Muraro è pervenuta grazie a una capacità di movimento, di messa alla prova di sé nelle situazioni date, fino all’incontro con quel femminismo «sorgivo» che le ha permesso di scrivere. Ma non è stata questione di nichilismo, quanto di riconoscimento che il femminismo le consentiva finalmente di dar forma al desiderio di riuscire a pensare il rapporto tra l’io e l’altro, tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità, tra corpo e anima, cioè precisamente tutto quanto la «cultura alta» a cui aveva inizialmente ambito ignora per non rischiare di doversi misurare con l’impensato.
(*) Pubblicato su Alias Domenica, l’inserto culturale del manifesto con il titolo “Muraro, per un teologia in lingua madre”
da L’Altravoce il Quotidiano
Una donna è uno dei primi libri di Annie Ernaux, scritto dopo la morte della madre solo dopo aver superato il terrore di scrivere «mia madre è morta» e aver potuto guardare le sue fotografie. È sulla donna che era sua madre che vuole scrivere, sull’unica donna che abbia davvero contato per lei. Lo fa per sottrarla all’oblio e restituirle una storia, una vita, tornando con la scrittura a vivere con lei, insieme a lei, in un tempo e nei luoghi in cui era ancora viva, per restituirle “verità” e, a sua volta, “metterla al mondo”. «Vorrei cogliere la donna che è esistita fuori di me, la donna reale, nata in un quartiere contadino di una piccola città normanna, Yvetot, e morta nel reparto geriatrico di un ospedale dell’hinterland parigino». Ricompone la vita della madre attraverso ricordi, memorie, immagini, gesti, parole, fotografie, episodi dentro il tempo storico e i luoghi che l’hanno vista protagonista della sua storia, iniziata con sua madre nel 1906 e conclusa con la figlia nel 1986. Una storia lunga che parla anche della figlia e del suo desiderio di libertà, lontana dallo “sguardo” materno. Storia comune a molte donne della generazione mia e di mia madre. Una madre che la figlia identifica con l’ambiente in cui è cresciuta. Rifiutare quell’ ambiente, ribellarsi alle convenzioni sociali e alle pratiche religiose, averne “vergogna”, come fa la figlia da adolescente, vuol dire allontanarsi dalla madre, “vergognarsi” di lei e lasciare il “mondo dei dominati” per quello “dei dominatori”, grazie allo studio a cui l’ha introdotta la madre. «Con l’adolescenza mi sono allontanata da lei e tra noi c’è stato soltanto conflitto».
«Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare e di comportarsi». «Sognavo soltanto di andarmene […], lontana dal suo sguardo». Scrivere della madre, della “bambina di campagna” a cui «piaceva leggere tutto ciò che le capitava sottomano», riconoscere la grandezza e la bellezza della donna che è stata, è un modo per riscattare quella vergogna e pagare il debito di riconoscenza e gratitudine verso la madre, del cui amore non ha mai dubitato. «Mi chiedo se scrivere non sia una maniera di dare». La ragazza giovane, bella, dagli occhi grigi, a cui piaceva leggere tutto ciò che capitava sottomano, cantava e rideva, anche molto, cui piaceva truccarsi, uscire in gruppo per andare al cinema, a teatro, divenuta madre non ha nemmeno un momento per sé e riversa le sue aspettative e desideri sulla figlia, facendola studiare. «Il suo desiderio più profondo era darmi tutto ciò che non aveva avuto lei». «Pronta ad ogni sacrificio per farmi avere una vita migliore della sua». Non c’è rancore, né alcun rimprovero verso la madre nella scrittura della figlia, ma orgoglio e ammirazione per la donna forte, energica, generosa, vivace, col sogno di «prendere in gestione un negozio di alimentari», che realizzerà e ne farà un luogo di «piacere di parlare e ascoltare». «Quante vite si raccontavano in negozio». Non idealizza la madre. «Scrivendo, vedo ora la “buona” madre, ora la “cattiva”», quella per cui «ogni occasione era buona per regalarmi giocattoli e libri», e quella che «mi dava della cagna, della stracciona, mi picchiava con facilità e cinque minuti dopo mi stringeva forte e mi chiamava la sua “bambolina”». Cerca di dare un senso a quella violenza.
«Non considero la violenza, i rimproveri, gli eccessi di tenerezza come tratti del suo carattere ma li situo all’interno della sua storia e della sua condizione sociale». È la scrittura che infine le dà la possibilità di unire la «donna demente che è diventata con quella forte e luminosa che era stata».
Un libro bello che, come tutti gli altri di Annie Ernaux, fa pensare e apre la mente. Buona lettura sotto l’ombrellone.
da La Sicilia
In tante città d’Italia e di altri Paesi europei le donne scendono in strada per gridare «Fuori la guerra dalla storia». E lo fanno con l’iniziativa “10, 100, 1000 piazze per la pace” che giovedì pomeriggio si è tenuta sotto la statua di Bellini in una piazza Stesicoro [a Catania, Ndr] colorata di striscioni e bandiere, da quelle arcobaleno a quelle della Palestina. L’idea è nata circa due anni fa da tre realtà femministe, l’Udi di Palermo, il Presidio donne per la pace di Caltanissetta e le donne di Pinerolo, e poi si è diffusa ovunque inglobando anche la lotta contro il genocidio a Gaza e quella contro il riarmo. Una lotta segnata – come spiega Anna Di Salvo di La Città Felice e la Ragna-Tela – da un preciso aspetto sessuato, quello delle donne che lottano contro il patriarcato, che sta alla base delle sopraffazioni e delle guerre, e che hanno assunto su di sé il lavoro di cura, la responsabilità di altre vite e l’impegno per la giustizia.
Le persone e le associazioni che hanno aderito all’iniziativa si alternano al microfono con poesie, canzoni, musiche, interventi creando uno spazio fisico e simbolico di confronto, pensiero e azione, uno spazio politico autonomo e femminista che intreccia territori, saperi e pratiche di resistenza alla cultura della violenza, uno spazio di donne in relazione e costruzione collettiva vissuto come presupposto necessario per una trasformazione profonda volta a smilitarizzare le menti e la società e a ridare senso alla convivenza. Le donne di questa piazza invocano la pace usando le parole delle loro madri simboliche fissate in cartelli colorati: «La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri», Hannah Arendt; «La guerra non appartiene alla storia delle donne», Virginia Woolf; «La guerra è stata sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile», Carla Lonzi; «La società matrilineare non costruiva armi né fortezze. La loro era una cultura di pace», Marija Gimbutas.
I discorsi si intrecciano. Rosaria Leonardi della Cgil legge le parole di una ragazza di Gaza che racconta l’intimità e la quotidianità violata dalle bombe e dalla distruzione quando anche solo avere le mestruazioni diventa un dramma perché non ci sono assorbenti, non ci sono prodotti per l’igiene né acqua e neppure la riservatezza, costrette come sono a condividere un unico bagno con centinaia di persone. Chiara Petrelli di Rifondazione rileva come le prime vittime delle politiche militariste sono le donne, e non solo quando le guerre scoppiano, ma anche prima, quando i governi decidono, come ha appena fatto la Ue piegandosi alle pretese di Trump e della Nato, di destinare alle armi il 5% del Pil, scelta che si traduce in taglio dei servizi e del welfare state e in povertà. Renata Governali dell’Udi spiega come fare la guerra e uccidere è il suicidio di noi stessi, della nostra parte capace di comprensione. E Irene Litrico di “Pari amore” ricorda che pace vuol dire imparare ad abbracciare le differenze e che ci vuole più coraggio a stare fuori dalla guerra che a farla. La tunisina Samia, di Freedom Flotilla, annuncia che l’associazione in cui milita si sta raccordando con la March to Gaza e con la Carovana Sumud per forzare via mare via aria e via terra il blocco di Gaza in modo da portare aiuti umanitari ad una popolazione stremata e alla fame. Quello che si sta perpetrando a Gaza, gridano queste donne, è un “futuricidio”, cioè la distruzione di esseri umani e delle condizioni per vivere e immaginare un domani. Discorsi intrecciati dai canti di ragazze immigrate e da quelli del gruppo “Coro Scatenato” e delle professoresse di “Kloster – le sarte dell’antropop”.
«La pace – scandiscono queste donne – non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire insieme, qui e ora». E aggiungono. «Ad una politica fondata sul dominio, sullo sfruttamento e sull’indifferenza verso la vita umana e il pianeta opponiamo pensieri e pratiche di pace, consapevoli che la guerra non è un’eccezione, ma è un dispositivo strutturale di potere. È parte integrante di un sistema economico e politico che trae profitto dal disastro e dalla paura». Un sistema che queste donne vogliono scardinare e superare.

Foto di Clelia Pallotta del presidio di Siracusa

da Leggendaria
Per parlarvi dei 50 anni della Libreria delle donne di Milano comincerò a dirvi perché da oltre quaranta è per me il luogo in cui sento l’indicibile fortuna di essere donna, parafarasando il sottotitolo del libro Non è da tutti di Luisa Muraro, una delle fondatrici della Libreria.
Partirò dunque da me perché il partire da sé è una pratica sorgiva del femminismo che da sempre permette lo scambio trasformativo tra donne e con quegli uomini che sanno mettersi in gioco. La Libreria, aperta sulla strada dal 1975 in via Dogana e ora in via Pietro Calvi 29, permette a chiunque di entrare, farsi consigliare libri e comprarli, partecipare agli incontri che ogni settimana si tengono nella sala dell’annesso Circolo della rosa. Mi affascina questa composizione mobile, soprattutto di donne di età e formazione diverse, che si pone nell’orizzonte ampio della differenza sessuale, una differenza a cui dare senso giorno per giorno. Io ho potuto dire «io sono una donna» come prima mossa per lanciarmi nell’avventura della libertà femminile, una libertà ben diversa da quella individualistica proposta dalla rivoluzione francese. È una libertà che tiene conto delle relazioni in cui sono immersa e soprattutto trova misura e mediazione nella relazione con un’altra donna, che può non essere sempre la stessa: dipende dalla mia ammirazione verso di lei; una relazione senza fine, cioè non è strumentale e può durare tutta la vita.
Fare della differenza sessuale un significante a cui dare significato è tutt’altro che essenzialismo o limitarsi a ciò che il patriarcato tenta di imporre come caratterizzante il genere femminile o maschile, e neppure porsi il limite rivendicativo della parità. Dire che «la differenza delle donne c’è», darle grande importanza, coltivarla grazie alla pratica di relazione, all’attenzione alla letteratura, alla poesia, al teatro, alla filosofia, alla storia, al cinema, all’arte, alla scienza, e soprattutto alla riflessione che ciascuna fa sulla propria esperienza nel far esistere la Libreria e nell’essere intera nel lavoro, nella famiglia, nel tempo libero, mi ha permesso di scoprire la forza dei miei desideri. Una riflessione politica che eccede il dicibile, un pensare in presenza in cui è necessario esserci per viverlo che mi ha dato slancio per districarmi con forza e leggerezza nel mondo.
Per condividere le scoperte che negli anni siamo andate facendo e proponendo, ma soprattutto per fare l’esperienza di esserci, sono stati pensati diversi momenti specifici di festeggiamento dei 50 anni, in Libreria e in altri luoghi non solo di Milano, oltre agli incontri che continuano la ampia programmazione settimanale. Potrete conoscerli meglio anche consultando il sito, la cui redazione carnale si trova tutti i giovedì, o i canali social Instagram e Facebook.
Gli accenni che farò alle proposte possono permettervi di cogliere la ricchezza per tutte e tutti di quest’impresa femminile.
Comincerò segnalandovi che l’8 marzo è uscito Esserci davvero, una conversazione inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan, in cui la vita svelata si intreccia alla genesi delle sue principali opere, completata dalla vasta (ben 141 pagine) bibliografia dal 1963 al 2024. Un libro in cui la vivezza del linguaggio permette di sentirti parte dello scambio tra le due interlocutrici e di sorprenderti nello scoprire o approfondire nuovi aspetti delle pratiche e del pensiero di una filosofa che ha rivoluzionato diverse discipline. Proprio sulla originalità del pensiero di Muraro si terrà dopo l’estate un convegno con ospiti anche internazionali e successivamente ce ne sarà un altro sul pensiero di Lia Cigarini.
Ci incontreremo in quattro momenti con le editrici femministe che hanno significative relazioni con la Libreria come l’Enciclopedia delle donne, Vanda, Moretti & Vitali, Le plurali.
Proprio per dare spazio al confronto con giovani donne dialogheremo con due partecipanti dell’Accademia delle piccole Filosofe, tenuta da Luisa Muraro fino al 2020, su come farei i conti con emozioni e sentimenti che influenzano le nostre scelte di vita.
Grande rilievo avrà Via Dogana la rivista nata nel 1991 che, dopo 111 numeri cartacei, dal 2015 è diventata on line ad accesso libero.
La redazione, composta da una dozzina di donne, propone temi, cerca un paio di interlocutrici o interlocutori che inizino il dibattito in una redazione aperta che si svolge una domenica mattina e a cui si può, prenotandosi, partecipare in presenza e, dopo il Covid, anche on line non solo dall’Italia. In base agli interventi vengono richiesti gli articoli che, una volta vagliati, comporranno il nuovo numero. Per comprendere la validità di questo metodo, in cui ciascuna e ciascuno parla in prima persona e non a nome di altre o altri, si può leggere Femminismo mon amour in cui sono stati pubblicati i più significativi articoli che mettono a fuoco le pratiche femministe che abbiamo inventato e modificato nel tempo (vedi Leggendaria n.167). La novità di quest’anno è che sono già a disposizione le date e i titoli delle redazioni aperte. Si va dal 2 marzo per Le madri di tutte noi,dedicato alle genealogie femminili come riconoscimento e valorizzazione dei legami simbolici e reali tra donne, all’8 giugno per Fare impresa femminile, al 5 ottobre per Intelligenza naturale e intelligenza artificiale e infine al 14 dicembre per Il tempo è vita.
Inoltre sono proposti tre numeri speciali cartacei, a cui abbonarsi e per i quali lavora una specifica redazione che propone tre incontri di discussione. Il 22 febbraio in È ora di andare via si è aperto un confronto per rigenerare sguardo, pensiero, desiderio e aiutarci ad affrontare i tanti campi di battaglia, vicini e lontani, che corrono il rischio di bloccare la forza politica trasformativa della libertà delle donne. Seguiranno il 21 giugno Rifacciamo il femminismo e il 29 novembre Le rivoluzionarie delle arti.
Sull’arte vi saranno a maggio altri due momenti: Arte e scienza in dialogo, frutto del ciclo di incontri mensili tra scienziate/i di diverse discipline e artiste/i, svoltisi dal 2023 in Libreria, e una tavola rotonda tra curatrici e artiste su Creare non è comunicare, ma resistere.
Per il cinema, grazie alla collaborazione con l’Associazione Lucrezia Marinelli che ci ha raccontato la rivoluzione del linguaggio cinematografico portata avanti dalle registe, vedremo il film di Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme.
L’apertura alla città verrà segnata il 9 aprile in Camera del Lavoro da una riflessione per connettere le sfide del lavoro di oggi con la ricchezza del pensiero delle donne, una riflessione che ha impegnato dal 1994 il Gruppo Lavoro e ha prodotto, ad esempio, il Sottosopra Immagina che il lavoro, l’Agorà del lavoro, un’assemblea cittadina tenutasi dal 2011 al 2015, l’inserto Pausa lavoro di Via Dogana, i cui testi, raccolti nellibro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, mostrano il processo di elaborazione del punto di vista politico delle donne libere di oggi.
Anche le tre letture sceniche su tre maestre di vita e di pensiero: Margherita Porete, Simone Weil e Lina Merlin, si replicheranno, oltre che in Libreria anche al Teatro Studio Novecento e in alcune scuole.
Il 17 e il 18 maggio si terrà l’annuale convegno delle Città vicine, una rete e una proposta politica di vicinanza tra città, soprattutto italiane, attraverso le relazioni tra donne e uomini che amano la città e desiderano viverci bene. A settembre, su invito di fem! Feministische Fakultät, vi sarà a Zurigo una presentazione pubblica della Libreria e un workshop con femministe svizzere.
La riflessione sul cambiamento prodotto nelle scuole dalle pratiche della Pedagogia della differenza e dell’Autoriforma gentile e sulla loro attualità sarà tema di un incontro con insegnanti mentre con La storia sottosopra: la novità della storia vivente verrà presentata la genesi e lo sviluppo dell’invenzione simbolica di fare di sé il documento storico per svelare e liberarsi dalle costruzioni patriarcali.
Voglio terminare con la festa di compleanno, che si terrà il 18 ottobre, con reading e concerto della band Le Ardesia.
Bibliografia
– Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011. 126 pagine, 13,00 euro
– Luisa Muraro, Esserci davvero. Conversazione di Luisa Muraro con Clara Jourdan, Quaderni di Via Dogana – Libreria delle donne di Milano, 2025. 248 pagine, 15,00 euro
– Gruppo lavoro della Libreria delle donne, Giordana Masotto (a cura di), Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, Moretti & Vitali, Bergamo 2022. 360 pagine, 22,00 euro
– Redazione di Via Dogana 3 (a cura di), Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, Quaderni di Via Dogana – Libreria delle donne di Milano, 2024. 173 pagine, 12,00 euro
– Libreria delle donne di Milano, Immagina che il lavoro, “Sottosopra”, marzo 2009, Libreria delle donne di Milano: https://www.libreriadelledonne.it/
– Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme, 2019, 131’
(Leggendaria. Libri Letture Linguaggi n. 171 maggio 2025, pp.51-52)
Dal Corriere della Sera
«Dalle conversazioni con ufficiali e soldati è emerso che i comandanti hanno ordinato alle truppe di sparare contro le folle per allontanarle o disperderle, anche se era chiaro che non rappresentavano una minaccia». È la sconvolgente rivelazione di Haaretz, che ha pubblicato le testimonianze di una serie di militari israeliani in un reportage dal titolo urticante, “It’s a Killing Field”: IDF Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid, “È un killing field [campo di uccisioni]: i soldati israeliani hanno ricevuto l’ordine di sparare deliberatamente contro i gazawi disarmati in attesa di aiuti umanitari”. A queste rivelazioni si aggiungono quelle sui contractor americani, pagati per demolire le case dei palestinesi.
Le stragi quotidiane che avvengono da settimane nei luoghi di distribuzione degli aiuti sono note, ma le testimonianze raccolte dal giornale israeliano – testimonianze di importanza eccezionale, perché la presenza dei giornalisti a Gaza non è ammessa e perché si tratta di fonti militari – rivelano le dimensioni inimmaginabili di quella che un soldato definisce «la totale rottura dei codici etici delle Forze di Difesa Israeliane (l’acronimo IDF sta per Israel Defense Forces) a Gaza». La situazione è talmente degenerata che, scrive Haaretz, l’Avvocato generale militare ha incaricato la “Commissione di valutazione dei fatti dello Stato Maggiore dell’IDF” – l’organismo che esamina le potenziali violazioni – di indagare sui sospetti crimini di guerra.
Tutto è precipitato da fine maggio, quando la distribuzione degli aiuti alla popolazione è stata definitivamente sottratta alle agenzie umanitarie internazionali e affidata alla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation (GHF), un ente le cui origini e i cui finanziamenti restano opachi: «Si sa che è stata creata da Israele in coordinamento con evangelici statunitensi e appaltatori di sicurezza privati», scrive Haaretz. Questa svolta si è incrociata con quella militare e umanitaria, che negli ultimi tre mesi ha visto l’esercito israeliano emettere ogni giorno ordini di evacuazione che costringono la popolazione a spostarsi: 680mila negli ultimi tre mesi, 242mila solo nell’ultimo mese. In questa fase, l’82% per cento del territorio è off limits per i suoi abitanti, che sono ammassati nel restante 18%. Vuol dire che oltre due milioni di persone sono costrette a vivere in 65 chilometri quadrati, in condizioni che favoriscono la continua diffusione di malattie. E sono ridotte alla fame.
In questo quadro, la GHF gestisce quattro centri di distribuzione di cibo – tre nel sud della Striscia e uno nel centro – il cui personale è composto da operatori americani e palestinesi ed è protetto dall’IDF a qualche centinaio di metri di distanza. Più vicini ai centri si muovono invece i membri di Abu Shabab, la milizia legata all’Isis che gli israeliani hanno cooptato per scalzare Hamas.
Ogni giorno, migliaia o decine di migliaia di gazawi arrivano in questi centri per ricevere cibo: nonostante israeliani e americani, nel cacciare le agenzie Onu, avessero garantito che la distribuzione sarebbe stata ordinata, avviene tutto nel caos, con la folla che si accalca a ridosso dei siti, aperti in genere per un’ora al mattino ma a volte, e senza preavviso, al pomeriggio, cosa che contribuisce al disordine. Secondo le testimonianze dei militari israeliani, «l’IDF spara alle persone che arrivano prima dell’orario di apertura per impedire loro di avvicinarsi, o di nuovo dopo la chiusura dei centri, per disperderle».
È per descrivere questa situazione che un soldato ha usato l’espressione “killing field”, che ha motivato così:
«Vengono trattati come una forza ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni, solo fuoco vivo con tutto ciò che si può immaginare, mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai. Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da qualche centinaio di metri di distanza, e a volte li carichiamo da vicino. Ma non c’è alcun pericolo per le forze armate. Non sono a conoscenza di un solo caso di risposta al fuoco. Non ci sono nemici, non ci sono armi».
Le altre testimonianze raccolte da Haaretz confermano o aggravano questo quadro:
«Gaza non interessa più a nessuno. È diventato un luogo con un proprio insieme di regole. La perdita di vite umane non significa nulla. Non è nemmeno uno “sfortunato incidente”, come si diceva una volta» (un riservista che questa settimana ha completato un turno di servizio nella Striscia settentrionale).
«Lavorare con una popolazione civile quando il tuo unico mezzo di interazione è aprire il fuoco è altamente problematico, per non dire altro. Non è eticamente accettabile che le persone debbano raggiungere, o non riescano a raggiungere, una zona umanitaria sotto il fuoco di carri armati, cecchini e colpi di mortai. Una brigata da combattimento non ha gli strumenti per gestire una popolazione civile in una zona di guerra. Sparare con i mortai per tenere lontana la gente affamata non è né professionale né umano. So che tra loro ci sono agenti di Hamas, ma ci sono anche persone che vogliono semplicemente ricevere aiuti. Come Paese, abbiamo la responsabilità di garantire che ciò avvenga in modo sicuro» (un ufficiale che presta servizio di sicurezza in un centro di distribuzione).
Qui si aggiunge un dettaglio tragicamente rivelatore sull’attività degli appaltatori assunti a Gaza per aiutare le forze di occupazione, fornito da un veterano israeliano:
«Oggi, ogni contractor privato che lavora a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel (circa 1.500 dollari) per ogni casa che demolisce. Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro, e le forze armate devono assicurare il loro lavoro. Gli appaltatori demoliscono dove vogliono lungo tutto il fronte».
In questo scenario da far west, i contractor «si muovono come sceriffi». La campagna di demolizione li porta spesso vicino ai punti di distribuzione o lungo i percorsi utilizzati dai camion degli aiuti. Le sparatorie scoppiano in molti casi per proteggere queste attività e queste persone. «Queste sono aree in cui i palestinesi possono stare, siamo noi che avvicinandoci scegliamo di metterci in pericolo. Quindi, per un appaltatore che vuole abbattere una casa per guadagnare altri 5.000 shekel, si ritiene accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».
Le testimonianze convergono nell’indicare come maggiore responsabile di questa situazione un alto ufficiale, il generale di brigata Yehuda Vach, comandante della Divisione 252 dell’IDF. Haaretz ricorda di avere già riportato «come Vach abbia trasformato il corridoio di Netzarim in un percorso mortale, abbia messo in pericolo i soldati sul campo e sia stato sospettato di aver ordinato la distruzione di un ospedale a Gaza senza autorizzazione». Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere gli assembramenti di palestinesi in attesa di aiuti aprendo il fuoco: «Questa è la politica di Vach, ma molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande».
Un soldato carrista della riserva, che prestato servizio di recente nella Divisione 252, conferma come funziona questa “procedura di dissuasione” per disperdere i civili:
«Gli adolescenti che aspettano i camion si nascondono dietro i cumuli di terra e si avventano sui mezzi quando passano o si fermano nei punti di distribuzione. Di solito li vediamo da centinaia di metri di distanza; non è una situazione in cui rappresentano una minaccia per noi. In un caso, sono stato istruito a sparare una granata verso una folla radunata vicino alla costa. Tecnicamente, dovrebbe essere un fuoco di avvertimento, per far indietreggiare le persone o impedire loro di avanzare. Ma ultimamente sparare granate è diventata una pratica standard. Ogni volta che spariamo, ci sono vittime e morti, e quando qualcuno chiede perché è necessaria una granata, non c’è mai una buona risposta. A volte, il solo fatto di porre la domanda infastidisce i comandanti».
Nel suo caso, aggiunge il soldato, un gruppo ha cominciato a fuggire dopo il lancio della granata ma è stato raggiunto da altro fuoco: «Se doveva essere un colpo di avvertimento, e li vediamo correre indietro verso Gaza, perché sparare su di loro? A volte ci dicono che si stanno ancora nascondendo e che dobbiamo sparare nella loro direzione perché non se ne sono andati. Ma è ovvio che non possono andarsene, se nel momento in cui si alzano e corrono apriamo il fuoco».
Il soldato dice che questa è diventata una routine: «Sai che non è giusto. Senti che non è giusto, che i comandanti qui stanno manipolando le regole. Ma Gaza è un universo parallelo. Si va avanti velocemente. La verità è che la maggior parte non si ferma nemmeno a pensarci».
All’inizio di questa settimana, aggiunge il giornale, i soldati della Divisione 252 hanno aperto il fuoco su un incrocio dove i civili stavano aspettando i camion degli aiuti: «Un comandante sul posto ha dato l’ordine di sparare direttamente al centro dell’incrocio, causando la morte di otto civili, tra cui alcuni adolescenti. L’incidente è stato portato all’attenzione del capo del Comando Sud, il maggior generale Yaniv Asor, ma finora, a parte una revisione preliminare, non ha preso provvedimenti e non ha chiesto spiegazioni a Vach sull’alto numero di morti nel suo settore».
Un altro ufficiale della riserva che comandava le forze nell’area conferma così l’andazzo:
«Ero presente a un evento simile. Da quello che abbiamo sentito, sono state uccise più di dieci persone. Quando abbiamo chiesto perché avessero aperto il fuoco, ci è stato risposto che era un ordine dall’alto e che i civili avevano rappresentato una minaccia per le truppe. Posso dire con certezza che non erano vicini alle truppe e non le mettevano in pericolo. È stato inutile: sono stati uccisi e basta, per niente. Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. Ci è stato costantemente detto che a Gaza non ci sono non combattenti, e a quanto pare questo messaggio è stato recepito dalle truppe».
Un alto ufficiale denuncia la crescente anarchia degli alti comandanti sul campo rispetto ai vertici dello Stato Maggiore. E le sue parole tirano le somme di questa catena di incidenti, che non è casuale, che non è voluta dai civili stremati dalla fame, dalle continue deportazioni e dal sovraffollamento negli accampamenti:
«Il mio timore più grande è che gli spari e i danni ai civili a Gaza non siano il risultato di una necessità operativa o di una scarsa capacità di giudizio, ma piuttosto il prodotto di un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo».
Un’altra fonte militare racconta una recente riunione del Comando Sud, in cui è emerso che le truppe hanno iniziato a disperdere la folla usando proiettili di artiglieria:
«Parlano dell’uso dell’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a chiedersi perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno».
Ancora una testimonianza, ancora un alto ufficiale:
«Il fatto che il fuoco vivo sia diretto contro la popolazione civile – sia con l’artiglieria, i carri armati, i cecchini o i droni – va contro tutto ciò che l’esercito dovrebbe rappresentare. Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché hanno oltrepassato la linea, o perché a qualche comandante non piace? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a rischiare la vita solo per togliere un sacco di riso da un camion? Ed è a lui che spariamo con l’artiglieria?».
Haaretz racconta che i tentativi del Comando Sud dell’IDF di occultare o minimizzare le stragi
quotidiane stanno incontrando l’opposizione dell’Ufficio dell’Avvocato Generale Militare, un cui funzionario sottolinea che «l’affermazione che si tratta di casi isolati non è in linea con gli incidenti in cui le granate sono state lanciate dall’aria e i mortai e l’artiglieria sono stati usati contro i civili. Non si tratta di poche persone uccise, stiamo parlando di decine di vittime ogni giorno».
A Gaza non ci sono controlli, non ci sono osservatori internazionali, non ci sono giornalisti. Ci sono i soldati, e il loro racconti. Fuori da Gaza c’è il mondo, ci siamo noi. A parti invertite, e per fortuna, non lo consentiremmo. Così, non ci interessa e lo consentiamo.
Gli israeliani possono essere fermati solo dalle loro coscienze.
(Corriere della Sera, 27 giugno 2025, pubblicato col titolo “Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. I racconti choc dei soldati israeliani a Gaza”)
Il 5 giugno al Mudec di Milano ho partecipato alla presentazione del libro di Dijana Pavlović Irriducibili. Alterità dell’anima zingara: attrice, attivista, scrittrice e politica, Dijana è nata nel 1976 in Serbia, si è trasferita nel 1999 a Milano ed è fondatrice del Movimento Kethane, che da anni si batte per l’autodeterminazione delle comunità rom e sinti.
Il libro pubblicato quest’anno riunisce i pensieri dell’autrice, che dopo vent’anni di attivismo e politica, sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e analizzare dall’inizio tutto il percorso fatto: interviste, testimonianze, ricostruzioni passate e presenti la supportano nella sua riflessione, nella sua riconsiderazione dei motivi e delle contraddizioni portate con orgoglio, seppur dolorose e pesanti, che l’hanno portata fin qui, fino ad oggi.
Ricorda Milano all’inizio degli anni 2000 quando osservava e vigilava sugli sgomberi e i roghi dei campi rom, quando le persone la chiamavano di notte per chiederle aiuto affinché cercasse un accordo con le forze dell’ordine. Si sofferma oggi sul perché sia ancora necessario muoversi, resistere, non perdersi: il nostro paese non vede, non considera, rigetta, esclude e isola la comunità rom; imperano ovunque solidissimi pregiudizi, odio perenne, discriminazioni storiche e vera e propria violenza.
Il testo non vuole essere un’analisi o una decostruzione di tutti i cliché legati alle popolazioni rom, vuole semplicemente osservare come la società, da sempre, abbia voluto non capire queste persone: costringerle a vivere in modi per loro innaturali, ostacolarle nel loro nomadismo attraverso leggi nazionali e sovranazionali di modo da limitarle e renderle stanziali, annullare la loro riproduzione attraverso sterilizzazioni forzate, imporre la loro integrazione, inclusione, assimilazione, ignorando e deridendo la loro cultura linguistica, musicale, sportiva, teatrale.
Il tentativo della Pavlović è quello di costruire una conoscenza: si chiede come sia possibile che, nonostante una vastissima bibliografia rom, scritta soprattutto da gagè (parola con la quale i rom definiscono i non-rom), il nostro modo di vederli, di relazionarci a loro non sia ancora cambiato. Perché rom e sinti svolgono eternamente la funzione sociale di capri espiatori? C’è qualcosa dentro di noi che provoca questa reazione? si domanda Dijana.
Il sottotitolo risolve la questione: è doveroso vedere l’alterità dell’anima zingara. Si tratta di un modo di intendere il mondo e le sue relazioni da sempre deriso, massacrato e cancellato. Il potere nelle comunità rom e sinti non esiste, si vive su un livello piano, non in una piramide; la parola futuro non è pervenuta, si costruisce se stessi e la propria vita guardando indietro, al passato, conservandone la memoria; si impara a sopravvivere, a non sporcarsi, a restare spiritualmente nomadi nonostante tutto.
Conclude Dijana Pavlović: «Racconto e scrivo da vittima perché io sono una vittima» di immortali stereotipi, di mille anni di persecuzioni e di un genocidio solo apparentemente concluso.
È stato molto emozionante e devastante per me aver fatto la sua conoscenza e aver assistito alla presentazione di un libro così particolare, specifico, che a causa della sua tematica tende a selezionare, escludere, tenere lontani tutti coloro che non vogliono avere a che fare con gli “zingari”, neppure attraverso il mero e passivo ascolto. Essendo quindi il pubblico solidale alla causa, nel momento dell’evento aperto al pubblico, ho sentito la necessità di raccontare brevemente la mia storia: sono di origini rom da parte di madre, mia nonna era rom. “Necessità” non è la parola corretta: credo fosse più impellente la curiosità di sentirmi mentre mi dichiaravo rom, mentre spiegavo che, seppur non avessi mai vissuto in un campo, conoscevo quella realtà, che nonostante i miei occhi verdi e i capelli biondi sono rom; che mi diverto, mi arrabbio e provo disgusto quando le persone utilizzano quotidianamente espressioni del tipo: vestirsi da zingaro, sembrare uno zingaro, rubare come uno zingaro. Raccontavo di come ogni giorno nella metropolitana di Milano durante un tragitto di dieci minuti, almeno sette volte, siamo costretti ad ascoltare la voce automatica che raccomanda di stare attenti alle borseggiatrici e ai borseggiatori, che nel senso comune sono tendenzialmente “zingari”. In tutte queste occasioni mi ritrovo a dover reprimere il mio istinto, che vorrebbe invece urlare e gridare che anch’io sono rom, sono la persona dalla quale la voce del servizio dei trasporti urbani vi mette in guardia e che vi avverte di tenere lontano; anch’io sono la persona che secondo alcuni ruba i bambini, non segue le regole, non paga i biglietti, chiede l’elemosina per strada, è sporca, lurida, con gonne lunghe e capelli neri. Vorrei chiedere a chi comanda come mai non ci mettono in guardia dai molestatori o dagli stupratori, che ogni giorno costringono le donne, le ragazze e le bambine a adottare accortezze di ogni genere per evitare o tentare di gestire al meglio uno sguardo, un gesto o un atteggiamento sgradito, non reciproco, se non addirittura violento.
Non mi rendo sempre conto di essere rom, non ne sono sempre consapevole a livello conscio, ma ci sono aspetti dell’essere rom, dell’avere un’identità che contempla necessariamente anche questa origine, che sono sicura mi abbiano condizionata in modi che ancora non comprendo lucidamente: come gestisco le relazioni con gli altri, come interagisco con le persone, la mia attenzione nel cercare di non offendere, deridere o soltanto incupire chi mi sta intorno, un costante senso di essere nel posto sbagliato, credo derivi anche da quello che sono, dalla mia parte rom, dalla storia della comunità rom.
Ho una sorella gemella, siamo molto diverse: lei è più scura, ha capelli castani e occhi marroni. Molto spesso, anche scherzando, riflettiamo sul fatto che, se fossimo nate qualche decennio fa, ci saremmo ritrovate insieme in un campo di concentramento con nostra madre, in attesa di un medico nazista che facesse esperimenti su di noi. È un pensiero oscuro e sinistro, che però ci ricorda quello che ci avrebbe inevitabilmente atteso, il luogo che qualcuno in famiglia non ha mai lasciato, quello che alcuni oggi sperano riaccada e ci ricorda quindi tutto il male al quale eravamo destinate e che
rifiutiamo assolutamente di agire. Essere stati storicamente vittime di genocidio e di millenari pregiudizi, che ancora oggi insistono nel perpetuare un’idea della comunità rom distorta, immutabile e falsa, credo abbia, da un punto di vista generazionale, informato e educato la mia famiglia.
Devo ancora capire come imparare ad accettare pienamente questa eredità familiare, che apprezzo, ma che con intenzionalità tralascio, escludo e non dichiaro nella mia vita quotidiana. Per adesso mi limito in ogni occasione e su ogni mezzo di trasporto pubblico a sedermi vicino a persone rom o sinti: è mio il gesto di vicinanza e ribellione.
da Pangea
Sui rapporti tra la poesia occidentale e quella persiana bastano – in irragionevole sintesi – tre momenti miliari. Il primo è la composizione del Divan di Goethe, rifacimento-reinvenzione del canzoniere di Hafez, il leggendario poeta sufi. Oltre alle poesie – tra le più alte scritte da Goethe – merita il commento Per una migliore comprensione, che è poi la folle ricerca della poesia “ingenua”, di una poesia, cioè, che danzando ascende. Quanto all’importanza della traduzione delle Rubaiyat of Omar Khayyam ad opera di Edward FitzGerald – modesto poeta in proprio – ha scritto un mirabile testo Jorge Luis Borges, raccolto in Altre inquisizioni. Come si sa – a proposito di persiane voluttà letterarie – Borges riteneva Le mille e una notte alla stregua di un testo sacro: nella mitica “Biblioteca di Babele” edita da Franco Maria Ricci ne propose alcuni estratti, tratti dalla versione dell’orientalista francese Antoine Galland e da quella dell’esploratore britannico Richard Francis Burton (noto traduttore del Kamasutra, tra l’altro). Benché la Russia, per prossimità asiatica, sia un mondo a parte, vanno menzionate come emblema le “imitazioni” dal Corano di Aleksandr Puškin. Da lì in poi, dal pieno Ottocento, l’Oriente dei sogni, la Persia immaginata, l’Egitto metafisico, un esotismo da metropoli diventerà moda: da Delacroix a Jean-Léon Gérôme, da Lawrence Alma-Tadema ad Alberto Pasini, è tutto un infuriare di odalische e di Sfingi, di tigri, cammelli e muezzin, di Arabie felici e di arabeschi. Su tutto, la nudità ostentata, la danza dei sette veli, il settimo cielo della poligamia – quel connubio salace tra eleganza e sangue. Shahrazād come il solo Eden plausibile.
Ma queste sono cose che, tutto sommato, si sanno. Si conosce meno, invece, l’influenza che nel vasto impero persiano, sotto egida islamica – che significa, oltre all’attuale Iran, l’Iraq e l’Azerbaigian, l’Afghanistan e l’Uzbekistan e larghe fette di Turchia –, hanno avuto le donne. In un libro pubblicato da Penguin nel 2021, The Mirror of my Heart, Dick Davies – già traduttore di Hafez, Firdusi e Attar – ha raccolto “Mille anni di poesia persiana femminile”. La pioniera di queste poetesse, Rabe’eh, è vissuta nell’attuale Afghanistan un millennio fa; l’ultima antologizzata, Fatemeh Ekhtesari, è nata a Kashmar, in Iran, nel 1986. Di quel ciclo – a suo modo entusiasmante – ci siamo soffermati sui primi secoli di poesia persiana femminile, traducendo, a mo’ di mero esempio, alcuni frammenti lirici.
Diversamente dagli uomini, le poetesse persiane osano temi lascivi, mettono in piena luce il corpo, le voglie della carne. Il cliché della mistica islamica – il rapporto d’amore con l’Amato, che ha sublimi riscontri, nella nostra tradizione, nel Cantico dei cantici – svela i propri umori, i sentori del corpo sfatto, che muore dell’amore, senza velature d’assoluto. Il sensuale domina sul sentimentale; il dettaglio – anche lubrico – emerge sul pendaglio teologico. Il vino è davvero vino, la coppa è la coppa, le labbra sono labbra, senza roseti né roveti ardenti a foraggiare di simboli la tracotante nudità. Chi scrive, genericamente, è donna d’alti natali, la cui “fortuna” l’ha portata a essere dama o scriba presso le corti dei timuridi, dei mongoli o dei moghul. Spesso questa donna è andata in sposa a un alto funzionario: di matrimoni infelici sono costellati questi canzonieri che però – per la sottile arte del pudore, esteticamente eccelsa – non sfociano mai nella “confessione”; vi si accede attratti da uno spiraglio, da un sibilo, da una mera malignità confitta tra le fessure. Tuttavia, questa donna godeva della libertà di poter scrivere e studiare, sapeva primeggiare, per statura lirica, sui poeti dell’altro sesso – contemplava, tradiva, fuggiva da una vita vana, dalle censure della consuetudine.
Le vite di queste donne divennero, con rapidità di falco, leggenda; dal presunto libertinaggio di alcune di loro cagliarono poemi. Per certi lati, la storia, miracolosa, di queste donne è paragonabile a quella delle cortigiane giapponesi di epoca Heian: Murasaki Shikibu, Sei Shonagon e le altre, che da un mondo di paraventi hanno tratto un’intera letteratura. A differenza di queste, le poetesse persiane non subiscono la reclusione – semmai, un esilio del comprendere, le perpetue trappole del frainteso – e il loro lignaggio si attua nei secoli, costituisce un’audace discendenza. Alla vacuità delle giapponesi – a quell’irredento senso di nostalgia che pervade i loro scritti, alla taciuta ferocia – le persiane sostituiscono la pienezza d’amore, il rimorso, semmai, l’imperio dell’ira. Non è un caso che alcune donne che hanno sconvolto i salotti francesi degli ultimi secoli provengano dal Caucaso: Mademoiselle Aïssé e Banine. In queste donne, allo stesso modo, il gusto per il pettegolezzo si fonde all’arte della caccia: restano donne di deserti, di pronunciate pianure, di palazzi sulla soglia del miraggio, della calura che stenua in sfinge ogni ombra, fiere del loro essere fiera. Non attendono l’Amato con l’ansia patologica del mistico: pretendono una notte d’amore, pretendono tutto – e poi, prima di dimenticarlo, lo sorprendono spiccandogli una ciocca di capelli. Sanno che ogni notte ha il suo dio che muore – un nuovo dio, in bocciolo, sorgerà, all’alba.
***
Rabe’eh (X secolo)
Discendente di Arabi, il padre ebbe importanti uffici a Balkh, nell’attuale Afghanistan. Pioniera della poesia persiana, fu «donna superiore agli uomini in talento, di acuminata tempra, intraprendente nel gioco dell’amore», come narra una cronaca dello storico Muhammad Aufi (XIII secolo). Di lei si fece presto leggenda; la più nota – che diede avvio a poemi e romanzi – narra del suo amore per uno schiavo, Bektash. La relazione fu scoperta dal fratello di Rabe’eh, che le tagliò i polsi lasciandola, agonizzante, su una chiatta. Lo schiavo si vendicò, uccidendo il fratello di Rabe’eh per poi uccidersi a sua volta. Piuttosto, i versi d’amore di questa donna singolare sono stati letti come l’impresa di una via mistica.
Ho bevuto con il mio amore stanotte per sapere
se fosse davvero lui il mio amore. Libera dal dolore
e dal terrore, mi sono seduta al suo fianco e gli ho chiesto:
«Mio dio, almeno stanotte annienta le chiavi del mattino».
*
Il suo amore mi ha catturato ancora –
ho lottato ferocemente, invano.
(A dire il vero, mi ha insegnato
che non si può nuotare nell’infinito
oceano dell’amore. Per avere amore
devi accettare ciò che per istinto rifiuti.
L’obbrobrio sia per te magnificenza
inghiotti il veleno come fosse miele).
Ho scosso la testa per liberarmi
ma il cappio, infallibile, si stringe
sempre di più.
**
Mahsati (1089 ca. -1159)
Visse nell’attuale Azerbaigian, scriba di corte al servizio del sultano selgiuchide Ahmed Sanjar. Nelle sue quartine non sono alieni i temi lascivi, le intemperanze di una impenitente libertina. Le furono ascritte innumeri e tormentate storie d’amore; il suo nome d’arte, Mahsati, significa “Signora della luna”.
C’è un mondo per chi ama le pietre preziose:
i poeti scelgono un mondo diverso per impreziosire i loro scranni.
L’uccello che inghiotte il magico grano dell’amore vive su un altro piano:
il suo nido è al di là dei mondi, ignora la ricchezza, disprezza la fama.
*
Vieni, ho preparato un’alcova dove potremo giacere:
sopra tappeti preziosi si spalanca il nostro rifugio perfetto.
Ho preparato la carne e il vino, te li voglio servire:
il vino sono i miei occhi – mangerai il mio cuore straziato.
*
L’amore addomestica il leone, lo costringe
alle sue tane – è un oceano di meraviglie rare.
A volte, le sue deliziose vie allietano la nostra anima
altre volte il vento sparge un cupo sentore di sangue.
*
Non sei molto intelligente, uomini come te non sono
usi ai consueti codici dell’amore – mio volubile
amico, sono felice che tu abbia passato la notte
con me: spero di non dimenticarti domattina presto…
**
Motrebeh (XII secolo)
Nulla si sa di questa donna se non che visse presso la corte di Nishapur. Il suo nome ne identifica la professione, significa: “donna sapiente nelle arti musicali”.
Gli ho detto: «Il mio cuore desidera un bacio».
Disse: «Un bacio ti costerà l’anima».
Il mio cuore mi ha stretto all’angolo
sussurrando: «L’offerta è ottima, accetta!».
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Fatemeh Khorsani (morta nel 1246)
La frivolezza che promana dalle poesie di Fatemeh è in contrasto con la sua biografia, tragica. Catturata durante una razzia dei Mongoli in Corasmia, diventò intima della potente regina Töregene Khatun. Alla sua morte, fu accusata dalla corte mongola di tradimento e di stregoneria e uccisa dopo lenta tortura.
Le malizie che ho in serbo per te non possono
aspettare, priva di te ogni piacere mi è negato…
Tu sei fonte di vita eterna, ma, proprio
come il sacro fiume, resti invisibile ai miei occhi.
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Jahan Malek Khatun (XIV secolo)
È l’autrice di uno dei più poderosi divān redatti da mano femminile: le oltre 1.500 poesie del suo canzoniere costituiscono, in fondo, la lirica, sgargiante autobiografia di Jahan Malek Khatun, una testimonianza unica nel Medioevo persiano. Figlia di Masud Shah, reggente di Shiraz, ebbe educazione di principessa. Alla morte del padre, subì le scosse della successione: per alcuni anni fu esiliata, salvo rientrare a Shiraz, dove morì. La sua vita fu lacerata dalla morte della figlia, neonata, a cui dedicò un commosso ciclo di versi.
Mi chiedi come sto – come sto senza di te, amore?
All’alba gli occhi, nottambuli, arretrano nel sangue.
Mi hai abbandonato – mi hai insanguinato il cuore.
Mi hai lasciato cadere dagli occhi come lacrime.
Con noncuranza, le tue ciglia hanno ingabbiato il mio
cuore: sono prigioniera dei tuoi lunghi capelli.
Aveva statura e grazia: era bello come la prima lettera.
La sua assenza mi ha reso vedova del mio nome
una donna votata alla follia.
*
Sulla morte della figlia, neonata
Nessuna droga può placare il mio cuore
il marchio del dolore non si leverà mai.
Il mio cuore non si stancava della tua presenza
ora vive della tua continua assenza.
*
Ho giurato di non vederlo mai più:
come una Sufi, annienterò le tentazioni;
so che la mia natura può farlo:
per ora, rinuncerò alla rinuncia.
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Mehri (XV secolo)
Dama di corte a Samarcanda, fu confidente della regina timuride Goharshad. Visse in epoca florida, munifica per i poeti. La regina – che l’amava – obbligò Mehri a sposare il chirurgo di corte, un uomo molto più anziano di lei: di qui le poesie che ostentano infelicità coniugale, il corpo che sfiorisce, la fiacca sessualità.
Una giovane donna che va in sposa a un vecchio
avrà – finché non sarà vecchia – ogni felicità negata.
Meglio una freccia piantata nel fianco
dicono, che avere un vecchio al fianco.
*
Dormiamo insieme e non mi sazi
ti parlo e i tuoi silenzi mi sfiancano.
Ho sete: dici di essere la fonte della vita –
dov’è allora, per amor di Dio, l’acqua che mi neghi?
*
Mi chiese di baciarmi le labbra: già, ma
quali labbra, quelle di sopra o quelle di sotto?
*
Non farti ingannare dalle belle parole –
le belle parole sono quelle che la balia
elargisce al bambino quando non ha più latte.
*
Nessuna notte è più breve
di quelle trascorse con te:
appena prendi a svestirmi
il sole comincia a sorgere.
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Zaifi Samarqandi (XV secolo)
Nulla si sa di questa donna capace di esprimere in versi intrisi d’ira l’infelicità del suo amare. Nel nome è forse celata la provenienza della sua famiglia, Samarcanda.
Il mio amore è nulla per me – ormai è tardi…
vecchio flaccido sciocco sei in uno stato pietoso
e minacci di prendermi a botte?
Ma se non hai nemmeno la forza di reggerti in piedi!
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Ofaq Jalayer (XVI secolo)
Figlia dell’alta aristocrazia timuride, Ofaq Jalayer andò in sposa al governatore di Qom. Seguì il marito nei suoi continui spostamenti – di cui ricaviamo tracce nel pur scarno canzoniere –, terminando i suoi giorni presso la corte del Gran Mogol Babur, il fondatore della dinastia Moghul.
Te l’ho promesso: non berrò più vino
mio nobile cipresso –
Tuttavia tu non hai promesso, non rinuncerai
a darmi il vino dalla tua bocca.
*
Cos’è questo chiacchierare di esilio
come fosse un incantesimo?
La tua casa è dove sei felice
in qualunque luogo essa sia.
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Dusti (XVI secolo)
Nulla si sa di Dusti, donna che eccelle nel ferreo lamento, se non il nome del padre, Darvish Qayam Sabzevari.
La luna ha i capelli spettinati e io
mi sono innamorata dell’eresia di un infedele.
O amico, che straziante dolore l’amore –
una volta che ti ha catturato, non c’è scampo
non c’è senso né logica nell’amore
a entrambi devi rinunciare – Dusti
ha pianto lacrime come le nuvole a primavera
ora non piange più: ha pianto troppo.