Da la Repubblica

Intervista a Manuela Ulivi, avvocata, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano e consigliera nazionale D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza)

Perché c’è un aumento così rilevante delle minorenni fra le persone offese?

«Penso che finalmente nell’elaborazione dei dati abbiano prestato attenzione anche alla “violenza assistita” considerando i figli minori della donna maltrattata in famiglia sempre persone offese. L’abbiamo chiesto nelle interlocuzioni con la Procura».

Quindi non c’è un aumento delle ragazze che restano vittime di aggressioni e violenze?

«Certo che c’è. A Milano, fra le 4-5 mila denunce annue per maltrattamento, violenza sessuale e stalking, c’è sicuramente un dato importante e in crescita che riguarda le giovanissime. Ma ci sono ancora troppe archiviazioni. E il numero delle denunce va confrontato con quello delle sentenze. Facciamo una manifestazione proprio sabato su questo tema: le ragazze sono il bersaglio nelle relazioni tossiche di cui abbiamo tutti la responsabilità».

Cioè?

«Sono relazioni di dominio, che nascono anche dal fatto che li chiamiamo “fidanzatini”. È uno sbaglio considerare le prime storie d’amore già come legami fortissimi, perché questo lascia spazio alla volontà di dominio, di controllo. Queste relazioni da giovani possono ingabbiare».

Gli adulti sbagliano se danno importanza alle prime storie d’amore dei figli?

«Non parlo solo dei genitori, ma più in generale della società, dei mass media anche, che anche nel modo di dare le notizie sono indirizzati verso l’amore “per sempre”, un amore assoluto, protettivo, che però così può diventare relazione di possesso, invece che relazione libera e felice, da cui un giorno si può anche uscire».

Quindi la cultura del “per sempre” sui giovani è pericolosa?

«Lo è quando viene intesa come un “sei mia”. Da lì nasce il senso di possesso che può fare danni gravi».

E le violenze dopo le feste, dopo l’alcol, il sesso preso come gioco che sfugge di mano?

«Sì, tutto quello esiste ed è vero, ma non dobbiamo cavarcela col dire che è tutta colpa dei social, che c’è in giro tanto nervosismo. Bisogna smettere di girare la testa dall’altra parte. C’è bisogno che gli uomini si esprimano e non dicano soltanto “io non sono un violento”».

Molti se la cavano dicendo “lei ci stava”.

«Il consenso deve esserci all’inizio. E non è che se una accetta di andare a casa di qualcuno allora “ci sta”».

il manifesto – Nessuno stupore che il Presidente della Comunità autonoma di Valencia, Carlos Mazón, cerchi di bloccare le carovane di giovani e di persone solidali che accorrono nelle zone colpite dall’alluvione per portare il loro aiuto: acqua, viveri, abiti asciutti, coperte, medicamenti. E per spalare il fango, liberare chi ne è rimasto imprigionato, salvare ciò che ancora può essere salvato. «Ai volontari dico – ha detto – tornate a casa». Perché?

Innanzitutto, perché è un uomo di destra e un negazionista climatico; non vuole che si diffonda la percezione diretta delle dimensioni del disastro che si sta rivelando molto maggiore di quanto accertato finora. È uno che, come dice Altan, pensa che «Il sedicente cambiamento climatico da anni ci prende alla sprovvista». Quindi, non è successo niente che giustifichi la presenza di quei volontari. Poi, per far dimenticare di non aver dato l’allarme e, anzi, di aver tranquillizzato i suoi concittadini-elettori quando ancora poteva salvarne molti. L’allarme lo dà invece adesso, per bloccare i soccorsi: «Le strade possono crollare» avverte, perché l’emergenza non è finita. Poi, ancora, perché vuole controllare tutto. Infatti, ha impedito anche ai pompieri dell’odiata Catalogna di venire a prestare il loro aiuto; bastano quelli locali, che però non l’hanno presa bene… Ma, soprattutto, perché teme il volontariato, l’iniziativa dal basso, la mobilitazione popolare e soprattutto l’attivismo dei giovani; perché nella solidarietà attiva si creano relazioni, organizzazione, comunità, spirito critico, autonomia. Le premesse di un orientamento alternativo a quella soggezione che permette a chi comanda di gestire le cose a proprio piacimento. E ne potrebbe anche nascere una prospettiva radicalmente alternativa all’inerzia con cui i negazionisti, ma non solo loro, mandano avanti i loro affari cercando di nascondere i rischi che incombono sulle vite e la convivenza di tutti.

Il pensiero corre ovviamente ai cosiddetti “angeli del fango”: la marea di giovani accorsi spontaneamente per far fronte ai danni dell’alluvione di Firenze del 1966, una mobilitazione che aveva colpito chi già allora deprecava consumismo, disinteresse e passività nei giovani di sessant’anni fa. Ma c’erano, in quella mobilitazione, i segni riconoscibili, ancorché in gran parte non riconosciuti, di quella che un anno dopo sarebbe stata l’esplosione del ’68: prima nelle università e nelle scuole, poi tra i giovani operai delle fabbriche, poi in tutta la società.

Un processo registrato dapprima come una rivolta non priva di simpatie nel mondo benpensante, poi inquadrato come una sua “degenerazione ideologica”, per essere poi definitivamente archiviato come “anni di piombo”. Ma quello che era sfuggito allora ai commentatori, e che sfugge ancora oggi agli epigoni della denigrazione del ’68, era il fatto che accanto alla rivolta e al conflitto, e come loro ispirazione e supporto, c’era la scoperta della solidarietà, del valore delle relazioni non formali tra eguali, la creazione di uno spirito comunitario e di una cultura critica che avrebbe permesso il protrarsi di quelle mobilitazioni per quasi dieci anni e anche oltre: soprattutto in Italia, ma un po’ in tutto il mondo. Ciò che rende ragione degli sforzi messi in atto a livello globale per screditare, smorzare e poi affossare per anni quello spirito.

Poi, per avvicinarsi al nostro tempo, accanto a molti altri episodi abbiamo avuto una anticipazione di quello che succede oggi a Valencia con il terremoto dell’Aquila. Una voluta – per motivi di consenso – sottovalutazione da parte delle autorità del rischio incombente, mandando al macello centinaia di vite; poi uno sforzo indefesso per stroncare, purtroppo con successo, l’organizzazione, guidata soprattutto dai giovani, che si era andata costituendo nei campi degli sfollati per contrastare e sopperire alla criminale gestione del dopo-terremoto da parte di Berlusconi e della sua banda. Anche le alluvioni in Romagna avevano visto una grande ondata di solidarietà attiva, soprattutto di giovani. Proprio in quei giorni La Russa, che non se ne era accorto, aveva invitato «i giovani» ad andare a spalare il fango invece di imbrattare i monumenti. Ma quelli lo avevano preceduto facendo entrambe le cose, perché sanno che oltre a rimediare ai danni della crisi climatica occorre fare tutto il possibile per costringere i governi a prevenirla.

Oggi probabilmente un inizio come quelli si ripropone a Valencia e dintorni e gli sforzi di Mazón per tenere i volontari lontani dall’esercizio della loro solidarietà si spiega bene con la consapevolezza che eventi come quelli di Valencia sono destinati a ripetersi e a moltiplicarsi, anche se in altre forme, in altri luoghi e in altri tempi; e con essi, il consolidarsi delle reti di solidarietà. Una consapevolezza che accomuna tanto chi vuole combattere la deriva imboccata dalla crisi climatica e ambientale, e tra questi soprattutto i giovani, quanto i negazionisti che costruiscono il loro consenso sulla falsa promessa che nulla cambi.

Ma c’è in tutti, anche se non in maniera chiara, l’idea che la solidarietà, le relazioni, lo spirito di iniziativa e l’autonomia che si sviluppano in una mobilitazione come quella che si è messa in moto a Valencia, se riusciranno a consolidarsi, possono costituire l’embrione di una alternativa, sociale e culturale, prima ancora che politica, in grado di misurarsi con le dimensioni della crisi ambientale e climatica. Abbiamo visto negli ultimi anni un movimento di giovani, innescato dagli “scioperi” di Greta Thunberg e poi affiancato da altre organizzazioni e reti impegnate nella stessa battaglia, che hanno messo all’ordine del giorno, con modalità differenti e alterne vicende, la crisi climatica e ambientale come sfida esistenziale per la loro generazione e per tutte quelle a venire. Finora non hanno trovato l’occasione per consolidarsi in un processo capace di garantirne la continuità o la riproposizione in forme più efficaci: ma la frequenza, l’intensità e la gravità dei disastri climatici che ci attendono sono destinati a diventare altrettante occasioni per imporre una svolta radicale alle politiche ufficiali, quelle che alla crisi ambientale rispondono con l’inerzia e il business as usual.

La legge che estende la sanzione per la surrogazione di maternità prevista vent’anni fa (dalla l. 40/2004, art. 12 c. 6) «anche se il fatto è commesso all’estero», approvata dal Senato il 16 ottobre scorso, è opera della maggioranza parlamentare di destra ma l’impulso è venuto da gruppi femministi italiani e di altri paesi che da tempo si battono contro l’utero in affitto o gestazione per altri. Però non tutte le donne impegnate in questa lotta sono d’accordo con l’istituzione del cd “reato universale”, c’è discussione anche in questo sito. C’entra il fatto che la legge è stata proposta e approvata dalle destre e la sua strumentalizzazione fa problema, ma l’obiezione di fondo è che «la via non sia la criminalizzazione per legge» (Laura Colombo, Conquiste del femminismo?, 17 ottobre 2024). Sì, la via è agire per «una presa di coscienza allargata». Tuttavia proprio per questo considero questa legge un aiuto, perché il diritto ha una funzione simbolica prima che repressiva. Si tratta di un simbolico maschile di eredità patriarcale, certo, ma sulle grandi questioni di civiltà può sostenere la possibilità di un altro ordine di rapporti.

Penso alla prostituzione: come aveva capito e lottato Lina Merlin negli anni ’50 in Italia, per abolirla serve penalizzarne lo sfruttamento. Non è bastato e non basta, è evidente, a sradicare questa forma tenace della sessualità maschile, ma è un punto fermo che va nella direzione della presa di coscienza, continuata dalle donne fino a nominare la prostituzione “stupro a pagamento” (Rachel Moran) invece di chiamarla lavoro come fa chi vuole perpetuarla in tempi di libertà femminile. E penso alla schiavitù, che a volte esiste ancora in modi più o meno nascosti anche nel lavoro salariato, ma certamente è diventata impensabile: a chi mai verrebbe in mente oggi di proporre un dibattito pro o contro la schiavitù? La lotta degli abolizionisti è riuscita a sradicare una istituzione plurimillenaria, considerata normale in molte culture.

Ho ricordato prostituzione e schiavitù perché in tante vediamo nella gestazione per altri una somma delle due forme di disumanizzazione. Come la prostituzione, l’utero in affitto sfrutta il corpo femminile, come la schiavitù fa dell’essere umano un oggetto di scambio. Per fortuna non si è ancora radicato nella cultura, esiste da poche decine di anni ed è forse possibile che non occorrano millenni per abolirlo nel mondo. Tuttavia ha dalla sua la potenza della tecnologia e del capitalismo, ed essendo una realtà nuova non è facile capirne il senso (ricordo che vent’anni fa la credevo una forma di solidarietà fra donne). Anche per questo considerare la surrogazione di maternità “reato universale” può servire a prendere coscienza che è in pericolo qualcosa di irrinunciabile dell’umano. Se non riuscirà a impedire nei fatti la sua pratica, specie nelle forme surrettizie silenziosamente portate avanti da alcuni (la madre rinuncia alla creatura, il “padre” la riconosce e poi sua moglie l’adotta), il divieto assoluto è un segno inequivocabile della sua inaccettabilità.

Soprattutto per le creature, che sono al centro dei miei pensieri più delle loro madri. Creature progettate apposta per essere private della madre per soddisfare bisogni altrui, vendute o regalate non cambia, e per vivere con chi le ha commissionate. Una crudeltà di cui non possiamo sapere le conseguenze, anche nell’inconscio dei committenti e nella loro relazione di “genitori”. Ma so per esperienza personale che quello che succede nella relazione materna prima e dopo la nascita ha effetti per tutta la vita, anche se non si vede e nessuno se ne accorge. Le poche interviste pubblicate di creature diventate adulte dicono che stanno bene e sono felici, spero di cuore che a tutte vada così. Ma hanno comunque subito una violenza grave.

Il diritto di un paese civile non può tollerare questa barbarità, ovunque essa si compia.

La discussione aperta dall’intervento di Laura Colombo e da quello di Paola Mammani e Tiziana Nasali mi riguarda e credo riguardi tutte noi.

Sono contraria alla maternità surrogata; non sottovaluto e provo rispetto per il desiderio di maternità e di paternità – di tante donne e tanti uomini – che per ragioni diverse non si può realizzare; nonostante questo non riesco a sopprimere in me il sentimento di rifiuto per la contrattualizzazione commerciale del corpo delle donne e della maternità, non riesco a non provare indignazione per la separazione programmata di una neonata o di un neonato dalla madre. Sono femminista ma sono sicura che non sia determinante essere femminista per condividere queste mie convinzioni profonde.

Io non riesco a esultare per la recente approvazione al Senato del provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche all’estero e mi ha colpito la denominazione di “reato universale” per perseguire accordi commerciali stipulati in altri luoghi del mondo – da alcune donne e alcuni uomini – per soddisfare il loro desiderio di maternità e di paternità.

In ogni famiglia c’è esperienza di creature cresciute da zie o zii o altre persone di famiglia senza figli; nei rapporti sociali è stata e, secondo me, resta la “risposta universale” al desiderio di maternità o paternità a chi non riesce, non riusciva, a realizzare il proprio desiderio e non può o non vuole ricorrere ad accordi commerciali per realizzarlo.

La legge del 2004 rispondeva al sentire di chi voleva opporsi all’introduzione in Italia della gestazione per altri (GPA), a quella commerciale e a quella cosiddetta solidale.

Quello che invece è avvenuto con il provvedimento legislativo del 16 ottobre ha, secondo me, un segno e una direzione diversa determinata dalla spinta dei movimenti pro-vita e dai partiti politici che vogliono riportare i rapporti sociali tra uomini e donne all’ordine simbolico e sociale del patriarcato. E a me poco importa che sia una donna a condurre o a intestarsi il gioco.

Ragioniamo dei rapporti di forza in campo, nel parlamento e nel paese; sostenere che in questa decisione il femminismo abbia orientato la politica è secondo me velleitario e un pericolo per l’autonomia della pratica e del pensiero politico del movimento delle donne.

Il femminismo ha modificato radicalmente i rapporti sociali, e dal pensiero politico della differenza sessuale sono nate le pratiche che hanno reso possibile questo cambiamento.

Tuttavia, persiste il rischio che parole e pratiche femministe vengano travisate dalla politica dei partiti. Dovremmo oggi interrogare il travisamento, il femminismo delle origini lo ha fatto a partire da Carla Lonzi.

Sicuramente «la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate» ha impedito che si soffocasse il sentimento di rifiuto verso la gestazione per altri nonostante la “propaganda” di un pensiero che giustifica questa pratica con il desiderio di maternità e paternità e nega la differenza sessuale.

Ora serve esprimere la stessa autonomia – di pratica e di pensiero politico – nei confronti della “propaganda” di un pensiero che mette al centro la donna “madre” e la famiglia patriarcale e che in questo orizzonte interviene legislativamente anche sulla procreazione per altri.

In assenza di questa autonomia «ci sono tutte le premesse di una sconfitta» per il pensiero della differenza e non si troveranno parole nuove per le nostre pratiche politiche; la differenza sessuale sarà declinata nel ruolo assegnato da altri e inevitabilmente useremo le loro parole.

Da Avvenire

Eran Etzion, ex vice-direttore del Consiglio di sicurezza israeliano: «Nessuno sa cosa stia accadendo nel nord di Gaza: i media hanno accesso limitato per raccontarlo. Il che mi preoccupa»

«Se sei un soldato o un ufficiale, un coscritto, un professionista o un riservista, sei obbligato a rifiutarti di prendere parte a qualsiasi azione che rappresenti un crimine di guerra». Può sembrare quasi un’ovvietà. Se, però, a scriverlo e pubblicarlo su Twitter, il 22 ottobre, è Eran Etzion, il messaggio acquista una forza dirompente. Lo confermano le oltre 820mila visualizzazioni ricevute dal post solo nell’arco di una settimana. E gli strali dell’ultra-destra. Diplomatico ed esperto di strategia militare, Etzion è stato il vice-direttore del Consiglio di sicurezza nazionale tra il 2000 e il 2008. Tra il 2004 e il 2006 il suo capo era il generale Giora Eiland, l’autore del cosiddetto “Piano dei generali” che prevede l’evacuazione di tutti i civili del nord di Gaza mediante l’interruzione degli aiuti umanitari in modo da aumentare la pressione su Hamas. «Una proposta illegale poiché esorta ad “affamare” la popolazione e non assicura soccorsi adeguati per gli sfollati. Potrebbe costituire un crimine di guerra. Ecco perché io e molti altri siamo fermamente contrari», afferma Eran Etzion. Eppure tanti sospettano che l’operazione israeliana nei campi di Jabalia, Beit Lanoun e Beint Lahiya rappresenti l’esecuzione del piano, nonostante le rassicurazioni date agli Usa dal ministro della Difesa Yoav Gallant e dal premier Benjamin Netanyahu.

Il dubbio ha qualche fondamento?

Il premier lo ha negato nella riunione privata con il segretario di Stato Usa Antony Blinken. Quando, però, quest’ultimo gli ha chiesto di ripetere pubblicamente tale affermazione, Benjamin Netanyahu ha rifiutato. L’altro giorno, poi, Amit Segal, giornalista televisivo tra i più noti e più vicini al governo, ha detto, di fronte alle telecamere, che il piano è in marcia: si starebbe implementando la fase 1. Direi che qualche fondamento, dunque, il sospetto ce l’ha.

Che cosa sta accadendo nel nord di Gaza?

Non lo so, come non lo sa la gran parte dei cittadini. È proprio questo il problema. Non sappiamo quanto stia accadendo poiché i media hanno accesso limitato per raccontarlo. Il che mi preoccupa. Vorrei essere sicuro che i soldati israeliani stiano combattendo secondo le regole del diritto nazionale e internazionale.

Se i militari dovessero ritenere di no, potrebbero rifiutare di obbedire agli ordini?

Non solo possono, devono farlo. È la legge israeliana. C’è una decisione cruciale di una corte militare speciale del 1956: afferma che quando un soldato riceve un comando palesemente illegale – come una bandiera nera sventolata sulla sua testa, così si legge nel testo – ha l’obbligo di rifiutare. Da allora “bandiera nera” è sinonimo di ordine illegale.

Quanto sta accadendo nel nord della Striscia potrebbe essere una “bandiera nera”?

Potrebbe. Tocca a ogni militare sul campo valutare. Noi non possiamo farlo perché non ci è permesso di avere sufficienti elementi. Il punto è che da oltre un anno le autorità israeliane non consentono ai giornalisti, nazionali e stranieri, di entrare a Gaza se non alcuni a cui è consentita una breve incursione embedded. Un fatto inedito rispetto alle guerre recenti.

Qualcuno definisce la procedura illegittima.

Non so se sia illegittima. Ritengo, però, necessaria la presenza dei giornalisti se fattibile dal punto di vista operativo.

Ha senso proseguire la guerra?

Il conflitto sarebbe dovuto finire parecchio tempo fa. Almeno a maggio quando c’era una concreta possibilità di accordo che Netanyahu ha fatto naufragare ponendo più e più condizioni aggiuntive. Le ragioni per continuarlo non sono di tipo strategico o di sicurezza nazionale bensì riguardano gli interessi personali e politici del premier. È lui il maggior ostacolo per il raggiungimento di un’intesa a cui è favorevole il 70 per cento degli israeliani.

Potrebbe cambiare qualcosa da domani con il voto Usa?

Molto dipende da chi vincerà. Il ritorno di Trump sarebbe un disastro, non solo per Israele.

E Harris?

Non ha la bacchetta magica ma avrebbe maggiore libertà di manovra di Biden e aumentare le pressioni su Netanyahu.

Pensa all’interruzione dei rifornimenti di armi?

Spero non si debba arrivare a tanto. Forse sarebbe sufficiente che Netanyahu sentisse di avere meno margini con Washington.

E se i militari in massa decidessero di non obbedire agli ordini potrebbero fermare la guerra?

Difficile da dire. Sarebbe un caso estremo. Ma del resto siamo in una situazione estrema.

Da Il Fatto Quotodiano – Facile da qui: provateci voi, mentre vi tirano le bombe in testa in un campo profughi, mentre qualche manciata di proiettili vi rende orfani, mentre soffrite la fame e non avete acqua, mentre non potete andare all’ospedale se state male, provateci voi, mentre vi dovete nascondere in un armadio (col fiato mozzato) perché hanno fatto irruzione a casa vostra, mentre vi rinchiudete in un bunker perché le sirene vi fanno scoppiare la testa e il cuore, mentre vi sparano contro mentre ballate a un concerto. Facile da qui: provateci voi a parlare di pace da lì, dalla Striscia di Gaza e da Israele, in questo momento pieno di dolore e di rabbia in cui il Medio Oriente è sprofondato in un vortice nero, senza fondo e senza cielo, senza più parole. Non sarà facile come da qui, forse, ma chissà se può stupire – in questa epoca che rende un po’ assuefatti dall’indigestione di informazioni – sapere che dal centro di quel vortice nero c’è ancora chi non smette di provare a parlare di pace, nemmeno da lì, nemmeno dopo il crinale del 7 ottobre. Rabbini, suore cristiane, politologi, agricoltori, ex ufficiali dell’esercito diventati attori, attivisti, psicologhe, giovani renitenti alla leva, tour operator. Chiara Zappa, giornalista di Mondo e Missione che da anni racconta storie da quell’area del mondo, li ha definiti Gli irriducibili della pace (Ts Edizioni, 208 pp., 18 euro, prefazione di Noa). Il titolo inquadra con una parola la linea editoriale del libro: il ribaltamento del linguaggio a cui siamo abituati – gli irriducibili come quelli che si battono “all’ultimo sangue”, “fino alla morte” – per neutralizzare un immaginario stratificato negli anni per il quale le figure che non si arrendono sono i “forti” che fanno la guerra e coloro che fanno la pace invece sono disegnati come quelli che cedono, i “deboli”.

In questo libro, invece, l’ostinato è proprio chi solleva la bandiera bianca più in alto, e ancora di più in questi mesi in cui infuria il conflitto, fischiano i missili e il paesaggio è uno sterminato cumulo di macerie. Non tra israeliani e palestinesi, “la lotta dovrebbe essere tra gli estremisti e i moderati che vogliono condividere la terra fianco a fianco come uguali”. Può apparire una frase ingenua, al limite del fanciullesco, eppure a pronunciarla nel libro di Zappa è Mohammed Dajani Daoudi, 78 anni, politologo, professore all’università Al Quds di Gerusalemme, che discende da una delle storiche famiglie arabe della città tre volte santa e ha un passato giovanile ai vertici di Al-Fatah, il partito che fu di Yasser Arafat e combatteva per la liberazione della Palestina. “Al-thawra ḥattā al-nāṣir” c’è scritto nel suo simbolo: rivoluzione fino alla vittoria.

“Dicevamo no alla pace, no ai negoziati e no al riconoscimento dello Stato di Israele – racconta a Chiara Zappa nel libro. – Ricevetti un addestramento militare e mi radicalizzai sempre di più”. Finì bandito da Libano, Israele e Giordania e studiò negli Stati Uniti: “Questo mi permise di muovere i primi passi fuori dalla caverna dell’ignoranza e dell’estremismo e di assumere una nuova prospettiva”. Un grande sogno o una piccola speranza? è stata la domanda che ha fatto da crocevia della sua storia: è diventato il nome del suo modello di risoluzione del conflitto. Bisogna passare – è il ragionamento – dalla contrapposizione ebrei-arabi alle categorie di “coloro che, da entrambe le parti, accettano un compromesso in nome della pace oppure vi si oppongono”. In una parola wasatia che letteralmente significa via di mezzo e nel Corano – spiega Daoudi nel libro – indica l’equilibrio, la giustizia, la tolleranza”.

Sembrano parole cadute da un altro mondo eppure sono la copertina del lavoro di Chiara Zappa. “Dai margini del discorso pubblico a cui si è cercato di relegarli – sottolinea l’autrice nell’introduzione – gli ‘irriducibili della pace’ stanno provando a tornare al centro, per proporre la loro alternativa. Spesso sono liquidati come folli, ingenui, illusi. Ma l’utopia che inseguono è in realtà la forma più chiara di pragmatismo” perché “la forza, anche la più soverchiante, non potrà mai garantire incolumità e benessere a nessuna di queste due comunità talmente vicine da essere inseparabili”. Per rompere il muro del suono che investe tutto il mondo con la incessante descrizione di attacchi e vendette, raid e rappresaglie puntualmente giustificati dalle classi dirigenti di tutto punto armate, Zappa alza il volume della voce di 15 cittadini “comuni”: tra loro c’è chi ha perso dei parenti negli attacchi di Hamas del 7 ottobre e c’è chi ha pianto un figlio di 6 mesi perché dopo aver respirato i gas lacrimogeni lanciati dai militari israeliani nel villaggio di Battir (vicino a Betlemme) innumerevoli posti di blocco non permisero di arrivare in tempo a un ospedale.

Lo stile asciutto e l’esposizione britannica di Chiara Zappa permettono al libro di avere più livelli di lettura. Grazie alle informazioni di contesto e alle note esaurienti, per esempio, diventa una mappa per chi vuole riannodare i fili di una vicenda che si consuma da decenni, un equipaggiato che rimette in ordine gli elementi in un tornado di titoli strillati. Nello stesso momento riesce a svuotare il serbatoio dell’abituale racconto dei mass media declinata solo su un vocabolario bellico, attraversando le storie di chi è immerso – suo malgrado – nella tragedia di quelle terre. Layla Alsheikh è la mamma di quel bimbo di 6 mesi morto perché non soccorso in tempo. Oggi è un membro di Parents’ Circle che mette insieme 700 famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso parenti stretti. Dice Layla: “Non possiamo sederci ad aspettare che i nostri leader facciano qualcosa: abbiamo aspettato per più di 75 anni. E loro non ci hanno mai chiesto il permesso quando hanno fatto scoppiare l’ennesimo conflitto. È vero, sono i governanti ad avere in mano le scelte politiche, solo loro possono firmare un accordo di pace. Ma solo noi, cittadini comuni, abbiamo il potere di fare la riconciliazione”.

I leader fomentano la polarizzazione tossica, chiarisce a Zappa Sofia Orr. Ha 18 anni ed è la prima obiettrice di coscienza donna dopo il 7 ottobre (“ingenua, egoista, traditrice, persino ebrea antisemita” gli insulti che ha ricevuto). Ha passato 85 giorni in carcere su decisione della corte militare. È una refusenik, come si chiamano i renitenti alla leva: una circostanza sempre più rara. I giovani sono il bersaglio grosso di questa onda dell’odio e della guerra che si autoalimenta. “L’intera sfera politica – dice Sofia nel libro – si è spostata più a destra ed è diventata molto più violenta e aggressiva”. E le nuove generazioni, si spiega ancora, non hanno mai avuto neanche l’opportunità di vedere tentativi di colloqui di pace come invece i loro genitori. Così riconoscere le rivendicazioni degli “altri” non è nel novero delle opzioni. Quando ha spiegato all’opinione pubblica perché si è rifiutata di indossare la divisa dell’esercito, Orr ha messo giù concetti che appaiono indicibili in queste settimane: “Il presente e il futuro dei cittadini palestinesi e israeliani sono inseparabili. Non siamo ‘noi’ contro ‘loro’. La sicurezza e l’incolumità saranno raggiunte solo quando entrambe le parti vivranno con dignità: o perderemo tutti in guerra o vinceremo tutti in pace”. Nessuno può dire quanto tempo sarà necessario. Eppure è proprio dal centro di questi giorni di sconforto che questa israeliana del futuro lancia il suo messaggio verso l’avvenire: “Mi rifiuto di arruolarmi perché voglio creare una realtà in cui tutti i bambini tra il fiume e il mare possano sognare, senza gabbie”.

(Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2024, titolo originale: Ex ufficiali, renitenti alla leva, prof: la buona battaglia di palestinesi e israeliani per la pace in Medio Oriente (anche dopo il 7 ottobre): “La lotta non può essere tra i nostri popoli, ma tra estremisti e moderati”)

Da il manifesto – Alias

Oltrepassare, come Alice, lo schermo del mondo… Un numero di «Riga» su Giulia Niccolai (1934-2021), singolare artista dalle molte esperienze: fotografa, scrittrice sperimentale, monaca buddista

Se si apre la pagina Wikipedia dedicata alla poetessa, scrittrice, fotografa e traduttrice Giulia Niccolai, la voce Biografia si chiude con una curiosità: la fine della relazione intrattenuta con Adriano Spatola, col quale Niccolai ha convissuto per nove anni nel Mulino di Bazzano, la cosiddetta «Repubblica dei poeti», ispirerebbe il testo di una canzone di Guccini, Scirocco (lo segnala Alessandro Giammei su «Engramma», 145, 2017). La nota è succosa e in linea con il contesto divulgativo in cui è inserita, ma non rischia anche di suggerire, posta com’è a conclusione della (breve) scheda biografica dedicata all’autrice, una marginalizzazione della sua esperienza artistica, da misurarsi magari «in appendice» a quella della Neoavanguardia o, in questo caso, del compagno co-fondatore della rivista «Tam Tam»?

Chi conosce l’opera di Niccolai non ha dubbi riguardo alla sua autonomia e originalità, e sa che la vita della scrittrice potrebbe diventare il canovaccio di una sceneggiatura: italo-americana bilingue, esplora giovanissima il mondo come fotografa (immortalando, fra gli altri, Kennedy, Kubrick, Fidel Castro, Fellini…) per poi abbandonare, delusa, il reportage; a Roma, vive a casa di Giosetta Fioroni e si lega al Gruppo 63, come segretaria di redazione di «Quindici». Nel ’69 l’avanguardia chiude i battenti e Niccolai si trasferisce al Mulino con Spatola – ha stretto amicizia con Corrado Costa e Giorgio Manganelli, il suo «primo lettore» – per poi fuggire nel 1978 a Milano («feci una vigliaccata, […] scrissi una lettera e scappai»).

Ha già all’attivo un romanzo, numerose raccolte sperimentali, il libro d’artista Poema&Oggetto. Poi, l’ictus cerebrale, che la rende momentaneamente afasica (ecco una prima, strana coincidenza: lo stesso era capitato a Baudelaire, col cui nome gli amici pare chiamassero proprio l’ex compagno, Spatola), e la conversione al buddismo, il viaggio in India nel 1989 e la sua ordinazione a monaca. Continua a scrivere, accumulando riconoscimenti (nel 2006, l’onorificenza di Grande Ufficiale della Presidenza della Repubblica Italiana) e, quando viene intervistata da Sara Pagani nel 2018, ha più di ottant’anni e pensa alla morte senza paura, perché «è come decidere di cambiare vestito», «nasco dove voglio io la prossima volta».

Commemorandone la scomparsa, Andrea Cortellessa ricordava sul «manifesto» del 24 giugno 2021 la molteplicità delle vite che Niccolai sembra aver vissuto; si possono ripercorrere, oggi, sfogliando il ricco volume che «Riga 45» ha dedicato a Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti (Quodlibet, pp. 495, € 26,00), attraverso interviste, una raccolta antologica e di interventi critici, saggi, scritti autobiografici. La numerosità dei contributi fa sì che queste disparate vite si ricompongano come in un mosaico, e tuttavia permane la sensazione che il ritratto definitivo di Niccolai, l’unico completamente «a fuoco», sia sempre imprendibile e rimanga «sul retro» della composizione, in un negativo pur così ben sviluppato.

Il che è, a ben vedere, una sorta di rovello per la stessa artista, nel corpo a corpo costante con la decifrazione della realtà che la circonda, dalla fotografia alla poesia al romanzo – che si intitola proprio Il grande angolo, rimarcando l’ulteriore prova dello sguardo dell’autrice sul mondo, recensita nel ’66 da Walter Pedullà e commentata per «Riga» da Graziella Pulce.

Basti prendere gli esperimenti prospettici di Facsimile, che giocano deformando, tramite rappresentazione, la realtà – una lattina e la fotografia di un barattolo, ritratti frontalmente, sembrano solidi e tridimensionali, ma spostando l’angolo dello scatto si svela la verità, ché «un oggetto fotografato si trasforma in un oggetto fotografato, e tale rimane» (si contempla, insomma, «la differenza tra apparenze fenomenologiche e stati ontologici», Taylor Yoonji Kang). O ancora, si pensi allo scavo linguistico della poetessa, al «lavoro di costruzione e decostruzione su significante […] e significato» di Greenwich – «Riga» ne accoglie l’introduzione di Manganelli, del ’71 – e al suo celebre calembour topografico «Como è trieste Venezia…», che ricerca una nuova correspondance tra senso e nonsenso nella deformazione del significante, un po’ come accadeva nei Facsimile.

Ciò significa che gli strumenti dell’indagine derivano dalla neoavanguardia, ma il loro impiego è orientato in una direzione privata, ironica e giocosa, non politicizzata (l’allontanamento da Roma è dovuto alla sensazione che «lì era impossibile fare una rivista di poesia perché tutti erano concentrati su altri scenari», afferma Niccolai nell’intervista di Massimo Rizza). La sua ricerca ruota, piuttosto, intorno alla discrasia fra le cose «come appaiono» e le cose come «effettivamente sono» (Beppe Sebaste), in una specie di tentativo di superare, come Alice attraverso lo specchio, lo schermo del mondo come rappresentazione. Non è un caso che Carroll rappresenti il feticcio della poetessa esordiente in Humpty Dumpty (1969), un «vampirico omaggio» di giochi di parole «trasgressivi» (Belpoliti), descritto qui da Milli Graffi, che prepara il terreno alle acrobazie verbali successive, da Substitution (’75) alle varie declinazioni dei famosi Frisbees, le «poesie da lanciare», alle ballate composte come «un’insalata russa» di lingue delle Russky Salad Ballads – fra cui la celebre Harry’s Bar Ballad, in cui l’autrice dichiara, come imprimendo un marchio a fuoco sul testo, la propria identità: «voglio del gin perché sono G. N. / Giulia Niccolai»; a mancare, nell’acrostico, è la I inglese di «io» prestata però, sub specie di passaporto identitario, alla chiusa della prima raccolta, «And Lewis I Carrol End», also known as A.L.I.C.E.

Emerge sempre, anche a partire dalle interviste a Giulia e dai contributi critici (Raffaele Manica, Rossana Campo, Cecilia Bello Minciacchi, Roberto Galaverni e molti altri) questo refrain della ricerca della corrispondenza fra la «parola» e la «cosa», la rappresentazione e la realtà, indagata facendo deflagrare le apparenze, semantiche o dell’oggetto, scrutate come attraverso un obiettivo fotografico mai dismesso. Ecco allora la seconda e ultima coincidenza: è proprio il testo che si citava all’inizio, Scirocco, che sembra inquadrare questa predisposizione, descrivendo non solo (o non tanto) la fine di una storia d’amore ma anzi suggerendo l’inizio di un altro rapporto, quello di Niccolai col mondo, per la propensione dell’artista a spingersi «a guardare dietro alla faccia abusata delle cose, / […], dietro allo specchio segreto d’ogni viso».

Se i tentativi – condotti tramite il medium fotografico e, poi, poetico – di attraversare lo specchio e incidere il velo schopenhaueriano finiscono per coincidere, è comunque la fede buddista a dare a Niccolai una risposta, perché è grazie a quest’ultima che la tensione irrisolta a ricomporre la realtà si placa e la poesia si rende inessenziale: «quando si riesce a squarciare anche solo momentaneamente il velo di Maya il senso di compiutezza è tale che la scrittura e la necessità di esprimersi per dare un senso alla vita non sussistono più».

E «adesso», si chiede Niccolai nel Diario del 2009, «come mi sento? Libera». A renderla inafferrabile è la libertà che ne contraddistingue l’esperienza artistica, nella capacità di cambiare percorso, di rileggersi – e personale – di donna che negli anni cinquanta brucia il motore della 600 «guidando in una sola notte da Milano a Lagonegro» (Palmieri). È forse proprio per questo che Silvia Mazzucchelli, che negli ultimi anni ha lavorato con Niccolai al suo archivio fotografico, immagina che l’amica si sarebbe stupita di questa pubblicazione: «Chi l’avrebbe mai detto che un giorno qualcuno mi avrebbe messo in Riga?».

Da Il Quotidiano del Sud – «Quello che succede oggi in Medio Oriente è per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora» scrive la storica Anna Foa nel suo libro di recente pubblicazione Il suicidio di Israele edito da Laterza. Ebrea della diaspora, l’autrice si rivolge a tutte/i le/gli ebree/i del mondo, in particolare a quelle/i dell’Italia, affinché prendano coscienza della necessità e dell’urgenza di agire per riappropriarsi dell’ebraismo e della memoria della Shoah, separandoli dallo Stato d’Israele e dai sionisti al governo, per fermare, prima che sia troppo tardi, l’antisemitismo insorgente.

«Gli ebrei – scrive – sono assimilati tout-court agli israeliani, ai sionisti e la guerra di Gaza alimenta ovunque l’antisemitismo» che «non è mai morto del tutto nel mondo, nemmeno nell’Europa i cui ebrei sono stati completamente distrutti nella Shoah». «Come fermare il suicidio di Israele se non attraverso una sollevazione dell’intera società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora?», visto che «quanto avviene si delinea come una catastrofe non solo per lo Stato ma anche per il resto del mondo ebraico?». Come spiegare quella identificazione? Per farlo, l’autrice ripercorre la storia del sionismo, anzi dei sionismi, e quella dello Stato d’Israele, nato come Stato ebraico, di tutti gli ebrei del mondo, cancellando «quella parte del sionismo che avrebbe voluto ebrei e palestinesi insieme in un solo Stato». Tale identificazione si completò col processo a Gerusalemme ad Eichmann con cui «lo Stato d’Israele si poneva come l’erede dei sei milioni di ebrei assassinati nella Shoah e si assumeva il ruolo di mantenerne la memoria». Poi nel 1974, con l’occupazione di Gaza e Cisgiordania, arrivarono i coloni, i sionisti religiosi messianici, oggi al potere, sostenitori della «terra d’Israele data loro da Dio e loro compito era colonizzarla e mantenerla ebraica». «Essi chiamavano – e ancora oggi chiamano – i territori occupati coi loro nomi biblici, Giudea e Samaria, a significare la volontà di considerarli parte integrante di Israele».

Il libro è un crescendo di domande. Come possono gli ebrei della diaspora non reagire di fronte ai morti di Gaza che sono opera di uno Stato che si dice democratico, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas? Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? Come respingere l’assimilazione fra israeliani ed ebrei quando nella diaspora le voci contro Netanyahu sono flebili e accusate troppo spesso di antisemitismo? Come possiamo oggi limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine “antisemitismo” ad ogni condanna della guerra di Gaza?

«Occorre una definizione dell’antisemitismo – è la sua risposta – che consente di distinguere nettamente ciò che è antisemitismo e ciò che non lo è». Certo, aggiunge, «è ingiustificabile l’atroce massacro del 7 ottobre ma altrettanto ingiustificabile però è chiudere gli occhi di fronte al massacro di Gaza, alle parole di pulizia etnica dei ministri di Israele, alla politica di Netanyahu che sta trascinando Israele nell’abisso» e rischia di trascinare con sé anche gli ebrei della Shoah vanificando l’insegnamento di tutti questi anni dei testimoni «mai più a nessuno». Conclude il libro con la consapevolezza che «non si può dare per scontato» che l’odio scatenato da entrambe le parti un giorno cesserà. Ma non ci sono altre strade. Un libro di una ebrea coraggiosa.

Da AP Autogestione e Politica prima

Mail art 2024 organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla Rete delle Città Vicine e all’Atelier di artiste dell’Alveare di Lecce: “Trame di vita” “Trame di pace” due temi che si intrecciano tra di loro, si annodano, si rafforzano.

È un appuntamento atteso con le artiste e gli artisti e anche con chi artista non lo è, ma che ci prova e lo diventa per il tempo e nello spazio di una cartolina.

La ricerca delle parole, dei colori, delle immagini, le modalità per rappresentare il proprio messaggio diventano una sfida, una pacifica sfida dove, grazie al cielo, non si vince nulla.

Una sfida con sé stessi e con il proprio desiderio che è anche quello di affidare la propria creazione allo sguardo critico, benevolo, severo, indulgente di chi si fermerà davanti alla piccola opera.

La mail art non è solo il prodotto finito che sono le cartoline.

È una strada percorsa da persone che si incontrano in tanti modi e si lasciano attraversare dalle altrui sensibilità.

Il suo iter, meraviglioso, comincia con le idee, le proposte sugli argomenti da sviluppare e le motivazioni.

Le problematiche che ogni giorno il mondo ci elargisce, con una generosità pari solo alla mancanza di senso di responsabilità in fatto di guerre, ambiente, questioni sociali, libertà, libertà femminile, discriminazioni, sono tante che non è difficile trovare il tema che sta più a cuore (eh sì proprio a cuore) a tutte e tutti sia individualmente che come associazioni.

Scelto il tema, segue la condivisione con il mondo degli artisti e delle associazioni con relativi inviti a partecipare.

La casa di Katia Ricci per oltre un mese diventa punto di raccolta di tutti i lavori, ogni anno più numerosi e di provenienza anche estera.

Arriva di tutto, carta cartoncini collage tavolette metallo ricami uncinetto fiori foglie foto e le previste piccole dimensioni, non sono da freno alle ambizioni artistiche, anzi si aggiungono alle sfide a cui accennavo prima.

Non mi dilungo sulla fase della ricerca dei luoghi dove tenere la mostra e le relative difficoltà, in quanto gli iter burocratici sono sempre un po’ noiosi da descrivere e a volte irritanti da vivere.

Però mi piace anche dire, per mia diretta esperienza, che quando ci si confronta con le istituzioni non solo sulla base dei ruoli, ma come persone, la relazione si fa più agile, più vera e diventa anche piacevole.

Tra una richiesta da un lato ed una concessione dall’altra e scambi più personali, ognuna/o comprende meglio le problematiche dell’altra/o con reciproca soddisfazione.

Con l’installazione delle artiste Rosy Daniello e Anna Fiore, le nude pareti del museo di Foggia, luogo della prima esposizione, hanno preso vita; vita che proseguirà coi successivi itinerari.

Colori, poesie, frasi, foto diventano il prolungamento dell’anima degli artisti/e della loro forza, delle loro fragilità.

Ma c’è un’altra fase artistica, una parte irrinunciabile della mostra che è la realizzazione a cura di Rosaria Campanella del video delle foto di tutte le opere (visibile su you tube digitando trame di vita trame di pace).

La mostra è itinerante e Anna Fiore, con la stessa attenzione con cui ha affisso al muro le opere, a chiusura della mostra, ha provveduto a toglierle, con amorevole cura e rispetto per il lavoro degli artisti/e.

Ciascuna opera l’ha avvolta in un foglio di carta per poi unirle in piccoli gruppi onde evitare che si potessero danneggiare. Ha recuperato quindi diligentemente spilli e pinzette varie, utili per la successiva esposizione e infine consegnandomi il tutto perché lo portassi a Vico del Gargano, successiva sede della nuova inaugurazione, mi ha chiesto, premurosa, se per caso volessi anche il martello (suo).

L’ho abbracciata per tutto l’amore che ci ha messo.

Così come mi viene di abbracciare Katia per la generosità e la pazienza (con gli artisti ce ne vuole, si sa);

Rosy alla quale siamo tutte legate con un tenace lungo filo di stima ed amore;

Rosaria per il video che rende ancora più belle le già belle opere;

e tutti e tutte senza il cui sostegno mai nulla si potrebbe realizzare.

Messaggi, sogni di pace, poesie desideri, esempi di un’altra vita possibile, sono stati espressi nelle cartoline, come nella mia dal lungo fiore azzurro, attraverso la quale desidero che sulla Terra venga seminata la Pace per far crescere e raccogliere la pietà, la speranza e veder rifiorire i sogni in nuove notti d’amore.

Ma questa mia utopia non riesce a lenire l’inquietudine, il disappunto, la rabbia che provo per ciò che accade nei luoghi del potere, dove la pace sembra essere un argomento di rari incontri autoreferenziali e sterili.

Di altro tenore e solerti nelle decisioni, invece, sono quelli sulla guerra e sulle armi vendute dalle ricche case di produzione.

Da qui nasce a mia poesia “Non hanno cieli gli uccelli” che condivido in questo scritto.

Lungi dal chiudersi a ogni speranza, la mia vuole essere una denuncia verso chi, pur avendo prerogative decisionali e strumenti, non si adopera concretamente per far cessare sofferenze e disumanità e non “libera la colomba della pace dalla inutile cornice in cui è stata messa”.

È una poesia che affianca il desiderio di pace, di fiducia, di attesa della mostra stessa, aggiungendosi così alla voce degli artisti e al positivo coinvolgimento emotivo che il pubblico sta esprimendo davanti alle opere e a tutta la manifestazione.

Non hanno cieli

gli uccelli

in tempo di guerra.

Non volano per i campi di grano

tra i rossi papaveri,

né sui paesi a cinguettare stagioni.

Hanno perso il nido

e anche le nuvole nelle quali nascondersi.

Cercano la pace,

la colomba di pace.

Fedele a se stessa, su rami anneriti,

è rimasta ad attenderla, seppur accartocciata,

una tenace piccola foglia d’ulivo.

Ma… non si vedono bianchi voli

in questi cupi cieli,

rumorosi di ferro e di fuoco.

Eppure una colomba c’è.

Proprio lì sulla tela,

l’artista ha dipinto una grande colomba luminosa.

Le sue ali sono … candide

le sue ali sono … aperte

le sue ali sono … ferme.

Sembra una croce e forse lo è.

Una croce che rammenta

il dolore … la morte,

ma non la redenzione.

È lì la PACE

dentro una inutile cornice dorata.

La inchioda

lo sguardo incolore

del pubblico che conversa distratto,

mentre sorseggia, lentamente,

il calice di un fresco prosecco

offerto dalla ricca Casa d’arte.

(AP Autogestione e Politica prima, ottobre-dicembre 2024)

Quando ci trovammo tra donne in un movimento di riflessioni sulla nostra condizione, negli anni sessanta, ci dissero altre donne che eravamo borghesi, come oggi ci dicono che siamo di destra, perché avevamo l’agio del benessere di pensare a noi stesse.

Eravamo di destra per la pratica maschile che esponeva la sofferenza degli altri tacendo la propria.

La destra perseguiva i propri interessi e faceva tacere quelli di ogni altra persona, anche quelli propri che perseguiva nella cecità, nel silenzio, sempre indicandone altri.

Indicare la luna, fare ideologia invece di parlare di sé stesse/i in modo da poter elaborare la verità della condizione umana fu per le donne in movimento la discriminante del fare politica con sincerità. Mettendosi in discussione personalmente. Mostrandosi agli altri e a sé stesse in modo da poter elaborare la verità della condizione umana: nelle sue differenze e uguaglianze, nelle sue similarità e personalità.

Essere di destra, ce lo siamo tenute. Perché la sincerità del tenere a sé stesse ci serviva a districare le nostre vite dal sacrificio per gli altri e a trovare noi stesse, con il coraggio di mostrare la nostra misura parziale di verità. Così dobbiamo continuare a comunicare tra noi e con tutti, facendo parlare le persone che, spinte dai loro dolori, si comportano egoisticamente senza il criterio della luminosità della loro esperienza.

Illuminate dal ragionamento ogni esperienza ci insegna; la pratica del dire sé stesse, ascoltate e discusse, interloquite, è lunga, difficile, noiosa se senza una guida che scavi nelle esistenze per toccare quel trauma, quel desiderio, quella rivalsa, quel non detto che ci spinge ciecamente.

La psicoanalisi, subito, fu una indicazione di approfondimento del nostro lavoro. Ma la paura di affidarsi alla cultura maschile, così falsificante e astuta nel comando di sottomettersi a chi ha più potere e si nasconde meglio è ancora qui a farci esitare tra coraggio di rischiare e volontà di vincere affermando il proprio desiderio su quello degli altri. O meglio per la paura di perdere il proprio desiderio.

Si può solo avere coraggio, si può solo rischiare per vedere la verità, continuamente.

Per questo la cultura femminile è proseguita abbandonando il ciclostile che le donne di sinistra ruotavano per gli uomini e agendo il proprio egoismo quanto più sinceramente era possibile, lottando contro il desiderio di mentire per vincere sugli altri.

Non dobbiamo vincere gli altri ma soltanto dire noi stessi. Questa l’indicazione delle donne, contro la pratica politica di sinistra di indicare negli altri le proprie sofferenze.

Diciamo la nostra, ciascuna a e ciascuno, e ci intenderemo più facilmente che se ci nascondiamo dietro agli altri. Fingere generosità è l’inganno delle guerre. La pace è comunicazione sincera per rinunciare alla propria vittoria in virtù del concordare una misura di soddisfazione degli egoismi diversi e vedere allora che non siamo soli al mondo ma aiutati dagli altri a raggiungere beni comuni.

Beni comuni è l’unico obiettivo, realizzare beni comuni è l’unica via di soddisfare quello che desideriamo.

Davanti alla tecnica che sostituisce la fatica umana noi perseguiamo la strada opposta a quella di limitare i nostri guadagni per concordare la misura con altre esigenze umane, come la salute, la pace verso gli altri, altri che sono gli altri soggetti di cui tenere conto per salvare l’equilibrio tra molti. Molti equilibri diversi ci sono in natura e li abbiamo studiati e compresi.

La pace con la natura è proprio il contrario della vittoria sulla natura. La pace con gli altri è il contrario della vittoria di una fazione contro un’altra. La capacità politica è essere sinceri nonostante il desiderio di vincere l’altro, la capacità politica è non parteggiare per fazioni ma tendere alla verità.

Dunque la legge che indica come reato universale l’appropriarsi della capacità femminile di creare nel proprio organismo un altro essere vivente a cui si darà la luce e l’assistenza è una buona indicazione. Non ci si può approfittare delle donne! Non si può commerciare il figlio o la figlia di una donna, e neppure negare a quel figlio il padre. Responsabilizzarci rispetto alla nascita di un nuovo essere vivente è la grande qualità che le donne indicano deve essere raggiunta. Una pratica educativa fatta di tanti aspetti da mettere in luce. Per questo indicare il reato universale da non commettere è una grande operazione piena di promesse politiche per tutti.

Non dobbiamo avere paura delle conseguenze politiche connesse a questo coraggio di verità, siamo qui a collaborare ancora alla scoperta delle verità per tutti che il movimento delle donne, senza schieramenti inutili e dannosi, suggerisce.

Siamo contrarie alla gestazione per altri (GPA), sia a quella commerciale sia a quella cosiddetta solidale, per i tanti motivi che studiose e attiviste hanno analizzato approfonditamente (Danna, Gramolini, Izzo, Muraro, Niccolai, Pazé, Terragni, e la lista potrebbe continuare a lungo). Per questo accogliamo con favore il recente provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche a quella praticata all’estero.

Qualcuna obietta che il governo attualmente in carica avrebbe dovuto promuovere un ampio confronto nelle sedi internazionali e non estendere il divieto anche alle italiane e agli italiani che praticano la gravidanza per altri all’estero. Non capiamo perché le due cose debbano essere poste in alternativa. Nel 2023 la costituzionalista Silvia Niccolai osservava, «[…] il divieto universale in Italia rafforzerebbe enormemente la capacità del nostro Paese di operare in modo influente nelle sedi internazionali» (1). Fosse anche solo per questo, la legge che rende la cosiddetta gestazione per altri “reato universale” non ci sembra mera propaganda.

È vero che esponenti dell’attuale maggioranza politica hanno enfatizzato l’ovvio, e cioè che in presenza di un certificato di nascita rilasciato all’estero, che indica due uomini come genitori, è evidente il falso, non solo giuridico, della dichiarazione. Costoro sembrano dimenticare che la stragrande maggioranza di chi ricorre alla pratica della cosiddetta surrogazione di maternità, è fatta di coppie eterosessuali È probabile che vogliano assecondare sentimenti omofobi esistenti in una parte del loro elettorato. Se questo è, troviamo esecrabile l’intento, ma resta impregiudicata la verità del rilievo.

Il provvedimento è stato anche utilizzato da esponenti dell’attuale governo di destra per enfatizzare l’importanza della famiglia cosiddetta tradizionale, punto di vista opinabile e probabilmente gradito ad una parte dell’elettorato conservatore, ma fondato sul fatto incontrovertibile che una creatura, ancora oggi, nasce necessariamente da una donna, con il contributo di un uomo.

Pensiamo si debba resistere alla tentazione di valutare il singolo, concreto provvedimento e più in generale l’attività politica istituzionale, utilizzando forme del pensiero e del linguaggio che ci lasciano impigliate nel tradizionale scontro delle forze politiche di destra e di sinistra. Un esempio di questo pericolo sta proprio nell’assumere come nostra, una delle più frequenti e reciproche accuse che gli schieramenti politici rivolgono l’un l’altro, che è quella di fare propaganda.

Nel caso in questione si rischia di non vedere quanto il provvedimento sia stato assunto nella certezza di assecondare un sentimento profondo e forse anche “universale”, di repulsa per l’idea stessa di indurre una gravidanza con l’intento programmato di separare la creatura dalla madre.

Dell’esistenza diffusa di questo sentire siamo certe ma pensiamo anche che senza la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate questo sentire avrebbe potuto, potrebbe, inabissarsi. Come abbiamo già detto, molte hanno analizzato le questioni sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata, in tante si sono espresse pubblicamente, hanno prodotto libri, articoli di stampa, hanno riferito nelle commissioni di Camera e Senato, hanno dato cioè un grande contributo per sostenere con la forza del sapere e della consapevolezza, il “sentimento universale” di rifiuto di questa pratica. Definire questa legge un fatto di propaganda, significa anche non vedere che questo femminismo, impegnato a difendere dall’avidità del mercato la relazione che è all’origine della vita, è riuscito ad orientare la politica (2), (3).

Infine, sul piano del diritto, non si può parlare di criminalizzazione, come pure si sente dire, poiché la legge non introduce alcun nuovo reato per azioni e comportamenti ritenuti leciti fino a ieri. Anzi, pur nella parzialità e limitatezza della mossa, quest’atto di legge amplia la possibilità di «[…] spostarsi altrove rispetto al diritto praticato come strumento di lotta all’interno di relazioni di potere» (4). Infatti può aiutare le donne, tutte le donne del mondo, a riflettere ulteriormente e a lottare per non finire schiacciate nell’ennesimo, ben oliato meccanismo, anche giuridico, pensato per garantire il potere di fare commercio della maternità e dei suoi frutti.

Quanto al dibattito internazionale, il giorno dopo l’approvazione della legge il New York Times riportava la notizia in prima pagina, con disappunto. Non sarà un’organizzazione internazionale il NYT, ma quasi. Non l’ha presa bene e non è un cattivo segnale.

  1. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallarete/utero-in-affitto-reato-universale-intervista-a-silvia-niccolai/
  2. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/gpa-non-confondiamo-liberta-con-subalternita/
  3. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/un-femminismo-capace-di-guidare-le-forze-politiche/
  4. Stefania Ferrando nell’introduzione alla ripubblicazione de La politica del desiderio e altri scritti di Lia Cigarini, Orthotes 2022.

Da La Sicilia – Femminismo mon amour – Pratiche femministe per donne e uomini è una pubblicazione a cura della Libreria delle donne di Milano che raccoglie gli articoli della rivista “Via Dogana 3” redatti e resi noti on line nel corso del 2023. Diversi i temi, unico il filo conduttore: la riflessione sulla politica delle donne concepita come una pratica di trasformazione del mondo a partire dalla soggettività e dalla relazione con le altre e gli altri. Se ne è discusso a Catania a Scienze Politiche nel corso di un incontro cui hanno preso parte le femministe della differenza della Libreria delle donne di Milano Laura Colombo e Laura Giordano e le catanesi Mirella Clausi, Anna Di Salvo, Stefania Mazzone, Giusi Milazzo, Nunzia Scandurra e Giulia Caruso.

Centrale il tema dell’autocoscienza definita da Luisa Muraro “la danza dell’io”, lo spazio generativo e creativo della parola libera caratterizzato dal partire da sé, dal prendere la parola uscendo da un secolare silenzio, e dal mettersi in relazione con le altre riconoscendosi reciprocamente. Una pratica sperimentata a partire dagli anni Settanta e che vive ancora anche attraverso forme diverse come il dialogo pubblico innescato dal “Me too” e attraverso lo strumento dei podcast, un tentativo di trasformare in un fatto politico la frustrazione e la rabbia per le violenze e le discriminazioni subite. Un modo di fare politica altro rispetto a quello dell’individualismo e all’autosufficienza predicato dal neoliberismo e da quello della politica novecentesca delle grandi masse praticata da partiti, sindacati e organizzazioni e volta alla conquista e all’esercizio del potere. Forme ereditate dal passato patriarcale che attraggono sempre meno, soprattutto i giovani, come rivela l’ormai abituale alto tasso di astensionismo. Uno stato delle cose rispetto al quale le pratiche del femminismo si pongono come un possibile modo di ritornare a fare politica. Un modo caratterizzato dall’amore e dalla cura per il mondo e da un certo modo di essere delle femministe al tempo stesso partecipi ed estranee al sistema politico e simbolico dominante, un modo capace di concepire e offrire nuovi orientamenti e nuove pratiche per il vivere comune. Un modo di essere diverso da quello con cui le donne, a torto, sono state spesso considerate: prepolitiche o apolitiche.

Temi affrontati alla luce dell’attuale contesto politico in cui le destre al governo si sono appropriate di alcune parole del femminismo snaturandone il senso, come quando, di fronte al moltiplicarsi dei femminicidi – e tanto più dopo le riflessioni innescate dall’omicidio di Giulia Cecchettin e dalla presa di parola della sorella e del padre – sostengono che il patriarcato è morto per concludere che questo è un fenomeno individuale. Invece è il femminicidio un fenomeno politico – denunciano le femministe – espressione del post-patriarcato in cui viviamo in un’epoca in cui le donne hanno conquistato notevoli spazi di espressione e di libertà che hanno messo in crisi il modello sociale e simbolico preesistente creando nei maschi una frustrazione cui spesso reagiscono con la violenza, non avendo saputo trovare un nuovo ruolo. Eppure anche tra gli uomini si registra una fase di analisi e di riflessione sul proprio modo di essere tra quanti hanno deciso di confrontarsi con realtà e pratiche femministe e quanti, come Maschile Plurale, prediligono una relazione tra uomini facendo propria la pratica dell’autocoscienza.

Eppure oggi si registrano delle divisioni all’interno del mondo femminista che pure era sempre stato «un campo di battaglia dove tante soggettività confliggono, ma stanno insieme perché la sfida è comune». Oggi, segnalano le redattrici della pubblicazione, «si registra un arroccarsi in una politica identitaria». E il riferimento è al movimento Lgbtqia+ e alle questioni legate all’identità, al genere, al corpo. Temi tutti affrontati nel volume in questione che rivendica l’importanza e l’efficacia delle pratiche femministe delle origini nella consapevolezza che necessitano di essere rivitalizzate.

Da Roba da Donne

Dall’aprile del 2023 nel Paese africano si combatte una guerra civile logorante che sta mietendo migliaia di vittime tra la popolazione, ma che è ignorata completamente o quasi dai media internazionali.

Nel silenzio generale di gran parte della stampa internazionale, da oltre un anno in Sudan si sta consumando una guerra civile sanguinosa e lacerante, che vede contrapposto l’esercito alle Rapid Support Forces (RSF), le milizie paramilitari responsabili anche del genocidio in Darfur, precedentemente agenti per conto del governo sudanese.

Come denunciato in un post Instagram dalla community Land Palestine, le RSF, finanziate dagli Emirati Arabi, avrebbero massacrato oltre 600 civili negli ultimi giorno solo ad Al Jazira, uno degli Stati del Sudan; 130 donne avrebbero commesso un suicidio di massa per non essere stuprate dai militari delle Rapid Support Forces. Fra i 29 casi di stupro confermati nello Stato, la vittima più giovane avrebbe appena sei anni.

Interi villaggi sono stati spazzati via, le fattorie, come denunciato dall’Ufficio per il coordinamento degli affari umani delle Nazioni Unite, sono state date alle fiamme, così come mercati e case. «Hanno sparato in testa ai bambini – afferma la ragazza del video – ucciso i pazienti negli ospedali, le persone con disabilità […] centinaia di donne si suicidano perché è il solo modo per sfuggire alle violenze sessuali».

Ad Al-Sireha, nel nord di Al Jazira, nella sola giornata di venerdì sono stati 124 i civili assassinati. In totale, dal 15 aprile 2023, giorno di apertura del conflitto, la guerra civile sudanese ha causato più di 24.800 vittime, ma i medici affermano che, con le vittime non segnalate, il bilancio potrebbe arrivare a 150.000.

Sono invece 11 milioni gli sfollati, 24 milioni le persone che l’ONU stima abbiano bisogno di assistenza, in quella che sembra essere una guerra “dimenticata”. Solo ad Al Jazira la scorsa settimana, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ci sono state almeno 46.500 persone sfollate.

E, come accade di solito nei conflitti, gli stupri di guerra sono una delle armi più sordide e abiette usate dai combattenti: l’Unità per la lotta alla violenza contro le donne del Sudan, un ente governativo, ha fatto sapere di aver avuto segnalazioni di donne stuprate dai militari dell’RSF al fine di umiliare gli uomini dei villaggi, costringendoli ad abbandonare le proprie case. Secondo un rapporto di Human Rights Watch pubblicato a luglio in tre città donne di età compresa tra i nove e i sessant’anni sono state violentate e stuprate in gruppo dall’inizio della guerra, così come accaduto a uomini e ragazzi incarcerati.

Hala Al-Karib, direttrice regionale dell’Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa (SIHA), già lo scorso febbraio aveva dichiarato che oltre il 70% degli stupri era avvenuto collettivamente, di fronte alle famiglie delle vittime. Secondo il commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk, circa l’80% degli stupri è opera delle RSF, ma solo 1 su 20 verrebbe effettivamente denunciato.

La guerra civile sudanese ha avuto inizio dopo che il governo instauratosi con il colpo di stato del 2021 avrebbe dovuto insediarsi; le RSF, chiamate anche Janjaweed, hanno compiuto crimini contro l’umanità in Darfur secondo Human Rights Watch.

Da Lucysullacultura.com

In occasione dell’uscita del film tratto dal suo libro più celebre, Leggere Lolita a Teheran, Azar Nafisi ha discusso con Elena Stancanelli di letteratura, democrazia e del suo paese, l’Iran, dove le donne lottano ancora contro il regime.

Ho intervistato Azar Nafisi in occasione della presentazione alla Festa del Cinema di Roma del film tratto da Leggere Lolita a Teheran, con la regia di Eran Riklis. Israeliano, noto soprattutto per La sposa siriana, Il giardino di limoni sul conflitto isarelo-palestinese e Il responsabile delle risorse umane, quest’ultimo tratto da un romanzo di Abraham Yehoshua. 

Azar Nafisi è nata a Teheran nel 1948, ma dal 1997 vive negli Stati Uniti. In Leggere Lolita a Teheran racconta la sua storia, quella di un insegnante di letteratura inglese che, per aggirare i divieti imposti dal regime degli ayatollah, fa lezione a sette studentesse nella sua casa. Il libro è diviso in quattro parti, ognuna dedicata a un autore che accompagna il percorso di conoscenza ed emancipazione delle ragazze, il Nabokov di Lolita, il Fitzgerald de Il grande Gatsby, Henry James e Jane Austen. Il romanzo, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2003, ebbe un successo enorme. Tradotto in più di trenta lingue è diventato, anche, un manifesto di libertà delle donne contro l’oppressione del regime islamico. 

Azar Nafisi è una donna di smisurata gentilezza, parla un inglese piano e comprensibile e risponde a ogni domanda con cura e senza affettazione. È un’interlocutrice perfetta, non fa pesare la sua celebrità e nasconde la stanchezza che certamente deve provare. È andata bene, ho pensato tornando a casa e mi sono messa a sbobinare le sue parole. Ascoltandole, da sola, con la cuffia che mi isolava dai rumori, mi sono subito resa conto che, stregata dal suo sguardo e dalla mia emozione, non avevo capito niente di quello che stava cercando di dirmi. Avevo compreso il suo inglese, le sue frasi eleganti, ma non avevo colto il senso profondo, che invece era lì, in quella voce registrata, in quel modo pacato ma implacabile di mandare avanti la conversazione. E mi sono commossa, travolta dalla sua precisione e profondità, così diversa dalla mia, nostra, distrazione. Dalla mia, nostra, idea un po’ frivola e un po’ narcisa di letteratura. Mi sono dovuta fermare nella trascrizione, e ascoltare soltanto la sua voce, fino alla fine, per rispetto della sua forza e del suo coraggio. Azar Nafisi era lì con me, seduta al tavolino di un hotel del centro di Roma, a rispondere con garbo alle mie domande, e sarà in giro per il mondo, accanto a questo film, a rispondere ad altre domande, sempre con garbo, per un’unica ragione: quelle ragazze. Le ragazze che leggevano Lolita a Teheran vent’anni fa e alle quali i “mostri”, come li chiama lei, hanno tolto la possibilità di vivere come desideravano, hanno imposto il velo e mille divieti liberticidi. Le ragazze che prima dell’avvento della Repubblica islamica camminavano libere per strada, con le minigonne e i capelli al vento, che frequentavano i caffè, le librerie che vendevano i libri inglesi, le ragazze che bevevano, cantavano, ballavano e di colpo, per ragioni incomprensibili, non potevano più farlo. Le ragazze che non si sono mai arrese e scendono ancora per strada a combattere per la loro esistenza, contro la follia degli ayatollah urlando: Donna, vita, libertà! È soprattutto per loro che Nafisi era lì, ai tavolini di quel bar con me. Anche per questo noi, assieme a quelle ragazze, le dobbiamo un’infinita gratitudine.  

Elena Stancanelli: Ha visto il film ieri?

Azir Nafasi: Ho visto il film, sì. Confesso che ero molto preoccupata. Anche perché in questi anni sono diventata molto amica del regista, Eran Riklis, e sarebbe stato davvero spiacevole dovergli dire che non mi piaceva. Ma non è successo. Alcune delle cose che accadono a Golshifteh Farahani (N.d.A.: l’attrice, bravissima, che interpreta Azar Nafisi, l’insegnante che si ritira dall’università quando non riesce più a sopportare l’insensatezza di indossare velo e abiti neri, la giovane donna che alla fine, decisa a vivere la vita che vuole vivere, deciderà di lasciare l’Iran per trasferirsi negli Stati Uniti) non sono accadute, o almeno non sono accadute a me, ma quello che il regista è riuscito a intercettare è un sentimento. Guardando il film ho provato qualcosa di simile allo stupore, come se avessi dimenticato molte delle cose che avevo raccontato. Per esempio che Sanaz, (N.d.A.: interpretata da Zahra Amir Ebrahimi, attrice e anche regista del film Tatami, presentato quest’anno a Venezia nella sezione Orizzonti e molto apprezzato da critica e pubblico) avesse subìto in carcere il test di verginità. Non che lo avessi dimenticato, ma non era più presente nei miei pensieri. Direi che la cosa più affascinante del film, per me, è che il regista sia stato in grado di restituire l’emozione dietro gli accadimenti. Poco importa che tutto sia vero ed esatto rispetto alla mia vita, ma è vero rispetto allo spirito del libro. Mi sono tornate alla memoria tante cose, come se fossi tornata a quegli anni. Dopo due giorni, sono ancora sotto quell’effetto: è stato molto forte, quasi scioccante.

ES: Sono passati vent’anni, il mondo è cambiato, ho avuto la sensazione che il film, per dire quello che il libro aveva detto con leggerezza, dovesse gridare di più. Presentare la violenza in maniera più esplicita. Negli occhi delle attrici, tutte bravissime, ho visto un’angoscia che nel libro mi sembrava più nascosta.

AN: Il mondo è cambiato, ma la violenza è la stessa. La differenza è che le donne iraniane adesso, rispetto a prima, sono più forti. Ma per queste ragazze, per Sanaz, per Azin, per Nasrin, le cose non sono cambiate. Vivono ancora in uno stato totalitario. Io ho scritto un libro su quello che accadeva in Iran, ma adesso, vedendo il film, mi rendo conto che è una storia universale, ed è questa la cosa a cui tengo di più. È la storia dei tanti totalitarismi che opprimono la vita delle persone, perseguitano gli artisti, gli scrittori. Pensa a quello che è accaduto nell’Europa dell’est, a Václav Havel, a Iosif Brodskij e tanti altri. Quello che mi preme, adesso, è ricordare che non si tratta di una questione politica che riguarda l’Iran, ma di una questione esistenziale. Quelle ragazze combattono per la loro vita. Guardare il film mi ha ricordato quanto profondo sia quel sentimento, quel senso di umiliazione, che riguarda soprattutto le donne. Non è solo il dolore fisico, ma l’umiliazione. L’umiliazione di quel test sulla verginità, per esempio. Il fatto che una mattina mi sono svegliata e ho dovuto indossare il velo, e sono diventata estranea a me stessa. Bisogna essere intime con se stesse, volersi bene, proprio nel momento in cui quelli ci insegnano a odiarci. E il film secondo me pone l’attenzione proprio su questo, sul tema dell’identità, sul modo in cui ce l’hanno rubata. Quando ti uccidono, ti puntano una pistola alla testa ed è finita. Ma morire ogni giorno è terribile. Io credo che nel film le attrici siano state capaci di creare personaggi che mostrano questa angoscia. Vuole vedere le foto?

(Azar Nafisi tira fuori una cartellina. C’è una scena del film, verso la fine, in cui il regista inquadra per un istante due fotografie, che Azar, ormai trasferita a Washington, tiene sulla sua piccola scrivania. È un attimo, una pennellata, perché quelle due foto non possono essere mostrate davvero. Sono le ragazze del corso di scrittura di Azar Nafisi, fotografate due volte. La prima come vorrebbero essere, senza il velo, vestite all’occidentale, bellissime, la seconda come sono costrette a mostrarsi, ingoffate nel chador nero, i capelli nascosti sotto la stoffa. È davvero molto impressionante. Nella prima vedi delle ragazze, nella seconda delle donne senza età, dei fantasmi. Eppure, mi dice Azar Nafisi, anche in questa foto sorridono. Le donne iraniane non saranno mai domate. Nafisi mi chiede di non fotografarle a mia volta perché, nonostante siano passati vent’anni, per quelle ragazze è ancora pericoloso. E io, dice, ho deciso che non avevo diritto di mostrare i loro volti senza il loro permesso. Mi mostra invece un disegno, una giovane donna rannicchiata, nuda, carpita dalle zampe di un animale, un rapace, un’enorme aquila forse. È il disegno originale di Sanaz, che nel film diventa quello di una donna stretta da un serpente. Non serve spiegare cosa ha nel cuore quella ragazza, cosa significhi questa immagine).

“Guardando il film ho provato qualcosa di simile allo stupore, come se avessi dimenticato molte delle cose che avevo raccontato”.

ES: Il film sarà proiettato in Iran?

AN: Impossibile. Il libro è stato bandito molti anni fa, insieme a un altro libro che avevo scritto prima, in persiano, colpevole di formalismo secondo le autorità del regime.

ES: In Leggere pericolosamente (N.d.A: anche questo pubblicato in Italia da Adelphi, come tutti i libri di Nafisi) lei scrive “Come in tutti gli stati totalitari, in Iran il regime presta eccessiva attenzione a poeti e scrittori, perseguitandoli, arrestandoli, e perfino assassinandoli. In America il problema è opposto: gliene prestano troppo poca. A ridurli al silenzio qui, non sono il carcere e la tortura, ma l’indifferenza e la noncuranza.” 

AN: Questo è il centro di tutto quello che ho scritto. Alla fine di Leggere Lolita a Teheran, nel capitolo intitolato Austen, menziono Saul Bellow. Bellow parla del regime di Stalin ma anche del peso della libertà. Ed è quello che ho provato arrivando in America. Come se la coscienza fosse ormai sepolta, atrofizzata, e la gente indifferente. Avevo la sensazione che pensassero ai diritti come a un dono divino, intoccabile. Ma io arrivavo dall’Iran, e sapevo quanto è facile invece che ti vengano revocati, i diritti, e come sia facile per una democrazia scivolare nel fascismo. 

I regimi totalitari sono basati sul principio che gli avversari politici sono nemici, e come tali vanno eliminati. Che loro sono i buoni mentre gli altri i cattivi. La democrazia invece è basata sulla responsabilità dell’individuo, bisogna essere coinvolti, sempre, non è possibile tirarsi fuori dalla democrazia. Ma non tutti hanno questa disponibilità. Una delle ragioni per cui ho scritto Leggere Lolita a Teheran è che quando sono arrivata negli USA mi dicevano vabbè, ma quella è la loro cultura, sono iraniani. Non è vero! La nostra cultura sarebbe far sposare le bambine a nove anni? Lapidare la gente a morte? È come dire che la cultura americana è fondata sullo schiavismo o quella europea sul fascismo e sul comunismo. Ogni cultura contiene in sé qualcosa di spaventoso, di vergognoso, ma questo non significa che non possa essere cambiata. In Iran, prima dell’avvento della Repubblica islamica, nessuno veniva lapidato. 

Sono molto arrabbiata e mi sono ripromessa che una volta lasciato l’Iran avrei parlato del silenzio a cui le donne sono costrette e avrei parlato per loro, costrette al silenzio. E avrei protestato per il modo in cui l’Occidente guarda alla cultura orientale. Il modo in cui i talebani trattano le donne non è la cultura pakistana. Tutti pensano che la loro sia una protesta nei confronti dell’Occidente, ma l’unica cosa conta per loro è togliere la libertà. Se io o qualsiasi altro artista chiediamo la libertà di scrivere, e di esprimerci, questo fa di noi degli occidentalizzati. È importante che le persone sappiano, che escano dall’ignoranza a cui sono costrette. Ed è per questo che ho deciso di accompagnare questo film anche se per me è strano fare il red carpet, muovermi in ambienti così diversi da quelli della letteratura. Ah, ieri alla presentazione del film ho conosciuto mio marito! (N.d.A.: dice riferendosi all’attore che interpreta Bejan, Arash Marandi). 

Anche se questo per me è faticoso, ci tengo a farlo, sento che devo farlo. Perché continua ad accadere qualcosa di spaventoso. Pensa a Germaine Greer, a quello che dice e scrive sull’infabulazione. 

ES: Germaine Greer, filosofa femminista australiana, soprattutto in un saggio intitolato The Whole Woman, ha proposto una tesi molto controversa, secondo la quale nella rigida segregazione di genere di certe culture mediorientali c’è più vitalità che nel modus vivendi della società occidentale. Portando la critica femminista dell’establishment medico a estremi assurdi: mentre denuncia pap test, medici della fertilità, screening prenatali e tagli cesarei, difende perversamente le mutilazioni genitali femminili come una pratica culturale di cui gli occidentali non hanno il diritto di parlare.

AN: Germaine Greer, che dice di essere femminista, pensa che una bambina di nove anni dovrebbe avere la libertà di farsi mutilare, come se fosse un fatto estetico, come un piercing o un tatuaggio, una questione culturale. Spenderò il resto della mia vita a parlare di questo, contro questa stortura.

ES: In La Repubblica dell’immaginazione racconta che, nel 2001, fece leggere ai suoi studenti un’inchiesta del «Washington Post» sulla sparizione de Il giovane Holden di Salinger dai piani di studio delle scuole superiori. Gli insegnanti intervistati dicevano che Holden Caulfield, il protagonista, in quanto maschio bianco privilegiato, non sarebbe stato interessante e utile da studiare per gli studenti che appartenevano a minoranze. I quali invece rispondevano dicendo che sì, Holden era diverso da loro, ma proprio per questo volevano leggere il libro. “Erano incuriositi da quel mondo diverso e apprezzavano il fatto che il romanzo offrisse uno scorcio sui suoi pensieri e le sue inquietudini”. Quanto conta nel suo lavoro il tema dell’altro, dell’ascolto, del comprendere le ragioni di chi è diverso da noi? 

AN: Moltissimo. Io penso che è un grande scrittore chi riesce a dare voce a tutti, ai buoni e ai cattivi. Una coscienza immaginativa sa mettere in scena tutti i personaggi. Ed è una benedizione poterlo fare. Esattamente come dovrebbe fare la democrazia: per combattere quello che riteniamo malvagio dobbiamo prima conoscerlo. Il totalitarismo è come un cattivo romanziere, che sovrappone la sua voce a quella di tutti i personaggi al punto che i personaggi diventano come pupazzi. Questo è quello che faceva l’ayatollah Khomeini, voleva trasformarci tutti quanti nei suoi pupazzi. Ci hanno provato, lui e i suoi compari, per più di quarant’anni, senza riuscirci. Quando parlo con gli amici rimasti in Iran, da una parte mi raccontano della guerra e della fame, dall’altra sento che non si sono mai arresi. Le donne continuano ad andare per strada senza il velo, sorridenti, contro ogni imposizione. Chi detiene il potere usa le armi contro queste ragazze, che rispondono ballando e cantando. Questo ha perso l’Occidente: la capacità di ballare e cantare per opporsi alle le armi e alla violenza. È per questo che sono innamorata dello slogan “Donna, vita, libertà” perché non riguarda solo la politica, ma la vita, la possibilità di poter vivere come si vuole. Questo è il messaggio che l’Occidente dovrebbe recepire: la democrazia non è facile, bisogna combattere per tenerla in piedi e questo è il momento di farlo. E questa è la cosa più moderna del mio libro, la libertà, le ragazze che danzano per imparare come si sentono i personaggi di Jane Austen quando danzano. Noi non abbiamo mai smesso di sorridere, questo è il messaggio. È questo che rende le donne iraniane potenti. Se le ragazze a Teheran continuano ad andare per strada, vuol dire che il regime piano piano sta cambiando. Il regime ha paura. Non possono ucciderci tutti. 

ES: Che rapporto ha con la parola “Persia”? Quando Benjamin Netanyahu ha annunciato l’allargamento del conflitto ha detto che sarebbero andati a liberare il popolo persiano, come volesse rifarsi a un tempo che precede quello della rivoluzione.

AN: Ho sentimenti diversi sull’uso di questo termine. La parola Iran è addirittura più antica della parola Persia. Inoltra Persia si riferisce a una specifica regione dell’Iran (Pars o Parsa è il nome di una provincia dell’Iran meridionale, Fārs, in lingua persiana moderna). Oltre al fatto che Persia è il nome che i greci diedero all’Iran (Secondo Erodoto il nome Persia deriva da Perseo, l’eroe mitologico). Capisco che gli iraniani siano fieri del loro passato, ma io non sono convinta che ci si debba sempre guardare indietro. In questo modo le cose non cambieranno mai.

Lo zoroastrismo, che aveva già smesso di essere popolare, essendo avversato dal regime adesso è stato recuperato. Il calendario iraniano, i nomi dei mesi, sono di origine zoroastriana. Il mio nome, Azar, significa “dicembre”, che è il mese in cui sono nata. Ma significa anche “fuoco”. Noi iraniani siamo in un rapporto di intimità col nostro passato, non è mai morto per noi.

Mio padre mi raccontava che l’Iran, invaso tante volte, tante volte ha modificato e adattato le sue usanze a quelle dei conquistatori. Ma ciò che costituisce davvero la nostra identità, ed è immodificabile, è l’amore per i nostri poeti. Le persone dietro le automobili hanno scritte prese da poesie celebri, molte strade hanno nomi di poeti, ai cui santuari si va a rendere omaggio. Gli ayatollah, all’inizio della rivoluzione, hanno deciso di cambiare i nomi delle strade. Prima hanno tolto i nomi dei re. Ma quando hanno deciso di abbattere le statue dei nostri poeti epici, come Omar Khayyam, la gente si è ribellata. Anche la rivoluzione ha dovuto arrendersi di fronte all’amore per i poeti. Questo sono gli iraniani, questa è la nostra cultura.

ES: Percival Everett ha scritto un romanzo intitolato James dove racconta le avventure di Huckleberry Finn dal punto di vista di Jim, lo schiavo coprotagonista del capolavoro di Mark Twain, dove peraltro usa la parola “nigger” perché la ritiene necessaria. Lei ha scritto un bellissimo saggio su Huckleberry Finn, in La Repubblica dell’immaginazione. Che effetto le fa, come si pone rispetto alla polemica sulla N word?

AN: Mi fa molto arrabbiare chi critica Mark Twain. Quello che penso è che Mark Twain usa quella che ormai chiamiamo la N word per condannare la schiavitù. Nel romanzo non c’è violenza fisica, non vediamo mai Jim picchiato: la violenza sta tutta in quella parola. C’è una scena nel romanzo in cui Huck si interroga su quello che deve fare, se deve o no consegnare la lettera con le istruzioni per rintracciare Jim, il suo amico che è scappato e si è nascosto. Mi piace moltissimo il modo in cui ragiona, sull’amico, sulla giustizia, e alla fine si decide a strapparla. Decide di andare all’inferno, pur di fare la cosa giusta. E io mi chiedo: quanti di noi sono disposti a fare la cosa giusta, sapendo che finiranno all’inferno?

In una parola Huck Finn è uno dei più importanti romanzi contro la schiavitù. La schiavitù è una cosa orrenda, non può essere addolcita sostituendo le parole più divisive o violente. Un editore aveva proposto di cambiare la parola nigger con la parola slave. Ma questo farebbe cadere tutto. La proposta di sostituire la parola nigger con la parola schiavo è insensata, perché è proprio la parola nigger che è carica di tutto quel dolore, dell’oppressione contro i neri. Io penso che è un grande scrittore chi riesce a dare voce a tutti, ai buoni e ai cattivi. Una coscienza immaginativa sa mettere in scena tutti i personaggi. Ed è una benedizione poterlo fare.

ES: È diventato complicato leggere Lolita di Nabokov nelle università degli Stati Uniti?

AN: Ne ho discusso spesso. Nabokov viene criticato perché avrebbe giustificato un pedofilo trasformandolo in un poeta, dando al protagonista Humbert quel meraviglioso linguaggio così ricercato. Ma non è così. Una persona può essere un grande poeta e insieme un essere disgustoso. I mostri non si presentano con la coda e le corna dicendo ciao, sono un mostro. Pensi agli ayatollah, che si sono presentati come guide spirituali. Lolita è il libro più ostile alla pedofilia che abbia mai letto. Il cuore del lettore sanguina per Lolita. Si ricorda quella scena in cui Humbert dice che Lolita torna tra le sue braccia perché non ha nessun altro posto dove andare? È solo una bambina. Le critiche sul fatto che lei sia consenziente mi ricordano chi dice che quello che fa la Repubblica islamica appartiene alla nostra cultura, colpevolizzando le vittime. Humbert è un esempio perfetto di mente totalitaria, non le permette di vivere, plasma Lolita e la trasforma in una creatura della sua immaginazione, ed è per questo che ho scelto questo libro per il mio corso e non un libro più evidentemente anti-totalitario. Perché questo fa la letteratura: per raccontare una mente totalitaria non usa Khomeini o Stalin ma un poeta.

ES: Lei conosceva bene Christopher Hitchens, e lui aveva amato molto il suo libro. Come lo ricorda?

AN: Era una persona gentile, coraggiosa. Non ero sempre d’accordo con lui, ma ammiravo la sua passione. Per esempio credo che la sua posizione, decisamente a favore, sulla guerra in Iraq fosse sbagliata. Ma il modo in cui scriveva, si batteva, parlava, erano insuperabili. 

ES: E aveva un’idea profondamente laica della società. Lo stato e la religione devono essere due cose separate, come si dice anche nel suo libro.

AN: Assolutamente. Questo è centrale, nel libro e nel film. Io ho sempre chiamato l’Iran “l’unione sovietica del mondo musulmano”. È la prima moderna teocrazia, come il comunismo staliniano e la Corea del Nord di Kim Jong-il, il padre dell’attuale dittatore, alla quale l’Iran guarda ancora con favore. Anche nel mondo musulmano esiste una dissidenza, ci sono ayatollah che non sono affatto d’accordo con l’idea di una sovrapposizione totale di stato e religione. Ma le loro voci vengono messe a tacere. Così come ci sono donne che vogliono indossare il velo. L’obiettivo è che a nessuno venga imposto come comportarsi.

ES: Nel film la protagonista, rivolgendosi alla sua classe, a un certo punto dice: In English please, rivolgendosi ai maschi che si ostinano a parlare in farsi. Cos’è l’inglese per lei, e cos’è per gli iraniani.

AN: Scrivere in inglese, che per me è una seconda lingua, mi dà un’enorme libertà. Non sento più mia nonna alle spalle che dice «no, no». In inglese posso essere pazza quanto voglio. Nabokov è un bugiardo, e ci mente quando dice che in russo non riusciva a scrivere. Ma le cose più belle sono comunque quelle che ha scritto inglese, tirando fuori forme, luci, sfumature da una lingua che non era la sua. 

La cosa interessante è che gli immigrati portano e porteranno sempre uno sguardo diverso sulla lingua, tirando fuori cose nuove. Ti consentono di vedere te stesso sotto attraverso il loro sguardo, e quindi in maniera diversa.

Mi piace scrivere e leggere in inglese. Ma leggere in persiano, i poeti persiani, mi spezza il cuore, ogni volta. È una sensazione diversa. Quando voglio spiegare cosa sia la Persia parlo dei poeti, la spiego con le loro parole. Come è possibile che un paese che ha creato poeti tanto incredibili, poi abbia creato anche quegli incredibili mostri?

(*) Elena Stancanelli è scrittrice, giornalista, conduttrice radiofonica. Il suo ultimo libro è Il tuffatore (La Nave di Teseo, 2022).

Da Doppiozero – La necessità di contribuire alla fuoriuscita dal caos cognitivo in cui tutto il mondo è precipitato, ha suggerito a due filosofe femministe, del calibro di Adriana Cavarero e di Olivia Guaraldo, di portare un contributo imprescindibile alla chiarezza e all’assunzione di responsabilità soggettiva nel momento in cui si sceglie per quale causa lottare. La causa per cui, nel travaglio contemporaneo, si impone il loro libro Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), (Mondadori, Milano 2024) ha molti motivi. Tra i più urgenti quelli che occupano il dibattito pubblico, non solo italiano, e che riguardano soprattutto i rapporti tra i sessi, i generi, la maternità, le famiglie, le richieste delle minoranze sessuali, le neolingue, il linguaggio impreciso che, ad esempio, inventa “persona che mestrua” per evitare di dire donna. Parecchie recensioni hanno messo a fuoco l’importanza del libro nell’affrontare temi cruciali come il femminicidio e la violenza contro le donne.

Oppure l’intersessualità che contesta il cosiddetto binarismo maschio-femmina, come fanno anche le identità trans-sessuali. È molto importante l’affondo sull’equivoco prodotto dall’uso eccessivo di gender, tradotto come “genere”, una parola che prende la scena in ogni contesto senza che si sappia veramente cosa significa: «(per il pensiero della differenza) la distinzione tra genere e sesso è secondaria, anche perché ciò che si intende per genere è spesso sostituibile con la categoria di stereotipo culturale» (p.11). Il lavoro di chiarificazione espande il testo delle autrici fino a coprire tutto il campo dell’aspra discussione contemporanea: ad esempio, nel capitolo intitolato “Sesso e genere”, Cavarero e Guaraldo hanno la possibilità di dare ampia voce a Judith Butler, la più famosa teorica del gender, che imposta le sue proposte a livello di «regimi discorsivi che intendono produrre la verità sui sessi e sulle loro differenze» (p. 120). Butler, scrivono le autrici, non lavora sui dettami misogini del patriarcato, ma propone di concentrarsi sulle «ingiunzioni di quella che, riprendendo Adrienne Rich, Butler chiama matrice eterosessuale o eterosessualità obbligatoria […] stabilendo quindi ciò che è normale e ciò che non lo è» (p. 124).

Nel cruciale capitolo “Maternità surrogata. Corpi in vendita?”, si può vedere come sia questo il campo in cui infuria maggiormente la “lotta per il linguaggio”, e nel quale, ancora una volta, si provi a cancellare l’esistenza delle madri proponendo di chiamarle portatrici gestazionali: «È questo forse il sintomo più mostruoso di una terminologia che deve fare i conti con uno stravolgimento del concetto stesso di maternità, ora frammentata in più corpi di donna, dall’assemblaggio delle cui funzioni organiche nasce un bambino che è figlio di terzi (p. 165)».

Dal mio punto di vista di filosofa femminista coinvolta, trovo decisivo assumere l’impegno del libro riportato in quarta di copertina: «Il femminismo della differenza sessuale non intende affatto definire in maniera rigida e stereotipata il femminile, anzi, ne vuole liberare le potenzialità espressive, esaltandone la libertà». Bisogna rendersi conto dell’urgenza con cui è presentato il compito dal libro, un’urgenza che deve farsi largo tra le più drammatiche del nostro tempo non certo privo di pericoli radicali: la divenuta precaria presenza nell’agonica cultura del presente dell’autorevolezza del femminismo, sostengono le autrici. Il femminismo si è certamente diffuso tanto da moltiplicare le sue declinazioni e da obbligare a dire che ormai esistono parecchi femminismi.

La diffusione, da un lato, è un bene, poiché significa l’irreversibilità della rivoluzione mondiale delle donne che fa accedere a un senso comune della libertà femminile; dall’altro lato può anche significare perdita di qualità e di pensiero profondo, significato come “espressività” dalle autrici, cosicché la “libertà” può declinarsi facilmente in una generica richiesta di diritti o, ancor peggio, può indurre a rendersi complici dei consumi culturali che il neoliberismo propone di continuo, sfruttamento dell’ondata queer compresa. In un momento storico in cui si gioca quasi tutto sulla scena mediatica, in cui l’appello ai diritti è sostenuto dall’individualismo identitario che ha forgiato la cultura europea-occidentale, in cui la scientificità ha abbandonato l’insegnamento, la formazione, la cultura umanistica stessa, il confronto tra posizioni, il moltiplicarsi dei femminismi, e la conseguente difficoltà a unirsi in lotte comuni urgentissime, tutto questo sta producendo quasi una rimozione della presenza vivificante del pensiero e delle pratiche della differenza sessuale.

«Il (vocabolario pubblico) è in perpetuo accrescimento strutturalmente equivoco, e i singoli termini, assumono un significato diverso a seconda dello schieramento politico e culturale di chi li usa (p. 7)». Non è solo per questo che si è persa la scientificità del pensare e dell’agire (una perdita incalcolabile nel campo dell’istruzione e della formazione delle giovani generazioni), ma si è persa generalmente anche nel compito fondamentale di un filoso-fare degno di questo nome: saper leggere la realtà per come è, «le cose per ciò che esse sono». E non è stata solo la fenomenologia di inizio ’900 e reindirizzare così la ricerca filosofica, lo è stata ancor di più e differentemente la ricerca filosofica delle pensatrici del secolo scorso (Weil, Murdoch, Arendt, Lonzi, Zambrano, Lispector, Irigaray…) che hanno forgiato la loro offerta di discernimento, di coraggio di fronte alla realtà, di rivoluzione filosofica improntata dal segno differente del loro pensiero di donne. Oggi sarebbe il momento di ripristinare quella che un tempo si chiamava “onestà intellettuale”, e di ribadire che c’è ignoranza nel mondo della cultura e dell’insegnamento dove si è installata una certa mancanza di scientificità. Le letture della realtà che prescindono pervicacemente dalla differenza sessuale sono astratte e troppo imprecise.

Le rimozioni del materno, quindi delle origini concrete di ogni essere umano, e del fatto che anche le donne fanno filosofia eccellente, ribadiscono le autrici, hanno creato all’interno della filosofia stessa, che ha a sua volta creato la cultura occidentale dicotomica, la differenza sessuale negativa «tradotta in inferiorità femminile», dunque hanno imposto la caduta verticale della capacità scientifica di presentare letture aderenti alla realtà così com’è raccontata, almeno, dalla Rivoluzione francese in poi, come pervasa dall’utile metafora dell’uguaglianza. Tanto che le autrici si interrogano sulla probabile incompatibilità tra democrazia moderna ugualitaria e esistenza concreta della differenza femminile, genealogicamente capace di praticare politicamente la «soggettività relazionale e anti-individualista» (p. 136).

A questo punto, come ringraziare adeguatamente Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo per il contributo che stanno dando al cambio di civiltà in corso, nel quale, se lo vogliamo accompagnare, non si potrà più ignorare l’autorità del pensiero della differenza sessuale?

Da la Repubblica – Scrittrice sassarese, di sé lascia pochissime tracce biografiche, muovendosi sempre ai limiti del canone. Collabora con il cinema di Fellini e Zavattini e consegna alla storia del costume indimenticabili istantanee di personaggi letterari e no. E due romanzi che hanno per protagoniste donne, amiche, sorelle.

Nel discorso sempre molto frequentato sul canone letterario, il crinale più interessante negli ultimi tempi non è tanto la distinzione tra ciò che è canone (o lo è stato o forse lo sarà) e ciò che non lo è, ma la galassia scivolosa e multiforme di quegli autori che vivono un’esistenza indifferente e parallela ai parametri, e in quella zona, solo in apparenza opaca, trovano a volte un’originale forma di fortuna. Appartiene a questa genìa Leila Baiardo, scrittrice sarda di cui si rintracciano poche notizie biografiche e ancor meno fotografie, che la ritraggono quasi tutte da anziana, negli ultimi anni della sua lunga vita conclusasi qualche anno fa. On line è difficile scoprirne la data di nascita, le bandelle dei suoi romanzi la omettono (un vezzo adorabile) e il canone l’ha ignorata: le scarne notizie su di lei riportano perlopiù informazioni filtrate da lei stessa.

Nata a Castelsardo, vicino Sassari, dopo la maturità classica si sposta a Roma, dove inizia a collaborare con le maggiori riviste letterarie della sua epoca, tra cui Noi donne e Nuovi Argomenti, occupandosi di interviste e recensioni. Nel 1976 pubblica con Bompiani L’inseguimento, proposto all’editore da Cesare Zavattini, con il quale all’epoca l’autrice collaborava nella stesura di soggetti per il cinema. Il romanzo ha un buon riscontro di critica, Leila Baiardo è piuttosto conosciuta nell’ambiente letterario e cinematografico, lavora con i fratelli Taviani e, sette anni dopo il suo esordio, vince il Premio Noi Donne con il romanzo Sogno d’amore. Risalgono a quegli anni i suoi ritratti di poeti e scrittori oggi raccolti nell’antologia Incontri, pubblicata per la prima volta in formato elettronico nel 2010 da La Recherche e oggi disponibile in cartaceo nel catalogo delle Commari, piccola e attivissima casa editrice indipendente che di Baiardo sta curando l’opera omnia e la riscoperta. Incontri è un libro fresco e spigolosamente sincero, ideale per fare la conoscenza del personaggio, prima ancora che dell’autrice: in queste pagine gli intellettuali vengono fotografati con una libertà che può apparire disarmante nell’eccesso di sussiego al quale oggi siamo abituati. «Devo dirlo subito e poi spararmi. Era una donna antipaticissima» scrive Baiardo di Elsa Morante. E di Jolanda Insana: «Un’altra antipaticona (quasi quanto la Morante) ma una buona poetessa». Amelia Rosselli «era intelligentissima e contemporaneamente stupida e pazza. Forse più pazza che stupida. Ma non è un giudizio e tantomeno una diagnosi. Anch’io sono pazza. E a volte anche stupida». Leila Baiardo ricorda poi le lunghe quasi oniriche conversazioni con Sandro Penna e i suoi guai con i ragazzini di cui si invaghiva e che portava nella casa dove viveva con la madre, l’affabilità affettuosa di Federico Fellini, il dialogo fulmineo e ricco di presagi con Anna Proclemer.

Sempre, la notizia delle morti di questi conoscenti la coglie anni dopo, quando è già lontana dai loro mondi e appartata, quasi isolata, tanto che si ritrova a fare le condoglianze a sé stessa, celebrando a ogni addio un altro pezzo della fine del suo mondo. In questo librino irresistibile l’autrice mette insieme con audace disinvoltura Antonio Delfini e Mike Bongiorno, Topazia Alliata e Fred Buscaglione, il tutto introdotto da un’accorata prefazione di Elio Pecora, che per Leila Baiardo, «donna molto singolare e con un’esperienza di vita assai varia », si augura un destino preciso: «Vorrei tanto che toccasse a Leila, anche se con troppo ritardo, l’attenzione che merita dalla famiglia ampia e composita di chi cerca nella narrativa la qualità e il piacere, la complessità del reale e la leggerezza del sogno».

Il lavoro della casa editrice Le Commari raccoglie questo augurio.

La santa e Dies Illa, i due romanzi in catalogo, giocano sulla stessa schiettezza di scrittura, sulla stessa fresca ironia, ma qui il registro è alto, non più di costume si tratta ma di opere di valore letterario, che rielaborano ritagli di vissuto dell’infanzia e dell’adolescenza per restituirli in forma narrativa. In Dies Illa, esplicitamente ambientato a Castelsardo, le protagoniste sono Ela e Mira, al secolo Electa e Mirìce, sorelle adolescenti, molto diverse fra loro: attraverso le loro vite possiamo leggere il cambiamento epocale della Sardegna negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’isola fu travolta dall’arrivo del turismo e i sogni di tutti offuscati dal miraggio del benessere. Anche La santa ha per protagoniste una coppia di ragazze, stavolta cugine: una delle due, la più capricciosa e stupida, ma forse invece la più illuminata, costruirà intorno a sé un’aura mistica, raccontando di avere delle visioni e ritirandosi sempre più a una vita mortificata: il filo esile che tiene insieme egocentrismo e santità viene tenuto magistralmente dall’autrice fino alle ultime pagine.

Abbiamo iniziato la conoscenza di Leila Baiardo premettendo una sua estraneità al canone, è vero. Eppure, di Dies Illa Toni Maraini ha scritto: «C’è qualcosa di antico in questo libro, un pathos che evoca i grandi romanzi del Novecento». Inoltre, Baiardo figura tra le cinquanta scrittrici della mitica antologia Il pozzo segreto, pubblicata da Giunti nel 1993, accanto a nomi come Natalia Ginzburg, Goliarda Sapienza e Maria Bellonci. Forse il canone è più imprevedibile di quanto pensiamo. Forse l’augurio di Elio Pecora si sta segretamente avverando. Forse possiamo solo godere di una scrittura interessante e disinteressata a vendite e promozioni, lasciando ad altri la costruzione dei totem editoriali.

Da il Corriere della Sera – Capita che a un incontro pubblico, in qualche titolo di giornale, in una discussione privata, ci sia qualcuno che a un certo punto dica: ci sono anche donne che uccidono uomini però non se ne parla mai. A parte il fatto che non è vero; le rare volte che succede se ne parla eccome. Ma quello che risulta fastidioso è la tracotanza di chi accende un faro sulle (pochissime) storie di violenza femminile convinto che sia giusto dare a quella violenza la stessa rilevanza che meritano – tutti assieme – i casi di uomini che si accaniscono contro le donne. Che poi: quando parliamo di violenza contro le donne spesso evochiamo unicamente il femminicidio ma come sappiamo c’è molto altro. C’è la violenza economica, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto quando ci sono di mezzo dei figli. C’è la violenza psicologia, sottile e tagliente come lama di coltello. E ci sono moltissime donne che portano i segni della brutalità del partner: lividi, fratture, lesioni di vario genere non di rado gravi o gravissime.

Nel libro “Il futuro mi aspetta” (Feltrinelli Up) scritto a quattro mani con Daniela Palumbo, Lucia Annibali racconta del suo “dopo”. Dopo l’acido in faccia ordinato per lei dal suo ex e dopo il tempo della sofferenza fisica, del processo. In quel dopo ci sono anche gli incontri con i ragazzi nelle scuole e le domande più frequenti che le rivolgono. Una, definita «ricorrente» e «inquietante», e che in genere viene dalla voce di un ragazzo, è proprio quel «perché si parla sempre di violenza sulle donne e mai viceversa?». Lucia scrive che «è un quesito terribile che svilisce la cura e la fatica del mio racconto». E aggiunge che «è anche capitato che a questa domanda seguissero applausi di gruppi di studenti presenti… Quando succede ci resto male. Mi sembra una provocazione e dunque un’occasione sprecata».

Per quanto scoraggiante sia la domanda, la risposta è facile ed è nei dati. Donna uccisa = movente da cercare in una relazione intima, quasi sempre. Uomo ucciso = moventi vari, quasi mai legati a una relazione intima. Certo, poi sarebbe necessario andare alla radice del problema, e cioè alla domanda – questa sì – che bisognerebbe farsi: da dove arriva l’incapacità di accettare un abbandono che fa scegliere ai più violenti la morte di lei piuttosto che la vita senza di lei?

Da il manifesto

Le carte dell’autrice di «Sputiamo su Hegel», saggista e critica d’arte verso una nuova sede

L’Archivio Carla Lonzi arriva alla Fondazione Basso. Si apprende da una nota del centro di ricerca romano di via della Dogana Vecchia, con cui è stata annunciata la nuova sede delle carte della femminista, saggista e critica d’arte italiana, dopo che pochi giorni fa Battista Lena, figlio di Lonzi e proprietario del Fondo, ha firmato il contratto di comodato.

Cinque mesi fa, la direzione della Galleria nazionale (ovvero Renata Cristina Mazzantini) aveva infatti sospeso anzitempo il comodato tra lo stesso Lena e la Gnam che nel 2017, per volontà dell’allora direttrice Cristiana Collu, avviava il primo riordino delle carte. La ritirata aveva suscitato, legittimamente, non poche perplessità e richieste di chiarimento tra cui una interrogazione parlamentare di Luana Zanella (Avs) al Mic per domandare, insieme alle ragioni per cui non fosse stato chiesto a Battista Lena di donare il fondo preferendo l’interruzione dei rapporti con tre anni di anticipo, che lo stesso archivio potesse diventare «Bene Culturale, rappresentando esso rilevante interesse artistico, storico, archivistico e bibliografico» (ne avevamo scritto su queste pagine il 30 maggio, ndr).

Ora, insieme alla buona notizia della nuova dimora che ospiterà le carte di Carla Lonzi, il cui prezioso inventario, a cura di Marta Cardillo, con la collaborazione di Lucia R. Petese, il coordinamento di Claudia Palma e la consulenza scientifica di Annarosa Buttarelli è consultabile nel sito della Gnam, sappiamo che il destino dell’autrice di Sputiamo su Hegel non sarà la dispersione. Potrà invece essere consultato da studiose e studiosi nella sede storica della Fondazione Lelio e Lisli Basso, che oltre a conservare quasi 90 fondi archivistici e un indiscutibile prestigio, nel 2015 aveva organizzato con il Centro Riforma dello Stato un ciclo di tre seminari proprio intorno alla figura di Carla Lonzi declinando tre parole cruciali: politica (con gli interventi di Maria Luisa Boccia e Ida Dominijanni), arte (con Laura Iamurri e Maria Antonietta Trasforini) e profezia (con Gaia Leiss e l’indimenticata Rosetta Stella).

«Sono felice che l’archivio di mia madre trovi la sua collocazione alla Fondazione Basso, che l’ha accolto con entusiasmo», dichiara Battista Lena, che accenna a «nuovi e interessanti materiali» del fondo per cui, nel luglio di quest’anno, la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio ha avviato la procedura per la dichiarazione di interesse storico.

Tra i lasciti più grandi di Carla Lonzi vi è il lavorio mai esausto nel solco della libertà femminile, capace di generare simbolico ancora oggi. Ecco spiegate le numerose – e fortunate – iniziative intorno al suo nome, alla produzione – sua e di Rivolta femminile – e alla sua esperienza, multiforme se consideriamo quanto ancora riesca a interrogare generazioni di donne assai diverse, non solo anagraficamente. In questa direzione si legga, per esempio, la recente ripubblicazione da parte de La Tartaruga della sua opera completa, come anche i convegni, le mostre, le discussioni pubbliche riguardanti i suoi testi, che hanno il pregio di saper parlare al presente. Del resto si tratta di un’eredità d’amore senza testamento.

Da il manifesto

Morta a novantasette anni una delle più straordinarie figure della musica americana. Comunista e protagonista della stagione di lotte dei ’60 e degli anni seguenti

Mi raccontò una volta Barbara Dane: «Quando decisi di rinunciare a un tour mondiale con Louis Armstrong per dedicarmi alla canzone di lotta e ai movimenti contro il razzismo e la guerra, il mio ormai ex manager mi disse: che peccato, potevi essere la nuova Janis Joplin! E io gli risposi: però io sono viva!».

Barbara Dane è rimasta una voce viva e irresistibile fino all’inizio di questa settimana, quando ci ha lasciati all’età di novantasette anni intensi, creativi, generosi.

È stata una delle più straordinarie voci della musica americana dagli anni ’50 fino ad oggi; ed è stata una protagonista della stagione di lotte degli anni ’60 e della ostinata resistenza nei decenni seguenti – e forse proprio per questo relativamente, e ingiustamente, poco conosciuta.

Solo nei suoi ultimi anni ha ricevuto un po’ dei riconoscimenti che meritava.

Fino a poco tempo prima di morire faceva ancora seguitissimi concerti blues a San Francisco, Berkeley e dintorni, aveva appena pubblicato una coinvolgente autobiografia, era uscito un film su di lei e un cd di blues con la pianista Tammy Hall e un doppio cd antologico di tutti i suoi settant’anni di carriera di grande musicista e di insopprimibile militante.

Era nata nel 1927 da una famiglia proletaria in un quartiere operaio di Detroit. Era bianca, bionda, occhi azzurri. Nel 1959, Ebony – la rivista che sta al pubblico afroamericano come Life sta al resto d’America – le dedicò un articolo di sette pagine – «Bianca e bionda, tiene vivo il blues» – in cui la riconosceva come la vera erede di Bessie Smith. Incideva per majors discografiche, faceva musica con i maggiori bluesmen e jazzisti afroamericani, da Earl “Fatha” Hines a Lightnin’ Hopkins. Ma aveva un difetto: era comunista. E lo è rimasta fino alla fine.

Quando ho saputo della sua morte, ho pensato a che cosa scrivere qualcosa per ricordarla. Ma mi sono accorto che l’incipit che mi era venuto in mente era esattamente lo stesso che avevo usato pochi mesi fa per Giovanna Marini. Perché Barbara era sia molto diversa da Giovanna, sia anche un po’ come lei: come lei, amava la musica che faceva e aveva una voglia inesausta di condividerla.

Così, anche lei, una sera, dopo cena a casa sua, prese la chitarra e mi disse, ti va se suono qualcosa? E mi cambiò la vita.

Una delle canzoni che suonò per me (e per il mio registratore, fortunatamente acceso) era I Hate the Capitalist System – odio il sistema capitalistico – scritta negli anni ’30 da Sara Ogan Gunning, moglie e figlia di minatori di Harlan County, Kentucky. Fu quella registrazione che mi ha aperto gli occhi sulla profondità della lotta di classe negli Stati Uniti e mi ha spedito a trascorrere trent’anni a cercare di raccontarla facendo storia orale a Harlan.

Barbara diventò un punto di riferimento nel mondo del folk revival, partecipò ai folk festival di Newport, incise un disco di canzoni popolari (Anthology of American Folk Song, 1959) e continuò a fare blues.

Ma a mano a mano abbatteva le separazioni dei generi musicali: il suo ultimo disco blues prima del cambio di carriera già includeva un classico di Pete Seeger, The Hammer Song; e in un memorabile album col gruppo soul dei Chambers Brothers (1964) entrano tutte le canzoni del movimento dei diritti civili, gospel e soul riversati in note di lotta.

Nel frattempo – quando per i cittadini statunitensi era ancora vietato – aveva partecipato al festival della Canción Protesta a Cuba ed è rimasta legata all’isola per il resto della sua vita (suo figlio Pablo Menéndez è rimasto a Cuba e col suo gruppo Mezcla è una delle voci più innovative e intelligenti della musica cubana contemporanea).

Come Giovanna Marini, come Violeta Parra, anche nei suoi anni più militanti Barbara non dimenticò mai di essere in primo luogo una musicista. Però il tempo premeva, c’era il Vietnam, c’erano le rivolte urbane afroamericane, nasceva il nuovo femminismo, e fare musica era inseparabile dal fare politica e fare cultura. Così andò a cantare, e a inventare e insegnare canzoni contro la guerra, davanti alle basi militari, creando luoghi di incontro (le GI coffee houses, i caffè dei soldati) dove i militari contro la guerra potevano incontrarsi e organizzarsi.

Insieme col suo compagno Irwin Silber (altra voce della sinistra comunista, fondatore e direttore per anni della storica rivista Sing Out!) creò un’etichetta discografica militante che fece conoscere musica e voci di tutti i movimenti antirazzisti e anticoloniali, da Haiti a Porto Rico, dall’Irlanda alle Black Panthers – e persino, in collaborazione coi Dischi del Sole, una antologia di canzoni di lotta italiane, intitolata naturalmente Avanti popolo!).

L’album più significativo che pubblicò in quegli anni (e che ripubblicammo coi Dischi del Sole) si chiamava, naturalmente, I Hate the Capitalist System.

Le registrazioni di quella sera a casa sua, e altre – con lei e con altri musicisti che mi aveva fatto conoscere – erano confluite in un album, L’America della contestazione (Dischi del Sole, 1969), e le abbiamo ristampate e arricchite di recente in un’altra raccolta (We Shall Not Be Moved, Squilibri 2020).

Da lì, un paio di brani sono stati prelevati addirittura nella colonna sonora dell’Alligatore, la serie tv tratta dai romanzi di Massimo Carlotto).

Riuscimmo a far invitare Barbara alla festa dell’Unità nel 1972 e nel 1973; fino ad anni 2000 inoltrati le sue tournée europee includevano sempre tappe a Roma ospitate dal Circolo Gianni Bosio.

Ma il momento che ricordo di più è quella sera, credo nel 1973, che organizzai di farla incontrare coi compagni del manifesto nella storica sede di via Pomponazzi. Cantò un po’ di cose, ma a lei e ai compagni interessava soprattutto parlare di politica.

Così, uno dei nostri le chiese: quali fossero i movimenti più importanti in quel momento negli Stati Uniti. E lei disse: il movimento delle donne. Ricordo ancora lo sconcerto nei visi dei compagni (quasi tutti maschi): non ci avevano ancora pensato.

Se devo pensare a una canzone che tiene insieme tutta la vita e l’opera di Barbara Dane, non penso tanto a I Hate the Capitalist System, quanto a un blues degli anni ’20, di Ida Cox: Wild Women Don’t Get the Blues – che traduco sempre con “alle cattive ragazze non viene il blues”. Barbara la cantava già in uno dei suoi album degli anni ’50, l’ha cantata al concerto che organizzammo col Bosio a Roma alla Locanda Atlantide nel 2001 e c’è in We Shall Not Be Moved.

Barbara era wild a modo suo: non sfrenata, neanche tanto esibitamente trasgressiva; ma sempre oltre il confine della rispettabilità, del conformismo, del prevedibile, del subalterno.

Anche per questo, quando più di mezzo secolo fa alla sua porta si presentò uno sconosciuto e ingenuo viandante italiano, lo accolse, lo ospitò, gli regalò musica e gli aprì strade e visioni. Indimenticabile.

Da il manifesto – In queste settimane, sono usciti due libri che dietro un tono lieve, divulgativo, nascondono strutture robuste e uno scomodo interrogarsi: sono libri diversi, ma entrambi si rivolgono alle nuove generazioni per un confronto su cosa significhi essere oggi ragazza, donna, femminista. Uno è Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) pubblicato da Mondadori e firmato dalle filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo (pp. 216, euro 18,50); l’altro Contrattacco! Ribellarsi e difendersi dalla violenza maschile scritto per Sperling&Kupfer (pp. 256, euro 14,90) dalla giornalista Paola Tavella e illustrato dalla fumettista Teresa Cherubini (che ragazza lo è ancora). Escono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, interpretando un desiderio femminile collettivo, non troppo sotterraneo, di parlarsi fra donne rompendo il puro dato anagrafico. Entrambi si rivolgono alle ragazze contemporanee con uno spessore che li rende godibili a ogni età, ed entrambi hanno cura di tenere la porta aperta perché circoli aria fresca nella doppia direzione dell’ascolto reciproco: possiamo ammirare la libertà che nuovi corpi e voci stanno portando in strada e in rete, e insieme riconoscere altre esperienze e non cancellare segmenti fondamentali della nostra storia.

Tutti e due i libri scelgono una seconda persona che chiama sulla pagina le giovani lettrici, e tutti e due scansano la forma funerea e saccente del lascito, preferendo piuttosto configurarsi come intersezioni vive, accese e scomode. Tutti e due affrontano temi divisivi come la maternità surrogata (Donna si nasce) e la gestione femminile del denaro e del potere (Contrattacco!) cercando una necessaria distanza dalle soluzioni più ammiccanti della divulgazione massificata. Pur presentandosi come manuali, divergono nella forma: piacevolmente eccentrica, la prosa di Tavella che esorta alla consapevolezza del proprio e della propria forza materiale e magica viene completata dalle incursioni fumettistiche di Cherubini, mentre Cavarero e Guaraldo, con sapienza e arte di sintesi, decostruiscono gli slogan confusi che funzionano come sirene vuote per un femminismo di superficie. Se l’Adrienne Rich di Nato di donna e la Simone de Beauvoir del Secondo sesso insieme a Carla Lonzi fanno da comune sostrato, l’analisi di Donna si nasce saccheggia la poetica di scrittrici come Clarice Lispector ed Elena Ferrante e si confronta criticamente con il pensiero di Judith Butler, mentre Contrattacco! ricorda alle ragazze il lavoro di Elena Giannini Belotti e i passi in avanti di bell hooks. Pur presentandosi in vesti editoriali snelle, questi due libri ci ricordano che essere femministe implica una, a tratti sgradevole, postura di libertà, un continuo sforzo di luce e chiarezza.

Nascere donne è un fatto, la cui coscienza è una strada accidentata tutta da percorrere, una strada in cui cultura e biologia non sono avversarie l’una dell’altra, come oggi va di moda sostenere. «La differenza sessuale innanzitutto è un fatto», scrivono Cavarero e Guaraldo, «nella specie umana, così come in molte altre specie viventi, le femmine e i maschi hanno caratteristiche anatomiche e quadri ormonali differenti. Avremmo potuto dire un fatto biologico, se non fosse che il fatto della differenza sessuale viene registrato, interpretato e valutato da tutte le culture di cui abbiamo una documentazione storica fin dall’antichità, ovvero in tempi in cui la biologia non era ancora nata e ben poco si sapeva dei codici invisibili che fanno funzionare i corpi». Anche la cultura ha le sue trappole, ricorda Tavella: «Veniamo educate a farci benvolere, a non disattendere le aspettative degli altri, a sorridere anche quando vorremmo piangere, a non essere mai scostanti, a non fare capricci, a essere carine», e ancora: «Il manuale della femmina adorabile è infarcito di istruzioni sull’arrendevolezza, remissività, pazienza, dolcezza, paura, oltre che di consigli subdoli, tipo: se sorridi sei più bella». Essere arrabbiate è vietato, sottolinea Contrattacco!, che indica chiaramente in questa zona rossa la neutralizzazione maschile della possibilità per le donne di difendersi e di conoscere e gestire le proprie emozioni. L’industria del fitness che oggi spopola insegna un controllo sul corpo dedicato alla bellezza e alla perfezione piuttosto che alla consapevolezza, al mito dell’invincibilità piuttosto che alla conoscenza e all’utilizzo strategico dei propri limiti.

Uno dei nodi più interessanti di Contrattacco! riguarda proprio questo tipo di esplorazione personale, che ha che fare con la forza anche se viene spacciato per debolezza: conoscere i propri confini non significa difettare, ma sapere quali zone di noi sono inviolabili, e imparare a difenderle. In queste pagine, i disegni di Teresa Cherubini mostrano due esercizi a metà tra corpo e spirito, derivati dal percorso yogico di Tavella, che insegnano non solo alla nostra parte cosciente a dire no, che si tratti di una molestia o una proposta più melliflua, o semplicemente qualcosa che non desideriamo ricevere. Se fissiamo confini troppo stretti rischiamo l’asfissia, se troppo ampi non avvisteremo chi vuole travalicarli a forza: per trovare la nostra dimensione dobbiamo, innanzitutto, prendere contatto con noi stesse, tutte intere. Altro che disprezzo della biologia: è attraverso il corpo che sappiamo chi siamo, come ricordano Cavarero e Guaraldo: «La corporeità e i suoi dati elementari, il nostro esser corpo non solo eretto ma sessuato nella differenza, svolgono un ruolo decisivo in quella piena capacità di significazione, altrimenti chiamata linguaggio, che caratterizza la specie umana rispetto alle altre specie animali».

Siamo corpi, dunque, e attraverso la nostra postura, il nostro passo, i nostri movimenti ci definiamo. Lo sanno le ragazze che attraversano le strade al buio e che chiedono oggi, a gran voce, di riprendersi la notte: è una richiesta del corpo, dello spazio che ci è concesso occupare. Lo sanno attraverso la maternità, come figlie o come madri, le donne che fanno l’esperienza di «espellere un frammento vivo del proprio corpo, e di sentirsi figlia come frammento di un corpo intero e ineguagliabile» (la citazione di Elena Ferrante viene riportata dalle filosofe in Donna si nasce, libro che ha, fra gli altri, il non comune merito di parlare di uteri gravidi non come se fossero un difetto o un dettaglio da rimuovere). Sappiamo di essere corpo e allo stesso tempo sappiamo di non essere soltanto corpo: se come femministe decidiamo di abitare questa contraddizione senza forzarla da una parte o dall’altra, senza cedere alla facile tentazione di scioglierla, ci costringeremo a sguardi diversi, a volte sorprendenti, moltiplicando le possibilità di approccio alla vita e aumentando in noi la difesa dalle trappole meno esplicite del maschilismo e del patriarcato. Scrive Tavella: «I corpi femminili sono mortificati, educati e addestrati per perpetuare la disuguaglianza. Ma i nuovi corpi, i corpi ‘cattivi’, quelli da ragazzacce scalmanate che scopriamo e ridisegniamo imparando a difenderci e a contrattaccare, possono essere vissuti e rappresentati per garantirci indipendenza e autonomia, finora esclusiva degli uomini». Quei corpi sono rappresentati da Teresa Cherubini nelle sue efficaci e belle illustrazioni, mentre lo stesso corpo che si spacca e genera un frammento di sé non mostra meno potenza nelle pagine di Cavarero e Guaraldo: la Grande Madre, la Madre Terra, Rea, Gea, Gaia, Cibele, Inanna, Ishtar, Astarte e le altre divinità delle società più arcaiche non vengono tirate in ballo con la fumosa nostalgia di un tempo perduto, ma come simbolo di una forza che non si può cancellare e che mostra come è stato costruito il ruolo della debole e della vittima sul corpo delle persone di sesso femminile. Una decostruzione presente anche nelle pagine di Tavella, che individua precise strade di libertà: «Un corso di autodifesa femminista, la frequentazione di una palestra di arti marziali per donne, iscrivere le nostre bambine a ju jitsu o karate fin da piccole sono tutte esperienze del corpo ma anche della psiche».

Nei collettivi di autodifesa si impara a dare e ricevere sostegno, si impara a fidarsi ed essere oggetto di una riposta fiducia, ma si impara anche che l’aggressività non è per forza sbagliata o evitabile, soprattutto se reattiva. La consegna alle ragazze, in questi due libri, è densa di libertà e indipendenza dagli uomini ma anche da fazioni sclerotizzate. «Come femministe abbiamo imparato a elaborare un pensiero concreto ma libero, non subordinato né ai partiti né alla visibilità mediatica degli schieramenti dati. Non ci interessa essere inquadrate in fazioni politiche progressiste o oscurantiste», scrivono Cavarero e Guaraldo, invitando le ragazze a leggere senza paraocchi. Perché di tutte le strade femministe che si possono percorrere, capire resta la più autenticamente sovversiva.