da Domani

Il decreto sicurezza è legge, «una legge fascista». La definisce così Tamar Pitch, professoressa di Filosofia del diritto all’università di Perugia, studiosa della questione criminale e del rapporto tra genere e diritto, e autrice de Il malinteso della vittima. «Da molti anni la politica agisce con pacchetti, leggi, decreti. Ora però si è oltrepassato il limite, perché questo è un provvedimento molto pericoloso», dice Pitch, «un salto di qualità».

Cosa si intende per sicurezza?

Oggi, per sicurezza si intende la messa al riparo dei e delle cittadine dal rischio di incorrere in reati da criminalità di strada. La retorica presenta la sicurezza come un diritto individuale: ciò che prima veniva chiamato ordine pubblico, così rinominato, si presta a rendere incontestabili le politiche che dovrebbero tutelarlo, giacché è difficile contestare un diritto. Poi si è andati oltre e si è iniziato a dire che ciò che conta non è tanto la sicurezza in sé, ma la sua percezione. Lo ha fatto Marco Minniti (ex ministro dell’Interno, ndr), ammettendo in un certo senso che, dunque, l’Italia è un paese “sicuro”, come del resto ben mostrano le statistiche sui reati. Come si produce la “percezione” di sicurezza? Sterilizzando il territorio pubblico, mandando via i cosiddetti indesiderabili, quelli che danno fastidio, o fanno paura. A chi? Se guardiamo bene le politiche di sicurezza, vediamo che esse sono indirizzate perlopiù a rassicurare un particolare tipo di soggetto: uomo, bianco, non ricco ma nemmeno troppo povero, certo non giovanissimo, visto che molte di queste politiche penalizzano i più giovani. Le figure della paura sono sempre le stesse: i “diversi”, i mendicanti, i migranti troppo visibili, i e le sex worker, quelli che lavano le macchine ai semafori o frugano nei cassonetti.

Perché fenomeni sociali complessi vengono governati unicamente con lo strumento del Codice penale?

È un modo per acquisire consenso, si chiama populismo penale. Non è solo il governo italiano a servirsene, è una tendenza generalizzata in occidente dalla fine degli anni Ottanta a ora: le politiche neoliberali smantellano il welfare in nome della libertà individuale e all’insicurezza sociale che ne deriva rispondono con più reati, maggiori pene, detenzione amministrativa, Daspo, eccetera. C’è chi ha parlato di un passaggio dal sociale al penale: questo è quello che è successo negli ultimi quarant’anni. Ma con questo decreto-legge si è andati oltre, come dicono molti magistrati/e, studiosi/e, avvocati/e. Questa è una legge fascista.

Il dl colpisce alcune soggettività per chi sono, non per quello che fanno.

Vengono criminalizzati dissenso e povertà, e chi non è come “noi”. Sono i capri espiatori. Di fronte a un ceto medio impoverito e infragilito, sembrano le risposte da dare.

La deriva securitaria trasforma tutte e tutti in vittime potenziali. Perché parla del malinteso della vittima?

Nel mio libro parlo dell’emergere della vittima come soggetto politico e come status ambito. Solo proclamandosi vittime di qualcuno o qualcosa si riesce oggi a essere riconosciuti come interlocutori politici. Si fa un uso e un abuso di questo statuto, di cui si servono poi anche le politiche di sicurezza. Chi sono le vittime? Tutti i bravi cittadini, potenziali vittime dei cattivi. Così si divide la popolazione e le persone “per bene” sono sempre a rischio di vittimizzazione da parte dei “per male”.

Nota lo stesso approccio nel contrasto alla violenza di genere?

Le politiche di sicurezza in generale, e quest’ultima legge non è certo diversa, sono politiche dirette perlopiù, come dicevo, alla sterilizzazione del territorio pubblico, con divieti, Daspo, recinzioni, di fatto esclusione dei poveri e marginali dalle parti “pregiate” della città. Le donne subiscono una vittimizzazione doppia: per un verso, fin da piccole sono scoraggiate a circolare liberamente dove vogliono, per altro verso, come sappiamo, vengano minacciate, molestate, uccise dentro le sicure mura di casa, a scuola, al lavoro da partner ed ex, datori di lavoro, insegnanti e così via, piuttosto che da sconosciuti scuri di pelle in qualche angolo buio della città. Dicevamo un tempo, e lo diciamo anche oggi, che le città sicure le fanno le donne che le attraversano e le vivono. Non è con il nuovo reato di femminicidio, non è con l’ergastolo senza se e senza ma (o, come diceva Berlusconi, con un poliziotto accanto ad ogni bella, sic, donna), che si contrasta la violenza di genere ma con politiche che diano alle donne (ma direi a tutti/e) maggiori risorse economiche, sociali, culturali. In una ricerca del 2001, svolta con Carmine Ventimiglia, proprio questo emergeva: le donne che vivevano la città più liberamente erano quelle cui queste risorse mancavano meno. In conclusione, più sicurezza sociale, meno paura, più libertà. Per tutti e tutte.

da il manifesto

Il femminicidio di Martina Carbonaro ha riaperto una discussione sul patriarcato e su come i più giovani vivono i rapporti tra i sessi. Qualche sera fa a una domanda di Lilli Gruber a “Otto e mezzo” Massimo Cacciari ha risposto tornando sull’argomento affermando, più o meno letteralmente, questi concetti: L’uccisione di quella ragazza non è un fatto di «cronaca nera», ma il «sintomo» di una «trasformazione culturale in senso antropologico, che dura almeno da un secolo» e che investe il mutamento dei rapporti tra i sessi.

I soggetti più deboli – coloro che con la parola e il ragionamento non riescono ad accettare questi cambiamenti – si oppongono con riflessi violenti (e questo è il caso, ormai tipico, del maschio che non accetta di essere lasciato).

Reagire a queste realtà con l’aggravamento delle pene è una «cosa ridicola».

Bisogna poi vedere che il mondo adulto, «noi grandi», sta promuovendo la diffusione quotidiana di un linguaggio di violenza, il «crollo di ogni forma di diritto internazionale», con il «diritto del più forte» che vince dappertutto: «seminiamo tempeste…».

E se le sue interlocutrici – Lilli Gruber, Annalisa Cuzzocrea della Stampa, e l’avvocata Cathy La Torre, con Beppe Severgnini del Corriere della sera – insistevano sulla necessità di un impegno della scuola per l’«educazione sentimentale» e «sessuale» degli adolescenti, il filosofo-politico interrompeva ricordando da un lato che «l’unica grande rivoluzione che stiamo vivendo negli ultimi cinquanta anni è stato il pensiero femminista…», che l’epoca patriarcale è finita e «non risorgerà mai più», dall’altro che l’educazione deve allora servire a «interiorizzare, assimilare queste trasformazioni» quindi sapere «attrezzare i giovani a affrontare questi salti d’epoca».

E a questo dovrebbe rivolgersi «la buona politica». Prevalgono invece i leader alla Trump, prototipo del maschilismo, predicatore della forza e del possesso…

Chi volesse ascoltare tutto lo scambio può facilmente trovare in rete la puntata di “Otto e mezzo”, su La7, del 28 maggio scorso. Io mi fermo qui, al punto della “buona politica”. Espressione ripetuta da Cacciari ma rimasta – forse inevitabilmente nella logica discorsiva di un talk-show (per quanto vivacemente “invasa” e forzata dal filosofo ormai spesso presente in tv) – un po’ appesa all’ignoto.

Chi potrebbe praticare, o chi già pratica, questa “buona politica”? Quali ne dovrebbero essere i presupposti? I fondamenti etici e teorici? Gli ideali, i programmi, le pratiche democratiche? Tutto il discorso del “talk” tendeva a criticare, con buone ragioni, la politica dell’attuale governo, e i populismi e autoritarismi destrorsi (per non dir di peggio).

Ma la sinistra, le sinistre, non hanno nulla da rimproverarsi? Sono abbastanza d’accordo – per quel che vale – con alcune delle tesi cacciariane. Se è vero che il tramonto del patriarcato – come «ordine simbolico» durato millenni – dura da un secolo, com’è che non ne ho quasi mai sentito parlare nel vecchio Pci (nemmeno dal dottissimo filosofo ed ex sindaco di Venezia)?

C’erano stati alcuni tentativi di “contaminare” il vecchio partito comunista con il pensiero femminista (l’esperienza della “Carta delle donne comuniste”, a metà anni ’80, poi chiusasi con la “svolta” che pose fine a quel partito).

Ci sarebbe da ripensare tutto un pezzo di storia, e affrontare la discussione odierna su sessi e generi, sulla violenza e la guerra, molti temi divisivi anche nella galassia femminista. Ma qualche parola e pensiero non solo televisivo e socialmediatico dovrebbe finalmente venire dal mondo maschile. Specialmente quello che si considera “progressista” e di sinistra.

da La Sicilia

Hanno celebrato la festa della Repubblica ricordando le “Madri Costituenti”, le 21 donne – elette in un’assemblea di 556 parlamentari – chiamate a scrivere i principi e gli articoli della nostra Carta nata dalla Resistenza, dalla lotta partigiana al nazifascismo che avrebbe voluto dominare il mondo ripristinando la schiavitù e la tirannia. Perché la loro memoria sia trasferita ai giovani e riportata al centro del dibattito italiano La Città Felice, Toponomastica femminile, l’Associazione etnea studi storico-filosofici, la RagnaTela e Sunia hanno tenuto un flash-mob nella piazzetta antistante il porticciolo di San Giovanni Li Cuti. Uno spazio che, dal punto di vista formale, è una via e che queste associazioni chiedono diventi piazzetta e sia dedicata “alle 21 Madri della Costituzione”. La targa – ha spiegato Anna Di Salvo – è già pronta e si attende la risposta del Comune, così come anche alla richiesta di ripristinare le targhe, entrambe scomparse, che intitolano la pista ciclabile del lungomare alle “Staffette partigiane” e un’area del Giardino Bellini alle “Madri Costituenti”.

L’associazione Toponomastica femminile, inoltre, ha chiesto, senza ottenere risposta, che un’ala del palazzo comunale sia intitolata a Maria Grazia Cutuli.

Le donne votarono per la prima volta, tra le ultime in Europa, alle elezioni amministrative del 1946 e poi il 2 giugno quando bisognava scegliere tra monarchia e repubblica ed eleggere i partecipanti all’Assemblea costituente. Le donne andarono a votare in massa, furono 12 milioni contro gli 11 milioni di maschi. Tra le elette 21 donne, 9 comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste, 1 dell’Uomo Qualunque. Ed è degno di nota che ben due di loro furono elette nel collegio di Catania: Maria Nicotra (Dc) e Ottavia Buscemi Penna (Uomo Qualunque). Inoltre 5 di loro fecero parte della commissione dei 75 chiamata a scrivere gli articoli della Costituzione. Il loro ruolo fu di grande importanza, come ha ricordato lo storico Salvatore Distefano. Hanno dato il loro contributo a definire la nostra Repubblica come fondata sul lavoro – una norma rivoluzionaria – e centrata sui valori della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’unità nazionale, della libertà di parola e di stampa. Si sono battute per i diritti sociali, per l’istruzione, per la cultura, e soprattutto per la pace. Sono state loro a trovare il termine giusto scrivendo che «L’Italia ripudia la guerra» e lo hanno fatto insieme, superando le differenze ideologiche e di partito. «Quando si votò per il ripudio alla guerra ci tenemmo la mano!», scrisse una di loro, Teresa Mattei. A riprova, come ha sottolineato Mirella Clausi, «dell’importanza e della forza della relazione tra le donne». Eppure, hanno denunciato, il nostro Paese ha tradito il loro lascito e partecipa alla guerra. «L’Italia non condanna Israele per il genocidio del popolo palestinese e continua a dipendere dagli Usa, e non spinge l’Unione europea a evitare politiche di guerra».

In tante si sono alternate a ricordare la figura di alcune delle Madri Costituenti, a partire da Teresa Mattei, partigiana combattente, arrestata e torturata, poi politica e grande pedagogista. Lei, che faceva parte dell’ufficio di presidenza della Costituente, fu una delle donne che lottarono per aprire alle donne le porte della magistratura. Furono battute, così come Maria Maddalena Rossi, giornalista antifascista, che in parlamento lottò perché anche le donne stuprate dalla Quinta armata francese fossero riconosciute tra le vittime di guerra e risarcite. Ma la maggior parte dei parlamentari erano maschi. E poi Nilde Iotti, parte della commissione dei 75 e, nel 1979, prima presidente donna della Camera dei deputati. E ancora Lina Merlin, socialista antifascista, arrestata e mandata al confino, una delle redattrici dell’art. 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza e la pari dignità sociale di tutti i cittadini, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». A lei – che contribuì anche all’articolo che fa obbligo alla Repubblica di difendere la salute dei cittadini – è legata la legge del 1958 sulla prostituzione. Raccontava che allora, quando vennero proibite le case chiuse, molte prostitute la ringraziavano per averle tolte dalla schiavitù.

Un modo di festeggiare la festa della Repubblica del tutto diverso dall’esibizione muscolare di mezzi e uomini delle forze armate.

da Diotimafilosofe.it

Chiara Zamboni mi ha chiesto di recensire il Quaderno di via Dogana Esserci davvero, invitandomi a prendere uno spazio ampio per la recensione: un grande respiro. Anche Luisa Muraro non ha mai scritto una recensione in senso classico (una semplice recensione o recensione qualsiasi), perché il libro l’ha sempre mostrato come qualcosa da e che fa pensare.

Provo, quindi, a presentare questa intervista di Clara Jourdan a Luisa Muraro sostando sui tagli – ne ho scelti più di uno – che mi hanno fatto meditare, «autorizzandomi a una lettura in grande», che interpreto libera e di attento ascolto.1

Prima di procedere, due brevi annotazioni. La prima sul titolo, l’altra sull’intervista come forma di interazione.

Esserci davvero è un titolo bello, potente, autentico. Lo sento vero e lo sperimento, a partire da me, nella mia esperienza politica attraverso pratiche teatrali: sperimentazione, intima e aperta insieme, di trasformazione e ricerca. In questo contesto, vivo davvero una presenza in ogni tentativo di concentrazione, di attenzione, di cura, di scoperta, di presa di parola, coscienza e responsabilità. Nell’esserci davvero c’è la percezione, il sentire che ci siamo e la capacità di stare in relazione con gli accadimenti. Questa presenza ci porta a non stare nel già dato e nel già noto; esserci davvero è, come dice Muraro, non avere uno schema da riempire,2è coinvolgersi e rimanere convolte in modo non strumentale e non finalizzato alla pura messa in scena. Svelamento di una presenza autentica che staziona in un luogo di verità di osservazione.3Con attenzione interessata. Esserci in prima persona in qualcosa che accade.4

In questa ontologia, c’è un aspetto altrettanto importante da sottolineare. Se esserci davvero è non avere uno schema, è stare nel reale e in quello che ci capita, ciò significa che noi non siamo sempre dentro l’essere e abbiamo la capacità di sentire un vuoto. È la rivelazione della propria passività, come dice María Zambrano.

L’altra annotazione sull’intervista, condotta con stile dialogico. C’è un forte coinvolgimento fra Clara Jourdan e Luisa Muraro. Le domande sono precise e non sono standardizzate; si tratta di una precisione di ascolto in movimento che puntualizza temi, ricordi, intuizioni, precisazioni in un approfondimento di pensieri ed esperienze con delle messe a fuoco.5Una intervista che è anche un pensare in presenza.

I tagli

Facendo un taglio – scrive Luisa – si forma pensiero, cioè tu puoi cominciare a pensare, pensare proprio nel senso di articolare: questa cosa qui e non quest’altra. Il taglio è questo: questo sì c’entra, di questo si tratta, questo no, invece. Sono operazioni di ordinamento di un campo.6C’è una molteplicità di realtà e occorre trovare un taglio o più tagli da mostrare.

Per renderli visibili è necessario innanzitutto sapere cosa ci sta particolarmente a cuore e perché. Questo presuppone avere consapevolezza del sapere di sé e dei propri desideri inventivi, che ci suggeriscono – etimologicamente – di “entrare in un luogo e vedere che cosa troviamo”. Si tratta poi di sostare su quei frammenti di realtà scelti, contestualizzarli dal punto di vista esperienziale e filosofico e rispondere alle domande essenziali.

Molti sono gli aspetti di questa conversazione che mi stanno a cuore, per questo sono diversi i frammenti individuati.

Frequentazioni di parole in luoghi non comuni

Muraro, in un’intervista a il manifesto, ha dichiarato che il meglio del suo lavoro filosofico viene da un niente che si popola di parole comuni. Scrive a questo proposito: A me piace portare parole comuni in luoghi che queste non hanno mai frequentato. È un modo di scrivere potente, a mio avviso, è una sintassi “tagliata” dalla retorica, attenta al contesto e a chi legge: è tenere il sapere alto nella disponibilità comune.7

Quando ho iniziato a studiare filosofia, all’università, i primi due corsi che ho seguito sono stati uno di filosofia del linguaggio tenuto da Chiara Zamboni su Chiari del bosco e i Beati di María Zambrano e l’altro, di ermeneutica, di Luisa Muraro sulla teologia favolosa. Lì ho sperimentato per la prima volta che si possono argomentare cose molto difficili senza fare perdere loro complessità.

Il corso di Muraro sulle fiabe e la teologia favolosa si è concluso con un pranzo con soppressa vicentina e vino rosso. Nell’intervista Jourdan fa presente che Muraro riprende l’allegoria, dove, secondo la visione della filosofa, anche il letterale conta, proprio come aveva fatto durante il corso sulla teologia favolosa. E c’è anche altro. L’allegoria come capacità di vedere nelle cose che si vedono anche dei significati che sono nascosti dalle cose stesse, mostrati e nascosti.8

Le parole sono importanti

Luisa Muraro ha una attenzione particolare per le parole. Scegliere le parole giuste, le parole adatte, capaci di dare vita a un linguaggio preciso, non superficiale, è una pratica politica.

Una modalità che mi piace per scegliere le parole è quella di partire dalla loro etimologia, che è «l’individuazione e la ricostruzione degli etimi, che sono il significato reale, vero di una parola, la ricerca del vero, della reale origine di un termine o di una espressione». Si tratta di una operazione che invece di definire compiutamente una parola, la apre alla possibilità di meditare sulla parola stessa, schiudendola a nuove potenzialità. Questo vale sia per le parole che non conosciamo, sia per le parole che sono diventate usurate a forza di essere usate male: termini che hanno perso la loro forza espressiva. Risalire all’etimologia delle parole non è un esercizio virtuosistico, ma euristico, di scoperta. Significa ritrovarne l’origine, la genesi, la storia; significa, in altre parole, farle rinascere: ricostruirne la genealogia.

In Muraro c’è un continuo lavoro sulle parole, sulla lingua, sulla linguistica. Sono le circostanze, le situazioni concrete che la spingono a interessarsi di qualcosa in particolare. La politica delle donne, ad esempio, essendo una pratica di parole e di presa di parola è stata il movente per lo studio della linguistica.

Occorre che qualcosa muova la connessione tra lei e la realtà per spingerla alla ricerca. È stato così con il pensiero della differenza sessuale, con la psicanalisi, con la linguistica, con la scrittura e la sintassi della scrittura, che è un aspetto della lingua molto trascurato, non nella realtà, perché per scrivere la sintassi è fondamentale, ma nell’attenzione delle persone: la sintassi è un ordine delle parole che si forma nell’incontro e nello scambio tra chi scrive e la lingua.9

Il pensiero nasce proprio in questa connessione tra lei e la realtà: per pensare, bisogna che si muova quello, il tuo dentro e il tuo fuori bisogna che si parlino.10

Per questo la teoria non è mai fine a se stessa: Luisa Muraro prende in considerazione quello che accade, quello che ci capita, i problemi del vivere e lo fa facendo parlare continuamente la realtà ordinaria con la ricerca linguistica.11

Ed è in questo accordo tra chi scrive e la lingua che per Muraro nasce la scrittura.

La scrittura

Le pagine di questa intervista dedicate alla scrittura sono molto interessanti.

Perché scrive – e scrive tanto – Luisa Muraro? Perché pensa: io non penso indipendentemente dalla scrittura.12Solo scrivendo si articola il pensiero. La scrittura per lei non è uno strumento, ma una specie di stampo su cui procedere. Le intuizioni che le nascono trovano poi una vera e propria articolazione solo attraverso la scrittura.

La scrittura per lei è un bisogno quasi fisiologico e una dipendenza simbolica. Quando la scrittura è bene riuscita (accade soprattutto con il femminismo), c’è un godimento, un profondo benessere, uno stato di felicità e di beatitudine.

Il suo esserci è ineludibile dalla scrittura che è strategia esistenziale e pratica: pratica per ordinare il simbolico dentro e pratica per ordinare quello che lei chiama il livello elementare. Di quest’ultimo e del livello sofisticato, a cui dedico un paragrafo dopo, la scrittura costituisce un ponte. Così, come è liminare tra il simbolico e il fisiologico.

Studio, parola e scrittura costituiscono un trittico. Questo trittico, di cui la scrittura è al contempo parte e matrice, crea la sua scena interna, dove perché qualcosa avvenga bisogna che ci sia una relazione in carne ed ossa che assicuri la realtà. È un punto importante questo. Significa più cose. Innanzitutto, che per Muraro non c’è né astrazione, né sintesi. Sono le donne e gli uomini, in carne ed ossa, che aprono passaggi alla realtà del reale, affinché qualcosa avvenga nelle nostre scene interne. È anche il partire da sé che per lei vuol dire rinunciare al punto di vista oggettivo esterno per coinvolgersi nella realtà in questione, e farlo distaccandosi da sé, per mettersi nel movimento della trasformazione di sé e della lingua, una cosa mediante l’altra.13Coinvolgimento nella realtà, quindi, non immersione: stare in sintonia con il movimento dell’essere, in uno spostamento che ci trasforma e ci fa guadagnare il senso di realtà. «A noi le cose, fondamentalmente, non sono ma accadono e non è sbagliato dire che può capitarci di tutto».14

Metafora e metonimia e i due livelli: elementare e sofisticato

Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia,15dove viene mostrata la teoria del linguaggio non come teoria fine a sé stessa, ma secondo il taglio dell’attenzione al mondo vissuto, è lo sviluppo di una intuizione. Muraro si è fatta e si fa guidare spesso dalle intuizioni, che sono sì, per definizione, forme privilegiate di conoscenza, ma soprattutto – per lei – intelligenti percezioni di un frammento di realtà, sostenute da accadimenti, da fatti.

L’intuizione in questo caso nasce dalla recensione di un libro di un suo amico Corrado Levi e nel dire qualcosa sul testo nasce una intuizione che Luisa aggettiva come consistente. Si tratta di questo: la cultura che spiritualizza è una cultura delle metafore, mentre la cultura materialista, non nel senso ideologico della parola, ma la cultura che tiene conto del nostro essere corpo, non metaforizza, fa accostamenti, fa combinazioni. Era, scrive, un’idea non nuovissima, ma in me è rifiorita con molta forza.

Dalla recensione nasce l’intuizione che viene poi elaborata in idea in un articolo sulla rivista “Aut aut” dal titolo “Maglia o uncinetto? Metafora e metonimia nella produzione simbolica”.

Questa è la gestazione di Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, testo complesso in cui convivono, citando Ida Dominijanni, molte questioni «dalla complicità tra ordine simbolico e ordine sociale alla centralità della dimensione linguistica nelle formazioni capitalistiche postfordiste e nella politica mediatizzata delle democrazie di fine secolo». Ma Maglia o uncinetto è soprattutto un libro che si fa strada riscattando l’esperienza vissuta e «l’essere-avere un corpo». Lo fa riconoscendo importanza alla direttrice metonimica.

Le due direttrici, come spiega Muraro, non sono sorelle gemelle. La metafora «ci fa superare il livello descrittivo e la particolarità dell’esperienza», mentre «nella metonimia il rapporto tra senso figurato e quello letterale coincide con un nesso materiale, di tipo spaziale, temporale, causale o altro».16

La metonimia è combinazione di cose, sta nella prossimità tra parole e cose, lavora da contesto a contesto, crea un sapere della pratica per contatto o contagio, superando la falsa distinzione tra l’ordine simbolico e quello materiale. In questo intreccio fra i due ordini, i corpi e i vissuti esperienziali si iscrivono nel simbolico senza sostituzione metaforica.

Muraro non critica la metafora di per sé, ma mette in guardia dall’usare male la direttrice metaforica. Le metafore che nascono da pensate originali, se non rimangono giochi complicati prettamente linguistici, hanno la capacità di inventare collegamenti, facendo variare la realtà in modo indefinito. Questo è un aspetto che Luisa valorizza. Ciò che disapprova è il primato dell’asse metaforico su quello metonimico: supremazia che per lei si è trasformata nella subordinazione della metonimia sulla metafora, in regime di ipermetaforicità. In altre parole, un eccesso di metafora. La sostituzione metaforica rende superflua e scontata l’esperienza, perdendo contatto con il mondo. «Col risultato – come scrive Dominijanni – di una sempre maggiore rarefazione dell’esperienza o di una sua codificazione entro significati precostituiti che assumono valore di norma e di normalizzazione sociale. Astrazione, generalizzazione, razionalizzazione, duplicazione del mondo in parole e immagini».

Nel mio percorso femminista, l’esperienza è un primum di verità. Come insegna Chiara Zamboni, essa non si fonda solo sui fatti e sullo stare in rapporto a essi. Si fa esperienza di un grado diverso di realtà quando ci si pone in ascolto e si esprime anche la parte più enigmatica che i vissuti portano con sé, sottraendosi ai linguaggi dominanti che interpretano in modo dominante la realtà nostra e altrui. L’esperienza, infatti, non è mai solo soggettiva. Parlare dei nostri vissuti con verità significa stare sull’irrinunciabile del nostro esserci e saperlo al contempo metterlo in condivisione con altre e altri in una trasformazione anche dei contesti sperimentati da noi e da altri. Partire dal nostro vivere qui e ora, dalla posizione che abitiamo, è una pratica di trasformazione politica per tutte. Le donne filosofe studiate e amate, come Zambrano per me, non parlano per assoluti perché sanno che «l’esperienza è frutto del tempo e non ne prescinde: lo innalza piuttosto senza distruggerlo, lasciandolo essere nel suo accadimento, nel suo essere e non essere». L’esperienza «non esige e non invita a sfuggire l’istante ma neppure l’abbandona con mera irrazionalità».17

E ora un breve accenno ai due livelli. Muraro riprende Winnicott sull’ipotesi dei due livelli, spiegandoli a partire da sé e facendo leva sulla pratica di rigiocare tutto. Per vivere […] – scrive – quello che consapevolmente o inconsapevolmente facciamo è di rigiocare tutto. Rigiocare tutto significa rigiocare qualcosa che domanda di essere. E questo avviene sempre su due livelli, quello elementare e quello sofisticato. Bisogna tenere conto che ci sono due livelli, avverte infatti Muraro.

Il livello sofisticato è dove le cose sono, il piano elementare è invece bisogno di esistenza simbolica. Occorre tenere assieme quello che è e il senso di quello che è. Il livello sofisticato è di una sofisticatezza insulsa se non si considera che lì si tenta di rigiocare qualcosa che domanda di essere. L’elementare è il qui e ora, il rudimentale, ciò che richiama l’infanzia, ciò che invita la risposta delle persone a un livello più profondo. È la scrittura in Muraro che, praticamente, fa da ponte tra i due livelli.

Cosa significa portare la questione elementare nel livello sofisticato? Significa esserci intensamente. Che effetto ha? Per chi cerca di mette l’elementare nel sofisticato una sensazione viva di forte mediazione; per chi ascolta/legge sentire che non è una lettura convenzionale e che c’è qualcosa che rimanda a un livello profondo dove circola verità, dove non è tutto fasullo o adulterato. Muraro tiene il sapere sofisticato nella disponibilità comune, legando divulgazione e sapere sofisticato.

Come scrive Chiara Zamboni, «le più grandi creazioni culturali come le più modeste sono frutto di un giocare con gli elementi più essenziali e comuni della nostra esistenza».18

Infanzia, fratelli e sorelle

Tra i tagli che mi piacerebbe affrontare ci sono anche l’oggetto di studio che cattura, la questione dei passaggi/variazioni degli interessi di ricerca e il tema della narrazione. Alla fine, però, mi soffermo sull’infanzia. Come intuisce Jourdan, l’infanzia e la consapevolezza della sua importanza è molto forte nel pensiero di Muraro. Lì c’è la relazione materna, il suo rapporto con la storia, con la mistica, con la teologia favolosa e, soprattutto, c’è il legame con i fratelli e le sorelle. Roberta De Monticelli dice che il livello più profondo di quello che noi viviamo e sentiamo – che lei chiama il sentire originale di ciascuno – si risveglia nella relazione con altre persone. Per me questo è avvenuto in prima battuta nell’infanzia con i miei fratelli e sorelle, poi il risveglio profondo è stato di nuovo con altre donne, nella pratica politica del movimento delle donne.19 E ancora, con forza: Per me, l’importanza dell’infanzia è perché è stata il regno dei rapporti con i fratelli e con le sorelle. Sì, tutto, tutto si può trovare con i fratelli e le sorelle, tutto.20

Anche io sento forte il legame con le mie sorelle. La sorellanza è una relazione intensa di per sé e al contempo intensifica le altre relazioni.

Tenendo insieme i due livelli di cui parla Luisa, avevo studiato il legame tra María Zambrano e la sorella Araceli. “Che gioia avere una sorella; con lei scoprii ciò che è più importante nella mia vita, la sorellanza, la sorellanza, più della libertà, la sorellanza”, afferma Zambrano.21Questa relazione orienta anche il modo in cui Zambrano concepisce la sizigia,22in quanto è a partire da questo legame di sangue, e non solo, con Araceli, che si delineano gli aspetti che connotano altre relazioni.

Per questo si può parlare del legame con le sorelle in termini di una pratica politica e spirituale che, partendo da un percorso di radicalità femminile, ha dato vita alla condivisione di esperienze di vita e di pensiero con altri/e, formando comunità trasversali di amici e amiche e su cui potere contare in modo intelligente, gioioso, accudente, passionale e anche conflittuale.

E questo prende vita nell’infanzia, essa stessa, parafrasando Zambrano, punto di partenza di un sentire originario in cui andranno a cadere tutti gli altri sentire.

Chiusura

Da Luisa Muraro e da Chiara Zamboni ho compreso l’importanza e la bellezza di “fare pensiero”, il lavoro del pensiero, proprio della filosofia,23ho imparato a cogliere – perlomeno cercare di farlo – il momento esatto in cui qualcosa di importante si muove, ho appreso a provare timore, tremore e piacere nel pensare.

Per significare l’esattezza, Chiara invita a sottrarsi al meccanismo per cui a una domanda c’è solo una risposta giusta, questo sottrarsi ci apre a processi creativi che implicano diversi rapporti tra sé e le altre; per Luisa c’è l’esattezza di seguire il processo e del sapere narrare, come atto simbolico, il senso dell’accadimento storico.

Se dovessi indicare una parola per chiudere questa recensione designerei “schivata” che Luisa adopera per indicare una liberazione, «la liberazione della mente nel senso del suo aprirsi all’attività simbolica che fa cadere il finto parallelismo tra mondo reale e mondo ideale delle parole. Tra le parole e cose cessa l’inerte rapporto di esteriorità reciproca e torna a stabilirsi quel rapporto ambiguo per cui si deve dire che le parole sono e non sono le cose, di cui facciamo esperienza sensibile leggendo la poesia e prima ancora, nell’infanzia, giocando».24 Quello che è «il grande gioco fra il linguaggio e l’essere».25

Note

1 Le parti in corsivo sono le frasi di Luisa Muraro dell’intervista. “L’ascolto è la pratica simbolica di chi ha il senso dell’autorità della parola”, in Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, cfr. https://puntodivista.libreriadelledonne.it/lo-splendore-di-avere-un-linguaggio/

2 Invece queste donne, che erano donne del partito che cercavano il contatto con noi, a me sembrava sempre che avessero uno schema da riempire, Quaderni di via Dogana, Luisa Muraro, Esserci davvero, a cura di Clara Jourdan, Libreria delle donne di Milano 2025, cit. p. 80.

3 Ivi, p. 19.

4 Ivi, p. 18.

5 Ivi, p. 76.

6 Ivi, p. 59. 7 Ivi, p. 91.

8 Ivi, p. 92.

9 Ivi, p. 52.

10 Ivi,p. 30.

11 Secondo il punto di vista che dà attenzione al mondo comune: non è mai sviluppata la teoria fine a sé stessa, continua a essere nutrita dalla considerazione di quello che capita ai bambini, alle donne, alle varie categorie che si dibattono con i problemi del vivere. Ivi, p. 30.

12 Ivi, cit., 52.

13 Parole di Luisa Muraro riprese per invitare alla redazione aperta di VD3 “La scommessa di partire da sé”: https://www.libreriadelledonne.it/incontri_circolodellarosa/invito-alla-redazione-aperta-di-vd3-la-scommessa- del-partire-da-se/.

14 Luisa Muraro, “La Schivata” in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, Liguori Editore, Napoli 2009, cit., p. 12.

15 Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sull’inimicizia tra metafora e metonimia, nuova edizione, Manifestolibri, Roma 2017.

16 Ivi, pp. 53-54.

17 María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, edizione italiana a cura di Rosella Prezzo, Raffaelo Cortina Editore, Milano 1996, cit., p. 67.

18 Chiara Zamboni, “Immaginazione giocosa e l’altra faccia del mondo, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, Liguori Editore, Napoli 2009, cit., pp. 13-14.

19 Ivi, p. 11.

20 Ivi, p. 10.

21 Mandata in onda nel programma “Muy personal” della Televisión Española. Trascrizione di María Milagros Rivera Garretas, Duoda. Revista de Estudios Feministas, n.° 25, 2003, traduzione di Clara Jourdan in Diotima, Archivio “Per amore del mondo”.

22 Piccole comunità nate per amicizia, affinità metafisiche (la metafisica sperimentante di Zambrano) e i sogni condivisi. Cfr. Sara Bigardi, Sizigia, Spazio relazionale e simbolico, in Aurora n. 18, 2017, pp. 18-24.

23 “La filosofia nasce dal senso della necessaria mediazione, è un impegno per la dicibilità dell’essere, guadagnata con lavoro simbolico”.

24 Luisa Muraro, “La schivata”, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, cit., p. 25 Ibidem.

(Per amore del mondo n. 20 2024/2025)

da Il Fatto Quotidiano

Vi porto tutti al mare, disse Vittoria Ferdinandi a un nutrito ma stupito gruppo di concittadini il giorno dell’elezione a sindaca di Perugia, a maggio dell’anno scorso.

Mi ricordai delle parole di Theodor Adorno, il filosofo tedesco che diceva: tutto ciò che c’è non è tutto. Lui contestava l’opinione sulla intrasformabilità delle cose. Io volevo dire: con l’ambizione, la fiducia in noi stessi e la connessione sentimentale trasformeremo questa città oltre la nostra stessa immaginazione. E andremo dove mai avremmo creduto di arrivare.

Perugia col mare è la metafora dell’impossibile. Ma la sua missione quotidiana sarebbe quella di dare gioia e felicità ai suoi concittadini.

La politica cos’è se non la capacità di costringere i buoni sentimenti dentro una dimensione comune e condivisa? Restituire il senso di comunità, il valore del bene comune.

Un sindaco deve dare strade, scuole, gestire il traffico, far pulire la città.

Non amministro un condominio e il municipio non è una Srl.

L’opposizione dice che lei più che amministrare è maestra dell’aria fritta. Molte parole, pochi fatti.

Certo, è più facile amministrare come facevano loro. Avevano proposto mezzo miliardo di euro di progetti figli del Pnrr nel chiuso degli uffici. Io ho smontato pezzo a pezzo, e fatto capire alla gente, ho chiesto alla gente di condividere, di aiutarci a spendere bene, utili, vicini ai bisogni. Si perde tempo? Sì, si perde tempo. Magari è più faticoso, di sicuro è più lenta l’amministrazione che condiziona il fare alla condivisione però è l’unica strada possibile secondo me.

Lei vuole più felicità per i perugini.

La metà degli elettori non vota più. Quando mi chiedono di rappresentare tutti i cittadini, “devi essere il sindaco di tutti” mi dicono, allora sorrido: tutti chi? Metà di quei tutti dove sono? Chi sono?

La politica allontana.

La politica disillude. La gente è interessata alla politica solo se noi siamo interessati alla gente. Perché adesso sembra che niente è vero. Ricorda Nietzsche? Se niente è vero tutto è permesso.

Il nichilismo, l’apologia del caos.

Quindi devo fare in modo che i corpi si tengano per mano. I corpi, l’uno e l’altro. I social sono divenuti una calamità generazionale perché ciascuno può scrivere cose orribili nel buio della propria solitudine, senza scrutare il volto di chi è destinatario delle sue contumelie.

Lei è sindaca, ma forse ha voglia di fare la psicologa, il suo vero e amato mestiere.

Ripeto: non sono qua per fare l’amministratrice di condominio. La contabilità delle opere pubbliche realizzate senza chiedere conto, un’idea, un giudizio. Sto costruendo apposta le case della partecipazione. Gli incontri sono affollati, scruto una consapevolezza nuova.

Lei è coraggiosissima, ha persino detto: voglio collettivizzare la felicità.

E allora? Deve divenire sentimento comune, legame identitario. Come si cambia la città se non così?

Aria fritta, diranno quelli.

Aria fritta un corno!

Voi donne siete in gran carriera. La presidente del Consiglio, la leader dell’opposizione…

Meloni sa parlare, conosce l’empatia, ma costruisce la sua parte attivando come collante la paura: ora dell’immigrato, e a turno un po’ di tutti. Persino della guardia di finanza.

Lei invece attiva il sorriso?

L’ottimismo, la voglia di vivere in modo degno e sufficientemente felici.

Chi ha votato alle ultime politiche?

Partiti di minoranza che veleggiano dentro il mare basso di pochi punti percentuali. Però sono andata a votare per Elly Schlein quando si è trattato di decidere la leadership.

Siete donne in carriera e anche esteticamente distanti dalle forme di chi ha avuto nei decenni passati un ruolo nel centrosinistra.

Il suo, mi permetta, assomiglia a un desolante giudizio sessista. L’estetica come motore della carriera? Ai maschi si chiede della camicia, delle scarpe, del colore dei capelli? Il valore di questa nuova dimensione femminile è etico, non estetico.

Lei dopo Perugia vorrebbe misurarsi in un ruolo nazionale?

In molti me lo chiedono per via delle mie idee sulla funzione della politica. Ne sono attratta ma anche a volte impaurita. In politica nulla sembra vero.

Quasi quarant’anni. E quasi single.

Single, ma col cuore in tumulto.

da Pressenza

Noi donne di diverse realtà del paese, dal nord al sud, impegnate da anni per la pace, per il disarmo e il rifiuto della logica della guerra, abbiamo deciso di unirci in una Rete nazionale di donne per la pace: uno spazio impegnato che colleghi territori, saperi e pratiche di insubordinazione alla guerra.

Condividiamo l’analisi che individua nel patriarcato con i suoi paradigmi della forza e del dominio l’origine prima della guerra, voluta da un capitalismo sempre più “cannibale”.

Non possiamo tollerare oltre la strage di innocenti che avviene sotto i nostri occhi. Troppa sofferenza, troppo dolore, troppa ingiustizia!

Le regole nate nel Novecento per arginare la violenza sono saltate una dopo l’altra. La ferocia ha preso il sopravvento e diventa sempre più grande il rischio di una guerra mondiale, cioè della fine della vita sul nostro pianeta.

Sappiamo che la pace va costruita in un percorso difficile ma necessario.

Lavoreremo per coinvolgere altre realtà femminili, per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e per una trasformazione culturale capace di rovesciare i paradigmi della forza con l’etica della cura e della giustizia, di bandire la violenza dalla società.

La nostra prima manifestazione tutte insieme “100 1000 10000 piazze per la pace” sarà il pomeriggio di giovedì 26 giugno.

da Domani

«Nel decreto sicurezza voluto dal governo Meloni vengono introdotte delle nuove norme che sono riuscite a superare anche la fantasia repressiva del codice penale fascista, il cosiddetto codice Rocco». Così dice Emilia Rossi, avvocata ed ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti. La Camera ha approvato con 163 sì, 91 no e un astenuto. Ora il provvedimento passa all’esame del Senato per essere convertito in legge entro il 10 giugno.

«Il decreto sicurezza è un’ipertrofia del populismo penale che il governo ha dimostrato fin dal suo insediamento. Alla trentina di nuovi reati creati dal governo dal 2022, adesso se ne aggiungono altri 14 che non si erano visti neanche sotto il regime. A rendere il tutto ancora più preoccupante è il fatto che gli articoli sono scritti malissimo, anche gli esperti della materia come me fanno fatica a capirci qualcosa. E questa voluta confusione è funzionale alla discrezionalità dell’applicazione della legge che è, a sua volta, un tratto repressivo della norma. Quando la norma non è chiara, non è chiaro nemmeno quale comportamento viene perseguito» spiega l’avvocata Emilia Rossi.

Secondo i giuristi che hanno parlato con Domani, sono diversi gli articoli presenti nel Decreto Sicurezza che per il loro carattere repressivo superano il Codice penale Rocco voluto dal regime fascista.

I neonati in carcere

«Fino ad ora una donna incinta o con un figlio piccolo aveva il rinvio obbligatorio della pena. Significa che lo Stato ti permetteva di partorire, vivere con tuo figlio per i primi anni della sua vita e poi scontare la pena in carcere» ha spiegato la ricercatrice di filosofia del diritto Perla Allegri e attivista nell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti «adesso invece il rinvio della pena non è più obbligatorio ma facoltativo. Il magistrato che ha in carica il caso può scegliere se rinviare la pena o meno. E, questa scelta, la deve valutare in base alla possibilità di recidiva. Ora, capite che è difficilissimo sapere in anticipo se quella persona commetterà di nuovo quel reato e quindi i magistrati, probabilmente, si baseranno sugli studi in materia che dicono che sono le persone indigenti che hanno commesso reati contro il patrimonio, come i furti, ad avere più probabilità di commettere di nuovo lo stesso reato perché è di quello che vivono».

Le madri detenute e i loro neonati finiranno negli ICAM, gli istituti di custodia attenuata, non perché sono socialmente pericolose ma perché potrebbero (forse) compiere nuovi reati una volta uscite di lì. Questa modifica della norma è stata voluta dalla Lega che l’ha ribattezzata “norma anti-rom” perché i suoi esponenti credono che le donne rom facciano strumentalmente dei figli per evitare la pena.

Inoltre, il decreto sicurezza introduce per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre perché la donna può essere trasferita in chiave punitiva in un carcere ordinario senza il bambino quando la sua condotta viene considerata “inadeguata”. Inoltre, come scrive il XXI rapporto sulle condizioni di detenzioni appena pubblicato da Antigone sorprende anche che si parli di “condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri” declinando al maschile il sostantivo quando gli Icam ospitano solo donne. Il codice Rocco voluto dal fascismo non permetteva alle donne incinta e ai bambini di stare in carcere.

Il reato di resistenza passiva

«È la prima volta che compare in un codice penale adottato dal nostro paese il termine resistenza passiva. Mai prima di questo momento, nemmeno sotto il fascismo erano considerate reato le manifestazioni non violente» ha commentato il magistrato Livio Pepino.

Si tratta di un reato che si rivolge alle persone detenute nei carceri e nei CPR, la pena prevista arriva fino ad 8 anni per i promotori. «I detenuti fanno una enorme fatica a manifestare i loro bisogni perché non sono ascoltati da nessuno. Un educatore ha in media 70 detenuti, lo psicologo segue 100 persone e ha solo 7 ore a settimana. Così, capita che i detenuti organizzino delle manifestazioni non violente per farsi vedere e sentire. Le più frequenti sono la battitura del pentolame, stare in piedi sulla soglia della cella e rifiutarsi di entrare, non mangiare, non lavarsi. È il loro modo per manifestare un disagio. Da ora in poi, se almeno tre persone si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente con modalità non violente rischiano fino a 5 anni, 8 per i promotori. Tra l’altro nel decreto si parla di “ordine impartito dal personale penitenziario”. Non c’è neanche specificato se quell’ordine debba essere legittimo oppure si riferisca a qualsiasi tipo di richiesta impartita dalle guardie» ha spiegato la ricercatrice Allegri. Per Antigone il reato di resistenza passiva è il più grave attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana italiana.

Il rinnovato reato di opinione

«Il codice Rocco ha introdotto i reati di opinione perché era interesse del regime censurare la libera espressione del pensiero. Naturalmente con l’avvento dell’era repubblicana si era molto discusso sulla permanenza dei reati di opinione nel nostro codice, alla fine alcuni sono stati espunti e altri semplicemente disapplicati.»

«È dal ’91 che non si accusa qualcuno di reato di opinione ma con il decreto sicurezza hanno deciso di farlo risorgere dalle ceneri» ha spiegato l’avvocata Emilia Rossi. «Il decreto sicurezza torna a parlare dell’articolo 415 che punisce chi istiga alla disobbedienza delle leggi.»

«Tecnicamente, potrebbe essere accusato di questo reato chi organizza forme di boicottaggio, ad esempio. Come dicevo, sono decenni che nessuno viene accusato di questo reato ed è significativo che un decreto simile torni a parlarne. Ma ancora più grave è la modifica che viene fatta all’articolo 415: è stato aggiunto un secondo comma che prevede un’aggravante per chi istiga la disobbedienza delle leggi tramite comunicazione diretta o scritta all’interno dei penitenziari» ha commentato l’ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti.

«Per come è scritto il comma anche il mio intervento in questo articolo potrebbe essere accusato di istigazione alla disobbedienza delle leggi, così come una volontaria che scrive alle detenute cosa è da intendersi per resistenza passiva. Perché? Perché è tutto discrezionale. Una cosa del genere nemmeno il codice fascista la prevedeva» ha concluso Rossi.

La licenza delle armi

«La legislazione fascista non consentiva agli operatori di polizia di girare armati con un’arma non di ordinanza al di fuori dell’orario di servizio. Adesso, con il decreto sicurezza, un poliziotto in borghese può farlo» ha spiegato il magistrato Livio Pepino. «Durante il fascismo lo Stato non erogava dei soldi ai poliziotti accusati di reati commessi durante il servizio. Adesso si prevedono fino a 30.000 euro per coprire le spese legali. Non è prevista per nessun’altra figura, solo per i poliziotti. È vero, durante il fascismo non si svolgevano quasi mai i processi contro l’arma ma è significativo che il governo attuale voglia sostenere le forze di polizia e nessun altro tipo di cittadino, soprattutto chi sente di aver subito un torto da una persona in divisa» ha concluso il magistrato.

La norma prevede che «chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza».

In sintesi, se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata o un istituto in condizioni detentive non dignitose, si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente, anche con modalità non violente, si configurerà il delitto di rivolta con una possibile condanna da due a otto anni di reclusione (per i promotori, organizzatori o dirigenti), e da uno a cinque per i partecipanti.

da Internazionale

Il 1° maggio 1942 un piccolo gruppo di comunisti festeggiò clandestinamente la festa dei lavoratori nel centro di Vienna. Poco importava che fossero prigionieri della Gestapo e tenuti in isolamento: avevano scoperto da tempo che i loro gabinetti erano collegati agli stessi tubi e, svuotando il sifone e infilando la testa nella tazza, riuscivano a parlarsi. Ne approfittavano ogni giorno: si scambiavano notizie da casa, speranze, paure e gli esiti delle udienze in tribunale. In quella giornata dei lavoratori, attraverso le tubature, viaggiarono poesie, discorsi e, per chiudere, anche l’Internazionale.

«Il carcere era l’unico posto in Austria dove nel 1942 si poteva ancora cantare l’Internazionale. Fu una festa indimenticabile», raccontò più tardi Margarete Schütte-Lihotzky, una delle prigioniere, nel suo libro Erinnerungen aus dem Widerstand (Ricordi dalla resistenza).

Schütte-Lihotzky ebbe una vita lunga e intensa. Eppure il suo nome resta indissolubilmente legato a uno spazio progettato quando aveva appena ventinove anni: la cucina di Francoforte.

Schütte-Lihotzky era stata arrestata nel 1941 per il suo ruolo di corriere del Partito comunista austriaco (Kpö), che guidava la resistenza contro il regime nazista nel suo paese. Riuscì a sfuggire per un soffio alla condanna a morte, ma rimase in carcere fino alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945. Quell’esperienza segnò una frattura nella sua vita: da un lato l’esordio brillante come giovane architetta, spinta dal desiderio di migliorare la vita delle donne della classe operaia; dall’altro quella che lei stessa avrebbe definito la sua “seconda vita”: comunista militante e attivista politica che fu professionalmente emarginata in patria per le sue idee e ricevette i giusti riconoscimenti solo negli ultimi decenni della sua esistenza.

Schütte-Lihotzky ebbe una vita lunga e intensa, ed è morta nel 2000 pochi giorni prima di compiere centotre anni. Eppure il suo nome resta indissolubilmente legato a uno spazio progettato quando ne aveva appena ventinove: la cucina di Francoforte, prototipo della cucina moderna componibile.

Ideata nel 1926 all’interno di un vasto programma di edilizia popolare a Francoforte, in Germania, la “cucina di Francoforte” introdusse molti degli elementi che oggi diamo per scontati: un piano di lavoro continuo con alzatina piastrellata, mobili e cassetti integrati pensati per ottimizzare lo spazio, tutto all’insegna del comfort e dell’efficienza. Il progetto finale fu installato in diecimila appartamenti della città, e alcuni esemplari originali sono ancora esposti in musei di tutto il mondo, tra cui il Victoria and Albert museum di Londra e il Moma di New York, dove è l’opera più antica della collezione firmata da un’architetta.

Quel progetto s’inseriva in un tentativo più ampio di standardizzare le abitazioni e alleggerire il carico quotidiano della classe operaia. «Schütte-Lihotzky non si limitò a progettare una cucina», spiega l’architetta austriaca Renate Allmayer-Beck. «Era un’idea per migliorare la vita delle donne offrendo una cucina più funzionale, in cui potessero gestire il lavoro domestico con meno fatica e avere più tempo per sé».

Schütte-Lihotzky considerava l’architettura una questione politica. Crescere in una famiglia borghese l’aveva tenuta al riparo dalle difficoltà della vita a Vienna, ma da studente di architettura visitò i quartieri operai della città e rimase sconvolta dalle condizioni abitative. Vide famiglie ammassate in stanze condivise da otto o nove persone e “affittuari di letto” costretti a subaffittare un materasso per poche ore al giorno. Fu un’esperienza che consolidò la sua decisione di diventare architetta. «Non conoscevo ancora la frase di Heinrich Zille “Si può uccidere una persona con una casa, così come con un’ascia”, ma l’avevo già intuita: all’epoca non capivo ancora le cause profonde di tanta sofferenza, ma desideravo una professione che mi permettesse di alleviarla», si legge in Warum ich Architektin wurde (Perché sono diventata architetta), il cui manoscritto fu ritrovato dopo la sua morte e pubblicato nel 2004.

Il design sociale sarebbe rimasto il filo conduttore nel suo lavoro. Dopo essere stata una delle prime donne austriache a laurearsi in architettura, nel 1919, collaborò con il movimento viennese per la casa: migliaia di famiglie che dopo la prima guerra mondiale s’insediarono su terreni pubblici alla periferia della città, costruendo rifugi di fortuna e coltivando orti per affrontare la mancanza di alloggi e cibo. Progettando casupole coloniche e Kern-Haus (casa-nucleo), unità abitative standardizzate che potevano essere ampliate in base alle disponibilità della famiglia, cominciò a chiedersi come l’organizzazione degli spazi domestici potesse semplificare il lavoro in casa. Le sue soluzioni prevedevano cucine abitabili e perfino un’estensione avveniristica dell’angolo cottura, in cui tutti gli elementi erano fusi in un unico blocco di cemento. Il suo lavoro attirò l’attenzione dell’architetto tedesco Ernst May, che nel 1926 la invitò a Francoforte, dove avrebbe progettato la sua cucina nell’ambito di un programma di case popolari.

Anche se la cucina di Francoforte era presentata come il progetto di una donna per le donne, Schütte-Lihotzky detestava l’idea che il suo genere le attribuisse automaticamente un sapere domestico innato. Nel suo libro di memorie scrisse che quella narrazione «rafforzava le convinzioni della borghesia e della piccola borghesia dell’epoca secondo cui le donne, in fondo, lavorano in casa davanti ai fornelli». In realtà, Schütte-Lihotzky non aveva mai gestito una casa né messo mano ai fornelli prima di progettare la cucina, affrontando il compito solo come un problema architettonico. Consultò studi sulla razionalizzazione del lavoro domestico, condusse ricerche sui tempi e sui movimenti necessari per svolgere le attività quotidiane e studiò le cucine a bordo dei treni.

La cucina di Francoforte era compatta ed efficiente, progettata per ridurre i costi e la fatica fisica. Chi la usava poteva passare dal lavello ai fornelli senza fare un solo passo. In nome dell’efficienza, Schütte-Lihotzky scelse anche di spostarla da un angolo della zona giorno a uno spazio separato, una decisione che, all’epoca, lasciò perplessa più di una casalinga.

Progettare la prima cucina prefabbricata, componibile e prodotta in serie in un’epoca in cui nulla di tutto ciò era la norma fu una sfida immensa dal punto di vista logistico e tecnologico. «È proprio questo il nodo cruciale», spiega Christine Zwingl, direttrice del centro Margarete Schütte-Lihotzky. Secondo Zwingl, l’architetta dovette tenere conto «delle complesse questioni architettoniche e di costruzione, che includevano non solo gli aspetti sociali, ma anche tutte le valutazioni tecniche e gli sviluppi concreti della tecnologia».

Il centro Margarete Schütte-Lihotzky, con sede nell’appartamento restaurato che l’architetta progettò negli anni settanta e in cui visse fino alla morte, è un museo dedicato alla sua vita e al suo lavoro, ma anche un progetto di ricerca sulla storia delle architette in Austria. Nel settembre 2024 il centro ha completato la ricostruzione della cucina personale di Schütte-Lihotzky e l’ha aperta al pubblico. «È stata un’indagine da detective», racconta Renate Allmayer-Beck, che ha guidato il progetto servendosi di fotografie e due piante originali. La minuscola cucina è un esempio perfetto del suo funzionalismo elegante e sobrio: ogni centimetro è ottimizzato per la praticità, ma dietro le ante verde scuro si nasconde un interno rosso brillante, senza altra funzione se non quella di sorprendere. Molti dei dettagli riprendono direttamente il progetto del 1926: l’asse da stiro pieghevole contro la parete, i contenitori con dosatore per alimenti secchi inseriti in appositi scomparti, un piano di lavoro aggiuntivo nascosto in cassetti poco profondi.

A partire dagli anni ottanta, Allmayer-Beck e Christine Zwingl lavorarono fianco a fianco con Schütte-Lihotzky, raccogliendo materiale sul suo lascito e organizzando il suo archivio proprio nell’appartamento che oggi hanno ricostruito. «Solo ora ci rendiamo conto di tutti i dettagli, di quanto fosse progettato con cura, con amore e con intelligenza funzionale», dice Allmayer-Beck.

Tutto cominciò nel 1980 quando Zwingl, allora giovane studente di architettura, assistette a una conferenza di Schütte-Lihotzky. «Eravamo sbalorditi: raccontava una carriera e una vita profondamente internazionali», ricorda. «Era una donna minuta, dall’aspetto discreto, ma sapeva parlare benissimo e con grande energia».

All’epoca, Schütte-Lihotzky aveva più di ottant’anni e una vita che da sola riempie diversi libri: nel 1930 si trasferì in Unione Sovietica, unica donna tra 17 esperti incaricati di progettare nuove città come Magnitogorsk, nell’ambito del primo piano quinquennale di Stalin. L’unica condizione che pose per accettare l’incarico fu di non occuparsi di cucine. Al contrario, le fu affidata la progettazione di asili, scuole e centri per l’infanzia, un lavoro in linea con il suo desiderio di sostenere le donne lavoratrici.

Nel 1938 si trasferì a Istanbul per sfuggire alle purghe staliniane e si iscrisse al Partito comunista austriaco, contribuendo alle attività della resistenza. Nel dicembre 1940 tornò brevemente a Vienna, ufficialmente per far visita alla sorella, ma in realtà per consegnare messaggi agli attivisti locali come corriere del Kpö. Fu arrestata dalla Gestapo il 22 gennaio 1941, il giorno prima del suo quarantaquattresimo compleanno e del previsto rientro a Istanbul.

Durante la guerra fredda le sue convinzioni comuniste le resero difficile ottenere incarichi pubblici in Austria, ma continuò a lavorare come architetta indipendente e a collaborare a progetti in Cina, a Cuba e nella Repubblica Democratica Tedesca. «Era una persona davvero straordinaria», dice Christine Zwingl. «Un modello non solo per la sua professione, ma anche come ha vissuto: consapevole della sua storia, ma con uno sguardo architettonico rivolto al futuro: “Noi costruiamo per il domani, e dobbiamo pensarci”».

Nemmeno l’età avanzata attenuò il suo impegno per un futuro migliore. Diventò una pacifista e femminista di rilievo, contribuendo alla fondazione del consiglio austriaco per la pace, ramo locale del consiglio mondiale per la pace, che era politicamente vicino al blocco sovietico, e nel 1948 fu la prima presidente della Federazione delle donne democratiche austriaca. Quando negli anni settanta la cucina di Francoforte fu criticata dalle femministe della seconda ondata per aver isolato le donne e reso invisibile il lavoro domestico, le accuse la colpirono profondamente.

Nelle sue memorie Schütte-Lihotzky difende la sua creazione: «La cucina ha semplificato la vita delle persone e ha permesso alle donne di lavorare e diventare economicamente più indipendenti dagli uomini», scrisse. Però ammette: «Sarebbe triste se ciò che allora era considerato all’avanguardia fosse considerato ancora oggi un modello di progresso».

Molti dei suoi progetti, oscurati da quella che lei stessa definì «quella maledetta cucina», erano apertamente femministi. A Francoforte progettò alloggi per donne lavoratrici single e per gran parte della sua carriera si dedicò alla progettazione di scuole materne. «La sofferenza delle lavoratrici che non riescono ad affidare i figli piccoli a educatori qualificati durante l’orario di lavoro è nota», scrisse. «La soluzione non è certo ridurre il numero di donne occupate, ma costruire più strutture per l’infanzia».

Negli anni ottanta il mondo la riscoprì, e cominciarono a fioccare premi e riconoscimenti. Ma lei continuò a dare priorità all’impegno politico: nel 1988 rifiutò la medaglia austriaca per la scienza e l’arte a causa del coinvolgimento dell’allora presidente Kurt Waldheim nei crimini nazisti. Al suo centesimo compleanno, celebrato al museo di arti applicate di Vienna, dove ballò un valzer con il sindaco, parlarono esponenti di associazioni femministe, politici e la figlia di una compagna della resistenza.

A Francoforte aveva imparato a misurare le distanze a passi, un’abilità che tornò utile quando negli ultimi anni di vita perse la vista. Il suo ristorante preferito distava 264 passi da casa, e quando nel 2021 il centro Margarete Schütte-Lihotzky ha aperto al pubblico il suo appartamento restaurato, i vicini ancora la ricordavano sfrecciare per strada con il bastone sollevato, gridando: «Arrivo!».

«Tutti si fermavano per lasciarla passare, anche le auto», ride Allmayer-Beck. «Non è mai stata vecchia. Fino all’ultimo giorno».

da Sikha Mekomit* (tradotto da Internazionale)

Le affermazioni di Yair Golan, leader del partito di sinistra Democratici, che il 20 maggio ha denunciato come Israele rischi di diventare uno stato paria, non nascono dal nulla. Nelle ultime settimane, soprattutto da quando Tel Aviv ha violato unilateralmente il cessate il fuoco a metà marzo, la consapevolezza che Israele sta commettendo crimini di guerra nella Striscia di Gaza sta superando i confini della sinistra ebraica radicale e della comunità palestinese e sta raggiungendo un pubblico più ampio: dall’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon che parla di pulizia etnica all’ex premier Ehud Olmert che denuncia crimini di guerra, dai manifestanti che mostrano le foto dei bambini uccisi a Gaza, il cui numero cresce di settimana in settimana, ai giudici e agli alti funzionari che firmano una petizione per riconoscere il «dovere di rifiutare ordini chiaramente illegali». Il fatto che queste voci siano ignorate dalla politica e dai mezzi d’informazione non significa che non esistono e che non stanno aumentando. Significa che i politici e i mezzi d’informazione sono vigliacchi.

Le fratture all’interno dell’opinione pubblica, che nei mesi precedenti al 7 ottobre 2023 aveva protestato in massa contro il tentato colpo di stato giudiziario del governo ma si era riallineata di fronte alla guerra, erano evidenti prima del cessate il fuoco raggiunto a gennaio. Ma da quando Israele l’ha violato apertamente, con la volontà di evitare un accordo generale che consentisse il ritorno degli ostaggi e la fine della guerra, si sono ampliate e hanno mostrato l’orribile realtà della Striscia di Gaza.

Anche la fame a Gaza ha svolto un ruolo centrale. All’inizio di marzo la decisione israeliana di bloccare l’ingresso degli aiuti umanitari nel territorio palestinese è stata accolta con un’alzata di spalle dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ma le immagini emerse nelle ultime settimane di bambini che muoiono di fame o folle che assaltano i luoghi di distribuzione hanno smosso qualcosa.

Il giorno dopo

Il credito che l’esercito ha sempre avuto tra i cittadini ha contribuito a dare un carattere di “sicurezza” ad azioni essenzialmente politiche come creare e mantenere le colonie, evitare negoziati politici e fare affidamento solo sulla forza militare in relazione ai palestinesi. Il fatto che l’esercito si è impegnato a realizzare obiettivi che sono chiaramente politici e non riguardano la sicurezza – occupare e annettere la Striscia di Gaza, costringere i suoi abitanti a emigrare riducendoli alla fame – ha eroso questo credito.

Difficilmente l’aumento della consapevolezza nell’opinione pubblica ebraica d’Israele farà finire i bombardamenti su Gaza. Perché questo accada servirebbe una combinazione di fattori: l’interesse del presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fermare la guerra per fare affari con gli stati del Golfo, la pressione dell’Europa, il rifiuto di arruolarsi dei giovani israeliani, la crisi costituzionale oggi evidente nella disputa sulla nomina del capo dei servizi segreti interni, il costo economico del conflitto e altro. Ma il fatto che questo cambiamento sia in atto significa qualcosa. Potrebbe avere conseguenze sulla politica, sulle pressioni per spingere le persone a rompere il silenzio e sul “giorno dopo”, quando israeliani e palestinesi si guarderanno in faccia alla fine delle atrocità e si chiederanno cosa hanno fatto per fermarle. È fondamentale per il futuro di questo luogo.

(*)Sikha Mekomit è un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.

(Internazionale, 30 maggio 2025)

da Diotimafilosofe.it

Recensione ad Antonietta Potente, M. Milagros Rivera Garretas, Quando Lei viene. La scrittura ispirata, traduzione dallo spagnolo di Sara Bigardi e Paola Bellomi, Edizione indipendente, Pietra Ligure 2024

Ho letto il dialogo tra Antonietta Potente e Milagros Rivera sulla parola che ispira, la parola creatrice, poetica, e subito me ne sono innamorata, perché dice di un’esperienza della scrittura sulla quale mi sono tanto interrogata.

Quindi inizio a parlare di me, che non è la cosa più corretta volendo presentare un libro, però quel che ho capito e imparato nel mio percorso è il motivo che mi ha fatto entusiasmare del libro, proprio quello per cui ora lo presento. Del resto all’inizio di Quando Lei viene. La scrittura ispirata si legge espressamente che «Questo piccolo libro è stato scritto per essere letto con calma, contemplando ciò che si legge fino a sentirlo profondamente e aggiungere le proprie visioni o contributi». Ora, l’ho letto e riletto, ma senza calma, perché l’entusiasmo affretta la lettura e porta sui punti essenziali. Quelli più amati.

Il dialogo tra Antonietta e Milagros tocca qualcosa che mi sono trovata a vivere nella scrittura filosofica che è una delle esperienze più importanti della mia vita. Come dice soprattutto Antonietta, anch’io tante volte non ero soddisfatta di quel che scrivevo. Mancava il gusto, il piacere della scrittura. Sapevo scrivere sì, ma volevo qualche cosa d’altro. Ricordo una studentessa che scriveva la tesi portandomi un blocchetto di pagine solo ogni tanto. Riusciva a scrivere con rigore nel momento in cui il godimento della parola le permetteva di mettere a posto come in un disegno perfetto tutti i concetti. Altrimenti i concetti andavano ognuno per loro conto a caso. Così io. La possibilità di pensare aveva – ed ha – il bisogno di un godimento della scrittura. Mi sentivo fuori posto rispetto al contesto, ma il lavoro iniziato da Luisa Muraro sulla lingua materna, che poi in Diotima abbiamo ripreso e continuato, mi ha fatto scoprire ciò che in realtà già sapevo per esperienza: abbiamo a disposizione le potenzialità di una lingua affettiva corporea in cui le cose e le parole si rimandano. E per lo più, quando ora perdo il filo di questa partecipazione alla lingua nella sua genesi, leggo testi poetici che amo come quelli di Mariangela Gualtieri, di Marina Cvetaeva, Marguerite Duras, e questo mi rimette in sintonia con questa sorgente di parole, pensiero, cose, corpo, che si rimandano tra loro.

Proprio perciò, dato che ora so riconoscere quando agisco creativamente la scrittura – e sono i momenti in cui vado rischiando sui significati, procedendo senza garanzie – so apprezzare anche quello scrivere che è un fare chiarezza dentro di sé riguardo a certe idee già pensate per restituirle arricchite, intensificate e rese luminose.

Il dialogo di Antonietta Potente e di Milagros Rivera si concentra solo sulla pratica di scrittura creativa, poetica, che loro chiamano ispirata. È una bella parola “ispirata”. Rimanda a spirito, a soffio, a pneuma. Qualcosa ti soffia dentro la parola. Qualcosa di impersonale che possiamo accogliere oppure no. Ricorre la figura dell’Annunciazione nel loro testo. L’angelo annuncia a Maria il desiderio che il Signore ha nei suoi confronti e Maria accoglie ed accetta quel che le dice l’angelo. Pronuncia un sì a quelle parole impreviste, fuori dal già noto e conosciuto. La sua vita sarà trasformata da quell’annuire e far essere. Così è la parola ispirata nella scrittura. Avviene, è imprevedibile. È profondamente trasformativa. Avvia in un percorso di cui si sa come si inizia e non si sa dove si arriverà. Antonietta e Milagros lo ripetono: iniziare a scrivere in modo inspirato implica che non sappiamo che cosa diremo eppure procediamo in modo orientato. Del resto, è proprio così per ogni testo in cui si rischia e sentiamo creativo. Si trasforma con la scrittura e noi stessi ci trasformiamo con esso. Alla fine del testo saremo diverse da come abbiamo iniziato.

Ricorre nel dialogo l’idea che è la notte, quando si veglia, la culla della parola ispirata. Nel silenzio, quando tutto tace. Nella solitudine. Allora soffia lo spirito, prende forma un’idea, una parola, una frase che attendevano e non sapevano quale sarebbe stata. I sogni sono anche i luoghi in cui tante situazioni indeterminate trovano il soffio orientante a cui possiamo poi dare forma concreta.

È anche divertente e vero quel che dicono, che allora è tutto un appuntare, tenere foglietti a portata di mano, biglietti dell’autobus. Per non dimenticare. E questo avviene anche di giorno, ovviamente. Ma la notte è per loro il momento propizio. Come favorevole è la solitudine. Aggiungerei, perché così a me capita, una solitudine che si può vivere anche in mezzo agli altri.

Centrale nel dialogo è dunque il fatto che le idee non sono soggettive, né costruibili né tanto meno controllabili. Avvengono indipendentemente dalla nostra volontà. Di qui l’atteggiamento di umiltà rispetto ad esse, al pensare. Viene ripresa una figura che si incontra in tanti testi di donne medievali che segue la formula che potrei ricostruire in questo modo: «Io non sono nessuno, se non un’umile donna. Eppure, ho ricevuto la parola e ne parlo per obbedienza». In questo modo quelle donne medievali come quelle di oggi, che non costruiscono idee ma si pongono nella posizione di accoglierle, divengono mediatrici viventi. Mediatrici di qualcosa che non sanno, ma fanno essere via via nella scrittura.

Anche nel caso di Antonietta e Milagros, la loro autorità dipende dall’aver rinunciato alla centralità dell’io, al narcisismo, e dall’aver accettato che l’ispirazione venga da altrove e che solo così risulti lievito per una scrittura trasformativa.

Entrambe si pongono una domanda a questo punto fondamentale: da dove viene la parola ispirata? È una questione che nel loro testo non ha una risposta univoca, ma quel che ne dicono rimanda alla realtà, alla vita, all’enigma che essa è per noi. Dunque è la realtà vivente ad ispirare la parola. Per Antonietta in particolare Mistero e vita sono parole quasi equivalenti.

Ma cosa si intende allora per realtà e in che rapporto noi stiamo con essa? Ognuna può rispondere singolarmente a questa domanda in base alla propria esperienza, ma a me sembra che l’invito essenziale del testo sia di capire i nostri legami con la realtà, per cui, quando scriviamo in modo arrischiato, senza balaustre, poetico, rispondiamo alla realtà, esprimendola. È proprio allora che obbediamo ad essa e al suo enigma.

Alcune divergenze sulla questione della realtà tra Antonietta e Milagros sono interessanti da seguire. Sicuramente l’ispirazione non viene direttamente dal contesto; eppure, allo stesso tempo dipende da quello che la realtà ci sollecita a dire. Per Milagros le donne che le chiedono di parlare di certe questioni mettono in campo nella domanda il loro rapporto con il mondo. E Milagros, andando loro incontro, mette a sua volta in gioco il proprio legame ispirato con il reale, che non necessariamente coincide con il loro.

Più complesso quel che dice Antonietta. La vita è tessuta simbolica enigmatica, che si dischiude in visioni a chi ne è in attesa. Solo chi presta attenzione e si dispone all’ascolto ne verrà coinvolto. Cercare e desiderare il significato dell’esistenza sono la condizione perché la parola ispirata avvenga. Occorre pazienza orientata, apertura interiore. L’esistenza non è solo quella delle grandi, piccole o mediocri imprese umane, ma anche le grandi distese di acqua, di rocce, di deserti e di boschi. Storie umane e non umane dai tempi diversi, costantemente intrecciate. Tutto è scrigno di significati potenziali.

Come passare per la porta stretta, come trovare la piccola chiave d’oro perché un profilo del reale si distenda davanti e risuoni in noi? Certo, si interrogano le persone, la vita, le cose. Si desidera conoscere il mondo. A volte questo trova una risposta e la visione, la parola ispirata ci coinvolgono allora come se fossimo stati ascoltati ed esauditi.

Milagros pone una questione, ragionando su una impasse vissuta con donne di Duoda, il centro di ricerca delle donne dell’università di Barcellona. Sebbene abbiano più volte espresso il desiderio di scrivere, molte non sono riuscite, nonostante l’invito a farlo. Ha a che fare questa difficoltà con quello che Zambrano scrive in Verso un sapere dell’anima, quando dice che certe cose non possono essere dette, ma solo scritte? E che cosa impedisce loro di formulare quel segreto a cui solo la scrittura fa accedere? La risposta di Milagros è che la parola ispirata coinvolge in una verità che a volte può essere troppo grande per essere accolta. Il fatto è che il soffio ci pone in un rapporto con noi stesse a partire da qualcosa che sentiamo estraneo, come se fosse esterno a noi, ma che riconosciamo come vero per noi, così da invitarci ad un percorso di trasformazione. Questo può provocare l’attraversamento di strati di dolore e comunque di piani d’essere profondamente sconosciuti. Ci si può spaventare e ritrarsi. La verità apre un orizzonte a volte troppo grande rispetto a quello che possiamo soggettivamente sopportare.

Belle le parti del dialogo dedicate ai libri. Fa parte anche della mia esperienza il fatto che – come loro dicono – ci siano libri ispirati che ispirano. Per questo tornare ogni tanto a leggerli, citandoli a memoria, è costitutivo del processo di creazione, trasformazione, illuminazione. Sono libri che divengono così testi sacri nel nostro percorso esistenziale. Scrive Antonietta: «Di per sé i testi ispirati ti obbligano, ti obbligano, come quando Giacomo, un autore delle scritture cristiane, nella sua lettera scrive: “Tenere fisso lo sguardo sulle scritture per capirle”. Potrebbe anche voler dire che è una scrittura, ma ti darà la possibilità di una visione, perché si incarna nella tua vita». In sintonia con questo, per tanti anni all’università ho invitato le studentesse e gli studenti di filosofia a leggere e studiare i testi molto amati che davo in programma come fossero testi sacri, invitando a meditare la parola, perché si incarnasse nella loro vita. Diventasse esperienza vissuta.

Per concludere, vorrei parlare delle critiche che Antonietta Potente e Milagros Rivera portano al mondo universitario. Da una parte è verissimo che le norme accademiche di scrittura, di presa di parola, di standard di qualità proposti sono delle vere e proprie tecniche di disciplinamento e disegnano dei rapporti di potere precisi. Ne è esclusa qualsiasi pensabilità di idea ispirata. Porto un esempio. Se si pubblica un saggio in una rivista, è richiesto che ci siano dei lettori anonimi, che chi ha scritto non deve conoscere e viceversa. Questi portano osservazioni e proposte di cambiamento del saggio che occorre seguire per poter arrivare alla pubblicazione. È una precisa strategia di assoggettamento. Uno degli effetti più deleteri è che viene tagliato alla radice il legame di autorità tra una maestra o maestro e chi si è affidato a loro. Non si possono più avere consigli per cercare la via per andare all’essenziale di quel che si sente di esprimere, in fedeltà al soffio. Anche i legami di amicizia nello studio vengono distrutti. Ovviamente qualsiasi idea di parola ispirata sembrerebbe ai revisori anonimi dei testi un assurdo. Così anche ha ragione Milagros quando racconta che per avere fondi di ricerca occorre stilare un progetto in cui si dicano gli obiettivi e i risultati da perseguire. Il che è estraneo a qualsiasi pratica di ricerca di pensiero, che sa più o meno da dove parte – l’intuizione inziale, la parola ispirata – ma non sa cosa otterrà e quali saranno le scoperte e le trasformazioni. Solo alla fine infatti si può dire quel che il testo è diventato e noi che scriviamo con lui.

Se dunque da un lato la critica è giusta, dall’altro però è anche vero che l’università è un luogo dove si possono compiere azioni libere e ispirate, come invitare le, gli studenti a rapportarsi ai testi filosofici come testi sacri da incarnare e sperimentare, come ho fatto per anni. Oppure, come nel caso di Milagros, aver vissuto lezioni ispirate dove le studentesse e gli studenti smettono di prendere appunti e stanno ad ascoltarla perché si rendono conto che altro sta avvenendo in aula. La voce della docente apre ad un evento irriproducibile di cui loro si sentono partecipi.

Posso aggiungere che all’università sono nate esperienze come quella di Duoda e come quella di Diotima, dove donne autorevoli hanno saputo trasformare il gusto per la libertà in pratiche precise e fondative di un mondo. E questo in fedeltà a quello che sentivano.

da Doppiozero

Tutta l’opera di Goliarda Sapienza (1924-1996) compone un progetto di rientrata in contatto con la memoria delle donne, sia quando rielabora materiali direttamente autobiografici (Lettera aperta, 1967; Il filo di Mezzogiorno, 1969), sia quando la reinvenzione di vicende vissute in prima persona si mescola al racconto di memorie provenienti da altre donne e dagli spazi speciali che avevano internato e nascosto al mondo le loro storie – come, per esempio, nel caso dell’Università di Rebibbia (1983) o Le certezze del dubbio (1987), o del leggendario romanzo L’arte della gioia, iniziato a scrivere tra il 1966-67, steso fino al 1976, poi rivisto con l’aiuto del marito Angelo Pellegrino spedito inutilmente a molti editori a partire dal 1978, ma che, dopo una prima parte pubblicata nel 1994 da Stampa Alternativa, uscirà integralmente solo nel 1998.

Proprio considerando la memoria delle donne come epicentro creativo della scrittura di Sapienza, appare anche più speciale e originale l’adattamento di Ippolita Di Majo (bravissima) per Fuori, il film diretto da Mario Martone in concorso all’ultimo Festival di Cannes, che come dicono i titoli di testa è “tratto da Goliarda Sapienza”, per l’appunto, cioè agisce come esperimento di entrata in sintonia con le tracce essenziali – e la memoria – di una vita intera, che si vuole cercare e guardare non a partire da un singolo libro, ma proprio nel suo effetto d’insieme, incluse le contraddizioni e gli aspetti non risolti, e che dunque non poteva che essere affrontata per attraversamenti (gli stessi che sperimentiamo subito all’inizio del film, mentre percorriamo i corridoi del carcere inseguendo Goliarda), e mettendo in scena la protagonista come corpo nudo che cerca esperienza e racconto intercettando gli occhi di altre donne, come succede nella prima scena di Fuori.

Anche la scelta di Valeria Golino è particolarmente efficace, non solo perché proprio lei ha appena diretto la prima stagione della serie tratta da L’arte della gioia; e non solo perché, con un intreccio di destini profetico, proprio Golino aveva preso lezioni di dizione da Sapienza, all’epoca del film di Citto Maselli Storia d’amore (con cui l’attrice vinse la Coppa Volpi nel 1986).

Golino è perfetta per interpretare Sapienza perché, guardandola, sappiamo bene – anche qui agisce una memoria – che stiamo guardando un’attrice, cioè precisamente quello che è stata e che ha fatto Goliarda Sapienza (prima in teatro, poi recitando in più di dieci film tra il 1946 e il 1955), prima di dedicarsi completamente alla scrittura, per elaborare il vuoto della perdita della madre (Maria Giudice, sindacalista e attivista di primo piano), e per il bisogno di portare in salvo la memoria legata a lei, come raccontava Goliarda stessa. Sapienza, dunque, era, è una scrittrice che si è innestata in un’attrice. Negli ultimi anni sono usciti libri d’autrice belli e importanti (per esempio quelli di Farnetti, Bazzoni, Rizzarelli, Scarfone), che indagano l’opera di Sapienza. Tornando al film di Mario Martone e Di Majo, è particolarmente interessante la sinergia che il film reinventa anche rispetto a questo clima molto vivace di riletture di Sapienza, reinventandola con uno stile personale cinematografico che va oltre il semplice riadattamento.

Durante l’estate del 1980, Goliarda (Valeria Golino), che cerca di sopravvivere al rischio di uno sfratto e all’indigenza, frequenta Roberta (Matilda De Angelis) e altre donne conosciute durante la breve ma intensissima vita in carcere fatta l’anno prima, quando era stata arrestata per il furto e la ricettazione di gioielli appartenenti a un’amica della borghesia romana, tanto solidale a parole quanto incapace di reale generosità. Queste due situazioni temporali (la dimensione presente “fuori” e il passato “dentro” Rebibbia) si confondono e si incrociano per tutta la durata del film, componendo un terzo livello – precisamente la creatura promiscua e anfibia che viene fuori, grazie al montaggio (Jacopo Quadri): un corpo filmico e memoriale che vive di presente e di passato, di dentro e di fuori, di pieni e di vuoti. Senza un centro, forse, in certi tratti ridondante e in altri troppo sorvegliato, o persino divagatorio (le scene con Angelo Pellegrino/Corrado Fortuna), ma ciò malgrado, o a maggior ragione, assolutamente originale.

Il cinema, in Fuori, è esperienza della memoria in quanto esperienza creativa di andirivieni e continuità tra passato e presente. Tutto il cinema di Martone ci fa guardare gli spazi in modo teatrale e drammatico, ma stavolta questo personale stile trova un’occasione nuova di rigenerazione, perché Fuori, effettivamente, sviluppa l’opposizione simbolica di partenza – tra mondo dentro il carcere e mondo fuori – lavorando moltissimo sulle inquadrature e gli effetti di mise en cadre degli spazi, facendoci vedere una Roma assolata anni Ottanta (la fotografia è di Paolo Carnera) che non percepiamo mai come ambiente di maniera, e nemmeno, però, come scenario naturalistico, perché gli spazi sono appunto elementi visuali che non fanno sfondo, ma significato e dunque vanno percepiti. In questo film pieno di finestre, gabbie, grate, saracinesche, inquadrature che chiudono, riprese di scorcio, finestrini, prospettive dal banco di un bar (spazio amatissimo da Goliarda Sapienza), sedute di marmo lungo i binari (come nell’ultima sequenza), la macchina da presa lavora di taglio, facendo entrare e uscire di campo le figure, e organizzando gli spazi come se si ritagliasse anche il senso della memoria, dei ricordi, o magari delle scene da inserire in un romanzo in corso d’opera.

Oltre al trattamento dei grandi spazi, è significativo poi che tutto il film porti la nostra attenzione su piccoli spazi-archivio, come se, anche a questo livello, agisse il tema della conservazione e della messa in salvo di memorie di eventi, di persone e di esperienze che altrimenti rischiano di morire. C’è il baule dove si conservano i manoscritti, la cassetta di sicurezza di Roberta, la valigia con tutte le lettere e i messaggi. Se ci pensiamo, il carcere femminile stesso funziona come un archivio, vivente e vitale, perché, paradossalmente, come anche Sapienza ha raccontato nei suoi libri e nelle interviste, la prigione reale, soprattutto nel caso delle donne, valorizza, rende visibili e mette fuori risorse (alleanze, amori, lavoro, possibilità di morire o di salvarsi) che nel mondo di fuori non trovano spazio né tantomeno sguardo. Della forza e del nutrimento, anche simbolico, sprigionata dal microcosmo di amore e amicizia che si genera da una situazione chiusa, violenta e coatta, parla per esempio la scena molto bella in cui Goliarda e Roberta, dopo esser uscite di prigione, vanno nel negozio di Barbara (Elodie) e, una volta all’interno, tirano giù la saracinesca, rinchiudendosi di nuovo, di fatto, e ricreando uno spazio/tempo separato tutto per loro, lontano dalla realtà di fuori («mi porterai a vederla?» chiede Goliarda a Roberta quando le mostra da lontano la casa dove abita coi suoi. «Mai» risponde l’altra senza dire altro). Anche l’abitacolo chiuso della macchina, per esempio, è una stanza tutta per sé, oltre che un’immagine tempo che scandisce la trama del film.

Il tempo storico degli anni di piombo, del giorno della strage di Bologna (a cui rimanda impercettibilmente un datario) sembrano lasciati fuori, eppure agiscono sul volto consumato dalla tossicodipendenza di Roberta, che a un certo punto sparisce, in questo film tutto lavorato per tagli, ellissi, innesti e ricuciture; dove si usa più di una volta lo spazio narrativo della stazione, che qui assomiglia a un carcere, perché non è lo spazio delle partenze, ma di chi resta, urla di dolore, gira a vuoto, come un fantasma pronto a scomparire, se non arrivasse il tempo della memoria, e del romanzo: «Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente» – come si legge nel primo capoverso dell’Arte della gioia.

da Guerre di Rete

Proponiamo alla lettura questo interessante articolo, che apre scenari inquietanti sul rapporto tra intelligenza artificiale e desiderio. Ma lasciamo una domanda essenziale sulla conclusione della giornalista: possiamo davvero esplorare le domande più umane in un confronto solipsistico? La relazione non si simula: senza un altro reale, resta solo un gioco di specchi.
La Redazione del sito

Non è raro che vengano scambiate per cadaveri. Abbandonate sulla riva di un fiume, trascinate dalle onde fino a una spiaggia o infilate dentro un trolley. Negli ultimi anni le sex-dolls, bambole per adulti create per l’intrattenimento sessuale, hanno generato più di un falso allarme in tutto il mondo. Tra la prima e la seconda ondata di Covid-19 in Giappone, due di queste bambole sono state scambiate per donne annegate. Episodi simili si sono verificati nel Regno Unito, dove una è riaffiorata nel fiume Trent, e in Australia, nel Queensland. In Nuova Zelanda, una donna che passeggiava con il cane a Tapuae Beach ha chiamato la polizia credendo di aver trovato un cadavere nudo e senza testa. 

Anche in Italia, nei boschi delle Manie vicino a Finale Ligure, due turisti hanno scambiato per un corpo umano una gamba che spuntava da un trolley abbandonato. In nessuno di questi casi si trattava di una persona reale. A quanto pare, i produttori di sex-dolls stanno quindi vincendo la sfida (finora) più ambiziosa: quella con il realismo.

Il mondo dei sex toys non è affatto uno sfizio per pochi. È un settore in piena espansione, con numeri che parlano chiaro. Le stime internazionali descrivono un mercato globale da 2,5 miliardi di dollari, destinato a raddoppiare entro il 2033. Come altri giocattoli sessuali, anche le sex-dolls sono sempre più normalizzate: i tempi sono cambiati, e i discorsi su sessualità e solitudine, almeno nelle grandi città, sono ormai entrati nel dibattito pubblico. Questo cambiamento culturale ha spinto aziende di tutto il mondo a dedicarsi al settore, investendo nel miglioramento dei prodotti a partire dal materiale, che viene comunemente definito silicone iper realistico

Sogni elettrici, desideri umani

La pandemia non ha fatto solo la fortuna delle grandi aziende tecnologiche: quelle produttrici di sex-dolls hanno infatti vissuto un momento d’oro, che ne ha decretato l’entrata sul mercato mondiale. L’isolamento e il distanziamento sociale hanno spinto gli acquisti online anche in questo ambito, per via della discrezione che garantiscono agli utenti. La crescita è stata talmente improvvisa ed elevata che alcune aziende hanno dovuto adattare la produzione per far fronte alla domanda. Un esempio è la Libo Technology di Shandong, in Cina, che nel 2020 ha aumentato il personale addetto alla produzione di sex-dolls del 25%, assumendo 400 lavoratori. La responsabile per le vendite estere, Violet Du, ha dichiarato al South China Morning Post che le linee di produzione erano attive 24 ore su 24 e che i dipendenti facevano doppi turni. La Aibei Sex Dolls Company di Dongguan, sempre in Cina, si è trovata a rifiutare ordini a causa dell’eccessivo numero di richieste. 

Come è facile intuire, il paese del dragone è leader nella produzione di queste bambole per via dei bassi costi di produzione e di esportazioni vantaggiose verso l’Occidente. Le grandi fabbriche riescono a produrre circa 2.000 unità al mese, mentre quelle più piccole arrivano a una media di 300-500 bambole, come dichiarato dal direttore generale della Aibei. Sebbene, a causa del conservatorismo culturale, in Cina il mercato delle sex-dolls rimanga di nicchia, negli Stati Uniti e in Europa è invece in forte espansione, con guadagni significativi. Nel Vecchio continente le stime più aggiornate parlano di un mercato che oscilla tra i 400 e i 600 milioni di dollari nel 2023. Tra i mercati di importazione più attivi ci sono Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e anche l’Italia. Nel 2021, La Stampa riportava un aumento del 148% nelle vendite di sex toys cinesi nel nostro Paese, incluse le sex-dolls

Nel 2022, un rivenditore di bambole statunitensi RealDoll ha aperto un negozio fisico nella periferia romana. Accompagnato da un e-commerce attivo già dal 2020, lo spazio fisico «nasce per offrire ai clienti la possibilità di vedere e toccare con mano i prodotti, considerando anche il costo elevato che hanno» spiega il proprietario a Guerre di Rete. Il negozio offre un servizio completo, consentendo ai clienti non solo di osservare, ma anche di toccare le bambole. «Il 60% dei nostri clienti sono uomini in una relazione stabile», continua il proprietario, aggiungendo che «si tratta spesso di coppie alla ricerca di un elemento di novità nella loro intimità». Tuttavia, ci sono anche altri tipi di clienti: «L’altro 30% è rappresentato da uomini separati, che si sentono soli e cercano affetto. Vogliono tornare a casa e trovare qualcuno ad aspettarli». La parte rimanente comprende persone introverse, ma anche appassionati di fotografia, registi e proprietari di locali. Per quanto riguarda l’AI, il proprietario spiega che «oltre a quella che stanno introducendo i produttori cinesi, internamente stiamo sviluppando un device mobile simile ad Alexa, che renderà le bambole capaci di interagire con il proprietario».

Costruite per amare, programmate per imparare 

Essendo ormai ovunque, l’intelligenza artificiale non poteva mancare nemmeno nel mondo delle bambole sessuali, garantendo oltre all’intrattenimento anche l’interazione. È un’innovazione ancora recente, ma che sta cambiando radicalmente il settore. In una sfida globale degna delle grandi potenze, anche in questo campo Stati Uniti e Cina si contendono il primato. Da una parte RealDoll, azienda americana, dall’altra la cinese WMDoll: entrambe hanno cominciato a integrare funzionalità di AI tra il 2016 e il 2017. I primi modelli offrivano movimenti di occhi, testa e altre parti del corpo, accompagnati da una capacità di risposta vocale piuttosto limitata. Più che vere conversazioni, si trattava di semplici repliche a domande preimpostate da parte dell’utente.

Lo sviluppo è stato inizialmente lento, come ha spiegato Liu Ding, product manager di WMDoll, che attribuisce la causa anche alla scarsa volontà di investire nell’intelligenza artificiale applicata ai prodotti per adulti. Ma nel 2024 lo scenario è cambiato: l’azienda cinese ha compiuto un deciso passo avanti con il lancio della serie MetaBox, che ha rivoluzionato anche il resto del mercato. Le nuove bambole, equipaggiate con modelli linguistici open source di grandi dimensioni (LLM) come Llama di Meta, offrono un’interazione molto più avanzata, consentendo all’utente di scegliere tra diverse “personalità” delle bambole. Queste ultime sono inoltre in grado di sostenere conversazioni (perlopiù in inglese) anche a distanza di giorni, ricordando quanto detto in precedenza. Questa funzione, tuttavia, richiede una connessione costante ai server cloud e una fonte continua di energia elettrica, mettendo in evidenza uno degli aspetti attualmente più critici dell’AI: il suo elevato consumo energetico. Inoltre, WMDoll sta sviluppando collane, braccialetti, anelli e altri dispositivi pensati per connettere anche i modelli precedenti con il loro proprietario.

Al di là dei gusti, il costo rimane un argomento spinoso. Soprattutto se integrate con l’AI, le sex dolls sono al momento appannaggio di pochi. Per gli utenti che vogliono interagire con una bambola sessuale RealDoll, il cui costo a figura intera è di 4.000 dollari, c’è da aggiungere un ulteriore abbonamento mensile di 40 dollari al mese (580 l’anno). Mentre la versione cinese è più economica: con alcune variazioni di dimensioni e materiali, la bambola con AI di WMDolls si aggira sui 1.900 dollari.

Mentre l’industria delle sex dolls entra in una nuova fase, alimentata dall’intelligenza artificiale e da tecnologie sempre più sofisticate, emergono interrogativi etici e legali che non possono essere ignorati. L’episodio che ha coinvolto la modella israeliana Yael Cohen Aris, che nel 2019 ha scoperto come l’azienda cinese Iron Dolls avesse usato il suo volto e nome per una delle sue sex dolls, mette in luce i rischi di un mercato dell’intrattenimento sessuale in cui l’identità e il consenso all’uso della propria immagine possono facilmente essere violati. Il mercato delle sex dolls fa però emergere qualcosa di più profondo. Le nuove bambole AI, sempre più capaci di dialogare, ricordare e assumere personalità differenti, stanno dando forma a un’idea fantascientifica: l’amore programmabile. Come in Her o Ex Machina, non c’è solo l’interazione umana con un software, ma la proiezione di desideri, paure e bisogni in una presenza artificiale che sembra restituire qualcosa di autentico. Forse, nel silenzio sintetico delle nuove companion, l’utente non troverà una “risposta”, ma solo un altro modo – programmato e prevedibile – di esplorare le domande più umane.

da Il Post

È una decisione molto rilevante, in una delle regioni italiane in cui è più difficile abortire L’Assemblea regionale siciliana ha introdotto una legge in materia di sanità che, tra le altre cose, prevede l’obbligo per gli ospedali pubblici di assumere medici e altro personale non obiettore di coscienza, garantendo così l’attuazione della 194, la legge che dal 1978 consente in Italia di interrompere volontariamente una gravidanza. L’obiezione di coscienza, prevista con alcuni limiti dalla 194, è uno dei principali ostacoli al diritto a un aborto garantito e accessibile.

In teoria gli ospedali pubblici in Italia sono obbligati a garantire l’accesso all’aborto, ma nella pratica non è sempre possibile quando c’è una grande concentrazione di medici obiettori, e non esistono obblighi specifici per assumere personale sanitario non obiettore di coscienza. La decisione della Sicilia è quindi rilevante e ha pochi casi simili in Italia, anche perché qui una norma del genere è particolarmente necessaria: è infatti una delle regioni con la maggior presenza di medici obiettori e in cui è più difficile abortire.

L’articolo 3 del disegno di legge 738 approvato dalla Sicilia prevede innanzitutto che le aziende del servizio sanitario regionale istituiscano le aree dedicate all’interruzione volontaria di gravidanza dove non siano già previste. Nell’ultima relazione sull’attuazione della legge 194, pubblicata con grande ritardo dal ministero della Salute nel dicembre del 2024, si dice che in Sicilia ci sono 55 strutture con un reparto di ostetricia e ginecologia e che in 26 di queste, pari al 47,3 per cento, meno della metà, si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza. La media in Italia è del 61,1 per cento.

L’articolo 3 prevede poi che le aziende sanitarie e ospedaliere, quando assumono nuovo personale, si assicurino che le aree dedicate all’interruzione volontaria di gravidanza abbiano «idoneo personale non obiettore di coscienza». I bandi di concorso dovranno avere «un’apposita condizione di risoluzione del contratto di lavoro, qualora il personale non obiettore assunto si dichiari successivamente obiettore». Si prevedono insomma dei concorsi dedicati a medici non obiettori e l’obbligo per le aziende sanitarie di provvedere alla loro sostituzione qualora dovessero cambiare idea una volta entrati in servizio.

La 194 dovrebbe garantire alle donne la possibilità di interrompere volontariamente una gravidanza, ma nella realtà rimane talvolta inapplicata per l’elevato numero di medici che si avvalgono della cosiddetta “obiezione di coscienza”, la possibilità prevista dalla legge di non praticare aborti per ragioni personali. Nel 2022 in Italia la quota di ginecologi obiettori di coscienza era pari al 60,5 per cento, inferiore rispetto al 63,6 per cento dell’anno precedente ma ancora elevata, come si dice nel report del ministero, e con notevoli differenze tra regioni.

Le percentuali più alte di ginecologi obiettori di coscienza si trovano in Molise (90,9 per cento) e proprio in Sicilia (81,5 per cento). Tra gli anestesisti in Sicilia l’obiezione è pari al 73,1% e tra il personale non medico all’86,1%. In provincia di Messina non c’è nemmeno un medico che pratichi l’interruzione di gravidanza, in provincia di Trapani uno soltanto.

La Sicilia, come molte altre regioni, non ha inoltre deliberato nulla sulla possibilità di deospedalizzare la somministrazione della pillola RU486 per l’aborto farmacologico, come previsto da una circolare ministeriale del 2020 che aveva aggiornato le Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza rendendo l’aborto farmacologico praticabile fino a nove settimane di gestazione nei consultori, nelle strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate e in day hospital (quindi senza ricovero in ospedale).

Il contenuto dell’articolo 3 sull’obiezione di coscienza approvato in Sicilia era stato presentato nel 2023 dal deputato regionale del Partito democratico Dario Safina tramite una proposta che poi è stata trasformata in un emendamento al disegno di legge 738 in materia di sanità. Alla fine il ddl è stato approvato a voto segreto con 27 sì e 21 no. Considerate le assenze tra i banchi dell’opposizione, e in modo in parte sorprendente, almeno una decina di deputati della maggioranza di destra hanno sostenuto la norma.

dal Guardian

Ragazze e giovani donne raccontano di aver subito fustigazioni e abusi nelle cosiddette “case di cura” dopo aver litigato con i loro padri o mariti

Una giovane donna che indossa un’abaya nera è fotografata in una città del nord-ovest dell’Arabia Saudita, in piedi precariamente sul davanzale di una finestra al secondo piano. Una seconda fotografia mostra un gruppo di uomini che la scortano giù con l’aiuto di una gru.

L’identità della donna è sconosciuta, ma si dice che fosse detenuta in una delle “prigioni” notoriamente segrete dell’Arabia Saudita, destinate alle donne cacciate dalle loro famiglie o dai mariti per disobbedienza, relazioni sessuali extraconiugali o assenza da casa.

Si è trattato di un raro esempio della difficile situazione di centinaia o più ragazze e giovani donne che si ritiene siano detenute in tali strutture, dove vengono “riabilitate” per poter tornare dalle loro famiglie.

Parlare in pubblico o condividere filmati di queste “case di cura”, o dar al-reaya, è diventato impossibile in un Paese in cui le voci sui diritti delle donne sembrano essere state messe a tacere. Ma negli ultimi sei mesi, il Guardian ha raccolto testimonianze su come si vive all’interno di queste istituzioni, descritte come “infernali”, con fustigazioni settimanali, insegnamenti religiosi forzati e nessuna visita o contatto con il mondo esterno.

Si dice che le condizioni siano così insostenibili che si sono verificati diversi casi di suicidio o tentato suicidio. Le donne possono trascorrere anni rinchiuse, impossibilitate ad andarsene senza il permesso della famiglia o di un tutore maschio.

«Ogni ragazza che cresce in Arabia Saudita sa cos’è la dar al-reaya e quanto sia orribile. È un inferno. Ho cercato di togliermi la vita quando ho scoperto che mi avrebbero portata lì. Sapevo cosa succedeva lì alle donne e ho pensato “Non posso sopravvivere”», racconta una giovane donna saudita che in seguito è riuscita a fuggire in esilio.

Maryam Aldossari, un’attivista saudita che vive a Londra, afferma: «Una ragazza o una donna resterà lì dentro per tutto il tempo necessario ad accettare le regole».

Mentre l’Arabia Saudita celebra l’assegnazione della Coppa del Mondo maschile FIFA e si promuove meticolosamente sulla scena mondiale come paese riformato, le donne che hanno osato chiedere pubblicamente maggiori diritti e libertà hanno dovuto affrontare arresti domiciliari, carcere ed esilio. Le attiviste affermano che le case di cura del paese sono uno degli strumenti meno noti del regime per controllare e punire le donne e ne chiedono l’abolizione.

I funzionari sauditi hanno descritto le case di cura, istituite in tutto il Paese negli anni ’60, come luoghi in cui si fornisce «rifugio a ragazze accusate o condannate per vari reati» e affermano che vengono utilizzate per «riabilitare le detenute» con l’aiuto di psichiatri «al fine di restituirle alle loro famiglie».

Ma Sarah Al-Yahia, che ha avviato una campagna per abolire le case di cura, ha parlato con diverse ragazze che descrivono un regime violento, in cui le detenute vengono sottoposte a perquisizioni corporali e test di verginità all’arrivo e in cui vengono somministrati sedativi per addormentarle.

È una prigione, non una casa di cura, come amano chiamarla. Si chiamano con i numeri. «Numero 35, vieni qui». Quando una delle ragazze palesava il suo cognome, veniva frustata. Se non pregava, veniva frustata. Se veniva trovata sola con un’altra donna, veniva frustata e accusata di essere lesbica. Le guardie si radunavano e guardavano mentre le ragazze venivano frustate.

Yahia, che ora ha trentott’anni e vive in esilio, racconta che i suoi genitori la minacciavano di mandarla alla dar al-reaya da quando aveva tredici anni. «Mio padre la usava come minaccia se non avessi obbedito ai suoi abusi sessuali», racconta, aggiungendo che ragazze e donne potrebbero trovarsi di fronte al terribile dilemma di scegliere tra dar al-reaya e rimanere in una casa dove regna la violenza.

«Rendono impossibile ad altri aiutare le donne in fuga dagli abusi. Conosco una donna che è stata condannata a sei mesi di carcere per aver aiutato una vittima di violenza». Dare rifugio a una donna accusata di “assenteismo” è un reato in Arabia Saudita.

«Se subisci abusi sessuali o rimani incinta di tuo fratello o di tuo padre, sei tu quella che viene mandata a dar al-reaya per proteggere la reputazione della famiglia», afferma.

Amina*, venticinque anni, racconta di aver cercato rifugio in una “casa di cura” a Buraydah, una città nell’Arabia Saudita centrale, dopo essere stata picchiata dal padre. Dice che l’edificio era “vecchio, fatiscente e inquietante” e il personale “freddo e indisponente”. Hanno sminuito la sua esperienza, racconta Amina, dicendole che le altre ragazze stavano “molto peggio” ed erano “incatenate a casa” e le hanno detto di «ringraziare Dio che la mia situazione non fosse poi così grave».

Il giorno dopo, il personale ha convocato suo padre, racconta Amina, ma ha fatto ben poco per proteggerla. «Ci hanno chiesto di mettere per iscritto le nostre “condizioni”. Ho chiesto di non essere picchiata o costretta a sposarmi e di poter lavorare. Mio padre mi ha imposto di rispettare tutti, di non uscire mai di casa senza permesso e di essere sempre scortata da un accompagnatore. Ho firmato per paura: sentivo di non avere scelta».

Una volta tornata a casa, racconta Amina, le percosse sono continuate e alla fine è stata costretta a fuggire in esilio. «Ricordo di essere stata completamente sola e terrorizzata. Mi sentivo prigioniera in casa mia, senza nessuno che mi proteggesse, nessuno che mi difendesse. Mi sembrava che la mia vita non contasse nulla, che anche se mi fosse successo qualcosa di terribile a nessuno sarebbe importato», racconta.

Le ragazze imparano ad aver paura delle dar al-reaya fin da piccole. Shams* racconta che aveva sedici anni quando una ragazza che era stata in casa di cura fu mandata alla sua scuola. Raccontò alla classe di aver iniziato una relazione con un ragazzo e di essere stata presa dalla polizia religiosa e costretta a confessare tutto al padre. Dopo essere rimasta incinta, la sua famiglia la ripudiò e il padre le impedì di sposarsi, così fu mandata alla dar al-reaya. «Ci disse che se una donna ha rapporti sessuali o una relazione diventa una “donna di poco valore”. Se sei un uomo, rimarrai sempre un uomo, ma se una donna si rende di poco valore, lo sarà per tutta la vita».

Layla*, che vive ancora nel Paese, racconta di essere stata portata in una dar al-reaya dopo aver denunciato alla polizia il padre e i fratelli. Afferma che hanno abusato di lei e poi l’hanno accusata di aver gettato la vergogna sulla sua famiglia pubblicando sui social media un post sui diritti delle donne. È rimasta nella casa di cura finché suo padre non ha acconsentito al suo rilascio, nonostante fosse lui il suo presunto aggressore.

«Queste donne non hanno nessuno. Potrebbero restare ripudiate per anni, anche senza aver commesso alcun reato», afferma un’attivista saudita per i diritti delle donne che desidera rimanere anonima. «Le uniche vie d’uscita sono un tutore maschio, il matrimonio o buttarsi giù dall’edificio. Uomini anziani o ex detenuti che non trovavano moglie ne cercavano una in questi istituti. Alcune donne li accettavano come unica via d’uscita».

Alcuni uomini sauditi sostengono che se una è lì se lo merita o che le donne dovrebbero esser grate al governo per le strutture che le proteggono, afferma Fawzia al-Otaibi, un’attivista costretta a fuggire dal Paese nel 2022.

«Nessuno osa twittare o parlare di questi luoghi. Nessuno chiede di te quando ci vai. Fanno vergognare le vittime», dice Otaibi.

Le attiviste affermano che se il regime saudita prendesse sul serio i diritti delle donne, riformerebbe il sistema delle case di cura e fornirebbe rifugi adeguati e sicuri alle vittime di abusi. «Ci sono donne che hanno brave famiglie che non abusano di loro né le rinchiudono», afferma un’attivista saudita che ora vive in esilio. «Ma molte vivono sotto rigide restrizioni e subiscono abusi in silenzio. Lo Stato sostiene questi abusi con queste istituzioni. Esistono solo per discriminare le donne. Perché le autorità saudite permettono loro di rimanere aperte?»

L’organizzazione per i diritti umani ALQST afferma che le strutture di dar al-reaya sono note in Arabia Saudita come strumenti statali per far rispettare le norme di genere e «sono in netto contrasto con la narrativa delle autorità saudite sull’emancipazione femminile».

La responsabile delle campagne, Nadyeen Abdulaziz, afferma: «Se intendono seriamente promuovere i diritti delle donne, devono abolire queste pratiche discriminatorie e consentire l’istituzione di veri e propri rifugi che proteggano, anziché punire, coloro che hanno subito abusi».

Un portavoce del governo saudita ha affermato che esiste una rete di strutture di assistenza specializzate che supportano i gruppi vulnerabili, tra cui donne e bambini vittime di violenza domestica. L’istituzione ha respinto categoricamente le accuse di reclusione forzata, maltrattamenti o coercizione.

«Questi non sono centri di detenzione e qualsiasi accusa di abuso viene presa sul serio ed è soggetta a indagini approfondite… Le donne sono libere di uscire in qualsiasi momento, per andare a scuola, al lavoro o per altre attività personali, e possono andarsene definitivamente quando vogliono, senza bisogno dell’approvazione di un tutore o di un familiare».

Ha inoltre affermato che le segnalazioni di violenza domestica vengono ricevute su una hotline dedicata e riservata e che tutti i casi vengono gestiti rapidamente per garantire la sicurezza delle persone coinvolte. 

(*) I nomi sono di fantasia.

da Diotimafilosofe.it

Il Quaderno di via Dogana Esserci davvero è composto dalla conversazione integrale tra Clara Jourdan e Luisa Muraro, svolta a Milano nel 2003, su richiesta di Cristina Segura Graíño della Universidad Complutense di Madrid per la “Biblioteca de Mujeres”. È stata pubblicata in una versione ridotta nel 2006, con il titolo Vida y obra. Conversando con Luisa Muraro, insieme a una cronologia e una piccola antologia di scritti. In questo volume invece il catalogo – che contiene libri, articoli, saggi, atti di convegni, seminari, dibattiti, interventi sul web e finanche articoli su giornali femminili – occupa i due terzi del testo, testimonianza del fervente impegno teorico-politico della Muraro, ma anche della perizia e accuratezza della Jourdan che ha catalogato e aggiornato il profilo di Luisa.

Ho ricevuto l’invito a recensire questo lavoro a ridosso dell’8 marzo, data simbolica per le donne, da Wanda Tommasi, con la quale ho mantenuto sempre vivo il mio rapporto che risale agli anni della fondazione di Diotima. La mia più che una recensione è una restituzione a Luisa di quel che mi ha dato e che le devo.

Il primo incontro

Con Luisa ho avuto un forte legame che precede, anche se di poco, quello con Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Risale a quando, insieme a Laura Capobianco e alla giovanissima Silvana Totaro, la incontrai per la prima volta a Verona. Era il 1984 e le portai il mio primo libro non ancora pubblicato, che era già un libro sul Pensiero della differenza e che, per condiscendenza verso la mia coautrice Clara Fiorillo, architetta, chiamai Pensiero Parallelo. Grazie a questo incontro sono stata partecipe fin dall’inizio del movimento del pensiero della differenza (anni ’80) che fece di Napoli uno dei poli più importanti insieme a Milano e a Roma.

Luisa ci parlò già allora del progetto di Diotima che era sul punto di essere varato. Non sapevo a quel tempo che ne avrei fatto parte insieme ad Angela Putino e che Luisa e Diotima divenissero tanto determinanti per la mia pratica politica e filosofica. Ci fu dopo quell’incontro un periodo fervido di seminari anche con donne importanti come Luce Irigaray, di cui Luisa già aveva tradotto i primi due testi. Iniziammo con un seminario a porte chiuse del 1985 presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli, non documentabile ma molto importante perché lì nacque in Italia, tra “lacrime e sangue” (ci furono scontri, conflitti e donne in lacrime) il Movimento femminista italiano della Differenza sessuale. Erano presenti Luisa Muraro con tutto il gruppo Diotima, Alessandra Bocchetti e Angela Putino che conoscemmo tutte in quella occasione. Provammo anche a fare una saldatura non molto riuscita con il femminismo degli anni Settanta, erano state, infatti, invitate Nadia Fusini, Carla Ravaioli e Anna Rossi Doria.

Il rapporto con le donne del PCI e la rottura con Luce Irigaray

In quegli anni si è tentata anche un’altra saldatura, quella tra Femminismo della differenza e donne del PCI ad opera principalmente di Franca Chiaromonte (PCI) e Alessandra Bocchetti (Virginia Woolf). Importante fu la manifestazione tra donne del PCI e del femminismo sui temi del lavoro a Napoli, nel dicembre 1987. Al comizio finale partecipò, sotto mio invito, Angela Putino, ma non Luisa Muraro. La cosa non mi sconvolse, avevo notato la freddezza con cui si rapportava alle donne del PCI, soprattutto quelle che ricoprivano ruoli apicali. Mi confessò, in una delle tante chiacchiere che si facevano a latere di importanti iniziative, che a lei del PCI piacevano donne come Giglia Tedesco, donne vere. Mi disse anche che aveva avuto incontri con Livia Turco e con altre, anche con Marisa Rodano, una “cariatide” del PCI, a Roma, a Milano, e che per lei questi incontri non avevano dato risultato e che erano cose che seguiva di più Lia Cigarini. A lei queste donne sembravano “non essere veramente lì presenti” materialmente, le trovava astratte. Non c’era nessun pregiudizio, ma erano incontri senza passione e coinvolgimento. D’altronde, come ribadisce nell’intervista, lei quando non viene coinvolta si chiude nella sua identità e diventa oppositiva.

Luisa è una donna apparentemente semplice, perché non usa maschere e manifesta le sue contraddizioni, i suoi alti e bassi, senza infingimenti. Ogni incontro è per lei un nuovo incontro, anche se si tratta della stessa persona. Luisa qui giustifica il suo comportamento altalenante, affermando che: «non sapevo affatto, e ancora non so bene, relazionarmi con qualcuna che è altro. Altro, lo riferisco anche a uomini, ma nel caso della donna è molto più problematico. Non so relazionarmi con una in cui non riesco a specchiarmi per cose molto importanti. Allora compare questo altro – lo dico al neutro perché lei perde un po’ quella dote che hanno per me tutte le donne, che è di essere mie simili – e in quel momento mi diventa estranea, e in una maniera molto disturbante perché è una donna. Se fosse un uomo, potrei mettere sul conto della differenza maschile quello su cui sono contraria».

Per tutti altri motivi, anche con Luce Irigaray, Luisa non è riuscita a trovare una corrispondenza emotiva. Ero stata presente con Alessandra Bocchetti, Angela Putino e altre, durante un pranzo in una trattoria di Campo de’ Fiori alla loro rottura. Questo rapporto si consumò proprio al cospetto della magnifica statua di Giordano Bruno. Avevo pensato che si trattasse di un dissapore contingente, ma ho capito alla luce di questa conversazione, quanto fosse stato difficile il suo rapporto con Luce Irigaray fin dall’inizio, perché Luisa cerca – come qui ci dice – nelle persone che ammira una misura, un equilibrio, che Luce non poteva darle, cosa che invece è avvenuto e avviene tuttora con Lia Cigarini.

La scrittura

Sapevo che Luisa amava scrivere e che ha anche insegnato scrittura femminile, ma non sapevo che fosse un desiderio precedente alla pratica e teoria del “simbolico”. Il cuore della conversazione tra le due autrici s’incentra proprio sulla scrittura che non s’identifica tout-court con la costruzione del “simbolico”. Fin da bambina Luisa si cimenta con la scrittura, impara quasi prima a scrivere che a leggere. Scrive, infatti, un romanzo, una storia tremenda in stile deamicisiano. Poi vince a dodici anni anche un premio di 5.000 lire con cui compra un’intera collana di libri della Bur. Cerca poi da adulta di trovarsi sempre in “situazioni” culturali dove le richiedono di scrivere. La rivista L’erba voglio è stata il suo trampolino di lancio e con il femminismo lei intuisce che troverà il terreno più fertile per farlo. Sono molte le filosofe, anche non femministe, che hanno trovato nella scrittura il loro essere al mondo, la loro esistenza sociale, addirittura anche il senso della sopravvivenza fisica per cui, esaurita la carica di creatività, hanno messo fine alla propria vita. Un esempio è la Bespaloff e ancora più eclatante il suicidio della Kofman. La scrittura per lei era come una necessità esistenziale. Si suicida proprio quando appura che la sua capacità di scrivere si è esaurita. Poi c’è l’esempio delle letterate, non solo delle filosofe. Letterate folli, come si evince dal bel libro di Wanda Tommasi, Le parole per scriverlo. La ferita e la Parola. Un esempio del fatto che non sempre la scrittura è pacificatrice è che molta scrittura femminile nasce da forme di dolore e da situazione-limite che non trovano consolazione. Agata Kristof è afflitta dallo sradicamento dell’esilio; Flannery O’Connor è affetta da un lupus che la porterà a una morte prematura; Anna Maria Ortese è ferita dalla morte del giovane fratello; Irène Némirovsky e Marie Cardinal sono prese dall’odio per le loro madri negative, addirittura in una sequenza genealogica (sono rispettivamente madre e figlia), perché non sono state capaci di imparare ad amare la madre. La scrittura di Luisa nasce dal desiderio e dal piacere di scrivere, ma anche dal fatto che la relazione materna sia stata un punto importante, sia della sua elaborazione politica-filosofica che della sua forza esistenziale. Non è stato così fin dalla nascita perché amare la madre non è una esperienza immediata, ma un sapere che si apprende, come ci dice Luisa ne L’ordine simbolico della madre. Il sapere amare la madre è stata per lei una conquista: amare la madre comporta la convinzione profonda non solo della necessità della potenza materna, ma del fatto che colei che ci ha dato la vita non è nemica della nostra indipendenza, anzi ne è la condizione. In questo è riposta la grande pacificazione con sé stesse. La madre è soprattutto la lingua: lei non ci ha dato solo la vita, ma anche la parola. Luisa scrive per il piacere di scrivere, e questo ha giovato anche alla pratica politica di costruzione del simbolico femminile, che è una pratica di messa in parola di esperienze ed eventi che non trova nella cultura maschile, ancora profondamente omosessuale, le parole per dirlo. La nostra realtà si costituisce nominandola, il nostro rovesciare il mondo non è qualcosa che avviene all’esterno di noi, ma noi cambiamo il mondo nel cambiare noi stesse.

Luisa ha imparato con Lia pratiche come l’affidamento e il partire da sé. Ma, a differenza di Lia, che prima pensa e poi scrive, Luisa articola le intuizioni che ha direttamente nella scrittura. Pensiero e scrittura si evolvono sincronicamente. Infatti, così dice:

«Ci sono persone che pensano indipendentemente dalla scrittura: Lia Cigarini, lei pensa, poi si mette a scrivere. Anche lei ha un momento di trattativa tra il suo pensare e la scrittura, ma la scrittura è piuttosto uno strumento. Mentre per me la scrittura – e della scrittura la sintassi – è una specie di stampo, in cui vado. Perché ci vado, con questo bisogno, quando ancora non ho niente da dire? Questa è una cosa che non so. Io so che c’è. È come se dovessi fare ordine simbolico dentro di me, oppure come se dovessi riprendere il processo di contrattazione con la madre, con mia madre, con tutto quello che è lo strato primario del mio vivere. Infatti, lo scrivere mi dà, quando la scrittura è riuscita, un senso di intimo, profondo, grande, star bene, vicino a uno stato di felicità, di beatitudine».

La mistica

Ma, oltre a questo piacere quasi fisiologico, cosa veramente distingue Luisa Muraro da Cigarini, da altre e dalla stessa Luce Irigaray? La mistica. Da qui Luisa trae il modello di scrittura ma anche la necessità di affidarsi alle pratiche.

«Dalla lettura delle scrittrici mistiche io ho affinato l’orecchio per captare il silenzio, la presenza di un silenzio. […] L’assenza si iscrive come una forma di presenza cava, una forma di cavità in questa scrittura che si arresta nell’ascolto di qualcosa che non può risuonare effettivamente. Questa capacità femminile di scrittura (mi si potrà dire: anche nei mistici; ma negli uomini non tiene, poi si trasforma sempre in un discorso compiuto), questa capacità di discorso sospeso, incompiuto, permette di scrivere quello che non è storia», ossia la storia scientifica. Per Luisa che ha appreso, come tutte noi della nostra generazione post-guerra, la storia da racconti familiari, è difficile accettare l’“oggettività” della storia.

Anche la “teologia favolosa”, rischia di divenire teologia scientifica e allontanarsi da quella teologia in lingua materna che inizia «quando si comincia a parlare di Dio in volgare, in lingua materna, e su questo passaggio sono le donne che si fiondano e hanno una loro letteratura fiorentissima». La teologia intesa come scienza, con tutte le classiche operazioni della cancellazione della differenza femminile e della presenza di donne, è esattamente come le altre discipline. Ma nella mistica, finché la mistica resta mistica, questo non avviene. C’è una letteratura mistica che non si trasforma in teologia scientifica. Per Luisa c’è un legame forte tra la mistica e la politica delle donne, perché in entrambe c’è il tema dell’alterità, del vuoto come rimando all’alterità; quindi, un divenire che non si colma ma che lascia aperto alla differenza sessuale. Un punto importante è quello del “c’è altro” che segna il senso della incompiutezza e della fragilità e che va salvaguardato. Non siamo in una visione nichilista, né al colmo della disperazione, anzi dalla mistica Luisa ha appreso che si può chiedere alla politica anche la felicità. Luisa qui ci sottolinea che il tema della politica e della felicità c’è già nella Costituzione degli Stati Uniti ma che si può trovare la felicità facendo anche ricerca scientifica. Michela Pereira «anche lei in chiave di polemica coi limiti della modernità e della scienza moderna, ha rivendicato alla tradizione alchemica di fare della felicità un tema centrale della ricerca scientifica stessa». Cosa che Luisa ritrova insieme alle pratiche in Margherita Porete. Il primato delle pratiche è una caratteristica di ogni tradizione mistica «perché l’iniziazione mistica deve avvenire secondo modalità che non sono capriccio personale: per uscire dal sé fasullo che la cultura e la società ti costruiscono è necessario farlo avendo un maestro, una guida. […] Il primato delle pratiche lo troviamo anche nel movimento politico delle donne; non nella sua componente solo accademica, perché le femministe solo accademiche hanno adottato le pratiche del mondo accademico necessarie per la ricerca scientifica». Su questo s’innesta un altro discorso molto importante per Luisa, il suo rapporto con l’istituzione universitaria che la porta insieme a Chiara Zamboni a proporre un progetto di autoriforma universitaria.

L’autoriforma

Apro qui una parentesi. Ci sono stati momenti di frizione tra me e Luisa, soprattutto quando nel 1998-99 Massimo D’Alema, primo Presidente del Consiglio dei ministri di sinistra, mandò truppe italiane nella guerra del Kosovo. Luisa s’aspettava da me non una semplice critica, ma un gesto di vera rottura che non feci. Mi accontentai delle solite giustificazioni correnti, ossia la difesa della popolazione, la democrazia etc. Tra l’altro minimizzai anche il suo dissenso che fu abbastanza duro, perché interruppe con me lo scambio di lettere allora scritte a mano, che io ancora conservo, e le sue venute a Napoli a eventi da me organizzati. Minimizzavo anzi, ci scherzavo su, per esorcizzare la sua disapprovazione, dicendo che Luisa, da vera “badessa” (così la chiamavamo scherzosamente nel riconoscerle Autorità femminile) mi aveva scomunicata. Una grande intesa con Luisa, invece, ci fu proprio sul progetto di autoriforma universitaria. Come lei, ho vissuto una profonda estraneità verso quel luogo, che da studentessa, durante la rivolta del ’68, era diventato la mia casa. Ma poi, dopo quegli anni fervidi di lotte e di speranze, l’Università ha subito un lento e forte processo di restaurazione, a colpi di riforme istituzionali che sembravano introdurre piccoli cambiamenti, ma che invece contenevano grandi disegni restauratori. Ne è un esempio l’introduzione dei crediti formativi: sembrava una cosa piccola, ma ha, soprattutto nelle facoltà umanistiche, rotto ogni possibilità di fare dell’Università una comunità di relazioni umane e culturali, che sono alla base di un “corretto” modo di fare ricerca scientifica e didattica.

L’autoriforma, che prese l’avvio da una lettera inviata da Luisa Muraro e Chiara Zamboni a tutte le università italiane, proponeva di avviare un mutamento visibile dell’Università, attivando comportamenti “anticonformistici” e “pratiche di relazione” invece di burocratiche riforme legislative. A questo appello risposero molte università italiane e risposi anche io con un documento che a Luisa piacque molto, intitolato “Lista di rinuncia al concorso” nel quale, invece di rivendicare il diritto di essere ammessi al Concorso, sancivo il diritto di rinunciarvi. Quel “concorsone” non serviva a fare una vera selezione, ma era un paravento di vecchi metodi baronali. Non era la mia solo una provocazione, ma era una denuncia verso una Lista (una vera lista d’attesa) in cui chi vinceva formalmente rimaneva iscritto finché non veniva “chiamato” da qualche università italiana, pena la decadenza se la cosa non si verificava entro tre anni. Il tal caso quindi poi si doveva ripetere tutto daccapo. Era una vera presa in giro, una riproposizione mistificatoria del modello della cooptazione universitaria, che perpetuava le relazioni di potere baronale. La rinuncia non fu solo una proposta, io la realizzai alla lettera non presentandomi mai al Concorso di associato. Ho dedicato le mie energie alla ricerca in un ambito come il Pensiero della differenza, non considerato scientifico dall’Accademica e quindi che non faceva titolo, ma che rispondeva al mio desiderio di fare filosofia in un certo modo e che mi ha dato molta felicità.

Mi accorgo che più di parlare del Quaderno ho parlato dei miei ricordi con Luisa. Partendo da me ho trasgredito “il canone” che governa le recensioni che le vuole neutre e oggettive e quindi ho immesso nella sua biografia ricordi autobiografici che riguardano la nostra relazione. Non è stato per puro egocentrismo ma non credo nell’oggettività della scienza, della storia e della scrittura e quindi non so fare recensioni canoniche.

da il manifesto

Sono oltre 39.000 i bambini di Gaza che hanno perso uno o entrambi i genitori. Di questi, ben 17.000 – secondo i dati diffusi dall’Ufficio centrale di statistica palestinese – hanno visto morire sia il padre che la madre sotto i bombardamenti israeliani. Sono sopravvissuti alla morte, ma ora sono soli. Spesso feriti gravemente, mutilati, affetti da disabilità permanenti. Hanno – e avranno – bisogno di cure mediche che il sistema sanitario di Gaza, devastato da missili e bombe, non è più in grado di garantire. E necessitano di un sostegno psicologico profondo per affrontare i traumi subiti, se mai sarà possibile farlo. «Presto il numero degli orfani potrebbe triplicare rispetto alle stime iniziali. Saranno fragili e ad alto rischio anche dopo la fine della guerra», avverte l’International Rescue Committee. Per le bambine e ragazze rimaste senza genitori il cammino sarà ancora più difficile.

Molte adolescenti – e persino ragazzine di tredici-quattordici anni – hanno assunto il ruolo delle madri scomparse, prendendosi cura non solo dei fratelli più piccoli, ma anche di cugini, nipoti, talvolta di bambini estranei rimasti senza famiglia. Aya Dabbash, sedici anni, non avrebbe mai immaginato di diventare una «madre supplente» – come le chiamano a Gaza – e che sarebbe toccato solo alle sue braccia accogliere e dare calore a sua nipote Celine, di pochi mesi, unica sopravvissuta al raid aereo israeliano che ha annientato l’intera famiglia. Aya ha affidato a un giornale online palestinese il ricordo di quel momento: «Il bombardamento era stato così violento – ha raccontato – ci ha colpito da così vicino… Sono corsa da mia sorella e ho trovato Celine: era sola, sdraiata sul letto. Aveva il corpo coperto di ferite. L’ho presa tra le mie braccia e da quel giorno l’ho sentita parte di me».

Quella di Aya è una delle tante maternità nate sotto le macerie della Striscia. Giovani donne e ragazze sono state costrette ad assorbire rapidamente la perdita della famiglia e si sono ritrovate al centro di un’esperienza che va ben oltre la loro età. Aya, nel suo racconto, non ha nascosto lo shock provato nel momento in cui la maternità le è stata imposta dai massacri quotidiani di Gaza. «All’inizio avevo paura – ha detto – Mi chiedevo: posso gestire tutto questo? Sono troppo piccola per essere responsabile di una bambina. Poi mi sono ritrovata a fare tutto ciò di cui mia nipote aveva bisogno. Celine è stata il balsamo che ha curato le mie ferite, prima che io fossi il suo balsamo». Aya sognava di diplomarsi, andare all’università, costruirsi una famiglia. Il bagno di sangue a Gaza l’ha privata di tutto, anche del futuro.

Anche Alaa Al Hasanat, quindici anni, ha iniziato il suo percorso di maternità dopo aver perso gran parte dei familiari. È sopravvissuta ferita tra le macerie della propria abitazione. «Mi hanno portata in ospedale e non sapevo chi della mia famiglia fosse vivo o morto. Tra lo shock e il dolore, ho sentito mia nipote Sarah piangere senza sosta. Poi l’hanno messa tra le mie braccia e si è calmata». Col passare dei giorni, Alaa ha compreso l’enormità della responsabilità che la attendeva: crescere una bambina in mezzo alle macerie, ai raid aerei continui, alla fame. Il latte e i medicinali sono diventati introvabili.

Un’altra giovane, Hanaa Qarnawi, si prende cura del piccolo Osama, figlio della sorella. «Mio nipote – racconta – è nato dopo sedici anni di matrimonio. Mia sorella aveva lottato tanto per averlo, sottoponendosi a cure e trattamenti. Era così felice di averlo finalmente con sé. Poi, in un attimo, tutto è finito. Non ha nemmeno avuto il tempo di godersi quel figlio tanto desiderato». Racconti come questi si moltiplicano. Altre ragazze, anch’esse orfane, sono diventate madri supplenti.

«I 39.000 bambini di Gaza rimasti orfani rappresentano un trauma profondo per un’intera generazione», osserva al manifesto Pippo Costella, direttore di Defence for Children Italia. «È una ferita che avrà ripercussioni per decenni – aggiunge –. Molti dei minori sopravvissuti, privati di ogni figura adulta di riferimento, vengono oggi accuditi da altri bambini, costretti a sostituirsi ai familiari uccisi. Esperienze personali segnate dal lutto, dalla sofferenza, e dall’assunzione precoce di ruoli totalmente inadeguati all’infanzia».

Il pericolo più immediato per i bambini di Gaza – che costituiscono il 47% della popolazione – restano le bombe e di recente anche la fame. In molti rovistano tra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare. I bambini morti per malnutrizione, riferiscono fonti locali, sono già decine. Decessi causati dal blocco degli aiuti umanitari imposto da Israele lo scorso 2 marzo, allentato solo in minima parte – e senza effetti concreti – dopo le proteste internazionali.

Dalla ripresa dell’offensiva israeliana, lo scorso 18 marzo, sono oltre mille le donne e i bambini uccisi. Il numero complessivo dei minori deceduti si avvicina a quota 20.000, secondo il ministero della Sanità di Gaza. E con il passare dei giorni cresce anche il numero degli orfani – di uno o di entrambi i genitori – assieme a quello delle giovanissime «madri supplenti». Gaza, ricorda Save the Children, è «il luogo più mortale al mondo per un bambino».

da HuffPost

Jake Wood, ceo della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), si è dimesso a poche ore dall’inizio delle operazioni di distribuzione nella Striscia di Gaza. Una decisione clamorosa e inattesa che getta nuove ombre sul già controverso progetto di aiuti umanitari targato Israele-Stati Uniti.

Wood, classe 1983, è un veterano dei Marines decorato per il suo servizio in Iraq e Afghanistan. Dopo il congedo dalle forze armate, ha fondato Team Rubicon, un’organizzazione umanitaria che mobilita veterani statunitensi per rispondere ai disastri naturali e alle crisi globali. Oggi è anche alla guida di Groundswell, piattaforma tecnologica per la filantropia aziendale. Autore del libro Once a Warrior e insignito della Presidential Citizens Medal, è una figura rispettata sia nel mondo militare che in quello civile e umanitario americano. La sua nomina alla guida della Ghf – sostenuta da ambienti vicini a Washington e Gerusalemme – sembrava quindi essere la figura perfetta, ad hoc, per dare credibilità e legittimità a un’iniziativa oggetto di forti critiche da parte di agenzie Onu e ong internazionali.

Il passo indietro di oggi, invece, suona ora come un chiaro segnale di dissenso politico nei confronti di un piano che, a suo giudizio, compromette i principi fondamentali dell’azione umanitaria.

«Due mesi fa sono stato contattato per guidare la Gaza Humanitarian Foundation grazie alla mia esperienza in campo umanitario» ha dichiarato Wood, «come molti, sono stato sconvolto dalla fame a Gaza e mi sono sentito moralmente obbligato ad agire». Wood avrebbe dovuto coordinare la distribuzione di 300 milioni di pasti in 90 giorni, raggiungendo inizialmente 1,2 milioni di persone, attraverso quattro centri situati nel sud della Striscia di Gaza, in un sistema che escludeva qualsiasi coinvolgimento dell’apparato Onu. Quando il progetto è entrato nel vivo e ha preso forma, però, ha capito che non c’erano le condizioni minime di indipendenza e di trasparenza per operare. «È chiaro che non è possibile implementare questo piano mantenendo i principi fondamentali di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, che non sono disposto ad abbandonare», scrive nella sua ultima nota al board, domenica 25 maggio.

Fondata nel febbraio 2025, la Gaza Humanitarian Foundation, con sede a Ginevra, è sostenuta da Stati Uniti e Israele. Sin dall’inizio, tuttavia, ha incontrato una forte opposizione da parte di Nazioni Unite e principali ong, che denunciano l’assenza di rappresentanza palestinese e la cooperazione diretta con le autorità israeliane, mettendo così in discussione la sua neutralità. Ad oggi sul territorio palestinese operano circa 200 ong con corrispettivi partner, e 15 Agenzie delle Nazioni Unite, secondo cui questo piano strumentalizza l’assistenza umanitaria, mettendola nelle mani di una delle parti in conflitto. «Noi non lavoriamo con le parti in conflitto», ha dichiarato Bushra Khalidi, responsabile delle politiche di Oxfam nei Territori palestinesi. C’è poi l’organizazione Trial International, che ha chiesto indagini formali in Svizzera per valutare la legalità delle operazioni, in particolare riguardo all’impiego di compagnie private di sicurezza, come UG Solutions e Safe Reach Solutions, per la protezione dei convogli umanitari. Dubbi anche sulla trasparenza finanziaria dell’intero piano: come nota il Financial Times, la stessa GHF non ha ancora presentato una lista pubblica dei suoi finanziatori.

Nonostante l’uscita di scena di Wood, Ghf ha iniziato oggi le operazioni, con un primo centro attivo di distribuzione degli aiuti nella Striscia e con piani di espansione rapida. «I nostri camion sono carichi e pronti a partire», si legge in una nota diffusa dall’organizzazione. Il piano della Ghf prevede una drastica riduzione dei punti di distribuzione alimentare – ribattezzati Secure Distribution Sites (SDS) – che passerebbero dagli attuali 400, gestiti da ong con una presenza storica sul territorio, a soli quattro centri, tutti situati nel sud della Striscia. Questa scelta costringerebbe migliaia di civili palestinesi del nord, già provati dai bombardamenti, a spostarsi per accedere a razioni essenziali di cibo. Va ricordato che lo svuotamento programmato del nord di Gaza è uno degli obiettivi dichiarati dell’offensiva militare israeliana in corso. In questo contesto, il piano Ghf non solo – secondo un portavoce dell’Unicef – «potrebbe aumentare le sofferenze di bambini e famiglie a Gaza», ma per molti osservatori risulta perfettamente allineato con la strategia israeliana di spopolamento dell’area settentrionale, già colpita da evacuazioni forzate e gravi distruzioni.

La critica che rimbalza fra analisti e operatori del settore è in altre parole che la nascita della Gaza Humanitarian Foundation rappresenti un nuovo passo nell’uso politico degli aiuti umanitari. Il blocco totale imposto da Israele il 2 marzo scorso – su cibo, medicinali e carburante – ha generato una crisi umanitaria senza precedenti. La centralizzazione degli aiuti in una singola entità, sotto stretto controllo israeliano, rischia di trasformare il cibo in uno strumento di pressione e arma politica contro la popolazione civile. Il governo israeliano giustifica il piano come misura per impedire che Hamas intercetti gli aiuti, ma viene accusata di perseguire l’obiettivo reale di ridurre l’autonomia delle agenzie internazionali e delle organizzazioni palestinesi.

Il crescente dramma umanitario sta alimentando un’ondata di indignazione internazionale, che inizia a farsi sentire anche tra gli alleati storici di Israele. Con l’uscita di scena del suo stesso direttore, la Ghf avvia le operazioni sotto una nube di sospetti e critiche. La credibilità di ogni piano di assistenza dipende più che mai dalla trasparenza, dalla fiducia e dal rispetto dei principi fondamentali del diritto umanitario internazionale. In assenza di questi presupposti, anche gli aiuti rischiano di trasformarsi in strumenti di pressione anziché in strumenti di soccorso. Con la sua scelta, Jake Wood ha chiaramente indicato di non voler essere complice di un sistema che, a suo giudizio, non è in grado di garantire quei valori.

dal Quotidiano Nazionale

«Ribellarsi, contestare il governo Netanyahu giorno e notte, disobbedire anche nell’esercito»: Edith Bruck, novantaquattro anni, reagisce così alle notizie che arrivano da Gaza, all’orrore che cresce.

Signora Bruck, una pediatra palestinese ha perso nove dei suoi dieci figli in un raid dell’esercito israeliano…

«È terribile. Quello che accade a Gaza è molto, molto doloroso per me, e credo che sia lo stesso per tutti. Benjamin Netanyahu sta provocando uno tsunami di antisemitismo, perché tutti identificano gli ebrei con il governo israeliano. Ma la maggioranza degli ebrei e degli israeliani non è assolutamente d’accordo col governo Netanyahu».

Crede che l’opinione pubblica israeliana oggi solidarizzi con la gente di Gaza?

«In Israele stanno protestando, ogni sabato ci sono manifestazioni contro Netanyahu, ma lui è sordo e cieco e si appoggia alla destra religiosa, che invoca la violenza in nome di Dio. Questo è terribile. Usare Dio per uccidere è una cosa mostruosa. Lo hanno fatto tutti, anche i nazisti. Ricordo le fibbie sulle cinture delle SS ad Auschwitz: c’era scritto Gott mit uns, ‘Dio è con noi’. Quando uscii dal campo mi dissi: povero Dio, in nome tuo hanno ucciso milioni di persone».

Che altro potrebbero fare oggi i cittadini israeliani?

«Protestare di più. Non solo il sabato, ma tutti i giorni, anzi giorno e notte. Anche assediando la casa-bunker di Netanyahu e della moglie. Questo è il momento di ribellarsi».

L’esercito israeliano si definisce “il più morale del mondo”: a Gaza non sembra così.

«Infatti molti soldati non vogliono essere coinvolti nelle operazioni a Gaza. Io credo che tutti, nell’esercito, dovrebbero ribellarsi e non eseguire ordini che sono disumani. Bisogna dire di no. E poi nemmeno riusciamo a capire a che cosa si voglia arrivare nella Striscia».

Sembrerebbe alla pulizia etnica, all’occupazione militare.

«Non voglio nemmeno sentire nominare queste parole, pulizia etnica, mi viene un dolore allo stomaco. So che cosa vuol dire essere deportati, anche senza fare paragoni che non si possono fare. Ogni vita è preziosa, non ci sono vite di serie A e di serie B».

Le vite dei gazawi sembrano vite di serie B.

«Sì, e così il governo Netanyahu sta facendo un danno enorme all’ebraismo nel mondo. L’antisemitismo è una brace che cova sotto la cenere e basta una scintilla per infiammarla. Lo sappiamo, ma a Netanyahu non importa nulla. A Roma il rabbino, per strada, è stato insultato, gli hanno detto “massacratore di bambini”. Ma che c’entra lui? Che c’entro io? Che c’entrano gli ebrei nel mondo?»

Anna Foa in un libro ha parlato di “suicidio di Israele”…

«Conosco Anna da tanti anni, ma non ho letto il libro a causa della mia maculopatia. È un titolo molto duro, io non userei questa parola, ma gli israeliani devono ribellarsi, un giorno alla settimana non basta».

In Europa alcuni governi hanno cominciato a criticare Israele. Che cosa potrebbe fare l’Europa? Qualcuno propone di denunciare gli accordi diplomatici e commerciali.

«Parlano, parlano, parlano, ma non ci sono fatti. Niente cambia. Per l’Europa è sempre stato molto difficile intervenire perché si porta dietro una colpa infinita e imperdonabile, e quindi non vuole mettersi contro i governi di Israele. I tempi però sono cambiati e certe posizioni andrebbero riviste».

Lo stesso vale per gli Stati Uniti?

«Gli Stati Uniti dovrebbero smettere di inviare armi a Israele, così gli attacchi a Gaza potrebbero finire. Non osano farlo, probabilmente, per le pressioni degli ebrei americani. Ma gli Usa non possono abbandonare Israele, perché Israele è circondato da nemici e da solo non potrebbe resistere».

Qual è la via di uscita?

«Creare uno Stato palestinese, a quel punto cambierebbe tutto».

Israeliani e palestinesi sarebbero pronti a convivere?

«Non lo so. Forse sì, se non è cresciuto troppo l’odio. Le nuove generazioni sono cresciute con il veleno dentro, ma bisogna arrivare comunque alla pace con i palestinesi. La pace è l’unica soluzione».

da Avvenire

«La prostituzione è sempre sfruttamento. Non è una scelta libera, perché le donne possono essere indotte dalla povertà o forzate da qualcuno. L’unico che ha davvero una scelta è l’uomo che paga per il sesso. È su di lui che dobbiamo spostare il focus». Non fa sconti Kajsa Ekis Ekman, giornalista svedese e autrice del libro “Essere ed essere comprate”, uscito in Italia nel 2024. E non ne fa neppure alla narrazione dominante, che spesso dipinge la prostituzione come un lavoro qualsiasi: le polemiche e le prese di posizione intorno al recente caso del codice Ateco ne sono un esempio anche in Italia. Scrittrice e femminista da anni impegnata sul tema in giro per il mondo, Ekman qualche giorno fa ha fatto tappa a Milano, all’Università Bicocca, dove ha parlato con gli studenti e le studentesse in un incontro dal titolo “Donne e violenza: prevenzione e repressione”.

La prostituzione, ha detto Ekman, è espressione di iniquità. «Una donna benestante, con alternative reali davanti a sé, non la sceglie. Inoltre, ci sono disuguaglianze strutturali profonde tra chi paga e chi viene pagato, come l’estrazione sociale e la condizione economica», precisa. Anche i dati citati dalla giornalista, raccolti nel 2003 da un team di medici e psicologi che ha intervistato 800 donne nella prostituzione in nove Paesi, mostravano già la drammaticità della loro condizione: il 71% di loro ha subito aggressioni fisiche e il 63% è stata vittima di stupro durante la prostituzione, quasi il 90% vorrebbe uscire da quel sistema se ne avesse la possibilità e il 68% aveva sintomi di una diagnosi da stress post traumatico. Un contesto di sofferenza e sfruttamento che negli ultimi vent’anni non è cambiato e che i cosiddetti clienti conoscono bene, come mostra un altro studio condotto poco tempo fa in Germania. «Dalle loro risposte all’indagine si vede che sanno, ma credono che pagare li sollevi da ogni responsabilità. Lo stupro e l’uso della forza sono dei reati, ma se paghi allora tutto è concesso, la violenza diventa invisibile», aggiunge. Nella stragrande maggioranza dei casi il cliente è un uomo e questo mercato si regge sulla sua richiesta. Eppure lui non è mai esposto. Se si cerca online il termine “prostituzione”, per esempio, compaiono solo immagini di donne per strada di notte. «Se cerchi “clienti di prostituzione”, vedi le stesse foto. L’uomo non c’è, ma è lui che alimenta il sistema».

Una via per scoraggiare il mercato che alimenta traffico di essere umani e sfruttamento, secondo Ekman c’è, ed è quella intrapresa dal suo Paese. In Svezia si è tentato per anni di sensibilizzare sul tema con campagne educative, senza risultati significativi, spiega, «poi è arrivata la legge e qualcosa ha iniziato a muoversi». Dal 1999, il Paese scandinavo ha iniziato a criminalizzare il cliente. Da allora, sottolinea ancora Ekman, la percentuale di uomini che comprano sesso si è abbassata rispetto agli altri Paesi, passando dal 16 al 9%. «Con questa legge abbiamo evitato anche l’ondata di tratta arrivata per esempio in Germania, dove hanno legalizzato» i bordelli. E questi non sono stati gli unici risultati: «Adesso se sul Google svedese cerchi “sex buyer” trovi anche immagini di uomini. I media raccontano storie di uomini noti, magari sposati o fidanzati, che sono stati sorpresi a compiere il reato». Oltretutto, aggiunge, si dimostra per l’ennesima volta l’ipocrisia di chi dice che è “normale”, ma lo vuole tenere nascosto. In Svezia, ora, si discute addirittura sulla possibilità di estendere i limiti anche alle piattaforme online come OnlyFans, che secondo Ekman rappresentano «la nuova frontiera dello sfruttamento, camuffata da attività che arricchisce e rende indipendenti, cosa che in realtà vale per pochissime». OnlyFans, secondo la giornalista, è riuscita a rendere la prostituzione attraente anche per donne e uomini della classe media, che mai si sarebbero avvicinati a quella tradizionale. Il linguaggio cambia, si parla di “content creator”, ma la dinamica è uguale: «L’uomo paga e resta invisibile, lei si espone. Il gioco di potere è sempre squilibrato. L’unica differenza è che lì le donne devono praticare su di sé quello per cui i clienti pagano, anche ciò che non vorrebbero fare».

All’incontro, insieme a Elkman, c’era Ilaria Baldini, della rete di attiviste e sopravvissute alla prostituzione Resistenza Femminista, e operatrice del centro antiviolenza Cadmi. Il quadro illustrato, spiega, smentisce ogni retorica sulla “libera scelta”. «Tra le donne che seguo nei centri antiviolenza – racconta – quelle nella prostituzione fanno più fatica di tutte a parlare della propria esperienza. Sono le più devastate psicologicamente». Il messaggio che vorrebbero mandare da Milano è chiaro: cambiare le leggi aiuterebbe quantomeno ad aprire un dialogo franco, a vedere ciò che resta per lo più ignorato, ma ovviamente da solo non basta. «Dobbiamo affrontare il fatto che la prostituzione non agisce solo violenza fisica, ma alimenta anche quella culturale che poi produce ogni forma di violenza di cui il femminicidio è la punta dell’iceberg». Di fronte a tutte le conseguenze negative illustrate, sia Baldini che Ekman concordano soprattutto su un punto: «Se la prostituzione finisse, l’unica vera perdita sarebbe per quegli uomini che dovrebbero finalmente imparare a costruire relazioni reali. Una perdita, forse, sopportabile rispetto a tutta quella sofferenza delle donne che si potrebbe risparmiare».

da il manifesto

Incontri d’arte A New York con il fashion designer Antonio Marras che ricorda la sua collaborazione con Maria Lai, cui il Magazzino Italian Art dedica una retrospettiva

Allestita come un «girotondo di bambini» nella sala isotropica del padiglione Robert Olnick di Magazzino Italian Art, Llencols de Aigua (‘Lenzuola d’acqua’ in catalano) è un’installazione nata nel 2003 dalla collaborazione del fashion designer Antonio Marras (Alghero 1961) e dell’artista Maria Lai (Ulassai 1919 – Cardedu, Nuoro 2013).

Composta da teli bianchi con le sagome di antichi indumenti del corredo, su cui sono cuciti con il filo il rosso frasi raccolte da Lai durante un progetto didattico con bambine e bambini, l’opera viene presentata per la prima volta negli Stati Uniti nel museo e centro di ricerca che promuove l’arte italiana fondato nel 2014 da Nancy Olnick e Giorgio Spanu nel verdissimo paesaggio degli Hudson Highlands (a circa un’ora e mezzo da Manhattan) nell’ambito della retrospettiva Maria Lai. A Journey to America curata da Paola Mura (visitabile fino al 28 luglio).

«Maria Lai concepiva l’arte come un intreccio di molti fili: estetici, etici, narrativi e relazionali – afferma la curatrice –. Le collaborazioni con Antonio Marras, tra tessuto e memoria, rivelano non solo il suo impegno nel dialogo, ma anche la convinzione che la creazione sia un atto plurale. Attraverso questi incontri, l’arte diventava, per Lai, non un oggetto finito, ma una conversazione in continuo divenire. Non collaborava per condividere la scena, ma per ampliare il palcoscenico. Con gli architetti costruiva spazi e memorie. Con i musicisti faceva cantare il filo. Con Antonio Marras, vestiva l’invisibile».

«Maria Lai mi ha preso per mano e mi ha messo nel mondo dell’arte»: è quel che lei ha detto in occasione della mostra “Nulla Dies Sine Linea” alla Triennale di Milano di qualche anno fa. Può spiegarci meglio?

L’incontro con questa artista mi ha cambiato la vita. Ho sempre provato vergogna e avuto timore di far vedere le mie cose, conservate tutte in una stanza. Lei le ha letteralmente tirate fuori. Non sono una persona che sgomita, rimango spesso sei passi indietro, e il fatto che Maria Lai abbia visto qualcosa in me e mi abbia invitato, anzi all’inizio quasi costretto, a creare insieme è stato emozionante. Un lavoro d’innesto, amalgama, di mondi che si sono incontrati dei quali non avevo assolutamente cognizione. Maria ha veramente trasformato la mia visione. Ad Alghero, nel nostro studio (dove lavorano anche quindici persone), c’è una lunga parete in cemento armato. Ricordo che una volta lei si poggiò al tavolo e si mise a guardarla. Mi disse che voleva realizzare un telaio. Rimase tutta la mattinata poggiata lì, continuando a guardare la parete. Le chiesi se c’era qualcosa che non andasse, se non si sentisse bene. Lei affermò che la parete non aveva parlato. Nel pomeriggio, poi, chiese di mandarle un operaio e iniziò a lavorare. Disse: «la parete ha parlato». Ho capito così quanto sia importante lasciare che gli oggetti si rivelino. Avevamo anche un amore comune per le cose scartate, messe via o buttate. Sia nell’arte che nella moda ho sempre proposto un’operazione di recupero e anche in Llencols de Aigua le vecchie sottovesti e camicie da notte che si trovano nei mercatini, perché la gente le getta via, sono state recuperate e cucite con le frasi dette dai bambini che Maria Lai aveva selezionato. Il filo che le unisce è stato cucito da lei. La ricordo con l’ago in mano cucire come la “jana” che era (figure mitologiche tramandate nella tradizione orale che incarnano lo spirito della Sardegna, le janas erano delle piccole fate che trascorrevano il tempo tessendo a mano con telai dorati, ndr).

È vero che è stata lei a convincerla a mostrare i suoi taccuini?

Ho sempre disegnato senza però mai pensare agli abiti e alla moda. Non disegnavo l’abito per mia madre o le mie sorelle ma pasticciavo, quindi ho interi scaffali pieni di cose. Maria ha visto questi miei lavori e, da allora in poi, viaggio sempre con taccuini, diari, colori. Porto sempre con me una sorta di piacevole fardello addosso, perché non mi devono mai mancare le pagine bianche, la colla, i colori. Venendo a New York, in aereo, ho disegnato per otto ore. Guardavo i film e disegnavo con il caffè. Ogni tanto le hostess si affacciavano per vedere cosa avessi fatto. Maria Lai mi ha stimolato a tirare fuori quello che era assopito in me. Non solo con il disegno. In questa mia esistenza piena di dicotomie e contrasti, complicata e articolata, i momenti in cui mi rilasso distaccandomi dal mondo sono due: mentre disegno nel mio studio privato – il pasticciare mi blocca il neurone che è sempre in azione – e l’altro (che adoro) è quando entro in una sala cinematografica. Il cinema per me è veramente una terapia.

È una sua tecnica quella di disegnare con il caffè?

Uso il caffè miscelato con gli acquarelli. Non ho tecniche, non ho studiato arte. Sono un ragioniere, ma, come dicevo prima parlando degli ossimori, sono discalculico. Non ho un ricordo felice della scuola, mi rendevo conto di perdere tempo, però mio padre era felicissimo perché pensava che una volta diplomato avrei lavorato in banca. Questo era il suo obiettivo. Ho scoperto di essere discalculico solo dopo che uno dei miei figli ha avuto problemi al liceo. Ai tempi capivo che solo la poesia mi regalava respiro. La pagina scritta era un incubo. La poesia, invece, era scritta al centro della pagina e tutto il resto era bianco, cosa che mi permetteva di immagazzinare le parole e tutto ciò che aveva un ritmo, una rima. I pieni e i vuoti, come diceva Maria. Ricordo ancora la prima poesia che ho studiato in prima elementare, Rio Bo di Aldo Palazzeschi e poi l’Inferno della Divina Commedia: mi piaceva la metrica, come mi piacciono i testi delle canzoni. Più che impararle, le ho immagazzinate perché c’è la musica ad accompagnare le parole.

A proposito di suo padre, che aveva un negozio ad Alghero: era con lui quando giovanissimo visitò l’hangar di Elio Fiorucci a Buccinasco. Ne ebbe una grande impressione, può raccontarci qualcosa?

Era la prima volta che seguivo mio padre, lui è stato il primo a portare Fiorucci in Sardegna, che allora era la super avanguardia. Entrare nel mondo di Elio e vedere quel posto, che era una specie di caverna di Alì Babà e lui un gigante barbuto che ci accoglieva, è stato estasiante. Lì ho capito che la moda non è solo questione di indumenti, ma riguarda una serie di elementi che vanno a comporre e accompagnare l’esistenza e, come dice mia moglie (Patrizia Sardo Marras) nel suo libro che è appena uscito, La moda non è un mestiere per cuori solitari (Bompiani), gli abiti mi hanno salvato la vita.

Oltre a Maria Lai, nel suo lavoro si colgono riferimenti anche ad altre artiste e artisti, tra cui Boltanski, Louise Bourgeois, Carol Rama. In che modo hanno contribuito a formare la sua visione?

Avevo un’antologia d’italiano che conteneva e una pagina bianca con un taglio, sotto c’era scritto «Lucio Fontana». Allora non sapevo chi fosse, né cosa rappresentasse quel taglio. Ricordo solo che quando guardavo quella pagina, e più tardi opere di Fontana dal vivo nei musei (e una volta anche in una casa privata dove ce n’erano una ventina), quella ferita, rottura, apertura, fessura rappresentava una possibilità per vedere oltre. Un’occasione che mi hanno offerto tutti quegli artisti e artiste di cui mi ha chiesto, insieme, aggiungerei, a Beuys e Pina Bausch. Andai a Sassari perché un mio amico aiutava nei costumi un “certo” Lindsay Kemp in Flowers. Fu proprio vedendo quello spettacolo che capii che esisteva un altro modo di fare danza. Quando un mese dopo arrivò Pina Bausch con Café Müller fu una rivelazione. All’epoca, la danza che conoscevo era quella di Baryshnikov e Nureyev nel programma televisivo di Vittoria Ottolenghi che vedevo il sabato, appena tornavo a casa da scuola. Come il cinema, la danza è sempre stata una delle mie grandi passioni.