da https://obiezioneallaguerra.webnode.it/l/

Oggi, 2 ottobre, celebriamo la Giornata Internazionale della Nonviolenza, un’occasione che onora la data di nascita del Mahatma Gandhi, il pioniere di una filosofia e strategia sì «antica come le montagne», ma che – resa efficace nella dimensione politica pratica – ha cambiato il mondo.

La “vittoria”, sotto la guida di Gandhi, della liberazione dell’India dal colonialismo, nelle straordinarie modalità di svolgimento, ispirate al principio etico del “non uccidere”, ha introdotto la speranza di una “rivoluzione” che sia al contempo profonda conservazione delle basi durature dell’esistenza.

Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 giugno 2007 e commemorata per la prima volta nello stesso anno, questa giornata è un richiamo all’azione per tutti i membri della comunità globale. La risoluzione delle Nazioni Unite invita infatti a «divulgare il messaggio della nonviolenza, anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica», riaffermando la sua rilevanza universale.

La ricorrenza ci invita a riflettere sul potere e sulla forza del principio di nonviolenza come strumento essenziale per costruire un futuro di pace, comprensione reciproca e cooperazione della umanità globale nella conversione ecologica.

La nonviolenza che siamo chiamati a propugnare non è una semplice astensione dall’agire o una tecnica pragmatica. È una forza poietica – cioè innovativa e concreta – ancorata al valore fondamentale del rispetto della vita universale.

Essa rappresenta la strategia di trasformare le relazioni di potere (il “potere con” contro il “potere su”), mutando i gruppi umani nemici in gruppi umani amici. La nonviolenza è un progetto di terrestrità: un impegno a salvare non solo l’umanità dai conflitti, ma a curare, da “custodi dell’evoluzione naturale”, la nostra Terra stessa, radicando la civiltà umana in rapporto armonico con l’unico ecosistema vivente cui apparteniamo come specie.

In linea con questi principi, i Disarmisti Esigenti (www.disarmistiesigenti.org), membri di un’organizzazione centenaria della nonviolenza come la War Resisters’ International (WRI), propongono, in modo prioritario, un impegno fondamentale su due “fronti”:

– L’abolizione delle armi nucleari: in collegamento con la Rete ICAN, per eliminare la minaccia più grave alla sopravvivenza umana e planetaria.

– L’obiezione alla guerra: quale tendenza che si sta pericolosamente estendendo, in particolare nei conflitti come quello in Ucraina e in Medio Oriente, riaffermando il rifiuto radicale del metodo della violenza per risolvere le controversie.

A questo proposito ricordiamo la dichiarazione di impegno da sottoscrivere al seguente link:

https://www.petizioni.com/obiezione_alla_guerra_e_al_servizio_militare_impegno_per_la_difesa_nonviolenta

La Giornata Internazionale della Nonviolenza ci sfida a rendere questi ideali un’azione quotidiana, con impegno personale e collettivo, contribuendo al futuro della pace “disarmata e disarmante”, nel rapporto armonico da ricercare tra società umana e Natura.

C’è in giro un fantasma vendicativo che si aggira indisturbato tra le folle, accompagnando la sete di giustizia di uomini e donne, giovani e anziane, indifferentemente. Proclamandosi riparatore di torti, trova accoglienza in social, piazze e salotti, nutre nuove generazioni, intossica. Invocando riparazione trova plauso in un mondo a ragione assetato di giustizia. Il sentimento, l’emozione prorompe e deborda, ingoiando la distanza necessaria per patire il dolore, ma anche per trascenderlo, trasformandolo in progetto per un mondo futuro vivibile, perché la sopraffazione non rimbalzi, cambi direzione, per perpetuarsi.

La manifestazione per la Giornata Internazionale della Pace, che si è tenuta all’interno del Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano [la “Tenda del Lutto”, organizzata il 21 settembre 2025 dalla Fondazione Gariwo, ndr], è stata una rara occasione per rivedere un pacifismo sincero, fondato sul lavoro di mediazione e nonviolenza, in cui le parole e le pratiche di pace delle donne, quelle che ci hanno dato strumenti per andare oltre alle logiche dello scontro, hanno potuto trovare pubblica rappresentanza. Il momento più emozionante è senza dubbio stato l’incontro con Aisha Khatib e Irit Hakim dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace. Un’organizzazione nata da ex combattenti di entrambe le parti che hanno deciso di abbandonare lo scontro armato per cercare una soluzione nonviolenta.

Nelle parole di Aisha Khatib, nella ferita per la perdita del fratello, in quella vita distrutta da un proiettile sparato da un soldato israeliano che a distanza di dieci anni ha raggiunto il suo esito fatale, nel racconto della rabbia e del successivo smarrimento, nell’incontro prima con i Parents Circles e poi con Combatants for Peace, è emerso un travaglio vitale più forte degli esiti mortiferi della guerra e della vendetta. La stessa cosa che è accaduta a Irit Hakim, israeliana da sette generazioni, sopravvissuta per puro scherzo della sorte al massacro di ventidue giovanissimi israeliani compiuto da un gruppo di terroristi provenienti dalla Siria, sopravvissuta alla morte di un amico d’infanzia, passata attraverso la detenzione del marito per il suo rifiuto di prestare servizio nei territori occupati. Donne che hanno trasformato il dolore, le diffidenze e il desiderio di giustizia in una risorsa per il futuro, nella volontà di conoscersi, parlarsi comunicando le proprie ferite, scoprendo che «non si può essere nemici se conosci tante cose dell’altro».

Non a caso fino alla vigilia del 7 ottobre sono state le donne israeliane e palestinesi riunite in Women Wage Peace in collaborazione con Women of the Sun che hanno costituito la spina dorsale di grandi espressioni pacifiste. Le pacifiste sono state presenti ovunque, anche nelle organizzazioni miste, portando la capacità di riconoscersi reciprocamente il comune dolore e lavorare per la conciliazione.

La celebrazione del Memorial Day (in Israele il Memorial Day è il giorno in cui si commemorano le vittime del terrorismo e i soldati caduti in guerra) in chiave bi-nazionale, per ricordare anche le tante vittime palestinesi, è stata fondamentale per Irit Hakim per scoprire il posto giusto dove lavorare per la pace insieme ad altri uomini e donne: i “nemici” con i quali trovare spazi collettivi per costruire insieme la trasformazione delle memorie.

Il 7 ottobre è stato un momento drammatico per tutti, anche per i Combatants for Peace, un momento di confusione, paura, diffidenza e silenzio. Riprendere a parlarsi e lavorare insieme è stato faticoso e i primi incontri su Zoom sono stati inondati di lacrime.

Oltre alla violenza di questi anni c’è una luce, non ricordiamo solo il male, ma anche le luci che in queste tenebre brillano.

da la Repubblica

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(afp)

Jane Goodall, etologa e antropologa scomparsa ieri all’età di 91 anni, la donna che ha saputo dialogare con gli scimpanzé, era nata il 3 aprile 1934 ad Hampstead, un quartiere chic di Londra. Ma lei amava vivere nella foresta. Da bambina era innamorata di Tarzan ed era gelosa perché lui aveva sposato la Jane sbagliata. Giovanissima, aveva cominciato le sue ricerche sulla vita familiare e sociale dei primati nel Parco Nazionale di Gombe Stream, in Tanzania.

È stata la scienziata che più ha contribuito a farci capire che fra noi e i primati il passo è breve, anzi brevissimo. Le sue ricerche pionieristiche hanno fatto affiorare l’anello mancante dell’evoluzione, quella soglia impalpabile che ci fa amici e fratelli di quei quadrumani dallo sguardo dolce che sorprende e commuove. Perché ci mostra a noi stessi sotto un’altra luce, come in uno specchio un po’ deformante, ma non abbastanza da non fotografare la nostra stessa animalità. Le sue battaglie animaliste per difendere gli scimpanzé a rischio di estinzione si fondavano sull’importanza della conservazione di questa specie sorella della nostra.

Negli anni Settanta aveva fondato l’Istituto Jane Goodall, che dal 1998 ha anche una sede italiana, attualmente diretta da Elisabetta Visalberghi, a sua volta grande specialista dei bonobo, le scimmie più simpatiche che esistono. Perché sono capaci perfino di costruire strumenti come le cannucce per risucchiare le formiche. O aprire una noce senza schiacciarla, per mangiare il frutto intero senza mandarlo in frantumi come facciamo spesso noi, nonostante lo schiaccianoci.

La sua mission era lo studio del rapporto tra umani, animali e ambiente. Per questo le sono sempre interessati gli esemplari selvatici, nel loro habitat prima che il contatto con gli uomini li trasformasse. In un video del 2013 che ha fatto il giro del mondo, Dame Jane viene abbracciata teneramente da Wounda, una scimpanzé che lei con il suo staff aveva strappato al traffico illegale di animali esotici. Alla fine Wounda, dopo essere stata curata e guarita dai ricercatori, è stata rimessa in libertà nella riserva di Tchimpounga, un autentico santuario per scimpanzé creato nel 1992 attraverso un accordo tra il Jane Goodall Institute e il governo congolese. Tra le eredità di Jane c’è anche la scena indimenticabile del video che riprende il momento del commiato. Quando la scimmia si gira verso la donna e la abbraccia con un trasporto che ci strappa il cuore. Come per dirle “mi hai salvato la vita e io non lo dimentico”. Quella sequenza riflette con una immediatezza quasi poetica la coappartenenza della scienziata e del quadrumane allo stesso regno del creato.

Stupiva tutti per la sua calma olimpica, tipica di chi osserva la natura e i suoi tempi lenti senza forzarla con la nostra fretta isterica. E la natura la ricambiava aprendosi a lei, senza nascondersi come diceva Eraclito, il filosofo greco passato alla storia per la frase “La natura ama nascondersi”. In realtà Jane e la natura erano diventate una cosa sola andando al di là dell’opposizione tra cultura e natura. E d’altra parte lei aveva dimostrato che la personalità non è esclusiva della persona umana e che le scimmie antropomorfe intrattengono vere e proprie relazioni interpersonali, simili a quelle delle signore inglesi che chiacchierano bevendo il tè.

Sosteneva, prove alla mano, che gli animali vivono emozioni e hanno una vera cultura. Infatti, amava concludere le sue conferenze parlando la lingua appresa dalle creature della foresta per mostrare che il linguaggio non è appannaggio esclusivo della specie umana. E che tutti gli animali comunicano anche senza parole, con i loro versi e suoni che qualche volta assomigliano più alla musica che alla grammatica.

Il suo impegno per la difesa dell’ecosistema le era valso la nomina a messaggera di pace per le Nazioni Unite. Era una conferenziera instancabile e ha percorso il mondo in lungo e in largo in un never ending tour come quello di Bob Dylan. Senza fermarsi mai fino alla fine. Infatti è morta in California, mentre stava svolgendo un ciclo di conferenze per raccogliere i fondi per le 23 sedi del suo istituto sparse ai quattro angoli del pianeta. E, più in generale, per portare a tutti il suo messaggio ecologista. Come una missionaria dell’ambiente che al collo, al posto della croce, portava un ciondolo con il disegno dell’Africa.

Nel 1991 aveva fondato Roots and Shoots, (Radici e germogli) che suona come un titolo dei Beatles, ma in realtà è un grande programma di educazione alla sostenibilità rivolto ai giovani di ogni età per formarli all’impegno civico nelle proprie comunità. Perché solo chi è di casa nel proprio villaggio può esserlo anche nella foresta. La inquietava molto il fatto che i nostri bambini passassero il loro tempo nell’astrazione senza corpo dei social, invece che a contatto con le piante e con gli animali.

In fondo questa signora a suo agio nella giungla è stata l’equivalente di Konrad Lorenz, padre dell’etologia. Lui studiava le oche e lei le scimmie. Amava ripetere che il suo maestro non era stato un accademico, ma il suo cane Rusty. E in questa frase c’è la semplicità disarmante, ma potente, di Jane delle scimmie.

da Doppiozero

Insegno da diversi anni e negli ultimi tempi sento, davanti alle nuove classi, un po’ di imbarazzo nel presentare questa colossale istituzione, la scuola, che non muta. Ho come l’impressione di dover giustificare gli anacronismi e difendere quel che resiste e ha valore. Molte cose hanno valore, smetterei di insegnare se non lo pensassi, e tuttavia quest’anno, con non poco disagio, ho messo a tema il “vietato” con cui ci siamo ritrovati a settembre.

Una mia alunna, in Canada per il quarto anno di liceo, mi ha mandato qualche giorno fa un video con cui si candida per il ruolo di ambassador dell’agenzia con cui è partita: montato con sapienza, contenuti interessanti, foto ricercate, ammiccamenti alla camera, lipgloss e un inglese che mi sogno. Non sarei in grado di creare un prodotto del genere e la mia idea di aprire le pagina Instagram dei filosofi, con cui avevo conquistato una quinta di ormai troppi anni fa, è un poco ridicola e di certo invecchiata. Davanti a questo scarto tra loro e me, spegnere il cellulare rassicura, così come stabilire norme sull’abbigliamento: sanzionare e punire. Perché interrogare, perché implicarmi, perché studiare per aprirmi a delle trasformazioni che fuori da queste mura procedono a vele spiegate senza intoppi né divieti? Perché mettere in discussione il fuori, i comandamenti della società che ci divora. Cambiamo la scuola, è più semplice; insegniamo lì un altro alfabeto e lasciamo immutato, fuori, l’alfabeto del mondo, continuando in questa evoluzione rapida che priva homo sapiens delle mani libere, condannato come è a stringere tra le dita lo scettro che lo rende potente e connesso. Tra le competenze richieste da acquisire durante un triennio ci sono le competenze di cittadinanza – sì, anche di cittadinanza digitale: dovremmo essere in grado, noi adulti, di mostrare come ci si confronta con le differenze e le novità, con sufficiente fiducia in quello che si propone e nelle contaminazioni che si renderanno necessarie. Non è questa una competenza di cittadinanza?

Insegnare significa, oggi più di prima, costruire ponti tra un mondo, quello scolastico, che percepiscono come alieno, e l’universo in cui vivono, rispetto a cui mi pare abbiano fame di istruzioni per l’uso, molto più delle generazioni precedenti. Non credo ci siano mai stati adolescenti così sensibili allo sguardo adulto, e anche così capaci di intercettare chi non è disponibile a relazionarsi con loro.

Non possediamo risposte e forse, per la prima volta – e per fortuna – non ci illudiamo di averle; ma possiamo vederli, questi ragazzi e ragazze. Cosa voglia dire questo vederli è ben mostrato in Non siamo capolavori(Laterza, 2025) di Marco Rovelli, libro che non è un manuale di istruzioni – lo abbiamo detto, istruzioni universali non esistono – né una classificazione con intenzioni esaustive: il tentativo in atto in queste pagine è dare spazio a una pratica che sarebbe bene si diffondesse come un contagio. Al di là dell’istituzione scuola, dunque, con le sue malattie e le sue trasformazioni, con il suo conservatorismo e le sue paure, c’è una dimensione del “cosa significa insegnare veramente oggi”, per riprendere le parole di Enrico Manera, che riguarda l’imparare a leggere, decifrare, stare, con quel che non si può catalogare né spiegare; un “lavorare per limitare il peggio del nostro tempo inquieto e ferito”.

Che esagerati gli adolescenti! Scena muta per un esame così semplice. Che esagerati, che fragilità esagerata. Lo detesto il termine “esagerata”: sì, sono esagerate le scenate, i pianti, il corpo. Esagerato è uno dei nomi dell’alterità, del femminile; esagerato è quello che non sta nei confini imposti dal discorso sociale e chiede di trovare una via per poter esistere. Esagerato è un gesto che scuote, che dice di no, che fa rumore. Sono esagerati gli adolescenti. Sì. Esagerato è spesso il loro silenzio.

Non siamo capolavori si fa carico del dissenso e del disagio di una generazione. E si apre con un assunto: la sofferenza è politica. È necessario leggerla e mettere in discussione il discorso sociale che la determina: “l’ipermodernità dunque, per far fronte alla propria crisi, strappa a se stessa la vulnerabilità, la piega alla logica dell’individualizzazione, ne fa veicolo per un ulteriore ripiegamento su un Sé individuale e isolato”; eppure, continua Rovelli, “fragilità e vulnerabilità, se rivendicate collettivamente, possono essere strumenti di cambiamento sociale, perché quando due fragilità si incontrano e si riconoscono producono una nuova situazione, un nuovo concatenamento che permette di guardare alle cose e di agire in esse da una nuova prospettiva, e in termini trasformativi”. Non ho mai visto una generazione così preparata ai termini psichici; conoscono il linguaggio medico, apprendono informazioni in rete, si diagnosticano disturbi ossessivi e anoressie che diventano etichette con le quali definiscono la propria identità: “se conosco la mia diagnosi, divento uguale a tutti gli altri che hanno la stessa diagnosi: vengo omologato e questo mi rende parte di un meccanismo”. Rovelli insiste sulla necessità che sia il contesto, collettivamente, a farsi carico di rompere tale meccanismo, mettendo in comune il disagio, creando spazi che consentano di aggiungere parole alle etichette, articolare vissuti, portare a visibilità il legame tra le condizioni materiali di vita e la sofferenza, magari facendo anche dei sintomi occasione di legame sociale: non la diagnosi che chiude, ma il luogo dove tutto possa essere interrogato, dove sia possibile scriversi in una comunanza, un ritmo condiviso che rimetta in moto la potenza vitale di ognuno.

La scuola, oggi, non sembra in grado di essere il luogo di quel “processo di intensificazione del desiderio che è il cuore di ogni crescita personale”. Cosa possiamo dunque fare nel tempo della catastrofe? Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci: per aprire il presente, le sue possibilità, e rendere meno minaccioso il futuro, Marco Rovelli interpella voci e competenze diverse. Non siamo capolavori è un libro plurale: un dialogo tra saperi, tra persone, con adolescenti, psichiatre, psicoanalisti, filosofe, insegnanti, professioniste. Rovelli riporta le opinioni, discute le teorie. Questa modalità di scrittura – in debito e in relazione – mi pare una prima lezione politica. Se vogliamo immergerci nella scuola, se vogliamo provare ad ascoltare gli adolescenti, dobbiamo procedere con quelle due arti che qualsiasi studente al terzo anno scopre, addirittura con incanto, se ha un buon insegnante di filosofia: dialogo e epoché. Dialogare, chiedere suggerimenti, fidarci di altri saperi; sospendere il “già pensato”, le convinzioni e i luoghi comuni. Provare a capire la dose di sofferenza che vediamo a scuola significa imparare a tenere conto dei fattori politici, economici e sociali; del discorso in cui gli adolescenti sono immersi; di come tutto questo venga elaborato nell’uno a uno della loro differenza singolare. E questo singolare mi consente di esplicitare un’ulteriore ragione per cui ritengo questo un libro politico: non c’è determinismo. Rovelli lo ripete in più occasioni, le spiegazioni causali lineari non tengono conto della complessità, dell’individualità, dei rapporti: questa è la ragione per cui è necessario, per leggere le forme del dissenso, porsi in ascolto e dotarsi di un dizionario sempre in divenire. Dissenso che può essere esplicito o tacito, che può sfociare in una rabbia autodiretta o eterodiretta, in un “non poter stare” che si fa inquietudine o in un silenzio che problematizziamo troppo poco, visto che non disturba le nostre lezioni e non sporca la bella immagine di una macchina funzionante.

Soffrire è dissentire: “dobbiamo vedere le forme di sofferenza come un non sentirsi accordati al mondo: dove il soggetto di questo non sentirsi accordati al mondo è il corpo”. Il corpo, o meglio, i corpi espostiche siamo. Il corpo non è solo quello sottoposto allo sguardo, quello che deve essere in forma, che deve funzionare, che deve essere plasmato e perfezionato, oggetto di desiderio e di giudizio. Leggere i corpi e quel che vogliono dirci significa recuperare il corpo carne, per dirla con linguaggio fenomenologico, il corpo vivo, l’essere-nel-mondo, il corpo vissuto dall’interno e non visto dall’esterno: “ogni corpo è un campo di battaglia” e i sintomi parlano. Il corpo è la questione dell’adolescenza: “che fare con il mio corpo (che sono io)? Che fare con gli altri corpi? Sono le questioni più proprie dell’adolescenza, che diventano tanto più pressanti quando si vive sempre meno nella relazione con l’altro perché l’altro è lo specchio che guarda e giudica”. Il corpo sono gli ammiccamenti della mia studentessa in America, il suo lipgloss, le unghie vietate dai dress code (ebbene sì, sono riusciti a farmi difendere quell’orrore di artigli); il corpo è Tik Tok e lo stile creativo che hanno bisogno di trovare; il corpo è quel che parla anche se si prova a negare il dolore: “nella pratica dell’autolesionismo, nel ritiro sociale dell’hikikomori, nei disturbi del comportamento alimentare, nell’attacco di panico, nella sintomatologia ansioso-depressiva, è sempre il corpo che sta sulla scena come il soggetto che resiste attraverso la sua sofferenza”. Che fare davanti a questi corpi? La dimensione virtuale può essere certamente un vettore di isolamento, colma un vuoto, così come l’acquisto compulsivo di oggetti, ma davvero la scuola è impotente rispetto a questo vuoto? Non è il nostro compito di insegnanti quello di fornire loro competenze emotive e affettive necessarie per trovare altre vie? Non è la scuola il luogo in cui la grammatica identitaria si articola e si modella nel confronto con la differenza, con l’alterità, con l’istituzione e con le sue regole?

Possiamo insegnare il limite se insegniamo il senso del limite; e se questo senso, e il suo valore, li ritroviamo anche al di fuori delle aule scolastiche.

Insegnare oggi è “creare possibili”, lasciandosi toccare dai corpi degli adolescenti e dai corpi che siamo. Erich Fromm, nel 1953, quando tiene le sue quattro lezioni sul tema della salute psichica presso la New School for Social Research di New York (I cosiddetti sani, Mimesis, 2025) racconta di Toro Ferdinando, personaggio di un libro per l’infanzia: toro anomalo, che ama i fiori del pascolo e odia la corrida; scomodo in una società di guerrieri, costruita per combattere. Cosa accadrebbe allora se questo Toro Ferdinando ci infettasse con la sua differenza, sconvolgendo la struttura della nostra società? Una società ha bisogno di una certa dose di conformità; e però non può non subire, ogni tanto, scarti che rappresentano i passaggi di paradigma. Si va avanti così, alternando momenti di progresso e altri di riconfigurazione del mondo; e, in uno di questi ultimi, un Toro Ferdinando potrebbe averla vinta. Certo, poi si ripresenterà l’esigenza di tornare a istituire norme che regolano il gioco della vita. E tuttavia la società moderna soffre di una strana immobilità. Cosa infatti la caratterizza? Certo, l’individualismo; sicuramente la paura che l’uomo ha della libertà e una situazione in cui l’uomo è dominato dalle macchine che ha creato per controllare la natura. Ma c’è di più: un’idolatria scientifica che ha smarrito l’approccio scientifico. Manca, cioè, la disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero con la scoperta di nuovi dati. Così oggi – e lo diceva Fromm nel 1953 – siamo giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo è da considerarsi normale e sano: insomma, a questo benedetto migliore dei mondi possibili ci crediamo davvero, e abbiamo fatto di quel che è, quel che deve essere.

In questo quadro la distinzione tra salute e malattia psichica viene operata con una tale sicurezza, ed è così perfettamente rispondente al far prosperare il tipo di società in cui siamo immersi, che, in fondo, ad ammalarsi sono le persone più sensibili alla questione del senso della vita. Chissà che tra gli adolescenti non ci sia un Toro Ferdinando, chissà che non possiamo provare a lasciarci contagiare dalle sue battaglie, da un amore per i fiori, economicamente poco seducente, che non capiamo.

da Il Fatto Quotidiano

“È stato un discorso allucinante, ma un discorso inutile. Ha paragonato Israele ai nazisti, complimenti”. Gideon Levy, editorialista di Haaretz tra i più noti, è atterrato in Italia (dove ha ricevuto ieri un premio Kapuscinski dell’istituto polacco a Roma) qualche ora dopo aver finito di vedere in televisione il discorso di Benjamin Netanyahu all’Onu. “L’unica cosa rilevante del discorso è stata la platea vuota, segno dell’isolamento di Israele”.

Ieri hanno ripreso a circolare ipotesi di tregua a Gaza, Netanyahu le sembra pronto?

Dovrà farlo per forza, se sarà Trump a costringerlo. Gli Stati Uniti sono rimasti l’unico alleato di Israele, dopo che Netanyahu è riuscito a perdere il sostegno degli europei. Senza gli Usa, Israele non sarebbe la potenza militare che è. Per questo l’unico vero evento che conta è l’incontro di lunedì con Trump a Washington.

Cosa resterà di Gaza dopo la fine della guerra?

Nessuno di noi può anche solo immaginare la dimensione della distruzione. Mi fanno ridere i piani di ricostruzione che circolano: 1 o 2 anni non basteranno mai a rimettere in piedi la Striscia. E poi, vogliono mettere a capo di tutto Tony Blair. Cioè, tornare alle colonie britanniche? La verità è che l’unica alternativa reale è che si torni al 6 ottobre. Hamas non se ne andrà, non la cacceremo così, nessuno, né i sauditi né gli americani, vogliono finanziare la ricostruzione di un posto che sanno che Israele distruggerà di nuovo tra 5 anni.

Il suo ultimo libro (Mimesis) si chiama Killing Gaza, non Killing Hamas

Da mesi ho capito che non possiamo chiamare quest’offensiva in nessun altro modo che un genocidio. La Striscia viene sistematicamente distrutta, muoiono decine di palestinesi al giorno, non c’è un giorno in cui non muoiano bambini. Ci sono prove indubitabili della fame. E quello che vediamo è una minima parte di quanto accade. Una risposta militare dopo il 7 ottobre era attesa e legittima, ma subito dopo il 7 ottobre è diventato una scusa per portare avanti il vecchio piano di pulizia etnica dell’estrema destra al governo.

AllOnu il premier ha detto che lIdf evita vittime civili, consente aiuti umanitari e chiede alla popolazione di lasciare le zone di guerra

Ha detto che i nazisti non hanno trasferito gli ebrei, è falso: lo hanno fatto eccome, ed era parte della strategia dell’Olocausto. È quello che stiamo facendo a Gaza: pulizia etnica. Gli unici a credere alle bugie di Netanyahu ormai sono gli israeliani.

Non sono abbastanza i critici di Netanyahu in Israele?

La maggioranza degli israeliani purtroppo non vuole sapere, non vuole vedere. Cercano di evitare il dilemma morale di sapere che sono i loro figli che, nell’Idf, stanno massacrando i palestinesi. Le proteste sono per gli ostaggi, in troppi dicono ‘fate tornare gli ostaggi e poi ricominciamo la guerra’. E la cosa grave è che i media israeliani li assecondano e non mostrano immagini di Gaza nei notiziari e sui giornali. Da due anni sembra che a Gaza vivano solo 20 persone: gli ostaggi. Qualsiasi italiano di provincia ha visto più immagini dalla Striscia di noi. E non c’è la censura, è tutta auto-censura. La colpa non è del governo, ma dei miei colleghi che hanno tradito la professione. Siamo peggio della Russia, almeno lì la censura esiste e i giornalisti che tacciono la verità sono giustificabili.

Come spiega questa mancanza di critica dellopinione pubblica israeliana?

Con un lavaggio del cervello lungo decenni. E poi c’è stato il 7 ottobre. Quando faccio vedere ai miei amici i video da Gaza la loro prima reazione è dire che sono fake.

La Flotilla è ripartita per Gaza, le autorità israeliane minacciano di arrestarli o peggio. Gli europei possono mediare corridoi umanitari?

Su Haaretz abbiamo scritto un editoriale col titolo Fateli entrare.Lasciateli andare a Gaza per raccontarci la realtà di quella tragedia! Ma non succederà, e quanto agli Stati europei, direi che prima di trattare con la Flotilla dovrebbero fermare Israele, militarmente o meno.

da L’Altravoce il Quotidiano

Luisa Muraro è una delle più importanti pensatrici della contemporaneità, come l’ha definita Vita Cosentino della Libreria delle donne di Milano nel convegno tenuto sabato scorso all’Università Cattolica di Milano, dove 60 anni fa una giovane Muraro si è laureata. Il convegno dal titolo “Come quando si accende la luce” è stato organizzato per il 50esimo della Libreria delle donne – di cui Muraro è stata una delle fondatrici – in collaborazione con i dipartimenti di Sociologia, Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica e la Comunità filosofica femminile Diotima. Molte le donne, e anche uomini, c’ero anch’io, venute da tutta Italia per rendere omaggio a Muraro ed esprimere, con lei in presenza, la propria riconoscenza per tutto quello che ognuna/o ha ricevuto dal suo pensiero e dai suoi libri. «Siamo qui oggi per celebrare l’autorità che per noi tutte ha rappresentato e incarnato Muraro», che ci ha regalato la sapienza delle mistiche «buona per noi oggi per non farci sprofondare nell’impotenza di fronte alla violenza della storia, delle guerre» (Wanda Tommasi, Diotima). Un’autorità, come insegna Muraro, di origine materna, che non schiaccia, non è «dominio ma relazionalità» (Paolo Gomarasca, Università Cattolica). È nel femminismo “sorgivo” di Lia Cigarini, in sodalizio da una vita, che Muraro ha trovato «le condizioni per portare avanti la sua più grande passione e desiderio, pensare e scrivere». Moltissime donne, come me, si sono rispecchiate nelle sue parole che «fanno luce e orientano». “Maestra” e “amica geniale” per Vita Cosentino, ha insegnato ad altre a pensare e scrivere. Muraro mi/ci ha insegnato, a donne e uomini, la “gratitudine” e la “riconoscenza” per la madre reale e simbolica. «II saper amare la madre è la chiave del femminismo della differenza e del pensiero di Muraro» (Diana Sartori, Diotima). Il concetto di madre, che riconduce alla relazione primaria e all’imparare a parlare da lei, fa di Muraro, nella storia della filosofia contemporanea e nella linguistica del ’900, una filosofa “anomala”, come l’ha definita Cesare Casarino (Minnesota University). Alle origini di tale anomalia c’è una “schivata”, mossa tipica del pensiero di Muraro, che vuol dire «non farsi trovare dove si pensa di trovarla», «guardare da un punto di vista imprevisto», «aprire una nuova prospettiva». Una mossa inaugurata da Muraro all’inizio degli anni ’70 in un dialogo con Bontadini, ricordato da Riccardo Fanciullacci (Università di Bergamo). All’affermazione di Muraro «Sono una donna», non un essere umano, il filosofo, cancellando la differenza sessuale, rispose «Tra uomini e donne non c’è differenza rispetto al filosofare», riportandola in una genealogia maschile. È da una “schivata”, la separazione dagli uomini, che negli anni ’70 nasce «il soggetto imprevisto della differenza sessuale» che ha messo al mondo pratiche e parole nuove che «avevano come solco la pace» (Ida Dominijanni, Centro per la Riforma dello Stato). Oggi che il contesto geopolitico è cambiato, come rilanciare la scommessa originaria? Come declinare la libertà femminile all’altezza di un mondo che va in rovina? Secondo Dominijanni occorre ripensare quello che abbiamo fatto alla luce di tre parole che oggi sono in gioco: democrazia, comunicazione, violenza. Di soggetto sessuato nella ricerca storica ha parlato María Milagros Rivera Garretas (Università di Barcellona): «Non sono gli archivi ad essere sessuati ma chi li frequenta». Storia sono i fatti di cronaca che Muraro, come «le donne di ingegno», ama leggere quotidianamente e da cui si lascia ispirare e ne scrive per sottrarli alle spiegazioni già confezionate (Annarosa Buttarelli, Diotima). Oggi, in un mondo in fiamme, il pensiero di Luisa Muraro, offerto a donne e uomini, si rivela necessario per un cambio di civiltà in nome della madre, della vita e non della morte.

Mi è capitato, negli anni, di scrivere a Luisa Muraro. E di ricevere risposta. Con le scuse per il ritardo!! «Cara Luisa – la rassicurai quella volta – a me dà una grande libertà questa circolazione epistolare, che non è a stretto giro di posta, ma a largo giro di vita. Non c’è ritardo e non c’è fretta…» La data era 30-XII-13.

E il 12-5-25 mi è arrivato un pacchettino che conteneva Esserci davvero.

Non era una lettera, non me l’aveva spedito lei, era un Quaderno di Via Dogana appena pubblicato conteneva una intervista datata 2003. Eppure l’ho letto come fosse una lettera indirizzata a me, con la curiosità, la partecipazione e la sorpresa di conoscere aspetti nuovi e vicende personali di una donna, di una filosofa, che considero mia maestra non solo di pensiero… Non c’è ritardo e non c’è fretta… La memoria torna, il tempo si snoda, ricompare la gratitudine per la vicinanza che Luisa Muraro ha manifestato per l’Ordine della Sororità dopo la morte di Ivana Ceresa, che ne è stata la fondatrice, in forza anche della stima e dell’amicizia che ha avuto per lei.

È che in Esserci davvero si intrecciano molti fili e si incrociano molti specchi e si squadernano le molte relazioni costruite negli anni e si fa fatica a metterne in evidenza solo alcune.

Mi piacerebbe partire – e non sembri stonato o irriverente – da una parentesi aperta e chiusa a pag. 57, a proposito delle discussioni che precedettero la stesura di Non credere di avere dei diritti. «Allora – scrive Muraro – ci trovavamo nel sottoscala della Libreria, in via Dogana 2, sottoscala che all’epoca aveva più correnti d’aria, ma eravamo comunque molte riunite in un posto così… (io sono claustrofobica), e si discuteva. Si discuteva e io prendevo appunti».

Ho trovato, in quella dichiarazione tra parentesi, una richiesta – non solo fisica – d’aria: non volersi chiudere in spazi angusti, polemizzare anche confliggendo per aprirsi varchi o vie di fuga, fino a raggiungere l’aperto – dove l’aperto è anchel’Aperto – così che spostarsi diventa non essere dove gli altri credono che tu sia, fare la schivata, non coincidere con quello che era previsto, prescritto, promesso pensato di te, praticare un nomadismo di pensiero che è la condizione per non farsi intrappolare dall’ideologia perché c’è altro o Altro.

In un testo – che abbiamo considerato prezioso così da chiederle di poterlo inserire negli Atti del Convegno su Romana Guarnieri dell’ottobre 2022 a Bologna – intitolato Come quando si accende la luce, Luisa Muraro riprende nelle ultime battute la domanda «Che cosa ci sarebbe da fare? Una schivata, come gli animali inseguiti dai predatori, uscire di colpo dalle traiettorie del potere e saltare nella mancanza: di organizzazione, di successo, di prestigio, di dottrine, di nomi propri… in una parola, mancanza di tutti i surrogati. Così che ci nasca dentro e ci venga incontro da fuori la rispondenza tra le cose che viviamo e le parole che diciamo, dalla quale si accresce l’essere di ogni cosa che è […]».

E da qui nasce anche la scrittura: si vede bene nello scambio teso e vivace – riportato con felice complicità a pag. 45 – tra la filosofa e Clara Jourdan, l’intervistatrice, che le chiede «È come nella pratica politica delle donne di rigiocare al presente cose che sembravano chiuse nel passato? Tu fai questo nella scrittura, cioè è la scrittura che ti fa questo?» Risposta: «Sì, ma non è solo la scrittura, perché può esaurirsi la possibilità di scrivere… Ho preso la pratica politica delle donne come forma simbolica che mi permetteva la scrittura… Comunque non si scrive mai lo stesso: solo gli scrittori standardizzati, non certo io che scrivo per salvarmi l’anima. Io scrivo per salvare qualcosa che ha il valore dell’anima per le civiltà religiose, scrivo per non essere dannata. Chi scrive per salvarsi l’anima è chiaro che ogni volta ne va di tutta la faccenda, ogni volta».

Si tocca qui, se pure da lontano, quello che in altri termini e in altri libri lei chiama mediazione vivente, che le mistiche di ieri come di oggi hanno insegnato «[…] aprendo il passaggio al pensiero di altro… ma non basta dire che fanno nascere pensiero. Nel vuoto di una mancanza incolmabile e accettata, esse ospitano l’incontro fra le cose che capitano a caso e per forza, con la loro possibilità di libertà e di gioia, e quello che rendono pensabile comincia già a essere» (da Il Dio delle donne pag. 157).

La “mia” lettera, quella che pretendevo indirizzata a me, che è questo quaderno rosso che tengo tra le mani, si è rivelata così ramificata da toccare la storia del femminismo italiano, e non solo, degli ultimi cinquant’anni, da interessare le tante lettrici e lettori che hanno condiviso gli stessi passaggi storici e culturali, da spostare continuamente l’orizzonte e fare intravedere paesaggi ancora sconosciuti, da rivelare connessioni imprevedibili con l’oggi.

Il quaderno – nella prima metà, che precede l’amplissima bibliografia – si va ora configurando ai miei occhi come una mappa: una mappa – e ancora Muraro mi addita il lavoro delle Preziose – che non può che essere la Carte du Tendre. Una mappa, dove anche i sentimenti hanno una geografia, dove il paese di partenza si chiama Nuova amicizia; lo attraversa un fiume di nome Inclinazione e verso la foce si aggiungono altri due fiumi, Riconoscenza e Stima, si attraversano villaggi piacevoli e non (bontà, sincerità, orgoglio, oblio…) in un percorso comunque verso l’amore.

da Enciclopediadelledonne.it

Da dove cominciare? È una domanda che mi sono posta dozzine di volte di fronte alla pagina bianca. Come se mi fosse necessario trovare la frase giusta, quella che mi avrebbe permesso di entrare nella scrittura del libro e avrebbe dissolto in un solo colpo tutti i dubbi. Una specie di chiave… oggi questa frase non ho bisogno di cercarla lontano da me. Sorge lapidaria, in tutta la sua chiarezza… l’ho scritta sessant’anni fa nel mio diario. Scriverò per vendicare la mia razza.

(Discorso tenuto a Stoccolma alla consegna del Premio Nobel 2022)

Nata Annie Duchesne a Lillebonne, nel dipartimento della Senna inferiore in Normandia, il 1° settembre, del 1940, la bambina trascorre la sua infanzia felice tra il retrobottega del negozietto “alimentari-merceria-bar” dei genitori, il cortile, la scuola e i giochi con le amiche. Dotata di grande spirito di osservazione e di una memoria formidabile, Annie è una delle allieve migliori, tanto che i genitori decidono, a un certo punto, di iscriverla in un’ottima scuola cattolica frequentata dalle figlie della buona borghesia. La profonda adesione al mondo che la circonda inizia così a incrinarsi. Nel romanzo d’esordio Gli armadi vuoti la scrittrice ci fornisce una descrizione di cos’era stata la sua vita sino a quel momento:

Domeniche primaverili, biancheria che si asciuga stesa al sole, galline che cantano perché hanno fatto l’uovo. Com’è che diceva la vecchia stronza a scuola? «Non si scrive siamo tal giorno, è sbagliatissimo». E invece io ero domenica dalla testa ai piedi, mi ci sentivo nel vestito da non sporcare, nella bocca gonfia di crema e di ostie immaginarie. Adoravo tutto, le sardine sott’olio, le visite ai poveretti, ai crebacks, agli arabi di cui mia madre andava pazza. Mi piaceva tutto.

Annie studia per diventare insegnante, professione che svolgerà tutta la vita, marcando così quel distacco dalla felicità infantile. Nella costruzione della sua genealogia Ernaux scava nei suoi ricordi e nelle vite dei suoi genitori dedicando loro svariati romanzi. Blanche, sua madre, sarà la protagonista di Gli armadi vuoti (1974), La vergogna (1997), Una donna (1988), L’altra figlia (2011), dove la scrittrice viviseziona la vita della donna che l’ha messa al mondo e le difficoltà della loro relazione:

Di nuovo ci rivolgevamo la parola in quel particolare tono fatto di irritazione e di perpetuo risentimento che faceva sempre pensare, a torto, che stessimo litigando e che riconoscerei, tra madre e figlia, in qualsiasi lingua.

(Una donna)

Alla stessa implacabile disamina sarà sottoposta anche la vita paterna a partire dal libro Il posto:

Mio padre è entrato nella categoria delle persone semplici, o modeste, la brava gente. Non osava più raccontarmi le storie della sua infanzia. Non gli parlavo più dei miei studi.

Ma è ne La vergogna che esplode il racconto tremendo del giorno in cui suo padre tentò di uccidere sua madre, e in cui inizia il tradimento della classe sociale di nascita, tanto che Ernaux potrà dare ai propri genitori un posto nel mondo dei dominatori che usano anche la scrittura per discriminare ed è in questo senso che la sua scrittura è sia vendetta che riscatto sociale, perché «scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito» rivendica Ernaux citando Jean Genet. Se i romanzi sono il primo livello di analisi e di riscatto, sarà poi in articoli, conversazioni, saggi e pagine di diario che la scrittrice arriva in profondità nell’esaminare e giudicare con lo stesso sguardo acuminato i propri libri e a realizzare anche «il grande sogno della mia infanzia: partire, vedere il mondo».

La scelta di eleggere a protagonisti assoluti dei suoi libri i genitori, se stessa e alcuni degli uomini che ha amato, ci offre una chiave di lettura plausibile anche in merito al successo della Ernaux presso un pubblico sempre più vasto. La Madre, Il Padre, La Ragazza, Il Ragazzo, L’Uomo, L’Amante, Il Posto diventano archetipi dell’immaginario della scrittrice e anche nostri. Quella madre diventa tutte le madri, quel padre tutti i padri, quella «ragazza della foto è un’estranea che mi ha lasciato la sua memoria in eredità», ha sollecitato intere generazioni di donne occidentali che hanno infranto i tabù religiosi e combattuto il regime patriarcale in cui sono nate e cresciute.

L’apertura di Ernaux sulla storia del mondo si concretizza con il romanzo Gli anni che inizia con una dichiarazione folgorante: «Tutte le immagini scompariranno». Ed è proprio a partire da questa certezza che la scrittrice richiama dalle profondità della sua memoria tutto quel che riesce a ricordare, consapevole però che: «la nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo».

Le riflessioni sulla scrittura e le sue origini sono frutto di un ricco scambio con molti altri scrittori e scrittrici, Ernaux non si sottrae mai al tornare sui propri passi e cercare nuove parole e nuove immagini per dire di nuovo cose già raccontate. Dopo il racconto della vita di coppia e della sua evoluzione dal dopoguerra agli anni Settanta in La donna gelata, è con Passione semplice e Perdersi che Ernaux racconta tutto lo strazio e il piacere dell’amore e del sesso con un uomo molto più giovane di lei, così come l’ossessione che la divora e la disperazione quando lui è lontano. S. è russo, bello, scatenato e ha all’incirca quindici anni meno di Annie che è prossima alla cinquantina. Niente può fermare la ricerca di quel piacere senza tempo e senza progetti che la incalza. Gli unici pensieri tra un incontro e l’altro sono rivolti a lui, al piacere che gli ha dato e al piacere che ha ricevuto. La vita quotidiana sprofonda nel gorgo dei timori, che lui muoia, che lui non torni, che le preferisca una donna più giovane. È solo dopo la fine di questa relazione infuocata che la scrittrice ritrova sé stessa, non identica a chi era stata, ma vicina al nudo piacere dell’esistenza.

Per la prima volta dal 6 novembre (l’ultima in cui ho visto S.) mi sveglio con un’inspiegabile sensazione di felicità. Malgrado tutto, il fatto che si tratti di una felicità senza motivo mi fa uscire dall’incanto, ma giusto un po’.

L’intreccio tra passione erotica e scrittura si ripresenta ancor più violento quando Ernaux inizia una relazione con A. – così lo chiama in Il ragazzo, un giovane uomo che ha ventinove anni meno di lei. Dopo l’inizio in clandestinità – perché lui vive con la sua ragazza – la relazione riporta Ernaux a rivivere sensazioni ed emozioni del passato. Sonnecchiare accanto a lui la domenica pomeriggio, la fa ritornare accanto alla madre che si è addormentata esausta e vestita dopo pranzo. Il frigorifero che non raffredda, il fornello che non scalda, l’umidità dell’appartamento la riportano alla precarietà dei suoi anni da studentessa e all’inizio della relazione con il marito Philippe. Ma il segreto di questa relazione stava tutto nel «fervore che mi riservava che non mi era mai stato, fino ai miei cinquantaquattro anni, consacrato da nessun amante» che tale resterà sino a quando la scrittura prenderà il sopravvento sulla vita e anche quest’ultima passione verrà immolata sull’altare del libro.

Da poco è uscito il libro autobiografico di Philippe Vilain, scrittore francese che insegna all’università di Napoli, il ragazzo che Ernaux, dopo cinque anni di relazione, lascia, salvo poi ripensarci dopo un anno e invitarlo a vivere con lei, senza però riuscire a riallacciare il legame. In possesso di oltre duecento lettere di Ernaux, lo scrittore, in realtà, parla di lei il minimo indispensabile per poter raccontare se stesso e la propria evoluzione, Ernaux e le sue sofferenze restano in qualche modo ai confini della narrazione e forse, chissà, questa è per l’uomo non più ragazzo la forma più sottile di vendetta che potesse mettere in atto.

Leggere in sequenza e poi rileggere i libri di Ernaux, dove le riflessioni sulla scrittura sono spesso centrali, offre nell’ombra dei margini e del non detto la sua vita da insegnante, da moglie e da madre, ruoli che non appaiono però centrali nelle sue narrazioni. Ernaux mi pare sia soprattutto figlia e amante, le due versioni di se stessa che più le si confanno e rendono giustizia all’implacabile desiderio di scrivere che si alterna in lei con la passione di esistere:

La passione è innanzitutto uno stato: di totale godimento dell’essere – un godimento immediato – e di chiusura nel presente. La scrittura non è uno stato, è un’attività. La perdita di sé, che vedo in entrambe e a cui probabilmente tendo, non porta allo stesso risultato.

Segue, a partire al 1984, una regola : «evitare, scrivendo, di lasciarmi andare all’emozione», e riesce per questa strada, attraverso una scrittura asciutta e scarna, a dire quel che per generazioni di donne era stato impossibile: essere un corpo, avere le mestruazioni, provare desiderio, temere una gravidanza indesiderata, abortire, smettere di mangiare, rimpinzarsi di cibo, in un gioco perpetuo in cui il corpo rimanda sempre a qualcosa d’altro, a una relazione indicibile e totalizzante, forse proprio quella con la propria madre. Ernaux si muove in un universo tra «la letteratura, la sociologia e la storia», diventando inventrice di quella forma di auto-socio-biografia che racconta non solo dell’individuo ma della classe sociale cui appartiene. La sociologia, secondo Ernaux, «potrebbe essere considerata parte integrante della mia poetica», una poetica che sfugge perché «la letteratura è l’esatto contrario di una disciplina. È dare forma al desiderio».

Dare una forma, una struttura, è una delle ossessioni letterarie di Ernaux ed è proprio questo l’insegnamento che deve a Virginia Woolf:

Mi sono allontanata da Woolf quando mi sono rimessa a scrivere dopo nove anni di interruzione. Di nuovo, la questione era la realtà. Quel che volevo mettere in luce era la questione sociale e necessitava di un corpo a corpo violento tra le cose e il linguaggio. La mia preoccupazione era di trovare la voce, la mia voce, molto meno la forma del romanzo.

Anche Gli anni deve in qualche modo la sua struttura a Le Onde di Woolf, nel medesimo tentativo di trovare una forma nuova per rendere il passaggio del tempo. Oltre a Woolf, Ernaux ama ricordare le altre letture giovanili che le hanno causato «più che gioia, uno choc, perché dopo non ho più guardato il mondo allo stesso modo». La Recherche di Proust, La nausea di J. P. Sartre, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, L’educazione sentimentale di Flaubert, Nadja e il Manifesto del surrealismo di André Breton, Le onde e Al faro di Virginia Woolf.

Con Simone de Beauvoir ci fu anche uno scambio occasionale di lettere in occasione dell’uscita di Gli armadi vuoti, e il femminismo di Ernaux ha preso vita anche grazie al Secondo sesso che sembra dialogare con La donna gelata di Ernaux.

Mi ricordo di questa esperienza di lettura, in un mese di aprile piovoso, come di una rivelazione. Tutto quel che avevo vissuto gli anni precedenti nell’opacità, sofferenza e malessere, si sono rischiarati all’improvviso. È da questa esperienza che mi sono persuasa che la presa di coscienza, anche se non cambia nulla in sé, è il primo passo verso la liberazione e l’azione.

Il dialogo a distanza e il sentimento di riconoscenza sono profondi anche nei confronti di Marguerite Yourcenar. In particolare Ernaux ricorda la prima lettura delle Memorie di Adriano scoperto durante l’inizio dell’università e poi i due volumi – Care memorie e Archivi del Nord, riletti in preparazione alla scrittura de Gli anni dove l’attitudine sociologica di Ernaux prende il sopravvento, anche se «è partire dalla propria esperienza che differenzierà lo scrittore dal sociologo».

La scrittrice fa risalire il desiderio di scrivere questo libro quando, intorno alla metà degli anni Ottanta, resta colpita dall’improvvisa consapevolezza che niente del mondo dell’infanzia esiste ancora. Così inizia a progettare Gli anni attribuendogli un titolo ben due anni prima di averlo terminato, sapendo che «la scrittura è un alternarsi di disperazione e contentezza».

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Annie Ernaux

Romanzi

Gli armadi vuoti, Rizzoli, 1996, (Les Armoires vides, Gallimard, 1974).

Ce qu’ils disent ou rien, Gallimard, 1977.

La donna gelata, L’orma, 2021. (La Femme gelée, Gallimard, 1981).

Il Posto, L’orma, 2014 (La Place, Gallimard, 1983).

Una donna, L’orma, 2018, (Une femme, Gallimard, 1988).

Passione semplice, Rizzoli, 1992, (Passion simple, Gallimard, 1992).

Diario dalla periferia, Rizzoli, 1994, (Journal du dehors, Gallimard, 1993).

Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli, 1998, (Je ne suis pas sortie de ma nuit, Gallimard, 1997).

La vergogna, L’orma, 2018, (La Honte, Gallimard, 1997).

L’evento, L’orma, 2019, (L’Événement, Gallimard, 2000).

La Vie extérieure, Gallimard, 2000.

Perdersi, L’orma, 2023 (Se perdre, Gallimard, 2001)

L’Occupation, Gallimard, 2002.

L’Usage de la photo, avec Marc Marie, textes d’après photographies, Gallimard, 2005.

Gli anni,L’orma, 2015, (Les Années, Gallimard, 2008).

L’altra figlia, L’orma, 2016, L’Autre Fille, coll. « Les Affranchis », NiL Éditions, 2011.

Retour à Yvetot, éditions du Mauconduit, 2013.

Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022, Regarde les lumières mon amour, éditions du Seuil, 2014.

Memoria di ragazza, L’orma, 2017, (Mémoire de fille, Gallimard, 2016).

Hôtel Casanova, Gallimard, 2020, 96

Il ragazzo, L’orma, 2022, (Le Jeune Homme, Gallimard, 2022)

Altri libri e risorse

L’Atelier noir, Éditions des Busclats, 2011.

I miei anni Super8, film, 2022.

con Michelle Porte, Le vrai lieu, Gallimard, 2014.

Alice Figini, Annie Ernaux, doppiozero, 2019

con Pierre Bras, Scrivere è un dare forma al desiderio, Conversazione, Castelvecchi, 2020.

con Frédéric-Yves Jeannet, La scrittura come un coltello, L’orma, 2024.

con Rose-Marie Lagrave, Una conversazione, Oligo, 2024.

Pierre-Louis Fort e altri, Ernaux, L’Herne, 2022.

Ornella Tajani, Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux, Marsilio, 2025

Philippe Vilain, Lo studente, Gremese, 2025.

Valeria Lo Forte, La scrittura come un coltello, inedito

Signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni,

mi rivolgo a Lei nella speranza che quanto mi propongo di sottoporre alla sua attenzione possa trovare modo di raggiungerla.

Come tutta Italia, ho appreso dai mezzi di comunicazione del grande Piano casa per le giovani coppie che il governo da Lei presieduto intende attuare.

Io mi chiamo Simona Olivito, sono una donna di 48 anni single e senza figli, che lavora da più di 20 anni a Roma pur non essendo originaria di questa città.

Svolgo un lavoro molto impegnativo e di responsabilità, che assorbe gran parte delle mie giornate, senza che questo mi impedisca di avere una soddisfacente vita di affetti e di aver cura della mia famiglia di origine, benché lontana.

Accade però che quando anche questo governo pianifica aiuti e incentivi per l’acquisto di una casa per giovani coppie, una persona come me si chieda come mai la fascia di età e lo stato civile a cui appartiene non rientri mai nei focus di chi governa in relazione al tema casa.

Lo stesso è stato per i precedenti governi, che hanno consentito a categorie di volta in volta definite come «giovani al di sotto dei 35 anni» e simili di poter comperare una casa a prezzi calmierati.

Ora, facendo una rapida sintesi: non sono giovane, non sono in coppia, non ho figli, ma non credo questo faccia di me una persona e una lavoratrice meno degna di avere accesso a una necessità primaria come l’avere un tetto sulla testa, proprio per poter contribuire alla vita del paese nel modo più proficuo possibile e avere una serenità personale che agevoli questo scopo.

Le possibilità economiche di chi vive solo ed esclusivamente del proprio lavoro, come nel mio caso, senza quindi l’agio di accedere a beni derivanti da eredità o comunque sostegni familiari, sono particolarmente ridotte, pur a fronte di un indefesso impegno quotidiano nel più alto rispetto dei valori sui quali il Paese è fondato.

Il fatto di svolgere onestamente questo lavoro, sostentandosi solo grazie al proprio salario, e di vivere secondo i valori della convivenza civile, avendo cura anche dei propri familiari, nei casi di donna single senza figli vicina ai cinquant’anni parrebbe però con ogni evidenza escludere dalla possibilità di avere accesso alla prima necessità che permette tutto questo: una casa. Perché?

Ciò significa che se non si è più considerate giovani (pur avendo ancora all’orizzonte molti anni di lavoro prima di accedere alla pensione) e se il proprio percorso sentimentale non ha portato a una vita di coppia, questo fa di noi automaticamente persone meno degne di accedere a questo bene primario, pur contribuendo proprio fin dalla tanto considerata giovane età alla vita economica e civile di questo paese?

Sono felicissima di sapere che in alcuni casi si guardi con occhio molto attento a precise circostanze, come appunto a progetti di vita impegnativi che vedono coinvolti partner e prole. Penso però che le condizioni di partenza che permettono di avere accesso a un supporto, a un bene come la casa nel momento in cui non si dispone di patrimoni familiari né di stipendi di alta fascia debbano essere uguali per tutte coloro che, pur non avendo né mariti né figli, allo stesso modo contribuiscono giornalmente con abnegazione e serietà alla vita civile ed economica, facendo anzi fronte da soli a impegni economici e non economici di ogni tipo.

Mi rivolgo a Lei quindi perché mi riesce molto difficile pensare che una donna mia coetanea con una storia personale di grandissima determinazione individuale e profuso impegno, attestato dalle altissime responsabilità che la vedono oggi protagonista, possa considerare del tutto trasparente a un simile provvedimento una fascia di cittadine quasi cinquantenni lavoratrici single e senza rendite diverse dal proprio salario, ma che onora quotidianamente la patria col proprio operato. Mi riesce altresì difficile pensare che non sia evidente l’apporto che queste cittadine danno al Paese.

Se è vero che senza una casa è più difficile costruirsi una famiglia, ritengo altrettanto vero che per chi non vive in un nucleo familiare tradizionale sia più complicato far fronte alle enormi sfide quotidiane nel momento in cui non si è nati in condizioni di agiatezza.

Spero di non averle sottratto troppo tempo prezioso e la ringrazio sentitamente per l’attenzione che avrà voluto dedicarmi,

Simona Olivito

(Lettera, 26 settembre 2025)

da diotimafilosofe.it

Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 3 ottobre 2025, dalle 17,20 alle 19, in aula Menegazzi, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 7 novembre.

Venerdì 3 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Oriella Savoldi – Creare relazioni, creare libertà nel lavoro

Venerdì 10 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Maria Dolores Santos Fernandez – Nel divenire delle pratiche c’è un punto fermo e uno da scoprire

Venerdì 17 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Elena Migliavacca – Le pratiche e la visione

Venerdì 24 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Debora Pasini – L’efficacia trasformativa delle pratiche tra visibile e invisibile

Venerdì 7 novembre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Antonietta Potente – La vita si nasconde

Gli incontri si terranno in aula Menegazzi, ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.

Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia, alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione, al corso di laurea di Servizio sociale e a quello di Studi strategici verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.

Grande Seminario di Diotima 2025

L’arte delle pratiche politiche: un’invenzione del femminismo

Riprendendo Carla Lonzi quando diceva che il femminismo è la propria pratica artistica, possiamo dire che l’azione politica femminista è tessuta di tante diverse pratiche, ognuna delle quali è un processo creativo. Tiene conto infatti della necessità del contesto e del desiderio di trasformarlo dall’interno per fare spazio e far esistere ciò che orienta profondamente, ma senza conoscere in anticipo quale sarà il risultato. Come nelle pratiche artistiche si approfitta delle condizioni materiali in cui ci si muove e si aprono possibilità impreviste.

Sono processi che si modificano nel tempo, senza regole definite esplicitamente e senza obiettivi già pensati, se non quello di aprire spazi di libertà. Questo le differenzia dalle tecniche di comportamento – nella gestione organizzativa, nella formazione, nella comunicazione – per le quali viene indicato il ventaglio di risultati da ottenere e dove gli obiettivi sono definiti e le regole precise.

Perché riprendere oggi il discorso sulle pratiche, dato che è stato sempre tema centrale del femminismo? Innanzitutto per mettere in chiaro che l’attività simbolica non è affidata soltanto alle parole, ma anche a processi materiali molto più ampi, nei quali le parole prendono rilievo all’interno di un agire sensato. In secondo luogo perché tante, ma anche tanti, raccontano che nei luoghi di lavoro gli spazi di libertà si sono molto ristretti. Per questo è diventato necessario ripensare e mettere in atto nuove pratiche. Ma soprattutto perché il disordine simbolico, che stiamo subendo a livello internazionale e della politica italiana, ci spinge a immaginare un agire con altre e altri che crei un tessuto di relazioni capace di sostenere il vivere comune.

Alcune pratiche rimangono sempre efficaci, come quella di fare riferimento politicamente a quelle donne che sentiamo guidate dal nostro stesso desiderio. Altre vanno però scoperte e inventate con l’intenzione di trasformare i contesti e far sperimentare un vivere sensato nelle situazioni comuni.

Occorre arte in questo: ogni pratica infatti richiede un pizzico di creatività, una capacità di visione e quanto più sapore possibile.

Bibliografia:

– Giulia Siviero, Fare femminismo, Nottetempo 2024.

– Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori 1999.

– Donatella Franchi (a cura di), Matrice. Pensiero delle donne e pratiche artistiche, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano 2004.

– Chiara Zamboni, Una contesa filosofica e politica sul senso delle pratiche, «Per amore del mondo» n. 5 (2006).

da Contexto y Action

L’ignoranza della storia e la concezione manichea delle relazioni internazionali di molti politici, militari, esperti e giornalisti europei lasciano presagire un’estensione del conflitto tra Russia ed Europa.

Il 17 luglio, il capo delle truppe degli Stati Uniti in Europa, generale Christopher Donahue, ha dichiarato a Wiesbaden che la NATO ha un piano dettagliato per attaccare e conquistare la regione russa di Kaliningrad «in un lasso di tempo senza precedenti, più rapido di quanto siamo mai stati capaci». Kaliningrad è un punto militarmente vulnerabile della Russia, incastonato tra Polonia e Lituania, territorialmente disconnesso dal resto della Federazione Russa. Per questo Mosca mantiene lì numerosi soldati, 75 navi da guerra, aviazione supersonica da combattimento e missili nucleari tattici Iskander M.

Poiché la Russia attacca sistematicamente l’industria militare ucraina, Kiev sta delocalizzando in paesi della NATO alcune fabbriche. L’azienda ucraina Fire Point aprirà a dicembre uno stabilimento di carburante per missili in Danimarca. Anche la Germania produrrà armi per l’Ucraina. È la prima volta che paesi della NATO ospitano industrie di un paese in guerra o producono armi sul proprio territorio per conto di altri. Tutti dichiarano che i missili che verranno fabbricati e/o forniti all’Ucraina in (e da) Europa possono e devono colpire la profonda retroguardia russa, città come Mosca e San Pietroburgo. Lo affermano il cancelliere tedesco, il suo ministro della Difesa, i principali politici europei, la responsabile degli Esteri dell’UE e i generali tedeschi, i quali prevedono che il conflitto militare aperto dell’Europa con la Russia comincerà nei prossimi quattro o cinque anni.

[…]

Coloro che prendono le decisioni a Mosca, e il presidente Putin in particolare, sono stati finora molto più moderati dei loro strateghi. Ma gli avvertimenti si susseguono. È ovvio che la Russia non lascerà senza risposta attacchi contro le proprie città condotti con missili tedeschi o prodotti in Danimarca. Una risposta che non avverrà in Ucraina, ma contro i paesi d’origine di tale capacità. L’ampliamento/trasformazione della guerra in Ucraina è servito e ben annunciato.

I politici che sostengono la linea della NATO nell’Unione Europea, ovvero la presidente della Commissione Von der Leyen, la responsabile degli Esteri Kallas e gli attuali dirigenti di Germania, Francia e Inghilterra, stanno mettendo a rischio la sicurezza dell’Europa, provocando la Russia e chiedendole di attaccarli. Si tratta di un’intera generazione europea di politici, militari, esperti e giornalisti che, nella loro grande maggioranza, ignorano la storia e hanno interiorizzato una concezione manichea profondamente stupida delle relazioni internazionali, che li porta a perdere di vista la realtà.

«Nei circoli politici e mediatici di Washington, Bruxelles, Parigi e Londra, gli argomenti storici sono diventati inutili. I loro interlocutori semplicemente non capiscono di cosa si stia parlando e mancano sia delle conoscenze di base sia della vitalità intellettuale per provare a comprenderlo. Chi non sa che la relazione tra Russia e Ucraina (a volte molto conflittuale, a volte consensuale) si è protratta per oltre 400 anni, probabilmente non si rende conto che, impegnando i propri paesi a trasformare l’Ucraina in una barriera militare contro la Russia, stanno assumendo un impegno non solo per le generazioni future, ma per i secoli a venire», afferma l’analista britannico Anatol Lieven.

Uno dei grandi malintesi è non accettare la realtà e gli interessi della Russia, il più grande e popoloso paese del continente che (al di là dei motivi endogeni, che esistono) è stato spinto per tre decenni a riprendere il proprio militarismo ideologico ed economico, che Mosca aveva abbandonato durante la fallita trasformazione successiva alla grande riforma democratizzante e alla fine dell’URSS.

L’Europa ha trasferito agli Stati Uniti tutte le decisioni strategiche in materia di sicurezza e politica estera continentale. Il problema era che Washington considerava che la Russia non fosse più una grande potenza, mentre i russi si consideravano e si considerano tuttora una grande potenza e non hanno, né avevano, alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità e autonomia mondiale.

A questo punto, il lettore potrebbe pensare: «ma non è forse la Russia che in questi giorni ha lanciato droni sulla Polonia e sulla Romania, disturbando gli aeroporti di Oslo e Copenaghen, e violando lo spazio aereo dell’Estonia?» Sì, probabilmente si tratta di avvertimenti alla cosiddetta “coalizione di volontari” che proclama la propria intenzione di intervenire militarmente in Ucraina e di test della loro posizione militare, che mettono in evidenza la loro grande vulnerabilità per assenza di sistemi di difesa aerea e antimissile. Tutto ciò dovrebbe invitarli a riflettere sulle conseguenze delle loro azioni.

In realtà, considerate nel loro contesto, tutte queste “provocazioni” sono state piuttosto innocue. I droni sulla Polonia non erano armati e, nel quadro generale, la presunta violazione dello spazio aereo estone è stata una minuzia. L’Estonia cerca di ampliare la propria zona economica esclusiva aerea e marittima nel Baltico, cosa che la Russia non riconosce, e i dodici minuti di violazione dichiarati impallidiscono rispetto alle oltre 200 violazioni turche dello spazio aereo greco registrate nel 2022 intorno all’isola di Samos. La Turchia e la Grecia sono membri della NATO, ma tali incidenti non hanno mai generato grandi titoli mediatici né accese dichiarazioni o convocazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e del Consiglio della NATO, come è stato invece per l’Estonia, coincidente proprio con l’annuncio del Pentagono di ridurre l’aiuto degli Stati Uniti nel Baltico…

Il problema è che la retorica aggressiva fa parte della natura stessa di una spirale bellica. «A qualsiasi violazione militare della frontiera si risponderà con mezzi militari, incluso l’abbattimento di aerei da combattimento russi», ha detto il politico della CDU tedesca Jürgen Hardt. «Sono stati avvertiti: se un altro missile o aereo entra nel nostro spazio aereo senza permesso, sia deliberatamente sia per errore, e viene abbattuto, non venite qui a lamentarvi», ha dichiarato mercoledì il ministro degli Esteri polacco Radoslav Sikorski durante la sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Una volta che iniziano gli spari, anche in modo fortuito e indesiderato da tutti, la pressione è sempre verso una maggiore distruzione. E ci troviamo chiaramente in quella situazione.

Man mano che maturano le condizioni per un ampliamento territoriale del conflitto militare in Ucraina o per il previsto secondo attacco israeliano contro l’Iran cresce allegramente l’accettazione politica e mediatica dello scenario di una grande guerra con possibile uso di armi nucleari tattiche. La stessa dottrina nucleare russa è stata significativamente riformata in tal senso. La dottrina del governo britannico, approvata quest’anno nella National Security Strategy, avverte che «per la prima volta dopo molti anni dobbiamo prepararci attivamente alla possibilità che il nostro territorio sia oggetto di una minaccia diretta in un potenziale scenario di guerra». La cronaca europea è ormai piena di questo tipo di preparativi e annunci: la spesa del 5% in “difesa”, la fine degli statuti di neutralità (Austria, Svizzera), la ricerca di risorse nucleari (Polonia) o l’avvio del dibattito in Germania… Ma il fenomeno va oltre l’Europa.

Dalla sua Legge di Pace e Sicurezza del 2015, il Giappone ha archiviato la nozione di “autodifesa” che aveva caratterizzato l’interpretazione della Costituzione del dopoguerra. Ora si giustifica l’uso della forza militare non solo in caso di attacco diretto al Giappone, ma in qualsiasi eventualità di “crisi esistenziale”, un concetto ampio e ambiguo che include, ad esempio, la chiusura dello stretto di Ormuz (via di approvvigionamento energetico del paese) e persino cyberattacchi. Perfino la prudente e sempre moderata Cina ha dovuto mostrare i muscoli con un’insolita esibizione delle sue armi di ultima generazione nella recente parata dell’anniversario della vittoria a Pechino. Tutto indica l’ampliamento del conflitto e delle tensioni militari. E non solo in Europa.

(*) Rafael Poch-de-Feliu (Barcellona) è stato corrispondente de La Vanguardia a Mosca, Pechino e Berlino. Autore di vari libri: sulla fine dell’URSS, sulla Russia di Putin, sulla Cina, e di un saggio collettivo sulla Germania della crisi dell’euro.

da Altraeconomia

Martina Pignatti Morano, presidente del Comitato etico di Banca Etica, interviene nel dibattito sugli effetti delle sanzioni a danno della Relatrice speciale Onu e sui reali margini di manovra che ha l’istituto di credito, «nel suo difficile ma riuscito esercizio della finanza di pace in un mercato assetato di sangue». Ecco quali sono i rischi e le valutazioni che hanno portato la banca schierata «contro l’apartheid in Palestina» a fermarsi

Ho iniziato a scrivere questo articolo il 22 settembre, da una missione in Siria per la mia Ong, ma alle mail che ho inviato ai dirigenti e al personale di Banca Etica in Italia rispondeva un messaggio automatico: «Oggi manifestiamo per il cessato il fuoco a Gaza, ci vediamo in piazza!».

Questa è la mia banca, che tra l’altro destinerà i salari giornalieri delle lavoratrici e lavoratori che hanno aderito allo sciopero generale a progetti di emergenza umanitaria per Gaza. Come presidente del Comitato etico osservo ogni giorno Banca Etica nel suo difficile ma riuscito esercizio della finanza di pace in un mercato assetato di sangue, che non esita a trarre profitto persino dal genocidio in corso in Palestina, come ha documentato nel suo ultimo rapporto la Relatrice Speciale dell’Onu sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese. Per questo la dottoressa Albanese è stata inserita nella lista delle sanzioni americane dell’Ofac, alla pari di narcotrafficanti e di chiunque gli Stati Uniti designino come terrorista.

Molti di voi sanno che Francesca Albanese ha contattato Banca Etica per tentare di aprire un conto corrente bancario. Voleva comprendere assieme a noi se lo potessimo fare nonostante le sanzioni americane, tramite un controllo dell’antiriciclaggio che appurasse l’autentica natura delle sue attività, improntate all’assoluta correttezza legale e pratica nonviolenta, suggellata dal rinnovo recente del suo incarico da parte delle Nazioni Unite. Un gruppo di dieci persone ai massimi livelli della banca ha lavorato a questa pratica con grande passione personale oltre che rigore professionale per due settimane: funzione antiriciclaggio, ufficio legale, colleghi del back office e staff di direzione. Purtroppo hanno confermato quello che ciascuno di voi può chiedere all’intelligenza artificiale on line, se volete approfondire: le banche che offrono servizi a individui o entità presenti nelle liste Ofac sono passibili di sanzioni civili (multe di milioni di dollari, confisca di fondi e asset delle persone sanzionate, etc.) e penali, restrizioni operative su tutta l’operatività in dollari di tutti i clienti, controlli più rigidi e audit da parte delle autorità, implementazione di programmi di compliance più severi che ne possono bloccare interamente l’operatività anche per lunghi periodi di tempo.

Diverse banche europee hanno subito multe o sanzioni per aver intrattenuto rapporti con soggetti segnalati nelle liste Ofac: Swedbank Latvia in Svezia, Bnp Paribas in Francia, Deutsche Bank in Germania, Efg International in Svizzera e Unicredit per dirne alcune, con multe che sono arrivate a 8,9 miliardi di dollari per transazioni con Sudan, Cuba, Iran.

Banca Etica, a dir la verità, era disponibile ad accettare il rischio di pagare multe salate pur di rimediare alla discriminazione del sistema bancario verso Francesca Albanese, ma si è fermata davanti al rischio di vedersi bloccata l’operatività in dollari per tutti i propri clienti, tra cui le Ong che devono poter operare in valuta per l’invio di fondi in tantissime zone di conflitto, dall’Afghanistan all’Iraq. Ad esempio, Commerzbank in Germania nel 2015, dopo aver pagato 1,45 miliardi di dollari di multe per transazioni con Sudan e Iran, ha subito pesanti limitazioni sui conti in dollari e un monitoraggio esterno continuo che ha reso estremamente complesso effettuare trasferimenti verso Stati fragili.

A volte Banca Etica riesce, con controlli attenti tramite Ong fidate, istituzioni nazionali e internazionali, ad appurare che alcuni propri clienti, inseriti ad esempio nelle liste internazionali delle persone sanzionate dalla Turchia per terrorismo, sono in realtà vittime di discriminazione politica. Io stessa per conto del Comitato etico ho contribuito a raccogliere informazioni su casi di questo tipo e ho partecipato a Cda in cui questi clienti sono stati accettati dopo un intenso lavoro delle funzioni di controllo, sulle quali comunque né il direttore né il Cda possono esercitare alcuna pressione, come richiesto dalle Disposizioni di vigilanza per le banche (circolare n. 285 del 17 dicembre 2013) con riferimento ai requisiti di indipendenza delle funzioni stesse.

Va detto infine che Banca Etica si avvale di banche corrispondenti per le operazioni internazionali, che a sua volta passano da altre banche corrispondenti (inclusa Intesa Sanpaolo, per fare un esempio) che, avendo filiali in tutto il mondo, devono attenersi a delle regole di conformità della normativa internazionale e non solo europea. Pertanto, in modo molto semplice, potrebbero decidere di declinare l’esecuzione di un’operazione in quanto non conforme alle loro policy interne o includerci nelle liste interne di clienti non desiderati, precludendoci anche operazioni in euro.

Allora che cosa possiamo fare per resistere alla profonda ingiustizia delle sanzioni Usa – che diventano vincolanti anche in Italia tramite i gangli del sistema finanziario globale – verso una persona di altissimo profilo umano e una testimone di giustizia come Francesca Albanese, nonché verso i membri della Corte penale internazionale? Banca Etica ha intensificato il dialogo con attivisti palestinesi e internazionali che promuovono la campagna di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni su Israele per chiedere il rispetto delle risoluzioni dell’Onu e la fine dell’apartheid. Continua l’azione di sostegno a diverse organizzazioni palestinesi per il microcredito e alle Ong che sostengono la popolazione di Gaza nella sopravvivenza quotidiana al genocidio, dialoghiamo con le aziende socie per chiedere anche a loro di interrompere la complicità con il sistema di colonizzazione e sfruttamento dei territori palestinesi, abbiamo escluso dai fondi etici le imprese segnalate sia da database dell’Onu sia da società civile perché traggono profitto dall’occupazione. Ma soprattutto la Banca fa advocacy con parlamentari italiani e europei affinché risolvano la questione alla radice, chiedendo che il Parlamento italiano si faccia promotore presso il governo, insieme agli altri governi e istituzioni europee, della richiesta di immediata esclusione della dottoressa Francesca Albanese dalle liste sanzionatorie statunitensi, e che venga definita a livello europeo un’azione strutturale che garantisca agli operatori finanziari europei la possibilità di operare liberi da vincoli arbitrari decisi da governi extra-europei.

Restiamo umani ma soprattutto restiamo uniti, la resistenza al genocidio è una causa più grande di noi, che richiede un onesto e profondo esercizio di ricerca della verità e costruzione collettiva di una pace giusta.

(*) Martina Pignatti è presidente del Comitato etico di Banca Etica e direttrice di una Ong italiana. Lavora da vent’anni nella cooperazione in zone di conflitto

da il manifesto

Nata a Vienna e cresciuta negli Stati Uniti, Lara Dizeyee è una stilista e artista curda. Figlia del noto artista Homer Dizeyee, dopo anni di attività nel settore petrolifero e del gas, ha deciso di dedicarsi interamente all’arte e al design della moda. Coniugando tradizione e modernità, ha portato l’abito curdo sulla scena internazionale, partecipando a eventi come la Paris Fashion Week 2023 e la Milano Fashion Week 2025. L’Università di Sulaymaniyah le ha conferito il titolo di Ambasciatrice dell’abito curdo per il suo impegno nella promozione di questo patrimonio culturale.

Sta dedicando la sua nuova collezione di Milano a «Jin, Jiyan, Azadî» («Donna, vita, libertà») e alle donne curde. Perché ha scelto di portare questo messaggio politico nella moda e quale impatto globale si aspetta?

Questa non è una dichiarazione politica ma umana. È un tributo a tutte le donne che affrontano ingiustizie e un promemoria del fatto che siamo in solidarietà con loro. Quello che è successo a Jina Amini, e a tante altre giovani donne come lei, è stato profondamente ingiusto e ha toccato i cuori delle persone in tutto il mondo. Come artista e come persona impegnata sul piano umanitario, non creo abiti solo per la moda in sé: creo per raccontare storie e onorare la resilienza. Con questo design voglio mettere in risalto la forza delle donne che, nonostante gli ostacoli, continuano a rialzarsi con orgoglio.

I curdi hanno una storia millenaria ma nessuno Stato indipendente. Considera la presentazione dellabito curdo sulla scena internazionale una forma di «soft power»? Che ruolo può avere la moda come linguaggio simbolico per le culture senza Stato?

Sì, lo considero una forma di soft power e di diplomazia culturale. La moda è un linguaggio universale che permette alla cultura curda di essere vista e compresa, senza parole. Portando l’abito curdo sulle passerelle globali, non solo preservo il patrimonio, ma condivido anche la storia di resilienza e orgoglio di un popolo senza Stato. La moda diventa sia bellezza che voce.

L’industria della moda è in gran parte guidata dal capitalismo e dal consumismo. Come rimane fedele alla sua cultura e storia allinterno di questo sistema?

Credo che la moda abbia due lati: può essere guidata dal consumismo, ma può anche essere un mezzo per raccontare storie e preservare culture. Per me non si tratta mai solo di produrre abiti da vendere, ma di creare design che portino con sé significato, storia e identità. Come stilista curda, sento la responsabilità di intrecciare le voci del mio popolo in ogni collezione, così che ogni pezzo sia non solo couture ma anche narrazione culturale. Rimanere fedele alla cultura significa radicare il mio lavoro nell’autenticità, attingendo a tessuti tradizionali, motivi e storie, reinterpretandoli in chiave moderna. Così garantisco che il patrimonio curdo non venga mercificato, ma piuttosto elevato e onorato sulla scena mondiale. Ciò che mi mantiene con i piedi per terra è lo scopo del mio lavoro. Ogni design è un tributo al mio popolo, alla bellezza di una cultura che merita di essere vista. Questo scopo è più grande delle mode o del profitto e mi permette di restare fedele a chi sono e alle mie radici.

La sua presenza a Milano e Parigi è artistica ma anche politica. «Milan Enchanted» va letto come puramente estetico o come portatore di identità e lotta curda? Quali simboli e design hanno più significato: il sole, le forcine e corone tradizionali o i motivi tatuati sui modelli?

Milan Enchanted è una sfilata di moda narrativa, è arte e passione. Per me è un tributo alla rinascita e alla resilienza. Sono semplicemente una stilista orgogliosa delle proprie origini, il Kurdistan. Quando creo, non è per provocare o irritare qualcuno, ma per condividere la storia del mio popolo. I simboli che uso – il sole, le forcine tradizionali o le corone – non sono semplici decorazioni ma parti vive della nostra identità. Portano con sé le voci delle generazioni che mi hanno preceduta. C’è bellezza e trionfo nella lotta: diventiamo più forti quando sopportiamo molto. Alcuni miei design riflettono quella lotta, ma la portano con grazia e cuore.

La moda rischia sempre di scivolare nellesotismo quando reinterpreta la tradizione. Come evita stereotipi orientalisti?

Credo che la chiave sia il rispetto: rispettare la mia cultura, onorare il passato e collegarlo con cura al futuro. Il mio lavoro non riguarda trasformare la tradizione in qualcosa di “esotico” solo per la moda ma presentarla con dignità e autenticità. Mi avvicino al patrimonio curdo con profondo orgoglio e responsabilità. Ogni motivo, tessuto o simbolo è radicato nella storia reale e nell’esperienza vissuta, non negli stereotipi. Unendo questi elementi autentici al design moderno, creo pezzi contemporanei ma fedeli alle loro origini. Non sto prendendo in prestito dalla cultura, la sto portando avanti mostrando al mondo che la moda curda non è una tendenza, ma una voce, un’identità e un’eredità.

Alcuni sostengono che inserire labito curdo nell’«haute couture» lo trasformi in un lusso per élite, distaccandolo dalle sue radici sociali.

Cosa c’è di sbagliato nel lusso e nell’eleganza? Per me elevare la cultura curda sulla scena mondiale è un atto di orgoglio. La cultura non è congelata nel tempo, si evolve sempre, si adatta e trova nuove espressioni. Portando l’abito curdo nell’haute couture non lo sto staccando dalle sue radici; gli sto dando visibilità, dignità e un posto accanto alle tradizioni più rispettate del mondo. Sono molto orgogliosa di rappresentare il mio patrimonio nel modo più elegante e senza tempo possibile. Il mio obiettivo è che, quando qualcuno vede i miei design, non veda solo un capo ma senta un ventaglio di emozioni: orgoglio, bellezza, resilienza e connessione. In questo senso, la couture diventa più di un lusso: diventa un tributo vivente a una cultura che merita di essere celebrata al massimo livello.

Come ha reagito il pubblico curdo e non curdo al suo lavoro? I curdi la vedono come rappresentante della loro cultura o come artista della diaspora?

Sia i curdi che i non curdi hanno risposto con moltissimo affetto. Spesso mi dicono che percepiscono il rispetto, l’onore e la forza che intreccio in ogni design, questo significa tutto per me. Ciò che mi tocca di più è che chiunque, curdo o meno, indossi i miei abiti si senta trasformato nel personaggio e nella storia dietro al capo. Quella connessione emotiva va oltre la moda: diventa un’esperienza più profonda di identità e bellezza.

L’industria «fast fashion», soprattutto in Turchia, impiega lavoratori marginalizzati, inclusi curdi e rifugiati, in condizioni precarie e informali. Come può la moda essere ripensata attraverso inclusione e giustizia sociale?

Questo è un problema globale. Noi stilisti dobbiamo assumerci la responsabilità di ripensare la moda in una prospettiva più inclusiva ed etica. Per me ciò significa rallentare, valorizzare l’artigianato e lavorare con artigiani in un modo che rispetti la loro dignità e il loro lavoro. La moda non dovrebbe sfruttare la vulnerabilità, ma dare potere alle comunità, preservare la cultura e creare opportunità. Allontanandoci dalle logiche del fast fashion e avvicinandoci all’inclusione e alla giustizia sociale, possiamo trasformare la moda in qualcosa di più significativo: una piattaforma che solleva le persone mentre celebra bellezza e patrimonio.

È la sua ambizione creare una «maison» di moda curda che possa competere a livello globale servendo anche come progetto collettivo culturale e politico?

Ho già creato il mio marchio, la mia intenzione non è mai stata quella di competere: Lara Dizeyee Haute Couture è una linea che unisce invece di dividere, una maison costruita sulla narrazione, sul patrimonio e sulla convinzione che la bellezza abbia il potere di avvicinare le persone.

da Camilla

Francesca Albanese, Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, Rizzoli, Milano 2025, pp. 288, euro 18.

Relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato, Francesca Albanese condivide le sue esperienze. Ne esce un libro palpitante, che freme di sostanza.

Se ne valesse la pena, si potrebbe dar conto delle offese, delle insinuazioni sulla professionalità, dei sabotaggi che hanno colpito l’autrice anche in privato. Ma chi legge è consapevole che l’impegno si paga, e sa già che ci sono conseguenze prevedibili per chi, specialmente in posti di rilievo, si schiera secondo giustizia. La protesta sterile è appena tollerata; quella costruttiva se la vede brutta; per il posizionamento giusto di chi ha responsabilità ufficiali, poi, non ci sono riguardi.

Questa giurista tenace è innamorata della vita, anche quella degli altri; si aggrappa al lavoro, compresi i problemi che comporta, e va per la sua strada. Quel lavoro, grazie a un’energia vulcanica, riesce a proseguirlo «e, in modo controintuitivo, a continuare ad amarlo». Solo se si tiene presente questo, si apprezza sino in fondo un libro che segue le persone e che alle persone si rivolge.

Persone, tante persone. Alcune non sono più, tutte hanno qualcosa da dirci, in un volume che persino nella divisione in capitoli segue il filo delle loro storie. Chi conosce il peso soporifero dei soliti scritti biografici dei giuristi e del notabilato, qui riceve una sorpresa a colori. Una giurista che non annoia? una relatrice dell’Onu che fa capire a caldo problemi complessi? Deve aver pagato un prezzo, per conquistare questa chiarezza, ma non lo fa pesare, perché ha dalla sua una scelta di campo. Una scelta convinta, sempre argomentata. La scelta dei fatti.

Il quadro generale è esplicito; il sistema che schiaccia i palestinesi ci riguarda tutti:

È il sistema che decide al posto nostro su questioni determinanti della vita di tutti noi, senza necessariamente ascoltarci e rappresentarci; quello che trasforma il lavoro in precariato e i diritti in privilegi, che fa in modo di alienarci gli uni dagli altri, rendendoci tutti più fragili e insicuri; che considera la solidarietà un atto sovversivo e l’empatia una forma di disfunzione mentale e sociale[1].

Se l’oppressione non ha confini, anche la liberazione o è di tutti o non funziona: «Nella liberazione del popolo palestinese dall’oppressione dell’apartheid c’è la chiave per la liberazione degli stessi israeliani»[2].

Nessuno può chiamarsi fuori, perché una linea del colore, diseguale ed esclusivista, colonizza l’umanità su scala mondiale. Anche l’operazione securitaria in atto in Italia, con la stretta sulle libertà e i lacci alle mobilitazioni sociali, realizza una discriminazione che controlla i rapporti di lavoro, lo spazio, la cultura. Nei metodi militari e polizieschi, poi, la sperimentazione sui palestinesi collauda tecniche applicabili dappertutto.

Albanese spiega: «La sicurezza in quella terra – e non solo, purtroppo – è a senso unico; se sei palestinese, viene invocata solo per reprimere la tua libertà. Per punirti». Evidentemente esiste una sicurezza unilaterale: può presentarsi in grado estremizzato ed eliminazionista, oppure può essere quella che si vuole imporre in Europa da molti anni. Ma lei ha visto la violenza in una forma radicale, fatta di negazione e squalifica profonda: Israele i palestinesi non li vede, non li ascolta e, cosa ancor più grave, non li «sente». Per la maggior parte degli israeliani che intervengono pubblicamente, ma anche per molti esponenti della diaspora ebraica, esiste una sola prospettiva: quella di Israele[3].

Chi è cosciente di questa situazione parla una lingua dal suono inconfondibile: «Nessuno è libero finché non sono liberi tutti»[4]. Non si arriva a queste consapevolezze senza una buona dose di autocritica. Per forza: i giuristi migliori sono quelli che decostruiscono il diritto, che ne mettono a nudo i pregiudizi, le stratificazioni prevaricanti. Non è un caso se quest’anno, nelle irruzioni dell’esercito all’Educational Bookshop, a Gerusalemme, fra i testi sequestrati c’era un libro di diritto scritto anche da lei[5]. Ma bastano, cultura e introspezione?

Proprio no. Bisogna incontrare la realtà faccia a faccia, sbatterci contro il muso, magari in un caffè con gli odori pesanti e i camerieri che sono ragazzi usciti dalle mani dei carcerieri israeliani. L’autrice discute con un palestinese, sottolinea il suo ruolo nell’Onu, e quello la smonta senza complimenti: «Non si è scomposto più di tanto; guardandomi dritto negli occhi, si è limitato a chiedermi: “Ma tu, che vuoi fare?”. Una domanda alla quale, a distanza di tanti anni, forse sto ancora cercando di rispondere»[6]. Evviva! Una giurista che si mette in discussione, che non sbandiera successi immaginari, che non si pavoneggia citando commi e paragrafi.

Quando si fanno queste sane docce fredde, si capisce molto di sé e dei colleghi. Anche l’impegno dalla parte degli oppressi può contribuire all’oppressione: è il «paradosso umanitario». Credi di aiutare e, senza saperlo o senza poterlo evitare, ogni cosa che fai sta già in un modello che lascia le cose come stanno, che consolida lo stato di fatto. Allo stesso tempo ti senti un benefattore, un bianco buono, mentre sei parte del problema che vuoi risolvere. Anche su questo, il modello praticato sui palestinesi estremizza la violenza. Ma il contributo funzionariale alla linea del colore è simile ovunque, anche in Italia: il giurista, il benefattore, l’attivista, il militante possono diventare parti del circuito che credono di spezzare.

E allora arriva l’impegno di Albanese in ogni direzione, per sfuggire ai pregiudizi e ai condizionamenti, per dare il meglio. Frequenta il popolo e gli intellettuali, legge e si documenta, entra in contatto con studiosi di mezzo mondo, approfondisce teorie d’avanguardia: ci mette di fronte alla politica verticale, allo spaziocidio, alla trasmissione intergenerazionale dei traumi.

Ma non trascura i dettagli, le cose. In quel caffè palestinese con gli odori forti torna sempre, per attingere alla fonte che ogni essere umano – il giurista più degli altri, con la sua tendenza automatica alle categorie e alle astrazioni – non deve abbandonare: la realtà. Lei la riassume così: Israele e Palestina, uno è l’occupante e l’altro l’occupato, uno è il colonizzatore e l’altro il colonizzato, posto in una situazione di strutturale subalternità e vittima di un sistema di controllo e segregazione. No, questo non è un conflitto: al massimo può essere visto come un conflitto con l’umanità[7].

È bene, oltre alle persone, frequentare i luoghi: ma se fai le escursioni organizzate, vedi cosa ti fanno vedere e devi sorbirti versioni addomesticate della storia e dell’archeologia del Medio Oriente; invece località e rovine, anche quelle che le guide turistiche definiscono senza un margine di dubbio, sono interpretabili in vari modi. Tutto va approfondito: il Muro del pianto, per esempio, potrebbe non essere un muro del Secondo tempio di Gerusalemme; per alcuni, anzi, il Secondo tempio non sarebbe stato lì o non sarebbe mai esistito[8]. Così, lei supera il suo anticlericalismo e si affida a un prete, oltre che a un palestinese, per sentire l’altra campana e non solo le narrazioni che piacciono a Tel Aviv.

Instancabile, affamata di esperienze e di vita, Albanese ha capito che se in Palestina si vede un «conflitto» si inizia a leggere un libro da metà delle pagine, ignorando cosa c’è prima. Ecco, Quando il mondo dorme ci aiuta a cercare lì, è un libro che si porta dietro i capitoli mancanti nelle letture degli altri. Perché stupirsi? Nasce da un’idea che le ronzava in testa da anni: scrivere Polaroid da Gerusalemme, presentando la Palestina come l’ha vissuta, con curiosità culturale e attenzione giuridica insieme.

Pensiamoci: un libro che porta con sé l’altra metà della storia, cioè i mezzi libri che il mondo non legge, perché non può contenere l’ombra di se stesso, il libro non scritto? Forse è questo, il segreto di un lavoro riuscito.

Note:

[1] Francesca Albanese, Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, Rizzoli, Milano 2025, p. 16.

[2] Ivi, p. 19.

[3] Ivi, p. 207.

[4] Ivi, pp. 240-241.

[5] Ivi, pp. 104-105. Si tratta di Francesca Albanese, Lex Takkenberg, Palestinian Refugees in International Law, Oxford University Press, Oxford, New York 2020.

[6] Albanese, Quando il mondo dorme, cit., p. 63.

[7] Ivi, p. 76.

[8] Ivi, p. 87.

da La Balena Bianca

Livia Massaccesi, Indossare la battaglia: Rosa Genoni, Milano, Electa 2023, € 12, pp. 96.

Difficile resistere alla collana di libri che prende il nome dal ritornello di una canzone amata da bambina. “Oilà” è una raccolta Electa di mini-tascabili contenente pillole di vite scandite al ritmo di un canto di lotta che segna la storia delle battaglie e dell’emancipazione femminile: “La lega”. Per me è anche un ripescaggio nell’infanzia: nel mio ricordo la melodia risuona di vacanze estive, di viaggi in macchina verso mete marine, insieme agli altri canti politici intonati da mio padre. “Se ben che siamo donne” (questo il titolo col quale avanzavo la richiesta per “La lega”), era la mia preferita e ci emozionavamo a cantare il ritornello nelle diverse versioni con cui aveva preso vita e fatto la storia:

Oilì oilì oilà e la lega crescerà

e noialtre lavoratrici (socialiste), e noialtre lavoratrici (socialiste)

a oilì oilì oilà e la lega crescerà

e noialtre lavoratrici vogliam la libertà

Indossare la battaglia. Rosa Genoni, di Livia Massaccesi (2023) è il mio testo di accesso alla collezione: la “sarta” socialista sulla quale mi sono sempre ripromessa di sapere di più.

Intraprendo dunque la lettura ad “alta leggibilità”, sintagma che rimanda non solo al mio livello di interesse, di certo alto, ma a una scelta grafica, anch’essa democratica, che rende i contenuti accessibili ai più. Il testo infatti è sbandierato, non allineato a destra (di nome e di fatto), il vento fischia tra le pagine e le parole arrivano dritte al cuore di chi legge. Ben presto scopro che Rosa Genoni, classe 1867, prima di diciotto figli di un’umile coppia (ciabattino il padre, sarta la madre) che vive in un borgo alpino ai confini con la Svizzera, è stata ben più che una sarta, ma anche molto meno potremmo dire, se prendiamo in considerazione tutta, ma proprio tutta la sua vita. Stilista, attivista, militante socialista, “sarta artista” (stando all’appellativo coniato dalla giornalista coeva Paola Lombroso), Rosa inizia a dieci anni come “piscinina” (piccolina in dialetto milanese), una di quelle bambine che lavorano nelle sartorie per quattordici ore al giorno e pochi centesimi. «Sono aiutanti e raccattaspilli [che] spesso neanche imparano il mestiere di sarta, hanno l’incarico di consegnare gli abiti alle clienti e portano sulle spalle pesi non indifferenti», racconta Livia Massaccesi, anche lei nipote di sarta.

Così, come in un gioco di specchi, il ritmo della macchina da cucire riecheggia nelle battute del testo e nella biografia dell’autrice, cresciuta tra le stoffe, gli aghi e i fili del laboratorio di sartoria della nonna, dove «il rumore della macchina da cucire è stato il sottofondo accogliente dei pomeriggi passati da lei, nel fumo delle sue mille sigarette, tra i fogli a quadretti pieni di figurini che lei disegnava e io coloravo». Un ambiente vitale e colorato in cui la nonna incantava la piccola Livia – scrittrice e visual designer specializzata in grafica editoriale – con quella «sua capacità di rendere semplice la trasformazione di un’idea in oggetto».

Le idee e la trasformazione – nella sua accezione profonda e rivoluzionaria – sono dunque alla base della lettura del testo, nel quale l’alternarsi tra la prima e la terza persona crea una rifrazione viva tra l’io della scrittrice e la biografia della protagonista: «Quando per la prima volta ho incontrato la storia di Rosa Genoni – ero molto giovane e studiavo storia del costume – ne sono rimasta folgorata […] mi ha fatto capire una cosa di me stessa: per me progettare è prima di tutto un’attitudine, poi un mestiere. Non c’è un aspetto della sua storia in cui non trovi elementi di modernità, spirito critico e desiderio di miglioramento, tutte caratteristiche necessarie in un buon designer».

Effettivamente quella di Rosa Genoni è una vita di progetti creativi, politici e sociali: lavoratrice precoce, entra presto in contatto con il lavoro sfruttato e sottopagato, in un ambiente tutto al femminile, ma non è tipa da scoraggiarsi. Ha fame e sete di conoscenza e, una volta mosso il primo passo (dal piccolo paese alla grande città), comincia a tessere i fili e la trama della sua vita: i progressi nel mestiere, i primi contatti con il socialismo attraverso il cugino, la lingua d’oltralpe (lingua indiscussa della moda) imparata da autodidatta, l’incontro con Anna Kuliscioff, le battaglie per il movimento operaio, il primo viaggio in Francia – siamo nel 1884 e lei è stata scelta come interprete per accompagnare la delegazione del movimento operaio al “Congresso internazionale sulle condizioni dei lavoratori di Parigi”. A Parigi comincia anche il suo percorso individuale, la sua indipendenza, che nella moda si traduce in una battaglia per liberare l’Italia dal modello (anzi, dai modelli) francesi. Artefice – così amava essere definita – farà di questa campagna uno strumento di lotta per l’emancipazione della donna a partire dalla sua libertà di movimento: celebri i suoi modelli che affrancano le donne da quegli stretti corpetti ai limiti della tortura. Maestra del “made in Italy” – la locuzione compare per la prima volta in una sua intervista – non le verrà mai riconosciuta la maternità di un’intuizione così lungimirante da prestarsi ai successivi usi strumentali e di propaganda.

Del resto, siamo negli anni dell’industria, verso la quale la sua apertura al cambiamento permette a Rosa Genoni di intravederne il potenziale, un’opportunità in grado di alleggerire il lavoro (migliorandone le condizioni) e velocizzare la produzione. Per Rosa la macchina «si presterà a democratizzare, anche presso i meno ricchi, quelle bellezze di opere che la mano dell’uomo, una volta, produceva a prezzi tanto elevati, da essere riservati solo a pochi privilegiati».

La grande storia intarsia il racconto, non soltanto nei suoi “movimenti” – il socialismo, l’avvento del fascismo, l’industrializzazione – con cui fa i conti la protagonista, ma anche con singoli eventi che ne fanno da cornice. L’eccidio delle Fosse Ardeatine irrompe in prima pagina come una sorta di avvertimento: siamo nel marzo del 1944, c’è la guerra e se la nonna dell’autrice non fosse scampata al rastrellamento che la coglie gravida di due gemelli, questa storia «che ha a che fare con lei e con me [Livia Massaccesi] non ci sarebbe». In chiusura invece incontriamo il riferimento a un gesto di Rosa, grande al punto da arrivare con la sua eco sino ai nostri giorni. Siamo nel 1948, la sarta-artista ormai conduce una vita ritirata, ma il suo fermo impegno civico la porta a scrivere una lettera all’ONU, nella quale «afflitta dal conflitto israelo-palestinese ne auspica una soluzione pacifica».

Una vita dalla gittata ampia, il cui arco sembra proiettato ben oltre le condizioni ambientali della sua epoca. Un esempio che è anche un monito e un tarlo che sta lì per dirci – così come titolava il giornale organo del suo partito – Avanti!

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Fotografia del Congresso internazionale delle donne per la pace del 1915. Rosa Genoni è la quarta a partire da destra. L’immagine è di pubblico dominio su Wikimedia Commons.

da Erbacce

da il manifesto

Con poche righe e scarse competenze a disposizione, mi accontenterei di incuriosire chi poco ne sapesse del pensiero e della pratica politica che si ritrovano negli scritti e nella vita di Luisa Muraro, festeggiata sabato scorso alla Università Cattolica di Milano nel contesto delle iniziative per i 50 anni della Libreria delle donne di Milano. Luogo centrale del femminismo della differenza fondato insieme a Lia Cigarini (con lei appuntamento il 17 ottobre) e altre.

Femminismo della differenza, non ben distinto nelle sue anche molto diverse voci, oggi spesso criticato da posizioni “transfemministe” e queer, per eccesso di “essenzialismo”, fissazione sul “materno”, atteggiamenti “identitari” legati alla “biologia” del corpo femminile.

Sabato – di fronte a un pubblico di oltre 400 persone, in grande maggioranza donne, ma non solo – chi ha parlato, senza fare polemiche, ha per molti versi rovesciato queste letture. Se l’ordine simbolico del padre (e oggi si parla ormai correntemente di patriarcato e dei suoi mostruosi rigurgiti) era «una gabbia», quello riferito alla madre (centrale e molto discusso il libro di Muraro

L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti) è per Diana Sartori (Comunità filosofica Diotima) un «ritirarsi all’aperto» nella possibilità di una «libertà soggettiva» frutto di una «mediazione vivente». Esperienza che «accende una luce su un altrove che sembrava impossibile». Uno «sporgersi sull’abisso della libertà» (Ida Dominijanni). Qualcosa che anche per un filosofo come Cesare Casarino (Minnesota University) descrive nella relazione con la madre che ci mette al mondo, ci nutre e insegna a parlare, quel nesso tra «essere, pensiero e linguaggio» che, verrebbe da dire, rimette con «i piedi per terra» tutto il tormento della filosofia contemporanea tra decostruzionismi e «svolte linguistiche» dagli esiti mai soddisfacenti.

Ma se questo è vero, è perché tornando a quella origine, strutturalmente non vista, negata, o travisata da secoli e millenni di pensiero maschile, la ricerca di una “politica del simbolico” che si affida alla capacità di nominare e trasformare le cose grazie al linguaggio, è fondata sulla trama delle relazioni tra persone sessuate. Sull’esperienza che in esse si vive, elaborando desiderio, amore, conflitto, disparità, produzione di autorità.

Ma questo punto di vista, col suo patrimonio di idee e di pratiche, spesso dovute alla capacità – ancora Dominijanni su Muraro – di attuare la «schivata» rispetto al pensiero dominante, come l’animale che scarta di lato per sfuggire al predatore, oggi ha la «forza» e «l’intelligenza» di misurare «la libertà femminile all’altezza di un mondo che va in rovina?». In un panorama in cui la fine del patriarcato sembra contribuire a scatenare un violenza senza freno nella guerra e nei rapporti personali e sociali. Ora che si consuma definitivamente il «paradigma del Moderno», e le fiamme sembrano poter «travolgere il tutto»? Ora che anche istanze del movimento delle donne sembrano catturate dalla politica del potere e della forza bruta?

Emerge l’indicazione di concentrarsi sul destino della democrazia, sul ruolo della comunicazione, sulla realtà annichilente della violenza. Nel confronto Wanda Tommasi (Diotima) ricorda la capacità mistica, indagata da Muraro, di trasformare i «difetti» in «profitti». Oppure quella di farsi ispirare da un esame attento della cronaca (Annarosa Buttarelli).

Paolo Gomarasca (Università Cattolica) ha regalato alla fine l’immagine surreale, attraente della Giganta di Leonora Carrington, che custodisce tra le mani l’uovo alchemico della vita, non lo scettro e la spada del Leviatano.

da il manifesto

Mani guantate che sorreggono una stella, un paio di occhiali, una scatoletta posata su un cuscino, la figura di un uomo con un cappello scuro e un lungo soprabito su cui si arrampica un enorme scarafaggio, un libro sulla cui copertina si legge El cuarto de atrás, e, in alto, una frase scritta a mano: «Ho conosciuto Todorov e sono quasi sicura che fosse l’uomo col cappello nero». Il collage, composto sulla pagina di un quaderno a righe, figura tra quelli che una madre, residente per qualche tempo negli Stati Uniti degli anni Ottanta, si è divertita a creare per raccontare New York alla figlia rimasta a Madrid.

Manca la firma, ma anche senza aver mai visto il volume in cui quel quaderno si è trasformato (Visión de Nueva York, Siruela 2005), si può facilmente indovinare che la sua autrice è Carmen Martín Gaite, una delle più grandi scrittrici di lingua spagnola del Novecento, più che esplicita nel concentrare in una sola pagina le figure di un suo libro del 1978 (per l’appunto El cuarto de atrás) pubblicato in Italia per la prima volta nel 1995 presso La Tartaruga, casa editrice del cui catalogo non si può non avere nostalgia. Presentato allora come La stanza dei giochi, il libro torna oggi con un titolo più fedele, La stanza in fondo (Mondadori, «Oscar», pp.216, € 14,00), nella stessa traduzione di Michela Finassi Parolo – che per l’occasione l’ha rivista a fondo – e con la prefazione di Maria Vittoria Calvi, in coincidenza con il centenario della nascita di Martín Gaite a Salamanca, che si celebrerà il prossimo 8 dicembre.

Inserito nella ricca introduzione di Calvi, il bizzarro collage sembra riassumere la fragile trama di un testo impossibile da classificare: quasi un memoir, quasi un saggio, quasi un romanzo, insomma un esempio di sperimentazione e di ibridazione tra generi diversi in linea con il rinnovamento della narrativa spagnola, che negli anni Settanta si staccò dal rigore del realismo sociale (cui il primo romanzo di Martín Gaite, Entre visillos, sostanzialmente aderiva) per avvicinarsi ad altre forme e ai toni di un’accentuata soggettività.

Spazio intertestuale in cui convergono i precedenti romanzi dell’autrice, i presagi di suoi saggi futuri come Usos amorosos de la posguerra española (1981), El cuento de nunca acabar (1983) e Desde la ventana (1987), oltre a riferimenti e citazioni di ogni genere – dal Barbablù di Perrault all’Alice di Carroll, da Rubén Darío a Kafka, da Defoe ai romanzi rosa –    La stanza in fondo proietta immediatamente il lettore in una dimensione onirica e ambigua, imprigionandolo nelle seduzioni di un «ricamo» che intreccia ai fili del ricordo le riflessioni sul mestiere di scrivere, sul ruolo della letteratura, sul senso e sull’importanza del fantastico, tentazione davanti alla quale, in passato, la Martín Gaite esordiente si era sentita costretta ad arretrare, rinnegando le meravigliose incursioni infantili in paesi immaginari.

La protagonista è una scrittrice cinquantenne che, dopo essere inciampata nell’Introduzione alla letteratura fantastica di Tzvetan Todorov (libro da tempo disperso nel caos del suo soggiorno), riceve a tarda notte la telefonata di uno sconosciuto che rivendica un appuntamento per un’intervista, e il cui arrivo è preceduto dall’apparizione di un inquietante scarafaggio kafkiano, immobile al centro del corridoio.

Tutto vestito di nero e con occhi neri che brillano «come scarafaggi», l’uomo posa il suo nero cappello a larghe tese accanto alla macchina da scrivere e si accomoda sul divano, dando inizio a un dialogo che occuperà la notte intera e l’intero spazio di una narrazione intensamente autobiografica e metaletteraria, condotta in uno stile apertamente colloquiale, che molto deve a un’oralità restituita con mimetica naturalezza.

Lenta e piena di pause, la conversazione sollecita e porta alla luce immagini e sensazioni sepolte, concedendo ampi spazi ai monologhi interiori e ai brevi sdoppiamenti della protagonista che, guardandosi nello specchio (uno dei simboli onnipresenti nei testi di Martín Gaite, insieme alla finestra, alla notte, a cunicoli e sotterranei, al taglia e cuci sartoriale) si rivede bambina e adolescente.

La struttura dialogica e i lunghi intervalli introspettivi erano già presenti, sia pure con minore audacia, in Retahílas, romanzo del 1974 (Tutta la notte svegli, Giunti 2003) e riaffioreranno in titoli successivi, a testimoniare la costante ricerca di un interlocutore ideale, qualcuno che sappia non solo ascoltare, ma anche addentrarsi in uno scambio rispettoso e fecondo (e qui viene in mente la lunga corrispondenza amicale e letteraria di Martín Gaite con Juan Benet, poi evaporata nel silenzio finale dello scrittore). L’uomo in nero sembra essere, a tutti gli effetti, l’interlocutore sognato: curioso, non convenzionale, a tratti pungente, pronto ad offrire pastiglie per la memoria racchiuse in una scatoletta dorata, che richiama quella in cui la Alice di Carroll trova un magico biscottino. Un personaggio misterioso, dunque, identificato via via con un abile psicoanalista, o con un alter ego che fa da specchio all’autrice, o con l’uomo-musa che, secondo Martín Gaite, risponde all’esigenza di un «tu» tipica del discorso femminile, come suggerisce in Desde la ventana, ipotizzando una trasposizione del concetto di musa «a quello dell’uomo sconosciuto e inquietante come motore che sprona l’immaginazione femminile, proiettandola verso orizzonti più vasti». O forse l’uomo in nero è un’incarnazione del daimon, che restituisce il desiderio di narrare a chi credeva di averlo smarrito, riconducendo l’autrice alla «stanza in fondo» della casa d’infanzia, dove tutto era permesso e si poteva giocare, inventare, creare, prima che le necessità della guerra la riconvertissero in un deposito di provviste.

Le domande e le suggestioni dell’uomo in nero spingono Carmen (nel libro, semplicemente C.) verso un passato minuziosamente ricostruito: il suo; ma anche quello della Spagna della guerra e del dopoguerra, prigioniera del tempo immobile di una dittatura eterna: un’evocazione libera e disordinata che allinea stanze, case, strade, amicizie, la presenza assoluta di Franco (i suoi ritratti ovunque, su ogni parete, su ogni muro cittadino), la forzata euforia dei vincitori, le ribellioni al controllo esercitato dalla Sección Femenina, creata per “formare” le donne, costringendole nell’unico ruolo di spose e madri.

Un quadro che potrebbe essere di un solo colore (il grigio del silenzio e della repressione) ma che prende, invece, anche le tinte vivaci della cultura popolare: canzoni, romanzi sentimentali, riviste, figurine con le immagini degli attori americani, la moda ricreata dalle sartine, il cinema, i segreti casalinghi per farsi i riccioli, i giochi e i giocattoli. La Storia ufficiale, smontata dall’interno, si trasforma in microstorie di resistenza quotidiana, che tornano a ondate proprio nel giorno del funerale di Franco, quando il tempo sembra rimettersi in movimento.

A poco a poco, di domanda in ricordo, il libro sembra farsi da sé, scriversi da solo. E quando C. si addormenta e l’uomo in nero svanisce, la luce del mattino rivela un testo completo e concluso: le pagine sono andate crescendo durante la notte, sotto il cappello nero posato sul tavolo (un altro oggetto magico, dopo la scatolina dorata), al ritmo della conversazione. E nella prima pagina si legge lo stesso incipit del non-romanzo perfettamente circolare che il lettore ha appena finito di leggere e che si riflette in sé stesso, pronto ad essere pubblicato, come per incantesimo, proprio nell’anno in cui la Spagna inaugura una nuova Costituzione.

Anticonformismo di una testimone: José Teruel sulle tracce di Martín Gaite

«L’unico romanzo in cui parlo un po’ di me è La stanza in fondo», ha detto Carmen Martín Gaite in una vecchia intervista, anche se in buona parte della sua narrativa si possono individuare tracce autobiografiche sapientemente occultate. A raccontare la sua vita, apertamente e per intero ha pensato José Teruel, che dopo la scomparsa della scrittrice, nel 2000, è divenuto il curatore della sua opera e dei suoi archivi. Nelle oltre cinquecento pagine di un testo che si propone come definitivo, il minuzioso biografo allinea, compone e collega fatti, testimonianze, documenti, note, appunti personali e lettere, evocando con singolare vivezza una figura femminile capace di aprire, in un mondo fatto per gli uomini, nuove strade per sé e per le altre donne, e di trovare infine nei suoi innumerevoli lettori l’interlocutore ideale che da sempre cercava.

A partire da materiali in gran parte inediti e sconosciuti, in Carmen Martín Gaite. Una biografía (Tusquets, 2025) Teruel ha ricostruito sia la formazione intellettuale e il percorso creativo di un’autrice-chiave della letteratura di lingua spagnola, sia l’esistenza libera e anticonformista di una donna che ha affrontato molte battaglie e grandi dolori, come la morte precoce di entrambi i figli nati dal matrimonio con un altro famoso scrittore, Rafael Sánchez Ferlosio (a lui, dopo la separazione, dedicò nel 1972 Usos amorosos del dieciocho en España con queste parole: «Per Rafael, che mi ha insegnato ad abitare la solitudine e a non essere una signora»).

Grandi sono stati anche i riconoscimenti: i principali premi letterari spagnoli, un ampio e solido successo di pubblico e l’attenzione degli studiosi di due continenti (in Italia si sono occupate di lei, in particolare, Maria Vittoria Calvi e Elide Pittarello), che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta hanno elaborato un immenso materiale critico intorno alla sua vasta produzione di narrativa, saggistica, poesia, testi teatrali, più un paio di bellissimi romanzi per l’infanzia e per qualsiasi lettore amante del meraviglioso.

Finalmente La Tartaruga di Laura Lepetit citata con onore.

(La redazione del sito)

da l’Unità

«Nella mia pellicola racconto la realtà di oggi, ormai segnata dal totalitarismo. Da Israele agli Usa trionfano il bullismo e la prepotenza del denaro contro ogni diritto e contro l’umanità»

Chi meglio di un documentarista navigato come Joshua Oppenheimer, due volte candidato agli Oscar per The Act of Killing (2012) e The Look of Silence (2014) poteva scegliere l’ambientazione per il suo primo film di finzione post-apocalittico? Il regista non ha disatteso le aspettative e The End, già acclamato ai festival internazionali, che vede protagonisti la premio Oscar Tilda Swinton, Michael Shannon e i giovani talenti George MacKay e Moses Ingram è stato girato interamente nelle caverne della miniera di salgemma situata a Petralia Soprana, in Sicilia. Grazie a un’idea del distributore italiano del film, I Wonder Pictures, è proprio lì che abbiamo incontrato Oppenheimer per un suggestivo approfondimento sulla pellicola, poco dopo la visione, avvenuta sempre circondati dalla bianca atmosfera salina. The End narra la storia di una famiglia facoltosa costretta a vivere in un lussuoso bunker sotterraneo all’indomani di un’apocalisse ambientale. Dopo decenni di solitudine, il gruppo entra in contatto con una ragazza sconosciuta che proviene dal mondo esterno e che farà da elemento dirompente della loro routine, fatta di credenze, convinzioni, abitudini, segreti e bugie.

Mentre guardavo il film, continuavo a pensare alla frase “Mors tua, vita mea” perché il film è una chiara e toccante rappresentazione del processo di disumanizzazione che stiamo vivendo in questo momento. Era questo l’intento?

Penso che sia un bellissimo modo di guardare al film. Parla della disumanizzazione, sì, ma parla anche della riumanizzazione, ed è proprio lì che risiede la speranza. Forse il film finisce in modo tragico, ma quando la ragazza arriva nel bunker porta con sé il dono dell’onestà, e questo richiede la capacità di ammettere il proprio rimorso senza vergogna. La differenza tra rimorso e vergogna è importante: il rimorso è un sentimento che proviene dal cuore, la vergogna è la preoccupazione di come appari agli occhi degli altri. Quel gesto riumanizza tutti nel bunker, almeno fino a quando non smette più di funzionare. Ma anche se le cose nel film finiscono tragicamente, perché devono finire così, è la fine, è l’ultima famiglia, il dono che lei porta rispecchia, secondo me, lo sguardo della macchina da presa verso queste persone spezzate e tristi. Il mio lavoro è sempre stato un tentativo di riumanizzare coloro che saremmo tentati di liquidare come mostri, per ricordarci che non lo sono, sono esseri umani. E i loro schemi di comportamento disfunzionali e distruttivi sono qualcosa che ognuno di noi conosce bene. Questi personaggi non hanno nome perché sono noi.

Quanti, dunque, dei temi di questo film risuonano con il presente?

Mentre eravamo seduti in miniera a guardare questo film dicevo a George (McKay) che, chiaramente, abbiamo fatto il film qualche tempo fa e queste sono diventate delle finestre impietose in cui dall’interno guardiamo verso l’esterno a quello che il mondo è diventato. E, in questo tempo in cui vediamo il totalitarismo crescere e avanzare non solo in Europa ma partendo principalmente dagli Stati Uniti, comprendete bene come questi temi siano sempre più pressanti. Se guardiamo agli sviluppi incredibili della tecnologia di guerra, visti solo gli ultimi attacchi in Ucraina (e non solo), sappiamo quanto questo stia alzando l’asticella della guerra e della distruzione e siamo al punto in cui la nostra civiltà sarà distrutta se non riusciamo a intervenire al più presto. Il magnate del petrolio indonesiano a cui mi sono ispirato per questo film mi ha fatto vedere il bunker che si è già costruito quindi è come se fossimo entrati già in questa idea della protezione, del bunker, appunto, in cui noi e la nostra famiglia ci dovremo proteggere. Con l’urgenza dei cambiamenti climatici, che è un’altra emergenza, è evidente che invece dobbiamo investire soprattutto per salvaguardare i poveri che fuggono dal disastro che noi abbiamo creato sottraendogli delle risorse. Dovremmo condividere con loro le ricchezze che abbiamo accumulato per salvarci tutti insieme e uscire da quel circolo ristretto del bunker per ritornare ad abbracciare con compassione tutto il mondo. Ci estingueremo se non faremo qualcosa.

L’atmosfera politica internazionale quanto ha influenzato la realizzazione del film?

L’intero film era basato sul tentativo di trovare una storia vera, nel senso che avevo indagato su oligarchi, magnati e miliardari che avevano fatto fortuna attraverso la violenza. È nato da un interesse per una società simile, fiorente nell’impunità, che era l’Indonesia del dopo-genocidio, che avevo esplorato nei miei altri lavori, e ho sempre visto quella società, così come altri paesi che ho studiato con situazioni simili, come una sorta di metafora di dove stavamo andando a finire. Quando ho finito The Act of Killing, ricordo di aver sempre detto: «Questo non è un fi lm su ciò che è successo in Indonesia nel 1965, è un film sull’impunità, è un film sull’oggi, e l’impunità è la storia del nostro tempo». Di recente ho rivisto il film e ho pensato: «Oh mio Dio, tutto il mondo è diventato The Act of Killing adesso».

Ha avuto paura di censure o ritorsioni durante le riprese?

Non abbiamo affrontato censura o paura rispetto a ciò che cercavamo di esprimere, anche se uno dei motivi per cui non ho proseguito il progetto documentaristico che aveva dato origine al film era la paura di una ritorsione davvero pericolosa da parte dell’oligarca che aveva ispirato il film. Si può definire una metrica per capire quando un paese non è più davvero una democrazia, notando quando inizia a esserci un prezzo da pagare per l’opposizione, cosa che ora sta accadendo almeno negli Stati Uniti. Ti tagliano i fondi universitari come è successo ad Harvard oppure, come vedremo, Elon Musk presumibilmente perderà tutti i suoi contratti governativi nella rottura con Trump. Quella è la soglia che abbiamo superato, e a quel punto le persone iniziano ad avere paura di esprimersi. Concludo dicendo un paio di cose sulla paura: quando ho iniziato a viaggiare con il film e a distribuirlo, il genocidio a Gaza stava diventando sempre più devastante per l’anima, e mi sono reso conto che, dopo un paio di mesi dall’uscita del film, non ne parlavo. Mi sono chiesto: «Perché non ne sto parlando?» E ho capito: avevo paura di parlarne. Dovevo affrontare quella paura ogni sera davanti allo specchio, quando tornavo dai dibattiti sul film, dove dicevo che il film è uno specchio, e in quello specchio vedevo la mia ipocrisia. Allora ho fatto un respiro profondo e ho riflettuto sulla mia interconnessione con ogni essere umano sulla Terra, in particolare con il popolo palestinese, ma anche con il popolo ebraico, e con l’umanità nel suo complesso. E abbastanza rapidamente ho ritrovato la mia compassione, che mi ha costretto a iniziare a parlare. In questo caso, sentivo particolarmente il dovere di dire qualcosa, perché sentivo la mia ipocrisia in modo particolarmente acuto, perché il genocidio stava avvenendo nel mio nome, come ebreo. Ma la paura è paura, e se il film ha un messaggio, è che non dovremmo isolarci in bunker dove limitiamo il raggio della nostra empatia e compassione a causa della paura: paura della responsabilità che comporta l’ampliamento di quel cerchio, paura di affrontare il nostro senso di impotenza se allarghiamo quel cerchio. E la risposta che spero le persone portino via dal film è che dobbiamo stare insieme, dobbiamo tendere la mano agli altri, partendo dalla propria famiglia o, se si preferisce, dai propri amici, e poi estendendo sempre di più questo cerchio, e fare cose con loro: che sia realizzare un film, partecipare a una protesta, o impegnarsi molto localmente nella propria comunità. Questi tempi ci insegnano che, se c’è una lezione della storia che possiamo imparare, la più importante lezione dai momenti in cui il totalitarismo e la crisi crescono è: non lasciarti mai solo, chiuso in un bunker di social media, dove tutto è competitivo, anche le dichiarazioni politiche in cerca di like, approvazione, interazioni. Lascia perdere tutto ciò, tendi la mano agli amici, esci, fisicamente, di persona. Non stare solo. Questo non è un tempo per la solitudine.

da il manifesto

LA LIBRERIA DELLE DONNE DI MILANO COMPIE 50 ANNI.In via Pietro Calvi dal 2001, è qui che si terrà la maggior parte delle celebrazioni

Uno spazio dal quale si esce e tutto sembra improvvisamente possibile. Sono molte le giovani che oggi descrivono così la Libreria delle donne, luogo di culto del femminismo degli anni Settanta che quest’anno festeggia il cinquantesimo anniversario dalla nascita. È infatti il 15 ottobre 1975 quando quindici socie, tra cui Luisa Muraro, Lia Cigarini e Giordana Masotto, aprono la sede di via Dogana 2, concependola alla stregua di un circolo, di una vera e propria comunità femminile che traeva ispirazione dal gruppo parigino di Psychanalyse et Politique e dalla loro Librairie des femmes. Non solo di libri trattava infatti il progetto – libri rigorosamente scritti da studiose, da rivoluzionarie, da poetesse e da romanziere che avevano contribuito a tessere, a creare il pensiero femminista, a lavorarlo dall’interno; per quanto spunta ormai da tempo uno scaffale dedicato agli uomini e affettuosamente ribattezzato “amici delle donne”.

Piuttosto la teoria serviva da base – oltre che da stimolo – per una rielaborazione attiva del presente. Erano quelli i tempi in cui prendevano vita le prime autocoscienze, un modo di dibattere, di parlare di sé che ribaltava completamente le maniere fino a quel momento diffuse di occuparsi della realtà.

Riunite in un sottoscala, le donne della libreria toccano e mettono a fuoco temi che costituiscono ancora oggi la spina dorsale del movimento femminista: il concetto di madre simbolica, il cosiddetto precedente di forza e l’esigenza di una nuova soggettività, diversa e differenziata dal maschile, che rifiutava di prenderlo a modello e di considerare la sola libertà auspicabile, immaginabile come il prodotto di un’imitazione.

Un’eredità spesso oggetto di critiche, tacciata di essere poco inclusiva – non solo in seno alla comunità maschile, ma allo stesso movimento femminista – e che tuttavia prosegue fino ad oggi, non più in via Dogana, ma in via Pietro Calvi 29 dove si è spostata nel 2001; contraddicendo l’accusa di settarismo che le viene rivolta con la presenza strenua delle donne che all’epoca contribuirono a fondarla e di quelle subentrate in seguito, sedute dietro il banco della libreria oppure una di fronte all’altra, all’interno di una specie di circonferenza spontanea, quasi sempre invogliando chi entra a inserirsi, a prendervi parte.

D’altro canto sono tuttora vivaci i contesti che animano il luogo, a cominciare dal Circolo della rosa, ambiente limitrofo alla libreria dalla quale è separata da una porta soltanto a ospitare presentazioni, proiezioni di pellicole, incontri la cui eco, il riecheggiare delle voci giunge di solito fino agli scaffali. Qui si è tenuta e si terrà la maggior parte delle celebrazioni per il cinquantesimo: dagli inviti aperti alla redazione della celebre rivista chiamata come la sua collocazione delle origini – via Dogana 3 – alla riedizione di vecchi numeri o cataloghi, quello del 1982 ad esempio, che raccoglie interventi, commenti e testimonianze a partire dalla lettura di alcuni romanzi di formazione di autrici del passato e intitolato inequivocabilmente Le madri di tutti noi.

E poi la riproposizione dell’Accademia delle piccole filosofe, aperta anche ai piccoli filosofi, voluta da Luisa Muraro per introdurre alla filosofia bambini e bambine dagli otto ai dodici anni, oggi divenuti adolescenti. A proposito di Luisa Muraro: oggi si svolge, all’Università Cattolica, un’intera giornata a lei dedicata per riscoprirne l’attualità del pensiero e della prassi, simile a quella organizzata il 17 ottobre alla sala Alessi del Comune di Milano in piazza della Scala e dedicata invece a Lia Cigarini; l’evento si chiama Aprire la porta alla parola e alla libertà.

Ogni raduno si trasforma in un pretesto per uno scambio corale, partecipato, vivissimo e non è un caso, scivolando lungo la parete del Circolo della rosa, trovare donne – e uomini – talvolta molto anziane sistemate sopra i tavoli oppure sul pavimento per mancanza di spazio. Un’immagine direttamente congiunta all’idea secondo cui il dialogo tra generazioni diverse è il fulcro del dibattito politico attuale e non può sussistere un presente di lotta svincolato dallo studio e dal legame con il passato.

Un’occasione di grande festa dunque. Non solo fisica, ma spirituale e programmatica. Un racconto comunitario in divenire che sfida le correnti narrazioni su Milano, sulla città che si alza, si rende esclusiva e non è più capace di accogliere, di generare: alla Libreria delle donne, tra le altre cose, ogni giovedì sera si discute d’attualità e si reperisce materiale d’archivio per il sito, all’attivo dal 2001.