L’una è ribelle dalla nascita: sostiene di aver compiuto il primo gesto di disobbedienza civile a cinque anni. L’altra non avrebbe mai pensato di diventare un’attivista.
L’una è cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, ha un passato nelle pubbliche relazioni e un’ironia dirompente. L’altra ha studiato economia, alle parole preferisce i numeri e ha un carattere tranquillo, quasi timido.
L’una ha settantasette anni e l’altra ne ha quarantasei.
Sulla carta queste due donne non potrebbero essere più diverse. Soprattutto perché l’una – Robi Damelin – è israeliana, l’altra – Layla al-Sheikh – è palestinese.
Ciò che le accomuna, però, è più forte di quanto le divide. Primo, a entrambe la guerra ha strappato un figlio. David, secondogenito ventottenne di Robi, è stato vittima di un attentato mentre era in servizio come riservista nella zona di Hebron, il 3 marzo 2002, nel pieno della Seconda Intifada. Poco più di un mese dopo, l’11 aprile, Qusay, figlio di Layla di appena otto mesi, ha avuto un’infezione respiratoria dopo aver inalato gas lacrimogeni scagliati durante un’incursione israeliana. I genitori hanno cercato di portarlo in ospedale, situato ad appena venti minuti di distanza. Ci hanno messo quattro ore a causa dei militari che volontariamente li hanno trattenuti ai checkpoint. Troppi per Qusay che si è spento quarantott’ore dopo.
Il secondo punto di unione è che Robi e Layla hanno deciso di trasformare il dolore in motore per costruire pace in una terra dilaniata da settantacinque anni di conflitto. Nemmeno il 7 ottobre ha fatto cambiare loro idea. Anzi, da allora hanno intensificato ulteriormente l’impegno in Parents circle. L’organizzazione, dal 1998, fa incontrare persone di entrambe le parti che hanno perso un familiare e attraverso l’empatia, promuove il dialogo. Spesso Robi e Layla sono chiamate a dare la propria testimonianza insieme. Da anni fanno coppia quasi fissa. Stavolta, all’incontro promosso dall’Alta scuola Federico Stella sulla giustizia penale dell’Università Cattolica di Milano, però, Robi è venuta da Tel Aviv da sola. Problemi con il passaporto da parte delle autorità israeliane hanno costretto Layla a restare a Battir, villaggio del governatorato di Betlemme dove risiede: è, comunque, riuscita ad essere presente attraverso lo schermo del pc.
Dunque, a dispetto di tutto, continuate a credere nella pace…
Layla: Sennò non sarei qui.
Robi: Altrimenti sarei rimasta a casa a fare la maglia e a giocare con il mio gatto.
Robi, che cosa è accaduto quando avevi cinque anni?
All’epoca vivevo in Sudafrica e adoravo gli animali. Ogni mattina, vedevo l’un uomo che ci consegnava il latte frustare con violenza il suo cavallo per spingerlo a camminare. Quel gesto mi faceva arrabbiare. Un giorno non ce l’ho fata più e, insieme alla mia amica Barbara, abbiamo rubato e nascosto il cavallo. Quando l’ha scoperto, mio padre si è infuriato. Quando, però, ha compreso le ragioni per cui l’avevo fatto, mi ha capita. Sono sempre stata una ribelle: come figlia e come donna.
Per te Layla, invece, l’approdo all’attivismo è stato un processo più lento…
Soprattutto la scelta di impegnarmi per la pace. Quando, in Giordania, dove sono nata e cresciuta prima di sposarmi, sentivo le notizie provavo rabbia per il modo in cui gli israeliani trattavano i palestinesi. La mia indignazione è cresciuta dopo il trasferimento a Betlemme. Poi Qusay è morto ed è cambiato tutto.
Da subito?
No, al contrario. Per anni ho provato solo una furia incontenibile. Ho perso la fede in Dio, litigavo ogni giorno con mio marito. Davo la colpa a lui per quanto era accaduto, agli israeliani, a me stessa. Ci ho messo tanto per comprendere che quella tragedia era accaduta per una ragione anche se non sapevo quale. L’ho capito quando ho incontrato i Parents circle. Era il settembre del 2016. Sono andata a una loro conferenza a Betlemme grazie all’insistenza di un’amica. In realtà, ho accettato solo per farla smettere, ma non ero per niente convinta. Quando, però, ho sentito i genitori israeliani e palestinesi parlare del proprio dolore, per la prima volta dalla morte di mio figlio, ho sentito che non ero sola. Non li conoscevo, non sapevo niente di loro. Ma li sentivo vicini, inclusi gli israeliani che in teoria erano “nemici”. Non mi ero mai imbattuta in un ebreo che non fosse un soldato o un colono. Invece di fronte a me avevo madri e padri che condividevano con altri madri e padri palestinesi i propri sentimenti. Sentimenti così simili ai miei… Le loro parole mi svelavano degli aspetti della mia vita che non avevo mai considerato. In quell’istante ho capito l’assurdità di questo conflitto. E ho deciso di combatterlo. Penso che sia sufficiente un momento per cambiare un’esistenza. Il mio momento è stato quello.
Robi tu, invece, eri già impegnata per la pace da prima della morte di David.
Sono arrivata a Israele come volontaria in un kibbutz dopo la Guerra dei sei giorni. Non ho mai capito perché l’ho fatto. È stato un impulso. Dovevo restare sei mesi. E, invece, contro ogni previsione, sono rimasta. Fin dall’inizio, ho fatto attivismo per il dialogo in ambito sociale, non politico. Quando i miei figli, Eran e David, sono andati a fare il servizio militare sono rimasta sconvolta nel vederli con un fucile in mano. Perché hanno accettato la leva? Non è facile spiegarlo. C’è un senso di paura atavica radicato negli israeliani a cui corrisponde un istinto molto forte di protezione della comunità. Devi difenderla, è un dovere e una responsabilità sociale a cui non puoi sottrarti. Non so come viene inculcato ma è così. Si deve partire da questo per comprendere il comportamento attuale degli israeliani. La sconfitta inflitta da Hamas all’esercito israeliano il 7 ottobre ha messo in crisi le convinzioni esistenziali delle persone. Le ha fatte sentire indifese, le ha scosse nel profondo, le ha terrorizzate. E cosa si fa quando ci si sente umiliati e impotenti? Si attacca in modo feroce. La presenza degli ostaggi a Gaza e l’impossibilità di liberarli con la forza prolunga il senso di fallimento rendendo ancora più dura la risposta.
Robi, la morte di David l’ha spinta a un maggiore attivismo?
Dopo il militare anche David era entrato nel movimento pacifista. Quando è stato chiamato come riservista, non voleva prestare servizio nei Territori occupati. Alla fine è andato perché pensava che avrebbe potuto trattare i palestinesi in modo degno e il suo esempio avrebbe ispirato altri commilitoni. Così è morto. Quando i militari sono venuti a darmi la notizia, ho detto loro, di getto: «Non uccidete nessuno nel nome di mio figlio». Tre mesi dopo, dovevo andare a una manifestazione contro l’occupazione. I promotori mi hanno chiesto di parlare. E ho accettato subito. Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla. Delle persone di Parents circle mi hanno ascoltato e contattato. Ho cominciato a partecipare agli incontri e alla fine l’organizzazione è diventata la mia vita.
Credete che le donne abbiano una “marcia in più” nella costruzione della pace?
Layla: Credo che le donne abbiano un potere e che abbiano il dovere di utilizzarlo. Per settantacinque anni abbiamo subito le scelte degli uomini, che hanno distrutto le nostre vite. È il tempo di dire la nostra. Per questo ho scelto di impegnarmi anche in Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che lavora insieme alle donne israeliane di Women wage peace. Uno delle nostre colonne era Vivian Silver, assassinata da Hamas il 7 ottobre. Era una mia amica.
Robi: Yonatan, il figlio di Vivian, è entrato in Parents circle. L’organizzazione è stata fondata da un uomo, Yitzhak Frankenthal. Nei primi incontri le donne erano poche. Anche quando sono arrivata io era così. Le palestinesi erano ancora meno: quando c’erano, stavano fuori con i bambini. Ho capito che le cose dovevano cambiare. Così è nato il gruppo femminile che pian piano è diventato il motore dell’organizzazione.
Layla: A chiunque abbia perso qualcuno il 7 ottobre, vorrei dire: mi dispiace, mi dispiace davvero per chi ora è in lutto, sia israeliano o palestinese. Tutti, io per prima, abbiamo il dovere di fare qualcosa per fermare questa barbarie. Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso. Come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?
Da Avvenire
Abbiamo incontrato Suleiman Khatib ed Elie Avidor, attivisti di “Combatants for Peace” che dal 7 al 10 marzo saranno in Italia, ospiti di “Circonomia” per partecipare al Festival della transizione ecologica che si terrà a Fano dal 7 al 10 marzo prossimi.
Raccontateci brevemente chi siete e come introdurre il lavoro di “Combatants for Peace” (CfP).
Suleiman Khatib: Sono nato e cresciuto nell’area di Gerusalemme, mi sono avvicinato alla politica quando avevo quindici anni prendendo parte all’Intifada. Ho passato più di dieci anni in carcere, ho studiato la storia e imparato a conoscere Ghandi e Mandela, a ragionare in modo diverso sul mondo e sui conflitti e a conoscere la forza della nonviolenza che da allora ho deciso di seguire come strategia per la liberazione dei nostri popoli. CfP è un movimento binazionale in cui palestinesi e israeliani collaborano per mettere fine all’occupazione e per pace e libertà per tutti. Il nostro lavoro si incentra anche sulle nostre storie personali. CfP è stato fondato da persone che hanno combattuto, vivendo sui loro corpi queste esperienze, che sanno che la guerra e la violenza non sono né la risposta né la soluzione.
Elie Avidor: Sono cresciuto a Haifa nei primi anni dalla fondazione di Israele, quando tutto ruotava intorno al “noi contro tutti”. Entrare nell’esercito era un fatto scontato. Nella guerra dello Yom Kippur ho combattuto sulle alture del Golan. Sono stato a lungo all’estero. Una volta tornato, ho saputo della cerimonia in cui famiglie israeliane e palestinesi nel giorno della commemorazione dei soldati caduti condividono il lutto per i caduti di entrambe le parti. Lì ho ascoltato storie di dolore, capendo che tutti soffriamo e che siamo parte di questo gioco. Ora passo la maggior parte del mio tempo aiutando i pastori palestinesi a difendersi dalle vessazioni dei coloni e dell’esercito. Stando insieme a loro, ascolto la loro narrazione e gli racconto della mia, parliamo invece di combattere.
Come siete riusciti ad affrontare il 7 ottobre e quello che è successo dopo?
S.K.: Ci aspettavamo una crisi. Abbiamo fatto del nostro meglio per tenere insieme la comunità mostrando empatia per la sofferenza delle persone da entrambe le parti. In periodi come questi, le persone in risposta al trauma ritornano alle loro rispettive tribù. Non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto di continuare a parlarci. Non facciamo a gara tra chi soffre di più. Non vogliamo essere parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza. La narrazione corrente è “noi o loro”. CfP è riuscito a mantenere la sua nuova narrazione “noi e loro insieme”. Non nascondiamo i nostri sentimenti né alle nostre comunità né tra noi. Io sono palestinese, c’è anche un palestinese di Gaza, questo non chiude il nostro cuore all’empatia per le vittime israeliane. Per noi l’occupazione non legittima nuocere a civili come è successo il 7 ottobre. E le atrocità commesse da Hamas non legittimano la reazione di Israele, gli attacchi aerei e quello che sta succedendo ora.
E.A.: In questi diciassette anni le relazioni sono diventate così personali, forti e intime, da renderci resilienti. Abbiamo già vissuto guerre in passato. Questa volta è molto peggio di quanto sia mai stato. C’è anche chi trae vantaggio dalla guerra. Quello che vogliono i coloni è l’Armageddon, il giorno in riusciranno a scacciare tutti i palestinesi. Aspettavano solo il momento e ora pensano che sia arrivato. Nella settimana del 7 ottobre ho pensato che fosse ancora più importante essere presente nei territori occupati. La gente mi diceva che ero pazzo. Sedici comunità hanno subito gravi violenze e, dove siamo presenti, riusciamo a evitare che siano cacciate dal loro territorio.
Cosa pensate delle proteste in corso in Israele? Cosa succede nei territori occupati?
E.A.: Prima della guerra c’erano manifestazioni contro le riforme che il governo tentava di fare, ma senza un nesso con l’occupazione. Noi insistevamo che era necessario perché l’occupazione è la causa di tutto il male: le pratiche che il governo porta avanti in Cisgiordania, di fatto sono state trasferite in Israele. Volevano trasformaci in una dittatura. All’inizio di questa guerra nessuno manifestava. Ora le manifestazioni sono riprese, molte sono per gli ostaggi. Noi continuiamo a scendere in piazza contro l’occupazione. Ultimamente la polizia è stata estremamente violenta. Non sappiamo dove andremo a finire, ma la gente è così arrabbiata che dovrà esserci un cambiamento. Facciamo manifestazioni in Israele e anche in Cisgiordania con i nostri amici palestinesi. Per loro i rischi sono enormi. Se li riprendono, per loro è finita. Non possono più avere permessi per andare a lavorare in Israele, ne verranno colpite le loro famiglie e chissà cos’altro li aspetta. Per quanto possiamo manifestare, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno.
S.K.: C’è un sistema che controlla la terra, dal fiume al mare governa la stessa mentalità, lo stesso sistema razzista e di apartheid. Viviamo nello stesso Paese con diversi diritti. A breve termine servono ovviamente gli aiuti umanitari, ma in prospettiva dobbiamo trovare un modo di vivere gli uni con gli altri. Dobbiamo continuare a portare speranza proponendo un modello alternativo alla radicalizzazione. Le persone che sono nate e che vivono all’interno di un conflitto non riescono a uscire da quella logica. Ora da entrambe le parti la leadership non è interessata alla pace, nella loro agenda politica c’è la guerra. Ma la mia speranza è che le persone escano fuori insieme e chiedano una soluzione politica. Guarda il Sudafrica o l’Irlanda. Anche lì la gente combatteva e ora sono al governo. Senza cambiamento politico, le cose possono andare fuori controllo come vediamo ora, il pericolo di una guerra regionale è alle porte e la dobbiamo prevenire perché le generazioni a venire abbiano un futuro.
Da il manifesto
Questo appello ci arriva da un’amica, una delle persone che l’ha redatto. È stato mandato anche al Manifesto e ad altre testate.
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.
Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia.
Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti.
Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi.
Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro.
I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.
Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare le voci critiche e allarmate di chi vive in Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.
Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni, anche personali. Per questo non vogliamo stare in silenzio, soprattutto oggi, Giorno della Memoria.
Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.
Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?
Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.
Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti.
Non siamo d’accordo con le indicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene cosa sia l’antisemitismo e ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi, soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti anche con parte della sinistra. Ma non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.
In questo momento, quando tutto è difficile, proviamo a pensare e a sentire insieme.
Sono tre parole che si rincorrono, talvolta si intrecciano, spesso si sovrappongono quando si parla di donne e di femminismo. Ma dicono cose diverse e sarebbe meglio usare un linguaggio di precisione per non annacquare, deviare o mistificare discorsi e significati.
Parità
Vuol dire fare il confronto tra due elementi o due entità e ritenerle perfettamente sovrapponibili. Direi che è un concetto quantitativo: pari grandezza, pari ampiezza, pari peso, pari valore monetario, ecc. Sarebbe piuttosto improprio dire pari sentimenti, pari emozioni, pari valori spirituali, pari atteggiamenti, pari amore, pari cultura ecc. Semmai si dice «stessi sentimenti, stessi valori, stesso amore, stessa cultura». Cioè qualcosa che assomiglia, ma non identico.
Nell’ambito del femminismo, specie quello che prende la scena attraverso i media (giornali, tv, rete) la parola parità trionfa in un perenne confronto frustrante con gli uomini e il mondo maschile. Si usa in maniera ossessiva la parola parità, si dice che le donne lottano per la parità.
Ma ecco qui la confusione.
Io penso che la grande parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne. E qui la cosa tra l’altro si complica perché le discriminazioni, nel mondo occidentale, sono in gran parte sottili. Ad esempio, pagare meno una donna è una disparità vietata dalla legge, ma gli escamotage escogitati per trasformare una retribuzione identica sulla carta ma minore nei fatti sono tanti: le donne spesso “scelgono” per necessità di fare il part-time, possono fare pochi straordinari perché devono tuffarsi a casa dove hanno il secondo lavoro, non godono di quegli speciali benefit che sono legati proprio all’orario pieno o alla possibilità di fare tardi la sera.
In fondo la lotta più cristallina per la parità sta in un “togliere” per fare spazio al nuovo. Togliere le discriminazioni sancite nelle leggi e stampate nella psiche e nei cuori per introdurre nuovi punti di vista.
Non a caso i migliori frutti del movimento femminista degli anni ’70 si sono tradotti in conquiste che toglievano ostacoli e ingiustizie riservate esclusivamente alle donne (negli studi, nelle carriere pubbliche e private, nella gestione della famiglia). Cioè sancivano che gli uomini non possono continuare a comportarsi come avevano fatto per secoli. Così è stato abolito il delitto di onore, il reato di adulterio, lo stupro è diventato un delitto verso la persona non contro la morale, è stato eliminato il pater familias (così ben rappresentato nel film di Cortellesi).
Le nuove leggi che ne sono seguite sono state, in molti casi, il necessario intervento finalizzato ad esplicitare i diritti mancanti che il togliere aveva evidenziato (il divorzio, la non penalizzazione dell’aborto, l’abolizione della patria potestà, la parità di retribuzione, l’istituzione dei consultori ecc.).
Quando invece si propongono nuove leggi, queste possono definirsi innovative e positive per le donne solo se tengono conto del loro punto di vista, quello che per millenni è stato ridotto al silenzio e piegato nella sottomissione. È un esempio luminoso l’istituzione della sanità pubblica, proposta non a caso da una donna, Tina Anselmi, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 che soppresse il sistema mutualistico ed istituì il SSN – Servizio sanitario nazionale entrato in vigore nel 1980.
Non si può dire la stessa cosa di quelle leggi “in aggiungere” (cioè che vorrebbero apportare parità), come è avvenuto ad esempio con le quote rosa, apparentemente destinate a scardinare il soffitto di cristallo – cosa che nei livelli apicali è avvenuta in maniera minima – mentre ai livelli inferiori crea riserve/ghetti e neutralizza l’incidenza della presenza femminile.
Certo a noi donne tocca un compito molto arduo: non affidare alle leggi l’idea della conquista della libertà femminile, ma essere consapevoli che le leggi cambiano in positivo se la nostra presa di coscienza e la nostra determinazione diventano socialmente rilevanti e riescono a stimolare anche la presa di coscienza maschile.
Uguaglianza
È un concetto più ampio della parità. Essere uguali non vuol dire essere identici. Il termine ha in sé “l’altro da sé”, la dimensione sociale, il “noi”. L’uguaglianza si situa nella dimensione politica, nel governo della società, con tutti i suoi componenti umani. E se consideriamo il pianeta, includerei anche i non-umani, seppure continui a sentire una significativa differenza tra me e una pianta o un animale.
L’eguaglianza è un bene prezioso e raro, che non esiste in sé e che non si crea spontaneamente. È un’ispirazione, una guida nel comportamento e nel pensiero, mai raggiunto fino in fondo, ma capace di creare ponti tra entità e situazioni diverse. È la porta di accesso alla libertà.
Libertà
Áncoro il mio pensiero alla riformulazione del concetto operata da Luisa Muraro che quando parla di libertà femminile indica un processo dove si costruisce e dove avanza «il senso libero della differenza sessuale». Che vuol dire: riconoscimento di sé in quanto donna e tensione all’autorealizzazione in una pratica di relazione e di riconoscimento tra donne/con le donne.
Vuol dire liberare pensiero ed emozioni dal riferimento coatto alle leggi, ai riti, ai valori patriarcali che possono produrre – come è avvenuto – competizione emancipatoria, emulazione, imitazione, ma non sono portatori di nuovi significati.
Si parla dunque di una libertà che affronta la complessità della differenza sessuale senza rinchiudersi e/o proteggersi attraverso la moltiplicazione di etichette identitarie.
Che non azzera la differenza sessuale nell’illusione di un neutro che in realtà è maschile.
Che non vende l’anima alla scienza quando questa afferma che tutto ciò che si può fare va fatto: guerre, distruzioni, violazioni dei corpi femminili comprese.