da la Repubblica
È iniziata a Teheran, la capitale che per prima registra e accoglie i mutamenti sociali del Paese: sempre più donne vanno in giro in scooter, si fotografano e condividono, e le immagini galvanizzano l’internet iraniana per una prassi impensabile fino a qualche anno fa e ancora inaccettabile oggi per gli ultraconservatori che la considerano una offesa alla morale pubblica, un atteggiamento “non islamico” perché impedirebbe alle donne di indossare correttamente l’hijab ed esporrebbe troppo il loro corpo, come scrive l’agenzia di stampa vicina ai radicali Shabestan.
Repressione moderata sui costumi
Ma i grandi movimenti di protesta degli ultimi anni, come quello seguito alla morte di Mahsa Amini, stanno riscrivendo la grammatica sociale degli iraniani e delle iraniane. Nonostante la repressione nel Paese resti molto forte – in soli nove mesi dall’inizio del 2025 ci sono state più di mille esecuzioni capitali – l’atteggiamento del governo del riformista Pezeshkian è relativamente moderato per quanto riguarda i costumi sociali, una scelta dettata anche dalle circostanze esterne: con la crisi economica profonda e la pressione internazionale che ha isolato il Paese, spingere sulla repressione sociale aumenterebbe il rischio di rivolte interne.
Zahra Abedini, la pioniera
E così le iraniane conquistano nuovi spazi di libertà. Fino a sedici anni fa Zahra Abedini, una delle pioniere del motociclismo iraniano che oggi non solo guida la moto ma insegna ad altre donne come farlo, veniva presa in giro e doveva nascondersi per via della sua passione, ha raccontato a France24. «Trovai una pista fuori città che accettò di insegnarmi, e iniziai a fare motocross. All’epoca, conoscevo solo altre quattro donne che condividevano la mia passione per le moto. L’ho tenuto nascosto alla mia famiglia per sei mesi, ma alla fine mio padre lo ha scoperto. Quando mi vide guidare una moto da cross e saltare dalle rampe di terra rimase terrorizzato. Gli ci è voluto molto tempo per accettarlo». Oggi Abedini organizza tour e gite fuori porta.
Un piacere e un’esigenza
Ma se molte iraniane scelgono lo scooter non è solo per piacere. Il traffico congestionato della capitale, i costi sempre più alti della benzina e delle assicurazioni per l’auto, le enormi distanze e la necessità di fare più cose durante il giorno – dalla spesa all’andare al lavoro all’accompagnare i figli a scuola – spingono molte a preferire la moto. È segno, anche questo, di un cambiamento: un numero crescente di iraniane lavora, la disoccupazione femminile è scesa dal 20% al 15% negli ultimi sette anni.
Una pratica ancora illegale
Nel governo si dibatte se cambiare le norme per chiarire col diritto una realtà che è già del quotidiano. Il codice della strada non vieta esplicitamente alle donne di guidare, ma una lacuna normativa fa sì che non possano farlo in maniera legale: l’articolo 20 stabilisce infatti che la polizia possa rilasciare la patente agli uomini, ma non si pronuncia sulle ragazze. È una zona grigia dove si annidano abusi ma fioriscono anche opportunità, come spesso accade in Iran.
Il capo della polizia stradale, il generale di brigata Teymour Hosseini, ha dichiarato a settembre che la patente per le donne richiederebbe modifiche formali alla legge, e che le forze dell’ordine erano «in attesa di una notifica ufficiale sulla guida motociclistica femminile per poter procedere» visto che «la Costituzione non vieta alle donne di possedere motociclette. Possono detenere documenti di immatricolazione ufficiali a proprio nome, quindi logicamente dovrebbero anche poter ottenere la licenza».
La vicepresidente per le donne e gli affari della famiglia, Zahra Behrouz-Azar, tuttavia, sostiene che non sia necessaria alcuna legge: «Il motociclismo femminile non è diverso dal lavoro delle donne pilota o autiste. Vediamo già donne attive nel trasporto nazionale, internazionale e aereo, ed è naturale che abbiano bisogno di motociclette per la mobilità quotidiana», ha affermato, precisando che le normative esistenti sono sufficienti e che l’attuazione richiede solo la cooperazione tra le autorità.
La fotografa Maryam Saeedpoor intanto cattura il nuovo spirito dei tempi: le sue foto su Instagram sono un documento originale del nuovo Iran, con ragazze senza velo che guidano motociclette colorate, ma anche donne velate in sella. Viene in mente quella scena di Easy Rider quando Dennis Hopper, fumando una sigaretta intorno al fuoco, dice con intensità a Jack Nicholson: «Che male c’è nella libertà? La libertà è tutto».
da Il Fatto Quotidiano
Ancora non è dato sapere se gli Stati europei che minacciano di svuotare l’accordo di pace con la Russia riusciranno nel loro intento: bloccare il piano che Trump discute con Mosca perché le radici del conflitto siano infine sanate, spingere Kiev a ignorare quel che accade sul fronte, restare appesi al pensiero magico di una guerra giusta (quando si dice pace giusta s’intende guerra giusta).
Fin d’ora tuttavia è abbastanza chiaro che gli Stati in questione non riconosceranno facilmente di essersi sbagliati su quasi tutto, di non essere comunque affidabili militarmente, e di aver distrutto quel pochissimo che esisteva delle tradizioni diplomatiche europee, ben più antiche di quelle statunitensi e qualificabili come occidentali e atlantiste solo nello spazio temporale della Guerra Fredda.
Chi grida contro la capitolazione farebbe bene ad ascoltare le parole di Iuliia Mendel, ex portavoce di Zelensky e convinta sostenitrice dell’Ucraina:
«Il mio Paese sta sanguinando. Molti di coloro che si oppongono istintivamente a ogni proposta di pace credono di difendere l’Ucraina. Con tutto il rispetto, questa è la prova più evidente che non hanno idea di cosa stia realmente accadendo in prima linea e all’interno del Paese in questo momento».
Il post verrà forse smentito, ma l’editorialista Wolfgang Münchau lo fa proprio e chiosa:
«I più accaniti sostenitori di Kiev in Europa sono coloro che non hanno la minima comprensione della realtà militare sul campo». Zelensky forse l’ha capita prima dei propri accaniti sostenitori, se è vero che ha accettato buona parte del piano Trump.
Oggi è difficilissimo dire quale sia l’Europa in cui i cittadini possano riconoscersi.
Non è l’Ue: i Ventisette sono divisi, e a guidare la Commissione c’è una persona – Ursula von der Leyen – che ha abbracciato l’antico disdegno della DC tedesca verso la politica di distensione.
Disdegno condiviso in Germania da Verdi, Liberali e Socialdemocratici, che della Ostpolitik di Willy Brandt non hanno più cognizione.
Né i cittadini possono riconoscersi in un’Unione che si fa rappresentare in politica estera da un’ex premier estone – Kaja Kallas – che in patria nega diritti sostanziali alla minoranza russa (20,9% della popolazione) e ha dimostrato di non sapere neanche lontanamente chi ha vinto la Seconda guerra mondiale e perché Russia e Cina siano tra i cinque membri permanenti nel Consiglio di sicurezza Onu.
Non godono di maggiore legittimità le più recenti e marziali configurazioni: i Volenterosi pronti a mandare soldati in Ucraina, o la Comunità politica europea inventata da Macron nel 2022 per aggirare i refrattari dell’Ue, reincorporare Londra in Europa e inglobare Stati ex sovietici affetti da russofobia acuta (Ucraina, Georgia, Moldavia).
Altro cascame del pensiero magico europeo: l’asse Berlino-Londra-Parigi, detto anche E3 perché ogni distopia ha bisogno dei suoi acronimi.
Alla sua testa, tre personaggi in cerca d’autore: Macron e Starmer sono sulla via del tramonto, Merz aspira alla metamorfosi regressiva della Germania e resuscita tradizioni militari che hanno devastato più volte il Paese. Nel loro contropiano si dice che la lingua delle minoranze russe e le libertà degli ortodossi russi saranno rispettate nel quadro dell’adesione di Kiev all’Ue. Promessa vana, visto come sono trattati i russi nei Baltici.
Da queste configurazioni è arduo uscire, perché la guerra è diventata non solo l’idea fissa, ma la ragion d’essere per gran parte degli Stati Ue.
Al posto della storia europea, dei suoi disastri e delle sue prese di coscienza, ci ritroviamo con l’illusoria “success story” dell’atlantismo e una diffusa allergia alla sovranità.
Trump è disposto ad assicurare la non adesione di Kiev alla Nato e il ritorno dell’Ucraina alla neutralità, ma i Volenterosi Ue recalcitrano, fingendo d’ignorare che la radice della guerra per Mosca è la Nato alle porte di casa. Buona parte d’Europa è in trasformazione, con Berlino all’avanguardia.
A parlare in suo nome non sono i diplomatici ma le industrie militari, i generali, i politici improvvisati, i giornali aizzatori. Sono gli accaldati tifosi descritti da Karl Kraus ne “Gli ultimi giorni dell’umanità”.
Più verosimilmente vicina è la guerra, più sono consentite menzogne, pensieri magici, poteri accentrati.
Militari e faccendieri non sono sotto i riflettori in tempi di pace, ma d’un tratto occupano il palcoscenico.
Il capo di Stato maggiore francese generale Fabien Mandon dichiara il 19 novembre, approvato da Macron: «Quel che ci manca […] è la forza d’animo di accettare di farci del male per proteggere quello che siamo. Se il nostro Paese vacilla e cede, è perché non è pronto ad accettare di sacrificare i propri figli – osiamo dire le cose come stanno! – e di soffrire economicamente quando le priorità andranno alla produzione di difesa. Se non siamo pronti a questo siamo a rischio» (aveva detto cose simili Antonio Scurati il 5 marzo scorso).
Prontezza è il motto iscritto sul frontone del Riarmo Europa annunciato il 4 marzo 2025 da Von der Leyen.
Credevano d’aver indorato la pillola evitando la parola riarmo. È molto peggio “prontezza”.
Nello stesso giorno, il 19 novembre, il presidente di Airbus, René Obermann, ha esortato gli europei a dotarsi di armi nucleari tattiche per contrastare l’espansionismo russo (oltre alle atomiche strategiche condivise con Washington).
Un’atomica tattica oscilla tra 1 e 50 chilotoni: non son bruscolini.
Hiroshima fu colpita da una bomba di 16 chilotoni, per Nagasaki si passò a 21.
Poco dopo Einstein disse: «Ora è venuto il momento in cui l’essere umano deve rinunciare alle guerre. Non è più razionale risolvere i problemi internazionali ricorrendo alla guerra».
Poi c’è il quando. Quando ci attaccherà Mosca?
Secondo il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, socialdemocratico, l’anno fatale è il 2029.
Nelle dispute internazionali la razionalità dovrebbe essere affidata alla diplomazia, arte inventata in Europa prima che negli Stati Uniti.
Non spetta ai capi di Stato maggiore, ai faccendieri, neanche ai giornalisti.
Al tempo stesso si può capire che Trump preferisca gli uomini d’affari, pur di tenere a bada i neoconservatori come il ministro degli Esteri Marco Rubio, che non solo ignorano la diplomazia ma la odiano. È comprensibile che mandi l’immobiliarista Steve Witkoff a parlare con Putin, e che Putin a questo punto mandi non Lavrov ma Kirill Dmitriev, capo del Fondo russo per gli investimenti diretti.
Gira voce che la bozza del piano di pace l’abbia scritta Dmitriev, e Trump l’abbia ingoiata sotto tortura. In Europa i pensieri da ombrellone sono per tutto l’anno, Natale compreso.
Chi non riconosce le disfatte ucraine guarda senza vedere.
Quanti ucraini devono morire perché l’Europa smetta i paramenti dell’Occidente atlantista e ricominci a parlare con Mosca?
Se nel marzo 2022 Kiev s’accontentò di un esercito di 80.000 uomini, come non vedere che Mosca gliene concede ora 600.000 (la metà delle truppe attuali) e chiederne 800.000?
Mosca è disposta a riparare l’Ucraina con 100 miliardi dei propri fondi congelati soprattutto in Belgio.
Gli europei s’offendono e replicano: su quei soldi decidiamo noi e basta.
Come sostengono Anatol Lieven e il Quincy Institute, un accordo che restituisce indipendenza ai tre quarti dell’Ucraina, che prevede l’ingresso nell’Ue e le riparazioni russe non è precisamente una capitolazione.
È la sconfitta di Zelensky e dell’idea di Kiev come baluardo, non dell’Ucraina. È la presa d’atto che Mosca non ha in mente di invadere l’Europa e neanche vuole “incamerare” l’Ucraina, ma non vuole la Nato e le atomiche schierate alle proprie porte.
da RivistaStudio
Qualche anno fa ho preso una gatta e l’ho chiamata Olivia. «Non l’hai ancora superata, eh», ha commentato mia madre con l’aria di chi la sa lunga. «È solo un nome», ho ribattuto stizzita. Mia madre alludeva a quella che, per quattro anni, era stata la mia migliore amica, e che avevo trovato seduta accanto a me in prima media, fra i banchi dell’ultima fila. Sono lenta ad affezionarmi alle persone e i colpi di fulmine rappresentano un’eccezione all’interno della mia grammatica emotiva, eppure non trovo altra categoria per descrivere la fascinazione che mi calamitò verso di lei appena la conobbi. Ascoltavamo la stessa musica, eravamo alte uguali e, scoprimmo presto, nate lo stesso giorno – tanto bastò per sentirci destinate a un’amicizia che, ne eravamo sicure, sarebbe durata per sempre, e che per un po’ ha avuto i tratti idilliaci, vagamente simbiotici, delle storie d’amore ai loro inizi. Io ero timida, lei esuberante; lei sboccata, io in punta di forchetta; io piuttosto distaccata, lei piena di entusiasmo; lei disobbediva all’autorità con piacere e disinvoltura, io volevo solo sentirmi dire “brava”. Olivia corrispondeva perfettamente allo stereotipo della cattiva compagnia, e i miei genitori provavano sentimenti ambigui nei suoi confronti: un po’ la trovavano divertente, un po’ temevano che avrebbe distrutto anni di educazione borghese per condurmi sulla cattiva strada. A distanza di venticinque anni da quell’incontro mi rendo conto che, se non l’avessi mai conosciuta, oggi sarei una persona diversa – e sicuramente più noiosa.
Buone amiche, cattive influenze
«Queste cattive influenze aiutano le eroine a sfuggire ai mondi domestici che le soffocano e non hanno nessuna aspettativa per il loro futuro. Le conducono nel territorio oscuro e pericoloso dell’aldilà. Le aiutano a dimenticare le prudenti lezioni che sono state loro impartite. Questi rischi sono essenziali. In quale altro modo l’eroina potrà mai scoprire chi è e chi dovrebbe diventare?», scrive Tiffany Watt Smith in Pessima amica (pubblicato da UTET con traduzione di Chiara Baffa), un saggio dove l’autrice, storica della cultura, esplora l’amicizia femminile intrecciando l’analisi di aneddoti personali e storiografici a fonti teoriche. Queste ultime, a eccezione delle filosofie femministe, hanno sempre espresso notevole scetticismo nei confronti dei rapporti fra donne. A partire da Aristotele passando da Montaigne, che elogiava le relazioni amicali sopra tutte le altre ma credeva che le donne non fossero in grado di instaurare rapporti paritari di affetto e cura, fino ad arrivare ai numerosi luoghi comuni che screditano sistematicamente la possibilità di una complicità fra donne, le comunità femminili non hanno mai goduto di buona fama.
Quando, una decina d’anni fa, cominciai a scrivere per una piccola agenzia di comunicazione dove lavoravano solo donne, tutti mi dissero “sarà tosta”, e quasi mi sorpresi quando mi accorsi che il clima era invece collaborativo e rilassato, a tratti giocoso, niente affatto attraversato dalle invidie e dai pettegolezzi che sempre si ascrivono ai rapporti femminili. Sebbene lavorassimo parecchio e a ritmi sostenuti, l’atmosfera era amichevole, come in ogni altro gineceo di cui abbia fatto parte – quando fanno le cose insieme, le donne diventano subito amiche, e se è vero che «non dobbiamo per forza diventare amiche per essere alleate», bisogna riconoscere che «anche la storia dell’attivismo femminile degli anni Sessanta è impossibile da raccontare senza parlare di amicizia».
Watt Smith rintraccia numerosi esempi storici a sostegno di questa tesi, dalle beghine che, nel nord dell’Europa, formavano comunità autonome, solidali e svincolate dall’egida ecclesiastica, ai gruppi di donne non sposate, impiegate nell’industria della seta, che nella Parigi del XIII secolo si stringevano in nuclei di sostegno economico e abitativo, assimilabili a vere e proprie famiglie, fino ai gruppi di amiche che, in epoca più recente, decidono di andare a vivere insieme per garantirsi supporto reciproco e compagnia durante la vecchiaia. In ogni fase della vita le amiche rappresentano sì un luogo di conforto, svago e sostegno, ma anche uno specchio che ci aiuta, niccianamente, a diventare quello che siamo, a corrispondere alla versione più autentica di noi stesse – una versione che non si dà una volta per tutte ma che si costruisce nello scambio con le altre, e che va incontro a una evoluzione continua. È in questa dimensione dialettica e formativa che si annidano, però, anche i rischi maggiori.
Un confronto continuo
Non posso sapere con esattezza cosa significhi, per un maschio, essere amico di un altro maschio, ma so che da femmina, durante l’adolescenza e non solo, è pressoché impossibile non fissarsi, con un filo di inquietudine, su quello che fa la nostra amica. Sul suo corpo, che già da ragazzine ci insegnano a misurare per valutarne l’attrattività, sul modo in cui parla, ride, gesticola e si rapporta ai ragazzi, sulla popolarità di cui gode e che a noi magari manca, sul suo riflesso che può nobilitarci o farci crollare, sul matrimonio che ha appena contratto o su quello che ha deciso di mandare a monte. Sulla sua vita, il suo lavoro e il suo carattere che, se da un lato possono esserci d’ispirazione, dall’altro rischiano di sembrarci sempre, e tristemente, migliori dei nostri. Serve una lunga pratica di decostruzione per smetterla di osservare le nostre amiche solo per paragonarci a loro, e cominciare invece a farlo per il puro piacere di guardarle. È in questo rimando di riflessi continuo, a tratti sfiancante, che si costruisce il delicato equilibrio fra rivalità e complicità, fra confronto e sorellanza. È su questo terreno che molti rapporti capitolano, esasperati dall’emulazione o scossi da scelte di vita che vengono vissute come veri e propri tradimenti. Come scrive la psicoterapeuta Susie Orbach, la cosa più difficile è legarsi senza cercare di clonarsi.
In Pessima amica torna spesso una domanda: se, da un lato, sono piuttosto chiari i tratti di una sodale mediocre, come si fa a essere una buona amica? A partire dal Novecento l’amicizia femminile è stata parzialmente riabilitata, si è diffusa l’idea che le donne siano naturalmente brave a stringere e mantenere rapporti – forse perché si crede che siano naturalmente portate al lavoro di cura, o che abbiano una sensibilità più spiccata e attenta rispetto ai maschi – e con essa anche nuove aspettative sulla forma che questi legami dovrebbero assumere per essere giudicati sani, utili, felici. Per ciascuna fase della vita si cerca di codificare quali siano le responsabilità e i limiti di una buona amica, che cosa è lecito aspettarsi e che cosa no, e tutto ciò che esula da questa definizione va incontro a un generico biasimo sociale: non è auspicabile, per esempio, scegliere di vivere vicino alle amiche piuttosto che accanto alla propria famiglia, e confessare a un’amica una certa perplessità nei confronti dell’uomo che ha scelto come sposo potrebbe sembrare un’indebita invasione di campo.
Simone Weil ha scritto che l’amicizia «non la si cerca, non la si sogna, non la si desidera; la si esercita», ed è piuttosto condivisibile: al pari dei nostri rapporti amorosi, ha bisogno di tempo, cura e impegno per essere mantenuta. Forse, però, Weil voleva dire anche qualcosa in più, ovvero che l’amicizia è una relazione che non si può mai dare in forma teorica e per cui è forse ozioso cercare di stabilire regole a priori, perché ha senso solo nel momento in cui si pratica, in cui diventa realtà. Ogni tentativo rappresenta un pezzo unico: segue le proprie leggi e ha una traiettoria tutta sua.
Avevo quindici anni quando Olivia cambiò scuola senza farmene parola e, da un giorno all’altro, scomparve dalla mia vita. Per un po’ smisi di mangiare, e a lungo le ho portato rancore per quella che ricordo come una delle rotture più dolorose della mia vita. Per molto tempo non l’ho più rivista, ogni tanto mi arrivavano sue notizie che però non cercavo mai di approfondire – non volevo sapere cosa facesse, né chi le stirasse i capelli ora che non ero più io a pettinarglieli, o chi chiamasse ogni sera per confidarsi. Qualche anno fa sono andata a cena in quello che, nel frattempo, era diventato il suo ristorante. Ci siamo abbracciate e ho pensato che il suo corpo era più o meno sempre lo stesso di quando lo vivevo come un’estensione del mio, abbiamo bevuto e fumato, siamo rimaste a parlare fino all’alba, ubriache ed entusiaste della fortuna che avevamo avuto a conoscerci e a godere, per qualche anno, di un’amicizia così. Per alcune settimane, dopo quell’incontro, fantasticai pigramente che il secondo atto della nostra amicizia stesse per cominciare, ma poi non tornai mai al suo ristorante, non le chiesi di vederci, né lei a me, e infine smisi di pensarci. Le quattro di Sex and The City esistono solo grazie a Hbo e anche le Spice Girls dopo due album si sono sciolte: come per gli amori, ci sono amiche fatte per restare e costruire un mondo insieme, e altre, non meno importanti, che ti intercettano a un bivio, ti sconvolgono un po’ la vita, ti fanno capire qualcosa di quello che sei, e poi vanno via.
da Pressenza
Napoli-Barra, 24 novembre 2025 – In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
La memoria non è solo ricordo: è voce che resiste al silenzio, è ponte tra vite lontane, è responsabilità. A Barra, periferia orientale di Napoli, questa voce si è trasformata in un incontro pubblico, in un’esperienza condivisa e in un ascolto reciproco. Non in un’aula istituzionale, ma in una biblioteca sociale nata per custodire storie e restituire dignità: La Casa di Francesca.
Uno spazio speciale, perché nato dal dolore trasformato in impegno civile. Lo hanno fondato due insegnanti in pensione, Mariarosaria Izzo e Matteo Speraddio, per dare continuità all’idea della figlia Francesca, scomparsa dieci anni fa. Francesca immaginava una biblioteca come luogo capace di accogliere, di ascoltare, di mettere in relazione. Non come servizio, ma come presenza. Oggi quello spazio è realtà: libero, aperto, abitato da bambini, studenti, famiglie, migranti, cittadini del quartiere in cerca di un luogo dove sentirsi parte.
Il 24 novembre, proprio in questa biblioteca, si è tenuto l’incontro pubblico “Dialogo con Conny Del Monaco sulla condizione delle donne afghane”. A moderare, Matteo Speraddio. Non una presentazione formale, ma un dialogo che ha trasformato una tesi universitaria in strumento collettivo, vivo, civile.
Conny Del Monaco ha presentato alcuni passaggi del suo lavoro di laurea, “Donne Afghane tra resistenza e memoria: i racconti di Homeira Qaderi e Fawzia Koofi”, discusso all’Università Federico II di Napoli. Una tesi che non nasce solo da studio, ma da un’urgenza: restituire spazio a voci che non hanno spazio; far emergere vite raccontate dall’esilio che, senza narrazione, rischiano di essere dimenticate.
Protagoniste dei memoir analizzati sono due donne afghane: Homeira Qaderi, autrice di Dancing in the Mosque, e Fawzia Koofi, autrice di The Favored Daughter e prima vicepresidente del Parlamento afghano. Entrambe hanno scritto in inglese, non per allontanarsi dalla propria cultura, ma per renderla visibile al mondo. La scrittura diventa per loro un modo per attraversare i confini e opporsi alla cancellazione.
Nei loro testi, non si racconta solo l’oppressione, ma anche la contraddizione. Quando i talebani presero il potere negli anni ’90, molti li accolsero come portatori di ordine dopo il caos della guerra civile. Solo in seguito emerse che quell’ordine si fondava su rigide restrizioni, soprattutto per le donne: istruzione vietata, lavoro e movimento limitati, parola negata nello spazio pubblico. Ma anche in quel contesto alcune donne resistettero. Qaderi, appena tredicenne, organizzava scuole clandestine per bambine. Koofi, contro ogni aspettativa familiare e sociale, portava la propria voce fino al Parlamento. Per entrambe, scrivere è diventato un modo per non scomparire.
Un punto centrale affrontato durante l’incontro riguarda l’origine dell’oppressione. Non è la religione, ha spiegato Conny, ma una tradizione culturale patriarcale che usa la religione come giustificazione. Esiste infatti un femminismo islamico che interpreta i testi sacri come luogo di dignità, giustizia e responsabilità reciproca, e non come strumento di subordinazione.
Da questo sono nate domande e riflessioni, non solo per comprendere meglio la condizione delle donne afghane, ma per misurare quanto siamo disposti a riconoscere quelle storie come parte della nostra storia. Quanto siamo disposti a considerarle presenti, e non lontane.
L’incontro non si è limitato a trasmettere informazioni, ma ha sollecitato un modo diverso di stare dentro le storie: non solo ascoltarle, ma farsene carico. Non soltanto comprenderle, ma riconoscerle.
Luoghi come La Casa di Francesca ricordano che la cultura non è un ornamento ma un gesto di responsabilità. Mettere in circolo storie, ascoltarle, riconoscerle significa restituire volto e dignità a chi rischia di essere dimenticato. Non basta leggerle: bisogna farle vivere.
da La Stampa
Per tanti anni ho creduto che essere un uomo significasse una cosa sola: non cedere mai. Non mostrare paura. Non chiedere aiuto. Essere quello che decide, che regge tutto, che ha sempre ragione. Era un modello che non avevo scelto. Semplicemente ci ero cresciuto dentro. Il mio cambiamento non è iniziato quando la mia vita è crollata. È iniziato molto prima, quando mi sono innamorato di Monica. Anzi, non subito: è iniziato quando ho cominciato a vivere con lei, con una donna. È lì che ho capito, giorno dopo giorno, che quel modello non funzionava nelle relazioni vere. Che non puoi amare davvero qualcuno e allo stesso tempo voler vincere sempre. Che la forza non è nel dominare il confronto da soli, ma nel saperlo attraversare insieme. Eppure quel vecchio modello di “maschio alfa” era duro da lasciare. Mi ha fatto perdere tanti secondi, tante ore di vita con la persona che amavo. Quando c’erano attriti, quando si discuteva, io non riuscivo a vedere chiaramente: volevo solo avere ragione. Non scendevo a compromessi, restavo rigido, chiuso, convinto che cedere avrebbe significato essere debole. Quei minuti, quelle ore, quei giorni passati con il muso duro e la rabbia dentro… Li ho rimpianti tutti, ma proprio tutti, quando, a causa del cancro, il tempo ha cominciato a mancarci davvero. Quando la vita ti mette davanti a un limite così grande, capisci in un attimo quanto sia stupido difendere l’orgoglio invece dell’amore. E poi è arrivato un altro colpo, più grande di quanto potessi immaginare: Giulia non c’era più. Giulia era amore, era semplicità, era lontana da quell’orgoglio che complica la vita. E solo allora ho avuto la piena consapevolezza che anch’io potevo cambiare. Ho capito che quella trasformazione iniziata anni prima poteva diventare la mia salvezza. Che se fossi rimasto l’uomo che non cede mai, che trattiene tutto, che non ascolta, mi sarei spezzato completamente. Ho compreso che essere un uomo non significa resistere a tutto. Significa permettersi di sentire. Non significa controllare. Significa accogliere. Non significa trattenere. Significa lasciare spazio alla verità, anche quando fa male. E significa anche porre attenzione al linguaggio che usiamo. Le parole che scegliamo, spesso senza pensarci, sono anch’esse figlie del modello culturale che abbiamo ereditato: parole dure, assolutiste, parole che dividono, che etichettano, che feriscono senza che ce ne accorgiamo. Siamo una società narrante che comunica attraverso una lingua, e la lingua crea, plasma, definisce. E il cambiamento passa anche da qui, dal modo in cui nominiamo il mondo e chi ci sta accanto. Perché le parole – tutte le parole – possono creare empatia o distacco, comprensione o pregiudizio, gioia o dolore, amore o odio, violenza o pace. E scegliere parole diverse, più gentili, più vere, più libere dall’orgoglio, è già un modo per trasformare le relazioni e la società in cui viviamo. Oggi posso dirlo con sincerità: quel modello di maschio che vive per dimostrare qualcosa non ci rende più forti: ci rende solo più soli, più arrabbiati, più lontani da chi amiamo. La mia forza è arrivata quando ho accettato di essere vulnerabile. Quando ho smesso ogni maschera. Quando ho iniziato a vedere davvero le donne non come un esame da superare o un terreno da conquistare, ma come un dono da ricevere – così come io avrei voluto essere il più bel dono per Monica e per Giulia. Da allora vivo meglio. Sono più leggero. Meno teso. Meno arrabbiato. Più presente. Per questo oggi mi rivolgo agli uomini che fanno fatica, che hanno paura di cambiare, che pensano che mettere da parte l’orgoglio significhi perdere terreno. Non è così. Cambiare non toglie forza: la libera. Io non posso recuperare il tempo che ho perso. Ma posso cercare di vivere diversamente il tempo che mi resta. E so che questo cambiamento – dolce, profondo, liberatorio – inizia da noi uomini. Dalla scelta, finalmente, di essere veri.
da il manifesto
Nella contemplazione di un paesaggio urbano a lei straniero, la narratrice del “Libro bianco” trova i moventi per tornare a ricordi luttuosi: da Adelphi, un racconto del 2016 in cui la prosa esibisce una manifesta tensione verso la lirica
I lettori di Han Kang sanno già che la neve, fenomeno atmosferico per il quale questa misteriosa paesaggista dell’animo umano esibisce una predilezione quasi ossessiva, si posa sullo sfondo delle sue narrazioni con una frequenza insolita. E se in letteratura le coincidenze non esistono, allora non è forse un caso che un intero suo libro si sia cristallizzato sotto i cieli (per lei) remoti di Varsavia – dove la scrittrice coreana aveva preso temporaneamente residenza alcuni anni fa – le cui strade innevate riecheggiano tanti grandi versi “invernali”, da quelli di Wisława Szymborska (per esempio nella vividissima “Nel sonno”, che comincia con «Ho sognato che cercavo una cosa» e prosegue più avanti: «Correvo trafelata/per ansie e stanze/mie e non mie./Mi impantanavo in gallerie/di neve e nell’oblio») alle liriche del sommo Czesław Miłosz, nelle quali spesso la neve appare recando con sé un ambiguo sentimento di sospensione del tempo – velo di oblìo ma anche preziosa occasione meditativa.
Il risultato di questo spaesamento è Il libro bianco (ora nella traduzione di Lia Iovenitti da Adelphi, con una nota finale dell’autrice, pp. 163, € 19,00), titolo che è innanzitutto un’ottima descrizione del contenuto: in esso il bianco della carta è infatti predominante rispetto al nero dell’inchiostro, disteso con calibratissima parsimonia tra le pagine. La densità estrema della prosa, oltre a una peculiare spaziatura del foglio, lavorano a un processo di intensificazione della scrittura che rende manifesta quella tensione verso la poesia già presente altrove, dai bellissimi “Non dico addio” e “L’ora di greco” a “Convalescenza”, fino alla “Vegetarian” (la versione inglese di “The White Book”, che ha avuto grande risonanza nel mondo anglosassone, valorizza questa tensione attraverso una disposizione del testo più spregiudicata, nella quale le righe di alcuni brani vengono interrotte da armoniosi accapo che fanno assomigliare l’opera a un vero e proprio prosimetro).
Che il luogo dal quale prende la parola la narratrice del racconto sia Varsavia, peraltro, non è specificato, anche se, da dettagli topografici e storici, per il lettore europeo non è difficile riconoscere la capitale della Polonia, martoriata da guerre e occupazioni, dalle cui finestre esala un’aria triste evidentemente affine alla sensibilità della straniera che, appena arrivata, si chiede «Perché in questa città sconosciuta mi riaffiorano alla mente vecchi ricordi?».
Rispetto agli altri libri di Han, che restavano fedeli a un impianto romanzesco, Il libro bianco è, da un punto di vista formale, un testo atipico, e persino eccentrico, in cui compaiono elenchi di oggetti, e una manciata di fotografie d’arte a dialogare con la scrittura. Bianche, naturalmente, sono tanto le cose che vengono descritte quanto quelle che vengono ritratte. Da principio vaga, questa “necessità” cromatica va precisandosi via via nei suoi moventi, mentre emerge al proscenio, già nella prima delle tre parti in cui è diviso il testo, la vicenda di una sorella maggiore nata prematura e morta dopo sole due ore di vita (il suo volto di neonata era, come tutto il resto, bianco).
Il desiderio – tramato, nella prosa della scrittrice coreana, da richiami alla metafisica buddhista – di incarnarsi nello sguardo dell’altro, di sentirne la sofferenza attraverso una compenetrazione che ha qualcosa di mistico, si materializza qui nel modesto miracolo che solo la letteratura può compiere: nella seconda parte la scrittura restituisce alla vita la sorella mai vissuta, espande quelle due ore – in cui sua madre la implorava di non morire – in un esserci, nel quale lei può correre tra le betulle (bianche), avvolgersi voluttuosamente fra lenzuola (bianche), scrutare il volo dei gabbiani (bianchi), raccogliere sassi bianchi e curare una magnolia yulan (dai fiori bianchi).
Un temerario, quasi anacronistico ricorso alla metafora rende Han una autrice che non somiglia a nessun’altra, oggi. Man mano che scorrono le istantanee di una esistenza ipotetica, il colore bianco assume il compito di fare da reagente per renderle visibili. “Bianco”, riflette la narratrice, è una parola dentro la cui radice, nelle lingue indoeuropee, convivono blanc, il colore, ma anche blank, il vuoto. Bianco può essere dunque l’indicatore di una soglia, quella da varcare per i vivi che cercano il dialogo con l’altra parte: bianco è il colore delle tenebre serene, non luogo ostile di cui avere paura, ma ponte gettato in cerca di senso.
Tornano i motivi del corpo come ambiente estraneo, del tempo diacronico come apparenza, della risignificazione del patimento. Sarebbe congeniale a una certa sensibilità dei nostri tempi, spedire Han Kang zaino in spalla nella terra incognita del dolore psichico, sperando che ne faccia ritorno con una cura ai mali invisibili dell’anima, ciò che a ben vedere la ridurrebbe a una versione letteraria delle profilassi del bio, del fitness, e di tutte le pratiche volte a rimuovere il terrore dell’insensato e della morte. Nelle pagine dei suoi libri, però, non ci sono ricette mediche, né consigli per il buon vivere. Via via che i suoi personaggi si addentrano come speleologi “nel bianco”, diventa sempre più esplicito che faranno ritorno a mani vuote, e che la cura sospirata non esiste. Le sue voci si dissolvono progressivamente nel paesaggio, bianco su bianco: «Quando grossi fiocchi di neve si posano sulla manica di un cappotto nero, i cristalli più grandi sono visibili anche a occhio nudo. Ci vogliono appena uno o due secondi perché quelle misteriose forme esagonali si dissolvano. È a quel breve istante di contemplazione silenziosa che lei sta pensando. Nell’attimo in cui inizia a cadere la neve, la gente si ferma, qualunque cosa stia facendo, e rimane a guardarla per un po’. I passeggeri sugli autobus alzano la testa e fissano fuori dal finestrino. E quando i fiocchi si disperdono senza rumore, senza gioia né tristezza, e poco dopo migliaia di altri cancellano silenziosamente le strade, alcuni smettono di osservare volgendo lo sguardo altrove». Alcuni smettono di guardare. Non tutti. Senza paura, altri continuano ostinatamente, «senza gioia né tristezza», a tenere gli occhi fissi sulla neve che si dissolve, sull’impermanenza di tutte le cose che però non è un vuoto: blanc, blank.
da Facebook
Tre giorni di laboratorio sull’archivio politico della Libreria delle Donne alla (e con) Fondazione Badaracco.
Mi sono iscritta perché ho sempre vissuto l’archivio come un luogo speciale e prezioso ma anche quasi irraggiungibile, spazio sacro solo di chi poteva vantare un livello intellettuale raffinato e avanzato. Così, l’idea di poterci mettere un piede e il naso era praticamente irresistibile, di più alla luce della mia tesi magistrale a cui sto cominciando a pensare.
Ma come spesso succede, le possibilità trovate e vissute davvero sono state molte di più di quelle che avevo messo in conto o anche solo intuito.
Prima di tutto, come sempre, lo stare insieme fra donne, in questo caso donne interessate, intelligenti, appassionate, a tratti anche commoventi (per me, che mi emozionano il valore umano, la capacità di gentilezza e di ascolto, il pensiero che respira e si stimola e soprattutto cresce attraverso lo scambio con quello altrui).
E poi l’effetto di uscire dal mio guscio nel quale mi ritiro tanto spesso e tanto volentieri, perché nel mondo orribile non ci voglio stare e mi sembra che mi faccia male tutto, ma così anche mi perdo e dimentico la parte bella e vitale, quella che dà speranza, forza e senso al nostro continuare a stare qui, giorno dopo giorno, nutrendo la consapevolezza che nessuna è la sola o da sola.
In tal senso, questi giorni sono stati un bel promemoria, direi felice.
Abbiamo letto dei documenti più o meno vecchi, ci siamo confrontate su esperienze di oggi e di ieri che hanno le radici in comune ma i rami in mondi completamente diversi, abbiamo parlato di cose alte e di cose piccole, sempre mischiando un po’ di cultura e politica e un po’ di vissuto e di personale, alla buona, vecchia e infallibile maniera, sempre sedute in cerchio, sempre disponibili a turno a dirci, a capirci, o almeno a interrogarci, mi pare.
Me ne torno a casa con nomi e cognomi che si sono riempiti di senso, voglia di fare cose, un appuntamento per un convegno, una visione più ampia della mia tesi, un blocchetto pieno di appunti, alcune donne che prima nemmeno conoscevo e ora vorrei rivedere, la consapevolezza che a furia di stare zitta la mia capacità di parlare spontaneamente è diventata un po’ timida (ma ci lavorerò), la voglia di approfondire ma anche di farlo condividendo, un’idea di “stanza della tessitura” che cambia tutto, una calamita con un gatto rosso, e un’enorme gratitudine per aver potuto esserci e per le donne che hanno organizzato e contribuito alla possibilità di questo laboratorio.
Grazie di cuore, perciò e prima di tutto a Chiara Martuccci, Fondazione Elvira Baradacco, Libreria delle donne di Milano e a Giordana Masotto.
E poi alle mie compagne di banco e di viaggio: Valentina, Fosca, Michela, Silvia, Anita, e tutte le altre con le quali magari ho parlato meno ma dalle quali ho ascoltato tutto.
E come ha detto sul (gran) finale una di noi: sapremo ritrovarci!
da Sinistra Sindacale
Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricorda l’assassinio a bastonate delle tre sorelle Mirabal da parte dei sicari del dittatore domenicano Trujillo nel 1960 perché oppositrici del regime. Da diversi anni è diventata una giornata che dovrebbe ricordare a noi uomini la nostra responsabilità nella violenza contro le donne.
Ogni giorno milioni di donne in tutto il mondo sono sottoposte a violenza fisica, sessuale e psicologica da parte di uomini; diverse di loro vengono anche uccise. Secondo una ricerca dell’Unione europea del 2021, circa il 30% delle donne nell’Ue ha subito violenza fisica o minacce e/o violenza sessuale nel corso della propria vita. Questa violenza è spesso esercitata fra le pareti domestiche da parte del partner o da un familiare maschio. Secondo altre ricerche il comportamento maschile è la prima causa di morte violenta e invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo.
Violenze di ogni tipo avvengono anche nei luoghi di lavoro: le tante donne che lavorano lo sanno benissimo, e non hanno bisogno di ricerche sociologiche per riconoscere la verità di questa affermazione.
Senza dubbio sono cambiate le nostre vite, le relazioni familiari, l’amicizia e l’amore tra uomini e donne, il rapporto con figlie e figli. Consuetudini e modi di sentire sono mutati e le forme della convivenza sociale registrano, sia pure a fatica, questo cambiamento. Ma le violenze persistono.
La violenza non è una devianza. È parte della nostra storia personale, del nostro modo di essere uomini. E soprattutto, non è mai solo quella che si vede, ma è anche quella che attraversa il linguaggio, il modo in cui pensiamo la forza, il potere, perfino l’amore.
Che cosa possiamo fare, noi uomini, della violenza che ci abita? Non solo quella eclatante, ma anche quella sottile, quella che si nasconde nelle battute e anche nella paura di sembrare deboli. Non si tratta solo di violenze messe in atto: il punto di vista maschile non riesce ancora a vedere chiaramente la grande trasformazione delle nostre società prodotta negli ultimi decenni dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro, e dai mutamenti che sono stati sollecitati dai movimenti femministi e delle donne.
Non voglio parlare in nome di nessuno, e neppure allontanare da me la responsabilità di questa situazione, che è principalmente individuale. Non voglio neppure dire che tutti gli uomini siano attori di violenze e soprusi. Nessuno di noi uomini può ergersi a giudice o fare la predica a qualcuno, ma tutti noi uomini abbiamo la responsabilità di quello che accade.
La violenza sulle donne è esercitata da uomini: è quindi necessario, anzitutto come uomini, prenderne coscienza e poi impegnarsi in tutti gli ambiti per cambiare questa situazione, a partire dall’interrompere la tacita solidarietà maschile con chi agisce la violenza. Perché la giornata del 25 novembre non diventi una vuota ritualità che, dopo essere stata celebrata, venga dal giorno successivo dimenticata.
dal Corriere della Sera
Socialista, femminista, si unì alla Resistenza. All’Assemblea costituente e poi al Senato sfidò un mondo che ancora non contemplava la parola “uguaglianza” e portò avanti la sua lunga battaglia: abolire la prostituzione regolata dallo Stato. Oggi libri e teatro ripropongono la forza della sua modernità
«Questo Paese di viriloni che passano per gli uomini più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Inoltre, che giovani sono questi che per avere una donna devono farsela servire su un vassoio come un fagiano?». Quando Angelina Merlin, detta Lina, pronunciava queste parole in Senato, molti colleghi distoglievano lo sguardo. Era il prezzo da pagare per chi aveva osato sfidare uno dei tabù più radicati dell’Italia postbellica: affrontare il tema delle case di tolleranza. A lei si deve la legge n. 75 del 20 febbraio 1958, quella che chiuse i bordelli e abolì la regolamentazione pubblica della prostituzione, sancendo per la prima volta che lo sfruttamento non poteva avere il sigillo della legalità.
La battaglia di Lina Merlin
La battaglia durò dieci anni. In Parlamento la chiamavano con ironia “la senatrice delle case chiuse”, ma lei accettava il soprannome come una medaglia: «Non chiudo le case» rispondeva, «apro la coscienza di un Paese». Con quella legge furono eliminati circa seicento bordelli ufficiali, e con loro un’intera struttura amministrativa che regolava, controllava e umiliava migliaia di donne. Le condizioni erano drammatiche: orari massacranti, controlli medici invasivi, nessuna tutela legale. La miseria, l’isolamento sociale e la violenza erano quotidiani. Le malattie sessualmente trasmissibili, la coercizione e lo sfruttamento fisico e psicologico erano all’ordine del giorno.
Da allora la legge Merlin è rimasta un punto di equilibrio instabile.
C’è chi la considera superata, chi la difende come presidio di civiltà, chi ne invoca un aggiornamento. Negli ultimi anni c’è chi ha persino proposto la riapertura delle case di tolleranza, parlando di una presunta “regolamentazione sicura”. Ma l’eredità di Merlin resta chiara: la dignità non è materia negoziabile.
Come lei stessa ricordava in un celebre intervento: «Onorevoli colleghi, molti di voi sono insigni giuristi e io no, ma conosco la storia. Nel 1789 furono proclamati in Francia i diritti dell’uomo… e le costituzioni degli altri Paesi si uniformarono a quella proclamazione che in pratica fu solo platonica, perché cittadino fu considerato solo l’uomo con i calzoni e non le donne». Questa frase sintetizza il filo conduttore del suo impegno: portare la coscienza storica dentro le aule parlamentari e trasformare la critica in azione concreta.
Lina Merlin, ritratto di un’antifascista
Una donna minuta, dallo sguardo fermo e la voce chiara, capace di sfidare un mondo che non contemplava ancora la parola “uguaglianza”. Nata nel 1887 a Pozzonovo, nel Padovano, in una famiglia numerosa e borghese, crebbe tra libri e ideali. Fin da giovane mostrò un senso istintivo di giustizia: non sopportava la prepotenza, né quella domestica né quella dei potenti.
Quando nel 1919 decise di iscriversi al Partito Socialista, fu una scelta di campo e di vita. In casa la chiamavano “pacefondaia”, un nomignolo affettuoso e pungente per la sua ostinata fede pacifista, che la portò a opporsi all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Una guerra che le portò via due fratelli, e rafforzò in lei l’idea che nessuna causa potesse valere tanto dolore. Negli anni successivi, la parola diventò la sua arma.
Collaborò a La difesa delle lavoratrici, la rivista simbolo del socialismo femminile, fondata da Anna Kuliscioff, di cui divenne direttrice, e al settimanale padovano L’eco dei lavoratori. Fu in quell’ambiente di militanza e carta stampata che incontrò Dante Gallani, medico e deputato socialista: tra i due nacque un’intesa profonda, di idee e di sentimenti. Nelle riunioni del partito, Lina si faceva notare per la tenacia e la lucidità. Nel 1924 le affidarono un compito straordinario per una donna dell’epoca:guidare la campagna elettorale socialista in Veneto. In quei mesi raccolse e documentò le violenze degli squadristi fascisti, un dossier che consegnò a Giacomo Matteotti, poco prima del suo celebre discorso contro il regime.
Dopo il rapimento e l’assassinio del deputato,la giovane militante venne schedata come sovversiva, e in meno di ventiquattro mesi licenziata dal suo impiego di insegnante perché rifiutatasi di prestare il giuramento di fedeltà al regime, obbligatorio per gli impiegati pubblici, e arrestata cinque volte: nel 1926, nel pieno della repressione fascista, tentò di riparare a Milano, ma finì in carcere e poi al confino in Sardegna. Tornò in libertà in un Paese ormai piegato dal fascismo, sposò Gallani, rimasto vedovo e padre di due figli, ma la loro felicità fu breve: lui morì dopo quattro anni.
All’indomani dell’8 settembre 1943, Lina era di nuovo in prima linea. Partecipò alla Resistenza organizzando, con Ada Gobetti e altre antifasciste, i Gruppi di Difesa della Donna: una rete di coraggio, sostegno e azione. Dopo la Liberazione, il Partito Socialista la chiamò a far parte della direzione e del governo regionale lombardo del Cln (Comitato Liberazione Nazionale) Alta Italia, dove si occupò della riorganizzazione delle scuole come vicecommissaria all’Istruzione.
Nel 1946 divenne una delle 21 donne elette all’Assemblea costituente. A lei si deve l’inserimento delle parole “distinzione di sesso” nell’articolo 3 della Costituzione, tra i criteri che non possono determinare discriminazioni: un parametro fondamentale per impedire leggi dal carattere discriminatorio nei confronti delle donne. Due anni dopo fu eletta senatrice e, nel 1953, restò l’unica donna in Senato. «Si diceva che il Senato avesse una donna sola, ma una di troppo» raccontava, con un sorriso che non mascherava l’amarezza.
Nel 1958 fu eletta alla Camera e partecipò alla Commissione antimafia. Ma la sua coerenza, spesso scomoda, le costò isolamento e critiche anche dentro il suo partito. Nel 1961 lasciò il Psi, delusa ma mai domata. Negli anni seguenti si ritirò dalla vita politica attiva, respingendo ogni invito a candidarsi di nuovo. Si dedicò invece a scrivere la propria storia, sollecitata dalla figlia adottiva. Le sue memorie, pubblicate postume nel 1989 per iniziativa della senatrice Elena Marinucci, restituiscono il ritratto di una donna che non cercò mai il consenso, ma la coerenza.
La memoria prende voce
Per le studiose contemporanee di storia delle donne, Lina Merlin è una figura chiave della modernità italiana. Luciana Percovich, docente e ricercatrice della Libera Università delle Donne di Milano, ne ha letto il profilo in chiave di “femminismo delle origini”. La scrittrice e saggista Elisabetta Rasy ha raccontato la sua capacità di coniugare etica e politica, intelligenza e concretezza, dentro un mondo ancora ostile alle donne.
Lina Merlin, morta nel 1979 a novantadue anni, socialista, era tra gli autori della Costituzione.
La memoria, però, non vive solo nei libri: torna anche nei teatri, dove la vita e l’impegno di Lina Merlin vengono restituiti attraverso la voce e il corpo degli attori. Tra gli spettacoli più recenti: Una delle tante di Nicole De Leo, che fa rivivere le lettere delle donne delle case chiuse in dialogo con la senatrice; Donne perdute di Daria Martelli, che ripropone le testimonianze degli anni Cinquanta; e la recente lettura scenica Maestre di vita e pensiero – Lina Merlin curata da Ombretta De Biase, che ha avuto luogo alla Libreria delle Donne di Milano e che riporta in vita il suo pensiero politico e l’impegno concreto.
La sua memoria si intreccia anche con lo spazio urbano: diverse città italiane l’hanno ricordata attraverso strade, piazze, targhe e un giardino a Padova. Ogni intitolazione è un segno tangibile del riconoscimento del suo impegno e un invito a non dimenticare le battaglie per la dignità e la parità. Il giardino, in particolare, diventa una metafora potente: come Merlin ha aperto spazi di libertà dove prima regnavano sfruttamento e silenzio, cosìi luoghi che la ricordano raccontano oggi un’Italia diversa, fatta di scelte coraggiose.
La senatrice si spense a Padova nel 1979 e riposa nel Cimitero Monumentale di Milano: la sua sepoltura fa parte di un percorso dedicato alle grandi donne.
da ActionAid
ActionAid con l’Osservatorio di Pavia presenta la ricerca su come si percepiscono in Italia la violenza e le diseguaglianze di genere e come prevenirle
La violenza economica è considerata accettabile da un uomo su tre, e lo è per quasi la metà dei maschi Millennial e quelli della Gen Z. Per uno su quattro la violenza verbale e quella psicologica sono ampiamente motivate da provocazioni e comportamenti “scorretti” delle donne. La maggioranza (55%) dei Millennials ritiene legittimo il controllo sulla partner, soprattutto in caso di tradimento o di mancata cura della casa e dei figli. Anche la violenza fisica è giustificabile per quasi 2 maschi adulti su 10. La violenza è così interiorizzata e normalizzata nelle relazioni affettive e familiari. Molte delle sue manifestazioni sono reinterpretate dalla popolazione maschile come reazioni “comprensibili” a conflitti o comportamenti delle donne percepiti come provocatori. Un quadro che va dalla generazione over 60 dei Boomer, che nega la violenza di genere e non sa vederne le diverse forme, agli uomini più giovani, che pur riconoscendola, la legittimano. Sono le facce dello stesso fenomeno: l’inadeguata prevenzione primaria della violenza nelle scelte politiche italiane, a fronte di annunci e buoni propositi degli anni passati.
È quanto rivela PERCHÉ NON ACCADA. La prevenzione primaria come politica di cambiamento strutturale, ricerca di ActionAid con Osservatorio di Pavia e B2Research su percezioni della violenza e discriminazioni in Italia e come prevenirli. Un viaggio nella vita quotidiana delle donne, dalla casa agli spazi pubblici, dai trasporti alla cultura e al digitale per indagare come disuguaglianze e stereotipi di genere si riproducano in ogni ambito della società, contribuendo a ricreare e legittimare la violenza.
«Non si può prevenire la violenza senza promuovere uguaglianza, e non si può costruire uguaglianza senza assumere la prospettiva di genere in ogni politica pubblica. Significa intervenire sulle cause profonde, non solo sugli effetti. ActionAid chiede al Governo e al Parlamento che almeno il 40% delle risorse annuali del Piano antiviolenza sia vincolato alla prevenzione primaria insieme all’adozione di un piano strategico e operativo ad hoc, con risorse certe, obiettivi verificabili e responsabilità condivise. La prevenzione primaria non si può fermare alla necessaria educazione nelle scuole, ma deve coinvolgere le persone di ogni età, con azioni dirette a tutti gli ambiti della vita quotidiana, perché solo un cambiamento culturale può fermare la violenza maschile contro le donne» dichiara Katia Scannavini, co-segretaria generale ActionAid Italia.
Disparità, sessismo e mancate responsabilità. la frattura delle diseguaglianze.
Ogni spazio, ruolo sociale e privato che le donne vivono è attraversato da disuguaglianze di genere, dove si riproducono ruoli tradizionali e squilibri di potere che limitano l’autonomia delle donne. A casa per esempio: il 74% delle donne si occupa da sola dei lavori domestici, contro il 40% degli uomini, con divari ancora più ampi tra le generazioni più anziane (80% delle Boomer e 83% delle donne della Gen X). Anche nella genitorialità il carico resta sbilanciato: il 41% delle madri si occupa da sola dei figli e delle figlie, contro appena il 10% dei padri. Se si esce dalla propria sfera privata si sperimenta che gli spazi pubblici sono “a misura d’uomo”, le città sono meno accessibili e sicure per le donne: il 52% delle donne ha provato paura negli spazi pubblici (contro il 35% degli uomini), una quota che sale al 79% tra le più giovani e resta alta anche tra le Boomers (55%). L’uso dei mezzi pubblici per le donne spesso significa “mobilità della cura”: alta frequenza, con spostamenti più brevi e frammentati legati al lavoro, alla cura e alla gestione familiare. Questo modello, le espone a maggiori disagi e insicurezze: il 38% delle persone ha avuto paura almeno una volta di viaggiare sui mezzi pubblici, ma tra le giovani donne della Gen Z il dato sale al 65,5%. Solo il 13% ritiene i mezzi sempre sicuri, mentre il 40% pensa che una donna sia al sicuro solo di giorno e un quarto solo se accompagnata. Quando si passa a confrontarsi con il mondo della cultura e i suoi prodotti come film, serie tv, spettacoli dal vivo si comprendono gli stereotipi che ne sono alla base: il 55% delle donne si è sentita svalutata nei contenuti culturali, questa percezione sale al 70% tra le giovani donne della Gen Z. Anche online quattro donne su dieci (40%) dichiarano infatti di aver avuto “spesso” o “a volte” timore di ricevere reazioni sessiste ai propri contenuti online. La paura è più alta tra le ragazze della Gen Z (59,3%), mentre scende al 29,1% tra le Boomer. Le più giovani, più presenti nei social, sono più esposte sia agli attacchi sia alla consapevolezza del sessismo digitale.
Politiche di uguaglianza e prevenzione: la svolta che non c’è.
Le scelte del governo, finora, non hanno segnato alcuna svolta. Sebbene l’applicazione del gender mainstreaming – la prospettiva di genere trasversale a ogni politica – sia indicata come una delle priorità trasversali della Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, questo principio non è mai stato attuato. Il PNRR avrebbe dovuto rappresentare un’occasione concreta per integrare la prospettiva di genere in tutte le politiche pubbliche, inclusa la mobilità, ma ciò non è avvenuto. Infatti, quest’anno l’European Institute for Gender Equality (EIGE) evidenzia come in Italia i meccanismi istituzionali messi in atto dagli organismi nazionali incaricati di attuare e promuovere le politiche di uguaglianza di genere e d’integrazione della prospettiva di genere non siano efficaci. Questi procedimenti ottengono nel 2025 un punteggio del 41.1 %, inferiore alla media dell’Unione europea che è del 50.8%. La Spagna invece ha totalizzato 86,2% di efficacia. Per questo ActionAid ribadisce che la responsabilità di trasformare le parole in politiche concrete riguarda tutto il Governo e il Parlamento – nessuno escluso. Le tappe necessarie sono: 1) applicare la prospettiva di genere in tutte le politiche pubbliche; 2) mettere in campo un piano strategico e operativo ad hoc sulla prevenzione primaria, con risorse certe e obiettivi misurabili. Un primo impegno che ActionAid chiede al Governo è quello di agire subito vincolando almeno il 40% dei fondi dell’attuale Piano nazionale antiviolenza alla prevenzione primaria. Questo permetterebbe all’Italia di avvicinarsi a proprio a paesi come la Spagna, dove oltre il 50% dei fondi è destinato ad azioni che promuovono l’uguaglianza di genere, con risultati tangibili: dal 2003 al 2024 i femminicidi sono diminuiti di oltre il 30% e lo scorso anno si è registrato il numero più basso di donne uccise da quando esistono dati ufficiali.
ActionAid, come si realizza la prevenzione.
ActionAid è impegnata in Italia per affrontare le cause strutturali e culturali della violenza maschile contro le donne. L’organizzazione coinvolge scuole, servizi sociali e sanitari, istituzioni locali e nazionali, comunità, media, imprese, associazioni di categoria e organizzazioni della società civile, creando alleanze concrete per il cambiamento. Con gli interventi europei Nora against GBV e The Care, ActionAid supporta 30 progetti di prevenzione primaria in tutto il Paese, tra cui campagne di sensibilizzazione comunitaria su stereotipi e violenza; linee guida per un linguaggio inclusivo e non sessista nei media; monitoraggio delle politiche; creazione di spazi pubblici e comunitari sicuri per donne, ragazze e ragazzi. Nel solo ultimo anno, oltre 800 studenti, 130 docenti e 75 genitori hanno partecipato a formazione e coprogettazione territoriale. Più di 1.500 dirigenti scolastici, insegnanti, educatrici e educatori hanno seguito il corso “Youth for Love. Prevenire e contrastare la violenza tra pari e di genere a partire dalla scuola”, mentre 60 istituzioni e associazioni sono dentro le attività di advocacy. La ricerca sull’affettività e la percezione della violenza lanciata insieme a Sylla/Webooh, ha coinvolto 15.000 adolescenti e 1.000 adulti. Per prevenire pratiche lesive come le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci o forzati, dal 2018 ad oggi, ActionAid ha raggiunto oltre 2.200 persone appartenenti alle comunità straniere colpite con azioni di sensibilizzazione ed empowerment. Da anni l’organizzazione porta avanti un lavoro di analisi e advocacy, con l’obiettivo di migliorare le politiche pubbliche di prevenzione e contrasto della violenza.
Scarica il Report – INFOGRAFICHE DEI DATI
da la Repubblica
Ricordo la sagoma di Patti in un café vicino casa sua, di profilo. I capelli avvolti nel vapore di una tazza bianca tenuta in mano come un talismano. Ero incerto se interrompere quel momento magico e vuoto. Che cosa desidera «uno scrittore in un caffè alle prime ore del mattino, nel salone vuoto di un albergo, o quando scrive su un taccuino nel banco di una cattedrale silenziosa»? È la domanda di Patti Smith sulla soglia dei suoi ottant’anni. Ed era quello che mi ero chiesto quando l’ho incontrata per colazione nel café. La risposta l’ho trovata ora, leggendo il suo libro autobiografico Il pane degli angeli (Bompiani). Ecco cosa cerca: «un improvviso raggio di luce che contiene la vibrazione di un preciso momento». Da bambina – Patti racconta – ha «spaccato sassi alla ricerca dei loro cuori segreti». Rompere la materia per vedere la luce che vi è imprigionata è gesto da mistico allo stato selvaggio, come lo è stato il suo amatissimo Arthur Rimbaud.
Panis angelicus è un verso di san Tommaso d’Aquino che celebra il pane spezzato dell’Eucarestia come pane degli angeli che diventa pane degli uomini (fit panis hominum), fatti di carne e ossa. Infatti, la scrittura di Patti non evapora né è lussuosamente rarefatta e metafisica. Al contrario, è gesto fisico e ritmo cardiaco: «La penna graffia sulla pagina gobba ribelle gobba ribelle gobba ribelle». Il linguaggio si muove come una partitura musicale – pieno di ripetizioni, ritorni, risonanze – fino a far pensare alla pittura di Pollock o ai sax di Coltrane. È insieme infantile e sapiente. In certi momenti sembra che scriva una bambina che ha letto Virginia Woolf, in altri un’anziana mistica che ha conservato lo stupore dell’infanzia, che per lei è uno stato permanente dell’anima.
Patti non ricostruisce la sua vita, ma la fa risorgere. Ogni cosa – il pianoforte perduto della nonna, il divano verde che diventa arca familiare, il piccolo braccio staccato di una bambola, i “rifiuti scintillanti” recuperati dai bidoni della spazzatura – è il mistero che gli angeli servono alla tavola della sua immaginazione: «una goccia d’acqua esplode come un’equazione», e la caduta del suo pupazzo di Bugs Bunny diventa quella di «una nave vichinga precipitata oltre il bordo del mondo». La realtà è abitata da presenze. Giunge a percepire che «Dio sussurra da una piega della carta da parati». I confetti coloratissimi M&M’s, rossi, gialli e verdi diventano «rubini, topazi e smeraldi illuminati rivelati da un raggio di sole».
Il pane degli angeli è un atto di resistenza contro la cultura della dimenticanza. La memoria, qui, non è archivio ma organismo vivente: Patti la riporta al corpo, alla materia pulsante del vivere. In un’epoca in cui tutto viene archiviato in server digitali, lei afferma che ricordare è un atto fisico, che per questo è spirituale. Come quando descrive l’incontro con la tartaruga azzannatrice, che le appare come una divinità antica: l’incontro è un’esperienza teofanica. Suo padre diventa il discepolo che tace davanti al mistero. Come parlarne alla madre? «Le dirò che stavi sognando a occhi aperti…», dice alla figlia. È una delle scene più belle del libro.
«Cercavo il proibito», scrive. Non si tratta del proibito morale, ma di ciò che è impari, strano, eccedente, eccellente: accendere da bambina una sigaretta per «produrre una graziosa fiamma» da un accendino d’argento e bruciarsi le dita. E così il gusto per la trasgressione la spingeva a esplorare il mondo come dentro un perimetro mistico privo di qualsivoglia «riferimento cartografico». Quando le si chiedeva: «dove sei stata?» non poteva che rispondere «da nessuna parte, perché sarebbe stato impossibile da spiegare».
«Cos’è l’anima? Di che colore è?», chiede Patti bambina, che tempestava la madre di «interminabili domande metafisiche su Gesù, gli angeli e i meccanismi dei corpi celesti». Lei appartiene a quella stirpe di mistiche senza convento che attraversa la letteratura americana da Emily Dickinson – la wayward nun – a Flannery O’Connor – la hillbilly thomist.
Patti racconta il padre, la madre, i fratelli, i traslochi infiniti. Nel cuore del racconto, la malattia infantile e la febbre diventano esperienze di trance. Il corpo malato è quello di «un’infanzia proustiana, fatta di quarantene e convalescenze intermittenti». Patti osserva sé stessa a letto, la madre che le rinfresca la fronte, la siringa che luccica come un talismano. Quando racconta della febbre, delle cure improvvisate con infusi di tarassaco e aceto di mele, la bambina scopre che la sofferenza le apre un varco verso la realtà invisibile. Ma coincide con quella capacità di visione che le fa capire perfettamente la differenza tra le immagini di un catalogo di vendita per corrispondenza e quelle di Vogue e Harper’s Bazaar. O che le fa amare perdutamente Puccini. Scopre così l’arte.
La madre, figura centrale, è una madonna proletaria: fuma, lavora, non si arrende mai. È lei che le regala Silver Pennies, un piccolo libro di poesie che diventa per Patti un testo “sacro”. È un’iniziazione alla parola poetica: ogni poesia è una moneta d’argento, una chiave che apre il mondo invisibile.
Da quel momento la vita della bambina diventa la ricerca del penny perduto. Non importa la corrispondenza oggettiva tra parola e fatto: «mia madre ha scritto che ero incline alle bugie», ricorda. Ma non si tratta di falsità: è la nascita della poesia, la scoperta che la parola può creare realtà: «se la verità non mi interessava, presentavo una realtà alternativa».
Il libro è pervaso da un senso sacro di fedeltà alle persone. Tutti i ritratti – da quelli di familiari e amiche a quelli degli artisti della sua generazione (Dylan, Ginsberg, Burroughs, Springsteen…) – sono epifanici. Lo è quello del marito Fred. Con lui sperimenta che l’amore è un mistero «che ci allontana da tutto ciò che conosciamo». Negli altri amatissimi è sopraffatta dalla loro straziante dualità, l’impossibilità di una definizione netta: il fratello Toddy, Robert Mapplethorpe… ma anche scoprendo in sé stessa il «maschiaccio che disprezzava le cose femminili, ma che segretamente aveva desiderato un abito da Prima Comunione e un velo». Alla fine del libro scopriamo un capovolgimento che riguarda le sue origini, una scoperta che però non altera il senso profondo dei legami.
«Il mio prossimo libro è la storia della mia vocazione come artista – mi aveva detto Patti a colazione nel café, anticipandomi Il pane degli angeli. – A volte mi chiedo se abbia senso, mentre la gente soffre nel mondo, stare seduta otto ore al giorno a scrivere. Ma questa è la mia responsabilità ora, la mia possibilità: la poesia». La sua è una consegna profetica: scrivere come gesto di responsabilità verso chi verrà dopo. Il libro trasuda di consapevolezza storica e politica dei tempi vissuti, consapevole però del fatto che le sue preghiere da bambina sono state in grado di sconvolgere «l’ecosistema del destino».
da La Stampa
Ci sono libri spartiacque nel pensiero femminista, e altri libri che travalicano pure il femminismo per marcare un prima e un dopo che investono l’intera società: un urto epocale fu a metà del Novecento Il secondo sesso della filosofa e scrittrice Simone de Beauvoir. Oggi la casa editrice Il Saggiatore lo ripropone in una nuova edizione dall’estetica essenziale, con una traduzione rivista (aggiornata, tengono a far sapere gli editori, secondo le nuove terminologie di genere) e un apparato fotografico che ripercorre la storia delle sue edizioni italiane. Il secondo sesso è un volume molto amato, molto citato, un passaggio obbligato per le donne che si interrogano su loro stesse e sulla loro condizione. La prima edizione italiana è del 1961, otto anni dopo quella inglese e dodici dopo l’originale francese uscito per Gallimard.
Da allora, generazioni di ragazze hanno cominciato a sentirsi meno sole nello scoprire che entrare nell’età adulta significa entrare in un mondo creato dai maschi per i maschi. Simone de Beauvoir è stata la prima intellettuale ad articolare questa verità su larga scala: «La storia ci ha mostrato che gli uomini hanno sempre detenuto i poteri concreti; dai primi tempi del patriarcato hanno giudicato conveniente tenere la donna in stato di dipendenza; i loro codici si sono formati contro di lei; e in tal modo, la donna fu posta concretamente come l’Altro. Questa condizione serviva gli interessi economici dei maschi; e conveniva inoltre alle loro presunzioni ontologiche e morali».
Con queste righe nasce il femminismo moderno, quando Beauvoir fa coincidere l’ingresso consapevole delle donne nel mondo con la presa di coscienza della condizione di subalternità cui sono state storicamente confinate. Con il migliaio di pagine di questo tomo imprescindibile, le femministe si confrontano come si fa con un testo sacro: amandolo, odiandolo, attualizzandolo, scovandone i limiti, attraversandolo fino quasi a sbarazzarsene salvo scoprire che la sua forza rimane sempre intatta. Sul Secondo sesso ci sono stati dibattiti che a volte hanno dichiarato inaccettabili e archiviati alcuni esiti di quella che resta la prima, grandiosa disamina della condizione femminile nella storia. Il lesbismo, la maternità e la biologia risentono senz’altro della visione personale di Beauvoir, della sua vicenda biografica e dei legami con il suo tempo, eppure l’aver posto certe questioni senza pudore e con profondità storica mantiene attuali le domande, al di là delle risposte. Così Il secondo sesso invecchia senza smettere di regnare, come una regina con la quale si può continuare a litigare tra sé e sé, o tra sé e le altre, perché continua a indicare un giro, una svolta. L’unico peccato che si può commettere non è saccheggiarlo o contestarlo, ma citarlo senza averlo letto, eppure accade: certe frasi sono così sintetiche e geniali da avere scavalcato la mole del contesto in cui nascono. Accade soprattutto con l’abusatissima «donne non si nasce, lo si diventa»: qui Beauvoir sta distinguendo tra nascere femmina, femelle, e assumere su di sé gli aspetti sociali e culturali che comporta, quindi trasformarsi, agli occhi del mondo, in femme. È un assunto denso di ambiguità, venato di tristezza e rabbia. Soprattutto gioca con un’altra intuizione: «geni non si nasce, lo si diventa, e finora la condizione femminile lo ha reso impossibile». Tuttavia, curiosamente, la frase viene spesso usata come slogan di una autopercezione trasformativa positiva e leggera.
Il punto del libro, però, continua a stare qui: come possono le donne riguadagnarsi il piacere di essere nate in un corpo femminile del quale nulla più devono mortificare o sottomettere, senza ignorare la biologia ma anche senza far sì che questa sia strumentalizzata a loro sfavore? Come potranno liberarsi degli abiti che le marchiano per dedicarsi solo alla meravigliosa avventura di essere loro stesse? È un’ambiguità che Il secondo sesso scopre per la prima volta con una chiarezza inedita e dirompente, ma che non riesce a sciogliere. L’unica risposta, sembra suggerire la storia femminista seguita al libro, è esperienziale, cioè plurale. A questo tema si lega la questione della maternità, che Beauvoir vede sotto il profilo minaccioso della strumentalizzazione patriarcale, non riconoscendo valore e sapere all’esperienza del corpo gravido (per quello bisognerà aspettare il 1976 e un altro testo magnifico, Nato di donna di Adrienne Rich). Il narcisismo che de Beauvoir imputa alle madri viene poi esteso alle donne che amano altre donne, in passaggi decisamente discutibili: «In ogni amore – amore sessuale o amore materno – c’è sia avarizia sia generosità, desiderio di possedere l’altro e di dargli tutto; ma la madre e la lesbica si incontrano in modo singolare nella misura in cui tutte e due sono narcisiste, carezzando nella figlia, nell’amante, il proprio prolungamento o il proprio riflesso».
Eppure, anche quando lo sguardo di Simone de Beauvoir sembra discostarsi da quello contemporaneo, o può rivelarsi lontano dalle nostre sensibilità individuali, è impossibile dimenticare che dallo straordinario lavoro, filosofico, teorico, storico, che ha fatto con questo libro siamo nate tutte. Siamo nate da un’opera che inizia mettendo alla berlina Pitagora, con in esergo la citazione «C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna». Così Beauvoir ci avvisa che siamo nate dal lato sbagliato, cioè da quello giusto. Che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, un mondo che ci vorrebbe nelle tenebre, e tuttavia che possiamo riorganizzarci attraverso un caos destabilizzante e fecondo. Che possiamo, con un percorso accidentato e doloroso, attraverso la parola, il dubbio, la contestazione e la conoscenza, riprenderci il dialogo su chi siamo e riappropriarci di noi.
Il libro di Luisa Cetti, Storie di anime ribelli, è stato pubblicato con la casa editrice Viella, specializzata in storia, arte, filosofia, storia di donne e di genere, ma non è una ricerca accademica. Viceversa si tratta di una coinvolgente narrazione di quattro storie (quelle di Ada Clare, Marie Howland, la Hutchinson Family, Robert Dale Owen) sullo sfondo delle grandi battaglie dell’epoca: l’abolizione della schiavitù, la lotta per il voto alle donne, per il divorzio, le sperimentazioni utopistiche, le relazioni di amicizia fra donne indipendenti.Luisa Cetti amava la ricerca storica, come dimostrano i suoi libri (solo per ricordarne alcuni, Il giro del mondo in 72 giorni di Nellie Bly e Un falansterio a New York); aveva una passione particolare per la ricerca di archivio, come si evince dalle note che arricchiscono le storie narrate che rimandano ad altre pubblicazioni con riferimenti a testi non tradotti e poco conosciuti. Questo accresce in chi legge il desiderio di saperne di più. Anch’io amo la ricerca e la memoria, che considero una pratica politica. Durante la lettura di questo libro la prima domanda che mi sono posta era sapere da dove nasceva la sua passione per la storia, saper di più delle sue personali motivazioni. In sostanza avrei voluto conoscerla meglio e chiederle perché non avesse mai pensato di scrivere la propria storia.
Forse una possibile risposta rivelatrice è contenuta nella prefazione dal titolo “La mia storia americana”, dal carattere esplicitamente autobiografico. Così come trovo molto forte quanto scrive delle vite di Marie Howland e Ada Clare, che secondo lei sono state ispirate da un radicalismo costruttivo.
«Marie esprime una coscienza anticipatrice, il desiderio di un mondo che sappia accogliere le donne e la libertà di scelte individuali e offra a chi lavora condizioni migliori, mentre Ada traccia un percorso di vita che all’epoca è giudicato inaccettabile e scandaloso. Compie scelte coraggiose e le pagine scritte testimoniano una vita intellettuale e uno sguardo tagliente sulla cultura del tempo […] circondata da un cerchio di amicizie newyorchesi. prima che la guerra civile cambi le carte in tavola…»
Possiamo conoscere Luisa attraverso le protagoniste e i protagonisti delle storie che lei ha scelto di raccontarci, le storie e le vite di Ada Clare, attrice, giornalista e scrittrice, e di Marie Howland, scrittrice e organizzatrice di esperimenti utopici, due donne in stretta relazione di amicizia, della band musicale di una famiglia, gli Hutchinson, e del riformatore sociale Robert Dale Owen, sostenitore dello spiritismo. Ho apprezzato molto la forma divulgativa che Luisa ha adottato e la modalità del suo indagare. La sua soggettività entra in dialogo con le figure della ricerca cosicché ne consegue uno spostamento che rende partecipe la lettrice e il lettore della storia narrata e scatta quel circolo virtuoso che ne fa una ricerca non neutra, non accademica. Come ha detto la storica medievalista María Milagros Rivera Garretas al convegno “Come quando si accende una luce” sul pensiero di Luisa Muraro: «Non sono gli archivi ad essere sessuati ma chi li frequenta».
La lettura di questo libro mi ha fatto ripensare con piacere alla mia storia perché in passato ho amato e studiato i movimenti utopisti, il socialismo utopista di Charles Fourier e Saint-Simon e le utopiste, le sansimoniane, scoperte non tanto tempo fa grazie al femminismo della differenza e agli studi di una storica francese, Christiane Veauvy.
Il canto libero degli Hutchinson.
Siamonegli anni tra il 1840 e il 1860.I tempi buoni stanno arrivando, un brano musicale intonato spesso nei convegni riformisti dalla Hutchinson Family, tre fratelli e una sorella, una sorta di inno universale: «Tempi buoni stanno arrivando / odiose rivalità di fede / non spargeranno più il sangue dei martiri / […] la guerra sarà agli occhi di tutti / un mostro d’iniquità / […] aspetta ancora un po’». La canzone dà voce a un elemento costante dell’utopia riformista, da una generazione all’altra, da un secolo all’altro. Ad oltre un secolo di distanza la mente va alla canzone di Bob Dylan del 1964.
L’utopia realizzata: il Familisterio
Nel libro troviamo riferimenti al Falansterio di Jean-Baptiste André Godin a Guise, nel nord della Francia in Piccardia, cui si ispira Marie Howland per fondarne uno in Messico e per scrivere nel 1885 un libro dal titolo Familistère. L’ultima ristampa è del 1975. Si trasferisce a New York dal New England rurale e frequenta i caffè e le birrerie della bohème del momento ed è lì che conosce Ada Clare, attrice e giornalista, proveniente dal Sud.
Un’amicizia newyorchese, così Luisa Cetti nomina la loro relazione
«Vivace e intelligente e molto bella è la Regina dei bohémiens nella cantina di Pfaff’s. […] In tempi in cui la presenza di una signora in un locale pubblico è giudicata un evento abominevole […] Molto pesa la sua condizione di madre nubile di cui non fa mistero».
Ada Clare e Marie posseggono lo stesso spirito avventuroso, la stessa determinazione a seguire i loro interessi e a esplorare le opportunità che New Yorkoffre e sono pronte a varcare i “confini non marcati” normalmente preclusi alle donne, all’epoca. La loro relazione si approfondisce e si consolida quando Marie e il marito Edward lasciano New Yorke si trasferiscono nel New Jersey. Ada è ospite fissa della casa durante le vacanze estive e suo figlio Aubrey passa lunghi periodi con gli Howland, amici fidati che si occupano di lui mentre la madre è in tournée da una città all’altra. A San Francisco scrive recensioni e critiche teatrali per il Golden Era, che loda la sua scrittura «brillante, elegantemente filosofica» e apprezza la sua penna caustica. Nel 1866 termina un romanzo in parte autobiografico dal titolo Solo un cuore di donna.
Nel 1871 Marie comincia a collaborare con un settimanale locale. Alla fine della guerra civile il movimento abolizionista sceglie come prioritaria la battaglia per il voto agli schiavi appena liberati e il prezzo da pagare è il suffragio femminile, prima sacrificato dagli abolizionisti poi messo in secondo ordine dal movimento operaio e socialista negli anni successivi. Le suffragiste si dividono sulle scelte strategiche: da un lato la National Woman Suffrage Association, guidata da Elisabeth Cady Stanton e Susan B. Anthony(quest’ultima femminista molto nota perché Gertrude Stein scrive un’opera teatrale su di lei dal titolo emblematico La madre di tutte noi), crede in un lavoro nazionale e punta alla revisione della Costituzione e a ottenere leggi radicali sul divorzio e sul salario; dall’altro la American Suffrage Association, nata a Boston, concentra la sua battaglia esclusivamente sul diritto al voto.
Topolobampo, un’utopia messicana
L’idea del Familisterio ha una certa presa su un pubblico di riformatori e idealisti e si rinnova nel progetto di creare una comunità su basi cooperative a Topolobampo in Messico. Marie ne è entusiasta e scrive un piano di azione in cui invita a «puntare sulla evoluzione e non sulla rivoluzione». Le ottimistiche previsioni sono superate dai fatti, nascono club intitolati alla società e i membri cominciano a vendere le loro case, fattorie, carri, attrezzi di lavoro e attività commerciali per trasferirsi nella nuova Utopia di Sinaloa. Arrivano anche da altri paesi, immigrati francesi, irlandesi, scandinavi, russi attratti dalla prospettiva di sfuggire alle loro difficoltà economiche per inserirsi in una comunità in cui regna un clima di armonia socialista. Gli Howland stessi vendono la loro casa in cui hanno vissuto per vent’anni e nel 1888 si trasferiscono a Topolobampo affrontando un viaggio lungo e faticoso. Marie è consapevole che la realizzazione del progetto cooperativo, creare dal nulla una città e un’economia su basi cooperative, è ancora lontana e che la colonia è dilaniata dai conflitti interni. La comunità si divide in due fazioni, i Santi schierati a favore del progetto originario e contro ogni forma di proprietà privata e i Ribelli che puntano sulla libera iniziativa individuale e il guadagno personale. Nell’autunno del 1893 Marie lascia Topolobampo e non vi farà più ritorno. L’anno successivo in una lunga intervista, dal titolo La colonia di Topolobampo non è un successo, ripercorre l’esperienza ed evidenzia retrospettivamente i limiti dell’esperimento.
Alla fine del secolo l’America è attraversata da grandi crisi economiche e grandi scioperi nazionali per le otto ore e durissime battaglie sindacali. In quegli anni tumultuosi Marie partecipa alla vita politica e nel 1898 è nelle liste del Social labour party di Kansas City. In un’intervista confessa d’aver «perduto tutto – casa, marito e quel poco di fortuna che avevo – ma continuo a sperare nel successo dell’idea di cooperazione».
La comunità di Fairhope sarà l’ultima tappa del suo viaggio tra le utopie
Marie si stabilità nella comunità di Fairhope (‘giusta speranza’) nella Baia di Mobile in Alabama nel 1899. La Fairhope Single Tax Colony nasce con l’obiettivo di mettere in pratica le teorie dell’economista e giornalista Henry George: combattere la speculazione dei proprietari terrieri come grande male dell’epoca, fonte di povertà e ineguaglianza nella società. Sostiene che la terra debba essere proprietà di tutti, a disposizione di chi la usa e non di chi ne trae una rendita. La soluzione alla dilagante speculazione fondiaria è la cosiddetta single tax. Animati da grande idealismo ma non sprovvisti di senso comune, i fondatori si considerano idealisti pratici.Il contributo di Marie Howland alla comunità è la creazione di una biblioteca. Nel catalogo inserirà una copia del libro dell’amica Ada Clare. Marie ricopre il ruolo di bibliotecaria dall’apertura nel maggio del 1900 fino al 1917. Crea anche un club letterario dove le socie e i soci a turno presentano libri che hanno letto. Una delle colone che collabora alla vita della biblioteca, Laura Allen, riconosce a Marie il merito di essere stata per lei «come una formazione universitaria».
Marie si dichiara molto soddisfatta della sua scelta di installarsi a Fairhope, «il solo posto dove posso costruire e possedere una casa senza comprare il terreno». La comunità attira artisti, intellettuali, scrittori, educatrici che fondano scuole innovative, il noto pedagogo John Dewey, lo scrittore Upton Sinclair. Nata come comunità modello che crede nell’uguaglianza universale, Fairhope è un’utopia per bianchi e tra i suoi coloni non accoglie persone di colore. A fine Ottocento in Alabama i neri rappresentano oltre il 44% della popolazione e come negli altri Stati del Sud subiscono violenze, intimidazioni, omicidi e linciaggi del Ku Klux Klan e di altri gruppi armati. Siamo di fronte ad una tragica contraddizione aperta. L’autrice, Luisa, qui ne racconta un episodio emblematico, che si verifica proprio all’inizio del progetto e riguarda Nancy Lewis e la sua famiglia, ex schiavi provenienti dal Mississippi che abitavano su uno dei terreni poi rilevati dai coloni bianchi. Marie s’interroga su questa contraddizione ed entra in relazione con Nancy.
Marie muore nel settembre del 1921 a ottantacinque anni.Alla sua cerimonia funebre chiede che sia cantato un inno che riassume la sua vita attiva e ricca di interessi, un lungo cammino dal mondo rurale del New Hampshire, attraverso la povertà e il duro lavoro in fabbrica, poi lo studio, la formazione professionale, la crescita culturale e l’impegno militante, in particolare verso le donne.
Ecco le parole dell’inno: Solo ricordàti per ciò che abbiamo fatto, solo le verità che abbiamo detto, solo il seme che abbiamo piantato nella terra. Questo resterà quando saremo dimenticati, frutti del raccolto e di ciò che abbiamo fatto.
da Internazionale Kids
L’esperienza di una scuola tedesca che ha vietato l’uso degli smartphone. Articolo uscito in Germania sulla rivista Dein Spiegel con il titolo Die Sache mit der smartphone [‘La questione dello smartphone’]
Divieto o libertà?
Niente smartphone, neanche a ricreazione: è la nuova regola in alcune scuole tedesche (e in tutte quelle italiane). È una buona idea? Vediamo cosa ne pensano studenti e professori.
“Per favore, lasciatelo qui”, dice Katrin Kampovsky ai suoi studenti. Gli allievi della 7B (che in Italia corrisponde alla seconda media) sanno già di cosa parla e uno dopo l’altro depositano lo smartphone in un armadietto accanto alla lavagna. Nessuno protesta.
Consegnare il telefono è ormai una routine alla Max-Tau Schule di Kiel, in Germania. Quando tutti gli apparecchi sono dentro, si chiude lo sportello a chiave. I telefoni restano fuori gioco fino alla fine delle lezioni. Solo allora la professoressa Kampovsky riapre l’armadietto e li restituisce a ragazze e ragazzi.
Dall’ottobre 2024 in questa scuola elementare e media sono vietati telefoni cellulari. La regola si sta diffondendo in altri istituti della Germania: niente Instagram durante le pause, niente WhatsApp di nascosto sotto il banco. Semplicemente, niente smartphone a scuola. «I telefoni vengono raccolti prima delle lezioni e riconsegnati solo quando ragazze e ragazzi tornano a casa», spiega l’insegnante.
Che cosa pensano gli allievi di questo divieto? «Mi sembra molto meglio senza telefoni. Prima, durante le lezioni c’era sempre qualcuno che scattava foto di nascosto e mi dava fastidio», dice Mina, tredici anni. Il compagno di classe Mustafa è d’accordo: «Succedeva anche nelle pause. Qualcuno inquadrava un compagno con la fotocamera, trasformava l’immagine in uno sticker e lo inviava agli altri. Sono contento che ora non succeda più. L’atmosfera è più rilassata»
Tornare a parlarsi
«Nelle pause eravamo sempre con il telefono in mano. Ora siamo tornati a fare due passi e a chiacchierare», dice Mina. Poi aggiunge il motivo più citato anche dagli adulti a favore del divieto: «A scuola bisogna concentrarsi sulle lezioni, i telefoni sono solo una distrazione».
Rem, quattordici anni, ammette: «All’inizio mi è pesato molto rinunciare al telefono. A dire la verità non vedo l’ora di riprenderlo a fine lezione. Controllo subito WhatsApp, Instagram e TikTok».
Il racconto di Rem è emblematico dei problemi della generazione digitale: con tante funzioni divertenti è facile perdere il controllo e restare davanti allo schermo per ore. Ma non fa bene. Distrae, modifica il cervello e anche i rapporti con le persone nel mondo reale. Le relazioni sociali peggiorano quando guardare un piccolo schermo diventa più normale che guardarsi negli occhi. Il cambiamento a scuola è avvenuto gradualmente, racconta Katrin Kampovsky: «Quando solo pochi studenti avevano uno smartphone non c’erano problemi, ma negli ultimi anni tutto è cambiato. Oggi esistono molte piattaforme e giochi pensati solo per i giovani. E tutti hanno un telefono».
Decisione collettiva
Alla Max-Tau l’uso degli smartphone non era libero neanche prima del divieto. C’erano regole, come in tutte le scuole: in teoria i telefoni dovevano restare spenti, in tasca o nello zaino, ed essere usati solo a ricreazione. Ma quelle norme non sono mai state davvero rispettate. «Noi insegnanti perdevamo continuamente tempo a richiamare gli studenti e a invitarli a essere ragionevoli. Era stancante. Il divieto ha fatto chiarezza», racconta Kampovsky.
Anche se molte scuole lo apprezzano, in Germania il divieto non vale dappertutto. In altri paesi europei le regole sono più severe, per esempio nei Paesi Bassi, in Austria, Francia e Italia. La differenza dipende anche dall’organizzazione tedesca: le politiche scolastiche sono decise dai singoli Land della repubblica federale. Il ministro dell’istruzione bavarese, per esempio, può prendere decisioni diverse da quello sassone. E non è detto che direttive severe dei ministeri siano la soluzione migliore, sostiene Dieter Lange, preside della Max-Tau Schule.
«Nella nostra scuola abbiamo discusso per mesi prima di arrivare al divieto, anche con le ragazze e i ragazzi. È importante che possano dire la loro. Devono imparare a essere autocritici nell’uso del telefono, non limitarsi a obbedire alle regole imposte dai docenti», spiega. Nell’assemblea scolastica dello scorso autunno è stato deciso il divieto. I genitori hanno ricevuto una lettera con cui venivano informati della nuova regola. In tutte le classi sono stati predisposti armadietti per i telefoni. Ragazze e ragazzi possono comunque portarli a scuola: molti, per esempio, nel telefono hanno l’abbonamento dell’autobus.
«Mi ha sorpreso la rapidità con cui si sono abituati alla nuova regola. Ho l’impressione che in molti casi siano perfino contenti», afferma Lange. «Il divieto del telefono è anche libertà».
Quest’anno la Libreria delle donne di Milano compie cinquant’anni. Per me, che ho incontrato il pensiero della differenza sessuale alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, è un anniversario che tocca da vicino. Non solo perché riconosco l’importanza di ciò che la Libreria ha rappresentato, ma perché quel pensiero ha cambiato anche me, il mio modo di essere uomo, di pensare, di stare nelle relazioni.
Quando l’ho incontrato, non capivo bene perché mi riguardasse. Mi sembrava una cosa “per le donne”, e io restavo un po’ ai margini, curioso ma anche distaccato. Poi, poco a poco, mi sono accorto che il pensiero della differenza non parla “alle donne” ma dalla realtà delle donne, e proprio per questo riguarda tutti. Perché tocca il modo in cui ognuno di noi vive, desidera, parla, ama.
Dalla Libreria ho compreso la differenza tra emancipazione e liberazione, ho imparato che la libertà non è qualcosa che uno si conquista da solo, ma qualcosa che accade “tra”: tra chi si riconosce, tra chi si ascolta, tra chi si autorizza a parlare a partire da sé, ma anche grazie a un’altra o a un altro. La libertà, dunque, è un fatto di relazione e può accadere anche dentro una relazione attraversata dal conflitto, perché proprio lì il riconoscimento e l’ascolto diventano più evidenti.
La chiave della relazione come pratica politica radicale della Libreria mi ha mostrato che l’autorità non nasce dal potere, ma dallo sguardo di chi ti riconosce e ti rimanda la tua misura senza possederti. Per me, cresciuto in un mondo in cui “avere autorità” significava comandare o imporsi, è stata una rivelazione. Ho scoperto che si può stare nella parola non per vincere o convincere, ma per tenere aperto un legame. Da qui discende anche la politica, nel suo senso più profondo: fatta di legami veri, non di ruoli.
Con la Libreria ho incontrato un pensiero ancora più radicale: l’ordine simbolico della madre, secondo il quale la nostra cultura ha dimenticato la sua origine, ovvero la dipendenza da chi ci ha dato la vita e la parola, la madre. E che questo oblio ha reso il linguaggio e il pensiero poveri, perché si sono costruiti sulla rimozione del femminile, sull’illusione di un sapere che si genera da sé. Quando l’ho capito, mi si è aperto un nuovo punto di vista. Ho visto che anche il mio modo di pensare e parlare era pieno di questa dimenticanza: un pensiero e una parola che pretendono di essere universali, neutri, e invece cancellano la relazione da cui nascono.
Mi ha anche insegnato che la differenza è una via di conoscenza, non un ostacolo. Che la realtà si capisce meglio quando non la si domina, ma la si ascolta. E che la lingua materna – quella del corpo, dell’origine, dell’amore che precede ogni discorso – continua a parlarci, se abbiamo il coraggio di non sovrastarla.
Tutto questo, per me, si traduce in una pratica: imparare a fare spazio e a mettermi da parte. A non occupare tutto, a lasciare che altre parole e altri sguardi trovino posto. Non è facile, perché il maschile è stato educato a stare al centro, a parlare “al posto di”. Ma è un esercizio che libera. Ti fa scoprire che anche tu, come uomo, puoi esistere in un modo più vero, meno difensivo, più aperto.
La Libreria delle donne di Milano ha dato alle donne, in questi cinquant’anni, uno spazio simbolico di libertà e di parola. Ma quella libertà, se la si guarda bene, ha fatto bene anche a noi uomini. Ci ha mostrato che la differenza non è una minaccia, ma una possibilità di senso. Ci ha insegnato che l’altro non è un pericolo, ma una via d’accesso al reale.
Per questo, oggi, voglio dire grazie. Perché nel pensiero nato alla Libreria ho trovato un respiro più ampio, una misura del vivere più giusta. E perché, da uomo, continuo a credere che la libertà femminile non chiude, ma apre. A tutte e a tutti.
da Prisma
Nel panorama delle anteprime cinematografiche dedicate alla scienza (cui Prisma dedica sul cartaceo la rubrica “Cinema” a cura di Fabio Mantegazza), Mary Anning, chasseuse de fossiles [‘Mary Anning, cacciatrice di fossili’, Ndt], primo lungometraggio animato del regista svizzero Marcel Barelli, segna un momento speciale. Presentato in anteprima italiana durante il festival “Piccolo Grande Cinema” della Cineteca di Milano, grazie alla collaborazione con Wanted Cinema, il film è una coproduzione internazionale che coinvolge Svizzera, Belgio e Italia e si propone di restituire visibilità a una figura chiave della storia della paleontologia: Mary Anning.
Una storia vera, raccontata con poesia visiva
Ambientato nella prima metà dell’Ottocento, il film segue la giovane Mary, dodicenne curiosa e tenace, che esplora le coste inglesi alla ricerca di fossili. Spinta dal desiderio di decifrare un misterioso disegno lasciatole dal padre, Mary intraprende un viaggio che la porterà a scoprire il primo grande fossile di rettile marino della storia. Una scoperta che cambierà per sempre il modo in cui la scienza guarda al passato geologico della Terra.
Un’oretta assolutamente piacevole in cui si affrontano temi come la povertà, i pregiudizi di genere e l’influenza della chiesa sulla scienza, ma soprattutto resta impressa la determinazione di questa ragazzina e la sua curiosità, che la portano a non credere e ad opporsi a chi le diceva che doveva solo stare zitta.
Il suo desiderio di emancipazione e l’ostinazione nel non accettare idee preconcette – tra l’altro senza il fondamentale sostegno paterno e una buona rendita economica, come nel caso dell’istitutrice che aiuta Mary – sono visti come strani e da “prendere in giro”.
Chi era Mary Anning?
Nata il 21 maggio 1799 nella località costiera di Lyme Regis, in Inghilterra, Mary Anning apparteneva a una povera famiglia protestante e fu una delle più importanti raccoglitrici di fossili del XIX secolo.
Fin da piccola accompagnava il padre Richard, falegname, nelle lunghe passeggiate lungo le ripide scogliere di Lyme Regis dove raccoglievano fossili per venderli ai turisti. Dopo la morte di Richard, nel 1810, la famiglia si trovò a vivere di carità così Mary e suo fratello Joseph non ricevettero un’istruzione adeguata. I due ragazzi continuarono però l’attività che svolgevano col padre e nel 1811 scoprirono parte dello scheletro di un ittiosauro, un rettile marino preistorico.
Nel 1818 Mary attirò l’attenzione di un facoltoso collezionista di fossili di nome Thomas Birch, a cui vendette un altro scheletro completo di ittiosauro. Birch organizzò un’asta di fossili e i ricavi andarono alla famiglia Anning. Questo permise a Mary di guadagnare un minimo di notorietà nella comunità geologica e di potersi dedicare con maggior tranquillità economica alla ricerca di fossili. Molti scienziati però ignorarono totalmente i suoi contributi a questi ritrovamenti e la giovane fu relegata ai margini del mondo accademico. Nel 1823 trovò lo scheletro completo di un plesiosauro, suscitando l’interesse della comunità scientifica internazionale.
Nel 1826 Mary guadagnò abbastanza per comprare una casa con una vetrina per il suo negozio di fossili, che chiamò “Emporio di fossili Anning”. Poco dopo, nel 1828, trovò un magnifico esemplare di pterosauro, un rettile volante vissuto per quasi tutto il mesozoico. Scoprì poi altre specie di pesci estinte insieme al paleontologo William Buckland, uno dei pochi scienziati che avrebbe citato Mary come loro scopritrice, ma malgrado le sue numerose scoperte, la curiosità scientifica e la tenacia, fu sempre considerata un’intrusa dalla comunità scientifica. Contro di lei giocava la sua condizione di donna povera e di classe lavoratrice sebbene Mary sapesse di fossili più della maggior parte dei paleontologi maschi della sua epoca.
Con gli anni la salute di Mary peggiorò rapidamente e il suo lavoro rallentò e nel marzo 1847 morì di cancro al seno. Fortunatamente nel 2010 Mary Anning è stata riconosciuta dalla Royal Society come una delle dieci scienziate britanniche più influenti della storia. In occasione del suo duecentoventitreesimo anniversario di nascita, a Lymes Regis sarà oggi scoperta una statua in suo onore.
Scienza, storia e inclusione
Il regista Marcel Barelli prova a raccontare in questo film la storia di Mary Anning, in particolare la sua giovinezza, per sottolineare il coraggio e la determinazione di una bambina che, nonostante le barriere sociali e di genere, ha saputo imporsi come pioniera in un campo dominato dagli uomini. Il film è quindi un potente strumento educativo che invita a riflettere sul ruolo delle donne nella scienza e sulla necessità di riscoprire figure storiche dimenticate.
Mary Anning, chasseuse de fossiles si rivolge a un pubblico ampio: dagli appassionati di paleontologia agli educatori, dai giovani studenti (anche molto giovani) ai ricercatori. La sua forza sta nella capacità di coniugare rigore storico e accessibilità narrativa, offrendo una porta d’ingresso emozionante alla storia della scienza. La versione italiana, doppiata con attenzione, rende l’opera fruibile anche per le scuole e gli eventi divulgativi.
Da non perdere
La proiezione in anteprima italiana rappresenta un’occasione per chi crede nella scienza come racconto umano e inclusivo. Un film che celebra la curiosità, la resilienza e la passione per la conoscenza – valori che ogni comunità scientifica dovrebbe promuovere.
da Pagine Esteri

Alla fine di un tappeto rosso improvvisato, steso tra gli edifici distrutti nel centro di Deir Al-Balah, nella Striscia di Gaza, alcune decine di palestinesi erano seduti davanti a un grande schermo televisivo. Quando è iniziato il film, è calato il silenzio e i presenti hanno alternato momenti di concentrazione cupa a singhiozzi mentre guardavano le loro esperienze degli ultimi due anni riflesse sullo schermo per l’ora e mezza successiva. Il film era “The Voice of Hind Rajab” e la proiezione ha segnato l’apertura del primo Festival Internazionale del Cinema Femminile di Gaza.
«Ho pianto mentre guardavo il film», ha detto Nihal Hasanein, una delle partecipanti, alla rivista +972 Magazine dopo la proiezione del 26 ottobre. All’inizio di quest’anno ha perso tre dei suoi figli in un attacco aereo israeliano sulla sua casa a Beit Lahiya; ora vive nel campo di Al-Jazaeri a Deir Al-Balah, dove è stato proiettato il film. «Mi ha rievocato il dolore di aver perso tutti i miei figli in un colpo solo, insieme alla mia casa», ha detto Hasanein.
Diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, “The Voice of Hind Rajab” ricostruisce l’assassinio della piccola Hind Rajab, di cinque anni, e di sei membri della sua famiglia da parte dei soldati israeliani mentre tentavano di fuggire dalla città di Gaza in auto nel gennaio 2024. Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia a settembre, ha ricevuto il Gran Premio della Giuria e una standing ovation di 23 minuti da parte del pubblico. Successivamente ha vinto numerosi altri prestigiosi premi, diventando una delle opere arabe più acclamate dell’anno. La proiezione poco più a sud di Gaza, la città natale di Rajab, è stata la prima nel mondo arabo.
Il Festival Internazionale del Cinema delle Donne di Gaza è stato lanciato dal regista e ricercatore palestinese Ezzaldeen Shalh, ex presidente dell’Unione Internazionale del Cinema Arabo, in collaborazione con il Ministero della Cultura palestinese e istituzioni cinematografiche locali e internazionali. Secondo lui, il festival mira a presentare film prodotti, diretti o scritti da donne – in particolare in Palestina, ma anche in tutto il mondo arabo e oltre – che affrontano tematiche di donne.
L’edizione inaugurale, organizzata con lo slogan “Donne leggendarie durante il genocidio”, ha cercato di far luce sulle sofferenze delle donne palestinesi negli ultimi due anni e di ricostituire la vita culturale di Gaza. «C’era bisogno di una piattaforma artistica che rappresentasse le donne palestinesi e consentisse loro di raccontare le loro storie al mondo attraverso la loro lente», ha affermato Shalh.
Nel corso dei sei giorni dal 26 ottobre – che segna la Giornata Nazionale delle Donne Palestinesi e l’anniversario della prima Conferenza delle Donne Palestinesi del 1929 – al 31 ottobre, il festival ha presentato quasi ottanta film provenienti da oltre due dozzine di paesi del Medio Oriente, Nord Africa, Europa e Americhe. Le proiezioni hanno attirato oltre 500 spettatori, un numero che stride se paragonato alle cifre prebelliche, quando oltre 2.000 persone al giorno affollavano festival culturali simili a Gaza.
Oltre a Ben Hania, il festival inaugurale ha reso omaggio ad altre due donne il cui lavoro ha contribuito alla lotta popolare palestinese: la regista palestinese Khadijeh Habashneh e la defunta regista libanese Jocelyne Saab. La giuria comprendeva registi di spicco come Annemarie Jacir, la regista Céline Sciamma e l’attrice Jasmine Trinca.
Yusri Darwish, capo dell’Unione Generale dei Centri Culturali in Palestina, ha celebrato il festival come «una nuova affermazione che Gaza ama la vita nonostante il genocidio, che può trasformare le macerie in uno schermo e la tristezza in un messaggio di speranza».
Darwish ha sottolineato che tenere il festival in questo momento è «un tributo alle donne palestinesi che hanno sopportato gli orrori della guerra – dalla perdita e la detenzione allo sfollamento – e che meritano che le loro storie siano raccontate al mondo con onestà e giustizia».
Superare gli ostacoli
Secondo Shalh, la sfida più grande nell’organizzazione del festival è stata trovare una sede, poiché «tutte le strutture di questo tipo a Gaza sono state distrutte». Il team ha dovuto montare delle tende temporanee sullo sfondo di edifici parzialmente crollati; senza elettricità, hanno dovuto ricorrere a un generatore per proiettare i film. «Anche la comunicazione con i registi e la giuria è stata difficile», ha aggiunto.
Le condizioni a Gaza hanno reso impossibile la partecipazione a chi doveva percorrere lunghe distanze. Niveen Abu Shammala, una giornalista che prima della guerra viveva nel quartiere di Shuja’iya, nella parte orientale della città di Gaza, ma che ora è sfollata in una tenda nella parte occidentale della città, era solita occuparsi degli eventi culturali, in particolare sui festival cinematografici, in tutta la Striscia. Tuttavia, l’alto costo dei trasporti, oltre all’orario tardivo (il festival iniziava dopo le 15:30), le hanno impedito di partecipare a questo evento.
«Anche se la guerra è finita, fa ancora paura muoversi di notte», ha spiegato. «Mi sarebbe piaciuto vedere i film in concorso, ma è difficile scaricarli con una connessione internet così debole».
Nelly Al-Masri è riuscita a partecipare, guardando tutti e tre i film proiettati il secondo giorno del festival, che si è tenuto presso la sede del Sindacato dei giornalisti. È rimasta particolarmente colpita dal cortometraggio giordano “Hind Under Siege”, che parla anch’esso di Hind Rajab. «Questo film mi ha colpito profondamente», ha detto Al-Masri a +972. «Parla a nome di tutti i bambini di Gaza, non solo di Hind».
Al-Masri avrebbe voluto partecipare a più eventi del festival, ma i costi di trasporto, la continua difficoltà di procurarsi cibo e acqua potabile a sufficienza e la cura dei suoi figli lo hanno reso impossibile. «Molte donne stanno vivendo la stessa situazione», ha detto. «Speriamo che le condizioni a Gaza migliorino».
Hamsa Mahmoud, dieci anni, non sapeva nulla del festival prima dell’evento, ma ha finito per partecipare a diverse proiezioni dopo aver notato la folla che si radunava intorno alle tende vicino a dove vive. «È la prima volta che partecipo a un festival”, ha spiegato. “Sono felice di essere qui e ancora più felice di avere la possibilità di guardare qualcosa sullo schermo. Dall’inizio della guerra e delle interruzioni di corrente, non abbiamo potuto guardare nulla. Mi piacerebbe che ci fossero più festival come questo».
Un’altra partecipante, l’attivista comunitaria Faten Harb, vede il cinema come un mezzo importante per rafforzare la determinazione delle donne palestinesi a Gaza. «L’arte è un messaggio nobile e il modo più facile e semplice per raggiungere il mondo senza dire troppo», ha affermato.
«Il mondo è stanco di sentire notizie di uccisioni, distruzione e feriti», ha continuato Harb. «Ecco perché dobbiamo cercare altri modi per trasmettere la sofferenza della popolazione di Gaza. Abbiamo urgente bisogno di eventi come questo per far luce su ciò che è accaduto nella Striscia di Gaza durante la guerra genocida, soprattutto per le donne, che sono state le più colpite».
(*) Ibtisam Mahdi è una giornalista freelance di Gaza specializzata in reportage su questioni sociali, in particolare riguardanti donne e bambini. Collabora anche con organizzazioni femministe di Gaza nel campo del giornalismo e della comunicazione.
(Pagine Esteri, 13 novembre 2025, da +972 Magazine. Traduzione di Federica Riccardi)
da Rivista Studio
Quando il filone del parenting sembrava ormai completamente spolpato e esaurito, arriva Amanda Hess, giornalista del New York Times esperta in cultura digitale, con un libro, Un’altra vita (Einaudi), pieno di idee e pieno di vita sul diventare genitori in un mondo mediato dalla tecnica, dalle app e dai social network.
Il rapporto della futura mamma Hess con il Panopticon di internet inizia già prima della gravidanza, quando un’app di controllo del ciclo, che poi si scopre essere stata sviluppata da un gruppo di informatici maschi, inizia a soffiarle nell’orecchio a proposito di finestre di fertilità e concepimento programmato: proprio a lei, che sul Nyt scriveva fieramente della scelta di non avere figli, e che alla fine si fa fregare da quel subdolo condizionamento. Una volta incinta, è il test del Dna fetale, una tecnologia che è ormai un must tra le gravide del suo ceto sociale, a farle scoprire che forse aspetta un bambino con una rara malattia genetica, possibilmente causata dagli ansiolitici di cui faceva uso per intervistare maschi stronzi del jet set. La diagnosi la fa entrare in un loop di ansia e senso di colpa, che dopo la nascita di un bambino con sindrome di Beckwitth-Wiedeman, verranno opportunamente gestiti da un corollario di dispositivi – non solo medici, come la macchina dell’ossigeno – ma anche commerciali, o come dicono certi utenti sciccosi. C’è Snoo, la culla collegata a un’app che dondola da sola e manda direttamente nel lettone dei genitori un grafico azzurro o rosso a seconda della qualità del sonno del neonato, nonché un relativo pagellino che i più fanatici condividono con l’hashtag #snooporn. Ci sono la calzina Dreamsock della Owlet per misurare battito cardiaco e saturazione, e la fascia per il torace della Nanit con relativa videocamera, moderne schiave robotiche a controllare tutto il tempo che il bebè non smetta di respirare.
La mercificazione dell’attività di cura
Non sono solo le mamme come Hess, il cui figlio corre il rischio reale di soffocamento, a far ricorso a questi oggetti (che peraltro non hanno nessun reale riscontro in campo medico). Sono soprattutto i genitori di bambini sani. Tutti questi dispositivi, figli dell’ossessione contemporanea del tracciamento dei parametri fisici, fanno leva sull’ansia crescente di genitori sempre più soli.
Hess ripete più volte il vecchio adagio secondo il quale per crescere un figlio ci vuole un villaggio. Ma, aggiunge, citando la descrizione di una pagina Facebook di neogenitori, che «in quest’era digitale non tutti abbiamo a disposizione dei veri villaggi a cui appoggiarci, quindi cerchiamo online consigli, un senso di comunità e suggerimenti sui prodotti migliori». Harvey Karp, il pediatra che ha scritto The happiest baby on the block, ha detto al New York Times che «il modello del villaggio non è solo rose e fiori perché tutti si fanno gli affari tuoi e bisogna avere a che fare con parenti antipatici». E Leah Plunkett, esperta di privacy digitale minorile di Harvard, conferma che le tecnologie «si vendono perché eliminano il disagio delle relazioni interpersonali». Hess ci mette in guardia: i dispositivi, proponendosi come soluzione alla perdita della vita comunitaria, rappresentano in realtà la pura mercificazione dell’attività di cura.
Nel momento in cui l’autrice partorisce, tutte le applicazioni per gestanti che aveva scaricato hanno già venduto i suoi dati a centinaia di aziende che non vedono l’ora di solleticare bisogni fantasiosi e inediti nella storia della puericultura. «Per il capitalismo consumista», spiega Hess «il vertice della forma femminile è il parto: le aziende a quel punto ti accarezzano e ti portano per mano fino alla tomba». Man mano che Hess cerca su Google risposte al problema di suo figlio, nato con una grossa lingua che gli pende dalla bocca, viene profilata come un tipo particolare di mamma e a quel punto indirizzata verso consumi e gruppi specifici. Il suo feed di TikTok si riempie di medical mum che narrativizzano le loro storie di sofferenza, e di donne deluse dalla medicina convenzionale che si dedicano al freebirth, il parto in casa senza sostegno ostetrico. Durante la stesura del libro, Hess va a trovare molte di queste donne in giro per l’America e racconta le loro vere storie dietro alla maschera virtuale e le loro posizioni estreme rispetto alla tecnologia medica, per la quale lei prova sentimenti ambivalenti: il rancore di averle sbattuto in faccia infaustissimi dati prenatali, e la gratitudine per averla preparata ad accudire quel figlio. Hess fissa la cannula alle narici del piccolo, allatta e guarda le storie di altre madri sopraffatte. Appoggia il bambino nel letto smart e poi lo osserva sul monitor, scorre feed di famiglie simili alla sua e googla continuamente le sue angosce. Nel frattempo, la tecnologia la sovraespone anche a un’altra violenza, quella di vicini senza figli che al minimo vagito le mandano messaggi orribili che la fanno sentire inadeguata: non li ha mai visti, ma è convinta che non si esprimerebbero con tanta aggressività se dovessero dirle le stesse cose faccia a faccia.
Contro la genitorialità prescrittiva
Questo saggio, pieno di tic che conosciamo bene e di risvolti alla Black Mirror, muove da un’analisi critica sulla pervasione delle tecnologie nelle nostre vite intime, ma arriva a conclusioni molto più larghe, che rivendono l’intero concetto del parenting a partire dal primo grande libro fondativo, The common sense book of baby and child care del dottor Spock, del 1946, che vendette 50 milioni di copie. Spock premetteva che non servono tanti manuali per crescere un figlio, basta il buon senso. Ma poi partiva con le sue istruzioni, contraddicendosi subito. Da quel manuale in poi, siamo stati immersi in un tipo di genitorialità prescrittiva che nel tempo si è prestata sempre meglio a far dilagare i meccanismi capitalistici.
«Mentre noi Millennial crescevamo, la nostra identità si è fusa con la domanda neoliberista di ipercompetizione. Una possibile reazione è stata preparare ansiosamente i nostri figli al successo interpretando la genitorialità come una seconda carriera». Negli ultimi trent’anni, secondo Adam Gopnik del New Yorker, «il concetto di genitorialità e l’industria multimiliardaria che lo circonda hanno trasformato la cura dei bambini in uno sforzo ossessivo, soggiogante e orientato agli obiettivi, volto a modellare un particolare tipo di bambino che diventerà un particolare tipo di adulto. Eppure, questa ossessione ha completamente fallito nel migliorare la vita dei bambini».
Con tutto quel che c’era da fare per essere all’altezza della missione, essere una buona madre ha smesso di comprendere le ore passate effettivamente coi figli. A un certo punto, Hess si accorge che il rapporto col suo bambino era stato sostituito in qualche modo dal rapporto coi dati che lo riguardavano, in una specie di gamificazione del neonato. Una sera, quando ormai l’apparecchio per l’ossigeno è stato archiviato da un pezzo, Hess si stende accanto al figlio e per la prima volta si accorge del puntino rosso che incombe gravemente sul suo sonno: un occhio foucaultiano. È quella notte che si alza, spegne la lucetta fastidiosa, stacca la presa della telecamera e la ripone per sempre nella sua scatola.
da la Repubblica
Carla Lonzi non è mai stata così letta. Un’attenzione che in vita Lonzi non ha avuto: «Tutte noi che l’abbiamo letta da giovani ci siamo imbattute in lei per caso», dice Durastanti. L’ha celebrata Elena Ferrante nella sua tetralogia L’amica geniale, facendola leggere a Lenù, un capitolo diventato una scena della serie televisiva: «Com’è possibile, Lonzi, scomoda, irriverente, fuori da qualsiasi schema; Lonzi che è stata a lungo un segreto da sussurrarsi all’orecchio; Lonzi che oggi, mentre il femminismo finisce al centro di polemiche spinose, vedi le chat dell’attivista Carlotta Vagnoli sotto indagine per stalking con Valeria Fonte e Benedetta Sabene, chissà cosa avrebbe da dirle».
Durastanti, però, sul caso delle ultime settimane, vuole intervenire interpretando il pensiero della saggista e attivista animatrice di Rivolta femminile: «Riguardo agli episodi di recente attualità, devo pensare che Carla Lonzi, per quanto fosse anti-ideologica e non volesse trasformarsi lei stessa in un megafono, guardando con enorme sospetto quello che oggi definiremmo femminismo della presenza, ci ha proposto sia anticorpi sia antidoti per far sì che un femminismo radicale e separatista non discendesse nell’esercizio della violenza – dice. – Leggendo i suoi diari (chiaramente si tratta di qualcosa su cui aveva il controllo e voleva rendere pubblico, la precisazione qui è indispensabile) si trova tanta rabbia e conflitto quanto amore e tenerezza, era tutt’altro che pacificata o risolta nei rapporti di amicizia all’interno del femminismo stesso, ha scritto cose molto dure su figure come Dacia Maraini o Natalia Ginzburg per esempio. Ma sempre con una postura rigorosa, leale, profondamente critica, a costo della solitudine e dell’isolamento».
E aggiunge: «Lo studio, la pratica e la competenza, soprattutto se avulsi dal discorso pubblico mainstream sul femminismo, hanno un costo. Il costo può essere la solitudine e l’isolamento, come dimostra la stessa vita di Lonzi, e non tutte sono interessate o obbligate a tenerlo presente. Ma dinanzi a simili degenerazioni e superficialità, non posso fare a meno di pensare alla fatica e al lavoro che il femminismo chiede e a rivolgere un pensiero grato a tutte le donne che sono disposte a farlo. Sono la maggioranza, sia chiaro».
L’ultimo volume appena uscito per La Tartaruga è “Vai pure”, il suo straordinario dialogo con Pietro Consagra: una radiografia senza sconti delle relazioni di coppia, dell’incomunicabilità nonostante la volontà di capirsi, nonostante l’amore. Prima erano stati pubblicati “Sputiamo su Hegel”, “Taci, anzi parla. Diario di una femminista”, “Autoritratto”, e altri volumi seguiranno.
La filosofa Annarosa Buttarelli sta curando l’intera riedizione delle opere di Lonzi, che erano state pubblicate dalla casa editrice di Rivolta Femminile. Ed è lei a spiegare come leggere Carla Lonzi oggi. E perché: «Consiglio di leggere i testi di Lonzi come testi di trasformazione che nascono dall’esperienza. Anche se all’inizio sembra di non riuscire a capire, bisogna continuare a leggere fiduciosamente. I testi di trasformazione sono eterni, in un certo senso, ed è importante lasciarsi guidare. Ci si accorgerà, a un certo punto, che la nostra mente sta trasformandosi».
In un momento in cui un nuovo dibattito sulle relazioni uomo-donna è più che mai urgente, sulla scia di sangue dell’emergenza femminicidi, per Buttarelli i testi di Lonzi “sono necessari”: «Accompagnano a un livello di comprensione della realtà dei rapporti uomo-donna a cui oggi pochi e poche arrivano. Ma sono necessari anche perché producono energia per ritrovare la forza di lotte creative e costruttive che vediamo sparire, sostituite oggi da rabbia e disperazione». Ma perché è rimasta così a lungo nell’ombra? «Ha viaggiato sempre sottotraccia, in molte tesi di laurea in tutto il mondo, e nelle elaborazioni del femminismo filosofico della differenza sessuale. Se non ci fosse stata Carla Lonzi non ci sarebbe stata la ricchezza di lavoro della mia Comunità filosofica Diotima dell’Università di Verona. È vero però che in Italia per parecchi anni non è stata nominata e studiata come si sarebbe dovuto sempre fare. Per fortuna, sono riuscita a costruire il Fondo Carla Lonzi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, grazie al sostegno dell’allora direttrice Cristiana Collu. E poi con Claudia Durastanti siamo riuscite ad avviare le riedizioni dei testi fondamentali con La Tartaruga».
Buttarelli invita a rileggere anche i suoi testi più scomodi, come le riflessioni sull’aborto: «Carla Lonzi ci fa capire che l’aborto non deve essere considerato come un diritto tra i diritti, perché non lo è. Questa è la sua posizione. Quello da difendere è un altro diritto, questo sì reale: il diritto delle donne all’accesso gratuito alle strutture ospedaliere per la propria salute».
Ma cosa ci dice del femminismo oggi? «Questa parola è un presidio di civiltà ovunque venga pronunciata e testimoniata: si chiama femminismo ogni azione e comportamento che si spendano a favore e a sostegno delle cause delle donne, intese come strada verso la libertà femminile. Dovremmo onorare questa parola per la lunga storia che ha creato e che sta continuando a creare nel mondo. La femminista radicale Carla Lonzi avrebbe voluto alzare i rapporti umani allo stato d’amore, come scriveva nel suo “Diario di una femminista”».
Durastanti rivendica la scelta di riportare l’opera di Lonzi in libreria: «Carla Lonzi – dice – è un motivo di ispirazione su cosa si può fare con la scrittura. Lei si è confrontata con generi veramente diversi, dalla saggistica d’arte al pamphlet filosofico, dal dialogo con Consagra ai diari. Forse non si è mai confrontata con il romanzo, però in un certo senso tutti questi scritti vanno a costruire un grande romanzo sulla vita di una donna nel Novecento italiano, nel momento in cui si prende di petto la questione del femminismo e del femminismo radicale. Lonzi poi scriveva poesie. C’è anche questo aspetto della sua scrittura, forse non il più maturo, il più riuscito, ma per lei molto importante».
Il primo libro pubblicato dalla casa editrice è il suo testo più famoso, “Sputiamo su Hegel”: «Uno scritto nato dall’esperienza collettiva del gruppo di Rivolta femminile. Ma soprattutto un testo che si rinnova e si rigenera sempre nel tempo. Credo sia veramente una riflessione filosofica, oltre che politica: si parla di violenza di genere, di strutture patriarcali, di aborto. Lo leggi con la consapevolezza che ha segnato un prima e un dopo nella storia del femminismo italiano e allo stesso tempo come un’opera che c’è sempre stata e sempre ci sarà. Perché ti dice tutto della tua esperienza e sul tempo che stai vivendo. La sua è una scrittura immanente».
Durastanti consiglia di cominciare dai diari nei quali c’è qualcosa «di lancinante e implacabile: sono un’esperienza che non si può attraversare senza esserne profondamente trasformati». Mentre in “Vai pure” suggerisce quello che di fatto inizia a pensare a un certo punto, e cioè che l’autocoscienza femminista richiede un lavoro collettivo: deve essere autocoscienza di tutti, travalicando il genere». Questo è proprio il momento di Carla Lonzi.
Nel panorama degli studi su differenza sessuale e potere, il neuroscienziato e studioso della pace Piero P. Giorgi propone una prospettiva che va ben oltre l’analisi delle disuguaglianze. Nel capitolo The Centrality of Women in the Human Adventure del volume collettivo Gender and Power: Towards Equality and Democratic Governance*, avanza una tesi che può sembrare audace: le donne non sono state una “parte” della storia umana, ma il suo asse portante, biologico, culturale e morale.
La tesi, sostenuta con un approccio interdisciplinare che intreccia biologia, antropologia, neuroscienze e studi sulla pace, ribalta la narrazione dominante dell’evoluzione e della storia umana, mostrando come la marginalizzazione femminile sia un fenomeno recente e, soprattutto, culturale. La nostra specie non è nata violenta, è divenuta violenta quando ha perso il suo equilibrio naturale, quello che vedeva nelle donne la misura della cooperazione e della sopravvivenza collettiva.
L’autore parte dai dati biologici: l’ovulo materno non è un semplice contenitore passivo del DNA, ma il vero motore dell’origine della vita; determina la struttura dell’embrione, fornisce energia (i mitocondri) e orienta lo sviluppo iniziale. Tutti gli esseri umani, spiega, sono programmati per essere femmine, e solo l’intervento del cromosoma Y altera questo percorso. La femminilità, quindi, non è un’eccezione, ma la regola biologica originaria; un punto di partenza simbolico e scientifico per ridefinire la narrazione sul ruolo delle donne nell’evoluzione.
Dalla biologia Giorgi passa all’etologia e alle neuroscienze. La madre, nei mammiferi e ancor più negli esseri umani, è la prima fonte di empatia, cura e cooperazione. L’esperienza dell’allattamento e del contatto fisico plasma lo sviluppo cerebrale e affettivo del bambino: è qui che si radicano i comportamenti cooperativi che permettono la vita sociale. Come sottolinea l’autore, la madre non educa soltanto: costruisce letteralmente la mente umana, trasmettendo linguaggio, affetto e valori morali. In questa prospettiva, la cultura della cura non è un’attività privata o accessoria, ma il fondamento evolutivo della civiltà umana.
Il punto di rottura arriva con il Neolitico. Per decine di migliaia di anni, gli esseri umani vissero in società egualitarie di cacciatori-raccoglitori, dove le donne avevano un ruolo centrale seppur non gerarchico. Le celebri “Veneri” paleolitiche, spesso interpretate come divinità della fertilità, rappresenterebbero invece un riconoscimento simbolico della donna come principio vitale della comunità, non come oggetto di culto. Con l’avvento dell’agricoltura, della proprietà e dei villaggi, questa armonia si incrina: nascono la stratificazione sociale, le gerarchie e i sistemi patriarcali. Il potere si concentra, la cooperazione lascia spazio alla competizione e la violenza diventa strutturale. Giorgi osserva che quando la produzione sostituì la condivisione la solidarietà cessò di essere necessaria e divenne sospetta. L’umanità ha così abbandonato la propria natura cooperativa per un modello di dominio che ancora oggi segna le nostre istituzioni e i nostri rapporti sociali.
Il saggio si chiude con una riflessione di grande attualità: serve un nuovo paradigma politico. Giorgi distingue due modelli: la politica di potere, che difende e riproduce la gerarchia, e la politica di servizio, che nasce dal bisogno e non dall’ambizione. Le donne, secondo l’autore, sono protagoniste naturali della seconda, non per essenza biologica, ma perché hanno mantenuto viva, più degli uomini, la cultura della cura e della solidarietà. La transizione verso società più giuste e pacifiche, afferma Giorgi, non potrà essere violenta né imposta, ma lenta, legale e locale, un cambiamento che parte dalle comunità, dall’educazione e dalle pratiche di cittadinanza attiva e partecipativa.
Il saggio non è privo di rischi interpretativi. Alcune generalizzazioni storiche, come l’idea di un Paleolitico completamente egualitario, possono apparire discutibili, e il riferimento a qualità “femminili” rischia talvolta di scivolare verso un certo essenzialismo di genere. L’autore stesso, tuttavia, invita alla cautela, proponendo non un nuovo dogma ma un punto di partenza diverso per comprendere chi siamo diventati e chi potremmo ancora essere. E ritiene il suo testo basato su dati scientifici disponibili su testi universitari, dati che dovrebbero essere discussi ed eventualmente confutati sulla base di altri dati scientifici.
La forza del saggio sta nella sua visione unificante: quella di una scienza che non separa corpo e cultura, ma li riconcilia in una prospettiva etica e politica. Nel tempo delle polarizzazioni e della crisi delle istituzioni democratiche, The Centrality of Women in the Human Adventure offre un messaggio chiaro: riconoscere la centralità femminile non è una questione di rappresentanza o di potere, ma di sopravvivenza per la nostra specie.
Rimettere le donne, e i valori che incarnano, al centro dell’avventura umana significa recuperare la parte cooperativa, empatica e nonviolenta della nostra specie. La rivoluzione più urgente non è quella che conquista, ma quella che ricompone. E in questo senso, la centralità delle donne non è solo una tesi scientifica: è una proposta di futuro.
(*) M. Vianello, M. Hawkesworth (a cura di), Gender and power: Towards equality and democratic governance, Chapter 9, pp.154-170, Macmillan, New York, 2015