da Doppiozero

Una donna incinta, nuda, siede sul letto. Rivolge un sorriso complice e sereno al bambino dentro di lei, con una mano accarezza la pancia, mentre l’altra la sostiene dolcemente dal basso. In questo gesto semplice e potente c’è tutto il senso dell’attesa, della trasformazione, della vita che sta per nascere. È l’idea che percorre il volume Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, 2024), con le fotografie di Paola Agosti e il commento di Benedetta Tobagi. Noi non eravamo artisti, noi eravamo dei reporter, eravamo dei testimoni del nostro tempo, l’arte c’entrava relativamente poco, noi facevamo quel lavoro per vivere, afferma la fotografa con asciutta schiettezza.

Eppure in “quel lavoro” c’è qualcosa che si spinge oltre la semplice testimonianza. Come la donna incinta accarezza il futuro che porta in sé, lo sguardo della Agosti dà vita a qualcosa che sta nascendo, un mondo femminile che si svela, si afferma e reclama il proprio spazio. Donne tra loro differenti, legate dalla forza con cui hanno cercato un destino diverso, dal coraggio con cui hanno sfidato le regole di un mondo che le voleva silenziose, sottomesse, chiuse fra le mura di casa. E grazie a loro, il cammino di chi è venuta dopo si è fatto più libero.

È questa determinazione che lega Paola Agosti alle donne, un filo teso tra lo sguardo e l’azione, tra chi racconta e chi si fa racconto. Determinare non è solo fissare un confine, dare un contorno netto alle cose, ma è anche un atto di volontà, una scelta precisa. Significa tracciare un sentiero là dove sembrava non esserci strada, prendere posizione accanto a chi è stato troppo a lungo escluso dalla narrazione ufficiale. È un gesto che incide, segna e restituisce dignità a chi, altrimenti, resterebbe nell’ombra. La Agosti non si limita a osservare, mette a fuoco. E nel farlo, si schiera.

Sono stata femminista come molte. Mi riconoscevo sicuramente nelle lotte che il movimento portava avanti. Grazie al lavoro mi consideravo una donna emancipata; tra l’altro venivo da una famiglia dove le donne erano tenute in grande considerazione e avevano studiato e lavorato.

Fra le fotografie del suo archivio, ben ventimila dedicate alle donne, ci sono le anziane militanti del Partito comunista, le donne dell’Udi, le avanguardie femministe radicali, le singole attiviste fra cui la linguista Alma Sabatini con un enorme cartello, la scrittrice Dacia Maraini che guida un corteo, la radicale Adele Faccio arrestata durante una conferenza internazionale sul divorzio, Gigliola Pierobon con l’avvocata ed ex-partigiana Bianca Guidetti Serra che la difendeva contro l’accusa di aver abortito a diciassette anni.

Se il personale è politico è il principio con cui le femministe mettono in discussione la società, per la Agosti è il filtro da porre sull’obiettivo, la sfumatura che dà una tonalità nuova al reale. La maternità al lavoro, la sessualità femminile, la violenza domestica, non sono semplici questioni private, ma riflettono strutture di potere e disuguaglianze radicate nella società. Compagni nella lotta, padroni nella vita, con questa ambiguità facciamola finita è il pensiero che anima sindacaliste, operaie, casalinghe, impiegate e studentesse, nella manifestazione organizzata a Roma dai metalmeccanici il 2 dicembre 1977.

Grazie al fatto di essere una donna, e di avere una fotocamera, la Agosti viene accolta all’interno dei collettivi e delle manifestazioni con una confidenza che difficilmente sarebbe stata concessa a chi non ne condivideva l’impegno. Le femministe, infatti, erano consapevoli del potere dell’immagine e della necessità di raccontarsi con un proprio sguardo, senza mediazioni esterne che potessero distorcere il loro messaggio. In un contesto in cui i media tradizionali banalizzavano o travisavano le istanze femministe, il lavoro della Agosti era visto come una forma di militanza.

Si aprono le porte dei consultori, quelle delle case dove le donne lavorano a domicilio e accudiscono i figli, quelle di Radio città futura,emittente romana legata alla sinistra extraparlamentare, che all’interno del palinsesto quotidiano concede due ore alle femministe, una delle quali è riservata alla trasmissione Le donne escono dalle cucine.

Si aprono le porte delle redazioni, EFFE, Quotidiano Donna, e poi quelle di Noi Donne,la rivista dell’Udi con cui la Agosti collabora per più di vent’anni. È stato un lavoro molto, molto bello… Ho girato l’Italia, e grazie a Noi donne sono entrata nelle case di chi faceva una vita ben diversa dalle ragazze che sfilavano a Roma nei cortei femministi: le operaie, le mondine, le vecchie partigiane […], per me rimane una tappa fondamentale della mia vita di fotografa e di donna.

Nel 1976 molte di quelle immagini confluiscono in Riprendiamoci la vita, un libro pubblicato dall’editore Savelli da cui sono germogliati altri progetti, nati quasi per necessità, per il bisogno di continuare a raccontare. Con Firmato Donna, Agosti ha dato un volto a cinquantasei tra le più grandi scrittrici italiane del Novecento, donne che con le parole hanno costruito nuovi spazi di libertà. Con La donna e la macchina (1983), è entrata nelle fabbriche del Nord-Ovest, mostrando le operaie nel loro quotidiano, rivelando la fatica di chi ha avuto un posto nel mondo del lavoro, ma quasi mai nel racconto ufficiale.

Nel 1977 Paola Agosti sente il bisogno di allontanarsi dalla frenesia della vita in città, dai tempi stretti della cronaca, dalla ressa dei fotografi. Chiede a Nuto Revelli, che conosceva sin da bambina perché era stato partigiano con suo padre, di poter ripercorrere con la sua macchina fotografica l’itinerario di Il Mondo dei vinti (1977) e di L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1985). Dai suoi numerosi viaggi nelle Langhe nascono Immagine del mondo dei vinti (1979) e Il destino era già lì (2015).

Se Riprendiamoci la vita era il grido di battaglia del femminismo, un’esortazione a spezzare vincoli e ridefinire il proprio cammino, Il destino era già lì evoca invece il peso di una storia già scritta, di un futuro tracciato ancor prima che si possa scegliere. Nate in famiglie contadine, spesso numerose, queste donne si trovavano fin da bambine immerse in una realtà di fatica e privazioni, il lavoro nei campi era l’unico orizzonte possibile ed i ruoli erano rigidamente definiti. Fotografarle non significa solo raccontare, ma riconoscere. Significa dare un volto e una voce a chi è stato relegato ai margini della storia, celebrare la forza silenziosa delle donne che, senza dichiararlo apertamente, hanno lottato per procurarsi un frammento di libertà.

Qui la sua determinazione di fotografa è anche un atto di resistenza, un modo per non lasciare che quelle storie svaniscano, una resistenza presente anche nel carattere delle donne ritratte, che con il loro radicamento alla terra e il lavoro manuale raccontano una lotta quotidiana per rimanere ancorate alla propria esistenza. Su quei visinon c’è traccia di autocommiserazione, mostrare la loro “solitudine” non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo. L’anziana donna seduta come su un trono in mezzo alla sua cucina, le contadine, divertite e divertenti, ad onta della fatica e delle dure condizioni di lavoro, mentre giocano con i loro cani, esprimono una condivisione di sentimenti che crea solidarietà.

Riusciamo, oggi, a cogliere fino in fondo il valore che queste foto avevano quando comparvero per la prima volta sulla carta stampata? Allora non erano icone. Lo sono diventate nel tempo, perché hanno saputo parlare, emozionare, raccontare storie in cui un numero incalcolabile di donne si è riconosciuto. Il loro potere non sta solo nell’immagine, ma nel modo in cui sono state vissute, condivise, fatte proprie. Per raccontare davvero qualcosa, bisogna esserci dentro. Non basta osservare, bisogna immergersi, vivere la situazione. Le sue foto sono diventate simboli perché le donne le hanno diffuse, riprodotte, fatte circolare ovunque, manifesti, riviste, volantini, libri. Hanno smesso di essere semplici scatti per trasformarsi in pezzi di vita, tracce di un’esperienza collettiva. Davanti a una fotografia, ognuno di noi deve decidere se ignorarla o lasciarsene attraversare, se renderla parte della propria memoria e delle proprie lotte, se usarla per conoscere, per capire, per agire.

Alla fine del libro le autrici accostano due immagini. Nella prima alcune giovani donne appendono uno striscione con la scritta Le streghe son tornate, nella seconda, un’anziana, sola nella sua cucina, solleva un pentolino da cui si sprigiona un vapore denso. Il confronto svela due modi diversi di esistere, da un lato, giovani donne che gridano per rivendicare il diritto alla parola e all’autodeterminazione, dall’altro, un’anziana che, con un gesto silenzioso ma carico di significato, compie un rito di magia bianca. Le femministe si riappropriano di un passato simbolico attraverso la figura della strega non più vittima della persecuzione patriarcale, l’anziana rivela un sapere prezioso trasmesso di donna in donna; le une rivendicano il diritto a trasformare il proprio destino, l’altra lavora per dissolvere un destino avverso. Due modi diversi di agire, due forme di lotta che sembrano lontane e invece si parlano, le urla delle donne che vogliono cambiare il mondo ed i sussurri di chi lo ha sfidato in silenzio.

dall’Ansa

Il Ministero dell’economia ha dato questa mattina parere negativo all’emendamento presentato dalla maggioranza al ddl per le liste d’attesa che stanziava 6 milioni di euro l’anno per tre anni per la prevenzione dei tumori al seno.

«Hanno fatto una becera propaganda – commenta la senatrice M5S Elisa Pirro – e oggi ci troviamo col Mef [Ministero per l’Economia e le Finanze, Ndr] che dà parere negativo a questo emendamento che avremmo appoggiato volentieri. Non hanno trovato i soldi, mentre in questo Paese si continua a parlare di un piano di riarmo che dovrebbe aprire spazi fiscali per circa 30 miliardi.

È una cosa immorale».

da Avvenire

L’approccio prudente lascia da parte ormoni e bloccanti della pubertà che ormai tutti i Paesi occidentali stanno abbandonando, e indaga attentamente nel vissuto di ragazzi e famiglie

Esiste un fenomeno sociale e sanitario a cui in Italia non si presta la dovuta attenzione. Riguarda la sofferenza di bambini, ragazzi (e le loro famiglie), derivata da rifiuto del proprio sesso, turbamenti dovuti al sentirsi “intrappolati nel corpo sbagliato”, stato ascrivibile a incongruenza o disforia di genere. Il fenomeno è difficilmente quantificabile in Italia, a causa dell’inspiegabile assenza di dati di affluenza agli oltre 40 ambulatori (pubblici o privati in convenzione; dati desunti da siti non istituzionali) sparsi per la penisola. Nonostante le segnalazioni informali e allarmanti di genitori e insegnanti di scuole di ogni ordine e grado, questi casi sono stati finora intesi come da “risolvere in fretta”, con approcci che meglio dettaglieremo e che portano a una vera e propria transizione da maschio a femmina o viceversa. Il fatto che questo si pratichi in corpi molto giovani, pare non preoccupi o allarmi.

Per i casi di incongruenza o disforia, sono state messe in campo terapie di diverso orientamento. Quelle dette riparative, che cercavano di convincere forzatamente la persona, anche giovane, di non essere omosessuale o transgender, sono ormai largamente condannate. Le terapie “affermative”, invece, non ancora superate, hanno trovato consenso quasi unanime. Si basano sull’interpretare come attendibile ciò che un/a bambino/a o un adolescente afferma essere il suo “vero” sesso. La terapia affermativa, applicata dagli anni Novanta, non basata su certezze scientifiche ha dimostrato di non risolvere le difficoltà personali, anzi: si stanno moltiplicando i casi di “detransizione” – ragazzi ormai adulti che non si vivono più come transgender e che vorrebbero tornare indietro. Spesso in drammatiche condizioni di impossibilità. Si è forse perso di vista il principio di cautela (primum non nocere) che dovrebbe essere alla base di tutte le pratiche medico-cliniche? L’approccio affermativo, oggetto di clamorosi recenti fatti di cronaca, è in corso di abbandono nella maggior parte dei Paesi europei e non solo, tranne che in Italia. Cerchiamo di capire perché. Esistono a livello internazionale due manuali diagnostici: il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, noto con la sigla Dsm (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione psichiatrica americana), e l’Icd (International Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità).

Dai testi si desume la strana situazione dell’incongruenza di genere (Idc) e della disforia di genere (Dsm), dichiarate di per sé come non vere e proprie patologie, necessitanti però di una diagnosi clinica effettuata da medico o psicologo. In assenza di segni visibili, il/la professionista clinico/a si basa su ciò che la persona riferisce di sé stessa. Quanto può essere “vera per sempre” l’autonarrazione di soggetto in età evolutiva (bambino o adolescente), periodo in cui le capacità cognitive, psicologiche, emotive e sociali, nonché di descrizione di sé stessi/e, sono tutt’altro che definite? Ecco perché sarebbe da tenere in debito conto non solo la plausibile mutevolezza della descrizione, ma anche l’incerta permanenza dello stato riferito. Inoltre, dato non trascurabile, un bambino/a (o ragazzo/a) non ha ancora maturato la capacità di prevedere appieno le conseguenze di ciò che decide e fa.

Il dogmatico approccio affermativo alla disforia di genere ha un nome e un inizio. Siamo negli anni Novanta, la psicologa Peggy Cohen-Kettenis, fondatrice della Clinica pediatrica di Utrecht, sviluppa il “Protocollo olandese”, base di ogni terapia affermativa: per accompagnare i/le ragazzini/e con incongruenza di genere è opportuno assecondarli – “affermarli” – nella loro richiesta di una nuova identità, senza mettere in discussione le loro opinioni. Qualunque età abbiano, quasi sempre senza approfondire l’origine del disagio (in termini tecnici “diagnosi differenziale”) che, come ormai dimostrano diversi studi, può derivare da altre cause da considerare (disturbi dello spettro autistico, depressione, omosessualità fraintesa, sofferenze psicologiche di altra natura). Si passa quindi alle terapie farmacologiche (bloccanti della pubertà e ormoni cross-sex – fanno assumere i caratteri sessuali secondari del sesso opposto: per esempio barba, pomo d’Adamo e voce maschile nelle femmine) e chirurgiche.

Non ci sono riscontri oggettivi, ma il “Protocollo olandese”, trova immediata approvazione nei contesti scientifici internazionali. La stessa ideatrice, nel 2006 afferma in uno studio che i bloccanti della pubertà sembrano fornire un contributo importante “nella gestione clinica del disturbo dell’identità di genere” e indica le età più adeguate per trarre il miglior profitto dai trattamenti: 12 anni per i bloccanti della pubertà e 16 anni per il trattamento cross-sex. Alla fine dello studio viene perfino espresso un ringraziamento alla casa farmaceutica che produce i bloccanti. Intanto la macchina del consenso si era messa in moto, con un’evoluzione che nei Paesi occidentali ha toccato il massimo della “propensione affermativa” tra il 2015 e il 2020, a cominciare dal Regno Unito, con migliaia di ragazzini (oltre 5.000 nel 2021) avviati al percorso di transizione presso la clinica Tavistock del servizio sanitario pubblico.

A quel punto parte un piccolo terremoto: fioccano le denunce di giovani trattati fin da piccoli con terapia ormonale e chirurgia, che all’avvio del percorso non avevano compreso le implicazioni a lungo termine di trattamenti così devastanti. La battaglia passa in tribunale e alla fine arriva il rapporto commissionato dal Servizio sanitario del Regno Unito, la citatissima Cass Review, che afferma che non esistono prove per valutare gli effetti dei trattamenti ormonali per quanto riguarda la salute mentale e psicosociale, lo sviluppo cognitivo, il rischio cardiometabolico, la fertilità. Un anno fa – il 29 marzo – la clinica Tavistock ha chiuso i battenti, avviando un serio ripensamento, presto diffuso anche in tanti altri Paesi: Finlandia, Svezia, Francia, Norvegia, Germania, Svizzera, Australia, Stati Uniti. Una piccola rivoluzione. Il caso francese, in particolare, è di grande interesse: l’Académie Nationale de Médicine spiega il meccanismo con cui i casi di disforia si sono moltiplicati, parlando esplicitamente di “focolaio di casi” e avallando, per la prima volta anche in campo medico, l’ipotesi del contagio sociale. Si tratta del resto di un meccanismo che la psicologia ben conosce per il dilagare dei disturbi alimentari, la dipendenza da internet, il fenomeno degli hikikomori, il cyberbullismo. È quindi plausibile e ormai dimostrato che riguarda anche l’incongruenza e la disforia di genere.

Cosa stanno elaborando in merito gli altri Paesi? In alternativa alla terapia “affermativa” e alla ricerca di un approccio il meno invasivo possibile, che lasci aperta una vasta gamma di risultati, si sta prefigurando una nuova via di accompagnamento e supporto per i giovani alle prese con incongruenza o disforia. Un approccio non ancora oggetto di interesse e formazione in Italia, definito “Terapia Esplorativa-Neutrale” o “Terapia Esplorativa del Genere”. Si basa sull’attenta indagine dell’esperienza personale della giovane persona in difficoltà e della sua famiglia, riguardo il vissuto di genere. Si esplicita nell’aiuto a far sì che sia il soggetto interessato che la famiglia si pongano nella condizione di “prendere tempo”, arrivando così a non assumere decisioni affrettate e senza darne per scontato l’epilogo.

Un approccio prudente. Il ragazzo o la ragazza in temporanea disforia, prendendo tempo, può arrivare a identificarsi con il proprio sesso di nascita e accettare il proprio corpo così com’è, ma può anche decidere di procedere con la transizione di genere, nella comprensione delle complesse fonti del proprio disagio e delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. Insomma, tutti i risultati sono accettati e legittimi, a patto che non vengano bruciate le tappe e non si ricorra in modo sbrigativo a interventi farmacologici e chirurgici, come pretenderebbe l’approccio affermativo. Un approdo di buon senso a cui stanno arrivando tanti Paesi occidentali.


Fulvia Signani è psicologa e docente incaricata di sociologia di genere, nonché fondatrice e componente del Centro Universitario di Studi sulla Medicina di Genere dell’Università degli Studi di Ferrara. In staff alla Presidenza del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, fa parte dell’Osservatorio Nazionale sulla Medicina di Genere presso l’Istituto Superiore di Sanità. È fondatrice e presidente di Engendering Health APS e autrice di La salute su misura. Medicina di genere non è medicina delle donne (2013).

dal Corriere della Sera

«[…] La donna d’oggi non è più quell’essere impersonale, senza individualità e senza cultura, che una volta fu. Siamo ben lungi dai tempi che la donna si considerava come un animale domestico, da potersi maltrattare, scacciare od uccidere a capriccio del suo padrone». Sono questi alcuni dei versi più celebri contenuti in Il Monopolio dell’uomo (1890), uno dei primi scritti di Anna Kuliscioff. Un simbolo di impegno civile e di emancipazione femminile, ricordato nel centenario della morte – avvenuta nel 1925 a Milano – con una mostra al Museo del Risorgimento di Palazzo Morando (prorogata fino al 30 marzo 2025). Tra le figure più influenti del movimento socialista italiano, Kuliscioff fu un esempio di coraggio e determinazione nel perseguire ideali di giustizia sociale, emancipazione e difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (qui abbiamo raccontato la sua figura, attraverso le pagine d’archivio, e la sua eredità).

Un personaggio rivoluzionario anche sul fronte degli studi: nata in Crimea, si trasferì in Svizzera per studiare e laurearsi in medicina, e fu tra le prime donne dell’epoca. Il suo impegno si concentrò, in particolare, sulla questione femminile: fu tra le prime a denunciare le disuguaglianze economiche e sociali subite dalle donne, battendosi per il diritto al voto (scontrandosi anche con l’eccessivo gradualismo del Partito socialista e del compagno Filippo Turati) e per migliori condizioni di lavoro.

Si legge in un articolo botta-risposta su Critica sociale, la rivista del socialismo riformista italiano, che diresse insieme a Turati fino al 1891: «Direte, nella propaganda, che agli analfabeti spettano i diritti politici perché sono anch’essi produttori. Forse le donne non sono operaie, contadine, impiegate, ogni giorno più numerose? Non equivalgono, almeno, al servizio militare la funzione e il sacrificio materno, che danno i figli all’esercito e all’officina? Le imposte, i dazi di consumo, forse son pagati dai soli maschi? Quale degli argomenti, che valgono pel suffragio maschile, non potrebbe invocarsi ugualmente per il femminile? Domandate ai socialisti belgi ed austriaci se l’aiuto delle lavoratrici, nella loro campagna pel suffragio, non ebbe “alcuna influenza benefica immediata”! Vi risponderanno che proprio nelle donne trovarono i più coraggiosi entusiasmi e le maggiori abnegazioni». Il suo sogno si sarebbe avverato solo nel 1946.

Una donna che lasciò il segno in numerose città: Firenze, dove venne incarcerata e contrasse la tubercolosi che la segnò tutta la vita; Imola, la città di Andrea Costa da cui ebbe la figlia Andreina; Torino, dove approfondì le ricerche sulle febbri puerperali e visse presso la famiglia di Cesare Lombroso; Pavia, dove seguì il futuro premio Nobel per la medicina Camillo Golgi; Padova, dove studiò con Achille De Giovanni; Napoli, dove si laureò e incontrò Turati, compagno di vita e azione fino alla morte; Milano, dove come medico si dedicò ai più poveri, curando gratuitamente operai e indigenti, guadagnandosi l’appellativo di “dottora dei poveri”. A cento anni dalla sua scomparsa, il suo pensiero resta di grande attualità e ci invita a riflettere sull’importanza di proseguire il suo cammino per un mondo più equo e inclusivo.

da Erbacce

Andata e ritorno degli sfollati

A maggio 2024 sono arrivata da Gaza al campo profughi di Ain Jalut di Khan Yunis, dove vivevo in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finiva disegnavo sulla tenda.
All’inizio della tregua, in gennaio 2025, sono ritornata a Gaza e ho disegnato sul muro della nostra casa, distrutta e inabitabile.
Da febbraio sono tornat a Khan Yunis, nel campo profughi Mawasi.

*Video e disegni di Una tenda in Palestina qui

da Noi Donne

Opera di Karipbek Kuyukov

Oggi si è conclusa la settimana del disarmo nucleare (Nuclear ban week, 1-7 marzo 2025) alla sede centrale dell’ONU a New York per discutere il Trattato di Proibizione delle armi nucleari (TPNW). I Disarmisti Esigenti vi hanno partecipato in quanto delegazione italiana appartenente alla coalizione di ong ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear weapons). Fin dal primo giorno la nostra delegazione ha presentato tre prospettive che pongono l’abolizione delle armi nucleari come una necessità in considerazione della crisi climatica ed ecologica e per scongiurare la violazione dei diritti umani. I danni irreversibili all’ambiente e agli esseri umani sono stati dimostrati dopo l’uso della bomba in Giappone e nel corso dei numerosi test nucleari. Questi temi hanno poi attraversato molti side events presentati dalla società civile. La prima prospettiva è l’esperienza perfettamente riuscita della mobilitazione del popolo di Comiso contro gli euromissili negli anni ’80, che non solo ha permesso di cogliere immediatamente l’opportunità di eliminarli, ma ha creato anche un presidio pacifista, femminista, ecologista stabile. La prima proposta più recente è l’idea e le iniziative di Costituente Terra. La seconda proposta riprende gli studi dovuti alla politica delle donne, recepiti dall’ONU, riguardanti le conseguenze nefaste delle armi nucleari sui corpi degli esseri umani. Essi hanno rivelato degli effetti particolarmente gravi delle radiazioni ionizzanti sugli organi sessuali femminili, quindi sulle bambine, sulle donne e sul patrimonio genetico umano. Si tratta di danni irreversibili, come quelli provocati sull’ambiente (questo punto è stato ripreso anche da un altro side event dedicato alle questioni di genere, con particolare riguardo alle centinaia di test nucleari effettuati in Kazakstan). Il martedì abbiamo presentato, come Disarmisti Esigenti, la visione degli attivisti che hanno vissuto la denuclearizzazione in Bielorussia e propongono ora un’ampia zona smilitarizzata ai confini con la Russia, ma anche una politica, una diplomazia e un diritto internazionale basato sulla bona fides nei rapporti su questi confini. Abbiamo poi presentato l’attività di alcuni nostri attivisti per implementare la decisione ONU del 1947 sulla smilitarizzazione del porto di Trieste, questione ritornata di grande attualità nell’attuale crisi in Centro Europa. Le sedute plenarie hanno poi permesso, nel corso della settimana, a tutti gli ambasciatori degli Stati firmatari di esprimere le diverse sensibilità e circostanze geopolitiche, ma anche la comune convinzione della bontà dell’iniziativa del trattato per evitare quella che può ben dirsi la fine del mondo. Da notare è anche un punto sull’attuale politica di delegittimazione dell’ONU e sulla legalità internazionale: almeno due visti sono stati negati a due delegati a questa riunione internazionale all’ONU: si tratta di una bielorussa della nostra delegazione e di un iraniano. Se questa fosse la politica statunitense dei visti nei confronti di cittadini delegati all’ONU, la presenza della sua sede centrale a New York diventerebbe problematica.

La tematica femminista del corpo umano come sede della massima distruzione provocata dagli ordigni nucleari, simbolo dei danni irreversibili all’umanità e al suo habitat, ha trovato espressione nell’opera e nell’esperienza dell’artista kazako presente con le sue opere nei locali dell’ONU. Karipbek Kuyukov dipinge corpi martoriati dalla casualità genetica determinata dalla bomba. Nato senza braccia, dipinge con la bocca e i piedi ed è un attivista antinucleare e anti-test nucleari. Egli dipinge anche madri che abbracciano o cullano il loro figlio deforme. Al radicale potere di chi distrugge non solo la vita dei contemporanei, ma anche quella di generazioni a venire, egli oppone il radicale potere dell’arte, dell’intelligenza e dell’amore della madre che fa trionfare la vita di un essere umano anche sulla più irragionevole malvagità e la più insopportabile insensatezza dei rischi accidentali. Che con l’8 marzo appaia con nuova forza questa consapevolezza femminile del valore della vita, capace di eliminare un incubo artificiale, creato dagli uomini, quindi suscettibile di essere risolto.

Giovanna Cifoletti fa parte dei Disarmisti Esigenti

dal Corriere della Sera

Mauro Bonazzi – “Differenza” è una parola decisiva, nel tuo vocabolario e non solo, se guardiamo al mondo della filosofia. Sono lontani i tempi della filosofia intesa come ricerca e analisi di concetti universali, validi per tutto e tutti, dovunque e comunque. Il Novecento, e anche il nostro secolo, sembra piuttosto il tempo della diversità, della molteplicità e della pluralità.

Adriana Cavarero – Il tema della differenza ha invaso i dibattiti filosofici soprattutto negli anni Settanta del secolo scorso, con i cosiddetti post-moderni, pensiamo ad esempio a Jacques Derrida o Gilles Deleuze. Anche se la mia provenienza è diversa (mi sono formata a Padova su Hegel e Platone) li conosco: e ho guardato a loro con interesse, ma anche diffidenza. Apprezzo, certo, la parte decostruttiva, il tentativo di smontare l’idea di un soggetto auto-fondato, saldo in sé, indipendente e autonomo (pensiamo al cogito di Cartesio, il penso dunque sono). Ma questa strategia di decostruzione mi sembra fine a sé stessa: si spegne nella glorificazione della frammentazione del soggetto stesso, nella negazione di un’identità unitaria; non aspira alla costituzione di altre forme di soggettività. Si passa insomma dall’uno (il soggetto classico, l’io sicuro di sé, chiuso nei suoi confini inviolabili) ai molti (a questo soggetto frammentato, ai mille rivoli di un’identità sfuggente perché sempre in movimento). Ma non si va oltre. È un risultato apprezzabile dal punto di vista estetico, ma poco praticabile dal punto di vista etico o politico. Se si parte da una enfatizzazione delle differenze infinite non si può costruire nessuna plausibile etica della responsabilità, perché viene a mancare ciò che ci unisce. È una scelta che non porta lontano, e apre piuttosto a forme di disimpegno.

Mauro Bonazzi – Qual è allora la tua “differenza”?

Adriana Cavarero – Seguendo Luce Irigaray, fin dall’inizio io ho insistito sulla differenza sessuale. Ora, la differenza sessuale non appartiene a questo panorama di frammentazione, tutt’altro. Ha a che fare con un dato di partenza ben preciso: siamo esseri viventi che si riproducono. Non si tratta di frammentare il soggetto in mille identità diverse, ma di ripartire da ciò che siamo nella concretezza dei nostri corpi, femminili e maschili. Smantellare costruzioni ideologiche che rischiano di opprimere va bene, ovviamente: non c’è dubbio che donne o omosessuali e tanti altri siano stati imprigionati in pregiudizi che li hanno ostacolati fin troppo a lungo nel libero sviluppo delle loro potenzialità. Ma bisogna anche provare a costruire alternative.

Mauro Bonazzi – Insomma, la contestazione di questa idea astratta, universalista, di un essere umano razionale e pienamente racchiuso in sé stesso non necessariamente deve culminare in una dissoluzione dell’idea stessa di soggetto umano.

Adriana Cavarero – Aristotele diceva che solo dell’universale si dà conoscenza; del particolare, dell’individuale no. E in parte ha pure ragione. Ma a me interessa anche il particolare. Basta la conoscenza universale della filosofia a chiarire chi siamo? Un buon filosofo aristotelico è Edipo, quando risponde alla sfida della Sfinge, offrendo una definizione generale dell’essere umano – di “che cosa è” un essere umano (l’essere umano è quell’essere che cammina con quattro gambe da bambino, due da adulto e tre nella vecchiaia). Poi Edipo scopre davvero “chi è” (l’assassino del padre, il marito della madre), lui nella sua specificità; e che avesse due o tre gambe non appare poi così importante… La filosofia non deve occuparsi solo delle questioni universali, ma anche di questa nostra unicità, del fatto che ognuno di noi è allo stesso tempo qualcosa di singolare, unico, irripetibile. Tra i due estremi di un soggetto assoluto e chiuso in sé stesso da un lato, e di una soggettività frantumata in una pluralità di impulsi non più ricomponibili dall’altro ci deve essere lo spazio per un discorso capace di parlare della nostra unicità, dei soggetti unici, concreti che noi tutti siamo.

Mauro Bonazzi – Ecco spiegata l’importanza della letteratura, come nel tuo bellissimo Tu che mi guardi, tu che mi racconti: la filosofia si è troppo spesso chiusa nel suo mondo – un mondo glorioso, certo, ma che nella sua ricerca di verità universali rischia spesso di perdere di vista la ricchezza del mondo umano, tutte le storie che si intrecciano nelle nostre vite…

Adriana Cavarero – E le storie, la storia di chi siamo, delle nostre vite, come spiegava Hannah Arendt, non ce le possiamo raccontare noi. Abbiamo bisogno degli altri per capire noi stessi. Senza gli altri non riusciremo mai a dare un significato alla nostra esistenza. In questo senso siamo esseri relazionali, fin dall’inizio (nasciamo da altri, non ci generiamo da noi stessi) e sempre, nelle nostre giornate, intessiamo relazioni con gli altri che determinano le nostre vite.

Intendendoci: l’altro non è l’Altro metafisico, né un altro generico. L’altro sei tu, in carne e ossa: sei tu che mi guardi, tu che mi racconti, sei mia madre che mi ha messo al mondo, sei la persona che amo, qui e ora. Chi sei tu? Chi sono io? Anche di questo deve occuparsi la filosofia.

Mauro Bonazzi – Insistere sulla nostra unicità significa anche riconoscerci nelle nostre imperfezioni e diversità. Siamo esseri contingenti, siamo «figli del caso», come dice il già ricordato Edipo subito prima di scoprire veramente chi è.

Adriana Cavarero – È vero, proprio come Edipo siamo fragili, vulnerabili. Anche questo fa parte della nostra condizione, inutile illudersi che non sia così.

Ma anche questa nostra fragilità ha una sua bellezza.

Forse non è così negativa, come troppo spesso si ripete…

Mauro Bonazzi – … Il paradigma vittimista, che ritorna oggi a tutte le latitudini. In effetti, c’è una tendenza fin troppo diffusa a lamentarsi della propria condizione, del destino che ci è toccato in sorte, quale che essa sia.

Adriana Cavarero – Ma anche questa vulnerabilità, i nostri limiti e persino le nostre debolezze, concorrono a determinare la nostra unicità, ciò che noi siamo concretamente. Hannah Arendt, ancora lei, scriveva: «C’è una fondamentale gratitudine per ciò che è dato». È un invito a cercare il senso di quello che si è, come si è, nella nostra singolarità incarnata. E una bella sfida.

Mauro Bonazzi – Quello della vulnerabilità è un tema caro anche a Judith Butler, una pensatrice al centro di molti dibattiti. Il suo tentativo di negare la differenza sessuale tra maschi e femmine sul piano biologico ha scatenato polemiche furibonde. So che siete molto legate, eppure constato anche una divergenza profonda su quest’ultimo punto, come peraltro spieghi molto bene nel tuo ultimo libro, scritto con Olivia Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa).

Adriana Cavarero – Con Judith siamo legate anche perché siamo in disaccordo. Non funziona così nel mondo delle idee? E infatti niente è più lontano da Judith di quella esigenza di normare e censurare parole o pensieri altrui, che ritroviamo invece in molte sue accolite e accoliti. Significativa è, per esempio, la regola di sostituire le desinenze maschili o femminili con la cosiddetta schwa – o con l’asterisco – per eliminare il più possibile il riferimento a identità specifiche che non sarebbero inclusive delle persone sessualmente fluide o trans. La difesa della vulnerabilità di queste persone si trasforma così in un sistema di disciplina e controllo sul linguaggio che le può vulnerare, con l’imposizione di regole sempre più restrittive. Si vulnera la grammatica, questo sì, e si perdono parole.

Mauro Bonazzi – Perderemmo anche noi stessi, in questo modo. Lo dicevamo prima: per capire chi siamo abbiamo bisogno delle storie che gli altri ci raccontano di noi. Ma se gli altri non possono più parlare, cosa ci racconteranno?

Adriana Cavarero – Il punto di disaccordo con Butler è la sua posizione, che vorrei chiamare “transmetafisica normativa”: una concezione della realtà che va al di là (trans, meta) del dato naturale, perché ritiene che anche il dato naturale (la distinzione maschio/femmina, nel caso specifico) sia il risultato di discorsi, non abbia consistenza reale. Il punto di disaccordo tra noi due, allora, non è soltanto la mia difesa del fatto che i sessi sono due in opposizione alla sua tesi che anche questa divisione è una costruzione culturale, e non naturale. Quello su cui non concordo sono soprattutto certe conseguenze iperindividualiste della sua tesi, vale a dire una concezione dell’individuo che si crea da sé, che decide la sua identità sessuale autopercepita. Insomma, che di sé può fare quello che vuole, prescindendo dai dati di realtà.

Mauro Bonazzi – Un’idea molto popolare nella Silicon Valley, peraltro, e che l’Intelligenza artificiale non farà che acuire, in un futuro (remoto? vicino?) in cui riproduzione e sessualità fossero finalmente separate: tutto sarà possibile, fate quello che volete.

Adriana Cavarero – All’io sovrano solitario nel suo regno continuo a preferire il noi in carne e ossa fatto da me e te, fatto da una pluralità di esseri unici in relazione concreta. Di nuovo, è uno spunto che ho letto e riletto nelle pagine di Hannah Arendt, laddove parla di felicità pubblica. La gioia di stare insieme, di agire insieme per assaporare il gusto della libertà e tentare di cambiare il mondo.

da Avvenire

Il tentativo di normalizzare il “lavoro sessuale” cede di fronte alla realtà della prostituzione

Il “lieto fine” è solo sul palco di Los Angeles dove sono stati consegnati gli Oscar: ben cinque. Perché il film più premiato del 2025 non è affatto un Pretty Baby contemporaneo. Di “grazioso” non c’è nulla. C’è una giovanissima dei bassifondi newyorchesi che balla appesa al palo in un locale notturno per poi trasferirsi nei privé per una danza più intima con l’uomo di turno. Anora è stato accolto come una rivincita delle cosiddette “sex workers” perché ne racconta senza moralismi le “normali” ore di lavoro. L’inglese The Guardian ha rincarato, spiegando che il film «è stato proposto come un segnale che la società sta compiendo un altro passo verso la normalizzazione del lavoro sessuale».

Dal canto suo, la protagonista Mikey Madison, premiata come migliore attrice, nel suo discorso di accettazione dell’Oscar ha ringraziato la comunità delle “sex workers”, che tanto supporto le ha dato nella preparazione del personaggio: «Meritate rispetto, sarò sempre un’amica e un’alleata». Che il cosiddetto “lavoro sessuale” sia di fatto normalizzato non c’è dubbio, a partire dalla stessa espressione, di conio relativamente recente, di “sex work”.

L’esplosione dell’offerta e della domanda di sesso online ha edulcorato la percezione della realtà, “sterilizzandola” e rendendola attrattiva per un certo numero di giovanissime. Infine, i contratti collettivi di lavoro entrati in vigore poche settimane fa in Belgio consolidano l’idea che vendere il corpo e l’intimità femminile possa essere considerato un lavoro come un altro. Cosa che invece non è, come dimostrano tutte le ricerche sui rischi insiti e le violenze subite dalle prostitute. Tuttavia il regista Sean Baker ha spiegato che con Anora voleva «rimuovere lo stigma che è stato posto sul lavoro sessuale. È un lavoro, è una carriera, è un modo per sostentarsi, e dovrebbe essere rispettato». Eppure.

Eppure il film premiato a Los Angeles dice tutt’altro. Innanzitutto perché mostra, per ammissione di un collettivo di spogliarelliste inglesi interpellate da The Guardian, solo una piccola parte della realtà, e non quella della maggior parte delle prostitute.

Anora-Ani infatti è libera di scegliere, di trattare sul prezzo delle sue prestazioni, ma sappiamo da decine di ricerche e libri che è il cliente pagante a comandare. Senza molti margini di manovra.

Nel film non c’è lo sfruttamento dei magnaccia, ma alla fine è uguale per lei come per tutte le prostitute: la donna ridotta a puro corpo. Lo sguardo del regista è asettico, apparentemente realistico e non giudicante: libertà d’espressione. Ma gli spettatori vedono bene l’altra gamba della questione, che riguarda la domanda maschile. In una delle scene iniziali, alla provocazione del “cliente”: «Ma i tuoi genitori sanno che sei qui?», Ani risponde: «E tua moglie lo sa?». Uomini, babbei storditi dai balli erotici, infilano bigliettoni nelle micromutande di ragazzine più giovani delle loro figlie. Sono loro ad alimentare l’industria del sesso: su di loro lo sguardo del regista sorvola. Non il nostro.

E resta la devastazione umana della giovanissima Ani-Anora: il film non racconta nulla di quello che è ma tutto di quello che fa: un fulmine a spogliarsi, una contorsionista alla sbarra della lap dance e un’amante più che disponibile. Noi non abbiamo visto in Anora nessuna «rivincita delle sex workers»: anzi, intuiamo con limpida chiarezza tutta la violenza insita nello strapazzo del corpo femminile, pur consenziente.

È violento anche lo pseudo-amore ostentato dal ragazzino russo, obnubilato dal sesso e dai suoi stessi soldi: usa Ani, la fa entrare nel suo mondo ancora più sballato di quello di lei. Ani però ci crede, nel suo sogno da “Pretty Woman” sgangherata: si aggrappa a quell’amore stile Las Vegas, lotta fino all’ultimo per la sua illusione. Non per il patrimonio del ragazzino, pargolo imbelle di una famiglia di oligarchi russi, bensì per quella favola che le aveva sventolato sotto gli occhi, insieme alle banconote, alla droga e all’alcol (spoiler ma non troppo). E la sua umanità è talmente devastata che Ani non è emotivamente in grado, alla fine, di dire un semplice grazie all’unico uomo che non aveva avuto uno sguardo di compravendita su lei, se non offrendo gratis quello che sa fare.

Eccolo, dunque, il mondo delle “sex workers”, per quello che è: la strada per l’uscita non c’è, Ani non diventerà una Pretty Baby redenta, ma resterà un piccolo ingranaggio nell’industria dell’usa e getta dei corpi femminili. Una libera scelta? Davvero non si direbbe. E comunque un destino di degrado della dignità che nessuna innovazione lessicale può imbellettare, nessun “contratto” può riscattare e rendere “umano”.

da La Sicilia

Catania. In occasione della Giornata internazionale della donna La Città felice, La RagnaTela, il Coordinamento donne Cgil, Femministorie e Udi Catania organizzano due mostre particolari nella sede della Comunità di Sant’Egidio, con ingresso da via Garibaldi 89. Si tratta di centinaia di opere di “arte postale”, o “mail art”, lavori di piccole dimensioni, poco più grandi di una cartolina, creati da artiste/i e da persone comuni che si sono impegnate sui temi specifici lanciati negli ultimi due anni: “Trame di vita trame di pace” (2024) e “Donna Vita Libertà” (2023), le parole d’ordine della rivolta delle donne iraniane.

Le opere, “esposte” lungo le pareti del salone che le ospita, appese a grappoli, legate da fili colorati, si possono anche ammirare ingrandite nei video. […] Le mostre sono curate da Katia Ricci e Rosy Daniello con le associazioni La Merlettaia di Foggia, Le Città vicine, e l’Alveare di Lecce.

L’arte postale è una forma artistica nata negli anni Sessanta, e poi sviluppatasi nel decennio successivo, basata sulla libera comunicazione, sulla reciprocità e sullo scambio creativo senza censure. Chiunque ha la possibilità di esprimersi attraverso piccole opere che vengono scambiate per posta creando così una rete di relazioni e rapporti tra il mittente/artista e il destinatario/spettatore. A partire dal 1974 alcune donne, in Inghilterra, hanno cominciato a usare anche vecchi imballaggi, a riciclare oggetti d’uso comune e ad esprimersi in omaggio alle diversità, in particolare a quella femminile, rivendicando un uso politico dell’arte contro ogni genere di discriminazione e per la giustizia sociale. La mail art – dicono le protagoniste – «è una trincea artistica contro le mode, i condizionamenti e tutte le forme di potere». E non è un caso che sia stata utilizzata da molti artiste/i perseguitate/i in varie parti del mondo, da quanti si opponevano alle dittature in Sud America agli oppositori dei regimi nei Paesi dell’Est.

Tema del 2024 è quello della pace nell’attuale drammatico contesto di guerra. “La guerra non ha un volto di donna” è il titolo di un libro di Svetlana Aleksievič che dice che «le donne sono legate all’atto di nascita, alla vita». Tante le immagini proposte dalle piccole opere della mostra “Trame di vita trame di pace”. Ci sono collage, poesie, fiori che nascono dalle ferite della terra, carte geografiche rammendate, mandala di tessuti, cactus fioriti, fili che tramano merletti di donna, scarpe di carta, mani che si stringono, bambini di tutti i colori. Le opere di “Donna Vita Libertà” sono dedicate alla rivolta delle donne iraniane che «apre ad un mondo nuovo in cui la pace è il pilastro di una società improntata ai valori materni, modello di civiltà per donne e uomini». Opere forti, drammatiche. Donne che si tagliano ciocche di capelli, forbici che squarciano chador multicolori, corpi nudi, feriti, legati da un filo rosso, e poi primi piani di donna, e altre donne che corrono libere a braccia aperte sulla spiaggia, che si prendono per mano, che alzano il pugno chiuso sul volto magnifico dell’Annunciata di Antonello da Messina.

«Una mostra – sottolinea Anna Di Salvo, una delle organizzatrici – importante per il suo valore relazionale dal momento che mette insieme donne da ogni parte d’Italia e perché favorisce la circolazione delle opere attraverso i centri in cui vengono ospitate».

(La Sicilia, 7 marzo 2025)

Nota. È ancora in corso, fino al 15 aprile, la raccolta della Mail art 2025, dedicata a “Amore e/è politica”: https://www.libreriadelledonne.it/altri_luoghi_altri_eventi/mail-art-amore-e-e-politica-entro-il-15-aprile-2025/ (Ndr sito)

da Agenzia Cult

Una voce che continua a interrogare il presente

Ci sono voci che attraversano il tempo senza perdere urgenza, che sembrano disperdersi ma tornano con rinnovata intensità, capace di interrogare il presente, e Carla Lonzi ne è un esempio. Nata a Firenze nel 1931 e morta a Milano nel 1982, Lonzi ha attraversato il secondo Novecento con uno sguardo tagliente, sempre teso a mettere in discussione i codici della cultura dominante, facendo della scrittura un gesto radicale di autenticità. Fondatrice di Rivolta Femminile, nei primi anni Settanta ha dato vita a una casa editrice che è stata molto più di un marchio editoriale: uno spazio di elaborazione collettiva e un luogo di parola in cui il femminismo ha preso corpo e si è fatto linguaggio. I suoi libri – Sputiamo su Hegel (1970), il Manifesto di Rivolta Femminile e Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) – hanno segnato generazioni di lettrici, aprendo possibilità di libertà e nuove forme di vita.

Negli ultimi anni l’interesse per la sua opera si è rinnovato grazie a un importante lavoro editoriale, prima con le ripubblicazioni di Et al. Edizioni, poi con La Tartaruga, che ha avviato la pubblicazione dell’opera completa sotto la cura di Annarosa Buttarelli. In questa direzione si inserisce anche Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, edito da Moretti & Vitali nella collana Pensiero e pratiche di trasformazione, che esplora il rapporto tra scrittura e soggettività nell’opera di Lonzi, restituendone la complessità e l’attualità.

La scrittura come pratica di trasformazione

Il corpo delle pagine è un libro prezioso sia per il valore introduttivo alla vicenda intellettuale e politica di Carla Lonzi, sia e soprattutto per il suo taglio inedito, che mette al centro la scrittura come pratica viva, processo in divenire, luogo di trasformazione. Per Carla Lonzi scrivere era un atto primario, un gesto continuo e necessario che ha accompagnato ogni giorno della sua vita sin dall’infanzia. Non un semplice strumento di espressione, ma il luogo stesso in cui la soggettività prende forma, in cui il pensiero si fa esperienza concreta, mai separato dalla vita. Il libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini esplora questa materia viva, arrivando al cuore della scrittura lonziana e restituendone tutta la forza trasformativa e il carattere radicale.

Questa ricerca si manifesta con particolare evidenza nell’ultimo capitolo, una conversazione tra le due autrici che non si limita a un confronto teorico, ma si fa pratica, esperimento, esposizione. Qui la riflessione su Carla Lonzi si traduce in un atto che richiama l’autocoscienza femminista, un dialogo che diventa esperienza di scrittura, in cui il pensiero si incarna nella relazione tra le due autrici. Raccontare Lonzi significa infatti misurarsi con un pensiero non separato dalla vita, una parola che nasce dal corpo e al corpo ritorna. Il libro diventa quindi un’esperienza di scrittura che si fa carico del suo senso più profondo, trasformandosi in un corpo a corpo l’eredità lonziana.

A confermare il valore del volume è anche la preziosa bibliografia conclusiva, che per la prima volta raccoglie in ordine cronologico tutte le sue pubblicazioni, comprese le edizioni successive, le traduzioni in lingua straniera e i testi apparsi su periodici e quotidiani. Si tratta di un repertorio inedito, che assume un’importanza fondamentale come strumento di consultazione e cometraccia del percorso di Carla Lonzi, un lavoro che rende questo libro ancora più prezioso nel panorama della riscoperta lonziana, offrendo finalmente una mappa per orientarsi nella sua opera.

Scrittura, autocoscienza, libertà

Il libro ripercorre i temi fondamentali del pensiero e della pratica di Carla Lonzi, restituendo la forza della sua critica alla cultura patriarcale. Il gesto di scrivere, per Lonzi, non è mai stato separato dalla vita, né concepito come un prodotto da offrire al consumo culturale, ma piuttosto come un atto politico e trasformativo, un processo continuo di autocoscienza attraverso il quale sottrarsi all’ordine simbolico maschile e costruire un linguaggio proprio, capace di esprimere un’esperienza femminile autonoma. Per questo la scrittura non è per lei un semplice strumento espressivo, ma il luogo della libertà, della rottura con le aspettative imposte e della costruzione di una soggettività non conforme ai modelli patriarcali della femminilità. La differenza femminile, in questa prospettiva, non è un dato biologico o un’identità predefinita, ma la possibilità di significare liberamente il proprio essere donna, sottraendosi alle strutture del dominio e ai modelli imposti.

Nel contesto degli anni Sessanta e Settanta, questa presa di parola prende forma nell’esperienza dei gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne iniziano a riconoscersi reciprocamente come soggetti autonomi ribaltando il paradigma della storia: da sempre raccontate da altri, le donne cominciano a trovare parole fedeli alla propria esperienza, fuori dalle categorie della cultura maschile. In questo quadro, Carla Lonzi sviluppa una riflessione che sposta l’attenzione dal prodotto finale della scrittura alla sua pratica, dove non è l’opera compiuta a essere imprescindibile, ma il processo, la relazione tra le donne, la parola che circola senza farsi sistema.

Scrittura, parlato e registrazione: un nuovo rapporto con il tempo

Proprio su questa tensione tra scrittura, parlato e presenza si innesta l’originalità del libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, che esplora in profondità un aspetto ancora poco indagato nel pensiero lonziano: l’uso della registrazione come strumento di autocoscienza e di rifiuto della linearità del discorso. Carla Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile utilizzano la registrazione come pratica fondativa del loro processo creativo, non solo per documentare il confronto nei gruppi di autocoscienza, ma anche per sovvertire il rapporto tradizionale tra parlato e scritto, tra presenza e memoria. In questo libro, le autrici riprendono e analizzano questa pratica, mostrando come la registrazione introduca una frattura nel tempo lineare, interrompendo la logica della produttività e aprendo la possibilità di ritornare continuamente sulle parole e recuperare ciò che rischia di essere rimosso o scartato. «L’uso della registrazione spezza l’ordine cronologico, poiché consente di tornare continuamente su quanto avrebbe potuto essere scartato, rimosso ed è in grado in questo modo di aprire al nuovo, all’imprevisto». [1]

Questo slittamento temporale è fondamentale nel pensiero lonziano, poiché mette in discussione l’idea di storia come processo lineare e progressivo. Le donne, escluse dalla narrazione storica, possono far leva su questa assenza, evitando la trappola dell’integrazione in un sistema che le ha sempre relegate ai margini: «La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo?» [2]

L’assenza femminile dalla storia non è una mancanza da colmare, ma un punto di partenza per costruire un altro modo di stare nel mondo, un’altra temporalità, che non risponda alle logiche del progresso e della produttività capitalista. In questo senso, la registrazione diventa uno strumento di attivazione del passato nel presente, un modo per riarticolare il rapporto tra sé e il tempo, sottraendosi alla fissità del già detto e del già scritto.

Nel loro dialogo le autrici mostrano come questa concezione del tempo sia ancora oggi politicamente necessaria. La possibilità di interrompere la linearità storica, di rifiutare l’integrazione in modelli prestabiliti, di rimanere fedeli a una ricerca di autenticità che non accetta compromessi è una questione ancora aperta, una pratica che riguarda tutte le soggettività non conformi.

Un libro che è anche esperienza

Ciò che rende Il corpo delle pagine un libro esemplare è la capacità di tenere insieme l’analisi teorica e l’esperienza vissuta e questa tensione trova la sua massima espressione nell’ultimo capitolo, che segna un punto di svolta nella lettura. Qui il testo abbandona la forma più tradizionale dell’analisi critica per farsi spazio di esperienza, mettendo in atto un confronto diretto tra le due autrici. Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, infatti, scelgono di pubblicare tre giorni di dialoghi tra loro. Il punto di partenza di questa conversazione è la mostra mai realizzata su Carla Lonzi, un progetto a cui la sorella Marta Lonzi ha lavorato dal 1997 al 2004. L’assenza di questo originale, il suo perenne differimento, diventa una chiave di lettura per l’intero libro e per il modo in cui il pensiero di Lonzi continua ad agire nel presente. Come scrivono le autrici: «A partire dallo studio dei materiali d’archivio e dall’immaginare una mostra mai realizzata, un originale assente, la nostra conversazione andava soprattutto tornando sugli aspetti del pensiero e della pratica di Lonzi non storicizzabili, quelli in grado di illuminare, ancora oggi, il nostro posizionarci, spesso con scomodità, rispetto alla cultura e alle sue istituzioni». [3]

Il confronto tra le due studiose è una riflessione sulla loro stessa esperienza politica e intellettuale, sulla possibilità di praticare oggi un pensiero non addomesticato, che non risponda alle logiche di efficienza e produttività che regolano il mondo accademico e culturale: «Il nostro tempo di scrittura, di pensiero e di progettazione è incontrovertibilmente incompatibile con i tempi e i modi attuali del lavoro intellettuale». [4]

Questa tensione è parte dell’eredità lonziana: il rifiuto di aderire a forme imposte di sapere, il privilegiare un rapporto tra soggettività che sia espressione di libertà e non di funzione. Il dialogo finale del libro è un corpo a corpo con i limiti e le contraddizioni del presente. Il differimento, quella continua sospensione tra il desiderio e la sua realizzazione diventa una forma di resistenza, non un fallimento: «Se si intende tenere legati il senso di sé e il proprio fare, pensando alle nostre esistenze come espressioni di questo legame […], non si può che esporci maggiormente al fallimento della mancata realizzazione». [5]

In questo libro, il pensiero di Carla Lonzi non è un archivio da esplorare ma una pratica da esperire, un modo di stare al mondo e di stare nella scrittura. Il dialogo tra le due autrici, proprio come le deregistrazioni di Rivolta Femminile, si fa gesto politico, abbandona la rigidità del saggio per restituire un movimento, un processo, un’apertura. Un esempio concreto di come la scrittura possa essere ancora oggi un atto radicale di autenticità.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, Moretti&Vitali, Bergamo 2024, p. 85

[2] Ibid., p. 86 dove si riporta la citazione di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974

[3] Ibid., p. 186

[4] Ibidem

[5] Ibid., p. 187

Abstract:

Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi by Linda Bertelli and Marta Equi Pierazzini explores Lonzi’s writing as a political and transformative act. Founder of Rivolta Femminile, Lonzi saw writing not as a finished product but as an ongoing process of self-awareness and liberation from patriarchal structures. The book’s originality lies in its analysis of her use of recording as a tool for collective consciousness, breaking linear time and traditional discourse. The final chapter, a dialogue between the authors, embodies this method, merging theory and experience. With a comprehensive bibliography, the book is both an introduction and a critical engagement with Lonzi’s work, reaffirming her legacy and the radical power of writing as an act of resistance.

da Internazionale

“Essere una donna” dice l’artista sul palco davanti a me, “non significa che io sono qui solo per crescere figli. Significa che sono qui per scrivere la storia. Noi donne possiamo parlare. Possiamo cantare. Nessuno ci ridurrà al silenzio”. Intorno a me esplode un boato di approvazione.

Mi trovo in un’enorme sala conferenze ad Hasakah, nel nordest della Siria. Sul palco c’è Mizgîn Tahir, una cantante dai capelli ricci e corti, in gonna e stivali. Le donne in platea sono vestite in modi diversi: lunghe vesti curde ricamate di lustrini, foulard con cappotti semplici, copricapi yazidi ornati di perline. Tutte applaudono. Tahir ha concluso il suo intervento e sta tornando al posto, ma il pubblico non glielo permette. «Canta per noi!», grida. «Canta!». Lei si volta, afferra il microfono e comincia a cantare. La sua voce intensa riempie la sala. Quando finisce, tutte le donne si alzano in piedi e intonano «Jin, jîyan, azadî» (Donna, vita, libertà), con la mano destra alzata in segno di pace.

Sono arrivata in questa sala conferenze il mio secondo giorno nel nordest della Siria, la regione nota come Rojava. (*) Il viaggio mi ha portato dal Kurdistan iracheno attraverso il fiume Tigri, dove gli aironi bianchi solcano le acque lente, fino allo spoglio paesaggio invernale della Siria settentrionale. Campi aridi si estendono a perdita d’occhio, l’aria è densa di fumo per il petrolio in fiamme e ogni pochi chilometri uomini armati ai posti di blocco scrutano chiunque passi. Per questo essere qui, circondata da tante donne piene di determinazione e passione, mi infonde energia e calore.

Tutto il mondo ha guardato i siriani festeggiare la caduta del brutale regime di Bashar al Assad. Anche in Rojava la popolazione ha festeggiato, contenta di vedere la fine di un governo che aveva portato tanta sofferenza. Anche qui sono state abbattute le statue e le persone sono scese in strada, mentre altre hanno pregato per il ritorno dei loro cari scomparsi nelle prigioni del regime. Ma la situazione in Rojava è diversa dal resto della Siria. Innanzitutto da qui il regime si era già ritirato. Nel 2012, mentre in altre parti della Siria le rivolte erano soffocate nel sangue, una ribellione guidata dai curdi ha preso il controllo della maggior parte di quest’area. È nata così un’amministrazione autonoma, oggi conosciuta come Amministrazione autonoma della Siria del nordest (Daanes). La Daanes ha dovuto affrontare sfide continue. Tra il 2014 e il 2019 il gruppo Stato islamico (Is) ha scatenato il panico in tutta la regione, e migliaia di prigionieri jihadisti sono ancora detenuti in campi sovraffollati creati in questa zona. Il governo turco, che accusa l’Amministrazione di essere alleata con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, il gruppo militante curdo attivo nell’est della Turchia, non ha mai smesso di attaccarla e oggi occupa alcune aree del nord della Siria dove ha recentemente intensificato raid aerei e offensive condotte tramite milizie locali. Anche se gli Stati Uniti hanno sostenuto la lotta della Daanes contro l’Is, nessuno nella comunità internazionale la riconosce come governo. Eppure è andata avanti più di dieci anni, e non solo. I suoi coraggiosi esperimenti di condivisione del potere e di democrazia diretta l’hanno resa una fonte d’ispirazione per molti socialisti e molte femministe. 

Impegno incrollabile

Sono qui proprio per capire meglio questi esperimenti, perché sto scrivendo un libro che ruota attorno a una domanda: di quale femminismo abbiamo bisogno oggi? In un mondo in cui misoginia, conflitti e crisi ambientale sono in crescita, dove si riuniscono ancora le donne, nonostante tutte le avversità, nella speranza di creare un mondo migliore? Come stanno procedendo? Che possibilità di successo hanno? Anche se qui non è sempre facile capire dove finisce la retorica e comincia la realtà, una cosa mi è subito chiara: queste donne sono probabilmente le femministe più determinate che abbia mai incontrato. 

«Questa è una rivoluzione delle donne», dichiara Rihan Loqo, la prima relatrice della conferenza. Rappresenta Kongra Star, la rete femminile del Rojava che mi ospita durante il soggiorno. Parla con sicurezza e un sorriso aperto, avvolta in un lungo abito verde e oro, i capelli scuri sciolti sulle spalle. «È una lotta storica contro ogni forma di violenza, contro ogni oppressione», afferma. 

Lo slogan Donna, vita, libertà è nato in Rojava, ma le azioni di queste donne vanno molto oltre. Un giorno incontro Leyla Saroxan, copresidente del comitato locale per l’agricoltura e l’economia. Già il suo titolo rivela un aspetto cruciale: le strutture di governo del Rojava si basano su una divisione del potere rigorosamente paritaria tra uomini e donne. Il sistema prevede una rete articolata di comitati e consigli, dal livello di quartiere a quello regionale, ciascuno con due copresidenti, un uomo e una donna. In altre parole, l’Amministrazione potrebbe essere il modello politico più paritario al mondo. 

Nonostante il suo aspetto austero (un foulard beige, un vestito nero e scarpe lucide) Saroxan è chiaramente guidata dalle idee progressiste che circolano qui. «La maggior parte degli stati nel mondo si regge su princìpi capitalistici. Il principio da cui partiamo qui è quello di un’economia sociale. Ci chiediamo come servire i bisogni delle persone, non solo come fare soldi», afferma con decisione. 

Mentre discutiamo quanto sia davvero possibile, un giovane entra ed esce, portandoci tè e caffè. L’interprete fa una battuta sui ruoli di genere e Saroxan ride: non devono essere solo le donne a ricoprire ruoli che sfidano la tradizione, devono farlo anche gli uomini. Ammette di essere stata spesso interrotta mentre parlava dagli uomini intorno a lei, ma di aver continuato a fare il suo lavoro e a mantenere la sua posizione. 

Il suo impegno incrollabile per i diritti femminili la rende scettica nei confronti del nuovo governo di Damasco. Non è l’unica. Anche se hanno accolto con sollievo la caduta di Assad, ora le donne qui si sentono sull’orlo di un precipizio. Non sanno se questi leader politici rispetteranno i progressi che hanno compiuto né cosa farà la comunità internazionale per sostenerle o ostacolarle. 

Il gruppo che ha rovesciato il regime di Assad, Hayat Tahrir al Sham (Hts), è guidato da Ahmed al Sharaa, un ex esponente di Al Qaeda in Iraq. Nelle aree della Siria un tempo sotto il controllo dell’Hts sono state registrate pratiche di segregazione di genere e abusi contro donne e minoranze, ma ora Al Sharaa e i suoi alleati cercano di presentarsi con un volto molto più moderato. Saroxan ci crede? No. «Dobbiamo essere realistiche su chi sono. Tutti gli esponenti di spicco dell’esercito che ha sconfitto il regime in passato erano criminali e islamisti». Altre mi raccontano con orrore del video diffuso sui social media, in cui il nuovo ministro della giustizia sovrintende all’esecuzione di due donne nel 2015. E parlano con timore della stretta relazione tra i nuovi leader siriani e il governo turco.

Quando chiedo a Saroxan quale sia la sua opinione sulla libertà religiosa, risponde in modo pratico. «Io porto il velo, la mia amica no», dice, indicando una collega a capo scoperto, «però lavoriamo insieme». Passeggiando per Hasakah e Qamishli, due delle principali città della regione, noto che la maggior parte delle donne non indossa il velo. Nei negozi, nei caffè e all’università camminano da sole o con le amiche, fumano il narghilè nei locali e ballano per strada alle manifestazioni. 

Durante un’animata protesta contro il femminicidio a cui partecipo un giorno a Qamishli sotto il sole di mezzogiorno, mi ritrovo a parlare con un gruppo di ventenni. Chiedo a una, Iman, cosa vorrebbe che si sapesse di loro all’estero. «Che non torneremo indietro», risponde senza esitare. «Abbiamo fatto tanta strada. Abbiamo combattuto, facciamo ogni tipo di lavoro. Il nuovo governo deve ascoltarci».

Il giardino della lettura

Questa determinazione non è frutto del caso. Le donne hanno costruito consapevolmente la loro rivoluzione, partendo dal basso. Un giorno visito una mala jin, una casa delle donne, a Qamishli. Questi spazi sono stati creati per offrire supporto e protezione alle vittime di violenza domestica o a persone coinvolte in dispute familiari. La responsabile del centro, Bahiya Mourad, è una signora sulla sessantina con un sorriso sempre pronto. «Le prime mala jin sono nate nel 2011», racconta, «quando il regime di Assad ancora controllava Qamishli. Un giorno le autorità vennero e ci ordinarono di chiudere. Prendemmo dei bastoni e le cacciammo via». Mourad e le sue colleghe sono andate di casa in casa, contribuendo a creare tra le donne una consapevolezza dei loro diritti.

All’inizio erano poche a rivolgersi ai centri. «All’epoca», dice Mourad, «non conoscevamo la nostra forza. Tutte temevano le conseguenze se avessero cercato di farsi avanti. Potevano perdere i figli, subire ritorsioni». Negli ultimi tredici anni la situazione è cambiata radicalmente. Mourad e le sue colleghe sono andate di casa in casa, contribuendo a far diventare le donne consapevoli dei loro diritti. Racconta con un sorriso un episodio dei primi tempi. Avevano saputo di una giovane tenuta prigioniera nella casa del fratello. Lei e un’altra signora più anziana bussarono alla porta dicendo di cercare un posto per pregare. Una volta dentro, chiesero della ragazza e convinsero il fratello a lasciare che la aiutassero. Le trovarono un lavoro. «Abbiamo cambiato la sua vita e quella della famiglia. Ci hanno fatto entrare pensando: che male potranno mai fare due vecchie? Ma il potere delle donne è grande. Sono anziana ma agguerrita». 

Mi raccontano che dieci anni fa aiutavano una o due donne al mese; oggi il numero è salito a cento. Ora, per esempio, esistono leggi contro i matrimoni precoci, e quando vengono a sapere che una ragazzina sta per sposarsi, vanno a convincere la famiglia a ripensarci. Si occupano anche dei casi in cui un ragazzo e una ragazza s’innamorano e vogliono sposarsi contro il volere dei genitori. «Spesso finiamo per ballare ai loro matrimoni».

La trasformazione politica è stata guidata dalle donne curde, per le quali l’emancipazione è intimamente connessa alla riappropriazione della loro identità curda. Durante la conferenza mi si avvicina una signora dall’aria seria, Anahita Sino. È copresidente del sindacato degli intellettuali e vuole capire cosa abbia portato una scrittrice britannica nel nordest della Siria. Qualche giorno dopo vado a casa sua, un tranquillo appartamento a Qamishli. Sedute sui divani disposti lungo le pareti della stanza, insieme alla figlia e al marito, parliamo di libri e di libertà. La cultura curda è stata talmente repressa sotto il regime di Assad che lei e altri scrittori erano costretti a scrivere poesie e racconti a mano, nascondendo i fogli tra i vestiti e distribuendoli di casa in casa. «Quando organizzavamo le letture piazzavamo dei ragazzi sui tetti e agli angoli delle strade per avvisarci se arrivava la polizia». 

Sino e i suoi colleghi hanno allestito una biblioteca in un giardino, uno spazio di incontro per scrittori e lettori. Qualche giorno dopo vado a visitare questo “giardino della lettura”. Qamishli è una città caotica e inquinata, ma qui le aiuole di rose sono bordate di ciottoli bianchi e gli eucalipti schermano la strada. Al centro ci sono la biblioteca, una sala lettura e una fontana, asciutta a causa della scarsità di acqua, a forma di albero e di libro. La cura con cui lo spazio è stato creato è evidente. Sino mi regala uno dei suoi libri, dicendomi che parla d’amore. «Gli scrittori non possono lavorare senza libertà», afferma. «Neanche in occidente sono sempre liberi di dire quello che vogliono. Dobbiamo lottare per la nostra libertà ovunque». 

Fuori della gabbia

Ma la trasformazione qui non riguarda solo le donne curde. Quella siriana è una società incredibilmente variegata, dove armeni, siriaci, turkmeni e altre minoranze etniche e religiose convivono con la maggioranza araba. Georgette Barsoum, una donna cristiana siriaca, mi ricorda che anche queste minoranze erano oppresse dal regime di Assad, «che ci ha minacciato fino alla fine. Quando è caduto è stata una felicità indescrivibile: mi sono sentita come un uccello che vola fuori della gabbia».

Barsoum ci tiene inoltre a ricordarmi che le donne siriache, insieme ad altre, hanno partecipato e sostenuto l’Amministrazione autonoma della Siria del nordest fin dall’inizio. Tuttavia non mancano le voci critiche, secondo cui lo scarso sostegno all’Amministrazione tra la popolazione araba nel nordest della Siria è un segno dei suoi limiti, e che sottolineano altri problemi. Come per esempio lo stretto legame tra il Partito dell’unione democratica (Pyd), dominante nell’Amministrazione, e il Pkk, considerato un’organizzazione terroristica da molti paesi, che ostacola il riconoscimento internazionale. Oppure il fatto che l’impegno del Pyd in favore della libertà di espressione e del dissenso politico non è sempre effettivo, e che all’Amministrazione sono state rivolte accuse di violazioni dei diritti umani, tra cui maltrattamenti su alcuni prigionieri dell’Is. 

Altri sono semplicemente scettici sul fatto che la Daanes sia riuscita a realizzare le sue promesse. Pensano che l’avanguardia femminile della rivoluzione non abbia ancora ottenuto i profondi cambiamenti culturali necessari. «Questa rivoluzione delle donne funziona per alcune», mi dice una scrittrice che chiamerò Aliya. «Ma non per la maggior parte». Aliya lavora nel settore dell’informazione e racconta che il suo stile di vita emancipato l’ha portata a scontrarsi con alcuni uomini e con la sua famiglia. «Gli uomini dicono di accettarlo, ma poi finiscono per sposare una ragazza con valori tradizionali. Non si può cambiare una società così in fretta». 

In questo momento di transizione, tutto – ogni progresso, ogni fallimento – è motivo di dibattito. Però, mi ha colpito il fatto che nessuna delle persone con cui ho parlato desideri che l’amministrazione autonoma sia separata dal nuovo governo siriano. Tutti affermano di voler far parte di una Siria in cui le donne e le minoranze possano godere dei loro diritti. Molte spiegano che il federalismo democratico dell’Amministrazione e la condivisione del potere su base paritaria di genere possono essere un modello per tutta la Siria. Ma nessuna ha la certezza che questo possa accadere e alcune si stanno preparando a combattere. Come ha detto Rihan Loqo alla conferenza: «Abbiamo pagato questi progressi con centinaia di martiri, e combatteremo per difenderli». 

Questione di sicurezza

Non è solo retorica. In occidente abbiamo visto le immagini delle soldate curde, con i capelli scuri intrecciati e i kalashnikov, che hanno avuto un ruolo cruciale nella sconfitta dell’Is. Nel 2014 le Unità di protezione delle donne (Ypj) hanno affrontato la forza più misogina del mondo e gli è stato riconosciuto il merito di aver ribaltato le sorti della battaglia a Kobane. Ora le Ypj fanno parte delle Forze democratiche siriane (Fds), l’esercito della Daanes, attualmente impegnato in delicati negoziati su un’eventuale integrazione in un nuovo esercito nazionale siriano guidato da Damasco.

Quello che non avevo compreso prima di venire qui è quanto siano celebrate le combattenti. Mizgîn Tahir, per esempio, dice con il suo tipico slancio: «Perché nessuno può mettermi a tacere? Perché le Ypj mi appoggiano». Ovunque vedo ritratti delle soldate cadute affissi sui muri. Più volte il canto Jin, jîyan, azadî si trasforma nel più aggressivo şehîd namirin (i martiri non muoiono mai).

Un pomeriggio visito il quartier generale delle Ypj a Hasakah. Mi accoglie una delle portavoce, Ruksen Mohammed, una giovane dall’aria pensierosa, insieme ad altre combattenti delle Ypj e della forza di difesa civile femminile. Beviamo il tè e discutiamo di femminismo e guerra. Mohammed considera le incursioni dell’Is in Rojava come un attacco deliberato ai progressi delle donne: «Ci hanno attaccate perché avevamo un ruolo di avanguardia nella società». Sono orgogliose di quello che hanno realizzato. «Non abbiamo sconfitto l’Is solo per noi, ma per l’umanità e per il mondo. Stiamo lottando per un domani libero per tutti».

Quando dico che riconosco il loro coraggio ma fatico ad accettare l’esaltazione del militarismo, accolgono con entusiasmo la discussione. Una combattente delle Ypj rilancia con la storia del femminismo nel Regno Unito: «Quando è stato necessario, anche le suffragette hanno scelto la militanza». Un’altra aggiunge che è una questione di sicurezza: «Se non possiamo difenderci, sappiamo quali sono i rischi. Cosa può succederci? Guarda le donne in Afghanistan, in Iran. Non prendiamo le armi perché ci piacciono, ma perché siamo costrette».

Ho la sensazione che troppo spesso, quando in occidente si discute del futuro siriano, questo appassionato femminismo sia completamente trascurato. Forse è troppo curdo. Forse è troppo militarizzato. Forse è troppo socialista. Forse è semplicemente troppo improbabile. Forse quello che gli osservatori occidentali vogliono quando pensano al femminismo in Medio Oriente è qualcosa di più educato, meno deciso, meno arrabbiato? Eppure, ogni giorno che trascorro nel nordest della Siria – che sia in una università o in un comitato per la giustizia, in una facoltà di ecologia o a una manifestazione – resto senza fiato davanti alla profonda dedizione con cui le donne sostengono quello che hanno creato. Come ha detto la femminista statunitense Robin Morgan: «Puoi fingere un orgasmo, ma non puoi fingere un movimento». Che parlino di dee mesopotamiche o di Rosa Luxemburg, del loro odio per l’occupazione turca o dell’amore per la libertà, l’irriducibile desiderio di difendere i loro diritti risuona forte e chiaro.

Un luogo speciale

Un pomeriggio viaggio per un paio d’ore da Qamishli a Jinwar. Nato come centro d’accoglienza, è un villaggio dove vivono circa venti famiglie di donne e bambini. Tra loro ci sono una yazida sopravvissuta al genocidio con suo figlio e altre persone che hanno bisogno della solidarietà di questo luogo speciale. Le casette hanno ciascuna un giardino, le donne coltivano erbe e ortaggi, e contribuiscono alle attività del villaggio, come infornare il pane e produrre rimedi erboristici tradizionali. Cammino nella luce del pomeriggio, respirando un’aria più dolce. Sul forno c’è un disegno di Nisaba, l’antica dea mesopotamica della scrittura e del grano. Più volte durante le conversazioni le donne hanno ricordato di essersi ispirate all’idea che, prima del patriarcato, in questa regione c’erano antiche società egualitarie in cui le donne condividevano il potere con gli uomini. A Jinwar hanno cercato di incarnare quelle tradizioni in una nuova forma.

Salgo sul tetto di una casa. Da quassù il villaggio sembra piccolo, quasi perso nella pianura che si estende fino al confine turco. Da un lato c’è un boschetto di melograni e ulivi, tra i cui rami cinguettano fringuelli; in un campo pascolano mucche e pecore. In questa terra martoriata, Jinwar sembra un’oasi di speranza. Sotto di me donne e bambini si radunano intorno a un fuoco: tostano frutta secca e semi, ridendo al tramonto. Donne di fedi e storie diverse possono condividere la cura dei figli, della terra e di loro stesse. Le loro risate si mescolano, salendo nell’aria fredda.

Ripenso alle parole di una delle poche arabe intervenute alla conferenza. Shah­ra­zad al Jassem, del gruppo Zenobiya, che riunisce le donne arabe del nordest della Siria, ha parlato con fermezza: «Non faremo passi indietro, non perderemo i nostri diritti, costruiremo una Siria fondata sui diritti femminili, abbiamo acceso una nuova fiamma». Nella tenue luce dorata, ascolto le risate delle donne e spero, con tutto il cuore, che la fiamma che hanno acceso possa resistere.

Natasha Walter è una scrittrice e attivista britannica, tra le fondatrici di Women for refugee women, un’associazione per i diritti delle donne che chiedono asilo politico nel Regno Unito.

(*) Rojava. Dalla rivoluzione all’inclusione (scheda):

– In Siria i curdi costituiscono tra il 7% e il 10% della popolazione. Prima della rivoluzione del 2011 vivevano in condizioni di marginalità a Damasco, Aleppo e intorno a Kobane, Afrin e Qamishli.

– Nel 2012 i curdi siriani hanno espulso l’esercito e le autorità di Damasco da tre zone del nord del paese. Nel 2014 hanno istituito l’Amministrazione autonoma del nordest della Siria, nota come Rojava.

– Nel settembre 2014 il gruppo Stato islamico (Is) ha attaccato Kobane, ma è stato respinto dai combattenti curdi e dai loro alleati. Le Forze democratiche siriane (Fds, un’alleanza a maggioranza curda sostenuta dagli Stati Uniti) hanno combattuto contro i jihadisti fino alla loro sconfitta nel marzo 2019.

– Dal 2016 l’esercito turco e l’Esercito nazionale siriano (Sna, una milizia sostenuta da Ankara), hanno lanciato varie operazioni militari contro le Fds e conquistato centinaia di chilometri lungo il confine.

– Dopo la caduta di Bashar al Assad nel dicembre 2024, l’Sna ha lanciato una nuova offensiva contro le Fds.

– Il leader siriano Ahmed al Sharaa ha promesso di formare un governo inclusivo e ha chiesto a tutte le fazioni armate di deporre le armi. Sono in corso negoziati con le Fds per trovare una soluzione per il nordest della Siria.

(Bbc, Rojava information center)

(Pubblicato con il titolo La resistenza femminista, https://intern.az/1LMqInternazionale, 7 marzo 2025, da The Guardian, 9 febbraio 2025)

Da Radio Popolare

La Libreria delle donne compie 50 anni nel 2025. Parliamo con Vita Cosentino e Laura Giordano della storia di questo luogo, dei gruppi, di alcune delle iniziative per l’anniversario. A seguire, una nuova puntata dedicata alla nostra rubrica su educazione sessuale e affettiva: Elena Lolli presenta la Tabooteca di Bologna e Nicoletta Landi parla del suo lavoro di formatrice e del suo libro “Il piacere non è nel programma di Scienze! Educare alla sessualità oggi, in Italia”.

Sui Generis | 31 gennaio 2025

da L’Eco di Bergamo

Nata nel 1975 con un antesignano “fundraising”, la libreria raccoglie libri di scrittrici e offre uno spazio di riflessione femminista. Generazioni diverse discutono di parità, violenza e educazione, promuovendo un pensiero critico e la rete tra donne

È sabato pomeriggio, sono a Milano, in via Pietro Calvi 29, vicino a piazza Cinque Giornate. L’insegna è in una via defilata, ma non sfugge allo sguardo dei passanti più attenti: «Libreria delle donne». Lì incontro le protagoniste che mi invitano ad unirmi a loro in una foto all’esterno della libreria. La storia di quel luogo è iniziata molto tempo fa, in una via diversa del capoluogo meneghino: via Dogana 2. Sono passati cinquant’anni dall’ottobre del 1975, quando ha aperto i battenti, la “Libreria delle donne”. Il resto me lo hanno raccontato le femministe, alcune che in quell’ottobre di cinquant’anni fa erano lì, chi è arrivata qualche anno dopo e chi da poco si è unita al gruppo.

Lia Cigarini, Giordana Masotto, Traudel Sattler, Laura Minguzzi, Silvia Baratella, Laura Colombo e Daniela Santoro… Mi invitano a entrare e non appena mi guardo intorno, sono circondata da libri. Che è normale, trovandosi in libreria. Con la sola differenza che le autrici sono solo donne: su uno dei ripiani di fronte alla porta ci sono esposti i testi di Dacia Maraini, Sally Rooney, Sylvia Beach, Arianna Farinelli.

Sedute in gruppo, in quell’ambiente caldo e famigliare, prende la parola Lia Cigarini, avvocata milanese e femminista tra le storiche a dare il via a quella rivoluzionaria e coraggiosa scelta di aprire una libreria per donne. «Abbiamo ricevuto un invito a prender parte a un incontro in Normandia, era un periodo di festività politica – racconta Cigarini – Quel gruppo di donne ci aveva colpito e siamo state prese da un grande entusiasmo, ispirate dal fatto che loro avevano già aperto una libreria». Si riferisce alle femministe della “Librairie des Femmes” di Parigi, a cui il gruppo milanese si è ispirato. Si sono dovute dotare di una formula, per l’epoca rivoluzionaria, una sorta di “fundraising” dei tempi: erano quindici socie riunite nella cooperativa Sibilla Aleramo.

«Non c’era un modello del genere in Italia – raccontano – aperto sulla strada, dove potevi trovare pubblicazioni di donne». Era una novità, e come tale generò uno shock sulla scena editoriale. «Fece rumore– dicevano generando un sovrapporsi di voci che riproponeva l’energia e la grinta di quando qualcosa di bello sta per nascere –. Era una bomba dal punto di vista editoriale e poi nelle librerie era una rarità trovare libri di sole donne. I quotidiani ne parlavano molto, naturalmente, e le aziende editoriali ci facevano templi d’oro, ogni settimana arrivavano con proposte».

Uno scatto della libreria

Tutto questo accade nel cuore della seconda ondata femminista, dove il panorama – spiega Giordana Masotto, anche lei tra le fondatrici insieme a Luisa Muraro ed Elena Medi – «era di un femminismo caratterizzato dalla pratica di autocoscienza, che nasceva all’interno delle case, e poi veniva portato al di fuori durante gli incontri dove si produceva pensiero, scrittura, pratica politica». La Libreria è diventata fondamentale perché ha dato alle donne uno spazio, ha fornito gli strumenti per stare nei luoghi misti ed è diventata punto di riferimento per la società milaneseoltre che ispirazione dentro e fuori i confini della Penisola.

«Voler far incontrare la creatività di alcune con la volontà di liberazione di tutte» recitava il manifesto di apertura, infatti parte dei finanziamenti erano arrivati anche grazie alla vendita di cartelle di opere d’arte realizzate da artiste di rilievo (alcune opere sono ancora appese in Libreria, ndr) coordinate da Lea Vergine.

Era il 1982 quando Traudel Sattler si avvicina alla Libreria e tratteggia quegli anni con un clima di frenesia: «In Germania, il femminismo era quello delle rivendicazioni, delle manifestazioni di piazza per la parità dei diritti e le consigliere della parità erano ovunque». Traudel parla di volontà da parte delle donne di “uscire dal safe-space e di sessualizzare i rapporti sociali”, nel senso di far emergere il fatto di essere donna in ogni contesto della società. «Questo ha scatenato un’attività frenetica tra le insegnanti, le filosofe, le scienziate, e le storiche. Fior fiori di libri vennero pubblicati mentre la stampa mainstream titolava “il femminismo è morto” perché non vedeva più le manifestazioni di piazza, ma in realtà la produzione proliferava».

Da sinistra Giorgia Basch, Giordana Masotto e Laura Colombo
Da sinistra Giorgia Basch, Giordana Masotto e Laura Colombo

È proprio alle donne della Libreria che chiediamo di darci delle dritte, di illuminarci, forti della loro attività di studio e dell’esperienza, su alcuni temi che sono ancora oggi oggetto di discussione.

Pari… ma pari a chi?

La scintilla dell’epoca era creare un movimento che fosse contro la parità di genere. In che senso? «La parità – spiega Laura Colombo, che appartiene alla generazione successiva di femministe arriva in Libreria verso la fine dello scorso millennio – presuppone che entri nel mondo con una misura già data, che è quella maschile. Tutto è modellato, al lavoro, in famiglia, tra le donne stesse, da un simbolico che è maschile. E quindi se devi essere pari lo devi essere a chi? A un uomo».

Fare rete non ha scadenza

È uno strumento di cui sempre più aziende si stanno dotando, ed è la certificazione della Parità di genere. Ma è davvero lì che si giocano le pari opportunità tra uomo e donna? Ci spiegano che si tratta di concessioni calate dall’alto che, nel caso specifico, sta ad indicare quante donne ricoprono ruoli dirigenziali. È però una misura di policy che non ha garanzia di durata. Un esempio: è sufficiente un cambio di governo, e con esso vengono spazzate vie anche tutte le politiche sulla diversity.

L’incontro di sabato 22 febbraio
L’incontro di sabato 22 febbraio

In questo ci aiuta a comprendere meglio cosa davvero porterebbe al cambiamento la sindacalista Michela Spera: «Una pari opportunità la si identifica con l’espressione della soggettività – dice –. Quando le relazioni tra donne permettono di esprimersi, poter contare sulle altre, riconoscersi e sentirsi valorizzate in una misura che non è quella degli uomini, altrimenti si rincorrono comportamenti che estraniano la donna dalla sua soggettività». Il contesto cambia, per davvero, solo se si dà alle donne la possibilità di esprimersi secondo il loro sistema di valori. Le donne devono fare rete. «Negli anni sono sempre venuta in Libreria per poter attingere il pensiero e portare la pratica politica in altri luoghi, per avere la possibilità di stare nei luoghi misti con qualche strumento», aggiunge Spera.

Bambine e bambini vanno educati alla parità di genere?

La risposta è no. Non ha alcun senso e questo è in parte dipeso dal fatto che il ruolo della donna è molto cambiato negli anni. Le bambine prendono le madri come modello. E le ragazze «anche se non hanno una madre femminista, hanno una madre segnata dal femminismo» dicono le intervistate. Il ruolo che la scuola ha nell’educazione sia dei maschi che delle femmine gioca invece un ruolo importante: possiamo pensare che il problema sia solo per le figlie femmine invece ci sono fenomeni che riguardano anche gli adolescenti maschi. Daniela Santoro, classe 1999, incarna la nuova generazione al fianco delle Libraie femministe e pone l’accento su un problema meno risentito: «Un aspetto che riscontro a scuola, ma anche in università o al lavoro, è la mancanza di soggettività dei ragazzi e delle ragazze sotto le pressioni di standard sociali che appiattiscono e livellano le peculiarità del singolo. Lo standard invece è il singolo. – dice –. Questo si espande a macchia d’olio sui ragazzi adolescenti maschi che sono sempre più fragili, e proprio perché lo standard impone che “non devi essere fragile” loro soffrono il doppio».

Il patriarcato è finito?

«Questa crisi dei maschi ha molto a che fare – aggiunge Laura Colombo – con la rivoluzione femminista che ha sovvertito l’ordine simbolico: il patriarcato come lo conoscevamo cinquant’anni fa non c’è più». E questa è, senza dubbio, una vittoria del femminismo. «Esiste una libertà femminile iscritta nell’ordine simbolico, sono saltati dei cardini». Il concetto è quello del caos post-patriarcale, dove d’altro canto, sono gli uomini, i padri ad aver perso dei riferimenti chiave e di conseguenza è più difficile per i maschi adolescenti orientarsi in un sistema dove è diventata la madre il punto di riferimento.

Il linguaggio della violenza

I media hanno una grande responsabilità quando scrivono di casi di violenza sulle donne o di femminicidio. «La necessità è quella di risemantizzare il discorso sulla violenza, come viene “pubblicizzata”». La descrizione ricca di particolari, minuzie, quasi fosse un’inquisizione si trasforma in pornografia della violenza invece che in dovere di informazione. «In un mondo in cui la pornografia è resa sempre più accessibile e ad età sempre minori – spiega Santoro – si alza la soglia della violenza e non si genera altro che una doppia vittimizzazione della vittima dando l’idea di quale è lo standard della violenza». La conseguenza, quindi, è che dal momento in cui si “devia” dallo standard che viene identificato allora cominciano le domande come “Ma come era vestita?”, o i commenti “Forse se l’è cercata”, fino ai dubbi “Ma si è trattato davvero di violenza?”.

Quanto spesso leggiamo titoli come “Donna violentata da un uomo”, e mai il contrario, “Uomo violenta una donna”. L’oggetto della comunicazione è sempre la donna violentata e non l’uomo che ha commesso la violenza. «Noi la percepiamo come paziente dell’azione, la protagonista c’è ma non si vede e questo provoca una seconda vittimizzazione», conclude Santoro.

Per quanto riguarda il futuro della Libreria, mi dicono, «è un eterno presente, una relazione senza fine. Non c’è mai stato l’intento di agire per obiettivi o di creare una società ideale, ma sempre una compresenza di generazioni, e un via vai di donne».

Pratiche politiche contro la guerra”, incontro tenuto alla Libreria delle donne il 1° marzo 2025 con Clelia Pallotta e Daniela Dioguardi, prendendo spunto dal libro “Corpi e parole di donne per la pace” a cura di Mariella Pasinati, Navarra editore, 2024.

Ai primi di aprile del 2022, qualche settimana dopo l’inizio delle “operazioni speciali” russe in Ucraina, su uno spunto venuto dall’Unione Donne in Italia, la Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UdiPalermo dava inizio ad un Presidio permanente per la pace a cui si unirono altri gruppi di donne palermitane (Le Rose Bianche, Donne CGIL, Coordinamento Donne ANPI, Emily, Donne Caffè filosofico Bonetti, Fidapa Palermo Felicissima, Il femminile è politico. Governo di lei, Donne no Muos no War, CIF, Le Onde, Arcilesbica). Nel primo anno il presidio si è tenuto tutte le settimane, poi dal febbraio 2023 una volta al mese, il 24. Gli incontri avvengono alla Statua, cioè davanti al monumento dei caduti che come in ogni città celebra i morti nelle guerre, il loro eroismo e il sacrificio per la Patria. Un luogo simbolico dunque, da cui mostrare l’assurdità della guerra e la necessità di espellerla dalla storia umana: «Fuori la guerra dalla storia». Questa frase, ripresa da Bertha von Suttner e adottata dal presidio, è una parola d’ordine fatta propria da tutto il movimento femminista, in tutte le sue declinazioni; e poi «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» lo dice l’articolo 11 della Costituzione, per salvare «le future generazioni dal flagello della guerra» ammonisce il preambolo della Carta costitutiva delle Nazioni Unite. E nel loro pezzo, in questo libro, che ha titolo Un cambio di sguardo per rendere impensabile la guerra, Daniela Dioguardi e Anna Marrone raccontano di uno striscione portato alla grande manifestazione a Palermo del 24 febbraio 2023, a un anno dall’inizio della guerra, da un gruppo di studenti arrivate/i numerosissimi, grazie anche all’intenso lavoro fatto con le scuole di Palermo dalle promotrici del presidio: «Per favore non fate più guerre, non vogliamo studiarle più», con ironia hanno affermato una verità condivisa da gran parte dell’umanità più giovane, almeno in quella parte del mondo in cui ci sono scuole e condizioni per frequentarle.

Questo libro, curato da Mariella Pasinati, testimonia dunque l’esperienza del presidio permanente per la pace di Palermo. Oltre all’introduzione della curatrice, raccoglie dieci testi prodotti da dodici autrici per seminari e incontri organizzati nella Biblioteca delle donne o come articoli. Quattro sono stati pubblicati sulla rivista Il Segno nei primi mesi, per informare e riflettere sulla guerra e sulla pace, anche richiamando il pensiero e le opere di pensatrici, filosofe, donne che hanno cercato di trovare parole e pratiche per dare forma e contenuto a «un rifiuto sessuato della guerra».

E nei saggi di queste pagine entriamo in contatto, attraverso le autrici, con Svetlana Aleksiević, Judith Butler, Agnes Heller, Vandana Shiva e con Maria Luisa Boccia presente ad un seminario con il suo libro Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista. La seconda parte del volume ospita i cinquantacinque volantini prodotti per ogni appuntamento del presidio, fino al 24 febbraio 2024, quando i testi sono stati chiusi per la composizione e la stampa del libro. Nei volantini si parla via via degli avvenimenti che si susseguono nel tempo, riflessioni in tempo reale e a caldo sugli scenari vecchi e nuovi delle guerre. Anche di quelle guerre che le donne si trovano a vivere nella loro vita quotidiana (Giulia Cecchettin).     

Le guerre comunque nella storia umana non sono mai cessate, nemmeno dopo Auschwitz e Hiroshima, i due nomi che hanno simboleggiato e dovrebbero simboleggiare ancora l’orrore e l’impossibilità di altre guerre, in teoria, perché in pratica secondo Oxfam dopo la seconda guerra mondiale, anche se nel mondo il numero totale dei morti per cause belliche è diminuito, il numero dei conflitti armati non è mai sceso sotto il centinaio. Anche adesso ci sono almeno un centinaio di conflitti armati in giro per il globo, di alcuni non sappiamo quasi niente, altri sono più o meno documentati e segnalati dai media nazionali o internazionali, altri soprattutto se coinvolgono in qualche modo i paesi occidentali hanno l’onore quotidiano delle cronache e portano scompiglio e lutto nelle nostre giornate e nei nostri cuori.

Certo non tutte le guerre sono della stessa entità e dello stesso tipo, ce n’è di grandi e di piccole, agite da eserciti o da gruppi irregolari, ad alta e a bassa intensità, endemiche e lampo, mondiali, regionali o    locali, simmetriche e asimmetriche, convenzionali, e poi le devastanti e famigerate guerre non convenzionali; ci sono poi le definizioni retoriche legate alle occasioni imperiali che a seconda del bisogno comunicativo e didattico nominano la guerra giusta o la guerra preventiva, la guerra umanitaria (che porta libertà, democrazia e progresso, cioè consumo) o la guerra per le donne; la guerra etica o la guerra per la pace. Esiste tutto un universo verbale, gerarchico, classificatorio, tipologico che distingue e sistema secondo una logica ordinatrice questa passione maschile organizzata per l’assassinio e per la distruzione, motivata nella maggior parte dei casi con argomenti umanitari e altruistici, ma che nella stragrande maggioranza dei casi è prodotta da progetti di espansione territoriale, di predominio commerciale, di accaparramento di risorse preziose e limitate, come il petrolio, il gas, l’ acqua, le terre fertili e le terre rare, minerali preziosi e indispensabili per la produzione di tecnologia avanzata. Da intenti predatori, in sostanza.

È impressionante consultare Wikipedia con la parola guerra, si apre un territorio sterminato di racconti e approfondimenti che si ramificano in tutte le discipline dello scibile umano, dall’economia alla filosofia, dall’alimentazione alle canzoni, dall’abbigliamento al linguaggio, una bibliografia sterminata, la declinazione dell’argomento ha occupato il tempo e la fatica emotiva e intellettuale di milioni e milioni di persone nel corso dei secoli, con una forte intensificazione a partire dalla metà dell’800. Voci favorevoli, soprattutto di uomini, e voci avverse, soprattutto di donne. Ma l’essenziale rispetto alla guerra nella sostanza non è mutato, anzi le tecnologie applicate alle armi, la globalizzazione del capitalismo liberista, l’enorme potere delle aziende che producono strumenti bellici hanno peggiorato e non di poco le cose. I civili, le donne, i bambini e le bambine, le persone anziane sono direttamente esposte e inermi davanti alla distruzione e alla morte, come vediamo tutti i giorni dai resoconti approssimativi e spesso menzogneri che trapelano dai media.

Come donna pacifista mi schiero con le vittime a prescindere da etnie, religioni, posizioni politiche, lavoro tra me e me e nelle mie relazioni per mantenere una posizione empatica e non polarizzata sulle cose. Ho una storia, ho una visione del mondo maturata nell’esperienza, ho un modo di amare le persone e il mondo. Però sono capace di pensare ai torti e alle ragioni, alla forza e alla debolezza, alla giustizia e all’ingiustizia da cui consegue la crudeltà della guerra. C’è un prima da cui origina l’orribile sequenza della guerra, e voglio pensarlo, indagarlo, giudicarlo secondo la mia visione e la mia esperienza, che compongono un frammento della verità delle cose. Però non mi schiero davanti alla morte e al dolore, al terrore dei bambini e allo scempio delle loro morti. Al dolore delle madri, al peso per le donne, alla distruzione dei luoghi della vita. Le donne perdono anche le guerre che per gli uomini sono vinte. Nelle guerre le donne (che hanno la potenza di dare la vita) patiscono la morte e il lutto, cercano tra le rovine, portano civiltà tra le macerie, lavano e stendono i panni negli accampamenti di fortuna, rassicurano, curano, nutrono. Mantengono in vita la vita, anche in condizioni estreme. Ma come femminista della differenza non posso sopportare l’orribile gerarchia, legalizzata dai media e dalla cultura coloniale e razzista, delle vite e delle morti. Una sorta di decimazione del vivente che non conta e che non viene contato. Cosa muove o cosa lascia indifferenti davanti alla violenza e alla morte? Non so ignorare l’evidenza del razzismo, del suprematismo, del disprezzo per l’altro, anche se è una bambina o un bambino.

C’è una crisi evidente della democrazia, si fa strada da più parti l’ipotesi, credibile, che il capitalismo liberista algoritmico, favorito dai reticoli tribali dei social e dalla così detta intelligenza artificiale, che non è né intelligente né artificiale, non abbia più bisogno della democrazia. Ci troviamo di fronte a poteri arroccati, sordi al dissenso e all’opposizione, incuranti delle norme condivise e delle convenzioni che hanno regolato le relazioni nazionali e internazionali. Che fare?

Trascrivo le ultime frasi dell’intervento di Maria Luisa Boccia (Siamo in guerra e non è una guerra giusta, pag. 64), fanno riferimento al pensiero della differenza, non danno soluzioni ma offrono secondo me spunti utili per continuare a pensare insieme.

«La differenza, proprio perché inquieta nella sua irriducibilità, richiede il lavoro, pratico e simbolico, della relazione. È un lavoro inverso a quello dell’identificazione, perché rinuncia alla pretesa di unire sulla base di un’unica verità – chi sono, chi siamo, in quale mondo viviamo. Un lavoro inverso alla guerra, perché tiene viva e attiva la passione della differenza, non restringendo le relazioni a quelle con il proprio simile – la sola sembianza dell’amico – e non caricando di inimicizia il conflitto, imprescindibile nelle relazioni di differenza, e dunque depotenziandone la distruttività. Per costruire un assetto del mondo basato sulla pace, il pensiero femminista della differenza, costruito sulla critica dei valori dominanti e dell’identità occidentale, offre l’orizzonte teorico-politico più efficace. Invece di proporre un unico modello di società, di valori, di identità, possiamo assumere il rapporto con l’altro/a da sé come reciprocità e interdipendenza, a partire dal riconoscimento della differenza. Possiamo riattraversare la storia e le diverse tradizioni, rinunciando ad assumere la “modernità” occidentale come tappa irrinunciabile di progresso dell’umanità».

da L’Altravoce il Quotidiano

Genoeffa Cocconi è la madre dei sette fratelli Cervi – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore – fucilati a Reggio Emilia uno dopo l’altro dai fascisti repubblichini in una fredda mattina del 28 dicembre 1943. Lei morirà di crepacuore un anno dopo, il 14 novembre 1944. Di lei si sa poco o niente e le storiche e gli storici in questi ottant’anni dalla sua morte l’hanno lasciata nell’insignificanza e nell’oblio. Ma una donna, un’artista anche lei di Reggio Emilia, Clelia Mori, l’ha riportata in vita dopo averla incontrata in una fotografia al Museo Cervi ed essersene innamorata. Visto che lì di lei «non c’era un grande ritratto a figura intera» decise che l’avrebbe disegnato lei. Per due anni l’ha guardata nella piccola foto con la lente d’ingrandimento per disegnarla, provare a capire di più le sue gioie e il suo dolore e trovarne una forma. Ha incominciato a pensare a come sarebbe stata male se fosse successo a lei di vedere morire suo figlio e intanto la disegnava con sguardo libero di donna, staccandola dal contesto familiare e dandole esistenza autonoma. I suoi disegni sono diventati dodici e ha incominciato a esporli in giro per l’Italia, ieri, venerdì, sono approdati a Roma alla Casa della Memoria e della Storia. Con la sua arte ha riscattato la sua morte, assumendosi l’autorità di darle un nuovo senso e riconoscere in lei «l’ottava vittima dei fascisti della famiglia Cervi» e una donna della Resistenza. Una Resistenza, la sua come quella di tante altre donne rimaste nell’oblio, che passa non dalla lotta armata ma dall’aprire, dopo l’8 settembre, la porta della propria casa a sbandati e disertori, dando così «forse, inizio alla Resistenza». Una mostra, la sua, fatta per «cominciare a cambiare il punto di vista da cui si guarda Genoeffa e le molte donne sconosciute che hanno fatto a modo loro la Resistenza, che quasi nessuno e nessuna è andata a cercare». Facendone l’ottava vittima dei fascisti dei Cervi reinterpreta il concetto di “vittima del fascismo” ancora troppo legato a quello di “morire sparati” e ripensa l’idea, ancora troppo presente nell’antifascismo reggiano e non solo, secondo cui «per essere inseriti in un libro sulla Resistenza delle donne si debba aver imbracciato le armi ed essere andate, come e con gli uomini, sui monti». Prova ne sia la “rivalutazione” tardiva delle staffette e il fatto che «una versione sul differente apporto femminile alla Resistenza non è ancora del tutto presente nell’antifascismo reggiano e forse non solo in quello». Genoeffa è stata uccisa dalla «ferocia fascista» che sicuramente nessun’altra donna ha conosciuto nel modo come l’ha conosciuta lei. Il suo dolore, al di là di ogni immaginazione, porta l’artista a farne «una Maria laica». Un dolore abnorme per quei figli che, come ogni donna, ha portato in grembo per nove mesi, li ha partoriti, accuditi, accompagnati nella crescita, educati, vestiti, nutriti facendoli diventare gli uomini che sono stati, amanti della lettura, della conoscenza, della libertà e della giustizia. Lei che «discuteva sempre le prediche del prete quando la famiglia tornava dalla messa domenicale tra i campi». Per un anno portò il peso di quel dolore, accudì il marito malato a cui dopo essere uscito dal carcere disse dei figli due mesi dopo, si fece carico delle quattro nuore e di undici nipoti. Quando i fascisti, dieci mesi dopo la fucilazione dei figli, per la seconda volta le bruciarono il fienile disse «ci vogliono proprio fare morire di fame» e cominciò a stare male fino a morire un mese dopo. Genoeffa, grazie a Clelia Mori, ha trovato il posto che le spetta nell’arte e tra le donne, si aspetta che lo trovi anche nella storia della Resistenza e nelle celebrazioni di quest’anno per gli ottant’anni dalla liberazione dai nazifascisti.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 1° marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da la Repubblica

È difficile, in questo periodo storico, parlare di scelte e di capacità di agire in modo naïf. Non è un tema da dibattito superficiale. Bisogna innanzitutto proporre una contestualizzazione storica per cogliere come questa problematica sia tipica dell’Occidente moderno e muova proprio da un paradigma e un’ontologia (nel senso di Descola) ben precisi. La Modernità occidentale, con le sue molteplici sfumature e non senza eccezioni (pensiamo a Spinoza), ha eletto l’Uomo unico ente a essere, oltre alla divinità, causa sui, causa di se stesso, capace di scegliere razionalmente e quindi libero di agire secondo volontà. La libertà coincideva con il dominio: essere libero significava poter dominare le proprie passioni, le tentazioni, la propria fragilità – tutto ciò che ci sovra-determina. Soltanto l’umano, essere razionale e cosciente, poteva aspirare a un tale statuto. Ma in questo paradigma antropocentrico, l’anthropos che si trova al centro non è l’essere umano in quanto appartenente alla specie umana, ma l’Uomo prodotto dal dispositivo della Modernità, che corrisponde a un ritaglio ben preciso. L’Uomo della modernità, ossia l’individuo razionale e libero, si definisce ed è costruito per esclusione da tutti coloro che sono totalmente sovra-determinati, quindi non liberi: le donne, i bambini, i pazzi, gli indios e così via. La capacità di sfuggire alle sovra- determinazioni è data dalla ragione e dalla coscienza, come mostra bene il classico esempio di Buridano: di fronte a due fasci di fieno con accanto un secchio d’acqua ciascuno, un asino affamato e assetato non sa cosa scegliere e finisce per morire di fame e di sete. Le parole usate da Popper quando riprende il paradosso di Buridano sono chiare: «non c’è niente che lo determini ad andare da una parte o dall’altra», le sovra-determinazioni si equivalgono e la scelta, senza un’istanza “superiore” che sfugga alle determinazioni, risulta impossibile. Insomma, la problematica della scelta resa possibile dal libero arbitrio e dalla ragione umana è tipica della cultura occidentale. La libertà non è intesa, nelle culture para-moderne, come una proprietà dell’individuo razionale che deve emanciparsi dalle proprie determinazioni.

Ma l’individuo razionale e libero situato al centro del dispositivo antropocentrico della Modernità, oggi, non esiste più. Esso era infatti il prodotto di tale dispositivo e dell’epoca che l’ha modellato. I processi concreti di autoproduzione del mondo e dell’epoca attuale producono invece un profilo sovra-determinato, che può, tutt’al più, funzionare. In questo nuovo dispositivo caratterizzato dal funzionamento totale, l’umano ha perso il ruolo di causa sui a profitto della macchina e sperimenta un’impotenza senza pari. Se, in ogni caso, essere causa sui corrisponde più a una narrazione che a una realtà concreta, questa narrazione accompagna processi concreti e materiali. I processi di delega di funzioni alle macchine contribuiscono al sentimento di impotenza degli esseri umani, che ormai si sentono svuotati della loro singolarità e sovra-determinati dalle macchine e dal mondo digitale. È un’esperienza quotidiana e comune a tutti. L’entrata in scena di nuove sofisticate forme di intelligenza artificiale porta con sé la domanda angosciante: «cos’ha la macchina in più di noi?». Il problema è che, ponendoci questa domanda, stiamo accettando di porre il vivente – l’umano in questo caso – sullo stesso piano della macchina, negando quindi ogni alterità. Come se la differenza risiedesse in un modulo in più che mancherebbe agli umani per essere come la macchina. La vera sfida, oggi, è quindi capire come ristabilire un’alterità possibile tra il vivente e la cultura e il mondo digitale. Le macchine “di aiuto alla decisione”, ormai, “decidono” da sole e l’umano segue, “funzionario della tecnica” (Galimberti) che è ormai l’unica fonte di normatività (ciò che la tecnica rende possibile, diventa obbligatorio). In questo contesto, quindi, parlare di scelta e azione diventa ancora più complicato.

Sembra ormai chiaro che bisogna rinunciare a ogni divisione astratta tra “volontà” e “azione”. Lo schema classico di un individuo separato dal mondo che sceglie liberamente per poi agire non regge più ed è impotente nel capire i cambiamenti cui assistiamo. Seguendo Leibniz e Wittgenstein, possiamo affermare che non esiste una distinzione tra volontà e azione, che non esiste un soggetto libero che prima “vuole” e poi “agisce”, estraendosi dai processi che lo attraversano e dalle determinazioni che lo caratterizzano. Tutt’al più, possiamo affermare che la volontà si svela nell’agire: non è perché lo voglio che alzo il braccio, ma perché l’ho alzato che posso dire che lo volevo. È quindi nell’agire e nelle pratiche cui si partecipa che si svela la voglia di ciascuno, e l’agire emerge sempre da corpi territorializzati, sicuramente sovra-determinati, situati. La libertà, in senso spinozista, non consiste tanto nel poter scegliere liberamente ma nel riuscire a conoscere le determinazioni che ci fondano, il desiderio che ci attraversa, per sostenerlo o meno. Per far ciò, è necessario però prendersi il rischio di dare ascolto e fiducia ai nostri corpi, di sperimentarne la potenza, resistendo quindi a una colonizzazione digitale opprimente che schiaccia l’interiorità profonda di ogni persona da cui emerge ogni azione possibile, per renderla un profilo catturato in un funzionamento in cui non c’è né scelta né agire.

da il manifesto

Femministe di un unico mondo, un libro di Bianca Pomeranzi (per Fandango), e Il gruppo del mercoledì, un volume di Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi e Stefania Vulterini (per Futura editrice). I volumi verranno presentati venerdì e sabato a Roma, nell’ambito dell’ottava edizione di “Feminism”, fiera della editoria delle donne

«Mai come ai giorni nostri il mondo ci è apparso così brutale. Un piccolo pianeta animato da sopraffazione e prepotenza, ma al tempo stesso luccicante “fiera” del possibile». Nel chiaroscuro di un tale passaggio, epocale e incerto, si apre il volume di Bianca Pomeranzi, Femministe di un unico mondo (pp. 247, euro 18.50) pubblicato postumo da Fandango per le cure di Carla Cotti (sabato 1° marzo ne discuterà a Roma nell’ambito di «Feminism» con Carla Pagano in Sala Zalib alle 17), che dà conto di una vita sovvertita dalla passione inaggirabile per la politica. Si comincia da un incontro, nel caso di Pomeranzi (1950 – 2023) carico di epifanie, foriero di un mondo sì terribile eppure dotato di innumerevoli strade, nel loro farsi e disfarsi, in cui la parola delle donne assume la potenza tellurica transnazionale di un percorso. Il femminismo, convocato e chiarito lungo le pagine del libro da Pomeranzi, è l’esperienza attraversata, trasformativa di quel «partire da sé» che si misura con il mondo diventando antidoto agli «inganni della memoria» – da cui in larga parte, e con dolo, questo presente è assediato.

Due i punti cruciali che collocano l’autrice in un orizzonte situato di presa di coscienza: il primo è il lesbismo, perché il «partire da sé» per Bianca Pomeranzi ha coinciso con la ricerca di un modo di vivere la sessualità allargandosi in uno sguardo sul mondo. La questione non ha riguardato solo quegli anni Settanta che l’hanno vista protagonista e interna al collettivo separatista di Pompeo Magno, eppure il suo primo nominarsi lesbica avviene pubblicamente proprio in un’assemblea romana. É il 1976 e l’iniziativa è stata una tappa fondamentale perché nel novembre dello stesso anno prende corpo la manifestazione contro la violenza sessuale «Riprendiamoci la notte». Convergenza, taglio vivente che rende il femminismo una esperienza generativa è riscontrabile anche nella costante dimensione transnazionale. Separatismo, violenza maschile, legge 194, insieme con le pratiche che andavano mutando e le lotte intraprese in Italia in quel decisivo torno di anni, davano il segno di un agire politico e di una libertà femminile che nel percorso di Pomeranzi erano presenti nello scenario internazionale. È il caso delle quattro Conferenze (convocate dalle Nazioni Unite) che, «spazio dell’apparire» non privo di contraddizioni, vengono descritte come occasioni di confronto su temi fino ad allora sfiorati o a cui perlomeno mancavano discussioni tra donne. Razzializzazione, differenze di classe, oppressione coloniale, materialità delle vite e non solo delle latitudini, molti sono gli episodi che emergono tra cui uno importante che avviene tra la prima conferenza mondiale a Città del Messico (1975) e quella di Copenaghen (1980) – cui seguiranno Nairobi, Pechino (di cui ha seguito la preparazione e l’attuazione), New York e Milano.

L’evento è l’arrivo di Kate Millett a Roma nel marzo del 1979, espulsa dall’Iran e accolta a via del Governo Vecchio dalla lungimiranza anzitutto di Alma Sabatini. La cooperazione internazionale era allora uno degli aspetti di cambiamento dell’immaginario che non potevano più ignorare la scena internazionale. Attivista e saggista, leggere Femministe di un unico mondo permette di solcare insieme a Bianca Pomeranzi le strade che lei stessa, e spesso per prima, ha spalancato. Componente dal 2013 al 2016 del Cedaw, ha diretto a lungo la cooperazione italiana in Senegal e in Africa Orientale, oltre ad aver fondato insieme ad altre l’ong Aidos e il Centro internazionale Alma Sabatini. Nel 2008, insieme a Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti (che aderirà presto ad altri progetti), Bia Sarasini, Rosetta Stella e Stefania Vulterini, Pomeranzi è stata anche tra le fondatrici del Gruppo del mercoledì.

Questa storia femminista, che continua ancora oggi, è un libro, mancava e la sua pubblicazione è da salutarsi con gioia e vivo interesse perché sono questi volumi che si fanno strumenti utili per la apertura di discussioni collettive, prestandosi inoltre alla ricostruzione di storie e comunità viventi assai preziose. Soprattutto in questo presente così fosco di guerre, morte e passioni tristi. Il gruppo del mercoledì (Futura editrice, collana «Sessismo e razzismo», pp. 119, euro 15) è a firma di Bandoli, Boccia, Paolozzi (che ha scritto anche l’introduzione) e Vulterini (le autrici ne discuteranno a Roma venerdì 28 febbraio nell’ambito di Feminism con Marina D’Amelia e Manuela Fraire in Sala Lonzi alle 19).

L’acuta e preziosa postfazione al volume, che si rivolge alle pratiche, è di Viola Lo Moro. Si tratta di una raccolta di testi e documenti – ricollocati e ulteriormente commentati in relazione al contemporaneo – che a iniziare dal primo, proprio del 2008, “Dire No… manifesto alla sinistra” fino all’ultimo, del 2022, “La cura maltrattata”, rammenta e tesse una discussione pubblica stagliata in oltre quindici anni di incontri prendendo parola su questioni e problemi a partire da sé. Ancora una volta è questo l’elemento non negoziabile ed è esattamente da ciò che avvia il lavorio dell’autenticità, per cui non sorprenderà leggere di percorsi biografici e politici diversi: l’operaismo, il pensiero della differenza sessuale; il giornalismo, il Pci e i modi diversi con cui ne hanno osservato la svolta, insieme alla Carta delle donne comuniste, e tanto altro.

Quelle donne però, d’accordo sul tramonto delle liturgie partitiche, mortifere e foraggiate da una politica maschile ormai inservibile oltre che disinteressata alla realtà, sono intervenute su parole e scommesse cruciali: dalla fine del corpo alla fine della sinistra (il testo è del 2009); la cura del vivere (pubblicato come supplemento al numero di settembre 2011 di “Leggendaria” e ancora adesso di grande e controversa attualità); c’è poi “Mamma non mamma” che nel 2017 interrogava l’esperienza delle donne a partire dai non pochi, e non pacificati, desideri. Il salto dalla espressione di questi desideri alla loro validità per tutte e tutti può essere spericolato, oltre che insensato. Ed è appunto una forza sorgiva ad abitare quei documenti, pungoli a un presente non ricomponibile. Il volume affronta infine i nodi della violenza, della pandemia, dei luoghi della nostra libertà e il movimento che dall’io arriva (o potrebbe arrivare) al noi, soprattutto parole importanti, perché dal limite vanno all’inconsumabile, ovvero quel che si sottrae al divoramento sfrenato. Che tiene vive alle proprie esperienze, alle pratiche politiche, alle relazioni.

SCHEDA. A Roma, da venerdì a lunedì, tavole rotonde e focus per interrogare l’oggi

Feminism, la fiera della editoria delle donne è arrivata alla ottava edizione e aprirà le danze venerdì 28 febbraio per concludersi lunedì 3 marzo negli spazi della Casa Internazionale delle Donne di Roma. Con oltre 70 case editrici coinvolte, le quattro giornate della fiera – realizzata da Archivia, dalla Casa internazionale delle donne, dalla rivista Leggendaria, dalla collana sessismo&razzismo di Futura editrice, della casa editrice Iacobelli – saranno anche l’occasione di ascoltare molte scrittrici, autrici e attiviste che interverranno in tavole rotonde e presentazioni su temi stringenti del presente. In gioco i nostri corpi, le pratiche, fino ai percorsi della interiorità. Già l’inaugurazione, alle 15 di venerdì in Sala Lonzi, offrirà la possibilità di ammirare due madrine d’eccezione: Manuela Fraire e Giulia Caminito. Sabato un focus sul fare rete tra micro-editrici e librerie indipendenti alla presenza di Marta Capesciotti, Cristina Anichini, Maria Corona Squitieri, Alessandra Barbero e Hanna Suni con il coordinamento di Silvia Di Tosti e Maria Palazzesi (tra le impareggiabili organizzatrici e ideatrici di Feminism). Domenica da non perdere Senka Maric (il suo Corpo Kintsugi è stato recensito su queste pagine); inoltre Giuliana Sgrena dialogherà, insieme a Chiara Cazzaniga di Femminicidi d’onore, con le curatrici Isabella Peretti e Ilaria Boiano; sempre domenica Luisa Passerini, Alessandra Chiricosta, Cecilia Dalla Negra, Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini saranno in dialogo con Fraire sull’autocoscienza. Tanti i libri importanti e gli scambi in presenza; interverranno tra le altre Nicoletta Dentico, Maria Rosa Cutrufelli, Daniela Finocchi, Gloria Zanardo, Donatella Franchi, Annarosa Buttarelli, Rosella Prezzo, Monica Pietrangeli, Amal Oursana, Claudiléia Lemes Dias. E ancora Paola Cavallari, Gabriella Caramore, Antonia Tronti, Luciana Percovich, Neria De Giovanni, Floriana Coppola, Gisella Modica, Elvira Federici, Nadia Tarantini, Maristella Lippolis, Silvia Neonato. La fiera ha il sostegno di ADEI – associazione degli editori indipendenti – della SIL – Società italiana delle letterate – del Concorso Nazionale Lingua Madre; con la collaborazione del Centro giovani del I Municipio e dell’associazione culturale Zalib.

Il programma completo qui: www.feminismfieraeditoriadelledonne.com

Da Noi Donne

In America autorevoli attrici e scrittrici alzano la voce e scendono in campo contro la censura di Trump alla cultura e di più! Una speranza, questa reazione femminile, a cui guardare con curiosità e attenzione.

Migliaia di opere, bestseller di autrici internazionalmente famose come Toni Morrison, Margaret Atwood, Stephenie Meyer e molti altri scritti importanti, in America sono stati banditi da scuole e biblioteche pubbliche. L’allarme è stato lanciato da Pen America, l’associazione che difende il diritto di parola degli autori di tutto il mondo.

In diversi Stati, come la Florida o lo Iowa, sono state messe al bando opere con protagonisti di colore o queer, storie con riferimento implicito al sesso e altro. Fortunatamente la reazione non si è fatta attendere con la ribellione, in particolare, di migliaia di donne. Interessante l’iniziativa della scrittrice Lauren Groff, due volte finalista del National Book Award, che in Florida, uno degli stati più colpiti, ha aperto una libreria dove espone in primis i libri oscurati.

E ancora Sarah Jessica Parker, una delle più amate protagoniste della serie “Sex and the City” che ha preparato un docufilm “The Librarians” sui bibliotecari che resistono, con cui ha vinto un premio. Incredibile ancora la storia di una altrettanto famosa artista, Julianne Moore, che ha visto “cacciare” dalle scuole il suo libro “Freckleface Strawberry”, un’opera di letteratura per l’infanzia che narra la storia di una bimba con dei problemi che imparerà ad accettarsi per com’è. Incredibile e significativo lo stupore dell’artista, che ha sottolineato come pensasse di vivere in un Paese – l’America – in cui la libertà di espressione è un diritto costituzionale! Per lei la messa al bando del suo libro è risultato un vero shock. E ci ha tenuto a precisare di avere scritto la storia per i suoi figli e i bambini in generale per ricordare loro, e sottolineare, che tutti affrontiamo difficoltà, ma ci unisce la nostra umanità e il senso di comunità.

Sempre in Florida è stata aperta la libreria The Lynx dalla scrittrice Lauren Groff, (che tra l’altro il 19 marzo sarà in Italia con il suo nuovo libro “Nel vasto mondo selvaggio”) come reazione al clima d’intimidazione che si sta instaurando con l’elezione di Trump. Un luogo, The Lynx (la Lince che è il simbolo della Florida), dove tutti i volumi messi al bando vengono esposti, volutamente e provocatoriamente in evidenza. Il rischio più grande, sottolinea Groff, è che il clima di intimidazione che si è instaurato possa impaurire insegnanti, bibliotecari e altri portandoli ad autocensurarsi. Preoccupazioni comprensibili, se si è arrivati al punto che in una contea la mannaia dei divieti e cancellazioni ha coinvolto l’Otello di Shakespeare.

Fra le reazioni, da registrare che alcuni volumi oscurati vengono anche distribuiti in dono come “Il racconto dell’ancella” e altri. Groff nella sua reazione alle censure culturali che caratterizzano le politiche dell’amministrazione Trump sottolinea come la libertà di espressione non significa essere obbligati a leggere opere che non si condividono o si ritengono offensive, ma è importante non proibire ad altri di farlo, se interessati o magari, possiamo pensare, semplicemente incuriositi.

Per dare il senso di come la reazione di donne significative e ascoltate possa essere davvero il segno, fortunatamente, di un’opposizione e resistenza che si va esprimendo e organizzando per contrastare alcune inimmaginabili politiche del governo Trump, come non parlare di Jane Fonda? La grande attrice, due volte Premio Oscar, in occasione del ritiro del premio alla carriera ha attaccato chiaramente Trump senza mai nominarlo e ha invitato Hollywood a «resistere con successo» difendendo l’ideologia woke: «Il nostro lavoro è capire un altro essere umano in modo così profondo da poter toccare la sua anima. E non vi sbagliate: essere empatici non vuol dire essere deboli o woke. Tra l’altro. Woke significa solo non fregarsene degli altri».

Dall’alto dei suoi ottantasette anni Jane Fonda non ha nessuna intenzione di smettere di occuparsi dei diritti civili e dell’ambiente, sottolineando poi la sua grande preoccupazione per il progetto dell’amministrazione Trump di tagliare posti di lavoro federali. Ed è a tal fine che invita alla coesione, all’ascolto, facendosi carico dei problemi anche oltre il diverso orientamento politico che possono avere le persone, facendo appello all’empatia, al non giudicare ma ascoltando col cuore e accogliendo tutti nella nostra grande tenda, perché, spiega «avremo bisogno di una grande tenda per resistere con successo a ciò che ci sta per colpire» e aggiunge «Non dobbiamo isolarci, dobbiamo trovare modi per proiettare una visione incoraggiante del futuro».

Quelli qui appena accennati sono piccoli ma interessanti segnali di reazioni, finalmente, per quanto arrivi sull’informazione a politiche di carattere antidemocratico che sembrano caratterizzare il governo del Presidente Trump e conseguentemente dell’America per come l’Occidente l’ha percepita fino ad ora.

È interessante sottolineare, sempre per quel che ci fornisce la stampa, che questa seppur parziale ma significativa opposizione venga da donne e donne della cultura e dell’arte cinematografica e non solo. Grazie, allora. E vi seguiamo con attenzione sperando in una crescita e successo degli obiettivi che state perseguendo.

dal profilo Facebook di Arcilesbica

di donne in relazione nella rete femminista Dichiariamo

L’8 marzo accomuna da più di un secolo chi vuole la libertà delle donne, quindi ci sentiamo coinvolte in questa data. Da alcuni anni, tuttavia, proviamo sconcerto per l’uso di parole neutre a base di asterischi: come può essere celebrata la giornata delle donne, se si rifiuta la parola “donna”? E l’estetica truce dei cortei, con i fumogeni e a volto coperto, non fa pensare al femminismo, che è conflittuale ma non violento. La rivoluzione delle donne è e rimane nonviolenta, fa leva sulla presa di coscienza soggettiva e sul partire da sé.

In Italia i temi dell’8 marzo ormai classificano l’umanità in base al grado di oppressione. Può sembrare un modo solidale di fare giustizia, di non lasciare indietro nessuno e di dare priorità ai bisogni più gravi, ma così si ricalcano conflitti che oppongono storicamente tra loro gruppi di uomini, non si mettono al centro le donne. Tutte siamo state educate ai valori universali che fanno apparire insufficiente occuparsi di una parte invece che di tutti e siamo state abituate a mettere gli altri prima di noi: sarà questo che fa considerare riduttivo il femminismo se non si fonde nelle lotte a favore di altri? Si propone allora un femminismo del 99% in marcia contro l’1% dei privilegiati, ma in questo magma proprio le donne rischiano di scomparire.

In questa Lettera aperta mettiamo a fuoco alcuni concetti per aprire una discussione, da tempo soffocata.

[…]

Il testo completo

Trattato di proibizione delle armi nucleari, a New York terzo incontro degli Stati Parte.

I Disarmisti esigenti partecipano, tra la società civile, con una nutrita delegazione caratterizzata dal protagonismo delle donne. In forse la presenza dell’attivista bielorussa Olga Karatch, cui è negato il visto USA

«Mancano 89 secondi alla fine del mondo». Corrono le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse e non solo: tra pochi giorni l’ONU organizzerà il terzo incontro dedicato al TPAN – Trattato di proibizione delle armi nucleari. Il Palazzo di Vetro a New York del Segretariato delle Nazioni Unite è quasi pronto per accogliere i 73 Paesi che lo hanno ratificato tra i 122 che lo hanno adottato il 7 luglio del 2017.

Vi sarà non solo la loro voce istituzionale degli Stati, poiché sarà nutrita la presenza di ONG accreditate con ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons, Premio Nobel per la Pace 2017 – proprio in rappresentanza della società civile che lotta per il disarmo a livello mondiale.

Il terzo incontro degli Stati parte si svolgerà dal 3 al 7 marzo 2025 presso la sede ONU a New York, sotto la presidenza del Kazakistan, e sarà preceduto, il 2 marzo, da una assemblea della rete ICAN, oltre seicento organizzazioni di cui i Disarmisti esigenti sono tra i membri italiani.

Cos’è il TPAN: concetti chiave, tempi e un po’ di storia

Il Trattato di proibizione delle armi nucleari (testo completo in inglese qui) è un documento nato per contrastare non solo la loro proliferazione, ma per condurre le scelte politiche internazionali a un abbandono dello strumento di deterrenza nucleare, nelle relazioni fra Stati, per la risoluzione dei conflitti e intimare la distruzione dei suddetti ordigni. Lo stesso possesso delle armi nucleari è dichiarato illegale e stigmatizzato.

Il Trattato prevede che gli incontri degli Stati parte si svolgano su base annuale (o biennale) e che si tengano conferenze di revisione a intervalli di cinque o sei anni per «considerare e, ove necessario, prendere decisioni in merito a qualsiasi questione riguardante l’applicazione o l’implementazione di questo Trattato».

Il primo incontro degli Stati parte si è tenuto a Vienna dal 21 al 13 giugno 2022 con la partecipazione di 49 Stati parte, 34 Stati osservatori e rappresentanti delle Nazioni Unite, di organizzazioni internazionali e regionali, del Comitato Internazionale della Croce Rossa e della società civile. L’incontro ha adottato una serie di decisioni ambiziose, tra cui la Dichiarazione di Vienna e il Piano d’azione.

Il secondo incontro degli Stati parti si è svolto dal 27 novembre al 1° dicembre 2023 presso la sede delle Nazioni Unite a New York, con il Messico in qualità di presidente. Hanno partecipato 94 Stati parte e altri osservatori, insieme a rappresentanti di agenzie internazionali, tra cui l’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) e la CTBTO (Organizzazione del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari), il CICR(Il Comitato Internazionale della Croce Rossa), nonché organizzazioni della società civile, comunità colpite, giovani, parlamentari e istituzioni finanziarie. La riunione ha adottato una dichiarazione politica e una serie di decisioni che rafforzano il processo.

La nostra delegazione

È ora la volta del terzo incontro, ed è proprio direttamente dal territorio americano che la delegazione dei Disarmisti esigenti riporterà tutti gli aggiornamenti in diretta riguardo a ciò che accadrà alla conferenza generale e nei numerosi side events previsti durante tutta la settimana. In questa edizione sono stati depositati tutti i Working paper delle ONG accreditate, tra i quali quello predisposto da noi (firmato insieme a Costituente Terra); ciò significa che la società civile espone proposte su come integrare il Trattato, dando un contributo fondamentale alla rete internazionale che, vista la situazione geopolitica attuale, va crescendo sempre di più.

Della delegazione fanno parte: Giovanna Cifoletti, Ennio Cabiddu, Sandro Ciani, Greta Triassi, Monica Bertino e Totò Schembari (della Pagoda per la pace di Comiso), Paola Paesano (di Costituente Terra). Olga Karatch è in forse perché gli USA le stanno negando il visto. Lei è l’attivista bielorussa fondatrice di Our House (‘Casa Nostra’), candidata al premo Nobel per la pace nel 2024, che è stata condannata a dodici anni di carcere dal regime di Lukashenko e allo stesso tempo in Lituania, dove si è rifugiata, non ha ottenuto l’asilo in quanto “spia di Putin”…

Gli obiettivi della nostra missione a New York

Secondo la loro natura di antimilitaristi non violenti, i Disarmisti esigenti si muovono con la priorità della denuclearizzazione, sia militare che civile, a livello globale. La nostra nascita, nel 2014, avviene in risposta all’appello di Stéphane Hessel e Albert Jacquard a «esigere il disarmo nucleare totale». Oggi c’è l’ambizione, da parte nostra, che la necessità di una rapida transizione dalla proibizione legale delle armi nucleari (un processo aperto dal Trattato del7 luglio 2017) alla loro totale eliminazione fisica sia condivisa a livello globale.

Questo obiettivo, incoraggiato dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’ICAN (www.icanw.org), richiede a nostro avviso pianificazione strategica e lavoro, con una prospettiva generale e internazionale che rappresenta il nucleo della nostra ragion d’essere.

In particolare, in questo momento la nostra priorità è lavorare per armonizzare e integrare la Campagna ICAN con la Campagna No First Use (NFU). È necessario che le potenze nucleari avviino un tavolo che dia seguito alla Campagna No First Use con misure concrete contro la guerra nucleare per errore: forse la Cina, il più sensibile finora, potrebbe prendere l’iniziativa anche su nostra richiesta dal basso.

Abbiamo organizzato, all’interno del meeting di New York, due eventi collaterali per discutere e approfondire insieme i seguenti temi:

3 marzo 2025 – dalle 10:00 alle 11:15, dal titolo: “Lezioni dal movimento contro gli euromissili”

4 marzo 2025 – dalle 11:30 alle 12:45, dal titolo: “Le armi nucleari russe in Bielorussia portano alla luce il rischio di una guerra nucleare limitata in Europa”.

Sosteniamo la performance proposta dalla Pagoda per la Pace di Comiso: alziamo le braccia, con un minuto di silenzio, per invocare: «Mai più Auschwitz! Mai più Hiroshima!» Con l’energia che speriamo questa iniziativa trasmetta, ribadiamo che il futuro del mondo è nelle nostre mani: vi invitiamo a vivere, insieme a noi, la forza della vita, la visione dell’unica umanità appartenente alla Terra, che prevarrà sulle forze della distruzione.

I punti essenziali del working paper che abbiamo presentato con Costituente Terra: sicurezza degli Stati (uno contro l’altro) oppure sicurezza comune dell’umanità?

1) Nonostante i numerosi successi del TPNW (numero elevato di adozioni, firme e ratifiche, disinvestimenti delle banche negli armamenti nucleari, numerose richieste di città a favore del TPNW) siamo in una situazione di stallo perché nessuno Stato nucleare né i suoi alleati hanno aderito al TPNW fino ad ora, quindi sono necessarie nuove strategie che tengano conto della complessità della situazione geopolitica.

2) Un processo di disarmo nucleare dovrebbe essere realizzato dall’interno del “club” dei nove Stati nucleari e dei loro alleati (a partire dalla Cina?): il nostro ruolo di attivisti è quello di promuovere tale processo sottolineando che il rischio di una guerra nucleare è inaccettabile prima di tutto per gli Stati nucleari stessi.

3) Un primo passo utile potrebbe essere un accordo No First Use tra gli Stati nucleari. In questo contesto, le “mini-armi nucleari”, più facili da usare sul campo di battaglia, dovrebbero essere esplicitamente vietate dall’articolo 1 del TPNW.

4) Un altro passo potrebbe essere la rimozione delle armi nucleari dislocate nei territori degli “Stati alleati” (Italia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Turchia e Bielorussia) e, naturalmente, il rifiuto totale di qualsiasi tipo di euromissili.

5) Diversi Stati NATO (Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Belgio) hanno espresso interesse per il TPNW, ma la loro inclusione nell’alleanza NATO impedisce loro di aderire al TPNW. Questa categoria di Stati “a cavallo” potrebbe trovare posto nell’articolo 4 del TPNW.

6) Cambiare radicalmente l’attuale opposizione Est-Ovest, come era già avvenuto nel periodo 1991-2003. Per questo: aprire un tavolo di negoziazione tra la Russia e il resto dell’Europa (attraverso OSCE/ONU) per risolvere pacificamente i problemi esistenti (bombe a orologeria) lungo i quasi 4000 km di confini, più gli Stati di Moldavia e Georgia. Se l’associazione Costituente Terra, che promuove un progetto di costituzione globale, rivolge un appello agli Stati che hanno aderito al TPNW in almeno uno dei modi possibili (adozione, firma, ratifica), in effetti la grande maggioranza nell’Assemblea generale dell’ONU, al fine di ottenere la convocazione di una sessione speciale permanente di tale assemblea per negoziati senza sosta fino a quando non si raggiungerà la pace nella guerra d’Ucraina.

7) Inoltre l’associazione Costituente Terra promuove un ancora più ambizioso “Appello per un disarmo totale” nel mondo. Se ciò avesse successo, renderebbe inutile la NATO e renderebbe più facile un disarmo nucleare. La necessaria gradualità della strategia non significa sottrarre radicalità al TPNW, che è legato nel progetto costituzionale mondiale all’art. 52 che proclama l’eliminazione delle guerre: la vera ragione di esistenza delle Nazioni Unite. Altri articoli salienti del progetto: l’art. 53 per la messa al bando delle armi e il monopolio pubblico della forza; l’art. 77 per il superamento degli eserciti nazionali.

8) È necessario un potente movimento di base per sostenere e promuovere queste iniziative.

Per contatti generali: Alfonso Navarra, coordinamentodisarmisti@gmail.com

Per contatti in questi giorni del 3MSP: Ennio Cabiddu (+39 366 653 5384); Greta Triassi (+39

327 786 8943); Costituente Terra, p.paesano@gmx.com (+39 348 763 5966); Casa Nostra,

olga.karatch@gmail.com (+370 607 65718); Pagoda per la pace a Comiso,

monicabertino23@gmail.com (+351 961 596 666).