da Hareetz

Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente documentata, mentre la nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata per proteggere il nostro bottino.

Gli ottimisti dicono che, alla fine, gli israeliani coglieranno la portata dell’atrocità che hanno commesso nella Striscia di Gaza. La verità si insinuerà nella loro coscienza.

I vecchi video di neonati fatti a pezzi dalle nostre bombe raggiungeranno a un certo punto i cuori degli israeliani e li trafiggeranno. Improvvisamente vedranno bambini ricoperti dalla polvere del cemento frantumato sotto il quale sono stati salvati, che tremano in modo incontrollabile e fissano nel vuoto con un’espressione che è tutta un grande punto interrogativo.

A un certo punto, dicono gli ottimisti, gli israeliani smetteranno di dire: «Se lo meritavano, a causa del 7 ottobre. Hanno attaccato». I numeri smetteranno di essere astrazioni e «Chi crede a Hamas». I lettori capiranno che più di 20.000 bambini sono stati uccisi – un terzo di tutti i morti – per mano nostra. Più di 44.000 bambini sono stati feriti – un quarto di tutti i feriti. Si renderanno conto di aver favorito e sostenuto una guerra di annientamento contro un popolo e di non aver sconfitto una feroce organizzazione armata.

A un certo punto, si renderanno conto che la crudeltà individuale della vendetta dimostrata da così tanti soldati – spesso accompagnata da scoppi di risate e sorrisi che hanno invaso TikTok – e la ferocia letale, fredda, chirurgica e anonima di coloro che giocano ai videogiochi dalle cabine di pilotaggio e dalle sale di controllo – non sono un segno di eroismo, ma una grave malattia. Sociale e personale.

I genitori, credono gli ottimisti, non riusciranno a dormire la notte, preoccupati che le X sui fucili dei loro figli indichino donne, anziani e giovani che raccolgono solo erbe per nutrirsi. Verrà il giorno in cui gli adolescenti chiederanno ai loro padri, che allora erano soldati, se anche loro hanno obbedito all’ordine di sparare a un anziano che aveva oltrepassato una linea rossa sconosciuta.

Le figlie dei piloti decorati chiederanno se hanno sganciato una bomba proporzionata che ha ucciso un centinaio di civili per un comandante di medio livello di Hamas. Perché non ti sei rifiutato? singhiozzerà la figlia.

I nipoti di una guardia carceraria in pensione chiederanno: hai picchiato personalmente un detenuto ammanettato fino a farlo svenire? Hai obbedito all’ordine di un ministro e negato ai prigionieri cibo e docce? Hai stipato trenta detenuti in una cella pensata per sei? Dove hanno contratto le malattie della pelle? Conoscevi qualcuno delle decine di detenuti morti in una prigione israeliana per fame o per percosse e torture? Come hai potuto, nonno? I nipoti dei giudici della Corte Suprema leggeranno le loro sentenze che hanno permesso tutto questo e smetteranno di andare a trovarli durante lo Shabbat.

A un certo punto, credono gli ottimisti, l’oscuramento della realtà da parte dei media israeliani smetterà di fare il lavaggio del cervello e di intorpidire i cuori. La frase “il contesto” non sarà più considerata una parolaccia e il pubblico collegherà i puntini: oppressione. Espulsione. Umiliazione. Deportazione. Occupazione. E tutta la sofferenza che sta in mezzo. Non sono parti di slogan coniati da ebrei che odiano se stessi, ma descrivono la vita di un intero popolo, per anni, sotto i nostri ordini e le nostre armi. Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente trattata dai nostri media, articoli e primi piani. Si è sviluppata in risposta e resistenza al nostro dominio straniero e ostile. La nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata con l’obiettivo di proteggere il nostro bottino: la terra, l’acqua e le libertà da cui abbiamo espulso i palestinesi.

Gli ottimisti credono che ci sia una via di ritorno. Quanto sono fortunati, gli ottimisti.

Lettera Aperta di Mai Indifferenti Voci ebraiche per la pace e Ləa Laboratorio ebraico antirazzista

Alle soglie di una fragile “pace” e davanti a uno scenario di completa distruzione, dove sta andando l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI)? Le reti Mai Indifferenti – Voci ebraiche per la pace e Ləa Laboratorio ebraico antirazzista, da anni attive in Italia, hanno segnalato all’Unione delle Comunità ebraiche, alle scuole ebraiche e alle Comunità medesime, già dal 3 ottobre, l’inopportunità del tour di un soldato IDF nelle scuole, quasi a voler fare proseliti tra la gioventù dei licei. A questa lettera, di cui qui si riporta il testo integrale, nessuno ha risposto.

Lettera aperta – Propaganda militare nelle scuole ebraiche

Alla c.a. Presidenti e consiglieri dell’UCEI e delle Comunità ebraiche di Roma e Milano, Presidi delle scuole ebraiche di Roma e Milano

Gentili presidenti, presidi, e consiglieri,

Siamo rimasti sconcertati nell’apprendere che le scuole delle Comunità ebraiche di Roma e Milano hanno invitato un militare dell’IDF, Adi Karni, a incontrare gli studenti dei licei. Immaginiamo che l’evento sia avvenuto con il coordinamento dell’UCEI, la cui presidente era presente in almeno una occasione.

Seppure nella continuità di una linea politica di appoggio alle sciagurate azioni militari israeliane, che abbiamo già più volte deplorato, questo episodio ci sembra di una nuova e particolare gravità.

Del sig. Karni sono disponibili video in cui, con lo stesso sorriso smagliante che ha sfoggiato nelle scuole ebraiche, fa esplodere una moschea – un probabile crimine di guerra, come ben sa l’UCEI che ha avuto modo di ricordare (quando nel luglio scorso Israele ha attaccato una chiesa di Gaza uccidendo tre persone) che «il rispetto e la protezione dei luoghi religiosi, di qualunque fede essi siano, sono fondamentali per la convivenza, la dignità umana e la speranza di pace». Karni stesso ha dichiarato di aver evitato di pubblicizzare la propria venuta in Italia per timore di finire oggetto di un esposto per crimini di guerra come già gli è successo in altri paesi.

Si obietterà probabilmente che gli studenti hanno potuto vedere che un tipico soldato israeliano non è altro che un ragazzone di ventidue anni, un giovane affabile che ama la sua famiglia e il suo paese, che è coraggioso ma anche simpatico, che potrebbe essere nostro cugino. Non dubitiamo che anche tutte queste cose siano vere. Ma agli educatori è ben noto che le persone che partecipano a massicci crimini contro l’umanità (e l’assalto israeliano a Gaza rientra, al minimo, in questa categoria) non sono psicopatici, ma per lo più persone normalissime che sono state educate male. O meglio: che hanno ricevuto un’istruzione normalissima sotto la maggior parte dei punti di vista, ma al contempo sono stati educati a svalutare o negare l’umanità delle vittime designate. Così Karni può a sua volta predicare, riferendosi al massacro di cui è parte, che nella Gaza che ha contribuito a radere al suolo ha visto «solo odio», che «stiamo facendo il lavoro sporco per voi», spiegando che «l’Islam avanza in Europa». Insomma, il più puro prodotto della peggiore educazione israeliana (musulmani = male da eliminare fisicamente, con sorriso e armi pesanti) viene importato e proposto come progetto educativo alle ragazze e ai ragazzi riuniti apposta in Aula Magna.

Il fatto è ancora più preoccupante se è vero, come la radio di Tsahal ha riportato il mese scorso, che l’esercito israeliano, a corto di personale, sta cercando modi di arruolare centinaia di giovani ebrei della Diaspora. L’affabile propaganda di Karni andrebbe contrastata coi numeri della catastrofe in corso da due anni: più di 65mila palestinesi uccisi, di cui oltre l’80% civili secondo dati dello stesso esercito, centinaia di palestinesi morti per fame. A fronte di 8 ostaggi recuperati vivi in azioni militari, 3 ostaggi sono stati uccisi a bruciapelo dalla stessa fanteria israeliana e un numero indeterminato da attacchi dell’aviazione; oltre 900 soldati uccisi in combattimento, 46 morti per suicidio post traumatico.

E la baldanza di Karni andrebbe contrastata con la testimonianza di un altro soldato, Yoni: «“Terroristi, terroristi”», ha gridato un commilitone [a maggio 2025, a Beit Lahia]. «Ci siamo lasciati prendere dal panico, io ho preso subito il Negev [una mitragliatrice] e ho cominciato a sparare all’impazzata, lanciando centinaia di proiettili. Poi avanzando mi sono reso conto che era stato un errore». Di terroristi non ce n’erano. «Ho visto i corpi di due bambini, forse di otto o dieci anni, non ne ho idea», ricorda Yoni. «C’era sangue ovunque, molti segni di spari, sapevo che era tutta colpa mia, che ero stato io a farlo. Volevo vomitare. Dopo pochi minuti è arrivato il comandante della compagnia e ha detto freddamente, come se non fosse un essere umano: “Sono entrati in una zona di sterminio, è colpa loro, la guerra è così.”» […] «Soffro di flashback di quell’evento», racconta. «I loro volti mi tornano in mente e non so se riuscirò mai a dimenticarli» (da https://www.haaretz.com/israel-news/2025-09-16/ty-article-magazine/.premium/i-saw-the-bodies-of-children-moral-injury-and-mental-strain-breaking-idf-soldiers).

Riteniamo che l’organizzazione di questo evento rappresenti una perversione totale della missione educativa delle scuole delle nostre comunità.

Chiediamo le dimissioni immediate degli assessori alle Scuole e delle altre persone responsabili.

E proponiamo come necessaria l’organizzazione per gli studenti di un incontro con associazioni di refusnik israeliani e altre organizzazioni che si oppongono all’approccio militarista e di continua disumanizzazione dei palestinesi. Accanto a loro, potrebbero essere invitati esponenti di molte organizzazioni israeliane e palestinesi che non esitano ad affrontare insieme anche gli aspetti più dolorosi di quello che sta succedendo, per capire cosa possono fare per un futuro di giustizia.

E questo non per realizzare una “par condicio” amorale, ma perché riteniamo che, se le scuole ebraiche intendono inculcare valori civili ed ebraici e al contempo una conoscenza ragionata della società israeliana, non c’è di meglio che conoscere i ragazzi che incarnano questi valori nel modo più puro oggi possibile: rifiutandosi, a rischio di un forte costo personale, di partecipare al massacro. Crediamo che non promuovere e supportare il loro lavoro sia un grande errore e porti le comunità a un isolamento autoindotto. Ci rendiamo fin d’ora disponibili a collaborare alla realizzazione di queste proposte.

Shanà tovà e un cordiale Shalom.

Le reti speravano in una risposta “equilibrata”, pur nella consapevolezza della diversità delle posizioni culturali e politiche del mondo ebraico ufficiale rispetto alle nostre.

Invece l’UCEI non si è espressa, e il silenzio è calato anche su altri episodi recenti:

– una squadraccia capitanata dal noto Riccardo Pacifici, esponente della Comunità ebraica romana, ha aggredito gli studenti di un liceo che confina con la sinagoga di Roma; alcuni sono finiti all’ospedale, e gli insegnanti della scuola testimoniano la brutalità dell’aggressione.

– La ministra Roccella, in un convegno cui partecipavano anche la presidente UCEI e l’assessore alla Comunicazione, ha dichiarato che le «gite» ad Auschwitz sono state «incoraggiate e valorizzate» perché avevano come bersaglio «una precisa area storico-politica», quella fascista, affermando quindi che le «gite» servono solo a ribadire «che l’antisemitismo è solo una questione degli antifascisti».

– Un inquietante pdl a firma Gasparri, che segue la presentazione di altri due progetti a firma Lega e Italia Viva, potrebbe condurre a definire “antisemita” qualsivoglia manifestazione di dissenso nei confronti del governo israeliano da parte di chiunque – movimento, associazione, partito – e in qualsivoglia azione/iniziativa pubblica, colpendo preventivamente i soggetti.

A breve si terranno in Italia le elezioni del nuovo Consiglio dell’UCEI, nonché dei Consigli delle Comunità ebraiche italiane. E allora ci si chiede: dove sta andando l’UCEI?

da la Repubblica

Edith Bruck è nel suo salotto circondata da due mazzi di roselline bianche. Rinuncia al caffè, ma non a una sigaretta leggera. Ha ascoltato le dichiarazioni di Eugenia Roccella. Fa un sorriso mesto. Dice piano: «Non sono gite». Non sono gite i viaggi della memoria ad Auschwitz, se hanno un limite è quello di non riuscire a mostrare tutto: «Sono tornata a Dachau, ma non c’è più niente: è rimasto solo il forno crematorio e giù in fondo, le docce. Non ci sono le baracche, tutte distrutte». E invece bisogna vedere come dentro al memoriale di Auschwitz, «le montagne di scarpe, le migliaia di occhiali. Ricordo i corpi accatastati che mi sono trovata davanti l’ultimo giorno a Bergen Belsen, una Tour Eiffel di cadaveri».

Esce oggi per La Nave di Teseo l’ultimo libro della scrittrice di origine ungherese che ha scelto la nostra lingua per poter dire l’orrore. Perché come ama ripetere «la carta sopporta tutto». Si intitola L’amica tedesca, è una storia in cui il suo dolore di sopravvissuta incontra il dolore di chi della guerra non sapeva nulla.

Ha sentito le parole della ministra Roccella. Possiamo considerare la memoria dell’Olocausto come qualcosa di parte, coltivata solo per accusare il fascismo?

Primo Levi diceva: noi possiamo raccontare mille volte, ma non sarà mai comprensibile quel che è accaduto. Nonostante questo, ho passato gli ultimi sessant’anni della mia vita ad andare a parlare nelle scuole, con i ragazzi, ed è così importante farlo. Non per noi, ma per loro.

Sono in grado di capire?

Ho sempre parlato davanti a platee mute e in ascolto. A volte, accanto a qualche ragazzo che piangeva con me. Non so dire quanto sia grata di quegli incontri. E delle valanghe di lettere che mi scrivono ancora. Un giorno in un liceo un professore mi ha detto: signora Bruck, si ricorda di me? Era venuta a parlare nella mia scuola. Ora che sono caduta e non riesco ad andare, faccio con Zoom, ma finché avrò vita e voce non smetterò a parlare della Shoah.

Il governo vuole sminuire le colpe del fascismo?

Lo fanno da sempre. Nelle scuole, a parte questi incontri, cosa si insegna? Se ne parla poco e male. Da subito dopo la guerra nessun paese ha voluto confrontarsi con i propri delitti. Né l’Italia, né l’Ungheria. Forse, paradossalmente, a farlo più di tutti è stata la Germania. Noi sopravvissuti volevamo parlare, dovevamo liberarci di questa colpa – essere vivi – ma nessuno voleva ascoltarci. Dicevano: anche noi abbiamo sofferto la fame, anche noi abbiamo avuto i bombardamenti.

Ha visto l’accordo di pace, il rilascio degli ostaggi?

È qualcosa, certo, ma non riesco a fidarmi. Netanyahu ha fatto un grande danno con le sue dichiarazioni e la sua politica. In Europa l’antisemitismo si è acceso di nuovo, diventando uno tsunami. Mi è molto dispiaciuto vedere che a Bologna il palazzo municipale abbia esposto la bandiera palestinese, e non quella israeliana. Se vuoi la pace, devi volerla per tutti.

Perché non si fida?

Più si uccide, più si muore. Non puoi non morire un po’ dentro quando spari in faccia a qualcuno, un altro come te. E quindi con questa guerra senza fine ci stiamo tutti suicidando. La nostra umanità sta morendo. Ed è un dramma perché non c’è alcun rispetto per la vita in sé, non si rendono conto di quanto sia preziosa, di quanto – quando è in pericolo come lo era per noi ogni giorno nei campi – si sia disposti a fare qualsiasi cosa per difenderla.

Perché non se ne rendono conto?

Perché dal 1948 ci sono state solo guerre e odio. C’è stato un tentativo, poi hanno ucciso Rabin e siamo tornati indietro. Quante generazioni da allora sono cresciute nell’odio? Dico da sessant’anni, non da oggi, che non ci sarà pace finché non ci saranno due stati e due popoli.

L’amica tedesca è un romanzo che parla di un incontro difficile per lei. Lo aveva scritto molti anni fa, ma glielo avevano rifiutato.

Un editore di Firenze mi aveva detto che era un romanzo per lesbiche e io ci ero rimasta malissimo. Nessuno mi aveva mai rifiutato un romanzo, mi ero offesa come una bambina. Poi mio marito Nelo Risi mi fece l’elenco di tutte le opere di grandi scrittori rifiutate, a cominciare dal Gattopardo!

Perché era così difficile per lei avere una amica tedesca?

Non so descriverlo, ma perfino la voce, il suono della lingua, al principio mi feriva. Quando sentivo halt, o schnell, “rapido”, mi impietrivo perché mi sembrava di essere tornata al campo. Questa ragazza, che nella realtà si chiamava Brigitte, non sapeva nulla della guerra. Lo sceneggiatore con cui viveva le aveva fatto leggere il mio primo romanzo e lei aveva scoperto all’improvviso cos’era successo nel suo Paese, cosa aveva fatto quell’Hitler la cui foto sua madre teneva sul comodino, e prese a tempestarmi. Avrà bussato trenta volte alla mia porta prima che le aprissi.

Anche la vita di lei, nata nel 1945, era piena di dolore.

La madre aveva fatto tre figli con tre soldati diversi per darli a Hitler, che venerava. Poi li aveva lasciati a varie famiglie affidatarie. Brigitte era finita con padri che la abusavano, ma le mogli prendevano le loro parti e la accusavano di mentire. Come accade anche oggi, quando non si crede alle donne vittime di violenza, e si rovesciano le colpe.

Brigitte era omosessuale, il suo affetto per lei era fortissimo, non era questo però a turbarla.

No, per me era difficile stabilire un rapporto vero con una tedesca e mi stupivo di me stessa perché io non sono così. Ma la diversità – chi sei, chi ami – non mi ha mai turbata. Da quando sono venuta al mondo ho sentito che ogni vita è preziosa, e non ci sono persone di serie A, B, C.

da Casa delle donne di Milano

Luisa Cetti
Luisa Cetti

Ciao Luisa… Ti ho salutato così fino all’altro ieri, come tante altre compagne e amiche della Casa e non solo. Dovevamo vederci ieri pomeriggio, domenica 12 ottobre, a un concerto all’Auditorium, con altre amiche e amici. Ero po’ in ritardo, ti ho chiamato senza avere risposta, ho pensato: chissà, forse è già in sala e ha spento il telefono. O non ha sentito.

Poi, mentre ascoltavamo la Quarta sinfonia di Brahms, abbiamo cominciato a preoccuparci. Non era da lei, non avvertire. Era molto attenta e puntuale, ci aveva detto che dopo il concerto avremmo potuto fare un aperitivo da lei, che abitava a poca distanza. Quante volte eravamo state invitate a casa sua, in via Pietro Custodi, nel grande soggiorno affacciato sul retro, da cui andava e veniva il suo amato Micio Macho. Quanti compleanni e feste con gli amici fatti lì, in quello spazio luminoso.

Invece.

Ora scrivo di lei incredula e sconvolta. La conoscevo da più di cinquant’anni, siamo state compagne nei movimenti degli anni Settanta, nei Cub, in Avanguardia Operaia, nel movimento femminista. Abbiamo lavorato insieme dal 1974 al 1978 al “Quotidiano dei Lavoratori”. Lei poi aveva insegnato, vissuto negli Stati Uniti, studiato la storia di quel paese, delle donne pioniere dei diritti, dei movimenti. Ha pubblicato diversi libri per Sellerio, l’ultimo Storie di anime ribelli. Diritti e utopie nell’Ottocento americano uscito nel maggio scorso.

Il ricordo non può non partire da cinquant’anni fa. Eravamo impegnate, entusiaste, fiduciose nella possibilità di rivoluzionare il mondo, di far nascere un mondo migliore. Ragazze che si raccontavano anche gli amori e i progetti, le cose della vita. Non è stata facile la sua, anzi. Eppure sempre, in questi decenni, è stata sempre pronta ad aiutare tutte le amiche e compagne che avevano problemi. Le accompagnava negli ospedali, nelle visite, le invitava a rilassarsi nella sua bella casa sopra Tremezzo, sul lago di Como. Era buona e generosa.

Di lei vorrei ora ricordare soprattutto gli ultimi anni alla Casa delle Donne. Penso che siano stati tra i più felici e appaganti della sua vita.

Era socia della Casa dalla fondazione, nel 2014. Ma per vari motivi – i libri che scriveva, i soggiorni sul lago, dove la casa era diventata negli ultimi anni un bed & breakfast – non si era impegnata più di tanto. Poi, due anni e mezzo fa, aveva deciso di candidarsi al Consiglio Direttivo. Aveva maturato la decisione nei mesi precedenti. E l’aveva motivata, davanti a molte socie della Casa, con parole il cui senso era più o meno: «Dopo anni in cui ho seguito la Casa della Donne e ricevuto tanto, ho deciso che è il momento di restituire, di impegnarmi di più. Per questo mi candido al Direttivo».

Eletta senza avere il curriculum classico delle fondatrici o delle più attive, è stata in questi due anni e mezzo una presenza indispensabile nel Consiglio Direttivo di “noi sette”, come ci chiamiamo nelle password. Eravamo quasi tutte “nuove” a un’esperienza di gestione della Casa. Lei ci ha messo un grandissimo entusiasmo, con l’idea che la Casa dovesse essere aperta a tutte le donne, alla città, al mondo terribile con cui dobbiamo confrontarci. Aveva una caparbia volontà di cercare il positivo anche nelle peggiori tragedie cui quotidianamente assistiamo, come sanno le donne che hanno partecipato in questi mesi alla lettura dei giornali del mercoledì.

Partecipava attivamente ma sapeva anche “gestire gli eventi”: dal caffè alle cene, dai microfoni al mixer, sapeva fare ogni cosa. Tutte la ricordiamo arrivare ed esserci, sempre pronta e sorridente. Faceva i verbali, rispondeva alle richieste che arrivano ogni giorno alla Casa. Era disponibile in qualsiasi giorno e orario. Diceva sempre che l’esperienza del Consiglio Direttivo l’aveva arricchita molto, le aveva fatto conoscere realtà di donne e di mondo che non avrebbe mai avuto modo di incontrare altrimenti. Negli ultimi giorni insisteva sul fatto che candidarsi non era poi così difficile e impegnativo, che “si poteva fare” anche da socie senza particolari esperienze. Come era successo a lei.

Non potevamo immaginare che non ci fosse stasera, all’incontro (disdetto) del Direttivo con le socie per discutere di candidature. Né domani. Né nel prossimo Direttivo.

Ci mancherai, mi mancherai molto e molto mancherai alla Casa.

Addio Luisa, cara, generosa amica e compagna di sempre.

il manifesto – Alias

La scultura, si sa, è per eccellenza l’arte del levare. Nel caso delle scultrici questa definizione ha coinciso per lungo tempo anche con il loro statuto sociale. Perché se nei manuali di storia dell’arte il nome delle pittrici, pur sempre limitato almeno fino agli inizi del Novecento, è stato presente, il loro ha finito per scomparire. Un nome, però, ha resistito su tutti, quello di Camille Claudel (1864-1943), una delle figure maggiori della statuaria francese dell’Ottocento.

Entrata dopo la sua morte nell’oblio più totale, dal quale uscirà solo sporadicamente per essere associata al ruolo di allieva e musa ispiratrice di Rodin, Claudel ha finalmente conosciuto un’inarrestabile riscoperta a partire dagli anni ottanta. La sua notorietà è oggi tale che si potrebbe credere, a torto, che fosse la sola scultrice del suo tempo. Eppure intorno al 1900 sono state molte le figure che hanno intrapreso lo stesso cammino, nonostante le numerose difficoltà e i pregiudizi che questa scelta comportava. Claudel, quindi, quale punta di un iceberg oggi finalmente pronto a riemergere: questo l’assunto della mostra Être sculptrice à Paris au temps de Camille Claudel [‘essere scultrice a Parigi ai tempi di Camille Claudel’] – aperta fino al 4 gennaio al museo monografico dedicato all’artista a Nogent-sur-Seine (catalogo In fine. Editions d’art) – che riunisce le opere emblematiche di diciotto artiste riconosciute durante la loro vita e poi dimenticate.

Curata da Anne Rivière, la più illustre esperta di Claudel e delle scultrici in Francia, l’esposizione ricostruisce il percorso a ostacoli di una generazione di giovani artiste giunte nella Parigi di fine secolo, come molti loro colleghi uomini, perché attratte dalla modernità espressiva e dalla libertà di costumi offerte dalla città. Un progetto non semplice da realizzare, vista la carenza di archivi e anche di opere, spesso dimenticate in qualche deposito.

La mostra si inscrive nell’ormai consolidata tradizione di studi di genere inaugurata all’inizio degli anni settanta dall’americana Linda Nochlin e dal suo celebre e pionieristico saggio Why have there been no great women artists? (1971). Nel pieno del movimento di liberazione della donna, con un approccio improntato alla storia sociale dell’arte, Nochlin decostruiva metodicamente il mito della grandeur, spiegando come le condizioni della formazione artistica, della produzione, della diffusione e della ricezione delle opere favorissero sistematicamente gli uomini, escludendo le donne. Oggi l’eredità di quel testo, seppur datato, comincia a dare i suoi frutti, grazie al proliferare di studi in ambito universitario dedicati a quel mondo artistico femminile riemerso: studi all’interno dei quali questa mostra trova per lo più le sue giustificazioni, a partire proprio dal caso emblematico e paradigmatico di Claudel, con cui si apre il percorso espositivo.

Nata in una famiglia, senza nessun precedente artistico, della piccola borghesia francese originaria del nord della Francia, Claudel si interessa alla scultura precocemente. Già all’età di dodici anni realizza i primi busti, modellati in terra, dei fratelli Paul e Louise. Sarà innanzitutto il padre ad accorgersi del talento di Camille, sottoponendolo al giudizio del noto scultore Alfred Boucher, originario proprio di Nogent, dove la famiglia Claudel viveva tra il 1876 e il 1879.

Lo scultore insiste perché la giovane possa continuare a nutrire la sua passione seguendo dei corsi di scultura. Cosa non semplice in un’epoca in cui le donne sono ancora escluse dall’insegnamento accademico (la loro ammissione avverrà solo nel 1897) e l’arte della scultura, soprattutto, viene considerata un affare esclusivamente maschile. Nel 1881, a soli diciassette anni, la giovane Claudel riesce a imbarcare tutta la famiglia nella folle impresa di seguirla a Parigi per proseguire la sua formazione. Grazie al sostegno del padre apre il suo primo atelier, al numero 117 della rue Notre-Dame-des-Champs. Boucher vi sei reca ogni venerdì per darle consigli e correggere il lavoro di altre giovani allieve che nel frattempo l’avevano raggiunta. A partire dal 1882, ai corsi di scultura Camille affianca quelli di disegno presi nell’Académie Colarossi a Montparnasse, una scuola d’arte aperta a tutti, donne e stranieri compresi, senza concorso d’ammissione.

La mostra illustra quanto queste “accademie libere”, come venivano chiamate, giocassero un ruolo fondamentale per la formazione delle giovani artiste che giungevano numerose da ogni parte d’Europa – in particolare dall’Inghilterra e dai paesi scandinavi – per esprimersi ed emanciparsi socialmente. Qui si praticava senza preconcetti il disegno e la scultura ‘d’après le modèle nu’ [nudo dal vivo, ndr], femminile e soprattutto maschile: numerose, in mostra, le testimonianze grafiche di questa pratica, tanto banale per gli uomini quanto irraggiungibile per le donne, vera ragione della loro esclusione dal sistema accademico. Già, perché l’impossibilità d’accedere a una formazione artistica professionale non era tanto determinata da una mancanza di talento quanto da una pura e semplice ragione morale.

Ecco la prima di una serie di numerose ingiustizie, che a cascata ricadevano sulla carriera di queste giovani artiste, riducendo drasticamente il loro accesso al Prix de Rome, al Salon parigino, e di conseguenza al mercato dell’arte. Inoltre, i costi elevati della pratica della scultura vincolavano spesso le artiste alla protezione di padri o mariti: sarà proprio il desiderio di mutualizzare le forze a fare dell’atelier di Camille Claudel un luogo di sorellanza artistica e umana, un laboratorio di libertà sociale, pur non privo di qualche rivalità. Molte delle colleghe – Madeleine Jouvray, Sigrid af Forselles, Jessie Lipscomb, Amy Singer – transitarono anch’esse da Colarossi, come testimoniano i numerosi reciproci ritratti esposti in mostra, frutto di una necessità che diventava virtù.

Nonostante le difficoltà, alcune di queste scultrici sono salutate dalla critica e ottengono commissioni pubbliche, come Marguerite Syamour o Marie Cazin (moglie del pittore Jean Charles Cazin), cui si deve un intenso doppio ritratto femminile presente a Nogent.

La mostra prosegue con una sezione dedicata all’arrivo di Rodin come supervisore nell’atelier di Claudel (1882), in sostituzione dell’amico Boucher. Un incontro proficuo che vede da una parte un gruppo di giovani donne determinate a imparare il mestiere fuori dal circuito istituzionale che le rifiutava, dall’altra il titanico scultore in cerca di manodopera a buon mercato per il proprio atelier della rue de l’Université, integrato rapidamente, appunto, da Claudel, Lipscomb e Jouvray. Il magistero di Rodin non è convenzionale. L’apprendimento si fa attraverso la pratica, nel cuore della vita di bottega. Più che allieve, Claudel e le altre diventano assistenti, con funzioni le più diverse, dalla semplice cura dei materiali fino alla modellazione e al taglio dei marmi.

Grazie alla sua forza creatrice Claudel occupa progressivamente uno spazio speciale nell’atelier, dialogando alla pari col maestro, prima di emanciparsene definitivamente dopo una tormentata relazione. Jouvray, al contrario, continuerà a lavorare per lui senza essere capace di uscire dell’orbita della sua influenza: il confronto in mostra tra il suo “Schiavo” e “L’Età del Bronzo” di Rodin appare senza appello.

Nel 1913, quando l’ultima esposizione di opere di Camille Claudel coincide con il suo primo ricovero psichiatrico, una nuova generazione di scultrici – Jane Poupelet, Yvonne Serruys – ha definitivamente abbandonato le seduzioni simboliste di Rodin in favore di un linguaggio più epurato e classicista: più moderno. Di lì a poco, però, lo scoppio della Prima guerra e l’arrivo delle avanguardie contribuiranno a cancellare dalle memorie i nomi di queste scultrici resilienti: la mostra di Nogent ricuce lo strappo.

da L’Altravoce il Quotidiano

Francesca Albanese e Greta Thunberg sono due donne coraggiose e autorevoli, l’una “relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”, l’altra, giovane svedese promotrice del movimento mondiale Fridays for Future contro il surriscaldamento globale. Oggi, entrambe sono oggetto di pesanti attacchi volti a delegittimarle, infangarle, screditarle e con false accuse renderle non credibili. Attacchi volti a farle zittire, con minacce, insulti, intimidazioni. Ma loro non si fanno zittire, parlano, vengono ascoltate e credute. Contro di loro si è scatenata una campagna di odio violentissima. L’una per aver denunciato e accusato, davanti alle Nazioni Unite con il suo report “Anatomia di un genocidio”, Israele e i suoi complici di apartheid, occupazione illegale dei territori palestinesi e di genocidio. L’altra per essersi imbarcata sulla Global Sumud Flotilla, condividendo la sorte dell’equipaggio. Entrambe sono state accusate di antisemitismo, di essere amiche dei terroristi, di essere al soldo di Hamas. Albanese è odiata per aver fatto i nomi delle “entità aziendali”, americane, israeliane e occidentali (produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione e edilizia, industrie estrattive e di servizi, banche, fondi pensioni, assicurazioni, università e organizzazioni di beneficenza) «che sono state a lungo coinvolte nel sostegno all’occupazione coloniale» e continuano a «sostenere, beneficiare e normalizzare un sistema economico legato al genocidio». Il segretario di Stato americano in una lettera alle Nazioni Unite ha chiesto la sua «immediata rimozione» dall’incarico per il suo «virulento antisemitismo e sostegno al terrorismo». L’ha accusata di essere bugiarda, di diffondere false notizie e che il suo rapporto «non è una difesa dei diritti umani ma una campagna diffamatoria». È stata sanzionata come «nemica di Israele, degli Stati Uniti e dell’Occidente». È stata citata in giudizio per diffamazione da un centro legale ebraico americano per aver elencato nel suo rapporto «organizzazioni caritatevoli cristiane» che «con le loro donazioni, hanno contribuito a progetti di sostegno agli insediamenti israeliani, tra cui la formazione di coloni estremisti». È stata attaccata per aver chiesto che la Corte di giustizia internazionale indaghi su queste «entità aziendali» che «traggono profitti dalla distruzione delle vite di persone innocenti» e per aver ricordato come «i processi agli industriali dopo l’Olocausto hanno gettato le basi per il riconoscimento della responsabilità penale internazionale dei dirigenti aziendali per la partecipazione a crimini internazionali».

Greta, da parte sua, è stata umiliata dai militari israeliani che dopo l’arrembaggio alla Flotilla in acque internazionali l’hanno costretta a gattonare e baciare la bandiera israeliana, nella quale poi l’hanno avvolta. Ha subito, come gli altri, maltrattamenti e abusi durante la prigionia di cui al momento non ha voluto parlare quando è atterrata ad Atene, dopo essere stata rilasciata. Ha accusato, anche lei, gli stati, le istituzioni, i media e le aziende di rendere possibile e alimentare il genocidio di Israele a Gaza. La marea umana che si è riversata nelle piazze di tutto il mondo sta con Albanese e Greta e mentre i militari israeliani abbordano l’altra Flotilla, carica di medicinali, medici, infermieri e giornalisti, tutti arrestati, le piazze tornano a riempirsi. Non si tratta, come ha detto Greta, di salvare i palestinesi, ma l’umanità dentro ognuna/o di noi. Umanità tradita, sbeffeggiata, insultata, criminalizzata, da chi, come il governo italiano, in questi anni è stato complice di genocidio e della distruzione di Gaza e oggi di fronte alla possibilità di porvi fine, ha la sfacciataggine di dire di aver sempre lavorato per la pace, ma la verità è più forte delle loro menzogne.

Lo storico israeliano Ilan Pappé fu tra i primi, vent’anni fa, a parlare di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi di Tel Aviv. Nel suo ultimo libro appena uscito in Italia pronostica la fine dello “Stato dell’apartheid” e la costituzione, lenta, di un unico Paese antirazzista, plurale e democratico. «Non so quando ma so che accadrà». Lo abbiamo intervistato, riflettendo anche sul cessate il fuoco appena annunciato a Gaza.

«Il piano di Trump più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra». Non ha dubbi Ilan Pappé, lo storico israeliano che per primo, vent’anni fa, parlò di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi israeliani. Nel suo ultimo libro, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina (Fazi Editore), analizza il presente ma traccia anche un futuro possibile. «Quello che vorrei – dice – e che sono certo si realizzerà, anche se non so quando: uno Stato democratico, dal fiume al mare, dove ebrei e palestinesi vivranno insieme con gli stessi diritti». Lo abbiamo intervistato.

Pappé, in questo libro fa lo storico ma anche il veggente. Quali elementi l’hanno portata a prevedere la fine di Israele?

Innanzitutto i processi che sono in corso e che stanno portando al crollo dell’attuale Stato di Israele, l’attuale regime, che è più teocratico, razzista e aggressivo nei confronti dei suoi vicini. Sono processi molto lenti, non sempre facili da individuare ma credo che accelereranno e diventeranno più visibili. Sono abbastanza certo che stia accadendo, quello che non so è che cosa lo sostituirà. Quindi da un lato l’analisi è accademica, dall’altro ha a che fare con il desiderio e la speranza, quello che spero accadrà, cioè che lo Stato razzista, teocratico e dell’apartheid di Israele sarà sostituito da uno Stato democratico per tutti, dove i palestinesi per la prima volta dopo centovent’anni potranno avere una vita normale, i rifugiati potranno tornare e questo avrà un enorme impatto positivo su tutta la regione.

E a che punto siamo?

Siamo all’inizio della fine. Alcuni processi sono più visibili, come la mancanza di coesione sociale in Israele. Ebrei religiosi e laici non trovano più una lingua comune, non possono vivere insieme e gli ebrei più fanatici hanno il sopravvento perché sono più popolari. È già visibile l’isolamento di Israele nella società civile. Quello che non vediamo è come questo si traduca nella politica dall’alto, almeno per i governi. Vediamo ebrei in tutto il mondo che si dissociano dal sionismo. Vediamo una crisi economica in divenire, un esercito esausto, che si affida totalmente all’aeronautica e ai carri armati contro dei guerriglieri, il che è molto discutibile. Dall’altro lato non vediamo ancora un movimento di liberazione palestinese che sappia che cosa fare, ma questo credo accadrà perché parlo con i giovani palestinesi, che sono più uniti e impegnati a ricostruire tale movimento.

Ma come immagina il futuro?

Immagino uno Stato solo dal fiume al mare, in cui non importa quale sia la tua religione o nazionalità, in cui si rispettano le identità collettive e gli ebrei saranno una di queste, ma non la sola. Lo immagino molto più collegato al mondo arabo che all’Europa, uno Stato normale con problemi normali. Non so quando ma so che accadrà.

Pensa che la riconciliazione sia possibile dopo il 7 ottobre e il genocidio di Gaza?

No, ora non è possibile e Israele è nella sua fase più crudele. Ma se guardiamo la storia molti regimi ingiusti e criminali sono stati molto crudeli nelle ultime fasi. Il tempo è un fattore importante e non accadrà l’anno prossimo. Non credo, inoltre, che tutti gli ebrei rimarranno in Israele: molti se ne andranno – come i bianchi in Sudafrica che non volevano vivere in uno Stato di non-apartheid. Ma spero che ne rimangano abbastanza, perché i palestinesi hanno bisogno di loro per ricostruire un Paese diverso e migliore.

All’orizzonte però non ci sono alternative politiche forti né israeliane né palestinesi.

Sì, ma non è questo il punto. Piuttosto: il mondo capisce che il suo ruolo ora non è quello di mediare ma di proteggere i palestinesi? Gli israeliani non sono in pericolo. Le persone che rischiano di essere eliminate sono i palestinesi. Poi verrà il resto.

Che cosa pensano i bambini israeliani dei bambini palestinesi dopo il 7 ottobre, secondo lei?

Quello che pensavano prima: che i palestinesi non sono esseri umani adeguati, che sono come i nazisti, i barbari. Il sistema educativo israeliano è razzista e soprattutto negli ultimi venticinque anni ha prodotto laureati che non sono in grado di vedere i palestinesi come esseri umani. Gli ultimi due anni non hanno cambiato nulla.

E i bambini palestinesi?

Dipende da dove vivono. Quelli cresciuti a Gaza conoscono gli israeliani solo come carcerieri. Quelli nei Territori occupati vedono solo coloni, coloni violenti e soldati. Infine, i figli dei palestinesi in Israele hanno una visione molto complicata perché sanno che alcuni israeliani sono brave persone e con le loro famiglie hanno relazioni e amicizie. Quindi dipende dal posto. Invece gli ebrei israeliani hanno perlopiù una visione molto unificata dei palestinesi.

Com’è stato per lei crescere in Israele? Che idea aveva dei palestinesi?

Fino a vent’anni non sapevo molto di loro. Quando ho lasciato Israele per fare il dottorato, li ho incontrati in un contesto diverso, come persone uguali e ho sentito la loro storia e ho fatto ricerche. Ho capito che tutto quello che avevo imparato e sentito fino a quel momento era molto lontano dalla verità. Che c’era un’altra storia, che mi era nascosta e ho dovuto trovarla da solo.

Quanto hanno a che fare i palestinesi con la sua decisione di diventare uno storico?

Ho sempre amato la storia e volevo scrivere la storia del mio Paese, quindi non molto. Quello che ha avuto molta influenza su di me è stata la capacità di dire: anche se lo senti dai tuoi genitori e dai tuoi insegnanti, sii critico. Non accettare tutto ciò che ti viene detto. Questo è ciò che ho imparato da loro. E ovviamente era molto importante per me capire che la storia non è neutrale, che devi essere impegnato e mi ha aiutato a diventare un attivista, non solo uno storico.

Perché Israele gode o almeno ha goduto di tanta impunità? Qual è il fattore più rilevante: economico, ideologico, il “senso di colpa” europeo?

Penso sia una miscela di fattori. Israele gode dell’immunità prima di tutto per il rapporto bizzarro che lo lega all’Europa. L’Europa non voleva gli ebrei, quindi ha suggerito che ci fosse uno Stato ebraico al di fuori dell’Europa, ma considera Israele parte dell’Europa. In secondo luogo, c’è l’idea che se non diamo l’immunità a Israele dobbiamo ritornare sulla questione dell’antisemitismo e l’unica soluzione per l’antisemitismo è stata creare uno Stato ebraico in Palestina, invece che rendere l’Europa una società antirazzista. Al giorno d’oggi, poi, penso ci sia un altro problema che è il livello della politica. I politici oggi non sono molto interessati alla moralità, all’ideologia. È molto facile comprarli per sostenere Israele. Non hanno molto rispetto per sé stessi, sono molto egocentrici. Sto generalizzando, ovviamente ci sono delle eccezioni. Di certo, quando penseranno che sostenere Israele potrebbe essere un problema alle elezioni, cambieranno e improvvisamente vedremo un intero cambiamento nella politica europea.

Gaza alla fine diventerà una “Riviera”?

No. Gaza è completamente distrutta, la terra è intossicata e la maggior parte delle città sono devastate. Ci vorranno anni per ricostruirla. Non so che cosa diventerà perché dipende dalle sorti del resto della Palestina storica e prima, credo, farà parte dello Stato di apartheid di Israele. Speriamo che in futuro faccia parte di una Palestina decolonizzata. Ma una cosa è certa: rimarrà palestinese, anche se non sarà un posto facile in cui vivere, specialmente i primi anni. E rimarrà anche la più importante fonte di resistenza, come è sempre stata.

E la Cisgiordania?

È un problema diverso, Israele sta cercando di fare alla Cisgiordania quello che fa a Gaza, ma è molto più difficile lì. I numeri sono più grandi, ma ci sono 800mila coloni ebrei. Molto dipende dal mondo, se non farà nulla per Gaza, potrebbe non farlo anche per la Cisgiordania. Siamo in un brutto momento: Israele vuole imporre la sua realtà e questo tentativo causerà molto spargimento di sangue e sofferenza – e quindi si spera che il mondo interferisca – ma non avrà successo.

Che cosa significa fare ricerca al tempo delle fake news e dell’intelligenza artificiale?

Gli sviluppi tecnici ci sono da sempre e se sei uno storico esperto, se conosci bene l’argomento, puoi stare certo di non perdere di vista la verità. Non sono preoccupato per gli storici ma per il pubblico in generale, per quanto sia facile accettare notizie false e generate dall’Ia. Penso che la cosa più importante, anche per i giornalisti, sia capire e usare le parole giuste. Se non chiami Israele “l’unica democrazia del Medioriente”, ma “Stato di apartheid”, è già un buon inizio per permettere di capire quando ci sono notizie false e propaganda israeliana.

Sull’uso della parola “genocidio” in Italia c’è un gran dibattito. Anche in Israele?

Le persone in Perù e in Malesia sanno molto di più quello che succede a Gaza degli israeliani. Non hanno idea di cosa succede a Gaza.

Ancora adesso?

Sì, perché i media israeliani collaborano con il governo, non mostrano nessuna immagine di ciò che accade a Gaza. Parlano solo dell’esercito, dei soldati coraggiosi, degli ostaggi.

Ma ci sono i social media.

Viene detto loro che sono anti-israeliani e non li guardano. Israele non permette di vedere Al Jazeera e la gente non cerca media alternativi. Quindi sicuramente il genocidio sembra loro un’accusa antisemita. Non a tutti, ma a una stragrande maggioranza.

Come si sente da israeliano?

Mi vergognavo già di questo Paese molto prima di Gaza. Le mie idee su cosa siano il sionismo e Israele non sono cambiate. In effetti ho previsto quello che è successo. Non sapevo esattamente come, ma ero sicuro che questo non potesse andare avanti e che ci sarebbe stato uno scoppio di violenza. L’unica cosa che mi ha sorpreso è stata l’indifferenza europea. La gente ha reagito subito per l’Ucraina ma i governi non hanno usato la stessa lingua per Gaza. È abbastanza sorprendente.

Che cosa pensa di Trump e del suo piano di pace?

Penso che nel migliore dei casi possiamo sperare che porti a un lungo cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri. Non è un piano di pace. Ha tutti i problemi dei precedenti, non cambierà nulla drasticamente. Più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra.

È anche la fine di Netanyahu?

Non sono mai in grado di prevedere quello che lo riguarda. Ha una base molto forte, ora è in calo, ma se ci sarà il rilascio degli ostaggi, si prenderà il merito e potrebbe rivincere le elezioni. Ma anche se perde, chiunque lo sostituirà avrà la stessa ideologia.

da Leggere Donne

Le guerre che ho (solo) visto, Moretti & Vitali, Bergamo 2025 pagine 152, € 14

«Si passa il tempo più a giustificare la guerra (le guerre) che a pensare e immaginare la pace». Questa constatazione, che attraversa Guerre che ho (solo) visto di Rosella Prezzo, è il punto di partenza per un lavoro intellettuale radicale, una narrazione attraversata da riflessioni teoriche, immagini artistiche, citazioni poetiche e memorie personali che interroga il nostro modo di vedere la guerra e la possibilità – tutt’altro che astratta – di immaginare la pace. Ad accompagnare la scrittura, una preziosa antologia conclusiva prosegue il lavoro di montaggio e disvelamento fatto dall’autrice.

Un posizionamento laterale. Prezzo adotta una prospettiva situata, femminista e non armata, rivendicando il suo essere spettatrice: una donna che ha “solo visto” la guerra attraverso schermi, notizie, film, immagini. Da questa posizione dichiaratamente laterale ma consapevole, il libro si muove: non verso la spiegazione dei conflitti, ma verso lo svelamento del modo in cui la guerra viene rappresentata e interiorizzata. È una soggettività incarnata, relazionale, che guarda per comprendere non solo “ciò che accade”, ma ciò che ci attraversa mentre guardiamo.

La smaterializzazione della guerra. Il primo grande nodo che il libro affronta è quello della smaterializzazione del conflitto. La guerra oggi si combatte da remoto, attraverso droni, visori notturni, algoritmi, si parla di “operazioni chirurgiche”. Ma questa apparente “pulizia” è una rimozione della morte e del dolore e l’autrice mostra, con grande rigore, come questa estetizzazione anestetizzi anche la nostra immaginazione politica. E ci mette di fronte al rischio di una nuova cecità, di una pace finta, costruita sul silenzio dei corpi. La guerra dentro le immagini. È a partire da questo scenario che prende forma una delle riflessioni più penetranti e necessarie sulla guerra contemporanea e sulle modalità con cui la percepiamo, filtrate quasi interamente da media, immagini, videogiochi di simulazione.

Rosella Prezzo interpreta questi materiali come vere e proprie “prove d’accusa” contro la narrazione bellica, mostrando anche come la guerra non si esaurisca nei luoghi di conflitto, ma abiti le immagini della nostra quotidianità. Per rendere visibili questi dispositivi, si serve di opere d’arte visiva e film – da Stanley Kubrick a Cristina Lucas, da Harun Farocki a Marina Abramović – trasformandoli in strumenti critici capaci di decostruire le retoriche dominanti e smascherare i meccanismi che le sostengono.

Così analizza il nesso tra addestramento bellico e maschilità (Stanley Kubrick), tra pornografia e guerra e rivela come il corpo del nemico viene ridotto a oggetto, a frammento, a carne esposta in chiave sadica o grottesca, mentre il corpo del soldato occidentale è sessualizzato, reso icona eroica; prende in esame la rimozione del dolore nella sfera pubblica e politica, come nel caso emblematico della copertura del dipinto Guernica all’ONU per il discorso di Colin Powell durante la guerra in Iraq; mette in luce come l’idea moderna di cittadinanza si sia fondata sulla fratellanza armata che ha escluso la sororità, con l’evidenza visiva offerta da La Liberté raisonnée di Cristina Lucas, in cui gli uomini del celebre quadro di Delacroix si rivoltano contro la figura femminile della Libertà, rivelando la violenza patriarcale celata dietro il mito democratico occidentale; palesa la post-umanità tecnologica che neutralizza il corpo ma non il trauma (Harun Farocki); infine evidenzia la nostra complicità di spettatrici/tori distanti attraverso la performance di Marina Abramović Balkan Baroque, in cui l’artista lava per ore ossa animali insanguinate evocando la memoria della guerra nei Balcani con un gesto di esposizione fisica e simbolica.

In ognuno di questi casi, ciò che Prezzo mette a fuoco non è solo la violenza, ma il nostro modo di vederla.

Ripensare la memoria: dal milite ignoto al civile ignoto. Una delle proposte più radicali del libro è simbolica e dirompente: sostituire il monumento al “milite ignoto” con quello al “civile ignoto”. Spostare il centro della memoria dalla figura eroica e maschile del soldato a quella delle vittime invisibili: donne, bambini, corpi senza onore né nome, ma segnati profondamente dalla guerra.

Questo gesto non è solo una provocazione. È un modo per interrogare l’intero impianto della cittadinanza moderna, costruita su logiche di sacrificio, forza e appartenenza armata. Ricordare il civile ignoto significa decostruire la retorica patriottica ed eroica e restituire dignità a chi subisce.

Una genealogia femminile del pensiero di pace. Nel capitolo “Pensare l’impensato della pace”, prende forma una riflessione radicale: se la guerra è stata costruita come fondamento dell’umano e del politico, pensare la pace è un gesto di rottura, una discontinuità simbolica e linguistica. Per compierla, Prezzo si affida alle parole di tre pensatrici che hanno immaginato un altro modo di abitare il mondo:

Simone Weil ci parla della sospensione della forza, di un’azione che si radica nella vulnerabilità e non nella sopraffazione. La sua idea di “attenzione” è una pratica di cura, di giustizia nonviolenta; Virginia Woolf, nel suo Le tre ghinee, decostruisce le genealogie patriarcali della guerra e propone di “combattere con la mente”: creare una civiltà che non si fondi su dominio, possesso, virilità; María Zambrano introduce la necessità di una rivoluzione interiore e culturale che significa un nuovo modo di vivere, una nuova grammatica dell’esistenza, un nuovo modo di abitare il mondo.

Queste filosofe non offrono modelli astratti. Mostrano che la pace si pensa da un’altra posizione: non neutra, non armata, non competitiva.

Una posizione che riconosce la forza delle parole, dei gesti, delle immagini nella costruzione del reale.

Immaginare la pace. Pensare la pace dunque non è un atto neutro: è un’operazione politica, etica, estetica. Richiede nuovi linguaggi, nuovi immaginari, nuove posture. Significa spostarsi da uno sguardo critico a uno sguardo generativo, capace di produrre visioni non belliche della realtà, di restituire voce ai corpi oscurati, di creare legami invece che confini.

Rosella Prezzo, con questo libro, ci invita a smascherare ciò che vediamo, ma anche a immaginare ciò che non c’è ancora: non la pace come utopia disarmata, ma come forma simbolica da abitare, mostrare, insegnare. Un esercizio necessario in un tempo che fatica a pensare il futuro senza la guerra.

da il manifesto

Quando le bombe smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace. Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un confronto con il vero dolore. Un cessate il fuoco non significa la fine, significa semplicemente che il rumore si è placato, permettendo alla voce del dolore di farsi sentire.

Nel momento in cui viene dichiarata la calma, la memoria inizia a parlare. Il padre che ha perso suo figlio si sveglia ogni mattina con la sua immagine. La donna che ha detto addio al marito martire impara a parlare all’assenza stessa. Il bambino sopravvissuto porta negli occhi il ricordo di una casa ridotta in cenere.

La fine della guerra a Gaza non è una vittoria, è un risveglio doloroso. Apriamo gli occhi sulla portata della perdita e reimpariamo a vivere senza ciò per cui un tempo vivevamo. Le case distrutte non si ricostruiscono facilmente nel cuore e i volti scomparsi non possono essere sostituiti dal silenzio o dalle promesse di ricostruzione.

Questa fragile calma che aleggia sulle rovine è lo spazio in cui gli abitanti di Gaza si confrontano con se stessi, scoprendo che la sopravvivenza non è conforto, ma una nuova responsabilità. Vivere dopo tutto questo significa portare il dolore di coloro che non ce l’hanno fatta.

Così, quando il fuoco si spegne, non inizia la pace, ma le parole. Parole di cuori afflitti, ricordi pesanti e persone che cercano la loro strada in una città sfinita dalla perdita. A Gaza, la fine della guerra non è la fine; è l’inizio di un altro capitolo di sofferenza silenziosa, non meno dolorosa dei bombardamenti.

La ricostruzione non inizia con le pietre, ma con i cuori. Le case possono essere ricostruite, ma chi ricostruisce gli esseri umani che vi abitavano? Come può una madre, che trema ancora al rumore del vento perché le ricorda le esplosioni, sentirsi di nuovo al sicuro? A Gaza, le persone riparano non solo i muri, ma anche le anime frantumate dalla paura incessante.

I bambini, tuttavia, sono una storia che non finisce mai. Quelli che hanno imparato a contare al suono dei razzi invece che con i numeri sui loro quaderni, e che hanno capito l’assenza prima di poter capire il futuro. Ogni notte, un genitore si siede accanto a loro, promettendo che la vita tornerà a sorridere, ma i loro occhi rivelano ciò che non può essere detto: la paura che i loro figli crescano credendo che la guerra sia normale.

Al mattino, dopo la guerra, il caffè non ha più il suo solito aroma; l’aria si mescola con la polvere e la cenere. La gente cammina lentamente, con il pane in mano e il peso dei ricordi nel cuore. Si fermano davanti alle rovine delle loro case, toccando le pietre come se fossero i volti dei loro cari, raccogliendo foto dalle macerie come se raccogliessero i frammenti dei propri cuori.

E la sera il silenzio non è tranquillo, ma carico del clamore nascosto delle domande e del dolore. Ogni finestra chiusa sussurra una storia, ogni strada in rovina racchiude l’eco di passi che non torneranno mai più. In questo silenzio, le anime parlano più di quanto le persone potrebbero mai fare.

«La guerra è finita», dicevano. Ma nei cuori non è mai finita. Dopo che il mondo era piombato nel silenzio, la voce del dolore si levò dapprima sommessa, poi chiara, come se provenisse dalle profondità. Una madre siede sulla soglia di una casa ridotta in macerie, fissando la strada da cui suo figlio tornava ogni sera. Un tempo riconosceva il suono dei suoi passi prima ancora di vederlo, ma ora ogni passo che sente risveglia in lei la falsa speranza che sia tornato. Stringe a sé i suoi piccoli vestiti trovati tra le macerie, premendoli sul petto come se cercasse di recuperare il calore della vita dalle ceneri. Il mondo è silenzioso, ma dentro di lei infuria una guerra che non cesserà mai, una guerra tra la memoria e l’oblio, tra l’amore e la perdita.

In un’altra casa, una ragazza è seduta accanto a una porta che non è stata aperta dalla sua partenza. La sua ultima promessa era stata quella di aspettarlo dopo la guerra, ma la guerra è finita e tutto è tornato come prima, tranne lui. Ogni sera parla alla sua fotografia, chiedendogli com’è andata la sua giornata, raccontandogli della città che sembra strana senza la sua voce. Impara che l’assenza non guarisce, e che la solitudine non sta nel vuoto, ma nella presenza di una persona cara solo nei ricordi. Non lo ha perso una volta quando è stato martirizzato, ma lo perde ogni giorno quando si sveglia e non lo trova.

Il bambino che è sopravvissuto da solo ora porta nei suoi occhi un’età superiore alla sua. La gente gli chiede il suo nome, ma lui rimane in silenzio, come se i nomi non avessero più alcun significato dopo che tutte le voci che lo chiamavano sono svanite. Cammina per le strade in rovina, alla ricerca di un volto familiare, di una mano che stringa la sua, di un abbraccio che gli restituisca un senso di sicurezza. A volte gioca tra le macerie, ma ogni risata porta con sé una scheggia di dolore. Piange raramente, forse perché le lacrime non bastano più per ciò che prova dentro.

Sì, la guerra è finita. Ma non ha lasciato i loro cuori. Vive ancora lì, nei dettagli di ogni giorno, negli sguardi, nel lungo silenzio prima di addormentarsi. A Gaza, la guerra non finisce con un cessate il fuoco; rimane dietro ogni sorriso spezzato, ogni cuore che cerca di reimparare a vivere dopo aver perso la vita stessa.

Ricordo la prima tregua annunciata nel gennaio 2025. La gente scese in strada per festeggiare, applaudendo e alzando la voce con gioia. Io, invece, piansi. Piansi con un dolore diverso dalle lacrime di sollievo, ma lacrime di oppressione.

Non sentivo che la guerra fosse finita; sentivo che ricominciava dentro di me. Vedevo negli occhi delle persone una speranza che non potevo raggiungere, ricordando la mia vecchia casa e la famiglia cancellata dall’esistenza, ricordando tutto ciò che si era fermato nella mia vita come se il tempo stesso si fosse congelato in quel primo momento di perdita. Mentre le voci si alzavano in segno di gioia, io sentivo solo il pesante silenzio che aleggiava tra le rovine del mio mondo interiore. Quel silenzio non può essere descritto, e non si può dire «La guerra è finita», perché sappiamo che non è ancora finita.

Eppure, continuo a credere che il cuore che ha pianto in profonda angoscia sia lo stesso cuore capace di risorgere dalle macerie. A Gaza, il dolore non finisce mai del tutto, ma impara a convivere con la vita. Portiamo con noi il nostro dolore non come un fardello, ma come prova che siamo ancora vivi.

Guardiamo il cielo ancora avvolto dal fumo, sussurrando dentro di noi: ricostruiremo. Non solo ciò che è stato distrutto intorno a noi, ma anche ciò che è stato spezzato dentro di noi. La vera pace, per noi, non è quando smettono di cadere le bombe, ma il giorno in cui potremo sorridere senza temere i ricordi.

da Pressenza

L’annuncio della prima fase dell’accordo sul piano di pace proposto da Trump ha acceso la speranza che la stretta mortale sulla popolazione palestinese possa finalmente avvicinarsi alla conclusione. E certamente bisogna cogliere ogni opportunità, salutare con sollievo ogni spiraglio che possa porre fine al genocidio.

Ma una pace duratura non dovrebbe e non può essere costruita sull’abbandono dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Il piano infatti si limita a dichiarare che l’autodeterminazione e la sua sovranità finale saranno una mera “aspirazione”, attraverso un percorso che non potrebbe essere più vago, condizionato o incerto.

Ogni volta che il potere parla di pace, dovremmo fermarci a chiedere: pace per chi, e a quale prezzo? Il Piano di pace Trump 2025 promette “ricostruzione” e “stabilità”, ma il suo linguaggio tradisce un intento opposto: non è la pace dell’ascolto, ma la pace dell’ordine imposto.

Nel documento compaiono parole come deradicalizzazione, prosperità economica, sicurezza, nuova leadership civile, board of peace. Ognuna di queste espressioni – apparentemente neutra – disegna un mondo dove la pace è amministrata dall’alto, da chi detiene già il potere, e dove ai palestinesi spetta solo la parte del soggetto da “rieducare”.

Dietro la parola deradicalizzazione si nasconde la retorica coloniale di sempre: trasformare la resistenza in malattia, la ribellione in deviazione da correggere. È la stessa logica con cui, nei secoli, il patriarcato ha preteso di “normalizzare” le donne, definendo follia ciò che in realtà era ricerca di libertà.

La promessa di prosperità è un’altra forma di dominio. Il piano parla di investimenti e infrastrutture, ma non restituisce sovranità. Sostituisce la libertà con la crescita, la dignità con la gestione economica. È la pace dell’“aiuto” che compra la resa, della ricostruzione che non passa mai per la restituzione del potere di decidere. Una pace paternalista, che offre risorse in cambio di obbedienza.

Nel linguaggio della sicurezza si rivela poi la radice patriarcale del piano: la sicurezza non è pensata per la popolazione civile palestinese, ma per Israele e per gli interessi occidentali. È la sicurezza di chi controlla, non di chi vive. Si disarma chi è già disarmato, si sorveglia chi è già sotto assedio. È una logica maschile e militarizzata, che confonde protezione con controllo e trasforma la paura in strumento politico. La pace, invece, non nasce dalla paura dell’altro, ma dal riconoscimento reciproco della vulnerabilità.

Il Board of Peace, organismo internazionale chiamato a “guidare” la ricostruzione, incarna perfettamente la struttura patriarcale del potere: pochi decisori esterni che amministrano la vita di chi ha già subito la distruzione. È la stessa scena che si ripete da secoli: la pace decisa da chi non ha sofferto la guerra.

Bisogna pensare un’altra grammatica della pace. Non ricostruzione, ma riconoscimento. Non normalizzazione, ma relazione. Non governance, ma autodeterminazione.

Invece di parlare di deradicalizzazione, occorrerebbe parlare di decolonizzazione: restituire al popolo palestinese la parola, la capacità di immaginare e ricreare la propria vita.

Non è quindi il momento di distogliere lo sguardo, ma occorre continuare quel movimento globale contro la guerra e la distruzione di Gaza che in queste settimane ha saputo nominare l’orrore e rispondere con la forza di chi si oppone senza cedere alla violenza, come ha dimostrato l’esperienza della Flotilla, un esempio di come sia possibile agire politicamente senza riprodurre la logica bellica.

La pace, per chi la pensa da una prospettiva femminista, non è un accordo ma un processo vivente: nasce dal basso, dal lavoro lento delle comunità, dal gesto quotidiano di chi continua a creare vita anche tra le rovine. È quella pace che non si concede, ma si costruisce insieme; che non silenzia, ma ascolta. Quella pace che – come ricorda Leymah Gbowee – non significa assenza di conflitto, ma presenza di voce.

Oggi quella voce attraversa il mondo, nei presìdi, nelle piazze, nelle università, nelle strade. È una voce che dice basta alla guerra e al colonialismo e che chiede una pace giusta, non l’ordine dei forti

da Cartavetro

Clara Jourdan cura questo Quaderno di via Dogana che accoglie la bibliografia completa di Luisa Muraro e soprattutto la conversazione del 2003, mai pubblicata, tra la filosofa e l’amica e curatrice, trascritta per la “Biblioteca de Mujeres” della Universidad Complutense di Madrid.

Chi ha seguito il pensiero di Luisa Muraro e si riconosce nel femminismo della differenza sessuale centellina questo libro e ne respira l’essenza piano, ritornando su passaggi complessi e fondamentali della storia propria e di tante altre.

Le domande di Clara Jourdan inducono Luisa a tracciare una storia personale, una biografia che intreccia passione culturale e politica e vicenda famigliare, con un preciso riferimento alla madre soprattutto e ai dieci tra sorelle e fratelli. Il clima del Veneto cattolico della sua infanzia e adolescenza la porta ad allontanarsi prima per un’esperienza di formazione a Lovanio e poi al collegio Marianum dell’Università Cattolica di Milano studentessa alla facoltà di filosofia.

Anni duri quelli della formazione universitaria, allieva del professor Bontadini, tuttavia anche fecondi per la ricerca culturale e per il modo di affrontare gli eventi, come le organizzazioni contro la guerra del Vietnam, il dissenso cattolico e la preparazione al Sessantotto. È il momento in cui conosce Elvio Facchinelli, nella facoltà occupata, e si avvicina a L’erba voglio, «un’aggregazione di donne e di uomini che avevano a che fare con le persone non adulte a vario titolo» e che riflettevano su antiautoritarismo, pedagogia, femminismo, psichiatria e antipsichiatria accanto ai temi dell’antimilitarismo e delle lotte operaie.

Ma il cuore del libro è nel racconto sulle ricerche a cui Luisa Muraro si dedica a partire dagli anni settanta, da quello che chiama “il femminismo sorgivo”, dal suo incontro con Lia Cigarini e dalla traduzione di Speculum di Luce Irigaray. Lì si incammina sul pensiero della differenza e comincia la scelta di trasformare donne anonime e vittime in soggetti parlanti della storia. Esce La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, da Feltrinelli nel 1976, poi Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia e Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, nel 1985 quando si è appena costituita la comunità filosofica Diotima, a Verona, dove Luisa nel frattempo è diventata ricercatrice. La Libreria delle donne, che ha contribuito a fondare in via Dogana 2, a Milano, compie dieci anni ed è un luogo di scambio, di attività varie, di artiste, di teatro, di cinema. È anche il luogo in cui nasce, nel sottoscala, il libro collettivo Non credere di avere dei diritti a cui fa seguito il primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, perché, prendendo spunto da Irigaray, la differenza è pensiero.

Dalle due esperienze nasce L’ordine simbolico della madre, un libro della cui importanza Muraro si accorge grazie alle lettrici e al valore che esse attribuiscono alla sua scrittura.

Erano intanto cominciati, dopo Guglielma e Maifreda, l’interesse per le mistiche e la relazione con Romana Guarnieri che aveva portato alla luce l’opera di Margherita Porete, una beghina medievale, morta sul rogo come eretica. «Scopro questa cosa che si chiama convenzionalmente mistica femminile, questo nome divino della libertà femminile e questo nome femminile di Dio che è la libertà femminile». Il Dio delle donne, che esce per Mondadori nel 2003, insiste sulla differenza femminile e sullo spirito di libertà che le è proprio: saper rinunciare alle sicurezze delle dottrine perché «Dio possa capitare a questo mondo».

da Il Fatto Quotidiano

Il 7 ottobre segna due tragedie: l’omicidio della giornalista russa nel 2006 e il pogrom di Hamas nel 2023, entrambi simboli di repressione

Quello del 7 ottobre è un doppio drammatico ed emblematico anniversario: diciannove anni fa, l’assassinio della giornalista russaAnna Politkovskaja nell’androne di casa sua, a Mosca. Due anni fa, il pogrom di Hamas che ha provocato la morte di 1200 civili e militari israeliani e il rapimento di oltre 250 ostaggi, scatenando la spietata reazione di Israele, la devastazione di Gaza, la morte di 70mila palestinesi di cui oltre 50mila civili, molti, troppi dei quali bambini, oltre ad aver costretto alla fuga gli abitanti della Striscia, afflitti da malattie, carestia, fame.

Azioni che hanno fatto accusare (a cominciare dall’Onu) il premier israeliano Netanyahu di genocidio. Due fili della Storia apparentemente slegati e disconnessi ma che invece sono purtroppo orditi dallo stesso disprezzo nei confronti dei diritti umani, della libertà, dei principii basilari di una società civile e democratica.

Anna Politkovskaja era una giornalista scomoda per il potere, lavorava per il bisettimanale Novaja gazeta dove pubblicava inchieste documentatissime che inchiodavano apparati dello Stato, del Cremlino, delle forze armate. Corruzione, intrallazzi, atrocità in Cecenia, e soprattutto l’onnipresente ruolo dei servizi segreti, ossia gli uomini dell’ombra, le eminenze grigie che stavano di nuovo forgiando la Federazione Russa scaturita dalle macerie dell’Unione Sovietica, orchestrate dall’uomo forte del Cremlino, ossia Vladimir Putin.

È su di lui che spesso si concentra il lavoro investigativo di Anna, e sulla questione cecena, gli intrighi per appropriarsi delle risorse energetiche, l’ascesa di clan legati al nuovo presidente, gli oligarchi che avevano edificato le loro immense fortune all’ombra del sistema Eltsin (il primo presidente della Federazione russa).

I capi dei grandi conglomerati economici, a cominciare dall’onnipotente Gazprom, avevano deciso di continuare ad operare in sintonia col Cremlino: certo, non erano un gruppo monolitico ma, nella sostanza, salvo alcune eccezioni (pagate con arresti, detenzioni in Siberia, fughe all’estero o omicidi…), si erano schierati con chi stava diventando intoccabile, proprio perché la guerra in Cecenia aveva rafforzato la sua alleanza con l’esercito, e perché lui stesso era un ex del Kgb e poi divenuto capo dell’Fsb, l’intelligence sua erede.

Politkovskaja raccontò l’ascesa, spettacolare per tempismo e metodi, di Putin, per lei il Kgb era ritornato al potere, al Cremlino. Descrisse, grazie a fonti molto ben informate, il periodo più delicato della sua scalata al potere, di come si sbarazzò di giudici troppo zelanti che stavano mettendo in croce Eltsin, di come il paese venisse spartito, delle sofisticate manipolazioni per garantirsi il controllo dell’apparato statale, quello che Anna battezzò “il metodo Putin”. Il quale mal sopportava quella ficcanaso, e più volte lo disse e lo fece sapere alla diretta interessata.

Ma lei non si arrese. E firmò, così, la propria condanna a morte. Che venne eseguita, guarda la coincidenza, nel giorno del compleanno di Putin.

Diciassette anni dopo inizia la tragedia di Gaza, col pogrom di Hamas. In questi giorni, le clamorose mobilitazioni per i palestinesi hanno scosso l’apatia politica italiana, cloroformizzata dal governo Meloni. Se Politkovskaja è stata fatta fuori perché le sue rivelazioni, i suoi articoli, le sue accuse, i suoi bellissimi libri d’inchiesta erano una spina intollerabile nel fianco del potere (il processo agli assassini, dei pesci piccoli, non ha chiarito alcunché sui mandanti), dimostrandone il carattere autoritario e l’intolleranza alla libertà d’opinione (tantissimi altri giornalisti sono stati uccisi, tutti i media non allineati e i leader dell’opposizione costretti a chiudere, a emigrare o a finire sotto terra, pensate a Aleksej Naval’nyi, alle testate in esilio, alla censura dominante in Russia), altrettanto è successo in Palestina.

Pure qui, dall’ottobre del 2023 sono stati ammazzati oltre duecento giornalisti, e si è impedito alla stampa straniera di entrare nella Striscia, impedendo così di documentare ciò che succedeva. Secondo le organizzazioni che si occupano di libertà d’espressione – uno dei diritti fondamentali dell’uomo – i giornalisti locali (“gli occhi del mondo su questa atroce guerra”) sono diventati obiettivi militari. Di qui, le accuse ad Israele di non volere testimoni. I giornalisti dunque sono divenuti pure loro vittime di questa tragedia umanitaria: pagano con la vita quello che sentono come un dovere, informare, descrivere, ascoltare, vedere. E documentare.

Non poterlo fare, perché il governo Netanyahu lo ha vietato, è una situazione senza precedenti. È il lato oscuro delle autocrazie. Come ha detto una volta Julian Assange, «se le guerre possono essere avviate dalle bugie, esse possono essere fermate dalla verità». La verità, parola ormai abusata e disossata, è sempre più un vessillo lacerato. La si invoca come ci si aggrappa e si evoca la parola democrazia, quale territorio di progresso e libertà. Come ha scritto Marco Travaglio nella prefazione al libro dell’ex senatore dei Cinquestelle Gianluca Ferrara Nel nome della democrazia (GFE editore, 2025), si sta rivelando una parola vuota, in nome della quale «si sono perpetrati crimini politici e militari indicibili».

L’indescrivibile orrore che ci circonda – Gaza ci è sempre più vicina, così come lo è stata l’uccisione di Anna Politkovskaja – ci lacera dentro e ci fa chiedere: come si può giustificare tutto questo? No, non lo si può giustificare.

Da DeA – Donne e Altri

La tentazione di ridurre la violenza nelle manifestazioni a un gesto da “cretini” è un grave errore.

La violenza è il grande rimosso di ogni discorso sulla natura della politica e del potere. È stato parte di questo rimosso isolare la violenza maschile sulle donne da una storia maschile che ci riguarda tutti. Ed è una rimozione non vedere cosa accade nelle nostre manifestazioni.

È parte di una antica tradizione patriarcale quella di trasformare risentimento e rabbia nel gioco della guerra, una violenza mimata o agita, in piccole dosi, nascondendo il volto dietro un fazzoletto o nell’anonimato di un grande corteo, sempre giustificata in nome della violenza altrui, il narcisismo di imbrattare una vetrina con qualche insulto, ma più spesso una sfida di virilità.

La violenza è una visione dell’umano. Nel mondo moderno è radicata nell’espressione homo homini lupus da cui sono nate le forme della politica che conosciamo, lo stato assoluto, il contratto sociale, l’individualismo proprietario, la competizione tra maschi come modello di produzione di ricchezza (il predominio del mercato) e quella tra stati (politiche di potenza), e ogni uso politico della violenza a partire da quella sulle donne, non un fatto privato ma ciò che ordina il mondo. Una violenza ordinaria.

Anche nelle manifestazioni va in scena la vita come perenne stato di guerra.

È la stessa cultura che porta i soldati israeliani a usare violenza fisica e morale sui componenti di Flotilla che hanno prigionieri e negli Stati Uniti, con Trump, a fare della guerra la misura stessa dell’agire politico, nelle stesse relazioni tra cittadini. È la stessa cultura che giustifica la distruzione altrui.

Pensare che la violenza non vada utilizzata perché “si fa il gioco del nemico” è una gigantesca sconfitta politica, una rimozione che condanna all’eterno ritorno della violenza.

Nel 1920 Lenin aveva definito l’estremismo (il “sinistrismo”) come malattia infantile del comunismo. Certo non si riferiva agli scontri in strada, stava piuttosto riportando la questione al rispetto necessario in un partito rivoluzionario alla “disciplina di ferro”, all’obbedienza. Cioè a un’altra forma di violenza.

La tradizione politica che abbiano ereditato dal novecento, volenti o nolenti, ha sempre fatto fatica a misurarsi con la violenza. In fondo «la rivoluzione non è un pranzo di gala» e il Palazzo d’Inverno lo si assalta “scendendo in strada”.

Dopo le distruzioni portate da due guerre mondiali, l’attacco alla libertà dei fascismi (la violenza come estetica più profonda dell’umano) e la minaccia della distruzione atomica, la pace è stata coltivata come un equilibrio necessario. Ma sulla violenza c’è stata poca chiarezza, perché affrontarla significava mettere in discussione un ordine molto più profondo.

Il femminismo radicale degli anni settanta, si è invece misurato con la violenza a partire dalle proprie relazioni. Ha fatto cadere ogni alibi ai “compagni maschi” e al loro uso della violenza, nel pubblico come nel privato, in strada come a letto.

La critica femminista alla violenza a maschile non è stata né un richiamo al pacifismo né alla nonviolenza. Il pacifismo è una scelta etica, la nonviolenza una pratica di conflitto politico che delegittima l’avversario mettendolo di fronte alla sua stessa violenza.

Quelle donne si sono riprese la vita reinventando la differenza sessuale, la scelta di essere donne, in relazione tra loro ma ciascuna con la propria singolare libertà e soggettività.

«Comunichiamo solo con donne» scrisse Carla Lonzi. Era anche una apertura di conflitto con gli uomini, un invito a farcela da soli, senza il sostegno femminile al patriarcato, il cui credito le donne avevano lasciato cadere dentro di sé.

Lasciavano così una eredità politica anche agli uomini. Che possiamo tradurre in una serie di domande che noi maschi possiamo rivolgere a noi stessi.

«Chi siete, chi vogliamo essere?»

Perché usiamo i nostri corpi per fare violenza? Perché ci identifichiamo così facilmente in un corpo solo, lo stato, la rivoluzione, il partito, la squadra, il cordone nel corteo? Perché abbiamo accettato che il nostro corpo fosse cancellato, rimosso, usato nei campi di battaglia, ma anche nel modo di pensare le città e il lavoro? Perché abbiamo trasformato il nostro desiderio in una giustificazione per accedere ai corpi delle donne con la violenza, disconoscendo l’autonomia del loro desiderio?

Che immagine abbiamo di noi stessi, del nostro corpo, della nostra sessualità? Perché abbiamo usato il nostro corpo che non genera in uno strumento di conquista del mondo senza limiti e misura? Perché silenziamo le emozioni? Perché rendiamo disponibile il corpo al peggio, lo rappresentiamo come non desiderabile, non godibile, e lo rivestiamo con divise, appartenenze, identità? Perché facciamo dei saperi delle protesi di noi stessi il cui valore è direttamente proporzionale al prescindere da sé, legittimato da astrazione, universalismo, “oggettività”, valori assoluti?

La libertà femminile ha cambiato anche gli uomini, ha cambiato me. Ma queste domande sono rimaste fuori dalle priorità di quel che rimane delle culture politiche tradizionali, a volte anche per le donne per cui il femminismo è emancipazione. Fare politica a partire da esse è stato difficile.

Il femminismo ha messo al centro della politica la sessualità. E questo ha cambiato il modo di leggere la violenza. Ne ha fatto – della violenza – un problema politico di prima grandezza, cogliendo il nesso tra la violenza che circola normalmente nelle nostre relazioni, primariamente tra uomini e donne, e la dismisura maschile che arriva a fare la guerra ai civili. La scena della guerra è tutta patriarcale in ogni sua forma.

«Sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna», aveva scritto Toni Negri nel 1977, in Il dominio e il sabotaggio, non per rivendicare la lotta armata, a cui era contrario, certo per épater les bourgeois e il riformismo. La violenza come autovalorizzazione operaia e aggiungeva «senza potere nessuna autovalorizzazione operaia». La violenza come “filo razionale”. Nello stesso anno Lea Melandri, ne L’infamia originaria indagava il nesso tra il misconoscimento maschile della sessualità femminile, l’identificazione di sé attraverso un atto di espropriazione, e la sua storica passione per il potere. Un regime di “sopravvivenza” da scardinare con la vita, «il cibo e l’amore, la sessualità e il fare, il gioco e la necessità non possono che rinascere insieme».

Poi mesi dopo il dibattito sulla possibile liberazione di Aldo Moro mostrò quanto fosse per tutti misurarsi con la violenza.

Molti anni dopo, invece, Luisa Muraro rivendicava la figura dell’autorità (femminile) contro l’autoritarismo. Sottraeva l’autorità all’essere usata come strumento per l’ordine sociale per ridarle la possibilità di essere una figura dello scambio nelle relazioni, che dà forza prima di tutto a chi non ha potere. Ai miei occhi è anche un modo per scardinare la dimensione mortifera dello sguardo maschile su di sé, che si cela anche dietro l’eroismo. «Si può combattere senza odiare, disfare senza distruggere, lottare senza farsi distruggere», scrive riflettendo sulla violenza.

Sono le domande che si sono fatte in tante e in tanti nell’esperienza viva delle “Resistenze” (magari le guerre di liberazione un po’ meno), dovendo fare in ogni istante i conti su quanto l’uso della violenza difensiva cancelli una parte di ciò per cui combatte.

Non parlo di quelle tradizioni politiche che hanno esplicitamente nel loro bagaglio la rivendicazione della violenza come strumento di potere che conserva e naturalizza la disparità sociale. Non ce n’è bisogno.

Mi interessa di più il fatto che la violenza cancelli anche il conflitto, quindi ogni trasformazione. Non è anche per questo che le rivoluzioni guidate dai maschi, con i migliori propositi di giustizia e libertà, falliscono?

Oggi chi sa fare i conti con la violenza? Chi sa dire qualcosa che non sia solo una generica e a volte poco veritiera condanna morale? Il limite più grande delle posizioni etiche è quello di delegittimare la violenza ponendosi ai confini della civiltà, come quando si dice che il violentatore è un “mostro”, un “degenerato”, un “malato”, un “ignorante”, un barbaro straniero. La violenza viene così fatta coincidere con l’alterità a ciò che definiamo civile e umano. Ma è proprio questo che le consente di stare al fondamento delle civiltà e di riprodursi tra noi, in ciascuna delle nostre vite.

Più fingiamo di poterla allontanare da noi stessi e più non vediamo di quanto ne siamo ancora fatti. Scompare la possibilità di lavorarla politicamente, cioè di fare un lavoro personale e politico. Sono sempre gli altri ad essere violenti.

È così che le bombe possono radere al suolo l’umano e in tanti possono voltarsi dall’altra parte.

da lucysullacultura

«Quando un uomo si dichiara femminista, tirati su le mutande» dice Natalia Aspesi. Questo è il primo impulso di qualunque donna avvertita davanti a un uomo che si dichiara femminista. Se questa è anche la vostra paura di fronte al nuovo libro di Francesco Pacifico, La voce del padrone (add editore), potete rilassarvi. Pacifico, a differenza dei molti autori maschi che ormai affollano mestamente le sezioni “femministe” delle librerie, femminista non si dichiara mai. Anzi, fin dal principio premette ciò che tutte sappiamo: un uomo non può essere femminista, perché il femminismo realizzato presuppone che l’uomo abbia meno privilegi materiali di un tempo – ed è ovvio che qui non ci siamo ancora arrivati. Pacifico suddivide dunque gli uomini in “conservatori” e “progressisti-capibara”. I primi lo sappiamo cosa professano, mentre i secondi sono più subdoli. Si dichiarano entusiasti del femminismo, come se le loro vite non fossero intaccate dal movimento.

Pacifico si avvicina al femminismo grazie a sua moglie. Lavorano nello stesso ambito, e in appena una decina d’anni lui sostiene che lei sia diventata più ambita, più “amata” di lui. Qualcosa è successo negli ultimi dieci anni, complice anche il MeToo, qualcosa che in realtà si stava preparando da molto più tempo, con le donne che sono più brave negli studi, più determinate, più indipendenti economicamente e quindi meno disposte a sopportare gli uomini. Parallelamente a questa maggiore libertà e assertività femminile, monta la frustrazione maschile per gli antichi privilegi sbeccati; sebbene questo scenario riguardi tutti, per molto tempo si è creduto che questa frustrazione appartenesse solo a uomini abietti e ai margini. Incel, estremisti, lubrici vecchi che postano foto delle loro mogli online quando non le offrono direttamente al… primo che passa, ovvero a un uomo qualunque. E infatti, dice Pacifico – così come Francesco Piccolo, un altro scrittore che si è spesso occupato di questi temi – gli stessi sentimenti che abitano questi uomini abitano anche tutti gli altri. Paura di perdere il posto, paura di rimanere soli, paura dell’abbandono, paura di essere visti per ciò che si è e non per ciò che si vuole far credere di essere. Questo è un libro che dovrebbero leggere gli uomini, scrive Pacifico, ma temo che lo leggeranno soprattutto le donne, dico io, e che lo troveranno più o meno ingenuo, più o meno tenero, più o meno sincero, più o meno intelligente. Io ho trovato che fosse più o meno tutte queste cose, ben scritto come tutto ciò che scrive Pacifico. Il tentativo riuscito di un uomo di fare autocoscienza – anche se non può dirlo – dopo aver letto e frequentato donne liberate, e che arriva a cinquant’anni alla conclusione a cui tutte noi siamo arrivate a dodici: più se ne parla, meglio si sta. Così ne abbiamo parlato.

[…]

Nel libro tu dici di avere paura. Paura che non ci sia più posto per te nel momento in cui la concorrenza raddoppia a causa delle donne. Ho chiesto ai miei amici se per loro era lo stesso. Mi hanno risposto di sì, con qualche esitazione. Mi ha stupito perché spesso si dice che gli uomini hanno paura delle donne, ma a dirlo sono le donne, cosa che mi è sempre sembrata arrogante. D’altro canto, quando ho posto la stessa domanda alle donne, cioè se avessero paura della concorrenza maschile o femminile sul lavoro, mi è stato risposto di no. Anzi, molte di loro mi hanno detto che non ci hanno mai pensato troppo perché sono in generale contente di lavorare e stupite dai buoni risultati e tendono a non vedersi sostituibili come individui da altri o altre.

Secondo me l’elemento che spiega la differenza di visioni è la gerarchia. Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia. La gerarchia è un elemento chiave nella nostra percezione di lavoro e competizione. Per questo si è sostituibili, perché si occupa una casella in una piramide.

Poi c’è il tema della paura degli uomini davanti a questi argomenti. Ieri ho fatto un incontro al festival di Tlon a Piacenza, Conversazioni sul futuro. A un certo punto il compagno di una femminista mi ha chiesto: «Secondo te c’è un modo per far capire alle donne che alcuni uomini vogliono impegnarsi e non sono come gli altri?». C’è stata una pausa molto densa e poi ho risposto «No». Lui aveva una faccia molto aperta, molto buona. Abbiamo sentito le risate delle donne. Non si possono convincere le donne della propria bontà. Dopo questi anni passati a discutere con le femministe mi pare che la questione sia l’attitudine, la disposizione. Forse la postura […]. Ma gli uomini non vogliono mai essere colti in castagna, pensano di doversi mostrare zelanti o dover spiegare fino allo sfinimento di essere “bravi”.

Tu scrivi che “l’autocoscienza di genere” esiste nel momento in cui si fa parte di una categoria marginalizzata. Sto semplificando naturalmente, ma diciamo che nel potere che gli uomini hanno detenuto così a lungo risiederebbe la ragione dell’assenza di autocoscienza. Se niente ti mette in discussione, non ti frammenti mai e non puoi riflettere su te stesso. E questo avviene perfino quando la tua vita non ti soddisfa poi così tanto, perché come scrivi tu neanche all’uomo andava di tornare a casa, avere una moglie che gli rompeva le palle, i figli che magari non voleva avere, essere l’unico a lavorare, per non parlare dell’andare a morire in guerra.

Qui hai toccato il punto fondamentale. Non potendo essere femminista, perché sono uomo, l’ho scritto dal nostro punto di vista, cercando di capire cosa la struttura patriarcale ci ha portato via. E io credo che il genere maschile sia oppresso dalla gerarchia. Basta pensare a Cristiano Ronaldo, che malgrado sia un giocatore stratosferico sembra sempre che debba convincerti di esserlo, perché ha avuto la sfortuna di essere della stessa generazione di Messi che ha vinto più palloni d’oro.

Carla Lonzi dice una cosa bellissima, ovvero che sia la religione sia l’arte come ambiti dell’espressione umana sono stati ridotti dalla cultura patriarcale (traduco a parole mie) a una serie di gerarchie, tassonomie, elenchi di cose da fare, classifiche. La religione e l’arte sono state due componenti fondamentali della mia biografia, e ha ragione Lonzi: lo spirito quando cerca l’arte e la religione scivola spesso in secondo piano perché queste due frequenze della vita sono usate a fini gerarchici. Chi è più buono, chi è più bravo.

Quindi il punto è che secondo me gli uomini sono oppressi da se stessi e anche dalle bugie in cui credono. Lonzi dice che la donna è oppressa dall’aver creduto al mito dell’uomo.

Sì, mia madre dice che gli uomini sono tutti Maghi di Oz, ombre enormi e potentissime proiettate da uomini minuscoli e privi di incanto dietro una tenda verde.

Sì. Ma a quel mito ci hanno creduto pure gli uomini! Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista. C’è un’immagine che io cito sempre: una volta ho letto che nel Medioevo le vedove a volte costruivano delle case attaccate ai conventi per vivere con qualcuno, perché ovviamente a quel punto non valevano più niente in quanto vedove, e volevano appoggiarsi ai monaci. Io immagino la stessa cosa, case di uomini orfani della gerarchia che si appoggiano ai monasteri di femministe.

(Non so come suonerà questa cosa una volta trascritta).

Senti, ma questa ferita gerarchica maschile secondo te è biologica o culturale?

La cosa che mi ha più scioccato leggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir è che lei passa un sacco di tempo a spiegare la biologia della femmina del mammifero umano dicendo mamma mia che mammifero sfortunato ma poi rovescia tutto dicendo: «noi siamo esistenzialiste, noi crediamo che l’esistenza sia il compimento della natura umana e quindi trascendiamo la biologia». Io ispirandomi a lei dico la stessa cosa sul maschio: mettiamo pure che certe cose vengano dalla natura; che il maschio alfa esista nel branco – comunque lo scopo della nostra vita è trascendere la biologia.

La stessa cosa che Simone de Beauvoir ha scoperto sulla biologia, io la penso di tutto ciò che di violento, di gerarchico possediamo in quanto uomini e che magari è insito nella nostra natura: si può trascendere.

Mio nonno diceva: «Quando sono nato io, avevo quattro serve: mia figlia, mia madre, mia moglie e la serva vera e propria, perché al tempo se avevi un po’ di soldi ne avevi una fissa. Ora che sono vecchio non ne ho manco una. Ho divorziato, mia figlia non c’è più, mia madre è morta e non ho più soldi per avere una serva fissa. La qualità della mia vita è peggiorata notevolmente».

Bene, hai praticamente fatto un ritratto della crisi del maschio. Questo è un punto fondamentale anche per me perché la crisi del maschio ha due facce e ovviamente questa è la faccia ridicola – anche se è bene tenere presente che quando un popolo decade diventa violento. E poi l’altra faccia è invece quella che riguarda la gerarchia: l’uomo è oppresso dalla gerarchia che ha creato e quindi si deve sfogare su questo essere – la donna – che lui stesso ha dichiarato inferiore e che gli serve per tollerare la propria oppressione.

Ho dovuto molto sforzarmi per scrivere degnamente di queste cose perché suoniamo molto ridicoli – il vero problema è quello che ha detto tuo nonno. Io nel libro cerco di dare una dignità narrativa al fatto che se vado al festival femminista organizzato da mia moglie penso mia moglie mi sta levando il lavoro. Mia moglie è l’esercito di riserva… Questo è il livello. La teoria della sostituzione etnica siete voi donne. Capito? E questi sono pensieri che dobbiamo reclamare, dobbiamo dire cosa sentiamo, anche se sono cose brutte, meschine, perché quella pancia spaventata non la usino solo i reazionari. Tutto l’umorismo di destra recente (Pepe the Frog…) è brutale perché dice che la realtà è più brutale di quanto non si dica a sinistra. Allora voglio essere io a dire che la realtà è brutale. La realtà è che se io sono stato abituato a vincere sempre su una donna e mi viene tolta questa vittoria sarò uno stronzo che sta male. E questo però ci porta a un fatto fondamentale: dobbiamo fare i conti con un soggetto politico che non ha più a disposizione una cosa che pensava che gli fosse dovuta.

Nel libro c’è un capitolo sull’adolescenza. Tu incredibilmente hai tenuto dei diari, cosa che ti invidio molto. Pagherei oro per aver tenuto dei diari in adolescenza. Dai tuoi emerge il ritratto di un ragazzo che sta vivendo secondo dei falsi desideri che gli sono stati forniti dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, da tutto quello che ha intorno. Così non riesce neanche a individuare qual è il suo desiderio più autentico, soprattutto nei confronti delle donne. Questa cosa l’ho trovata interessante. Tu dici: «Questi sentimenti adolescenziali sono molto simili ai discorsi degli Incel». E in effetti queste ragazze nel tuo diario sono sempre una proiezione della tua onnipotenza o della tua frustrazione, no? Però mi chiedo se questo vissuto non sia un prodotto dell’adolescenza più che del genere. Cioè che tanti adolescenti, maschi e femmine, abbiano questo tipo di impulsi, di pensieri. Se potessi leggere i miei pensieri dell’adolescenza credo troverei delle cose analoghe alle tue.

A volte infatti mi chiedo se non esistano due tipi di evoluzione per quanto riguarda le dinamiche di genere. Una filogenetica, cioè della specie umana, che ora si trova a fare i conti, in Occidente, con questo grande cambiamento. L’altra invece è ontogenetica, cioè si dispiega durante la vita dell’individuo. E mi pare che questa seconda faccia sì che fino ai venti, venticinque anni le dinamiche tra generi siano più “primitive”, e quindi patriarcali. Poi all’improvviso cambia proprio il panorama valoriale, le femmine scoprono il femminismo, si scoprono brave a studiare e via dicendo. Mi chiedo se la prima dinamica, quella più classica rispetto ai ruoli di genere che vediamo in adolescenza sia influenzabile da una diversa educazione o cultura.

Nei libri di psicologia ho letto che una crescita psicologica sana consiste nel vivere anche un periodo in cui sei sottomesso all’ideologia degli adulti che hai intorno. Poi te ne distanzi. Essere completamente sganciati dall’influsso degli adulti è praticamente un disturbo psichico. Io però ho visto figli con disturbi simili ai miei trovarsi davanti genitori che si sono messi a studiare come capirli meglio, e quei disturbi sono passati. L’ho visto sia in bambini figli di donne molto interessate dall’educazione, sia in bambini figli di femministe, che quindi applicano una loro cornice educativa.

E ho visto nei maschi una varietà di espressione emotiva – in quelle famiglie – che mi fa pensare che il maschio becero tredicenne sia il prodotto del mancato ascolto da parte dei genitori della sua parte emotiva. Nel concreto, a un certo punto una mia cara amica ha iniziato a incoraggiare e ascoltare le emozioni del figlio, perché lo aveva visto un po’ sfasato. Il figlio è improvvisamente diventato una creatura molto più articolata, che non rimaneva intrappolato nelle solite due reazioni in croce.

Io vedo figli di femministe molto forastici, ma al tempo stesso con aspetti che noi da piccoli avremmo definito “da femmina”. Poi certo, magari sei parte di una famiglia tradizionale, borghese o meno, frequenti una scuola pubblica italiana, ci sta che tu sia incasinato e contraddittorio, però quella parte dell’espressione secondo me è fondamentale e infatti io penso di non aver avuto l’infanzia giusta per me. Ero troppo delicato per diventare un maschio etero che aspettava il primo bacio e imparava a giocare a pallone.

Se avessi espresso cos’ero da piccolo mi avrebbero massacrato. Agli scout dovevo sempre dominare le situazioni perché quando non lo facevo venivo subito trattato come un freak.

Mi sembra sia stata Ferrante a far notare che l’Arturo di Elsa Morante è in realtà una femmina, perché fino ai dodici anni gli uomini non sono ancora uomini. È una cosa che io mi sto chiedendo molto davanti a mio figlio maschio appena nato, perché penso che adesso lui è femmina, ma prima o poi diventerà maschio.

Ti dico solo che agli scout mi resi conto che dovevo cambiare il modo in cui mi sedevo, cioè con le gambe ripiegate da una parte, un po’ a sirena. Ai maschi viene detto di nascondere le proprie parti da sirena, e di imparare a dominare.

Mi sorprende sempre quanto gli uomini accettino di essere soli… Non so quanto tu segua TikTok, però mi fanno molto ridere i video delle fidanzate che danno al fidanzato le liste di cose da chiedere agli amici. Tipo se un amico di lui si lascia, le fidanzate gli danno una lista per sapere perché, chi ha tradito chi, chi ha detto cosa. A prima vista sembra solo un modo per fare pettegolezzo – un termine malvisto, associato al mondo femminile ma che, se ben fatto, è letteratura, è psicologia, è introspezione – ma che in realtà è un modo per conoscere meglio l’altro. Tutt’ora io ho amici maschi che non parlano tra di loro delle cose che gli capitano. E questo non può che generare malessere. I sentimenti violenti, brutali, negativi si esorcizzano anche rivelandoli a una persona fidata.

L’altro giorno a Milano Francesca Coin a una presentazione mi ha detto: «Sono contenta che esista questo libro perché almeno ho saputo un po’ cosa pensano gli uomini». C’è un mistero dato dal fatto che neanche tra di noi (non io personalmente) ci chiediamo le cose importanti.

Io non frequento gruppi di soli uomini. L’ultimo è stato il calciotto, è finita molto male. C’è questo movimento molto più vario che sento nei gruppi di donne, che si costruisce anche sul parlare, sul gossip, sul raccontarsi i vari fatti, gli amanti, i litigi. Ovviamente ci sono uomini che mi piacciono molto. Certi baristi del quartiere, certi musicisti. Però se dovessi descrivere in maniera puntuale com’è sedersi a chiacchierare con un uomo… Abbiamo gli attacchi panico, ci vogliamo suicidare, andiamo dallo psichiatra, ma non possiamo sederci e dire «Ciao, mi sento così e cosà». Il mio migliore amico, che invece è un uomo meraviglioso, una volta, mentre eravamo seduti a un tavolino mi fa: «Guarda quelle tre». Erano delle donne sulla trentina. Una stava raccontando un fatto alle altre due, e lui mi disse: «Guarda l’attenzione con cui loro due stanno ascoltando quella che sta parlando, guarda come sono protese in avanti, hanno questi occhi tutti trasparenti, e stanno reagendo alle cose che sta dicendo l’altra. Guarda che bello».

Che poi sono le cose che ho imparato da Francesca, mia moglie. Come si sta ad ascoltare qualcuno.

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L’articolo originale in versione integrale può essere letto qui: https://lucysullacultura.com/e-la-gerarchia-che-frega-gli-uomini-non-il-femminismo-intervista-a-francesco-pacifico/

Testimonianza dalla Striscia: «Guardando i video ho capito che ciò che ci succede a Gaza non passa inosservato»

La tristezza aleggiava sul campo di Nuseirat dopo che il nostro edificio era stato colpito per la terza volta consecutiva. Ricordo il momento dell’evacuazione, a mezzanotte, e come abbiamo trascorso tutto quel tempo per strada. Il mio cuore era pesante dal dolore.

Pochi giorni dopo l’evacuazione, mentre cercavo di elaborare le nostre perdite interminabili, mi è arrivato sul telefono un video dall’Italia. La scena mi sembrava quasi irreale: strade gremite di persone, striscioni che chiedevano la fine della guerra e bandiere palestinesi che sventolavano ovunque. Le voci gridavano slogan che non riuscivo a comprendere del tutto, ma ne percepivo l’emozione. In quel momento ho capito che ciò che ci sta accadendo a Gaza non passa inosservato, e che ci sono persone che alzano la voce per noi da luoghi lontani, che non abbiamo mai visitato.
Le dimensioni delle manifestazioni in Italia, nei video che ci arrivavano, erano sorprendenti: centinaia di città piene di manifestanti che impugnavano cartelli con scritto “Stop alla guerra” e “Palestina libera”. Perfino i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale di 24 ore in solidarietà con noi. Quelle immagini non erano soltanto scene su uno schermo: erano un messaggio chiaro che non siamo soli, che il mondo ci guarda e ci sostiene, nonostante la distanza che ci separa e le diverse circostanze.

Il sostegno italiano non si è limitato alle parole; ci sono state iniziative concrete che ci hanno dato speranza. Tra queste, la Sumud Flotilla, salpata verso Gaza nonostante i tentativi di fermarla. La loro incrollabile decisione di proseguire ci ha ricordato la nostra stessa resistenza, e come un singolo gesto di determinazione possa fare una significativa differenza. Queste iniziative hanno reso la solidarietà tangibile, dimostrando che il sostegno altrui non è passeggero, ma un’azione reale che lascia un segno nelle nostre vite, in mezzo a tante difficoltà.

Quando le persone a Gaza hanno visto quelle immagini e quei video, hanno percepito che qualcuno stava al loro fianco. Le conversazioni tra vicini e amici erano piene di racconti di solidarietà, e si percepiva una strana sensazione di speranza, nonostante tutto il dolore e la perdita. Non aleggiava più solo tristezza; cominciava a farsi strada la sensazione che il mondo non ci avesse dimenticati, che le nostre voci arrivassero lontano, e che non fossimo soli di fronte alla guerra e alla distruzione. Questo impatto psicologico è stato molto importante, perché ha dato alle persone la forza di andare avanti, anche solo per un momento, di fronte a una realtà così dura.

Alla fine, è evidente che anche un piccolo gesto può fare una grande differenza. La solidarietà che ci è giunta dall’Italia non è stata solo fatta di parole, ma di messaggi e azioni concrete che ci hanno ridato un senso di speranza. Siamo profondamente grati al popolo italiano per essere al nostro fianco e per il suo sostegno costante in questi tempi difficili. Gaza ha bisogno che il mondo continui a ricordare la sua gente e a offrire il proprio aiuto, con le parole o con i fatti. Nonostante tutte le difficoltà e la distruzione, il nostro legame con il resto del mondo resta una fonte di motivazione per resistere e perseverare – e speriamo che tutti si rendano conto che le nostre voci e le nostre storie contano, e meritano di essere ascoltate.

da L’Altravoce il Quotidiano

Israele può fermare, sequestrare e arrestare, come ha fatto, in spregio ad ogni sentimento di umanità prima che del diritto internazionale, le donne e gli uomini della flotta della Global Sumud Flotilla, ma non può arrestare e fermare l’indignazione, lo sdegno, il senso di giustizia e solidarietà verso il popolo palestinese. Lasciare morire di fame bambine/i, usare la fame come arma di guerra contro un popolo inerme, impedire di portare loro viveri e medicinali, è di una crudeltà e una barbarie che grida giustizia. Un grido che in questi giorni è risuonato forte e potente nelle piazze e nelle città di tutto il mondo; un risveglio delle coscienze, grazie alla missione umanitaria della Flotilla, di fronte all’ignavia dei governi e degli stati verso il genocidio di un popolo. Manifestazioni pacifiche con migliaia e migliaia di persone, di ragazze/i, a gridare “Palestina libera” e sventolare bandiere palestinesi. Quelle piazze sono palestre di politica per le nuove generazioni di tutto il mondo, come lo sono state per la mia quelle per la guerra in Vietnam. Anche noi, con Arafat, gridavamo “Palestina Libera” e sventolavamo la bandiera palestinese. Questo per dire che lo sterminio dei palestinesi non è iniziato dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre. Anche allora, come oggi, ci accusavano di antisemitismo, ma oggi ormai questa accusa non funziona più di fronte all’uccisione di 20.000 bambine/i palestinesi, di fronte a migliaia di bambine/i feriti, mutilati, orfani, affamati, ammazzati mentre in fila cercano un po’ di pane e di acqua per sopravvivere. Quanta crudeltà! Impedire alla Flotilla di portare il suo carico di viveri e medicinali ai sopravvissuti al genocidio, ancora in corso, è un crimine contro l’umanità. Che fine hanno fatto quei viveri e quei medicinali? Arriveranno mai ai palestinesi? Impedire di aprire una breccia nel blocco navale che Israele ha imposto sin dal 2009 in un mare che appartiene ai palestinesi e non agli israeliani, è un crimine contro l’umanità. Impedire di aprire un corridoio umanitario via mare per portare aiuti ad esseri umani stremati, è un crimine contro l’umanità. Di questi crimini e di genocidio Israele, l’Europa, gli stati e i governi suoi complici, come quello italiano, dovranno pur rispondere in qualche tribunale per essere giudicati e condannati. La storia e l’umanità li ha già condannati. Adesso, per ripulirsi la coscienza, accettano acriticamente il cosiddetto “piano di pace” di Trump e Netanyahu. Un piano su cui si sono accordati due uomini, due suprematisti, due vecchi del secolo scorso, residui di un mondo patriarcale violento e cultori della forza, che sia dei soldi o delle armi. È a questa visione del mondo che risponde quel piano. Una visione dentro a quella logica coloniale che la scrittrice palestinese in esilio Nada Elia nel suo libro La Palestina è una questione femminista chiama “colonialismo d’insediamento”. Il colonialismo d’insediamento è «furto di terre, spossessamento, sfollamento, supremazia ebraica», sul cui progetto è nato il sionismo e lo Stato d’Israele nel 1948. Con il “piano” di Trump e Netanyahu e il coinvolgimento della Gran Bretagna attraverso Tony Blair, l’immobiliarista che dovrà sovrintendere alla ricostruzione di Gaza, ai palestinesi sarà imposta la supremazia americana, israeliana e britannica. L’esercito israeliano continuerà ad occupare Gaza sine die, e i coloni in Cisgiordania a cacciare i palestinesi dalla loro terra e dalle loro case. Per quanto ingiusto sia, quel piano i palestinesi dovranno accettarlo vista la minaccia dei due cowboy di ammazzarli tutti, se non l’accettano. Tra morire e vivere, è sempre meglio vivere, anche a caro prezzo. Intanto, mentre scrivo, le manifestazioni non si fermano e una nuova flottiglia è partita per Gaza, dalla Turchia (45 navi) e dalla Sicilia (11), con medici e infermieri. Il mondo intero oggi è con Gaza e con la Flotilla.

da La Stampa

Per Ilan Pappé, Israele sta vivendo una crisi politica, morale e istituzionale che segna la fine di un capitolo della sua storia: l’inizio della fine del progetto sionista.

Rinomato storico israeliano, una delle voci più forti dei nuovi storici nel Paese, è professore di storia presso l’università di Exeter, in Gran Bretagna, dove dirige anche lo European Center for Palestinian Studies. Noto soprattutto per il suo libro del 2006 La pulizia etnica dei palestinesi, esce in Italia con il suo nuovo libro La fine di Israele, in libreria dal 7 ottobre nella traduzione di Nazzareno Mataldi.

Vorrei iniziare con gli eventi delle ultime ore. Le risposte di Hamas e Netanyahu al piano di pace proposto da Trump. L’ottimismo del presidente statunitense e lo scetticismo degli analisti. Partiamo da qui, da storico, come giudica i venti punti del piano Trump per il dopo Gaza?

«Il piano di Trump ha tutte le caratteristiche delle proposte di pace del passato e dei processi falliti finora. La prima: nessuno parla con i palestinesi. Tutti dicono loro quale dovrebbe essere il futuro della Palestina senza capire che ogni proposta che non sia discussa con i palestinesi è destinata a fallire. E anche questa fallirà. Dopodiché nel prossimo futuro penso che ci sarà lo scambio di ostaggi e prigionieri, credo che l’esercito israeliano darà un po’ di tregua alla popolazione di Gaza, ma non credo che questo risolverà il problema principale che abbiamo in Israele e Palestina, cioè l’incapacità degli israeliani di accettare i palestinesi come cittadini con pari diritti, come uguali esseri umani. Il programma non ha alcuna risposta alla natura di base del progetto sionista, che è un progetto volto a eliminare i palestinesi in Palestina, non necessariamente attraverso il genocidio, ma rinchiudendoli in enclave come piccoli bantustan, cosa che la maggior parte dei palestinesi non accetterà mai. Quindi è un piano che non affronta davvero la questione alla radice. In parte è una messa in scena, in parte un gioco, in parte il modo di Trump di pensare che tutto sia un problema di business, e di molti altri come Tony Blair che pensano che ci sia molto denaro coinvolto in tutto questo. Quindi credo che sì, ci sarà un tentativo, ma non avrà successo».

Partiamo dal titolo del suo libro: Israel on the brink nella versione inglese, La fine di Israele in quella italiana. Dove vede i segni della fine di Israele?

«L’Israele per come lo vediamo oggi non può sopravvivere a lungo, perché stiamo vivendo la fine di un capitolo della storia del sionismo. È già sotto i nostri occhi. Il sionismo è diventato colonialismo quando gli europei, gli ebrei non europei e una minoranza di ebrei in Europa hanno deciso che gli ebrei non avessero futuro in Europa ma dovessero in qualche modo “restare europei”. Così il sionismo ha mirato a costituire uno Stato europeo nel mondo arabo, con l’idea che il futuro degli ebrei sarebbe stato meglio servito da uno Stato ebraico nel cuore del mondo arabo e a spese dei palestinesi. Qualcosa che si può ottenere e sostenere solo con la forza, con la pulizia etnica e che col tempo è diventata un’ideologia di Stato. Un’ideologia di apartheid».

Quali questioni considera cruciali per comprendere la crisi del progetto sionista che descrive nel libro?

«Il primo è un problema interno del sionismo: cercare di definire l’ebraismo come nazionalismo. Oggi, dopo ottant’anni, sappiamo che non funziona. È come se fosse impossibile parlare del cristianesimo come nazionalità, o dell’islam come nazionalità. È anche impossibile parlare dell’ebraismo come nazionalità, e il risultato di questa impossibilità è che ora ebrei laici e più religiosi trovano impossibile accordarsi su cosa significhi essere ebrei. E questo non è solo un problema individuale, è un problema collettivo, dello spazio pubblico, cioè il carattere dello Stato: è governato da idee ebraico-teocratiche o è governato da idee moderne? Questo problema non risolto per ottant’anni si è trasformato, oggi, in un conflitto sociale. Dunque questo è il primo dato: il fallimento nel far coincidere ebraismo e nazionalismo».

Nel suo libro descrive e divide fra uno Stato laico, Israele, e uno Stato religioso, lo Stato di Giudea. Quanto è diventata irreversibile questa divisione nella società e nella politica israeliana?

«È una divisione molto acuta. Parlo dello Stato di Giudea, del tipo di Stato alternativo rispetto all’attuale Stato di Israele che è emerso, prima di tutto, negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma che si è diffuso, nei fatti, in tutto Israele. Il modo migliore per descrivere questo processo è che lo Stato di Giudea sta inghiottendo lo Stato di Israele.

Gli esponenti e i rappresentanti di quello che chiamo Lo Stato di Giudea, hanno già una presenza dominante in politica, nei servizi di sicurezza, tra i generali dell’esercito e nei media ufficiali. Dobbiamo ricordare che non sono affatto pochi gli israeliani che non sanno cosa sia Haaretz [in ebraico, “la terra” (sottinteso di Israele), ndr] e ora stanno assalendo il sistema giudiziario.

L’ultimo bastione che devono conquistare è la Corte Suprema di Israele, e sono sulla strada per farlo. Hanno già il parlamento. Hanno il governo.

Ora, anche se alcuni cambiamenti potrebbero verificarsi a causa della particolare personalità di Netanyahu, rimarrà comunque una forza dominante nella politica e nella vita israeliana. Ed è molto difficile intravedere dinamiche di cambiamento che possano veramente sfidare in modo efficace la loro predominanza nella politica e nella vita israeliana».

Parliamo dell’importanza della memoria collettiva e della rimozione della storia palestinese, della catastrofe degli sfollamenti e della pulizia etnica nella sfera pubblica israeliana.

«Questa questione riguarda il rapporto storico con i palestinesi. Il Dna del progetto sionista è un progetto coloniale di insediamento che ritiene che la popolazione indigena nativa sia un problema che deve essere risolto. Di solito rimuovendola o eliminandola. E questo è qualcosa che permea il sistema educativo, il sistema politico, il sistema culturale. Gli israeliani, fin da bambini, vengono indottrinati a pensare ai palestinesi come esseri umani inferiori, come un problema demografico, come un ostacolo alla loro vita in “sicurezza”. Se ci pensa, è davvero notevole che il sionismo sia presente in Palestina da 120 anni e che il 99% degli ebrei israeliani non conosca l’arabo. Questo la dice lunga su quanto siano distaccati dalla società, dalla comunità e dalla cultura palestinese».

Che ruolo hanno, e che ruolo potrebbero avere, le narrazioni storiche e la memoria nel mettere in discussione il progetto sionista?

«Vede, negli ultimi venti o trent’anni quella che sembrava essere una posizione ideologica palestinese – la memoria della catastrofe, della Nakba – è stata supportata dalla ricerca accademica. Fino a trent’anni fa quando i palestinesi dicevano di essere stati vittime di pulizia etnica nel 1948, la gente intorno diceva “è la vostra propaganda, non la verità”. Dunque oggi i ricercatori sono d’accordo nel sostenere che nel 1948 si sia verificato un crimine contro l’umanità a danno dei palestinesi. Analogamente, l’affermazione che Israele non sia una democrazia è corroborata da studiosi e organizzazioni per i diritti umani – Human Rights Watch, Amnesty International – la Corte Internazionale di Giustizia, la Corte Penale Internazionale. Quindi qualcosa è cambiato nella percezione della narrazione sionista come propaganda non basata sui fatti, ma come manipolazione e fabbricazione della verità».

La sinistra israeliana oggi appare paralizzata.

«La sinistra sionista funziona a malapena. Ma è chiaro, non si può essere un colonizzatore di sinistra. La sinistra antisionista è cruciale, molto coraggiosa, ma minoritaria. Sono gli unici che manifestano contro la guerra perché a Gaza è in corso un genocidio. Una delle storie tristi qui è che la forza di contrasto – chiamiamola l’élite liberale e laica in Israele – ha deciso, invece di combattere, di lasciare il paese, e quelli che sono rimasti, soprattutto a Tel Aviv, quelli che chiamiamo i kaplanisti e animano le manifestazioni del sabato, non hanno davvero una visione alternativa allo Stato di Giudea. Quello che vogliono è continuare la loro privilegiata vita a Tel Aviv senza esserne toccati, ma non hanno una percezione alternativa di quale sia il problema con i palestinesi e di come affrontarlo; perciò credo che perderanno, o che forse hanno già perso perché l’altra parte – lo Stato di Giudea – è molto chiara nella sua visione, nella sua ideologia, nei suoi mezzi, nel modo in cui vuole procedere verso il futuro per raggiungere i propri obiettivi, e ci sta riuscendo».

Nel libro sostiene la decolonizzazione anziché gli aggiustamenti alla soluzione dei due Stati. Decolonizzazione come unico quadro morale e politico duraturo. E dalla decolonizzazione un percorso che unisca misure di giustizia riparativa, riorientamento giuridico, risarcimenti, riparazioni. Come risponde alle critiche che definiscono la soluzione politica che lei propone nel libro come una soluzione irrealizzabile, e impraticabile?

«È un’utopia? Forse, ma non c’è nulla di sbagliato in questo, perché le utopie possono dare un orientamento. Ma io credo che i processi di disgregazione – che forse non sono visibili a tutti – siano già cominciati. Sono uno storico e so che il crollo degli Stati e dei regimi può, all’inizio, essere molto lento e poi accelerare rapidamente. L’espressione del potere, soprattutto quello militare da parte dello Stato populista messianico di Israele lo farebbe istintivamente pensare come uno Stato forte. Ma pensiamoci bene, uno stato che lancia bombe in Qatar, in Yemen, che ha occupato parte della Siria e parte del Libano, che commette un genocidio a Gaza, è uno stato che non può che generare ostilità e alienazione. Uno Stato che con questa condotta non può essere tollerato e sostenuto ancora a lungo. Sa, l’’Egitto, la Giordania, la Siria e il Libano – a cui si possono aggiungere l’Iraq e l’Arabia Saudita – ora pensano di poter tollerare Israele; pensano persino che questo tipo di Israele dia loro dei dividendi. Ma questa non è una posizione condivisa dalle loro popolazioni.

Quindi qualsiasi cambiamento nella relazione tra società e regimi nel mondo arabo cambierebbe la posizione dei Paesi intorno a Israele. C’è un momento – lo dico come storico, naturalmente non sto predicendo il futuro – in cui un tale comportamento non è più tollerato, Israele sta alienando tutti intorno anche molti – molti amici. È qualcosa con cui gli israeliani devono cominciare a fare i conti».

da Techeconomy2030 -Digital Transformation For Sustainability

L’uomo è diventato una specie di dio-protesi: quando si serve di tutti i suoi organi ausiliari è veramente magnifico; ma non li porta con sé e spesso non riesce a usarli senza difficoltà”

A volte ci spaventiamo dell’intelligenza artificiale come se fosse una potenza autonoma pronta a ribellarsi, e nello stesso tempo sembriamo distratti di fronte agli usi concreti che governi e imprese ne fanno quotidianamente. È questa la vera contraddizione del nostro tempo: non la macchina in sé, ma il modo in cui la usiamo o, peggio, lasciamo che altri la usino per noi.
L’inchiesta che ha svelato l’impiego dei servizi cloud e di intelligenza artificiale di Microsoft da parte dell’Unità 8200 israeliana per la sorveglianza massiva dei palestinesi ne è un esempio clamoroso. Il contratto risaliva al 2021 e permetteva di immagazzinare e processare milioni di chiamate telefoniche, con una capacità impressionante: fino a un milione di conversazioni l’ora. Tutto questo è avvenuto per anni, lontano dallo sguardo pubblico, fino a quando non è esploso lo scandalo. Solo allora Microsoft ha interrotto i servizi del suo sistema Azure – che sembra voler trasmettere anche nel nome calma e tranquillità, come un fondo pensione –, quando i dati erano già stati raccolti e utilizzati. Un classico caso di stalla chiusa a buoi già scappati, che mette in luce la sproporzione tra la rapidità con cui la tecnologia si insinua nelle nostre vite e la lentezza con cui reagiamo quando se ne svela l’abuso.
Il tema, però, non è nuovo. Già i Greci avevano intuito che la téchne, l’arte del fare, non fosse una licenza illimitata ma una forma di supplenza, un modo per colmare la nostra fragilità. Pensiamo a Dedalo, che con la sua inventiva dona le ali al figlio Icaro, ma non può impedirne la caduta quando la spinta dell’eccesso lo porta troppo vicino al sole. O all’automa di bronzo Talos, creato da Efesto per vigilare su Creta, metà prodigio e metà minaccia. In questi racconti la tecnologia appare come un dono ambiguo: estensione delle nostre capacità e, insieme, potenziale dismisura, hýbris contro gli dèi.

Che cosa significa téchne (e i miti che la raccontano)

In greco antico, téchne non era “tecnologia” nel senso moderno, ma arte, mestiere, capacità pratica. Era distinta dalla epistéme (conoscenza teorica) e indicava il saper trasformare un’idea in azione o in oggetto.

I miti ci mostrano bene la sua ambivalenza: Dedalo, inventore geniale, costruisce le ali che permettono a Icaro di volare ma leccesso porta alla caduta. Efesto forgia automata di metallo capaci di muoversi e servire, straordinari e inquietanti antenati dei nostri robot. La lezione resta attuale: la téchne colma una mancanza, ma se usata senza misura diventa hýbris.

Questi miti ci ricordano che la questione non è mai stata tecnica, ma sempre etica e politica. Lo vediamo anche oggi, nell’ipocrisia con cui giudichiamo certe piattaforme e ne tolleriamo altre. TikTok, per esempio, negli Stati Uniti è stato trattato come una minaccia alla sicurezza nazionale, al punto da imporne la vendita forzata per proteggerne la democrazia. Ma la stessa lucidità non si applica a piattaforme americane come Meta o X, che ogni giorno plasmano le nostre bolle informative e influenzano le opinioni politiche senza che questo sollevi allarmi equivalenti. Condanniamo la propaganda “straniera” e ci abituiamo a quella domestica, anche quando la sua portata non è meno invasiva.
Chi controlla gli algoritmi, in fondo, controlla l’accesso all’informazione e con esso la trama stessa delle relazioni sociali. È qui che la tecnologia smette di essere un tema da ingegneri per diventare un nodo di potere. Se il dibattito pubblico resta limitato a slogan e a paure generiche sull’IA “buona” o “cattiva”, perdiamo di vista il punto centrale: lasciamo che soggetti privati, spesso stranieri, stabiliscano le regole invisibili della nostra democrazia informativa. Il rischio sistemico non sta tanto nella provenienza di una piattaforma, quanto nella concentrazione di potere e nella mancanza di trasparenza con cui viene esercitato.
Qui entra in gioco la politica, o meglio la sua assenza. Se la tecnologia è un attore di scena, chi scrive il copione? Chi decide i limiti, le regole, le conseguenze? Non possiamo più accontentarci di reazioni tardive, come quella di Microsoft. Servono norme chiare e strumenti di controllo democratico che riducano al minimo la possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali. In mancanza di ciò, continueremo a inseguire gli scandali a giochi già fatti.
E infine c’è un equivoco che vale la pena di sfatare: l’idea che l’intelligenza artificiale abbia una sua “etica intrinseca”. È una narrazione rassicurante, che sposta il problema dalle nostre responsabilità alla macchina. Ma, come ricorda Stefano Epifani nel suo ultimo libro Il teatro delle macchine pensanti, l’IA non possiede etica: ha istruzioni, vincoli, dati e obiettivi che noi definiamo. L’etica appartiene alle persone, alle società, ai governi che decidono come usarla. Illudersi che la macchina possa in qualche modo sostituire questo compito significa ripetere, in versione digitale, la stessa hýbris che i Greci avevano già messo in guardia nei loro miti.

Tre priorità per la politica

1. Trasparenza: aprire dati e algoritmi a controlli indipendenti.
2. Simmetria: regole uguali per tutte le piattaforme con impatto sistemico, non solo per quelle “straniere”.
3. Legislazione efficace: norme capaci di ridurre al minimo le possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali.

Tra Prometeo e Azure, il messaggio resta lo stesso: non è la tecnologia a renderci più o meno giusti. Siamo noi, con le nostre scelte, a darle una direzione. E se vogliamo evitare che le nostre protesi diventino catene, dobbiamo assumere fino in fondo la responsabilità politica ed etica del loro governo.

da Sette

L’AI (e non solo) nasce da un incontro che si è sedimentato fra matematica, informatica, neuroscienze, filosofia… Marilù Chiofalo*, fisica quantistica, spiega perché «uscire dal modello unico» è l’approccio giusto

Il principio di sovrapposizione quantistica dice che una particella può trovarsi in più stati contemporaneamente: zero e uno, qui e lì. È una delle basi della meccanica quantistica, ed è anche la prova di quanto questa scienza sia distante dall’evidenza dei nostri sensi e dal modo consueto di comprendere il mondo. Eppure, incontrando Marilù Chiofalo si ha l’impressione che quell’astrazione, che ci è sempre sembrata un paradosso inconcepibile, trovi una forma viva, concreta, proprio davanti a noi.

Un dottorato di ricerca alla Scuola Normale, professora di Fisica della materia condensata all’Università di Pisa, il suo approccio alla ricerca è interdisciplinare, così come assume diverse dimensioni il suo modo di insegnarla e raccontarla, tra radio, video, riviste, attività per le scuole e molto altro. Parlare con lei è come intraprendere un viaggio che non conosce confini: scienza, arte e cultura si intrecciano senza mai separarsi.

«Da piccola correvo scalza tra i torrenti della Magna Grecia, osservavo le stelle, mi sbucciavo sempre le ginocchia, giocavo a pallone (da centravanti) e a pallavolo (facendo punto in tre tocchi di cui uno, il mio, come alzatrice), suonavo strumenti, fondavo associazioni (per l’ambiente, contro la mafia) e pensavo che la fisica è la poesia della matematica». La sua curiosità non può essere contenuta, si muove in tutte le direzioni e non è rivolta soltanto ai contenuti, ma al come esplorarli. È affascinata soprattutto da questo: dai percorsi, dalle prospettive, dai linguaggi. E il suo preferito è quello di chi sa stare tra le discipline, senza lasciarsi ingabbiare da una sola. Così, seguendo un cammino non convenzionale, Marilù Chiofalo si è ritrovata a studiare tecnologie quantistiche per esplorare il cosmo e la mente, e a inventare nuove realtà grazie alle simulazioni al computer.

«La scienza del futuro che voglia svelare i grandi misteri dell’umanità come l’universo, la mente, la coscienza, è necessariamente interdisciplinare e connettiva: richiede puzzle di competenze e risorse, connessione fra astrazione ed esperienza, in ambienti di ricerca complessi per dimensioni, dinamiche ed enorme qualità di diversity», dice. E in effetti, se pensiamo all’Intelligenza Artificiale di cui parliamo per il suo potenziale trasformativo, non possiamo non notare che non nasce da una sola disciplina, ma è frutto di un incontro di saperi molto diversi che si sono intrecciati nel tempo: matematica, statistica, informatica, neuroscienze, psicologia cognitiva, ingegneria, linguistica, filosofia, e scienze sociali ed economiche. Se adottiamo un atteggiamento interdisciplinare ci accorgeremo che «ciò che appare distante non lo è perché lo sguardo di chi osserva, che è uno, collega e associa, manipola e trasforma. Così nasce qualcosa di nuovo, capace di contenere e persino riconciliare le contraddizioni».

Ma nel mondo accademico non è facile assumere questo atteggiamento. Come sottolinea Marilù Chiofalo: «Se lavori al confine tra due o più discipline, per il mondo non sei specializzata né in una né nell’altra.» Per chi vuole intraprendere un percorso come il suo, la strada è più faticosa. La svolta è arrivata con l’incontro a Labodif, il primo istituto di ricerca e formazione sulla differenza, fondato dalla regista Gianna Mazzini e dall’economista Giò Galletti. Lì, racconta, ha imparato come riconoscere le donne che sanno tracciare nuove direzioni. «In fisica questa sarebbe un’accelerazione. A Labodif le chiamiamo madri».

La sua interdisciplinarità si è trasformata in una in-disciplina. «Essere in-disciplinata per me non è solo costruire ponti tra saperi diversi. È ricomporre la bambina di allora con la donna che sono oggi». Vuol dire affrontare prima di tutto una trasformazione interna, più che un conflitto con l’esterno e con le regole del sistema. Vuol dire imparare a guardarsi dentro e avere il coraggio di mostrarsi interamente, in tutto ciò che si fa.

Un’urgenza, soprattutto nel mondo della scienza, dove di donne ne «entrano poche, e restano meno». C’è ancora molto da fare. Essere una ricercatrice significa affrontare una fatica doppia: muoversi dentro un sistema che porta impresso un punto di vista maschile e che misura quasi tutto con un metro valido, certo, ma che non può essere l’unico. Lo sottolinea con chiarezza: «Il problema non è che esista un metro maschile. Il problema è quando quel metro diventa l’unico possibile. L’auspicio è che più metri possano convivere».

L’attuale metro rischia di incastrarci in un meccanismo escludente, soprattutto per le donne. «Capita spesso», mi dice Marilù Chiofalo, «che le donne non vengano viste. O, se viste, non vengano riconosciute. Anche per il modo diverso con cui fanno le cose.»

La scienza, dopotutto, è fatta da persone. Eppure, ce ne dimentichiamo. Dove ci sono persone che fanno scienza, ci sono sempre due dimensioni: quella oggettiva, legata ai risultati della ricerca; e quella soggettiva, legata al percorso unico e irripetibile con cui si arriva a quei risultati. È proprio questa dimensione soggettiva che andrebbe valorizzata. Non solo per le donne, ma per tutti. Perché abbiamo bisogno di nuovi metri narrativi, capaci di dare spazio e valore a questa diversità.

Alle donne, dice, servono due cose. La prima è decolonizzarsi: disimparando quel modo di fare ordine astratto tra i contenuti e smettendo di misurarsi con il metro altrui, di vivere nella schiavitù della perfezione che impone di sapere sempre più di chiunque altro. La seconda è stabilire un nuovo metro. E un metro nuovo non nasce mai in solitudine: prende forma solo nella risonanza con altre donne. Questa, mi dice, è l’autorità femminile: allargare gli spazi, aprire il campo del possibile e del dicibile. Lo dimostrano due ricerche che Marilù Chiofalo cita con entusiasmo. Entrambe sono nate grazie all’accoglienza e alla generosità di altre donne, ricercatrici in campi diversi, che hanno condiviso con lei l’idea di una collaborazione “in-disciplinata”. La prima utilizza la meccanica quantistica per simulare sistemi complessi come quelli del nostro cervello. Un esempio? La percezione della numerosità: quella capacità straordinaria di guardare un gruppo di persone e sapere quante sono, senza doverle contare a una a una. La seconda prova a ridefinire il tempo.

Un’impresa che sembra impossibile: mettere insieme la visione della meccanica quantistica, dove il tempo è solo un parametro, e quella della relatività, dove invece il tempo è un attributo fondamentale. In altre parole, cercare un modo di pensare il tempo… senza tempo.

Ma come possiamo diventare anche noi un po’ (in)disciplinate, a modo nostro? Ecco i consigli che offre alle sue studentesse: «Se hai un desiderio, non rinunciarvi mai. Cerca madri, come una rabdomante cerca l’acqua nel deserto. E, soprattutto, vai tu stessa nella realtà. Non mandare la tua controfigura, non mascherare la tua natura: così non lascerai indietro pezzi di te.»

Marilù Chiofalo sembra vivere in un tempo senza tempo, come quello che studia. E, in effetti, è insieme la bambina che è stata, la ragazza, la donna di oggi e quella di domani. Tra le tante cose che ci consegna, forse la più preziosa è questa: la possibilità di assumere una postura quantistica nei confronti del grande gioco della vita. Una postura che rifiuta di incasellarsi in uno zero o in un uno, in un qui o in un lì. Che non esclude, ma accoglie. E che, proprio per questo, ci rende massimamente libere.

(*) Marilù Chiofalo è professora di Fisica della materia condensata all’Università di Pisa. Nata nel 1968 a Reggio Calabria, ha praticato sport a livello agonistico (pallavolo, calcio, tennistavolo), studiato flauto al Conservatorio, è appassionata di giochi di ruolo, fumetti e fantasy.

da l’Avvenire

La Chiesa anglicana d’Inghilterra avrà per la prima volta nella sua storia come primate una donna, Sarah Elizabeth Mullally, sessantatré anni, che è stata eletta arcivescovo di Canterbury, titolo che la rende anche primus inter pares tra i primati della Comunione anglicana.

L’annuncio è stato dato stamattina al numero 10 di Downing Street, al termine di un processo iniziato con un’articolata consultazione ecclesiale affiancata da una consultazione pubblica, poi con la scelta del nome di Mullally da parte della Canterbury Crown Nominations Commission – organo composto da 17 membri di nomina reale – il quale l’ha proposto al primo ministro Keir Starmer, che a sua volta l’ha sottoposto al re. E Carlo III l’ha approvato in qualità di governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra. L’insediamento ufficiale è previsto a marzo 2026 dopo una serie di passaggi nei prossimi mesi tra cui l’elezione formale da parte del decano e del Capitolo della Cattedrale di Canterbury.

Mullally succede nell’incarico a Justin Welby, che aveva annunciato le sue dimissioni da arcivescovo di Canterbury il 12 novembre 2024 – diventate effettive il 6 gennaio di quest’anno – dopo essere stato accusato di non aver preso provvedimenti adeguati nei confronti di un abusatore seriale di adolescenti che frequentava da volontario i campi giovanili anglicani.

Mullally, nata nel 1962 a Woking, città di sessantamila abitanti nella contea del Surrey, ha abbracciato la fede anglicana all’età di 16 anni. Ha studiato infermieristica, specializzandosi in infermieristica oncologica, e nel 1999, all’età di 37 anni, è arrivata a ricoprire il ruolo di responsabile del Servizio infermieristico d’Inghilterra presso il Ministero della Salute, la più giovane di sempre. Divenuta sacerdote anglicano nel 2002, nel 2004 ha deciso di lasciare gli impegni civili e di dedicarsi a tempo pieno al servizio pastorale. Ricevuta nel 2015 l’ordinazione episcopale – quarta donna a diventare vescovo nella Chiesa d’Inghilterra – ha guidato prima la piccola diocesi di Crediton e dal 2018 la prestigiosa arcidiocesi Londra.

È sposata dal 1987 con Eamonn Mullally, consulente aziendale in pensione, ed è madre di due figli adulti, Liam e Grace.

«Lavare i piedi ha plasmato la mia vocazione cristiana: come infermiera, poi come sacerdotessa, poi come vescova» ha detto la nuova primate anglicana in un breve discorso nella cattedrale di Canterbury, «nel caos apparente che ci circonda, nel mezzo di una così profonda incertezza globale, la possibilità di guarigione risiede in atti di gentilezza e amore».

Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha dato il suo benvenuto a Sarah Mullally in un comunicato a nome della Conferenza episcopale cattolica di Inghilterra e Galles di cui è presidente. «Porterà con sé molti doni personali e la sua esperienza nel suo nuovo ruolo» ha scritto il porporato, «insieme risponderemo alla preghiera di Gesù affinché “siamo tutti una cosa sola” (Giovanni 17,21) e cercheremo di sviluppare i legami di amicizia e di missione condivisa tra la Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa cattolica romana».

Parole di augurio anche da parte del cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, che ha inviato una lettera al nuovo arcivescovo di Canterbury. […]