Da il manifesto – Il ricorso delle klimaseniorinnen. Sono 2.500, hanno un’età media di 73 anni, collaborano con Greenpeace e vanno in piazza
«Oggi è un giorno di gioia, di sollievo e di emozioni fortissime, ci spiace per l’esito della causa dei giovani portoghesi, abbiamo detto loro che la nostra vittoria è anche per loro», dice da Strasburgo Norma Bargetzi-Horisberger, una donna di 69 anni che vive a Cassina D’Agno, nel canton Ticino, ed è una delle militanti più attive dell’associazione KlimaSeniorinnen, anziane per il clima. Ieri mattina era a Strasburgo con un gruppo di attiviste per assistere alla sentenza della Corte europea per i diritti umani (Cedu).
Le Anziane per il clima erano già state a Strasburgo un anno fa, per la prima udienza del processo, hanno sfilato insieme a Greta Thunberg, simpatizzano per le azioni degli attivisti di Ultima Generazione che si incollano all’asfalto per bloccare il traffico e gettano vernice lavabile su monumenti e opere d’arte, e a febbraio hanno marciato da Landquart a Davos nella manifestazione che ha contestato il Forum economico globale. «Sono diventata un’attivista perché mi sento in parte responsabile di questo disastro, è inutile negare che è stata la mia generazione a fare i danni più grandi», ha detto Norma Bargetzi-Horisberger al Corriere del Ticino nei giorni del summit.
L’associazione Anziane per il clima è nata nel 2016, nel 2020 ha presentato il ricorso alla Corte di Strasburgo, con l’appoggio di Greenpeace Svizzera, e ieri ha ottenuto una vittoria che potrebbe influenzare le politiche sul clima in Svizzera e, in maniera indiretta, nel resto del mondo. All’inizio erano in 150, ora sono 2.500 in tutti i cantoni elvetici, con un’età media di 73 anni, ma è facile prevedere che nel futuro prossimo i numeri cresceranno ancora. «Il nostro lavoro è stato fondamentale per sensibilizzare la Svizzera e il mondo intero in merito al fatto che i cambiamenti climatici costituiscono la principale minaccia per i diritti umani», dicono.
L’iscrizione è consentita solo alle donne che hanno compiuto i 64 anni di età, perché «le anziane sono le vittime principali dei cambiamenti climatici» e non tutelarli, per loro, vuol dire violare un diritto umano. Secondo l’avvocato delle ricorrenti Jessica Simor, il caldo aumenta il rischio di problemi renali, provoca attacchi d’asma e disturbi cardiovascolari negli anziani, soprattutto fra le donne. Le statistiche parlano chiaro: tra il 1991 e il 2018 il 31 per cento delle morti registrate in Svizzera per le ondate di calore sono state attribuite alle conseguenze di cambiamenti climatici provocate da azioni umane e ad avere la peggio sono stati soprattutto bambini e donne anziane. Uno studio sull’impatto delle ondate di calore pubblicato nel 2022 da Environmental Health Perspectives dimostra che le ultrasettantacinquenni appartengono alla categoria più a rischio.
Ė accaduto non per caso. Un invito di Silvia Aonzo a partecipare a un Convegno, una tre giorni (8-9-10 dic.) nella scuola parentale di ispirazione montessoriana che lei sostiene, creata da Barbara Cerutti con altre mamme solo tre anni fa, dove entrambe insegnano come volontarie a un piccolo gruppo di bambini e bambine della Primaria. Titolo dell’incontro Archeosaperi femminili. Luogo dell’incontro, le sale di via San Dalmazio 24, del quartiere Lavagnola. Un progetto educativo CreAttiva in collaborazione con Comunità femminile di Cura ed Eredibibliotecadonne.
Venerdì pomeriggio, primo giorno dell’incontro è stato proiettato il film documentario Segni fuori dal tempo, sull’archeologa e linguista lituana, naturalizzata americana, Marija Gimbutas, che avvalendosi dell’innovativo metodo multidisciplinare ha ridisegnato il volto delle antiche civiltà matriarcali dell’antica Europa, poi invase tra il terzo e il quarto millennio a.C. dagli Indoeuropei. E fu l’inizio del patriarcato.
Io mi sono sentita profondamente in stretto legame con questa linea di ricerca fondata sull’origine della nostra storia, su una storia che fa leva e pone a suo fondamento l’orizzonte simbolico della madre. La storia è tempo e la memoria è madre della storia. È con l’invenzione linguistica e simbolica della pratica della storia vivente che noi della Comunità di storia vivente di Milano, con Marirì Martinengo, sua ideatrice (La voce del silenzio. Storia di Maria Massone, donna sottratta, 2005), abbiamo posto le basi di un nuovo inizio della narrazione storiografica. Un percorso di risignificazione o destoricizzazione, come si usa dire oggi, avvenuto rielaborando i nostri nodi irrisolti: le ferite reali o simboliche, che la storia patriarcale ci ha inferto per migliaia di anni. Fare di noi stesse documento storico è stata l’idea rivoluzionaria che ha permesso la svolta. Lo scavo in profondità dove il presente e il passato arcaico si collegano a partire da sé, dalla nostra esperienza svelata, nel contemporaneo, nel nostro tempo. Spezzando il tempo lineare incentrato sul maschile come valore dominante abbiamo posto al centro le nostre ferite obliate, rimosse, il rimosso della storia, nel mio caso, la tragedia della morte di mia madre quando avevo vent’anni. La mia orfanità è diventata nella Comunità di storia vivente da evento personale a evento storico universale, riletto in chiave politica tramite l’autocoscienza, come segno di una profonda trasformazione della storia italiana. La modernità violenta che negli anni sessanta ha trasformato l’economia italiana. Intendo la mutazione da paese agricolo a paese altamente industrializzato. Una società violentata. Questa risignificazione antropologica immessa nella narrazione storiografica è stata possibile grazie all’agire di un’autorità femminile che ha prodotto una modificazione dello sguardo interiore e un punto di vista differente. Dal 2006 al 2018, per tutti questi anni, ci siamo riunite in Libreria o a casa di qualcuna e insieme a partire dal racconto orale di ciascuna abbiamo portato alla luce il nodo irrisolto annidato nelle “viscere”, come scrive Marίa Zambrano, e con la pratica dell’autocoscienza, cui siamo debitrici, abbiamo rielaborato la nostra esperienza e abbiamo scritto e pubblicato i nostri racconti di Storia. Un debito di riconoscenza alle invenzioni del femminismo delle origini (alla pratica dell’autocoscienza, alla disparità, all’affidamento) e all’autorità di Marirì, che abbiamo riconosciuto perché ci ha permesso di crescere soggettivamente ed essere presenti nella vita pubblica. Figura di madre simbolica che ci ha portato a riscattare la madre reale. Per me la voce del silenzio è stata quella di Eva, mia madre. Abbiamo posto fine alla scissione cultura/natura, uno dei pilastri del patriarcato. Questi racconti di verità soggettiva, storie che fanno la Storia, testimoniano la fine del patriarcato nelle nostre menti. Esprimono la forza della parola, veritiera, indipendente perché fedele alla propria origine insieme alla gioia e al piacere della riappropriazione della propria storia, non in contrapposizione con l’altro, nel mio caso con mio fratello, negazionista climatico e anche incapace di fare i conti con la memoria. Anche lui è stato danneggiato dall’inconsapevolezza del ruolo che il patriarcato gli ha imposto e dalla legge patriarcale dell’oblio. Sono riuscita a fargli comprendere il valore della memoria e del pensare veramente a partire da sé. Anche nel piccolo gruppo esperienziale della domenica mattina ho sentito che veniva compresa dalle donne presenti la modalità innovativa della storia vivente e ognuna delle partecipanti ha individuato e raccontato un nodo della propria storia. Noi della Comunità di Milano dopo tredici anni di lavoro sulle parole, con le parole, in stretta relazione di fiducia, abbiamo pubblicato La Spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (2019). Nel titolo, suggerito da Marirì stessa, è sottesa la nostra pratica rivoluzionaria. La forma della spirale indica un percorso aperto, non dicotomico che, pur andando in profondità, essendo bidirezionale vola in alto e tocca la trascendenza e l’universale. Rappresenta la fine della storia sacrificale come scrive María Zambrano in Persona e democrazia. Fine della storia sacrificale, non è la fine della storia come predetto negli anni ottanta da alcuni storici e filosofi ma la fine della storia fatta e scritta da uomini, dal “cosiddetto” popolo eletto che fa la guerra per diffondere “la democrazia”, quella di impronta ateniese, che non prevede la libertà femminile. Libertà per le donne è libertà per tutti.
Da RivistaStudio – Nessun fenomeno sociale, negli ultimi anni, mi sta affascinando tanto quanto il mutamento del lavoro. Guardo con entusiasmo e speranza agli esperimenti di settimane lavorative di quattro giorni, osservo turbato le statistiche che hanno fatto poi parlare di “great resignation”, grandi dimissioni, e mi chiedo a cosa porteranno. Mi interesso a quell’altro fenomeno molto chiacchierato di questi anni, il “quiet quitting” [mantenere il proprio posto di lavoro facendo il minimo indispensabile e senza impegnarsi per avanzare], e per la prima volta nella mia vita sono riuscito a sperimentare qualcosa di simile a un’organizzazione, raccogliendo le opinioni e i desideri di molti colleghi e colleghe su come creare, al termine dell’emergenza sanitaria, un giusto bilanciamento del lavoro tra la casa e l’ufficio. Mentre mi adoperavo in quest’ultimo sforzo così nuovo mi accorgevo che tutti i fenomeni a cui guardavo con curiosità avevano una caratteristica comune: riguardavano la sfera dell’individuo, e mai quella del collettivo.
Negli anni in cui “attivismo” è diventata una parola per definire, nove volte su dieci, dei cialtroni che parlano di banalità arrabbiate davanti a un ringlight su Instagram, è appena uscito un libro che intende ribaltare la prospettiva, rimettere la parola in buona luce, e tornare a parlare di dimensione collettiva quando si parla di lavoro, senza self-help e altri automiglioramenti. Si chiama Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani, 2024) e l’ha scritto Irene Soave, scrittrice e giornalista per il Corriere della Sera. Contiene uno spettro veramente ampio di argomenti trattati: vigilanza, felicità, Sud e Nord, salute mentale e fisica, discriminazioni, ascensore sociale, gravidanze. Sarebbe stupido pretendere di farne un riassunto esaustivo in un articolo, e quindi posso dire che quello che unisce meglio tutti i capitoli è, nelle intenzioni della scrittrice o nei miei occhi, la necessità di ritrovare uno spirito di comunità e organizzazione tra lavoratori – o lavoratrici. La mancanza di questo senso di collettività, mi sembra, sta in tutte queste reazioni disordinate all’infelicità lavorativa che abbiamo scoperto durante il Covid, e che ha dato origine ai fenomeni di cui sopra.
Se il problema del lavoro è collettivo, dice Soave, la risposta non può essere individuale. Un esempio recente: la nascita del MeToo è una delle poche e rare risposte collettive a un problema (anche) lavorativo che abbiamo visto negli ultimi anni. Ha coinvolto centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo, ha spaventato chi deteneva e detiene il potere, ha anche dato il panico a centinaia di migliaia di uomini terrorizzati di perdere un privilegio che hanno sempre ritenuto diritto naturale. Soave traccia un filo rosso tra quell’hashtag e il Rapporto Hite, un celebre – appunto – rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 1976. Era basato su oltre tremila interviste a donne americane, e ne veniva fuori, in breve, che il piacere sessuale non era una cosa che molte donne provavano, e che la figura dell’uomo non era una conditio sine qua non per il raggiungimento dell’orgasmo. Anzi. «Il Rapporto Hite (…) ai lettori maschi diceva: state sbagliando tutto. Alle lettrici diceva una cosa più potente ancora: no, non succede solo a te». Sentirsi comunità. Il 15 ottobre 2017 l’attrice Alyssa Milano scrive su Twitter: «Se sei stata molestata o aggredita sessualmente scrivi “me too” nelle risposte a questo tweet». Nelle prime dodici ore arrivano più di cinquecentomila risposte.
Un momento: ma questo è un libro che parla solo di lavoratrici, quindi? No: con una mossa audace, Soave usa un “femminile sovraesteso”. È quello che da sempre, in molte lingue, si fa con il maschile. Quello per cui scriviamo cose che si chiamano “Statuto dei lavoratori”, per esempio, per intendere tutti gli spettri di genere, o ancora diciamo “i cittadini”, “i consumatori”, “i clienti”, e così via. Risolvendo i problemi che escludono le lavoratrici, si legge, starebbero meglio tutti i lavoratori. Il maschile di solito si sovraestende per abitudine e pigrizia, per poca cura del femminile. Il femminile di Soave si estende per solidarietà e protezione: è una mantella per ripararsi tutti – e tutte – insieme dalla pioggia. E la pioggia sono le sofferenze di noi, lavoratori e lavoratrici in diversi modi insoddisfatti e infelici, aspiranti quiet quitter.
C’è un bel fraintendimento, nel significato profondo di quiet quitting. Che significa? È stato tradotto come “dimissioni silenziose”, una grande presa di consapevolezza – finalmente! leggevamo sui soliti New Yorker e New York Times e Guardian e così via – del fatto che così non va bene. Eppure non vuol dire lasciarlo per davvero, questo lavoro, pur se in silenzio e di nascosto. «No», scrive Soave, «significa che fai solo quello che il tuo contratto ti dice di fare, per le ore in cui devi farlo. Non fai straordinari, non prendi progetti né responsabilità che escano dal tuo orario, non esegui mansioni che non siano indicate sul tuo contratto. Rivoluzionario, no? Be’, no. Intanto fare quello per cui sei pagato e negli orari pattuiti non significa “non lavorare” o “quasi licenziarsi”. Anche farlo malvolentieri significa lo stesso lavorare».
Si è visto che al quiet quitting le aziende rispondono spesso con un “quiet firing”: impedendo alla lavoratrice (sovraestendo pure io) di avanzare, riducendole i compensi o i bonus, rendendole la vita più complicata. Quindi, molte quiet quitter hanno rinunciato, e sono tornare a lavorare come prima, più di prima. Questo succede perché il quiet quitting è un atto solitario, e privo di protezione. «Come tale», scrive ancora Irene Soave, «i suoi ritorni ma anche i suoi costi si scaricano tutti e solo su chi lo mette in pratica. Se a farlo fossero tanti si chiamerebbe, in italiano, stato di agitazione, o sciopero bianco».
La colpa di questa infelicità è talvolta di quelli che il filosofo David Graeber chiamava bullshit jobs. Chi lavora in campo creativo li conosce bene: Graeber parla addirittura di «violenza spirituale» per questi compiti senza regione, che generano un tipo di insoddisfazione e alienazione più profonda perché privi di una apparente logica. Così alienati, appunto, che non riusciamo a immaginare come uscirne. Ancora Soave: «Il nostro quiet quitting non è collettivo, e più che rivendicare è un ritirarsi, se per rivendicazione e collettività non intendiamo la condivisione di stories Instagram con lo slogan I don’t dream of labor […]. E a scioperare da soli, comunque, come si fa?».
C’è molta rassegnazione e nostalgia, e poca rabbia e concretezza, nel modo in cui ci rapportiamo al lavoro. Piagnucoliamo, e pensiamo commossi a quando credevamo di poter guadagnare i soldi dei nostri genitori. O ci commuoviamo ancora di più se ci ricordiamo della fine che hanno fatto i sogni di madri che immaginavano per le figlie una parità ormai prossima, un’indipendenza totale, e invece. Un mio amico dice sempre che il lavoro è normale che faccia schifo, altrimenti non ci pagherebbero per farlo. Soave la mette giù un po’ più epica, e ricorda che è dalla Genesi 3:19 che il lavoro è assegnato all’uomo come punizione divina. Ma se fa così schifo, che dobbiamo fare? Organizzarci un po’ di più, dice in fondo Lo statuto delle lavoratrici. E questa organizzazione passa in primo luogo dal conoscere un po’ meglio i propri diritti, doveri e confini.
C’è poi da dire che questo saggio ha la forza narrativa che libri simili di solito non hanno: è arricchito da una scrittura vivace e brillante, e costellato di storie di amiche ed esempi e pioniere, lavoratrici fortunate e sfortunate e altri casi di donne che lottano e spesso perdono e talvolta vincono, che mi sembra si potrebbero pure leggere come modelli di storie per “bambine ribelli” più ispirazionali e reali di una Chiara Ferragni o una Margaret Thatcher.
Questo Statuto è soprattutto un libro intelligente, quasi rivoluzionario: mi ha ricordato che si possono dire cose radicali senza gridare su Instagram, e che si può farlo con competenza e preparazione. C’è in fondo la storia di un dissidente bielorusso che dice una frase che diventa la scintilla da cui parte tutta questa operazione. Lui dice: «Se non puoi parlare al mondo, parla al Paese. Se non puoi parlare al Paese, parla alla città. Se non ti lasciano, ai quartieri. Se non ti sentono, ai vicini. Se i vicini sono delatori, tieni un diario, e un giorno a cambiare le cose sarà proprio quel diario. Se non cambia niente, scrivilo lo stesso». Soave l’ha scritto. Io penso sia un’ottima idea consigliarlo e regalarlo.
Da Doppiozero – Frammenti incompiuti, aneddoti brevi, riflessioni teoriche, letteratura e poesia. Le improvvisazioni procedono per associazioni libere, la clinica poetica della psicoanalista Gohar Homayounpour piroetta al ritmo del blues. «Il blues è un genere legato alla depressione, al turbamento, alla sventura, al tradimento e alle sue ferite, al dolore e al rimpianto. Però guai a dimenticare che il blues è anche musica da ballo, un ballo scatenato che inneggia al piacere, al trasporto, all’umorismo e alla vita».
In Blues a Teheran. La psicoanalisi e il lutto, (Raffaello Cortina, 2024), il “doppio sguardo” di iraniana cittadina di molti mondi e la sua formazione poliglotta permettono all’autrice la spontaneità di un discorso aperto, di una riflessione teorica originale. Nelle interviste non vuole parlare dell’attualità, non vuole essere ridotta a espressione critica della situazione politica di un regime repressivo, crudele e spietato soprattutto nei confronti della popolazione femminile, proprio perché le donne sono da anni l’avanguardia delle proteste contro il regime islamico. Si fa guidare dalla bella espressione di Adam Phillips di “tirannia dello scopo”: l’illusione di sapere che cosa si vuole davvero va interrogata per sfuggire alla tirannia del consumismo, ma anche allo schematismo ideologico che vorrebbe restringere l’immagine della donna iraniana a vittima, oppure a una caricatura dell’erotismo orientalista.
Non solo il dolore è tale dappertutto, ma anche la tragedia di Edipo è, per Gorah Homayounpour, un copione che può funzionare a tutte le latitudini. La rilettura culturale del mito la porta alla figura di Shahrazād, l’archetipo della donna persiana, a tipi femminili del tutto scomparsi nelle rappresentazioni mainstream in Iran, che non parlano di amore, di donne che amano le donne, di donne che stanno sia con uomini che sia con donne, di donne che hanno l’amante ma non vogliono sposarsi.
«Presentare le donne iraniane come vittime significa adottare un’ottica riduzionista che ignora moltissime donne lavoratrici, donne che negli ultimi decenni sono state il volto della resistenza politica, donne che si sono prese cura delle loro famiglie in situazioni di migrazione, donne che hanno rifiutato di piegarsi alle leggi opprimenti che le cingono d’assedio, giovani donne perlopiù laureate. Quella visione riduzionista impedisce anche di vedere le donne castranti (e quindi uomini “evirati”) che popolano certe famiglie iraniane».
A partire da queste considerazioni Gohar Homayounpour sviluppa l’idea di una variante specifica del complesso d’Edipo. La sua lunga esperienza clinica la porta a concludere che, per molte ragazze iraniane, il grande oggetto d’amore rimane la madre. Generazioni di donne iraniane hanno vissuto in rapporto fusionale con la madre, che a sua volta era in simbiosi con la propria: la genealogia femminile è un collante fin troppo tenace. Per reazione, per difendersi da questo abbraccio materno che vuole le figlie tutte per sé, si va alla guerra fra donne, verso un territorio di morte attraversato da invidia, odio, aggressività. In questo spazio claustrofobico e chiuso non è facile far entrare un terzo, una funzione paterna/maschile. Anche perché questi uomini, accuditi dalle madri, snobbati dalle mogli e dai figli, si rifugiano in uno stato inerziale, oppure sfogano modo violento una frustrazione infinita.
Goran Homayounpour chiama “complesso di Shahrazād” questa ribellione alla legge del padre in una società retta dal diritto patriarcale. Ritornare all’archetipo di Shahrazād, andare alla sua ricerca, significa far risorgere le sue figlie, ritornare a narrare anche tutto ciò che fa ancora paura nelle Mille e una notte.
Nata a Parigi da genitori iraniani – suo padre ha tradotto in farsi i testi di Kundera e nel libro sono riprodotte le cartoline che si sono scambiati –, scopre per la prima volta Teheran da ragazzina. Poi ha vissuto in Canada e negli Stati Uniti, Boston è la città della sua formazione psicoanalitica, ma fa una scelta controcorrente e si trasferisce a Teheran. La sua esperienza di poliglotta nomade nutre un punto di vista critico su cosa capita quando un flusso si inverte. In Iran – che nel 1979 ha accolto tre milioni di afghani in fuga dalla guerra sovietica –, dopo le sanzioni imposte dal 2018 dagli Stati Uniti la situazione economica è così peggiorata che ora migliaia di afghani cercano di rientrare nel loro paese. L’autrice propone una prospettiva diversa da quella stereotipata del senso comune populista, secondo la quale gli arrivi sono sempre troppi, e la chiama “Migrazione a rovescio”. Quando accade agli esseri umani è «un indizio incontrovertibile: nulla prova in maniera più lampante che un paese o una città non sono più quelli di una volta. Se una persona mi lascia, analogamente, non posso non provare un sentimento di angoscia, perché vuol dire che anch’io mi sono esaurita, che non sono più quella di prima. Per questo l’abbandono disorienta». Quando arrivano gli altri diciamo che ci tolgono possibilità, ma quando se ne vanno? È la prova che noi siamo esauriti, che non abbiamo più risorse, mentre finché vogliono venire da noi significa che siamo vivi e vegeti. Vitali.
Docente di psicologia e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association, e in Italia della SPI, Gohar Homayounpour ha fondato nel 2007 il Freudian Group di Teheran. Un’associazione non riconosciuta né autorizzata dal governo, impossibilitata a rilasciare diplomi e certificati, tuttavia in affanno per le numerosissime richieste di adesione.
Proprio in un contesto dove pare impossibile eludere nella stanza d’analisi il discorso sociopolitico, «l’aspetto più grandioso della mia condizione di psicoanalista a Teheran è che posso fare psicoanalisi nella sua forma originaria, sovversiva, rivoluzionaria» – come possedere un terzo occhio, un terzo orecchio. Perché «la lingua dell’inconscio è la lingua del margine» che permette di intuire significati in un garbuglio di frasi smozzicate che emergono in una situazione di paura.
Nel suo testo precedente, Una psicoanalista a Teheran (Raffaello Cortina, 2013), anche questo censurato, raccontava che in Iran le era più facile identificarsi con ogni cosa e ogni persona, con una fatica emotiva molto maggiore in tutte le situazioni e così anche con i pazienti. «Mi sono ritrovata incapace di rifiutare una scatola di dolci che mi aveva portato un’anziana paziente. Inoltre, qui mi sento molto più a disagio nel parlare della mia parcella o quando invito i pazienti a prendere posto sul lettino o devo dire loro che il tempo della seduta è giunto a termine».
Vista da Teheran, la psicoanalisi le appare passata da un eccesso di frustrazione – una sorta di “prova” somministrata a ogni paziente – a un eccesso di cura. Il terapeuta, come certe “madri coccodrillo”, è oggi troppo preoccupato di lasciar cadere l’altro, come se questo fosse un neonato inerme, convinto di dover curare più con la sua presenza che con il suo pensiero. Una clinica dell’accudimento: i terapeuti stessi non riescono a credere nella necessità di una postura più paterna, meno claustrofilica, più indirizzata all’apertura all’esterno.
«Eppure (ma forse qui è in gioco una critica più generale della psicoanalisi contemporanea) ho l’impressione che tendiamo a dimenticare il contributo inestimabile dell’“assenza” allo sviluppo di una mente sana; a dimenticare che l’ansia da separazione riguarda spesso l’eccessiva vicinanza all’oggetto, dal quale temiamo di venire inghiottiti, il desiderio di allontanarci dall’oggetto, accompagnato dal terrore della sua potenziale vendicatività nel momento in cui quel desiderio venisse a manifestarsi».
La psicoanalisi si è fatta melanconica in una realtà condivisa con l’oggetto materno, dove il pensiero, la realtà del tempo e dello spazio risentono di una mancanza di interesse per il contesto collettivo.
All’inizio del libro Gohar Homayounpour riparte da Lutto e melanconia di Freud, anche nel ricordo di un lutto personale: lo strazio delle lacrime sul pavimento di un bagno quando viene raggiunta dalla notizia che il padre era morto mentre nuotava nel lago di Ginevra.
Ecco ancora il blu persiano che tiene lontano il malocchio, il blues che non erotizza ma trasforma la tristezza.
Da La Stampa – “Dal latte materno veniamo” non deve essere consegnata alla clinica della maternità medicalizzata
In memoria della scultrice Vera Omodeo, scomparsa da pochi mesi, la famiglia ha offerto alla città di Milano una scultura in bronzo da lei realizzata negli anni Ottanta, dal titolo Dal latte materno veniamo. Si tratta di una figura femminile ad altezza naturale, i fianchi cinti da un peplo, il viso chinato a fissare con sguardo tenero e serio il bimbo che sta allattando. Ne è nato uno scandalo in un certo senso assonante con la pruderie che a fine Ottocento accolse il dipinto di Gustave Courbet L’origine del mondo, che notoriamente ritrae una vagina, transitato per la collezione privata di Jacques Lacan ed esposto al pubblico solo nel 1995 al Museo d’Orsay. Oggi è scandalosa non la sessualità ma la relazionalità del rapporto escludente tra madre e bambino, la cura che è nutrimento materiale e simbolico, la «lingua della nutrice» propria della donna che ci ha allattato e portato in braccio introducendoci alla vita, che Dante diceva necessaria a parlare di cose d’amore.
Tutto inizia con il parere negativo dato dalla commissione di esperti incaricata di valutare le proposte di collocazione di opere artistiche in spazi pubblici cittadini, un organismo introdotto nel 2015, ai tempi della giunta Pisapia, composto dai referenti della Commissione del paesaggio, della Soprintendenza di archeologia e belle arti, della Direzione cultura e dell’Area governo del territorio del Comune di Milano.
Un parere dato all’unanimità, si legge nel verbale della riunione tenuta in remoto lo scorso 5 marzo, in cui si è «discusso di come la scultura rappresenti valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne l’inserimento nello spazio pubblico». Tanto da stabilire «che l’opera venga data in donazione a un Istituto privato (ad esempio un ospedale o un istituto religioso), all’interno del quale si maggiormente valorizzato il tema della maternità, qui espresso con sfumature squisitamente religiose».
Due frasi che si è indotti a leggere più volte, nel dubbio di non aver capito. L’allattamento materno, la nostra origine dalla madre, sarebbero riferimenti religiosi, non universalmente condivisibili, tali da scoraggiare l’inserimento nello spazio pubblico?
Vale la pena soffermarsi sull’accaduto uscendo dalla cronaca e dal suo utilizzo politico – il prevedibile attacco delle destre a difesa di una maternità ipostatizzata e retriva, l’intervento riparatorio del sindaco Sala, purtroppo risolto in una proposta che sembra non cogliere la questione simbolica in gioco, con la collocazione dell’opera nei giardini della clinica ostetrica Mangiagalli, consegnando dunque Dal latte materno veniamo al luogo della nascita medicalizzata che recentemente il Corriere della Sera ha chiamato «la fabbrica dei neonati», addirittura come messaggio contro la denatalità.
L’unanimità su una simile decisione non sarebbe stata possibile se la commissione non fosse partecipe di una comunità, di una koinè di parlanti, di un humus culturale che impone di riflettere sul senso del materno in un mondo che sembra diventato cieco alla bellezza, alla gratuità del puro accadimento della nascita, quasi che a contenere la generatività femminile fosse l’abbraccio secolare della religione, oppure la produzione di maternità al di là della madre. Eppure la maternità è quanto di più umano, e di più animale, ci sia. Quanto di più legato alla vita. E la vita non è religione, la vita è vita. Se la possibilità femminile di dar vita si trasforma in politiche della nascita, in ideologie della nascita, in tecniche della nascita, mettendo tra parentesi il nostro essere carne, corpi, animali, il nostro mondo sarà sempre più mortifero, incapace di proteggere la vita, perché sarà derealizzata, anche quella dei più piccoli, anche sotto le bombe, o in mare.
Mamma gorilla con il suo piccolo in braccio ci appare umana. Non religiosa, semplicemente materna, e nostra simile. Nella promiscuità sessuale dei primordi della nostra specie, secondo il giurista e antropologo Johann Jakob Bachofen, la discendenza matrilineare sarebbe stata all’origine di una società di diritto materno in cui vigeva la comunità dei beni, ma con l’instaurarsi del patriarcato, dunque della proprietà e del diritto positivo, il potere della generatività è stato sottratto alla donna, lasciandole l’aspetto biologico della gravidanza e del parto. Cosa farne – cosa ne farebbe la commissione – delle Mater matuta etrusche, delle Pomone romane, delle Grandi madri neolitiche e paleolitiche, delle Pachamama andine, di tutte le sculture di dee protettrici della nascita? E del simbolico materno agito in politica, a cominciare dalle Madri argentine di Plaza de Mayo che, dicendosi madri di tutti i desaparecidos e facendosi luogo di quella maternità, seppero sconfiggere una giunta golpista tra le più criminali? Cosa rispondere alle sopravvissute di Auschwitz quando, nella loro testimonianza, alcune affermano che la maggiore forma di resistenza al nazifascismo sia stata mettere al mondo figli, proprio perché si intendeva cancellare dal mondo loro e tutta la loro schiatta?
L’assunzione del materno è diventata una categoria politica laica che riguarda uomini e donne, madri e non madri, che prevede maternità concrete e maternità simboliche, non necessariamente di figli ma di idee, progetti, mondo.
In piazza Duse, dove era stata in origine prevista la collocazione della scultura, in risposta al parere negativo della commissione è nato un flashmob di protesta: donne che allattavano, liberamente, giocosamente. Sarebbe un bel segnale se Dal latte materno veniamo fosse collocata nel cuore di Milano, nel verde, tra le persone, i bambini, i gatti, come un messaggio di vita, affermazione di forza femminile, consapevolezza della nostra realtà di corpi non astratti ma in relazione.
Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona, 5 aprile 2024.
Secondo incontro del ciclo Pensare il presente 2024
Ida Dominijanni, Realtà e verità: la pornografia dell’orrore
Giulia Siviero, Il giornalismo occidentale e la narrazione del conflitto
Da Corriere della Sera – Olivia Maurel ha 32 anni, i capelli lunghi neri, un viso solare e un sorriso aperto. Ma la sua vita non è stata sempre rosa e fiori, quando aveva 17 anni ha capito di essere stata concepita attraverso la maternità surrogata e soltanto due anni fa ha avuto la prova definitiva che i suoi genitori avevano pagato una donna in Kentucky per portare avanti la gravidanza con i suoi stessi ovuli, quello che si chiama una surrogata tradizionale. Una scoperta che le ha creato gravi problemi psichici tanto da arrivare a tentare il suicidio. Oggi Olivia, che vive a Cannes in Francia, si batte con tutte le sue forze per l’abolizione universale della pratica ed è stata tra le promotrici della Dichiarazione di Casablanca, firmata nel marzo dell’anno scorso da 100 tra medici, giuristi, psicologi e sociologi di 75 nazionalità per arrivare a vietare la gestazione per altri in tutto il mondo come è accaduto per le mutilazioni genitali femminili. Ieri mattina Maurel è stata ricevuta dal Papa in Vaticano cui aveva scritto una lettera accorata. Oggi e domani all’Università Lumsa si svolgerà la Conferenza Internazionale di Roma sull’abolizione della maternità surrogata.
Ha incontrato il Papa, è stato emozionante?
«Voglio mettere in chiaro che io sono atea e femminista. E l’ho detto anche a lui. Per me è stato un po’ come incontrare un capo di Stato, lui è stato molto amichevole e simpatico. Abbiamo anche riso tanto. Ha detto e ripetuto più volte che la maternità surrogata è un mercato di donne e bambini. E poi mi ha parlato di come durante la gravidanza avviene uno scambio reciproco tra gestante e bambino, le cellule fetali entrano nella circolazione materna e le cellule materne entrano nella circolazione fetale. Mi ha colpito che sapesse questo, non succede tutti i giorni che le persone importanti siano così preparate. Per il Papa è sacrosanta la nostra battaglia per arrivare a definire la maternità surrogata reato universale».
Quando ha realizzato di essere nata attraverso una madre surrogata?
«Ho sempre saputo che c’era qualcosa che non andava: non avevo foto della mia nascita, mia madre era più grande delle altre madri. I miei genitori non me l’hanno mai detto ma io avevo comunque tanti segnali. Poi a 17 anni ho iniziato a fare qualche ricerca e ho visto che nel 1991, anno della mia nascita, la maternità surrogata era legale in Kentucky, dove sono nata. Allora qualcosa è scattato nella mia testa. E poi ho cominciato a parlarne apertamente ma non con miei genitori. Ma la prova l’ho avuta quando avevo 30 anni con il test del Dna che mi aveva regalato mia suocera. Ed è così che l’ho scoperto».
Perché non l’ha mai detto ai suoi genitori?
«Perché c’è un conflitto di lealtà, loro hanno fatto di tutto per averti, non vuoi andare loro contro quindi non gliene parli. Tutti i figli avuti tramite madre surrogata con cui sono in contatto fanno lo stesso. Non vogliamo ferire le persone che amiamo. Non ce l’ho con i miei genitori ma con le leggi che permettono questo commercio. Perché se fosse vietato il mercato non esisterebbe. Non ci sarebbe questo ignobile giro di denaro».
Lei ha avuto problemi psicologici a causa di come è venuta al mondo?
«Depressione, alcolismo, droghe, tentativi di suicidio. Ne ho passate di tutti i colori. Ancora oggi che ho un marito e tre figli sono seguita da uno psicanalista. Ho dovuto affrontare i problemi di identità causati dal fatto di non conoscere le mie origini. È importante sapere da dove vieni. Oggi con la maternità surrogata finisci con l’avere tre madri: quella che porta avanti la gravidanza, quella che ha venduto i suoi ovuli e la madre che ti ha cresciuto. È orribile».
Come hanno preso i suoi genitori questo suo attivismo contro la surrogata?
«All’inizio li ho persi, hanno pensato che ce l’avessi con loro e non con il sistema. Ancora oggi non ci parliamo ma sono in contatto con mio marito e conoscono, naturalmente, i bambini. Ma ora capiscono perché lo faccio. È una missione che compio per puro spirito altruistico, non sono di certo pagata. Io e mio marito abbiamo un solo stipendio, tre figli, e copriamo tutte le spese. Perché crediamo sia giusto».
C’è chi dice che è un gesto di altruismo, di amore verso chi non può avere figli.
«La ragione principale per cui sono contro la maternità surrogata è che i bambini non possono essere comprati. È contro qualsiasi principio etico. Io capisco che ci siano persone che soffrono di infertilità e che desiderano avere un bambino. Le capisco, so quanto sia difficile. Ma non è che siccome tu hai un desiderio devi calpestare i diritti delle donne e dei bambini. Non è un diritto avere un figlio».
C’è un’associazione che si batte a favore della legalizzazione che presenta la storia di due donne, nate da maternità surrogata che sono felici. Cosa risponde loro?
«C’è la libertà di espressione per fortuna e mi piacerebbe discutere serenamente con loro. Io ho sentito storie terribili di madri e di bambini . Se ci sono persone che, invece, sono felici sono contenta per loro ma questo non giustifica la pratica. Voglio dire anche durante la schiavitù potevi incontrare schiavi felici ma a un certo punto abbiamo detto: no questo è sbagliato. Non è etico. Eppure ancora oggi ci sono 36 milioni di schiavi nel mondo. La surrogazione di maternità non sarà mai etica perché sfrutta la donna e mercifica il bambino. Poi ti dicono che lo fanno donne benestanti ma non è vero. È solo la propaganda del mercato che cerca di dire: “È tutto bellissimo, perfetto e buono”».
La tesi è che se venisse regolato non ci sarebbero abusi.
«Ma non è vero. Guardi la Grecia che si vantava di avere una legge a prova di abusi e ha dovuto chiudere un’agenzia che aveva trafficato 160 donne. Non fermiamoci alle immagini che ci propinano sui social media. Ci fanno vedere solo il lato bello ma hanno comprato un bambino. Guardiamo a quello che succede in Ucraina, in Nigeria, in Kenya».
Cosa pensa della legge che sta per essere approvata in via definitiva in Italia?
«Penso che sia fantastica. Va perseguito il reato compiuto all’estero, è lo stesso problema che abbiamo in Francia. Tornano con il bambino in braccio e mettono lo Stato davanti al fatto compiuto. Non è così che si fa. Quindi la legge italiana è un ottimo punto di partenza ma l’obiettivo è il bando universale».
Lei due settimane fa era alle Nazioni Unite. A che punto è la battaglia per il bando universale?
«Sì ho parlato a un evento all’Onu e lo considero un passo avanti. Certo siamo solo all’inizio ma bisogna continuare a lottare come è successo per la schiavitù, anche se non voglio comparare le due cose. Dobbiamo parlare con la gente e spiegare loro cosa è la maternità surrogata, cosa significa affittare il corpo di una donna e comprare un bambino. Una volta che mostri i contratti, che parli della realtà la gente capisce. Perché le madri surrogate non possono parlare, rischiano una causa, dobbiamo parlare noi».
Da paceterradignita.it – Io partecipo alla politica istituzionale per avere la possibilità di votare contro la guerra alle elezioni europee. Da due anni la aspetto, nel sito c’è il mio articolo: Possiamo votare contro la guerra? Due anni fa tra i partiti c’era il totale silenziatore generale. Forse ora potremo, se non credete alle false imitazioni.
Al link http://paceterradignita.it ci sono tutti i luoghi dove firmare con il notaio.
A Milano: Banchetti Nord ovest - Pace Terra Dignità (paceterradignita.it)
Da l’Unità – Mi chiamo Ben Arad, ho diciotto anni e mi rifiuto di arruolarmi nell’IDF. Mi oppongo alle uccisioni insensate, alla scelta di far morire di fame e malattie e al sacrificio di soldati, civili e ostaggi per una guerra che non può e non vuole raggiungere gli obiettivi dichiarati e che potrebbe degenerare in una guerra regionale. Per queste e altre ragioni, mi rifiuto di arruolarmi.
Non prenderò parte a una guerra di vendetta, che causa solo distruzione e non darà sicurezza ai cittadini di Israele.
«Se tutto ciò che hai è un martello, tutto sembra un chiodo». – Penso sempre a questa frase quando considero il comportamento di Israele dall’inizio della guerra. L’unico strumento che conosciamo è quello militare. Pertanto, la soluzione a ogni problema deve essere militare.
Ma la nostra strategia di deterrenza non si è dimostrata efficace. Il terrorismo non si può fermare con le minacce, perché i terroristi non hanno molto da perdere. Inoltre, l’uccisione senza precedenti di civili innocenti a Gaza, la fame, la malattia e la distruzione di proprietà non fanno che alimentare la fiamma dell’odio e del terrore di Hamas; prima o poi, pagheremo per il dolore dei palestinesi.
Il 7 ottobre, Israele si è svegliato con un attacco brutale mai visto prima. Bambini, donne e anziani sono stati vittime di atrocità che nessuno dovrebbe subire. La barbarie e la crudeltà dell’attacco avrebbero dovuto sradicare ogni speranza di pace e di un futuro condiviso. L’impatto del 7 ottobre sul popolo di Israele è ancora immenso, soprattutto perché più di 130 ostaggi sono ancora tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza.
Da quel sabato, Israele ha condotto una campagna omicida senza precedenti, non solo contro Hamas, ma anche contro l’intero popolo palestinese. A Gaza si contano più di 30.000 morti, di cui si stima che il 70% siano donne e bambini. Ogni giorno, i funzionari israeliani minacciano un’offensiva di terra a Rafah, dove si sono rifugiati più di 1,5 milioni di palestinesi. L’ingresso di Israele a Rafah causerà la morte di decine o centinaia di soldati israeliani e di migliaia o decine di migliaia di palestinesi. Metterà in pericolo la vita degli ostaggi e farà aumentare in modo significativo i combattimenti con Hezbollah in Libano.
E per cosa? Cosa si ottiene con questi combattimenti? La guerra non riporterà indietro gli ostaggi. Non resusciterà i morti. Non libererà gli abitanti di Gaza da Hamas e non porterà alla pace. È vero il contrario: i combattimenti continueranno a uccidere ostaggi, metteranno in pericolo altri ebrei e palestinesi, perpetueranno il dominio delle organizzazioni terroristiche a Gaza e garantiranno che non ci sarà un orizzonte di pace.
L’opinione pubblica israeliana si trova di fronte a una scelta: mantenere l’attuale ciclo di violenza e sostenere una realtà di distruzione che approfondirà l’odio e creerà un’escalation su tutti i fronti, oppure scegliere un’altra strada, basata sulla sacralità della vita, in cui smettere di mandare persone bellissime a essere uccise o ferite in orribili battaglie. Potremmo garantire il ritorno di tutti gli ostaggi ancora in vita, fermare le uccisioni insensate a Gaza, condannare la violenza dei coloni in Cisgiordania e impedire lo scoppio di un’altra guerra contro Hezbollah e l’Asse della Resistenza?
L’opinione pubblica siamo noi. Abbiamo un grande potere che i governi e le organizzazioni corrotte che ci rappresentano non hanno. Pertanto, la spinta al cambiamento deve venire da noi. Possiamo muoverci verso la pace solo attraverso un movimento sociale intransigente che si impegni per la comunicazione e la de-escalation. Dobbiamo sempre usare il pensiero critico, guardare al quadro generale e lottare per la pace, l’uguaglianza e la verità.
(*) Ben Arad, diciottenne di Ramat Hasharon, è arrivato questa mattina al campo di arruolamento di Tel Hashomer e ha rifiutato di arruolarsi nell’esercito israeliano per protesta contro la guerra a Gaza. È stato condannato a 20 giorni di prigione militare, che dovrebbero essere prolungati quando rifiuterà nuovamente l’arruolamento. Arad si unirà a Tal Mitnick e Sofia Orr, che stanno scontando pene rispettivamente di 105 e 40 giorni per il loro rifiuto. Ben Arad ha deciso di rifiutare l’arruolamento a causa della guerra a Gaza. Il gesto di Tal Mitnick gli ha dimostrato che è utile rifiutare pubblicamente.
Da Facebook – Nel 2008 Judith Butler pubblicò un libro, intitolato Frames of war e mai tradotto in italiano, in cui approfondiva le questioni relative alle guerre del dopo-11 settembre già affrontate in Vite precarie. La tesi di Frames of war era – è, quel libro va riletto oggi – che c’erano dei quadri interpretativi sottostanti alle pratiche e alle ideologie delle guerre contro il terrorismo, e che questi quadri interpretativi riguardavano sostanzialmente una gerarchizzazione dell’umano su base razziale, per cui certe vite contano e certe altre non contano niente. Quelle tesi, allora pionieristiche, sono diventate nel frattempo alquanto diffuse grazie allo slogan “Black lives matter”, ma soprattutto risultano molto facilmente verificabili nel regime di guerra in cui viviamo oggi. A proposito del quale c’è chi, nel mainstream guerrafondaio, va lamentando un presunto “doppio standard” dei pacifisti, che sarebbero – saremmo – zelanti nel condannare l’aggressore quando è Netanyahu ma non quando è Putin. La strage efferata dei 7 disgraziati volontari della Ong americana a Gaza mi dà l’occasione per replicare sommessamente che in compenso nel mainstream lo standard è assolutamente unitario, ed è uno standard razzista, per cui ci vogliono 7 vittime “accidentali” e occidentali perché si realizzi quello che 30.000 e passa vittime palestinesi non sono state sufficienti a far realizzare, e cioè che quello che sta accadendo a Gaza è aldilà di qualunque livello minimo di civiltà e di accettabilità. E vale lo stesso per la guerra d’Ucraina, dove i morti russi non sono mai, mai entrati nel conto perché considerati meno occidentali o meno occidentalizzabili, e dunque meno umani, degli ucraini. Non so quanto dovremo ancora aspettare prima che appaia chiara la débâcle dei tanto sbandierati valori europei e occidentali in questa situazione. Perché, guardate, è proprio una débâcle.
Da Noi Donne – È arrivato il tempo del punto di vista femminile: «sia noi che loro», parte dei tre punti essenziali per costruire un dialogo “binazionale” verso un’azione di pace.
Il senato accademico dell’Università di Torino ha accolto la richiesta di studenti e professori di non partecipare al bando Maeci 2024 (di collaborazione scientifica per progetti di elettronica dual use con università israeliane). La mozione di studenti e professori richiedeva questa rinuncia al bando per protestare contro l’“educidio” in corso nella striscia di Gaza. La decisione è stata presa democraticamente, quindi gridare immediatamente allo scandalo non sembra comunque appropriato: se ci fosse solo una decisione accettabile la riunione del senato accademico sarebbe puramente formale. Inoltre, contrariamente a quanto viene detto, questo non interrompe tutte le collaborazioni con Israele. La decisione stessa non si può ridurre a un boicottaggio accademico, poiché il bando è stato concepito dal governo, non dalle università: comunque è un’occasione di riflessione su come gli scambi scientifici possano e debbano svolgere la loro missione di reciproco arricchimento culturale e scientifico, ma anche di pace. Infatti il punto del mantenere gli scambi universitari non è di permettere ai professori e agli studenti di andare avanti come se niente fosse in mezzo alle guerre: questo gli studenti non lo accetteranno mai, e per fortuna. Si tratta piuttosto di conservare uno spazio di dialogo, o almeno di non belligeranza e di controversia civile anche in mezzo a tali vicissitudini. Ma preservare il dialogo e la pace è una vera e propria azione, che si può articolare almeno in tre punti.
Il primo puntoè considerare gli scambi di ricerca, individuali e tra università, privilegiando il criterio del dialogo. Nel caso di Israele e della Palestina, una terra con due popoli, gli scambi si devono avere con ambedue i popoli: come scrivono i professori torinesi che volevano partecipare al bando Maeci, «le università sono ovunque luoghi e cenacoli di pensiero critico». Concretamente ciò significa che se si hanno scambi con l’università di Tel Aviv o Haifa se ne cerchino anche con Bir Zeit o Al Quds, cioè con una delle quindici università in Cisgiordania o una delle undici università di Gaza. Solo questo permette di capire come vivano gli uni e gli altri. Nella mia esperienza, avere scambi con università israeliane è facile, mentre le condizioni dei ricercatori palestinesi sono radicalmente cambiate dopo il 2000. Alcuni colleghi palestinesi di Al Quds sono dovuti emigrare da Ramallah al Canada, o non hanno potuto muoversi perché apolidi, mentre altri sono a Gaza attualmente senza contatti e possiamo solo sperare che stiano bene, poiché tutte le università sono state bombardate. Se teniamo veramente alla cooperazione e al dialogo con gli abitanti di quella terra, malgrado queste difficoltà, dobbiamo coltivare il dialogo binazionale, secondo l’espressione degli attivisti sul posto. I gruppi di attivisti della pace sono tra israeliani e palestinesi dei territori occupati e non solo con “arabi israeliani”, i soli che possono iscriversi alle università israeliane. Sono costituiti da persone in lutto per figli e parenti o da disertori. Hanno imparato che non si tratta di stabilire colpe, ma di incontrare delle persone e di lavorare su ciò che si ha in comune. Le gare a chi ha sofferto di più o il “o noi o loro” non possono portare che ad altri lutti e a vite segnate dal dolore e dall’incertezza. Le maggioranze dei due popoli sono contrarie alle politiche dei due governi. È arrivato il tempo del punto di vista femminile: “sia noi che loro”. Intendo dire il punto di vista che in genere hanno le donne nella società, o quello che hanno scelto le donne del Rwanda quando la guerra tra tutsi e hutu aveva decimato i maschi. Anche con noi italiani, solo il dialogo binazionale di Israele e Palestina è dialogo a pieno titolo, che rafforza la parte migliore del popolo israeliano e di quello palestinese e contribuisce alla pace. E noi, tanto più come popolo mediterraneo, abbiamo un ruolo da giocare a questo livello. Per la formazione universitaria completa è sempre stato necessario andare a conoscere modi di studiare e contenuti diversi, la peregrinatio studiorum. In questo senso gli scambi con le università israeliane sono da raccomandare, se sono legali.
Il secondo punto dell’azione di pace sarà quindi verificare la legalità di questi accordi. Gli accordi con università israeliane costruite negli insediamenti in Cisgiordania sono illegali quanto gli insediamenti stessi. Questo è il caso di alcuni nuovi campuses dell’Università di Gerusalemme a Gerusalemme Est e certamente dell’università Ariel. Università statali italiane non devono avere contratti di scambi scientifici con istituzioni illegali, e se questo accade ancora dovrebbe essere evitato.
Analogamente, e questo sarà il terzo punto dell’azione di pace, si può ragionare per quanto riguarda gli scambi scientifici e tecnologici a scopo bellico, o ricerche dual use. In questi giorni il CNR ha elaborato delle linee guida che vanno in questo senso, pur mantenendo il principio della contrarietà al boicottaggio. Infatti, non collaborare sul piano bellico non significa essere nemici o non amici di Israele, ma semplicemente non partecipare alle sue guerre, né alle guerre di altri, proprio in coerenza con l’intento di preservare le università e la ricerca come spazi di dialogo.
Boicottare le università israeliane è ancora un altro livello di politica, non implicato dai punti dell’azione di pace descritta sopra. Il dialogo deve permetterci di esprimere pareri diversi, insegnarci a tollerare; a sopportare anche differenze radicali. Voglio ancora sperare che ciò sia possibile, idealmente gli studenti dovrebbero poter assistere a un dibattito tra esponenti del governo israeliano ed esponenti di Hamas. Meno bombe e più parole: la parola è prioritaria. Certo, questo presuppone la volontà di ascoltare le due ragioni e addirittura di trovare una soluzione che ne tenga conto. Dall’assassinio di Rabin la politica non ha espresso questa volontà. Speriamo che questo nuovo incendio sia l’occasione del cambiamento. In caso contrario si potrà ricorrere al mezzo non violento del boicottaggio, ma solo come extrema ratio, come mezzo per creare le condizioni del dialogo, e forse l’università non è il luogo più indicato, proprio perché è fatta per discutere.
(*) dei Disarmisti esigenti
Da Il Fatto Quotidiano – Utilizzare i termini al maschile non è né neutro, né neutrale. Così il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha voluto ribaltare la prospettiva. La presidente, la rettrice, la segretaria, le professoresse, la candidata, la decana: tutto al femminile. È quanto prevede il nuovo Regolamento generale di ateneo che in un comma introdotto all’articolo 1 specifica che «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone», quindi anche quando riguardano degli uomini.
A spiegare la genesi è stato il rettore Flavio Deflorian (o meglio, la rettrice per il nuovo regolamento). Tutto nasce dalla necessità di evitare di appesantire il documento specificando i termini, in tutti i passaggi, sia al maschile che al femminile: da qui è arrivata la decisione, per rendere tutto più fluido, di declinare tutto su un unico genere. E la scelta però è ricaduta per la prima volta su una bozza con «femminile sovraesteso» per «mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione». «Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso», racconta Flavio Deflorian: «Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni». Un “segnale” che il cda ha approvato all’unanimità.
Al netto della millenaria mitologica voglia maschile di non dipendere dalle donne per nascere, ancora oggi ben rappresentata dalla tecnologia riproduttiva che cancella la relazione tra chi sta diventando madre e chi sta diventando bambino/a e il loro futuro, quanto conta per gli uomini non poter partorire, non avere questo sapere corporeo quando decidono di fare la guerra? Cosa è per gli uomini la vita e la morte, e quanto spazio ha nel loro vivere la nascita e la morte? Me lo sto chiedendo da un po’ e so che non c’è una risposta perché questa relazione è un tabù, per le donne che spaventate dal patriarcato non sanno valorizzare il loro potere e per gli uomini che non vogliono interrogarsi e preferiscono inventare.
Ho appena letto l’interessante libro di Rosella Prezzo Trame di nascita sull’importanza della nascita, i suoi miti maschili, la morte, gli uomini e le donne e dal 2015 lavoro come artista sulla sapienza del far nascere del corpo femminile, la sua preziosità. Da tempo, penso che la nascita e la morte siano viste, sentite, valutate in modo differente tra uomini e donne. Lo stesso vivere e sentire la vita, persino l’amare credo siano diversi tra maschi e femmine e penso che questa differenza incida nello stare e nel fare mondo anche nei confronti della guerra. I femminicidi sono un macabro esempio dell’invenzione maschile del far morire con qualsiasi arma, anche davanti ai propri figli/e. È la forza fisica a far muovere le armi, e le armi unite alla forza “virile” sono all’origine della guerra. Non si può dire non mi riguarda, io non la faccio la guerra. Chi non la fa si chiede meno di quello che potrebbe e forse dovrebbe. C’è un velato e inconscio sentire maschile non detto: come se la guerra cadesse dall’alto e fosse un atroce invisibile volere divino, e questo non detto accomuna i sessi nell’esercizio del potere e nel desiderio di allontanare da sé qualsiasi responsabilità, convincendo chi vota che lo fanno per la democrazia o per il potere da restaurare nel paese. Non vogliono colpe nelle mortali tragedie che creano, incapaci della relazione con l’altro e della necessità della mediazione costante nell’orizzonte prezioso del limite. Quando aspetti che i nove mesi della gravidanza si concludano con la nascita sai che quello è il limite per far nascere la vita, e vuoi dare la vita, allora medi su tutto fino a immobilizzarti se serve. Io l’ho fatto e non sarò stata l’unica. È un lavoro di tessitura continuo sul limite, quotidiano, ora per ora, di cura e attenzione che gli uomini non sembrano portati a fare; non ne hanno bisogno, non fanno nascere. E lì nella tessitura tra un corpo che cresce e l’altro che lo fa crescere dentro di sé, nasce la relazione con l’altro o l’altra uguale a te. Non è così per gli uomini.
Gli uomini della guerra e gli altri che non si interrogano sembrano non sapere cosa sia la relazione tra umani e umane, addirittura anche tra loro stessi, all’interno del loro stesso sesso visto che usano ancora la guerra per risolvere le insidie che si coltivano l’un l’altro. Avendo rinnegato fin dai miti il nascere da donna, non sono in grado di capire fino in fondo come ci si relaziona con l’altro e l’altra, anche se nati da donna e sembra proprio non vogliano riconoscere questa nascita per allontanare una verità disturbante sul potere reale. Non hanno mai fatto spazio a un altro/a nel loro corpo, non l’hanno mai sentito/a crescere nel grembo, non hanno mai respirato anche per lui o lei, non gli hanno mai parlato senza parole perché non servivano dentro di te, e non l’hanno mai partorito/a. Non hanno mai costruito il tempo dell’umanità col loro corpo mettendo al mondo, o saputo cosa voglia dire far nascere aspettando il tempo che serve, finché un altro/a possa, dentro di te, essere in grado di venire alla luce e poi metterlo/a nel mondo e farlo diventare negli anni una persona adulta. Non un soldato, non un uomo armato. Non gli viene in mente alle future madri.
Queste relazioni particolari non fanno parte del bagaglio di vita maschile, a qualsiasi ideologia si rivolgano, e la guerra lo rende perfettamente visibile. Il corpo maschile non aiuta gli uomini a capire la vita, non può, non è fatto per far nascere ma solo per contribuire al concepimento insieme alla donna, come invece fa il corpo delle donne che nelle sue trasformazioni le aiuta a capire come far vivere, a come privilegiare la vita sulla morte. Una vita che va vissuta tutta intera prima di morire, che accadrà quando sarà ora per il tempo che si è avuto in dote. Senza che qualcuno armato o dietro una scrivania o davanti a un microfono si senta in diritto di dare o far dare in anticipo la morte: per prepotenza, aggressività, onnipotenza, senso di proprietà, arretratezza emotiva. Primitività?
Comunque gli uomini del potere rilanciano sempre, come con le palline da tennis, su tutto, in un atto di “virilità” costante anche se ci sono le armi nucleari. Tutto gli perde di senso quando si attaccano alle ideologie e la vita degli altri non conta più. Conta solo la tua, vissuta da arcaico patriarca aspettando da millenni la morte come non ci fosse mai stata una nascita da vivere prima di morire.
Agli uomini, sul nascere, è richiesto un lavoro intellettuale raffinato dal loro corpo che non li aiuta a sentire il farsi della vita, come fa modificandosi quello delle donne, per provare a capire che vuol dire, visto l’esiguo rapporto fisico che intrattengono con la nascita. Una raffinatezza cerebrale che però non fanno o fanno male o superficialmente; preferiscono dare per scontate troppe cose della vita e non le sanno e non vogliono saperle. Le femministe e anche alcuni uomini più illuminati dicono per invidia del potere sulla vita delle donne. Io non lo so di preciso, ma spero intensamente che non sia una questione biologica e sia davvero solo invidia perché forse così rimane aperta una possibilità di incontro che ci possa salvare dall’uomo armato (e dalle forze armate). Solo un uomo, un capo religioso importante e particolare, differente dagli altri uomini: Papa Francesco, ha ragionato sul nascere da donna il primo gennaio 2020 nella sua omelia Nato da donna dove finalmente cita l’importanza del grembo delle donne, mai vista, tranne in Piero della Francesca, nella rappresentazione artistica ufficiale della Natività, salvando, mettendo in luce il grembo di tutte noi insieme a quello di Maria. Ma gli uomini della guerra non lo ascoltano, men che meno quando implora la pace per vivere. Sapranno gli uomini guardarsi dentro diversamente da come lo fanno oggi, sapranno salvare le loro e le nostre vite mettendosi all’ascolto di chi sa far nascere per imparare il valore del vivere? Cominciamo a dirglielo. Per iniziare a mettere fine alle guerre imparando ad ascoltare e a guardare, ma non il loro ombelico.
Yael Deckelbaum, 44 anni, nata a Gerusalemme, è una cantautrice e attivista israeliano-canadese. Si è esibita sullo stesso palco con artisti come Suzanne Vega e Chris Cornell. Nel 2016, la sua canzone “Prayer Of The Mothers”, scritta per sostenere Women Wage Peace – il movimento pacifista fondato da donne israeliane, tra cui l’attivista Vivian Silver, uccisa da Hamas il 7 ottobre nel suo kibbutz Be’eri – è diventata un inno internazionale per la pace in tutto il mondo. È attualmente impegnata in un solo-tour in Europa. È la sesta testimonial della campagna di Avvenire #donneperlapace: per scoprire tutto sul progetto e su quello che ci proponiamo, clicca qui. E per ascoltare una delle sue canzoni più celebri, guarda questo video di Avvenire.
Da Avvenire – Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».
Partiamo dall’inizio, allora: il 7 ottobre.
No: cominciamo dal 4 ottobre, perché è lì che colloco il mio “inizio”. Tre giorni prima del massacro, ero a un evento di Women Wage Peace (movimento pacifista fondato da donne israeliane) e Women of the Sun (gruppo pacifista di donne palestinesi) a Gerusalemme e sul Mar Morto. La sera ho suonato sul palco “Prayer Of The Mothers”, una canzone in cui tutte, israeliane e palestinesi, potevano riconoscersi. Eravamo migliaia, insieme, unite dallo stesso desiderio di crescere i nostri figli in pace. Sembrava tutto così “possibile”. Tre giorni dopo ho preso un volo per la Germania: avevo un concerto. Mi sono svegliata la mattina del 7 ottobre con la notizia della strage. Dovevamo suonare, la sera. Lo staff aveva sistemato all’ingresso un grande cartellone con il mio nome, il mio volto, la data e una scritta che richiamava il titolo di una mia canzone: “October 7th – War Is Not A Woman’s Game”, (7 ottobre – La guerra non è un gioco da donne). Ironico, no? Noi eravamo lì, sotto choc, a fare e rifare il numero di amici che non rispondevano più al cellulare. Ci hanno proposto di annullare l’evento. Abbiamo detto di no. Poi ci siamo messe in collegamento con alcune amiche arabe. Abbiamo cercato, insieme, di capire l’incomprensibile.
Ci siete riuscite?
Francamente, no. Ero completamente distrutta. Non potevo parlare, nemmeno pensare. Poi è successo qualcosa: una delle persone a me più vicine, Michal Halev, il cui unico figlio, Laor Avramov, è stato assassinato al Nova Festival, sebbene sopraffatta da un dolore insopportabile ha lanciato un appello a guarirci a vicenda invece di ferirci ancora e ancora. Ha chiesto di farlo affinché altre mamme non dovessero soffrire come stava soffrendo lei. Mi ha indicato una strada.
Cosa prova quando vede le immagini di Gaza?
Mi sento male. Terribilmente male. E impotente di fronte a tanto dolore. Mi si spezza il cuore: il mio cuore è davvero diviso in due. Ho persone della mia famiglia nell’esercito, persone che amo profondamente: sono soldati delle Forze di Difesa israeliane, stanno combattendo là dentro. So cosa sta succedendo a Gaza. Quello che non so è come tutti noi, israeliani e palestinesi, si sia potuti arrivare a un punto così basso. Capisco che il Paese in cui sono cresciuta è stato costruito sul trauma di migliaia di anni di persecuzione. Il 7 ottobre c’è stato un pogrom contro bambini, uomini, donne, anziani, arabi, soldati e pacifisti. I terroristi non hanno fatto alcuna differenza. Poi sono arrivati gli attacchi dall’esterno: quelli di un mondo che ha rapidamente dimenticato ciò che Hamas ha fatto, o non lo ha dimenticato affatto e lo giustifica. La gente ha cominciato a dividersi, scegliendo una parte piuttosto che un’altra. Mi sono chiesta a lungo a quale “fronte” appartenessi. Poi ho accettato l’idea che le cose sono molto più complicate di così, che non esiste il bianco e il nero. Che ognuno, ogni singola persona, ogni singolo giorno, deve trovare il proprio ruolo.
Qual è il suo?
Sono una pacifista, in un tempo in cui la maggior parte delle persone crede che l’unica alternativa sia la guerra, perché ormai hanno mille prove che non abbiamo partner per la pace. Inizierò da qui. Dalle storie individuali. Mentre nel quadro ampio vedo una sola prospettiva possibile: la soluzione dei Due Stati, che però nessuna delle due leadership – né la nostra, né la loro – vuole veramente. Il governo Netanyahu non lavora per il bene di Israele: il 7 ottobre è stato preceduto da otto mesi in cui, ogni fine settimana, centinaia di migliaia di persone hanno protestato in piazza contro di lui. Guardatevi intorno: ovunque ci sono graffiti, scritte, cartelli, sit-in che chiedono un cambio di governo. Ma non è così facile ottenerlo.
Lei ritiene che le donne debbano guidare il processo di costruzione della pace. Perché?
Perché sono le donne che portano nel mondo la vita. Perché la natura ci ha predisposte a proteggerla. Abbiamo una maggiore attitudine al dialogo, alla conciliazione: è molto più difficile condurre una donna alla violenza piuttosto che un uomo. Abbiamo meccanismi diversi.
Le donne israeliane hanno organizzato una ferma campagna per protestare contro il silenzio del mondo e delle istituzioni internazionali sugli stupri di Hamas durante e dopo il massacro del 7 ottobre. Come spiegare questa mancanza di solidarietà?
Non riesco a spiegarlo. È stato davvero deludente. I corpi delle donne israeliane, delle donne ebree, sono stati violati nel modo più atroce. Non so davvero come possa essere mancata l’empatia di altre donne nel mondo. Mi rattrista questa moralità selettiva. Vorrei che le donne potessero stare insieme l’una per l’altra. Vorrei che potessimo imparare.
Lei è impegnata in un nuovo tour da solista. L’Europa è attraversata da una forte ondata di antisemitismo. Lo sente sulla tua pelle?
Prima di partire ero molto spaventata: è una paura profonda, poiché condivido la storia di sei milioni di ebrei uccisi. Una parte di me voleva solo che mi isolassi da questo mondo. Molte persone scrivono cose brutte sui miei social, mi taggano semplicemente perché sono ebrea e israeliana. Ma adesso sono in viaggio, e ho concerti sold-out alle spalle dove ho incontrato centinaia di persone pacifiche e amorevoli. E lo so: l’odio è forte, ma ci sono altre voci. Tante! Mi sento di dire, con la responsabilità di chi ha un microfono in mano: se davvero volete aiutare i palestinesi e gli israeliani in questo tempo difficile, invece di istigare altro odio aiutateci a sostenere la pace. E c’è un rimedio: Etty Hillesum – (scrittrice ebrea-olandese, vittima dell’Olocausto) – ha scritto questo nel suo diario: ad ogni atto di odio dovremmo rispondere con un atto d’amore. È quello che sto cercando di fare.
Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».
Da Avvenire – L’attentato di Mosca da parte dell’Isis ha impresso un’ulteriore scossa al già precario stato delle relazioni internazionali. I fronti si moltiplicano e sembra quasi che il mondo stia precipitando in una sorta di guerra civile globale.
E mentre i venti di guerra diventano ogni giorno più forti, lo stato del pianeta continua a peggiorare. L’ultimo dato rilasciato dall’Organizzazione metereologica mondiale dice che nel 2023 la media delle temperature sul pianeta Terra ha toccato +1,45 gradi Celsius rispetto al livello pre-industriale. Siamo ormai alla soglia critica indicata dalla Cop di Parigi del 2015. E mentre il pianeta brucia, aumentano i conflitti armati. Al punto che, per quanto assurda, oggi non si può escludere un’escalation verso una guerra globale.
Il risultato è il dato drammatico a cui ha fatto qualche giorno fa il segretario generale dell’Onu: il numero di coloro che soffrono la fame (330 milioni) è raddoppiato da 2019 a oggi. È come se la società degli uomini (specie i maschi!) continuasse a rifiutarsi di ascoltare la realtà che in tutte le maniere ci sta mandando messaggi di allarme.
La crescita vorticosa degli ultimi decenni – che ha permesso di raddoppiare il Pil del mondo in meno di trent’anni, cosa mai vista nella storia – è stata un grande successo. Ma lascia un’eredità pesantissima. Dobbiamo infatti affrontare una serie di problemi che, apparentemente diversi, rimandano in realtà alla medesima radice: l’idea tipicamente moderna che le persone fisiche e quelle giuridiche (imprese e Stati) siano individualità sovrane dotate di una capacità assoluta di autodeterminazione.
Il problema è che oggi sappiamo come tale presupposto moderno – fondamentale per permettere all’umanità di fare il salto che ha fatto in termini di aumento del benessere, riduzione della povertà, diffusione dell’istruzione, miglioramento della sanità, allungamento della vita media – non abbia fondamento. E lo sappiamo perché la stessa scienza, avvalorando l’antica sapienza religiosa, ci dice ormai da più di un secolo che non esiste forma di vita che non sia in relazione ciò che viene prima, con ciò che le è intorno, con ciò che sta dopo e oltre. Tutte le grandi questioni contemporanee ci fanno capire che il nostro rapporto con la realtà ambientale e sociale, per quanto potente, sia viziato da codesto errore.
È come se vivessimo con un ritardo cognitivo: noi oggi sappiamo che tutto è in relazione, ma il nostro modello di sviluppo continua a procedere come se invece la Terra fosse popolata da atomi individuali che perseguono i propri interessi e desideri indipendentemente da tutto il resto.
Purtroppo, non esistono ricette in grado di risolvere i problemi attuali senza rimettere in discussione tale presupposto. Anzi, se pensiamo che sia possibile districare la matassa continuando ad agire secondo la logica fin qui seguita – ad esempio immaginando che la sostenibilità ambientale sia solo una questione tecnologica e di efficientamento dei processi di produzione e consumo – i problemi sono destinati ad acutizzarsi. Nel caso specifico, producendo tensioni politiche così forti da bloccare il raggiungimento del risultato sperato.
Ma la stessa cosa vale a proposito delle relazioni internazionali. L’attuale grave crisi mondiale è figlia di un pensiero politico inattuale. Con l’invasione dell’Ucraina, l’errore di Putin deriva dalla pretesa di trattare come locali questioni che in realtà sono anche globali. Come se fossimo nell’800 o nel 900. E invece, in questo come in altri campi, da quello migratorio a quello religioso, la pur necessaria esistenza di confini – condizione per riconoscere la pluralità delle culture – si può dare oggi solo in relazione all’intero pianeta. Il che ha importanti implicazioni sulla necessità assoluta di trovare una via d’uscita negoziale del conflitto in corso. Perché l’unica possibilità per il futuro dell’umanità è la convivenza tra culture diverse in un pianeta diventato piccolo.
Non è cosa da poco. Si tratta di rivedere alcuni dei presupposti su cui abbiamo costruito gli ultimi secoli. Ma per quanto il passaggio sia arduo, non possiamo far altro che cominciare a percorrere con intelligenza questa nuova fase storica. Sperando, un po’ per volta, di trovare le vie capaci di tradurre in forme istituzionali economiche e sociali questa nuova consapevolezza. In mezzo a tante difficoltà, c’è una buona notizia: se si comprende la natura del problema e ci si muove nella direzione di una migliore comprensione della realtà e del posto dell’umanità in essa, si apre il cammino verso un mondo migliore di quello attuale. Un’idea importante che dobbiamo condividere con i giovani: al di là di quello che abbiamo fin qui raggiunto, c’è ancora molto da fare. La speranza non è morta. Basta cambiare lo sguardo.
Da la Repubblica
Soprattutto è bene ricordare che sia la mutilazione dei genitali femminili che l’imposizione del velo sono, peraltro, aspetti fortemente influenzati dalla cultura dei luoghi. In Africa, infatti, la mutilazione è praticata sia dai musulmani che dagli animisti e dai cristiani, non per ragioni religiose ma di costume, dettate dalla volontà di esercitare il controllo sulla sessualità femminile. L’aver confuso questa pratica con un rituale religioso è il tipico esempio di un errore diffuso, quello o di radicalizzare una fede senza criticarne storicamente gli abusi o di esecrarla identificandola con gli abusi stessi.
Si pensi alla Sharia. In occidente, ma anche per alcuni musulmani, essa è diventata sinonimo delle leggi patriarcali. In realtà la Sharia, letteralmente “la via”, nella fede musulmana è la volontà di Dio rivelata al profeta Maometto. Il corpus giurisdizionale, invece, chiamato Fiqh, che significa “comprensione”, fa riferimento al processo dei tentativi umani di discernere ed estrarre le norme giuridiche dalle sacre fonti dell’Islam, vale a dire il Corano e la Sunna (la pratica del Profeta, come contenuta negli hadith, Tradizioni) e le “leggi” desunte da questo processo. Il Fiqh, come ogni altro sistema di giurisprudenza, è umano e legato a coordinate temporali e locali.
L’Islam oltre a non essere una religione dogmatica, si fonda sul rapporto diretto del musulmano con Dio. Non esistono intermediari e l’imam è una figura che fa da ponte mettendo a disposizione della comunità la propria conoscenza profonda dei testi sacri e assumendosi il compito di condurre la preghiera. Ogni fedele rimane però l’unico responsabile della propria comprensione e applicazione dell’insegnamento del Corano. Per questo la corretta lettura e la profonda conoscenza del Corano sono strumenti fondamentali di interpretazione dello stesso, grandemente influenzati dal livello di istruzione e purtroppo potenzialmente manipolati da chi ne detiene il dominio impedendo soprattutto alle donne, ma non solo, di essere primi interpreti della parola di Dio.
Per questa ragione, fin dai tempi di Huda Sha’arawi, nata in Egitto nel 1879, il femminismo musulmano esortò le donne a iniziare l’importante compito di leggere il Corano attraverso occhi femminili. Una delle persone che ha dedicato con passione la sua vita a questo compito è Amina Wadud, studiosa dell’Islam e che ha adottato nei suoi confronti un approccio riformista.
Lei l’hijab lo indossa solo nelle occasioni pubbliche: il Corano, dice, non impone il velo, ma raccomanda piuttosto la modestia dell’abbigliamento sia per l’uomo che per la donna. La ragione per cui lo indossa in pubblico è politica, rappresentando il velo il simbolo più eloquente dell’Islam in Occidente. Essendo diventato però, a causa dell’islamofobia, simbolo politicamente negativo, Amina ha deciso di indossarlo come segno di identificazione con le persone più oppresse, intendendo per oppressione anche il pregiudizio culturale dell’Occidente verso le donne musulmane.
Purtroppo è vero che l’intensificarsi dell’islamofobia, invece che aiutare le donne musulmane finisce per prenderle di mira e propone un dibattito su di loro senza includerle. Invece, proprio come non dovrebbe esserci dibattito sulle donne senza le donne, allo stesso modo non dovrebbe esserci dibattito sulle donne musulmane senza le donne musulmane.
Perché si giunga ad un’interpretazione egualitaria del Corano come primaria e unica fonte divina dell’Islam è fondamentale che le donne musulmane siano incluse nella formazione e nello sviluppo del pensiero islamico, e questa è, nei fatti, l’unica mossa rivoluzionaria che sarà in grado di costruire una nuova struttura delle società e delle comunità musulmane. È a causa di interpretazioni errate delle regole islamiche, se le donne vengono private dei diritti, della dignità, dell’onore e dello status conferiti loro nell’Islam e talvolta sono soggette a oppressione. Per prevenire la dominazione maschile e la subordinazione delle donne e assicurare loro i diritti così come sono garantiti dall’Islam, abolendone le distorsioni, è essenziale che le donne abbiano piena consapevolezza dei fondamenti dell’Islam. Nimat Hafez Barazangi, ricercatrice presso la Cornell University, ci ricorda con le parole del Corano che «Dio non cambierà le condizioni delle persone finché queste non cambieranno ciò che è in loro stesse»: qualunque cambiamento, cioè, nel contratto sociale tra i musulmani e l’Islam non può che essere innanzitutto interiore. Le studiose e le attiviste musulmane sanno e avvertono che prima ancora che la reinterpretazione del Corano è necessario un passaggio fondamentale: l’allargamento della libertà di cambiare la percezione stessa che la donna ha del proprio ruolo nell’interpretazione del testo sacro, che deve diventare da complementare e secondario a primario. Questo è il primo passo essenziale verso la realizzazione di diritti umani pieni e verso la tanto necessaria sfida all’autorità patriarcale che per quattordici secoli si è arrogata il dominio esclusivo dell’interpretazione del testo sacro nell’Islam. Si pensi a hazrat Khadija, la prima moglie del profeta Maometto: è stata il più lampante esempio di donna musulmana forte e indipendente con uno spirito imprenditoriale, di alto profilo in quanto a successo negli affari e a profondità spirituale. Khadija era più anziana del marito, fu lei a chiedergli di sposarla, la sua casa fu trasformata in una moschea, dove conduceva lei stessa la preghiera, come oggi fanno le donne imam.
Ma l’impegno delle attiviste musulmane nelle società islamiche non è cosa semplice. Presuppone un cambiamento nelle premesse culturali, nelle percezioni e negli posture di ruolo e saranno loro, le donne, come in ogni rivoluzione succede a chi la rivoluzione la fa, a pagarne il prezzo più alto.
La lotta delle donne musulmane pulsa e non sempre urla. Nonostante i movimenti integralisti abbiano avuto tra le conseguenze più negative quella di averne snaturato l’essenza più intima, l’Islam valorizza la sobrietà e la moderazione. Per questo le donne musulmane continuano il loro cammino di lotta e di emancipazione senza necessariamente sbraitare, ma con iniziative innovative come ad esempio nuove pratiche di conduzione della preghiera da parte di imam donne. Uno tra i più importanti momenti di confronto e sostegno per le donne musulmane nel mondo è Musawah, movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana. Guidato da femministe islamiche, vi si rivendica l’Islam e il Corano per la donna attraverso interpretazioni progressiste dei testi sacri. Il patriarcato, si contesta, è una forma di idolatria: il fatto che gli uomini si pongano al di sopra delle donne contraddice di per sé la visione coranica di uguaglianza e giustizia, fondamento dell’Islam, e viola il requisito della esclusiva supremazia di Dio.
I dibattiti nelle riunioni di Musawah e più diffusamente tra le donne musulmane sono accesi e spaziano dalle esegesi delle Scritture ai dettagli più pratici della vita della donna nell’Islam. Il velo, per quanto preoccupi la società occidentale, è l’ultima delle questioni. Ben prima dell’abbigliamento della donna, assolutamente prioritario è difenderne i diritti specialmente in ambiti quali il divorzio, la custodia dei figli, la violenza domestica e, prima ancora, il diritto di studiare e l’indipendenza lavorativa, temi oggi cruciali per le donne di tutto il mondo, a prescindere dall’abito che indossano.
Amani Al-Khatahtbeh nel 2017 aprì un blog con un investimento iniziale di sette dollari: ne nacque MuslimGirl.com, che lanciò la prima Giornata ufficiale delle donne musulmane, per amplificare le loro voci. Era il 27 di marzo e da allora questa giornata è stata dedicata a molte iniziative. Amani, cresciuta nel New Jersey all’indomani dell’11 settembre, aveva nascosto a lungo di essere musulmana per evitare giudizi negativi da parte dei suoi coetanei. Ora, pochi anni più tardi, MuslimGirl ha decine di migliaia di follower e sprona le donne musulmane a essere padrone della propria narrativa. Ma le sfide rimangono tante e per quanto la conversazione sulle donne musulmane in occidente ruoti soprattutto intorno a stereotipi, quali il velo o le pratiche di mutilazione genitale femminile, lo spettro è più ampio e molto più complesso.
Oggi ricorre la Giornata delle donne musulmane istituita nel 2017 per restituire loro voce nella battaglia per i diritti. A partire da una corretta interpretazione delle norme religiose.
“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. (…) Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. (…) Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.
Mi sono tornate in mente le parole che Simone Weil scriveva in un testo nel 1937 dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia, leggendo il documento che alla vigilia del Consiglio d’Europa del 21 e 22 marzo – ribattezzato “consiglio di guerra” – Charles Michel ha recapitato a molti quotidiani europei (in italiano su La Stampa). Una lettera piena di “maiuscole”, non di un qualsiasi articolista con l’elmetto ma del Presidente dell’organismo di indirizzo delle politiche europee, che conferma e rilancia la svolta bellicista già espressa dalla Commissione e dal Parlamento.
Rileggiamo, dunque – con il compito di chiarificazione indicatoci da Simone Weil – alcuni passaggi di questo testo che vuole segnare un cambio di paradigma, preparando scenari di guerra per il continente che si era dato istituzioni politiche per costruire, invece, un progetto di pace. “La Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se la risposta della Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno necessario per fermare la Russia, saremo i prossimi” scrive Michel, attribuendo al regime di Putin – come da manuale di propaganda bellica – l’intenzionalità autodistruttiva di attaccare paesi Nato, dai quali ormai è circondato.
Ma spiegando subito dopo il vero significato di quelle parole: “Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare ad una ‘economia di guerra’”, come se le spese militari dei Paesi Ue aderenti alla Nato non arrivassero già complessivamente a 346 miliardi di euro (dato Enaat aggiornato al 2022), aumentata del 30% in otto anni e già quattro volte maggiore della spesa militare della Russia.
Ciò perché “dobbiamo essere in grado di parlare non solo la lingua della diplomazia, ma anche quella del potere”, aggiunge Michel, senza spiegare quando l’Unione europea abbia messo in campo una proposta diplomatica: quando ha convocato, in quanto organizzazione terza, un tavolo di negoziati? Quando ha avviato una Conferenza internazionale di pace, come chiede inascoltata da due anni la rete Europe for Peace?
L’unica lingua praticata fin dall’inizio è stata quella dell’invio al governo ucraino di armi sempre più distruttive, partecipando attivamente alla dinamica dell’escalation, fino alla “vittoria” – come ribadito dal Consiglio europeo – anziché a quella della de-escalation. Mentre la lingua del “potere” militare, ovvero dell’industria bellica europea e mondiale, ha già visto schizzare in alto i suoi profitti, come certificato dal Sipri: quella italiana, per esempio, ha raggiunto +86% dall’inizio della guerra.
Per rendere definitivo questo passaggio da un’Europa di pace ad una di guerra è necessario, esplicita Michel, mettere in campo una torsione culturale e valoriale: “Sarà necessario che il nostro pensiero compia una transizione radicale e irreversibile verso una forma mentis incentrata sulla sicurezza strategica”. In che cosa si concretizzi questa dichiarazione di ideologia bellicista è ribadito poche righe più avanti: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti dall’industria [bellica] europea”. Che, tradotto, significa tagliare drasticamente gli investimenti per la “sicurezza” sociale dei cittadini europei, trasferirli all’industria di guerra e – contemporaneamente – convincere tutti che la “sicurezza” non la forniscano più sanità, welfare, scuola e università, ma cannoni, carriarmati, navi da guerra e testate nucleari.
Nelle conclusioni di questo manifesto infarcito di “maiuscole”, Charles Michel fornisce la chiave interpretativa dell’intero messaggio: “Questa battaglia richiede una leadership forte per mobilitare i nostri cittadini, le nostre imprese e i nostri governi a favore di un nuovo spirito di sicurezza e di difesa in tutto il continente europeo”. E’ una chiamata alla mobilitazione generale, che si fonda sul principio con il quale chiude: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”.
Ancora l’obsoleta formula che dimostra come ai vertici delle istituzioni europee sia insediata una sacca di “pensiero” irrazionale e magico, che abusa della credulità popolare a beneficio dell’esplosione dei profitti del complesso militare-industriale: i governi nel loro insieme non hanno mai speso così tanto per “preparare la guerra” e infatti, inevitabilmente, la guerra dilaga ovunque. Perfino, di nuovo, in Europa.
Il proclama di guerra, sul quale hanno lavorato i capi di governo e di stato nella riunione del Consiglio europeo, prepara davvero una “transizione radicale e irreversibile”: il passaggio alla guerra nucleare. Mentre è necessario andare esattamente nella direzione opposta, passare dal pensiero magico a quello razionale e responsabile, indicato da tempo dai movimenti nonviolenti: se vuoi la pace, prepara la pace.
Intanto, nella sera del secondo giorno di Consiglio europeo “di guerra”, un attentato terroristico in un teatro di Mosca, rivendicato dall’Isis, ha provocato 137 morti innocenti: i pezzi della terza guerra mondiale in corso si saldano sempre più pericolosamente.
Da Il Fatto Quotidiano
da Il Manifesto – A 6 anni e 10 giorni dall’omicidio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes (avvenuto il 14 marzo 2018), si sono aperte finalmente, domenica, le porte del carcere per i mandanti del crimine: Domingos Brazão, attuale consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio, suo fratello Chiquinho, deputato federale del partito di centrodestra União Brasil e l’ex capo della polizia civile locale Rivaldo Barbosa.
«Una vittoria dello stato contro il crimine organizzato», ha esultato il ministro della Giustizia Ricardo Lewandowski. E anche «un grande giorno» per le famiglie delle due vittime: dopo «2.202 giorni di attesa», la verità «inizia a essere svelata», hanno scritto in una nota le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus, dicendosi sorprese per il coinvolgimento di Rivaldo Barbosa, che le aveva ricevute dopo l’assassinio assicurando che la soluzione del caso sarebbe stata per lui una questione d’onore. Il suo ruolo indica, evidenziano, «la portata dell’abisso che viviamo a Rio de Janeiro, con istituzioni ampiamente coinvolte nelle trame più sordide del crimine».
Era stato proprio Barbosa, tra l’altro, a suggerire ai suoi complici di tenersi alla larga dalla Camera municipale di Rio, perché, se l’omicidio avesse evidenziato un movente politico, il caso sarebbe stato trasferito alla Polizia federale – come poi avvenuto solo con l’avvento del governo Lula – e lui non avrebbe potuto più fare nulla.
A risultare cruciale per le indagini è stato l’accordo di collaborazione con la giustizia firmato dall’ex poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come autore materiale del crimine (insieme a un altro poliziotto, Élcio Queiroz): secondo la sua testimonianza, già nel settembre del 2017 i fratelli Brazão avrebbero deciso di eliminare Marielle perché di ostacolo all’espansione territoriale e immobiliare delle milizie di Rio de Janeiro.
È noto come Chiquinho Brazão avesse reagito in maniera scomposta di fronte al voto contrario di Marielle a un progetto sull’occupazione del suolo presentato alla Camera municipale di Rio, benché in questa battaglia la consigliera del Psol non avesse, in realtà, giocato un ruolo significativo. Tant’è che la stessa polizia federale ipotizza che potrebbero esserci state altre motivazioni per l’omicidio.
Contento per gli arresti dei mandanti è apparso anche Flávio Bolsonaro, che non aspettava altro per denunciare i tentativi di vincolare la sua famiglia all’omicidio: è ovvio, ha detto, che «Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine».
Con l’ambiente che lo ha prodotto, quello delle milizie di Rio, di relazioni però il clan ne ha eccome. Non è un caso che le indagini siano rimaste ferme per 5 anni, in mezzo ad assassini di testimoni, distruzione di prove, sabotaggi e rimozioni di funzionari. Laerte Silva de Lima, un agente infiltrato nelle file del Psol per raccogliere informazioni utili (poi arrestato nel 2020), era un membro di spicco dell’Escritório do Crime guidato da Adriano da Nóbrega, a cui Flávio aveva concesso la Medaglia Tiradentes, il massimo riconoscimento dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, e di cui aveva assunto la madre e l’ex moglie nel suo gabinetto di deputato statale.
C’è inoltre la testimonianza, poi ritrattata, di Alberto Jorge Mateus, il portiere del condominio Vivendas da Barra dove Bolsonaro viveva a Rio de Janeiro e dove abitava, al n. 66, lo stesso Ronnie Lessa, da cui Élcio Queiroz si era recato quello stesso 14 marzo. Nella sua prima deposizione, il portiere aveva riferito che, poche ore prima dell’assassinio di Marielle, Queiroz gli aveva detto che stava andando a casa di Bolsonaro, allora deputato, al n. 58, come sarebbe risultato anche dal registro delle visite. Ed è proprio da quell’appartamento che un uomo identificatosi all’interfono come il “signor Jair” aveva autorizzato il suo ingresso nel condominio. L’ex presidente aveva però respinto le accuse, sostenendo che quel giorno si trovava in Brasilia per una sessione alla Camera dei Deputati.
Assai significative anche le voci di una relazione tra il suo figlio minore Jair Renan e la figlia di Ronnie Lessa, benché quest’ultima all’epoca vivesse negli Stati uniti. Una relazione quanto mai opportuna, potendo offrire una spiegazione plausibile allo scambio di telefonate, emerso dalle indagini, tra la casa di Bolsonaro e quella di Lessa.
Fa discutere anche il ruolo del generale Braga Netto, all’epoca incaricato dal presidente Temer di assumere il controllo della sicurezza pubblica a Rio per poi essere nominato da Bolsonaro ministro della Difesa: è stato lui, dietro indicazione del generale Richard Nunes, a nominare Rivaldo Barbosa, una settimana prima del crimine, a capo della polizia civile di Rio, malgrado il sottosegretario dell’intelligence Fábio Galvão avesse messo in guardia sui vincoli di Barbosa con le milizie (ed era stato per questo rimosso da Braga Netto cinque mesi dopo).
Se, insomma, il direttore generale della polizia federale Andrei Passos ha annunciato domenica la conclusione dell’attuale fase delle indagini, sono in tanti in Brasile, a cominciare dalla famiglia di Marielle, a ritenere che il caso non si chiuda qui.
Da OIVD.it
Ai giorni nostri molte ragazze sostengono il sex work, considerando la prostituzione un lavoro come un altro, alcune anche convinte che il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo sia il fondamento della libertà di poterlo mettere in vendita. Proseguendo nel solco del ciclo “quale libertà?”, dopo aver indagato con la filosofa Valentina Pazé le nuove forme di sfruttamento giustificate nel nome della libertà, in epoca neoliberista, nel laboratorio sulla prostituzione e pornografia dell’OIVD (Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne) ci siamo interrogate su quali siano i dispositivi mediatici e simbolici messi in campo dal mercato per far leva sulle nostre coscienze facendo passare l’idea che vendere il proprio corpo sia non solo possibile, normale, ma addirittura appetibile e in un certo senso liberante.
La tavola rotonda organizzata su zoom il 13 dicembre 2023 Dall’oggettivazione dei corpi allo sfruttamento sessuale ha preso il titolo dalla tesi di laurea in psicologia clinica di Maria Laura Cinquegrana, una delle nostre giovani ospiti, che sta per pubblicare il suo testo rivisto e ampliato, con la casa editrice Erickson.
Lo sfruttamento sessuale, secondo l’autrice, discende da un problema socioculturale: l’oggettivazione sessuale sperimentata dalle donne in età sempre più precoce, attraverso molestie nei luoghi pubblici, come il cosiddetto “catcalling”, oppure attraverso l’esposizione passiva ai media che ripropongono continuamente l’immagine artefatta di corpi femminili ridotti a mero oggetto decorativo. Ci sarebbe quindi proprio l’oggettivazione sessuale alla base della cosiddetta “cultura dello stupro”, la quale rende possibile e legittima la disumanizzazione e l’uso del corpo di un’altra persona come fosse un oggetto sessuale.
In sintesi, ha argomentato Cinquegrana, non solo esiste una correlazione tra oggettivazione sessuale e violenza sessuale, ma l’oggettivazione è di per sé una forma di violenza psicologica e simbolica che ha delle ripercussioni sulla salute mentale di donne e minori. Per arginare la violenza e lo sfruttamento sessuale c’è bisogno prima di tutto di un cambiamento culturale.
Femminismo in vendita
Il tema dell’oggettivazione dei corpi è stato affrontato in apertura anche da Daniela Santoro del collettivo femminista Le Compromesse attraverso l’osservazione critica del rapporto che hanno sviluppato le sue coetanee con i social. Si tratta delle cosiddette “femministe della quarta ondata” che viaggiando su Internet, tra i blog, Instagram, conoscendosi in gruppi Facebook e vedendosi su Meet, hanno creato reti più ampie di donne di diversi contesti sociali e di diverse parti del mondo ma, allo stesso tempo, hanno sottratto il corpo alle relazioni tra donne. Questo però è un nodo rilevante, ci ha spiegato Daniela Santoro, perché quando parliamo di femminismo, non possiamo prescindere dal corpo se non a costo di rendere più labili alcune tematiche centrali che concernono il corpo delle donne. Inoltre si insinua un’altra insidia sul web: la mercificazione dello stesso femminismo che sui social diventa un business. Si è visto con le influencer che fanno del femminismo un modo per vendere gadget, libri, foto dando al mercato liberista la possibilità di appropriarsi delle tematiche femministe. L’incorporeità di internet ha permeato i contenuti del femminismo e la libertà è diventata un concetto individuale più che un concetto sociale. Non a caso proprio il capitalismo ci parla di libera scelta, siamo tutte/i liberi di fare tutto, ma parlando solo dell’individuo non riusciamo a mettere a fuoco realmente quello che è il problema sociale e simbolico della mercificazione dei corpi delle donne.
“Siamo sicure di essere veramente libere di scegliere in una società che ti impone, anche solo per arrivare a fine mese e dover mettere un pezzo di pane in bocca a tuo figlio, di vendere il tuo corpo? E soprattutto in una società in cui OnlyFans fa le pubblicità tutti i giorni ed è diventato ormai uno schema piramidale in cui le stesse persone che sono iscritte alla piattaforma guadagnano se ti iscrivi alle piattaforme usando il loro link, siamo veramente liberi di scegliere?”
Fiere di esistere per gli altri
Cecilia Alagna, la terza ospite della nostra tavola rotonda, ha un suo blog “Myrina’s eyes” e una sua pagina Instagram, pratica da tre anni l’autocoscienza e la scrittura autocoscienziale con il gruppo Le Ammoniti, fa parte del collettivo Lune e Lame, un luogo politico abitato da femministe lesbiche e bisessuali. Andando a monte del problema, secondo lei, non è mai possibile disgiungere la libera scelta dalla libera condizione. Come si è arrivati a rendere l’esposizione di sé così necessaria da dipendere in forma quasi maniacale dall’essere sui social? Un esserci che spesso non è veicolo di pensiero bensì dell’immagine di sé. La messaggistica istantanea e i social hanno esposto le giovani donne a una progressiva accettazione del principio della perenne disponibilità, 24 ore su 24, in cui porti quel mondo dentro casa e diventa il mondo. Ma si tratta di un non tempo e un non luogo dove non si dematerializzano solo i corpi bensì entra in gioco la dematerializzazione totale delle relazioni. Il compenso si può ottenere in termini di follower, naturalmente con una esposizione del corpo completamente coerente con il desiderio maschile. Secondo Alagna, OnlyFans ha fatto semplicemente il passaggio successivo, cioè se già su Instagram era possibile trasformare in follower la ricompensa si è passati a trasformare i follower in denaro. Si tratta quindi di una libertà completamente asservita a questa totale disponibilità.
Oggi non si potrebbero dominare le donne, quantomeno nel contesto europeo, con il mantra della maternità come destino e il famoso binomio santa-puttana in realtà non è più un binomio ma ha creato una sorta di mostruosa sintesi fra le due cose. Uno dei motti molto amato da una parte del femminismo che si definisce transfemminismo è “fiera di essere puttana”.
Le ragazze, in un’età in cui non hanno ancora avuto il tempo e il modo di indagare il loro desiderio, vengono invitate a essere delle puttane. Perché questo si realizzi è un’ottima palestra l’accesso, sempre più precoce, ai contenuti pornografici attraverso i quali passa un discorso su come deve essere la sessualità. In questo modo si normalizza, viene creata letteralmente una norma che si fonda sul principio: sei una puttana, devi essere fiera di esserlo anche se quello che farai non coincide con il tuo desiderio. In un certo senso le giovani donne oggi sono in una condizione persino peggiore delle donne che le hanno precedute, perché connesse 24 ore su 24, in una perenne vetrina, sempre in mostra per gli altri, sempre e totalmente alienate da se stesse.
Per Alagna e per le donne del collettivo Lune e Lame è sempre più urgente scalfire questa idea di libera scelta fortemente capitalistica e ritornare a un concetto di autodeterminazione che si radichi nella libertà collettiva delle donne, scardinata dall’economia neoliberista del denaro e della mercificazione di ogni cosa, anche dei corpi.
Ripartire dal corpo
Ripartire dal corpo, tornando sul primo terreno di scontro con il patriarcato da cui è partito tutto il cammino di libertà femminile è ciò che possiamo e dobbiamo condividere, a livello intergenerazionale, con le giovani femministe della quarta ondata.
Il corpo delle donne è sempre stato il principale oggetto di controllo da parte del patriarcato, la posta in gioco più alta del contratto sessuale, che regola il dominio degli uomini sui corpi delle donne nella sfera privata escludendole da quella pubblica (Carole Pateman, Il contratto sessuale). I valori normativi del patriarcato oggi non fanno più presa sulle menti di molte giovani donne attive, assertive, istruite, progettuali, determinate, competenti, figlie amate e sostenute dalle loro madri, direi indomabili. Per questo l’esigenza maschile di dominio sulle nostre menti e sui nostri corpi si fa ancora più pressante. Nel nostro tempo si giocano due partite fondamentali e interconnesse, quella del controllo, attraverso strategie di contrattacco al femminismo e alla libertà simbolica delle donne, e quella del libero mercato che non vuole lasciare la presa sui nostri corpi attraverso i quali fa enormi profitti.
Siamo profondamente d’accordo con le nostre giovani amiche nel dire che è fondamentale uscire dalle gabbie del neoliberismo e tornare a un concetto di libertà e autodeterminazione collettiva. Le donne delle nuove generazioni hanno un grande lavoro da fare ma possono contare su una ricca e viva eredità e sul desiderio, che nutrono le donne di ogni generazione, di costruire insieme spazi di libertà mantenendo e creando sempre più luoghi per curarci, nutrirci a vicenda, per comunicare tra noi restando radicate nel desiderio femminile.
Da Internazionale – È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina. Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.
Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento. Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo. Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”. Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa.
Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso. Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile? Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalismo e sulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo. In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente. Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”. Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.
Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, so-prattutto se palestinesi, arabi o musulmani. Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista. Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascosto portava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt. Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti. All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?
Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani. Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio. È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo. Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo. Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.
All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer. Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani. Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro di noi ci ha toccato molto di più. La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.
In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller), stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo. Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca. È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo. Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.
Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi. E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo. E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti. Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo. Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.
Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington. Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in questo istante”.