Da il Gazzettino – Battaglia di una madre veneziana contro il tribunale che ha ordinato che sua figlia di otto anni venga portata ogni giorno in una casa-famiglia. Il giudice ha autorizzato anche l’uso della forza. La vertenza perché sono impediti i rapporti con il padre. Anche Nordio investito del caso

«Il giudice dichiara il provvedimento immediatamente esecutivo, autorizzando l’uso della forza pubblica e/o ufficiale sanitario per la sua attuazione». A otto anni, ogni giorno, una bambina verrà dunque prelevata – anche con la forza – dalla casa dove ha finora vissuto con la madre, sulla terraferma veneziana, portata in una casa-famiglia e ricondotta nell’abitazione di sera. Una battaglia prima familiare (anche se una famiglia completa non c’è mai stata, visto che il papà avrebbe voluto far abortire la madre) e poi legale che si trascina da almeno sette anni, il cui atto esecutivo è stato emesso pochi giorni fa dal Tribunale di Venezia, togliendo la piccola alla mamma che l’ha fatta nascere e crescere per buona parte del giorno. Un caso che è da tempo sul tavolo della Commissione parlamentare sul femminicidio e per il quale è stato investito anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Allo scoperto

Frida, la mamma, era stata per lungo tempo in silenzio su questa vicenda, ma di fronte alla decisione del Tribunale ha deciso di uscire allo scoperto, raccogliendo il sostegno di parlamentari e politici che ora chiedono di fare luce sulla vicenda. «Affronti la gravidanza da sola, partorisci da sola, cresci la tua creatura da sola. Siete una famiglia monogenitoriale a tutti gli effetti. Poi entri in tribunale e, nel tritacarne dell’articolo 250 (riconoscimento tardivo) e della legge 54/2006, tua figlia perde di colpo l’identità, la madre, il suo ambiente di crescita, tutta la sua vita» denuncia Frida. «I giudici di Venezia continuano a sostenere un rapporto obbligato tra una figlia e un padre, divenuto tale attraverso un riconoscimento tardivo e senza prova del Dna, che per la stessa bambina è un estraneo – spiega Veronica Giannone, candidata per Vita ed ex deputata 5 Stelle – La donna è accusata da una perizia di essere “madre alienante”, costrutto ascientifico non riconosciuto né in termini legali, né scientifici o giuridici – prosegue – ma continua a chiedere che la figlia possa essere ascoltata, mentre il tribunale non ritiene fondata la richiesta materna. Anzi, dispone la collocazione extrafamiliare diurna, l’iscrizione obbligatoria a scuola, sebbene la bambina abbia sempre svolto istruzione parentale come previsto dalla Costituzione, superando gli esami, dispone che i servizi sociali affidatari organizzino le visite al padre, e il pagamento di migliaia di euro per spese di lite».

Un “genitore alienante” sarebbe quello che alimenta l’astio e il rifiuto verso l’altro genitore, ma Frida, docente quarantenne molto stimata, ha cresciuto in solitudine e solo con l’amore l’unica figlia che ha avuto, poiché il padre biologico – docente universitario – voleva imporre alla donna di abortire, salvo poi, quando la piccola aveva quasi un anno, cambiare idea e chiedere il riconoscimento della paternità e avviando la battaglia legale. In tutto questo, denuncia la madre, «mia figlia è stata zittita, trattata come una bambola di pezza che i servizi sociali di Venezia hanno il compito di piazzare in una struttura diurna usando anche la forza pubblica». E sull’accusa di violenze passate subite dal padre, la giudice avrebbe parlato di “componente mitologica” da parte della madre, «nonostante la certificazione agli atti del Centro antiviolenza che mi segue e che non è stato interpellato», aggiunge mamma Frida.

«Violenza istituzionale»

«Siamo davanti al caso di una mamma a cui è stata letteralmente sottratta la figlia. – commenta Pina Picierno, eurodeputata Pd e vicepresidente del Parlamento europeo – Gli atti del tribunale devono essere acquisiti dalla Commissione parlamentare sul femminicidio. Si tratta di un caso di vera e propria violenza istituzionale che ha condannato Frida a essere bersaglio di vittimizzazione secondaria, un fenomeno che purtroppo sta coinvolgendo un numero sempre maggiore di donne. Bisogna ascoltare le ragioni di Frida e intervenire per garantire il diritto a essere mamma e, allo stesso tempo, occorre un profondo processo di revisione del testo della legge sul riconoscimento». «Si tratta di tutelare una bambina e sua madre che a questo punto rischiano la separazione, com’è già accaduto in molti casi simili. – aggiunge il Movimento per i diritti delle donne – Ci sono problemi evidenti anche nella riforma Cartabia che non vanno nella direzione dell’interesse della protezione dei minori».

Ma gli appelli arrivano anche in Comune di Venezia con Monica Sambo, consigliera comunale Pd: «Questo è uno dei 36 casi esemplari di vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni. Da tempo abbiamo chiesto al sindaco di Verona, Luigi Brugnaro, di incontrare questa mamma, anche perché il Comune è sempre stato coinvolto in questi anni nella vicenda. Oltre alle dichiarazioni per il contrasto alla violenza contro le donne, ci vogliono anche i fatti».

Da il manifesto – No, non farò la cronaca della manifestazione, di cui peraltro non so neppure chi siano stati gli oratori ufficiali, perché a piazza del Duomo, pur essendo stata presente per sei ore nel corteo, non ci sono neppure arrivata, tanta era la folla che aveva riempito mezza città. Della redazione del giornale a Milano ce ne erano tantissimi, tutti dietro lo striscione del manifesto, fieri di aver dato alla consueta celebrazione milanese del 25 aprile, come fu trent’anni fa, uno slancio particolare. Scrivere spetta a loro.

Certo raccontare mi sarebbe piaciuto, perché a un evento così non capita sempre di partecipare. È stata infatti una manifestazione non solo enorme, ma partecipata nella sua stragrande maggioranza da una generazione nuovissima, mai vista prima: dai quindici anni (tanti studenti medi) ai venticinque, proprio giovanissimi.

È davvero un fatto politico nuovo: in particolare sulla guerra, ma non solo, i ventenni tornano ad affacciarsi sulla scena. Credo sia perché avvertono che siamo ad un mutamento epocale del mondo e sono spinti a mobilitarsi. A modo loro, naturalmente. Sono allegri, lungo il percorso a migliaia hanno ballato al ritmo della formidabile musica installata sull’enorme carro dell’Arci e offerta dal suo famoso circolo La Magnolia.

Chi sono? Per chi votano? O meglio, vanno a votare? Non lo so, i più non erano nemmeno aggregati attorno a bandiere che esibiscono l’appartenenza, sciolti. A guardarli mi viene ancora più da ridere di quanta ormai me ne viene il lunedì sera quando La7 comunica i dati del settimanale sondaggio: Fratelli d’Italia +0,07, PD -0,02, 5S o Calenda cifre di analoga rilevanza. E poi nella settimana successiva tutti i politologi impegnati a spiegare i profondi mutamenti della società italiana a partire da quegli zeri, senza nessuno che ci informi davvero su cosa pensa il 60% di giovani che pure nella politica si impegna.

Scrivo, comunque, perché a questa giovane forza politica emergente vorrei raccomandare due cose:

1) state attenti, oltre che al fascismo ufficiale, anche all’antifascismo sbandierato da chi se ne serve come copertura per proprie assai simili magagne. Non faccio nomi, ma consiglio di fare attenzione.

2) credo sia utile ricordare sempre che la guerra partigiana italiana è stata assai diversa da quella di molti altri paesi occupati dai nazisti. La più parte di loro, a cominciare dalla Francia e dalle monarchie nordiche, hanno combattuto con le spalle coperte dalla legittimità dei governi che erano stati sconfitti e in nome dei quali la Resistenza del paese combatteva. In Italia i nostri ragazzi sono andati in montagna senza sapere cosa davvero fosse la democrazia e l’antifascismo, e senza nessuno che coprisse loro le spalle. Un azzardo incalcolabile. Ecco, oggi ce ne vuole altrettanto per fare quanto è indispensabile: cambiare il mondo. È difficile, lo so. Ma stasera sono così ottimista che penso ce la potranno fare.

Da Avvenire – Resistere alla fine del mondo. Dover restare vivi, mentre la vita di prima esplode e scompare. È quello che è toccato a papà Massimo il 31 luglio 2017, quando sua figlia Alba Chiara, ventidue anni, è stata ammazzata a colpi di pistola dal suo ex fidanzato Mattia a Tenno, in Trentino. Che poi a sua volta, con la stessa pistola, s’è tolto la vita. La coppia perfetta, il ragazzo più bravo della scuola e del paese lui, la ragazza più bella e intelligente lei. Amici dall’asilo, fidanzati dall’adolescenza, considerati come figli dai genitori l’uno dell’altra. Una storia simile a quella di Giulia Cecchettin, solo che nel 2017 – sembra passato un secolo – all’Italia i femminicidi facevano meno effetto. È servito tempo, perché nell’opinione pubblica montasse l’indignazione per la violenza di genere e la logica patriarcale che ha portato alla mobilitazione e alle proteste dello scorso inverno in tutto il Paese. Ed è servito tempo perché nella minuscola Tenno, che ha la popolazione di un condominio d’una grande d’una città, la fine di Alba Chiara fosse chiamata col nome di femminicidio e non di “disgrazia” o “incidente”. Massimo Baroni ripercorre quei mesi ancora visibilmente commosso: «La storia finì sui giornali. Il sindaco si dovette dimettere perché il consiglio comunale non riusciva ad accettare che mettessimo una stele o una targa con su scritto semplicemente che Alba Chiara era stata uccisa in quanto donna. Uccisa da un uomo perché in quanto donna aveva preso una decisione».

È diventato a suo modo femminista, questo padre che divide il suo tempo tra i turni in fabbrica e l’associazione che ha dedicato a sua figlia e che di lei porta il nome, conosciuta e attiva in tutto il Trentino. Perché dopo quella prima resistenza, al lutto e all’oltraggio, Massimo ha deciso che anche Alba Chiara doveva resistere, col suo messaggio, i suoi sogni, il significato della sua vita e della sua morte: «Non sono diventato psicologo ovviamente – spiega ridendo –, né sociologo. Non so spiegare il patriarcato o i rapporti fra uomini e donne, ma sono fermamente convinto che la sua storia vada raccontata insieme a quella di tutte le donne che vengono uccise, a cominciare da quelle a cui tocca questa sorte in Alto Adige». Le conosce per nome, le elenca tutte soffermandosi su Celine, che di anni ne aveva ventuno, ed è stata uccisa a Silandro ad agosto: «Non se ne parla già più, nessuno ricorda la sua storia. Sento di doverla raccontare io, è il motivo per cui la cito durante tutti gli incontri a cui partecipo». Papà Massimo vuole essere la voce delle vittime, ma vuole anche alzare la voce coi carnefici, «perché è soprattutto agli uomini che spero servano gli incontri, i laboratori e le attività che organizziamo. Io ne esco sempre cambiato, tornando a casa metto sotto la lente i miei comportamenti e ne riconosco i limiti, riconosco i limiti del nostro modo di amare, l’incapacità di esprimere il nostro disagio che può trasformarsi in violenza. Ma la violenza non è un destino».

Così donne e uomini si raccontano e si misurano nelle serate e negli eventi organizzati dall’Associazione Alba Chiara, in particolare con l’iniziativa del Festival Eutropia, «che è il nome della città delle connessioni di Calvino ed è il tentativo che vogliamo mettere in campo di intrecciare e ricostruire relazioni sane tra maschile e femminile». A cominciare dal supporto agli sportelli e ai centri antiviolenza del territorio, che negli ultimi anni si sono moltiplicati. Ma la resistenza continua: «Il 2 maggio voteremo per la Commissione provinciale Pari opportunità con tutte le 18 associazioni presenti sul territorio e impegnate in questo campo. Io sarò, purtroppo, l’unico uomo presente». La sfida è che gli uomini cambino, che facciano propria la battaglia per i diritti delle donne. «Come dovrò insegnare a mio nipote». A inizio anno è arrivata la notizia che Aurora, la sorella minore di Alba Chiara, è incinta: «È un maschietto. Lo educheremo ad essere diverso».

Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie le vittorie sono state vittorie per tutta la società. La politica che vede le donne in prima linea è politica d’inclusione, di rispetto delle diversità, di pace. (Tina Anselmi)


Buona festa!

La redazione del sito


Da sinistra a destra:

– Ebe Bavestrelli, Antonietta Romano Bramo (Fiamma), Claudia Ruggerini (Marisa), Lia Bellora (soprabito bianco), Tina Anselmi (Gabriella)
– Maddalena Cerasuolo (Maria Esposito), Marisa Ombra (Lilia), Lia Galeotti Bianchi (Lia), Rina Ferrè, Gruppo donne
– Audrey Hepburn, Leda Antinori, Faccia della pace (Picasso), Carla Capponi (Elena), Enrichetta Alfieri
– Gina Borellini (Kira), Onorina Brambilla Pesce (Nori), Maria Antonietta Moro (Anna), Norma Pratelli Parenti, Irma Bandiera (Mimma), Gruppi di difesa della donna.


Da Facebook – Cápito su Quarta Repubblica a dibattito iniziato. Si parla di Neolingua e scopro che la Zanichelli, per essere inclusiva, ha pubblicato un libro di testo per la Scuola nel quale la desinenza di genere è sostituita dalla chiocciola o dalla schwa o dall’asterisco. “Uscit@ di casa”. La schwa non c’è sulla tastiera. Provate a leggere questa Neolingua o a parlarla. Confusione simbolica massima. La discussione è accesissima e mi fa fare alcune riflessioni. C’è un dato evidente e visibile, l’umanità è composta di donne e di uomini che, al di là del loro orientamento sessuale, sono senza dubbio donne e uomini. Per secoli tale realtà è stata ben simbolizzata dalla lingua. Nella lingua italiana ci sono genere femminile e genere maschile, senza considerare l’orientamento sessuale per il quale vi sono parole specifiche, lesbiche, omosessuali, transessuali, bisessuali, asessuali, fluidi.

Con le rivendicazioni Lgbt arriva il delirio della Neolingua. La lingua deve includere tutti i vari orientamenti sessuali. Si interviene allora a livello simbolico nel corpo della lingua così come, con le cure ormonali e gli interventi chirurgici, si interviene sul genere dei corpi, modificandoli. I corpi fisici però oppongono ai deliri inclusivi la concreta realtà dei cromosomi, per cui anche un transessuale resta uomo e donna, conservando cromosomi, organi, scheletro e muscolatura del sesso originario. Nella Neolingua invece tutto diventa indistinto e si produce solamente una regressione simbolica, contravvenendo a una delle regole fondamentali di ogni lingua, la lingua deve servire a fare chiarezza non a far precipitare nell’indistinto.

Da il manifesto – Estela De Carlotto: laurea honoris causa all’università Roma Tre per la “nonna più famosa dell’Argentina” che non ha mai smesso di chiedere “verità e giustizia” per i desaparecidos della dittatura e oggi si trova nel mirino del presidente Milei

Se nel suo paese la vicepresidente Victoria Villarruel l’ha definita «un personaggio sinistro», in Italia Estela de Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, ha ricevuto invece un importante riconoscimento: in quella che lei considera la sua seconda patria (suo marito è di Arzignano, in provincia di Vicenza), l’Università Roma Tre le ha conferito mercoledì la laurea honoris causa in Lingue e letterature per la didattica e la traduzione per l’impegno a favore del diritto all’identità anche in ambito letterario-drammaturgico.

Un’occasione per denunciare gli attacchi governativi alle politiche di “Memoria, verità e giustizia”, ma anche per raccontare la lotta delle Abuelas e la loro gioia per il ritrovamento di 137 nipoti sottratti all’oblio della dittatura, uno dei quali, il n. 114, è proprio suo nipote Guido: il figlio della sua primogenita Laura, sequestrata nel 1977 mentre era incinta di tre mesi, rinchiusa nel centro di detenzione clandestino La Cacha, a La Plata, e poi assassinata, all’età di ventitré anni, due mesi dopo il parto. È di tutto questo che abbiamo parlato con la nonna più famosa dell’Argentina, che giovedì è stata ricevuta in udienza dal papa, «un argentino di grande valore – ha sottolineato – per tutto ciò che fa per il nostro paese e per il mondo intero».

Che clima si respira oggi in Argentina?

Sono passati appena quattro mesi dall’insediamento di Milei e c’è una profonda ribellione sociale. Non c’è violenza, ma le proteste sono innumerevoli e permanenti, malgrado la repressione e il divieto per i manifestanti di occupare le strade. La cosa più grave è che stanno licenziando un sacco di gente, che 15mila persone si sono ritrovate di colpo senza un impiego. Cercatevi un altro lavoro, viene loro detto. Ma quale? Ma dove, se il lavoro non c’è? Alcuni anziani dicono: a me manca solo un anno per andare in pensione! Non importa. La gente arriva sul posto di lavoro e non la fanno entrare. Nemmeno una parola di spiegazione. È brutale, inumano.

Il governo taglia persino i fondi per le mense popolari.

Già. Che si organizzino, che si mettano a lavorare, dicono. E di nuovo mi chiedo: ma dove? Si tratta di gente molto umile, che non ha terminato neppure le scuole primarie. No hay plata, mancano i soldi, è quello che il presidente ripete più spesso. Però evidentemente per alcune cose il denaro si trova. Milei ha vinto, ed è dunque il presidente legittimo, ma non è il padrone dell’Argentina. Il sovrano è il popolo, sia quello che lo ha votato, sia quello che non l’ha votato. E il presidente deve fare quello di cui il popolo ha bisogno. Non chiediamo neppure che si dimetta: quello che ho detto io, e che non gli è per niente piaciuto, è che, avendo fatto tante promesse, ora deve mantenerle. Altrimenti deve andarsene. Una persona che promette e non mantiene è un bugiardo.

Quanto è difficile per voi Madri e Nonne di Piazza di Maggio continuare la vostra ricerca sotto un governo negazionista come quello di Milei?

Continuiamo a lavorare, noi e gli altri organismi per i diritti umani, per ottenere verità e giustizia. E perché non si perda la memoria. Il presidente dice che mentiamo, che non è vero che ci siano 30mila desaparecidos. E peggio ancora la vicepresidente Villarruel, che è figlia di militari. Ma tutto è stato dimostrato, tutto è documentato: nomi e cognomi, la lista dei campi di concentramento, i voli della morte… Tutte queste atrocità non si cancellano perché un presidente dice: «No fueron 30.000». Se ci mancano di rispetto dicendo che i nostri figli erano assassini, è gioco facile per noi dimostrare che gli assassini sono loro. In ogni caso, la nostra ricerca non si fermerà: vogliamo trovare i 300 nipoti che mancano all’appello. E che possono trovarsi in qualunque parte del mondo.

La vicepresidente Villarruel ha parlato di lei come di un personaggio «piuttosto sinistro». Le ha risposto?

No, non ne vale la pena. La gente mi conosce, sa che in 47 anni non abbiamo mai pronunciato discorsi d’odio, non abbiamo mai voluto vendetta. Chiediamo solo verità e giustizia. E se abbiamo lavorato durante la dittatura correndo grandi pericoli, non ci facciamo certo intimidire oggi.

Com’è il tuo rapporto con tuo nipote Guido?

Ogni giorno ci conosciamo meglio e ci vogliamo più bene. E ora sono felice, perché la famiglia è completa. Che emozione incredibile quando mi hanno detto che lo avevano trovato!

Una signora un giorno aveva confidato a sua moglie che era stato adottato. Quando lui lo aveva saputo, si era chiesto: non sarò figlio di desaparecidos? E guardando la televisione, dove in quel momento parlavo io, aveva fatto una battuta: perlomeno che sia lei mia nonna! Quindi era venuto alla Conadi (la Commissione nazionale per il diritto all’identità, nda), dove lavora mia figlia Claudia, e si era sottoposto al test del Dna.

Da il manifesto – A Ravenna un Istituto conserva vite e immagini delle staffette partigiane. Tessere di un mosaico che racconta il coraggio, i sogni e le speranze di emancipazione. Andate deluse nel dopoguerra

Milioni di vite dormono all’interno degli archivi storici. Dentro pile di cartelle, cassetti cigolanti e burocrazia scoraggiante. Questa volta però ne abbiamo svegliate alcune: quelle delle donne partigiane romagnole che durante la guerra ai nazifascisti agivano nelle campagne del ravennate. Possiamo farlo grazie al lavoro dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Ravenna e provincia.

È un mosaico che prende forma, quando apriamo la cartella «Biografie di staffette» dell’Archivio dell’Istituto di Ravenna, che dei mosaici, tra l’altro, è la regina. Fatto di tante tessere, o meglio di foto-tessere, ognuna collegata a un documento scritto che ripercorre dettagliatamente le azioni nella guerra di liberazione. Era così che le partigiane e i partigiani chiedevano, dopo la guerra, il sussidio dello Stato per avere fatto parte della Resistenza. Per ottenere il riconoscimento serviva aver usato le armi in combattimento. Molti partigiani hanno potuto dimostrare facilmente la propria partecipazione ad azioni armate. Per le donne è stato un po’ più complicato. Ne abbiamo parlato con Laura Orlandini, ricercatrice presso l’Istituto.

Questi documenti sono in fondo atti burocratici, eppure sono ricchi di dettagli, come mai? 

Sono vere e proprie biografie, compilate nel primissimo dopoguerra dalle sedi del Partito Comunista e dell’Anpi sparse nella provincia. L’obiettivo era probabilmente la richiesta di sussidio, lo ottenevano solo le staffette direttamente collegate alle brigate che dimostravano di avere compiuto azioni di carattere militare, ovvero se avevano trasportato armi o direttive strategiche. Le attività di resistenza civile delle donne, come la laboriosa opera di sostegno alle brigate, il recupero di cibo e indumenti, la rete organizzata di accoglienza e rifugio dei partigiani nelle proprie case, ma anche le azioni di protesta pubblica, sono state dimenticate. Derubricate talvolta, nel discorso pubblico, come parte dell’opera di cura che spetta “naturalmente” al ruolo femminile. Invece ognuna di queste azioni aveva origine da una scelta, consapevole e rischiosa, e cosciente della propria forza.

Quali tipo di informazioni si possono dedurre dalle fotografie e dalle biografie?

Ogni coppia biografia-foto è un minifilm: alcune sono estremamente dettagliate, altre molto più telegrafiche, quasi dei flash. In questi casi, a volte colpisce come poche semplici parole riescano a descrivere le situazioni estreme che vivevano quotidianamente, come ad esempio una biografia dove c’è scritto che la persona «ha più volte sfidato la morte, risolvendo sempre i compiti che le venivano affidati». Le fotografie invece sono diverse: alcune sono in posa, ritratti curati da studio fotografico, altre invece sono foto private, scattate nel giardino di casa o in una piazza. C’è un esempio molto interessante: sul retro dell’immagine, c’è scritto «per essere sempre ricordata tua», era quindi una foto destinata ad una persona amata, ma poi chissà per quale ragione dovuta alla guerra, si è ritrovata tra queste biografie.

C’è anche un altro tipo di documento che accompagna in maniera parallela le storie di queste donne partigiane, ovvero i volantini dei Gruppi di Difesa della Donna, che sono anch’essi conservati nel vostro archivio. Di che si tratta?

I Gruppi di Difesa della Donna erano un’organizzazione che univa tutte le donne in lotta contro il nazifascismo. Parte integrante del C.L.N, la loro storia è stata completamente dimenticata dalla storiografia sulla Resistenza fino a pochi anni fa. Le donne che aderivano volevano comunicare con tutte, distribuivano i loro volantini alle contadine, alle massaie, alle operaie, invitandole a protestare contro le requisizioni alimentari e la violenza dell’occupante. Stupisce leggere come, insieme alle rivendicazioni della lotta di Liberazione, si parlasse già di parità di salario, del congedo di gravidanza dal luogo di lavoro e della libertà di scelta per la professione. Si parlava, insomma, di democrazia e partecipazione. Non si tratta di chiedersi cosa hanno fatto le donne per la Resistenza, ma riconoscere che c’è stata una Resistenza delle donne, che partiva da presupposti e obiettivi diversi e che ha portato avanti istanze di emancipazione. Come si legge in uno di questi volantini «rivendichiamo il nostro posto nella vita sociale, facciamo sentire la nostra voce: anche noi vogliamo partecipare attivamente nei Comitati di Liberazione Nazionale e nelle Giunte Popolari».

E dopo la guerra che ne è stato?

La maggior parte delle donne che avevano preso parte alla resistenza civile durante la guerra non hanno avuto altra strada se non rientrare nella vita quotidiana nel ruolo che gli era stato assegnato dalla famiglia patriarcale con al vertice il capofamiglia. Il sogno di cambiare il mondo, avuto durante la Resistenza, non ha trovato spazio nella realtà. Non bastava la fine della dittatura fascista per superare una mentalità che resisteva da secoli e mentre mariti e compagni di partito riprendevano il loro spazio, le donne si trovavano a combattere una battaglia molto più dura e lunga, in una società che continuava ad affidare loro tutto il peso della cura dei figli e della casa. Rare sono state le eccezioni. Ma quell’esperienza è stata per molte la scoperta della propria forza: generazioni successive avrebbero raccolto quel seme.

Da il Corriere della Sera – Negli ultimi quattro mesi sull’Economist sono uscite due inchieste ampie e documentate intorno ai costi della maternità sulle carriere femminili: sarà che il trauma pandemico causato dalla chiusura nella propria intimità ha fatto riemergere prepotentemente l’esigenza di tornare su vecchie questioni, fra cui il celebre quesito femminista «a che cosa vogliamo – e possiamo – dire sì, in quanto donne e madri?».

I dati delle inchieste sono fin troppo chiari: a causa della child penalty, le donne (quando va bene) faticano a rientrare al lavoro. Le loro carriere subiscono una vera e propria caduta fatta di rinunce, rallentamenti, retromarce, deviazioni, scelte coatte. Questo accade ben oltre i periodi di maternità obbligatoria e i congedi parentali di vario genere. Anche quando, apparentemente, il lavoro (inteso come incarico formale giuridicamente regolamentato) resta in piedi, l’identità delle professioniste-madri subisce decelerazioni entrando in una crisi permanente fatta di calcoli (molte chiedono il part-time, se ne hanno diritto), (s)bilanciamenti, (dis)investimenti, quiet-quitting (lavorare cioè solo nei modi e tempi indicati dal contratto, senza assumersi nuove o straordinarie responsabilità).

Così la child penalty si identifica con il suo correlato più naturale: la motherhood penalty. Tutto ciò, naturalmente, appesantendo la propria esistenza con sensi di colpa e relativi traumi inflitti a sé stesse, ai coniugi, alla prole. Della serie: «Avete voluto la bicicletta…». Secondo gli studi pubblicati dall’Economist, lo scarto fra le carriere maschili e le carriere femminili è spiegabile, per molti Paesi, con l’accesso differenziato alla formazione e con varie forme di discriminazione di genere sui luoghi lavoro.

Ma nel “mondo ricco” le donne studiano quanto e spesso più degli uomini, e la caduta delle carriere si spiega quasi esclusivamente con i costi economici, di tempo e di lavoro mentale della cura dei figli. Si torna sempre lì: gli asili nido, le scuole, i periodi di malattia, insomma il refrain della bicicletta e della pedalata che ci siamo scelte e volute. I dati sono incontrovertibili e l’unica cosa certa in tutta questa vicenda è che maternità e lavoro viaggiano su binari spesso divergenti: a partire dal bene più scarso di cui disponiamo, il tempo, ogni giro di lancetta va ponderato fra esigenze del mondo (le riunioni delle 18.00) ed esigenze del nido (quell’eroica pulsione a governare la quotidiana Guernica in cui abitiamo fra le 17.00 e la nanna).

Come uscirne? Studi della London School of Economics e di Princeton, che riprendono le analisi di Claudia Goldin, Nobel per l’Economia proprio su questi temi, parlano chiaro: le promozioni e gli avanzamenti in carriera possono tornare a essere una realtà anche dopo i figli solo cambiando completamente l’assetto del lavoro di cura e mettendo all’ordine del giorno il tema sacrosanto della riproduzione sociale, cioè valorizzando al massimo la riproduzione biologica come motore che permette l’avanzamento della società e della storia. Sì, ma come, se l’unico traguardo sembra la quadruplicazione dei nonni e delle nonne (quando ci sono) o la rincorsa disperante a baby-sitter, associazioni, amici della domenica?

Ripartiamo da due temi.

Primo, appunto: la riproduzione sociale. I figli che costano tanto alle madri sono solo delle madri (e dei padri e dei nonni)? La metafora della bicicletta è molto utile proprio perché è sbagliata. Un figlio non è un vezzo o un capriccio, ma è un progetto individuale perché sociale e sociale perché individuale. È un esempio perfetto della celebre corrispondenza fra personale e politico. Se si assume questo punto di vista, allora la genitorialità potrebbe essere valorizzata non solo con premi nascita o bonus nido, che sono sempre contingenti e non sono mai abbastanza, ma come un tassello fondamentale e produttivo nella vita delle donne e delle famiglie intere.

Si potrebbero inoltre valorizzare le forme di socializzazione che trascendano la famiglia tradizionale ampliata ai soli nonni (o agli zii e ai cugini). È il modello relazionale del mondo contadino, sostenibile economicamente e soprattutto psicologicamente a tutti i livelli famigliari.

Secondo tema: ci chiediamo abbastanza da dove vengano tutte le nuove forme di nevrosi della casalinga? Negli anni Sessanta (e anche prima), le forme compulsive e i disordini di cui soffrivano molte donne erano spiegabili con l’imposizione di un modello per cui certe mansioni erano rese obbligatorie e inevitabili e costituivano una norma vera e propria che a volte veniva repressa e si ripresentava sotto forma di fissazioni per il lavoro di cura, ma anche di depressione post-parto e di altri disordini legati alla vita del nido, come un linguaggio violento verso i figli. Oggi i disordini mentali che accompagnano la caduta delle carriere (a volte la causano, altre volte la seguono) sono nuovamente l’esito di un corto circuito: perché paragonare le carriere femminili a quelle maschili? A chi giova questa comparazione? Certamente non alle donne.

Qualche anno fa la Libreria delle donne di Milano ha pubblicato dei testi sul “doppio sì”, un sì alla maternità e un sì al lavoro, per immaginare il lavoro come uno dei nuclei dell’esistenza e non come spazio alternativo alla cura. Il progetto era ribaltare il ruolo materno tradizionale come “ostacolo” da un lato e rappresentazione dell’angelo del focolare dall’altro, per mettere invece al centro una rivendicazione sacrosanta e apparentemente antieconomica: e se le donne volessero stare vicino ai figli? Se fosse invece un gesto di libertà femminile, ancestrale quanto partorire, quello di voler rallentare finché il nido non si è svuotato? Questo sarebbe possibile, naturalmente, solo affermando una gerarchia di valori in cui la relazione madri-figli non venisse ignorata, ma al contrario valorizzata come fondativa dell’esperienza di una persona adulta.

Evidentemente, invece, se il modello dominante è la giornata di otto ore (almeno), con tanto di call, trasferte e accelerazioni a ogni ora, tutto ciò che si discosta da quel modello dominante rientra nella crisi e nella narrazione della caduta che un po’ è presente anche nelle inchieste dell’Economist. Se a questo aggiungiamo il ritorno, potente, del modello di gravidanza, parto e allattamento ultra-naturali, ultra-vincolanti, ebbene, l’ennesimo corto circuito dell’equilibrio neoliberale è innescato. In inglese si dice it takes a village to raise a child: per crescere un bimbo serve un villaggio intero. Tornerei, e in fretta, a guardare alla riproduzione come gesto sociale e politico, liberando le madri dall’ennesimo fardello perfezionista e disumano per cui non si è mai abbastanza, quando si è già tantissimo.

(*) Angela Condello è docente di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Messina

Da La Valigia Blu – I dissidenti in Russia non hanno vita facile, e la situazione sembra solo peggiorare. Il 22 marzo scorso, la Russia è stata vittima di un feroce attacco terroristico. L’attacco, durato in totale 18 minuti, ha causato 139 vittime. Nonostante la rivendicazione dell’attacco da parte dell’ISIS-Khorasan, il ramo dell’organizzazione terroristica attivo principalmente in Afghanistan e nel Caucaso, il presidente russo Vladimir Putin non ha esitato a strumentalizzare quanto accaduto alludendo a possibili responsabilità da parte ucraina. Per quanto riguarda la politica interna, conseguenza immediata dell’attentato è l’inasprimento del governo russo nei confronti delle questioni relative alla sicurezza.

Le leggi russe relative al terrorismo sono state a lungo un’arma efficace contro il dissenso. Infatti, la legge sul terrorismo varata nel 2006, così come quella sull’estremismo, è stata spesso strumentalizzata per sopprimere il dissenso e controllare il dibattito pubblico, lasciando poco spazio a istanze di opposizione.

Sono 3.738 le persone condannate ai sensi della legge contro il terrorismo nel periodo che va dal 2013 al 2023. Ma tanti sono anche i casi antecedenti a quella data. Tra questi c’è la storia di Ivan Astashin, attivista per i diritti umani che per anni si è battuto contro gli abusi in divisa e contro le condizioni disumane imposte nelle carceri russe. Nel 2009, Ivan lanciò una molotov contro una stazione dell’FSB, il servizio di sicurezza federale russo. Il gesto, più simbolico che realmente tattico, non causò vittime né feriti, né danni sensibili agli uffici: si limitò a rompere una finestra. Ciononostante, Ivan fu accusato di terrorismo e condannato a tredici anni di carcere. Anche in virtù della propria esperienza, Ivan si è impegnato nell’attivismo a tutela dei diritti umani, e a raccontare la tragica situazione delle carceri russe, in cui gli abusi in divisa sono all’ordine del giorno e i dirittihttps://www.rivistastudio.com/sheila-heti-intervista/ dei detenuti sono sistematicamente lesi.

Ivan Astashin è uno dei protagonisti di La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel Paese di Putin (Altreconomia) , libro scritto a quattro mani dalla scrivente e da Federico Varese [. Astashin è uno dei cinque oppositori del regime di Putin di cui abbiamo raccontato le vicende: i protagonisti del libro sono persone reali, che si sono raccontate in lunghe interviste ripetute a distanza di mesi, così da coprire un arco temporale vasto e sensibile ai cambiamenti che la Russia ha attraversato dal lancio dell’invasione su larga scala scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Ogni storia svela un aspetto specifico della società russa, e soprattutto di cosa vuol dire essere dissidenti nel Paese di Putin.

Apriamo il volume con la storia di Ljudmila, una blokadnica (dal russo blokada, “assedio”), vale a dire una sopravvissuta all’assedio di Leningrado (1941-1944). In risposta all’invasione dell’Ucraina, Ljudmila è scesa in strada a manifestare contro la guerra, ed è stata arrestata nonostante l’età avanzata. Ljudmila racconta degli scambi che ha avuto con i giovani soldati. Lei che la guerra l’ha vissuta davvero e ne ha sofferto gli orrori sulla propria pelle ha spiegato, con comprensione e umanità, come la retorica bellicista di Putin, fondata sulla mitizzazione della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, sia un dispositivo per giustificare altrettanti orrori, anziché per rendere omaggio agli eroi del passato.

La seconda storia del volume ci porta invece in periferia, nelle campagne moscovite, dove padre Ioann, un pope ortodosso, è stato arrestato per aver denunciato i crimini russi in Ucraina durante un’omelia a una platea di dodici persone. La storia di Ioann rivela come la Chiesa ortodossa russa sia un importante alleato politico del Cremlino, sposandone le politiche violente e imperialiste e diffondendo propaganda bellicista tra i fedeli. L’assurda storia di Ioann, però, ci ricorda anche come sia sempre più difficile trovare spazi sicuri nella Russia di oggi: i delatori possono nascondersi anche fra una platea di una manciata di persone in un villaggio di campagna.

Grigorij Judin è la terza figura chiave del libro. Ricercatore e docente, con lui svisceriamo le difficoltà di sondare l’opinione pubblica nella Russia di Putin e, in generale, in contesti non democratici. Numerosi studi dimostrano come i sondaggi possano essere influenzati molte variabili, che in contesti non democratici acquisiscono peso maggiore: la formulazione delle domande, il luogo e il momento in cui vengono poste, la familiarità dei partecipanti con l’argomento in questione, la misura in cui essi si sentono liberi di esprimere la propria opinione in sicurezza, l’ente che conduce il sondaggio, e così via. In questo scenario fumoso è difficile misurare il consenso popolare di un regime, e quindi rispondere a una domanda che dal lancio dell’invasione su larga scala ha impensierito molte persone in Russia e non: quanto di quello che sta succedendo in Ucraina è colpa di ciascun cittadino russo? La questione chiama in causa i concetti di colpa e di responsabilità collettiva, e la relazione di accountability che lega governanti e governati, ossia il vincolo di responsabilità bidirezionale degli uni verso gli altri.

A chiudere il volume c’è la storia di Doxa, rivista indipendente nata in seno alla Higher School of Economics, ateneo moscovita di fama liberale, raccontata da Katja, redattrice. La parabola di Doxa e del collettivo di ragazze e ragazzi che la animano mostra il tentativo da parte delle autorità russe di soffocare il dibattito politico all’interno delle università, ma anche di imporre un modello di giornalismo “neutrale”, che in questo contesto significa non critico nei confronti del potere. Di erodere, dunque, spazi che storicamente sono stati culle di dibattiti, cambiamenti e rivoluzioni.

Il filo rosso che lega le storie di Ljudmila, Grigorij, Ioann, Ivan e Katja sono le tattiche di resistenza quotidiane di chi si trova a lottare in un paese in cui fare opposizione è pressoché impossibile. Il processo storico che ha attraversato la Russia dal crollo dell’URSS ai giorni nostri, infatti, ha fatto sì che il paese si ritrovi ad oggi privo di infrastrutture che possano canalizzare il dissenso entro un fronte coeso, e fare opposizione sistematica al Cremlino. Questa situazione non è dettata dal caso, ma dalla combinazione di circostanze preesistenti l’ascesa di Putin, e dalla precisa volontà di Putin di esacerbare una situazione non favorevole allo sviluppo democratico della società civile sin dal suo primo mandato presidenziale. Analizziamo nel dettaglio la questione in un saggio conclusivo, a cui seguono poi due appendici. Nella Cronologia elenchiamo nel dettaglii i momenti fondamentali della dialettica fra opposizione e repressione dal duemila ad oggi. Nel Glossario della resistenza, invece, illustriamo metodi alternativi che cittadini e cittadine russe hanno escogitato per continuare a esprimere il loro dissenso in un contesto così soffocante.

Con La Russia che si ribella ci siamo posti l’obiettivo di mostrare dinamiche interne alla Russia di Putin che spesso rimangono lontano dalle cronache giornalistiche. Attraverso le voci dei nostri intervistati, abbiamo voluto mostrare le difficoltà e le sfide che attendono quella parte di popolazione che non si trova d’accordo con le politiche del Cremlino, e le soluzioni che sono state trovate per farvi fronte. Osservando da vicino le esperienze molto diverse fra loro di cinque dissidenti, il volume rivela passo passo i nodi e i dilemmi fondamentali della popolazione contraria al regime di Putin, facendo luce sul volto di una Russia che difficilmente si riesce a scorgere oltre le maglie della repressione putiniana.

Da Il Quotidiano del Sud – Domenica 14 aprile ho partecipato all’incontro annuale delle Città Vicine, organizzato da Anna Di Salvo e Mirella Clausi di Catania per dare “Voce alle città: la parola alle pratiche” in questi tempi «che ci stanno venendo incontro con accadimenti terribili», come ha esordito Di Salvo in apertura. Un incontro on line che ha visto la partecipazione di molte donne e qualche uomo di ogni parte d’Italia. La discussione ha dato voce a pensieri e pratiche “creative” che quotidianamente donne e ragazze mettono in campo per vivere e non sopravvivere, per conservare la “gioia” e continuare ad avere “fiducia nei rapporti umani”. Racconti e pratiche di donne in una “visione differente di città”, quella che l’urbanista Elena Granata nel suo libro Il senso delle donne per la città chiama la “città immateriale” o il “simbolico femminile della città” che le Città Vicine, come ha ricordato Di Salvo, hanno sempre praticato per “edificare le città alla luce del loro desiderio”. Una visione femminile dell’abitare la città, vista come “comunità di corpi che abitano spazi e tempi umanizzati”, perché le città “non sono le pietre ma le persone, le relazioni, i corpi viventi di uomini e donne”. Ed è sulle relazioni, sull’“energia creativa delle relazioni”, comprese quelle “impensate” di solidarietà e sostegno, create con le nuove tecnologie digitali, che donne e ragazze, come ha raccontato Laura Colombo, fanno leva come “via d’uscita” dalla “paura” dello stupro, “paura di tornare a casa”, perché se è vero, come è vero, che ci sono segnali di cambiamento negli uomini e nei giovani maschi, in loro permane la paura che le mette in una posizione difensiva. Un senso di “sicurezza” nelle città, rese insicure dalla violenza maschile, secondo Mirella Clausi lo dà la presenza della gente ma anche le telecamere. Il convegno ha dato voce con Simonetta Patanè al racconto di pratiche di “relazione politica ed economica” di cura del “territorio” e di recupero “di arti e pratiche antiche” attraverso progetti di sviluppo “sostenibile” e ripopolamento di zone interne. Pratiche che richiamano un turismo che non “si mangia la città” ma rispetta la “durezza” dei territori. Relazioni e cura sono pratiche che le donne hanno sempre fatto ma oggi, come è stato ripetuto, è necessario che diventino l’orientamento del mondo, per salvare città come Palermo che sta andando “verso la mancanza di acqua”. Così come la cura, questo “lavoro di invenzione quotidiana” che richiede “talento” e che per Marina Terragni “dovrebbe rientrare nei curricula lavorativi delle donne”. Voce è stata data al racconto di pratiche di buona amministrazione nelle città di Foggia e Vicenza dove spira “un’aria nuova” con una sindaca e un sindaco voluti e sostenuti dalle donne, senza dimenticare che “il problema a Bari e alla Regione, è nato purtroppo da alcune donne che sono state indagate per corruzione e voto di scambio”. Voce a chi si oppone a Vicenza all’alta velocità, un’opera inutile e dannosa per l’ambiente, dove l’apertura dei cantieri ha mobilitato gli espropriati, come sta avvenendo a Villa San Giovanni per il Ponte sullo Stretto. E ancora, voce è stata data a pensieri e sentimenti di paura e di angoscia per la guerra in Ucraina e a Gaza con annesse rappresaglie tra Israele e Iran, che ci restituiscono immagini di morte e distruzione di città, corpi e palazzi sventrati, e un’assenza totale di “relazioni diplomatiche”. Tante voci, tanti racconti, tante pratiche e la proposta di Loredana Aldegheri di aderire all’appello di Ginevra Bompiani e Barbara Alberti per “uno sciopero mondiale contro la guerra”. A conclusione del convegno, dietro proposta di Laura Colombo, ci si è date appuntamento all’anno prossimo alla Libreria delle donne di Milano, che festeggerà i suoi 50 anni.

Discutere del silenzio potrebbe rappresentare una contraddizione in termini, ma una contraddizione può produrre pensiero, parola e azione.

Di silenzio (ma non solo), si è discusso sabato 13 aprile 2024 alla Libreria delle donne di Milano durante la presentazione de Il silenzio del noi (Mimesis 2023, pp. 90), un volumetto di Niccolò Nisivoccia; l’autore, avvocato ma anche editorialista, scrittore e poeta, ha ragionato sulla scomparsa non tanto del silenzio, ma di un silenzio strettamente legato ad una dimensione collettiva del parlare e dell’agire.

Una dimensione che, secondo lui, ha iniziato a scomparire verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso quando è sparito anche il noi. Un noi che è svanito quando abbiamo smesso di confrontarci, di scontrarci, di dialogare, di assegnare alla parola un valore preminente, sostituendolo con un individualismo arrogante e assordante.

La discussione sul silenzio ha prodotto in me pensiero e ordine del pensiero (ma al momento volutamente non parola) per quella feconda contraddizione a cui accennavo sopra.

Alla metà degli anni ’70 ero un giovane uomo, di famiglia operaia immigrata dal Friuli, avevo studiato in un istituto tecnico come perito elettronico e le parole che ascoltavo e leggevo mi hanno    permesso (come a molte altre e altri nella mia stessa condizione sociologica ed esistenziale) di parlare in pubblico, intervenire durante le assemblee del mio luogo di lavoro (allora una grande multinazionale informatica statunitense), discutere all’interno della rappresentanza sindacale interna, parlare nelle riunioni di gruppo politico e via via nel tempo fare anche seguire un corso di studi universitari umanistici.

Parole pronunciate e lette che mi hanno permesso di considerarmi come appartenente a un noi molto ampio.

Questa situazione non è durata a lungo, il parlare si è ritirato nelle stanze e nei luoghi deputati e sono state delegate a chi tali strumenti li aveva e li sapeva usare; piano piano le/i parlanti si sono via via azzittiti e hanno lasciato agli “esperti” (intellettuali, politici di professione e così via) la preminenza della parola. E, con la lenta scomparsa della parola libera e diffusa, è scomparso anche il noi.

Nell’incontro di sabato si è discusso meno di come uscire da questa afonia del noi; su questo sento mancarmi le parole e preferisco ritirarmi in un silenzio che ascolta e mi sento solo di dire, al momento, con le parole di un filosofo, che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.

Da la Repubblica – La povertà in Ungheria, la fuga in Usa, la figlia olimpionica. E il premio Nobel per gli studi sugli antivirali. Parla la biochimica che ha raccontato in un’autobiografia la sua storia piena di ostacoli

«Ho detto a mio marito: ora tocca a te, devi vincere un Oscar». Katalin Karikó è una donna straordinaria, e anche spiritosa. L’unica qualità che forse non si evince dalla sua autobiografia Nonostante tutto. La mia vita nella scienza, da ieri anche nelle librerie italiane. Nel racconto di una vita dedicata allo studio e alla ricerca, dall’infanzia trascorsa a osservare piante e animali nella sperduta campagna ungherese, al premio Nobel per la medicina conferitole nel 2023 per aver dato un contributo fondamentale ai vaccini anti-Covid, emergono umiltà, determinazione, passione. Di humour ce n’è pochissimo. E d’altra parte la storia di Katalin Karikó è stata una successione di ostacoli. L’infanzia poverissima in una famiglia contadina di un Paese socialista. Gli anni dell’università e dei controlli da parte della polizia politica. La decisione di trasferirsi, alla metà degli anni Ottanta, negli Usa per studiare i segreti dell’Rna (l’acido ribonucleico che nelle cellule, tra l’altro, sovrintende alla sintesi delle proteine): un viaggio da migrante d’altri tempi, con i pochi risparmi nascosti nell’orsacchiotto di peluche della figlia di due anni e il marito Béla che, appena arrivato a Philadelphia, si mette a lavorare come “aggiustatutto” in un condominio.  

E poi i nuovi capi americani, che diffidano delle sue idee. Nonostante tutto, la biochimica ungherese insiste: vuole comprendere il ruolo dell’Rna messaggero e utilizzarlo a fini terapeutici. La svolta c’è nel 1997: Karikó inizia a collaborare con l’immunologo statunitense Drew Weissman. All’inizio degli anni Duemila i due scienziati capiscono come usare l’mRna per veicolare vaccini antivirali: è la tecnica che sarebbe poi stata sviluppata dall’americana Moderna e dalla tedesca BionTech (di cui Karikó diventa vicepresidente nel 2013) per i vaccini contro il Covid. Da lì la popolarità e il premio Nobel dell’anno scorso, condiviso con Weissman. Ma in famiglia qualcun altro si era già fatto notare: nel 2008 e nel 2012 alle Olimpiadi di Pechino e Londra, Susan Francia vince due medaglie d’oro di canottaggio nell’“otto con”. È la figlia della Karikó, la bimba che nel 1984 era volata dall’Ungheria agli Usa stringendo un orsacchiotto imbottito di banconote. 

«Non mi risulta che ci siano altre famiglie con un Nobel e due ori olimpici», ride la professoressa, «Ora manca solo l’Oscar a mio marito».

Professoressa Karikó, ai Giochi di Pechino e Londra lei si presentava come la mamma di una campionessa olimpica. Ora sua figlia può ricambiare…

«Infatti ha voluto una copia della medaglia che viene consegnata ai Nobel: la tiene in bella mostra nella sua casa di San Diego, accanto ai due ori olimpici».

Una famiglia plurimedagliata: è solo una coincidenza?

«Per praticare canottaggio ci vuole naturalmente forza fisica. Ma è uno sport quasi più mentale che fisico: continui a fare una cosa quando invece tutti gli altri smetterebbero di farlo».

La stessa determinazione con la quale lei ha portato avanti le sue ricerche sull’Rna messaggero come veicolo di possibili terapie?

«Esatto. È molto importante che ci si dia sempre un obiettivo. Io l’ho sempre fatto e voglio continuare».

Nel libro racconta molto della sua infanzia e della sua vita privata. Perché questa scelta?

«Quanto ci succede nei primi quattordici anni di vita è fondamentale per definire il tipo di persona che saremo nel resto della vita. Le difficoltà in cui ho visto dibattersi mio padre macellaio mi hanno aiutata quando è toccato a me superare degli ostacoli. Ho pensato che rievocando anche la mia infanzia il racconto della mia esperienza sarebbe risultato più genuino».

Qual è stato l’ostacolo più difficile da superare?

«Trasferirmi negli Usa dall’Ungheria comunista. Ma è stato forse anche più difficile ricominciare da capo a cinquantotto anni e trasferirmi in Germania per lavorare alla BionTech, di nuovo in un Paese di cui non conoscevo la lingua. La prima settimana ho pianto tutte le notti. Anche quella volta è stato fondamentale Béla, mio marito. Mi disse che ce l’avrei fatta e che non mi avrebbe sopportata se, una volta tornata in America, avessi cominciato a rimpiangere l’occasione persa».

Il suo essere donna le ha reso la vita più difficile nel mondo accademico?

«Quelli che hanno creduto in me erano uomini. Ho anche avuto un capo maschio che mi trattava male e che faceva altrettanto con colleghi uomini. Ma non sono arrabbiata, cerco sempre di dare più importanza alle cose che ho imparato da lui».

In molte professioni, compresa la ricerca, esiste ancora un profondo gender gap. Come se ne esce?

«Fornendo servizi sociali di qualità alle madri. Le donne continueranno a restare incinte e a partorire, e quando i bambini piangeranno, tutti guarderanno loro come a dire “fa’ qualcosa”. Quando mia figlia era piccolissima in Ungheria il pediatra pubblico passava a trovarci a casa tutti i giorni. Negli Stati Uniti e in molti altri Paesi i servizi pediatrici e per l’infanzia sono costosissimi. E questo ha conseguenze sulla realizzazione professionale delle madri».

Suo marito la incoraggiò a migrare tutti negli Usa, quando eravate una giovane famiglia, e poi ad andare lei da sola in Germania…

«Infatti alle studentesse che incontro dico: “Dovete trovare il marito giusto”. Io l’ho trovato. 

L’unica cosa in cui non si era mai cimentato era la cucina, ma quando mi è stato offerto il lavoro in Germania ha detto: “Se è la migliore occasione che ti offrono, vai. Imparerò anche a cucinare”».

Lei ha studiato per tutta la vita. Ci riesce anche ora, dopo il Nobel?

«Continuo a farlo, anche se ricevo inviti dappertutto nel mondo e incredibili offerte di denaro per singole conferenze. Ma dico molti no, perché voglio concentrarmi sui prossimi progetti di ricerca».

Quali sono?

«Nello studiare come il nostro organismo sintetizza l’Rna e come lo degrada ho capito che questi meccanismi hanno a che fare con alcune malattie. E sono convinta che si possano iniziare delle sperimentazioni sugli esseri umani per verificarlo».

Una nonna Nobel e una mamma campionessa olimpica: che futuro immagina per i suoi due nipotini?

«Mia figlia li porta a nuotare e a sciare. Io parlo loro delle piante, dei funghi, della scienza. Cerchiamo di stimolarli in entrambe le direzioni».

Il libro: Nonostante tutto. La mia vita nella scienza di Katalin Karikó (Bollati Boringhieri, trad. di Andrea Asioli, pagg. 272, euro 22)

Da la Repubblica – Se il governo a Teheran pensa che basti spaventare la gente per fermare le proteste, che basti dire “siamo in tempo di guerra”, si sbaglia. Azar Nafisi segue le ultime convulsioni della crisi in Medio Oriente dagli Stati Uniti, dove vive da più di vent’anni. Per modo di dire. Perché la scrittrice diventata famosa con Leggere Lolita a Teheran, considerata una delle voci più importanti dell’Iran in esilio in realtà vive legata a filo doppio – via telefono o via internet – con Teheran e con i familiari e gli amici che ha ancora lì.

Signora Nafisi, ha sentito i suoi contatti? Qual è stata la reazione dopo l’attacco di sabato?

«Davvero lo vuole sapere? Allora le devo raccontare che abbiamo scherzato molto su questo grande attacco… che non ha fatto nessun danno. Ora, a parte le battute, le reazioni che ho raccolto sono di scetticismo: i miei amici, i miei parenti, tutti dicono che la guerra vera per gli iraniani non è quella contro Israele ma quella contro il regime islamico che li opprime. E che ora usa questa crisi come diversione dai problemi domestici che non vuole affrontare. Come credo stia facendo anche Netanyahu».

Però la Storia insegna che un Paese in guerra o sotto attacco si unisce dietro al governo: anche a un governo impopolare…

«Certo, ma non è questo il caso. Se il governo a Teheran pensa che basti spaventare la gente per fermare le proteste, che basti dire “siamo in tempo di guerra”, si sbaglia: in Iran la paura non funziona più. Sono tante le persone che non hanno più paura: quelle che scendono in piazza nonostante gli sparino addosso, le donne si tolgono il velo e finiscono in carcere, i giovani che ballano e come risposta trovano i proiettili. Tutto questo è accaduto per mesi: eppure, nessuno si è fermato, la protesta è andata avanti. Per gli iraniani il concetto di vita ormai coincide con quello di libertà. Non c’è vita se non c’è libertà: per questo la gente è pronta a morire. E per questo il regime non può più spaventare tutti quelli che vogliono la libertà».

Quindi questo può essere un momento di cambiamento anche interno?

«Il cambiamento interno è già in atto. Si chiama Donna Vita Libertà. Questo movimento ha cambiato l’Iran: ci vorrà tempo, ma non si torna indietro. La gente ha trovato il suo potere, lo hanno trovato le donne, che usano il loro corpo, i loro abiti, i loro movimenti, il trucco per dire se stanno o no col regime. E che sono pronte a pagare il prezzo del loro “no”».

Sui social network che fanno riferimento all’Iran, da dentro il Paese e da fuori, si legge sostegno a Israele: come dobbiamo interpretare questo segnale?

«Alla gente piace tutto quello che non piace al regime. Nel momento in cui Israele è indicato come il nemico, la reazione di chi si oppone al regime è “Be’, allora non deve essere così male”. Non lo leggerei come un segnale politico. Anche perché anche sulla questione palestinese le idee sono confuse: pochi capiscono veramente che c’è una differenza fra essere palestinese ed essere necessariamente di Hamas. Lo stesso vale per i libanesi e Hezbollah. Le informazioni che arrivano in Iran non sono affidabili: chi vuole capire davvero deve andare a cercare in rete. E non tutti lo fanno».

Ha una speranza per il futuro del suo Paese?

«Certo che ce l’ho. All’inizio del regime islamico, l’ayatollah Khomeini emise il decreto che rendeva obbligatorio il velo per le donne. Decine di migliaia di donne scesero nelle strade a protestare. Uno dei loro slogan principali era: “La libertà non è occidentale o orientale. La libertà è globale”. Queste parole oggi sono valide per l’Iran, la Palestina, Israele, l’Ucraina, l’Afghanistan e ogni nazione del mondo. Sono queste parole che rinnovano la mia speranza per il futuro del mio Paese».

Da Facebook – C’è una grande assente nel profluvio di analisi geopolitiche che circolano, ed è l’opinione pubblica, o se preferite la società civile, di tutti i paesi coinvolti, da protagonisti o da comparse, nella crisi gigantesca che stiamo vivendo. I fari sono tutti puntati sui governi e sugli eserciti, su capi e capetti tutti affetti da una sindrome di infantilismo criminale, come bambini che se le danno litigando su chi ha cominciato per primo e chi si deve vendicare per ultimo. Ma non c’è governo, fra questi che ci stanno portando allo sfacelo, che non debba (o non dovrebbe) confrontarsi con una crisi interna di consenso e legittimazione devastante. In Israele Netanyahu aveva più di mezza società in piazza prima del fatidico 7 ottobre, e continua ad essere ampiamente detestato adesso. L’Iran ha alle spalle il movimento femminile e giovanile di protesta forte e intelligente di cui il mondo si era innamorato ma che oggi è completamente oscurato non solo dal suo regime ma dai media di tutto il mondo. Gli Stati uniti, che siano di Biden o di Trump, sono attraversati da una crisi d’identità e di senso che allarga di giorno in giorno la divaricazione fra società e istituzioni. Dell’opinione pubblica europea non si ha notizia, perché se se ne avesse il suo arruolamento presunto nella guerra d’Ucraina e nel sostegno a Israele si sbriciolerebbe, o obbligherebbe quantomeno a fare un distinguo fra l’Europa dell’Est e l’Europa dell’Ovest, e bye bye alla favola della compattezza dell’Unione. Dei russi abbiamo deciso che sono tutti manipolati da Putin ma chi ne sa racconta che c’è pure un’altra Russia di cui nulla sappiamo; degli ucraini abbiamo deciso che sono tutti felicemente in armi ma fra esodo e diserzione sappiamo che chi può, giustamente, si sottrae. Chi mi conosce sa che io sono tutt’altro che una movimentista e che non ho mai creduto nel valore taumaturgico delle piazze. Ma adesso è proprio venuto il momento di riempire le piazze per dire un gigantesco NO a questo delirio di un potere cieco, ignorante e imbarbarito, dimostrargli che non è onnipotente e mettergli un freno. Non c’è altro modo per togliersi da quell’“orlo del baratro” su cui ogni mattina veniamo informati che ci stanno mettendo.

Allora ci vediamo il 25 aprile a Milano. Troviamoci sotto lo striscione “Mai indifferenti”.

(La redazione del sito)

Da Pressenza – Negli scaffali delle librerie in questi giorni si può trovare il lavoro collettaneo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi, curato da Daniela Dioguardi per i tipi di Castelvecchi Editore (2024). Per presentare il libro abbiamo formulato delle domande a Silvia Baratella della Libreria delle donne di Milano, autrice di uno dei testi.

Qual è stata la spinta a scrivere questo libro e perché definite “temi scomodi” i dieci interventi raccolti nel volume?

Abbiamo deciso di scrivere perché i temi che affrontiamo, temi cruciali per le donne e che chiamano in causa l’inviolabilità del corpo femminile, sono diventati impossibili da trattare nel dibattito pubblico, soprattutto negli ambienti progressisti e di sinistra: alcune di noi negli ultimi anni sono state bersaglio di censure e talvolta di intimidazione. Tuttavia siamo convinte che sia indispensabile riportarli al centro del dibattito. “Scomodi”, sempre, sono gli argomenti che scombinano l’idea che le donne debbano essere a disposizione altrui. Questo facciamo nel libro, un pamphlet curato da Daniela Dioguardi di Udipalermo, e scritto da femministe che vengono da diverse esperienze: UDI, Arcilesbica, Libreria delle donne di Milano, collettivo Donne di Baggio (sempre a Milano), gruppi donne delle Comunità Cristiane di Base, Rete Abolizionista Italiana… Oggi c’è in atto una forte tendenza a disciplinare le donne e a mettere a profitto i loro corpi spacciata per autodeterminazione e considerata libertaria, mentre noi non esitiamo a definirla liberista. Parallelamente si cerca di rendere invisibili le donne come soggetti. È impressionante la fascinazione che queste due tendenze esercitano sugli ambienti progressisti, quelli che più dovrebbero avere a cuore la giustizia sociale e, anche, la lotta contro l’alienazione capitalista.

Tu parli di una volontà giuridica sulla normazione dei corpi. Nella fattispecie a che cosa ti riferisci?

Le proposte di legalizzazione della prostituzione, per esempio: grazie alla legge Merlin prostituirsi non è reato, lo sfruttamento della prostituzione altrui sì. Allora cosa si vuole legalizzare? La possibilità di esercitare un controllo sulle prostitute? I profitti dei magnaccia? O si vuol dare una patente di rispettabilità ai “clienti”? Un altro tema è la gestazione per altri. C’è chi reclama un “diritto” (irrealistico) ad avere figli. Ma potrebbe esercitarlo solo mettendo al suo servizio un corpo altrui, il corpo di una donna. E genererebbe un rapporto proprietario con le creature piccole, fondato sull’averle pagate e non sull’averle messe al mondo. Tutte le norme di questo tipo si risolvono in una perdita di libertà per le donne coinvolte: si potrebbero imporre controlli sanitari alle prostitute – ma chi controllerebbe i clienti a tutela della loro salute? – o schedarle, tutte cose oggi vietate dalla legge Merlin. E nei paesi dove la prostituzione è regolamentata la tratta non sparisce, al contrario aumenta. Quanto alla gravidanza per altri, nei paesi in cui è legale diventa legale anche imporre contratti a condizioni spaventose, in cui le donne sono obbligate a sottoporsi a trattamenti medici dannosi per loro, non possono lasciare il luogo di residenza (domicilio coatto!), non possono far visita ad ammalati in ospedale, non possono avere rapporti sessuali… la loro vita è completamente fuori dal loro controllo, e mai nel loro interesse.

Un altro disciplinamento dei corpi, anche se non è una legge, sta nella standardizzazione della diagnosi di “disforia di genere” per ogni comportamento libero: se sei una bambina e giochi a calcio, devi trasformare il tuo corpo (all’apparenza) in quello di un calciatore maschio. O se sei un bambino che gioca con le bambole devi trasformarti in (finta) bambina. Gli stereotipi non si discutono e non si cambiano, il tuo corpo sì. Medicalizzando comportamenti non conformi o crisi d’identità magari passeggere si rendono bambine e bambini dipendenti da farmaci per tutta la vita. A trarne un beneficio certo sono solo le case farmaceutiche. Ma a preoccuparsene si è accusate di transfobia.

Puoi chiarirci perché una legiferazione sui corpi, specificamente su quello della donna, tenderebbe ad oscurare la visibilità politica di quest’ultima nello spazio pubblico?

A dire il vero, a oscurare la visibilità delle donne nella sfera pubblica non sono tanto le leggi sui corpi quanto, paradossalmente, quelle sulla parità. E stanno arrivando persino a limitare la libertà femminile. Un esempio, accaduto proprio in una regione di centro-sinistra, lo raccontiamo nel pamphlet: interpretando una norma “antidiscriminatoria”, sono state dichiarate “discriminatorie” delle associazioni in quanto femminili. Si tratta di Arcilesbica (e non vedo come un’associazione di lesbiche potrebbe associare uomini!) e di alcune UDI provinciali. L’UDI, Unione Donne in Italia, nata durante la Resistenza dai Gruppi di Difesa della Donna, ha sempre associato solo donne dal 1944 a ora. Adesso glielo si contesta! E il risultato di questa interpretazione qual è? Che non possono accedere a determinati fondi pubblici, che associazioni di soli maschi possono ottenere, perché la formula “soci” nei loro statuti è considerata maschile sovraesteso automaticamente “inclusivo”. Insomma, anziché discriminatorie sono discriminate. Però pretendere di decidere con chi devono associarsi le donne è non solo una violazione della libertà di associazione, ma anche un tentativo di cancellare la presenza femminile autonoma dalla scena pubblica. Operato dalla sinistra. Il governo di centro-destra, invece, usa la parità per promuovere le quote azzurre nella scuola (e non solo): per il ministero ci sono “troppe donne”, quindi bisogna creare canali privilegiati per assunzioni e carriere maschili. Strano che le donne al lavoro, dove ci sono, possano essere considerate “troppe” in un paese in cui gli uomini sono occupati al 70% e le donne solo al 53%. Anche il diritto di famiglia sta registrando un’involuzione, grazie all’ideologia bipartisan della “bigenitorialità”, che in nome della parità penalizza le madri nella separazione. Un tema che abbiamo approfondito nei nostri testi.

Ma non sono solo le leggi a cercare di togliere visibilità alle donne come soggetti. È in corso una battaglia simbolica attraverso il linguaggio. Schwa, chiocciole e asterischi impronunciabili per neutralizzare il genere grammaticale, prontuari di terminologie “politicamente corrette” per sostituire tutti i riferimenti femminili con circonlocuzioni macchinose e francamente offensive, come “persone che mestruano”, “allattamento al petto”. Lo si presenta come linguaggio “inclusivo” verso le persone che non vogliono essere definite in base al sesso, in realtà è aggressivamente escludente verso tutte, e solo, le donne: nessuna parola che riguardi i maschi viene censurata. L’ideologia queer, apprezzatissima a sinistra, anziché criticare e smantellare gli stereotipi, che lascia intatti e anzi assolutizza, attacca e critica i sessi reali, cercando di cancellare quello femminile. In questa cornice, si pretende dal femminismo che si metta al servizio delle teorie gender fluid all’ultima moda e di tutte le minoranze che le incarnano. E quelle che non si assoggettano diventano, appunto, “scomode”. La destra, da parte sua, continua intanto pervicacemente a rifiutare l’uso del femminile per cariche e posizioni professionali ricoperte da donne: altro modo di farle sparire.

Appare chiaro che la vostra critica si concentra a sinistra quando le problematiche, invece, promanano da fonti plurime?

In realtà, critichiamo anche la destra. Ma dalla sinistra ci aspetteremmo tutt’altro, e siamo preoccupate che rincorra acriticamente le tendenze che ho descritto, cieca ai meccanismi di sfruttamento che ci stanno dietro e sorda a ogni richiamo al senso critico e al senso di giustizia che dovrebbe, lei sì, avere nel suo Dna. Le donne non si meritano – e per la maggior parte non accettano – di essere considerate cure per la sterilità altrui, oggetti sessuali o “persone che mestruano”. Né vogliono essere sfruttate e vedere svalutato o cancellato quello che realizzano. In quest’ultimo mezzo secolo hanno costruito percorsi e pratiche di libertà, non vi rinunceranno. Se la sinistra non lo capisce e non riprende a distinguere la libertà dal liberalismo, le destre si approprieranno di temi e argomenti, ma poi li piegheranno alle loro politiche autoritarie, e inique, perché loro il senso di giustizia nel Dna non ce l’hanno mai avuto.

Un’ultima domanda: in questi giorni, durante un intervento sulla natalità, la Meloni è tornata ad attaccare il cd. “utero in affitto”, ricordando non solo che in Senato c’è una legge che lo renderebbe “reato universale”, ma anche il fatto che «non bisogna perdere la specificità del ruolo della madre e del padre». Orbene, come pensate di marcare la differenza rispetto a queste posizioni? 

Ecco, come volevasi dimostrare. La sinistra dice che affittare l’utero è empowerment e autodeterminazione, che le coppie sterili hanno “diritto” ai figli. La destra dice che è una pratica da debellare (e sono d’accordo), ma per riaffermare un modello di ruoli rigidi e di coppia eterosessuale obbligatoria. La differenza sessuale esiste ed è un fatto naturale e innegabile, ma non comporta ruoli innati né predestinazioni. Per dirla con le parole della filosofa Luisa Muraro, «nulla di ciò che è umano è precluso a nessuno dei due sessi». Ma madre e padre non sono uguali, non c’è simmetria. La madre è tale perché mette al mondo la figlia o il figlio, li “fa”, materialmente, non perché è “buona” o portata ai sacrifici o votata solo ai figli, ma è lei che li fa e questo crea un legame che, per come la vedo io, viene prima di ogni altro, e prima di quello di coppia. Può decidere lei di separarsi dalla creatura piccola, ma se non lo fa ed è in grado di occuparsene, nessun altro deve poter spezzare il loro legame. Il padre c’è per forza, a monte del concepimento, e può essere accanto a loro – se lo vuole – solo se lei lo accetta e lo desidera al suo fianco (e di solito è così). Se lei desidera crescere la creatura da sola o con la sua compagna, deve poterlo fare. La «specificità del ruolo della madre e del padre» serve a subordinare lei al padre. Personalmente, credo che si dovrebbe riconoscere un ruolo di tutela legale sul minore a una seconda persona solo a partire dalla scelta della madre di crescerlo con quella persona. Chiunque sia. Fermo restando il diritto della figlia o del figlio a conoscere le proprie origini paterne ove possibile. Ti sembrano differenze abbastanza significative dal modello di Meloni? Spero di sì. 

Quanto al divieto della gestazione per altri: sono per il divieto di qualunque pratica che permetta di perseguire i propri fini attraverso il corpo altrui. Non riconoscerei un atto di proprietà su un altro essere umano e approvo la messa al bando universale della schiavitù. Allo stesso modo, non riconosco la liceità dell’uso del corpo di una donna e di proprietà sul figlio o figlia di lei, e sono per la messa al bando universale della gestazione per altri. La sinistra si oppone da sempre alla schiavitù, perché non fa altrettanto con l’utero in affitto? Sono cose come queste su cui vogliamo riaprire il dibattito.

Da la Repubblica – E se fosse il desiderio a mancare? Difficile confessarlo mentre i dati raccontano una catastrofe demografica prossima ventura. Eppure, forse, per capire come mai nel 2023 sono nati nel nostro ormai vecchissimo paese soltanto 379mila bebè, nemmeno gli abitanti di un quadrante di Roma, bisogna allargare il punto di vista. Perché al netto di tutto ciò che manca, dal welfare ai nidi a uno straccio di lavoro sicuro, tra le ragioni della crescita zero c’è un dato esistenziale che oggi anche i demografi iniziano a conteggiare. È il movimento, non più carsico, chiamato childfree, enclave all’interno dei cinque milioni di coppie già senza figli in Italia, donne e ragazze ma anche sempre più maschi che apertamente dichiarano: «Bambini no grazie, non vogliamo riprodurci, non vogliamo essere madri o padri, non fa parte del nostro progetto di vita». Età media dai trenta ai quarantacinque anni, ultime Millennials e prime Zoomers (Generazione Zeta), fino a ieri nascoste perché mica è facile uscire allo scoperto e affermare, senza essere definite egoiste o nichiliste, che non è una questione di natura, cioè la sterilità ad esempio, o una questione economica, la mancanza di welfare e di sicurezza. No, non volere figli, è qualcosa che viene dal profondo del cuore, come raccontano Stefania Antonini, che ha quarantotto anni e questa scelta l’ha fatta già molto tempo fa, o Clara Di Lello, che di anni ne ha trenta, ma è già certa della sua decisione childfree. Oppure Mario, dice di essere «uno zio fantastico», ma, aggiunge, «con Samanta abbiamo una buona vita, i nostri ritmi, i nostri lavori, i nostri viaggi, per un bambino il posto non c’è».

Sono tante e tanti, sempre di più, come dimostra una indagine dell’Istituto Toniolo su settemila donne tra i 18 e i 34 anni senza figli: il 21 per cento dice chiaramente di non volerli, mentre il 19 per cento afferma di essere “debolmente interessata” alla maternità. Dunque il 50 forse non sarà madre. Complice una rivoluzione antropologica e sociale che (per fortuna) ha “liberato” le donne dallo stigma per il quale non essere madre voleva dire imperfette, mancanti, persone a metà. Una contraddizione nell’affanno occidentale contro le culle vuote, ma come spiega il demografo Alessandro Rosina, «avere figli è una scelta libera, non è cercando di convincere chi non li vuole che cambieranno le cose, ma sostenendo invece chi vuole diventare genitore». Non è un gioco di parole, ma la constatazione di un mutamento radicale in atto. «I giovani non sentono la procreazione come un imperativo biologico e sociale, vogliono pensare al proprio destino liberamente, se il progetto di un figlio si integra con le proprie scelte di vita, se non ostacola i progetti, allora scelgono la maternità e la paternità. Altrimenti no grazie, senza rimpianti».

Nell’universo delle donne childless, ossia senza figli per le più diverse ragioni, il numero delle childfree, cioè “libere” dai figli, è in netto aumento. «Tra le donne nate alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli ottanta, la quota che non ha figli è del 22 per cento. Di questo 22 per cento, circa il 12 per cento è childfree. Donne cioè che hanno liberamente scelto di non essere madri e oggi rivendicano il diritto, in una società che ancora le giudica perché non procreano, di dimostrare che l’identità femminile non è necessariamente coincidente con la maternità». (Tra le nate negli anni Cinquanta il numero delle childless era soltanto dell’11 per cento). Dunque mentre si urla alla catastrofe demografica è invece da questo dato di mutazione antropologica che si dovrebbe partire. Suggerisce Rosina: «Non saranno le ossessive campagne sulla natalità che faranno cambiare idea alle donne che non vogliono figli». La fatica poi delle famiglie, tra le difficoltà di conciliazione e precarietà, «sta creando una narrazione negativa che spaventa ancora di più le coppie incerte e in particolare le donne».

Già, ma chi si dichiara childfree lo è davvero? Quanto una non-maternità è frutto di volontà o invece di rinvii, di un desiderio inascoltato o ascoltato troppo tardi? Stefania Antonini fa l’insegnante di yoga ed è anche councelor. Del suo essere childfree è diventata testimonial, «perché troppo spesso ci trattano da egoiste, ci rinfacciano che gli italiani si estingueranno». «Non ho rimpianti: un figlio non l’ho mai voluto. Mio marito Andrea l’ho incontrato a trent’anni, a quaranta ci siamo chiesti se davvero saremmo voluti diventare genitori e la risposta è stata no, restiamo così, questa è la nostra felicità. Il desiderio di maternità non l’ho mai sentito, mi piacciono i bambini ma amo una vita dove posso avere il pieno controllo del mio tempo e delle mie giornate, dei miei spazi». Stefania è serena: «Andrea e io viaggiamo molto, prendiamo la moto e via senza orari, non volevo prendermi cura di una terza persona, avere la responsabilità di educarla. Egoismo? Perché? Non facciamo male a nessuno. E di fronte alle vite affannate delle mie amiche, con figli adolescenti, penso di essere fortunata». Mario ha trentotto anni, Samanta la sua compagna ne ha trentacinque. Lavora nella cooperazione, va dove c’è bisogno di aiuto, Afghanistan, Nigeria, Ucraina. «Saremmo pienamente in tempo per diventare genitori, ma non lo diventeremo. Abbiamo vissuto entrambi un’infanzia complicata, genitori separati, famiglie divise. Avere un bambino ci è sembrato un compito troppo grande, difficile. Anche Samanta parte spesso, lavoriamo moltissimo, poi però ci ritroviamo in casa con i nostri libri, la musica e questo basta». Anche Mario non ha rimpianti: «Abbiamo un bel gruppo di amici, con e senza figli, condividiamo vacanze, cinema, serate. Fratelli, sorelle, nipoti, genitori di cui ci prendiamo cura. Una vita piena. Assisto bambini malati, denutriti, in zona di guerra: anche senza un figlio mio e di Samanta il mondo può andare avanti lo stesso».

Da il manifesto – È stata una delle spagnole più note del Ventesimo secolo e ha esercitato una leadership senza precedenti, diventando la prima donna del suo paese a occupare la carica di segretaria generale e poi di presidente di un partito, ha attraversato il regime di Primo de Rivera, la Seconda Repubblica, la Guerra Civile, la dittatura di Franco, la Transizione alla democrazia, e parlare di lei significa approfondire argomenti come la formazione del movimento operaio in Spagna, la storia del comunismo o il rapporto tra genere e coscienza di classe.

E se, come ha scritto di recente su El País l’autorevole storico Gutmaro Gómez Bravo, è necessario che lo studio del passato come radice del presente non sia condizionato dalla polarizzazione e dallo scontro, non c’è dubbio che oggi abbia un senso preciso rievocare Dolores Ibárruri, mentre è in corso una vera “guerra alla memoria” scatenata dall’estrema destra, in Spagna come altrove.

Appare dunque particolarmente opportuno che alla già vasta letteratura su Ibárruri si siano aggiunte, in coincidenza con il centenario del PCE, due nuove biografie: ¡No pasarán! Biografía de Dolores Ibárruri, Pasionaria (Ediciones Akal, pp. 608) di Mario Amorós, e Pasionaria. L’inaspettata vita di Dolores Ibárruri di Jorge Díaz Alonso (People, pp.424, e. 20, traduzione di Marcello Belotti), corredata nella nuova edizione italiana da una prefazione di Pablo Iglesias e uno scritto di Luciana Castellina sul “giorno caldissimo” dei funerali di Togliatti, cui l’ormai anziana Dolores partecipò con intrepida energia.

Nel suo libro (che include una cronologia, un indice biografico dei personaggi citati e un’ampia bibliografia), Díaz affronta con sguardo contemporaneo una figura affascinante e complessa, mettendone in luce i meriti, le ombre, le contraddizioni, le asprezze, l’adesione all’ortodossia sovietica ma anche la duttilità necessaria ad affrontare tempi nuovi.

A suscitare l’interesse del biografo, però, è soprattutto il cammino che portò Ibárruri, nata nel 1895 in una comunità di minatori baschi dove le donne potevano solo «filare, partorire e piangere», a costruirsi una «vita inaspettata». Come riuscì, la ragazzina studiosa che avrebbe voluto fare la maestra e che invece dovette andare a servizio in un’osteria, a trasformarsi in un simbolo dell’antifascismo e in una dirigente politica di primo piano, che conobbe il carcere e un lungo esilio, viaggiò per il mondo, si lasciò alle spalle un matrimonio infelice e si concesse una lunga relazione con un uomo di quattordici anni più giovane?

La sua sorte cominciò a cambiare dopo le nozze con Julián Ruiz, giovane minatore del PSOE: un’unione che per Dolores significò il primo contatto con la politica (nel 1921 lei e il marito parteciparono insieme alla nascita del PCE), ma che fu segnata dalla repressione, da una miseria estrema, da molte amarezze e dalla morte di quattro dei sei figli. Per anni Ibárruri lavorò duramente, provvedendo alla famiglia quando Julián era in carcere, ma non smise di coltivare l’assidua militanza che le aveva aperto altri orizzonti e di scrivere sul giornale dei minatori El Minero Vizcaíno, dove si firmava Pasionaria, un nom de plume che sarebbe diventato celeberrimo. Il matrimonio finì nel 1930, quando Dolores, chiamata alla redazione madrilena di Mundo Obrero, entrò nel Comitato Centrale del PCE e venne eletta deputata durante la Seconda Repubblica.

Fu con la guerra civile, però, che si trasformò in una leggenda: la sua voce e la sua immagine, mentre visitava il fronte o chiedeva il sostegno internazionale, diventarono familiari non solo ai soldati e alla popolazione civile, ma anche agli antifascisti di tutto il mondo e, ovviamente, ai loro avversari.

Aveva l’aspetto di una popolana qualsiasi, una madre e una sposa vestita modestamente di nero, con i capelli raccolti in una crocchia severa: un personaggio che ormai le assomigliava solo in parte; ma Ibárruri sapeva bene che, nonostante la Repubblica prevedesse l’uguaglianza tra i sessi in ogni ambito, rappresentare il “nuovo” e insieme rimandare a echi tradizionali era il modo più efficace per fare breccia in un contesto ancora profondamente maschilista.

C’erano poche presenze femminili sulla scena pubblica, e Dolores, autodidatta e di estrazione proletaria, vi aveva fatto irruzione con enorme forza, una straordinaria capacità oratoria e un carisma indiscutibile: «una donna reale che per la sua differenza riesce a diventare un referente mitico davanti al quale la società maschile, in bene o in male, reagisce», disse di lei Vázquez Montalbán.

Secondo Irene Montero, ex ministra de Igualdad del governo spagnolo, rileggerne la vita in un’ottica femminista è oggi inevitabile, e Díaz, pur sottolineando che Ibárruri non si definì mai tale, la considera portatrice di un femminismo “diverso” e con forti connotazioni di classe, che includeva finalmente le operaie, le lavoratrici del terziario e le contadine: Pasionaria le sollecitava a mobilitarsi per l’uguaglianza salariale e il diritto al lavoro, per l’aborto e il divorzio, per un sistema pubblico di assistenza.

Essere comunista, disse nel ’47, significa anche lottare «contro le trappole feudali e i pregiudizi che hanno fatto della donna, attraverso i secoli, non solo la schiava della società, ma dell’egoismo degli uomini».

Amata e odiata, venerata come una santa laica o diffamata come «strega bolscevica», Dolores Ibárruri è stata una formidabile protagonista del suo tempo, e in esso va collocata; quando morì, a novantaquattro anni, più di duecentomila persone accompagnarono i suoi funerali, e forse il modo migliore per ricordarla sta in quel che scrisse di lei Ernest Hemingway: «Se aveste potuto sentirla… Le parole nascevano dalla sua bocca irradiando una luce che non è di questo mondo. La sua voce aveva l’accento stesso della verità».

Da Zeitun.info. Notizie e libri sulla Palestina – Come si educa nella scuola israeliana? Come vengono presentati la Palestina e i palestinesi nei più popolari manuali di storia, geografia, educazione civica attualmente in uso? Qual è la finalità dell’educazione in uno stato come Israele in cui l’identità nazionale e personale si fondano su quella che viene definita la grande narrazione sionista, capace di orientare scelte e coscienze? E ancora: come l’insegnamento può divenire un’arma per garantire la legittimità di uno stato?

A queste domande risponde, in dense 286 pagine, il lucido saggio di Nurit Peled-Elhanan, docente presso la facoltà di Scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di Gerusalemme che, insignita nel 2001 dal Parlamento europeo del premio Sacharov per la libertà di pensiero e i diritti umani, è tra i fondatori del Tribunale Russel sulla Palestina istituito nel 2009. Il libro, Palestine in Israeli School Books. Ideology and Propaganda in Education, è stato pubblicato a New York nel 2012 e tradotto in italiano per le Edizioni Gruppo Abele nel 2015 [con il titolo La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, Ndr].

In Israele, dove «la lettura critica della narrazione ufficiale è considerata tuttora un atto non patriottico, se non addirittura di puro tradimento», il libro non ha trovato editori.

L’interesse del saggio è almeno duplice perché, oltre a consentire di inquadrare il discorso in un contesto storico che dà ragione della natura di particolare “etnocrazia” o “democrazia etnica” dello Stato ebraico, svela, secondo i principi della teoria socio-semiotica, i meccanismi di costruzione del consenso messi in atto, attraverso raffinate strategie di comunicazione, anche in altri Paesi.

L’autrice, con un linguaggio specialistico ma di facile comprensione, aiuta a decodificare messaggi apparentemente neutri e oggettivi per rintracciarne la matrice ideologica e mettere in guardia il lettore dai possibili inganni di un’educazione formale finalizzata a produrre e riprodurre memoria collettiva e non a fornire strumenti di indagine storica.

Attorno all’illuminante distinzione tra storia e memoria si fonda la premessa della ricerca che dimostra come la costruzione di una memoria mitica e dittatoriale, che mette nell’oblio duemila anni di civiltà palestinese, sia in contraddizione con le esigenze della storia che dovrebbe interpretare, con disinteresse e innocenza, i fatti del passato. Il sionismo, nei testi scolastici analizzati, è un assunto indiscutibile, anche in quelli considerati progressisti. L’obiettivo è chiaro:

preparare giovani soldati che, a diciotto anni, a conclusione della scuola, possano attuare con determinazione la politica israeliana di occupazione dei territori palestinesi.

Il comune sentire “antiarabo” è diffuso in Israele, dove «l’appellativo arabo richiama masse sporche di gente esagitata, terrorismo, primitività, oppressione delle donne, sovracrescita demografica e fondamentalismo»: le sue radici stanno anche negli stereotipi diffusi dai libri di testo, il canale privilegiato attraverso cui gli studenti ebrei acquisiscono informazioni sui palestinesi che vivono accanto a loro senza avere con loro contatti dal momento che costituiscono un out group

connotato negativamente e discriminato. Si tratta di un razzismo che viene alimentato da élite culturali come insegnanti, giornalisti, accademici, scrittori, uomini politici che aboliscono qualsiasi emotività nel racconto delle sofferenze dei palestinesi, percepiti come problema da risolvere, non come cittadini, o semplicemente esseri umani, portatori di diritti.

Anche l’iconografia dei libri di testo, con un uso sapiente anche dell’inquadratura solitamente al di sotto della nostra vista, o la stessa cartografia, che veicola il principio dell’esclusione, o il layout della pagina contribuiscono a radicalizzare la percezione dei palestinesi come problematici, distanti, inferiori, spesso ridotti alla stregua di oggetti da porre sotto controllo: l’emarginazione politica, sociale e culturale di cui sono vittime si riflette nell’emarginazione che subiscono nei libri di testo e i massacri subiti, che il saggio presenta con puntualità in una raccapricciante sintesi di quelli principali, sono giustificati e resi inoffensivi alla coscienza.

La conclusione è sconfortante e inequivocabile: le pratiche razziste e discriminatorie sono trasmesse dalla scuola e, più in generale, dall’apparato statale di Israele che meriterebbe, secondo l’autrice, l’inclusione nella lista dei Paesi razzisti da parte della Commissione delle Nazioni Unite. L’immagine scontata e tradizionale in Israele che vede ogni arabo seduto a fumare il narghilè o pronto ad abbracciare un’arma va cancellata. La scuola, che dovrebbe insegnare la complessità del giudizio e la diffidenza nei confronti delle semplificazioni identitarie, in Israele fallisce il suo obiettivo. Purtroppo non solo lì.

(*) Laura Forcella Iascone insegna italiano e latino in un liceo scientifico di Brescia, per il quale è responsabile delle iniziative culturali. Laureata in Lettere con una tesi di argomento geografico, ha collaborato con riviste, enciclopedie e libri di testo ed è coautrice di manuali scolastici di latino per la casa editrice “La Spiga”.

Da Avvenire – Un forno per riaccendere la speranza. Un pane per uscire dalla fame. Nell’Afghanistan dei taleban alle donne sono concesse poche chance, non solo per vivere ma perfino per sopravvivere. Così anche un piccolo progetto di cooperazione internazionale può innescare un grande cambiamento e fare la differenza per centinaia di persone. Un manipolo di operatori di un ente italiano del Terzo settore ha riattivato alcune panetterie in disuso nei distretti più poveri di Kabul, affidandole a piccole équipe di donne che cuociono i pani tradizionali, naan in lingua dari, distribuendoli poi a centinaia di madri capofamiglia.

È un’idea semplice ma che per realizzarsi ha avuto bisogno di oltre un anno. A partire dal nome del progetto, “Bread for women”*, pane per le donne, che le autorità taleban hanno cambiato in “Bread for families”, pane per le famiglie. «Non è stato facile convincere i capi dei distretti – racconta Livia Maurizi, Capo dei programmi di Nove Caring Humans, una giovane donna che dietro un aspetto dolce e paziente cela una volontà di ferro e una motivazione altrettanto intensa. E non è stato nemmeno facile trovare donne che si fidassero di noi». Perché uscire di casa da sole è vietato, e i rischi per chiunque si voglia rendere indipendente sono tanti e concreti.

Ma dallo scorso febbraio i forni dismessi, alimentati a gas anziché a legna per consentire una produzione più ampia, sono stati ristrutturati, resi funzionali, efficienti e sostenibili sia per l’ambiente sia per la salute delle donne che vi lavorano. Le panettiere sono state formate non solo sulle tecniche di panificazione, ma anche sui rudimenti di contabilità e di gestione economica: in tutto, tra fornaie, assistenti fornaie e addette alla distribuzione del pane, è impegnata una dozzina di operatrici. Gli impianti – in realtà poco più sofisticati di grandi bidoni metallici interrati – funzionano dodici ore al giorno: grandi quantitativi di naan vengono sfornati e distribuiti a un totale di 120 donne (40 per ogni forno) selezionate in base ai bisogni; per lo più si tratta di vedove – l’Afghanistan è il Paese al mondo con più donne sole capofamiglia a causa del succedersi decennale di guerre – con molti figli a carico e nessuna fonte di sostentamento. Ciascuna beneficiaria riceve gratuitamente 5 pani da 300 grammi, sette giorni alla settimana, e questo contribuisce a sfamare almeno 800/1000 persone. Il pane è l’alimento base del regime degli afghani, il cibo più economico e l’unico che la maggior parte delle famiglie possa permettersi.

«A causa delle restrizioni dei taleban io e le mie figlie non possiamo lavorare – racconta Mahdiya, quarantacinque anni, vedova dal 2019, madre di cinque figli – Far parte di “Bread for women” mi ha aiutato a sfamare i miei figli. La mia famiglia non riusciva a comprare neppure un pane al giorno, immaginate come cinque pani hanno cambiato la mia vita».

Come funziona il progetto? «Noi paghiamo alle fornaie il prodotto finito, loro si organizzano con le materie prime e i compensi alle assistenti – continua Maurizi – Così possono disporre di un piccolo reddito personale, e in Afghanistan è una grande conquista. Stiamo gettando le basi per una sostenibilità economica: quando il progetto finirà, e non finanzieremo più la vendita di pane, le fornaie avranno il know-how e l’infrastruttura per proseguire l’attività con le loro gambe. L’idea è che il forno diventi “di comunità”; le famiglie o i ristoranti potranno portare i loro cibi a cuocere pagando un piccolo canone».

Un altro grande traguardo, oggi, è poter contribuire ai bisogni alimentari di decine di famiglie in un Paese afflitto da una carestia sempre più grave per l’effetto combinato della crisi economica, dell’aumento dei prezzi delle materie prima e dei beni di prima necessità e dal crollo dell’occupazione femminile. L’80% delle donne – spesso capofamiglia – non ha più i mezzi sufficienti per rispondere ai bisogni primari per sé stessa e i propri figli.

E non è tutto. Il progetto “Bread for women” ha ottenuto un effetto non secondario: far uscire le donne dall’isolamento, creare per loro una minima occasione di socializzazione in un Paese dove il minimo movimento delle donne è osservato e potenzialmente sanzionato. «Venire al forno mi aiuta economicamente – racconta Aliyah, trent’anni e sette figli, vedova da sette, quando il marito è stato ucciso da una bomba in strada a Kabul. – Ha un impatto anche sulla mia salute mentale, vedere altre donne, parlare con loro, condividere le preoccupazioni mi fa bene. Osservare la resilienza e la forza delle donne afghane anche in questa situazione difficile, la loro battaglia per essere forti e lottare per la loro famiglia, rende più forte anche me».

(*) “Bread for women” è un progetto pilota di forni di comunità, finanziato da Linda Norgrove Foundation, dall’8×1000 all’Unione Buddista italiana e da Uplift Afghanistan Fund. Ma è stato studiato in modo che sia replicabile su larga scala, in altri distretti di Kabul e in altre regioni più bisognose e remote dell’Afghanistan, per generare un impatto economico positivo su più larga scala.

Da Jacobin Italia – La nota filosofa Nancy Fraser avrebbe dovuto tenere la cattedra Albertus Magnus all’Università di Colonia il prossimo maggio. Alla fine della scorsa settimana, però, il suo invito è stato ritirato dal rettore dell’università, Joybrato Mukherjee, per aver firmato una lettera di solidarietà pro-Palestina lo scorso autunno. In questa intervista, Fraser parla per la prima volta di quel che è successo.

L’Università di Colonia l’ha disconosciuta dalla cattedra Albertus Magnus. Cosa prevedeva questo incarico?

La cattedra prevedeva un soggiorno di alcuni giorni e conferenze pubbliche nell’ambito di un programma che doveva essere dedicato allo scambio aperto. Ho deciso di tenere delle conferenze a partire dal mio attuale progetto di libro sui tre volti del lavoro nella società capitalista, un argomento che non aveva nulla a che fare direttamente con Israele o la Palestina. Avevo lavorato sodo per scrivere queste conferenze. Tra l’altro, avevo anche comprato un costoso biglietto aereo.

Può spiegare come è avvenuta la cancellazione?

Qualche giorno fa ho ricevuto un’e-mail da un professore di Colonia, Andreas Speer, che organizza questi eventi. Mi ha detto che aveva appena sentito il rettore dell’università, che era preoccupato per il fatto che avevo firmato la dichiarazione Philosophy for Palestine a novembre e voleva che chiarissi la mia posizione. Ho pensato: che faccia tosta! Voglio dire, che cosa gli importa di sapere quali sono le mie opinioni sul Medio Oriente? Sono un soggetto libero, posso firmare quello che voglio.

D’altra parte, non volevo essere eccessivamente conflittuale. Così ho risposto dicendo: «Certo, ci sono molti punti di vista diversi sulla Palestina e su Israele, e c’è molto dolore da tutte le parti, compreso quello che ho provato io stessa come ebrea. Ma c’è una cosa su cui non ci può essere disaccordo». Ho citato una frase di una dichiarazione che il rettore dell’università aveva pubblicato sul sito dell’ateneo, sull’importanza di una discussione aperta e rispettosa. Quindi, ho detto al signor Speer: «La prego di assicurare al rettore che può assolutamente contare su di me quando si tratta di una discussione aperta e rispettosa». Pensavo che questo avrebbe messo fine alla questione. Ma in realtà, appena uno o due giorni dopo, ho ricevuto una mail diretta dal rettore che diceva di non avere altra scelta se non quella di ritirare l’invito. È scritto esplicitamente, nero su bianco, che poiché ho firmato questa lettera e non l’ho disconosciuta nelle nostre successive comunicazioni, sono stata cancellata.

Qual è stato il principale punto di scontro? L’uso dei termini apartheid e genocidio? O il boicottaggio delle istituzioni israeliane, a cui la lettera invita a partecipare?

Non lo so davvero, perché non ho ricevuto ulteriori spiegazioni. Il rettore mi ha proposto di fare una video chiamata in cui mi avrebbe spiegato ulteriormente il suo punto di vista. Non ho risposto. È una questione pubblica. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di parlare apertamente. Quindi, spetterà a lui chiarirlo. Ora c’è anche una dichiarazione sul sito dell’università. A me sembra che tutto questo sia una cortina di fumo. È una chiara violazione della politica dichiarata dall’università e degli stessi valori che invocano con il nome Albertus Magnus. Tali valori sono proprio quelli della libertà accademica, di opinione, di parola e di discussione. Qualunque complicata razionalizzazione venga fornita per spiegare perché questo procedimento non violi tali valori mi sembra vuota. È un segnale molto forte a tutte le persone dell’università e agli studiosi di tutto il mondo: se osate esprimere certe opinioni su certi argomenti politici, non sarete i benvenuti qui in Germania. Ha un effetto raggelante sulla libertà di espressione politica delle persone.

Quando dice che questa è una violazione delle politiche dell’università, prevede di intraprendere un’azione legale?

Ci ho pensato. Non è la mia priorità. Ma non lo escludo nemmeno. Prima di tutto voglio convincere le persone che questo è un caso davvero oltraggioso di quella che, secondo molti, è una tendenza molto più ampia nella Germania di oggi. Le persone che occupano posizioni di potere nelle università e nelle istituzioni artistiche tedesche e i membri del governo federale tedesco che potrebbero incoraggiarli in questo senso dovrebbero pensarci due volte. Stanno violando chiaramente le norme accademiche e, francamente, anche quelle costituzionali ampiamente diffuse in materia di libertà politica e libertà di parola. Ciò danneggerà notevolmente l’accademia tedesca.

Considerando solo la storia più recente dell’indignazione pubblica e delle cancellazioni in Germania, sembra che lei sia in buona compagnia. Ci sono stati i casi di Maša Gessen, Ghassan Hage, Judith Butler e molti altri. Molti di loro, come lei, sono ebrei. È preoccupata per questo?

Non per me stessa. Sono installata a New York e ho un enorme sostegno, tra cui una lettera estremamente forte del presidente della mia università, la New School, Donna Shalala, che si apre con la grande frase: «Albertus Magnus sarebbe inorridito!». Fa notare che è particolarmente preoccupante che un’istituzione tedesca cancelli un membro della facoltà della New School, che non solo ha salvato gli studiosi tedeschi in fuga dal fascismo, ma ha anche creato uno spazio per continuare il corpo della teoria critica che era stato spazzato via in Germania. La New School ha contribuito a quel corpo di pensiero così come ho fatto io personalmente. Quindi, questo è un insulto alla New School, oltre che a me. Ma soprattutto è una violazione delle norme sulla libertà accademica.

Crede che questa sia una tendenza?

Sì, e sono molto preoccupata. La vedo come una febbre che sta attanagliando la Germania e, in misura minore, l’Austria. È una cosa molto dannosa. Penso anche che sia importante che i tedeschi capiscano qualcosa della complessità e dell’ampiezza dell’ebraismo, della sua storia, della sua prospettiva. I tedeschi stanno in un certo senso sottoscrivendo l’idea di un giuramento incondizionato di fedeltà a Israele, come se la responsabilità storica tedesca comportasse il sostegno incondizionato allo Stato di Israele. Considerando ciò che Israele sta attualmente facendo, questo è un tradimento di quelli che definirei gli aspetti più importanti e pesanti dell’ebraismo come storia, prospettiva e corpo di pensiero. Mi riferisco all’ebraismo di Maimonide e di Baruch Spinoza, di Sigmund Freud, Heinrich Heine ed Ernst Bloch.

Può specificare cosa intende?

Quest’altra tradizione dell’ebraismo sta riducendo l’ebraismo non solo al nazionalismo, ma a un ultranazionalismo del tipo di quello che sta calpestando e fondamentalmente distruggendo la Striscia di Gaza. A proposito, ho appena firmato un’altra lettera! Non sono pentita. Una lettera contro lo “scolasticidio” israeliano, cioè la distruzione di scuole e università a Gaza. Più di cento professori sono stati uccisi lì. Nove rettori di università sono stati uccisi. I nomi delle persone che vi ho menzionato prima sono solo una lista, ma ce ne sono molte altre. Basti pensare ad Albert Einstein, a cui fu offerta la presidenza dello Stato di Israele e che rifiutò. Si tratta di persone che per la loro stessa ebraicità hanno difeso diritti universali, non una ristretta identità tribale.

Alcuni dei suoi critici hanno sostenuto che in realtà lei non è stata cancellata, ma semplicemente le è stato rifiutato una sorta di tributo.

Ci sono tedeschi che sono tentati di sorvolare e di dire che si trattava solo di un premio onorario. Molti tedeschi, anche giornalisti, sono stati intimiditi e hanno accettato una visione molto distorta del significato della libertà accademica. L’argomentazione secondo cui si potrebbe semplicemente togliere qualcosa perché è solo un premio e non è veramente un ruolo accademico è una sciocchezza. In realtà quella di visiting professor è una nomina accademica. Come tutti gli altri titolari di questa cattedra, sono stata scelta per il mio lavoro accademico. L’idea che ciò che faccio giustifichi il ritiro di un invito dice già che l’autonomia accademica viene violata. Su questo non c’è dubbio. Voglio dire a queste persone che è vero che avete la responsabilità di pensare profondamente agli ebrei. Ma ci state pensando nel modo sbagliato. C’è un altro modo di pensare.

Critici come Maša Gessen hanno sostenuto che negli ultimi anni l’interpretazione specifica della «Staatsräson” (ragion di stato) tedesca nei confronti di Israele ha aiutato gli estremisti di destra come l’Alternative für Deutschland (AfD). È d’accordo?

Non posso fare commenti specifici sull’AfD. Ma posso dirle che negli Stati uniti la destra cristiana evangelica ha la sua versione del “maccartismo filosemita”, per usare l’espressione di Susan Neiman. E hanno una logica teologica che è di per sé profondamente antisemita. Ma la cosa più preoccupante della Germania per me non è l’AfD.

Che cos’è?

Il centrismo di destra, dove risiede il vero peso dell’opinione pubblica. È così facile che venga influenzata da argomenti che per me sono palesemente falsi. Come l’argomentazione secondo cui, cancellando il mio invito, nessuno starebbe violando la libertà accademica, ma semplicemente scegliendo di non onorare una persona che ha le opinioni che pensano io abbia.

Lei ha detto che non c’è un legame profondo tra Filosofia per la Palestina e il ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere a Colonia. Ma direbbe che non c’è un legame tra la posizione assunta nella lettera e i suoi scritti accademici?

Indosso più di un cappello. Svolgo un lavoro teorico. Occasionalmente firmo lettere come cittadina. Non credo che questi aspetti debbano essere direttamente collegati. Tuttavia, a volte scrivo in modo più agitato o propagandistico. L’esempio migliore è Femminismo per il 99% di cui sono coautrice con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Abbiamo preso le idee che ognuna di noi aveva sviluppato nel proprio lavoro e le abbiamo fuse. Si tratta di un manifesto su come tracciare un percorso diverso per l’attivismo femminista, per intenderlo come interesse del 99%, delle donne, degli uomini e dei bambini, in contrapposizione a un certo tipo di femminismo neoliberale aziendale. Ho cercato di divulgare le mie idee accademiche, ma non ho mai scritto sul Medio Oriente. Non ho grandi competenze, ma sono una cittadina che pensa e legge. E come ebrea, sento la speciale responsabilità di dire «non in nostro nome».

Forse perché ciò che viene fatto a Gaza è, in una certa misura, fatto in nome del popolo ebraico?

Esattamente. Non c’è dubbio che ci sia una strumentalizzazione, o addirittura si faccia un’arma, dell’accusa di antisemitismo applicata in modo del tutto sbagliato alle persone che ritengono che condannando l’attuale corso del governo israeliano, si sostiene una correzione di rotta per migliorare la situazione dei palestinesi così come del popolo ebraico ovunque.

Sembra una cosa onorevole da dire. In Germania, tuttavia, il Bundestag ha approvato una risoluzione che dichiara il boicottaggio delle istituzioni israeliane come un caso di antisemitismo.

Molti in Germania associano tali boicottaggi a immagini di boicottaggi storici contro gli ebrei tedeschi negli anni Trenta.

È un’associazione interessante. Però all’epoca non esisteva uno Stato ebraico che si impegnava in una carneficina militare illegittima. Un parallelo migliore sarebbe il Sudafrica, dove c’è stato un forte boicottaggio accademico, un boicottaggio sportivo e un boicottaggio culturale, che ha avuto un certo impatto insieme al boicottaggio economico per porre fine all’apartheid. Tra l’altro, i tedeschi non si limitarono a boicottare gli ebrei. Li espulsero, li radunarono, li mandarono nei campi di concentramento e li uccisero. Niente di tutto ciò sta accadendo qui.

Ha intenzione di ripetere il ciclo di conferenze di Colonia altrove?

Lo farò altrove! Si tratta di una nuova versione ampliata e rivista di alcune conferenze che ho tenuto a Berlino due anni fa. Ora ho molto materiale nuovo, che non vedevo l’ora di presentare. La mia università, la New School, sta organizzando un evento. Mi è stato anche suggerito di tenere una conferenza in altre parti della Germania con il titolo: Questo è ciò che non volevano farvi sentire a Colonia.

Alcuni professori tedeschi hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. Crede che la gente in Germania possa cambiare idea su questi temi?

Non sono abbastanza vicina per avere un’opinione informata in merito. Ma ho l’impressione che la febbre si diffonderà. Non sono in grado di dire se il mio caso sarà l’evento scatenante, o il prossimo, o quello successivo. C’è un crescente disagio al riguardo. Almeno a New York.

Si vede come una vittima di quello che prima ha descritto come antisemitismo filosemita?

Suppongo di sì. Sono stata cancellata in nome della speciale responsabilità tedesca per l’Olocausto. Presumo che tale responsabilità ne debba comportare una nei confronti degli ebrei. Ma, naturalmente, si restringe alle politiche statali di qualunque governo si trovi a governare in Israele. Per noi negli Stati uniti, maccartismo è una parola potente. È un modo per mettere a tacere le persone con il pretesto che si è presumibilmente a favore degli ebrei.

Negli ultimi sei mesi gli Stati uniti e la Germania sono stati i due principali fornitori di sostegno e armi a Israele. Che peso ha questo nella sua visione della Germania?

Il primo colpevole sono gli Stati uniti. Non sto salvando la Germania, ma in realtà, se vi interessa sapere chi finanzia le politiche di Israele, sono gli Stati uniti. Tuttavia, per la prima volta nella mia vita, e credo in assoluto, c’è una discussione pubblica equilibrata sulla questione della Palestina. Le voci palestinesi sono presenti nella sfera pubblica. Le organizzazioni, comprese quelle ebraiche di sinistra, che criticano la politica israeliana sono nella sfera pubblica. Joe Biden è sotto pressione. Ha parlato in modo più duro delle condizioni degli aiuti a Israele e ha chiesto un cessate il fuoco. Resta da vedere se questo si tradurrà in veri e propri tagli o condizionamenti degli aiuti, se i democratici al Congresso cercheranno di forzare la questione. Ma almeno il rubinetto aperto del nostro governo sugli aiuti militari è diventato politicizzato e contestato.

Mi auguro che qualcosa di simile si sviluppi anche in Germania. Che almeno diventi una questione pubblica su cui si possa discutere, senza essere accusati di antisemitismo o essere cancellati.