Da il manifesto

Marianne Heier racconta la mostra “La passione” alla Fotogallieret di Oslo. Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla celebre collezione di Donata Pizzi

«Il mio ruolo è soprattutto di guida per il pubblico norvegese nella conoscenza del femminismo radicale italiano e della sua relazione con le arti visive», afferma Marianne Heier (classe 1969, vive e lavora a Oslo), co-curatrice della mostra La passione (fino al 29 dicembre) insieme a Antonio Cataldo, ex direttore artistico della Fotogalleriet di Oslo, lo spazio istituzionale che la ospita.

Realizzata con il sostegno della Arts and Culture Norway e dell’Istituto italiano di cultura di Oslo, la collettiva offre una panoramica sul lavoro di artiste italiane di diverse generazioni che riflettono l’energia e la forza nella lotta alla parità di genere: Chiara Fumai, Pippa Bacca, Silvia Giambrone, Bingöl Elmas, Betty Bee, Ottonella Mocellin, Marcella Campagnano, Agnese De Donato, Tomaso Binga, Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Alessandra Spranzi e il Gruppo del Mercoledì (Diane Bond, Bundi Alberti, Paola Mattioli, Silvia Truppi).

Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla collezione di Donata Pizzi, la più importante collezione privata italiana dedicata alla conoscenza del lavoro delle artiste italiane dagli anni ’60 ad oggi. In occasione della serata inaugurale Heier, il cui lavoro artistico è collegato alla tradizione della critica istituzionale, ha reso omaggio alla figura di Carla Lonzi (1931-1982) attraverso una performance-monologo in cui ha raccontato aneddoti e metafore sulla condizione della donna all’interno della storia patriarcale.

Un’altra parte del lavoro sono i poster che affissi in giro per Oslo. «Serigrafie in tiratura limitata con due foto di sculture classiche dell’Afrodite di Knidos che ho scattato una ad Atene e l’altra a Napoli. La venere pudica che si copre o indica i genitali, invita o è intimorita, si protegge o si apre. Un’ambiguità che è ancora oggi alla base della raffigurazione del corpo femminile nell’arte. Sopra ho scritto le informazioni sulla mostra e alcune note che mi sono appuntata leggendo i testi di Lonzi ed altri sul femminismo italiano. Ho, poi, invitato sui social gli abitanti di Oslo a prendere quei poster-opere per appendere una parte di questa mostra nelle loro case, in modo che questo pensiero si espanda anche fuori dalla galleria. Volevo che la mostra fosse il più vicino possibile all’idea stessa di Carla Lonzi sulla porosità dell’arte, sia in termine di creatività che di relazioni. È importante la partecipazione».

In che modo si pone come artista e curatrice di “La Passione”, un omaggio al femminismo radicale italiano?

«In questo caso sono sia artista che curatrice e, allo stesso tempo, né l’una e né l’altra. Una posizione che rispecchia un po’ la mia condizione personale. Infatti, sono nata e cresciuta in Norvegia ma la mia formazione artistica è legata all’Italia, dove ho incontrato le esperienze, le voci e le espressioni delle artiste femministe che mi hanno formata. Quando studiavo all’Accademia di belle arti di Brera a Milano, negli anni ’90, sono rimasta folgorata da quella tradizione di grande complessità e coraggio. Ancora oggi è il mio punto di riferimento nel modo di pormi politicamente come artista. All’Accademia la maggior parte dei docenti erano uomini e i corsi di storia dell’arte erano solo su figure del genio maschile, ma c’erano anche delle artiste che insegnavano e dalle loro conversazioni si coglievano delle frasi. La presenza delle artiste femministe italiane era sospirata ma pervasiva, come fossero spiriti, sotto al monologo costante di quei grandi geni maschili che tutti conosciamo.»

In particolare, cosa la aveva colpita nella lettura di “Sputiamo su Hegel” e degli altri scritti di Carla Lonzi?

«La sua disponibilità e il coraggio nella radicalità. La pratica dell’autocritica è molto difficile, perché si tratta di riconoscere il patriarcato dentro di sé come presenza nella quotidianità, nelle relazioni, nel modo di porsi o di esprimersi. Una pratica continua di cui liberarsi. La stessa Lonzi nel Diario di una femminista scrive: «Vent’anni fa ero una studentessa dell’università/ quindici anni fa ero una dottoressa in storia dell’arte/ dieci anni fa ero scrittrice d’arte e amica di artisti/ due anni fa ero femminista […] Adesso non sono niente, niente assolutamente». C’è questo ridursi, il togliersi di dosso un bagaglio che è la stessa società a proiettarci. M’ispira molto questa richiesta di autenticità che è uno standard altissimo e che funziona come una specie di bussola. Un altro aspetto è la possibilità di trasformare la società. Quella in cui viviamo è una costruzione sociale e politica determinata da determinate condizioni storico-politiche ed economiche, ma che fondamentalmente può essere cambiata, riscritta e ripensata. Questo pensiero, per me, ha uno spazio d’azione e libertà illimitata che riconosco nel lavoro delle artiste presenti in questa mostra. Quante posizioni divergenti, in tensione tra loro, coraggiose, appassionate e che incredibile energia! Come pure l’insistere nell’affermare «io dico io», il peso dell’unicità.»

Ha affermato che in Norvegia si conosce ben poco delle artiste femministe italiane…

«Dopo aver trascorso 11 anni a Milano, durante la mia formazione artistica e personale, nel 2000 sono tornata in Norvegia perché in Italia, per me, era impossibile vivere da artista. Qui la condizione finanziaria e la produzione dell’arte è diversa, ci sono sovvenzioni pubbliche che rendono possibile l’esistenza di un’artista come me che non ha un mercato. Però l’Italia mi manca moltissimo, soprattutto l’energia, il rischio che si riflette – lo sottolineo ancora una volta – nel lavoro delle artiste femministe italiane. Un femminismo che è diverso da quello norvegese che ha ottenuto tantissimo, ma che non ha passione e neanche il fuoco sul lavoro interiore. Il femminismo norvegese è rivolto soprattutto alla ridistribuzione del potere, alla sua accessibilità per le donne, mentre per Carla Lonzi si trattava di ridefinire lo stesso concetto di potere. Due approcci diversi. Molte volte mi sono chiesta se questa radicalità italiana, il dramma, la passione e l’energia quasi febbrile del lavoro femminista derivino dalla presenza del cattolicesimo. Qui non c’è mai stata quell’aggressione, oppressione e controllo sul corpo e sulle vite delle donne.»

Un approccio che si riflette anche nel titolo della mostra?

«La scelta del titolo La Passione deriva proprio da queste considerazioni e implica l’ambiguità di amore e sofferenza. Tutto nasce dalle conversazioni che ho avuto con Antonio Cataldo che è il vero curatore della rassegna, perché la mia è una co-curatela da artista esterna. Anche Antonio, che è uno dei più importanti curatori in Norvegia, si è trasferito qui dall’Italia. Abbiamo scoperto di avere tanti riferimenti in comune. Per me è stato come un ponte tra lì e qui, passato e presente. Per la prima volta c’era qualcuno che poteva confermare quelle figure sulle quali basavo molta della mia pratica artistica. Materiali, voci, donne che esistevano ma di cui in Norvegia non si sapeva nulla. Non si era mai parlato del lavoro di queste artiste, né tradotto e reso accessibile il pensiero di Carla Lonzi, malgrado si conoscessero i movimenti italiani come quello dell’arte povera. Però era tutto declinato al maschile. La storia raccontata è parziale, non è questione di qualità, volontà di sperimentazione o fervore intellettuale, artistico ed estetico. Il modo stesso in cui se ne parla deriva dalla visione patriarcale.»

Da il manifesto – Alias – Nel 1980, in occasione della riorganizzazione delle collezioni africane del Museo Pigorini, venne ritrovato un oggetto di cui si erano perse le tracce: un indumento realizzato nell’Impero ottomano nel 1665 circa e approdato poco dopo a Roma nelle collezioni di Athanasius Kircher. Si tratta di una rarissima camicia talismanica in tela di cotone bianca, con corpetto, maniche e colletto coperti di iscrizioni a caratteri arabi in blu, nero, rosso e oro, disposte in una elaboratissima composizione simbolica che culmina con i 99 nomi di Allah racchiusi nella decorazione del colletto. Un mistico sufi, un astrologo, un calligrafo e almeno un illuminatore hanno concorso alla realizzazione di questa stupefacente pagina miniata in tessuto che aveva la funzione di proteggere dalla malasorte il personaggio di alto rango che la indossava.

La camicia talismanica è il punto di partenza della mostra Tessere è umano: Isabella Ducrot e le collezioni del Museo delle Civiltà di Roma (a cura di Anna Mattirolo, Andrea Viliani con Vittoria Pavesi, fino al 16 febbraio), che raccoglie alcuni straordinari tessuti conservati nelle collezioni del museo assieme a opere di Isabella Ducrot nelle quali i tessuti sono protagonisti.

Nel grande ambiente dove è allestita la mostra attraversiamo cinque continenti e quasi quattro secoli di storia delle collezioni: a partire dal “Teatro del mondo” fondato da Athanasius Kircher nel 1651, attraverso le relazioni diplomatiche vaticane e l’ambiziosa istituzionalizzazione compiuta da Luigi Pigorini alla fine dell’Ottocento, fino alle raccolte dedicate alle tradizioni popolari e alle colonie, nelle quali prendono forma quotidiana irrisolte tragedie novecentesche.

Incontriamo, per la prima volta raccolti insieme, frammenti preistorici, sopraffini kimono giapponesi, evanescenti garze precolombiane e tessuti in corteccia dell’Oceania e dell’America latina.

Tutto si tiene insieme in virtù dell’intreccio di trama e ordito, struttura essenziale di ogni tessuto, e della storia di Isabella Ducrot. Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà dal 2022, ha eletto il coinvolgimento di artisti contemporanei a metodo per esplorare e ri-semantizzare le collezioni, ma questa mostra si discosta da altri progetti in corso.

Da vari decenni Isabella Ducrot raccoglie stoffe in tutto il mondo e di tessuti ha anche scritto in varie occasioni. Più che ricerca di manufatti rari o di particolare valore, il suo è un collezionismo di tracce umane rimaste imbrigliate nei pezzi di stoffa, nel quale è centrale l’attenzione ai tessuti che fanno da tramite tra l’umano e il divino.

Non lontano dalla camicia talismanica è esposta una preghiera tibetana blu del XVII secolo proveniente dalla sua collezione, nella quale il testo non è ricamato o dipinto a posteriori ma elemento strutturale del tessuto: ordito e trama. Questo intreccio costitutivo tra la dimensione materiale e quella immateriale è l’elemento ricorrente di tutti i manufatti in mostra.

Negli anni ottanta Ducrot ha cominciato a combinare nei suoi lavori d’artista i tessuti che aveva raccolto, restituendogli il valore d’uso che avevano perduto quando erano diventati pezzi da collezione, come scrisse Patrizia Cavalli molti anni fa. Anche il più prezioso dei tessuti è quasi sempre servito a qualcosa, ma persino il più umile è stato contemplato.

Riuscire a tenere in vita la dimensione d’uso degli oggetti, lasciando spazio alla loro contemplazione, è forse la sfida maggiore per un museo di collezioni etnografiche, e senza dubbio i tessuti che ci accompagnano dalla nascita alla morte sono la categoria ideale per coglierla: palinsesti, documenti e linguaggi; inconsapevoli strumenti di trasmissione e mediazione culturale; frutti corali di imprese collettive; merce di scambio e trofeo di conquista.

In alcuni casi la funzione spirituale è espressa nella struttura stessa della stoffa, vedi il tessuto rituale indonesiano realizzato a Sumatra nel XIX secolo, dove parte della trama non viene completata e i fili dell’ordito non vengono tagliati perché rappresentano la circolarità della vita e conferiscono al tessuto un potere protettivo.

La preghiera tibetana, la camicia talismanica e il tessuto indonesiano, posti al centro della sala e circondati da alcuni lavori recenti di Isabella Ducrot, sono membrane tra la temporalità del corpo e l’atemporalità dello spirito.

Attorno a questo centro gravitano umiltà e potenza, ricchezza e potere di scambio, vita quotidiana e riti di passaggio.

Un punto di raccordo suggestivo con la ricerca di Isabella Ducrot è la vetrina con indumenti e costumi di uso quotidiano provenienti dalle collezioni di arti e tradizioni popolari e dedicata ai tessuti a quadretti. La stoffa a quadri è il titolo di un saggio (Quodlibet, 2018) nel quale Ducrot racconta della sua epifania di fronte all’Annunciazione di Simone Martini (Uffizi, 1333): nel celeberrimo trittico a fondo oro, summa della sinuosa preziosità del pittore senese, il mantello svolazzante dell’Angelo annunciante è foderato di una stoffa a quadretti, pattern domestico e umile per eccellenza e ciò nonostante scelto dell’artista per mostrare la sua straordinaria maestria.

Dal lato opposto incontriamo un rarissimo manufatto tessile mesoamericano cinquecentesco che, secondo la tradizione, probabilmente celebra un condottiero che all’arrivo degli spagnoli scelse di schierarsi dalla parte di Hernán Cortés, e forse per questo è decorato con aquile bicefale di ascendenza asburgica.

In questo caso ordito e trama ospitano delle preziosissime piumette cangianti – i popoli americani consideravano gli oggetti impiumati depositari di forza divina – e danno vita a un tessuto che è monumento e poema del tracollo delle potenze precolombiane.

Pur lavorando da decenni, Isabella Ducrot ha incontrato la fama tardivamente, a ottant’anni compiuti: l’estate scorsa le è stata dedicata una grande retrospettiva al Consortium di Digione e il prossimo anno sarà la volta del Museo Madre di Napoli.

È anche la protagonista di Tenga duro signorina. Isabella Ducrot Unlimited, un documentario di Monica Stambrini presentato all’ultimo festiva di Venezia e in sala in questi giorni, che osserva come persino la vecchiaia, uno degli ultimi tabù, non sia poi così terrorizzante. Rispetto a questi progetti la mostra Tessere è umano va ben oltre la persona dell’artista o la celebrazione della sua opera: come nei tessuti oceanici o sudamericani, in alcuni lavori Isabella Ducrot usa la corteccia, e basterebbe questo per dimostrare che l’umanità è ancora interconnessa.

Da il manifesto

«Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista», edito da DeriveApprodi. Il volume scritto da Silvia Lippi e Patrice Maniglier è il primo della nuova collana editoriale «Sabir». Un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica e la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana. L’autrice e l’autore si affidano idealmente alla guida di Valerie Solanas che immagina un mondo costituito a partire dalle sole relazioni tra donne

Se la pratica politica dell’autocoscienza, il «partire da sé», l’idea di un posizionamento che parte dal corpo, anziché dal ruolo e dallo status giuridico, hanno segnato profondamente la storia dei femminismi negli anni Settanta, è altrettanto vero che negli stessi anni si andava dipanando una matassa molto più complessa: il rapporto tra psicoanalisi e femminismi inglesi, francesi e italiani, con approdi diversi eppure accomunati dall’idea secondo cui scavare a fondo significa decolonizzare l’inconscio dallo sguardo maschile e patriarcale per aprirlo ad una sessualità libera e indipendente, in poche parole al desiderio di ciascuna.

Coscienza e inconscio hanno a che fare sempre con il linguaggio, ma la prima risponde alla possibilità di prendere parola sulla propria condizione a partire dalla riflessività, il secondo richiede sicuramente un processo di emersione più lento e articolato perché assai lontano dalla razionalità. 

Sinteticamente, infatti, si potrebbe dire che «prendere coscienza» di una condizione risponde più alle logiche sociali e culturali, mentre maneggiare l’inconscio significa riportare alla luce gli abissi che si manifestano sotto forma di sintomi, fantasmi, linguaggi scomposti e notturni. Pertanto, potremmo dire che se l’inconscio si manifesta sempre a partire dal proprio vissuto singolare, la coscienza può anche manifestarsi collettivamente.

In tal senso gli anni più floridi del rapporto tra femminismi e psicoanalisi sono senz’altro stati i primi Settanta della seconda metà del Novecento. L’approccio freudo-marxista di Juliet Mitchell, ad esempio, è stato importantissimo nel contesto anglosassone e poi ovunque per sostenere la tesi secondo cui nei femminismi socialisti riferirsi solo a Marx, senza tener conto di Freud, significa ridurre la portata di quest’ultimo nel momento in cui ha indicato nel profondo l’origine della scena edipica, a partire dalle figure paterne e materne, nonché della sessualità.

Secondo Mitchell, infatti, al di là della condizione di subalternità femminile prescritta dalla biologia, l’inconscio incamera anche la condizione sociale e culturale dell’asimmetria disegnata dal patriarcato divenendo un fatto psichico di matrice storica, non solo biologica.

Parallelamente, in quegli anni, in Francia si andava costituendo il gruppo fondato da Antoinette Fouque «Psy-et-Po» (psicoanalisi e politica), da cui poi emergeranno figure fondamentali per il femminismo radicale della differenza, quali Luce Irigaray, Julia Kristeva e altre.

Su quest’ultimo approccio diveniva centrale l’influenza di Jacques Lacan, dello strutturalismo e della centralità del linguaggio. Loro, a differenza di Mitchell, non faranno sconti né a Freud, né a Lacan, né all’intero plesso costitutivo della filosofia occidentale, al punto che la stessa Irigaray, come noto, con le sue idee centrate sulla valorizzazione della sessualità e del sesso femminile inteso come «speculum» e non come «specchio» del e dal maschile, sarà letteralmente cacciata dalla scuola lacaniana.

In quegli anni, in altre parole, il gesto dell’inconscio o, se vogliamo, il taglio dal logos maschile e dal fallocentrismo, in sintesi dall’ordine simbolico del padre, si sarebbe poi andato a sedere sull’ordine simbolico della madre e della sessualità femminile, non senza generare problemi, equivoci, conflitti intergenerazionali.

Da allora, a parte Judith Butler che ha criticato con veemenza alcune categorie lacaniane, collocandosi all’interno di ciò che potremmo definire «post-strutturalismo», a parte altre psicoanaliste interessanti come Manuela Fraire da una parte e Clotilde Leguil dall’altra, con la sua interessantissima critica al concetto di «genere» inteso come linguaggio incline all’ideologismo, nonché al nascondimento del valore singolare di ogni essere umano, donna o uomo che sia, e poco altro, non abbiamo assistito a vere e proprie scene di rottura rispetto alla tradizione teorica e clinica della psicoanalisi. Quantomeno non dal suo interno.

A rompere tutti questi schemi, invece, è arrivata da poco nelle nostre librerie, l’edizione italiana di “Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista” (pp. 256, euro 20) di Silvia Lippi e Patrice Maniglier, primo testo di una promettente collana di Derive Approdi dal titolo “Sabir”, diretta da Federico Chicchi, Luca Negrogno e Marco Rovelli.

Il volume, già uscito in Francia nel 2023, si presenta sin dalle prime pagine come un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica del rapporto tra femminismi e psicoanalisi, la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana, provando con ogni mezzo a ritessere un rapporto critico e articolato tra femminismi contemporanei, psicoanalisi e politica.

Scritto da una psicoanalista e da un filosofo, un «noi» sempre declinato utilizzando un linguaggio al femminile, il volume mira a compiere una serie di mosse ardite e sorprendenti.

Proviamo a sintetizzarne alcune.

L’inconscio è sempre rivoluzionario, è senz’altro singolare, ma può anche diventare collettivo, connotandosi attraverso il filtro della «sorellanza» al fine di decostruire la triade eterosessuale «madre, padre, bambino/bambina»; per mettere in luce «l’impensato eteropatriarcale, coloniale, borghese, eventualmente anche omofobo e razzista», bisognerebbe decostruire i discorsi della psicoanalisi al fine di renderla più attuale e rispondente alle realtà sociali della contemporaneità; la «psicoanalisi sororale» è indispensabile per destrutturare il nesso tra essa e i contesti storici patriarcali in cui è nata; sul fronte femminista è bene, invece, recuperare il nesso che secondo Lippi e Maniglier esiste tra il Manifesto “SCUM” di Valerie Solanas e il #metoo contemporaneo per permeare di nuova psicoanalisi il femminismo odierno di quarta ondata.

Per fare cosa? Semplice, rispondono Lippi e Maniglier: «Per ricominciare con la psicoanalisi su un’altra strada. Non più quella del fallo, ma della sorellanza». Come noto, Solanas ha avuto una biografia alquanto complessa: spara a Andy Warhol che cerca di appropriarsi illegittimamente di un suo scritto lasciandolo inabile per il resto della sua vita, vive ai margini della società, trasforma la sua labile psiche in qualcosa che, secondo Lippi e Maniglier, «colpisce nel segno».

Ma cosa può voler dire davvero in questo testo «eliminare tutti gli uomini», nonché fare della vita «delirante» di Valerie Solanas qualcosa di rivoluzionario anche per la psicoanalisi, oltre che per il femminismo?

Innanzitutto, vuol dire definire le donne e tutto il femminismo odierno senza fare più riferimento al maschile se non attraverso il filtro delle relazioni reciproche, ma significa anche rimettere al centro il concetto di sorellanza intendendo con ciò il principio secondo cui una donna può diventare una sorella, mentre un uomo è sempre ciò che ostacola la sorellanza, proprio come accaduto quando molti uomini attaccavano il movimento #metoo considerandolo bigotto, vittoriano e criminalizzante.

Messa così, con questa sintesi, potrebbe persino apparire un libro a sua volta provocatorio, oltre che molto semplificato. In realtà, invece, i processi di decostruzione e ricostruzione presenti in ogni pagina di questo testo mirano fondamentalmente a sostenere la tesi secondo cui sia il desiderio che la politica non sono saggi, né mai si sono dati in questa forma e dunque perché continuare ad imbastire parole ipocrite basate ancora sull’egemonia del patriarcato e di una sua presunta normalità?

Certamente osare, spingere in avanti, generare tagli epistemologici e posizionati è sempre stato importantissimo per i femminismi. Tuttavia, relazionandosi con questo libro qualche piccola perplessità arriva.

Il concetto di sorellanza, ad esempio, proveniente dall’ideologia socialista ed emancipazionista non si è mai dato nella realtà della relazione tra donne e ciò perché sia la pratica dell’autocoscienza che la psicoanalisi hanno sempre dimostrato quanto di fatto ognuna sia singolare, per esperienza e per vissuto.

Inoltre, il patriarcato old school oggi si manifesta a sua volta come un “sintomo” votato spesso al rovescio violento e aggressivo, risentito, nonché affetto da gravi patologie del desiderio: siamo certe che “castrare” definitivamente il maschile sia davvero fecondo per i femminismi?

La discussione potrebbe continuare all’infinito, intanto non v’è dubbio che questo libro costituisce un nuovo taglio, qualcosa di radicalmente nuovo che senz’altro può contribuire al lavoro di decolonizzazione dal maschile dell’inconscio transfemminile e a cambiare la psicoanalisi.

Da Il Foglio – Roma. Non ha letto «l’inutile legge sulla maternità surrogata», dice, perché non occorre una legge per sapere che «dietro la gestazione per altri (Gpa) si nascondono l’utero usato come forno, la donna usata come merce, ma soprattutto il corpo del bambino fabbricato e venduto: il vero scandalo di questa pratica». Sicché non c’è affatto bisogno, ribadisce, della «fiction del reato universale». E cioè del disegno di legge approvato in via definitiva al Senato dal centrodestra e rivendicato dalla premier Giorgia Meloni per rendere punibile, in Italia, chi ricorra alla Gpa anche all’estero. Piuttosto, spiega, «occorrerebbe una riflessione profonda sull’umano, a destra come a sinistra. Una presa di posizione contro un fitto business e contro una filiera orientata al profitto che smonti qualsiasi ciarla sulla maternità surrogata come atto d’amore». Così parla al Foglio Anna Finocchiaro, presidente della fondazione Italiadecide, già ministra delle Pari opportunità del governo Prodi e dei Rapporti con il Parlamento del governo Gentiloni. Donna e politica di sinistra (entrata in Parlamento nel 1987 con il Pci) che su questo punto, però, sembrerebbe più vicina alle posizioni della premier Meloni, convinta che “la vita umana non abbia prezzo”. E, per contro, parrebbe assai distante dall’approccio della segretaria Elly Schlein.

Finocchiaro, è così?

«Non mi permetto di giudicare la segretaria Schlein. Anche perché, come le ho detto, questa legge è una legge di bandiera. Tuttavia, certo, alla base c’è un tema complicato che riguarda i limiti dell’umano, il confine tra desideri e diritti o, come dire, l’invalicabile soglia oltre la quale il corpo della donna diventa merce e quello del bambino prodotto».

D’accordo. Ma non crede che l’opposizione alla mercificazione del corpo dovrebbe essere una battaglia di sinistra? O, se non altro, una battaglia femminista?

«Credo sia una questione che non dovrebbe contemplare reclami e propaganda. Riflettiamo: ci siamo battuti contro l’inferno dell’adozione dei bambini vietnamiti, contro la schiavitù, persino. E adesso…».

Adesso?

«Adesso accade che, forse senza accorgercene, ne replichiamo un’altra, di schiavitù: quella delle donne usate come forni».

Il messaggio è chiaro: per Anna Finocchiaro la gestazione per altri o utero in affitto – «la sostanza non cambia» – è «una nuova guerra di religione». «Un tema», argomenta, «che interroga l’essenza dell’uomo ben oltre gli steccati politici».

E su questo non c’è dubbio. Ma non sarà che a sinistra s’interrogano meno? Non sarà che proprio a sinistra si calpesta con più agio quel confine tra diritto e desiderio?

«Il tema è delicato. E però, certo, quello che non capisco è perché non si lavori, congiuntamente, per rilanciare le adozioni per le coppie omogenitoriali».

Perché, secondo lei?

«Difficile dirlo. Ma è evidente, ormai, come per sdoganare la Gpa ci si nasconda dietro l’alibi delle adozioni difficili. Al che sa cosa penso?».

Cosa?

«Che alla base di tutto ci sia un’idea proprietaria del figlio. Che ci sia la volontà di avere col figlio un legame di sangue senza curarsi del suo vuoto d’origine».

Ed ecco, a tal proposito il senatore del Pd Filippo Sensi, durante il dibattito in Aula, definiva la Gpa un fatto di altruismo: un atto d’amore addirittura cristiano.

«Amore? Cristiano? Sa quante cose, anche sbagliate, si fanno per amore? Piuttosto vorrei dire a Filippo che non si può fare finta di niente! Che non si possono ignorare le macerie che un bambino nato con maternità surrogata incontrerà sul suo cammino!».

Lei parla di utero come forno. E però c’è tutto un filone di pensiero che nella Gpa non vede mercificazione bensì libero uso del corpo.

«Certo. Anch’io posso ammettere che una donna ospiti un bambino nel grembo per generosità o per denaro. Lo contemplo. L’abiezione, però, è tutto quanto ruota intorno. È la filiera – dicevo – di avvocati, medici, agenzie, assicuratori e, non ultimo, di donne e bambini».

Elisa Pirro, senatrice M5s, criticando la legge accampava ancora una domanda, a quanto pare retorica. E cioè: perché se posso donare un rene non posso offrire il mio utero? Insomma, il rene (che filtra il sangue) e l’utero (che accoglie il figlio) messi sullo stesso piano. Finocchiaro, è possibile?

«Impossibile. Mi viene solo da pensare che Elisa Pirro, forse, non ha mai avuto figli».

Da Sette – Corriere della Sera, con il titolo “La differenza sessuale è un fatto: la galassia lgbt accetti le critiche”

In Donne si nasce (e qualche volta lo si diventa), la filosofa prova a ricucire il dialogo con le generazioni più giovani (a cui appartiene l’autrice di queste pagine). «Il pensiero queer è militante e la militanza richiede semplificazione»

La filosofa francese Simone de Beauvoir, autrice di uno dei testi chiave del femminismo europeo, Il secondo sesso, in cui afferma che «donna non si nasce, lo si diventa», sostenendo che a definire il destino della donna non è lo status biologico e psicologico ma la sua condizione sociale e storica.

Nel viaggio di consapevolezza di molte donne e ragazze under 30 c’è stato un libro che ha segnato una svolta da un femminismo “sentito” a uno “capito”. Era un’antologia di testi femministi curata dalla filosofa Adriana Cavarero, che ha permesso a un’intera generazione di fare la conoscenza, tra le altre, di Virginia Woolf, Carla Lonzi, Monique Wittig. Oggi Cavarero ha scritto, insieme alla professoressa ordinaria di filosofia politica all’Università di Verona Olivia Guaraldo, un altro libro che è destinato ad avere la stessa funzione: Donna si nasce (e qualche volta si diventa), edito da Mondadori. Stavolta non c’è una raccolta di estratti ad accompagnarci a una consapevolezza maggiore verso il femminismo, ma una appassionata ricostruzione – e difesa – della ricchezza del pensiero femminista, in particolare di quello della differenza sessuale. Il tema senz’altro è divisivo e le due generazioni, quella del femminismo storico e quello nuovo, rischiano di non riuscire a trovare le basi per un dialogo. Questo libro cerca di porle.

Il vostro libro si rivolge in maniera esplicita a delle “ragazze”, perché?

«Oggi il linguaggio del femminismo è dappertutto, soprattutto sui social, ma questa onnipresenza può creare confusione. Non è detto che quelli che lo usano conoscono veramente la storia di questi termini e come si sono evoluti. Io e Olivia Guaraldo volevamo fare chiarezza, spiegare, diradare questa confusione. Ma non è solo questo: queste ragazze, come te, sono la nuova generazione del femminismo e abbiamo voluto passarvi il testimone, perché siete voi che dovete continuare a fare evolvere la teoria e la pratica femminista. Ma per farlo è indispensabile conoscerne bene la storia».

Mi sembra che l’intento sia riuscito. L’ho trovato un libro molto onesto: voi dichiarate subito il vostro posizionamento, ma c’è un’apertura verso chi ha idee differenti. Si vede che c’è uno sforzo di comprensione. Su tanti temi io la vedo in modo diverso, ma leggendo non ho mai avuto l’impressione che mi voleste convincere di qualcosa. È uno strumento di cui la mia generazione ha bisogno, perché spesso l’ostilità verso certe teorie è dovuta proprio a quella confusione di cui parlava prima. Penso soprattutto al tema della differenza sessuale.

«Questo patrimonio va tesaurizzato, ma anche fatto evolvere. Ogni generazione ha la sua versione del femminismo, ed è normale che sia così. Io credo che l’ostilità verso la differenza sessuale sia causata anche da un problema di comunicazione, che noi abbiamo del tutto trascurato perché abituate a un femminismo fatto di corpi in presenza. Noi eravamo abituate ad altro, all’autocoscienza, ai gruppi di donne, e abbiamo sottovalutato l’importanza della comunicazione. D’altro canto i social hanno portato una diffusione capillare delle teorie queer fra le giovani, ma senza alcun approfondimento, per cui spesso l’assorbimento è stato quasi di tipo ideologico».

E le stesse teorie queer ne hanno sofferto. Nel libro si parla molto di come il pensiero di una delle più importanti pensatrici di questo filone, Judith Butler, con cui lei è in ottimi rapporti anche se siete in disaccordo, sia stato male interpretato e portato all’estremo. A volte sono state ignorate le evoluzioni successive delle sue teorie. Pensa che questa estremizzazione sia capitata anche col pensiero della differenza? A volte noi giovani abbiamo questa impressione.

«Il pensiero queer è militante, e la militanza richiede semplificazione. Il pensiero della differenza tende a diffondersi a macchia d’olio, andando a toccare molti ambiti disciplinari e creando gruppi di ricerca in campi molto diversi, dalla storia alla sociologia. E all’università non si è mai estremisti. Se tu avessi un professore estremista, sarebbe un cattivo professore. L’accademia non si presta molto alle estremizzazioni, mentre la politica sì. Le stesse opere di Butler sono molto difficili da leggere e infatti quella che ne è circolata è la loro rimasticazione militante».

Ci sono temi di cui il femminismo storico si è occupato moltissimo, mentre oggi sono marginali nei nostri dibattiti. Penso alla potenza di generare, e quindi alla maternità, che sta alla base del pensiero della differenza sessuale. La mia generazione tende a considerare l’importanza che avete dato alla madre come una mistica della maternità, che a noi pesa.

«Non è affatto così. Noi siamo partite da un fatto, cioè che siamo “tutti e tutte nati da donna”, come diceva Adrienne Rich. Oggi questo fatto viene considerato trascurabile, ma da filosofa non posso pensare che l’origine di ognuno sia poco interessante. I filosofi maschi non si sono mai posti questo problema, perché gli uomini non partoriscono, ma le donne non possono fare altrettanto. Anche tu sei nata da tua mamma, ma questo non ti obbliga a diventare madre. È la Chiesa cattolica a invitarti a partorire, non il femminismo. Il femminismo però ti invita a riflettere sul fatto che, come esseri umani, non solo moriamo, ma nasciamo e nasciamo da corpo di donna, e che il corpo di donna rispetto al corpo maschile ha questa capacità di gonfiarsi, di scindersi e di partorire».

Forse è proprio questo tassello a mancarci: non teorizziamo la maternità, ma la pensiamo solo nei termini di una scelta personale.

A proposito di maternità, l’ultimo capitolo è dedicato a quella surrogata, un tema che ha spaccato profondamente il movimento e su cui c’è un grande divario, anche generazionale, tra il femminismo della differenza e il transfemminismo di oggi. Nel libro si parla più volte dell’alleanza storica tra il femminismo e i movimenti di liberazione omosessuale, lesbico e transgender. Secondo lei, questa alleanza si è rotta? E se si è rotta, su quali basi si può ricostruire, sempre che vada ricostruita?

«Secondo me questa alleanza è molto in crisi in questo momento e lo si capisce da alcuni esempi presenti nel libro, come il fatto che la parola “donna” viene sostituita con “persona con utero”. Ovviamente noi auspichiamo che questa crisi venga superata e che attraverso la ragione e il buon senso si torni alle alleanze, e si torni a collaborare. Ma finché c’è un’estremizzazione e un attacco al binarismo, come se fosse una cosa brutta nascere maschi o femmine, le alleanze sono molto difficili».

A molte femministe della differenza si contesta che le posizioni di critica alla categoria del “gender” finiscono per assomigliare alle posizioni dei conservatori che parlano di “ideologia gender”, che però sono gli stessi che limitano i diritti delle donne, che le considerano solo come madri e mogli, che vogliono vietare il divorzio e l’aborto. Come risponde a questa obiezione?

«Quando abbiamo scritto il libro, ci siamo rese conto che c’era questo grande rischio, ma la nostra posizione è tutt’altro che conservatrice o favorevole alla famiglia tradizionale. Ma questo pericolo non può diventare il motivo per cui non si può più fare alcuna critica alle posizioni della galassia LGBT. Di mestiere sono filosofa e ho sempre operato col pensiero critico. Devo assumermi il rischio: riconoscere la differenza sessuale è un fatto. Poi ci sono tante interpretazioni a questo fatto: c’è quella conservatrice, ma c’è anche quella femminista che è rivoluzionaria e che ha permesso alle donne di creare la propria soggettività libera nella relazione».

Da Il Quotidiano del Sud – Ci sono notizie che non vorresti mai ricevere, ma quando arrivano ti lasciano sgomenta e con un profondo dolore. È quello che ho provato quando la mia amica Doriana mi ha annunciato la morte di Luana, la giovane libraia della Ubik di Catanzaro, un luogo a me caro che frequento da anni e che, per me come per tante/i altre/i, è molto di più di un luogo dove una come me, che ama moltissimo leggere, va per comprare libri. È un luogo del cuore, dove incontrarsi, fare amicizia, dialogare, condividere il piacere dei libri con Luana, Nunzio e Gianluca. Era piacevole incontrarla e fermarmi a parlare con lei circondate dai libri, la mia e la sua passione, che mi fanno sentire a “casa”. L’ho incontrata in libreria anni fa, dietro al banco, sorridente, giovane, bella, gentile, piena di vita. Mi è piaciuta subito. Ogni volta che dovevo ordinare un libro telefonavo e quasi sempre era lei che mi rispondeva. Sentivo amicizia nella sua voce e io la ricambiavo, anche se non ci siamo mai frequentate. Ci sono persone, come lei, che non hai bisogno di frequentare per sentire che ti somigliano e sapere che è speciale, e Luana lo era. Quando andavo in libreria a ritirare il libro ordinato, la trovavo sempre lì e mi accoglieva col sorriso. Era una ragazza colta e intelligente. Complice l’estate non la vedevo da mesi e quando sono rientrata dal mare e sono stata in libreria non l’ho trovata, non sapevo della sua malattia e non ho chiesto di lei, ho pensato soltanto che fosse in ferie e che prima o poi l’avrei rivista, magari la prossima volta che ci fossi andata. E invece, se n’è andata per sempre. Ho sentito il bisogno di scrivere di lei per sentirla ancora viva, là in libreria che aspetta che vada a ritirare l’ultimo libro ordinato. La sua immagine, il suo volto, il suo corpo, persino il suono della sua voce mi accompagnano mentre scrivo e non riesco a pensare a lei al passato. Un passato che è ancora ben presente nella mia mente e nel mio cuore e il solo pensiero di andare in libreria e sapere che non c’è più mi rende triste, rende triste quel luogo perché lei è la libreria, come lo sono Nunzio, Gianluca e Sara, la ragazza arrivata da poco.

Quando Luana ha saputo della sua malattia, ha avuto il coraggio e la forza di parlarne in un video su Facebook, di cui sono venuta a conoscenza solo dopo la sua morte. Non eravamo amiche su Facebook ma amiche nella vita. Guardando il video ho pianto ed ho rivisto in lei me stessa quando ho scoperto di essermi ammalata di tumore. Lo stesso terrore, la stessa speranza e determinazione di uscirne e tornare alla vita, che per lei voleva dire vivere con l’uomo che amava e che aveva sposato solo cinque giorni prima. È indicibile e impensabile il dolore di chi l’ha vista passare dalla gioia alla morte. Tornare alla vita per lei voleva dire tornare alla libreria, alla grande “famiglia” della Ubik. Ci credeva, voleva crederci, ci sperava, lo desiderava e intanto i libri, come sempre, le facevano compagnia e le davano gioia. Si era ripromessa di fare altri video in cui parlare dei libri che avrebbe letto. Una passione e un amore che negli anni ha speso in libreria e di cui ha fatto dono a chiunque la conoscesse. Luana è la Ubik e con la sua presenza rendeva quel luogo accogliente e piacevole. Sono le donne come lei che fanno capire cosa si perde a comprare un libro online e cosa vuol dire fare di una libreria un luogo dove coltivare e condividere passione e amore per i libri, che cessano di essere oggetti da vendere e comprare, e diventano ponti, mediazione, per legami di amicizia tra chi compra e chi vende. Ho voluto esserci al suo funerale per salutarla per l’ultima volta. Cara Luana, libraia del cuore, mi dispiace moltissimo che te ne sei andata così presto ma ogni volta che andrò in libreria so che ti troverò ancora lì perché il ricordo di te è indissolubile con la Ubik e vive oltre la morte. Addio mia giovane e cara amica del cuore, non ti dimenticherò.

Mercoledì 16 ottobre il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge per rendere la maternità surrogata “reato universale”. Sono femminista e sono contraria alla pratica della maternità surrogata (o utero in affitto) che rappresenta una mercificazione del corpo femminile, riducendo il corpo della donna a un mezzo di produzione, oggetto disponibile per il mercato. Vogliamo arrenderci alle logiche del biocapitalismo globale che mercifica ogni aspetto della vita, compresa la capacità di generare figli? Io no, e con me molte donne e femministe che da anni studiano, scrivono e lavorano perché ci sia una presa di coscienza allargata (penso per esempio al libro L’anima del corpo di Luisa Muraro, a Maternità surrogata. Le donne, il desiderio, il mercato di Silvia Guerini e al recente Libertà in vendita di Valentina Pazé, solo per fare qualche titolo).

Sono femminista e desidero un pensiero libero, non piegato a partiti politici né incatenato a schieramenti ideologici. Mi ribello a un mondo dominato da una logica binaria e asfissiante, dove ogni riflessione sulla GPA viene strumentalizzata, trascinata da una parte o dall’altra: o nelle fila del cosiddetto progressismo, o in quelle del conservatorismo più becero, oggi anche neofascista. Rifiuto questa trappola ideologica che soffoca ogni pensiero autentico.

Per questo credo, con la senatrice Luana Zanella, che la via non sia la criminalizzazione per legge, «perché criminalizzare chi ricorre a questa pratica all’estero non significa bloccare o scalfire il commercio globale della maternità surrogata sempre più florido e ricco: occorre invece quel che la destra non ha voluto fare cioè una grande iniziativa politica a livello internazionale per impedire lo sfruttamento dei corpi delle donne e il commercio delle creature che la GPA cosiddetta solidale non impedisce».

Non sarà la legge, strumento del potere istituzionale, a creare una vera barriera a questa pratica. Di più, la criminalizzazione è un’operazione di mera propaganda.

Da Eredibibliotecadonne.it

Il libro L’Iliade cantata dalle dee (Solferino 2024) di Marilù Oliva si può leggere come un reportage della caduta di Troia, raccolto da quelle che c’erano, a dominare e intercedere o a farsi massacrare dal furore di Ares. Nessuna ebbe una sua versione. Ora è il momento di dargliela.

Gli dèi amano i sacrifici, e rispondono a coloro che li invocano solo se vengono saziati nel loro inesausto bisogno di bere sangue umano. Così nell’ultima notte di Troia Creusa, moglie di Enea, sorella di Ettore, lasciata indietro nella fuga dal marito intento a trascinarsi sulle spalle lo stanco padre Anchise e a tirarsi dietro per mano il figlioletto Ascanio terrorizzato, fissa allucinata l’altare di Apollo in preda alle fiamme al centro della città, e vede cosa deve fare.

Coglie l’attimo in cui un destino si manifesta. Ora. Adesso.

Adesso, se lo farà, se si consegnerà a loro, le dee si ricorderanno di cantare i destini maledetti di chi soccombette quella notte a Troia e soprattutto di loro, le donne, le regine, le amanti, le figlie, le schiave e le serve dei belligeranti: i grandi e tronfi guerrieri Achei, ributtanti macchine di distruzione e stupro, violatori di patti, altari, giuramenti, trattati, templi, in nome del possesso violento e del puro istinto di saziare l’infinita ingordigia di beni; e dei loro avversari, i perdenti di una guerra dichiarata, come tutte le guerre, per uno scopo ridicolo – qui, in questa, per la riconquista di una donna rapita, ma ci sono stati e ci saranno motivi ancor più futili.

Una guerra già persa già molti anni prima, quando Troia cominciò a luccicare di ricchezze e suscitare cupidigie, perdendo la semplicità dei modi di vita passati, quando la comunità viveva povera e unita sulle rive dello Scamandro. Ma questa storia l’ha già raccontata Christa Wolf in Cassandra, capitolo secondo di tutte le guerre perse: gli errori degli sconfitti. 

Creusa sacrifica la sua vita tagliandosi il delicato collo con la spada dimenticata a terra. Si lancia tra le fiamme che avvolgono l’altare, provando la breve sofferenza che ha visto negli occhi di tanti agnelli e giovenche sgozzati ritualmente, la sua vita davvero ridotta a poca cosa confronto alla perdita del regno, del rango regale, forse anche del marito che proprio se la scorda nell’impeto visionario della fuga, già presentendo l’approdo sulle coste italiche.

Così, strappa alle dee l’impegno di ricordare. Di ricordarle, le donne di Troia, quelle Troiane che Euripide farà lamentare lugubremente in scena come spettri e che prima di essere un informe bottino bellico senza volontà erano spose fiorenti, giovani madri, figlie luminose, vecchie sagge. Le dee narreranno, allora, in prima persona, la loro versione dei fatti, ma lasceranno anche posto alla versione delle donne di Troia, le cancellate, le zittite, le stuprate, le profetesse inutili, le trascinate per i capelli, le impazzite dal dolore.

Qualcuno vuole usarti, qualcuno vuole essere usato da te. Qualcuno vuole abusarti, qualcuno vuole essere abusato da te cantava Annie Lennox in Sweet dreams, e tutti capivamo che l’enigmatico testo parlava della caduta dei sogni, delle dolci illusioni, nell’agire e nel patire reciproco, nel fare male e nel farsene, o farsene fare.

Perché Troia fu un campo di battaglia dove uomini e donne, dee e dei, giocarono una partita infame con carte truccate e barando a tutto spiano, in cielo e in terra, ma poi il destino assegnò a ciascuno la sua parte di dolore e lutto. Vero, Odisseo, Agamennone, Achille? Sì, i ritorni difficili. O il nessun ritorno. Un mare di lacrime che non servono a lavare il fiume di sangue che rigurgitò dallo Scamandro gonfio di cadaveri sulla pianura arsa dalla battaglia.

Le dee non sono super partes, appoggiano chi gli Achei chi i Troiani. Per motivi personali, ovviamente.

Afrodite sta con i Troiani di suo figlio Enea, come Ares che è il suo amante e fa quello che gli dice lei.

Atena glaucopide parteggia per i Greci, come potrebbe dimenticare i fumi dei sacrifici che si innalzano dalla città che le hanno dedicato, dalla vasta Attica, da Delfi, da Epidauro. Il sovrano di quell’isoletta isolata e boscosa, Itaca, è il suo protetto speciale, il suo campione, la mente più sottile di tutte, anche se ha l’aspetto trasandato di un pastore di pecore.

Teti cerca di difendere suo figlio Achille da se stesso, impresa impossibile da portare a casa. L’eroe perderà in battaglia l’amante Paride, e l’ira funesta per gli sgarbi subiti da Agamennone gli ricadrà sul capo come una granata deviata di fuoco amico. Così si scende nell’Ade da stolti, oppure ci si racconta che era destino. E già. Chi si può opporre al destino.

Era non può sopportare il principe Paride da quando le ha negato il pomo della più bella assegnandola a Afrodite, come era da aspettarsi da un ragazzino senza giudizio incapace di apprezzare il fascino superiore di una donna di potere. Quindi, morte ai Troiani.

Per Eris, dea della discordia, la guerra di Troia è un puro godimento, un banchetto succulento, una torre di babà alla crema in cui tuffarsi, occasione quasi didattica di verificare quanto danno riescano a farsi gli uomini lasciati a loro stessi e alle loro grandiosamente puerili mire. Basta impegnarsi pochissimo, stuzzicandoli appena un minimo in battaglia, e poi lasciarli giocare alla guerra fino all’inconcepibile, all’irreparabile, alla catastrofe. Sempre un vero divertimento, anche conoscendo a memoria il finale.

Elena. Come si può parlare del sogno erotico di ognuno che l’abbia o non l’abbia vista, del più bel corpo che abbia mai posato il piede al suolo, del sembiante più citato raccontato descritto immaginato della storia. A lei questo privilegio ha causato solo danno, iniziando con il rapimento a dodici anni da parte di Teseo, che da vero rispettoso gentleman ateniese quale è non la stupra veramente, ma si limita a sodomizzarla, così la giovane può vantaggiosamente arrivare vergine al matrimonio con Menelao, tra eroi certi dispetti non si fanno, si sa che c’è un certo codice cavalleresco di mezzo. Passata di mano al biondo Menelao, deve essere talmente appagata dello status maritale che persino l’effeminato, hollywoodiano, profumato e inconsistente principe troiano Paride in visita a Sparta le deve sembrare un diversivo passabile, imbarcandosi con lui senza troppe domande verso la Troade per nuove avventure. Ma davvero Elena pensava che lì non l’avrebbero odiata per la spedizione punitiva nel frattempo decisa dai principi greci, che le principesse asiatiche le avrebbero aperto le braccia, le figlie e le nuore di Priamo l’avrebbero considerata una di loro? Che sia un po’ debole di mente, come spesso capita alle bionde? Elena a Troia è un simulacro, ma non come pensava e metteva in scena Euripide, prendendo la situazione alla lettera e immaginandola parcheggiata in Egitto presso il re Proteo, e concupita – of course – dal di lui figlio Teoclìmeno, mentre a Troia gli uomini si squartano per un fantasma. Elena a Troia è un ectoplasma ambulante, un corpo fisicamente vivo ma psichicamente morto, una donna senza legami con alcuno, a parte qualche incursione sempre più rara di Paride nel talamo principesco. Il pensiero di farla finita buttandosi dalle mura le gira intorno, la alletta. Forse la fine dell’esistenza corporea le può dare quel sollievo dal destino di diventare preda di qualcuno che non trova in nessuna terra e nessun porto. Morire. Dormire. Sognare forse. Elena a Troia teneva Shakespeare sul comodino?   

Ma un’altra salute mentale vacilla in quegli ultimi spossanti cinquantuno giorni di una guerra durata dieci anni. Appartiene a Cassandra, la figlia di Priamo ed Ecuba, con un fardello più pesante della bellezza rapinosa da portare: il destino di profetizzare senza essere creduta. Viene tenuta a distanza dalla città e dalla sua stessa famiglia come una paria, una deficiente assoluta; non è infatti concepibile, se non nella follia più totale, che non si sia concessa al suo signore e dio Apollo, infrangendo l’obbligo sacerdotale di unirsi fisicamente e misticamente al dio veggente. Bisogna andare a letto col produttore per fare il film, da quando esiste il mondo, ma lei no, la campionessa di queerness, schifa il dono della vista e il dio che glielo porge. I futuri stupri subiti dal sacrilego Aiace di Oileo per oltraggiare il tempio di Apollo tramite la sua persona, e quello di Agamennone, fattala preda di lusso nella sua tenda, non saranno peggiori del possesso non realizzato dal dio: una mera conseguenza della caduta dalla sua condizione regale, un atto praticamente dovuto sulle donne nemiche. Niente di strettamente personale, semplice lurido ministeriale protocollo di guerra. Rifiutare un dio fu il peggio, l’irrimediabile, il resto brucia la pelle e l’orgoglio, ma non incenerisce una vita. Apollo sì, lei l’ha bruciata. Il dono della vista glielo ha dato ugualmente, se si è la prescelta è inevitabile, ma con una tara permanente in pegno. Sei una bugiarda, principessa. Tutta la vita deve sentirselo dire. Quindi adesso Cassandra si aggira come una disoccupata demente nei sordidi miasmi della Troia degli ultimi giorni, dove tutti aspettano la fine come una espiazione dovuta e troppo a lungo rimandata, il sollievo di un colpo di grazia liberatore sul collo appoggiato al ceppo. È possibile che le due reiette si siano viste? A palazzo, sicuramente, ma non in quel passarsi accanto occasionale, da vicine di condominio. Viste con quel posarsi dello sguardo della meraviglia, della prima volta che si vede una cosa, un essere.

Se è stato, è Cassandra che ha visto Elena, perché è il destino della spartana essere guardata, e di chi la vede sciogliersi nel cuore come un fiocco di neve. Per una volta si posa su Elena uno sguardo che non possiede, non consuma, non depreda; fisso, bloccato nel riverbero di quella bellezza sovrumana, lontana anni luce dalla insignificanza fisica di chi guarda, eppure intrecciando un dialogo senza parole, come un riconoscimento a distanza di un’essenziale identità, pur dalla siderale lontananza che separa la divina bellezza da tutto il resto. Sorelle di un errore nel dna della felicità, sorelle del senso di colpa, una di avere provocato – ma come poteva? – la guerra e l’altra del non averla saputa evitare anche avendola mostrata di continuo a tutti. Avranno corso come ragazzine nei boschetti sacri ad Afrodite, intrecciato l’un l’altra ghirlande di viole sui capelli odorosi di terebinto, ricordato la sera davanti al fuoco i giochi della loro infanzia dorata nei giardini dei palazzi reali, diviso la coperta ricamata ad arabeschi nelle notti umide della Troade? Mentre tutto intorno crollava, le loro disastrose vite hanno conosciuto un lampo di calore umano a scaldarle. È possibile. Ma non è scritto, non è tramandato. La caduta di Troia non contempla possibili resurrezioni a margine. Incontri come questo non fanno parte dell’Iliade già scritta. Possono trovare posto in quella ancora da scrivere, ucronica, fantascientifica o fantapolitica, che le generazioni di aede del qui e ora sentono l’impellenza di cantare, fermandosi ad ascoltare quella parte di canzone espulsa come un vangelo apocrifo dai libri canonici. Cantami o diva, sì, ma cantami tutto, di loro, di me che le ascolto oggi, dello Scamandro tornato azzurro. Sweet dreams are made of this.

Da il manifesto

«Il ricordo di un sogno», l’ultimo libro di Rosi Braidotti edito da Rizzoli. Un memoir che omaggia le sue antenate, a partire dalla madre Bruna. E che attraversa il secolo scorso. I luoghi narrati partono da Latisana, nella bassa friulana, e arrivano fino all’Argentina, passando per l’Australia e il ritorno in Europa. Tra il dolore di guerre e distruzioni.

«Scrivi, Rosi, che la scrittura è amore, compassione e perdono». Brillano queste tre parole nell’ultimo libro di Rosi Braidotti, Il ricordo di un sogno (Rizzoli, pp. 407, euro 19), memoir in cui la filosofa femminista rende grazie alle sue antenate fin dall’eco del sottotitolo: una storia di radici e confini. Quella anzitutto di essere situata in una nascita, nel 1954 a Latisana, nella bassa friulana, e ritrovarsi presto migrante, in Australia e poi nuovamente in Europa, a Parigi e Utrecht in particolare.

A esortarla fin da ragazzina alla parola scritta è la madre Bruna, pietra angolare del libro e della sua esperienza di figlia che dal sé passa al «noi». Descritta come inventrice di mondi, Bruna è una moderna Sherazade. Se nelle radici riecheggia la foto che una bambina trova dentro un baule e che consente la ricerca che la porterà a trovare l’origine della sua famiglia sparsa nel mondo, nei confini abita il Novecento carico di guerre, dolori e liberazioni. Il ricordo di un sogno è il frutto maturo di un patto d’amore e al contempo, nel metodo, la possibilità di conoscere lo scandaglio appassionato che ha distinto le diverse traiettorie teoriche che in questi anni hanno segnato il percorso critico di Rosi Braidotti.

Filosofa femminista, è a lei che dobbiamo volumi importanti che rimangono delle letture decisive di generazioni di studiose, accademiche e attiviste. Da Soggetto nomade (1995, la cui prima edizione italiana è per Donzelli) alla trilogia dedicata al Postumano (di cui DeriveApprodi ha cominciato la pubblicazione nel 2020 ma che indica un’acribia trasformativa e rara dell’idea stessa), notevoli sono gli innesti che costellano saggi come Dissonanze (La Tartaruga, 1994) o il piccolo e splendente Madri, mostri, macchine (manifestolibri, 1996) e altri come In metamorfosi (Feltrinelli, 2003) o Trasposizioni (Luca Sossella, 2008). A raccontare insomma il lavoro di Braidotti in questi anni, nelle sue traduzioni in svariate lingue (oltre 20) e anche qui in Italia – di cui si ricordano almeno i nomi di Anna Maria Crispino e, in tempi più recenti, di Angela Balzano – viene a illuminarsi una direzione il cui filo è da riannodare dal 2003, ovvero dal suo contributo al volume Baby Boomers, edito da Giunti e scritto insieme a Serena Sapegno, Roberta Mazzanti e Annamaria Tagliavini e che ora si può leggere, con una selezione di altri testi di orientamento simile e più strettamente autobiografico, in un libro edito da Castelvecchi del 2021 e dal titolo Fuori sede.

Il ricordo di un sogno è la memoria, storica e inconscia, di una parabola esistenziale di cui Braidotti è sismografo scrivente e che specialmente omaggia le donne della sua famiglia, talvolta altrettante bambine – come Maria quando spunta dal buio di una sofferenza materna o cammina in solitudine – da Udine verso Modigliana, vicino a Firenze – per raggiungere uno dei campi profughi in allestimento «per gente in fuga come lei». Siamo nel 1917 ma gli eventi raccontati, moltissimi, scandiscono la devastazione anche della seconda guerra mondiale, per esempio nella fisionomia di frontiera che assume il Friuli-Venezia Giulia durante la guerra fredda con una conseguente e profonda dispersione.

L’albero genealogico è il genogramma tracciato dall’autrice, i cui luoghi del mondo sono numerosi, ed è tuttavia un’operazione intimamente politica, là dove l’intreccio di Gilles Deleuze e Luce Irigaray (per nominare solo due dei riferimenti cruciali di Braidotti) si esprime in questo ultimo libro come il romanzo di una vita da sempre in divenire. Archivio desiderante e bussola per trovare il proprio posto, a partire da un incontro autentico capace di una promessa amorosa da enunciare al futuro.

Fin dalla «finestra cosmica» da cui la piccola Rosi si sporge, inclinazione e racconto di una differenza sessuale mai punto di arrivo bensì di immaginari possibili, si arriva allora alla spazialità del soggetto nomadico. La pastoia delle lingue frequentate, delle parole che scivolano e slittano «fuori dal senso comune», sono ulteriori modi di comporre il «rizoma» che si inchioda nella intelligenza di Braidotti a partire da immagini generative: come quella del rododendro nominato per indicare l’oleandro e di cui, fino all’età di sei anni, non riesce a pronunciare la lettera «r». In questo salto di «ododendi» e «oleandi» il corpo, più avanti, assume l’anatomia intraspecie del Tagliamento che finisce in laguna e che le fa esclamare «My heartland», cuore ed entroterra. Si configura in un «sistema cardiaco-geografico indivisibile» ed è una delle tante visioni oniriche e immaginifiche delle mappe di Rosi Braidotti, che la complessità la prende molto sul serio da sempre. Come l’amore, la compassione e il perdono che ognuna deve a sé stessa, nel passaggio delle ere geologiche e delle età.

Da Avvenire

Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto di combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere

Not in their name, non nel loro nome. Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.

Dan Eliav, all’epoca 63enne e dunque esentato, anzi, ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. «All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo ed evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano. Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».

«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».

Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.

Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e centotrenta, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».

Da Doppiozero – Umanità, identità e dignità sono motivi ridondanti nell’opera di Han Kang, scrittrice nata nel 1970, prima sudcoreana – e diciottesima donna nella storia – a vincere il premio Nobel per la letteratura, assegnatole il 10 ottobre 2024. La sua opera è composta da otto romanzi, una raccolta di poesie, e alcuni racconti, più un’installazione di videoarte. Kang ha come caratteristica peculiare uno sguardo penetrante sul suo tempo e la sua cultura di appartenenza, capace di scendere in profondità per poi risalire all’origine dei danneggiamenti che innescano cause e effetti delle sue storie. Il suo stile narrativo riesce a suscitare impressioni forti in chi legge, tali da radicarsi nell’animo per un tempo superiore a quello di lettura. La natura di questo radicamento si rinviene nei luoghi che caratterizzano la vita di Kang sin dalla nascita, cioè Gwangju e il villaggio di Suyu-ri, che riflettono gli eventi principali della Corea del Sud a partire dalla seconda metà del Novecento. La città di Gwangju, luogo di nascita di Kang, è lo scenario di una sanguinosissima rivolta studentesca che ha mietuto più di 2000 vittime, anche se le cronache governative dell’epoca ne riportano solo 150. La comunità studentesca insorge il 18 maggio 1980, coinvolgendo tutta la città per ben dieci giorni, ribellandosi al direttore dei servizi segreti Chun Doo-hwan che solo il giorno prima aveva dichiarato lo stato d’assedio in Corea del Sud, sciogliendo il Parlamento e chiudendo le Università. Chun, insieme ad altri due generali dell’esercito, si era impadronito del potere conquistato da pochi giorni dal neopresidente Choe Kyu-hah, successore del generale Park Chung-hee, attuatore dello Yusin, dittatore della Corea del Sud dal 1963 al 1979 e padre della presidente Park Geun-hye, a lungo incarcerata per corruzione e abuso di potere, poi libera dopo il perdono del presidente Moon Jae-in ottenuto a fine 2021. Chun avrebbe ricoperto lo stesso ruolo di Park dal 1980 al 1988. Per maggiori approfondimenti rimando all’ottimo Storia della Corea: Dalle origini ai giorni nostri di Maurizio Riotto (Bompiani 2005). Proprio nel 1980 Kang si trasferisce a Suyu-ri, a nord di Seoul, luogo al confine tra campagna e città, che da ri – villaggio – passa a dong – quartiere – inglobato di diritto dall’urbanizzazione velocissima e dilagante della capitale sudcoreana. Così veloce che le fogne di Seoul ancora oggi non reggono lo smaltimento della carta igienica nei WC.

Mentre scrivo, la bio sul sito ufficiale di Han Kang non è stata ancora aggiornata: non ha ancora vinto il premio Nobel, sono citati svariati riconoscimenti internazionali. In Italia i romanzi di Kang sono stati tradotti dall’inglese, questione che, così come per i sottotitoli o il doppiaggio delle serie televisive coreane, molto spesso priva l’esperienza di fruizione di alcuni importanti significati e modi di dire pertinenti alla coreanità della scrittrice. Non abbiamo accesso a tutti i titoli pubblicati, ma a una selezione – edita da Adelphi – di quelli che sono considerati i più grandi successi della scrittrice, a partire da La vegetariana (2017), inserito dal New York Times tra i 100 migliori libri degli ultimi venticinque anni, seguito poi da L’ora di greco (2011), Atti umani (2014), e dalla raccolta di due racconti Convalescenza distribuita dal 2019 (le date riportate per i romanzi riguardano l’uscita in Corea del Sud).

Nei racconti Convalescenza e Il frutto della mia donna sono condensate le linee narrative delle sue maggiori opere, dove lutto e perdita si intersecano con salute mentale e fisica, agenti corrosivi del corpo umano che in realtà assorbe, impotente, lo stato generale della società. Kang fa pronunciare alla protagonista femminile di Il frutto della mia donna delle parole molto significative: «Questo paese è marcio dentro!», «Qui non può crescere niente, non lo vedi? Non intrappolato in questo… in questo posto soffocante e assordante!». La donna è nel bel mezzo della sua metamorfosi in vegetale, annunciata dalla comparsa di lividi azzurrini sulla sua pelle, che in La vegetariana si convertono nella macchia mongolica sulle natiche della protagonista Yeong-hye, un “ornamento” naturale che triggera le fantasie artistico-erotiche del cognato, poi soddisfatte dalla realizzazione di un body painting incentrato su fiori dipinti attorno a quel “petalo” azzurro. Yeong-hye prima rifiuta la carne e poi i vestiti, in un atto di ribellione contro le aspettative sociali e la sua disconnessione dalla realtà circostante. Attraverso i cambiamenti nell’abbigliamento di Yeong-hye, il romanzo riflette la sua evoluzione interiore e il suo distacco dalla società. I vestiti diventano un simbolo potente della tensione tra il desiderio di libertà individuale e le pressioni conformiste della cultura di appartenenza.

Gli abiti ordinari e conformisti da carnivora, semplici e funzionali, riflettono il malessere della corruzione del corpo in particolar modo per quanto concerne le sue semplici scarpe nere, tra le più banali mai viste. Il vestirsi come termometro della salute fisica e mentale ritorna anche in Convalescenza, in cui la protagonista prima della morte della sorella indossava «vestiti anticonformisti dai colori vivaci» e «scarpe bianche e gialle», mentre al tempo della narrazione, afflitta da una caviglia in cancrena e uno stato di evidente depressione indossa solo il nero. Questo colore ritorna anche in L’ora di greco come carattere distintivo della «tenuta da veglia funebre» della protagonista ripiombata in uno stato di completa afonia per la seconda volta, dopo la prima esperienza di silenzio forzato avvenuta al compimento dei sedici anni «quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito». L’elemento di fastidio esplicitato con il ricorso a una metafora vestimentaria non è la voce, ma la facoltà di comunicare in una società che sostanzialmente silenzia qualsiasi parere divergente dalla massa. Il far coincidere in tutte le narrazioni i cambiamenti di visione del mondo, di salute e abbigliamento sottolinea come la moda e i vestiti siano, nella visione di Kang, strumenti di controllo sociale e di giudizio. Convalescenza viene pubblicato in Corea nel 2013, l’anno in cui Park Geun-hye diventa presidente. In un’intervista di Mark Reynolds in lingua inglese dal titolo “Han Kang: To be Human”, pubblicata sul sito Bookanista, Kang commenta la presidenza di Park come un momento di sofferenza per parecchie persone, che l’ha portata a rivalutare l’incidente di Gwangju per trovare una risposta al quesito “cosa ci rende umani?”. Questa è la genesi di Atti umani, il romanzo in cui Kang ripercorre la rivolta studentesca attraverso gli occhi di Dong-ho, un ragazzo che classifica oggetti banali del quotidiano come accessori e indumenti per riconoscere le vittime e dar loro giusta sepoltura, nella speranza di trovare i corpi della sorella e di un amico. Capi e oggetti sono elementi reali, concreti, che possono consumarsi, ma non essere trasformati dalla mala-informazione dei poteri dominanti.

In Atti umani Kang fa una metariflessione sul ruolo di chi riporta il suo punto di vista e sullo statuto intersoggettivo, facendo capire che il suo mestiere di scrivere è un modo di connettere chi legge all’evento, così come accade nella relazione di connessione madre-figlia durante la gestazione: si è avvolti da un mondo dove si assorbono e poi si rielaborano i pensieri dell’istanza autoriale. E qui si arriva al romanzo non ancora pubblicato in Italia, il penultimo che precede I Do Not Bid Farewell (2021), The White Book (2016), commentato dall’autrice nel 2017 in un’intervista a The Guardian.

Qui spiega che la litania “non morire” presente in Atti umani risale alla sua gestazione, confermando la visione epigenetica sposata dalla comunità scientifica relativa alla formazione del carattere e alla comparsa di eventuali scompensi. La madre di Kang, prima di partorire lei e suo fratello, ha perso ben due figli, di cui sua sorella morta due ore dopo la nascita, la cui storia è raccontata in The White Book. Durante la gravidanza che avrebbe poi dato alla luce Han Kang, la madre era in pessime condizioni di salute e ha pensato più volte all’aborto, poi ha cambiato idea dopo che ha sentito il feto calciare forte. Kang però è convinta che quel malessere generale abbia condizionato la sua visione del mondo, così come emicranie debilitanti, il cui dolore lancinante ha profondamente plasmato la sua comprensione del male di vivere. Kang è maestra di “passioni tristi” – qualsiasi sia oggi la loro accezione – per cui crea delle immagini che si abbarbicano nell’animo come piante rampicanti, radicate in rabbia e mestizia, come si legge in Il frutto della mia donna.

Questo passaggio mi ha ricordato il componimento del poeta nordcoreano Cho Sŏnggwan, dal titolo Chŏju (‘Maledizione’), riportato da Riotto:

Fiori, non sbocciate!

Uccelli, non cantate!

Prima che sulla Terra svanisca per sempre l’ombra dello Yusin,

Che come prezzo riceve il sangue del popolo, a fiumi.

Prima di dare la morte a te, farabutto, cento e mille volte!

Oh, inestinguibile rabbia!

Oh, eterna maledizione!

Il Nobel di Kang dimostra la capacità dei sudcoreani di provare passioni collettive, comunitarie, che oggi affascinano il mondo intero in tutte le loro manifestazioni, auliche e pop.

La Chiave di Sophia è un progetto che ha lo scopo di diffondere cultura utilizzando la filosofia come strumento privilegiato per leggere ogni ambito della vita e per sviluppare un pensiero critico. Infatti, per coloro che contribuiscono a questa realtà, la filosofia può e deve essere di tutti e non riservata ad una élite accademica. Perciò promuovono molteplici iniziative: circoli di filosofia, laboratori, incontri con autori e autrici, spettacoli teatrali e musicali, passeggiate letterarie, una rivista digitale e una cartacea.

Scrivo riguardo il 24° numero della rivista di filosofia pratica (giugno-settembre 2024), intitolato “LIBERTÀ e LIBERAZIONI”, dedicato alla riflessione intorno al tema della libertà sia essa intesa come esercizio effettivo sia come disposizione interiore di un soggetto libero. Questa indagine si snoda attraverso il pensiero di illustri intellettuali e tocca svariati ambiti quali le conquiste femminili, l’educazione, il carcere, la medicina, le migrazioni, la salute, l’antispecismo, l’intelligenza artificiale, la crisi climatica e molto altro. Gli autori e le autrici riescono a fornire spunti di riflessione da diverse angolazioni e differenti campi del sapere. Tale approccio permette ai lettori di porsi domande, di indagare sé stessi, di mettersi in discussione e ripensare, con maggior consapevolezza, il mondo che abitiamo.

Le prime diciotto pagine presentano quattro articoli “a tema libero”, il secondo dei quali, dal titolo “Il dominio della pornografia – Dall’invasione del porno alla sessualità come dono e mezzo di espressione tra esseri umani” di Alessandro Tonon, spiega come i contenuti pornografici, sempre più facilmente reperibili su internet, siano nocivi per gli adolescenti, i preadolescenti e i bambini. L’industria della pornografia si erge esclusivamente su logiche economiche e non prende in considerazione le conseguenze dal punto di vista psicologico e relazionale che queste rappresentazioni potrebbero avere. All’interno dei contenuti pornografici vengono normalizzate la violenza, il dominio e la sottomissione dei corpi nei rapporti sessuali. L’autore attraverso la critica alla pornografia non vuole quindi farsi portavoce di una morale sessuofobica, ma intende ribadire l’importanza di considerare l’altro con cui ci relazioniamo come un soggetto e non come un mezzo per soddisfare la nostra pulsione sessuale. Alessandro Tonon sottolinea la centralità dell’erotismo e dell’amore, elementi che permettono al desiderio di svilupparsi e radicarsi. L’industria del porno invece incentiva la gratificazione immediata che innesca la coazione a ripetere e distrugge il desiderio, desiderio che è il luogo dell’incontro autentico con l’altro.

Da pagina 19 inizia una rassegna di articoli riguardanti il tema della libertà. Personalmente trovo che siano tutti ugualmente interessanti perché favoriscono una riflessione su tematiche contemporanee di massima rilevanza politica.

In particolare, cito il testo scritto da Pamela Boldrin dal titolo “L’insostenibile leggerezza del libero consumo – È possibile liberarsi dai vincoli di un sistema opprimente?”, in cui l’autrice, prendendo spunto dalle idee dell’antropologo Jason Hickel e dal filosofo Hans Jonas, sottolinea le responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti della natura. Scrive così Pamela Boldrin: «[…] la massima libertà che siamo disposti a concedere al capitale, finisce per comportare la restrizione della libertà degli esseri umani di sopravvivere dignitosamente su un pianeta in salute». Il pensiero filosofico occidentale ha allontanato l’uomo dalla natura. Ad esempio, Francis Bacon (1561-1626) identifica il progresso scientifico con il dominio dell’uomo sulla natura. Eppure non poteva sapere che la sua visione sarebbe stata strumentalizzata dalla società dei consumi. L’autrice invita i lettori a fare della politica una dimensione reale di ognuno e a ripensare un nuovo tipo di società, libera dal capitalismo e dallo sfruttamento delle risorse del pianeta.

Altro articolo su cui desidero soffermarmi è quello scritto da Hamdan Al-Zeqri, ministro di culto islamico nel carcere di Sollicciano, e Gherardo Gambelli, cappellano cattolico nel medesimo carcere, intitolato “Carcere e libertà – Come si vive la libertà nella realtà del carcere?”. I due autori spiegano come la possibilità di agire liberamente sia correlata indissolubilmente alla questione della dignità umana. Una persona ha dignità se è libera. Il compito che questi uomini religiosi hanno all’interno del carcere è quello di suscitare nei condannati il senso di libertà interiore, dal momento in cui il carcere toglie la libertà fattuale. Se privare un soggetto di libertà significa conseguentemente distruggerne la dignità, come è possibile che attraverso il carcere si venga rieducati? Infatti, non basta chiudere chi è colpevole dentro una prigione per farlo desistere dal male, ma è necessario credere nella sua possibilità di riscatto e aiutarlo a intraprendere un percorso rieducativo.

Ultimo contributo di cui parlerò è quello di Lia Cigarini intitolato “Ci siamo prese molte libertà! – Appunti di differenza femminile, di emancipazione e di relazionalità”. Lia Cigarini non vede nell’emancipazione femminile la massima espressione della libertà delle donne. La libertà infatti non è un’esperienza riducibile a diritti civili o costituzionali, ma si inscrive nella scelta di vivere liberamente la propria condizione di donna. Ed è da queste premesse che l’autrice arriva a parlare delle pratiche di relazione tra donne come modalità di affermazione della libertà, spiegando come la libertà femminile non può essere storicizzata. Le pratiche delle donne sembrano coincidere in luoghi diversi e lontani tra loro. Questo è possibile perché, ancor prima di attuare delle pratiche, le singole e i singoli sono mossi dal desiderio di mettersi in relazione e cambiare la realtà circostante.

Da www.balcanicaucaso.org

In ricordo della giornalista russa uccisa il 7 ottobre 2006, riproponiamo questo articolo del giornalista americano C.J. Chivers uscito all’indomani dell’assassinio sul New York Times e tradotto dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – www.balcanicaucaso.org/.

(La redazione)

Anna Politkovskaja, celebre giornalista e scrittrice russa il cui nome era ormai da solo una scottante critica al Cremlino e alle sue politiche in Cecenia, è stata trovata morta sabato nel palazzo dove abitava, uccisa con dei colpi di pistola in fronte, secondo quanto dichiarato dalle autorità e dai suoi colleghi.

Quarantotto anni, Anna Politkovskaja era una giornalista come pochi in Russia. Era corrispondente speciale per il giornale Novaja Gazeta ed era divenuta una dei più importanti difensori dei diritti umani nel Paese.

Negli ultimi anni, quando i media russi stavano affrontando pressioni sempre più forti sotto l’amministrazione del presidente Vladimir Putin, era riuscita a restare una voce indipendente. Era divenuta una figura internazionale che spesso parlava all’estero di una guerra che definiva «terrorismo di stato contro terrorismo di gruppo».

Rappresentava ormai una stridente critica a Putin, che accusava di soffocare la società civile e permettere un clima di corruzione e brutalità ufficiali.

È stata trovata morta da una vicina poco dopo le 17. Accanto al corpo, una pistola Makarov 9 millimetri, firma di un omicidio su mandante, ha riferito Vitalij Jaroševskij, vicedirettore della Novaja Gazeta, in un’intervista telefonica.

«Siamo sicuri che questo sia una terribile conseguenza della sua attività di giornalista», ha affermato. «Non vediamo alcun altro motivo».

A Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, ha dichiarato che gli Stati Uniti «invitano il governo russo a condurre un’indagine immediata e accurata per trovare, perseguire e portare davanti alla giustizia tutti coloro che sono responsabili di questo brutale

assassinio».

L’ex presidente sovietico Mikhail Gorbačëv, azionista del giornale per il quale lavorava Anna Politkovskaja, ha definito il suo assassinio un «crimine selvaggio».

«È un colpo per tutta la stampa democratica e indipendente», ha dichiarato all’agenzia stampa Interfax. «È un grave crimine contro il Paese, contro tutti noi».

I resoconti sulla sua morte sono contrastanti, alcune autorità di polizia dicono che sia stata trovata nell’entrata del suo palazzo mentre altri dicono si trovasse nell’ascensore.

La polizia ha affermato che una telecamera di sicurezza ha registrato l’immagine del suo presunto killer: un giovane alto in abiti scuri e con un cappello da baseball. La ricerca dell’esecutore sarebbe già iniziata.

Anna Politkovskaja, che ha due figli adulti, lavorava alla Novaja Gazeta dal 1999, aveva seguito i bombardamenti della seconda guerra cecena e il sequestro da parte dei terroristi del teatro Dubrovka a Mosca nel 2002. In uno dei suoi libri, Un piccolo angolo d’inferno, raccontava le sue impressioni sulla crudeltà implacabile e spesso macabra della guerra in Cecenia, e la manifesta corruzione di molti dei suoi partecipanti.

Aveva scritto di torture, esecuzioni di massa, rapimenti a scopo di estorsione per eliminare i sospetti ribelli e la vendita da parte dei soldati russi dei cadaveri dei ceceni alle famiglie, per la sepoltura islamica. I suoi scritti le avevano assegnato il ruolo di una delle più dirette critiche interne della guerra.

«L’esercito e la polizia, circa 100.000 uomini, si aggirano in Cecenia in uno stato di completo decadimento morale», aveva scritto. «E che risposta ci si può aspettare se non più terrorismo e il reclutamento di nuovi combattenti nella resistenza?»

Sin dal crollo dell’Unione Sovietica, la Russia è sempre stata uno dei Paesi più difficili e pericolosi per i giornalisti. Il clima è rimasto tale negli anni recenti; secondo il Committee to Protect Journalists almeno dodici giornalisti sono stati uccisi in Russia dal 2000, in assassini su commissione. Nessuno dei casi è stato risolto, compresa l’esecuzione nel 2004 di Paul Klebnikov, redattore americano dell’edizione russa della rivista Forbes.

In passato Anna Politkovskaja aveva ricevuto minacce di morte, e almeno una volta aveva lasciato il Paese temendo per la propria incolumità. Nel 2004 aveva dichiarato di essere stata avvelenata mentre era sull’aereo che la stava portando a Beslan a seguire il sequestro della scuola; aveva perso conoscenza durante il volo ma era sopravvissuta. Jaroševskij ha anche aggiunto che alcuni anni fa la Novaja Gazeta l’aveva fatta scortare per un periodo.

Mentre si aprono le indagini verso quello che viene definito un omicidio premeditato, i suoi colleghi hanno espresso stupore per la sua uccisione, affermando che la sua importanza pubblica sembrava averle conferito un’aura di invincibilità.

«Stava facendo così tante cose rischiose da così tanto tempo che sembrava trascendere il pericolo», ha affermato Tanja Lokšina, direttrice del Demos Center, un’organizzazione per i diritti umani di Mosca. «Mi vergogno a dirlo, ma a tutti sembrava essere quasi un monumento, era un simbolo».

Lokšina ha raccontato di essere stata con lei a Stoccolma due settimane fa, e che niente sembrava fuori posto. «Non ha mai parlato di alcuna minaccia recente», ha detto, «tutto sembrava piuttosto normale. Appariva felice e non ha mai raccontato nulla di preoccupante».

Jaroševskij ha affermato che la Politkovskaja era stata al lavoro sabato per terminare un articolo per l’edizione di lunedì del giornale, riguardante l’uso di torture da parte del governo di Ramzán A. Kadýrov, il premier ceceno allineato al Cremino. Il reportage includeva documentazioni e immagini.

In un’intervista di aprile per il New York Times, Anna Politkovskaja aveva affermato di avere prove di torture in Cecenia perpetrate dalla polizia di Kadýrov e altre forze armate, incluso almeno un testimone torturato dallo stesso Kadýrov. Kadýrov ha sempre negato vigorosamente tali accuse.

Jaroševskij ha affermato che non ci sarebbero per ora ipotesi su chi possa stare dietro il suo assassinio, e ha fatto notare che potrebbe essere conveniente per un nemico di Kadýrov uccidere Politkovskaja in modo da infangare il nome del premier.

Il giornale attendeva il file dell’articolo sabato sera, ha affermato, e probabilmente la giornalista è stata uccisa di ritorno dalla spesa presso un negozio vicino casa. Secondo quanto riportato dalla rete televisiva RTR gli investigatori ritengono che sia stata seguita tutta la giornata.

Da Erbacce

Della fumettista palestinese Safaa Odah abbiamo pubblicato anche il video “Una tenda in Palestina”, qui.

Da la Repubblica – Oggi il cielo è grigio e non per le nuvole invernali o per la brina, ma per la cenere e le macerie. Gli aerei israeliani volano bassi, fendendo l’aria con suoni terribili sembrano volerci ricordare che la morte è vicina. Le strade sono quasi vuote, e i pochi che si vedono guardano il cielo con volti tesi e pieni di paura preparandosi per qualcosa che potrebbe sorprenderli da un momento all’altro.

Macerie umane

Dopo un anno di distruzione, ci sono solo i resti di quelli che prima erano esseri umani.

Quando mi guardo allo specchio, sul mio volto vedo i segni lasciati giorno dopo giorno da questo lungo conflitto. I miei capelli cadono, mi abbandonano a poco a poco. Sono diventati grigi quasi a riflettere tutto il dolore e la tristezza che ho visto: è come se in un anno fossi invecchiata di quaranta, ogni capello grigio racconta la storia di una notte insonne.

Adesso peso 44 chilogrammi, sono l’ombra della vecchia me e ho un corpo che a malapena resiste contro il vento. Mi sento leggera, ma non con la leggerezza della libertà – piuttosto, la leggerezza di chi non ha più certezze, un vuoto che mi lascia sospesa tra il cielo e la terra. Ogni chilo che ho perso era parte di una forza che una volta pensavo fosse permanente, ma che invece si è sgretolata sotto il peso dell’ansia e della costante ricerca di un posto sicuro.

La memoria e l’oblio

Ottobre per Gaza ha segnato la fine dei sogni e l’inizio di un viaggio forzato.

La mia mente è come un disco rotto: conserva ogni dettaglio dei miei spostamenti, ma non riesco più a ricordare com’era la vita prima del 7 ottobre. Ho dimenticato l’indirizzo della mia casa andata distrutta, il francese imparato alle lezioni universitarie, il profumo del cibo che mia madre mi preparava. E me stessa. Ricordo solo le volte in cui ho dovuto cambiare riparo: quattordici volte. E le lacrime versate quando la mia amica Sarah è stata uccisa: la sua assenza ha lasciato un vuoto nella mia vita.

Rammento l’ultimo saluto a Ruba, a mio fratello Ilya e mia nonna quando sono riusciti a mettersi in salvo fuggendo da Gaza. Indelebile il momento in cui siamo fuggiti mentre i carri armati erano a pochi metri di distanza e sparavano a caso sulla gente. Siamo scappati nel bel mezzo della notte per le strade buie. Correvamo senza una direzione chiara, cercando qualsiasi rifugio che potesse proteggerci dai missili che cadevano come una pioggia fitta. Il suono degli aerei era implacabile, l’aria piena dell’odore del fumo, e non c’era niente che potessimo fare se non continuare a correre. La mia memoria è piena di quell’odore di cenere che impregnava l’aria quando la mia casa è stata colpita ed è stata divorata dal fuoco.

La vita e la morte

La cosa peggiore che ho visto è stato l’incontro tra la vita e la morte, quando i lamenti dei vivi si mescolavano con i volti immobili. Ho visto i bambini urlare, le loro voci che si affievolivano sotto le macerie delle case che crollavano. Ero presente quando un’intera famiglia è stata tirata fuori dalle macerie con negli occhi quel vuoto, quell’incapacità di piangere, come se il dolore avesse superato i limiti e le lacrime non fossero più sufficienti.

La cosa peggiore è stata vedere lo sguardo di chi non capisce il senso di quello che succede. I momenti peggiori sono stati quelli in cui mi sono sentita impotente, quando il cibo scarseggiava, quando l’acqua era appena sufficiente per il giorno dopo. Ricordo il volto stanco di mia madre, i suoi occhi parlavano più delle parole che non riusciva a dire, e quei suoni come un grido di vita che sfidava la morte. I momenti peggiori non arrivano improvvisamente ma si insinuano, accumulandosi nelle profondità della mia anima fino a schiacciarla completamente.

La cenere

Sono diventata un cumulo di macerie e non perché ho perso tutto, ma perché porto nella mia memoria i resti dei volti di coloro che se ne sono andati, delle parole non dette, di risate che non sono mai arrivate alla fine. Sono quello che rimane di una sorella che prometteva ai suoi fratelli giorni sicuri, di una ragazza che sognava di studiare e lavorare, di una bambina che sorrideva alla vista del mare, quando il mondo sembrava molto più lungo. Oggi, quando mi guardo allo specchio, vedo degli occhi carichi di ricordi, occhi mostrano tutto ciò che hanno vissuto. Sono i resti di una persona che cerca di sopravvivere.

Pensare al futuro a Gaza

Il futuro è una pagina bianca, una pagina in attesa, da scrivere. Ma nel profondo la speranza si mescola alla paura. Il futuro sembra nebbioso, come una strada tortuosa tra colline che nasconde la sua destinazione finale. Provo a disegnarne un’immagine, ma cambia colore, trasformandosi ogni giorno, a volte ogni ora. Sembra che il futuro porti con sé gli stessi pesanti fardelli, le stesse lotte, le stesse ombre che oscurano il sole. E temo che sarà solo un’altra versione dei giorni che stiamo vivendo ora: pieno di perdite, sfollamenti e sempre alla ricerca di un posto sicuro.

Da Il Post

Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima.

Gli amici che mi sono venuti a prendere mi hanno accolto con un abbraccio più lungo del solito. L’aeroporto era deserto, le bandiere e le foto degli ostaggi ovunque, ma non c’erano persone e, soprattutto, non c’erano aerei, perché le poche compagnie che si avventurano qui hanno paura di lasciare i velivoli fermi, a tiro di missile, dunque arrivano, fanno rifornimento, e poi ripartono. Anche la città mi è sembrata più vuota. Sono atterrata poco prima del tramonto e le strade di Tel Aviv, che un tempo mi erano così familiari, avevano qualcosa di irriconoscibile. Sulle facciate degli edifici, cartelloni enormi, luminosi, opprimenti, con la faccia del primo ministro e slogan accusatori: «In mille sono stati uccisi, sono sulla tua coscienza».

Dicono che le cose che troviamo più inquietanti sono quelle che conosciamo nel profondo e al contempo ci appaiono sconosciute. Sono stata in Israele, da dove mancavo da quasi dieci anni, a maggio, cioè otto mesi dopo l’attacco del 7 ottobre: sapevo che avrei trovato una nazione scossa, perché leggo i giornali e perché gli amici mi avevano avvertito che era peggio di quanto non sembrasse da fuori; eppure non ero preparata alla sensazione di straniamento che ho provato nel vedere un paese dove ho vissuto, che mi è entrato sottopelle, così cambiato, e in peggio. Credo ci vorranno ancora anni prima che storici e politologi riescano a inquadrare appieno la misura in cui quel giorno ha trasformato Israele, ma quello che ho visto io era un paese incattivito, impaurito, in guerra con sé stesso e con il mondo, in balìa di un senso di inevitabilità.

Il 7 ottobre c’è stata la più grande strage di ebrei dai tempi della Shoah, i terroristi di Hamas sono entrati dentro i confini israeliani come un coltello nel burro e hanno ucciso più di mille e cento persone, in alcuni casi stanandole casa per casa. È passato un anno e da allora sono successe così tante cose, è stato sparso così tanto sangue che, immagino, per alcuni ormai è un ricordo sbiadito. Gli israeliani hanno massacrato più di 42mila persone a Gaza e più di 2.000 in Libano, mentre in Cisgiordania i coloni violenti sono a briglia sciolta. In un contesto come questo, se qualcuno mi dicesse perché scrivi degli israeliani, e non dei libanesi o dei palestinesi, ecco, se qualcuno mi dicesse questo, io lo capirei pure. Ma questa è l’unica storia che so raccontare, perché questo è il posto che conosco, che ho chiamato casa, la sua gente è la mia gente.

Com’è possibile che Israele si sia spinto fino a questo punto? Penso a quello che mi aveva detto Robi Damelin, un’attivista di The Parents Circle, l’ong che riunisce genitori israeliani e palestinesi che hanno perso figli nel conflitto e che vorrebbero non succedesse più ad altri, quando le avevo parlato, poche settimane dopo l’attacco di Hamas: «La gente qui è terrorizzata, il trauma è così totale, i razzi così spaventosi, piovono dappertutto, a Tel Aviv, ad Ashkelon. Ma soprattutto la gente è umiliata, che è la cosa peggiore, perché l’umiliazione chiama vendetta, ti offusca la mente». E penso a quello che ha detto il giornalista di Haaretz Gideon Levy: «Se un solo attacco, per quanto così barbaro, è stato sufficiente a spingere così tanti israeliani a comportarsi in modo disumano, provate a immaginare che cosa sta facendo tutto questo ai palestinesi».

Nei giorni in cui sono stata lì, i razzi di cui parlava Robi, quelli lanciati da Hamas, a Tel Aviv non c’erano più. Nei primi due mesi della guerra da Gaza sono partiti quasi diecimila tra razzi, droni, missili sulle città israeliane: la gente viveva tappata nei rifugi, una mia amica, che ha due bambine piccole, mi raccontava che non riusciva a lavarle, perché, nel caso di un attacco, non avrebbe avuto il tempo materiale di portarle fuori dalla vasca. Però a maggio la situazione era tranquilla, Hamas ormai non aveva più la potenza di arrivare fino a qui, e persino l’attacco che aveva lanciato l’Iran il mese prima non aveva fatto troppi danni. Certo, al nord, oppure al sud, sarebbe stata tutta un’altra storia, c’erano 135mila sfollati, in fuga dalla Galilea e dalla regione di Israele al confine con Gaza (in ebraico si chiama Otef Aza, ovvero «ciò che avvolge Gaza», i media anglofoni spesso lo traducono come Gaza envelope, che però suona come fosse dentro la Striscia).

Tel Aviv però non è il paese reale, è la città più grande e ricca, è protetta dal sistema antimissilistico molto più delle periferie, dunque la guerra, vista da lì, era come un’ombra, lontana e vicina. Tutti erano un po’ depressi, quasi tutti avevano qualcuno al fronte. Poi, gli autobus. Una cosa che sarebbe stata ridicola, se non fosse stata tragica, erano i messaggi registrati sugli autobus. A ogni fermata partiva l’annuncio «siete arrivati alla via tal dei tali» seguito da uno slogan un po’ consolatorio e un po’ propagandistico, come «insieme siamo forti» oppure «supereremo tutto questo insieme». Gli autisti, che Dio li benedica, spesso li tagliavano a metà.

Un’altra cosa che mi ha colpito, anche se non c’entrava nulla con la guerra, era la presenza di due tipi di persone che un tempo a Tel Aviv si vedevano poco. Primo, gli ebrei religiosi: Tel Aviv è la città più laica di Israele, in passato mi capitava raramente di incontrarne, ma adesso erano una presenza visibile, specie nella zona dove alloggiavo, Ramat Aviv, un quartiere lontano dal centro che ricorda un po’ i Parioli. Poi, i palestinesi con cittadinanza israeliana. Anche loro una volta si vedevano poco a Tel Aviv, eppure i poliziotti che si sono seduti nel tavolo vicino al mio, in un caffè vicino al mercato Carmel, parlavano fra loro in arabo (in Israele ci sono anche ebrei che parlano arabo come prima lingua, ma sono anziani), ed era palestinese il farmacista che mi ha venduto i prodotti per la skincare che avevo promesso a mia figlia.

Il primo giorno la coppia che mi ospitava mi ha portato a una manifestazione. Non mi hanno chiesto se volevo andarci, lo davano per scontato, ci vanno tutti, ogni venerdì sera, e molte altre sere. L’appuntamento è a Kaplan, una delle strade più centrali di Tel Aviv, davanti alla Kiryà, il quartier generale dell’esercito, si manifesta per gli ostaggi, contro Netanyahu, e, con mia sorpresa, anche un po’ contro la guerra. Incontro gente che conosco, colleghi, amici, figli di amici, perché, se hai quarant’anni, in Israele, i tuoi amici cominciano ad avere figli grandi. Qualcuno mi regala una maglietta con scritto «Lo LeShavè», che significa «non invano», dove credo il messaggio fosse «non permetteremo al governo di distruggere Israele, dopo avere lottato per evitare che fosse distrutto da nemici esterni». Urlano «accordo! accordo!» e «cessate il fuoco». La cosa mi ha stupito un po’, dicevo, perché era una novità, maggio era proprio il periodo in cui le manifestazioni per gli ostaggi iniziavano anche ad essere manifestazioni per il cessate il fuoco.

Una delle critiche mosse più spesso al movimento pacifista israeliano è che non importa loro dei palestinesi, che chiedono la fine della guerra solo perché rivogliono gli ostaggi vivi, non perché gli faccia orrore vedere quarantamila palestinesi morti ammazzati. Questo non è proprio vero, però c’è del vero. Tra le persone con cui ho parlato non ce n’era una a cui non dispiacesse anche per i palestinesi, ma era come un secondo pensiero. Pensi prima di tutto ai tuoi, poi agli altri, che è una cosa molto umana, anche se, come molte cose umane, non è particolarmente bella.

Alla manifestazione ho visto molte insegne viola di Standing Together, un gruppo che riunisce giovani ebrei e palestinesi con cittadinanza israeliana e che col tempo è diventato una delle voci più forti della piazza. Loro erano stati i primi a schierarsi apertamente contro la guerra, fin da subito, mentre altre importanti organizzazioni pacifiste ci hanno messo un po’: B’Tselem ha aspettato fino a dicembre prima di prendere una posizione per il cessate il fuoco, Peace Now a gennaio, e so che in alcuni gruppi c’è stato un meltdown, in altri invece palestinesi ed ebrei che per anni avevano lavorato insieme hanno smesso di parlarsi per un po’.

Il colpo del 7 ottobre è stato così feroce e così improvviso che ha disorientato tutti, anche la parte più sana della società. Ne ho parlato con un vecchio amico di cui preferisco non fare il nome, un collega un po’ più grande e molto più bravo di me. Ci incontriamo in un caffè nella zona vecchia della città, lui mi offre una shakshuka, il piatto tunisino a base di uova, importato dagli ebrei nordafricani giunti qui negli anni Cinquanta, è stanchissimo, nervoso, lavora quindici ore al giorno e ha un figlio al fronte. Non faccio domande, tira lui fuori l’argomento: «Non chiedermi di trovare l’empatia per l’altra parte, non ho lo spazio, non ce la faccio». Mi torna in mente una cosa che avevo sentito dire, qualche mese prima, da Ilana Dayan, una giornalista televisiva molto famosa per il suo programma investigativo Uvdà: «Prima o poi dovremo fare i conti con il dolore che stiamo infliggendo ai palestinesi di Gaza, vedere la distruzione. Ma non è difficile immaginare che una nazione col cuore spezzato è troppo rotta per avere una riserva di empatia».

In che senso una nazione rotta? Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima. Questo è un paese giovane, dove l’età mediana è 29 anni (e in Palestina è 19, l’età mediana è quella che divide a metà la popolazione) e dove le cose cambiano con una rapidità che in Italia è difficile da immaginare. È un paese che, come diceva l’editorialista Ari Shavit, poggia sulla sabbia, convive da sempre con l’idea che altri vogliano spazzarlo via. E, soprattutto, è un paese che da quasi sessant’anni occupa illegalmente un territorio dove vivono quasi tre milioni di palestinesi, che non sono cittadini israeliani, non godono di pieni diritti, non eleggono il governo che, nei fatti, decide delle loro vite, con un sistema che molti chiamano “apartheid”, e sinceramente non trovo una parola migliore.

Nell’ultimo decennio, forse negli ultimi due decenni, sono successe tre cose importanti e connesse fra loro. Primo, si è fatta strada l’illusione che la questione palestinese potesse essere dimenticata, che Israele sarebbe potuto andare avanti con l’Occupazione senza essere per questo in guerra. Secondo, quella che gli esperti chiamano la One State Reality: la Cisgiordania è stata annessa di fatto, se non sulla carta, la linea verde che separava Israele dai Territori occupati è come evaporata, per gli israeliani almeno (per i palestinesi, ovviamente, no), e il risultato è che l’Occupazione e il paese sono diventati tutt’uno.

Terzo, la vecchia guardia, la maggioranza di un tempo, sta diventando una minoranza. È un cambiamento demografico epocale. Fino a poco tempo fa gli ebrei laici, che credevano in uno Stato ebraico e democratico, con tutte le limitazioni e le contraddizioni del caso, erano una maggioranza netta, che conviveva con due minoranze con valori diversi: da un lato gli ultraortodossi, che non si riconoscono nell’idea di democrazia moderna; dall’altro i palestinesi con cittadinanza israeliana, che per ovvi motivi non si riconoscono nell’idea di Stato ebraico. Questi due gruppi, che oggi messi insieme rappresentano il 35 per cento della popolazione, sono anche quelli che tendono a fare più figli. Sono fatti collegati perché, volendo tirare le somme, l’Occupazione è entrata dentro Israele, l’ha contagiato come farebbe un virus.

Vado a Gerusalemme per trovare un’amica, giochiamo a fare le turiste, andiamo nella Città Vecchia, dove i negozi sono quasi tutti chiusi perché di turisti non se ne vede l’ombra, entriamo nel Santo Sepolcro che è deserto, tutto per noi.

Alloggio fuori dalle mura, a Emek Refaim, un quartiere verde e in tempi normali vivace, dove abitano molti americani e professori universitari. Era il quartiere di Hersh Goldberg-Polin, il ragazzo di 23 anni preso ostaggio il 7 ottobre e morto, pare giustiziato dai suoi carcerieri, ad agosto. Hersh nel quartiere lo conoscevano un po’ tutti, era molto attivo nella tifoseria dell’Hapoel, una delle due squadre di calcio di Gerusalemme, e negli ambienti di sinistra, ci sono le sue foto ovunque, appese sui balconi, nei ristoranti, davanti a una palestra, su qualcuna hanno incollato sticker dell’Hapoel o appoggiato una sciarpa.

Sono a Gerusalemme per vedere la mia amica, ma colgo l’occasione per incontrare un contatto di lavoro, una persona con cui volevo parlare dei cambiamenti che ho visto. «Una volta dicevamo che l’Occupazione corrompe, ma ormai dovremmo dire che l’Occupazione ha corrotto», mi racconta Yehuda Shaul, quando ci vediamo alla First Station, la vecchia stazione dei treni che oggi è un mercato semicoperto. Esattamente vent’anni fa, quando aveva appena finito il servizio militare, Yehuda ha fondato Breaking the Silence, l’ong di soldati israeliani che denunciano le violazioni dei diritti umani nei Territori, e ora lavora per Ofek, un think tank.

Il suo ragionamento è lo stesso che ho sentito da molti altri (su questo ha scritto un libro molto bello la politologa Dahlia Scheindlin): se ti abitui a opprimere gli altri con violenza, la violenza entra a fare parte di te. Per più di cinquant’anni Israele ha imposto un sistema antidemocratico nei Territori palestinesi che occupa, mentre si illudeva di potere restare una democrazia – magari imperfetta, ma pur sempre una democrazia – all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Ma alla lunga non puoi difendere la democrazia a casa tua mentre imponi una specie di apartheid agli altri. Alla fine anche il sistema antidemocratico entra a fare parte di te.

Ecco, la normalizzazione della violenza. Yehuda Shaul mi dice che quando è nata l’organizzazione, i racconti di Breaking the Silence su come erano trattati i palestinesi scioccavano il pubblico israeliano, la gente faceva domande, ora non se li fila più nessuno. Dal 2018 esiste perfino una legge che impedisce a quelli di Breaking the Silence di andare a parlare nelle scuole, non sia mai che gli alunni diventino troppo pacifisti.

Lui ha una teoria: il punto di non ritorno è stato nel 2016, con la vicenda di Elor Azaria, il paramedico dell’esercito israeliano che sparò a un miliziano palestinese già ferito e a terra, colpevole di avere sparato a un suo commilitone. Azaria finì in carcere, condannato da una corte marziale, ma il governo di destra lo dipinse come una vittima e costrinse il ministro della Difesa, che invece si era schierato coi giudici militari, a dimettersi. «Quello è stato lo spartiacque, il momento in cui la nuova classe dirigente ha detto alla vecchia che le regole non contavano più, ora comandiamo noi», dice Yehuda.

Quello che stiamo vedendo in questi mesi a Gaza è una reazione al 7 ottobre, ma anche il risultato della traiettoria che Israele aveva preso da un po’, un sostrato di incattivimento che c’era già prima, a cui si sono aggiunte la paura e la vendetta. Ricordo che nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas, gli amici e colleghi di Tel Aviv che vivevano nei rifugi dicevano speriamo che il conflitto non si estenda, che l’esito non sia quello in cui spera Hamas: costringere Israele a combattere in contemporanea su più fronti, in Libano, in Cisgiordania. Invece è successo, il conflitto si è esteso.

Qualche giorno fa l’Iran ha lanciato centinaia di missili su Tel Aviv e altre città. Nelle ore precedenti all’attacco, mi ha telefonato una cara amica, salutiamoci, mi ha detto, parliamo un po’, finché ne abbiamo la possibilità. Intendeva dire che i suoi figli sono dei rompipalle e i miei pure, chissà quando ci ricapita di avere una mezz’ora, ma intendeva anche dire altro. Le notizie di questi giorni sono il Libano e l’Iran, spero che qualcuno le racconti bene quelle storie, perché l’unica storia che posso raccontare io è quella di Israele, e mi spiace davvero che sia una storia brutta.

Da il manifesto – Ci sono momenti in cui quel po’ di luce che le apocalissi più spaventose (la parola, si sa, vale ‘rivelazioni’) fanno sulle verità della storia si offusca repentinamente, e quel po’ di consapevolezza delle ragioni e dei torti delle parti in causa che i più hanno acquistato, a un prezzo indicibile di sofferenza altrui, rischia di perdersi. Forse l’attuale è uno di quei momenti. Molti libri hanno in questi ultimi mesi e giorni proiettato potenti fari sull’«elefante nella stanza», l’enorme rimosso della più lunga e feroce occupazione militare che la storia ricordi, quella israeliana dei territori che erano stati assegnati dall’Onu al futuro Stato di Palestina, o del poco che ne resta.

Penso a Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia (Laterza), ma anche a Gad Lerner, Gaza, Odio e amore per Israele (Feltrinelli), al toccante Il suicidio di Israele di Anna Foa (Laterza), all’appassionato fact-checking di Arturo Marzano dal titolo Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza), alla nuova edizione ampliata del classico di Paola Caridi Hamas (Feltrinelli). Quanta luce, finalmente.

Eppure, è bastato che balenasse l’idea di un regime change in Medio Oriente, addirittura di un colpo mortale che Israele potrebbe infliggere alla teocrazia iraniana, perché tutto rischi improvvisamente di essere dimenticato: la più grande carneficina di civili in questo secolo, che a Gaza continua e in Libano (ri)comincia, la Cisgiordania sparita dalle cartine di Netanyahu, le accuse di genocidio pendenti su Israele alla Corte dell’Aja, la risoluzione presa dalle Nazioni Unite a schiacciante maggioranza solo il 18 settembre scorso (che chiede a Israele di cessare il fuoco e ritirare le sue forze armate da Gaza e dalla Cisgiordania, in omaggio al severissimo parere consultivo emesso il 19 luglio dalla Corte dell’Aja stessa sulle conseguenze legali dell’occupazione), la richiesta di mandati d’arresto internazionali da parte della Corte Penale Internazionale per i capi del governo e della difesa israeliani (che hanno pensato a eliminare senza storie giudiziarie i tre leader di Hamas equiparati a loro nella condanna della CPI), il sangue innocente che continua a colare senza fine dietro i miliardi di specchi dei nostri telefonini.

Tutto perdonato? In grazia del «lavoro sporco» (Gad Lerner) che Israele si incarica di fare, a beneficio di chi? Tre volte l’ha ribadito ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la delegata statunitense il pieno, pienissimo appoggio a Israele nelle sue azioni contro l’Iran. Ma s’è sentito anche nei più innocui conviti del mondo della cultura, virare il vento.

«Le guerre nascono nella mente degli uomini», recita l’esordio della costituzione dell’Unesco. Raramente è dato vedere con tanta chiarezza come nascono, nell’esempio di una mente che si apre in pubblico. «Quell’uomo ha rilasciato una dichiarazione disgustosa sull’attacco iraniano e non l’ha condannato. Sono contento che Israele non permetterà a questo idiota di entrare nel Paese».

«Quell’uomo» è il Segretario Generale dell’Onu, che infaticabilmente ribadiva gli argomenti dell’umana ragione, nel linguaggio del diritto internazionale. E a dargli dell’idiota e dell’uomo disgustoso non è un presunto criminale di guerra, che c’è già dentro fino ai capelli, e per il quale è parte del mestiere usare le parole come pistole. È Benny Morris, che le ha ribadite in un’intervista rilasciata a «La Stampa» (3 ottobre).

Cioè il primo dei «nuovi storici» di Israele, quello che già nel 1988, in un famoso libro sulla nascita del problema dei rifugiati palestinesi, aveva provato come «la Nakba non sia stata una conseguenza della guerra fra i paesi arabi e Israele, iniziata nel maggio del 1948, ma – essendo cominciata prima – sia legata ai rapporti fra popolazione araba ed ebraica all’interno della Palestina britannica» (A. Marzano 2024).

Cioè: all’origine della tragedia è proprio la pulizia etnica, la virtuale soppressione della gente che abitava lì da sempre. Ci sono uomini non solo capaci di vedere una verità morale occultata da altri, ma che non hanno affatto bisogno di nasconderla di nuovo, per rigettarla come motivazione etica, dato che gliene preferiscono una etnica. Che dicono cioè: «È verissimo: e allora?».

Di questa tempra è Benny Morris, che fra i «nuovi storici» è stato il solo a rammaricarsi apertamente «che questa pulizia etnica non sia stata completata» (Traverso 2024). A proposito di «lavoro sporco».

Già, chi siamo noi per giudicare. Una cosa è certa, però: altro luogo che le nostre menti non c’è, dove le guerre si possano anche spegnere. Dove a tutta la verità morale su cui la cognizione del dolore ha fatto finalmente luce non si risponda così: «E allora?». Purché il vento dell’opinione che vira non la spenga di nuovo, la luce. E tutti quei libri fatti per alzare «nella mente degli uomini… le difese della pace» (Unesco) non siano stati scritti invano.

Da La Stampa – Tuttolibri – Scrivono forsennatamente, ad amici, amanti, famigliari. Quella degli epistolari è una scrittura più intima e meno controllata rispetto ai libri. Diventano quindi meravigliosi squarci di quotidianità, dove si parla di tutto, anche di cuoche che non si trovano, di gestione domestica, di cose apparentemente minime, ma che ci rendono più vivi i personaggi famosi. Vanessa Bell e Virginia Woolf si scrivono spessissimo, quasi tutti i giorni. Sono lettere spontanee e disinibite, che rispecchiano gli alti e bassi, gli umori dello scorrere della vita, dei rapporti con amici, famiglia e amanti, piene di giudizi e anche pettegolezzi che rompono il rigido schema puritano e bigotto dell’epoca vittoriana. A noi sono arrivate quasi quattromila lettere a testa: di queste Vanessa ne ha scritte a Virginia 373, quella di Virginia a Vanessa sono 495. In Se vedi una luce danzare sull’acqua Liliana Rampello, una delle più importanti studiose italiane della Woolf e socia fondatrice dell’Italian Virginia Woolf Society, ne ha selezionate 72 di Vanessa e 99 di Virginia, quasi tutte inedite in Italia. Una scelta “arbitraria”, come avverte la curatrice, dettata dalla volontà di rappresentare al meglio la natura della complessa relazione tra le due sorelle. Le seguiamo dalla giovinezza del primo cognome, quando ancora si chiamano entrambe Stephen (figlie di Sir Leslie) e la famiglia abita ancora al famoso indirizzo di 22 Hyde Park Gate, passando per i numerosi lutti, le prime manifestazioni dell’infermità mentale di Virginia fino al passaggio a Bloomsbury e all’altro famoso indirizzo di Gordon Square, frequentato anche da Clive Bell e Leonard Woolf, che diventeranno i rispettivi coniugi e le sorelle sbocciano nelle proprie arti: Virginia nella scrittura e Vanessa nella pittura.

Tanto è stato scritto sulle due sorelle e sulla natura del loro rapporto, ma in questa scelta si percepisce il profondo affetto che le lega e si confuta una volta per tutte l’idea di una rivalità tra artiste (l’antagonismo è un automatismo di un certo tipo di narrazione, quando si ha a che fare con due donne estrose, affascinanti e intelligenti). Piuttosto c’è una sotterranea vena di gelosia, gelosia buona come spesso accade tra sorelle. E una certa invidia di Virginia per la maternità di Vanessa, che lei rifugge ma da cui allo stesso tempo è attratta. Lei non sarà mai madre, ma sarà sempre una zia affettuosa e affezionatissima per i figli di Vanessa e la sprona a non farsi fagocitare dalla famiglia, dalle incombenze e a perseguire nella sua arte. Si scrivono molto di arte, di pittura, di scrittura, sicure entrambe della propria strada, Virginia anche del proprio successo, perché più di una volta parla di una sua biografia, che non vorrebbe mai scrivere. Intorno a loro gira il vorticoso circolo di Bloomsbury e i vari personaggi che lo hanno animato entrano ed escono nella corrispondenza con la stessa facilità di cameriere, figli, banalità, spese.

Virginia si firma Billy la Capra e soprannominerà la sorella Delfino. La prima è più estroversa, ironica, tagliente, volatile e sembra quasi innamorata della sorella, più solida, seppure donna sensuale e seduttiva, che diventa il punto di riferimento di Virginia alla morte della madre e poi del padre. Più tardi le cose si capovolgeranno quando Vanessa perde il figlio volontario nella guerra di Spagna ed è Virginia il faro a cui puntare per trovare un porto sicuro in cui rifugiarsi.

Le lettere coprono il periodo dal 1904 al 1941. Sono divise in tre sezioni: “Ragazze” (1904-1912); “Penna e pennello” (1913-1936); “Amore e morte” (1937-1941).

Già dai titoli dei capitoli si può intuire la scansione della vita. La giovinezza di ragazze privilegiate in una casa dove si respira arte e letteratura, dove l’educazione è parte della quotidianità, dove si viaggia e si studiano le lingue. Una vita felice e più o meno spensierata, almeno finché non arriveranno i lutti a creare la rottura. Poi il periodo della maturità, della fecondità artistica e di donne, ognuna con la propria personalità ma sempre legatissime, che si cercano e si raccontano tutto, Nessa (l’altro soprannome) più riservata e meno espansiva, Virginia un turbine di sensazioni, umori e sensazioni. E infine l’arrivo della guerra, altri lutti, altro grigiore che si addensa intorno alle sorelle. La vita di Vanessa è devastata dalla morte del figlio Julian, partito per combattere contro Franco in Spagna. La depressione di Virginia torna più potente che mai. Si scrivono comunque tutti i giorni, una si aggrappa alla penna l’altra ai pennelli per trovare un minimo di serenità ma nelle lettere nessuna delle due indulge nel lutto o nel dolore. Siamo comunque in quel tipo di Inghilterra e con quel tipo di educazione. Il 1941 è già cupo di distruzione, le bombe cadono su Londra, macerie ovunque, case distrutte (compresa la sua). Il finale è noto e Vanessa sopravvive altri vent’anni alla sorella, «fragile ma non sopraffatta», anche se ormai gli anni d’oro sono affondati nell’acqua insieme ai sassi con cui Virginia si è riempita le tasche.

Da il manifesto – Un rapporto del Centro Adva e dell’Istituto Van Leer di Gerusalemme, in collaborazione con la Fondazione Friedrich Ebert, pubblicato lo scorso settembre, fornisce i primi e provvisori risultati dell’impatto di un anno di conflitto sulle donne israeliane. Come sottolineano gli autori, la guerra, come altre situazioni di crisi, colpisce le donne in modo diverso rispetto agli uomini e tendenze preoccupanti si registrano in molteplici settori, a partire da quello lavorativo.

Dal rapporto emergono danni significativi all’occupazione femminile, soprattutto tra le impiegate a ore, le autonome e le donne palestinesi. Le donne sono state la maggioranza sia dei licenziati che dei destinati alla cassa integrazione. Una problematica di genere traspare anche dal tasso di assenteismo dal lavoro a partire dal 7 ottobre. Tra gli uomini la ragione principale di assenza è legata alla chiamata come riservisti con un tasso che dal 18% nell’ottobre 2023 ha raggiunto il picco del 41% nel gennaio 2024, per poi scendere gradualmente fino al 6% nei mesi di aprile e maggio.

Tra le donne, il tasso di assenteismo dovuto alla chiamata ha raggiunto il picco massimo del 7% nel gennaio 2024, tuttavia la percentuale di donne assenti per malattia propria o di un familiare è stata più elevata durante tutto il periodo. Si parla di circa un quarto delle donne assenti nei mesi di gennaio e febbraio (rispetto al 16% e al 19% degli uomini). Le donne hanno preso anche più giorni di ferie rispetto agli uomini. Sempre in materia di occupazione, nei settori della sanità e dell’assistenza sociale accanto alla domanda crescente da parte degli utenti si accompagna una grave carenza di personale specializzato, soprattutto nel campo della salute mentale in cui sono impiegate prevalentemente donne. Secondo le stime, ad esempio, negli enti locali e nei ministeri di Welfare e Sanità mancano circa 5mila assistenti sociali, mentre nel sistema scolastico manca il 30% delle psicologhe previste.

Dal numero delle accuse presentate e degli arresti effettuati, emerge anche l’aumento della gravità dei casi di violenza domestica, con un andamento diverso da quella dei primi mesi dell’epidemia di covid, quando un forte aumento delle denunce di violenza domestica era evidente nel contesto della politica di quarantena. La differenza sta nella diminuzione delle richieste di aiuto nei primi mesi di guerra, causata dalla percezione di mancanza di legittimità nel lamentarsi o contattare gli operatori sanitari rispetto al dramma in atto e dalla mancanza di disponibilità da parte delle vittime alla cura di se stesse.

L’incremento della militarizzazione ha comportato inoltre un aumento significativo del numero di licenze private di armi (il numero di quelle approvate dal ministero per la sicurezza interna nel 2023 è più di tre volte superiore a quello dell’anno precedente) che mette a repentaglio la sicurezza delle donne. Inoltre, l’aggravarsi delle persecuzioni di natura politica ha condotto a una perdita del senso di sicurezza delle donne arabe, soprattutto negli spazi condivisi, intaccando la loro possibilità di integrazione nel mercato del lavoro. Il 60% delle palestinesi riferisce di sentirsi a disagio nel recarsi in insediamenti ebraici o misti per lavoro o commissioni, e questo rispetto al 48% degli uomini arabi intervistati.

Preoccupante è anche la forte diminuzione della rappresentanza delle donne in posizioni chiave e nei processi decisionali. Nell’attuale Knesset sono presenti solo 29 deputate, rispetto alle 35 del parlamento precedente [su 120 seggi, Ndr]. Solo una donna presta servizio nel gabinetto politico di sicurezza, mentre in quello socio-economico si contano solo tre donne su 19 membri complessivi. Al fine di ridurre i danni e prevenire un’ulteriore espansione dei divari di genere in Israele, il rapporto chiede l’integrazione delle donne tra i responsabili politici e l’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione e nel processo decisionale, auspicando che venga garantita anche la raccolta e la pubblicazione sistematica di dati segmentati per genere in modo che le tendenze possano venire identificate nel tempo.

La preoccupante fotografia fornita dal rapporto è per forza di cose parziale per mancanza di dati, né prende in considerazione le donne palestinesi prive della cittadinanza israeliana, come quelle che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme Est. Inoltre i risultati andranno monitorati anche in fase di riabilitazione, processo che tuttavia non può avere inizio mentre i traumi sono ancora in corso. In questo senso continuano a essere particolarmente penalizzate, oltre alle palestinesi, le donne sfollate, le madri e mogli dei riservisti e tutte le donne che detengono legami personali e familiari con gli ostaggi. I danni dell’atroce stress fisico e psicologico a cui sono sottoposte sono ancora inimmaginabili e potranno essere stimati solo nel lungo periodo. Come nel caso delle violenze di genere perpetrate il 7 ottobre da Hamas e delle donne catturate, è evidente che il genere femminile sta pagando a caro prezzo la violenza politica e militare che pervade lo spazio pubblico israelo-palestinese.

Per quanto allarmanti, tuttavia, le statistiche non possono cancellare il ruolo centrale ricoperto in questi mesi proprio dalle donne ebree, palestinesi e druse di cittadinanza israeliana e il loro preziosissimo contributo alla società nell’affrontare la crisi. Le donne sono anche in prima linea per la pace e nelle ancora troppo poche e coraggiose iniziative congiunte come quella recentemente promossa dal «Movimento Spirituale per la Pace» tenutasi a Gerusalemme il 26 settembre scorso. Sono proprio le donne osservanti, ebree e musulmane, a muoversi con maggiore agio negli spazi «misti», a dimostrazione che la religione e le donne sono anche delle preziose alleate, checché ne dicano gli stereotipi occidentali.

Tra le oratrici che hanno tenuto i discorsi più interessanti c’è stata la giornalista drusa Eman Safady dell’organizzazione JPC che ha sottolineato l’importanza di mettere da parte le vendette per avviarci verso la pace e la normalizzazione che passeranno, secondo lei, attraverso una «pulizia energetica» e accordi sugli spazi marini e le risorse energetiche. Importante anche la riflessione della professoressa Haviva Pedaya dell’Università di Ben-Gurion del Negev, presidente del movimento, intellettuale e discendente della stirpe di cabalisti Fatiyah di origine irachena, che ha sottolineato l’importanza della stipula di accordi politici nella realpolitik della tradizione sefardita orientale ebraica. E siamo solo all’inizio.

Oggi, a un anno da quel disgraziato 7 ottobre, l’urgenza di spendersi in prima persona per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e per il ritorno immediato degli ostaggi, per poi iniziare un faticoso e lungo processo di ricostruzione, è massima e le donne dimostrano di averlo compreso superando coraggiosamente ogni accusa di tradimento e critica di asimmetria che viene loro rivolta dalle rispettive etnie. Mettiamo da parte le ideologie e diamo loro voce.

Da Il Quotidiano del Sud – A un anno dal massacro di Hamas del 7 ottobre, con morti, violenze e ostaggi, e dopo un anno di vendetta di Israele sul popolo palestinese con Gaza rasa al suolo, 42.000 morti di cui 20.000 bambine/i, migliaia di feriti, mutilati, di violenze dei coloni in Cisgiordania, di un popolo lasciato senza cibo, acqua e medicine, la parola pace dentro e fuori Israele e nei territori palestinesi è bandita da chi ha scatenato l’inferno, seminando morte, odio e distruzione. Eppure tra tanta tragedia ci sono israeliani e palestinesi, di cui i mass-media non parlano, che continuano tra tanti ostacoli a coltivare e tenere in vita pratiche di pace, di dialogo e riconciliazione come unica alternativa alla guerra. Le loro voci, schiacciate ma non ammutolite, e le loro storie sono state raccolte dalla giornalista Chiara Zappa nel libro di recente pubblicazione Gli irriducibili della pace – Storie di chi non si arrende alla guerra in Israele e Palestina, edito da TS.

«Mi rifiuto di battermi per Israele senza battermi anche per la Palestina», scrive la cantante israeliana Noa nella prefazione e invita a non schierarsi «né da una parte né dall’altra, ma piuttosto schierarsi per la pace, per l’umanità, per la dignità, per la vita». È quello che hanno fatto per tanti anni le donne e gli uomini che nel libro raccontano le loro storie fatte di pratiche di pace, di conoscenza l’uno dell’altro, di rispetto e di fiducia reciproca, per una riconciliazione e una convivenza che li orienta anche dentro l’inferno scatenato da Hamas e dal governo di Netanyahu. Tante le voci e le storie di israeliane/i e palestinesi che meritano di essere ascoltate e conosciute. Con la loro esperienza sono lì a dimostrare che una convivenza e una riconciliazione, dopo tanta distruzione, dolore e odio, un giorno in Terra Santa sarà ancora possibile. Layla, madre palestinese di un villaggio a pochi chilometri da Betlemme, ha visto morire tra le sue braccia il figlio di tre mesi intossicato dal fumo dei lacrimogeni dopo un’incursione in casa dell’esercito israeliano che ha poi ostacolato l’arrivo in ospedale per salvarlo. Dopo anni di dolore e di odio verso “il nemico” trova la forza di perdonare e riconciliarsi stando in un’associazione di palestinesi e israeliani che hanno perso un familiare. «Per la prima volta mi resi conto che condividiamo lo stesso dolore, le stesse lacrime.» È la stessa consapevolezza che spinge Chon, l’ufficiale israeliano che dopo anni di “violenza” e “terrorismo” a Gaza e Cisgiordania si «rende conto di aver «disumanizzato l’altro disumanizzando se stesso, e decide di dire basta. Diventa obiettore di coscienza, fonda il movimento “Combattenti per la pace” tra ex soldati e ufficiali israeliani e palestinesi che hanno partecipato alla lotta armata contro Israele» e una compagnia teatrale binazionale «per sfatare miti e pregiudizi, costruire la fiducia reciproca, riumanizzare l’altro». Chon come Tal, Sofia, prima obiettrice dopo il 7 ottobre, e Ben, è in carcere per aver rifiutato di partecipare alla guerra. Samah e Nir, una palestinese israeliana e un ebreo del “Villaggio della pace”, fondato nel 1950 da un frate domenicano, esempio di convivenza di due popoli e una terra, hanno rifiutato “i fucili di assalto” dati dal governo israeliano. Ariella, cofondatrice del movimento “Le donne portano la pace”, e Reem di quello palestinese “Le donne del sole”, candidate al premio Nobel per la pace, tre giorni prima del 7 ottobre hanno marciato insieme da Gerusalemme Est e Cisgiordania fino al mare. Altre voci, altre storie, si uniscono a queste e nessuna si arrende alla guerra, custodendo i semi che un giorno, si spera, germoglieranno e porteranno ai due popoli di quella terra insanguinata pace e riconciliazione.