Da La Stampa – Tuttolibri – La ricercatrice indipendente Vanessa Roghi, nata nei primi anni Settanta, ha seguito l’impulso di rintracciare nella propria biografia La Parola Femminista, titolo scelto per il suo ultimo libro (Mondadori). Ha trovato nostalgia e grazia, ha dedicato pagine adorabili alla sua famiglia, alla sua infanzia, alla mamma Irma. Roghi è una di quelle figlie e figli di femministe che hanno passato ore a colorare nelle Case delle Donne, tenute per mano o nei passeggini alle manifestazioni, addormentate sui divani durante riunioni appassionate, assorbendo anche ciò che non capivano. Oggi alcuni di loro sono immediatamente riconoscibili, nutrono un rispetto guardingo verso quelle madri e le loro amiche, e hanno un intuito eccezionale nel circumnavigare asperità e suscettibilità femministe. E il femminismo ha talvolta depositato in loro fantasie meravigliose, tanto che nel libro di Roghi, oltre ai ricordi dell’autrice, si trovano le testimonianze delle sue coetanee, tipo quella di Barbara, nata nel 1973 a Viareggio, che dice: «Io volevo essere femminista, ma anche elettricista», siccome ha una grande ammirazione per i compagni che allestiscono la festa dell’Unità. Roghi ha genitori irregolari e bizzarri, nonni accudenti, cresce in provincia, a Grosseto, ed è iscritta alla Fgci. Si stupisce perché nel Vocabolario delle ragazze comuniste del 1988 la parola “femminista” non si trova. Non c’era del resto traccia, nel Pci di fine anni Ottanta, di nessuna delle istanze rivoluzionarie che avevano cambiato la storia del nostro Paese, e della sinistra di classe le cui macerie ancora fumavano al centro della scena, macerie di cui ben presto anche il comunismo, e il Pci, avrebbero fatto parte.
Per maneggiare questo oggetto imprevisto, il femminismo, Roghi fruga nella memoria e nei libri altrui. Il sondaggio di argomenti disparati è il suo mestiere, attraverso fonti e letture vuole ricostruire una storia femminista eppure, nella sostanza, le rimane misteriosa, non ha pratica concreta dello sprofondare e riemergere, del coltivare pensiero e relazione insieme. Restare a lungo appartate, andare e venire dall’estraneità è ritmo essenziale della politica delle donne; la parola femminista può nascondersi ma resta infrangibile, non si piega al conformismo dei tempi, non è affatto «tornata sulla bocca di tutti anche grazie all’attivismo di persone non binarie e di identità queer che hanno dato nuova linfa a un movimento che era scomparso dall’orizzonte politico». Al contrario, quella parola indica un’esperienza di tante che non smettono di desiderare e creare, salvando le vite pure di quelle che non lo sanno. La fine del patriarcato dura secoli, non è un pranzo di gala, scriveva Luisa Muraro su Sottosopra nel ’95, quando per Roghi eravamo in letargo, in attesa del messianico “queer”. Sempre Muraro: «Se qualcuno o qualcuna vi dice che questi sono tempi brutti, chiedetevi di chi è questo pensiero […]. Da anni, anzi da secoli e forse da millenni, vi sono state donne che hanno desiderato la fine del controllo maschile sul corpo femminile fecondo. E che hanno agito e parlato di conseguenza, pronte a cogliere o inventare ogni occasione per avanzare in questo senso».
Da Concorso Lingua Madre
Pinuccia Corrias, docente, autrice e parte del Gruppo di studio del Concorso letterario nazionale Lingua Madre (CLM)
Pinuccia Corrias aveva appreso da Lia Cigarini l’importanza del “desiderio”, da Luisa Muraro di essere stata allevata secondo “l’ordine simbolico della madre”. Si è spenta oggi, 25 dicembre. Docente e anche amica, autrice e parte del Gruppo di Studio CLM non ha mai smesso di illuminare con il suo pensiero la politica delle donne anteponendo la relazione, l’ancoraggio alla genealogia femminile e fornendo pratiche di verità su di sé e sul mondo.
«Ottanta anni e sono insegnante. Sì, ne ho avuto la conferma da poco. Una mia ex-alunna ha denunciato il marito che l’aveva minacciata con una pistola, al giudice che le chiedeva dove avesse trovato il coraggio, ha risposto: Io ho avuto una docente che mi ha insegnato che una donna non deve mai accettare che qualcuno le manchi di rispetto. Mi pare che non serva scrivere “ex”». Così scriveva di sé.
E così sono nati i suoi libri Abbardente (Neos, 2016) e Rosario sardo, inedito. Ha contribuito a numerosi testi curati dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile. Suoi saggi sono contenuti in Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento (Il Poligrafo, 2011); L’alterità che ci abita. Donne migranti e percorsi di cambiamento (SEB27, 2015), Con forza e intelligenza. Aida Ribero 1935-2017 (Il Poligrafo, 2024).
Aveva ricevuto il premio Macopsissa, per le sue poesie giovanili. All’Università Cattolica di Milano ha vissuto il ’68, che ha dato un’impronta politica al suo insegnamento: a cominciare dalla gestione di un asilo con preti operai a Pomigliano d’Arco.
Viveva tra Torino, la Sicilia e la Sardegna, ma aveva vissuto anche a Milano, Roma e Napoli. Conosceva quindi l’esperienza della migrazione così ben rappresentata nel racconto Shalom Inshallah Amén con cui, nel 2014, ha vinto la sezione donne italiane del IX Concorso Lingua Madre.
Da femminista e come docente ha contribuito alla pedagogia della differenza e nella sua scrittura ha sempre messo in luce la presenza femminile nel mondo. Infatti, aveva fatto suo e praticato – soprattutto nella scuola, dove ha insegnato italiano e storia – il femminismo della differenza, che ha poi approfondito nella Libreria delle donne di Milano e nel Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino, nel Gruppo di ricerca teologica donne valdesi e della comunità di base e nel Gruppo intergenerazionale di Pensieri in piazza, a Pinerolo.
A Casa “Chantal” del Monastero della Visitazione di Pinerolo, ha seguito dal 2008 un percorso di spiritualità e di servizio con le monache e le volontarie e qui, nel 2015, ha accompagnato l’inserimento di una rifugiata di Bangui.
Viveva a Sciacca, di fronte al mar d’Africa, luogo amato dai suoi quattro figli e dai nipoti.
Nel suo saggio Itinerari d’esilio (in L’alterità che ci abita) scriveva che quando il mondo le aveva mostrato il suo volto più solo, più ferito, più fragile, aveva resistito «quel che mia madre mi aveva insegnato, questo solo mi ha aiutato a non perdermi. È qualcosa, io credo, che può servire, ancora nei nostri giorni brevi. Qualcuno la chiama più laicamente “cura del mondo” e una parte di essa spetta, di certo, da sempre a ciascuna di noi».
A lei va il nostro pensiero, il nostro affetto e la nostra gratitudine.
Da RivistaStudio – Del processo Pelicot resteranno l’orrore dei fatti e il coraggio di Gisèle Pelicot. È diventata un simbolo, un’ispirazione per milioni di donne in tutto il mondo. Donne come quelle dell’Australia’s Older Women’s Network, che «in segno di sostegno e gratitudine» hanno regalato a Pelicot una sciarpa, la sciarpa che le abbiamo visto indossare mentre veniva pronunciata la sentenza di condanna al suo ex marito e agli altri cinquanta “Monsieur Tout-le-monde”. «Una sciarpa è come un abbraccio… Ti cinge il collo e sta vicina al cuore», ha spiegato a Bbc Beverly Baker, la presidente dell’Australia’s Older Women’s Network. «Gliel’abbiamo inviata (la sciarpa, ndr) per solidarietà, per dirle che non è da sola, che le donne di tutto il mondo la sostengono».
Pelicot ha indossato questa sciarpa spesso, nei giorni del processo (compreso quello in cui ha fornito la sua testimonianza). La fantasia della sciarpa ritrae delle pozze di acqua salmastra che si trovano in Australia, nella regione di Pilbara: è un luogo-simbolo del popolo Martu, si chiama Wilarra ed è noto per le sue proprietà curative. Sul tessuto della sciarpa è anche raccontata una storia folkloristica, una favola: i protagonisti sono una famiglia di dingo, dei cuccioli che vengono accuditi e tenuti al sicuro dalla luna. Mulyatingki Marney, che questa sciarpa l’ha realizzata, è un’artista aborigena di ottantatré anni che ha voluto così raccontare a Pelicot e al mondo 60mila anni di coraggio e resilienza delle donne indigene, la durezza della vita nel deserto e la violenza della colonizzazione.
Marney fa parte di un gruppo di artisti e artiste, Martumili Artists. Sylvia Wilson, rappresentante di questo gruppo, ha concesso un’intervista all’Australian Broadcasting Corporation in cui spiega che la sciarpa non simboleggia solo la forza di donne che sono sopravvissute a violenze inaudite. «Wilarra è un posto in cui si guarisce», ha detto: che è quello che tutti ci auguriamo per Gisèle Pelicot.
Da Morel voci dall’isola
Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e raccontidi Rosella Prezzo propone di “ricominciare dall’inizio” e riflettere sull’esperienza della gestazione e del parto/nascita facendo di questa origine il luogo relazionale e trasformativo della vita singolare e comunitaria.
La cancellazione della nascita, dell’inizio che è relazione, ha condotto a una cultura che si è illusa di poter affermare la vita negando la fragilità e la dipendenza reciproca.
Il testo, ricco di riferimenti filosofici e artistici, guarda alla nascita come la prima forma di trasformazione esistenziale e indica un altro modello di con-vivenza e azione in ambito etico e politico in cui è la relazione, non la soggettività individuale a essere al centro. Se partiamo dalla relazione e dal corpo, partiamo da un concetto che si individua e diviene sé stesso grazie alla relazione. […]
Comincerei col chiederti del titolo Trame di nascita, dove la nascita lungi dall’essere un fatto singolare viene già inserita all’interno di una pluralità, le trame, sottolineando in questo modo la portata relazionale e “politica” di questo evento originario. Scrivi: «Interveniamo in una storia già iniziata, come entrando in un teatro, a sipario già levato, cercando nella semioscurità il nostro posto e sforzandoci di afferrare la trama che si sta svolgendo». E ancora: «La nascita come evento è un agire trasformativo e trasfigurante, in cui si con-viene al mondo, nella originaria e comune non-autoctonia e non-autosufficienza». Che ruolo ha la dimensione dell’attesa e dell’essere attesi nel nascere?
Premetto che, più che un libro sulla maternità, ho voluto scrivere un libro sulla nascita. Sull’evento cioè che riguarda ciascun essere umano, ci riguarda tutti/e: un duplice evento attraverso cui si è messi al mondo (passività) nel momento in cui si viene al mondo (azione attiva).
L’attenzione portata all’evento inaugurale (nella sua concretezza) della comune condizione umana mi ha permesso di formulare significati di senso e valori simbolici mai elaborati prima dal pensiero, che ha sempre privilegiato invece la morte come oggetto di meditazione, di senso e simbolo (già presente nella definizione stessa di “umani” = “i mortali”). Da qui:
1) l’origine umana è relazionale (non si nasce mai da soli);
2) nessuno possiede la propria origine, perché bisogna passare per un corpo altro (di una donna) per esistere (è perciò del tutto infondata e assurda l’idea che ci sia prima un Io autoctono);
3) Non siamo gettati-nel-mondo, come ha affermato l’esistenzialismo heideggeriano, ma siamo sempre figli di un’attesa;
4) quindi, l’ospitalità precede la proprietà;
5) il/la nato/a è un ospite atteso, che però disattende l’attesa, perché chi arriva non è mai quello/a che ci si aspettava, che ci si immaginava che fosse;
6) il primo riconoscimento della madre verso il figlio è un riconoscimento di amore («voglio che tu sia»).
Tutte questi aspetti ridefiniscono la condizione umana sotto un’altra luce e indicano un altro modello di con-vivenza (hanno quindi una valenza anche etico-politica).
Il termine ‘concetto’, nell’etimo latino, ha infatti una costellazione semantica diversa dal tedesco Begriff che è prevalso a partire dalla filosofia classica tedesca. Se l’etimo di Begriff rinvia all’afferrare (greifen), il latino conceptus rimanda anzitutto a una forma concava che è capace di raccogliere e quindi al corrispettivo verbo concipio, che ha come significato originario quello di “rimanere gravida” e poi anche quello di “accogliere qualcosa nell’animo, nel pensiero, nel sentimento”. Da qui il significato di un concetto che anziché all’“afferrare”,“assoggettare”, rimanda piuttosto all’“accogliere”, “ospitare”. In questo senso, concepire non vuol dire appropriarsi di qualcosa, ma fare spazio a esso. Trovo questa riflessione all’interno del saggio assai preziosa per il discorso che svolgi. Mi piacerebbe una tua considerazione in merito.
Mi sembra già implicito in quanto dicevo prima.
Nel 1976 Adrienne Rich con Nato di donna tematizza il dato corporeo affermando che si nasce inevitabilmente da un corpo di donna. Rich mette tuttavia in guardia dalla maternità intesa come modello ideale fungente da esempio di altruismo e sacrificio, che fa scomparire l’esperienza della maternità nella sua complessità e contraddittorietà. La madre sublimata cancella la donna reale. Questo è un nodo centrale anche per gli innesti di pensiero e azione che porta con sé. Qual è la tua posizione alla luce dei dibattiti attuali? C’è una convergenza tra le considerazioni del tuo testo e quanto affermato da Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo nel loro Donnasinasce(e qualche volta lo si diventa)?
È proprio indagando l’esperienza reale della nascita e della maternità che ne ho estratto significati differenti rispetto a quelli che la società patriarcale ha attribuito per secoli alla maternità come “destino” delle donne e loro confinamento nella vita privata, ma anche rispetto a certi miti regressivi della Grande Madre.
Per quanto riguarda il dibattito attuale, non mi piace l’atteggiamento diffuso per cui prima ci si schiera (come nel tifo calcistico) e poi si cercano argomenti a proprio favore. Compito del pensiero è cogliere i cambiamenti, fornire una lettura critica della realtà e certo, prendere anche una posizione di conseguenza. Uno dei temi oggetto di questi schieramenti è la presunta dicotomia tra il biologico e il culturale. Credo che nell’umano non ci sia niente di puramente biologico né, all’inverso, credo che siamo solo delle costruzioni culturali. Per es., il nutrirsi è qualcosa che riguarda il corpo ma quanti modi ci sono che danno al cibo e al consumare un pasto significati e ritualità simboliche differenti?
Sulla Gpa ho espresso le mie critiche perché penso che non abbia tanto a che fare con una libertà femminile conquistata ma che sia l’espressione di un sistema economico e di profitto in cui la produzione ha inglobato anche la riproduzione umana. Di conseguenza, ritengo che l’attuale dibattito sulla gravidanza per altri (soprattutto per altra, bisognerebbe sottolineare) sarà presto superato da una questione ben più grossa: l’utero artificiale. Nei processi “lavorativi”, infatti, come mostra la storia, a un certo punto le macchine sostituiscono il lavoro umano (anche quello che è diventato il “lavoro riproduttivo”). Non ho motivi per non pensare che sarà così anche in questo caso. Dovremmo perciò cominciare a rifletterci per non ritrovarci di fronte a situazione di fatto, da cui poi è difficile tornare indietro. Anche perché ciò andrebbe a intaccare quella differenza fondamentale per cui si diventa madre “all’interno” del proprio corpo, e padri “al di fuori” del proprio corpo.
Proseguendo il gioco di Cavarero e Guaraldo, potrei dire aggiungere «madre non si nasce, si diventa (e non sempre)», e sulla base non solo della differenza di cui parlavo prima, ma anche sul fatto che per qualsiasi donna arriva sempre il momento della scelta di diventare o meno madre. Una scelta che per fortuna, grazie anche alle lotte delle donne, è una libera scelta (sappiamo pure che è sempre minacciata e quindi va difesa).
«La scena era occupata soprattutto da figlie in rivolta, che comprensibilmente non volevano essere come le loro madri oppure volevano dare all’autonomia femminile una legittimazione teorica attraverso una figurazione astratta della madre. Essa veniva allora scelta nella ricostruzione di una genealogia culturale e di pensiero (“le madri di tutte noi”), che si rivelava peraltro ricca ed entusiasmante, al fine di riscattare il proprio genere dal silenzio della Storia». Trovo che questa rivolta delle figlie, per quanto comprensibile e importante, sia anche una ferita o forse meglio una cicatrice che ha impedito ad alcune di sperimentare le potenzialità plurali e sfaccettate della relazione con la madre, occultata talvolta anche dall’imperativo egualitario della sorellanza.
La lotta delle donne nata da un movimento di liberazione da stereotipi, ruoli codificati e differenze gerarchiche derivanti da un sistema di privilegio e dominio maschili, comprendeva necessariamente la profonda critica al modello di donna-madre come unica meta da raggiungere per essere una “vera donna”. Certo questo ha fatto passare in secondo piano il fatto di ripensare in altro modo la maternità ma soprattutto l’elemento comune agli esseri umani (uomini e donne) di venire al mondo attraverso un corpo di donna. Il richiamo alla “sorellanza” credo sia invece un elemento fondamentale, e ancora di più oggi, in una società dall’individualismo sfrenato e dove cui si ammantano dell’aggettivo femminista donne che hanno semplicemente acquisito potere, ma solo per sé. Hanno cioè sostituito un uomo nella medesima posizione di potere. Credo infine che ogni nuova generazione deve portare qualcosa di nuovo e di suo nel mondo in cui si trova a vivere e a pensare.
Da VanityFair.it
La parola scelta da Oxford a rappresentare il 2024 punta l’attenzione sull’impatto che Internet sta avendo sulla nostra materia grigia. Certo, dovremmo preoccuparci seriamente per certe evidenti conseguenze sulla salute mentale e cerebrale. Ma non prima di aver compreso alcuni concetti fondamentali. Perché la buona notizia c’è
La parola dell’anno suscita inquietudine. Brain rot, letteralmente «marciume cerebrale», termine eletto dall’Università di Oxford a rappresentare il 2024, fa quasi pensare a un popolo di zombie che si aggirano per le strade, lo sguardo fisso su di un punto preciso, orecchie tappate, reazione agli stimoli pressoché inesistente. Zombie come quelli creati dal Fentanyl, la droga più letale del momento, che sta strappando cervelli, speranze e vite a un numero sempre più elevato di giovani nel mondo. L’associazione sembra esagerata? Converrà allora ricordare che il meccanismo alla base dei due fenomeni è sostanzialmente il medesimo: la dipendenza.
In Italia, secondo il rapporto Digital 2024, passiamo in media 5 ore e 49 minuti connessi a Internet. Un tempo enorme, se consideriamo che durante lo stato di veglia dovremmo essere tendenzialmente impegnati tra scuola/studio/lavoro, pasti, sport e hobby, relazioni e varie altre attività. 5 ore e 49 minuti al cellulare come media significa rinunciare a una copiosa fetta di vita reale, esperienze, conoscenza, attività e contatto umano. Peggio ancora, significa che si usa lo smartphone mentre si sta facendo altro, distogliendo l’attenzione dalla realtà e facendosi catturare, ancora una volta, dallo schermo.
Ma che cosa guardano le persone? Contenuti virali e video divertenti, balletti, meme, battute, ma anche profili social di interesse pubblico e privato, talvolta video e articoli di carattere informativo (ma raramente con la capacità di distinguere le fake news) e molto probabilmente anche contenuti porno.
Secondo il dizionario inglese, per brain rot si intende «il presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona dovuto a un consumo eccessivo di materiale – nel caso specifico i contenuti online – definito banale o poco impegnativo».
Ma i primi “sintomi” di questo decadimento cerebrale potrebbero risalire addirittura a una ventina di anni fa, quando gli scienziati studiarono gli effetti di una nuova invenzione chiamata “e-mail” e l’impatto che un’incessante raffica di informazioni avrebbe avuto sul cervello. Ciò che emerse dal loro studio fu che il costante sovraccarico cognitivo portava a un effetto peggiore rispetto a quello generato dall’assunzione di cannabis: il quoziente intellettivo dei partecipanti scendeva in media di 10 punti. Che cosa è potuto accadere nell’arco di questi due decenni che hanno portato ad avere internet sempre a portata di mano sui cellulari?
Stiamo vivendo «una tempesta perfetta di degrado cognitivo» ha sentenziato in un’intervista rilasciata al The Guardian Earl Miller, neuroscienziato del MIT ed esperto mondiale di attenzione divisa. E non è stato l’unico a lanciare l’allarme. Gloria Mark, professoressa di informatica all’Università della California e autrice di Attention Span, ha trovato prove di quanto drasticamente stia diminuendo la nostra capacità di concentrazione. Nel 2004, il suo team di ricercatori ha scoperto che la capacità media di attenzione su qualsiasi schermo era di due minuti e mezzo. Nel 2012 erano 75 secondi. Sei anni fa l’attenzione era già scesa a 47 secondi. Tutto ciò rappresenta «qualcosa di cui penso che dovremmo preoccuparci molto come società», ha detto nel 2023 in un podcast dell’American Psychological Association.
Sono numerosissime le ricerche accademiche condotte negli ultimi anni a riprova di come un uso intenso e prolungato di internet stia riducendo la nostra materia grigia, accorciando la durata dell’attenzione, indebolendo la memoria e distorcendo i nostri processi cognitivi.
Sebbene agli occhi degli psicologi americani appaia ancora troppo presto per trarre delle conclusioni definitive, nel 2018, un report prodotto dalla Sandford University ha rilevato che secondo i dati degli ultimi dieci anni di ricerca, le persone che utilizzano frequentemente più tipi di media contemporaneamente ottengono risultati peggiori in semplici compiti legati alla memoria.
L’uso eccessivo di tecnologia durante gli anni di sviluppo cerebrale è stato persino definito da alcuni ricercatori canadesi come l’atteggiamento che può condurre allo sviluppo di una «demenza digitale». Il loro studio sulla Demenza digitale nella generazione di Internet spiega come un tempo eccessivo trascorso davanti allo schermo durante lo sviluppo del cervello aumenterà il rischio di malattia di Alzheimer e demenze correlate in età adulta.
Questo in aggiunta a tutta una serie di altri problemi psicologici legati allo sviluppo che di recente, nel nostro Paese, hanno indotto un gruppo di pedagogisti a lanciare un appello – sottoscritto anche da docenti ed esperti di educazione, medici, scrittori e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo – per chiedere al governo di vietare lo smartphone sotto i quattordici anni e il profilo social prima dei sedici.
Ma non è solo responsabilità nostra se la tecnologia ci rende meno intelligenti. La funzione dello “scrolling”, che induce a scorrere immagini e contenuti all’infinito – determinata da un feed on line che si ricarica incessantemente – manipola il sistema di ricompensa innescato dalla dopamina a livello cerebrale. E questo lasciarsi andare alla ricerca “infinita” di contenuti può creare dipendenza. È così che il brain rot diventa una minaccia reale.
Quante persone, in definitiva, sono davvero consapevoli di come la tecnologia stia letteralmente facendo marcire il nostro cervello e di come l’uso decisamente compulsivo di Internet stia distruggendo la nostra materia grigia?
È tutto vero, ma non tutto è perduto
La buona notizia è che il termine “marciume cerebrale” è stato reso popolare on line dai giovani che sono maggiormente a rischio dei suoi effetti. Il New York Times riporta che nell’arco di due anni c’è stato un incremento del 230% nell’uso del termine brain rot; un aumento sostenuto anche dalla crescente diffusione del concetto su piattaforme social come TikTok e X.
Il fatto che coloro che sono più a rischio siano anche quelli con la maggiore consapevolezza del problema è una notizia incoraggiante: per mettere in atto un qualsiasi cambiamento, il primo passo è la comprensione del problema. E c’è allora motivo di sperare, grazie anche ai movimenti anti-tecnologia sorti negli ultimi anni, alle leggi che puntano a vietare l’uso degli smartphone al di sotto di una determinata età (un caso fra tutti quello dell’Australia, che ha ufficialmente vietato l’uso dei social al di sotto dei sedici anni), alle campagne per un’infanzia senza smartphone, che sembrano trovare sempre più consenso persino fra gli stessi ragazzi: secondo un’indagine degli psicologi dell’Associazione Di.Te. – che si occupa di dipendenze tecnologiche e cyber bullismo – e del portale studentesco Skuola.net, quasi la metà dei giovani italiani tra i dieci e i venitquattro anni (47%) sarebbe d’accordo con questi divieti. Piccoli passi verso un futuro in cui saremo in grado di riappropriarci delle nostre menti.
Da Marie Claire
Quanti di noi sanno che una donna di nome Giuseppina Re si è battuta per la legge che vieta il licenziamento per nozze?
Proviamo a iniziare questa storia leggendo attentamente qualche riga in “legalese”: «Le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte. Del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio». Al primo impatto, quanto abbiamo letto sembra un estratto dalla sentenza di qualche assurda vertenza sindacale, intentata da una lavoratrice dopo che uno sconsiderato titolare l’ha licenziata per un motivo ingiustificato, ossia perché si è sposata. Chi mai licenzierebbe una donna solo perché si è sposata? Purtroppo (per allora) e per fortuna (per noi, oggi), un tempo invece era così. Quello riportato sopra è un estratto dalla Gazzetta Ufficiale che nel 1963 pubblicava il testo della legge n. 7 del 9 gennaio 1963 con cui veniva cancellato per sempre (si spera) il diritto del datore di lavoro, anche nella pubblica amministrazione, di licenziare una donna per il semplice motivo di essersi sposata. Si trattava di una facoltà discriminatoria del datore di lavoro di cui a distanza di oltre sessant’anni si è persa memoria, ma che al tempo non faceva indignare nessuno. Non è stata certo l’ultima ingiustizia subita dalle donne sul lavoro, tutte sempre in violazione dell’articolo 3 della Costituzione che dice «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [etc.]»: proprio nel 2022 il ministero della Difesa, nei bandi di concorso, ha chiesto ancora alle donne il test di gravidanza.
Oggi i sindacati di categoria insorgono, ma prima del 1963 la motivazione del licenziamento per una donna andata a nozze sembrava legittima perché parlava di un ipotetico fine di «proteggere la funzione familiare della donna». In pratica, la si mandava a casa in modo che non trascurasse marito e figli, era un favore non chiesto a lei e alla società. Nella realtà sappiamo che le future gravidanze delle dipendenti sono da sempre uno spauracchio di molti datori di lavoro, e che al tempo sbarazzarsi di una futura mamma era molto più semplice di oggi. Poi è arrivata la legge 7/63 che ha stabilito dei paletti, monitorando il licenziamento e le dimissioni della dipendente nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione. Chi bisogna ringraziare per questa norma? Una deputata che sembra essere stata dimenticata dalla storia. Si chiamava Giuseppina Re, era di Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, e aveva il pallino dei diritti civili sin da quando da bambina il padre le raccontava la storia di Sacco e Vanzetti, i due italiani giustiziati innocenti in America. Durante la guerra Pina Re ha fatto la commessa nei grandi magazzini Duomo e nella drogheria di piazzale Lagosta a Milano, e nel capoluogo lombardo aveva conosciuto e iniziato a collaborare giovanissima con i partigiani, mentre cominciava coraggiosamente a fare attività ante litteram per le questioni femminili, un tema al quale al tempo stentavano a interessarsi persino le donne stesse, per non irritare padri e mariti. Nel 1948, Pina Re è stata una delle prime donne elette al Parlamento italiano, ma diede presto le dimissioni per problemi di salute. Fu rieletta nel 1958, si rimboccò le maniche e spinse alcune delle riforme più importanti della giustizia minorile e del diritto di famiglia di questo Paese. E ovviamente, è stata la prima firmataria della legge contro i licenziamenti delle donne per matrimonio. Anche dopo la fine del suo mandato, Giuseppina Re ha continuato a fare attività per una società migliore: è lei che ha fondato il Sunia, il sindacato degli inquilini, ed è lei ad aver lottato per l’istituzione del Parco Nord a Milano. Morta nel 2007 a 94 anni, è stata una grande politica e oggi è vittima della memoria corta dei nostri tempi, un personaggio di cui le nuove generazioni dovrebbero chiedere un monumento e studiare la biografia, per tenere sempre bene a mente che i diritti di cui godiamo non sono mai caduti dal cielo, e che la loro permanenza non va mai, mai data per scontata.
Da Leggendaria
Il volume del 2024 dei Quaderni di Via Dogana raccoglie in forma stampata quarantotto interventi, frutto di un dibattito aperto sulle pratiche femministe e la loro evoluzione svolto per mesi in presenza e online
Ci sono libri che aprono prospettive e permettono a donne e uomini di agire in modo imprevisto nel mondo. Lo fanno perché sono frutto del pensiero dell’esperienza che scaturisce da relazioni di stima coltivate nel tempo e di apertura attenta a sempre nuovi incontri. È quello che accade con Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, nato nella Libreria delle donne di Milano, che nel 2025 compirà 50 anni.
Trentanove autrici e autori compongono un mosaico di quarantotto interventi, rivisti, ampliati e altri inediti, legati alla rivista Via Dogana 3. Via Dogana è la storica rivista della Libreria delle donne di Milano, che dal 2001 si è spostata dalla centralissima via Dogana 2 a via Pietro Calvi 29. Col numero 111, dal significativo titolo Le donne sono ovunque, la rivista cartacea ha chiuso e nel 2015 è diventata on line ad accesso libero nel sito della Libreria delle donne col nome di Via Dogana 3.
Oggi ogni numero nasce da una proposta, elaborata da una dozzina di donne della redazione ristretta che individua un tema e invita di volta in volta un paio di interlocutrici o interlocutori, i cui interventi iniziali avviano un libero confronto in presenza e in collegamento on line coinvolgendo più di un centinaio persone. L’invito alla redazione aperta è pubblicato sul sito e chiunque può partecipare, anche dall’estero. Al termine del confronto di circa tre ore viene richiesta la scrittura di alcune riflessioni che, vagliate dalla redazione ristretta, verranno via via pubblicate fino a quando il numero della rivista verrà chiuso con l’invito per la redazione successiva. La rivista da quest’anno ha una nuova veste grafica più leggibile che permette anche di consultarne l’archivio. (https://puntodivista.libreriadelledonne.it/via-dogana-3/).
La storica pratica femminista del partire da sé riconosce e scarta forme ideologiche precostituite e ripetizioni di formule che cancellano la singolarità e livellano lo sguardo: è fondamentale per questa impresa. Del resto la Libreria è un luogo di relazioni in cui, fin dalla sua nascita, si riflette sulle pratiche che le donne hanno inventato e inventano per stare nel mondo.
Nei quattro capitoli del libro si mettono appunto in luce pratiche politiche femminili con uno sguardo che rivisita quelle storiche, mostrandone alcune continuità e variazioni nel presente; si testimoniano pratiche messe in atto da giovani donne; si riconosce dove l’azione politica conta sulla potenza trasformatrice dell’esserci e dell’agire in relazione con altre e altri, come, ad esempio, quella della popolazione di Crotone dopo il tremendo naufragio del febbraio 2023 a Cutro.
Perché pubblicare un libro se gran parte dei testi sono consultabili in rete?
Esiste una politica che trasforma il mondo a partire dalla soggettività con innegabili risultati. Infatti la rivoluzione femminista continua ed è stata l’unica vincente e non cruenta del Novecento. Comunemente si intende per politica quella che coincide col potere e la lotta per la sua conquista, la politica di partiti, sindacati, elezioni, ecc., non basata sull’invenzione di pratiche ma su un’organizzazione gerarchica e sulla rappresentanza. Come scrive Vita Cosentino: «In questo momento non circola abbastanza, soprattutto tra le persone giovani, l’idea che le pratiche sono la strada maestra per fuoruscire da un regime simbolico e anche dalle forme politiche maschili. […] Quando ne abbiamo discusso nella nostra redazione ristretta, una giovane ha detto: “Solo ora con questa discussione ho capito cos’è una pratica”» (p. 65).
La scommessa del libro è quella di offrire uno strumento per aprire confronti pubblici che permettano di riconoscere la politicità delle pratiche già esistenti.
Nella prima parte Autocoscienza ancora, dopo lo sguardo di Linda Bertelli e Marta Equi, su cos’è l’autocoscienza per Carla Lonzi e Rivolta femminile, si mostrano attraverso racconti di esperienze personali gli elementi di continuità e di modificazione di questa pratica oggi, riconoscendoli, ad esempio, nel #MeToo, nei nuovi gruppi promossi da Daniela Pellegrini, nelle modalità del podcast A day in a Female Life-Racconti di ordinaria violenza, creato da Angelica Pirro e Silvia Protino, nel blog de Le Compromesse, nelle Comunità di storia vivente. Non vengono proposti modelli o tecniche, ma le pratiche femministe offrono l’opportunità di un’inestinguibile ricerca di senso e si modificano nel tempo.
Nella seconda parte Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche si vedono i limiti sempre più evidenti della politica istituzionale, come dimostra il forte tasso di astensionismo e il diffuso senso di impotenza che genera la società della prestazione con la spinta a un individualistico autosfruttamento. Ma, come nota Lia Cigarini, la politica sta cambiando e, se i partiti, come li abbiamo conosciuti, mostrano uno scenario desolante, invece il movimento delle donne, quelli ecologisti, l’associazionismo attivo, il volontariato sono la nuova politica che trasforma e crea civiltà, a partire dai desideri, dalla messa in gioco soggettiva e dalla forza delle relazioni. Nel confronto/conflitto col potere se viene concesso uno spazio per attività come flash mob, manifestazioni, eventi culturali, è invece difficile contendere lo stesso spazio, lo stesso oggetto del desiderio di chi ha potere. Tuttavia, come suggerisce Maria Castiglioni delle Giardiniere di Milano riprendendo le figure di Antigone e Ismene, il potere non è un monolite, è possibile accerchiarlo, aprendo relazioni senza preconcetti, oltre gli schieramenti tradizionali, «un lavoro continuo di dilatazione e di esplorazione di reti, relazioni, prospettive […] che implica un di più di pensiero quando dall’altra parte c’è una donna» (p.74). Oppure, cogliendo le suggestioni di Sarah Polley nel film Women Talking, a volte occorre avere la forza e il coraggio di andare via insieme alle altre per non sprecare preziose energie «quando il contesto di vita e di lavoro si presenta refrattario a ogni ragione femminile» (p.70), come scrive Annarosa Buttarelli. Sono alcune tra le tante indicazioni che emergono dal libro.
Nella terza parte Orientarsi con l’amore si valorizzano pensieri ed esperienze presenti nel femminismo della differenza grazie soprattutto a Luisa Muraro, di cui è pubblicato Intelligenza dell’amore, un inedito in italiano, dove si mette in luce la condizione umana universale, segnata dalla mancanza, la cui accettazione ci apre agli scambi con l’altro, secondo un’economia centrata sulla relazione e sull’amore: «l’amore non teme di essere trovato mancante, poiché è la mancanza che gli dà nuova energia» (p. 108). Molte sono le indicazioni sull’amore come forza in grado di trasformare la dimensione politica. Indico solo le illuminanti riflessioni di Chiara Zamboni sulle differenze tra amicizia, amicizia politica e relazione politica, riprese anche in altri interventi, e l’importanza politica dell’amore di sé, proposta da Jennifer Guerra attraverso il racconto della sua esperienza.
Il libro si conclude con È ora di cambiare uno spazio rivolto soprattutto agli uomini in cui alcuni, in dialogo con le donne presenti, riflettono in modo sincero e profondo sulle difficoltà che molti incontrano nel dissociarsi dalla violenza. Una presa di parola suscitata dal momento aperto da Elena Cecchettin e suo padre, dopo l’uccisione di Giulia, momento di svolta nella consapevolezza che la struttura patriarcale, anche interiorizzata, sostiene i femminicidi.
Ad esempio, Marco Deriu sottolinea il legame fra le varie forme distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità, come l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra di posizione, l’attacco di Hamas e l’invasione/distruzione israeliana di Gaza, i femminicidi. Si interroga su che cosa significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne, come non sentirsi sminuiti o minacciati, ma «fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento, […] anche per il proprio modo di amare, sentire, stare nel mondo» (p.132). E testimonia come nella sua vita la libertà femminile sia libertà per tutti. Massimo Lizzi riflette, a partire dalla propria interiorità e dall’osservazione di comportamenti di altri uomini, su Gli ostacoli interiori ed esteriori della dissociazione maschile dalla violenza, come dice il titolo del suo intervento.
Tra i molti contributi, segnalo l’inedito Domande per il presente in cui Ida Dominijanni argomenta con la sua consueta precisione come la violenza misogina, il virilismo bellico, le politiche di attacco alla libertà femminile «sono sintomatiche non di un rinnovato vigore ma di una destabilizzazione del patriarcato, che reagisce violentemente alla ferita che gli è stata inferta dalla libertà e dall’indipendenza simbolica femminile» (p.167).
È questo un libro indispensabile per donne e uomini in cerca di parole e forme politiche fuori dalle narrazioni e dalle modalità correnti per trovare energia e invenzioni trasformatrici del presente.
Redazione di Via Dogana 3 (a cura di), Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, Quaderni di Via Dogana,Libreria delle donne di Milano, 2024, 173 pagine, 12,00 euro.
(Leggendaria n.167, settembre 2024)
Da Erbacce

Da il manifesto – Sono passati cinquantacinque anni dalla strage di piazza Fontana e questo anniversario sarà il primo che vivremo senza Licia. Lei, peraltro, le ricorrenze le ha sempre vissute male: pensava che fare della memoria una commemorazione non avesse senso, perché ricordare non è mettere una corona di fiori su una lapide ma uno sforzo costante. La sua storia, del resto, è lì a testimoniarlo. Quando alla fine della guerra Licia venne mandata nella Roma liberata dagli Alleati, decise di iscriversi al Pci.
Tornata a Milano, però, una volta il partito le chiese di andare in giro a vendere mimose. Lei disse di no perché riteneva la cosa poco dignitosa, le fu dato della reazionaria e così decise di stracciare la tessera. Era un fatto di coerenza, e il punto lo avrebbe tenuto per tutto il resto della sua vita, anche rifiutando le tante offerte di candidatura che sarebbero arrivate in seguito.
Noi figlie viviamo questo anniversario in maniera più dolorosa del solito, ma non possiamo che portare avanti le battaglie di Pino e Licia. Nostra madre ci ha dato la possibilità di scegliere cosa fare, e noi scegliamo di continuare a ricordare. Non è scontato né facile. Solo due anni fa siamo state costrette a denunciare un ex questore che era andato in televisione a raccontare vecchie menzogne su Pino e su quello che gli è accaduto.
Significa che non c’è niente di acquisito e che bisogna lottare ogni giorno: la memoria è una scelta che va fatta quotidianamente, perché non c’è niente di acquisito e la riscrittura della storia rientra all’interno di una strategia precisa. Non è un caso che molti diritti che davamo per certi adesso li stiamo via via perdendo. Nel 1969 si discuteva per esempio di disarmare le forze di polizia e il dibattito era arrivato a una fase molto avanzata, mentre oggi non si riesce nemmeno a introdurre un elemento di civiltà come quello dei numeri identificativi sulle divise di chi dovrebbe mantenere l’ordine nelle piazze. E tante battaglie che sono state vinte sul fronte della sanità pubblica, della scuola pubblica, delle tutele dei lavoratori e dei diritti di tutti adesso sono tornate in discussione.
Anche qui ritorna un po’ il senso di quella strage e di quella che chiamiamo “strategia della tensione”: fermare un forte movimento sociale e culturale che stava ottenendo consenso e vittorie. Viviamo in un paese in cui la verità è sempre a metà, però: sappiamo dalle sentenze che la manovalanza delle stragi fu di stampo fascista, ma, almeno a livello giudiziario, tante complicità non sono mai venute fuori.
Da qui il nostro impegno per la memoria: come facevano i partigiani, continueremo a incontrare i ragazzi e le ragazze per raccontare loro la nostra parte della storia. In queste circostanze conosciamo tanti giovani che, tra tante difficoltà, lottano per delle istanze sociali e collettive, senza personalismi, con coraggio e impegno. A volte ci chiedono cosa si può fare. La risposta è che bisogna sempre andare avanti a chiedere libertà e giustizia, continuando a coltivare una speranza che serve a tutti quanti.
Da Il Quotidiano del Sud – In un villaggio della Sierra Leone, in Africa, viveva una bambina di undici anni con il padre e tre fratelli più grandi di lei. La madre (forse) era morta. Un giorno il padre decise di lasciare la propria casa con tutta la sua famiglia. Sognavano di andare in Italia, in Europa, ma avrebbero dovuto attraversare il deserto, arrivare in Tunisia e da lì affrontare la traversata di quel mare che ormai faceva paura. Un mare, il Mediterraneo, divenuto un cimitero che accoglie nei suoi abissi migliaia di esseri umani come loro (1.600 nel 2024, 20.894 i riportati indietro con la forza nei lager libici). A ucciderli è la disumanità, crudeltà e ferocia di chi li vuole fermare, respingere, e ostacola in ogni modo chi, invece, vuole soccorrerli e salvarli. Costruisce prigioni, come quella in Albania, per rinchiuderli e respingerli più velocemente in quanto non degni di vivere in un paese europeo. L’Europa tutta, dopo la Shoah, si sta macchiando di crimini contro l’umanità. Nel cuore di quel padre e dei suoi figli il desiderio di partire era più forte della paura del viaggio. Volevano lasciarsi alle spalle miseria, fame, disperazione. Attraversarono a piedi il deserto, arrivarono in Tunisia ma quando venne il momento d’imbarcarsi, dopo aver pagato uno scafista, sul barchino di ferro non c’era posto per tutti. Il padre volle che a partire per primi fossero la figlia e il figlio maggiore, li avrebbero poi raggiunti.
Maria, Maryam, è questo il nome della bambina. Un nome che, in prossimità del Natale, non può non fare pensare a quella giovinetta di Nazareth che, duemila anni fa con il suo sì, rese possibile quell’evento straordinario, che si ripete ogni anno, dell’irrompere di Dio nella storia umana. Maryam parte col fratello che doveva proteggerla. Partono l’8 dicembre. Il mare è agitato, il barchino scivola tra le acque ma ben presto si scatena una tempesta. «Sulla barca di ferro eravamo in 45. Ma a un certo punto il mare – racconta Maryam – è diventato troppo più grande di noi. La barca si è riempita d’acqua ed è andata a fondo. Per un po’ siamo rimasti in tre», lei il fratello e il cugino, «tutti attaccati a quel salvagente», una camera d’aria che il fratello era riuscito ad afferrare prima del naufragio. «Eravamo vicini nel mare. Ci tenevamo. Pregavamo. Ma poi non li ho più visti. Sono rimasta sola». Unica sopravvissuta al naufragio. Non oso nemmeno immaginare cosa abbia provato in quelle ore, forse giorni, notti, albe rimasta da sola aggrappata disperatamente alla camera d’aria. Sola, in preda alla paura, immersa nell’acqua a soffrire il freddo, la fame, la sete e a pregare il suo Dio. Nessuna bambina o bambino, in ogni parte del mondo, dovrebbe mai provare quello che ha provato lei. Non c’è crimine più grande di questo. L’11 dicembre, in una notte senza stelle e senza luna, la bambina sente in lontananza il rumore del motore di una barca. È il veliero Trotamar III di una Ong tedesca. Raccoglie tutte le sue forze e si mette a urlare «Help!», Aiuto. Il suo grido arriva fino al veliero. «È stata una coincidenza incredibile, noi eravamo in mare a cercare altre persone che avevano lanciato Sos. Ma dopo una tempesta durata giorni non c’era speranza. Solo per caso, alle 3,20 del mattino, il nostro equipaggio – racconta il capitano – ha sentito le urla della bambina nell’oscurità e ha avviato immediatamente una manovra di salvataggio». «Incredibile, pazzesco, un miracolo aver sentito la sua voce», dice la vice-capitana, Ina Fien. Maryam è a Lampedusa, «le sue condizioni sono abbastanza buone, a parte il trauma di quello che ha vissuto e che è inimmaginabile». Il Natale di quest’anno avrà il volto della bambina di undici anni salvata dalla strage degli innocenti di Erode del nostro tempo.
Voilà qui je suis.
(Barbara Pravi)
Anche a me è capitato di recente di trovarmi nella parte scomoda di chi viene frainteso e guardato con sospetto. Eravamo con le mie bambine in una libreria e ragionavamo attorno ad una storia illustrata per bambini che avevano tirato fuori dallo scaffale delle letture consigliatissime, del perché il principe era una principessa; dell’aspetto volutamente ambiguo di una delle due principesse, né troppo femminile né troppo maschile, ma piuttosto un po’ maschile e un po’ femminile; del perché fosse poi sempre la solita storia di riscatto di una principessa, anche se stavolta ad aiutarla era un’altra principessa. Della vergogna che nessuno dovrebbe mai farti provare, del destino che non dovrebbe essere una pagina scritta, dell’amore e delle sue multiple forme e del rispetto che dovrebbe informare ogni amore. Soprattutto ragionavamo della confusione, sì, la gran confusione a cui una storia così esponeva loro e tutti gli altri ragazzi. Ma non è stato tutto questo ad attirare l’attenzione della coppia forse omosessuale, forse no che era seduta proprio accanto a noi; una di quelle coincidenze assurde, anche perché erano italiani come noi in un caffè libreria in cui tutti gli altri parlavano francese. Mi sono girata e li ho distinti solo quando ho captato quelle parole sdegnate che provenivano dalla loro direzione: «una di destra». Parole seguite alle mie con cui spiegavo alle ragazze proprio con le parole della filosofa Adriana Cavarero che esiste un dato biologico, che per nascita i sessi sono due, che ci sono casi di intersessualità, eccetera, eccetera. Giusto per fare un po’ di chiarezza nello sguardo sperduto e interrogativo delle bambine. Perché dire queste cose oggi è politicamente scorretto, peggio, è reazionario. Se gli avessi detto che sono piuttosto di sinistra, da una vita, non mi avrebbero creduto; se gli avessi detto che sono femminista, da una vita, mi avrebbero dato della “TERF”, femminista bacchettona e omofoba… meglio rimanere zitta, non dire niente. Del resto a me le etichette, le sovraidentità, gli schieramenti che ti collocano nettamente di qua o di là, non sono mai piaciuti. Situazione grottesca, piccolo fastidio per non aver dato sfogo alla mia impulsività, libro riposto nello scaffale e siamo andate via con una storia di fantasmi. Erano “i morti”, meglio conosciuti nel colonialismo linguistico angloamericano come Halloween.
Nel 2019 la filosofa e attivista americana Judith Butler scriveva tra le altre cose un articolo intitolato “Sex and Gender in Simone de Beauvoir’s Second Sex”. Il saggio di Cavarero e Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) è anche una risposta alla posizione di Butler, distante da quella di Cavarero ma in dialogo serrato. Al rileggere il testo di Butler mi sento di affermare che in fondo il punto di partenza di Butler e Cavarero è lo stesso. Perché quel punto di partenza è insormontabile. Anche per la pensatrice americana, Beauvoir distingue chiaramente il “sesso” femminile, dato incontrovertibile, e quello che poi dopo di lei è stato chiamato “gender”, concetto introdotto dal pensiero anglosassone, dai gender studies, e usato oggi à tort et à travers [a proposito e a sproposito]. Il sesso è il dato anatomico, mentre il gender è il significato culturale che sesso e corpo femminile acquisiscono o piuttosto subiscono nel sistema androcentrico. Butler lo riassume con una espressione felice in cui c’è il corpo e quello che viene dopo: body’s acculturation [‘acculturazione del corpo’]. Il sesso anatomico (femmina/maschio) è il locus, il corpo in cui ci costruiamo come individui e in cui avviene anche la costruzione del genere che è un processo costante, discontinuo, casuale e volitivo di appropriazione, riappropriazione, interpretazione e reinterpretazione del nostro corpo e delle possibilità culturali (spesso limitanti, veri e propri tabù e restrizioni) che riceviamo. Il femminile, la femminilità (vergine, moglie, madre, ma con corpo ammiccante e desiderabile, puttana, traditrice, ecc.) è una manipolazione culturale del nostro corpo di donna; non esiste un comportamento “naturalmente” femminile (debole, instabile, bisognosa di protezione, ecc). Being female and being a woman are two different sorts of things1, scrive Butler. Come tale il genere o identità sessuale è innaturale, acquisito, immaginato, percepito (all gender is by definition unnatural2). Possiamo anche concedere a Butler che per divenire un certo genere non è necessario essere di un certo sesso.
Butler scrive: one is one’s body from the start, end only thereafter becomes one’s gender3! La stessa Butler scrive nero su bianco che the masculine pursuit of disembodiment is necessarily deceived because the body can never really be denied4! Il corpo sessuato sta lì, dall’inizio, anche per Butler. L’anatomia è un limite (o piuttosto una possibilità), una restrizione ma è anche il punto di partenza, inevitabile, semplice e necessario. Subito dopo però Butler si mangia la coda e continuare dicendo che questo punto di partenza sarebbe fittizio perché è anch’esso il frutto di quella attività volitiva costante di crearci e generarci, rinnovarci incessantemente. Né uovo né gallina.
Il sé è un’unità fragile che si proietta e desidera incessantemente ma a un certo punto di quello che è un difficile processo di accettazione bisogna però anche scegliere: quello che siamo sarà anche la somma degli atti che abbiamo compiuto. Sarà come ogni narrazione, anche la più “disordinata”: qualcosa di compatto. Che lo vogliamo oppure no, il divenire, la vita implica una progressione nelle scelte e nei ripensamenti, una sintesi, il capitolo successivo, perché il dinamismo continuo implica anche dispersione e instabilità; perché se stessimo a compiere sempre la stessa scelta rimarremmo impantanati, fermi nella coazione a ripetere sempre la scelta del nostro genere, della nostra identità sessuale (altro che fluidità!). Quanto possiamo divenire nella costruzione della nostra identità come persona sessuata? Forse è questa la domanda. Ma i limiti sono fuori moda.
Per Cavarero il sé alla nascita è un’unicità incarnata dunque sessuata, assolutamente irripetibile: l’insostituibile che permane nel tempo («ogni essere umano è chi nacque e vive finché muore») piuttosto che la molteplicità dei nostri frammenti. L’identità che si costruisce sul chi è anche desiderio e promessa. E la parola porta e veicola il desiderio di identità e di unità. A differenza della visione del post-strutturalismo e del post-femminismo in cui l’identità è una chimera, si confonde e si perde nel linguaggio, non esiste senza il linguaggio, un linguaggio che sta finendo per censurare piuttosto che portare il nostro desiderio di unicità.
Poi, sappiamo, Butler (e con lei il femminismo post-strutturalista) compiono un salto logico da quella premessa che è l’interpretazione legittima dell’affermazione di Beauvoir ad una conclusione che resta la legittima ipotesi di Butler. E la dislocazione di genere (quando il genere non coincide con il sesso anatomico, in caso di disforia) diventa una specie di regola, di percorso necessario per ognuno di noi, per ognuna di noi (In these moments of gender dislocation in which we realize that it is hardly necessary that we be the genders we have become, we confront the burden of choice intrinsic to living as a man or as a woman or some other gender identity, a freedom made burdensome trough social constraints5).
Beauvoir non affronta il problema del genere che vogliamo divenire (in uno spettro fluido di possibilità non binarie) in caso di “gender dislocation”. Ma solo quello essenziale per il femminismo di allora e di oggi dell’alienazione e frustrazione che la femminilità, intesa come quel modo di essere donna confezionato dalla cultura patriarcale, impone alle donne. A lei interessa che le donne possano trascendere non il loro corpo sessuato, ma la lettura che di quel corpo è stata data dal patriarcato come l’altro, come il secondo sesso, come quel corpo “naturalmente” limitato e contingente. Che l’anatomia possa non essere un limite alle possibilità del genere, che il corpo non sia un fenomeno naturale, ma solo occasionale, che il corpo puro e semplice non potrà mai essere trovato, è solo l’ipotesi di Butler, non di Beauvoir. Beauvoir si muove nell’idea che i sessi sono due e in nessun momento suggerisce la possibilità di altri generi, oltre al maschile e femminile.
Cavarero e Guaraldo restituiscono al dato anatomico il suo peso, la sua realtà e necessità. Nulla toglie che dopo il dato anatomico (due sessi, uno femminile e uno maschile, oltre ai casi di intersessualità e transessualità), il corpo femminile o maschile diventino anche il luogo della costruzione del genere e delle altre identità attraverso cui il sé (il “chi”) transita (facendosi “che cosa”). In fondo Cavarero già sosteneva nel suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che siamo identità narrabili, quindi interpretabili, relazionali, quindi esposte allo sguardo altrui e al racconto altrui, perciò sempre diverse, costantemente dislocate. L’unità della nostra identità non è una realtà sostanziale ma appartiene solo alla sfera del desiderio. Eppure, seguendo il pensiero assolutamente originale di Hannah Arendt, siamo «questo e non altro». Laddove Butler attribuisce una varietà incommensurabile al fittizio essere un genere e insiste sul dinamismo nel campo delle infinite interpretazioni culturali, Beauvoir vedeva invece proprio nell’interpretazione culturale dell’essere donna una specie di prigione, fissa, bloccata, confinata in una sola interpretazione. Quello che diventiamo, che diventa la donna, è proprio ciò che la limita quando quella costruzione identitaria passa attraverso il colino della cultura patriarcale e fallologocentrica.
In “Donna si nasce” c’è un grande desiderio di riportare il femminismo a casa, in una sua dimensione, di ridare a questo femminismo, inglobato quasi dal movimento LGBTQ+ e che questa dispersività e l’aggressività del transfemminismo sembrano rendere “obsoleto”, una sua autonomia, un suo senso proprio. Oggi ancora più necessario.
Ma soprattutto c’è un gesto, sicuramente filosofico, che è forse ancora più importante della tesi portata avanti dalle autrici. Cavarero e Guaraldo si rivolgono alle lettrici e identificano quella lettrice con: tu ragazza dei nostri giorni. Non è un vezzo stilistico, un trucco o un artificio. Ma il gesto filosofico e politico del dialogo. Un capitolo ulteriore di quel percorso filosofico che passa per Tu che mi guardi, tu che mi racconti, di una teoria empatica. Quell’idea forte di reciprocità secondo la quale il sé sarà narrato dall’altro, quell’altra necessaria. In cui l’io (che è quasi più individualista e onnipotente che nell’etica androcentrica, sganciato dalla natura, che tutto può fare e rifare) si aprirà finalmente al tu.
“Tu ragazza” è un gesto potente di responsabilità, che smette di fingere che le cose siano risolte (tanto per dirne una, la storia di Gisèle Pelicot è dei nostri giorni). “Tu ragazza” si rivolge alle nostre figlie. Per tutte le volte in cui tua figlia, i tuoi figli sono trascinati nel “gioco” dei ruoli, per tutte le volte in cui hanno visto la loro madre mal sopportare un retaggio di autorità e paternalismo. Per tutte le volte in cui l’hanno vista perdere il terreno sotto i piedi. Per tutte le volte in cui quella ragazza si identificherà con sua madre. Per tutte le volte in cui sarà esposta a messaggi contraddittori e spesso superficiali sul suo corpo.
Tu ragazza non omologarti, sii politicamente scorretta. Tu l’unica capace di un rovesciamento radicale di prospettiva, oltre la cultura e la controcultura, oltre il bianco e il nero. Tu, smarginati!
1«Essere una femmina ed essere una donna sono due cose diverse.»
2«Tutti i generi sono innaturali per definizione.»
3«Una all’inizio è il proprio corpo, solo dopo diventa il proprio genere.»
4La ricerca maschile i disincarnazione viene necessariamente delusa perché il corpo non può mai essere veramente negato.»
5«In quei momenti di “dislocazione” in cui realizziamo che difficilmente ci serve essere il genere che siamo diventati, ci confrontiamo con il peso della scelta intrinseco al vivere come uomo o come donna o come qualsiasi altra identità di genere; una libertà resa gravosa dai vincoli sociali.»
Da Rivista Studio
Ho approfondito davvero l’affaire Leonardo Caffo soltanto qualche giorno fa, quando è stata emessa la sentenza di condanna di primo grado a quattro anni per lesioni alla sua ex compagna. Non per entrare nella faccenda da amante del torbido, ma perché volevo capire meglio la reazione che io stessa avevo avuto di fronte alla notizia.
Dopo aver letto qualche breve articolo che riportava i fatti, sono incappata in alcune frasi tratte dalle deposizioni della ex riguardo i maltrattamenti ricevuti, di carattere verbale e fisico. Tralasciando la seconda tipologia – non per sminuirla, al contrario: un maltrattamento fisico come un dito rotto o delle percosse sono autoevidenti e per questo condannate immediatamente da tutti – la mia riflessione si è concentrata soprattutto sulle violenze verbali. «Devi morire», «Sei un’idiota, un’incapace», insulti a lei, alla famiglia, agli amici. Leggendole, la reazione che ho avuto è stata qualcosa del tipo: vabbè, può succedere quando si litiga. Dopo un attimo, mi sono soffermata su questa mia reazione. Cosa significa “succede”? Significa che per me tutto questo è lecito in determinati contesti? Che non è violenza? Che augurare la morte, essere sviliti in quello che si è, si fa, le relazioni che si hanno, può essere considerato normale, ogni tanto? Mi sono resa conto che sì, la mia prima reazione intendeva dire questo. Che stavo, parzialmente, giustificando l’accaduto. Come me, molte altre persone avranno pensato la stessa cosa. Poi mi sono resa conto sminuivo la gravità della violenza perché, per un certo periodo della mia vita, la ho sminuita mentre la subivo.
È successo non molti anni fa. Accettavo che quando si litigava volassero parole pesanti, che il modo in cui conducevo la mia vita diventasse un’accusa, che mi venissero rimproverate le mie amicizie, cosa e come postavo sui social. Ho sminuito l’essere colpevolizzata se alcuni comportamenti non mi andavano bene e la mia reazione a tutto questo diventava poi un motivo di senso di colpa e di denigrazione da parte sua. Ho accettato che dopo un litigio il mio desiderio di allontanarmi venisse frustrato, che ci si avvicinasse di nuovo perché aveva capito, sarebbe stato tutto diverso e dopotutto lo era già: non lo vedevo come era mogio e accorato nel dirmelo?
Quando ho letto la lista delle accuse a Leonardo Caffo mi sono ricordata di quanto è facile entrare in un vortice di debolezza e di risposta anticipata, nel tentativo di evitare tutte quelle situazioni che potrebbero portare a parole di quel tipo, a situazioni di quel tipo. E di quanto, una volta entrati nel vortice, sia difficile uscirne. Anche se ti rendi conto che lo stai vivendo, che stai mettendo in atto un meccanismo di difesa che però non equivale ad andarsene, ma di base ad accettare che le nuove regole del gioco siano quelle, anche se la prima volta che ti vengono presentate sembrano da subito assurde e fuori fuoco rispetto a come sei, a come ti definiresti, a come hai sempre pensato di essere. Credo di essere una persona piuttosto solida, femminista, razionale, con dei valori e una discreta dose di autostima. Tutte caratteristiche che avevo sempre pensato mi avrebbero messo al riparo da situazioni come quelle di cui si legge sui giornali, che qualche conoscente ti racconta. Quelle emerse nella vicenda di Leonardo Caffo.
Non è così. Non sono sempre sufficienti, e l’amore e le relazioni amorose non sono sempre un terreno di parità e comprensione, di raziocinio dove se le regole comuni non sono condivise allora salta il banco. Le regole invece si inventano, si modulano, si adattano di volta in volta. E ogni giorno si piegano e piegano le persone che le accettano.
Al di là dell’opinione generalizzata su questi temi, sulle prese di posizione aprioristiche, al di là di un certo malsano silenzio attorno alla questione di Leonardo Caffo e anche alla sua difesa in occasione della sua presenza a Più Libri Più Liberi (quest’anno dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin), dove l’amica e direttrice del festival Chiara Valerio ha comunque deciso di stare dalla sua parte, quello che mi ha fatto riflettere è che su questi temi troppo spesso la reazione è quella di una scrollata di spalle, di un ridimensionamento del danno, di un ridimensionamento della colpa e della responsabilità del colpevole. Deriva dal patriarcato o, se vogliamo dirla meglio, dal modo in cui per secoli si sono accettate consuetudini e modi di ragionare, ma anche dalla fatica di separare i fatti da chi quei fatti li compie.
Un nostro amico non lo potrebbe mai fare. Una persona acculturata, un filosofo, non lo potrebbe mai fare. Una persona con un’aria rispettabile, bonaria, non lo potrebbe mai fare. E invece possono farlo in tanti, possono farlo tutti. Tanti, tutti, possono ritrovarsi nella situazione di accettarlo. E quando lo si fa non si torna più indietro. Ieri sera, mentre parlavo della vicenda Caffo, ho realizzato che non sono più quella di prima. Mi metto in guardia, certo, so bene cosa significano le vicende che ho vissuto e quanto fossero tossiche, come si dice. Lo sapevo anche mentre le vivevo. Ma sono entrate dentro di me, hanno provocato dei cambiamenti impercettibili: oggi, anche se sto con una persona completamente diversa e so di non voler più accettare certi comportamenti, capita che la prima reazione che sento sia quella di una colpa. Voglio prevenire, percepisco già il timore delle conseguenze. Come un virus che, anche se si debella, in qualche modo ha modificato l’organismo in maniera irreparabile. Come una violenza.
A queste cose, quando accade quello che è successo tra Caffo e la sua ex compagna, non si pensa granché, si è troppo occupati ad approfondire il gossip, a schierarsi da una parte o dall’altra, a interpretare tutto secondo l’etica corrente. Per alcuni può essere quella aprioristica del «sorella io ti credo», per altri quella altrettanto aprioristica dell’“Ormai non si può più dire niente”. Per qualcuno, “quando capisci che uno è così te ne devi andare”; “sei troppo debole”; “se ci rimani significa che ti sta bene”. Nel frattempo però si perde il filo del discorso.
Approfondendo la vicenda di Leonardo Caffo ho sentito un ulteriore strato di tristezza, che non nasce soltanto dal realizzare l’incoerenza di chi, avendo sempre difeso le vittime – le donne in questo caso – non l’ha fatto soltanto per questa volta (come ha anche scritto Simonetta Sciandivasci su La Stampa). Viene piuttosto dall’arroganza serpeggiante nel comportamento di Caffo, dall’irrisione delle accuse e di chi lo accusa. Una specie di martirio portato avanti come esempio, lo stoico capro espiatorio che con il suo corpo risponde della sete di sangue di un supposto clima da caccia alle streghe («Ne hanno colpito uno per educarne mille», ha dichiarato quando è stata emessa la sentenza). Solo chi custodisce la verità, il filosofo, può sopportare tutto questo perché può andare oltre le mere questioni umane, anzi da queste può trarre linfa per il suo lavoro, per poter elaborare più alte e universali teorie perché perfetto conoscitore delle bassezze umane. Può «leggere Spinoza» mentre fuori si scatena la shitstorm, come dice nel passaggio di un podcast dove è stato ospite sette mesi fa. La sua esperienza vissuta al limite per poterla rendere testimonianza. La vita come un romanzo russo.
Leonardo Caffo è stato condannato in primo grado e ha due altri gradi di giudizio per cercare di dimostrare la sua innocenza. Nel frattempo e a prescindere dall’esito, potremmo utilizzare questo tempo per imparare a ragionare meno per assiomi, soprattutto se basta un conoscente per spazzarli via, soprattutto se chiunque, anche quelli che credono di esserne immuni, possono fare esperienza di violenza e rimanerne toccati per sempre.
Da il manifesto
«Più in là sugli scogli ricoperti di alghe che con la bassa marea sembravano animali dal pelo ispido che s’erano avvicinati all’acqua per bere, la luce del sole pareva facesse le piroette come una moneta d’argento buttata nelle diverse piccole pozze»: il mare ondeggia pigro mentre leggiamo righe di puro incanto, una scrittura che palpita tutta di una lingua lieve e precisa ad illuminare la natura di parole trasparenti.
È Katherine Mansfield, straordinaria scrittrice, la cui parabola intensa e troppo rapida ha occupato la scena del primo Novecento con l’inquietudine della sua enigmatica figura e con i suoi racconti, brevi e brevissimi, lievi e tragici, musicali e visivi, festa completa di ogni minima sensazione, di cui arriva ora in libreria una nuova raccolta, dal titolo perfetto: Pura felicità (Feltrinelli, pp. 336, euro 14). A restituire quel bliss inglese che è diverso da felicità e si fa parola di suono e colore: stringe a sé tutti i sensi, come raccontano in una loro nota Sara De Simone, che cura e introduce il libro, e Nadia Fusini che con lei traduce e ci accompagna nella lettura con un saggio che svela, in un mirabile arco, il cuore mitico e antico che questi racconti percorrono, da Freud fin dentro la modernità. Scrivere è «un’avventura dell’anima» dice KM. Ma lo è anche leggere, tradurre, commentare, e ne abbiamo prova nel lavoro appassionato e appassionante che ha legato di desideri due donne e la loro entusiasta editor, Anita Pietra, «in una fredda mattina d’autunno di due anni fa», intorno a lei, la scrittrice «nomade», quarta necessaria presenza d’amore per la scrittura del mondo, la sua rappresentazione artistica. «Tre donne intorno al cor mi son venute» ha cantato il poeta e non si può che essere felici che ora si tratti di tutte donne.
Nuove traduzioni di un classico, dunque, che non dimentica la qualità di altre traduzioni, come quella di Franca Cavagnoli, ma che ora propone nel suo indice una leggibilità che, saltando l’abituale cronologia, si dà subito come forma dell’interpretazione, guida nel labirinto affollato di «evocazioni visive» di una «incomparabile bambina», una «scrittrice eccezionalmente istintiva, fiorita» secondo Anna Banti, «una mente terribilmente ricettiva», secondo Virginia Woolf. La raccolta ora in libreria accoglie e va ben oltre queste parole, per i lunghi e diversi studi che entrambe le nostre autrici hanno alle spalle (per Fusini ricordo La figlia del sole: vita ardente di Katherine Mansfield, e Viaggio in Urewera, per De Simone la curatela di La vita della vita. Diari 1903-1923 e Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia) e permettono loro di presentare diversamente questa «prosa speciale», scarna e asciutta.
I racconti sono qui raggruppati in quattro sezioni, Il romanzo familiare; Amanti, amiche, sorelle; Donne sole; La vita, la morte: non «sovrastrutture tematiche» «ma tracce», che però indicano uno scenario in cui possiamo vedere meglio, o vedere differentemente. Sara De Simone nella sua introduzione ci fa conoscere l’essenziale della vita di KM, ne tratteggia un ritratto intenso, mai banale, ne disegna il coraggio nella ricerca della «vita nella vita», ci insegna a decifrare una poetica che vuole creare e non «rappresentare», fino al punto che «scrivere la cosa» sia «diventare la cosa», questo il «fremito di libertà» che KM assapora guardando i postimpressionisti, in particolare Van Gogh, e che la porterà a scrivere non del «bambino che giocava, ma la sua mano roteante nell’aria della sera», non di un albero, ma del «palpitare degli uccelli dentro la sua chioma». È con queste notazioni fra le dita che possiamo avvicinarci con più chiara consapevolezza a tutte le pagine di questi racconti, che stupiscono non per qualche effetto ricercato ma, al contrario, per quanto naturale appare, di colpo, l’inaspettato.
Nadia Fusini ci accompagna invece, con traduzione sapiente, nella lettura della prima sezione, legando tre racconti (scritti fra il 1917 e il 1922, Preludio, Alla baia e La casa delle bambole) a quel «romanzo familiare» che muove da Freud per dire della «delusione», del «trauma» che ne sono «il cuore», ma dire poi, ed è questa l’essenziale originalità trovata, di come la capacità «di stare nella lingua, di giocare con le parole, di usare la fantasia», rendono sopportabile il dolore, fino ad oltrepassarlo in creazioni meravigliose, che rielaborano la realtà in «mito». Tutto è trasformato in emozione estetica, emozione universale e catartica, è questo il miracolo che si compie nei racconti di KM., per questo ci scuotono e sorprendono e inquietano.
Ora abbiamo dunque due guide per inoltrarci nell’universo di Mansfield e affrontare, ad esempio, la potenza vertiginosa dei suoi finali, in cui precipita sempre il delicato e complesso montaggio di un insieme trasparente di dettagli, invisibili e numerosi, così che questa scrittrice sembra conoscere i segreti più nascosti della realtà, che riesca a bucare in una riga la ragnatela dell’apparenza dentro la quale siamo tutti catturati.
I suoi personaggi sono spesso voce, questo sono spesso le sue donne, ombre leggere ma potenti, «voce fioca dal pozzo profondo» di Linda con Stanley, il marito, o «voce speciale» se parla con la madre, o voce «che le donne usano tra di loro di notte», o ancora «voci calde e amorevoli come se condividessero un segreto» quando non c’è un uomo per casa, o sussurri spaventati, ammutoliti, dalla semplice ombra paterna. Le sue donne sono sguardo che tutto così racconta, come lo sguardo «fisso e scialbo» di Constantia, o quello della bambina Else, che vede «la piccola lampada» prima di sorridere tacendo, e straordinari sono bambine e bambini ogni volta che attraversano la pagina con grazia raramente raggiunta in altre scritture.
Si potrebbero ritagliare intarsi che raccontano di madri che non amano i loro figli, di nonne che lavorano a maglia e insegnano tranquille la vita e la morte a una piccola nipote, Kezia, che le si aggrappa al collo e la bacia «sotto il mento e dietro l’orecchio e a soffiarle sul collo».
Ogni donna da lei creata è differente, non dagli uomini, il che è ovvio, ma dalle tante rappresentazioni che affollano la nostra mente, la occupano, spesso la colonizzano con il già pensato, e KM, sottovoce, come è la sua scrittura, fa vedere quanto altro è reale e vero e bello, per lei che insegue bellezza e verità per vocazione.
Si sente ovunque in questa scrittura veloce, a volte febbrile, un temperamento letterario di raro valore, sempre bruciante, a volte quasi noncurante, come se a guidarlo fosse una stella polare che abita il cielo solo per lei, che lei segue da un margine che non possiamo vedere e che la rende unica. Unica nel creare una natura selvaggia che è solo ricordo di fiori e alberi che non vede più, ma nomina insistente a renderli sempre presenti, come l’eucalipto che appare «immenso: un enorme gigante con i capelli dritti in testa e le braccia spalancate», o nel colorare di rosa un cielo con «grandi masse di nuvole accartocciate» mentre in alto «l’azzurro sbiadiva; diventava oro pallido». Unica nella descrizione della morte per crudeltà di una mosca, che si batte, misera, contro una goccia d’inchiostro, o del gelo che accompagna l’affrettata simpatia di una signora verso il parrucchiere che ha perso la sua bambina, o della crudeltà di classe verso due bambine, le figlie di una lavandaia. Unica a farci intuire quello che della vita, di ciò che è o non è la vita, in un rapido balbettio possono comprendere un fratello e una sorella alla fine di una festa.
Nel non detto, nell’ellissi, KM mostra il meraviglioso nel quotidiano, che sia una festa in giardino, un canarino perfetto compagno di vita, la ritrovata giovinezza nella passione fra due donne, in un movimento incessante che cuce l’essere con il non essere, e travolge una ragazza e i suoi sogni di libertà, o «una donna raggiante, con le labbra frementi, sorridenti, e grandi occhi neri e l’aria di chi è in ascolto, in attesa di qualcosa di… divino che accada… che sapeva sarebbe accaduto… immancabilmente»: pura felicità. Pura e indimenticabile, come ogni pagina di questa maestra del racconto.
Dal Corriere della Sera – Negli Stati Uniti il solo fatto di rimanere incinta o di avere da poco dato alla luce un bambino aumenta del 20% la probabilità di una donna di essere uccisa. Nel caso delle ragazze con meno di 25 anni addirittura lo raddoppia. È un dato impressionante a cui il New York Times dedica un lungo articolo. La causa di questo aumento drastico del rischio di morte legato alla maternità sono i femminicidi, cioè la violenza maschile sulle donne. Nella maggior parte di questi omicidi, infatti, l’assassino è il partner o l’ex partner.
«I decessi per omicidio – scrive il New York Times – vengono solitamente omessi dalle statistiche sulla mortalità materna perché non sono considerati sufficientemente correlati alla gravidanza stessa. Ma l’omicidio non è un’anomalia rara per le donne incinte e post-parto: è una delle principali cause di morte. Questo rende gli omicidi associati alla gravidanza, come vengono chiamati dagli epidemiologi e dai ricercatori sanitari, un vero e proprio problema di salute pubblica». La violenza maschile è la seconda causa di morte per le donne incinte o neo-madri (il primo sono le overdosi da droga) e il rischio aumenta per tutte le donne, ma è particolarmente alto per le madri nere.
«Lo stress e le turbolenze emotive di una gravidanza, soprattutto se inaspettata, possono esacerbare una relazione già violenta. Secondo gli esperti di violenza domestica, l’abuso precede quasi sempre la gravidanza. La violenza domestica è radicata nel potere e nel controllo e la gravidanza è un vincolo che può cambiare la dinamica di una relazione. Una volta che i partner sono legati da un bambino all’orizzonte, i maltrattanti possono sentirsi più impuniti ed esacerbare il loro comportamento. Improvvisamente, non ci sono solo legami emotivi, ma anche legali e finanziari. E altrettanto improvvisamente, per una donna incinta, diventa molto più difficile andarsene» spiega ancora il New York Times, che racconta la storia di una vittima ventenne, Markitha Sinegal, neomamma di due gemelle di nove mesi, uccisa dal padre delle bambine che lei voleva lasciare perché era violento e controllante.
In questo aumento del rischio di femminicidio ci sono alcuni fattori prettamente americani, come la diffusione delle armi da fuoco: circa tre quarti degli omicidi rilevati da questa statistica sono compiuti a colpi di pistola o fucile. È noto che se gli uomini maltrattanti hanno una maggiore disponibilità di armi letali è più probabile che le usino. E questo, a parità di violenza nella relazione di coppia, aumenta il numero di femminicidi. Una delle forme di prevenzione raccomandate dal quotidiano americano è quindi diffondere e applicare meglio le leggi, già presenti in alcuni Stati americani, che permettono di togliere le armi a chi ha precedenti di qualsiasi tipo per violenza domestica o lesioni personali. Un altro strumento di prevenzione consigliato è migliorare le informazioni sulla contraccezione e l’accesso all’aborto per far sì che le donne che non vogliono portare avanti una gravidanza possano scegliere di non farlo (negli ultimi due anni però l’accesso all’aborto è stato fortemente limitato se non eliminato del tutto in molti Stati americani).
Sarebbe importante anche includere nelle visite pre- e post-parto degli screening per la violenza di genere, a cominciare dai cosiddetti test Isa per la valutazione del rischio di femminicidio (si può fare anche online qui) e formare le forze dell’ordine e i medici in modo che sappiano rilevare e segnalare meglio i rischi connessi alla violenza domestica. In Italia in parte si è fatto con alcune sperimentazioni (come il codice rosa negli ospedali), ma dovrebbe diventare un approccio sistematico: la carenza di risorse nei pronto soccorso e nella medicina territoriale non aiuta nemmeno per questo aspetto.
Tra gli strumenti di prevenzione segnalati dal New York Times ce n’è infine uno molto complesso e importante: «Insegnare ai giovani come si presentano le relazioni pericolose. Le bandiere rosse di una relazione che tende all’abuso possono essere difficili da vedere se non si sa cosa cercare. L’apprendimento di ciò che è sano può iniziare in classe con i bambini piccoli». È quello che in Italia sta cercando di fare anche Gino Cecchettin con la Fondazione intitolata a sua figlia Giulia.
In Italia non ci sono dati statistici sul legame tra maternità e rischio femminicidio, ma è noto che le donne vengono uccise soprattutto nell’ambito delle relazioni di coppia. Nel 2023 il tasso delle donne uccise da un partner o un ex partner – sia esso un coniuge, un convivente o un fidanzato o un amante – è stato dello 0,21 per 100mila donne (del tutto simile a quello del 2022, che era stato dello 0,20). È un tasso più basso di quello medio europeo (in Germania per esempio è dello 0,32 per 100 mila) e questo fatto viene spesso usato per dire che in Italia i femminicidi non sono un vero problema. Ma è un uso strumentale dei dati, perché prescinde da un fatto fondamentale: l’Italia ha il tasso di omicidi più basso d’Europa. Per valutare l’incidenza dei femminicidi basta confrontare il tasso delle donne uccise da partner o ex (0,21 ogni 100mila) con quello degli uomini uccisi da un/a partner o ex, che è dello 0,02 ogni 100mila uomini. Dieci volte di meno.
Da Pagine Esteri – Era rimasta solo questa possibilità alle donne afghane per studiare e avere un lavoro: diventare ostetriche o infermiere. Il nuovo decreto del governo de facto dei talebani nei giorni scorsi ha strappato alle ragazze anche quest’ultima speranza. Il divieto ha sospeso tutti i corsi di studio in ostetricia e infermieristica per le donne.
È stato il Ministero della Salute Pubblica afghano tre giorni fa a rilasciare il comunicato che tutti i corsi di formazione in ambito sanitario per le donne sarebbero stati «sospesi in tutto l’Afghanistan fino a nuovo avviso».
Circa 17.000 ragazze studiavano per diplomarsi come ostetriche o infermiere. Erano ormai le uniche studentesse nel Paese. L’emirato talebano ha, infatti, progressivamente escluso le donne dalla vita pubblica e dall’istruzione: una progressiva stretta che nel marzo 2023 aveva chiuso persino le scuole alle bambine oltre l’ottavo grado scolastico.
Era rimasta soltanto un’eccezione che permetteva alle ragazze di continuare a sognare un futuro diverso che non fosse soltanto quello di diventare mogli e madri recluse in casa. Potevano, infatti, ancora frequentare i corsi sanitari di ostetricia e infermieristica. Molte ex studentesse di medicina o aspiranti tali così come molte ragazze iscritte ad altri corsi universitari non più accessibili alle donne si erano spostate tra i banchi delle professioni sanitarie. Solo a loro, oltre che alle bambine non più grandi dei dodici anni, era permesso di studiare. E di andare in ospedale e imparare sul campo il mestiere.
Un mestiere, tra l’altro, necessariamente femminile: in Afghanistan un uomo non può visitare una donna in assenza di un tutore e le sale parto sono bandite al personale maschile. Il lavoro delle ostetriche è un’esclusiva delle donne. Era, pare, perché se non potranno formarsi nuove ostetriche questa figura rischierà di scomparire dalle corsie dei già pochi e carenti ospedali afghani.
Il decreto non colpisce “soltanto” le studentesse. L’Afghanistan detiene uno dei più alti tassi di mortalità da parto al mondo: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 620 donne afghane su 100.000 muoiono nel tentativo di dare alla luce un bambino. Un numero altissimo che dimostra quanto fosse necessario migliorare proprio l’assistenza alla gravidanza e al parto, piuttosto che infliggervi un ulteriore danno tanto miope e violento. Proprio pochi mesi fa l’Agenzia Onu per la salute riproduttiva (Unfpa) dichiarava «l’urgente bisogno di altre 18.000 ostetriche qualificate per soddisfare la domanda di assistenza al parto» in Afghanistan. Migliaia di studentesse sono, invece, adesso rispedite in casa, e la vita di migliaia di donne e neonati viene messa ulteriormente a repentaglio.
La Missione Onu di Assistenza all’Afghanistan (UNAMA) ha osservato come tale restrizione «alla fine avrà un impatto dannoso sul sistema sanitario in Afghanistan e sullo sviluppo del Paese». Anche Richard Bennett, osservatore speciale Onu sui diritti umani nel Paese, ha commentato che un decreto del genere «avrà un impatto devastante sull’intera popolazione».
Da il manifesto – Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti».
E poi, c’è chi è già passato dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato.
Per sincerarsene, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre.
Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ª Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre».
Anche sul fronte russo la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20a Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”».
Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me».
È uno scenario che stride non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa.
Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ª Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ª Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il trentatreenne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli.
Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta.
Da l’Unità – Un’iniziativa, riscoperta dal romanzo di Viola Ardone, che portò migliaia di bambini dalle zone più colpite dalla guerra a famiglie più al sicuro. «Non esiste Nord e Sud, esiste l’Italia», recitava uno degli slogan.
Come se fosse un Erasmus per bambini, un progetto di scambio e solidarietà per riparare alla devastazione della II Guerra Mondiale. Li chiamavano “treni della felicità” quei vagoni che portarono migliaia di bambini dalle zone più colpite dalle bombe a famiglie che dal conflitto erano state meno danneggiate. Un’esperienza riscoperta grazie al romanzo di Viola Ardone, Il treno dei bambini, un grande successo tradotto in decine di lingue diventato un film presentato al Festival del Cinema di Roma in uscita il 4 dicembre sulla piattaforma Netflix, diretto dalla regista Cristina Comencini e interpretato da Serena Rossi, Christian Cervone, Barbara Ronchi e Stefano Accorsi.
Il progetto dei “treni della felicità” fu assemblato dall’Unione Donne Italiane (Udi) e dal Partito Comunista Italiano, partì alla fine della II Guerra Mondiale e andò avanti fino al 1952. Dalle città più colpite come Milano, Napoli o Roma, o da zone come Puglia, Sicilia, Polesine e Cassinate, bambini di famiglie poco abbienti o molto colpite dalla guerra e dalle sue conseguenze venivano assegnate ad altre famiglie in minore difficoltà, presso le quali restavano per il tempo di un anno scolastico o più. A offrire ospitalità non erano soltanto militanti del Pci o famiglie abbienti, spesso erano famiglie di contadini che figli già ne avevano. Di solito le destinazioni erano Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Liguria.
Il progetto di Pci e Udi: l’idea di Teresa Noce
Ideatrice del progetto fu Teresa Noce, partigiana che aveva preso parte alla Guerra Civile in Spagna con il nome di battaglia Estella, imprigionata dai nazisti, tra le fondatrici dell’Unione Donne Italiane, organizzazione nata a Napoli di donne antifasciste che avevano partecipato alla Resistenza con l’obiettivo di inserire i diritti delle donne nella Costituzione Italiana. Il progetto partì con le famiglie di “compagni” tra Bologna, Modena e Parma. Si trattava di sfamare, curare, vaccinare, pulire, educare, formare, istruire migliaia di bambini in condizioni di disagio. Molti erano figli di operai e contadini arrestati nelle manifestazioni represse con violenza dal ministro dell’Interno Scelba all’inizio degli anni ’50.
Se a partire erano fratelli, poteva capitare che venissero divisi tra più famiglie: un altro shock dopo l’iniziale separazione dalle famiglie di origine che poteva essere anche drammatico. «Non esiste Nord e Sud, esiste l’Italia», recitava uno degli slogan dell’iniziativa. Il divario era già evidente e cominciava ad allargarsi. Se decenni prima l’Italia si era unita nelle trincee, con i soldati fianco a fianco in guerra, quelli della Sicilia come quelli della Lombardia, i “treni della felicità” unirono l’Italia nella solidarietà.
Non mancava la propaganda dei partiti di destra o della Democrazia Cristiana che spaventava piccoli e grandi con la puntuale e immancabile leggenda dei comunisti che mangiano i bambini o con la minaccia della spedizione dritti dritti in Unione Sovietica. Quando arrivavano a destinazione e sentivano parlare nei dialetti del nord, alcuni davvero pensavano di essere arrivati a Mosca o in Siberia. E si rifiutavano perfino di scendere dal treno. Alcuni di quei bambini, orfani della loro famiglia, arrivati con i treni della felicità non tornarono mai più indietro. Altri tornarono per continuare il percorso scolastico.
Ardone ha preso questa esperienza dimenticata ed emozionante della storia della Repubblica e ne ha fatto un romanzo di grande successo, tradotto in decine di Paesi. Il protagonista è Amerigo, il bambino che parte da Napoli, lascia la madre nei Quartieri Spagnoli per il Nord, è lui a dare il punto di vista alla narrazione, l’io narrante. Circa 20mila bambini partirono da Napoli.
Pubblicato nel 2019 da Einaudi, 200mila copie vendute, tradotto in 35 lingue, Il treno dei bambini è stato un successo enorme che ha riportato alla luce un capitolo bellissimo, struggente ed emozionante, oltre che dimenticato, della storia italiana del dopoguerra. «A volte dobbiamo rinunciare a tutto, persino all’amore di una madre, per scoprire il nostro destino. Nessun romanzo lo aveva mai raccontato con tanto ostinato candore», recitava la quarta di copertina del libro alla sua uscita, un caso editoriale.
(unita.it 4 dicembre 2024, con il titolo: Il treno dei bambini: che cos’erano i “treni della felicità”, la storia vera del film, l’idea di Pci e Unione delle Donne nel dopoguerra)
Da Fanpage – La giustizia, scriveva la teorica femminista statunitense bell hooks, non è né violenza né retribuzione, ma integrità: è «avere un universo morale, non è sapere soltanto cos’è giusto o sbagliato, ma mettere le cose in prospettiva, soppesarle». Questo universo morale, nel luogo in cui la giustizia si manifesta nella sua forma più istituzionale, viene ridotto a due possibilità: una assoluzione o una condanna. Ma spesso nessuna di queste due possibilità riesce a farci sentire che “giustizia è stata fatta”.
Filippo Turetta è stato condannato in primo grado all’ergastolo per omicidio volontario per aver ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin l’11 novembre del 2023. Anche se gli è stato dato il massimo della pena, i giudici hanno riconosciuto l’aggravante della premeditazione ma non quelle della crudeltà e degli atti persecutori. Questo nonostante la perizia abbia stabilito che Cecchettin è stata uccisa con 75 coltellate e nonostante in aula siano stati letti i messaggi che Turetta le inviava in continuazione, in cui pretendeva di essere aggiornato su ogni momento della sua vita.
Ma non è tanto il mancato riconoscimento delle aggravanti, che è stato definito dall’avvocato di parte civile per Elena Cecchettin “un passo indietro”, a non riuscire a dare alla conclusione del processo un vero senso di giustizia, bensì il concetto che ha espresso Gino Cecchettin dopo la lettura della sentenza: «Abbiamo perso tutti come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani, la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa». Parole che ricordano quelle pronunciate solo pochi giorni fa da Chiara, la sorella di Giulia Tramontano, uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello, anche lui condannato all’ergastolo il 25 novembre scorso: «Nessuna donna ha vinto in quest’aula: oggi è arrivato l’ergastolo, ma dopo la morte».
Come ha ricordato in tante occasioni lo stesso Gino, la violenza di genere non riguarda solo due individui, chi ha ucciso e chi è stata uccisa. Tante altre cose sarebbero potute succedere senza che un tribunale dovesse arrivare a pronunciare una sentenza per omicidio: una richiesta di aiuto, un percorso terapeutico, una denuncia, magari un corso di educazione affettiva. Queste mancanze sono responsabilità di tutta la società, dalla famiglia alla scuola, passando per la cultura in cui tutti e tutte siamo immersi e il fallimento non può che essere collettivo. Il padre di Giulia lo ha riconosciuto subito, tanto da dedicarvi l’orazione al funerale della figlia: anziché chiedere una pena esemplare, anziché attribuire colpe, ha chiesto cosa possiamo fare come società per essere migliori.
E proprio perché la violenza di genere e il femminicidio in particolare sono così radicati in un tessuto culturale che normalizza, se non addirittura celebra, la cultura del dominio e della violenza, è logico che non può essere la cultura del dominio e della violenza a porvi rimedio. La punizione severa, allontanando “il mostro” dalla collettività, ci può dare l’illusione che il problema sia risolto, anche se evidentemente non è così: dal 2009 a oggi le pene previste per i reati di genere, dai maltrattamenti in famiglia all’introduzione dell’aggravante del femminicidio (inteso come omicidio di una persona con cui si ha o si è avuta una relazione affettiva, indipendentemente dal genere), sono state aumentate più volte. Da quando è stato introdotto il reato di stalking si è passati dalle 169 condanne del 2009 alle 2.402 del 2018, sebbene ci siano stati ben quattro interventi del legislatore per incrementare le pene previste per questo reato. Secondo l’Istat sono 2 milioni 229mila le donne ad aver subito atti persecutori almeno una volta nella vita da un uomo, di cui 2 milioni 151mila da parte di un ex partner.
Il processo ha dimostrato che Turetta aveva ben chiaro cosa stava facendo, così come aveva ben chiaro che sarebbe stato punito severamente se scoperto, tanto da aver architettato in modo dettagliato un piano di fuga. La prospettiva di passare il resto della sua vita in carcere non lo ha fatto desistere dall’uccidere Giulia Cecchettin; lo ha soltanto spronato a scappare in Germania.
Non sarà questa sentenza, di cui non conosciamo ancora le motivazioni e che non sappiamo ancora se verrà impugnata, a fare giustizia. Sarà fatta giustizia solo quando sarà ricucito quell’universo morale di cui parlava bell hooks: quando sapremo non solo che il femminicidio è sbagliato (lo sappiamo già), ma quando non dovremo più arrivare a pronunciare una sentenza simile. E per farlo, come ha detto Gino, abbiamo bisogno di prevenzione, non di pene.
Da il manifesto – Kate Crawford è una studiosa di tecnologia, dotata della rara capacità di elaborare anche artisticamente la sua ricerca critica sull’Intelligenza artificiale (IA). È Research Professor alla Scuola per la comunicazione e il giornalismo Annenberg di Los Angeles, e Senior Principal Researcher a Microsoft. Ha vinto di recente il prestigioso premio S+T+ Arts Prize 2024 per un lavoro in collaborazione con Vladan Joler: Calculating Empires. Il riconoscimento è per i lavori artistici che coinvolgano anche scienza e tecnologia. Il progetto sarà esposto in otto nuove destinazioni, dopo essere già stato esibito a Milano (Fondazione Prada), a Berlino e al festival Ars Electronica di Linz in Austria.
Il centro dell’opera è una dark room, che consente di entrare in una black box letterale, un ambiente immersivo fatto di mappe concettuali. Una analizza sistemi di comunicazione e computazione, mentre l’altra affronta i meccanismi di controllo e di classificazione. Gli imperi di cui si descrivono i tentacoli si estendono dall’occidente per più di cinque secoli.
Il processo di potere integra colonialismo, rivoluzione scientifica e industrializzazione, come facce composite di un unico prisma, che include gli strumenti di comunicazione e calcolo delle tecnologie digitali contemporanee, inserendole in un flusso ininterrotto.
Crawford è una delle più importanti voci critiche internazionali sull’IA. Ha studiato l’insieme dei materiali necessari per le infrastrutture tecnologiche, ma anche le strategie nel coniugare ricerca e politica dell’IA. È un’attivista generosa, impegnata a concepire progetti con l’obiettivo di difendere la società e la democrazia dagli attacchi dei sistemi di controllo, sorveglianza e predizione dell’industria dell’IA della Silicon Valley. L’abbiamo incontrata per discutere del rapporto tra ricerca scientifica e artistica.
Ci descriverebbe la genesi di questo particolare progetto?
Ho interagito con Vladan per buona parte del decennio. La nostra ricerca è cominciata con il progetto, Anatomy of an AI system, nel quale abbiamo analizzato le dipendenze di Amazon Echo – un singolo sistema di IA – dai materiali di tutto il pianeta. Un’analisi spaziale delle connessioni concrete dell’IA. Calculating Empires è invece uno studio sul tempo. È stato uno dei progetti più difficili ai quali ho partecipato. È enorme e ci sono voluti quattro anni per gli approfondimenti storici necessari per mappare il modo in cui gli imperi hanno usato la tecnologia per centralizzare il potere negli ultimi cinque secoli.
Da studiosa e artista come sceglie i progetti da realizzare nei diversi ambiti? Ha pesato il desiderio di attivare il pubblico generale attraverso la vostra cartografia critica?
Il lavoro artistico è sempre interconnesso con la ricerca accademica. Scegliamo gli esiti in base all’opportunità. Si tratta di modi diversi per contestualizzare meglio le trasformazioni che stiamo attraversando. Calculating Empires funzionava meglio come progetto visuale, concepito per far partecipare le persone con le proprie storie. In mostra sono presenti dei grandi libri scritti a mano e diamo alle persone le penne per contribuire con la propria visione e la propria prospettiva critica, perché la immaginiamo come una storia aperta e collettiva. Crediamo sia importante che questi dibattiti avvengano in luoghi pubblici e possano permeare la cultura e l’educazione.
Considerato che il vostro lavoro è una critica costante all’oggettività e all’universalismo delle categorie, come avete selezionato quelle della vostra storia degli imperi?
La classificazione è un metodo per introdurre un ordine e una struttura nel mondo, spesso a favore di un sistema di potere. Noi abbiamo scelto delle categorie per riflettere con le persone su quanto i sistemi tecnologici siano interconnessi a quelli sociali. Nella mappa abbiamo rappresentato i sistemi di comunicazione, quelli di calcolo, di classificazione e di controllo. Abbiamo cercato di evidenziare come tecnologia e potere siano interdipendenti in questi quattro domini, per raccontare una storia alternativa.
Cosa vi ha ispirato nel concepire un progetto così complesso, in evoluzione continua?
L’ispirazione è nata dalla frustrazione su come l’intelligenza artificiale venga discussa al momento: la falsa rappresentazione che viviamo una fase unica della storia, che questa tecnologia non somigli a niente di ciò che è stato inventato, ecc. Ma non è così e lo possiamo mostrare attraverso la descrizione dello sforzo materiale necessario per realizzare il sistema tecnologico, le infrastrutture industriali emergenti, e del potere implicato nella sua realizzazione. Lo sguardo più ampio ci ha permesso di uscire dalla spinta presentista nella quale viviamo rispetto alla tecnologia, che inibisce una visione più profonda di storia e società.
Durante la realizzazione di Calculating Empires è esplosa l’eccitazione per l’IA generativa. Come avete vissuto questi annunci che investivano il futuro mentre concepivate la storia dei sistemi tecnologici di calcolo e controllo? È servito a contrastare la distrazione?
Ci ha aiutato a mantenere la calma, invece di correre dietro alle promesse sulla realizzazione a breve dell’intelligenza artificiale generale e ci ha consentito di concentrarci sugli aspetti storici di queste tecnologie. Siamo bombardati negli ultimi due anni dagli annunci di successi, e questo ci fa distrarre. Siamo attratti dai nuovi prodotti, dimenticandoci del quadro generale. Non riflettiamo su quali siano gli effetti a lungo termine di esternalizzare le nostre abilità creative, la scrittura, il discernimento. Come ci stiamo trasformando? Concentrarci sul passato è stato un antidoto per restare immuni alla narrazione di invincibilità promossa dai sostenitori della tecnologia, perché abbiamo studiato come le precedenti trasformazioni abbiano condotto le persone ad attivare una resistenza nel tempo. Non esiste solo la narrazione del potere.
Nel suo libro The Atlas of AI (Né intelligente né artificiale, Il Mulino, 2021) ha indagato gli aspetti materiali delle tecnologie dell’IA, mostrando da un lato che non sono intelligenti, perché richiedono l’intervento nascosto di tantissime persone, e dall’altro che dipendono da un’infrastruttura industriale energeticamente avida. Come si applica questo approccio all’IA generativa?
Nel testo ho descritto l’atlante delle implicazioni materiali, commerciali e geopolitiche dei processi di questa tecnologia. L’IA generativa ha un costo ancora maggiore di pochi anni fa. Fare una ricerca con ChatGPT consuma 15 volte l’energia rispetto all’accesso ai motori di ricerca. E richiede molta più acqua. I data center ne hanno bisogno per il loro raffreddamento e questo fa letteralmente evaporare l’acqua da bere in molte regioni affette da siccità. Ogni interazione con ChatGPT è come buttare mezzo litro d’acqua per terra. Queste esternalità andrebbero considerate attentamente.
Pensa che l’avvento di Trump cambierà qualcosa in termini di pratiche e regolazione dell’IA?
È troppo presto per dirlo. È interessante che in Usa a livello di singoli stati siano state recentemente introdotte più di 200 leggi, che riguardano l’IA a vari livelli. Ritengo che tale orientamento non smetterà nei prossimi anni. Ma siamo molto preoccupati e stiamo monitorando la situazione. È importante trovare un modo più sostenibile di costruire sistemi di IA, rendendoli più ricchi di sfumature. È urgente definire gli ambiti nei quali abbia senso usarla. Questa è la battaglia politica e critica dei prossimi quattro anni. Per farlo abbiamo bisogno degli sforzi di tutti i gruppi di pressione a livello internazionale.
Da GenovaToday – «Non dico di essere sollevata, ma non mi importa neanche tanto, il punto non è punire il singolo, se avessi voluto punire il singolo mi sarei mossa in altre direzioni». Così Francesca Ghio commenta l’eventuale e probabile archiviazione dell’inchiesta da parte della procura di Genova. La consigliera comunale che ha denunciato in aula consiliare di avere subito uno stupro a dodici anni, ieri è stata ospite del programma condotto da Massimo Gramellini “In altre parole”, su La7, dove ha raccontato la sua storia, ma soprattutto l’importanza del gesto politico che l’ha portata a parlarne in pubblico.
«Quel testo – ha detto riferendosi al testo letto in aula – l’ho scritto la mattina sapendo che in consiglio comunale ci sarebbe stato un documento che avrebbe parlato di violenza di genere. Mi sono accorta che tutti i discorsi che vengono fatti nelle aule, e nel mio caso nell’aula consiliare del Comune di Genova, sono discorsi vuoti e pieni di apatia. Portare un pezzo di me, metterlo al centro della sala, è stato per me un atto politico. Riportare quel dolore come responsabilità delle istituzioni. L’ho fatto per le figlie e i figli di tutti, è stato difficile. Avevo bisogno di togliermi dalla mia esperienza per non emozionarmi, non è stato semplicissimo frantumarmi davanti a tutti. Un mio amico che ha esperienza nel teatro mi ha detto: “Vai decisa fino in fondo, leggi bene e fatti capire”».
Com’è noto, dopo l’intervento di Ghio non c’è stata una reazione immediata da parte del consiglio comunale, ma lei racconta di non esserne stupita: «Forse lo eravate voi, ma per me era la normalità. È il silenzio che fa sì che le istituzioni non abbiano nessun peso risolutivo sulla realtà». Poi: «Mi rendo conto della forza comunicativa, da giorni ricevo centinaia di messaggi, ma la mia è una delle tante storie».
Tra i messaggi e le telefonate c’è anche quella di Giorgia Meloni: «Prendevo una tisana con mia mamma, ho ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto, poi un messaggio, ho richiamato e mi è stato passato il telefono: “Pronto, sono Giorgia Meloni”. Ero molto stanca, alienata, ma ho scelto di non sottomettermi alla strumentalizzazione, ringrazio per la vicinanza che però non posso accettare da chi ha la responsabilità istituzionale di risolvere i problemi. Non ho mollato il punto sul ribadire l’importanza di non scaricare la responsabilità sul singolo, ma capire che se abbiamo problemi il primo passo è guardarli negli occhi, deresponsabilizzare non risolve i problemi».
«Lei – continua – rispondeva in romanaccio, come poteva. Diceva che sta facendo tanto per quello che ha la possibilità di fare, ma se siamo a questo punto la responsabilità è di tutti, non accetto la strumentalizzazione del dolore della mia storia».
Ghio ha dribblato la domanda di Gramellini su cosa provi per il suo stupratore: «I miei sentimenti personali non sono il punto della questione, la mia scelta è stata portare la mia storia nelle istituzioni perché la soluzione deve arrivare da lì, non possiamo chiedere soluzione ai centri antiviolenza o alle famiglie».
Centri antiviolenza che, come ha ricordato Fiorella Mannoia, presidente onoraria del centro Una Nessuna Centomila e anche lei ospite di Gramellini, soffrono per il precariato: «Le operatrici sono precarie. Non sanno se riusciranno a prendere lo stipendio il mese dopo. Sono eccellenze nei loro campi, avvocate, psicologhe, in parte volontarie e in parte abbandonano perché non hanno uno stipendio. Lo vogliamo mettere in finanziaria questo come problema?».
«Avrei accettato una consapevolezza del problema. – ha aggiunto Ghio – L’educazione sessuo-affettiva e sul consenso nelle scuole non solo è la prima cosa da cui dobbiamo partire, è un investimento per tutti, ci dobbiamo trovare tutti d’accordo, mettere strumenti in mano ai bambini vuol dire evitare carnefice e vittima. Siamo immersi nella violenza e non se ne esce. Il primo passo politico è applicare in Italia modelli che già esistono, per portare ai nostri bambini la speranza che nel futuro questo modello di violenza non si debba replicare. Alla presidente del consiglio ho chiesto di ricordarsi che siamo tutti fratelli e sorelle in questo pianeta. Continuare a dividerci è tragico al punto della storia in cui siamo, noi che ci candidiamo ad amministrare abbiamo il dovere morale nei confronti della collettività di fare meglio. Sapere che siamo rappresentati da persone che non riescono ad assumersi la responsabilità e si dichiarano intimamente contenti se qualcuno soffre ci dimostra che siamo a un punto agghiacciante».
«Ho un’enorme speranza per la mia generazione, voglio lavorare, continuare a impegnarmi non per mia figlia, ma per tutti i figli di tutti», ha concluso la consigliera.