da Altraeconomia

Mentre continua a bombardare la Striscia di Gaza e a intensificare l’occupazione in Cisgiordania, l’esercito di Tel Aviv affronta una crisi profonda. Oltre al crescente numero di soldati che rifiutano di servire, aumentano i casi di suicidio tra le truppe e l’azione di censura dell’esercito nei confronti della stampa. “È il sintomo di un abisso morale”, spiega Meron Rapoport, giornalista del network indipendente Local Call e +972

Dopo oltre 18 mesi di guerra contro la popolazione palestinese -i cui metodi, per le Nazioni Unite, sono coerenti con il genocidio-, il legame tra cittadini israeliani e Stato appare sempre più fragile. Oltre alle continue manifestazioni di piazza contro il governo accusato di voler proseguire la guerra per salvare sé stesso anziché liberare gli ostaggi a Gaza, è la crisi delle Forze di difesa israeliane (Idf) a manifestarsi in modo evidente.

Decine di migliaia di riservisti rifiutano di arruolarsi, aumentano le proteste pubbliche di militari contro la guerra, e il numero di suicidi tra i soldati è in crescita rispetto al passato. Tutto questo avviene in un contesto in cui la sfiducia della popolazione verso l’istituzione militare, storicamente pilastro della coesione nazionale, si manifesta sempre più pubblicamente, e la stessa risponde inasprendo la sua azione di censura verso la stampa.

“Il governo non pubblicherà mai i numeri reali. Ma chiunque, di recente, abbia partecipato a proteste antigovernative o segua i social media in lingua ebraica nota che rifiutarsi di prestare servizio militare sta diventando legittimo, e non solo in ambienti di sinistra radicale”.

Meron Rapoport, giornalista del network indipendente Local Call e +972 Magazine, ha provato di recente a ricostruire l’entità del fenomeno (con due articoli, in ebraico e in inglese). “Il problema è complesso e in continua evoluzione”, spiega Rapoport ad Altreconomia, che per la sua inchiesta si è basato su fonti interne ad esercito, governo e organizzazioni di refuseniks (obiettori di coscienza).

In un Paese in cui la coscrizione è obbligatoria per tutti i cittadini maggiorenni, i soldati devono prestare servizio da riservisti fino a 40 anni. In tempo di guerra, l’esercito dipende fortemente da questa categoria di soldati, e infatti in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il tasso di partecipazione dei riservisti era al 120%. Ma già a marzo 2024, dopo l’interruzione dell’accordo di cessate il fuoco da parte del governo israeliano, la percentuale è scesa drasticamente all’80%. Secondo alcune fonti, il tasso effettivo sarebbe oggi tra il 50 e il 60%. Triangolando questi dati, Rapoport ha stimato che oltre 100mila riservisti avrebbero rifiutato la chiamata alle armi nell’ultimo anno. “È importante guardare anche alle nuove reclute, non solo tra gli obiettori di coscienza’”, prosegue Meron. Questi ultimi, dal 7 ottobre 2023 in poi, sarebbero circa 1.500, e per quanto abbiano maggiore impatto mediatico, i casi di persone che hanno detto “No” alle armi per convinta opposizione alla guerra, all’occupazione e al massacro dei palestinesi, rimangono pochi. Più preoccupazione sembrano suscitare i cosiddetti “rifiuti grigi”: soldati che evitano il servizio più per frustrazione, disagio o stanchezza, con alcuni che simulano disturbi mentali per essere esonerati. Questo tipo di rifiuto, secondo Rapoport, è più difficile da tracciare ma altamente significativo, perché riflette un malessere diffuso.

La crisi delle Idf non si ferma all’atto individuale. Il 10 aprile, circa mille riservisti dell’Aeronautica militare hanno pubblicato una lettera chiedendo al governo la fine della guerra a Gaza e un accordo per liberare gli ostaggi. All’appello hanno risposto presto centinaia di riservisti della Marina e della squadra d’élite dell’intelligence, l’Unità 8.200. Il 19 aprile invece, è la volta di circa 1.500 membri della fanteria e carri armati che hanno acquistato due pagine del quotidiano Haaretz per avanzare al governo le stesse richieste.

“Nelle ultime settimane sono uscite decine di lettere simili, si stima che oltre 10mila soldati abbiano firmato”, continua Rapoport, ricordando come mai nell’ultimo anno sono apparsi articoli che esprimono aspre critiche nei confronti delle Idf, anche da parte di ex-generali e ufficiali. Critiche che avrebbero potuto essere di più se non fossero state oggetto dell’intervento delle stesse Idf che, per il potere conferitogli dalla legge, avrebbe censurato il doppio degli articoli su temi relativi alla “sicurezza” nell’ultimo anno, secondo l’ultima inchiesta di Local Call e +972 Magazine. Per Rapoport, data la scala senza precedenti della guerra in corso, questi atti di censura non preoccupano quanto invece l’autocensura e il silenzio di tanti suoi colleghi. “La paura di ritorsioni è ciò che sta influenzando di più la libertà di stampa”.

Tra le manifestazioni più tragiche della crisi c’è l’aumento dei suicidi tra i soldati. A dare la notizia sono state le stesse Idf lo scorso gennaio, secondo le quali sono 28 i militari che si sono tolti la vita dal 7 ottobre 2023. Se si considerano altri 10 suicidi verificatisi prima dell’attacco di ottobre, il totale del biennio 2023-2024 sale a 38, ovvero il 65% in più rispetto ai 25 registrati nel 2021-2022.

“La verità sui suicidi è difficilissima da decifrare”, spiega ad Altreconomia Guy Davidi, regista israeliano, già co-realizzatore del film “Five Broken Camers”, candidato all’Oscar nel 2013. “L’esercito ha sempre avuto paura di parlare apertamente dei suicidi. Il fatto che a gennaio abbiano pubblicato quei dati è una routine da qualche anno, ma oltre quei numeri c’è poco altro di trasparente”.

Davidi conosce bene questo problema, affatto nuovo in Israele, grazie a una ricerca durata oltre dieci anni per realizzare il suo ultimo documentario, “Innocence”. Presentato al Festival del cinema di Venezia nel 2022, protagoniste sono le storie di giovani israeliani che si sono tolti la vita durante o dopo il loro periodo militare. Il film, un durissimo j’accuse contro l’esaltazione del bellicismo, ricorre alle memorie private di alcuni soldati morti suicidi. Intervallato da scene quotidiane all’interno di asili, scuole e “campi estivi” militari, il documentario è un lavoro attualissimo, che mostra come la militarizzazione sia da sempre l’ideologia trasversale della società israeliana, a partire dal sistema educativo. Basato su 700 casi a partire dagli anni Ottanta, “Innocence” ha incontrato forti ostacoli alla sua realizzazione.

“Il suicidio di un soldato è la forma più estrema di rifiuto del sistema. Per questo lo Stato, per cui il tema è un tabù, fa di tutto per calare il silenzio. A livello individuale, inoltre, il senso di vergogna e le pressioni sociali sono tali per cui le famiglie delle vittime reagiscono con autocensura”, afferma Davidi. Non è un caso, dunque, che nonostante la risonanza internazionale -a parte in Paesi come Germania, Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dove le lobby israeliane avrebbero fatto pressioni per non farlo circolare-, il film sia stato pressoché ignorato in Israele. Anche perché quando è stato pubblicato, nella primavera del 2023, il tema del rifiuto di servire nell’esercito era un elemento significativo delle proteste di massa contro la riforma giudiziaria del governo.

La prova che il governo utilizzi il silenzio emerge dal modo in cui tratta i diversi casi di rifiuto. Mentre alle obiezioni di coscienza, minoritarie e “radicali”, si risponde con il carcere (come i recenti casi di Ella Keidar Greenberg o Itamar Greenberg, che hanno avuto eco internazionale), ai rifiuti “grigi” viene inflitta una blanda “prova domiciliare” di due settimane, nel tentativo di non creare precedenti “visibili”. Netanyahu in risposta alle lettere dei riservisti ha pubblicato un tweet in ebraico accusando i firmatari di voler “distruggere la società dall’interno”. Segno evidente di una volontà di evitare che la crisi venga discussa fuori dai confini israeliani.

Per Davidi la cosa più importante per il governo è non mettere in discussione l’idea dell’esercito “di popolo”, che tuttavia si sta sgretolando da anni. “L’esercito sta perdendo il suo tradizionale carattere di laicità, per il 40% la sua composizione demografica oggi è data dalle fasce più radicalizzate della popolazione”, come coloni ed estrema destra religiosa, afferenti anche a partiti come Otzma Yehudit, guidati Itamar Ben-Gvir, l’attuale ministro della Sicurezza nazionale e tra i più ferventi promotori della “guerra totale” a Gaza.

Se salta dunque l’idea di “esercito di popolo”, che ha contribuito a plasmare l’identità israeliana, è inevitabile che prima o poi salti il contratto sociale tra lo Stato e i suoi cittadini. “La crisi è ormai sotto gli occhi di tutti – conclude Rapoport -. Il crescente numero di rifiuti, obiezioni e suicidi è il sintomo di un abisso morale. La disumanizzazione dei palestinesi, in un contesto di crisi economica e sociale, rischia di trasformarsi in un boomerang per Netanyahu. Puoi continuare a sganciare bombe, ma come fai a sostenere una guerra senza soldati? E come pensi di occupare la Striscia di Gaza se mancano le risorse umane per farlo?”.

da La Stampa

Aprire le porte a un’amica in difficoltà, offrirle spazio e sostegno in casa propria, è una cosa che nel femminismo ha un nome preciso, sorellanza; ma offrire lo spazio e il contesto accademico di una vita a una interlocutrice che ha avuto successo con idee e con una postura opposte alle tue è un gesto di nobiltà personale, da vera insegnante oltre che femminista. Un’occasione di questo tipo si è verificata il trenta aprile scorso, con l’atteso incontro tra l’americana Judith Butler e l’italiana Adriana Cavarero, amiche oltre che colleghe in confronto da almeno tre decenni, l’una teorica del gender, l’altra filosofa del pensiero della differenza sessuale. L’incontro è stato voluto dall’Università di Verona, dove Cavarero ha insegnato per trentacinque anni filosofia politica ed è professoressa onoraria, e dove Butler è stata invitata a dialogare intorno a un tema potenzialmente macroscopico, l’etica della vulnerabilità. Un’occasione così importante da far accorrere pubblico da tutta Italia: due intellettuali che si confrontavano in presenza, senza streaming, per mettere in scena la necessità, genuinamente femminista, di lasciare dissonare voci diverse all’interno di uno spazio materiale. Un tentativo che aveva generato grandi attese e che però è riuscito solo in parte, anche per la scelta, dettata da una generosa ospitalità, di chiamare una moderatrice sbilanciata non solo linguisticamente in favore di Butler e tenere l’intero evento in inglese, nonostante il pubblico fosse italofono (peraltro, la traduzione in italiano è stata affidata a un traduttore automatico con esiti grotteschi e inadatti alla qualità dell’evento).

Negli ultimi anni Butler e Cavarero, nonostante il loro dialogo mai interrotto che ha sempre tenuto conto delle divergenze, sono diventate icone di una guerra amara e a tratti faticosa tra transfemminismo e identità queer da un lato (Gender Trouble è il titolo più famoso di Butler) versus femminismo radicale e della differenza dall’altro (Donna si nasce. E qualche volta si diventa l’ultimo di Adriana Cavarero, scritto insieme a Olivia Guaraldo). Da intellettuale che non compiace nessun pubblico, Cavarero è stata chiara e spiazzante con la parte di uditorio che si aspettava un match: «Non credo che la questione del nostro tempo sia sesso e genere». A metà degli anni Novanta era stata lei a proporre all’editore Feltrinelli di tradurre in italiano Bodies that matter (Corpi che contano) di Judith Butler: quante femministe si muoverebbero oggi per portare nella propria lingua studi che aprono strade così diverse dalle proprie? E quante sono disposte ad ammettere che le polemiche a cui ci affezioniamo, sulle quali ci arrocchiamo, sono state esaurite da anni sul piano del pensiero, che basterebbe conoscere e studiare? Anche se il pubblico butleriano si è scaldato contestando la semplice affermazione che tutta la vita umana sul pianeta nasce da donna, gli esiti migliori della discussione sono nati altrove: il neologismo “scolasticidio” come complemento della pratica genocida attraverso la distruzione dell’istruzione (Butler), la definizione di essere umano come forma di vita vulnerabile in relazione con altre forme di vita vulnerabili rispetto alle quali non esiste privilegio (Cavarero), la puntualizzazione secondo cui il contrario della vulnerabilità non è la forza perché è forte solo chi sa essere vulnerabile (Butler); la consapevolezza che vulnerabilità sia una parola etica e politica (entrambe); la postura inconciliabile tra chi guarda alla differenza pensando all’“inclusione” da un lato (Butler) o alla “varietà” e “singolarità relazionale” dall’altro (Cavarero). Il confronto, più che tra due voci, era tra due universi: da un lato il pensiero europeo, fondato su categorie autenticamente filosofiche (Cavarero citava Aristotele, la fattualità e la logica, usando termini greci come “pleonaxia”), dall’altro il mondo americano dove la filosofia è diventata attivismo e si confronta con la questione del consenso. Possono questi due mondi parlarsi? A giudicare da quella parte dell’uditorio butleriano intervenuta con modi e slogan più adatti a un corteo che a una disputatio accademica, bisognerebbe riconoscere di no, e ammettere il fallimento. Ma sarebbe femminista questa rinuncia? Nei giorni precedenti all’incontro, con amiche con cui condividiamo una generica e salutare avversione al patriarcato, ci dicevamo scherzando: se riescono a parlarsi Butler e Cavarero, figurarsi se non possiamo farcela noi! Ci dicevamo anche, come ci siamo sempre dette, che gli uomini sono bravissimi a spalleggiarsi (non credo di averne mai sentito due litigare sulla definizione di padre) e che però il loro cameratismo gli garantirà pure il potere ma è così noioso che non lo vorremmo nemmeno in un’altra vita. Che fare adesso che questo dialogo non potrà assurgere a iconico per una spaccatura che, fuori dal confronto di Verona, appare insanabile? Innanzitutto capire quale rottura personale sia emersa fra Judith Butler e Adriana Cavarero prima e dopo l’incontro dal quale sono emerse quelle divergenze fra sesso e genere riconosciute pubblicamente da entrambe come insormontabili: nessuna. Dopo aver scansato con ironia una possibile virata paternalista («Adriana, di cosa hai paura, voglio prendermi cura della tua paura» ha detto a un certo punto Butler corrucciata; «Non ho nessuna paura, non sono una persona molto emotiva a dire il vero» è stata la tranquilla risposta), le due hanno passato ancora del tempo privato insieme e continuato a discutere come sempre: questa è l’immagine che dobbiamo tenere come iconica. Olivia Guaraldo, nell’introduzione all’evento, ha sottolineato che siamo figlie e figli del confronto fra queste due pensatrici, una eredità impossibile da ignorare, e ha parlato di come la brutalità, la violenza politica patriarcale possano essere affrontate solo con la forza della creatività: quando le risposte si incancreniscono, è tempo di cambiare le domande. Come hanno evidenziato sia Butler sia Cavarero, le alleanze non devono coincidere con l’amore, figurarsi con l’appiattimento. Possiamo ancora ipotizzare, forse sognare, strade lungo le quali nessuna donna arriverà un giorno a sentirsi fraintesa, anche se sono costellate di conflitti e incomprensioni: non saranno le migliori, le più semplici o prive di delusioni e cadute, ma sono di certo strade femministe.

da L’Altravoce

La morte di Adriana Lopez, mia carissima amica, mi ha colpita come un fulmine a ciel sereno. La pensavo a Barcellona con la sua amata figlia Carlotta, l’amato figlio Andrea e con le amiche di quella che era diventata la sua seconda città. Non sapevo della gravità della sua malattia, non so perché me l’ha tenuta nascosta. Mentre scrivo la sento vicina, sento la sua voce, vedo la sua figura di donna creativa che sapeva rendere elegante qualsiasi cosa indossasse, aveva grazia e uno stile tutto suo, riconoscibile e inimitabile. Amava ornarsi di fiori e in lei tutto era sincero, come il suo entusiasmo, il suo amore per la vita, per i suoi libri di cui ne andava fiera. Donna di grandi passioni, generosità e coraggio, non lasciava indifferente chiunque la conoscesse. Non lasciò indifferente me quando, nel lontano 1978, arrivai a Catanzaro e la incontrai nella sua casa dove viveva con il piccolo Andrea. Rimasi affascinata dalla sua personalità. Era bella, giovane, coraggiosa, intelligente, schietta, forte, piena di voglia di vivere, l’ammiravo tantissimo e fui orgogliosa di diventare sua amica. Nonostante il passare del tempo e le varie vicissitudini della vita, non sempre benevola con lei, Adriana è sempre rimasta nel profondo la ragazza che avevo incontrato la prima volta. Dopo anni di vicinanza, per un lungo periodo, ci siamo viste saltuariamente fino a quando non ci siamo riavvicinate in occasione dell’uscita del suo libro La scelta (ed. La Rondine) e da allora non ci siamo più allontanate, coltivando entrambe il piacere della nostra amicizia. Fu lei a cercarmi per regalarmi il suo libro. Mi chiese di leggerlo e di recensirlo, se mi fosse piaciuto. Come poteva non piacermi? In quelle pagine c’era la sua vita, la ragazza che era stata e la “donna nuova” che era diventata. Aveva scritto spinta dal bisogno, dopo tanti anni, di “scavare”, interrogare, capire, “fare ordine” su quella parte della sua vita vissuta da ragazza madre in una città di Provincia come Catanzaro degli anni Settanta. Non era più la ragazza “confusa”, “impaurita”, che in quel 13 luglio 1975, “in compagnia” della sua “fiduciosa solitudine”, aveva dato alla luce la sua creatura, ma la “donna nuova”, consapevole del valore della sua scelta. Rimasta incinta giovanissima, mentre l’uomo, come da copione, era scappato, lei allora fece la scelta di portare a termine la gravidanza e affrontare, con la “solitudine” come unica compagna, i pregiudizi, l’ostilità, la misoginia, il sessismo, l’ipocrisia, di una città “piccolo borghese”, pronta a condannarla e assolvere l’uomo. Cacciata da casa, venne lasciata sola da familiari, fratelli, sorelle, amici e conoscenti. Lei scelse di continuare a vivere e ad amare, diventando una donna forte, “una signora”, consapevole e fiera di se stessa fino alla fine della sua vita. È questa l’Adriana che ho amato e ammirato che, a un certo punto della sua vita scopre il piacere e la necessità di scrivere in un “faccia a faccia” con il suo vissuto, senza rabbia, rancore o vendetta, ma con lucida consapevolezza della grandezza della sua “scelta” e della miseria degli uomini “pronti a trasformarsi in orchi” e saltarle “addosso”. «Gli uomini non amano, non sanno amare», scrisse. Tenne testa, con fierezza, allo sguardo giudicante della “gente bigotta” e sentì dolorosamente la disapprovazione della madre. “In segreto” ha sempre sperato “di poter essere un giorno accolta nel grembo materno”. Scrivere il libro è stato il suo modo di perdonarla e di riconciliarsi con lei, dentro di sé. Cara Adriana, so bene che hai scritto altri libri che ho anche recensito, ma ho scelto di ricordarti con quello della tua vita perché le giovani sappiano e riconoscano in te la donna che con la sua “scelta” ha aperto in questa città la strada della libertà femminile. Addio amica mia, resterai in me fino alla fine della mia vita.

da Internazionale

Dall’inizio dell’invasione russa le violenze domestiche in Ucraina sono aumentate. Sofferenze che si aggiungono alla brutalità quotidiana della guerra

Al centro d’accoglienza Vilna, nel cuore di Kiev, una quindicina di donne è riunita intorno a Olga per un corso di introduzione alla scrittura dei cosacchi, i guerrieri che in Ucraina sono venerati come eroi nazionali. «Secondo voi quanto pesava l’arma di un cosacco?», chiede Olga. «Due chili», «Un chilo», azzardano le partecipanti.

«Non siete lontane dalla risposta corretta; pesava tra i 600 e gli 800 grammi», precisa la professoressa di calligrafia, una delle tante attività proposte da questo centro di aiuto per le donne che subiscono violenze coniugali. La struttura ha aperto nella primavera del 2023 con il sostegno del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) per far fronte al forte aumento dei casi di abusi domestici in seguito all’invasione russa del paese il 24 febbraio 2022.

È venerdì pomeriggio e le donne, di età compresa tra i 30 e i 65 anni, hanno il volto tirato per la mancanza di sonno. La notte scorsa la capitale ucraina ha subìto l’ennesimo attacco di droni russi. Ma nessuna di loro si lamenta e nessuna parla delle ragioni che l’hanno portata qui. Lo scopo del centro Vilna è offrire uno spazio sicuro senza chiedere motivi o giustificazioni. Le iscrizioni alle attività – yoga, meditazione, arteterapia – si fanno in modo anonimo.

In Ucraina l’argomento delle violenze coniugali è tabù. Anche se nel 2023 il ministero dell’interno ha registrato 291mila casi di violenza domestica (oggi nei territori controllati dal governo di Kiev vivono 29 milioni di persone), con un aumento del 20 per cento rispetto al 2022, le cifre potrebbero essere ancora più alte, perché molte donne non denunciano gli abusi subiti in casa. «La difficoltà a chiedere aiuto e il senso di colpa oggi sono ancora maggiori a causa della situazione di guerra in cui viviamo», spiega Alëna Kryvuljak, direttrice dei servizi di assistenza telefonica del centro La Strada, l’ong ucraina più attiva nell’aiutare le vittime di violenze domestiche. «Molte di queste donne pensano di essere responsabili della violenza che subiscono e fanno fatica a riconoscere che i colpevoli sono gli uomini. Succedeva anche prima della guerra. Oggi pensano che altre persone soffrono più di loro, che in fondo sono ancora vive e hanno la fortuna di non essere al fronte».

Il coraggio necessario

Tamara, 31 anni, profuga di Bachmut, vive da cinque mesi a Kiev con i suoi tre figli in un centro di accoglienza per donne fuggite dalle violenze coniugali. Nella cucina comune i bambini giocano con un neonato, tra peluche e carri armati di plastica, mentre le madri preparano il pranzo. Incinta di sette mesi, Tamara non riesce a staccarsi un attimo dalla figlia più piccola, che vuole starle sempre in braccio. La donna aspetta con impazienza il momento del sonnellino pomeridiano, quando avrà un po’ di tempo per sé, per cercare un po’ di tranquillità praticando l’arteterapia.

Durante i suoi soggiorni in ospedale prima dell’arrivo a Kiev, Tamara non aveva mai parlato dei suoi problemi. «Non volevo condividere cose tanto intime con persone che non conoscevo», ammette con qualche difficoltà. «Oltre a mio marito c’erano già troppe cose da gestire a causa della guerra», racconta tormentandosi le mani. In una società in cui il soldato, il difensore della patria è considerato un eroe, sono poche le donne vittime di violenza che decidono di parlare. «E denunciare il proprio compagno che combatte o che ha combattuto al fronte è ancora più difficile», spiega Kryvuljak, che lavora per La Strada dal 2014.

Una constatazione condivisa da Anna Hrubaja, psicologa specializzata nelle violenze di genere. «Nell’immaginario collettivo la Russia è l’aggressore, il demonio», spiega la donna subito dopo un allarme aereo che ci obbliga a scendere nel rifugio. «È normale che si parli di loro come del nemico. In questo contesto la violenza da parte dell’uomo che si ama diventa inimmaginabile. È difficile parlare degli uomini ucraini come di aggressori». Chi l’ha fatto sui social network, spesso ha ricevuto valanghe di insulti e commenti offensivi.

Tuttavia, dall’inizio della guerra Hrubaja ha visto aumentare in modo vertiginoso il numero delle sue pazienti, provenienti per lo più da classi sociali privilegiate. Una di loro, che fa la dermatologa, «è perfettamente consapevole del problema; sa che non è normale, ma non vuole chiedere il divorzio per paura di far soffrire il marito, che è al fronte e che forse non tornerà mai».

Olga, 37 anni, ha dovuto dar prova di grande coraggio per decidere di rivolgersi al centro. Da quando l’ha fatto, la maggior parte dei suoi amici le ha voltato le spalle. «Tutti sostengono il mio compagno e dicono che sono un mostro ad averlo abbandonato in queste circostanze», racconta la donna in videochiamata dalla cittadina in cui vive, a duecento chilometri da Kiev.

Alla guida da una decina d’anni di un centro di accoglienza per donne, nel 2022 Olga si è trovata nella stessa condizione di quelle che aiutava. «In quanto esperta del problema, sapevo molto bene di cosa si trattava. Ma mi ci è voluto un anno per reagire e per fare io stessa quello che consiglio di fare alle altre», racconta.

Prima dell’inizio della guerra Olga non aveva mai avuto problemi simili. Racconta di un marito affettuoso, «un uomo normale, che mi sosteneva nel mio lavoro». Parla quasi senza emozione, come se si riferisse a una vita non più sua, quella che conduceva «prima del 24 febbraio [il giorno dell’invasione russa] e che non tornerà mai più».

Prima di andare a combattere, suo marito era «un uomo che non aveva mai avuto un’arma, a cui piaceva passeggiare nei boschi e andare a pesca. Ma intorno a lui tutti si arruolavano. In quel momento l’intera società voleva dare il proprio contributo», continua Olga con una punta di amarezza. Così anche suo marito si è arruolato come volontario nelle forze speciali ucraine ed è stato subito inviato in prima linea. «Presto mi sono resa conto che beveva molto con i suoi “fratelli d’armi”, come li chiamava. E mi ha anche confessato che per allentare la pressione di tanto in tanto prendeva droghe».

Al suo ritorno dal fronte, quasi un anno dopo, sono cominciate le violenze, prima verbali e psicologiche, poi fisiche. Olga ha capito che suo marito era cambiato. «Ho realizzato che tutto era finito la sera in cui mi ha chiesto di chiudere gli occhi e di seguirlo in bagno. Mi ha messo in mano una granata senza la sicura. Ero terrorizzata, mia figlia di quindici anni dormiva nella stanza accanto. Lui si è messo a ridere e mi ha detto con disprezzo: “Ma dai, non è neanche carica!”». A quel punto ha chiesto il divorzio. «Qualche giorno dopo mi ha sequestrata per diverse ore. Mi urlava che mi stavo inventando tutto perché frequentavo troppe donne che erano “davvero” vittime di violenze domestiche».

Prima della guerra l’Ucraina aveva cominciato a occuparsi delle leggi contro le violenze di genere, ma l’invasione russa ha frenato i progressi. Il parlamento ha stabilito nel 2017 che le violenze costituiscono un reato, ma le donne rimangono male informate sui loro diritti. Paradossalmente la guerra ha anche avuto alcune conseguenze positive: ormai l’Europa ha gli occhi puntati sul paese, e la convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza domestica e sulle donne è stata ratificata nel giugno 2022, dopo anni di richieste da parte delle associazioni femministe. Di fatto, però, gli aiuti alle vittime rimangono molto scarsi.

«La colpevolizzazione della vittima, il cosiddetto victim blaming, è ancora molto diffusa in Ucraina», spiega Kateryna Ilikčieva, avvocata specializzata nelle violenze di genere. «Nel paese sono ancora molto forti certe vecchie idee secondo cui queste violenze sono una cosa normale, diffusa in tutte le famiglie. E questo si traduce nell’impostazione delle nostre leggi e nel trattamento che la polizia, la giustizia e i medici riservano alle donne che denunciano i fatti». Un quadro confermato da quanto ci racconta Olga: «Alla fine la polizia è intervenuta, ma non ha fatto nulla. Non mi ha proposto di sporgere denuncia e non si è offerta di portarmi al sicuro».

Il senso di colpa

Olga era indipendente dal punto di vista finanziario e ha potuto affittare un appartamento senza doversi affidare a un centro di accoglienza simile a quello che lei stessa gestisce. Ma il suo è un caso quasi unico: la maggior parte delle donne ha perso il lavoro a causa della guerra ed è tornata a essere economicamente dipendente da mariti e compagni.

Per questo il centro Vilna propone delle riunioni in cui si spiega alle donne a quali sussidi finanziari hanno diritto. Ma gli incontri non hanno molto successo. Seguirli sarebbe stato complicato già in tempo di pace, ma in periodo di guerra servono risorse ed energie extra che non tutte hanno.

La fatica fisica e psicologica, sommata allo stress accumulato nella vita quotidiana a causa dei bombardamenti russi, rende più difficile allontanarsi dal carnefice con cui si condivide l’intimità familiare. Olena, 40 anni, ha trovato rifugio con sua figlia in un centro di accoglienza a Kiev, dopo essere scappata dal compagno. Esperta legale in una banca d’affari, prima dell’aggressione russa neanche lei aveva mai subìto la violenza del compagno. Racconta di aver «perso tutto in pochissimo tempo, a cominciare dal lavoro». «La maggior parte dei profughi interni si è ritrovata senza mezzi economici da un giorno all’altro. Sono persone che non hanno più lo stesso livello di vita né lo stesso ruolo di un tempo nella società. E questo è un elemento che favorisce l’aumento delle violenze», spiega Alëna Kryvuljak.

Il compagno di Olena «è cambiato nell’arco di poche settimane dall’inizio della guerra». «Aveva una casa di famiglia che considerava un luogo sicuro», racconta la donna. «Di fronte all’avanzata dei russi aveva proposto a diversi parenti di ospitarli, ma un bombardamento li ha uccisi tutti. E lui è caduto in depressione», racconta Olena. «Mi aveva mandato nell’ovest del paese perché fossi al sicuro con mia figlia e il figlio che aspettavamo. Ma poi mi ha chiesto di tornare per stare al suo fianco, per sostenerlo. E io l’ho fatto. Non volevo lasciarlo solo in queste circostanze. Le violenze sono cominciate qualche giorno dopo».

Più forte di lui

Olena è consapevole dell’anormalità della situazione. «Ma in fondo dove potevo andare?», domanda con un pizzico di amarezza. «I miei genitori vivono in una zona occupata dai russi, i miei amici sono tutti all’estero. Ero incinta e senza soldi. Come potevo prendere di nuovo la strada dell’esilio?». Oggi Olena paga caro il fatto di essere riuscita a liberarsi del suo aguzzino. Suo figlio, nato alla fine del 2022, è rimasto con il padre. «Mi lasciava chiusa a chiave in casa, mi aveva sequestrato i documenti. Sono riuscita a scappare mentre era andato a comprare delle cose per nostro figlio». Oggi il bambino è al centro di tutti i ricatti: se la donna vuole vederlo, deve tornare dal suo aggressore. La legge ucraina non aiuta a sufficienza le donne che si trovano in una situazione del genere.

Irina continua a vivere sotto lo stesso tetto del suo aggressore. Proprietaria di un negozio di alimentari insieme al marito da trentacinque anni, non ha altra scelta che rimanere al suo fianco. Sopravvissuta alle violenze sessuali compiute dalle truppe russe, la donna ha accettato di parlarci in videochiamata da una regione del sud dell’Ucraina.

Ai traumi delle violenze subite dagli occupanti, si aggiungono ormai anche quelli legati alla brutalità del marito. «Quando i soldati russi sono andati via, mio marito non mi ha più rivolto la parola», racconta a bassa voce. «Solo una volta mi ha chiesto scusa per non avermi saputo proteggere».

Irina ha 60 anni. A violentarla sono stati soldati che «avevano l’età di mio figlio», dice. «Mio marito mi ha umiliata. Mi diceva che non valevo niente, che senza di lui non ero nulla. Mi ha perfino rimproverata di aver rischiato di morire a causa mia. Era un manipolatore, e si faceva passare per vittima. Sì, è vero, i russi gli avevano puntato un fucile alla tempia perché non voleva obbedire agli ordini», racconta la donna in modo quasi meccanico. «Ma non ha cercato di impedire lo stupro in nessun modo. E non mi ha mai chiesto cos’è successo. Alla fine ho smesso di fare resistenza e di lottare per evitare che i russi lo uccidessero. I soldati mi avevano detto che lo avrebbero fatto se non avessi ceduto. Lui, però, non ha mai voluto sapere quello che avevo vissuto per proteggerlo». Irina interrompe spesso il suo racconto. «Lui non voleva sapere, così alla fine ho smesso di parlarne». Poi ci confida: «Nessuno può sfiorarmi anche solo con un dito senza che mi venga voglia di strangolarlo». Irina riconosce di continuare a subire l’aggressività, le umiliazioni e le minacce del marito, ma paradossalmente afferma di non averne più paura: «Me ne frego di quello che dice. Mi sento più forte di lui. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è cambiato. Non sono più una cosa di sua proprietà. Dopo quello che ho vissuto, la sua violenza mi sembra insignificante».

In un bar di Kiev un venerdì alle 18, non lontano da un gruppo di giovani che cominciano presto la loro serata a causa del coprifuoco, Kateryna Ilikčieva ci spiega che il suo livello di tolleranza nei confronti della violenza è aumentato a causa della guerra. Poi s’interrompe allarmata: «Non è la sirena dell’allarme antiaereo? No, scusate, è solo una macchina della polizia». E riprende a parlare: «Da tre anni viviamo in un clima di tale brutalità che oggi alcune violenze ci sembrano quasi ridicole».

Irina promette che quando la guerra sarà finita, se ne avrà ancora la forza, chiederà il divorzio.

Una parola rara per una donna di sessant’anni che vive in una zona rurale dell’Ucraina, sopravvissuta alla disumanità di una guerra che l’ha resa però ancora più combattiva.

(Internazionale n. 1613, 9 maggio 2025, articolo da La Déferlante, Francia)

da Altraeconomia

Dalle fabbriche alle foreste, dalle discariche al nucleare, le donne scienziate raccontate nel libro “Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute” (Ed. Dedalo, 2024) hanno ridefinito il panorama scientifico, portando la ricerca fuori dai laboratori e andando ostinatamente controcorrente.

Cristina Mangia e Sabrina Presto, ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e socie dell’associazione Donne e Scienza, pagina dopo pagina ricostruiscono le appassionanti biografie di queste scienziate che, a partire dai primi del Novecento, hanno affrontato pregiudizi e contestato l’apparente neutralità e il disimpegno della scienza per trasformarla in una disciplina radicata nel mondo, capace di trasformazione sociale e tutela della salute pubblica.

“Spesso chi è marginalizzato porta visioni lontane dal mainstream, appunto visionarie, così hanno fatto le donne nella scienza -spiegano le due ricercatrici-. L’immaginario dominante vede ancora la scienza come oggettiva e neutrale, con una formazione tecnico-scientifica che rafforza la separazione tra saperi esperti e non esperti”.

Da Rachel Carson che per prima negli anni Sessanta denunciò gli effetti del Ddt e altri pesticidi sugli ecosistemi e sulla salute delle persone, scontrandosi con le lobby dell’agrofarmaco (che cercarono in ogni modo di screditarla), a Beverly Paigen che già nel 1974 criticava gli scienziati accademici “che tendono a non farsi coinvolgere, si considerano osservatori distanti e obiettivi, alla ricerca della verità”. Paigen intuiva che bisognava connettersi alle comunità inquinate. Caso volle che fu chiamata proprio dalle mamme di Love Canal, un piccolo paese vicino alle cascate del Niagara, disperate per lo stillicidio di aborti e malattie che flagellava la loro comunità. Con questionari alla popolazione locale e ricerca sul campo la scienziata scoprì che le malattie erano connesse ad una gigantesca discarica di rifiuti tossici interrata, aiutando quindi la popolazione a pretendere bonifiche, risarcimenti e delocalizzazioni. “La vicenda di Beverly Paigen è emblematica: mentre il gruppo di ricerca governativo mantiene il distacco dalla popolazione per garantire l’obiettività dello studio, dall’altro, Paigen collabora con le comunità, riconoscendo il valore della conoscenza locale nel migliorare la qualità della ricerca senza comprometterne il rigore. I risultati le daranno ragione”, sottolineano le autrici del libro.

Un modo di approcciarsi alla ricerca molto attuale, vista la crescente consapevolezza della necessità di coinvolgere le comunità nei processi di ricerca ambientale. Alcuni progetti si stanno muovendo in questa direzione attraverso la citizen science. Secondo le due ricercatrici però questi progetti “sono spesso limitati alla raccolta di dati come misurazioni dell’aria o delle acque, riducendo le popolazioni a semplici sentinelle ambientali. È invece fondamentale ampliare la partecipazione, consentendo alle comunità di contribuire alla definizione delle domande di ricerca, allo svolgimento degli studi e all’individuazione di soluzioni. La formulazione dei quesiti scientifici e la distribuzione dei finanziamenti orientano le risposte degli studi e ne determinano l’utilità per i gruppi di ricerca e/o per le popolazioni coinvolte”.

Cristina Mangia si occupa di inquinamento atmosferico e del suo impatto sulla salute, confrontandosi spesso con le comunità alle prese con problemi ambientali: “Molte delle domande poste dalle scienziate nel libro sono state anche le mie, a partire da quelle di Beverly Paigen e Laura Conti sull’accettabilità del rischio e sul diritto di una popolazione a essere informata quando vive in un’area a rischio. A volte le preoccupazioni degli abitanti sono diventate le nostre domande di ricerca, come a Brindisi riguardo le malformazioni congenite o l’impatto delle centrali a carbone. O anche a Taranto quando abbiamo contribuito alla revisione della misura dei ‘wind days’, che imponeva alla popolazione di regolare l’apertura delle finestre in base ai venti provenienti dalla zona industriale. In altre occasioni, abbiamo lavorato in stretta collaborazione con le le comunità territoriali coinvolgendole in tutte le fasi del processo scientifico. È accaduto a San Donaci (BR) e a Manfredonia (FG), dove i cittadini hanno preso parte alla definizione delle domande di ricerca, all’analisi dei dati e alla condivisione dei risultati, contribuendo all’elaborazione di strategie concrete. Molto spesso ho affiancato le comunità nell’interpretazione di documenti tecnici sugli impatti ambientali e sanitari che riguardavano i loro territori, al fine di renderle più consapevoli e autonome nelle loro battaglie per la salute e la giustizia ambientale”.

Le donne sono state pionere anche sulla salute nei luoghi di lavoro. Il libro ripercorre la vita di Alice Hamilton medica e fondatrice della medicina del lavoro, che con la sua “epidemiologia di strada” andava quotidianamente nelle fabbriche, parlava e visitava gli operai e i loro familiari, e fu la prima a denunciare la tossicità delle lavorazioni a base di piombo, mercurio, arsenico e altre sostanze alle quali i lavoratori erano costantemente esposti. Hamilton denunciò il precariato nel lavoro, strettamente legato al tasso di avvelenamento, ma anche le fabbriche degli esplosivi che producevano armamenti. Chiedeva più fondi per la ricerca e denunciava l’utilizzo degli operai come “cavie umane” a fronte della produzione di sempre nuove sostanze chimiche utilizzate dalle industrie, senza prove sufficienti sulla loro innocuità.

Poi ancora Alice Stewart che per prima scoprì e denunciò la nocività delle radiazioni durante la gravidanza e studiò gli effetti dell’esposizione a basse dosi delle radiazioni sulla salute, diventando la scienziata di riferimento dei movimenti antinuclearisti; Suzanne Simard, con le sue ricerche sulle connessioni sotterranee tra gli alberi, Lynn Margulis, Sara Josephine Baker, Donella Meadows, con la critica alla crescita economica e ai famosi “limiti dello sviluppo”, fino a Wangari Maathai, la scienziata che piantava gli alberi.

Senza dimenticare la coraggiosa scienziata giapponese Katsuko Saruhashi che per prima denunciò gli effetti devastanti dei test con la bomba a idrogeno, studiando fin dove arrivava il fallout (pulviscolo di particelle radioattive). La sua competenza venne messa in dubbio dagli scienziati (quasi tutti uomini) americani, ma lei dimostrò che erano loro a sbagliare. Solidarizzò con il movimento pacifista e antinuclearista, denunciando l’uso a scopi militari del plutonio generato dai reattori e la difficoltà di smaltimento delle scorie radioattive. Rivolgendosi ai ricercatori del progetto Manhattan scrisse: “Come possono difendere la loro innocenza? Gli scienziati avrebbero dovuto sapere”.

Tematiche ancora attuali, perché le lobby industriali e militari possono ancora, come un tempo, influenzare e piegare la scienza. “La ricerca ha bisogno di soldi e gli investimenti pubblici non sempre sono sufficienti -confermano le due ricercatrici-. Questo apre la porta all’influenza di lobby industriali e militari, che ancora oggi hanno un ruolo determinante nel definire le priorità della scienza. Oltre a orientare lo sviluppo tecnologico, spesso questi gruppi influenzano la ricerca, alimentando dubbi su questioni cruciali come il cambiamento climatico o la nocività di alcune sostanze, ritardando decisioni politiche e normative. È successo in passato con il fumo di tabacco, più recentemente con alcuni pesticidi e sta accadendo oggi con i Pfas. L’influenza delle grandi industrie si estende anche al settore energetico, incluso il nucleare, con il rischio di condizionare il dibattito pubblico e scientifico. Per concludere, crediamo che la scienza abbia ancora bisogno di scienziate visionarie, figure del calibro di Katsuko Saruhashi o Lynn Margulis, la scienziata che rifiutò un cospicuo finanziamento vincolato alla riservatezza dei risultati, affermando: se non è pubblica, non è scienza”.

da il manifesto

Il femminismo della mia vicina”, di Ginevra Bompiani e Luciana Castellina

«Per un bel pezzo io mi sono vergognata di essere una donna». «Io no». Questo l’incipit del primo capitolo di “Il femminismo della mia vicina” da oggi in libreria per Manni editore (pp. 101, euro 14). A cominciare il dialogo è Luciana Castellina, a risponderle è Ginevra Bompiani. Che due personalità di tale levatura abbiano deciso di interrogarsi sul loro rapporto con il femminismo, inteso come vissuto storico e politico, è una buona notizia. Simile a un memoir in relazione (che non si sarebbe potuto realizzare se non in questa modalità del pensare appassionato e insieme) il volume va a illuminare un tratto di strada che ha radici e collocazioni precise, in primis vi è l’amicizia di Castellina e Bompiani iniziata circa sedici anni fa e coltivata con determinazione e scambio anche nelle divergenze. Volendosi bene, come accade e si rinnova tra di loro, i disaccordi sono dichiarati ma con ascolto reciproco: il primo è che Luciana Castellina si è mossa sempre in una dimensione collettiva e Ginevra Bompiani in una individuale. Questa “vicina” presente nel titolo è allora l’orlo affettivo in cui si trovano una e l’altra, nel sapersi stare accanto pure nella diversità. Seguiamo dunque lo schietto scambio di due magnifiche signore che si immaginano frontali a raccontarsi tra scena pubblica e vita privata.

Nella marca conviviale e mai nostalgica adottata da entrambe, apprendiamo numerosi aneddoti e altrettante tappe fondanti ciò che dal movimento delle donne conduce ai primi collettivi e ai primi guadagni della libertà femminile. Ancora prima da lunghe militanze – non femministe ma femminili – anzitutto nel Pci. Se Castellina affonda ancora più a ritroso citando la stessa relazione tra la Resistenza e ciò che ha rappresentato la nascita dell’Udi, Bompiani rammenta la sua adesione, seppur breve, al gruppo di Rivolta femminile. Dalle svolte di ciascuna, la prima all’interno di un partito e la seconda no, si iniziano a delineare i primi momenti – e ne descrivono diversi con discreta e godibile ironia – in cui hanno riconosciuto che essere donna non sarebbe stato esclusivamente un affare biologico o contingente bensì avrebbe comportato un mutamento dello sguardo, della posizione fino a quell’istante assunta. Per esempio, la coscienza di essere donne in un mondo organizzato dai maschi, in opposizione a una famiglia patriarcale (nel caso di Bompiani) o nelle contraddizioni interne al Pci (nel caso di Castellina).

Essere donne nel senso di una differenza sessuale consente a ciascuna di loro di scassinare lo sgabuzzino simbolico in cui per secoli il patriarcato ha creduto di rinchiuderci. Cosa ci sia dentro quel pertugio di sopraffazione, di violenza epistemica e storica, è un passaggio che spiegano con una certa dovizia a partire da loro stesse e da un punto di avvistamento non solo italiano ma internazionale. «Ci sono molti punti in comune tra il colonialismo e il patriarcato», scrive Castellina e mette in gioco l’identità, nominata più di una volta che tuttavia per Bompiani non esiste se non come invenzione o questione burocratica. Ci sono infine i corpi, le storie di tutte e tutti noi e i nodi più recenti che il femminismo ha affrontato, non tutti comprensibili, con alcune asperità insieme alle inquietudini sul futuro e sull’avanzare delle destre, nel frattempo.

da Il Corriere della Sera

Yasmina Reza è Yasmina Reza. Scrittrice, drammaturga, nessuna di queste. Definirla significherebbe circoscrivere l’esistenza. Cos’è Yasmina Reza? Per afferrare la portata della scrittrice parigina, autrice di una ventina di opere, dobbiamo smetterla di mentire. Ammettere chi siamo, a favore del mondo. Leggere Reza è estrarre la verità dalla retorica: riappropriarci di certi sguardi inconsueti, saper maledire il passare del tempo, imparare a goderci chi si arrabatta al posto nostro. Liberazioni.

I suoi libri sono questo. Questo, più qualcosa che sfugge, come succede a un grande autore finché non arriva un testo che lo contiene tutto. La vita normale è Yasmina Reza per intero. Un romanzo a più ritratti? Una raccolta di racconti? Chiarirlo è ridurre un dipinto di Rothko a uno sfondo colorato. O una partitura di Bach a un susseguirsi di note musicali. Si potrebbe banalizzare così: cinquantacinque spari narrativi tra Venezia e i tribunali francesi, con Reza a testimoniare il corso naturale delle cose. Di più non si può.

E se invece esistesse una parola, una sola parola, per catturare liridescenza di questopera?

«Se una parola simile esistesse – e non esiste – io sarei l’ultima a trovarla. Non ho uno sguardo critico né tantomeno speculativo sul mio lavoro. Lei adopera un termine che mi piace molto, l’iridescenza, una proprietà magica che dipende dall’angolo visuale. Intuitivamente lo approvo e ne sono commossa. Nel mio libro si affiancano, senza alcun ordine gerarchico, racconti apparentemente anodini o domestici e racconti di processi che sembrano esulare dall’ordinario. A seconda del modo in cui li osservo, assumono tutti i molteplici e sconcertanti colori della “vita normale”».

Forse dobbiamo scomodare Céline: la normalità è labisso. Quanto ha deciso questo libro e quanto è venuto naturale come la vita stessa?

«Sono anni che vado ad assistere a processi. All’inizio era per semplice curiosità e per il desiderio di sottrarmi alla specificità sociologica del mio ambiente professionale. Non avevo intenzione di farne un libro, e per un bel pezzo non ho neanche preso appunti. Finché poi ho cominciato a prenderne, e a scrivere brevi resoconti personali, come faccio da sempre in svariate situazioni. Così sono nati Hammerklavier e Nulle part. Fotografie soggettive della vita. Un giorno mi sono resa conto che quei testi si facevano eco e come da contrappunto gli uni con gli altri. La vita non è suddivisa in compartimenti stagni, è incasinata, e passa in un batter d’occhio dall’estremamente banale all’eccezionale».

È un libro che vince la morte, perché ne contrasta il patetico. Dopo averlo letto è più facile confrontarsi col destino. “Spoon River” mi fece lo stesso effetto.

«Oh, quanto mi piacerebbe! Lei è troppo generoso. La mia prima commedia si intitolava Conversazioni dopo un funerale. Ho cominciato a scrivere, per così dire, con lo sguardo rivolto a una tomba. E non ho mai smesso. Vedo ogni cosa alla luce del limite. Si ricorda qual era, per Epicuro, il rimedio alla morte? “Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”. È vero, ma solo al livello dello stato di coscienza. Per il resto, la morte è onnipresente, come inclusa in noi stessi, e viene esperita, ahimè, quando si tratta degli altri».

Spoon River” gioca con i rimpianti nella tomba. “La vita normale” lo fa con i rimpianti in corso, forse. Ma forse sotto sotto dà una possibilità ai suoi personaggi di invertire la rotta, avvicinandoli a una forma di tenerezza.

«La sua domanda mi ricorda, ammesso che sia necessario, a che punto un libro appartiene al lettore. Personalmente, non mi sembra che nella Vita normale si parli poi tanto di rimpianti, tranne forse in un paio di testi. In compenso, la vera costante, secondo me, è l’irreversibilità del tempo. Sono felice, tuttavia, che lei citi la tenerezza. Su questo sì che sono d’accordo».

Vorrei confidarle una cosa: leggendolo, mi è venuta in mente una riflessione di Goliarda Sapienza sugli effetti imprevedibili dei libri nei lettori. Diceva: quando un libro è stato scritto in libertà – la vera libertà – dopo farà quel che gli pare. C’è un sentimento (o unurgenza), magari sottotraccia, di cui si è nutrito?

«Lei mi tortura, caro Marco! Ma la frase di Goliarda Sapienza è assolutamente giusta. Penso che qualsiasi scrittura dotata di un qualche valore scaturisca da una ricerca sotterranea e ostinata. Proprio in questa ricerca risiede la libertà. Le parole non dicono che una parte visibile, in realtà costruiscono un certo silenzio. Il silenzio è predominante, è ciò che resta, e ciascuno lo interpreta a modo suo. Per quanto riguarda la sua domanda, ho cercato invano una risposta. Forse è qualcosa di indicibile».

La questione del silenzio è capitale. Avevamo definito “acquari” gli spazi in cui i suoi personaggi si muovono, perimetri teatrali dove vanno in scena non-detti. “La vita normale” ha acquari e silenzi già nella struttura, brevi racconti dove le anime nuotano nellesistenza. In questo, il capitolo su Roberto Calasso mi sembra esemplare. Lattendere il taxi di Calasso, il sospetto che si annoi e che tempo dopo la verità su questa noia venga a galla. Perché Calasso come scelta? Cosa trasforma una persona in qualcosa che valga la pena di essere raccontato?

«Se una persona si inscrive nel tuo universo sensibile te ne accorgi subito. Io ho un debole per quelle angosciate e quelle inclassificabili. Ero a conoscenza delle formidabili qualità intellettuali dell’uomo. Ma Roberto Calasso “dal vivo” mi è subito piaciuto enormemente. Il suo terrore di essere costretto a fare conversazione con un nuovo scrittore (terrore che capisco benissimo), la sua incapacità di fingere un’amabilità mondana, la sua immediata facilità alla noia (che si annoiasse non era un sospetto, per me, era un dato di fatto inequivocabile). Il cappotto abbottonato fino al collo come un bambino che aspetta che vengano a prenderlo! Tutto questo è materia preziosa».

Il cappotto abbottonato di Calasso, ma anche la postura «leggermente curva» di Bruno Ganz al tavolino. Mentre si legge il racconto che gli ha dedicato, la sensazione è di una malinconia luminosa (e a sorpresa) che ci sfugge. È come se questo libro l’avesse catturata, ma ho il sospetto che sia stato possibile perché il narratore ne è testimone a pelle viva. Una prima persona singolare normale e proprio per questo, totale.

«Le sue parole mi colpiscono. In quanto narratrice mi situo sempre esattamente alla stessa altezza delle persone che osservo. Non saprei che cosa aggiungere, dato che lei descrive alla perfezione ciò che tento di cogliere ogni volta, nell’aula di un tribunale come nella vita quotidiana».

Ma gli eventi giudiziari non la corrompono? Truman Capote disse che con i potenziali criminali rischiava di perdere la giusta distanza perché gli regalavano storie meravigliose.

«Truman Capote aveva stabilito un legame reale, fisico, con gli imputati. Si era addirittura affezionato a loro. Anch’io mi affeziono. Ho un debole per alcuni, ma resto a distanza, tra me e loro non esiste alcun rapporto. Nessuno mi ha raccontato storie meravigliose! Nella frase di Capote intravedo un lieve romanticismo. Ma capisco quello che dice, dal momento che appena ci si avvicina davvero alle persone le affinità umane alterano il giudizio morale».

E siamo arrivati a Venezia. La città di questo libro, una delle sue città. Che storia c’è tra Yasmina Reza e Venezia?

«Un amico mi aveva detto: è una città propizia all’ispirazione letteraria. Lui ci stava girando un film. Sono andata sul set ed è stato un colpo di fulmine. La bellezza, la storia incredibile, la libertà di movimento, i rumori notturni, la strana e incomprensibile laguna… Il mio attaccamento alla città non è mutato, ma Venezia non è quasi più una città reale. È ormai totalmente in balìa di quella calamità che è il turismo di massa, e si sta tragicamente spopolando. Da quando ci abito una parte dell’anno, il mercato si è ridotto della metà. I negozi chiudono l’uno dopo l’altro per diventare o ristoranti o assurde bottegucce di souvenir. Tutto ciò mi rattrista enormemente».

Sa cosa diceva W.G. Sebald? A un certo punto rischiamo di innamorarci di una città che rispecchia la nostra architettura di storie. Se penso a Venezia, e a libri come “Felici i felici”, “Babilonia”, “Serge”, gli scritti teatrali, “La vita normale”, ecco, mi appare che la sua pagina sia questa mappa: per le “isole” circoscritte che crea nelle strutture, la brevità, gli ambienti dove incontrarsi quasi per caso e svelarsi, il mondo della notte, linvasione dei destini altri, una certa dose di disincanto rispetto al passato.

«Un’osservazione che mi sconcerta, la sua. Non ci avevo mai pensato – del resto, non rifletto mai sulla mia scrittura –, ma non posso negare che lei abbia ragione. Sì, certo, gli spazi circoscritti, le unità classiche di tempo e di luogo, un certo mondo conchiuso, il caso che governa gli incontri, gli eventi che si producono all’angolo di una calle e sono come catastrofi in miniatura. Anche la questione del tempo è onnipresente a Venezia. Il tempo che lascia un segno sui muri, la schiuma dei canali, l’abbandono in cui versano tante sue zone. Credo si possa trovare traccia di tutto ciò nelle emozioni che mi guidano e su cui si basano i miei testi. Ma lei l’ha detto meglio di me. Mi viene in mente un’altra cosa: in genere, i posti in cui agiscono i miei personaggi mi diverto a inventarli. Invento nomi di città, di strade. Venezia è la sola città di cui cito i veri toponimi».

Probabilmente perché è un teatro a cielo aperto. In questo Venezia unisce le sue arti capitali, la drammaturgia e la narrativa, attraverso il passare inesorabile del tempo, che forse è la sua più grande ossessione.

Quanto fa incazzare il passare inesorabile del tempo. Secondo lei i libri, la vita normale che scorre nei libri, ne sono antidoto?

«Sarebbe stupendo se fosse così! Direi, piuttosto, che i libri confermano la fuga inesorabile del tempo. La vita normale che scorre nei libri è ancora più effimera della vita normale che viviamo. È una vita che si è già svolta. Nel passato. Anche se la narrazione è al presente si tratta di un presente compiuto. In un certo senso, la letteratura è incapace di fissare il presente. Nel migliore dei casi illumina un presente universale che potrebbe riprodursi ma che ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che la vita è fragile e breve. La lettura, in compenso, è un atto che, come la preghiera, consiste nel sottrarsi al tempo».

Da lettrice, ha libri – o autrici, autori – che lhanno sottratto alla maledizione del tempo? Ne “La vita normale” cita “Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksievič.

«Non è una questione di autori: parlo del semplice fatto di leggere. Leggere ci separa dal contesto immediato. È un una pausa tecnica, se me lo consente. Il tema centrale di Tempo di seconda mano sono proprio le epoche, la nostalgia, il senso della perdita. Un capolavoro, questo, che non può in alcun modo strapparci alla percezione del tempo».

Una domanda da non fare mai a Yasmina Reza: a questo punto della sua esistenza, e del suo percorso artistico, e contro lo scorrere del tempo, cosa la rende felice?

«Anche ammesso, caro Marco, che io fossi disposta a rispondere a una simile domanda, non ci riuscirei! La gioia è inattesa, ci prende alla sprovvista. Anzi, non sono nemmeno sicura che dipenda dalle circostanze. In passato, quando ritenevo di star costruendo la mia esistenza, ero più eccitata, più nervosa, ma certo non più gioiosa. In definitiva, le cose che contano sono sempre le stesse. E sono infinitamente banali. Camminare nella natura, discutere dei massimi sistemi e ridere con i miei cari, con i miei amici».

Era un interrogativo che avrei voluto porre ai suoi personaggi. Soprattutto alle anime della Vita normale. Cosa li rende felici? Non sapevo immaginare una risposta e forse ho capito perché: perché la banalità della gioia è un atto straordinario. Normali i normali, ribaltando Borges.

«In Babilonia la narratrice, pur travolta da eventi tragici, accenna alcuni passettini di danza al centro del salotto di casa. Nella Vita normale il personaggio di N., dopo una serata in cui non ha fatto altro che lamentarsi, canta scendendo le scale. Sempre nello stesso libro, un assassino di donne ride nel sentire la frase di una delle sue vittime miracolosamente scampata alla morte. E anche la vittima ride, di cuore, e anche la corte. Niente a che vedere con la felicità, in tutto ciò: sono solo attimi di gioia. La gioia per effrazione. La gioia insolente che si intrufola nella vita, spesso controcorrente. Si trovano molti esempi di questo tipo di gioia nelle mie opere teatrali e nell’insieme dei miei testi. È una forma di frivolezza esistenziale. Ho sempre pensato che sia questa predisposizione a salvarci».

La gioia insolente, oltre la felicità. E la leggerezza, intesa come sostanza delle parole nella loro precisione e necessità. Il prossimo Salone del Libro di Torino avrà come tema proprio questo essere leggeri – attraverso la parola – nellincontro con il mondo. Lei lo inaugurerà, e trovo la sua partecipazione puntualissima, vista la spinta che ha nel delineare la realtà.

«La leggerezza non si impone per decreto. È un’attitudine originaria, diciamo così. Nella vita come nella letteratura. Spesso la si confonde con un difetto di sostanza o di profondità. È un errore. Mi piace, inoltre, il nesso che lei stabilisce tra leggerezza e precisione. Sì, la leggerezza presuppone la precisione».

«Gli annegati parlano ai vivi». È lincipit di uno dei tasselli de “La vita normale”. Potrebbe avere a che fare con lintero suo percorso artistico. Una sorta di richiamo, che viene dallabisso, e che tocca chi è su questa terra, avvertendolo che il destino nascosto nella normalità è sempre «prendere il mare e non tornare più in porto». Lo sente come filo conduttore dei suoi scritti?

«Sì, noi tutti prendiamo il largo, ci imbarchiamo, e non facciamo mai ritorno al porto da cui siamo salpati. Mi viene da citare un poeta francese che ammiro, Charles Pennequin: “Prima della notte del vivente c’è la notte del prima di vivere. La grande notte. E dopo, poi, c’è la grande notte del dopo. E a noi dicono di vivere proprio al centro”. Il che mi ricorda una frase di uno degli epitaffi di Spoon River: “Entrate nella stanza – ovverosia nascete;/ e poi dovete vivere – affaticarvi l’anima”. La letteratura fa eco alla letteratura. È una grande sfida mantenere il proprio posto di vivente quando la destinazione finale è opaca. Questo miscuglio di slancio vitale e incertezza non è forse il filo conduttore di tanti scrittori?».

da L’Altravoce il Quotidiano

Ci sono giornalisti televisivi che con le loro inchieste rendono onore a se stessi e al giornalismo. Mi riferisco a Riccardo Iacona con la sua trasmissione Presa Diretta e a Sigfrido Ranucci con Report, l’uno subentrato all’altro quasi come un passaggio di testimone. Domenica scorsa Iacona ci ha regalato un reportage straordinario dentro Gaza, raccontato, attraverso le immagini e le testimonianze raccolte durante la tregua e poi nella ripresa feroce dei bombardamenti, da due giovani palestinesi, Fatena, una fotografa di venticinque anni che vive a Gaza City nel nord della striscia e Hassan, giornalista che si trova a sud. Case distrutte, emergenza sanitaria, quotidianità stravolta dall’assenza di luce, cibo e acqua, la morte che colpisce donne e bambine/i, è questo l’orrore dell’occupazione e dei bombardamenti d’Israele che, come ha denunciato il segretario generale dell’Onu, António Guterres, «ha trasformato Gaza in un campo di sterminio. I civili si trovano in un circolo di morte senza fine. Bombardati senza sosta, nessun posto è al sicuro. Non hanno accesso agli aiuti umanitari. Dobbiamo liberare i palestinesi». Alle sue parole fa eco l’iniziativa “Marcia verso Gaza” lanciata in Francia per giugno, tramite un gruppo Telegram a cui stanno aderendo in migliaia da tutto il mondo. Una marcia per raggiungere a piedi il valico di Rafah, forzare l’apertura della frontiera per permettere l’ingresso degli aiuti umanitari e, se necessario, arrivare fino in Cisgiordania. Intanto Riccardo Iacona con il suo reportage è stato accusato di antisemitismo e di “parzialità” per aver intervistato Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. La diplomatica ha denunciato come dall’ottobre 2023 a Gaza accadano «crimini di guerra e contro l’umanità, in violazione delle regole di guerra, crimini diffusi e sistematici contro la popolazione in maniera intenzionale». Scuole, ospedali, università, rete fognaria ed elettrica, tutto raso al suolo. Uccisi 60.000 palestinesi di cui 18.000 bambine/i e «dieci volte tanto quelli feriti molti dei quali menomati a vita, 1500 famiglie sterminate, tra le quattro e le cinque generazioni cancellate dalla terra». Israele che ha uno degli eserciti più potenti al mondo e del Medio Oriente sta facendo quello che chiamiamo acriticamente guerra, contro la popolazione di Gaza. «Non c’entra molto Hamas e non c’entra la liberazione degli ostaggi come ormai i politici israeliani lo dicono liberamente […]. Israele sta commettendo atti genocidari, volti a distruggere, a infliggere sofferenze fisiche e psichiche con l’intento di distruggere i palestinesi in quanto tali. Ad ogni guerra Israele porta avanti la pulizia etnica di quello che resta della Palestina, distruggendo tutto e ammazzando quanti più palestinesi possibili. È successo nel ’48, è successo nel ’67 e succede anche oggi. L’ Occidente, incluso il nostro Paese, continua a trasferire armi a Israele […], quando in realtà l’obbligo di tutti, inclusa l’Italia, è quello di non riconoscere, né aiutare, né assistere un Paese che commette violazioni come quella che la Corte di giustizia delle Nazioni Unite ha riconosciuto essere un’occupazione illegale, finalizzata all’acquisizione di terra, sfollando o mantenendo il regime d’apartheid dei suoi abitanti». Vedere e ascoltare cosa sta succedendo a Gaza, dove ancora oggi i reporter stranieri non possono entrare e i giornalisti locali vengono uccisi a centinaia, non è antisemitismo. Fare capire cosa sta subendo il popolo palestinese dopo un anno e mezzo da quel tragico 7 ottobre, non è antisemitismo. Togliere il velo a ogni giustificazione allo sterminio del popolo palestinese, non è antisemitismo. Riccardo Iacona per il suo reportage dentro Gaza va ringraziato e ogni tentativo di intimidazione va respinto.

da il manifesto

Caro manifesto,

ho letto l’articolo di Lea Melandri Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre pubblicato il 24/04/2024 e vorrei condividere alcune osservazioni perché a mio parere contiene fraintendimenti, confusioni e accostamenti impropri. In primo luogo, c’è un equivoco sulla critica al dualismo sesso-genere. Lea Melandri lascia intendere che il femminismo della differenza sessuale utilizzi in modo rigido e tradizionale questa coppia di opposti, ma in realtà il pensiero della differenza ha espresso, fin dalle sue origini, una critica radicale al binarismo imposto dal patriarcato. Come scrive Chiara Zamboni, «la differenza sessuale non è un contenuto», non è un’essenza, ma un’apertura simbolica, uno squilibrio che ciascuno, ciascuna porta nell’ordine già dato che permette un guadagno di libertà per tutti.

C’è poi un fraintendimento dell’ordine simbolico della madre, che Melandri considera una valorizzazione della maternità come destino biologico inevitabile, il perpetuarsi di un ruolo imposto alle donne. In realtà rappresenta una discontinuità: il riconoscimento della genealogia femminile è stata la mossa politica che ha permesso di rompere con l’ordine patriarcale fondato sulla figura del padre come unico garante di autorità e senso. La creazione di un nuovo ordine simbolico allarga la prospettiva, è ben lontana dalla conservazione ed essenzializzazione del ruolo materno.

Inoltre, trovo difficile comprendere il riferimento alla presunta paura di alcune donne di «perdere potere» a causa della presenza di donne trans. La differenza non è essenzialismo biologico, è movimento simbolico e relazionale che coinvolge il corpo, la lingua, l’immaginario e il desiderio. Nel corpo vivente natura e cultura sono intrecciate sin dal principio: il corpo è immaginato, nominato, avvolto da desideri e significati a partire dalla relazione con la madre e con la lingua che ci forma. Il corpo è attraversato da linguaggio e desiderio e si trasforma nel tempo e nella relazione con gli altri: non è l’anatomia a definire l’essere donna, ma un percorso soggettivo, simbolico e politico, che si costruisce nella relazione con altre donne, con la lingua, con il mondo. È per questo che non capisco cosa sia un potere fondato sul sesso biologico: la differenza è un orizzonte simbolico in cui le donne possono esistere e parlare a partire da sé, dalla propria singolarità. Un orizzonte che può incontrare e dialogare con altre soggettività in cammino, anche trans, senza negare la forza e la necessità della differenza femminile come categoria simbolico-politica.

Infine, nel suo testo Lea Melandri lascia intendere che il richiamo alla differenza sessuale possa essere facilmente strumentalizzato da posizioni conservatrici, come quelle espresse dalla ministra Roccella, finendo così per essere assimilato a una difesa reazionaria della biologia e dei ruoli tradizionali.

Le posizioni conservatrici che vedono le persone trans come una minaccia all’identità femminile si fondano su una separazione rigida tra biologia e linguaggio, tra sesso e cultura. Il pensiero della differenza, al contrario, parte dalla porosità tra natura e cultura, essendo lontano tanto dalla naturalizzazione del corpo quanto dalla sua determinazione normativa. Accostare il pensiero della differenza a politiche che vogliono restringere diritti o congelare ruoli di genere significa fraintenderlo radicalmente, essendo il suo intento originario la trasformazione del simbolico per dar spazio al desiderio, alla soggettività, alla relazione, come elementi fondativi della vita e della politica. «Per noi essere donna non è riducibile a biologia naturale né identità linguistica», scrive Chiara Zamboni e questo significa che l’essere donna è un processo in divenire, una ricerca di senso in relazione con altre e altri, mai un confine da difendere con le armi della legge o del rigore normativo.

*Libreria delle donne di Milano

Intervista a Luca Cultrera

“[…] Mi piacerebbe organizzare a Caltagirone […] una manifestazione in cui a sfilare siano solo uomini: ragazzini, adolescenti, giovani, adulti, anziani. Nessuna bandiera politica, nessuna sigla. […] Solo uomini che in silenzio sfilino assumendosi la responsabilità della continua violenza perpetrata sulle donne, dal patriarcato infame ai femminicidi. […] invito […] chiunque voglia aderire, a scrivermi […] per capire insieme se e come realizzare questo evento”.

È partita così, con un post scritto il 2 aprile scorso dall’avvocato Luca Cultrera sulla sua pagina Facebook, l’iniziativa che sabato 19 ha portato in piazza centinaia di ragazzi e di uomini che hanno aderito alla sua proposta.

Un impulso, racconta al telefono l’avvocato Cultrera, «nato dalla profonda angoscia che ancora una volta ho provato dopo i femminicidi di Ilaria Sula a Roma e – ancor di più, per la sua vicinanza geografica e “di contesto” – di Sara Campanella a Messina, ma che viene da lontano: da molto tempo mi interrogo sulla violenza agita dagli uomini sulle donne. Come penalista me ne sono occupato sia dalla parte delle vittime che da quella dei carnefici. E anche “a partire da me” ho partecipato a molte manifestazioni, a eventi e dibattiti, trovando sempre vergognosa la scarsa presenza maschile: sempre donne che parlano ad altre donne, e gli uomini quasi del tutto assenti, come se questo fenomeno non ci riguardasse. Il senso di impotenza che ho provato per altri due brutali femminicidi mi ha spinto a fare qualcosa. Mi sono interrogato. Ho pensato alle volte in cui mi sono lasciato andare a battute meschine, sessiste, in cui il mio modo di pensare o di comportarmi ha potuto mettere a disagio una donna. Mi sono chiesto cosa possiamo fare noi uomini, cosa posso fare io, in prima persona. E ho sentito il desiderio di cercare altri uomini che vogliano mettere in moto insieme un percorso di presa di coscienza e di impegno per avviare un cambiamento culturale profondo e duraturo. Ma non mi aspettavo una reazione così positiva… Una condivisione così ampia e partecipata, che mi ha davvero sorpreso…».

Al suo messaggio, infatti, hanno da subito risposto in moltissimi: uomini che oltre a dare la loro adesione si sono messi a disposizione operativamente e hanno partecipato alla definizione dei contenuti e del “format” della manifestazione (come ad esempio Giovanni Canfailla, fotografo professionista che ha proposto una postazione dove chi voleva poteva farsi scattare una foto, per rappresentare concretamente il desiderio di “metterci la faccia”). Ma anche donne, che hanno appoggiato l’iniziativa e contribuito significativamente a diffonderla.

Una presenza e un contributo, quello femminile, a cui Luca Cultrera dà grande importanza: «Nel comitato organizzatore che abbiamo formato ho invitato una donna molto impegnata su questo tema, al cui pensiero e alla cui esperienza riconosco grande valore, perché ci restituisse il suo sguardo e il suo punto di vista sui contenuti e le modalità che andavamo elaborando fra uomini. Ed è stato, il suo, un contributo essenziale, che ci ha aiutato a mettere a fuoco meglio molte cose, oltre a consentirci di entrare in contatto con singole, gruppi e associazioni con cui lei è in rapporto. Dallo scambio con lei e altre è nata anche la frase che ha dato il nome all’iniziativa e al comitato che è stato costituito, #noncisonoscuse», e hanno preso forma le modalità con cui l’iniziativa si è svolta: «la manifestazione degli uomini, aperta da un telo bianco (perché troppe sono state le parole spese invano negli anni scorsi. È il tempo dell’azione, dei fatti concreti, dell’impegno), ha incontrato sul ponte di S. Francesco un corteo delle donne, alla cui testa c’era invece lo striscione con la scritta #noncisonoscuse: un momento ricco di significati simbolici, dalla scelta del luogo (perché per noi qui quello è proprio il ponte dell’incontro), all’immagine delle donne che da troppo si aspettano che gli uomini facciano i conti con il patriarcato e la violenza».

Insieme i due cortei hanno raggiunto Piazza del Municipio, «metafora del desiderio di un cammino comune, dopo il riconoscimento da parte dell’uomo che il percorso è lungo, che è rimasto indietro e che è sua, nostra responsabilità fare passi verso il cambiamento».

Lì dove ci sono stati diversi interventi ed è stato letto il “decalogo” elaborato dagli uomini: riconosco la fragilità e la sensibilità come qualità che rendono migliori gli esseri umani; esprimere le emozioni non è debolezza, ma forza; rispetto la libertà, l’autonomia e l’indipendenza di ogni donna: nessuno ha potere assoluto sull’altro; rimango fuori da ciò che non mi è concesso: il “no” di una donna non è una sfida da cogliere, ma un confine sacro e inviolabile; rifiuto l’uso della forza, della prepotenza e dell’aggressività come forme di interazione tra uomini e donne: non alzo la voce, non punto il dito, non mi impongo con la forza, non faccio commenti umilianti; non faccio battute sessiste e prendo le distanze da chi le fa; intervengo e denuncio qualsiasi forma di violenza contro le donne, anche se coinvolge qualcuno a me vicino: l’indifferenza è complicità; educo e mi educo: parlo apertamente di femminicidio e violenza di genere con figli, amici e colleghi; non cerco alibi: non ci sono scuse che giustifichino la violenza; non oserò mai fare a una donna ciò che non vorrei fosse fatto a mia figlia, a mia madre o alle persone a me più care; scelgo di non restare a guardare, agisco per il cambiamento: parteciperò alle manifestazioni #noncisonoscuse per onorare la memoria delle donne uccise finora».

Dopo il successo dell’iniziativa, «il sogno – l’ambizione», dice Luca Cultrera «è che da Caltagirone possa partire un’onda che si allarghi a macchia d’olio a tutto il nostro territorio – un Sud ancora molto segnato da una cultura patriarcale – e anche a livello nazionale».

Intanto il comitato ha deciso di proseguire nel suo percorso: i primi passi, «la richiesta che nelle scuole siano attivati spazi di educazione all’affettività, perché i bambini e i ragazzi, che siamo stati felici di vedere numerosi in corteo, imparino un’altra “grammatica delle relazioni” che li aiuti a uscire dal disagio che registriamo, dalla violenza che li circonda e che in troppi giovani agiscono; e l’apertura di centri d’ascolto per i maschi violenti, che qui sono del tutto assenti».

da Mag Verona

Testimoniare il male senza dimenticare il bene

Convegno Città Vicine

Circolo della rosa Libreria delle donne di Milano in Via Pietro Calvi 29

17-18 maggio 2025

Testimoniare il male senza dimenticare il bene (Maria Concetta Sala)

con un filo di pazzia… (Marguerite Duras)

Testimoniare il male delle 56 guerre nel mondo senza dimenticare il bene di chi lavora per capirne le ragioni e trovare soluzioni, di chi piange per l’assurdità di tanto dolore, di chi invita a “disarmare le parole, le menti, la Terra” (Papa Francesco), di chi vede nell’opera materna il mezzo per eliminarle dalla Storia.

Testimoniare il male di un’Europa bellicista, fortezza e vassalla neoliberista “dall’anima perduta e senza madre” (Stefania Tarantino) senza dimenticare il bene dell’Europa di Ventotene, di María Zambrano e di Simone Weil, delle “altre” istituzioni, sconosciute e da inventare, che guardino oltre “l’ingiustizia, la menzogna, la bassezza”, che facciano tesoro delle tante esperienze di comunità fondate principalmente sulle relazioni.

Testimoniare il male dell’urbanistica della solitudine e della sofferenza, umana e ambientale, quella delle panchine coi cilindri di acciaio e dei cancelli chiusi (Valeria Parrella), delle torri abusive e dello sterminio dei campi e degli alberi, senza dimenticare il bene del “senso delle donne per la città” (Elena Granata) fatto di relazioni, arte, cura, salute, creatività, pensiero per chi è più fragile.

Testimoniare il male delle politiche securitarie e delle zone rosse che vogliono imbrigliare le pratiche di libertà e il pensiero divergente senza dimenticare il bene di donne e di uomini che cercano nuove mediazioni necessarie che vogliono fare dialogare la politica delle donne con quella delle istituzioni. Testimoniare il male di donne al comando nei poteri forti che agiscono in soccorso e al fianco delle nuove fratrie patriarcali, incapaci di cogliere le potenzialità germinative di un nuovo ordine senza dimenticare il bene delle tante donne impegnate a costruire insieme la civiltà delle relazioni di differenza per essere due nel mondo.

Testimoniare il male di derive neutrali del linguaggio che annullano la differenza sessuale senza dimenticare il bene della potenza della lingua materna che abita le relazioni e i corpi, che sa dei bisogni e delle singolarità, che non conosce il collettivo neutro indifferenziato.
Testimoniare il male dei sussulti violenti del post-patriarcato, senza dimenticare il bene di un’interrogazione sulla crisi irrisolvibile delle democrazie occidentali e la ricerca di forme di amministrazione della cosa pubblica ispirate a un orientamento “post dicotomico dell’economia” (Ina Praetorius).

Testimoniare il male senza dimenticare il bene delle nostre pratiche,

per aprire a un futuro già radicato nel presente.

Sabato 17 maggio 2025 ore 16.30-19.30. Domenica 18 maggio ore 10.00-13.00.
La sera di sabato sarà possibile cenare al Circolo della rosa previa prenotazione a info@libreriadelledonne.it
Per informazioni rivolgersi a Anna Di Salvo: annadisalvo9@gmail.com +393332083308

da Biblioteca delle donne – UdiPalermo

È possibile una rivoluzione che dall’arte si estenda al mondo e sovverta il pensiero dominante.

È possibile una rivoluzione intellettuale che sfidi il paventato ritorno a tempi bui e riconosca “definitivamente” i diritti conquistati dalle donne con la parola e la ribellione non violenta.

Quelle conquiste oggi sono sotto assedio, a noi il compito di alimentarle.

Al di là delle piccole o grandi rivoluzioni che molte donne accendono nei propri ambiti territoriali: nel lavoro, in famiglia, nella società, sento possibile un coro unanime di voci che si alzi dall’infamia per risalire le vette inesplorate della nobiltà dei cuori, della sensibilità dell’anima, dell’humanitas e della pietas.

Ma le voci sembrano silenziose, inghiottite da una costante, progressiva eclisse. Ecco perché – qui e ora – desidero ricordare un’artista che ha reso la “voce” e la musica veicolo per assurgere ai valori simbolici delle grandi rivoluzioni.

Il campo dell’arte ha la vastità degli oceani; ne ritaglio un rivolo per rendere onore a quella voce e al respiro musicale che raggiunge le sommità della poesia e agita la terra, come l’aratro quando libera le zolle incatenate tra loro.

In una società come quella americana che negava agli/alle afroamericani/e la dignità e l’uguaglianza, le grandi cantanti blues come Nina Simone, Bessie Smith, Billie Holiday e altre davano visibilità all’intima e personale esperienza “blues” della propria vita e di quella della comunità nera; quelle artiste divennero simbolo di lotta e contribuirono in modo dirompente ad indicare un lento e difficile processo di emancipazione.

Sento prepotente il desiderio di ricordare Billie Holiday (nata a Philadelphia il 7 aprile 1915) non solo perché è una delle voci più grandi di sempre del panorama jazz e blues, ma anche perché è stata la prima a esporsi contro le crudeli forme di violenza verso il popolo nero. Nessuno/a più di lei conosceva la sofferenza. A soli dieci anni fu violentata e, giudicata corrotta, rinchiusa in un riformatorio. Da lì fu facile diventare prostituta e poi, per caso e per fortuna, essere assunta come cantante in un locale di Harlem.

Nel 1939 il cinema celebrava una pacifica coesistenza tra bianchi e neri con il film Via col Vento, ma la verità era un’altra. Le tragedie del razzismo, causate in gran parte dal Ku Klux Klan, vengono portate in musica da una canzone dal testo crudo e straziante cantato dalla voce sofferta di Billie. Nessuna casa discografica, all’inizio, accetta di pubblicare il brano. La cantante, però, crede nel potere di quelle parole e continua a cantarlo.

Strange fruit parla dei/delle neri/e linciati/e, penzolanti come “strani frutti” dagli alberi. Il testo ruota intorno alla metafora della gente nera impiccata. La canzone venne successivamente definita come “la prima significativa protesta in parole e musica, il primo lamento non tacito contro il razzismo”.

La diffusione di Strange Fruit è importante non solo perché segna una svolta fondamentale contro il razzismo imperante, ma anche perché riesce a connettere elementi di protesta e di resistenza, al centro della cultura musicale del popolo nero, con un processo di legittima riappropriazione delle origini africane.

A New York lo spettacolo sta per terminare. Nel silenzio assoluto Billie canta Strange Fruit. La canzone vola fino ai piedi degli alberi del sud, quelli insanguinati sui tronchi, sulle foglie, sui rami fino alle radici. Lady Day, così era chiamata Billie, con la gardenia bianca tra i capelli, canta davanti al suo pubblico che applaude incantato. Ancora non sa che per troppe volte le impediranno di cantare e di incidere quella canzone.

Non è per caso che proprio un uomo, lo scrittore Stefano Benni, abbia scritto di lei:

E quando tornerete a casa dite
Ho sentito cantare un angelo
Con le ali di marmo e raso
Puzzava di whisky era negra puttana e malata
Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate
Sono la regina di un reame di stracci
Sono la voce del sole sui campi di cotone
Sono la voce nera piena di luce
Sono la lady che canta il blues
Ah, dimenticavo … e mi chiamo Billie.

da La Stampa

Non riusciamo a notarlo perché lo abbiamo (sempre) aperto davanti agli occhi.

Wittgenstein

In questi giorni, in Francia, si discute di una miniserie che tratta di violenza contro le donne: Da rockstar ad assassino – Il caso Cantat. Non ha le ambizioni estetiche di Adolescence, ma merita di essere guardata: ripercorrendo con la sensibilità di oggi un caso di cronaca di venti anni fa è un’esemplare esperienza di straniamento storico.

L’attrice francese Marie Trintignant fu uccisa nell’estate del 2003, in un albergo di Vilnius, dal compagno Bertrand Cantat. Il carismatico cantante del gruppo rock Noir Désir la massacrò di botte nel corso di una lite dovuta a gelosia, lasciandola in coma per ore prima di chiamare i soccorsi. Processato in Lituania, Cantat fu condannato a otto anni di carcere per omicidio preterintenzionale, ma ne scontò solo quattro. L’epilogo della storia comprende il suicidio della moglie, Krisztina Rády, la cui testimonianza era stata decisiva per dimostrare la tesi dell’incidente: la ricostruzione lascia intendere che anche lei sia stata vittima di abusi prima e dopo la morte di Marie. Cantat, cui non è mai mancato il sostegno dei fan, ha poi cercato di rilanciare la sua carriera musicale, ma il suo ritorno in scena si è scontrato con l’ostilità dell’opinione pubblica maturata in seguito al movimento MeToo.

La serie è sensazionalistica e un po’ superficiale; affronta la vicenda da troppi punti di vista, interrogandosi, oltre che sulla violenza di genere, sull’omertà dell’industria discografica e sul rapporto tra arte e morale. Il suo interesse risiede nel materiale documentario, in particolare quello relativo al dibattito mediatico sul crimine che oggi sarebbe definito “femminicidio” ma che all’epoca fu commentato come “delitto passionale”. Non solo chi difendeva Cantat, ma anche opinionisti neutrali empatizzavano con l’assassino, rilasciando dichiarazioni che oggi suonano allucinanti. Che grande storia d’amore finita male: più che un crimine, un dramma! Marie se l’era cercata: castrante, isterica, poteva “uccidere con le parole”. Bertrand l’amava troppo. Come non sospettare di infedeltà una donna che ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi? (Questa è di un collaboratore degli Inrockuptibles, rivista culturale della sinistra alternativa, per nulla turbato invece dal fatto che Cantat avesse abbandonato sua moglie a poche ore dal parto). A ripetere tali assurdità erano spesso persone in buona fede – come una giornalista intervistata che ammette di faticare a riconoscersi nelle opinioni di allora, e non si dà pace all’idea di essere stata complice di un simile accecamento collettivo.

La cecità della giornalista è stata anche la mia, la nostra. Ne soffre chiunque sia immerso in un ordine simbolico, nell’ideologia di un sistema sociale. Chi ci vive dentro non può vederla, la considera trasparente, come un pesce non fa caso all’acqua in cui nuota. Chi osserva l’acquario da fuori perché appartiene a un altro sistema di valori, come un visitatore straniero o come la spettatrice del 2025, viene colto dalla vergogna e dall’orrore: come era possibile, solo due decenni fa, e nella civilissima Francia, parlare di una donna uccisa a pugni e calci come se fossimo nella Sicilia dei film di Germi?

La visione della serie suscita altre domande. Come avvengono le mutazioni ideologiche? Come si passa da un regime percettivo e valutativo fondato su costumi patriarcali alla critica che li mette in causa? Una risposta approfondita meriterebbe un libro, ma suppongo che le svolte avvengano per l’azione congiunta di piccole trasformazioni progressive – le gocce che scavano la roccia – e di cambi di paradigma comparabili a rivoluzioni. Su un piano agiscono le rivendicazioni dei movimenti e dei partiti politici, le modifiche del diritto, l’educazione familiare e scolastica, la diffusione e l’imitazione di nuovi costumi. Sull’altro, gli eventi improvvisi e irreversibili che squarciano il cielo di carta: qualcuno grida per la prima volta “Il re è nudo!”, e nulla sembra più come prima. Da questo punto di vista, trovo condivisibili le conclusioni suggerite dalla miniserie: l’equivalente della presa della Bastiglia per la rottura dell’illusione patriarcale è stato probabilmente il MeToo.

Un’altra questione, di ordine diverso, riguarda la situazione italiana. Il confronto con lo stato del discorso pubblico in Francia è deprimente. Dopo una stagione dominata dalle rivelazioni sui casi di incesto e allo stupro collettivo di Gisèle Pelicot, sono usciti i risultati della commissione parlamentare sulle violenze sessiste e sessuali nel mondo dello spettacolo; le inchieste ora coinvolgono la scuola e la chiesa, e si parla del fenomeno – boccaccesco ma sintomatico, anche perché molto esteso – del voyeurismo nelle piscine pubbliche (filmare sotto le gonne è un reato in Francia). La stessa vitalità nel mondo intellettuale: per citare solo qualche lettura recente, la filosofa Manon Garcia ha appena pubblicato il pamphlet femminista Vivere con gli uomini; la sociologa del diritto Irène Théry ha descritto, nel notevole Moi aussi (Anch’io),l’intreccio tra la storia della giurisprudenza sessuale e la sua esperienza biografica di bambina molestata a otto anni. Leggendo i giornali francesi ci si sente parte della riflessione collettiva su un sistema ormai percepito come intollerabile – un dibattito controverso, non immune da ingiustizie ed eccessi (quale rivoluzione ideologica non ne comporta?). Ma che costringe l’opinione pubblica a confrontarsi con i presupposti inaccettabili della nostra forma di esistenza e a immaginare delle vie d’uscita.

Passando le Alpi, si ritorna nell’acquario. Malgrado lo choc per Giulia Cecchettin ci abbia fatto credere che qualcosa si fosse definitivamente smosso, il copione continua a ripetersi identico: Ilaria Sula, Sara Campanella. Allo sgomento collettivo dopo i casi di cronaca seguono analisi impressionistiche o solo psicologiche, mentre servirebbe un approccio sistemico, cioè globale, in cui collaborino tutte le scienze umane e sociali. Mancano soluzioni concrete, proposte politiche che vadano oltre il richiamo generico all’importanza dell’educazione affettiva; e non mi sembra che una delle poche iniziative meritevoli, la commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere, abbia avuto la giusta eco mediatica. Molti storcono il naso persino davanti alla parola femminicidio. Viene da chiedersi se una delle possibili cause di questa incoscienza non sia il diniego del MeToo, inteso non come delazione selvaggia, ma come liberazione pubblica della parola, indispensabile tanto per rompere l’incantesimo quanto per inaugurare la ricostruzione simbolica, quella che Théry chiama la «nuova civiltà sessuale». Il discorso dominante nel nostro paese – che, d’altra parte, non ha mai fatto vere rivoluzioni – sembra considerarlo una minaccia felicemente scongiurata, una caccia alle streghe puritana che non avrebbe ragione di essere da questa parte dell’oceano. Per non parlare di chi, nemmeno troppo celatamente, attribuisce al movimento la colpa suprema dell’elezione di Trump.

Qualunque sia la ragione dell’apnea italiana, rivedere i filmati del processo Cantat offre una spinta per provare a tirare la testa fuori dall’acqua.

Barbara Carnevali, EHESS

da Internazionale

Dieci anni fa Beeban Kidron ha incontrato quella che lei chiama “Gola profonda”, una dirigente di un’azienda tecnologica. «Tutti nella Silicon Valley sanno che stiamo facendo del male ai ragazzi di oggi», spiegava la dirigente. «Sanno che la gente prima o poi ne chiederà conto, ma al momento c’è da guadagnarci su. Nella Silicon Valley se ne parla sempre, la definiscono la “generazione perduta”».

Questa conversazione ha convinto Kidron a impegnarsi ancora di più per contrastare le aziende tecnologiche. «Ero arrabbiata. E tutte le volte che mi sento stanca penso: “Generazione perduta?”». Con uno sguardo intenso dietro le lenti degli occhiali rotondi tartarugati, Kidron scandisce ogni parola: «Dovranno. Passare. Sul. Mio. Cadavere». Questa convinzione ha spinto la donna, sessantatré anni, a condurre una battaglia per garantire maggiori tutele ai bambini su siti internet, app e servizi di messaggistica, e più di recente per difendere l’industria creativa dagli abusi dell’intelligenza artificiale.

C’incontriamo dopo che l’uscita della serie tv Adolescence su Netflix ha aumentato la preoccupazione per gli adolescenti e la cultura tossica online e ha messo in discussione l’efficacia delle leggi britanniche sulla sicurezza online. Grazie al suo lavoro, Kidron ha incontrato molti genitori preoccupati e ha assistito a «molta violenza, abusi sessuali su minori, cose orribili».

Le chiedo se ha mai avuto la tentazione di tornare alla sua carriera passata di regista di documentari e film di successo (tra cui Che pasticcio, Bridget Jones!). Scuote la testa. «Fare politica è creativo tanto quanto fare film». Rendersi conto del “potere smodato nelle mani delle aziende tecnologiche” – come quello di Mark Zuckerberg di Meta, Sundar Pichai di Google ed Elon Musk di X, presenti a gennaio alla cerimonia d’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti – non ha fatto altro che rafforzare la sua determinazione: «A che serve svegliarsi al mattino se non si prova a fare qualcosa che valga la pena fare?».

Kidron sprizza energia quando mi raggiunge a un tavolo con sedili in pelle verde nel suo “posto felice”: il ristorante mediterraneo Toklas. Situato nei pressi dello Strand, grande arteria nel centro di Londra, è di passaggio nel tragitto tra la sua casa a Islington e la camera dei lord, dove ha un seggio da deputata indipendente. Decidiamo di evitare le portate principali e ordinare tutti gli antipasti. Cominciamo ad assaggiare pezzi di pane a lievitazione naturale mentre parliamo della sua decisione di cambiare lavoro una decina d’anni fa, una scelta che lei definisce “frutto del caso”.

Incuriosita dall’impatto degli smartphone sugli adolescenti, nel 2013 ha raccontato nel documentario In Realife aspetti come il consumo di pornografia, gli stati d’ansia e il ciberbullismo. Un esperto di tecnologia le aveva fatto notare che su internet tutti gli utenti sono considerati uguali e lei aveva capito che seguendo questa logica i bambini sono trattati come adulti. «Ho cercato di parlarne con i politici. Ho discusso con alcune persone nelle aziende tecnologiche e con associazioni che si occupano di minori. La cosa non interessava a nessuno. Pensavano solo che fossi una donna di mezza età che non capiva la moda del momento».

Un misticismo da sfatare

Kidron si affanna a precisare che non sta pensando di tornare ai giocattoli di legno, lo dice più e più volte: «Non ho paura della tecnologia. La adoro». Ma vuole sfatare il misticismo che la circonda, rimetterla al suo posto: «È uno strumento». La preoccupazione per i bambini nel 2012 l’ha portata a creare un’organizzazione non profit, la 5Rights. Nello stesso anno è stata nominata baronessa ed è entrata alla camera dei lord.

Aver fatto la regista l’ha preparata sorprendentemente bene alla politica: in entrambi i casi serve testardaggine. «Ho fatto film in un’epoca in cui praticamente non c’erano registe», osserva. Ci sono altre somiglianze tra i due ambiti. Le persone pensano che il cinema sia magico, ma secondo lei «serve a creare una visione collettiva. Si tratta di parlare al portafoglio e alla mente di uno studio cinematografico, a una star del cinema pagata milioni, ma anche di farti seguire da chi manovra la macchina da presa. E significa creare qualcosa dal nulla per un pubblico che puoi solo immaginare».

Kidron è orgogliosa di aver fatto alzare l’età della maturità online da 13 a 18 anni con il suo emendamento al Data protection act, la legge britannica sulla protezione dei dati. L’emendamento, tra le altre cose, chiedeva alle aziende tecnologiche d’impostare in modo predefinito la modalità privata e di disattivare i servizi di geolocalizzazione per gli account dei minorenni; ha costretto YouTube a disattivare la riproduzione in automatico nei canali per bambini e ha obbligato TikTok a disattivare le notifiche push per gli utenti tra i 13 e i 17 anni. Cosa ancora più significativa, ha dimostrato che «si può modificare la progettazione di un sito o un’app per ragioni sociali». Alcuni di questi provvedimenti sono stati adottati in tutto il mondo.

Questo dimostra che i governi possono fare delle richieste alle aziende, spiega. Kidron non vuole passare il pranzo «a difendere la camera dei lord perché ci sono tante cose indifendibili». Ma dal suo punto di vista è stata collaborativa, mettendo a disposizione competenze in ambito scientifico, educativo, legale e sanitario. Il supporto dell’aula è stato fondamentale quando ha avuto contatti con aziende e ministri della cultura. I provvedimenti contenuti nella legge sulla sicurezza online del 2023 sono stati introdotti in fasi successive. Alcuni sono entrati in vigore a marzo e obbligano le aziende a adeguarsi alle normative, oscurando per esempio i profili dei minorenni agli estranei, pena multe fino a 18 milioni di sterline (21 milioni di euro) o fino al 10 per cento dei ricavi globali. Provvedimenti ulteriori entreranno in vigore nei prossimi mesi.

Cosa ne pensa? «Non sono contenta. Il governo precedente, quello conservatore, ha sbagliato a non adottare un approccio basato sull’obbligo di tutela. Diversi funzionari, la camera dei comuni e l’autorità garante per le comunicazioni hanno indebolito la legge. Hanno pensato che dovevano equilibrare gli interessi delle aziende tecnologiche e quelli di chi usa i loro prodotti. Ma dov’è l’equilibrio tra un adolescente e una piattaforma che spende miliardi di dollari per mantenere alta la sua attenzione?». Siamo, sostiene la deputata, nell’«epoca della negazione», un periodo in cui potere e profitto sono sempre più concentrati nelle mani di una manciata di aziende statunitensi «che non vivono nelle nostre comunità e non ne hanno a cuore le sorti».

Lontano dai troll

Una delle sue più grandi frustrazioni riguarda il fatto che i servizi online dicono di avere difficoltà a verificare l’età degli utenti. Se le big tech pensano di poter andare su Marte, perché non riesce a risolvere un problema semplice come questo?

Si tiene alla larga dai social media per paura di essere attaccata dai troll, anche se questo non l’ha messa al riparo da minacce, che ha denunciato alla polizia.

Quando ha cominciato a fare campagna per i diritti dei minori in rete si sentiva isolata, ma ora le cose sono cambiate, dopo che ex dipendenti delle aziende tecnologiche come Frances Haugen della Meta hanno svelato alcuni segreti del settore. Purtroppo alcune famiglie sono state distrutte da queste dinamiche. Quando le ricordo che ha lavorato con genitori che portano su di sé il peso di un dolore inimmaginabile, m’interrompe: «Purtroppo è del tutto immaginabile». Le campagne del 5Rights per un mondo digitale sicuro per i minori sono state “generose e commoventi”, racconta, e hanno garantito ai medici legali di avere accesso alle informazioni in possesso delle aziende tecnologiche dopo la morte di un’adolescente. Gli sforzi di Ian Russell, il padre della quattordicenne Molly che si è suicidata nel 2017 dopo essere stata esposta sui social network a contenuti che rappresentavano atti di autolesionismo, ha aumentato la pressione sul governo britannico. «Mi sono trovata a cena con alcune di queste famiglie e, mentre mi guardavo attorno, mi rendevo conto di essere l’unica persona a quel tavolo che aveva ancora tutti i suoi figli. È stato difficile».

Il settore tecnologico ha un potere enorme, dice, e le sue tattiche possono essere insidiose. «Se pensi come si comportavano le lobby a favore del tabacco o delle armi, capisci che agiscono nello stesso modo. Non ti attaccano direttamente, ma cercano di seminare dei dubbi. Finanziano ricerche che gli fanno comodo. Hanno delle relazioni poco sane con il governo». La cameriera arriva con un’altra tornata di antipasti, fette di orata, piccoli pezzi di razza fritta e pomodori. «È un pasto completo», dice Kidron, mentre scrive un messaggio al marito, Lee Hall, autore per il teatro e il cinema, tra le altre cose sceneggiatore del film Billy Elliot, per dire che più tardi non cenerà.

Un progetto tossico

Dare la colpa alle grandi aziende tecnologiche non assolve forse i genitori dalle loro responsabilità? Questa argomentazione è tratta parola per parola dal manuale della Silicon Valley, risponde Kidron. «È come se dicessero “Adesso creiamo un progetto tossico, lo mettiamo in mano ai bambini e poi diciamo a te di controllarlo”. Non è colpa dei genitori». Il rischio è permettere che a fare da mamma e da papà ai nostri figli «siano Elon Musk e Mark Zuckerberg», aggiunge.

Kidron non chiede di vietare l’uso degli smartphone ma di mettere dei vincoli alle aziende. «La cosa su cui pubblichi i compiti, con cui chiami tua madre, che contiene l’abbonamento dell’autobus, la carta di credito, la tua macchina fotografica, che insomma racchiude ogni aspetto della tua vita, è progettata per creare dipendenza. Perché stiamo permettendo una cosa simile?».

«Non abbiate paura di fare i genitori», aggiunge Kidran. A casa ha imposto una regola ai suoi figli: niente bibite gassate. L’organizzazione Smartphone Free Childhood ha creato un movimento globale per convincere i genitori a ritardare il momento in cui danno un telefono ai figli. La settimana in cui ci siamo incontrati, la serie tv di Netflix Adolescence, che racconta la storia di un ragazzo di tredici anni accusato di aver ucciso una compagna di scuola, aveva sollevato in tutto il mondo un dibattito sulla “maschiosfera”. Jack Thorne, uno dei creatori della serie, è intervenuto pubblicamente per chiedere un’azione radicale nei confronti della tecnologia. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato alla camera dei comuni: «È importante che tutta l’aula affronti questo problema».

Kidron ha guardato la serie? «È fantastica», dice, scegliendo le parole con attenzione, perché è anche frustrata: «Che fallimento per il governo in carica e per tutti gli altri. Perché dobbiamo aspettare che siano le serie tv a dirci le cose?». C’è un doppio paradosso, sostiene: dato che le notizie sono consumate individualmente e in modo frammentato a causa della pervasività della tecnologia, la “visione collettiva” è diventata rara.

Le faccio notare che c’è il rischio di essere troppo catastrofisti riguardo agli adolescenti. Alcuni ragazzi sono interessati a misogini come Andrew Tate, è vero, ma sono più consapevoli delle politiche di genere rispetto al passato. Kidron è in parte d’accordo, ma sottolinea i rischi presenti su internet. Pochi mesi fa è stata contattata da un avvocato alle prese con i casi di ragazzi che non sapevano che strangolare una ragazza non era una cosa ammissibile. «Sono vittime anche loro, proprio come le ragazze».

Il passato da fotografa e regista mette Kidron in un’ottima posizione per difendere le industrie culturali britanniche. Sostiene con forza la loro scelta di difendere il diritto d’autore, in un’epoca in cui le aziende d’intelligenza artificiale ne saccheggiano i contenuti. Sottolinea ancora una volta di non essere contraria alla tecnologia. «L’IA mi interessa. Sarà una parte rilevante del nostro futuro». Ma non crede che i protagonisti del settore debbano maltrattare l’industria della creatività.

Sarebbe facile mettere in relazione l’impegno politico di Kidron con quello che le è successo quando andava a scuola: per alcuni mesi non aveva potuto parlare a causa di un problema alle corde vocali ed era stata costretta a scrivere su un taccuino per poter comunicare con gli altri. Si è sentita privata di un diritto? «E quale ragazza non avrebbe avuto questa sensazione?», risponde. Non solo doveva stare in silenzio, ma era costretta a osservare. «Ho capito cos’è il potere, chi viene ascoltato e chi no. Se stai zitta e osservi, vedi tutte le macchinazioni».

Suo padre, Michael Kidron, era un economista ed è stato tra i fondatori del partito di estrema sinistra Socialist workers party e lavorava con sua madre Nina alla casa editrice di sinistra Pluto Press. E le hanno insegnato che, ancor più della politica, è importante l’idealismo.

Divertente, veloce, birichina

Nei mesi in cui è stata in silenzio Kidron ha sviluppato un interesse per la fotografia. In seguito ha lavorato nel negozio Photographer’s Gallery di Londra, dove ha conosciuto la fotoreporter statunitense Eve Arnold. A sedici anni ha cominciato a farle da assistente. È ancora palpabile l’affetto che Kidron prova nei confronti della sua mentore «molto divertente, veloce, intelligente, birichina», che le ha insegnato che «il lavoro non finisce finché non è finito». Ancora oggi Kidron segue i consigli di Arnold quando fa le valigie e ci mette dentro scarpe per andare a correre e un completo elegante. È stata Arnold a suggerirle di darsi alla televisione e al cinema. Amava girare film: gli attori, le dimensioni e gli odori, le mattine presto sul set.

Riflettendo sul suo impegno politico dice: «Ogni tanto penso a questa parte della mia vita, al numero di persone che mi hanno scritto per dirmi: “Mi hai dato speranza”, o “Mi hai dato fiducia”». Un esempio su tutti è quello di un ragazzo canadese che l’ha ringraziata per essersi battuta contro le notifiche notturne di TikTok e le ha detto: «Mi sono laureato grazie a te». Le si spezza un po’ la voce. «Ho pensato solo: wow».

Guarda l’orologio e si rende conto di essere mezz’ora in ritardo per il suo appuntamento successivo, proprio mentre arriva la cameriera con i nostri avanzi. La imploro di prenderli e lei afferra il sacchetto di carta marrone. «Magari altri avranno una vita più facile grazie alle campagne che conduco», dice. «O forse avranno successo dove io ho fallito, o mi supereranno e mi guideranno. C’è sempre qualcun altro».

da il manifesto

La verità – questo vincolo donato dai fatti alla libertà dell’opinare, e insieme quest’ultima barriera all’arbitrio del potere sul pensiero –, dunque la verità nella sua relazione con la libertà umana, l’autonomia personale e la democrazia: questo è il tema profondo e il filo non invisibile dei cinque scritti qui raccolti (Fascismo e democrazia, traduzione di Elena Cantoni, in libreria dal 24 di aprile per le edizioni Fuoriscena, pp. 96, euro 12, ndr). Furono pubblicati fra il 1940 e il 1945 da George Orwell, nom de plume di Eric Blair, nato nel 1903 a Motihari, nell’India britannica, e morto a Londra nel 1950. Sono interventi scritti quando l’autore aveva fra i trentasette e i quarantadue anni, dopo che aveva attraversato con il corpo e con l’anima l’Oriente colonizzato e l’Occidente sconvolto da totalitarismi e guerre.

Uno sguardo a volo sulla vita di Orwell ci aiuterà a mettere meglio a fuoco questa chiave di lettura. Transfuga del college di Eton, dove aveva appreso la lingua e la letteratura francesi da Aldous Huxley, a diciannove anni fu spedito nell’estremo avamposto orientale dell’Impero britannico, in Birmania, per divenirvi ufficiale della polizia imperiale, ma già a venticinque anni lasciò la carriera di funzionario coloniale per farsi esploratore e partecipe della miseria degli ultimi nelle metropoli europee, raccoglitore di luppolo nelle campagne del Kent, girovago e barbone per conoscere la vita delle prigioni britanniche. Ferito quasi a morte fra i combattenti del Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista) nella Guerra civile spagnola del ’36, e sfuggito miracolosamente all’eccidio staliniano degli antistalinisti che concluse tragicamente la sconfitta della rivoluzione spagnola, quest’uomo sembra un discendente di Erodoto, con un’anima francescana e uno spirito critico sulfureo, ignaro di orizzonti celesti, una sorta di viandante cherubico intriso di humour britannico. Scrittore e pensatore fra i più lucidi dell’intero Novecento, capace di sopravvivere ai mestieri più umili della campagna e alle redazioni dei quotidiani metropolitani, voce che si levava inconfondibile e identica dalle pagine di prestigiose riviste accademiche, dai microfoni della Bbc, dalle colonne dell’Observer, di cui fu corrispondente di guerra, Orwell bruciò la sua breve vita come divorato da una passione di conoscenza esatta ed empirica delle leggi dell’anima nel suo rapporto con le società e le loro istituzioni: tradizionali, coloniali, liberali, democratiche, totalitarie. A proposito di verità, o della sua ricerca.

Gli scritti raccolti in questo libro furono pubblicati appena prima che il loro autore raggiungesse finalmente il successo mondiale con La fattoria degli animali (1945), la novella satirico-swiftiana che nel suo fiabesco humour inscena, con il nitore e la levità di un teatrino di marionette, l’involuzione di una società dell’eguaglianza verso una società totalitaria. Che avviene precisamente attraverso l’accettazione collettiva, più o meno impotente, più o meno corriva, di una manipolazione graduale e sistematica della verità da parte di pochi; la quale presto si fa manipolazione del linguaggio e della sua anima logica, fino al celeberrimo «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri», unico e nuovo comandamento rimasto al posto dei sette a cui si era ispirata la gloriosa rivoluzione degli animali di Manor Farm.

La manipolazione del linguaggio: passaggio obbligato perché si costituisca quel «rapporto obliquo con la verità» in cui si di sfa ogni vincolo di ragione e ogni limite all’arbitrio del potere, come si disfa ogni vincolo etico quando si dissolvono quelli logici. Nessuno più di Orwell ci aiuta a esplorare il senso della celebre frase di Musil: «Ciò che chiamiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, e tuttavia nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità». Ed ecco, troneggiante sulle nostre città, la luccicante piramide bianca del ministero della Verità, con iscritti i Principi del bipensiero (doublethink): La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza.

Di lì a poco, nel 1949, uscirà 1984, il capolavoro che crea una nuova categoria dello spirito, o piuttosto dà nome a una nuova qualità del demoniaco: «orwelliano»; dove lo humour satirico della Fattoria degli animali vira al tragico e lo studio della decostruzione dell’identità personale attraverso la rinuncia alla distinzione fra il vero e il falso raggiunge livelli di profondità – e di attualità – da mozzare il fiato.

La verità nella sua relazione con la politica e con l’esercizio del potere, con l’etica e con il coraggio di pensare con la propria testa, addirittura con la costruzione della propria identità, con il pensiero critico e la democrazia, non costituisce certo un tema nuovo. Non dovrebbe stupire che un tema simile sopravviva al secolo passato, non sbiadisca in seguito al crollo dei totalitarismi novecenteschi e ridiventi tanto attuale in questo, se già lo era ai tempi di Socrate, che per primo lo portò alla luce del pensiero. Forse non è solo il filo rosso della meditazione saggistica e narrativa di Orwell, forse è il filo stesso della filosofia, ogni volta che si sfila dalla sofistica. Non aveva torto Simone Weil quando consigliava di scrivere di cose eterne per essere attuali. Ma ora dobbiamo vederle più da vicino, le due cose: il filo del pensiero di Orwell sulla verità, da un lato, e l’attualità di questo pensiero per noi dall’altro. Cominciamo dalla seconda. Proprio là dove sono stati istituiti, in «Oceania», la «libera ricerca della verità oggettiva e (il) libero scambio delle idee e delle cognizioni», che compongono il diritto umano fondamentale cui è dedicata la carta dell’Unesco, sono oggi di nuovo a rischio.

La ragione di questo pericolo più che incombente non è difficile da scoprire: quando la politica uccide la sua stessa ragion d’essere, che è quella di risolvere i conflitti senza guerra, essa diventa letteralmente una continuazione della guerra con altri mezzi. E la guerra è da sempre la più grande nemica della verità anche nello spazio pubblico delle democrazie, che è certamente lo spazio del confronto delle idee e delle ragioni, ma anche – e in modo più basilare – dell’informazione sui fatti. Anzi: sui fatti e sulle norme, per esempio quelle del diritto internazionale vigente, appunto. Anche se «nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra», secondo una pagina famosa di Hannah Arendt, questi rapporti cessano del tutto quando la politica si rovescia, suicidandosi, nella guerra. Oggi sull’arena internazionale tutte le potenze dominanti investono soltanto nella legge del più forte, calpestando e irridendo il diritto; ma per farlo su così vasta scala anche in «Oceania» occorre prima rimuovere la verità dei fatti dallo spazio dell’opinione pubblica. Peggio: non rimuoverla sempre, ma ora sì e ora no, secondo convenienza. È la bomba logica dei doppi standard, per cui se invadi, uccidi e deporti sei un criminale di guerra ed è giusto che ne sopporti le conseguenze anche giudiziarie, nel caso tu sia – poniamo – l’autocrate russo; ma se per caso sei il premier israeliano stai solo difendendo il diritto di Israele a esistere. «La cosiddetta oggettività» la stessa Arendt l’aveva definita, a mio parere del tutto infondatamente, «questa curiosa passione, sconosciuta al di fuori della civiltà occidentale».

Ma il fenomeno oggi più pervasivo – e insieme il più ignorato – è che la distruzione dell’oggettività sia più insidiosamente praticata, nei media e sulla stampa più influente, anche in «Oceania», dove, almeno per i media di grande tradizione democratica, non si può contare sul metodo «Pravda», che ha il suo antidoto (non credere a una sola parola). Ciò a cui assistiamo è invece che il verificabile, l’inverificabile, le omissioni, i doppi standard e l’attribuzione al destino delle più sciagurate pulsioni (l’illusione della pace è finita, la guerra è un male necessario) sono equamente distribuiti. Certo, tutto questo non accade per la prima volta. E ben lo sapeva Orwell, che nell’ultimo degli interventi qui raccolti ricorda il cumulo di menzogne che abitavano la stampa di entrambe le parti durante la Guerra civile spagnola nel ’36, e ricorda anche con quale sconcerto aveva «visto i giornali londinesi ripetere le stesse bugie, intellettuali volonterosi costruire intere sovrastrutture emotive su eventi che non avevano mai avuto luogo».

La notizia della morte di Papa Francesco mi ha raggiunta mentre ero immersa nella mostra De Bello a Bergamo, un’esposizione che riflette sulle rappresentazioni della guerra nell’arte contemporanea. In quel momento lo spazio attorno a me si è ristretto, saturato dalla presenza della morte: quella evocata dalle opere e quella reale, annunciata dalla notizia. Sembrava non ci fossero alternative, tutto convergeva su un’unica, dolorosa realtà.​
Papa Francesco è stato una figura che ha incarnato la difesa dei deboli e la promozione della pace. Ha denunciato le ingiustizie sociali e si è opposto alla guerra, definendola un inganno e un crimine contro l’umanità. Ha sempre cercato di costruire ponti e ha lottato per dare voce agli invisibili, ai migranti, ai poveri.
La sua scomparsa ha riaperto in me ricordi della mia giovinezza e della mia educazione cattolica. Per me, l’essenza del cristianesimo risiede nella compassione, nella giustizia sociale, nella solidarietà con gli ultimi. Valori che ho ritrovato anche in una parte della sinistra e che continuano a definire chi sono oggi. Anche se mi sono allontanata dalla religione, questi principi restano vivi in me, senza contraddizione con il mio essere femminista. Sono io, intera.​
Le cose finiscono, è vero. Ma non dobbiamo pensare che tutto sia perduto. Il femminismo mi ha insegnato che la vita è fatta di continue trasformazioni, di passaggi, di nuove forme che prendono corpo dal desiderio di cambiamento e anche dall’impegno per la giustizia. E io voglio continuare a credere nella possibilità di un mondo più giusto e umano.

Recentemente ho scritto per la rivista Duoda del Máster in Política de las Mujeres dell’Università di Barcellona un testo su che cosa è Duoda per me, dove narro come fu che vi ho incontrate quasi per caso o forse perché il mio destino era scritto, incontrare voi insieme a Luisa Muraro. Questo mi ha fatto pensare di scrivervi con molto affetto per i vostri cinquant’anni.

Grazie alla Universidad Nacional Autónoma de México nel 2012 ebbi l’opportunità di uscire per la prima volta dal mio paese per un soggiorno di ricerca presso l’Università di Barcellona nell’ambito del master che frequentavo in quel momento. Ricordo come fosse ieri quel primo giorno, quando entrai nella Facoltà di Belle Arti di calle Florensa per incontrare colei che sarebbe stata la mia tutrice, Ascensión Moreno González: salii le scale e trovai attaccato al muro un foglio che diceva… Corso La Grandezza di Essere Donna, Luisa Muraro e immediatamente mi dissi “Lo voglio”. Così la seconda cosa che dissi a Ascensión dopo essermi presentata fu: ho appena visto che c’è un corso e voglio iscrivermi, pensando che forse lei avrebbe dovuto chiedere che mi accettassero, cosa di cui non ci fu bisogno.

Quello che è successo dopo la prima lezione è qualcosa che ancora non finisce, qualcosa che continuo a vivere ogni giorno. Per la prima volta trovai una manciata di donne che pensavano in modo molto simile a quello che pensavo io, e come intendevo il mondo era qualcosa di cui non avevo parlato con nessuno. Trovandole seppi così per la prima volta che non ero pazza, né sola con il mio modo di pensare e di intendere la vita, solamente che avevo dovuto attraversare “la grande pozzanghera” (l’oceano) per trovarle. Dunque, la prima volta che lessi, sul n. 38 di Duoda, parlare di Diotima, il Circolo della rosa e la Libreria delle donne di Milano pensai: Wow, dev’essere stato incredibile! Sì. Così, “dev’essere stato”, al passato: non so per quanto tempo ho creduto che si trattasse del passato, pensavo che erano ormai scomparse e cercavo di immaginare come sarebbe stare insieme, tutte quelle donne in quei momenti tanto intensi della storia delle donne e della nascita del femminsmo, e che dovette essere incredibile poter stare lì e conoscerle. Non ricordo il momento esatto in cui scoprii il mio errore, ricordo solo di aver sentito una grande emozione al sapere che continuavano a esistere, che erano presente e non passato e che sarebbe davvero incredibile poter accedere a quegli spazi e conoscerle, soltanto che per me, una donna latinoamericana, vedevo molto lontano, quasi impossibile poterlo fare.

Apro una parentesi per dirvi che quando incontrai Duoda e con loro Luisa Muraro, non avevo la minima idea di chi fossero le une né l’altra. Fu solo quando tornai in Messico sei mesi dopo che la prima cosa che riuscii a fare fu cercare L’ordine simbolico della madre nella biblioteca della mia università – detto en passant la più grande dell’America Latina – e quale è stata la mia sorpresa? Non lo trovai, trovai soltanto Il Dio delle donne, stranamente nella biblioteca della Facoltà di Diritto, ma degli altri testi niente, né di Lia Cigarini, tanto meno di Carla Lonzi. Mi sentii immensamente triste, perché, che potevo fare? Se quello che c’era in Messico era la Teoria del Genere, io non la volevo più, non mi ci trovavo, mi sentii talmente sola, senza avere con chi parlare dei miei pensieri, che parlavo continuamente con le due uniche riviste cartacee che ero riuscita a portarmi da Barcellona, i numeri 38 e 33 di Duoda: a Luisa domandavo tutto il tempo che avrei riflettuto su questo o su quello, e più avanti a María Milagros Rivera Garretas. Passarono otto lunghi anni, finché mi invitarono a Duoda a parlare del dolore dell’incesto, potei tornare a Barcellona e sorprendentemente mi imbattei nel fatto che ci sarebbe stato il Convegno Femminista alla Fabbrica del Vapore a Milano ed ebbi le risorse per andarci. Scrissi a Christine, di cui avevo conservato il contatto dal corso di Luisa, e lei si offrì di ospitarmi a Milano; ricordo che per il lavoro non poteva venirmi a prendere alla Stazione Centrale e dovevo aspettare l’orario di uscita per andare a casa sua, così mi disse puoi visitare la libreria, fai in tempo prima che chiuda; rimasi stupefatta, per qualche ragione avevo solo pensato di andare al convegno e rivedere Luisa, non in libreria. Mi indicò quale mezzo prendere e la fermata, presi il bus ma a metà strada successe un incidente e non andavamo avanti, temevo che non sarei arrivata, allora guardai la mappa sul cellulare e scesi, cominciai a camminare più in fretta che potevo seguendo le indicazioni finché arrivai all’angolo di via Pietro Calvi e mi mancò il fiato, vidi l’insegna che diceva Libreria delle donne e ancora adesso mi si riempiono gli occhi di lacrime per l’emozione, che io Patrizia potevo essere lì, in un lugo così grande per il pensiero delle donne; feci un respiro profondo e entrai, non erano i libri, era lo spazio, il luogo, era il simbolico, credo che l’unica cosa che riuscii a dire in italiano fu “Ciao”. La libraia mi ricevette gentilmente, provai a presentarmi ma non ce la feci e il pianto dell’emozione affiorò nei miei occhi, riuscii a dire che era e continua a essere molto grande per me stare lì, che ero del Messico e che era uno sforzo molto grande per me e continua a esserlo aver potuto giungere alla libreria; lei rapidamente si alzò e mi offrì un bicchiere d’acqua, quando riuscii a calmarmi mi mostrò lo spazio, il luogo degli incontri e delle presentazioni, la cucina, mi spiegò che la libreria stava per chiudere, tornammo a sederci e allora le chiesi con chi avevo il piacere… Clara Jourdan mi rispose, non le dissi credo per l’emozione e la vergogna di non ricordare in quel momento qualche titolo di qualcuno dei suoi testi perché ovviamente l’avevo letta e la conscevo solo per il nome. Niente meno che Clara Jourdan mi aveva ricevuto e presentato lo spazio, che esperienza! La custodisco nel mio cuore e la ricordo come se fosse ieri.

In quel momento non sapevo che mesi dopo ci sarebbe stato un concorso per una borsa di studio completa per studiare il Master in politica delle donne di Duoda, master a cui anelavo non per motivi accademici ma per un bisogno come quello di respirare. Ebbi la fortuna che me la concessero, cosa che mi portò a studiare con Luciana Tavernini, Marina Santini, Donatella Franchi, Anna María Piussi, Diana Sartori, Clara Jourdan; sfortunatamente ci fu di mezzo la pandemia e solo nel 2022 potei partecipare al seminario di Chiara Zamboni e vivere la straordinaria esperienza di stare al Circolo della rosa a Verona, di nuovo con l’emozione a fior di pelle: come io, una donna semplice, potevo essere lì in un luogo tanto grande.

Ho saltato di proposito di essere stata per la seconda volta nella Libreria delle donne, prima di andare a Verona. Questa volta in una visita annunciata insieme ad altre compagne del master, invitate a una riunione di lavoro della rivista online, che fu appassionante perché c’eravate tutte, non vorrei saltare nomi ma veramente non lo so, Wanda Tomasi, Lia Cigarini, Luisa Muraro, Clara Jourdan… È che no, non potevamo crederlo, stare con tutte voi, mi ha lasciato un apprendimento enorme, essere presente non solo al lavoro ma alla discussione intensa perché mi ha permesso di non idealizzare, perché quanto danno può fare idealizzare le persone, gli spazi, se una non sta attenta e crede che tutto sia perfetto, perché non c’è luogo né spazio perfetti; ovviamente abbiamo capito poco di quella discussione, ma vedere che nonostante gli anni di riflessione, pensiero e lavoro continua a essere complesso giungere a un punto di accordo ed è così perché siamo diverse, che indipendentemente dall’essere le basi del pensiero della differenza continuano a discutere giorno per giorno, perché il pensiero della differenza non è finito, continua a essere conforme al fatto che la vita è vita.

Quando ho saputo dei cinquant’anni della Libreria mi sono resa conto, per quanto incredibile mi sembri, che adesso benché io sia in un puntino nonostante la distanza geografica ne faccio parte, dato che vi conosco, perché sono stata lì, perché ho partecipato a Diotima e perché la mia esistenza di donna e il mio modo di chiamare, di pensare e di vedere il mondo come mondo guadagnò autorità a partire dall’incontro con il pensiero della differenza perché ho potuto nominare ciò che non sapevo si potesse nominare, e con quello tutto ha avuto senso.

Felici cinquant’anni a voi e a tutte le donne che a partire dal pensiero della differenza abbiamo riacquistato il senso della grandezza di essere donna.

Libreria delle donne le porto nel mio cuore sempre.

A la Librería de Mujeres de Milán en sus cincuenta años

Recientemente he escrito para la revista DUODA del Máster en Política de las Mujeres de la Universidad de Barcelona un texto de lo que es DUODA para mí, en donde narro como fue que las encontré casi que de casualidad o quizás porque mi destino estaba escrito para ello, para encontrarlas junto con Luisa Muraro, lo cual me hizo pensar en escribirles este texto por sus cincuenta años con mucho cariño.

Gracias a la Universidad Nacional Autónoma de México en el año 2012 tuve la oportunidad de por primera vez salir de mi país y viajar a realizar una estancia de investigación en la Universidad de Barcelona dentro del programa de posgrado en el que me encontraba en aquel momento. Recuerdo aquel primer día en el que entré a la Facultad de Bellas Artes de la calle Florensa para encontrarme con la que sería mi tutora en mi estancia Ascensión Moreno González como si fuera ayer, subí las escaleras y me encontré de frente con una hoja de papel pegada al muro que decía… Curso La Grandeza de Ser Mujer, Luisa Muraro e inmediatamente me dije “Lo quiero tomar”, así que la segunda cosa que le dije a Ascensión luego de presentarme con ella fue, hay un curso que acabo de ver y lo quiero tomar, pensando que a lo mejor necesitaba yo que ella solicitara fuera aceptada, algo de lo que no tuve necesidad.

Lo que sucedió después de la primer clase es algo que aún no termina, es algo que sigo viviendo cada día, por primera vez encontré un puñado de mujeres que pensaban muy parecido a lo que pensaba y como entendía el mundo, era algo que no había hablado con nadie, así que al encontrarlas supe por primera vez que no estaba loca, ni sola con mi manera de pensar y de entender la vida, sólo que tuve que cruzar el gran charco(océano) para encontrarlas. Pues bien, la primera vez que leí en el número 38 de la revista DUODA, Diotima, el Círculo de la Rosa y la Librería de Mujeres de Milán, pensé ¡Wow! Debió de ser increíble, ¡Sí! Así “debió” en pasado, no sé por cuanto tiempo creí que eran pasado, pensaba que ya habían desaparecido e intentaba imaginar como sería estar todas aquellas mujeres juntas en esos momentos tan intensos en la historia de las mujeres y del nacimiento del feminismo y que debió ser increíble poder estar ahí y conocerlas. No recuerdo el momento exacto en que descubrí mi error, sólo recuerdo sentir una gran emoción de saber, que seguían existiendo, que eran presente y no pasado y de que sería realmente increíble poder acudir a esos espacios y conocerlas, sólo que para mí, una mujer latinoamericana, se veía muy lejano, casi imposible poder hacerlo.

Quiero hacer un paréntesis para compartirles que cuando encontré a DUODA y con ellas a Luisa Muraro, no tenía la menor idea de quienes era unas, ni quien era la otra, fue hasta que volví a México seis meses después, que lo primero que llegué a hacer, fue buscar El orden simbólico de la madre en la biblioteca de mi universidad y dicho de paso la más grande de Latinoamérica y cual ha sido mi sorpresa que no lo encontré, sólo encontré El Dios de las Mujeres, extrañamente en la biblioteca de la Facultad de Derecho, pero de los demás textos nada, ni de Lia Cigarini, ni que pensar de Carla Lonzi, me sentí sumamente triste, porque, ¿Qué iba yo a hacer? Si lo que había en México era la Teoría del Género, yo no la quería más, ahí no me encontraba, me sentí tan sola sin tener con quien hablar de mis pensamientos, así que todo el tiempo hablaba con las dos únicas revistas físicas que logré traerme de Barcelona, la número 38 y la 33, a Luisa le preguntaba todo el tiempo que reflexionaría sobre esto o aquello y más adelante a María Milagros Rivera Garretas, pasaron ocho largos años, hasta que me invitaron en DUODA a hablar del dolor del incesto que pude volver a Barcelona y sorpresivamente me encontré con que se realizaría el Congreso Feminista en la Fabbrica del Vapore en Milán y tuve los recursos para asistir, le escribí a Christine de quien había conservado el contacto del curso de Luisa y me ofreció alojamiento en Milán, recuerdo que debido a su trabajo no podía acudir por mí a la Gran Central y tenía que esperar a su hora de salida para llegar a su piso, así que me dijo puedes visitar la librería, llegas a tiempo antes de que cierren, me quedé estupefacta, por alguna razón sólo pensé en acudir al congreso y volver a ver a Luisa, nunca en la librería, me indicó que transporte tomar y en que parada debía bajar, tomé el bus y como a mitad del camino sucedió un accidente vehicular, no avanzábamos, yo sólo pensaba que no llegaría, así que vi el mapa en mi celular y me bajé, empecé a caminar lo más rápido que podía siguiendo las indicaciones que me daba, al fin llegué a la esquina de via Pietro y se me fue el aliento, vi el anuncio en el muro que decía Libreria delle Donne y todavía ahora se me llenan los ojos de lagrimas de la emoción, como yo, Patricia podía estar ahí, en un lugar tan grande para el pensamiento de las mujeres, respiré profundo y entré, no eran los libros que se encontraban ahí, era el espacio, el lugar, era lo simbólico, creo que lo único que atiné a decir en italiano fue “Ciao”, quien atendía me recibió amablemente, intenté presentarme, pero no pude más y el llanto de la emoción afloró en mis ojos, alcancé a decir que era y sigue siendo muy grande para mí estar ahí, que era de México y que era un esfuerzo muy grande para mi y lo sigue siendo poder haber llegado a la librería, rapidamente se levantó y me ofreció un vaso de agua, cuando logré calmarme, me mostró el espacio, el lugar de los talleres y presentaciones, la cocina, me explicó que la librería estaba por cerrar, volvimos a sentarnos y fue cuando le pregunté con quién tenía el gusto… Clara Jourdan me contestó, no se lo dije creo de la emoción y de la vergüenza de no recordar en ese momento algún título de alguno de sus textos porque por supuesto la había leido y la conocía sólo por su nombre. Nada menos que Clara Jourdan me había recibido y presentado el espacio ¡Que experiencia! La atesoro en mi corazón y la recuerdo como si fuera ayer.

En aquel momento no sabía que meses después saldría una convocatoría para otorgar una beca completa para estudiar el Máster en Política de las Mujeres de DUODA, máster que anhelaba estudiar no por lo académico, sino por una necesidad como la de respirar. Tuve la fortuna de que me la otorgaran lo que me llevó a estudiar con Luciana Tavernini, Marina Santini, Donatella Franchi, Ana María Piussi, Diana Sartori, Clara Jourdan, desafortunadamente la pandemia se atravesó, y fue hasta 2022 que logré acudir al seminario de Chiara Zamboni y con ello vivir la extraordinaria experiencia de estar en el círculo de la Rosa en Verona, nuevamente con la emoción a flor de piel, como yo, una mujer simple, una mujer de a pie podía estar ahí en un lugar tan grande.

Me he saltado a propósito haber estado previo a Verona por segunda vez en la Libreria delle done, esta vez en una visita anunciada junto con otras compañeras del máster y ser invitadas a una reunión de trabajo de la revista online, la cual fue apasionante porque estaban todas ustedes, no quiero saltarme nombres, pero en realidad no los sé, Wanda Tomasi, Lia Cigarini, Luisa Muraro, Clara Jourdan, es que no, no podíamos creerlo, estar con todas ustedes, a mí me dejó un aprendizaje enorme, presenciar no sólo el trabajo, sino la discusión intensa porque me permitió no idealizar, porque cuanto daño puede hacer idealizar a las personas, a los espacios sino está una atenta y se cree que todo es perfecto, porque no hay ni lugar, ni espacio perfectos, por supuesto poco entendimos de aquella discusión, pero ver que a pesar de los años de reflexión, pensamiento y trabajo sigue siendo complejo el llegar a un punto de acuerdo y es así porque somos diversas, que independientemente de de ser las asedoras del pensamiento de la diferencia, siguen estando en la discusión del día al día, porque el pensamiento de la diferencia no está acabado, sigue siendo conforme la vida es vida.

Cuando me he enterado de los cincuenta años de la librería, me he dado cuenta por increíble que me parezca que ahora aunque sea en un puntito a pesar de la distancia geográfica formo parte de ella, pues porque las conozco, porque he estado ahí, porque he participado en Diotima y porque mi existencia de mujer y mi manera de llamar, de pensar y de ver al mundo como mundo cobró autoridad a partir de encontrarme con el pensamiento de la diferencia porque pude nombrar lo que no sabía que podía nombrarse y con ello todo tuvo sentido.

Felices cincuenta años para ustedes y para todas las mujeres que a partir del pensamiento de la diferencia hemos recobrado el sentido de la grandeza de ser mujer.

Libreria delle donne le porto nelle mio cuore sempre.

Patricia Meza Rodríguez

Primavera 2025

da il Fatto Quotidiano

Le donne della Guinea-Bissau dicono “basta” allo sfruttamento delle miniere di zirconio e ai danni ambientali che questo provoca al loro Paese. “Tutte le installazioni sono state bruciate“, ha dichiarato alla stampa il ministro dell’Interno, Botche Candé, che si è recato a Nhiquin, luogo dell’incidente e non lontano dal confine con il Senegal, senza fornire ulteriori dettagli. Per “strutture” il membro dell’esecutivo intende quelle gestite da aziende cinesi nel nord-ovest del Paese.

Alcune donne e un capo villaggio sono stati arrestati in seguito agli scontri. Secondo i testimoni, diverse centinaia di manifestanti hanno preso di mira le strutture gestite dai cinesi che sfruttano il sito dal 2022. Stando a Edmundo Infanda, sottoprefetto di Suzana, da cui dipende il villaggio di Nhiquin, “le donne erano numerosissime”. Le forze dell’ordine presenti nella vicina Varela, “pur armate, non sono riuscite” a impedire che incendiassero le strutture.

“Quando lo Stato si impegna a cercare partner, nessuno ha il diritto di distruggere i loro beni”, ha dichiarato il ministro Candé, visibilmente irritato. “Le donne che hanno compiuto questi atti di vandalismo sono tutte fuggite nella foresta. Devono essere ricercate e arrestate. È inaccettabile che simili atti vengano commessi e tutto passi come se nulla fosse”. Dall’altra parte, a dare voce alla ribellione ci pensa Aissato Cadjaf, una delle manifestanti, contattata da Afp a Bissau: “Abbiamo spiegato loro che non vogliamo che la sabbia venga estratta senza il nostro consenso. Tutte le nostre risaie sono distrutte. Non ci sono più pesci nel canale vicino al sito di estrazione. Nessuno ha preso sul serio la nostra situazione, nonostante i nostri appelli accorati”.

da Avvenire

Niente è cambiato all’Educational Bookshop di Gerusalemme Est. Il piano terra trabocca di libri: quasi due migliaia di testi in inglese, altri in arabo, francese, tedesco. Perfino degli esemplari in italiano. Ciascuno racconta nella sua lingua – e dalla sua prospettiva – la Palestina. L’ultimo travagliato secolo della Terra Santa è il tema ricorrente ma non mancano volumi di archeologia, musica, guide di viaggio, romanzi degli scrittori più differenti, inclusi molti israeliani. Sopra, al termine della scala di legno, si respira la tradizionale quiete da biblioteca che attira studenti e lavoratori in smart working: intorno ai tavoli quadrati, i primi preparano gli esami e i secondi prendono una pausa dalla scrivania di casa.

Ahmed Muna saluta chiunque entri con il solito misto di gentilezza e ironia. Anche sui guai con la polizia scherza: «I sette agenti israeliani in borghese che hanno fatto la prima perquisizione conoscevano solo l’ebraico. Prima hanno provato a orientarsi con il traduttore automatico sul telefono. Così, però, impiegavano troppo tempo. Allora si sono basati sulle copertine ed eventuali foto all’interno… ». Dopo due ore e mezza di ricerche, il 9 febbraio scorso, sono usciti con trecento testi e due dei proprietari in stato di fermo. «Per cosa? Non l’abbiamo capito. Prima dicevano di cercare materiale terroristico che, ovviamente, non c’era. Poi, dopo l’interrogatorio, ci hanno accusato di “disturbo alla quiete pubblica”», aggiunge Ahmed, portato al commissariato insieme allo zio Mahmoud.

Il caso nei loro confronti è ancora aperto, come gli ha precisato il giudice prima di rilasciarli dopo averli tenuti in custodia un giorno e mezzo. Nel frattempo, l’11 marzo, c’è stato un secondo blitz con sequestro di altri 50 libri e l’arresto per alcune ore di Imad, padre di Ahmed.

L’Educational Bookshop, però, rifiuta di cedere al clima di guerra che ha fatto irruzione anche fra i suoi scaffali. «Abbiamo riaperto subito e lo siamo sempre rimasti. Poiché mio zio e io siamo stati interdetti dalla libreria per venti giorni, abbiamo contrattato dei sostituti. Non potevamo chiudere. Questo luogo è un’icona». In arabo, il suo nome, oltre a educazione, vuol dire “conoscenza”. «E la conoscenza è la precondizione per l’inclusione».

Non a caso la libreria è un riferimento per la comunità della Porta di Damasco ma anche per il resto della città, ben oltre l’ex linea di spartizione tra le due metà. Nata 41 anni fa come rivendita di libri arabi e cartoleria, è cresciuta grazie all’idea della famiglia Muna di aprirsi al mercato estero, importando testi in inglese. Nel 2009 è arrivata la seconda sede specializzata in volumi internazionali e situata di fronte al negozio originario, ancora in funzione, sul lato opposto di Salah al-Din road.

All’interno anche un bar: il primo caffè letterario di Israele e Palestina. «Non ci limitiamo a vendere libri. Attraverso eventi e corsi di arabo promuoviamo l’incontro. L’Educational Bookshop è aperto a tutti, di qualunque nazione, fede, quartiere di Gerusalemme – conclude Ahmed –. È un luogo di scambio, di discussione e riflessione dove ognuno è benvenuto. Forse è questo a spaventare quanti, in questo momento come non mai, cercano di schiacciare le differenze ed esasperano le divisioni. La conoscenza unisce. Ciò che fa l’Educational Bookshop».

da RivistaStudio

Aveva 25 anni, era un’artista, fotogiornalista e attivista. Nello stesso bombardamento è stata uccisa anche tutta la sua famiglia.

Al prossimo Festival di Cannes, nella sezione Acid (una sezione “parallela” del Festival, l’unica in cui film sono selezionati tutti da registi della Association for the Diffusion of Independent Cinema), parteciperà anche la regista Sepideh Farsi con il documentario Put Your Soul on Your Hand and Walk. Assieme a lei avrebbe dovuto partecipare alla prima del film anche la protagonista del documentario, l’artista, fotogiornalista e attivista palestinese Fatima Hassouna. Alla prima di Put Your Soul on Your Hand and Walk Fatima Hassouna non ci sarà: è morta, assieme a tutta la sua famiglia, uccisa da un bombardamento dell’esercito israeliano.

La notizia della morte di Hassouna l’ha data Farsi, in un editoriale pubblicato su Libération. «Aveva un sorriso magico, era una donna ostinata. È stata una testimone, ha fotografato Gaza, portava cibo a chi ne aveva bisogno anche mentre cadevano le bombe, nonostante i lutti, nonostante la fame. Abbiamo scoperto la sua storia, ogni volta che la incontravamo eravamo felici perché era la prova che era ancora viva, avevamo sempre paura per lei». Hassouna aveva appena compiuto 25 anni, scrive Farsi. «L’ho conosciuta tramite un amico comune che viva al Cairo. Io ero alla disperata ricerca di un modo per raggiungere Gaza nonostante il blocco di tutti gli accessi alla Striscia. Cercavo risposte a domande semplici e complicate allo stesso tempo. Come si fa a sopravvivere a Gaza, rimanendo sotto assedio per tutti quegli anni? Che cos’è la vita quotidiana dei palestinesi?», continua Farsi.

Della morte di Hassouna, Farsi ritiene responsabile il governo israeliano «e tutti i suoi complici». Nel suo editoriale per Libération, la regista cita anche una poesia scritta da Hassouna:

L’uomo che indossava i suoi occhi:

Non ho un curriculum / Riconosco due occhi / Misteriosi / E credo / Non ho una storia / Una / chiara / Perché uno sconosciuto possa crederci. E lui crede./ Non ho alcuna caratteristica fisica definita/ Per volare/ Fuori da questa gravità/ E credo./ Forse annuncio la mia morte ora/ Prima che la persona di fronte a me carichi/ Il suo fucile da cecchino/ E finisca il suo lavoro./ Così che io finisca./ Silenzio.