da Domani
«Nel decreto sicurezza voluto dal governo Meloni vengono introdotte delle nuove norme che sono riuscite a superare anche la fantasia repressiva del codice penale fascista, il cosiddetto codice Rocco». Così dice Emilia Rossi, avvocata ed ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti. La Camera ha approvato con 163 sì, 91 no e un astenuto. Ora il provvedimento passa all’esame del Senato per essere convertito in legge entro il 10 giugno.
«Il decreto sicurezza è un’ipertrofia del populismo penale che il governo ha dimostrato fin dal suo insediamento. Alla trentina di nuovi reati creati dal governo dal 2022, adesso se ne aggiungono altri 14 che non si erano visti neanche sotto il regime. A rendere il tutto ancora più preoccupante è il fatto che gli articoli sono scritti malissimo, anche gli esperti della materia come me fanno fatica a capirci qualcosa. E questa voluta confusione è funzionale alla discrezionalità dell’applicazione della legge che è, a sua volta, un tratto repressivo della norma. Quando la norma non è chiara, non è chiaro nemmeno quale comportamento viene perseguito» spiega l’avvocata Emilia Rossi.
Secondo i giuristi che hanno parlato con Domani, sono diversi gli articoli presenti nel Decreto Sicurezza che per il loro carattere repressivo superano il Codice penale Rocco voluto dal regime fascista.
I neonati in carcere
«Fino ad ora una donna incinta o con un figlio piccolo aveva il rinvio obbligatorio della pena. Significa che lo Stato ti permetteva di partorire, vivere con tuo figlio per i primi anni della sua vita e poi scontare la pena in carcere» ha spiegato la ricercatrice di filosofia del diritto Perla Allegri e attivista nell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti «adesso invece il rinvio della pena non è più obbligatorio ma facoltativo. Il magistrato che ha in carica il caso può scegliere se rinviare la pena o meno. E, questa scelta, la deve valutare in base alla possibilità di recidiva. Ora, capite che è difficilissimo sapere in anticipo se quella persona commetterà di nuovo quel reato e quindi i magistrati, probabilmente, si baseranno sugli studi in materia che dicono che sono le persone indigenti che hanno commesso reati contro il patrimonio, come i furti, ad avere più probabilità di commettere di nuovo lo stesso reato perché è di quello che vivono».
Le madri detenute e i loro neonati finiranno negli ICAM, gli istituti di custodia attenuata, non perché sono socialmente pericolose ma perché potrebbero (forse) compiere nuovi reati una volta uscite di lì. Questa modifica della norma è stata voluta dalla Lega che l’ha ribattezzata “norma anti-rom” perché i suoi esponenti credono che le donne rom facciano strumentalmente dei figli per evitare la pena.
Inoltre, il decreto sicurezza introduce per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre perché la donna può essere trasferita in chiave punitiva in un carcere ordinario senza il bambino quando la sua condotta viene considerata “inadeguata”. Inoltre, come scrive il XXI rapporto sulle condizioni di detenzioni appena pubblicato da Antigone sorprende anche che si parli di “condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri” declinando al maschile il sostantivo quando gli Icam ospitano solo donne. Il codice Rocco voluto dal fascismo non permetteva alle donne incinta e ai bambini di stare in carcere.
Il reato di resistenza passiva
«È la prima volta che compare in un codice penale adottato dal nostro paese il termine resistenza passiva. Mai prima di questo momento, nemmeno sotto il fascismo erano considerate reato le manifestazioni non violente» ha commentato il magistrato Livio Pepino.
Si tratta di un reato che si rivolge alle persone detenute nei carceri e nei CPR, la pena prevista arriva fino ad 8 anni per i promotori. «I detenuti fanno una enorme fatica a manifestare i loro bisogni perché non sono ascoltati da nessuno. Un educatore ha in media 70 detenuti, lo psicologo segue 100 persone e ha solo 7 ore a settimana. Così, capita che i detenuti organizzino delle manifestazioni non violente per farsi vedere e sentire. Le più frequenti sono la battitura del pentolame, stare in piedi sulla soglia della cella e rifiutarsi di entrare, non mangiare, non lavarsi. È il loro modo per manifestare un disagio. Da ora in poi, se almeno tre persone si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente con modalità non violente rischiano fino a 5 anni, 8 per i promotori. Tra l’altro nel decreto si parla di “ordine impartito dal personale penitenziario”. Non c’è neanche specificato se quell’ordine debba essere legittimo oppure si riferisca a qualsiasi tipo di richiesta impartita dalle guardie» ha spiegato la ricercatrice Allegri. Per Antigone il reato di resistenza passiva è il più grave attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana italiana.
Il rinnovato reato di opinione
«Il codice Rocco ha introdotto i reati di opinione perché era interesse del regime censurare la libera espressione del pensiero. Naturalmente con l’avvento dell’era repubblicana si era molto discusso sulla permanenza dei reati di opinione nel nostro codice, alla fine alcuni sono stati espunti e altri semplicemente disapplicati.»
«È dal ’91 che non si accusa qualcuno di reato di opinione ma con il decreto sicurezza hanno deciso di farlo risorgere dalle ceneri» ha spiegato l’avvocata Emilia Rossi. «Il decreto sicurezza torna a parlare dell’articolo 415 che punisce chi istiga alla disobbedienza delle leggi.»
«Tecnicamente, potrebbe essere accusato di questo reato chi organizza forme di boicottaggio, ad esempio. Come dicevo, sono decenni che nessuno viene accusato di questo reato ed è significativo che un decreto simile torni a parlarne. Ma ancora più grave è la modifica che viene fatta all’articolo 415: è stato aggiunto un secondo comma che prevede un’aggravante per chi istiga la disobbedienza delle leggi tramite comunicazione diretta o scritta all’interno dei penitenziari» ha commentato l’ex Garante nazionale dei diritti dei detenuti.
«Per come è scritto il comma anche il mio intervento in questo articolo potrebbe essere accusato di istigazione alla disobbedienza delle leggi, così come una volontaria che scrive alle detenute cosa è da intendersi per resistenza passiva. Perché? Perché è tutto discrezionale. Una cosa del genere nemmeno il codice fascista la prevedeva» ha concluso Rossi.
La licenza delle armi
«La legislazione fascista non consentiva agli operatori di polizia di girare armati con un’arma non di ordinanza al di fuori dell’orario di servizio. Adesso, con il decreto sicurezza, un poliziotto in borghese può farlo» ha spiegato il magistrato Livio Pepino. «Durante il fascismo lo Stato non erogava dei soldi ai poliziotti accusati di reati commessi durante il servizio. Adesso si prevedono fino a 30.000 euro per coprire le spese legali. Non è prevista per nessun’altra figura, solo per i poliziotti. È vero, durante il fascismo non si svolgevano quasi mai i processi contro l’arma ma è significativo che il governo attuale voglia sostenere le forze di polizia e nessun altro tipo di cittadino, soprattutto chi sente di aver subito un torto da una persona in divisa» ha concluso il magistrato.
La norma prevede che «chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza».
In sintesi, se tre persone detenute che condividono la stessa cella sovraffollata o un istituto in condizioni detentive non dignitose, si rifiutano di obbedire all’ordine di un agente, anche con modalità non violente, si configurerà il delitto di rivolta con una possibile condanna da due a otto anni di reclusione (per i promotori, organizzatori o dirigenti), e da uno a cinque per i partecipanti.
da Internazionale
Il 1° maggio 1942 un piccolo gruppo di comunisti festeggiò clandestinamente la festa dei lavoratori nel centro di Vienna. Poco importava che fossero prigionieri della Gestapo e tenuti in isolamento: avevano scoperto da tempo che i loro gabinetti erano collegati agli stessi tubi e, svuotando il sifone e infilando la testa nella tazza, riuscivano a parlarsi. Ne approfittavano ogni giorno: si scambiavano notizie da casa, speranze, paure e gli esiti delle udienze in tribunale. In quella giornata dei lavoratori, attraverso le tubature, viaggiarono poesie, discorsi e, per chiudere, anche l’Internazionale.
«Il carcere era l’unico posto in Austria dove nel 1942 si poteva ancora cantare l’Internazionale. Fu una festa indimenticabile», raccontò più tardi Margarete Schütte-Lihotzky, una delle prigioniere, nel suo libro Erinnerungen aus dem Widerstand (Ricordi dalla resistenza).
Schütte-Lihotzky ebbe una vita lunga e intensa. Eppure il suo nome resta indissolubilmente legato a uno spazio progettato quando aveva appena ventinove anni: la cucina di Francoforte.
Schütte-Lihotzky era stata arrestata nel 1941 per il suo ruolo di corriere del Partito comunista austriaco (Kpö), che guidava la resistenza contro il regime nazista nel suo paese. Riuscì a sfuggire per un soffio alla condanna a morte, ma rimase in carcere fino alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945. Quell’esperienza segnò una frattura nella sua vita: da un lato l’esordio brillante come giovane architetta, spinta dal desiderio di migliorare la vita delle donne della classe operaia; dall’altro quella che lei stessa avrebbe definito la sua “seconda vita”: comunista militante e attivista politica che fu professionalmente emarginata in patria per le sue idee e ricevette i giusti riconoscimenti solo negli ultimi decenni della sua esistenza.
Schütte-Lihotzky ebbe una vita lunga e intensa, ed è morta nel 2000 pochi giorni prima di compiere centotre anni. Eppure il suo nome resta indissolubilmente legato a uno spazio progettato quando ne aveva appena ventinove: la cucina di Francoforte, prototipo della cucina moderna componibile.
Ideata nel 1926 all’interno di un vasto programma di edilizia popolare a Francoforte, in Germania, la “cucina di Francoforte” introdusse molti degli elementi che oggi diamo per scontati: un piano di lavoro continuo con alzatina piastrellata, mobili e cassetti integrati pensati per ottimizzare lo spazio, tutto all’insegna del comfort e dell’efficienza. Il progetto finale fu installato in diecimila appartamenti della città, e alcuni esemplari originali sono ancora esposti in musei di tutto il mondo, tra cui il Victoria and Albert museum di Londra e il Moma di New York, dove è l’opera più antica della collezione firmata da un’architetta.
Quel progetto s’inseriva in un tentativo più ampio di standardizzare le abitazioni e alleggerire il carico quotidiano della classe operaia. «Schütte-Lihotzky non si limitò a progettare una cucina», spiega l’architetta austriaca Renate Allmayer-Beck. «Era un’idea per migliorare la vita delle donne offrendo una cucina più funzionale, in cui potessero gestire il lavoro domestico con meno fatica e avere più tempo per sé».
Schütte-Lihotzky considerava l’architettura una questione politica. Crescere in una famiglia borghese l’aveva tenuta al riparo dalle difficoltà della vita a Vienna, ma da studente di architettura visitò i quartieri operai della città e rimase sconvolta dalle condizioni abitative. Vide famiglie ammassate in stanze condivise da otto o nove persone e “affittuari di letto” costretti a subaffittare un materasso per poche ore al giorno. Fu un’esperienza che consolidò la sua decisione di diventare architetta. «Non conoscevo ancora la frase di Heinrich Zille “Si può uccidere una persona con una casa, così come con un’ascia”, ma l’avevo già intuita: all’epoca non capivo ancora le cause profonde di tanta sofferenza, ma desideravo una professione che mi permettesse di alleviarla», si legge in Warum ich Architektin wurde (Perché sono diventata architetta), il cui manoscritto fu ritrovato dopo la sua morte e pubblicato nel 2004.
Il design sociale sarebbe rimasto il filo conduttore nel suo lavoro. Dopo essere stata una delle prime donne austriache a laurearsi in architettura, nel 1919, collaborò con il movimento viennese per la casa: migliaia di famiglie che dopo la prima guerra mondiale s’insediarono su terreni pubblici alla periferia della città, costruendo rifugi di fortuna e coltivando orti per affrontare la mancanza di alloggi e cibo. Progettando casupole coloniche e Kern-Haus (casa-nucleo), unità abitative standardizzate che potevano essere ampliate in base alle disponibilità della famiglia, cominciò a chiedersi come l’organizzazione degli spazi domestici potesse semplificare il lavoro in casa. Le sue soluzioni prevedevano cucine abitabili e perfino un’estensione avveniristica dell’angolo cottura, in cui tutti gli elementi erano fusi in un unico blocco di cemento. Il suo lavoro attirò l’attenzione dell’architetto tedesco Ernst May, che nel 1926 la invitò a Francoforte, dove avrebbe progettato la sua cucina nell’ambito di un programma di case popolari.
Anche se la cucina di Francoforte era presentata come il progetto di una donna per le donne, Schütte-Lihotzky detestava l’idea che il suo genere le attribuisse automaticamente un sapere domestico innato. Nel suo libro di memorie scrisse che quella narrazione «rafforzava le convinzioni della borghesia e della piccola borghesia dell’epoca secondo cui le donne, in fondo, lavorano in casa davanti ai fornelli». In realtà, Schütte-Lihotzky non aveva mai gestito una casa né messo mano ai fornelli prima di progettare la cucina, affrontando il compito solo come un problema architettonico. Consultò studi sulla razionalizzazione del lavoro domestico, condusse ricerche sui tempi e sui movimenti necessari per svolgere le attività quotidiane e studiò le cucine a bordo dei treni.
La cucina di Francoforte era compatta ed efficiente, progettata per ridurre i costi e la fatica fisica. Chi la usava poteva passare dal lavello ai fornelli senza fare un solo passo. In nome dell’efficienza, Schütte-Lihotzky scelse anche di spostarla da un angolo della zona giorno a uno spazio separato, una decisione che, all’epoca, lasciò perplessa più di una casalinga.
Progettare la prima cucina prefabbricata, componibile e prodotta in serie in un’epoca in cui nulla di tutto ciò era la norma fu una sfida immensa dal punto di vista logistico e tecnologico. «È proprio questo il nodo cruciale», spiega Christine Zwingl, direttrice del centro Margarete Schütte-Lihotzky. Secondo Zwingl, l’architetta dovette tenere conto «delle complesse questioni architettoniche e di costruzione, che includevano non solo gli aspetti sociali, ma anche tutte le valutazioni tecniche e gli sviluppi concreti della tecnologia».
Il centro Margarete Schütte-Lihotzky, con sede nell’appartamento restaurato che l’architetta progettò negli anni settanta e in cui visse fino alla morte, è un museo dedicato alla sua vita e al suo lavoro, ma anche un progetto di ricerca sulla storia delle architette in Austria. Nel settembre 2024 il centro ha completato la ricostruzione della cucina personale di Schütte-Lihotzky e l’ha aperta al pubblico. «È stata un’indagine da detective», racconta Renate Allmayer-Beck, che ha guidato il progetto servendosi di fotografie e due piante originali. La minuscola cucina è un esempio perfetto del suo funzionalismo elegante e sobrio: ogni centimetro è ottimizzato per la praticità, ma dietro le ante verde scuro si nasconde un interno rosso brillante, senza altra funzione se non quella di sorprendere. Molti dei dettagli riprendono direttamente il progetto del 1926: l’asse da stiro pieghevole contro la parete, i contenitori con dosatore per alimenti secchi inseriti in appositi scomparti, un piano di lavoro aggiuntivo nascosto in cassetti poco profondi.
A partire dagli anni ottanta, Allmayer-Beck e Christine Zwingl lavorarono fianco a fianco con Schütte-Lihotzky, raccogliendo materiale sul suo lascito e organizzando il suo archivio proprio nell’appartamento che oggi hanno ricostruito. «Solo ora ci rendiamo conto di tutti i dettagli, di quanto fosse progettato con cura, con amore e con intelligenza funzionale», dice Allmayer-Beck.
Tutto cominciò nel 1980 quando Zwingl, allora giovane studente di architettura, assistette a una conferenza di Schütte-Lihotzky. «Eravamo sbalorditi: raccontava una carriera e una vita profondamente internazionali», ricorda. «Era una donna minuta, dall’aspetto discreto, ma sapeva parlare benissimo e con grande energia».
All’epoca, Schütte-Lihotzky aveva più di ottant’anni e una vita che da sola riempie diversi libri: nel 1930 si trasferì in Unione Sovietica, unica donna tra 17 esperti incaricati di progettare nuove città come Magnitogorsk, nell’ambito del primo piano quinquennale di Stalin. L’unica condizione che pose per accettare l’incarico fu di non occuparsi di cucine. Al contrario, le fu affidata la progettazione di asili, scuole e centri per l’infanzia, un lavoro in linea con il suo desiderio di sostenere le donne lavoratrici.
Nel 1938 si trasferì a Istanbul per sfuggire alle purghe staliniane e si iscrisse al Partito comunista austriaco, contribuendo alle attività della resistenza. Nel dicembre 1940 tornò brevemente a Vienna, ufficialmente per far visita alla sorella, ma in realtà per consegnare messaggi agli attivisti locali come corriere del Kpö. Fu arrestata dalla Gestapo il 22 gennaio 1941, il giorno prima del suo quarantaquattresimo compleanno e del previsto rientro a Istanbul.
Durante la guerra fredda le sue convinzioni comuniste le resero difficile ottenere incarichi pubblici in Austria, ma continuò a lavorare come architetta indipendente e a collaborare a progetti in Cina, a Cuba e nella Repubblica Democratica Tedesca. «Era una persona davvero straordinaria», dice Christine Zwingl. «Un modello non solo per la sua professione, ma anche come ha vissuto: consapevole della sua storia, ma con uno sguardo architettonico rivolto al futuro: “Noi costruiamo per il domani, e dobbiamo pensarci”».
Nemmeno l’età avanzata attenuò il suo impegno per un futuro migliore. Diventò una pacifista e femminista di rilievo, contribuendo alla fondazione del consiglio austriaco per la pace, ramo locale del consiglio mondiale per la pace, che era politicamente vicino al blocco sovietico, e nel 1948 fu la prima presidente della Federazione delle donne democratiche austriaca. Quando negli anni settanta la cucina di Francoforte fu criticata dalle femministe della seconda ondata per aver isolato le donne e reso invisibile il lavoro domestico, le accuse la colpirono profondamente.
Nelle sue memorie Schütte-Lihotzky difende la sua creazione: «La cucina ha semplificato la vita delle persone e ha permesso alle donne di lavorare e diventare economicamente più indipendenti dagli uomini», scrisse. Però ammette: «Sarebbe triste se ciò che allora era considerato all’avanguardia fosse considerato ancora oggi un modello di progresso».
Molti dei suoi progetti, oscurati da quella che lei stessa definì «quella maledetta cucina», erano apertamente femministi. A Francoforte progettò alloggi per donne lavoratrici single e per gran parte della sua carriera si dedicò alla progettazione di scuole materne. «La sofferenza delle lavoratrici che non riescono ad affidare i figli piccoli a educatori qualificati durante l’orario di lavoro è nota», scrisse. «La soluzione non è certo ridurre il numero di donne occupate, ma costruire più strutture per l’infanzia».
Negli anni ottanta il mondo la riscoprì, e cominciarono a fioccare premi e riconoscimenti. Ma lei continuò a dare priorità all’impegno politico: nel 1988 rifiutò la medaglia austriaca per la scienza e l’arte a causa del coinvolgimento dell’allora presidente Kurt Waldheim nei crimini nazisti. Al suo centesimo compleanno, celebrato al museo di arti applicate di Vienna, dove ballò un valzer con il sindaco, parlarono esponenti di associazioni femministe, politici e la figlia di una compagna della resistenza.
A Francoforte aveva imparato a misurare le distanze a passi, un’abilità che tornò utile quando negli ultimi anni di vita perse la vista. Il suo ristorante preferito distava 264 passi da casa, e quando nel 2021 il centro Margarete Schütte-Lihotzky ha aperto al pubblico il suo appartamento restaurato, i vicini ancora la ricordavano sfrecciare per strada con il bastone sollevato, gridando: «Arrivo!».
«Tutti si fermavano per lasciarla passare, anche le auto», ride Allmayer-Beck. «Non è mai stata vecchia. Fino all’ultimo giorno».
da Sikha Mekomit* (tradotto da Internazionale)
Le affermazioni di Yair Golan, leader del partito di sinistra Democratici, che il 20 maggio ha denunciato come Israele rischi di diventare uno stato paria, non nascono dal nulla. Nelle ultime settimane, soprattutto da quando Tel Aviv ha violato unilateralmente il cessate il fuoco a metà marzo, la consapevolezza che Israele sta commettendo crimini di guerra nella Striscia di Gaza sta superando i confini della sinistra ebraica radicale e della comunità palestinese e sta raggiungendo un pubblico più ampio: dall’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon che parla di pulizia etnica all’ex premier Ehud Olmert che denuncia crimini di guerra, dai manifestanti che mostrano le foto dei bambini uccisi a Gaza, il cui numero cresce di settimana in settimana, ai giudici e agli alti funzionari che firmano una petizione per riconoscere il «dovere di rifiutare ordini chiaramente illegali». Il fatto che queste voci siano ignorate dalla politica e dai mezzi d’informazione non significa che non esistono e che non stanno aumentando. Significa che i politici e i mezzi d’informazione sono vigliacchi.
Le fratture all’interno dell’opinione pubblica, che nei mesi precedenti al 7 ottobre 2023 aveva protestato in massa contro il tentato colpo di stato giudiziario del governo ma si era riallineata di fronte alla guerra, erano evidenti prima del cessate il fuoco raggiunto a gennaio. Ma da quando Israele l’ha violato apertamente, con la volontà di evitare un accordo generale che consentisse il ritorno degli ostaggi e la fine della guerra, si sono ampliate e hanno mostrato l’orribile realtà della Striscia di Gaza.
Anche la fame a Gaza ha svolto un ruolo centrale. All’inizio di marzo la decisione israeliana di bloccare l’ingresso degli aiuti umanitari nel territorio palestinese è stata accolta con un’alzata di spalle dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ma le immagini emerse nelle ultime settimane di bambini che muoiono di fame o folle che assaltano i luoghi di distribuzione hanno smosso qualcosa.
Il giorno dopo
Il credito che l’esercito ha sempre avuto tra i cittadini ha contribuito a dare un carattere di “sicurezza” ad azioni essenzialmente politiche come creare e mantenere le colonie, evitare negoziati politici e fare affidamento solo sulla forza militare in relazione ai palestinesi. Il fatto che l’esercito si è impegnato a realizzare obiettivi che sono chiaramente politici e non riguardano la sicurezza – occupare e annettere la Striscia di Gaza, costringere i suoi abitanti a emigrare riducendoli alla fame – ha eroso questo credito.
Difficilmente l’aumento della consapevolezza nell’opinione pubblica ebraica d’Israele farà finire i bombardamenti su Gaza. Perché questo accada servirebbe una combinazione di fattori: l’interesse del presidente degli Stati Uniti Donald Trump a fermare la guerra per fare affari con gli stati del Golfo, la pressione dell’Europa, il rifiuto di arruolarsi dei giovani israeliani, la crisi costituzionale oggi evidente nella disputa sulla nomina del capo dei servizi segreti interni, il costo economico del conflitto e altro. Ma il fatto che questo cambiamento sia in atto significa qualcosa. Potrebbe avere conseguenze sulla politica, sulle pressioni per spingere le persone a rompere il silenzio e sul “giorno dopo”, quando israeliani e palestinesi si guarderanno in faccia alla fine delle atrocità e si chiederanno cosa hanno fatto per fermarle. È fondamentale per il futuro di questo luogo.
(*)Sikha Mekomit è un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.
(Internazionale, 30 maggio 2025)
da Diotimafilosofe.it
Recensione ad Antonietta Potente, M. Milagros Rivera Garretas, Quando Lei viene. La scrittura ispirata, traduzione dallo spagnolo di Sara Bigardi e Paola Bellomi, Edizione indipendente, Pietra Ligure 2024
Ho letto il dialogo tra Antonietta Potente e Milagros Rivera sulla parola che ispira, la parola creatrice, poetica, e subito me ne sono innamorata, perché dice di un’esperienza della scrittura sulla quale mi sono tanto interrogata.
Quindi inizio a parlare di me, che non è la cosa più corretta volendo presentare un libro, però quel che ho capito e imparato nel mio percorso è il motivo che mi ha fatto entusiasmare del libro, proprio quello per cui ora lo presento. Del resto all’inizio di Quando Lei viene. La scrittura ispirata si legge espressamente che «Questo piccolo libro è stato scritto per essere letto con calma, contemplando ciò che si legge fino a sentirlo profondamente e aggiungere le proprie visioni o contributi». Ora, l’ho letto e riletto, ma senza calma, perché l’entusiasmo affretta la lettura e porta sui punti essenziali. Quelli più amati.
Il dialogo tra Antonietta e Milagros tocca qualcosa che mi sono trovata a vivere nella scrittura filosofica che è una delle esperienze più importanti della mia vita. Come dice soprattutto Antonietta, anch’io tante volte non ero soddisfatta di quel che scrivevo. Mancava il gusto, il piacere della scrittura. Sapevo scrivere sì, ma volevo qualche cosa d’altro. Ricordo una studentessa che scriveva la tesi portandomi un blocchetto di pagine solo ogni tanto. Riusciva a scrivere con rigore nel momento in cui il godimento della parola le permetteva di mettere a posto come in un disegno perfetto tutti i concetti. Altrimenti i concetti andavano ognuno per loro conto a caso. Così io. La possibilità di pensare aveva – ed ha – il bisogno di un godimento della scrittura. Mi sentivo fuori posto rispetto al contesto, ma il lavoro iniziato da Luisa Muraro sulla lingua materna, che poi in Diotima abbiamo ripreso e continuato, mi ha fatto scoprire ciò che in realtà già sapevo per esperienza: abbiamo a disposizione le potenzialità di una lingua affettiva corporea in cui le cose e le parole si rimandano. E per lo più, quando ora perdo il filo di questa partecipazione alla lingua nella sua genesi, leggo testi poetici che amo come quelli di Mariangela Gualtieri, di Marina Cvetaeva, Marguerite Duras, e questo mi rimette in sintonia con questa sorgente di parole, pensiero, cose, corpo, che si rimandano tra loro.
Proprio perciò, dato che ora so riconoscere quando agisco creativamente la scrittura – e sono i momenti in cui vado rischiando sui significati, procedendo senza garanzie – so apprezzare anche quello scrivere che è un fare chiarezza dentro di sé riguardo a certe idee già pensate per restituirle arricchite, intensificate e rese luminose.
Il dialogo di Antonietta Potente e di Milagros Rivera si concentra solo sulla pratica di scrittura creativa, poetica, che loro chiamano ispirata. È una bella parola “ispirata”. Rimanda a spirito, a soffio, a pneuma. Qualcosa ti soffia dentro la parola. Qualcosa di impersonale che possiamo accogliere oppure no. Ricorre la figura dell’Annunciazione nel loro testo. L’angelo annuncia a Maria il desiderio che il Signore ha nei suoi confronti e Maria accoglie ed accetta quel che le dice l’angelo. Pronuncia un sì a quelle parole impreviste, fuori dal già noto e conosciuto. La sua vita sarà trasformata da quell’annuire e far essere. Così è la parola ispirata nella scrittura. Avviene, è imprevedibile. È profondamente trasformativa. Avvia in un percorso di cui si sa come si inizia e non si sa dove si arriverà. Antonietta e Milagros lo ripetono: iniziare a scrivere in modo inspirato implica che non sappiamo che cosa diremo eppure procediamo in modo orientato. Del resto, è proprio così per ogni testo in cui si rischia e sentiamo creativo. Si trasforma con la scrittura e noi stessi ci trasformiamo con esso. Alla fine del testo saremo diverse da come abbiamo iniziato.
Ricorre nel dialogo l’idea che è la notte, quando si veglia, la culla della parola ispirata. Nel silenzio, quando tutto tace. Nella solitudine. Allora soffia lo spirito, prende forma un’idea, una parola, una frase che attendevano e non sapevano quale sarebbe stata. I sogni sono anche i luoghi in cui tante situazioni indeterminate trovano il soffio orientante a cui possiamo poi dare forma concreta.
È anche divertente e vero quel che dicono, che allora è tutto un appuntare, tenere foglietti a portata di mano, biglietti dell’autobus. Per non dimenticare. E questo avviene anche di giorno, ovviamente. Ma la notte è per loro il momento propizio. Come favorevole è la solitudine. Aggiungerei, perché così a me capita, una solitudine che si può vivere anche in mezzo agli altri.
Centrale nel dialogo è dunque il fatto che le idee non sono soggettive, né costruibili né tanto meno controllabili. Avvengono indipendentemente dalla nostra volontà. Di qui l’atteggiamento di umiltà rispetto ad esse, al pensare. Viene ripresa una figura che si incontra in tanti testi di donne medievali che segue la formula che potrei ricostruire in questo modo: «Io non sono nessuno, se non un’umile donna. Eppure, ho ricevuto la parola e ne parlo per obbedienza». In questo modo quelle donne medievali come quelle di oggi, che non costruiscono idee ma si pongono nella posizione di accoglierle, divengono mediatrici viventi. Mediatrici di qualcosa che non sanno, ma fanno essere via via nella scrittura.
Anche nel caso di Antonietta e Milagros, la loro autorità dipende dall’aver rinunciato alla centralità dell’io, al narcisismo, e dall’aver accettato che l’ispirazione venga da altrove e che solo così risulti lievito per una scrittura trasformativa.
Entrambe si pongono una domanda a questo punto fondamentale: da dove viene la parola ispirata? È una questione che nel loro testo non ha una risposta univoca, ma quel che ne dicono rimanda alla realtà, alla vita, all’enigma che essa è per noi. Dunque è la realtà vivente ad ispirare la parola. Per Antonietta in particolare Mistero e vita sono parole quasi equivalenti.
Ma cosa si intende allora per realtà e in che rapporto noi stiamo con essa? Ognuna può rispondere singolarmente a questa domanda in base alla propria esperienza, ma a me sembra che l’invito essenziale del testo sia di capire i nostri legami con la realtà, per cui, quando scriviamo in modo arrischiato, senza balaustre, poetico, rispondiamo alla realtà, esprimendola. È proprio allora che obbediamo ad essa e al suo enigma.
Alcune divergenze sulla questione della realtà tra Antonietta e Milagros sono interessanti da seguire. Sicuramente l’ispirazione non viene direttamente dal contesto; eppure, allo stesso tempo dipende da quello che la realtà ci sollecita a dire. Per Milagros le donne che le chiedono di parlare di certe questioni mettono in campo nella domanda il loro rapporto con il mondo. E Milagros, andando loro incontro, mette a sua volta in gioco il proprio legame ispirato con il reale, che non necessariamente coincide con il loro.
Più complesso quel che dice Antonietta. La vita è tessuta simbolica enigmatica, che si dischiude in visioni a chi ne è in attesa. Solo chi presta attenzione e si dispone all’ascolto ne verrà coinvolto. Cercare e desiderare il significato dell’esistenza sono la condizione perché la parola ispirata avvenga. Occorre pazienza orientata, apertura interiore. L’esistenza non è solo quella delle grandi, piccole o mediocri imprese umane, ma anche le grandi distese di acqua, di rocce, di deserti e di boschi. Storie umane e non umane dai tempi diversi, costantemente intrecciate. Tutto è scrigno di significati potenziali.
Come passare per la porta stretta, come trovare la piccola chiave d’oro perché un profilo del reale si distenda davanti e risuoni in noi? Certo, si interrogano le persone, la vita, le cose. Si desidera conoscere il mondo. A volte questo trova una risposta e la visione, la parola ispirata ci coinvolgono allora come se fossimo stati ascoltati ed esauditi.
Milagros pone una questione, ragionando su una impasse vissuta con donne di Duoda, il centro di ricerca delle donne dell’università di Barcellona. Sebbene abbiano più volte espresso il desiderio di scrivere, molte non sono riuscite, nonostante l’invito a farlo. Ha a che fare questa difficoltà con quello che Zambrano scrive in Verso un sapere dell’anima, quando dice che certe cose non possono essere dette, ma solo scritte? E che cosa impedisce loro di formulare quel segreto a cui solo la scrittura fa accedere? La risposta di Milagros è che la parola ispirata coinvolge in una verità che a volte può essere troppo grande per essere accolta. Il fatto è che il soffio ci pone in un rapporto con noi stesse a partire da qualcosa che sentiamo estraneo, come se fosse esterno a noi, ma che riconosciamo come vero per noi, così da invitarci ad un percorso di trasformazione. Questo può provocare l’attraversamento di strati di dolore e comunque di piani d’essere profondamente sconosciuti. Ci si può spaventare e ritrarsi. La verità apre un orizzonte a volte troppo grande rispetto a quello che possiamo soggettivamente sopportare.
Belle le parti del dialogo dedicate ai libri. Fa parte anche della mia esperienza il fatto che – come loro dicono – ci siano libri ispirati che ispirano. Per questo tornare ogni tanto a leggerli, citandoli a memoria, è costitutivo del processo di creazione, trasformazione, illuminazione. Sono libri che divengono così testi sacri nel nostro percorso esistenziale. Scrive Antonietta: «Di per sé i testi ispirati ti obbligano, ti obbligano, come quando Giacomo, un autore delle scritture cristiane, nella sua lettera scrive: “Tenere fisso lo sguardo sulle scritture per capirle”. Potrebbe anche voler dire che è una scrittura, ma ti darà la possibilità di una visione, perché si incarna nella tua vita». In sintonia con questo, per tanti anni all’università ho invitato le studentesse e gli studenti di filosofia a leggere e studiare i testi molto amati che davo in programma come fossero testi sacri, invitando a meditare la parola, perché si incarnasse nella loro vita. Diventasse esperienza vissuta.
Per concludere, vorrei parlare delle critiche che Antonietta Potente e Milagros Rivera portano al mondo universitario. Da una parte è verissimo che le norme accademiche di scrittura, di presa di parola, di standard di qualità proposti sono delle vere e proprie tecniche di disciplinamento e disegnano dei rapporti di potere precisi. Ne è esclusa qualsiasi pensabilità di idea ispirata. Porto un esempio. Se si pubblica un saggio in una rivista, è richiesto che ci siano dei lettori anonimi, che chi ha scritto non deve conoscere e viceversa. Questi portano osservazioni e proposte di cambiamento del saggio che occorre seguire per poter arrivare alla pubblicazione. È una precisa strategia di assoggettamento. Uno degli effetti più deleteri è che viene tagliato alla radice il legame di autorità tra una maestra o maestro e chi si è affidato a loro. Non si possono più avere consigli per cercare la via per andare all’essenziale di quel che si sente di esprimere, in fedeltà al soffio. Anche i legami di amicizia nello studio vengono distrutti. Ovviamente qualsiasi idea di parola ispirata sembrerebbe ai revisori anonimi dei testi un assurdo. Così anche ha ragione Milagros quando racconta che per avere fondi di ricerca occorre stilare un progetto in cui si dicano gli obiettivi e i risultati da perseguire. Il che è estraneo a qualsiasi pratica di ricerca di pensiero, che sa più o meno da dove parte – l’intuizione inziale, la parola ispirata – ma non sa cosa otterrà e quali saranno le scoperte e le trasformazioni. Solo alla fine infatti si può dire quel che il testo è diventato e noi che scriviamo con lui.
Se dunque da un lato la critica è giusta, dall’altro però è anche vero che l’università è un luogo dove si possono compiere azioni libere e ispirate, come invitare le, gli studenti a rapportarsi ai testi filosofici come testi sacri da incarnare e sperimentare, come ho fatto per anni. Oppure, come nel caso di Milagros, aver vissuto lezioni ispirate dove le studentesse e gli studenti smettono di prendere appunti e stanno ad ascoltarla perché si rendono conto che altro sta avvenendo in aula. La voce della docente apre ad un evento irriproducibile di cui loro si sentono partecipi.
Posso aggiungere che all’università sono nate esperienze come quella di Duoda e come quella di Diotima, dove donne autorevoli hanno saputo trasformare il gusto per la libertà in pratiche precise e fondative di un mondo. E questo in fedeltà a quello che sentivano.
da Doppiozero
Tutta l’opera di Goliarda Sapienza (1924-1996) compone un progetto di rientrata in contatto con la memoria delle donne, sia quando rielabora materiali direttamente autobiografici (Lettera aperta, 1967; Il filo di Mezzogiorno, 1969), sia quando la reinvenzione di vicende vissute in prima persona si mescola al racconto di memorie provenienti da altre donne e dagli spazi speciali che avevano internato e nascosto al mondo le loro storie – come, per esempio, nel caso dell’Università di Rebibbia (1983) o Le certezze del dubbio (1987), o del leggendario romanzo L’arte della gioia, iniziato a scrivere tra il 1966-67, steso fino al 1976, poi rivisto con l’aiuto del marito Angelo Pellegrino spedito inutilmente a molti editori a partire dal 1978, ma che, dopo una prima parte pubblicata nel 1994 da Stampa Alternativa, uscirà integralmente solo nel 1998.
Proprio considerando la memoria delle donne come epicentro creativo della scrittura di Sapienza, appare anche più speciale e originale l’adattamento di Ippolita Di Majo (bravissima) per Fuori, il film diretto da Mario Martone in concorso all’ultimo Festival di Cannes, che come dicono i titoli di testa è “tratto da Goliarda Sapienza”, per l’appunto, cioè agisce come esperimento di entrata in sintonia con le tracce essenziali – e la memoria – di una vita intera, che si vuole cercare e guardare non a partire da un singolo libro, ma proprio nel suo effetto d’insieme, incluse le contraddizioni e gli aspetti non risolti, e che dunque non poteva che essere affrontata per attraversamenti (gli stessi che sperimentiamo subito all’inizio del film, mentre percorriamo i corridoi del carcere inseguendo Goliarda), e mettendo in scena la protagonista come corpo nudo che cerca esperienza e racconto intercettando gli occhi di altre donne, come succede nella prima scena di Fuori.
Anche la scelta di Valeria Golino è particolarmente efficace, non solo perché proprio lei ha appena diretto la prima stagione della serie tratta da L’arte della gioia; e non solo perché, con un intreccio di destini profetico, proprio Golino aveva preso lezioni di dizione da Sapienza, all’epoca del film di Citto Maselli Storia d’amore (con cui l’attrice vinse la Coppa Volpi nel 1986).
Golino è perfetta per interpretare Sapienza perché, guardandola, sappiamo bene – anche qui agisce una memoria – che stiamo guardando un’attrice, cioè precisamente quello che è stata e che ha fatto Goliarda Sapienza (prima in teatro, poi recitando in più di dieci film tra il 1946 e il 1955), prima di dedicarsi completamente alla scrittura, per elaborare il vuoto della perdita della madre (Maria Giudice, sindacalista e attivista di primo piano), e per il bisogno di portare in salvo la memoria legata a lei, come raccontava Goliarda stessa. Sapienza, dunque, era, è una scrittrice che si è innestata in un’attrice. Negli ultimi anni sono usciti libri d’autrice belli e importanti (per esempio quelli di Farnetti, Bazzoni, Rizzarelli, Scarfone), che indagano l’opera di Sapienza. Tornando al film di Mario Martone e Di Majo, è particolarmente interessante la sinergia che il film reinventa anche rispetto a questo clima molto vivace di riletture di Sapienza, reinventandola con uno stile personale cinematografico che va oltre il semplice riadattamento.
Durante l’estate del 1980, Goliarda (Valeria Golino), che cerca di sopravvivere al rischio di uno sfratto e all’indigenza, frequenta Roberta (Matilda De Angelis) e altre donne conosciute durante la breve ma intensissima vita in carcere fatta l’anno prima, quando era stata arrestata per il furto e la ricettazione di gioielli appartenenti a un’amica della borghesia romana, tanto solidale a parole quanto incapace di reale generosità. Queste due situazioni temporali (la dimensione presente “fuori” e il passato “dentro” Rebibbia) si confondono e si incrociano per tutta la durata del film, componendo un terzo livello – precisamente la creatura promiscua e anfibia che viene fuori, grazie al montaggio (Jacopo Quadri): un corpo filmico e memoriale che vive di presente e di passato, di dentro e di fuori, di pieni e di vuoti. Senza un centro, forse, in certi tratti ridondante e in altri troppo sorvegliato, o persino divagatorio (le scene con Angelo Pellegrino/Corrado Fortuna), ma ciò malgrado, o a maggior ragione, assolutamente originale.
Il cinema, in Fuori, è esperienza della memoria in quanto esperienza creativa di andirivieni e continuità tra passato e presente. Tutto il cinema di Martone ci fa guardare gli spazi in modo teatrale e drammatico, ma stavolta questo personale stile trova un’occasione nuova di rigenerazione, perché Fuori, effettivamente, sviluppa l’opposizione simbolica di partenza – tra mondo dentro il carcere e mondo fuori – lavorando moltissimo sulle inquadrature e gli effetti di mise en cadre degli spazi, facendoci vedere una Roma assolata anni Ottanta (la fotografia è di Paolo Carnera) che non percepiamo mai come ambiente di maniera, e nemmeno, però, come scenario naturalistico, perché gli spazi sono appunto elementi visuali che non fanno sfondo, ma significato e dunque vanno percepiti. In questo film pieno di finestre, gabbie, grate, saracinesche, inquadrature che chiudono, riprese di scorcio, finestrini, prospettive dal banco di un bar (spazio amatissimo da Goliarda Sapienza), sedute di marmo lungo i binari (come nell’ultima sequenza), la macchina da presa lavora di taglio, facendo entrare e uscire di campo le figure, e organizzando gli spazi come se si ritagliasse anche il senso della memoria, dei ricordi, o magari delle scene da inserire in un romanzo in corso d’opera.
Oltre al trattamento dei grandi spazi, è significativo poi che tutto il film porti la nostra attenzione su piccoli spazi-archivio, come se, anche a questo livello, agisse il tema della conservazione e della messa in salvo di memorie di eventi, di persone e di esperienze che altrimenti rischiano di morire. C’è il baule dove si conservano i manoscritti, la cassetta di sicurezza di Roberta, la valigia con tutte le lettere e i messaggi. Se ci pensiamo, il carcere femminile stesso funziona come un archivio, vivente e vitale, perché, paradossalmente, come anche Sapienza ha raccontato nei suoi libri e nelle interviste, la prigione reale, soprattutto nel caso delle donne, valorizza, rende visibili e mette fuori risorse (alleanze, amori, lavoro, possibilità di morire o di salvarsi) che nel mondo di fuori non trovano spazio né tantomeno sguardo. Della forza e del nutrimento, anche simbolico, sprigionata dal microcosmo di amore e amicizia che si genera da una situazione chiusa, violenta e coatta, parla per esempio la scena molto bella in cui Goliarda e Roberta, dopo esser uscite di prigione, vanno nel negozio di Barbara (Elodie) e, una volta all’interno, tirano giù la saracinesca, rinchiudendosi di nuovo, di fatto, e ricreando uno spazio/tempo separato tutto per loro, lontano dalla realtà di fuori («mi porterai a vederla?» chiede Goliarda a Roberta quando le mostra da lontano la casa dove abita coi suoi. «Mai» risponde l’altra senza dire altro). Anche l’abitacolo chiuso della macchina, per esempio, è una stanza tutta per sé, oltre che un’immagine tempo che scandisce la trama del film.
Il tempo storico degli anni di piombo, del giorno della strage di Bologna (a cui rimanda impercettibilmente un datario) sembrano lasciati fuori, eppure agiscono sul volto consumato dalla tossicodipendenza di Roberta, che a un certo punto sparisce, in questo film tutto lavorato per tagli, ellissi, innesti e ricuciture; dove si usa più di una volta lo spazio narrativo della stazione, che qui assomiglia a un carcere, perché non è lo spazio delle partenze, ma di chi resta, urla di dolore, gira a vuoto, come un fantasma pronto a scomparire, se non arrivasse il tempo della memoria, e del romanzo: «Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente» – come si legge nel primo capoverso dell’Arte della gioia.
da Guerre di Rete
Proponiamo alla lettura questo interessante articolo, che apre scenari inquietanti sul rapporto tra intelligenza artificiale e desiderio. Ma lasciamo una domanda essenziale sulla conclusione della giornalista: possiamo davvero esplorare le domande più umane in un confronto solipsistico? La relazione non si simula: senza un altro reale, resta solo un gioco di specchi.
La Redazione del sito
Non è raro che vengano scambiate per cadaveri. Abbandonate sulla riva di un fiume, trascinate dalle onde fino a una spiaggia o infilate dentro un trolley. Negli ultimi anni le sex-dolls, bambole per adulti create per l’intrattenimento sessuale, hanno generato più di un falso allarme in tutto il mondo. Tra la prima e la seconda ondata di Covid-19 in Giappone, due di queste bambole sono state scambiate per donne annegate. Episodi simili si sono verificati nel Regno Unito, dove una è riaffiorata nel fiume Trent, e in Australia, nel Queensland. In Nuova Zelanda, una donna che passeggiava con il cane a Tapuae Beach ha chiamato la polizia credendo di aver trovato un cadavere nudo e senza testa.
Anche in Italia, nei boschi delle Manie vicino a Finale Ligure, due turisti hanno scambiato per un corpo umano una gamba che spuntava da un trolley abbandonato. In nessuno di questi casi si trattava di una persona reale. A quanto pare, i produttori di sex-dolls stanno quindi vincendo la sfida (finora) più ambiziosa: quella con il realismo.
Il mondo dei sex toys non è affatto uno sfizio per pochi. È un settore in piena espansione, con numeri che parlano chiaro. Le stime internazionali descrivono un mercato globale da 2,5 miliardi di dollari, destinato a raddoppiare entro il 2033. Come altri giocattoli sessuali, anche le sex-dolls sono sempre più normalizzate: i tempi sono cambiati, e i discorsi su sessualità e solitudine, almeno nelle grandi città, sono ormai entrati nel dibattito pubblico. Questo cambiamento culturale ha spinto aziende di tutto il mondo a dedicarsi al settore, investendo nel miglioramento dei prodotti a partire dal materiale, che viene comunemente definito silicone iper realistico.
Sogni elettrici, desideri umani
La pandemia non ha fatto solo la fortuna delle grandi aziende tecnologiche: quelle produttrici di sex-dolls hanno infatti vissuto un momento d’oro, che ne ha decretato l’entrata sul mercato mondiale. L’isolamento e il distanziamento sociale hanno spinto gli acquisti online anche in questo ambito, per via della discrezione che garantiscono agli utenti. La crescita è stata talmente improvvisa ed elevata che alcune aziende hanno dovuto adattare la produzione per far fronte alla domanda. Un esempio è la Libo Technology di Shandong, in Cina, che nel 2020 ha aumentato il personale addetto alla produzione di sex-dolls del 25%, assumendo 400 lavoratori. La responsabile per le vendite estere, Violet Du, ha dichiarato al South China Morning Post che le linee di produzione erano attive 24 ore su 24 e che i dipendenti facevano doppi turni. La Aibei Sex Dolls Company di Dongguan, sempre in Cina, si è trovata a rifiutare ordini a causa dell’eccessivo numero di richieste.
Come è facile intuire, il paese del dragone è leader nella produzione di queste bambole per via dei bassi costi di produzione e di esportazioni vantaggiose verso l’Occidente. Le grandi fabbriche riescono a produrre circa 2.000 unità al mese, mentre quelle più piccole arrivano a una media di 300-500 bambole, come dichiarato dal direttore generale della Aibei. Sebbene, a causa del conservatorismo culturale, in Cina il mercato delle sex-dolls rimanga di nicchia, negli Stati Uniti e in Europa è invece in forte espansione, con guadagni significativi. Nel Vecchio continente le stime più aggiornate parlano di un mercato che oscilla tra i 400 e i 600 milioni di dollari nel 2023. Tra i mercati di importazione più attivi ci sono Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e anche l’Italia. Nel 2021, La Stampa riportava un aumento del 148% nelle vendite di sex toys cinesi nel nostro Paese, incluse le sex-dolls.
Nel 2022, un rivenditore di bambole statunitensi RealDoll ha aperto un negozio fisico nella periferia romana. Accompagnato da un e-commerce attivo già dal 2020, lo spazio fisico «nasce per offrire ai clienti la possibilità di vedere e toccare con mano i prodotti, considerando anche il costo elevato che hanno» spiega il proprietario a Guerre di Rete. Il negozio offre un servizio completo, consentendo ai clienti non solo di osservare, ma anche di toccare le bambole. «Il 60% dei nostri clienti sono uomini in una relazione stabile», continua il proprietario, aggiungendo che «si tratta spesso di coppie alla ricerca di un elemento di novità nella loro intimità». Tuttavia, ci sono anche altri tipi di clienti: «L’altro 30% è rappresentato da uomini separati, che si sentono soli e cercano affetto. Vogliono tornare a casa e trovare qualcuno ad aspettarli». La parte rimanente comprende persone introverse, ma anche appassionati di fotografia, registi e proprietari di locali. Per quanto riguarda l’AI, il proprietario spiega che «oltre a quella che stanno introducendo i produttori cinesi, internamente stiamo sviluppando un device mobile simile ad Alexa, che renderà le bambole capaci di interagire con il proprietario».
Costruite per amare, programmate per imparare
Essendo ormai ovunque, l’intelligenza artificiale non poteva mancare nemmeno nel mondo delle bambole sessuali, garantendo oltre all’intrattenimento anche l’interazione. È un’innovazione ancora recente, ma che sta cambiando radicalmente il settore. In una sfida globale degna delle grandi potenze, anche in questo campo Stati Uniti e Cina si contendono il primato. Da una parte RealDoll, azienda americana, dall’altra la cinese WMDoll: entrambe hanno cominciato a integrare funzionalità di AI tra il 2016 e il 2017. I primi modelli offrivano movimenti di occhi, testa e altre parti del corpo, accompagnati da una capacità di risposta vocale piuttosto limitata. Più che vere conversazioni, si trattava di semplici repliche a domande preimpostate da parte dell’utente.
Lo sviluppo è stato inizialmente lento, come ha spiegato Liu Ding, product manager di WMDoll, che attribuisce la causa anche alla scarsa volontà di investire nell’intelligenza artificiale applicata ai prodotti per adulti. Ma nel 2024 lo scenario è cambiato: l’azienda cinese ha compiuto un deciso passo avanti con il lancio della serie MetaBox, che ha rivoluzionato anche il resto del mercato. Le nuove bambole, equipaggiate con modelli linguistici open source di grandi dimensioni (LLM) come Llama di Meta, offrono un’interazione molto più avanzata, consentendo all’utente di scegliere tra diverse “personalità” delle bambole. Queste ultime sono inoltre in grado di sostenere conversazioni (perlopiù in inglese) anche a distanza di giorni, ricordando quanto detto in precedenza. Questa funzione, tuttavia, richiede una connessione costante ai server cloud e una fonte continua di energia elettrica, mettendo in evidenza uno degli aspetti attualmente più critici dell’AI: il suo elevato consumo energetico. Inoltre, WMDoll sta sviluppando collane, braccialetti, anelli e altri dispositivi pensati per connettere anche i modelli precedenti con il loro proprietario.
Al di là dei gusti, il costo rimane un argomento spinoso. Soprattutto se integrate con l’AI, le sex dolls sono al momento appannaggio di pochi. Per gli utenti che vogliono interagire con una bambola sessuale RealDoll, il cui costo a figura intera è di 4.000 dollari, c’è da aggiungere un ulteriore abbonamento mensile di 40 dollari al mese (580 l’anno). Mentre la versione cinese è più economica: con alcune variazioni di dimensioni e materiali, la bambola con AI di WMDolls si aggira sui 1.900 dollari.
Mentre l’industria delle sex dolls entra in una nuova fase, alimentata dall’intelligenza artificiale e da tecnologie sempre più sofisticate, emergono interrogativi etici e legali che non possono essere ignorati. L’episodio che ha coinvolto la modella israeliana Yael Cohen Aris, che nel 2019 ha scoperto come l’azienda cinese Iron Dolls avesse usato il suo volto e nome per una delle sue sex dolls, mette in luce i rischi di un mercato dell’intrattenimento sessuale in cui l’identità e il consenso all’uso della propria immagine possono facilmente essere violati. Il mercato delle sex dolls fa però emergere qualcosa di più profondo. Le nuove bambole AI, sempre più capaci di dialogare, ricordare e assumere personalità differenti, stanno dando forma a un’idea fantascientifica: l’amore programmabile. Come in Her o Ex Machina, non c’è solo l’interazione umana con un software, ma la proiezione di desideri, paure e bisogni in una presenza artificiale che sembra restituire qualcosa di autentico. Forse, nel silenzio sintetico delle nuove companion, l’utente non troverà una “risposta”, ma solo un altro modo – programmato e prevedibile – di esplorare le domande più umane.
da Il Post
È una decisione molto rilevante, in una delle regioni italiane in cui è più difficile abortire L’Assemblea regionale siciliana ha introdotto una legge in materia di sanità che, tra le altre cose, prevede l’obbligo per gli ospedali pubblici di assumere medici e altro personale non obiettore di coscienza, garantendo così l’attuazione della 194, la legge che dal 1978 consente in Italia di interrompere volontariamente una gravidanza. L’obiezione di coscienza, prevista con alcuni limiti dalla 194, è uno dei principali ostacoli al diritto a un aborto garantito e accessibile.
In teoria gli ospedali pubblici in Italia sono obbligati a garantire l’accesso all’aborto, ma nella pratica non è sempre possibile quando c’è una grande concentrazione di medici obiettori, e non esistono obblighi specifici per assumere personale sanitario non obiettore di coscienza. La decisione della Sicilia è quindi rilevante e ha pochi casi simili in Italia, anche perché qui una norma del genere è particolarmente necessaria: è infatti una delle regioni con la maggior presenza di medici obiettori e in cui è più difficile abortire.
L’articolo 3 del disegno di legge 738 approvato dalla Sicilia prevede innanzitutto che le aziende del servizio sanitario regionale istituiscano le aree dedicate all’interruzione volontaria di gravidanza dove non siano già previste. Nell’ultima relazione sull’attuazione della legge 194, pubblicata con grande ritardo dal ministero della Salute nel dicembre del 2024, si dice che in Sicilia ci sono 55 strutture con un reparto di ostetricia e ginecologia e che in 26 di queste, pari al 47,3 per cento, meno della metà, si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza. La media in Italia è del 61,1 per cento.
L’articolo 3 prevede poi che le aziende sanitarie e ospedaliere, quando assumono nuovo personale, si assicurino che le aree dedicate all’interruzione volontaria di gravidanza abbiano «idoneo personale non obiettore di coscienza». I bandi di concorso dovranno avere «un’apposita condizione di risoluzione del contratto di lavoro, qualora il personale non obiettore assunto si dichiari successivamente obiettore». Si prevedono insomma dei concorsi dedicati a medici non obiettori e l’obbligo per le aziende sanitarie di provvedere alla loro sostituzione qualora dovessero cambiare idea una volta entrati in servizio.
La 194 dovrebbe garantire alle donne la possibilità di interrompere volontariamente una gravidanza, ma nella realtà rimane talvolta inapplicata per l’elevato numero di medici che si avvalgono della cosiddetta “obiezione di coscienza”, la possibilità prevista dalla legge di non praticare aborti per ragioni personali. Nel 2022 in Italia la quota di ginecologi obiettori di coscienza era pari al 60,5 per cento, inferiore rispetto al 63,6 per cento dell’anno precedente ma ancora elevata, come si dice nel report del ministero, e con notevoli differenze tra regioni.
Le percentuali più alte di ginecologi obiettori di coscienza si trovano in Molise (90,9 per cento) e proprio in Sicilia (81,5 per cento). Tra gli anestesisti in Sicilia l’obiezione è pari al 73,1% e tra il personale non medico all’86,1%. In provincia di Messina non c’è nemmeno un medico che pratichi l’interruzione di gravidanza, in provincia di Trapani uno soltanto.
La Sicilia, come molte altre regioni, non ha inoltre deliberato nulla sulla possibilità di deospedalizzare la somministrazione della pillola RU486 per l’aborto farmacologico, come previsto da una circolare ministeriale del 2020 che aveva aggiornato le Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza rendendo l’aborto farmacologico praticabile fino a nove settimane di gestazione nei consultori, nelle strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate e in day hospital (quindi senza ricovero in ospedale).
Il contenuto dell’articolo 3 sull’obiezione di coscienza approvato in Sicilia era stato presentato nel 2023 dal deputato regionale del Partito democratico Dario Safina tramite una proposta che poi è stata trasformata in un emendamento al disegno di legge 738 in materia di sanità. Alla fine il ddl è stato approvato a voto segreto con 27 sì e 21 no. Considerate le assenze tra i banchi dell’opposizione, e in modo in parte sorprendente, almeno una decina di deputati della maggioranza di destra hanno sostenuto la norma.
dal Guardian
Ragazze e giovani donne raccontano di aver subito fustigazioni e abusi nelle cosiddette “case di cura” dopo aver litigato con i loro padri o mariti
Una giovane donna che indossa un’abaya nera è fotografata in una città del nord-ovest dell’Arabia Saudita, in piedi precariamente sul davanzale di una finestra al secondo piano. Una seconda fotografia mostra un gruppo di uomini che la scortano giù con l’aiuto di una gru.
L’identità della donna è sconosciuta, ma si dice che fosse detenuta in una delle “prigioni” notoriamente segrete dell’Arabia Saudita, destinate alle donne cacciate dalle loro famiglie o dai mariti per disobbedienza, relazioni sessuali extraconiugali o assenza da casa.
Si è trattato di un raro esempio della difficile situazione di centinaia o più ragazze e giovani donne che si ritiene siano detenute in tali strutture, dove vengono “riabilitate” per poter tornare dalle loro famiglie.
Parlare in pubblico o condividere filmati di queste “case di cura”, o dar al-reaya, è diventato impossibile in un Paese in cui le voci sui diritti delle donne sembrano essere state messe a tacere. Ma negli ultimi sei mesi, il Guardian ha raccolto testimonianze su come si vive all’interno di queste istituzioni, descritte come “infernali”, con fustigazioni settimanali, insegnamenti religiosi forzati e nessuna visita o contatto con il mondo esterno.
Si dice che le condizioni siano così insostenibili che si sono verificati diversi casi di suicidio o tentato suicidio. Le donne possono trascorrere anni rinchiuse, impossibilitate ad andarsene senza il permesso della famiglia o di un tutore maschio.
«Ogni ragazza che cresce in Arabia Saudita sa cos’è la dar al-reaya e quanto sia orribile. È un inferno. Ho cercato di togliermi la vita quando ho scoperto che mi avrebbero portata lì. Sapevo cosa succedeva lì alle donne e ho pensato “Non posso sopravvivere”», racconta una giovane donna saudita che in seguito è riuscita a fuggire in esilio.
Maryam Aldossari, un’attivista saudita che vive a Londra, afferma: «Una ragazza o una donna resterà lì dentro per tutto il tempo necessario ad accettare le regole».
Mentre l’Arabia Saudita celebra l’assegnazione della Coppa del Mondo maschile FIFA e si promuove meticolosamente sulla scena mondiale come paese riformato, le donne che hanno osato chiedere pubblicamente maggiori diritti e libertà hanno dovuto affrontare arresti domiciliari, carcere ed esilio. Le attiviste affermano che le case di cura del paese sono uno degli strumenti meno noti del regime per controllare e punire le donne e ne chiedono l’abolizione.
I funzionari sauditi hanno descritto le case di cura, istituite in tutto il Paese negli anni ’60, come luoghi in cui si fornisce «rifugio a ragazze accusate o condannate per vari reati» e affermano che vengono utilizzate per «riabilitare le detenute» con l’aiuto di psichiatri «al fine di restituirle alle loro famiglie».
Ma Sarah Al-Yahia, che ha avviato una campagna per abolire le case di cura, ha parlato con diverse ragazze che descrivono un regime violento, in cui le detenute vengono sottoposte a perquisizioni corporali e test di verginità all’arrivo e in cui vengono somministrati sedativi per addormentarle.
È una prigione, non una casa di cura, come amano chiamarla. Si chiamano con i numeri. «Numero 35, vieni qui». Quando una delle ragazze palesava il suo cognome, veniva frustata. Se non pregava, veniva frustata. Se veniva trovata sola con un’altra donna, veniva frustata e accusata di essere lesbica. Le guardie si radunavano e guardavano mentre le ragazze venivano frustate.
Yahia, che ora ha trentott’anni e vive in esilio, racconta che i suoi genitori la minacciavano di mandarla alla dar al-reaya da quando aveva tredici anni. «Mio padre la usava come minaccia se non avessi obbedito ai suoi abusi sessuali», racconta, aggiungendo che ragazze e donne potrebbero trovarsi di fronte al terribile dilemma di scegliere tra dar al-reaya e rimanere in una casa dove regna la violenza.
«Rendono impossibile ad altri aiutare le donne in fuga dagli abusi. Conosco una donna che è stata condannata a sei mesi di carcere per aver aiutato una vittima di violenza». Dare rifugio a una donna accusata di “assenteismo” è un reato in Arabia Saudita.
«Se subisci abusi sessuali o rimani incinta di tuo fratello o di tuo padre, sei tu quella che viene mandata a dar al-reaya per proteggere la reputazione della famiglia», afferma.
Amina*, venticinque anni, racconta di aver cercato rifugio in una “casa di cura” a Buraydah, una città nell’Arabia Saudita centrale, dopo essere stata picchiata dal padre. Dice che l’edificio era “vecchio, fatiscente e inquietante” e il personale “freddo e indisponente”. Hanno sminuito la sua esperienza, racconta Amina, dicendole che le altre ragazze stavano “molto peggio” ed erano “incatenate a casa” e le hanno detto di «ringraziare Dio che la mia situazione non fosse poi così grave».
Il giorno dopo, il personale ha convocato suo padre, racconta Amina, ma ha fatto ben poco per proteggerla. «Ci hanno chiesto di mettere per iscritto le nostre “condizioni”. Ho chiesto di non essere picchiata o costretta a sposarmi e di poter lavorare. Mio padre mi ha imposto di rispettare tutti, di non uscire mai di casa senza permesso e di essere sempre scortata da un accompagnatore. Ho firmato per paura: sentivo di non avere scelta».
Una volta tornata a casa, racconta Amina, le percosse sono continuate e alla fine è stata costretta a fuggire in esilio. «Ricordo di essere stata completamente sola e terrorizzata. Mi sentivo prigioniera in casa mia, senza nessuno che mi proteggesse, nessuno che mi difendesse. Mi sembrava che la mia vita non contasse nulla, che anche se mi fosse successo qualcosa di terribile a nessuno sarebbe importato», racconta.
Le ragazze imparano ad aver paura delle dar al-reaya fin da piccole. Shams* racconta che aveva sedici anni quando una ragazza che era stata in casa di cura fu mandata alla sua scuola. Raccontò alla classe di aver iniziato una relazione con un ragazzo e di essere stata presa dalla polizia religiosa e costretta a confessare tutto al padre. Dopo essere rimasta incinta, la sua famiglia la ripudiò e il padre le impedì di sposarsi, così fu mandata alla dar al-reaya. «Ci disse che se una donna ha rapporti sessuali o una relazione diventa una “donna di poco valore”. Se sei un uomo, rimarrai sempre un uomo, ma se una donna si rende di poco valore, lo sarà per tutta la vita».
Layla*, che vive ancora nel Paese, racconta di essere stata portata in una dar al-reaya dopo aver denunciato alla polizia il padre e i fratelli. Afferma che hanno abusato di lei e poi l’hanno accusata di aver gettato la vergogna sulla sua famiglia pubblicando sui social media un post sui diritti delle donne. È rimasta nella casa di cura finché suo padre non ha acconsentito al suo rilascio, nonostante fosse lui il suo presunto aggressore.
«Queste donne non hanno nessuno. Potrebbero restare ripudiate per anni, anche senza aver commesso alcun reato», afferma un’attivista saudita per i diritti delle donne che desidera rimanere anonima. «Le uniche vie d’uscita sono un tutore maschio, il matrimonio o buttarsi giù dall’edificio. Uomini anziani o ex detenuti che non trovavano moglie ne cercavano una in questi istituti. Alcune donne li accettavano come unica via d’uscita».
Alcuni uomini sauditi sostengono che se una è lì se lo merita o che le donne dovrebbero esser grate al governo per le strutture che le proteggono, afferma Fawzia al-Otaibi, un’attivista costretta a fuggire dal Paese nel 2022.
«Nessuno osa twittare o parlare di questi luoghi. Nessuno chiede di te quando ci vai. Fanno vergognare le vittime», dice Otaibi.
Le attiviste affermano che se il regime saudita prendesse sul serio i diritti delle donne, riformerebbe il sistema delle case di cura e fornirebbe rifugi adeguati e sicuri alle vittime di abusi. «Ci sono donne che hanno brave famiglie che non abusano di loro né le rinchiudono», afferma un’attivista saudita che ora vive in esilio. «Ma molte vivono sotto rigide restrizioni e subiscono abusi in silenzio. Lo Stato sostiene questi abusi con queste istituzioni. Esistono solo per discriminare le donne. Perché le autorità saudite permettono loro di rimanere aperte?»
L’organizzazione per i diritti umani ALQST afferma che le strutture di dar al-reaya sono note in Arabia Saudita come strumenti statali per far rispettare le norme di genere e «sono in netto contrasto con la narrativa delle autorità saudite sull’emancipazione femminile».
La responsabile delle campagne, Nadyeen Abdulaziz, afferma: «Se intendono seriamente promuovere i diritti delle donne, devono abolire queste pratiche discriminatorie e consentire l’istituzione di veri e propri rifugi che proteggano, anziché punire, coloro che hanno subito abusi».
Un portavoce del governo saudita ha affermato che esiste una rete di strutture di assistenza specializzate che supportano i gruppi vulnerabili, tra cui donne e bambini vittime di violenza domestica. L’istituzione ha respinto categoricamente le accuse di reclusione forzata, maltrattamenti o coercizione.
«Questi non sono centri di detenzione e qualsiasi accusa di abuso viene presa sul serio ed è soggetta a indagini approfondite… Le donne sono libere di uscire in qualsiasi momento, per andare a scuola, al lavoro o per altre attività personali, e possono andarsene definitivamente quando vogliono, senza bisogno dell’approvazione di un tutore o di un familiare».
Ha inoltre affermato che le segnalazioni di violenza domestica vengono ricevute su una hotline dedicata e riservata e che tutti i casi vengono gestiti rapidamente per garantire la sicurezza delle persone coinvolte.
(*) I nomi sono di fantasia.
da Diotimafilosofe.it
Il Quaderno di via Dogana Esserci davvero è composto dalla conversazione integrale tra Clara Jourdan e Luisa Muraro, svolta a Milano nel 2003, su richiesta di Cristina Segura Graíño della Universidad Complutense di Madrid per la “Biblioteca de Mujeres”. È stata pubblicata in una versione ridotta nel 2006, con il titolo Vida y obra. Conversando con Luisa Muraro, insieme a una cronologia e una piccola antologia di scritti. In questo volume invece il catalogo – che contiene libri, articoli, saggi, atti di convegni, seminari, dibattiti, interventi sul web e finanche articoli su giornali femminili – occupa i due terzi del testo, testimonianza del fervente impegno teorico-politico della Muraro, ma anche della perizia e accuratezza della Jourdan che ha catalogato e aggiornato il profilo di Luisa.
Ho ricevuto l’invito a recensire questo lavoro a ridosso dell’8 marzo, data simbolica per le donne, da Wanda Tommasi, con la quale ho mantenuto sempre vivo il mio rapporto che risale agli anni della fondazione di Diotima. La mia più che una recensione è una restituzione a Luisa di quel che mi ha dato e che le devo.
Il primo incontro
Con Luisa ho avuto un forte legame che precede, anche se di poco, quello con Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Risale a quando, insieme a Laura Capobianco e alla giovanissima Silvana Totaro, la incontrai per la prima volta a Verona. Era il 1984 e le portai il mio primo libro non ancora pubblicato, che era già un libro sul Pensiero della differenza e che, per condiscendenza verso la mia coautrice Clara Fiorillo, architetta, chiamai Pensiero Parallelo. Grazie a questo incontro sono stata partecipe fin dall’inizio del movimento del pensiero della differenza (anni ’80) che fece di Napoli uno dei poli più importanti insieme a Milano e a Roma.
Luisa ci parlò già allora del progetto di Diotima che era sul punto di essere varato. Non sapevo a quel tempo che ne avrei fatto parte insieme ad Angela Putino e che Luisa e Diotima divenissero tanto determinanti per la mia pratica politica e filosofica. Ci fu dopo quell’incontro un periodo fervido di seminari anche con donne importanti come Luce Irigaray, di cui Luisa già aveva tradotto i primi due testi. Iniziammo con un seminario a porte chiuse del 1985 presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli, non documentabile ma molto importante perché lì nacque in Italia, tra “lacrime e sangue” (ci furono scontri, conflitti e donne in lacrime) il Movimento femminista italiano della Differenza sessuale. Erano presenti Luisa Muraro con tutto il gruppo Diotima, Alessandra Bocchetti e Angela Putino che conoscemmo tutte in quella occasione. Provammo anche a fare una saldatura non molto riuscita con il femminismo degli anni Settanta, erano state, infatti, invitate Nadia Fusini, Carla Ravaioli e Anna Rossi Doria.
Il rapporto con le donne del PCI e la rottura con Luce Irigaray
In quegli anni si è tentata anche un’altra saldatura, quella tra Femminismo della differenza e donne del PCI ad opera principalmente di Franca Chiaromonte (PCI) e Alessandra Bocchetti (Virginia Woolf). Importante fu la manifestazione tra donne del PCI e del femminismo sui temi del lavoro a Napoli, nel dicembre 1987. Al comizio finale partecipò, sotto mio invito, Angela Putino, ma non Luisa Muraro. La cosa non mi sconvolse, avevo notato la freddezza con cui si rapportava alle donne del PCI, soprattutto quelle che ricoprivano ruoli apicali. Mi confessò, in una delle tante chiacchiere che si facevano a latere di importanti iniziative, che a lei del PCI piacevano donne come Giglia Tedesco, donne vere. Mi disse anche che aveva avuto incontri con Livia Turco e con altre, anche con Marisa Rodano, una “cariatide” del PCI, a Roma, a Milano, e che per lei questi incontri non avevano dato risultato e che erano cose che seguiva di più Lia Cigarini. A lei queste donne sembravano “non essere veramente lì presenti” materialmente, le trovava astratte. Non c’era nessun pregiudizio, ma erano incontri senza passione e coinvolgimento. D’altronde, come ribadisce nell’intervista, lei quando non viene coinvolta si chiude nella sua identità e diventa oppositiva.
Luisa è una donna apparentemente semplice, perché non usa maschere e manifesta le sue contraddizioni, i suoi alti e bassi, senza infingimenti. Ogni incontro è per lei un nuovo incontro, anche se si tratta della stessa persona. Luisa qui giustifica il suo comportamento altalenante, affermando che: «non sapevo affatto, e ancora non so bene, relazionarmi con qualcuna che è altro. Altro, lo riferisco anche a uomini, ma nel caso della donna è molto più problematico. Non so relazionarmi con una in cui non riesco a specchiarmi per cose molto importanti. Allora compare questo altro – lo dico al neutro perché lei perde un po’ quella dote che hanno per me tutte le donne, che è di essere mie simili – e in quel momento mi diventa estranea, e in una maniera molto disturbante perché è una donna. Se fosse un uomo, potrei mettere sul conto della differenza maschile quello su cui sono contraria».
Per tutti altri motivi, anche con Luce Irigaray, Luisa non è riuscita a trovare una corrispondenza emotiva. Ero stata presente con Alessandra Bocchetti, Angela Putino e altre, durante un pranzo in una trattoria di Campo de’ Fiori alla loro rottura. Questo rapporto si consumò proprio al cospetto della magnifica statua di Giordano Bruno. Avevo pensato che si trattasse di un dissapore contingente, ma ho capito alla luce di questa conversazione, quanto fosse stato difficile il suo rapporto con Luce Irigaray fin dall’inizio, perché Luisa cerca – come qui ci dice – nelle persone che ammira una misura, un equilibrio, che Luce non poteva darle, cosa che invece è avvenuto e avviene tuttora con Lia Cigarini.
La scrittura
Sapevo che Luisa amava scrivere e che ha anche insegnato scrittura femminile, ma non sapevo che fosse un desiderio precedente alla pratica e teoria del “simbolico”. Il cuore della conversazione tra le due autrici s’incentra proprio sulla scrittura che non s’identifica tout-court con la costruzione del “simbolico”. Fin da bambina Luisa si cimenta con la scrittura, impara quasi prima a scrivere che a leggere. Scrive, infatti, un romanzo, una storia tremenda in stile deamicisiano. Poi vince a dodici anni anche un premio di 5.000 lire con cui compra un’intera collana di libri della Bur. Cerca poi da adulta di trovarsi sempre in “situazioni” culturali dove le richiedono di scrivere. La rivista L’erba voglio è stata il suo trampolino di lancio e con il femminismo lei intuisce che troverà il terreno più fertile per farlo. Sono molte le filosofe, anche non femministe, che hanno trovato nella scrittura il loro essere al mondo, la loro esistenza sociale, addirittura anche il senso della sopravvivenza fisica per cui, esaurita la carica di creatività, hanno messo fine alla propria vita. Un esempio è la Bespaloff e ancora più eclatante il suicidio della Kofman. La scrittura per lei era come una necessità esistenziale. Si suicida proprio quando appura che la sua capacità di scrivere si è esaurita. Poi c’è l’esempio delle letterate, non solo delle filosofe. Letterate folli, come si evince dal bel libro di Wanda Tommasi, Le parole per scriverlo. La ferita e la Parola. Un esempio del fatto che non sempre la scrittura è pacificatrice è che molta scrittura femminile nasce da forme di dolore e da situazione-limite che non trovano consolazione. Agata Kristof è afflitta dallo sradicamento dell’esilio; Flannery O’Connor è affetta da un lupus che la porterà a una morte prematura; Anna Maria Ortese è ferita dalla morte del giovane fratello; Irène Némirovsky e Marie Cardinal sono prese dall’odio per le loro madri negative, addirittura in una sequenza genealogica (sono rispettivamente madre e figlia), perché non sono state capaci di imparare ad amare la madre. La scrittura di Luisa nasce dal desiderio e dal piacere di scrivere, ma anche dal fatto che la relazione materna sia stata un punto importante, sia della sua elaborazione politica-filosofica che della sua forza esistenziale. Non è stato così fin dalla nascita perché amare la madre non è una esperienza immediata, ma un sapere che si apprende, come ci dice Luisa ne L’ordine simbolico della madre. Il sapere amare la madre è stata per lei una conquista: amare la madre comporta la convinzione profonda non solo della necessità della potenza materna, ma del fatto che colei che ci ha dato la vita non è nemica della nostra indipendenza, anzi ne è la condizione. In questo è riposta la grande pacificazione con sé stesse. La madre è soprattutto la lingua: lei non ci ha dato solo la vita, ma anche la parola. Luisa scrive per il piacere di scrivere, e questo ha giovato anche alla pratica politica di costruzione del simbolico femminile, che è una pratica di messa in parola di esperienze ed eventi che non trova nella cultura maschile, ancora profondamente omosessuale, le parole per dirlo. La nostra realtà si costituisce nominandola, il nostro rovesciare il mondo non è qualcosa che avviene all’esterno di noi, ma noi cambiamo il mondo nel cambiare noi stesse.
Luisa ha imparato con Lia pratiche come l’affidamento e il partire da sé. Ma, a differenza di Lia, che prima pensa e poi scrive, Luisa articola le intuizioni che ha direttamente nella scrittura. Pensiero e scrittura si evolvono sincronicamente. Infatti, così dice:
«Ci sono persone che pensano indipendentemente dalla scrittura: Lia Cigarini, lei pensa, poi si mette a scrivere. Anche lei ha un momento di trattativa tra il suo pensare e la scrittura, ma la scrittura è piuttosto uno strumento. Mentre per me la scrittura – e della scrittura la sintassi – è una specie di stampo, in cui vado. Perché ci vado, con questo bisogno, quando ancora non ho niente da dire? Questa è una cosa che non so. Io so che c’è. È come se dovessi fare ordine simbolico dentro di me, oppure come se dovessi riprendere il processo di contrattazione con la madre, con mia madre, con tutto quello che è lo strato primario del mio vivere. Infatti, lo scrivere mi dà, quando la scrittura è riuscita, un senso di intimo, profondo, grande, star bene, vicino a uno stato di felicità, di beatitudine».
La mistica
Ma, oltre a questo piacere quasi fisiologico, cosa veramente distingue Luisa Muraro da Cigarini, da altre e dalla stessa Luce Irigaray? La mistica. Da qui Luisa trae il modello di scrittura ma anche la necessità di affidarsi alle pratiche.
«Dalla lettura delle scrittrici mistiche io ho affinato l’orecchio per captare il silenzio, la presenza di un silenzio. […] L’assenza si iscrive come una forma di presenza cava, una forma di cavità in questa scrittura che si arresta nell’ascolto di qualcosa che non può risuonare effettivamente. Questa capacità femminile di scrittura (mi si potrà dire: anche nei mistici; ma negli uomini non tiene, poi si trasforma sempre in un discorso compiuto), questa capacità di discorso sospeso, incompiuto, permette di scrivere quello che non è storia», ossia la storia scientifica. Per Luisa che ha appreso, come tutte noi della nostra generazione post-guerra, la storia da racconti familiari, è difficile accettare l’“oggettività” della storia.
Anche la “teologia favolosa”, rischia di divenire teologia scientifica e allontanarsi da quella teologia in lingua materna che inizia «quando si comincia a parlare di Dio in volgare, in lingua materna, e su questo passaggio sono le donne che si fiondano e hanno una loro letteratura fiorentissima». La teologia intesa come scienza, con tutte le classiche operazioni della cancellazione della differenza femminile e della presenza di donne, è esattamente come le altre discipline. Ma nella mistica, finché la mistica resta mistica, questo non avviene. C’è una letteratura mistica che non si trasforma in teologia scientifica. Per Luisa c’è un legame forte tra la mistica e la politica delle donne, perché in entrambe c’è il tema dell’alterità, del vuoto come rimando all’alterità; quindi, un divenire che non si colma ma che lascia aperto alla differenza sessuale. Un punto importante è quello del “c’è altro” che segna il senso della incompiutezza e della fragilità e che va salvaguardato. Non siamo in una visione nichilista, né al colmo della disperazione, anzi dalla mistica Luisa ha appreso che si può chiedere alla politica anche la felicità. Luisa qui ci sottolinea che il tema della politica e della felicità c’è già nella Costituzione degli Stati Uniti ma che si può trovare la felicità facendo anche ricerca scientifica. Michela Pereira «anche lei in chiave di polemica coi limiti della modernità e della scienza moderna, ha rivendicato alla tradizione alchemica di fare della felicità un tema centrale della ricerca scientifica stessa». Cosa che Luisa ritrova insieme alle pratiche in Margherita Porete. Il primato delle pratiche è una caratteristica di ogni tradizione mistica «perché l’iniziazione mistica deve avvenire secondo modalità che non sono capriccio personale: per uscire dal sé fasullo che la cultura e la società ti costruiscono è necessario farlo avendo un maestro, una guida. […] Il primato delle pratiche lo troviamo anche nel movimento politico delle donne; non nella sua componente solo accademica, perché le femministe solo accademiche hanno adottato le pratiche del mondo accademico necessarie per la ricerca scientifica». Su questo s’innesta un altro discorso molto importante per Luisa, il suo rapporto con l’istituzione universitaria che la porta insieme a Chiara Zamboni a proporre un progetto di autoriforma universitaria.
L’autoriforma
Apro qui una parentesi. Ci sono stati momenti di frizione tra me e Luisa, soprattutto quando nel 1998-99 Massimo D’Alema, primo Presidente del Consiglio dei ministri di sinistra, mandò truppe italiane nella guerra del Kosovo. Luisa s’aspettava da me non una semplice critica, ma un gesto di vera rottura che non feci. Mi accontentai delle solite giustificazioni correnti, ossia la difesa della popolazione, la democrazia etc. Tra l’altro minimizzai anche il suo dissenso che fu abbastanza duro, perché interruppe con me lo scambio di lettere allora scritte a mano, che io ancora conservo, e le sue venute a Napoli a eventi da me organizzati. Minimizzavo anzi, ci scherzavo su, per esorcizzare la sua disapprovazione, dicendo che Luisa, da vera “badessa” (così la chiamavamo scherzosamente nel riconoscerle Autorità femminile) mi aveva scomunicata. Una grande intesa con Luisa, invece, ci fu proprio sul progetto di autoriforma universitaria. Come lei, ho vissuto una profonda estraneità verso quel luogo, che da studentessa, durante la rivolta del ’68, era diventato la mia casa. Ma poi, dopo quegli anni fervidi di lotte e di speranze, l’Università ha subito un lento e forte processo di restaurazione, a colpi di riforme istituzionali che sembravano introdurre piccoli cambiamenti, ma che invece contenevano grandi disegni restauratori. Ne è un esempio l’introduzione dei crediti formativi: sembrava una cosa piccola, ma ha, soprattutto nelle facoltà umanistiche, rotto ogni possibilità di fare dell’Università una comunità di relazioni umane e culturali, che sono alla base di un “corretto” modo di fare ricerca scientifica e didattica.
L’autoriforma, che prese l’avvio da una lettera inviata da Luisa Muraro e Chiara Zamboni a tutte le università italiane, proponeva di avviare un mutamento visibile dell’Università, attivando comportamenti “anticonformistici” e “pratiche di relazione” invece di burocratiche riforme legislative. A questo appello risposero molte università italiane e risposi anche io con un documento che a Luisa piacque molto, intitolato “Lista di rinuncia al concorso” nel quale, invece di rivendicare il diritto di essere ammessi al Concorso, sancivo il diritto di rinunciarvi. Quel “concorsone” non serviva a fare una vera selezione, ma era un paravento di vecchi metodi baronali. Non era la mia solo una provocazione, ma era una denuncia verso una Lista (una vera lista d’attesa) in cui chi vinceva formalmente rimaneva iscritto finché non veniva “chiamato” da qualche università italiana, pena la decadenza se la cosa non si verificava entro tre anni. Il tal caso quindi poi si doveva ripetere tutto daccapo. Era una vera presa in giro, una riproposizione mistificatoria del modello della cooptazione universitaria, che perpetuava le relazioni di potere baronale. La rinuncia non fu solo una proposta, io la realizzai alla lettera non presentandomi mai al Concorso di associato. Ho dedicato le mie energie alla ricerca in un ambito come il Pensiero della differenza, non considerato scientifico dall’Accademica e quindi che non faceva titolo, ma che rispondeva al mio desiderio di fare filosofia in un certo modo e che mi ha dato molta felicità.
Mi accorgo che più di parlare del Quaderno ho parlato dei miei ricordi con Luisa. Partendo da me ho trasgredito “il canone” che governa le recensioni che le vuole neutre e oggettive e quindi ho immesso nella sua biografia ricordi autobiografici che riguardano la nostra relazione. Non è stato per puro egocentrismo ma non credo nell’oggettività della scienza, della storia e della scrittura e quindi non so fare recensioni canoniche.
da il manifesto
Sono oltre 39.000 i bambini di Gaza che hanno perso uno o entrambi i genitori. Di questi, ben 17.000 – secondo i dati diffusi dall’Ufficio centrale di statistica palestinese – hanno visto morire sia il padre che la madre sotto i bombardamenti israeliani. Sono sopravvissuti alla morte, ma ora sono soli. Spesso feriti gravemente, mutilati, affetti da disabilità permanenti. Hanno – e avranno – bisogno di cure mediche che il sistema sanitario di Gaza, devastato da missili e bombe, non è più in grado di garantire. E necessitano di un sostegno psicologico profondo per affrontare i traumi subiti, se mai sarà possibile farlo. «Presto il numero degli orfani potrebbe triplicare rispetto alle stime iniziali. Saranno fragili e ad alto rischio anche dopo la fine della guerra», avverte l’International Rescue Committee. Per le bambine e ragazze rimaste senza genitori il cammino sarà ancora più difficile.
Molte adolescenti – e persino ragazzine di tredici-quattordici anni – hanno assunto il ruolo delle madri scomparse, prendendosi cura non solo dei fratelli più piccoli, ma anche di cugini, nipoti, talvolta di bambini estranei rimasti senza famiglia. Aya Dabbash, sedici anni, non avrebbe mai immaginato di diventare una «madre supplente» – come le chiamano a Gaza – e che sarebbe toccato solo alle sue braccia accogliere e dare calore a sua nipote Celine, di pochi mesi, unica sopravvissuta al raid aereo israeliano che ha annientato l’intera famiglia. Aya ha affidato a un giornale online palestinese il ricordo di quel momento: «Il bombardamento era stato così violento – ha raccontato – ci ha colpito da così vicino… Sono corsa da mia sorella e ho trovato Celine: era sola, sdraiata sul letto. Aveva il corpo coperto di ferite. L’ho presa tra le mie braccia e da quel giorno l’ho sentita parte di me».
Quella di Aya è una delle tante maternità nate sotto le macerie della Striscia. Giovani donne e ragazze sono state costrette ad assorbire rapidamente la perdita della famiglia e si sono ritrovate al centro di un’esperienza che va ben oltre la loro età. Aya, nel suo racconto, non ha nascosto lo shock provato nel momento in cui la maternità le è stata imposta dai massacri quotidiani di Gaza. «All’inizio avevo paura – ha detto – Mi chiedevo: posso gestire tutto questo? Sono troppo piccola per essere responsabile di una bambina. Poi mi sono ritrovata a fare tutto ciò di cui mia nipote aveva bisogno. Celine è stata il balsamo che ha curato le mie ferite, prima che io fossi il suo balsamo». Aya sognava di diplomarsi, andare all’università, costruirsi una famiglia. Il bagno di sangue a Gaza l’ha privata di tutto, anche del futuro.
Anche Alaa Al Hasanat, quindici anni, ha iniziato il suo percorso di maternità dopo aver perso gran parte dei familiari. È sopravvissuta ferita tra le macerie della propria abitazione. «Mi hanno portata in ospedale e non sapevo chi della mia famiglia fosse vivo o morto. Tra lo shock e il dolore, ho sentito mia nipote Sarah piangere senza sosta. Poi l’hanno messa tra le mie braccia e si è calmata». Col passare dei giorni, Alaa ha compreso l’enormità della responsabilità che la attendeva: crescere una bambina in mezzo alle macerie, ai raid aerei continui, alla fame. Il latte e i medicinali sono diventati introvabili.
Un’altra giovane, Hanaa Qarnawi, si prende cura del piccolo Osama, figlio della sorella. «Mio nipote – racconta – è nato dopo sedici anni di matrimonio. Mia sorella aveva lottato tanto per averlo, sottoponendosi a cure e trattamenti. Era così felice di averlo finalmente con sé. Poi, in un attimo, tutto è finito. Non ha nemmeno avuto il tempo di godersi quel figlio tanto desiderato». Racconti come questi si moltiplicano. Altre ragazze, anch’esse orfane, sono diventate madri supplenti.
«I 39.000 bambini di Gaza rimasti orfani rappresentano un trauma profondo per un’intera generazione», osserva al manifesto Pippo Costella, direttore di Defence for Children Italia. «È una ferita che avrà ripercussioni per decenni – aggiunge –. Molti dei minori sopravvissuti, privati di ogni figura adulta di riferimento, vengono oggi accuditi da altri bambini, costretti a sostituirsi ai familiari uccisi. Esperienze personali segnate dal lutto, dalla sofferenza, e dall’assunzione precoce di ruoli totalmente inadeguati all’infanzia».
Il pericolo più immediato per i bambini di Gaza – che costituiscono il 47% della popolazione – restano le bombe e di recente anche la fame. In molti rovistano tra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare. I bambini morti per malnutrizione, riferiscono fonti locali, sono già decine. Decessi causati dal blocco degli aiuti umanitari imposto da Israele lo scorso 2 marzo, allentato solo in minima parte – e senza effetti concreti – dopo le proteste internazionali.
Dalla ripresa dell’offensiva israeliana, lo scorso 18 marzo, sono oltre mille le donne e i bambini uccisi. Il numero complessivo dei minori deceduti si avvicina a quota 20.000, secondo il ministero della Sanità di Gaza. E con il passare dei giorni cresce anche il numero degli orfani – di uno o di entrambi i genitori – assieme a quello delle giovanissime «madri supplenti». Gaza, ricorda Save the Children, è «il luogo più mortale al mondo per un bambino».
da HuffPost
Jake Wood, ceo della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), si è dimesso a poche ore dall’inizio delle operazioni di distribuzione nella Striscia di Gaza. Una decisione clamorosa e inattesa che getta nuove ombre sul già controverso progetto di aiuti umanitari targato Israele-Stati Uniti.
Wood, classe 1983, è un veterano dei Marines decorato per il suo servizio in Iraq e Afghanistan. Dopo il congedo dalle forze armate, ha fondato Team Rubicon, un’organizzazione umanitaria che mobilita veterani statunitensi per rispondere ai disastri naturali e alle crisi globali. Oggi è anche alla guida di Groundswell, piattaforma tecnologica per la filantropia aziendale. Autore del libro Once a Warrior e insignito della Presidential Citizens Medal, è una figura rispettata sia nel mondo militare che in quello civile e umanitario americano. La sua nomina alla guida della Ghf – sostenuta da ambienti vicini a Washington e Gerusalemme – sembrava quindi essere la figura perfetta, ad hoc, per dare credibilità e legittimità a un’iniziativa oggetto di forti critiche da parte di agenzie Onu e ong internazionali.
Il passo indietro di oggi, invece, suona ora come un chiaro segnale di dissenso politico nei confronti di un piano che, a suo giudizio, compromette i principi fondamentali dell’azione umanitaria.
«Due mesi fa sono stato contattato per guidare la Gaza Humanitarian Foundation grazie alla mia esperienza in campo umanitario» ha dichiarato Wood, «come molti, sono stato sconvolto dalla fame a Gaza e mi sono sentito moralmente obbligato ad agire». Wood avrebbe dovuto coordinare la distribuzione di 300 milioni di pasti in 90 giorni, raggiungendo inizialmente 1,2 milioni di persone, attraverso quattro centri situati nel sud della Striscia di Gaza, in un sistema che escludeva qualsiasi coinvolgimento dell’apparato Onu. Quando il progetto è entrato nel vivo e ha preso forma, però, ha capito che non c’erano le condizioni minime di indipendenza e di trasparenza per operare. «È chiaro che non è possibile implementare questo piano mantenendo i principi fondamentali di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, che non sono disposto ad abbandonare», scrive nella sua ultima nota al board, domenica 25 maggio.
Fondata nel febbraio 2025, la Gaza Humanitarian Foundation, con sede a Ginevra, è sostenuta da Stati Uniti e Israele. Sin dall’inizio, tuttavia, ha incontrato una forte opposizione da parte di Nazioni Unite e principali ong, che denunciano l’assenza di rappresentanza palestinese e la cooperazione diretta con le autorità israeliane, mettendo così in discussione la sua neutralità. Ad oggi sul territorio palestinese operano circa 200 ong con corrispettivi partner, e 15 Agenzie delle Nazioni Unite, secondo cui questo piano strumentalizza l’assistenza umanitaria, mettendola nelle mani di una delle parti in conflitto. «Noi non lavoriamo con le parti in conflitto», ha dichiarato Bushra Khalidi, responsabile delle politiche di Oxfam nei Territori palestinesi. C’è poi l’organizazione Trial International, che ha chiesto indagini formali in Svizzera per valutare la legalità delle operazioni, in particolare riguardo all’impiego di compagnie private di sicurezza, come UG Solutions e Safe Reach Solutions, per la protezione dei convogli umanitari. Dubbi anche sulla trasparenza finanziaria dell’intero piano: come nota il Financial Times, la stessa GHF non ha ancora presentato una lista pubblica dei suoi finanziatori.
Nonostante l’uscita di scena di Wood, Ghf ha iniziato oggi le operazioni, con un primo centro attivo di distribuzione degli aiuti nella Striscia e con piani di espansione rapida. «I nostri camion sono carichi e pronti a partire», si legge in una nota diffusa dall’organizzazione. Il piano della Ghf prevede una drastica riduzione dei punti di distribuzione alimentare – ribattezzati Secure Distribution Sites (SDS) – che passerebbero dagli attuali 400, gestiti da ong con una presenza storica sul territorio, a soli quattro centri, tutti situati nel sud della Striscia. Questa scelta costringerebbe migliaia di civili palestinesi del nord, già provati dai bombardamenti, a spostarsi per accedere a razioni essenziali di cibo. Va ricordato che lo svuotamento programmato del nord di Gaza è uno degli obiettivi dichiarati dell’offensiva militare israeliana in corso. In questo contesto, il piano Ghf non solo – secondo un portavoce dell’Unicef – «potrebbe aumentare le sofferenze di bambini e famiglie a Gaza», ma per molti osservatori risulta perfettamente allineato con la strategia israeliana di spopolamento dell’area settentrionale, già colpita da evacuazioni forzate e gravi distruzioni.
La critica che rimbalza fra analisti e operatori del settore è in altre parole che la nascita della Gaza Humanitarian Foundation rappresenti un nuovo passo nell’uso politico degli aiuti umanitari. Il blocco totale imposto da Israele il 2 marzo scorso – su cibo, medicinali e carburante – ha generato una crisi umanitaria senza precedenti. La centralizzazione degli aiuti in una singola entità, sotto stretto controllo israeliano, rischia di trasformare il cibo in uno strumento di pressione e arma politica contro la popolazione civile. Il governo israeliano giustifica il piano come misura per impedire che Hamas intercetti gli aiuti, ma viene accusata di perseguire l’obiettivo reale di ridurre l’autonomia delle agenzie internazionali e delle organizzazioni palestinesi.
Il crescente dramma umanitario sta alimentando un’ondata di indignazione internazionale, che inizia a farsi sentire anche tra gli alleati storici di Israele. Con l’uscita di scena del suo stesso direttore, la Ghf avvia le operazioni sotto una nube di sospetti e critiche. La credibilità di ogni piano di assistenza dipende più che mai dalla trasparenza, dalla fiducia e dal rispetto dei principi fondamentali del diritto umanitario internazionale. In assenza di questi presupposti, anche gli aiuti rischiano di trasformarsi in strumenti di pressione anziché in strumenti di soccorso. Con la sua scelta, Jake Wood ha chiaramente indicato di non voler essere complice di un sistema che, a suo giudizio, non è in grado di garantire quei valori.
dal Quotidiano Nazionale
«Ribellarsi, contestare il governo Netanyahu giorno e notte, disobbedire anche nell’esercito»: Edith Bruck, novantaquattro anni, reagisce così alle notizie che arrivano da Gaza, all’orrore che cresce.
Signora Bruck, una pediatra palestinese ha perso nove dei suoi dieci figli in un raid dell’esercito israeliano…
«È terribile. Quello che accade a Gaza è molto, molto doloroso per me, e credo che sia lo stesso per tutti. Benjamin Netanyahu sta provocando uno tsunami di antisemitismo, perché tutti identificano gli ebrei con il governo israeliano. Ma la maggioranza degli ebrei e degli israeliani non è assolutamente d’accordo col governo Netanyahu».
Crede che l’opinione pubblica israeliana oggi solidarizzi con la gente di Gaza?
«In Israele stanno protestando, ogni sabato ci sono manifestazioni contro Netanyahu, ma lui è sordo e cieco e si appoggia alla destra religiosa, che invoca la violenza in nome di Dio. Questo è terribile. Usare Dio per uccidere è una cosa mostruosa. Lo hanno fatto tutti, anche i nazisti. Ricordo le fibbie sulle cinture delle SS ad Auschwitz: c’era scritto Gott mit uns, ‘Dio è con noi’. Quando uscii dal campo mi dissi: povero Dio, in nome tuo hanno ucciso milioni di persone».
Che altro potrebbero fare oggi i cittadini israeliani?
«Protestare di più. Non solo il sabato, ma tutti i giorni, anzi giorno e notte. Anche assediando la casa-bunker di Netanyahu e della moglie. Questo è il momento di ribellarsi».
L’esercito israeliano si definisce “il più morale del mondo”: a Gaza non sembra così.
«Infatti molti soldati non vogliono essere coinvolti nelle operazioni a Gaza. Io credo che tutti, nell’esercito, dovrebbero ribellarsi e non eseguire ordini che sono disumani. Bisogna dire di no. E poi nemmeno riusciamo a capire a che cosa si voglia arrivare nella Striscia».
Sembrerebbe alla pulizia etnica, all’occupazione militare.
«Non voglio nemmeno sentire nominare queste parole, pulizia etnica, mi viene un dolore allo stomaco. So che cosa vuol dire essere deportati, anche senza fare paragoni che non si possono fare. Ogni vita è preziosa, non ci sono vite di serie A e di serie B».
Le vite dei gazawi sembrano vite di serie B.
«Sì, e così il governo Netanyahu sta facendo un danno enorme all’ebraismo nel mondo. L’antisemitismo è una brace che cova sotto la cenere e basta una scintilla per infiammarla. Lo sappiamo, ma a Netanyahu non importa nulla. A Roma il rabbino, per strada, è stato insultato, gli hanno detto “massacratore di bambini”. Ma che c’entra lui? Che c’entro io? Che c’entrano gli ebrei nel mondo?»
Anna Foa in un libro ha parlato di “suicidio di Israele”…
«Conosco Anna da tanti anni, ma non ho letto il libro a causa della mia maculopatia. È un titolo molto duro, io non userei questa parola, ma gli israeliani devono ribellarsi, un giorno alla settimana non basta».
In Europa alcuni governi hanno cominciato a criticare Israele. Che cosa potrebbe fare l’Europa? Qualcuno propone di denunciare gli accordi diplomatici e commerciali.
«Parlano, parlano, parlano, ma non ci sono fatti. Niente cambia. Per l’Europa è sempre stato molto difficile intervenire perché si porta dietro una colpa infinita e imperdonabile, e quindi non vuole mettersi contro i governi di Israele. I tempi però sono cambiati e certe posizioni andrebbero riviste».
Lo stesso vale per gli Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti dovrebbero smettere di inviare armi a Israele, così gli attacchi a Gaza potrebbero finire. Non osano farlo, probabilmente, per le pressioni degli ebrei americani. Ma gli Usa non possono abbandonare Israele, perché Israele è circondato da nemici e da solo non potrebbe resistere».
Qual è la via di uscita?
«Creare uno Stato palestinese, a quel punto cambierebbe tutto».
Israeliani e palestinesi sarebbero pronti a convivere?
«Non lo so. Forse sì, se non è cresciuto troppo l’odio. Le nuove generazioni sono cresciute con il veleno dentro, ma bisogna arrivare comunque alla pace con i palestinesi. La pace è l’unica soluzione».
da Avvenire
«La prostituzione è sempre sfruttamento. Non è una scelta libera, perché le donne possono essere indotte dalla povertà o forzate da qualcuno. L’unico che ha davvero una scelta è l’uomo che paga per il sesso. È su di lui che dobbiamo spostare il focus». Non fa sconti Kajsa Ekis Ekman, giornalista svedese e autrice del libro “Essere ed essere comprate”, uscito in Italia nel 2024. E non ne fa neppure alla narrazione dominante, che spesso dipinge la prostituzione come un lavoro qualsiasi: le polemiche e le prese di posizione intorno al recente caso del codice Ateco ne sono un esempio anche in Italia. Scrittrice e femminista da anni impegnata sul tema in giro per il mondo, Ekman qualche giorno fa ha fatto tappa a Milano, all’Università Bicocca, dove ha parlato con gli studenti e le studentesse in un incontro dal titolo “Donne e violenza: prevenzione e repressione”.
La prostituzione, ha detto Ekman, è espressione di iniquità. «Una donna benestante, con alternative reali davanti a sé, non la sceglie. Inoltre, ci sono disuguaglianze strutturali profonde tra chi paga e chi viene pagato, come l’estrazione sociale e la condizione economica», precisa. Anche i dati citati dalla giornalista, raccolti nel 2003 da un team di medici e psicologi che ha intervistato 800 donne nella prostituzione in nove Paesi, mostravano già la drammaticità della loro condizione: il 71% di loro ha subito aggressioni fisiche e il 63% è stata vittima di stupro durante la prostituzione, quasi il 90% vorrebbe uscire da quel sistema se ne avesse la possibilità e il 68% aveva sintomi di una diagnosi da stress post traumatico. Un contesto di sofferenza e sfruttamento che negli ultimi vent’anni non è cambiato e che i cosiddetti clienti conoscono bene, come mostra un altro studio condotto poco tempo fa in Germania. «Dalle loro risposte all’indagine si vede che sanno, ma credono che pagare li sollevi da ogni responsabilità. Lo stupro e l’uso della forza sono dei reati, ma se paghi allora tutto è concesso, la violenza diventa invisibile», aggiunge. Nella stragrande maggioranza dei casi il cliente è un uomo e questo mercato si regge sulla sua richiesta. Eppure lui non è mai esposto. Se si cerca online il termine “prostituzione”, per esempio, compaiono solo immagini di donne per strada di notte. «Se cerchi “clienti di prostituzione”, vedi le stesse foto. L’uomo non c’è, ma è lui che alimenta il sistema».
Una via per scoraggiare il mercato che alimenta traffico di essere umani e sfruttamento, secondo Ekman c’è, ed è quella intrapresa dal suo Paese. In Svezia si è tentato per anni di sensibilizzare sul tema con campagne educative, senza risultati significativi, spiega, «poi è arrivata la legge e qualcosa ha iniziato a muoversi». Dal 1999, il Paese scandinavo ha iniziato a criminalizzare il cliente. Da allora, sottolinea ancora Ekman, la percentuale di uomini che comprano sesso si è abbassata rispetto agli altri Paesi, passando dal 16 al 9%. «Con questa legge abbiamo evitato anche l’ondata di tratta arrivata per esempio in Germania, dove hanno legalizzato» i bordelli. E questi non sono stati gli unici risultati: «Adesso se sul Google svedese cerchi “sex buyer” trovi anche immagini di uomini. I media raccontano storie di uomini noti, magari sposati o fidanzati, che sono stati sorpresi a compiere il reato». Oltretutto, aggiunge, si dimostra per l’ennesima volta l’ipocrisia di chi dice che è “normale”, ma lo vuole tenere nascosto. In Svezia, ora, si discute addirittura sulla possibilità di estendere i limiti anche alle piattaforme online come OnlyFans, che secondo Ekman rappresentano «la nuova frontiera dello sfruttamento, camuffata da attività che arricchisce e rende indipendenti, cosa che in realtà vale per pochissime». OnlyFans, secondo la giornalista, è riuscita a rendere la prostituzione attraente anche per donne e uomini della classe media, che mai si sarebbero avvicinati a quella tradizionale. Il linguaggio cambia, si parla di “content creator”, ma la dinamica è uguale: «L’uomo paga e resta invisibile, lei si espone. Il gioco di potere è sempre squilibrato. L’unica differenza è che lì le donne devono praticare su di sé quello per cui i clienti pagano, anche ciò che non vorrebbero fare».
All’incontro, insieme a Elkman, c’era Ilaria Baldini, della rete di attiviste e sopravvissute alla prostituzione Resistenza Femminista, e operatrice del centro antiviolenza Cadmi. Il quadro illustrato, spiega, smentisce ogni retorica sulla “libera scelta”. «Tra le donne che seguo nei centri antiviolenza – racconta – quelle nella prostituzione fanno più fatica di tutte a parlare della propria esperienza. Sono le più devastate psicologicamente». Il messaggio che vorrebbero mandare da Milano è chiaro: cambiare le leggi aiuterebbe quantomeno ad aprire un dialogo franco, a vedere ciò che resta per lo più ignorato, ma ovviamente da solo non basta. «Dobbiamo affrontare il fatto che la prostituzione non agisce solo violenza fisica, ma alimenta anche quella culturale che poi produce ogni forma di violenza di cui il femminicidio è la punta dell’iceberg». Di fronte a tutte le conseguenze negative illustrate, sia Baldini che Ekman concordano soprattutto su un punto: «Se la prostituzione finisse, l’unica vera perdita sarebbe per quegli uomini che dovrebbero finalmente imparare a costruire relazioni reali. Una perdita, forse, sopportabile rispetto a tutta quella sofferenza delle donne che si potrebbe risparmiare».
da il manifesto
Incontri d’arte A New York con il fashion designer Antonio Marras che ricorda la sua collaborazione con Maria Lai, cui il Magazzino Italian Art dedica una retrospettiva
Allestita come un «girotondo di bambini» nella sala isotropica del padiglione Robert Olnick di Magazzino Italian Art, Llencols de Aigua (‘Lenzuola d’acqua’ in catalano) è un’installazione nata nel 2003 dalla collaborazione del fashion designer Antonio Marras (Alghero 1961) e dell’artista Maria Lai (Ulassai 1919 – Cardedu, Nuoro 2013).
Composta da teli bianchi con le sagome di antichi indumenti del corredo, su cui sono cuciti con il filo il rosso frasi raccolte da Lai durante un progetto didattico con bambine e bambini, l’opera viene presentata per la prima volta negli Stati Uniti nel museo e centro di ricerca che promuove l’arte italiana fondato nel 2014 da Nancy Olnick e Giorgio Spanu nel verdissimo paesaggio degli Hudson Highlands (a circa un’ora e mezzo da Manhattan) nell’ambito della retrospettiva Maria Lai. A Journey to America curata da Paola Mura (visitabile fino al 28 luglio).
«Maria Lai concepiva l’arte come un intreccio di molti fili: estetici, etici, narrativi e relazionali – afferma la curatrice –. Le collaborazioni con Antonio Marras, tra tessuto e memoria, rivelano non solo il suo impegno nel dialogo, ma anche la convinzione che la creazione sia un atto plurale. Attraverso questi incontri, l’arte diventava, per Lai, non un oggetto finito, ma una conversazione in continuo divenire. Non collaborava per condividere la scena, ma per ampliare il palcoscenico. Con gli architetti costruiva spazi e memorie. Con i musicisti faceva cantare il filo. Con Antonio Marras, vestiva l’invisibile».
«Maria Lai mi ha preso per mano e mi ha messo nel mondo dell’arte»: è quel che lei ha detto in occasione della mostra “Nulla Dies Sine Linea” alla Triennale di Milano di qualche anno fa. Può spiegarci meglio?
L’incontro con questa artista mi ha cambiato la vita. Ho sempre provato vergogna e avuto timore di far vedere le mie cose, conservate tutte in una stanza. Lei le ha letteralmente tirate fuori. Non sono una persona che sgomita, rimango spesso sei passi indietro, e il fatto che Maria Lai abbia visto qualcosa in me e mi abbia invitato, anzi all’inizio quasi costretto, a creare insieme è stato emozionante. Un lavoro d’innesto, amalgama, di mondi che si sono incontrati dei quali non avevo assolutamente cognizione. Maria ha veramente trasformato la mia visione. Ad Alghero, nel nostro studio (dove lavorano anche quindici persone), c’è una lunga parete in cemento armato. Ricordo che una volta lei si poggiò al tavolo e si mise a guardarla. Mi disse che voleva realizzare un telaio. Rimase tutta la mattinata poggiata lì, continuando a guardare la parete. Le chiesi se c’era qualcosa che non andasse, se non si sentisse bene. Lei affermò che la parete non aveva parlato. Nel pomeriggio, poi, chiese di mandarle un operaio e iniziò a lavorare. Disse: «la parete ha parlato». Ho capito così quanto sia importante lasciare che gli oggetti si rivelino. Avevamo anche un amore comune per le cose scartate, messe via o buttate. Sia nell’arte che nella moda ho sempre proposto un’operazione di recupero e anche in Llencols de Aigua le vecchie sottovesti e camicie da notte che si trovano nei mercatini, perché la gente le getta via, sono state recuperate e cucite con le frasi dette dai bambini che Maria Lai aveva selezionato. Il filo che le unisce è stato cucito da lei. La ricordo con l’ago in mano cucire come la “jana” che era (figure mitologiche tramandate nella tradizione orale che incarnano lo spirito della Sardegna, le janas erano delle piccole fate che trascorrevano il tempo tessendo a mano con telai dorati, ndr).
È vero che è stata lei a convincerla a mostrare i suoi taccuini?
Ho sempre disegnato senza però mai pensare agli abiti e alla moda. Non disegnavo l’abito per mia madre o le mie sorelle ma pasticciavo, quindi ho interi scaffali pieni di cose. Maria ha visto questi miei lavori e, da allora in poi, viaggio sempre con taccuini, diari, colori. Porto sempre con me una sorta di piacevole fardello addosso, perché non mi devono mai mancare le pagine bianche, la colla, i colori. Venendo a New York, in aereo, ho disegnato per otto ore. Guardavo i film e disegnavo con il caffè. Ogni tanto le hostess si affacciavano per vedere cosa avessi fatto. Maria Lai mi ha stimolato a tirare fuori quello che era assopito in me. Non solo con il disegno. In questa mia esistenza piena di dicotomie e contrasti, complicata e articolata, i momenti in cui mi rilasso distaccandomi dal mondo sono due: mentre disegno nel mio studio privato – il pasticciare mi blocca il neurone che è sempre in azione – e l’altro (che adoro) è quando entro in una sala cinematografica. Il cinema per me è veramente una terapia.
È una sua tecnica quella di disegnare con il caffè?
Uso il caffè miscelato con gli acquarelli. Non ho tecniche, non ho studiato arte. Sono un ragioniere, ma, come dicevo prima parlando degli ossimori, sono discalculico. Non ho un ricordo felice della scuola, mi rendevo conto di perdere tempo, però mio padre era felicissimo perché pensava che una volta diplomato avrei lavorato in banca. Questo era il suo obiettivo. Ho scoperto di essere discalculico solo dopo che uno dei miei figli ha avuto problemi al liceo. Ai tempi capivo che solo la poesia mi regalava respiro. La pagina scritta era un incubo. La poesia, invece, era scritta al centro della pagina e tutto il resto era bianco, cosa che mi permetteva di immagazzinare le parole e tutto ciò che aveva un ritmo, una rima. I pieni e i vuoti, come diceva Maria. Ricordo ancora la prima poesia che ho studiato in prima elementare, Rio Bo di Aldo Palazzeschi e poi l’Inferno della Divina Commedia: mi piaceva la metrica, come mi piacciono i testi delle canzoni. Più che impararle, le ho immagazzinate perché c’è la musica ad accompagnare le parole.
A proposito di suo padre, che aveva un negozio ad Alghero: era con lui quando giovanissimo visitò l’hangar di Elio Fiorucci a Buccinasco. Ne ebbe una grande impressione, può raccontarci qualcosa?
Era la prima volta che seguivo mio padre, lui è stato il primo a portare Fiorucci in Sardegna, che allora era la super avanguardia. Entrare nel mondo di Elio e vedere quel posto, che era una specie di caverna di Alì Babà e lui un gigante barbuto che ci accoglieva, è stato estasiante. Lì ho capito che la moda non è solo questione di indumenti, ma riguarda una serie di elementi che vanno a comporre e accompagnare l’esistenza e, come dice mia moglie (Patrizia Sardo Marras) nel suo libro che è appena uscito, La moda non è un mestiere per cuori solitari (Bompiani), gli abiti mi hanno salvato la vita.
Oltre a Maria Lai, nel suo lavoro si colgono riferimenti anche ad altre artiste e artisti, tra cui Boltanski, Louise Bourgeois, Carol Rama. In che modo hanno contribuito a formare la sua visione?
Avevo un’antologia d’italiano che conteneva e una pagina bianca con un taglio, sotto c’era scritto «Lucio Fontana». Allora non sapevo chi fosse, né cosa rappresentasse quel taglio. Ricordo solo che quando guardavo quella pagina, e più tardi opere di Fontana dal vivo nei musei (e una volta anche in una casa privata dove ce n’erano una ventina), quella ferita, rottura, apertura, fessura rappresentava una possibilità per vedere oltre. Un’occasione che mi hanno offerto tutti quegli artisti e artiste di cui mi ha chiesto, insieme, aggiungerei, a Beuys e Pina Bausch. Andai a Sassari perché un mio amico aiutava nei costumi un “certo” Lindsay Kemp in Flowers. Fu proprio vedendo quello spettacolo che capii che esisteva un altro modo di fare danza. Quando un mese dopo arrivò Pina Bausch con Café Müller fu una rivelazione. All’epoca, la danza che conoscevo era quella di Baryshnikov e Nureyev nel programma televisivo di Vittoria Ottolenghi che vedevo il sabato, appena tornavo a casa da scuola. Come il cinema, la danza è sempre stata una delle mie grandi passioni.
A ottobre ho sanguinato per dieci giorni senza avere accesso a un bagno vero e proprio.
La casa in cui ci siamo rifugiati – come la maggior parte dei rifugi a Gaza – non offriva privacy.
Quaranta persone dormivano in due stanze. Il bagno non aveva porta, solo una tenda strappata.
Ricordo di aver aspettato che tutti si fossero addormentati per potermi lavare con una bottiglia d’acqua e pezzi di stoffa. Ricordo di aver pregato di non macchiare il materasso che condividevo con tre cugine.
Ricordo la vergogna – non del mio corpo, ma di non potermene prendere cura.
In guerra il corpo perde i suoi diritti, soprattutto il corpo femminile.
I titoli raramente parlano di questo, di cosa significhi per una ragazza avere il ciclo sotto i bombardamenti, di madri costrette a sanguinare in silenzio e ad abortire su pavimenti freddi o a partorire sotto i droni. La guerra a Gaza non è solo una storia di macerie e attacchi aerei. È una storia di corpi interrotti, invasi e a cui è stato negato il riposo. Eppure, in qualche modo, questi corpi continuano a esistere.
Come donna palestinese e studentessa sfollata che ora vive in Egitto, porto con me questo ricordo corporeo. Non come una metafora, ma come un dato di fatto. Il mio corpo sussulta ancora ai rumori forti. La mia digestione vacilla. Il mio sonno è frammentato. Conosco molte donne – amiche, parenti, vicine – che hanno sviluppato malattie croniche durante la guerra, che hanno perso il ciclo mestruale per mesi, i cui seni si sono prosciugati mentre cercavano di allattare nei rifugi. La guerra entra nel corpo come una malattia e rimane.
Il corpo di Gaza è una mappa di interruzioni.
Impara presto a contrarsi, a occupare meno spazio, a rimanere vigile, a reprimere il desiderio, la fame, il sanguinamento. La natura pubblica dello sfollamento distrugge la privacy, mentre la paura costante logora il sistema nervoso. Le donne che un tempo custodivano il loro pudore ora si cambiano d’abito davanti agli sconosciuti. Le ragazze smettono di parlare del loro ciclo. La dignità diventa un peso che nessuno può permettersi.
Questo è il paradosso della sopravvivenza: lo stesso corpo a cui viene negata la sicurezza diventa lo strumento della resistenza. Le donne fanno bollire le lenticchie a lume di candela, calmano i bambini in cantina, cullano i morenti. Questi atti non sono passivi; sono radicali. Avere le mestruazioni, portare in grembo, nutrire, lenire – in mezzo alla distruzione – significa insistere sulla vita.
Torno, ancora e ancora, all’immagine di mia madre durante la guerra. La schiena curva su una pentola, le mani tremanti, gli occhi che scrutavano il soffitto a ogni rumore. Non mangiava finché non lo facevano tutti gli altri. Non dormiva finché non dormivano i bambini. Il suo corpo portava l’architettura della guerra e della maternità allo stesso tempo. Ora mi rendo conto di quanto fosse politica la sua stanchezza – di come il suo lavoro, come quello di tante donne palestinesi, sfidasse la logica dell’annientamento.
Non c’è una tenda per il corpo a Gaza.
Nessuno spazio sicuro dove il corpo femminile possa dispiegarsi senza paura. La guerra ci spoglia – non solo delle nostre case e dei nostri beni, ma anche dei rituali che ci rendono umane: lavarsi, avere le mestruazioni, elaborare il lutto in privato.
Ma anche senza un riparo, i nostri corpi resistono. Ricordano. Resistono.
E forse, nella loro tremante perseveranza, scrivono la storia più vera di tutte.
(Scritto da Mariam El Khatib il 19 maggio 2025, ricevuto tramite Doriana Goracci e postato da Claudia Sarritzu su Facebook il 22 maggio 2025)
(*) Mariam Khateeb (Mariam Mohammed El Khatib) è una scrittrice, poetessa e attivista palestinese di Gaza. Studia odontoiatria in Egitto dove continua anche la sua attività letteraria. I suoi scritti, pubblicati su piattaforme come This week in Palestina, We are not numbers e Avery Review, esplorano i temi della memoria, della guerra e della resistenza, soprattutto da prospettive femministe ed esistenziali. Usa la narrazione come forma di resistenza culturale, documentando l’esperienza palestinese e amplificando le voci del su popolo.
dal Corriere della Sera
Intervista a Francesco Salvi, ricercatore italiano del Politecnico di Losanna, che ha dimostrato (studio su «Nature») che ChatGPT-4 è molto più efficace degli umani nel far cambiare idea alle persone. «Implicazioni enormi, dalla promozione di stili di vita salutari al rischio di manipolazione su larga scala»
«La nostra ricerca dimostra che l’intelligenza artificiale può essere molto più efficace degli esseri umani nel far cambiare idea alle persone. Le implicazioni sono enormi, sia come rischi che come opportunità, considerando che è possibile farne un uso di massa». Francesco Salvi, 25 anni, è un ricercatore italiano (è originario di Brescia) dell’EPFL, il Politecnico Federale di Losanna. Informatico con una formazione in fisica, studia l’impatto sociale dell’intelligenza artificiale (AI) ed è il co-autore di una ricerca appena pubblicata su Nature Human Behaviour che mostra per la prima volta quanto sistemi come Chat-Gpt siano efficaci nel far cambiare idea alle persone, anche su temi socialmente e politicamente scottanti.
Partiamo dal vostro studio: cosa avete fatto esattamente?
«Abbiamo chiesto a 900 persone residenti negli Stati Uniti di partecipare a un dibattito su un tema sociale o politico con una controparte. Si trattava sia di questioni più semplici, come l’opportunità o meno di indossare uniformi a scuola o di dismettere la moneta da un penny, sia di questioni molto divisive, come la legalità dell’aborto o gli aiuti all’Ucraina. Ogni partecipante doveva discutere con una controparte, che sosteneva un’opinione opposta alla sua e poteva essere un altro essere umano oppure ChatGPT-4».
E cosa avete visto?
«Se il dibattito avveniva al buio, senza informazioni sulla controparte, gli esseri umani e ChatGPT-4 erano egualmente persuasivi. Ma se all’intelligenza artificiale venivano fornite delle informazioni di base sulla persona con cui discuteva, allora riusciva a farle cambiare idea molto più spesso degli umani. ChatGPT è diventato il 64% più efficace nel convincere l’interlocutore. Un risultato molto significativo.».
Che tipo di dati avete fornito all’AI?
«Informazioni di base, che si trovano anche online o si possono estrapolare dai social media, come età, genere, orientamento politico o istruzione».
Le avete date anche agli esseri umani?
«Sì, ma la loro capacità di persuasione non è cambiata».
Come spiegate questa differenza?
«Abbiamo visto che nell’argomentare gli esseri umani erano più emotivi, usavano più pronomi personali, tendevano a ricorrere allo storytelling, cioè a raccontare storie. ChatGPT utilizzava uno stile più analitico, logico, strutturato e basato sui fatti. Quando abbiamo fornito loro le informazioni sugli interlocutori, le persone hanno continuato ad argomentare nello stesso modo. La cosa interessante invece è che, quando ha avuto accesso ai dati personali, ChatGPT non ha cambiato il modo in cui parlava: ha cambiato cosa diceva. Ha scelto argomenti più adatti alla persona che aveva davanti».
Per esempio?
«Prendiamo il caso del dibattito sul reddito di base universale, quello che in Italia sarebbe il reddito di cittadinanza. Se ChatGPT si trovava davanti un interlocutore repubblicano, sottolineava che avrebbe portato benefici come la crescita economica, la stabilità finanziaria, incentivi alla libera iniziativa e all’imprenditorialità. Se parlava con un democratico, invece, metteva l’accento sulla riduzione delle disuguaglianze e il supporto alle minoranze. Gli esseri umani, invece, anche con le stesse informazioni, non modificavano sostanzialmente le cose che dicevano: non erano allenati a pensare in modo strategico durante un confronto».
Come è possibile che l’AI adattasse così i contenuti?
«ChatGPT è stato allenato su enormi quantità di testo e ha “visto” innumerevoli esempi di dibattiti, esempi di come persone diverse argomentano e reagiscono alle argomentazioni altrui. Ha imparato a riconoscere pattern (tipi di comportamento) sottili nella comunicazione. È in grado di identificarli e generare argomentazioni che risuonano meglio a seconda dei profili delle persone che ha di fronte».
Questo che implicazioni ha?
«Enormi. Può portare grandi benefici: per esempio la capacità persuasiva dell’intelligenza artificiale può essere usata per promuovere stili di vita più salutari e sostenibili, come incoraggiare l’attività fisica o un’alimentazione migliore. Oppure per aiutare a smorzare conflitti online».
E i rischi?
«Il più grande riguarda l’integrità del processo democratico. Un’intelligenza artificiale persuasiva potrebbe essere usata su larga scala per manipolare opinioni politiche, diffondere propaganda o fake news».
Si dice che negli Stati Uniti Donald Trump abbia vinto anche perché il proprietario di X Elon Musk lo ha aiutato a identificare elettori cruciali negli Stati in bilico, persuadendoli ad andare a votare e convincendoli usando i temi (in modi specifici e spesso opposti) su cui quei gruppi erano particolarmente sensibili, come l’aborto per le donne e la guerra a Gaza per gli arabi e gli ebrei.
«Grazie all’intelligenza artificiale è possibile cucire le argomentazioni addosso alle singole persone. Pensi allo scandalo di Cambridge Analytica del 2016: all’epoca fece scalpore il fatto che si usarono relativamente poche informazioni ricavate da Facebook per selezionare il messaggio giusto tra quelli predefiniti e convincere gli elettori. Oggi ci sono modelli di intelligenza artificiale che permettono di personalizzare l’interazione online sulla persona singola, anche dibattendoci, in base alle specifiche caratteristiche dell’utente. In modo estremamente convincente, come ha dimostrato il nostro studio».
Oggi esistono regolamentazioni adeguate per evitare manipolazioni?
«No, non abbastanza. Le linee guida, anche quelle obbligatorie in Europa, non bastano. I regolatori spesso rincorrono l’innovazione, invece di anticiparla. È urgente avviare un dibattito serio su quali barriere e quali limiti vogliamo imporre. Anche perché le aziende che sviluppano questi strumenti possono fare profitti enormi e non hanno grandi incentivi a porsi problemi etici».
Cosa si potrebbe fare in concreto? Queste tecnologie sono concentrate nelle mani di pochi attori privati, che hanno un potere enorme.
«Oltre alle norme serve maggiore trasparenza. Le aziende dovrebbero permettere a ricercatori indipendenti di accedere ai loro modelli, per testarne i bias – vedere se sostengono a priori alcune posizioni o pregiudizi – e valutarne i meccanismi di salvaguardia».
da il manifesto
Una visita alla retrospettiva «Euforia» al museo Madre dedicata all’artista e performer e un incontro nella sua casa-studio di Roma
Da bambina, Bianca Pucciarelli Menna (in arte Tomaso Binga, con quel nome marinettiano a cui era caduta scherzosamente la «m» della famosa costola d’Adamo e il cognome che faceva proprie le storpiature dei bambini) giocava felice a campana, inerpicandosi sulla via della sua abitazione, fra un ospizio per orfanelle e un convento di preti, dove non passavano macchine perché la strada finiva lì.
Dietro, c’era una valle con un piccolo ruscello: d’estate, era il luogo perfetto per re-inventarsi nel ruolo di narratrice di fiabe gotiche, imbastendo storie su castelli misteriosamente arroccati, dimore forse di streghe. Ma, soprattutto, una volta a casa, la piccola Bianca si abbandonava alla malìa dell’alfabeto. «Mio padre con la sua mano sulla mia, mi guidava nella scrittura delle lettere e nelle linee dei disegni. Anche lui era un artista, in Venezuela realizzava vetrate liberty. Si trovò poi in Italia quando si chiusero le frontiere: non poté più ripartire, sposò mia madre e si impiegò, per sopravvivere, in municipio a Salerno. Qui rimase».
È nata così la passione di Tomaso Binga per la «parola vivente», quel linguaggio visivo, sonoro, profondamente fisico, a volte onomatopeico, che interrompeva ogni significato a favore della potenza dell’immagine, del corpo che si fa lettera, sillaba e mima gioiosamente fratture di senso.
Classe 1931, l’artista e performer vive a Roma, in una luminosa abitazione a Vigna Clara, che ha trasformato in un atelier della quotidiana creatività fra carte dove appuntare il germoglio delle idee, dipinti della collezione alle pareti, tavoli sparsi e arruffati.
È accaduto, infatti, che la nostalgia per Salerno e di una gioventù divisa tra il lavoro a scuola nei paesi circostanti, le passeggiate al centro, il mare luccicante all’orizzonte, piano piano evaporasse a favore dell’incantesimo capitolino, dove un giorno Tomaso Binga, scendendo da un autobus che la conduceva in città, reincontrò quel ragazzo salernitano che vedeva sempre salire le scale del suo palazzo, per dare lezione private ai piani superiori, dove lo aspettavano alunni di famiglie disagiate. Quel giovane era Filiberto Menna, presto diventerà suo marito e insieme partiranno per una lunga e preziosa avventura artistica – lui nella storia e critica della disciplina, dopo aver abbandonato un background medico, lei nell’azione che interpretava lo slogan «il personale è politico», irrorandolo con una buona dose di ironia e dissacrazione.
Roma era una città difficile, dispersiva, bisognava lottare per tutto, racconta Binga, dove però ci si divertiva allestendo performances collettive e dove si potevano liberare le energie nuove in quel Lavatoio contumaciale divenuto centro propulsore di serate poetiche, mostre e palcoscenico di compagnie teatrali emergenti come La Gaia Scienza. «Era il posto in cui si bollivano i panni delle persone infette. Ho voluto lasciare quel nome perché anziché i panni, lì lavavamo le idee infette, i pregiudizi, che sono sempre tanti. Era un modo per fare pulizia».
Finalmente, a Tomaso Binga e alla sua attività prismatica di artista, la primavera tributa un articolato omaggio con l’antologica inauguratasi a Napoli presso la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – museo Madre, a cura di Eva Fabbris con Daria Kahn. Una mostra, visitabile fino al 21 luglio, che è pensata come fosse un’affabulazione ludica e un parco a tema; un’unica installazione immersiva, sala dopo sala, resa possibile dall’allestimento spettacolare dello studio di design Rio Grande: «un dispositivo circolare che evoca uno schema classico della poesia, fin dai tempi remoti degli aedi: la ring composition, dove l’inizio coincide con la fine e viceversa».
Fra tubolari rosa shockinge curve improvvise che accolgono le opere, sculture di polistirolo («mi interessava quel materiale di scarto dalle forme vuote, era uno stimolo, una provocazione sensoriale e mentale») che raccontano un immaginario anni Settanta, scritture che si arrampicano al pari delle donne che devono scalare i muri della reclusione domestica, alfabeti «animati» dal corpo nudo dell’artista, sposalizi sdoppiati da mascheramenti di identità, scorrono quarant’anni di allegre «perdite semantiche», sostituite da corrispondenze di pura invenzione. Ecco allora le lallazioni, le poesie visive, le filastrocche sulla materia-carta che diventa cartuccia e quindi sparo, le installazioni, i collage, le fotografie prese in prestito dai rotocalchi, i ritmi di linee incomprensibili che sfumano in calligrafie archeologiche (le «scritture desemantizzate»).
Euforia è il titolo della mostra partenopea: è una delle rare parole panvocaliche esistenti e Tomaso Binga, ogni volta che le ha trovate (sono in realtà pochissime) le ha salvate sul suo taccuino. Le innumerevoli scritture viventi, alfabeti in cui le lettere si susseguono impersonate con gli esercizi ginnici del corpo, nacquero sempre sull’onda del divertimento e della trasgressione culturale, in barba al principio del maschile imperante. Non c’è nessuna volontà di proporre nuovi cifrari per la «chiarezza del testo», anzi.
Binga è favorevole «all’inversione a U della scrittura». La scintilla, per lei, si era accesa di fronte alle opere dell’amica argentina Verita Monselles, «stava facendo proprio un lavoro sul corpo e realizzava cose incredibili». C’è lei, Monselles, dietro tutte le fotografie che ritraggono la fisicità linguistica di Tomaso Binga, l’alfabeto «al femminile», matrice e madre di una comunicazione libera. Femminile come la domenica, che l’artista opzionò nel 1977 come giorno della settimana per intessere una corrispondenza immaginaria con un’«altra da sé» in 52 epistole (cui in mostra è dedicata una delle sale più belle). «Mia cara amica ti scrivo alle ore sei, mi piace la linea verticale delle lancette».
Quella di Tomaso Binga è stata una militanza femminista fondata anche sull’errore rodariano che rivela e strappa la consuetudine: i suoi Dattilocodici scaturivano da inciampi di battitura che sovrapponevano due lettere, creando immagini al posto di senso. Quando nel 1978 Mirella Bentivoglio propose a Venezia, come evento collaterale della Biennale, la mostra Materializzazione del linguaggio, Binga era tra le artiste prorompenti di quella rivoluzionaria apparizione. Non si sentì in un ghetto dorato, fu un momento di studio e incontro, si aprì un orizzonte. Non cambiò la scena culturale per le artiste-donne ma «fu una mossa importante». Almeno, non si poteva più tornare indietro.
da La Stampa
«Non avrei mai potuto scrivere una vera autobiografia, non mi piace l’autocelebrazione. E poi è più facile viverla, la vita, che raccontarla». Piccolina, capelli corti, occhi mobilissimi e battuta pronta, Monica Giorgi pare sul punto di scattare a rete come quando giocava in doppio con Adriano Panatta («voleva fare smash solo lui») o sfidava l’amica Lea Pericoli ai Campionati Italiani. Non è quindi un’autobiografia Domani si va al mare (Fandango), scritto con Serena Marchi e presentato al Salone in questi giorni di gioie e dolori per il tennis italiano, insieme all’editore e appassionato di gesti bianchi Domenico Procacci. Piuttosto è una partita a tennis con la vita, con il primo set in cui la livornese Giorgi, classe ’46, mette alla prova il fisico minuto con allenamenti sempre più intensi e inizia una carriera brillante, da Wimbledon al Roland Garros, spinta «dalla voglia di bello. Ho imparato con l’esperienza che ciò che è bello è vero. E il tennis è bello: l’eleganza del gesto, la leggerezza, il divertimento, il gioco. Non tanto la competizione. Perché si vince, è vero, ma si perde anche tanto». Che di vincere non le sia mai importato troppo lo provano i Campionati italiani 1971, Firenze, quando sul match point contro l’amica Lea Pericoli – una che la chiama «Monicaccia» e «mi ha sempre considerata per quella che sono» – alza le mani, si interrompe, la lascia vincere. Game over. L’amicizia è più importante, forse per questo Giorgi è così brava in doppio.
Il secondo set della vita di «Monicaccia» è più oscuro, pare scritto dal suo autore favorito Franz Kafka: già, perché oltre al tennis, Giorgi ama letteratura e filosofia e all’università si avvicina ai movimenti femministi, pacifisti e anarchici, Gandhi e Martin Luther King. Sono gli Anni 70 «difficile spiegare quell’atmosfera a chi non c’era» e infatti la coautrice Serena Marchi, classe 1981, per districarsi nelle memorie della tennista ha dovuto fare «un viaggio negli anni di piombo, tra lettere ingiallite e articoli di giornale, respirare quell’atmosfera, capire la rabbia e la sofferenza di una generazione». Giorgi insieme agli anarchici livornesi comincia una campagna per i diritti dei carcerati con la fondazione Niente più sbarre. Nel 1972 è la capitana della nazionale italiana alla Federations Cup di Johannesburg e per protesta contro l’apartheid mette una maglietta con la scritta «No al razzismo» e «due piedi bianchi avvinghiati a due piedi neri, belli come il sole, in un evidente rapporto sessuale». Uno scandalo, la Federazione la squalifica. «Proprio quella maglietta – spiega Procacci – mi ha dato l’idea del libro. Stavo girando Una squadra e raccontavo di quando Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, alla finale di Coppa Davis del 1976 in Cile, indossarono la maglietta rossa per protesta contro la dittatura di Pinochet. Giorgi, naturalmente, quella finale l’avrebbe voluta boicottare. E la sua, di maglietta, l’ha pagata ben più cara».
D’altronde «mi sono sempre esposta, in prima persona, mai nascosta – dice lei. – Ci metto il nome, la faccia, l’anima, per le cause in cui credo. Nell’impegno sociale e nel tennis». Anche quando accade l’impensabile: un pentito («un agente provocatore» precisa) la chiama in causa e Giorgi finisce in carcere, da innocente, per reati di banda armata e tentato sequestro. Resterà detenuta per due anni: un periodo buio, in cui deve far appello a tutta la forza mentale allenata sui campi da tennis per non cedere. «Ho bisogno che il mio fisico batta un colpo, che la fatica mi faccia sentire di nuovo viva». Quando infine viene scarcerata sbotta nel liberatorio «Domani si va al mare» che dà il titolo al libro. «Il mare simboleggia tante cose – dice oggi, lo sguardo lontano – le mie radici, la libertà».
Verranno altre avventure, altri incontri: il matrimonio in Svizzera, dove vive tuttora, per prendere la cittadinanza e allontanarsi dalla giustizia italiana – «Non ho più molta fiducia nei tribunali…» – il lungo viaggio in Sri Lanka dove incontra Podi, «mio figlio», un bambino tamil che la conquista con cinque semplici parole: «Bring me in your country». La spina dorsale di «Monicaccia» resta d’acciaio, lo spirito arguto, il gusto della provocazione vivo, ma il sorriso è dolce. Il terzo set della vita lo sta vincendo a modo suo: servizio, discesa a rete, velocità.
da Pressenza
Bianco. Il colore del lutto, della purezza violata, della resa di fronte all’orrore di tutte le guerre oggi in atto in ogni angolo di un mondo insanguinato dalla violenza. Teli bianchi, sudari improvvisati, avvolgono i corpi straziati di donne, uomini, bambine e bambini.
A Gaza, sono il simbolo muto di uno sterminio che da quasi due anni si consuma sotto i nostri occhi, nell’indifferenza complice di troppi. Sono il segno tangibile di una ferita aperta nel corpo dell’umanità, inferta dalla logica del potere, dal militarismo e dall’odio.
Avvolgere un corpo in un sudario è un atto di cura radicale, una pietas ancestrale che resiste alla barbarie. È un gesto che afferma la dignità inviolabile di ogni essere umano, anche quando il mondo ne svaluta la vita fino all’annientamento.
Come possiamo rendere omaggio e preservare la memoria di 50.000 vite spezzate a Gaza in quasi due anni di assedio, numeri che rischiano di anestetizzare le nostre coscienze? Come possiamo sopportare il pensiero delle sofferenze indicibili in Ucraina, dove la furia militarista distrugge vite e città? Come possiamo ignorare gli infiniti conflitti che insanguinano il nostro pianeta?
Il silenzio complice uccide quanto le bombe. Ma la stessa libertà di informazione, bene prezioso e baluardo contro l’orrore è a rischio se chi racconta la verità sempre più spesso cade vittima della violenza, come la giornalista palestinese Fatima Hassouna, uccisa il mese scorso a Gaza o la giornalista ucraina Victoria Roshchyna, torturata e uccisa per aver documentato l’orrore dell’invasione russa, il cui corpo è stato restituito lo scorso febbraio.
Come femministe, pacifiste e nonviolente, sentiamo l’eco di questo orrore nelle nostre stesse lotte contro la violenza patriarcale in tutte le sue forme. E riconosciamo nel dolore di Gaza il riflesso di un sistema che opprime, sfrutta e distrugge, un sistema intriso di logiche di dominio e di guerra.
Per questo, sabato 24 maggio, il Presidio donne per la pace sarà in piazza Politeama dalle 17.00 alle 19.00 e aderisce convintamente all’appello 24 MAGGIO – 50.000 SUDARI, non un semplice gesto simbolico, ma un atto politico dirompente:
- un atto di memoria e di lutto collettivo, per trasformare il silenzio dell’indifferenza in un coro di voci che onorano le vittime;
- una denuncia radicale del genocidio, per rendere visibile l’orrore che si tenta di nascondere e smascherare la complicità e l’inerzia dei potenti;
- un impegno per la nonviolenza e la pace, per affermare con forza che la vita deve prevalere sulla morte, la cura sulla distruzione.
Ogni telo bianco è un corpo che il mondo non può ignorare. Ogni telo bianco è un grido di giustizia e di pace. Tessiamo insieme una rete di solidarietà che abbracci Gaza e il mondo intero.
UDIPALERMO – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Governo di Lei – CIF – Le Onde – Arcilesbica – Donne della Comunità dell’Arca – Donne del Movimento nonviolento – Donne del Circolo Laudato si’
da Comune Info
L’articolo di Lea Melandri (Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre) e la lettera al Manifesto di Laura Colombo (Non si fraintenda la differenza sessuale, pensiero in relazione) hanno riaperto questioni di fondamentale importanza su cui penso dovremmo intervenire in molti e in molte. Io vorrei riprenderle sulla base della mia esperienza e delle mie scelte, discusse nel circolo “La Merlettaia di Foggia”.
Non solo ruoli
Un’accusa molto diffusa fatta al patriarcato è di aver ruolizzato le donne e di aver costruito una cultura stereotipata, dando un’immagine spregiativa dell’essere donna. Il noto monologo di Paola Cortellesi sulla differente percezione di alcune parole al femminile e al maschile ne è prova evidente, così alcuni corsi a scuola contro gli stereotipi di genere, come si usa dire, o l’uso e l’abuso che ne fa la pubblicità.
Questa critica è più facile da accogliere perché non apre interrogativi sulle cause, non solleva questioni di fondo: sul piano simbolico si può affrontare con la vecchia arma dell’indignazione morale o dell’ironia a seconda delle situazioni, mentre sul piano politico, pur non precludendo altri sviluppi, ne suggerisce alcuni molto comodi.
La proposta più diffusa è l’invito a lottare, pretendendo la parità. Un esempio: il ruolo di casalinga viene ribaltato se anche gli uomini lavano i piatti e accompagnano i bambini a scuola, come in effetti succede ormai in molte coppie. E giustizia è fatta. E se non è fatta, si tratta solo di insistere in un’ottica di modernizzazione dei costumi. C’è un altro esempio più sottile: se l’uso del nudo femminile viene denunciato come offensivo, basta portare sul mercato anche il nudo maschile. Così parità e inclusione si prendono a braccetto invadendo la lingua e l’immaginario, con buona pace delle analisi che vedono nella rappresentazione del nudo, a fini commerciali, i corpi ridotti a cosa e l’estensione ad altri soggetti come aggravante. Né alcuno sviluppo hanno avuto i coraggiosi tentativi di distinguere erotismo e pornografia, libertà sessuale e uso strumentale dell’altro, prevalentemente della donna, ma, appunto, non cambierebbe niente se fosse di altri. Per inciso, quale educazione sessuale si vuole dare ai e alle giovani se non si riaprono queste questioni con un dibattito sulla sessualità che permetta alle donne di dire la propria esperienza e il proprio desiderio?
Dal punto di vista dei partiti tutti, appare evidente che sono ancora indecisi fra un riconoscimento della differenza femminile sempre in termini di pochezza su cui hanno costruito il carrozzone delle pari opportunità, dal Parlamento ai Comuni, e la proposta di inclusione nelle logiche partitiche, dove essere donna diventa qualcosa da esibire, non espressione di differenza pensata e collegata alla politica delle donne.
Con uno sguardo altrettanto miope, si vede nella maternità solo un ruolo e un destino a cui il patriarcato condannava le donne, cancellando così ogni nesso tra libertà e necessità e non prendendo in alcuna considerazione il desiderio femminile di maternità.
Quando non essere d’accordo è una ricchezza
Grande è il disordine in cui siamo trascinate come seconda metà del cielo! Qui non c’è tempo di approfondire, ma voglio ricordare la Carta delle donne come tentativo di alcune elette nel Parlamento italiano di sottrarsi a questa morsa soffocante e di proporre altro.
Insomma, la radicalità del pensiero femminile genera ancora sordità e paura.
Voglio rispondere attraverso le parole di Pietro Ingrao dette, quando era presidente della Camera dei deputati, a Rossana Rossanda (Le altre, Bompiani 1979). Si sente l’eco della sua cultura nell’uso del termine emancipazione che lui prende dalla tradizione comunista dove emancipazione del proletariato voleva dire far saltare la divisione in classi sociali. Quindi la parola ha ben altro spessore rispetto all’emancipazione come accomodamento nell’ordine esistente, che molta parte del movimento femminista ha criticato lavorando sulla differenza fra emancipazione, liberazione e libertà. Pietro Ingrao: “Affrontare la questione dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio. Se vuoi affrontare davvero il problema donna/lavoro, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente – ecco dove la dimensione diventa diversa – vai ad incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza eccetera. Cioè, una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione dello Stato, tutto il rapporto fra Stato e privato”.
Tante di queste questioni il femminismo della differenza le sta coraggiosamente portando avanti per esempio attraverso il manifesto Sottosopra Immagina che il lavoro discusso in tutta Italia e in molte assemblee sindacali, attraverso la proposta di Autoriforma gentile della scuola che ha tentato di dare parola politica alle molte forme di esperienza libera dell’insegnare che continuano ad esserci e attraverso la rete delle Città vicine nella quale donne e uomini legati al pensiero della differenza danno voce al rapporto con la città e al nostro presente difficile, ma anche ricco di nuove intuizioni.
Dove abbiamo trovato in questi anni la forza di non lasciarci trascinare dalla sordità a cui facevo riferimento prima? Beh, parlo per me e per tantissime di noi con cui ho relazioni politiche, lo abbiamo fatto mantenendo la critica agli stereotipi come traccia, ma cercando il nodo di fondo su cui è stata costruita la cultura patriarcale.
L’ordine simbolico della madre
Così scriveva negli anni ’70 del ’900 Adrienne Rich: «Il rapporto madre-figlio è il rapporto umano fondamentale. Con la creazione della famiglia patriarcale questo nucleo è stato oggetto di violenza. La donna non è stata solo svilita in quello che era il suo pieno significato e la sua piena capacità. Non è stata soltanto rinchiusa entro limiti strettamente definiti. Pur imprigionata e resa inoffensiva in un unico aspetto del suo essere, quello materno, ella resta oggetto di sfiducia, sospetto, misoginia, in forme sia evidenti sia nascoste. E gli organi di riproduzione femminili, la matrice della vita umana, sono diventati uno dei bersagli favoriti della tecnologia patriarcale»(Nato di donna, Garzanti 1977).
In seguito, Luisa Muraro con il saggio L’ordine simbolico della madre ci ha ricordato che ciò che il patriarcato ha temuto, e che ancora si continua a temere, è il significato simbolico contenuto nella esperienza materna. E lì c’è anche una ricchezza, lei diceva. A me viene in mente la mia esperienza come madre e come figlia: obblighi imposti e libertà, desiderio e rischio, dolore e gioia insieme, riconoscimento e paura, amore e rabbia, incrocio di sguardi e tono di voce, bisogno di futuro e garanzie di vita, prime parole date e ricevute, apertura a ciò che il nuovo nato insegna e sollecita dentro chi se ne prende cura, consapevolezza della dipendenza e necessità di nutrire l’indipendenza. Vita simbolica in atto. Come si vede da quanto riesco a dire, è un miscuglio fertile di detto e non detto, di visibile e invisibile che niente ha a che vedere con i codici binari del patriarcato. Molto ha a che vedere con la vita, fuori da ogni schema. E ciò che ho detto non è che uno dei possibili accessi al sapere che quella esperienza dà. In un’altra situazione e con altri interlocutori io per prima direi altre cose.
Quello che non cambia è la sua radicalità, se nell’esperienza madre-figlio/a leggiamo questa vita simbolica, se a questa diamo significato politico e la portiamo nelle nostre relazioni. O lo riconosciamo, laddove si presenta. Se la valorizziamo nella lingua, che è ciò che tutti abbiamo a disposizione per dare forma al mondo.
Certo ricordo un convegno a Pinarella – ero allora giovanissima –, in cui si discusse e si litigò su se la nostra politica dovesse dare o non dare riconoscimento alla relazione con la madre. Non ci furono conclusioni. Ma ormai la questione era aperta.
La genealogia femminile
Sta di fatto che per tantissime di noi indicibile è stata, in questi anni, la gioia di ricercare un riferimento nelle donne che ci hanno preceduto. Ne è nata una passione per la letteratura scritta da donnee una sua rivalutazione che è sotto gli occhi di tutti. E il campo della letteratura e dell’arte sono solo i più evidenti. Tener conto di chi prima di noi l’aveva già detto ha cambiato i parametri della conoscenza e, introducendo la soggettività, lo stesso modo di conoscere. I saperi non sono più gli stessi ed è apparsa la profonda ingiustizia che lo stampo patriarcale aveva loro imposto per esempio nel rapporto con la natura. Così come, tornando alla vita personale come luogo in cui si vedono i cambiamenti del mondo, molte di noi hanno imparato a riconoscere ciascuna la propria madre e a praticare la lingua della gratitudine. Grande è stata la bellezza di scoprire che alle nostre spalle non c’era vuoto simbolico, ma donne che avevano patito la ferita inferta dal patriarcato al rapporto madre /figlia o figlio, e vi avevano posto riparo, come nell’arte giapponese dello Kintsugi, lasciandoci tracce dorate. Sottolineo: non canoni rigidi e chiusi, ma tracce dorate per chi di noi è in una inesauribile ricerca di sé e non vuole chiudersi in gabbie identitarie come può diventare anche il dichiararsi femminista se non è continua ricerca di senso. E nemmeno vuole lasciarsi schiacciare nel nuovo ruolo oppositivo già bello e pronto: una generazione contro l’altra, le donne contro gli uomini, chi ha capito contro chi non ha capito, eccetera.
Quale civiltà
Grazie a questo scarto, politica di relazione, politica del simbolico, politica del desiderio, femminismo della differenza sono equivalenti per dire una politica, come dice una mia cara amica, che mette l’accento su ciò di cui ci sentiamo ricche. È una politica che nessuno può toglierci perché è nelle nostre mani, si nutre delle nostre relazioni e del nostro desiderio per “mettere al mondo” ciò che sogniamo e di cui sentiamo la mancanza.
E in questa soggettività in movimento possiamo cercare insieme quale civiltà vogliamo costruire, donne e uomini con una nuova relazione fra noi e con chiunque si senta coinvolto in questo processo. Ognuno contribuendo con la propria voce al mondo comune.