Da paceterradignita.it – Io partecipo alla politica istituzionale per avere la possibilità di votare contro la guerra alle elezioni europee. Da due anni la aspetto, nel sito c’è il mio articolo: Possiamo votare contro la guerra? Due anni fa tra i partiti c’era il totale silenziatore generale. Forse ora potremo, se non credete alle false imitazioni.

Al link http://paceterradignita.it ci sono tutti i luoghi dove firmare con il notaio.

A Milano: Banchetti Nord ovest ­- Pace Terra Dignità (paceterradignita.it)

Da l’Unità – Mi chiamo Ben Arad, ho diciotto anni e mi rifiuto di arruolarmi nell’IDF. Mi oppongo alle uccisioni insensate, alla scelta di far morire di fame e malattie e al sacrificio di soldati, civili e ostaggi per una guerra che non può e non vuole raggiungere gli obiettivi dichiarati e che potrebbe degenerare in una guerra regionale. Per queste e altre ragioni, mi rifiuto di arruolarmi.

Non prenderò parte a una guerra di vendetta, che causa solo distruzione e non darà sicurezza ai cittadini di Israele.

«Se tutto ciò che hai è un martello, tutto sembra un chiodo». – Penso sempre a questa frase quando considero il comportamento di Israele dall’inizio della guerra. L’unico strumento che conosciamo è quello militare. Pertanto, la soluzione a ogni problema deve essere militare.

Ma la nostra strategia di deterrenza non si è dimostrata efficace. Il terrorismo non si può fermare con le minacce, perché i terroristi non hanno molto da perdere. Inoltre, l’uccisione senza precedenti di civili innocenti a Gaza, la fame, la malattia e la distruzione di proprietà non fanno che alimentare la fiamma dell’odio e del terrore di Hamas; prima o poi, pagheremo per il dolore dei palestinesi.

Il 7 ottobre, Israele si è svegliato con un attacco brutale mai visto prima. Bambini, donne e anziani sono stati vittime di atrocità che nessuno dovrebbe subire. La barbarie e la crudeltà dell’attacco avrebbero dovuto sradicare ogni speranza di pace e di un futuro condiviso. L’impatto del 7 ottobre sul popolo di Israele è ancora immenso, soprattutto perché più di 130 ostaggi sono ancora tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza.

Da quel sabato, Israele ha condotto una campagna omicida senza precedenti, non solo contro Hamas, ma anche contro l’intero popolo palestinese. A Gaza si contano più di 30.000 morti, di cui si stima che il 70% siano donne e bambini. Ogni giorno, i funzionari israeliani minacciano un’offensiva di terra a Rafah, dove si sono rifugiati più di 1,5 milioni di palestinesi. L’ingresso di Israele a Rafah causerà la morte di decine o centinaia di soldati israeliani e di migliaia o decine di migliaia di palestinesi. Metterà in pericolo la vita degli ostaggi e farà aumentare in modo significativo i combattimenti con Hezbollah in Libano.

E per cosa? Cosa si ottiene con questi combattimenti? La guerra non riporterà indietro gli ostaggi. Non resusciterà i morti. Non libererà gli abitanti di Gaza da Hamas e non porterà alla pace. È vero il contrario: i combattimenti continueranno a uccidere ostaggi, metteranno in pericolo altri ebrei e palestinesi, perpetueranno il dominio delle organizzazioni terroristiche a Gaza e garantiranno che non ci sarà un orizzonte di pace.

L’opinione pubblica israeliana si trova di fronte a una scelta: mantenere l’attuale ciclo di violenza e sostenere una realtà di distruzione che approfondirà l’odio e creerà un’escalation su tutti i fronti, oppure scegliere un’altra strada, basata sulla sacralità della vita, in cui smettere di mandare persone bellissime a essere uccise o ferite in orribili battaglie. Potremmo garantire il ritorno di tutti gli ostaggi ancora in vita, fermare le uccisioni insensate a Gaza, condannare la violenza dei coloni in Cisgiordania e impedire lo scoppio di un’altra guerra contro Hezbollah e l’Asse della Resistenza?

L’opinione pubblica siamo noi. Abbiamo un grande potere che i governi e le organizzazioni corrotte che ci rappresentano non hanno. Pertanto, la spinta al cambiamento deve venire da noi. Possiamo muoverci verso la pace solo attraverso un movimento sociale intransigente che si impegni per la comunicazione e la de-escalation. Dobbiamo sempre usare il pensiero critico, guardare al quadro generale e lottare per la pace, l’uguaglianza e la verità.

(*) Ben Arad, diciottenne di Ramat Hasharon, è arrivato questa mattina al campo di arruolamento di Tel Hashomer e ha rifiutato di arruolarsi nell’esercito israeliano per protesta contro la guerra a Gaza. È stato condannato a 20 giorni di prigione militare, che dovrebbero essere prolungati quando rifiuterà nuovamente l’arruolamento. Arad si unirà a Tal Mitnick e Sofia Orr, che stanno scontando pene rispettivamente di 105 e 40 giorni per il loro rifiuto. Ben Arad ha deciso di rifiutare l’arruolamento a causa della guerra a Gaza. Il gesto di Tal Mitnick gli ha dimostrato che è utile rifiutare pubblicamente. 

Da Facebook – Nel 2008 Judith Butler pubblicò un libro, intitolato Frames of war e mai tradotto in italiano, in cui approfondiva le questioni relative alle guerre del dopo-11 settembre già affrontate in Vite precarie. La tesi di Frames of war era – è, quel libro va riletto oggi – che c’erano dei quadri interpretativi sottostanti alle pratiche e alle ideologie delle guerre contro il terrorismo, e che questi quadri interpretativi riguardavano sostanzialmente una gerarchizzazione dell’umano su base razziale, per cui certe vite contano e certe altre non contano niente. Quelle tesi, allora pionieristiche, sono diventate nel frattempo alquanto diffuse grazie allo slogan “Black lives matter”, ma soprattutto risultano molto facilmente verificabili nel regime di guerra in cui viviamo oggi. A proposito del quale c’è chi, nel mainstream guerrafondaio, va lamentando un presunto “doppio standard” dei pacifisti, che sarebbero – saremmo – zelanti nel condannare l’aggressore quando è Netanyahu ma non quando è Putin. La strage efferata dei 7 disgraziati volontari della Ong americana a Gaza mi dà l’occasione per replicare sommessamente che in compenso nel mainstream lo standard è assolutamente unitario, ed è uno standard razzista, per cui ci vogliono 7 vittime “accidentali” e occidentali perché si realizzi quello che 30.000 e passa vittime palestinesi non sono state sufficienti a far realizzare, e cioè che quello che sta accadendo a Gaza è aldilà di qualunque livello minimo di civiltà e di accettabilità. E vale lo stesso per la guerra d’Ucraina, dove i morti russi non sono mai, mai entrati nel conto perché considerati meno occidentali o meno occidentalizzabili, e dunque meno umani, degli ucraini. Non so quanto dovremo ancora aspettare prima che appaia chiara la débâcle dei tanto sbandierati valori europei e occidentali in questa situazione. Perché, guardate, è proprio una débâcle.

Da Noi Donne – È arrivato il tempo del punto di vista femminile: «sia noi che loro», parte dei tre punti essenziali per costruire un dialogo “binazionale” verso un’azione di pace.

Il senato accademico dell’Università di Torino ha accolto la richiesta di studenti e professori di non partecipare al bando Maeci 2024 (di collaborazione scientifica per progetti di elettronica dual use con università israeliane). La mozione di studenti e professori richiedeva questa rinuncia al bando per protestare contro l’“educidio” in corso nella striscia di Gaza. La decisione è stata presa democraticamente, quindi gridare immediatamente allo scandalo non sembra comunque appropriato: se ci fosse solo una decisione accettabile la riunione del senato accademico sarebbe puramente formale. Inoltre, contrariamente a quanto viene detto, questo non interrompe tutte le collaborazioni con Israele. La decisione stessa non si può ridurre a un boicottaggio accademico, poiché il bando è stato concepito dal governo, non dalle università: comunque è un’occasione di riflessione su come gli scambi scientifici possano e debbano svolgere la loro missione di reciproco arricchimento culturale e scientifico, ma anche di pace. Infatti il punto del mantenere gli scambi universitari non è di permettere ai professori e agli studenti di andare avanti come se niente fosse in mezzo alle guerre: questo gli studenti non lo accetteranno mai, e per fortuna. Si tratta piuttosto di conservare uno spazio di dialogo, o almeno di non belligeranza e di controversia civile anche in mezzo a tali vicissitudini. Ma preservare il dialogo e la pace è una vera e propria azione, che si può articolare almeno in tre punti.

Il primo puntoè considerare gli scambi di ricerca, individuali e tra università, privilegiando il criterio del dialogo. Nel caso di Israele e della Palestina, una terra con due popoli, gli scambi si devono avere con ambedue i popoli: come scrivono i professori torinesi che volevano partecipare al bando Maeci, «le università sono ovunque luoghi e cenacoli di pensiero critico». Concretamente ciò significa che se si hanno scambi con l’università di Tel Aviv o Haifa se ne cerchino anche con Bir Zeit o Al Quds, cioè con una delle quindici università in Cisgiordania o una delle undici università di Gaza. Solo questo permette di capire come vivano gli uni e gli altri. Nella mia esperienza, avere scambi con università israeliane è facile, mentre le condizioni dei ricercatori palestinesi sono radicalmente cambiate dopo il 2000. Alcuni colleghi palestinesi di Al Quds sono dovuti emigrare da Ramallah al Canada, o non hanno potuto muoversi perché apolidi, mentre altri sono a Gaza attualmente senza contatti e possiamo solo sperare che stiano bene, poiché tutte le università sono state bombardate. Se teniamo veramente alla cooperazione e al dialogo con gli abitanti di quella terra, malgrado queste difficoltà, dobbiamo coltivare il dialogo binazionale, secondo l’espressione degli attivisti sul posto. I gruppi di attivisti della pace sono tra israeliani e palestinesi dei territori occupati e non solo con “arabi israeliani”, i soli che possono iscriversi alle università israeliane. Sono costituiti da persone in lutto per figli e parenti o da disertori. Hanno imparato che non si tratta di stabilire colpe, ma di incontrare delle persone e di lavorare su ciò che si ha in comune. Le gare a chi ha sofferto di più o il “o noi o loro” non possono portare che ad altri lutti e a vite segnate dal dolore e dall’incertezza. Le maggioranze dei due popoli sono contrarie alle politiche dei due governi. È arrivato il tempo del punto di vista femminile: “sia noi che loro”. Intendo dire il punto di vista che in genere hanno le donne nella società, o quello che hanno scelto le donne del Rwanda quando la guerra tra tutsi e hutu aveva decimato i maschi. Anche con noi italiani, solo il dialogo binazionale di Israele e Palestina è dialogo a pieno titolo, che rafforza la parte migliore del popolo israeliano e di quello palestinese e contribuisce alla pace. E noi, tanto più come popolo mediterraneo, abbiamo un ruolo da giocare a questo livello. Per la formazione universitaria completa è sempre stato necessario andare a conoscere modi di studiare e contenuti diversi, la peregrinatio studiorum. In questo senso gli scambi con le università israeliane sono da raccomandare, se sono legali.

Il secondo punto dell’azione di pace sarà quindi verificare la legalità di questi accordi. Gli accordi con università israeliane costruite negli insediamenti in Cisgiordania sono illegali quanto gli insediamenti stessi. Questo è il caso di alcuni nuovi campuses dell’Università di Gerusalemme a Gerusalemme Est e certamente dell’università Ariel. Università statali italiane non devono avere contratti di scambi scientifici con istituzioni illegali, e se questo accade ancora dovrebbe essere evitato.

Analogamente, e questo sarà il terzo punto dell’azione di pace, si può ragionare per quanto riguarda gli scambi scientifici e tecnologici a scopo bellico, o ricerche dual use. In questi giorni il CNR ha elaborato delle linee guida che vanno in questo senso, pur mantenendo il principio della contrarietà al boicottaggio. Infatti, non collaborare sul piano bellico non significa essere nemici o non amici di Israele, ma semplicemente non partecipare alle sue guerre, né alle guerre di altri, proprio in coerenza con l’intento di preservare le università e la ricerca come spazi di dialogo.

Boicottare le università israeliane è ancora un altro livello di politica, non implicato dai punti dell’azione di pace descritta sopra. Il dialogo deve permetterci di esprimere pareri diversi, insegnarci a tollerare; a sopportare anche differenze radicali. Voglio ancora sperare che ciò sia possibile, idealmente gli studenti dovrebbero poter assistere a un dibattito tra esponenti del governo israeliano ed esponenti di Hamas. Meno bombe e più parole: la parola è prioritaria. Certo, questo presuppone la volontà di ascoltare le due ragioni e addirittura di trovare una soluzione che ne tenga conto. Dall’assassinio di Rabin la politica non ha espresso questa volontà. Speriamo che questo nuovo incendio sia l’occasione del cambiamento. In caso contrario si potrà ricorrere al mezzo non violento del boicottaggio, ma solo come extrema ratio, come mezzo per creare le condizioni del dialogo, e forse l’università non è il luogo più indicato, proprio perché è fatta per discutere.

(*) dei Disarmisti esigenti

Da Il Fatto Quotidiano – Utilizzare i termini al maschile non è né neutro, né neutrale. Così il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha voluto ribaltare la prospettiva. La presidente, la rettrice, la segretaria, le professoresse, la candidata, la decana: tutto al femminile. È quanto prevede il nuovo Regolamento generale di ateneo che in un comma introdotto all’articolo 1 specifica che «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone», quindi anche quando riguardano degli uomini.

A spiegare la genesi è stato il rettore Flavio Deflorian (o meglio, la rettrice per il nuovo regolamento). Tutto nasce dalla necessità di evitare di appesantire il documento specificando i termini, in tutti i passaggi, sia al maschile che al femminile: da qui è arrivata la decisione, per rendere tutto più fluido, di declinare tutto su un unico genere. E la scelta però è ricaduta per la prima volta su una bozza con «femminile sovraesteso» per «mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione». «Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso», racconta Flavio Deflorian: «Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni». Un “segnale” che il cda ha approvato all’unanimità.

Al netto della millenaria mitologica voglia maschile di non dipendere dalle donne per nascere, ancora oggi ben rappresentata dalla tecnologia riproduttiva che cancella la relazione tra chi sta diventando madre e chi sta diventando bambino/a e il loro futuro, quanto conta per gli uomini non poter partorire, non avere questo sapere corporeo quando decidono di fare la guerra? Cosa è per gli uomini la vita e la morte, e quanto spazio ha nel loro vivere la nascita e la morte? Me lo sto chiedendo da un po’ e so che non c’è una risposta perché questa relazione è un tabù, per le donne che spaventate dal patriarcato non sanno valorizzare il loro potere e per gli uomini che non vogliono interrogarsi e preferiscono inventare.

Ho appena letto l’interessante libro di Rosella Prezzo Trame di nascita sull’importanza della nascita, i suoi miti maschili, la morte, gli uomini e le donne e dal 2015 lavoro come artista sulla sapienza del far nascere del corpo femminile, la sua preziosità. Da tempo, penso che la nascita e la morte siano viste, sentite, valutate in modo differente tra uomini e donne. Lo stesso vivere e sentire la vita, persino l’amare credo siano diversi tra maschi e femmine e penso che questa differenza incida nello stare e nel fare mondo anche nei confronti della guerra. I femminicidi sono un macabro esempio dell’invenzione maschile del far morire con qualsiasi arma, anche davanti ai propri figli/e. È la forza fisica a far muovere le armi, e le armi unite alla forza “virile” sono all’origine della guerra. Non si può dire non mi riguarda, io non la faccio la guerra. Chi non la fa si chiede meno di quello che potrebbe e forse dovrebbe. C’è un velato e inconscio sentire maschile non detto: come se la guerra cadesse dall’alto e fosse un atroce invisibile volere divino, e questo non detto accomuna i sessi nell’esercizio del potere e nel desiderio di allontanare da sé qualsiasi responsabilità, convincendo chi vota che lo fanno per la democrazia o per il potere da restaurare nel paese. Non vogliono colpe nelle mortali tragedie che creano, incapaci della relazione con l’altro e della necessità della mediazione costante nell’orizzonte prezioso del limite. Quando aspetti che i nove mesi della gravidanza si concludano con la nascita sai che quello è il limite per far nascere la vita, e vuoi dare la vita, allora medi su tutto fino a immobilizzarti se serve. Io l’ho fatto e non sarò stata l’unica. È un lavoro di tessitura continuo sul limite, quotidiano, ora per ora, di cura e attenzione che gli uomini non sembrano portati a fare; non ne hanno bisogno, non fanno nascere. E lì nella tessitura tra un corpo che cresce e l’altro che lo fa crescere dentro di sé, nasce la relazione con l’altro o l’altra uguale a te. Non è così per gli uomini.

Gli uomini della guerra e gli altri che non si interrogano sembrano non sapere cosa sia la relazione tra umani e umane, addirittura anche tra loro stessi, all’interno del loro stesso sesso visto che usano ancora la guerra per risolvere le insidie che si coltivano l’un l’altro. Avendo rinnegato fin dai miti il nascere da donna, non sono in grado di capire fino in fondo come ci si relaziona con l’altro e l’altra, anche se nati da donna e sembra proprio non vogliano riconoscere questa nascita per allontanare una verità disturbante sul potere reale. Non hanno mai fatto spazio a un altro/a nel loro corpo, non l’hanno mai sentito/a crescere nel grembo, non hanno mai respirato anche per lui o lei, non gli hanno mai parlato senza parole perché non servivano dentro di te, e non l’hanno mai partorito/a. Non hanno mai costruito il tempo dell’umanità col loro corpo mettendo al mondo, o saputo cosa voglia dire far nascere aspettando il tempo che serve, finché un altro/a possa, dentro di te, essere in grado di venire alla luce e poi metterlo/a nel mondo e farlo diventare negli anni una persona adulta. Non un soldato, non un uomo armato. Non gli viene in mente alle future madri.

Queste relazioni particolari non fanno parte del bagaglio di vita maschile, a qualsiasi ideologia si rivolgano, e la guerra lo rende perfettamente visibile. Il corpo maschile non aiuta gli uomini a capire la vita, non può, non è fatto per far nascere ma solo per contribuire al concepimento insieme alla donna, come invece fa il corpo delle donne che nelle sue trasformazioni le aiuta a capire come far vivere, a come privilegiare la vita sulla morte. Una vita che va vissuta tutta intera prima di morire, che accadrà quando sarà ora per il tempo che si è avuto in dote. Senza che qualcuno armato o dietro una scrivania o davanti a un microfono si senta in diritto di dare o far dare in anticipo la morte: per prepotenza, aggressività, onnipotenza, senso di proprietà, arretratezza emotiva. Primitività?

Comunque gli uomini del potere rilanciano sempre, come con le palline da tennis, su tutto, in un atto di “virilità” costante anche se ci sono le armi nucleari. Tutto gli perde di senso quando si attaccano alle ideologie e la vita degli altri non conta più. Conta solo la tua, vissuta da arcaico patriarca aspettando da millenni la morte come non ci fosse mai stata una nascita da vivere prima di morire.

Agli uomini, sul nascere, è richiesto un lavoro intellettuale raffinato dal loro corpo che non li aiuta a sentire il farsi della vita, come fa modificandosi quello delle donne, per provare a capire che vuol dire, visto l’esiguo rapporto fisico che intrattengono con la nascita. Una raffinatezza cerebrale che però non fanno o fanno male o superficialmente; preferiscono dare per scontate troppe cose della vita e non le sanno e non vogliono saperle. Le femministe e anche alcuni uomini più illuminati dicono per invidia del potere sulla vita delle donne. Io non lo so di preciso, ma spero intensamente che non sia una questione biologica e sia davvero solo invidia perché forse così rimane aperta una possibilità di incontro che ci possa salvare dall’uomo armato (e dalle forze armate). Solo un uomo, un capo religioso importante e particolare, differente dagli altri uomini: Papa Francesco, ha ragionato sul nascere da donna il primo gennaio 2020 nella sua omelia Nato da donna dove finalmente cita l’importanza del grembo delle donne, mai vista, tranne in Piero della Francesca, nella rappresentazione artistica ufficiale della Natività, salvando, mettendo in luce il grembo di tutte noi insieme a quello di Maria. Ma gli uomini della guerra non lo ascoltano, men che meno quando implora la pace per vivere. Sapranno gli uomini guardarsi dentro diversamente da come lo fanno oggi, sapranno salvare le loro e le nostre vite mettendosi all’ascolto di chi sa far nascere per imparare il valore del vivere? Cominciamo a dirglielo. Per iniziare a mettere fine alle guerre imparando ad ascoltare e a guardare, ma non il loro ombelico.

Yael Deckelbaum, 44 anni, nata a Gerusalemme, è una cantautrice e attivista israeliano-canadese. Si è esibita sullo stesso palco con artisti come Suzanne Vega e Chris Cornell. Nel 2016, la sua canzone “Prayer Of The Mothers”, scritta per sostenere Women Wage Peace – il movimento pacifista fondato da donne israeliane, tra cui l’attivista Vivian Silver, uccisa da Hamas il 7 ottobre nel suo kibbutz Be’eri – è diventata un inno internazionale per la pace in tutto il mondo. È attualmente impegnata in un solo-tour in Europa. È la sesta testimonial della campagna di Avvenire #donneperlapace: per scoprire tutto sul progetto e su quello che ci proponiamo, clicca qui. E per ascoltare una delle sue canzoni più celebri, guarda questo video di Avvenire.

Da Avvenire – Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».

Partiamo dall’inizio, allora: il 7 ottobre.

No: cominciamo dal 4 ottobre, perché è lì che colloco il mio “inizio”. Tre giorni prima del massacro, ero a un evento di Women Wage Peace (movimento pacifista fondato da donne israeliane) e Women of the Sun (gruppo pacifista di donne palestinesi) a Gerusalemme e sul Mar Morto. La sera ho suonato sul palco “Prayer Of The Mothers”, una canzone in cui tutte, israeliane e palestinesi, potevano riconoscersi. Eravamo migliaia, insieme, unite dallo stesso desiderio di crescere i nostri figli in pace. Sembrava tutto così “possibile”. Tre giorni dopo ho preso un volo per la Germania: avevo un concerto. Mi sono svegliata la mattina del 7 ottobre con la notizia della strage. Dovevamo suonare, la sera. Lo staff aveva sistemato all’ingresso un grande cartellone con il mio nome, il mio volto, la data e una scritta che richiamava il titolo di una mia canzone: “October 7th – War Is Not A Woman’s Game”, (7 ottobre – La guerra non è un gioco da donne). Ironico, no? Noi eravamo lì, sotto choc, a fare e rifare il numero di amici che non rispondevano più al cellulare. Ci hanno proposto di annullare l’evento. Abbiamo detto di no. Poi ci siamo messe in collegamento con alcune amiche arabe. Abbiamo cercato, insieme, di capire l’incomprensibile.

Ci siete riuscite?

Francamente, no. Ero completamente distrutta. Non potevo parlare, nemmeno pensare. Poi è successo qualcosa: una delle persone a me più vicine, Michal Halev, il cui unico figlio, Laor Avramov, è stato assassinato al Nova Festival, sebbene sopraffatta da un dolore insopportabile ha lanciato un appello a guarirci a vicenda invece di ferirci ancora e ancora. Ha chiesto di farlo affinché altre mamme non dovessero soffrire come stava soffrendo lei. Mi ha indicato una strada.

Cosa prova quando vede le immagini di Gaza?

Mi sento male. Terribilmente male. E impotente di fronte a tanto dolore. Mi si spezza il cuore: il mio cuore è davvero diviso in due. Ho persone della mia famiglia nell’esercito, persone che amo profondamente: sono soldati delle Forze di Difesa israeliane, stanno combattendo là dentro. So cosa sta succedendo a Gaza. Quello che non so è come tutti noi, israeliani e palestinesi, si sia potuti arrivare a un punto così basso. Capisco che il Paese in cui sono cresciuta è stato costruito sul trauma di migliaia di anni di persecuzione. Il 7 ottobre c’è stato un pogrom contro bambini, uomini, donne, anziani, arabi, soldati e pacifisti. I terroristi non hanno fatto alcuna differenza. Poi sono arrivati gli attacchi dall’esterno: quelli di un mondo che ha rapidamente dimenticato ciò che Hamas ha fatto, o non lo ha dimenticato affatto e lo giustifica. La gente ha cominciato a dividersi, scegliendo una parte piuttosto che un’altra. Mi sono chiesta a lungo a quale “fronte” appartenessi. Poi ho accettato l’idea che le cose sono molto più complicate di così, che non esiste il bianco e il nero. Che ognuno, ogni singola persona, ogni singolo giorno, deve trovare il proprio ruolo.

Qual è il suo?

Sono una pacifista, in un tempo in cui la maggior parte delle persone crede che l’unica alternativa sia la guerra, perché ormai hanno mille prove che non abbiamo partner per la pace. Inizierò da qui. Dalle storie individuali. Mentre nel quadro ampio vedo una sola prospettiva possibile: la soluzione dei Due Stati, che però nessuna delle due leadership – né la nostra, né la loro – vuole veramente. Il governo Netanyahu non lavora per il bene di Israele: il 7 ottobre è stato preceduto da otto mesi in cui, ogni fine settimana, centinaia di migliaia di persone hanno protestato in piazza contro di lui. Guardatevi intorno: ovunque ci sono graffiti, scritte, cartelli, sit-in che chiedono un cambio di governo. Ma non è così facile ottenerlo.

Lei ritiene che le donne debbano guidare il processo di costruzione della pace. Perché?

Perché sono le donne che portano nel mondo la vita. Perché la natura ci ha predisposte a proteggerla. Abbiamo una maggiore attitudine al dialogo, alla conciliazione: è molto più difficile condurre una donna alla violenza piuttosto che un uomo. Abbiamo meccanismi diversi.

Le donne israeliane hanno organizzato una ferma campagna per protestare contro il silenzio del mondo e delle istituzioni internazionali sugli stupri di Hamas durante e dopo il massacro del 7 ottobre. Come spiegare questa mancanza di solidarietà?

Non riesco a spiegarlo. È stato davvero deludente. I corpi delle donne israeliane, delle donne ebree, sono stati violati nel modo più atroce. Non so davvero come possa essere mancata l’empatia di altre donne nel mondo. Mi rattrista questa moralità selettiva. Vorrei che le donne potessero stare insieme l’una per l’altra. Vorrei che potessimo imparare.

Lei è impegnata in un nuovo tour da solista. L’Europa è attraversata da una forte ondata di antisemitismo. Lo sente sulla tua pelle?

Prima di partire ero molto spaventata: è una paura profonda, poiché condivido la storia di sei milioni di ebrei uccisi. Una parte di me voleva solo che mi isolassi da questo mondo. Molte persone scrivono cose brutte sui miei social, mi taggano semplicemente perché sono ebrea e israeliana. Ma adesso sono in viaggio, e ho concerti sold-out alle spalle dove ho incontrato centinaia di persone pacifiche e amorevoli. E lo so: l’odio è forte, ma ci sono altre voci. Tante! Mi sento di dire, con la responsabilità di chi ha un microfono in mano: se davvero volete aiutare i palestinesi e gli israeliani in questo tempo difficile, invece di istigare altro odio aiutateci a sostenere la pace. E c’è un rimedio: Etty Hillesum – (scrittrice ebrea-olandese, vittima dell’Olocausto) – ha scritto questo nel suo diario: ad ogni atto di odio dovremmo rispondere con un atto d’amore. È quello che sto cercando di fare.

Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».

Da Avvenire – L’attentato di Mosca da parte dell’Isis ha impresso un’ulteriore scossa al già precario stato delle relazioni internazionali. I fronti si moltiplicano e sembra quasi che il mondo stia precipitando in una sorta di guerra civile globale.

E mentre i venti di guerra diventano ogni giorno più forti, lo stato del pianeta continua a peggiorare. L’ultimo dato rilasciato dall’Organizzazione metereologica mondiale dice che nel 2023 la media delle temperature sul pianeta Terra ha toccato +1,45 gradi Celsius rispetto al livello pre-industriale. Siamo ormai alla soglia critica indicata dalla Cop di Parigi del 2015. E mentre il pianeta brucia, aumentano i conflitti armati. Al punto che, per quanto assurda, oggi non si può escludere un’escalation verso una guerra globale.

Il risultato è il dato drammatico a cui ha fatto qualche giorno fa il segretario generale dell’Onu: il numero di coloro che soffrono la fame (330 milioni) è raddoppiato da 2019 a oggi. È come se la società degli uomini (specie i maschi!) continuasse a rifiutarsi di ascoltare la realtà che in tutte le maniere ci sta mandando messaggi di allarme.

La crescita vorticosa degli ultimi decenni – che ha permesso di raddoppiare il Pil del mondo in meno di trent’anni, cosa mai vista nella storia – è stata un grande successo. Ma lascia un’eredità pesantissima. Dobbiamo infatti affrontare una serie di problemi che, apparentemente diversi, rimandano in realtà alla medesima radice: l’idea tipicamente moderna che le persone fisiche e quelle giuridiche (imprese e Stati) siano individualità sovrane dotate di una capacità assoluta di autodeterminazione.

Il problema è che oggi sappiamo come tale presupposto moderno – fondamentale per permettere all’umanità di fare il salto che ha fatto in termini di aumento del benessere, riduzione della povertà, diffusione dell’istruzione, miglioramento della sanità, allungamento della vita media – non abbia fondamento. E lo sappiamo perché la stessa scienza, avvalorando l’antica sapienza religiosa, ci dice ormai da più di un secolo che non esiste forma di vita che non sia in relazione ciò che viene prima, con ciò che le è intorno, con ciò che sta dopo e oltre. Tutte le grandi questioni contemporanee ci fanno capire che il nostro rapporto con la realtà ambientale e sociale, per quanto potente, sia viziato da codesto errore.

È come se vivessimo con un ritardo cognitivo: noi oggi sappiamo che tutto è in relazione, ma il nostro modello di sviluppo continua a procedere come se invece la Terra fosse popolata da atomi individuali che perseguono i propri interessi e desideri indipendentemente da tutto il resto.

Purtroppo, non esistono ricette in grado di risolvere i problemi attuali senza rimettere in discussione tale presupposto. Anzi, se pensiamo che sia possibile districare la matassa continuando ad agire secondo la logica fin qui seguita – ad esempio immaginando che la sostenibilità ambientale sia solo una questione tecnologica e di efficientamento dei processi di produzione e consumo – i problemi sono destinati ad acutizzarsi. Nel caso specifico, producendo tensioni politiche così forti da bloccare il raggiungimento del risultato sperato.

Ma la stessa cosa vale a proposito delle relazioni internazionali. L’attuale grave crisi mondiale è figlia di un pensiero politico inattuale. Con l’invasione dell’Ucraina, l’errore di Putin deriva dalla pretesa di trattare come locali questioni che in realtà sono anche globali. Come se fossimo nell’800 o nel 900. E invece, in questo come in altri campi, da quello migratorio a quello religioso, la pur necessaria esistenza di confini – condizione per riconoscere la pluralità delle culture – si può dare oggi solo in relazione all’intero pianeta. Il che ha importanti implicazioni sulla necessità assoluta di trovare una via d’uscita negoziale del conflitto in corso. Perché l’unica possibilità per il futuro dell’umanità è la convivenza tra culture diverse in un pianeta diventato piccolo.

Non è cosa da poco. Si tratta di rivedere alcuni dei presupposti su cui abbiamo costruito gli ultimi secoli. Ma per quanto il passaggio sia arduo, non possiamo far altro che cominciare a percorrere con intelligenza questa nuova fase storica. Sperando, un po’ per volta, di trovare le vie capaci di tradurre in forme istituzionali economiche e sociali questa nuova consapevolezza. In mezzo a tante difficoltà, c’è una buona notizia: se si comprende la natura del problema e ci si muove nella direzione di una migliore comprensione della realtà e del posto dell’umanità in essa, si apre il cammino verso un mondo migliore di quello attuale. Un’idea importante che dobbiamo condividere con i giovani: al di là di quello che abbiamo fin qui raggiunto, c’è ancora molto da fare. La speranza non è morta. Basta cambiare lo sguardo.


Da la Repubblica

Soprattutto è bene ricordare che sia la mutilazione dei genitali femminili che l’imposizione del velo sono, peraltro, aspetti fortemente influenzati dalla cultura dei luoghi. In Africa, infatti, la mutilazione è praticata sia dai musulmani che dagli animisti e dai cristiani, non per ragioni religiose ma di costume, dettate dalla volontà di esercitare il controllo sulla sessualità femminile. L’aver confuso questa pratica con un rituale religioso è il tipico esempio di un errore diffuso, quello o di radicalizzare una fede senza criticarne storicamente gli abusi o di esecrarla identificandola con gli abusi stessi.

Si pensi alla Sharia. In occidente, ma anche per alcuni musulmani, essa è diventata sinonimo delle leggi patriarcali. In realtà la Sharia, letteralmente “la via”, nella fede musulmana è la volontà di Dio rivelata al profeta Maometto. Il corpus giurisdizionale, invece, chiamato Fiqh, che significa “comprensione”, fa riferimento al processo dei tentativi umani di discernere ed estrarre le norme giuridiche dalle sacre fonti dell’Islam, vale a dire il Corano e la Sunna (la pratica del Profeta, come contenuta negli hadith, Tradizioni) e le “leggi” desunte da questo processo. Il Fiqh, come ogni altro sistema di giurisprudenza, è umano e legato a coordinate temporali e locali.

L’Islam oltre a non essere una religione dogmatica, si fonda sul rapporto diretto del musulmano con Dio. Non esistono intermediari e l’imam è una figura che fa da ponte mettendo a disposizione della comunità la propria conoscenza profonda dei testi sacri e assumendosi il compito di condurre la preghiera. Ogni fedele rimane però l’unico responsabile della propria comprensione e applicazione dell’insegnamento del Corano. Per questo la corretta lettura e la profonda conoscenza del Corano sono strumenti fondamentali di interpretazione dello stesso, grandemente influenzati dal livello di istruzione e purtroppo potenzialmente manipolati da chi ne detiene il dominio impedendo soprattutto alle donne, ma non solo, di essere primi interpreti della parola di Dio.

Per questa ragione, fin dai tempi di Huda Sha’arawi, nata in Egitto nel 1879, il femminismo musulmano esortò le donne a iniziare l’importante compito di leggere il Corano attraverso occhi femminili. Una delle persone che ha dedicato con passione la sua vita a questo compito è Amina Wadud, studiosa dell’Islam e che ha adottato nei suoi confronti un approccio riformista.

Lei l’hijab lo indossa solo nelle occasioni pubbliche: il Corano, dice, non impone il velo, ma raccomanda piuttosto la modestia dell’abbigliamento sia per l’uomo che per la donna. La ragione per cui lo indossa in pubblico è politica, rappresentando il velo il simbolo più eloquente dell’Islam in Occidente. Essendo diventato però, a causa dell’islamofobia, simbolo politicamente negativo, Amina ha deciso di indossarlo come segno di identificazione con le persone più oppresse, intendendo per oppressione anche il pregiudizio culturale dell’Occidente verso le donne musulmane.

Purtroppo è vero che l’intensificarsi dell’islamofobia, invece che aiutare le donne musulmane finisce per prenderle di mira e propone un dibattito su di loro senza includerle. Invece, proprio come non dovrebbe esserci dibattito sulle donne senza le donne, allo stesso modo non dovrebbe esserci dibattito sulle donne musulmane senza le donne musulmane.

Perché si giunga ad un’interpretazione egualitaria del Corano come primaria e unica fonte divina dell’Islam è fondamentale che le donne musulmane siano incluse nella formazione e nello sviluppo del pensiero islamico, e questa è, nei fatti, l’unica mossa rivoluzionaria che sarà in grado di costruire una nuova struttura delle società e delle comunità musulmane. È a causa di interpretazioni errate delle regole islamiche, se le donne vengono private dei diritti, della dignità, dell’onore e dello status conferiti loro nell’Islam e talvolta sono soggette a oppressione. Per prevenire la dominazione maschile e la subordinazione delle donne e assicurare loro i diritti così come sono garantiti dall’Islam, abolendone le distorsioni, è essenziale che le donne abbiano piena consapevolezza dei fondamenti dell’Islam. Nimat Hafez Barazangi, ricercatrice presso la Cornell University, ci ricorda con le parole del Corano che «Dio non cambierà le condizioni delle persone finché queste non cambieranno ciò che è in loro stesse»: qualunque cambiamento, cioè, nel contratto sociale tra i musulmani e l’Islam non può che essere innanzitutto interiore. Le studiose e le attiviste musulmane sanno e avvertono che prima ancora che la reinterpretazione del Corano è necessario un passaggio fondamentale: l’allargamento della libertà di cambiare la percezione stessa che la donna ha del proprio ruolo nell’interpretazione del testo sacro, che deve diventare da complementare e secondario a primario. Questo è il primo passo essenziale verso la realizzazione di diritti umani pieni e verso la tanto necessaria sfida all’autorità patriarcale che per quattordici secoli si è arrogata il dominio esclusivo dell’interpretazione del testo sacro nell’Islam. Si pensi a hazrat Khadija, la prima moglie del profeta Maometto: è stata il più lampante esempio di donna musulmana forte e indipendente con uno spirito imprenditoriale, di alto profilo in quanto a successo negli affari e a profondità spirituale. Khadija era più anziana del marito, fu lei a chiedergli di sposarla, la sua casa fu trasformata in una moschea, dove conduceva lei stessa la preghiera, come oggi fanno le donne imam.

Ma l’impegno delle attiviste musulmane nelle società islamiche non è cosa semplice. Presuppone un cambiamento nelle premesse culturali, nelle percezioni e negli posture di ruolo e saranno loro, le donne, come in ogni rivoluzione succede a chi la rivoluzione la fa, a pagarne il prezzo più alto.

La lotta delle donne musulmane pulsa e non sempre urla. Nonostante i movimenti integralisti abbiano avuto tra le conseguenze più negative quella di averne snaturato l’essenza più intima, l’Islam valorizza la sobrietà e la moderazione. Per questo le donne musulmane continuano il loro cammino di lotta e di emancipazione senza necessariamente sbraitare, ma con iniziative innovative come ad esempio nuove pratiche di conduzione della preghiera da parte di imam donne. Uno tra i più importanti momenti di confronto e sostegno per le donne musulmane nel mondo è Musawah, movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana. Guidato da femministe islamiche, vi si rivendica l’Islam e il Corano per la donna attraverso interpretazioni progressiste dei testi sacri. Il patriarcato, si contesta, è una forma di idolatria: il fatto che gli uomini si pongano al di sopra delle donne contraddice di per sé la visione coranica di uguaglianza e giustizia, fondamento dell’Islam, e viola il requisito della esclusiva supremazia di Dio.

I dibattiti nelle riunioni di Musawah e più diffusamente tra le donne musulmane sono accesi e spaziano dalle esegesi delle Scritture ai dettagli più pratici della vita della donna nell’Islam. Il velo, per quanto preoccupi la società occidentale, è l’ultima delle questioni. Ben prima dell’abbigliamento della donna, assolutamente prioritario è difenderne i diritti specialmente in ambiti quali il divorzio, la custodia dei figli, la violenza domestica e, prima ancora, il diritto di studiare e l’indipendenza lavorativa, temi oggi cruciali per le donne di tutto il mondo, a prescindere dall’abito che indossano.


Amani Al-Khatahtbeh nel 2017 aprì un blog con un investimento iniziale di sette dollari: ne nacque MuslimGirl.com, che lanciò la prima Giornata ufficiale delle donne musulmane, per amplificare le loro voci. Era il 27 di marzo e da allora questa giornata è stata dedicata a molte iniziative. Amani, cresciuta nel New Jersey all’indomani dell’11 settembre, aveva nascosto a lungo di essere musulmana per evitare giudizi negativi da parte dei suoi coetanei. Ora, pochi anni più tardi, MuslimGirl ha decine di migliaia di follower e sprona le donne musulmane a essere padrone della propria narrativa. Ma le sfide rimangono tante e per quanto la conversazione sulle donne musulmane in occidente ruoti soprattutto intorno a stereotipi, quali il velo o le pratiche di mutilazione genitale femminile, lo spettro è più ampio e molto più complesso.

Oggi ricorre la Giornata delle donne musulmane istituita nel 2017 per restituire loro voce nella battaglia per i diritti. A partire da una corretta interpretazione delle norme religiose.

“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. (…) Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. (…) Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.

Mi sono tornate in mente le parole che Simone Weil scriveva in un testo nel 1937 dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia, leggendo il documento che alla vigilia del Consiglio d’Europa del 21 e 22 marzo – ribattezzato “consiglio di guerra” – Charles Michel ha recapitato a molti quotidiani europei (in italiano su La Stampa). Una lettera piena di “maiuscole”, non di un qualsiasi articolista con l’elmetto ma del Presidente dell’organismo di indirizzo delle politiche europee, che conferma e rilancia la svolta bellicista già espressa dalla Commissione e dal Parlamento.

Rileggiamo, dunque – con il compito di chiarificazione indicatoci da Simone Weil – alcuni passaggi di questo testo che vuole segnare un cambio di paradigma, preparando scenari di guerra per il continente che si era dato istituzioni politiche per costruire, invece, un progetto di pace. “La Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se la risposta della Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno necessario per fermare la Russia, saremo i prossimi” scrive Michel, attribuendo al regime di Putin – come da manuale di propaganda bellica – l’intenzionalità autodistruttiva di attaccare paesi Nato, dai quali ormai è circondato.

Ma spiegando subito dopo il vero significato di quelle parole: “Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare ad una ‘economia di guerra’”, come se le spese militari dei Paesi Ue aderenti alla Nato non arrivassero già complessivamente a 346 miliardi di euro (dato Enaat aggiornato al 2022), aumentata del 30% in otto anni e già quattro volte maggiore della spesa militare della Russia.

Ciò perché “dobbiamo essere in grado di parlare non solo la lingua della diplomazia, ma anche quella del potere”, aggiunge Michel, senza spiegare quando l’Unione europea abbia messo in campo una proposta diplomatica: quando ha convocato, in quanto organizzazione terza, un tavolo di negoziati? Quando ha avviato una Conferenza internazionale di pace, come chiede inascoltata da due anni la rete Europe for Peace?

L’unica lingua praticata fin dall’inizio è stata quella dell’invio al governo ucraino di armi sempre più distruttive, partecipando attivamente alla dinamica dell’escalation, fino alla “vittoria” – come ribadito dal Consiglio europeo – anziché a quella della de-escalation. Mentre la lingua del “potere” militare, ovvero dell’industria bellica europea e mondiale, ha già visto schizzare in alto i suoi profitti, come certificato dal Sipri: quella italiana, per esempio, ha raggiunto +86% dall’inizio della guerra.

Per rendere definitivo questo passaggio da un’Europa di pace ad una di guerra è necessario, esplicita Michel, mettere in campo una torsione culturale e valoriale: “Sarà necessario che il nostro pensiero compia una transizione radicale e irreversibile verso una forma mentis incentrata sulla sicurezza strategica”. In che cosa si concretizzi questa dichiarazione di ideologia bellicista è ribadito poche righe più avanti: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti dall’industria [bellica] europea”. Che, tradotto, significa tagliare drasticamente gli investimenti per la “sicurezza” sociale dei cittadini europei, trasferirli all’industria di guerra e – contemporaneamente – convincere tutti che la “sicurezza” non la forniscano più sanità, welfare, scuola e università, ma cannoni, carriarmati, navi da guerra e testate nucleari.

Nelle conclusioni di questo manifesto infarcito di “maiuscole”, Charles Michel fornisce la chiave interpretativa dell’intero messaggio: “Questa battaglia richiede una leadership forte per mobilitare i nostri cittadini, le nostre imprese e i nostri governi a favore di un nuovo spirito di sicurezza e di difesa in tutto il continente europeo”. E’ una chiamata alla mobilitazione generale, che si fonda sul principio con il quale chiude: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”.

Ancora l’obsoleta formula che dimostra come ai vertici delle istituzioni europee sia insediata una sacca di “pensiero” irrazionale e magico, che abusa della credulità popolare a beneficio dell’esplosione dei profitti del complesso militare-industriale: i governi nel loro insieme non hanno mai speso così tanto per “preparare la guerra” e infatti, inevitabilmente, la guerra dilaga ovunque. Perfino, di nuovo, in Europa.

Il proclama di guerra, sul quale hanno lavorato i capi di governo e di stato nella riunione del Consiglio europeo, prepara davvero una “transizione radicale e irreversibile”: il passaggio alla guerra nucleare. Mentre è necessario andare esattamente nella direzione opposta, passare dal pensiero magico a quello razionale e responsabile, indicato da tempo dai movimenti nonviolenti: se vuoi la pace, prepara la pace.

Intanto, nella sera del secondo giorno di Consiglio europeo “di guerra”, un attentato terroristico in un teatro di Mosca, rivendicato dall’Isis, ha provocato 137 morti innocenti: i pezzi della terza guerra mondiale in corso si saldano sempre più pericolosamente.


Da Il Fatto Quotidiano

da Il Manifesto – A 6 anni e 10 giorni dall’omicidio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes (avvenuto il 14 marzo 2018), si sono aperte finalmente, domenica, le porte del carcere per i mandanti del crimine: Domingos Brazão, attuale consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio, suo fratello Chiquinho, deputato federale del partito di centrodestra União Brasil e l’ex capo della polizia civile locale Rivaldo Barbosa.
«Una vittoria dello stato contro il crimine organizzato», ha esultato il ministro della Giustizia Ricardo Lewandowski. E anche «un grande giorno» per le famiglie delle due vittime: dopo «2.202 giorni di attesa», la verità «inizia a essere svelata», hanno scritto in una nota le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus, dicendosi sorprese per il coinvolgimento di Rivaldo Barbosa, che le aveva ricevute dopo l’assassinio assicurando che la soluzione del caso sarebbe stata per lui una questione d’onore. Il suo ruolo indica, evidenziano, «la portata dell’abisso che viviamo a Rio de Janeiro, con istituzioni ampiamente coinvolte nelle trame più sordide del crimine».

Era stato proprio Barbosa, tra l’altro, a suggerire ai suoi complici di tenersi alla larga dalla Camera municipale di Rio, perché, se l’omicidio avesse evidenziato un movente politico, il caso sarebbe stato trasferito alla Polizia federale – come poi avvenuto solo con l’avvento del governo Lula – e lui non avrebbe potuto più fare nulla.

A risultare cruciale per le indagini è stato l’accordo di collaborazione con la giustizia firmato dall’ex poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come autore materiale del crimine (insieme a un altro poliziotto, Élcio Queiroz): secondo la sua testimonianza, già nel settembre del 2017 i fratelli Brazão avrebbero deciso di eliminare Marielle perché di ostacolo all’espansione territoriale e immobiliare delle milizie di Rio de Janeiro.

È noto come Chiquinho Brazão avesse reagito in maniera scomposta di fronte al voto contrario di Marielle a un progetto sull’occupazione del suolo presentato alla Camera municipale di Rio, benché in questa battaglia la consigliera del Psol non avesse, in realtà, giocato un ruolo significativo. Tant’è che la stessa polizia federale ipotizza che potrebbero esserci state altre motivazioni per l’omicidio.

Contento per gli arresti dei mandanti è apparso anche Flávio Bolsonaro, che non aspettava altro per denunciare i tentativi di vincolare la sua famiglia all’omicidio: è ovvio, ha detto, che «Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine».

Con l’ambiente che lo ha prodotto, quello delle milizie di Rio, di relazioni però il clan ne ha eccome. Non è un caso che le indagini siano rimaste ferme per 5 anni, in mezzo ad assassini di testimoni, distruzione di prove, sabotaggi e rimozioni di funzionari. Laerte Silva de Lima, un agente infiltrato nelle file del Psol per raccogliere informazioni utili (poi arrestato nel 2020), era un membro di spicco dell’Escritório do Crime guidato da Adriano da Nóbrega, a cui Flávio aveva concesso la Medaglia Tiradentes, il massimo riconoscimento dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, e di cui aveva assunto la madre e l’ex moglie nel suo gabinetto di deputato statale.

C’è inoltre la testimonianza, poi ritrattata, di Alberto Jorge Mateus, il portiere del condominio Vivendas da Barra dove Bolsonaro viveva a Rio de Janeiro e dove abitava, al n. 66, lo stesso Ronnie Lessa, da cui Élcio Queiroz si era recato quello stesso 14 marzo. Nella sua prima deposizione, il portiere aveva riferito che, poche ore prima dell’assassinio di Marielle, Queiroz gli aveva detto che stava andando a casa di Bolsonaro, allora deputato, al n. 58, come sarebbe risultato anche dal registro delle visite. Ed è proprio da quell’appartamento che un uomo identificatosi all’interfono come il “signor Jair” aveva autorizzato il suo ingresso nel condominio. L’ex presidente aveva però respinto le accuse, sostenendo che quel giorno si trovava in Brasilia per una sessione alla Camera dei Deputati.

Assai significative anche le voci di una relazione tra il suo figlio minore Jair Renan e la figlia di Ronnie Lessa, benché quest’ultima all’epoca vivesse negli Stati uniti. Una relazione quanto mai opportuna, potendo offrire una spiegazione plausibile allo scambio di telefonate, emerso dalle indagini, tra la casa di Bolsonaro e quella di Lessa.

Fa discutere anche il ruolo del generale Braga Netto, all’epoca incaricato dal presidente Temer di assumere il controllo della sicurezza pubblica a Rio per poi essere nominato da Bolsonaro ministro della Difesa: è stato lui, dietro indicazione del generale Richard Nunes, a nominare Rivaldo Barbosa, una settimana prima del crimine, a capo della polizia civile di Rio, malgrado il sottosegretario dell’intelligence Fábio Galvão avesse messo in guardia sui vincoli di Barbosa con le milizie (ed era stato per questo rimosso da Braga Netto cinque mesi dopo).

Se, insomma, il direttore generale della polizia federale Andrei Passos ha annunciato domenica la conclusione dell’attuale fase delle indagini, sono in tanti in Brasile, a cominciare dalla famiglia di Marielle, a ritenere che il caso non si chiuda qui.


Da OIVD.it

Ai giorni nostri molte ragazze sostengono il sex work, considerando la prostituzione un lavoro come un altro, alcune anche convinte che il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo sia il fondamento della libertà di poterlo mettere in vendita. Proseguendo nel solco del ciclo “quale libertà?”, dopo aver indagato con la filosofa Valentina Pazé le nuove forme di sfruttamento giustificate nel nome della libertà, in epoca neoliberista, nel laboratorio sulla prostituzione e pornografia dell’OIVD (Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne) ci siamo interrogate su quali siano i dispositivi mediatici e simbolici messi in campo dal mercato per far leva sulle nostre coscienze facendo passare l’idea che vendere il proprio corpo sia non solo possibile, normale, ma addirittura appetibile e in un certo senso liberante.

La tavola rotonda organizzata su zoom il 13 dicembre 2023 Dall’oggettivazione dei corpi allo sfruttamento sessuale ha preso il titolo dalla tesi di laurea in psicologia clinica di Maria Laura Cinquegrana, una delle nostre giovani ospiti, che sta per pubblicare il suo testo rivisto e ampliato, con la casa editrice Erickson.

Lo sfruttamento sessuale, secondo l’autrice, discende da un problema socioculturale: l’oggettivazione sessuale sperimentata dalle donne in età sempre più precoce, attraverso molestie nei luoghi pubblici, come il cosiddetto “catcalling”, oppure attraverso l’esposizione passiva ai media che ripropongono continuamente l’immagine artefatta di corpi femminili ridotti a mero oggetto decorativo. Ci sarebbe quindi proprio l’oggettivazione sessuale alla base della cosiddetta “cultura dello stupro”, la quale rende possibile e legittima la disumanizzazione e l’uso del corpo di un’altra persona come fosse un oggetto sessuale.

In sintesi, ha argomentato Cinquegrana, non solo esiste una correlazione tra oggettivazione sessuale e violenza sessuale, ma l’oggettivazione è di per sé una forma di violenza psicologica e simbolica che ha delle ripercussioni sulla salute mentale di donne e minori. Per arginare la violenza e lo sfruttamento sessuale c’è bisogno prima di tutto di un cambiamento culturale.

Femminismo in vendita

Il tema dell’oggettivazione dei corpi è stato affrontato in apertura anche da Daniela Santoro del collettivo femminista Le Compromesse attraverso l’osservazione critica del rapporto che hanno sviluppato le sue coetanee con i social. Si tratta delle cosiddette “femministe della quarta ondata” che viaggiando su Internet, tra i blog, Instagram, conoscendosi in gruppi Facebook e vedendosi su Meet, hanno creato reti più ampie di donne di diversi contesti sociali e di diverse parti del mondo ma, allo stesso tempo, hanno sottratto il corpo alle relazioni tra donne. Questo però è un nodo rilevante, ci ha spiegato Daniela Santoro, perché quando parliamo di femminismo, non possiamo prescindere dal corpo se non a costo di rendere più labili alcune tematiche centrali che concernono il corpo delle donne. Inoltre si insinua un’altra insidia sul web: la mercificazione dello stesso femminismo che sui social diventa un business. Si è visto con le influencer che fanno del femminismo un modo per vendere gadget, libri, foto dando al mercato liberista la possibilità di appropriarsi delle tematiche femministe. L’incorporeità di internet ha permeato i contenuti del femminismo e la libertà è diventata un concetto individuale più che un concetto sociale. Non a caso proprio il capitalismo ci parla di libera scelta, siamo tutte/i liberi di fare tutto, ma parlando solo dell’individuo non riusciamo a mettere a fuoco realmente quello che è il problema sociale e simbolico della mercificazione dei corpi delle donne.

“Siamo sicure di essere veramente libere di scegliere in una società che ti impone, anche solo per arrivare a fine mese e dover mettere un pezzo di pane in bocca a tuo figlio, di vendere il tuo corpo? E soprattutto in una società in cui OnlyFans fa le pubblicità tutti i giorni ed è diventato ormai uno schema piramidale in cui le stesse persone che sono iscritte alla piattaforma guadagnano se ti iscrivi alle piattaforme usando il loro link, siamo veramente liberi di scegliere?”

Fiere di esistere per gli altri

Cecilia Alagna, la terza ospite della nostra tavola rotonda, ha un suo blog “Myrina’s eyes” e una sua pagina Instagram, pratica da tre anni l’autocoscienza e la scrittura autocoscienziale con il gruppo Le Ammoniti, fa parte del collettivo Lune e Lame, un luogo politico abitato da femministe lesbiche e bisessuali. Andando a monte del problema, secondo lei, non è mai possibile disgiungere la libera scelta dalla libera condizione. Come si è arrivati a rendere l’esposizione di sé così necessaria da dipendere in forma quasi maniacale dall’essere sui social? Un esserci che spesso non è veicolo di pensiero bensì dell’immagine di sé. La messaggistica istantanea e i social hanno esposto le giovani donne a una progressiva accettazione del principio della perenne disponibilità, 24 ore su 24, in cui porti quel mondo dentro casa e diventa il mondo. Ma si tratta di un non tempo e un non luogo dove non si dematerializzano solo i corpi bensì entra in gioco la dematerializzazione totale delle relazioni. Il compenso si può ottenere in termini di follower, naturalmente con una esposizione del corpo completamente coerente con il desiderio maschile. Secondo Alagna, OnlyFans ha fatto semplicemente il passaggio successivo, cioè se già su Instagram era possibile trasformare in follower la ricompensa si è passati a trasformare i follower in denaro. Si tratta quindi di una libertà completamente asservita a questa totale disponibilità.

Oggi non si potrebbero dominare le donne, quantomeno nel contesto europeo, con il mantra della maternità come destino e il famoso binomio santa-puttana in realtà non è più un binomio ma ha creato una sorta di mostruosa sintesi fra le due cose. Uno dei motti molto amato da una parte del femminismo che si definisce transfemminismo è “fiera di essere puttana”.

Le ragazze, in un’età in cui non hanno ancora avuto il tempo e il modo di indagare il loro desiderio, vengono invitate a essere delle puttane. Perché questo si realizzi è un’ottima palestra l’accesso, sempre più precoce, ai contenuti pornografici attraverso i quali passa un discorso su come deve essere la sessualità. In questo modo si normalizza, viene creata letteralmente una norma che si fonda sul principio: sei una puttana, devi essere fiera di esserlo anche se quello che farai non coincide con il tuo desiderio. In un certo senso le giovani donne oggi sono in una condizione persino peggiore delle donne che le hanno precedute, perché connesse 24 ore su 24, in una perenne vetrina, sempre in mostra per gli altri, sempre e totalmente alienate da se stesse.

Per Alagna e per le donne del collettivo Lune e Lame è sempre più urgente scalfire questa idea di libera scelta fortemente capitalistica e ritornare a un concetto di autodeterminazione che si radichi nella libertà collettiva delle donne, scardinata dall’economia neoliberista del denaro e della mercificazione di ogni cosa, anche dei corpi.

Ripartire dal corpo

Ripartire dal corpo, tornando sul primo terreno di scontro con il patriarcato da cui è partito tutto il cammino di libertà femminile è ciò che possiamo e dobbiamo condividere, a livello intergenerazionale, con le giovani femministe della quarta ondata.

Il corpo delle donne è sempre stato il principale oggetto di controllo da parte del patriarcato, la posta in gioco più alta del contratto sessuale, che regola il dominio degli uomini sui corpi delle donne nella sfera privata escludendole da quella pubblica (Carole Pateman, Il contratto sessuale). I valori normativi del patriarcato oggi non fanno più presa sulle menti di molte giovani donne attive, assertive, istruite, progettuali, determinate, competenti, figlie amate e sostenute dalle loro madri, direi indomabili. Per questo l’esigenza maschile di dominio sulle nostre menti e sui nostri corpi si fa ancora più pressante. Nel nostro tempo si giocano due partite fondamentali e interconnesse, quella del controllo, attraverso strategie di contrattacco al femminismo e alla libertà simbolica delle donne, e quella del libero mercato che non vuole lasciare la presa sui nostri corpi attraverso i quali fa enormi profitti.

Siamo profondamente d’accordo con le nostre giovani amiche nel dire che è fondamentale uscire dalle gabbie del neoliberismo e tornare a un concetto di libertà e autodeterminazione collettiva. Le donne delle nuove generazioni hanno un grande lavoro da fare ma possono contare su una ricca e viva eredità e sul desiderio, che nutrono le donne di ogni generazione, di costruire insieme spazi di libertà mantenendo e creando sempre più luoghi per curarci, nutrirci a vicenda, per comunicare tra noi restando radicate nel desiderio femminile.

Da Internazionale – È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina. Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.

Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento. Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo. Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”. Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa.

Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso. Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile? Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalismo e sulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo. In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente. Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”. Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.

Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, so-prattutto se palestinesi, arabi o musulmani. Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista. Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascosto portava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt. Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti. All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?

Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani. Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio. È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo. Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo. Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.

All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer. Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani. Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro di noi ci ha toccato molto di più. La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.

In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller), stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo. Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca. È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo. Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.

Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi. E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo. E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti. Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo. Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.

Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington. Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in questo istante”.


Da lucysullacultura.com

Una lezione sul momento che viviamo, con guerre, questione demografica e questione climatica. La filosofa femminista analizza la maternità come esperienza conoscitiva partendo dal pensiero di autrici come Elena Ferrante, Annie Ernaux, Simone De Beauvoir, Maria Zambrano e Clarice Lispector.

Da Il Manifesto – Storica portavoce palestinese, esponente di punta della società civile nei Territori occupati e docente universitaria, Hanan Ashrawi non ha smesso un giorno nei passati cinque mesi di invocare la fine dell’offensiva israeliana a Gaza e la realizzazione dei diritti del suo popolo negati da Israele e dai suoi alleati. L’abbiamo intervistata sugli ultimi sviluppi.

Il governo Netanyahu non sembra avere intenzione di fermare il suo attacco a Gaza.

È così. Non riesco a immaginare altro che la continuazione di bombardamenti e raid israeliani che stanno radendo al suolo Gaza e uccidendo e portando alla fame la sua intera popolazione. Tutto ciò potrebbe terminare solo se gli alleati di Israele, Stati uniti ed Europa, decidessero di far fermare il genocidio in atto. Washington a parole si spende per gli aiuti alla popolazione mentre fornisce a Israele munizioni, bombe, per continuare distruzione e massacri.

Quali gli aspetti più contesta della politica occidentale nei riguardi di Israele e Gaza?

Siamo scioccati. Siamo rimasti senza parole di fronte alla rapidità con cui gli Usa hanno accettato certe menzogne israeliane. E dalla velocità con cui gli europei si sono allineati alle posizioni americane. Dopo il 7 ottobre i leader dell’Ue si sono precipitati a dare il via libera a qualsiasi mossa (del governo Netanyahu) contro Gaza, anche la più brutale. Non si sono posti il problema di verificare certe affermazioni, hanno accettato tutto ciò che Israele ha detto e fatto contro i palestinesi. Usa, Gran Bretagna e vari paesi europei hanno inviato forze militari in Medio Oriente a protezione di Israele, assieme ad armi e munizioni. Sono stati complici nella distruzione di Gaza. Poi, quando la loro gente, le loro società civili hanno protestato nelle strade contro gli orrori a Gaza, per convenienza hanno mutato il tono delle loro dichiarazioni. Ma non cambiano politica.

Aiuti umanitari che peraltro arrivano solo in minima parte ai palestinesi di Gaza.

I paesi occidentali dovrebbero imporre a Israele l’apertura dei valichi terrestri e la distribuzione senza limite di cibo e generi di prima necessità alla popolazione. Invece non vanno oltre qualche proclama. Cosa vogliono, che la popolazione scampata alle bombe muoia di fame? Ripetono che Israele non deve invadere Rafah mentre l’attacco a quella città è già cominciato. Penso che la mentalità colonizzatrice non permetta ai paesi occidentali di avere un approccio serio e razionale verso Israele.

L’amministrazione Biden afferma l’appoggio alla creazione di uno Stato palestinese. È una svolta o sono solo parole?

Sono parole. Biden ha capito di essere andato troppo in là nel sostegno al genocidio a Gaza. Ha visto che i sondaggi (per le presidenziali di fine anno, ndr) lo danno sfavorito tra i cittadini americani, in alcuni Stati importanti che si oppongono al sostegno di Israele. Così ha moderato la sua linea e propone la creazione di uno Stato palestinese. Ma di concreto c’è solo il sostegno che Biden garantisce a Israele. I palestinesi non sono stupidi. A Biden dico: non venderci solo parole, ferma l’invio di bombe e armi a Israele.

Ci sono stati negli ultimi giorni movimenti nell’arena politica palestinese. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha nominato premier incaricato l’economista Mohammed Mustafa, un suo fedelissimo, scatenando l’ira di Hamas che parla di una mossa unilaterale contro l’unità nazionale palestinese. Cosa ne pensa?

Penso che mai come in questo momento abbiamo bisogno di unità nazionale e di un processo decisionale democratico e inclusivo. Sostituire un premier ubbidiente con un altro premier ubbidiente non cambia nulla. Piuttosto è necessario coinvolgere tutti, non solo partiti e movimenti politici, ma anche le espressioni della società civile. Siamo chiamati tutti a recuperare la fiducia della popolazione nel nostro sistema politico. I palestinesi non hanno più alcuna fiducia nel governo, nel presidente, nelle istituzioni, vanno attuati cambiamenti reali. Abu Mazen in pratica segnala di voler realizzare le riforme nell’Anp chieste da Washington, a cominciare da un governo di tecnici. Ma non è quello che si aspettano tutti i palestinesi, l’unità nazionale.

Le fratture politiche avranno riflessi nel futuro di Gaza?

L’unità nazionale palestinese è fondamentale. Ora però la priorità assoluta è la fine dei massacri israeliani a Gaza, dei bombardamenti e delle distruzioni e cibo per la nostra gente. Il cambiamento deve avvenire prima di tutto nell’atteggiamento dei paesi occidentali e in Israele dove un governo fascista tiene prigioniero il mondo intero.

Da Avvenire – Novecento giorni senza scuola. Il 20 marzo le porte delle aule si sono riaperte per i bambini, le bambine e per i ragazzi. Non per le ragazze, escluse dalle aule per il terzo anno consecutivo. Triste inizio dell’anno solare afghano, per loro, nel Paese più triste del mondo, come ha decretato proprio mercoledì, nella Giornata internazionale della felicità, il Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford. Il bando all’istruzione femminile dopo i 12 anni, unico caso al mondo, è stato tra i primi decisi dall’Emirato islamico dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto del 2021. Poi è stato uno stillicidio di oltre 50 decreti – nessuno dei quali ritirato – che uno dopo l’altro hanno picconato la libertà e la dignità delle donne: vietato frequentare i corsi universitari, vietato praticare sport, vietato entrare in bagni pubblici, musei, palestre, parchi o saloni di bellezza, vietato lavorare fuori casa e per le organizzazioni non governative straniere, vietato viaggiare se non con un parente stretto, vietato mostrarsi in pubblico senza il burqa… Il risultato è un apartheid di genere senza precedenti, che genera nelle ragazze ansia e frustrazione, senso di ingiustizia e depressione. Se le più piccole hanno ancora una speranza, seppur lieve, di potere in futuro tornare in classe, le più grandi vedono sfuggire, anno dopo anno, ogni prospettiva non solo di emancipazione e di indipendenza, ma di crescita. Gli osservatori assistono impotenti a un aumento di suicidi giovanili, di matrimoni e di parti precoci. Si tratta di un dramma che colpisce un’intera generazione, ma anche di una grave ipoteca sul futuro del Paese, privato non solo oggi ma per i decenni a venire di metà delle sue risorse intellettuali e professionali. Se il bando all’istruzione secondaria e universitaria femminile durerà ancora a lungo, si creerà un fossato difficilmente recuperabile, se non con il rapido ritorno in patria degli esuli, appartenenti all’ex élite afghana istruita e produttiva del Paese nel ventennio dell’occupazione occidentale.

«L’istruzione è essenziale per la pace e la prosperità» si limita a scrivere su X la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), invitando il governo taleban a porre fine a «questo divieto ingiustificabile e dannoso». Da due anni e mezzo gli organismi internazionali e le diplomazie occidentali – che non riconoscono l’Emirato islamico ­- sono impegnati ad aprire spiragli di dialogo con i taleban, più recettivi su altri punti (ad esempio la cooperazione umanitaria: si calcola che il 50% della popolazione viva una condizione di estrema povertà e decine di ong operano sul territorio), ma completamente sordo su questo. Uno scenario che i taleban stanno profilando è quello di allestire nuove scuole coraniche per le ragazze, sul modello delle madrasse in cui generazioni di giovani maschi sono stati educati a una visione estremista e distorta dell’islam. L’Onu ha documentato l’esistenza di 7.000 madrasse, di cui 400 femminili, dove la frequenza è senza limitazioni di età; nel 2023 i taleban hanno lanciato una campagna di reclutamento per 100mila nuovi insegnanti. Si tratta evidentemente di un’arma a doppio taglio: da una parte le ragazze hanno la prospettiva di uscire di casa e spezzare l’isolamento, dall’altra c’è il rischio concreto di una ulteriore radicalizzazione a lungo termine del Paese. Un altro triste scenario nel Paese più triste del mondo, dove per le femmine la campanella non suona più.

Le parole pronunciate da Papa Francesco al Convegno internazionale “Uomo-donna immagine di Dio”1 mi hanno fatto immediatamente pensare alla bella immagine con cui Giordana Masotto conclude il suo articolo sul libro di Libera Mazzoleni, Brothels, che racconta l’orrore dei bordelli e che l’autrice dedica «alle donne ferite e uccise dalla violenza del patriarcato e a tutte le donne che rifiutano lo status di vittima».

Scrive Masotto: «Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere».2

Il Papa, dopo aver messo in guardia dall’ideologia del gender che definisce il pericolo più brutto, dice che cancellarela differenza è cancellare l’umanità e che uomo e donna stanno in una feconda “tensione”.

Non so cosa intenda esattamente per feconda tensione ma, anche per il mio immaginario di donna laica, è un’immagine forte.

Cosa hanno in comune le parole del Papa con quelle di Masotto/Mazzoleni?

Entrambe condannano la cancellazione delle donne operata, nelle diverse epoche storiche e in modi diversi, dalla cultura maschile e prefigurano uno scenario con uomini e donne finalmente in relazione come soggetti parlanti nella loro differenza.   

Oggi, con la fine del patriarcato, le forme di cancellazione delle donne sono più difficili da smascherare, perché più complesse: mi riferisco all’emancipazione e alla questione del gender.

L’emancipazione: l’avvento della libertà femminile mette al centro della politica il ripensamento del contratto sociale ma l’opinione pubblica, in maggioranza, registra come libertà femminile quella che è solo emancipazione: plaude ogni volta che una donna arriva a traguardi fino ad allora solo maschili e si batte il petto per le percentuali troppo basse di donne presenti nelle tradizionali roccaforti degli uomini, non considerando che l’inclusione paritaria delle donne nell’organizzazione sociale modellata su bisogni e desideri maschili non produce nulla che gli uomini non abbiano già fatto e/o pensato.

Il gender: l’uso del termine “genere” mostra la possibilità di non individuare più gli essere umani a partire da quella unità imprescindibile di natura e linguaggio, di biologico e simbolicoassieme che chiamiamo sesso, potendosi viceversa definire in base alla loro “percezione” psico-sociale. Così, se la differenza sessuale pensata dalla cultura maschile patriarcale ha storicamente prodotto la discriminazione delle donne, oggi, per porre riparo a quella e ad altre ingiustizie, c’è chi propone di prescindere completamente dal sesso come prima definito intendendo che solo in questo modo si eliminerebbero le discriminazioni. Ovviamente ci si deve porre il problema, essendo in aumento il numero di ragazze/i che si dichiarano gender fluid e casi, soprattutto di ragazze, che intraprendono il percorso di transizione. Infatti, nonostante buona parte della scienza medica sia giunta a conclusione che la disforia di genere in gran parte dei casi si risolverebbe da sola alla fine dell’adolescenza e nonostante le ormai numerose testimonianze di ragazze detrans che denunciano l’orribile e inutile calvario affrontato perché non seguite, a suo tempo, da buone terapie psicologiche, l’ideologia gender ha ancora moltissima presa.

Ma qualcosa ci dicono. E cioè che è ancora molto faticoso essere donna nella nostra società. Sono d’accordo con Silvia Motta quando scrive che la gran parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne 3(4). Probabilmente la stessa cosa accade alle ragazze che pensano di essere nate in un corpo sbagliato e quindi “desiderano” essere dell’altro sesso: le ragazze, più che essere maschi, è probabile che non vogliano affrontare le difficoltà dell’essere donna e/o la loro omosessualità. Forse lo stesso vale anche per i maschi che sempre più si discostano dai modelli di “mascolinità tossica” e si confrontano con il pensiero nato da pratiche di donne.

La libertà femminile permette a donne e a uomini di pensare la differenza sessuale non come contenitore di identità, ma come un processo in divenire, dove si costruisce un senso nuovo dell’essere donna e dell’essere uomo.

Quindi:«che cosa c’è di disumano oggi che consideriamo normale?»

Il Papa dice che cancellare la differenza significa cancellare l’umanità. Io penso che cancellare la differenza tolga a uomini e donne la possibilità di andare ad attingere al proprio sentire più profondo radicato nella differenza sessuale: gli stereotipi di genere sono una gabbia per entrambi i sessi, anche se probabilmente le donne ne patiscono maggiormente le conseguenze. Ma solo la ricerca del significato e del senso che vogliamo attribuire al nostro sesso può aprire a tutti e a tutte un’esistenza veramente libera, anche a chi non si identifica in un sesso o in un genere.

  1. Monito lanciato da papa Francesco durante l’udienza con i partecipanti al Convegno internazionale «Uomo-donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni» promosso dal Centro di ricerca e antropologia delle vocazioni (Crav) e che si tiene in Vaticano nell’Aula del Sinodo, in Avvenire, 1° marzo 2024. ↩︎
  2. Giordana Masotto, Arte e/è politica, Libreria delle donne, 29 febbraio 2024. ↩︎
  3. Silvia Motta, Tre parole che si confondono: parità, uguaglianza, libertà. Considerazioni minime su temi grandi, Libreria delle donne, 17 febbraio 2024 ↩︎

L’una è ribelle dalla nascita: sostiene di aver compiuto il primo gesto di disobbedienza civile a cinque anni. L’altra non avrebbe mai pensato di diventare un’attivista.

L’una è cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, ha un passato nelle pubbliche relazioni e un’ironia dirompente. L’altra ha studiato economia, alle parole preferisce i numeri e ha un carattere tranquillo, quasi timido.

L’una ha settantasette anni e l’altra ne ha quarantasei.

Sulla carta queste due donne non potrebbero essere più diverse. Soprattutto perché l’una – Robi Damelin – è israeliana, l’altra – Layla al-Sheikh – è palestinese.

Ciò che le accomuna, però, è più forte di quanto le divide. Primo, a entrambe la guerra ha strappato un figlio. David, secondogenito ventottenne di Robi, è stato vittima di un attentato mentre era in servizio come riservista nella zona di Hebron, il 3 marzo 2002, nel pieno della Seconda Intifada. Poco più di un mese dopo, l’11 aprile, Qusay, figlio di Layla di appena otto mesi, ha avuto un’infezione respiratoria dopo aver inalato gas lacrimogeni scagliati durante un’incursione israeliana. I genitori hanno cercato di portarlo in ospedale, situato ad appena venti minuti di distanza. Ci hanno messo quattro ore a causa dei militari che volontariamente li hanno trattenuti ai checkpoint. Troppi per Qusay che si è spento quarantott’ore dopo.

Il secondo punto di unione è che Robi e Layla hanno deciso di trasformare il dolore in motore per costruire pace in una terra dilaniata da settantacinque anni di conflitto. Nemmeno il 7 ottobre ha fatto cambiare loro idea. Anzi, da allora hanno intensificato ulteriormente l’impegno in Parents circle. L’organizzazione, dal 1998, fa incontrare persone di entrambe le parti che hanno perso un familiare e attraverso l’empatia, promuove il dialogo. Spesso Robi e Layla sono chiamate a dare la propria testimonianza insieme. Da anni fanno coppia quasi fissa. Stavolta, all’incontro promosso dall’Alta scuola Federico Stella sulla giustizia penale dell’Università Cattolica di Milano, però, Robi è venuta da Tel Aviv da sola. Problemi con il passaporto da parte delle autorità israeliane hanno costretto Layla a restare a Battir, villaggio del governatorato di Betlemme dove risiede: è, comunque, riuscita ad essere presente attraverso lo schermo del pc.


Dunque, a dispetto di tutto, continuate a credere nella pace…

Layla: Sennò non sarei qui.

Robi: Altrimenti sarei rimasta a casa a fare la maglia e a giocare con il mio gatto.

Robi, che cosa è accaduto quando avevi cinque anni?

All’epoca vivevo in Sudafrica e adoravo gli animali. Ogni mattina, vedevo l’un uomo che ci consegnava il latte frustare con violenza il suo cavallo per spingerlo a camminare. Quel gesto mi faceva arrabbiare. Un giorno non ce l’ho fata più e, insieme alla mia amica Barbara, abbiamo rubato e nascosto il cavallo. Quando l’ha scoperto, mio padre si è infuriato. Quando, però, ha compreso le ragioni per cui l’avevo fatto, mi ha capita. Sono sempre stata una ribelle: come figlia e come donna.

Per te Layla, invece, l’approdo all’attivismo è stato un processo più lento…

Soprattutto la scelta di impegnarmi per la pace. Quando, in Giordania, dove sono nata e cresciuta prima di sposarmi, sentivo le notizie provavo rabbia per il modo in cui gli israeliani trattavano i palestinesi. La mia indignazione è cresciuta dopo il trasferimento a Betlemme. Poi Qusay è morto ed è cambiato tutto.

Da subito?

No, al contrario. Per anni ho provato solo una furia incontenibile. Ho perso la fede in Dio, litigavo ogni giorno con mio marito. Davo la colpa a lui per quanto era accaduto, agli israeliani, a me stessa. Ci ho messo tanto per comprendere che quella tragedia era accaduta per una ragione anche se non sapevo quale. L’ho capito quando ho incontrato i Parents circle. Era il settembre del 2016. Sono andata a una loro conferenza a Betlemme grazie all’insistenza di un’amica. In realtà, ho accettato solo per farla smettere, ma non ero per niente convinta. Quando, però, ho sentito i genitori israeliani e palestinesi parlare del proprio dolore, per la prima volta dalla morte di mio figlio, ho sentito che non ero sola. Non li conoscevo, non sapevo niente di loro. Ma li sentivo vicini, inclusi gli israeliani che in teoria erano “nemici”. Non mi ero mai imbattuta in un ebreo che non fosse un soldato o un colono. Invece di fronte a me avevo madri e padri che condividevano con altri madri e padri palestinesi i propri sentimenti. Sentimenti così simili ai miei… Le loro parole mi svelavano degli aspetti della mia vita che non avevo mai considerato. In quell’istante ho capito l’assurdità di questo conflitto. E ho deciso di combatterlo. Penso che sia sufficiente un momento per cambiare un’esistenza. Il mio momento è stato quello.

Robi tu, invece, eri già impegnata per la pace da prima della morte di David.

Sono arrivata a Israele come volontaria in un kibbutz dopo la Guerra dei sei giorni. Non ho mai capito perché l’ho fatto. È stato un impulso. Dovevo restare sei mesi. E, invece, contro ogni previsione, sono rimasta. Fin dall’inizio, ho fatto attivismo per il dialogo in ambito sociale, non politico. Quando i miei figli, Eran e David, sono andati a fare il servizio militare sono rimasta sconvolta nel vederli con un fucile in mano. Perché hanno accettato la leva? Non è facile spiegarlo. C’è un senso di paura atavica radicato negli israeliani a cui corrisponde un istinto molto forte di protezione della comunità. Devi difenderla, è un dovere e una responsabilità sociale a cui non puoi sottrarti. Non so come viene inculcato ma è così. Si deve partire da questo per comprendere il comportamento attuale degli israeliani. La sconfitta inflitta da Hamas all’esercito israeliano il 7 ottobre ha messo in crisi le convinzioni esistenziali delle persone. Le ha fatte sentire indifese, le ha scosse nel profondo, le ha terrorizzate. E cosa si fa quando ci si sente umiliati e impotenti? Si attacca in modo feroce. La presenza degli ostaggi a Gaza e l’impossibilità di liberarli con la forza prolunga il senso di fallimento rendendo ancora più dura la risposta.

Robi, la morte di David l’ha spinta a un maggiore attivismo?

Dopo il militare anche David era entrato nel movimento pacifista. Quando è stato chiamato come riservista, non voleva prestare servizio nei Territori occupati. Alla fine è andato perché pensava che avrebbe potuto trattare i palestinesi in modo degno e il suo esempio avrebbe ispirato altri commilitoni. Così è morto. Quando i militari sono venuti a darmi la notizia, ho detto loro, di getto: «Non uccidete nessuno nel nome di mio figlio». Tre mesi dopo, dovevo andare a una manifestazione contro l’occupazione. I promotori mi hanno chiesto di parlare. E ho accettato subito. Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla. Delle persone di Parents circle mi hanno ascoltato e contattato. Ho cominciato a partecipare agli incontri e alla fine l’organizzazione è diventata la mia vita.

Credete che le donne abbiano una “marcia in più” nella costruzione della pace?

Layla: Credo che le donne abbiano un potere e che abbiano il dovere di utilizzarlo. Per settantacinque anni abbiamo subito le scelte degli uomini, che hanno distrutto le nostre vite. È il tempo di dire la nostra. Per questo ho scelto di impegnarmi anche in Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che lavora insieme alle donne israeliane di Women wage peace. Uno delle nostre colonne era Vivian Silver, assassinata da Hamas il 7 ottobre. Era una mia amica.

Robi: Yonatan, il figlio di Vivian, è entrato in Parents circle. L’organizzazione è stata fondata da un uomo, Yitzhak Frankenthal. Nei primi incontri le donne erano poche. Anche quando sono arrivata io era così. Le palestinesi erano ancora meno: quando c’erano, stavano fuori con i bambini. Ho capito che le cose dovevano cambiare. Così è nato il gruppo femminile che pian piano è diventato il motore dell’organizzazione.

Layla: A chiunque abbia perso qualcuno il 7 ottobre, vorrei dire: mi dispiace, mi dispiace davvero per chi ora è in lutto, sia israeliano o palestinese. Tutti, io per prima, abbiamo il dovere di fare qualcosa per fermare questa barbarie. Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso. Come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?


Da Avvenire

Abbiamo incontrato Suleiman Khatib ed Elie Avidor, attivisti di “Combatants for Peace” che dal 7 al 10 marzo saranno in Italia, ospiti di “Circonomia” per partecipare al Festival della transizione ecologica che si terrà a Fano dal 7 al 10 marzo prossimi.

Raccontateci brevemente chi siete e come introdurre il lavoro di “Combatants for Peace” (CfP).

Suleiman Khatib: Sono nato e cresciuto nell’area di Gerusalemme, mi sono avvicinato alla politica quando avevo quindici anni prendendo parte all’Intifada. Ho passato più di dieci anni in carcere, ho studiato la storia e imparato a conoscere Ghandi e Mandela, a ragionare in modo diverso sul mondo e sui conflitti e a conoscere la forza della nonviolenza che da allora ho deciso di seguire come strategia per la liberazione dei nostri popoli. CfP è un movimento binazionale in cui palestinesi e israeliani collaborano per mettere fine all’occupazione e per pace e libertà per tutti. Il nostro lavoro si incentra anche sulle nostre storie personali. CfP è stato fondato da persone che hanno combattuto, vivendo sui loro corpi queste esperienze, che sanno che la guerra e la violenza non sono né la risposta né la soluzione.

Elie Avidor: Sono cresciuto a Haifa nei primi anni dalla fondazione di Israele, quando tutto ruotava intorno al “noi contro tutti”. Entrare nell’esercito era un fatto scontato. Nella guerra dello Yom Kippur ho combattuto sulle alture del Golan. Sono stato a lungo all’estero. Una volta tornato, ho saputo della cerimonia in cui famiglie israeliane e palestinesi nel giorno della commemorazione dei soldati caduti condividono il lutto per i caduti di entrambe le parti. Lì ho ascoltato storie di dolore, capendo che tutti soffriamo e che siamo parte di questo gioco. Ora passo la maggior parte del mio tempo aiutando i pastori palestinesi a difendersi dalle vessazioni dei coloni e dell’esercito. Stando insieme a loro, ascolto la loro narrazione e gli racconto della mia, parliamo invece di combattere.

Come siete riusciti ad affrontare il 7 ottobre e quello che è successo dopo?

S.K.: Ci aspettavamo una crisi. Abbiamo fatto del nostro meglio per tenere insieme la comunità mostrando empatia per la sofferenza delle persone da entrambe le parti. In periodi come questi, le persone in risposta al trauma ritornano alle loro rispettive tribù. Non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto di continuare a parlarci. Non facciamo a gara tra chi soffre di più. Non vogliamo essere parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza. La narrazione corrente è “noi o loro”. CfP è riuscito a mantenere la sua nuova narrazione “noi e loro insieme”. Non nascondiamo i nostri sentimenti né alle nostre comunità né tra noi. Io sono palestinese, c’è anche un palestinese di Gaza, questo non chiude il nostro cuore all’empatia per le vittime israeliane. Per noi l’occupazione non legittima nuocere a civili come è successo il 7 ottobre. E le atrocità commesse da Hamas non legittimano la reazione di Israele, gli attacchi aerei e quello che sta succedendo ora.

E.A.: In questi diciassette anni le relazioni sono diventate così personali, forti e intime, da renderci resilienti. Abbiamo già vissuto guerre in passato. Questa volta è molto peggio di quanto sia mai stato. C’è anche chi trae vantaggio dalla guerra. Quello che vogliono i coloni è l’Armageddon, il giorno in riusciranno a scacciare tutti i palestinesi. Aspettavano solo il momento e ora pensano che sia arrivato. Nella settimana del 7 ottobre ho pensato che fosse ancora più importante essere presente nei territori occupati. La gente mi diceva che ero pazzo. Sedici comunità hanno subito gravi violenze e, dove siamo presenti, riusciamo a evitare che siano cacciate dal loro territorio.

Cosa pensate delle proteste in corso in Israele? Cosa succede nei territori occupati?

E.A.: Prima della guerra c’erano manifestazioni contro le riforme che il governo tentava di fare, ma senza un nesso con l’occupazione. Noi insistevamo che era necessario perché l’occupazione è la causa di tutto il male: le pratiche che il governo porta avanti in Cisgiordania, di fatto sono state trasferite in Israele. Volevano trasformaci in una dittatura. All’inizio di questa guerra nessuno manifestava. Ora le manifestazioni sono riprese, molte sono per gli ostaggi. Noi continuiamo a scendere in piazza contro l’occupazione. Ultimamente la polizia è stata estremamente violenta. Non sappiamo dove andremo a finire, ma la gente è così arrabbiata che dovrà esserci un cambiamento. Facciamo manifestazioni in Israele e anche in Cisgiordania con i nostri amici palestinesi. Per loro i rischi sono enormi. Se li riprendono, per loro è finita. Non possono più avere permessi per andare a lavorare in Israele, ne verranno colpite le loro famiglie e chissà cos’altro li aspetta. Per quanto possiamo manifestare, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno.

S.K.: C’è un sistema che controlla la terra, dal fiume al mare governa la stessa mentalità, lo stesso sistema razzista e di apartheid. Viviamo nello stesso Paese con diversi diritti. A breve termine servono ovviamente gli aiuti umanitari, ma in prospettiva dobbiamo trovare un modo di vivere gli uni con gli altri. Dobbiamo continuare a portare speranza proponendo un modello alternativo alla radicalizzazione. Le persone che sono nate e che vivono all’interno di un conflitto non riescono a uscire da quella logica. Ora da entrambe le parti la leadership non è interessata alla pace, nella loro agenda politica c’è la guerra. Ma la mia speranza è che le persone escano fuori insieme e chiedano una soluzione politica. Guarda il Sudafrica o l’Irlanda. Anche lì la gente combatteva e ora sono al governo. Senza cambiamento politico, le cose possono andare fuori controllo come vediamo ora, il pericolo di una guerra regionale è alle porte e la dobbiamo prevenire perché le generazioni a venire abbiano un futuro.


Da il manifesto

Questo appello ci arriva da un’amica, una delle persone che l’ha redatto. È stato mandato anche al Manifesto e ad altre testate.

Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.

Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia.

Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti.

Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi.

Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro.

I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.

Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare le voci critiche e allarmate di chi vive in Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.

Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni, anche personali. Per questo non vogliamo stare in silenzio, soprattutto oggi, Giorno della Memoria.

Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.

Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?

Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.

Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti.

Non siamo d’accordo con le indicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene cosa sia l’antisemitismo e ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi, soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti anche con parte della sinistra. Ma non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.

In questo momento, quando tutto è difficile, proviamo a pensare e a sentire insieme.