Da Avvenire – La “gestazione per altri” sta cambiando i suoi equilibri: la guerra in Ucraina ha fatto spostare le rotte dei commerci sulle mamme in affitto verso Tblisi. E non solo. Ma lo squallore resta uguale

In Georgia molti tirano un sospiro di sollievo: la temutissima legge che avrebbe messo al bando la Gestazione per altri (Gpa) per le coppie straniere a partire dal primo gennaio 2024 è definitivamente naufragata, seppellita sotto le pressioni delle cliniche e dei mediatori che accolgono clienti da ogni parte del mondo. Presentata a giugno 2023 dall’allora primo ministro conservatore Irakli Garibashvili (dimessosi nel gennaio scorso) come un passo necessario per fermare lo sfruttamento delle donne e il potenziale traffico di neonati, messa a punto dal Ministero della Salute e appoggiata dalla Chiesa ortodossa georgiana, la bozza di legge, che avrebbe permesso la sola Gpa altruistica ai propri cittadini, è vissuta fino alla terza lettura in Parlamento, poi non se ne è saputo più nulla. Necessita di ulteriori approfondimenti, è stato detto in via ufficiale, ma secondo altre versioni – compresa quella del quotidiano francese La Croix che al tema della Gpa in Georgia ha dedicato nei giorni scorsi un approfondito reportage – sono state le cliniche «a saper convincere il governo della manna finanziaria che maneggia questa industria».

Quindi il business continua. Le cliniche, nei loro siti, hanno provveduto a rassicurare le coppie straniere (ammessi solo gli eterosessuali, sposati o conviventi, in possesso di certificato medico di infertilità o altre patologie). Salvo poi suggerire che in caso di ripensamento del Parlamento c’è già una soluzione pronta. Sul sito di Vireo, ad esempio, si informa della possibilità di spostare le proprie attività nella vicina Armenia. Intanto si affaccia con prepotenza sul mercato dell’utero in affitto l’Albania, con i suoi prezzi ancora più convenienti. La Georgia si è affermata come destinazione per le coppie committenti dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha fatto saltare centinaia di contratti. Le tariffe sono competitive: il pacchetto completo in una delle 25 cliniche che operano in un Paese di 3,7 milioni di abitanti costa intorno ai 50mila euro, un terzo di quanto si spende negli Usa. Alle madri portatrici arrivano all’incirca 20mila euro. Tanto, per nove mesi di lavoro, se si pensa che il Pil pro capite del Paese è circa 8mila euro.

Il problema sono proprio loro, le madri: nonostante le garanzie di trasparenza e tutela sbandierate dalle cliniche, le testimonianze raccolte da alcune testate giornalistiche e anche dalla piccola Chiesa cattolica con il suo Ufficio per la vita e la famiglia parlano di donne molto povere, incapaci di mantenere sé stesse e i figli, in cerca di una possibilità per acquistare un piccolo appartamento o semplicemente sopravvivere. Il boom della domanda – nel 2022, dicono i dati, in Georgia sono nati 2.000 bambini con la Gpa – rende difficile trovare abbastanza giovani donne disposte a portare avanti una gestazione per altri. Così le agenzie si rivolgono alle vicine Repubbliche centro-asiatiche, Kazakhistan in testa. Lo status del bambino, spiegano ancora i centri per la Gpa, è molto chiaro: è figlio, fin da subito, della coppia committente, o almeno così appare sui documenti. Ma non sempre tutto fila liscio, né tutte le ambasciate sono disposte a chiudere un occhio.

Così è accaduto che una coppia italiana al suo rientro in patria si sia vista contestare, con un avviso di garanzia, la dichiarazione di nascita del neonato. Le accuse poi sono state archiviate dalla Procura di Piacenza. Una vera e propria industria, quindi, con risvolti problematici sul piano dello sfruttamento delle donne più vulnerabili. Questa è una delle motivazioni che hanno portato l’aula di Montecitorio ad approvare nel luglio 2023 la legge che descrive l’utero in affitto come reato universale, cioè contestabile a cittadini italiani dovunque sia commesso. Si attende il passaggio al Senato.

Da Avvenire – Un anno fortunato, per Fatou Baldeh: due premi prestigiosi ricevuti a Washington (International Women of Courage Award, 8 marzo) e a Ginevra (International Women’s Rights Award, 15 maggio). E lei, attivista contro le mutilazioni genitali femminili, sopravvissuta al “taglio” (così lo chiama, the cut) subìto a 8 anni, ad Avvenire dice che è orgogliosa di tanta visibilità, per sé stessa e il suo lavoro, ma soprattutto perché le ragazze del suo Paese, il Gambia, che non hanno opportunità e pensano di non poter far altro della propria vita che sposarsi molto giovani e aver molti figli, guardando lei potranno capire che sì, anche una donna può cambiare il mondo.

Un modello di ruolo, dice parlando su Whatsapp dal suo ufficio a Brusubi, località sulla costa atlantica a pochi chilometri da Banjul, la capitale di questo piccolo Paese dell’Africa occidentale, 2,5 milioni di abitanti, tutto stretto dentro il territorio del Senegal. Fatou Baldeh, appena superati i 40 anni, sorriso aperto, inglese sciolto e velocissimo, una gran massa di capelli scuri che le incorniciano il volto affilato, è la fondatrice e la presidente di Will, Women in Liberation & Leadership. «Siamo in 8, tutte “tagliate” (infibulate, ndr): giriamo per villaggi e comunità rurali a parlare con gli abitanti per spiegare che le mutilazioni non sono un bene per le donne, che provocano malattie fisiche e mentali e che tradizione e abitudini si possono cambiare».

Un lavoro difficile, in un Paese che detiene il record mondiale del 75% di ragazze e donne sottoposte a mutilazioni genitali (Fgm) nonostante dal 2015 esista una legge che le vieta. «Io stessa, quando da ragazza sono andata in Scozia per procurarmi un’istruzione, pensavo che la mia situazione fosse normale. Ho dovuto leggere e studiare molto per capire che è una tortura, deleteria per la salute fisica e psichica. Sono tornata in Gambia con l’obiettivo di aiutare il mio Paese a svilupparsi, a crescere. Nessuno può farlo per noi, dobbiamo impegnarci noi gambiani. Ma il “taglio” ha radici profonde nella nostra società, nelle credenze e nelle superstizioni, è parte della nostra identità, considerato un rito di passaggio all’età adulta e spesso sono le nonne che lo impongono alle nipoti. Talvolta mi trattano come se fossi una traditrice dei valori tradizionali, mi accusano di essermi fatta corrompere dall’ideologia occidentale. Serve tempo e soprattutto educazione».

Quando è accaduto a lei, non sapeva cosa stesse succedendo, c’erano altre 10 bambine, furono stese a terra e una donna iniziò a inciderle gli organi genitali, senza farmaci, senza antidolorifici, solo con un coltellino affilato. «Può immaginare quanto è stato traumatico», dice. Fu trattata per diversi giorni con acqua e sale e impacchi di erbe, lei non smetteva di piangere dal dolore. Quando la ferita si rimarginò, ci fu una grande cerimonia, una festa. Era diventata grande. Le mutilazioni genitali femminili sono talmente radicate in Gambia che lo scorso luglio per un soffio non è stato abrogato il divieto del 2015, rendendo nuovamente legale ciò che ancora viene praticato ma perlomeno fuorilegge.

«È stata la prima volta che ho visto le donne del mio Paese lottare per se stesse», racconta. «Per fortuna la legge non è passata e il bando alle Fgm è rimasto. Ero contenta, ma anche arrabbiata: un Parlamento di soli uomini (58 i seggi, solo 5 le donne, ndr) ha messo a repentaglio la salute e la vita delle ragazze del Gambia».

La donna a cui Fatou si ispira – racconta – è la madre, che prima si opponeva al suo lavoro e oggi è la sua prima supporter, tanto da aver salvato una nipote, la prima della famiglia a non essere stata “tagliata”. Ma non sono solo le Fgm a rendere inquieta e nello stesso tempo combattiva Fatou: la violenza di genere è così endemica in Gambia che «le donne pensano di meritarsi le botte dai mariti se escono senza il loro permesso. E purtroppo nel Paese non esistono case di accoglienza, strutture che possano salvarle. Vengono da noi, facciamo il possibile, ma non riusciamo a dare sufficiente protezione. Questo mi rende tristissima». Fatou è sposata e ha due figli maschi. E questa è la sfida della sua vita: «Crescere ragazzi che rispettino le donne e le diversità. Da qui inizia il vero cambiamento».

Da Altraeconomia – Quasi 17mila vaccini contro morbillo, parotite e rosolia, un milione di alberi piantati, 535 case convertite all’energia solare. Sono solo alcuni esempi di quanto si potrebbe ottenere se Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, India, Israele, Pakistan e Corea del Nord decidessero di destinare rispettivamente un secondo, un minuto e un’ora della loro spesa per la produzione e manutenzione delle armi nucleari a rispondere ai reali bisogni delle persone.

Li ha conteggiati la Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari (Ican) –insignita del Premio Nobel per la pace nel 2017 –, coalizione di più di seicento organizzazioni in cento Paesi, impegnata nella lotta per l’abolizione delle armi nucleari e nella promozione per la firma del Trattato per la loro proibizione (Tpnw), approvato dalle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 e attualmente ratificato da settanta nazioni, tra cui non c’è l’Italia.

Dal 16 al 22 settembre ha infatti lanciato una settimana di mobilitazione dedicata all’attivazione contro l’assurda quantità di denaro destinata alle armi nucleari con lo slogan: “No money for nuclear weapons – Niente soldi per le armi nucleari”.

I programmi sulle armi nucleari tolgono fondi pubblici all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ai soccorsi in caso di calamità e ad altri servizi vitali. Ci sono pertanto 91,4 miliardi di altri impieghi per cui questo denaro potrebbe essere investito meglio che corrispondono ai 91,4 miliardi di dollari di spesa annua –173.000 dollari al minuto o 2.898 dollari al secondo – sostenuta dai nove Paesi dotati di armi nucleari per i loro arsenali, secondo l’ultimo rapporto dell’Ican “Surge: Global Nuclear Weapons Spending 2023”.

Nello specifico sono gli Stati Uniti a spendere la quota maggiore, pari a 51,5 miliardi di dollari e superiore a quella di tutti gli altri Paesi dotati di armi nucleari messi insieme. A seguire, troviamo la Cina che ha speso 11,8 miliardi di dollari e, al terzo posto, con 8,3 miliardi di dollari, la Russia.

Dal report emerge inoltre che la spesa è aumentata del 13,4%, pari a 10,8 miliardi di dollari, rispetto all’anno precedente. La cifra è in crescita già da alcuni anni. Allo stesso tempo i dati del rapporto annuale dello Stockholm international peace research institute (Sipri) sullo stato degli armamenti del 2023, rilevano che all’inizio del 2022, il numero complessivo di testate nucleari nel mondo era in diminuzione.

“Quello che sta succedendo, e che penso sia molto grave, è che i Paesi in possesso di armi nucleari affermano che non ricorreranno mai a queste perché sono troppo pericolose, troppo distruttive –commenta Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete italiana pace e disarmo. – Eppure, guardando i numeri, i Paesi stanno investendo le loro risorse non tanto in termini quantitativi ma qualitativi, stanno cioè ammodernando i propri arsenali, le proprie testate, i propri lanciatori e questo è in contraddizione con le loro dichiarazioni.”

Secondo Vignarca campagne come quella lanciata da Ican sono quindi fondamentali non solo a livello comunicativo per accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica sulle spese nucleari, soldi pubblici di cui il settore privato ha guadagnato almeno il 30%, “ma servono anche a rendere evidente la direzione dello sviluppo strategico delle armi nucleari – osserva Vignarca. – Contrariamente a quanto viene detto, sono un pericolo reale in quanto stanno diventano sempre più centrali per le superpotenze, e questo non ci fa stare tranquilli”.

La Rete pace disarmo, in Italia uno dei partner principali di Ican, aderisce e promuove la settimana che sarà l’occasione per organizzare momenti di confronto e webinar in collaborazione con Ican stessa, pubblicare materiale di approfondimento e rilanciare i dati della campagna internazionale focalizzandosi sul nostro Paese.

Sarà importante anche ampliare la discussione e far emergere quanto il tema delle spese nucleari sia strettamente connesso con quello del coinvolgimento delle banche che finanziano il settore. “Rendere chiaro questo aspetto può contribuire a orientare le scelte dei consumatori e spingerli a fare pressione affinché gli istituti finanziari siano più trasparenti e rendano conto dei loro investimenti”, spiega Vignarca.

Con Rete pace e disarmo ci sarà anche la campagna Senzatomica. Insieme dal 2016 promuovono la mobilitazione “Italia, ripensaci” per l’adesione del nostro Paese al Trattato di proibizione delle armi nucleari.

“Questa settimana di mobilitazione ci aiuta a rilanciare un’idea che noi promuoviamo da quando siamo nati, nel 2011: il fatto che sia necessario rimettere al centro le persone e la società civile – dice Alessja Trama coordinatrice delle politiche e della ricerca di Senzatomica. – È così diffuso il senso di impotenza e rassegnazione sul tema del nucleare, alimentato anche dall’assenza di dibattito pubblico in merito, che uno dei lavori più impegnativi per noi è quello di andare a disinnescare questo sistema di convinzioni che finisce per rendere accettabile la loro esistenza.”

Senzatomica lavora quindi principalmente con i giovani, attraverso laboratori nelle scuole e una mostra itinerante, multimediale e gratuita che dal 2011 ha raggiunto 420mila persone in più di 80 città. L’obiettivo è quello di aiutarli a prendere consapevolezza affinché rivendichino un mondo senza armi nucleari e rifiutino il paradosso della sicurezza fondata su queste. Come è possibile parlare di sicurezza ricorrendo agli gli unici dispositivi mai creati in grado di distruggere tutte le forme di vita complesse sulla Terra? Second Ican, basterebbe infatti meno dello 0,1% della potenza esplosiva dell’attuale arsenale nucleare globale per provocare un devastante collasso agricolo e una carestia diffusa.

Nonostante ogni 29 agosto si celebri la Giornata internazionale delle Nazioni Unite contro i test nucleari e si ribadisca l’impatto negativo dello sviluppo di questi ordigni inumani sulle comunità che vivono nelle vicinanze dei luoghi di queste esplosioni. E nonostante il prossimo anno ricorreranno gli ottant’anni dalle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. C’è ancora bisogno di parlare di armi nucleari.

Da Il Quotidiano del Sud – Il libro “Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini” a cura della Redazione della rivista online Via Dogana 3 della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del femminismo italiano e non solo, raccoglie la maggior parte degli articoli usciti online nel 2023, frutto delle discussioni nelle redazioni aperte. Discussioni su: “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare” rivolto soprattutto agli uomini, il cui filo conduttore è la politica delle donne e l’efficacia delle sue pratiche, inventate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso. «Avere voce, parlare e parlarsi esponendosi agli scambi per una modificazione di sé e del proprio rapporto col mondo. È questa la politica delle donne» scrivono le curatrici nell’introduzione. Un parlare e un parlarsi che crea nuovo pensiero e aiuta a comprendere questo nostro presente, la cui parola giusta per dirlo è “post- patriarcato”. Tante le riflessioni e le domande che emergono dai vari interventi che, con la pubblicazione, aprono ad ulteriori scambi, «a creare incontri di discussione, gruppi di lettura […] e nuovo pensiero». Si parte dalla pratica che sta all’origine del femminismo, l’autocoscienza con cui ogni donna è autorizzata a parlare a “partire da sé”, dal proprio vissuto. Ci si chiede se, finita quella fase storica, è ancora viva. «L’autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia» e talvolta si presenta in forme diverse da quelle del passato come con il #MeToo. «Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare […] una cosa da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione: la rete». La rete è il luogo privilegiato anche dei giovani per fare politica, impegnarsi in movimenti di protesta.

«La politica sta cambiando», in crisi è la politica eredita dal patriarcato. C’è la politica delle donne e le sue pratiche – autocoscienza, partire da sé, affidamento, pratica delle relazioni – e ci si interroga sulla loro efficacia e sul perché sono ancora sconosciute e circolano poco fuori dagli ambiti femministi. Una politica orientata dall’amore: l’amore della figlia per la madre, l’amore delle donne per le loro simili, l’amore di sé e per il mondo che rende politica l’amicizia tra donne e tra donne e uomini. Politico è il movimento delle donne con i suoi luoghi: librerie, case delle donne, libere università, centri antiviolenza, volontariato, associazionismo. Politica sono le giovani femministe che scendono in piazza «unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando l’eredità delle storiche e ridando vita, da un punto di vista diverso, alle lotte condotte negli anni ’70». E gli uomini? «È ora di cambiare» dopo la svolta di consapevolezza suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla presa di parola della sorella Elena e di suo padre Gino. Uomini interrogano e si interrogano su ciò che ostacola il dissociarsi dalla violenza e il saper stare davanti alla libertà e alla grandezza femminile. Che gli uomini parlino tra loro, a partire da sé, nella disponibilità delle donne «all’ascolto e al dialogo per capire come ricostruire maschi e padri liberi dall’obbligo del dominio». “Femminismo mon amour” è un libro per donne e uomini che pone domande, fa riflettere e dà consapevolezza del contesto storico in cui viviamo.Il libro “Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini” a cura della Redazione della rivista online Via Dogana 3 della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del femminismo italiano e non solo, raccoglie la maggior parte degli articoli usciti online nel 2023, frutto delle discussioni nelle redazioni aperte. Discussioni su: “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare” rivolto soprattutto agli uomini, il cui filo conduttore è la politica delle donne e l’efficacia delle sue pratiche, inventate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso. «Avere voce, parlare e parlarsi esponendosi agli scambi per una modificazione di sé e del proprio rapporto col mondo. È questa la politica delle donne» scrivono le curatrici nell’introduzione. Un parlare e un parlarsi che crea nuovo pensiero e aiuta a comprendere questo nostro presente, la cui parola giusta per dirlo è “post- patriarcato”. Tante le riflessioni e le domande che emergono dai vari interventi che, con la pubblicazione, aprono ad ulteriori scambi, «a creare incontri di discussione, gruppi di lettura […] e nuovo pensiero». Si parte dalla pratica che sta all’origine del femminismo, l’autocoscienza con cui ogni donna è autorizzata a parlare a “partire da sé”, dal proprio vissuto. Ci si chiede se, finita quella fase storica, è ancora viva. «L’autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia» e talvolta si presenta in forme diverse da quelle del passato come con il #MeToo. «Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare […] una cosa da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione: la rete». La rete è il luogo privilegiato anche dei giovani per fare politica, impegnarsi in movimenti di protesta.

«La politica sta cambiando», in crisi è la politica eredita dal patriarcato. C’è la politica delle donne e le sue pratiche – autocoscienza, partire da sé, affidamento, pratica delle relazioni – e ci si interroga sulla loro efficacia e sul perché sono ancora sconosciute e circolano poco fuori dagli ambiti femministi. Una politica orientata dall’amore: l’amore della figlia per la madre, l’amore delle donne per le loro simili, l’amore di sé e per il mondo che rende politica l’amicizia tra donne e tra donne e uomini. Politico è il movimento delle donne con i suoi luoghi: librerie, case delle donne, libere università, centri antiviolenza, volontariato, associazionismo. Politica sono le giovani femministe che scendono in piazza «unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando l’eredità delle storiche e ridando vita, da un punto di vista diverso, alle lotte condotte negli anni ’70». E gli uomini? «È ora di cambiare» dopo la svolta di consapevolezza suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla presa di parola della sorella Elena e di suo padre Gino. Uomini interrogano e si interrogano su ciò che ostacola il dissociarsi dalla violenza e il saper stare davanti alla libertà e alla grandezza femminile. Che gli uomini parlino tra loro, a partire da sé, nella disponibilità delle donne «all’ascolto e al dialogo per capire come ricostruire maschi e padri liberi dall’obbligo del dominio». “Femminismo mon amour” è un libro per donne e uomini che pone domande, fa riflettere e dà consapevolezza del contesto storico in cui viviamo.

Da la Repubblica – Attenzione. Sembra “La Bionda, la Moglie, la Capa” e invece è House of Cards. Prendere appunti, risceneggiare, uscire dall’inerzia del remake. No, non è una commedia sexy trucida, ridicola e scadente, l’infermiera, la supplente, la preside, quella roba lì, quella che tutti capiscono di cosa si tratta e ridono e si tranquillizzano (vedi, anche il ministro) e fanno la ola, le battutacce sessiste a darsi di gomito coi doppi sensi, due giri a scopone scientifico, la pompeiana esperta, chissà che numeri avrà fatto a letto per annebbiargli la vista perché l’uomo, povera creatura, è debole, la donna è tentatrice, alzi la mano chi non si è confuso almeno una volta nella vita, dai, chi non ha deragliato e mentito per poi dire scusa amore mi sono sbagliato, la donna della mia vita sei tu. Professoressa glielo giuro, mi perdoni, non lo faccio più. D’altra parte si sa che i maschi alla guida tamponano se metti il cartellone di una bionda agli incroci, gli automobilisti hanno le reazioni delle cavie lobotomizzate, poveri cari, la soluzione per la sicurezza stradale è semplice: togliere le bionde dagli incroci e nessuno si farà più male.

Invece no. Invece è la perfetta istantanea dello stato del potere, questa pochade di fine estate. Una storia a tratti persino livida: il tramonto della democrazia rappresentativa per difetto di rappresentanza, per inconsistenza delle classi dirigenti, il potere inteso come privato privilegio, l’onnipotenza proporzionale all’incompetenza, la paura del ricatto e quindi il ricatto. Anche un po’ il ribaltamento delle parti in commedia (James Bond, la pupa: chi dei due porta a termine la missione?) e l’incrinarsi – pensa te – del detestato patriarcato. Ha fatto più la Bionda in una settimana che tanti saggi, tanti panel, tante amazzoni delle opposizioni in mesi e anni. Esagerato? Vediamolo insieme, allora, questo film.

La Bionda. Nella mirabile intervista tv di Marianna Aprile e Luca Telese sta ridente e tranquilla. Fa il suo mestiere: quello di un’imprenditrice di provincia che ha l’ambizione di fare carriera. È una colpa? Direi che è la norma. Vedete forse in questa storia altri, primari, comprimari e comparse, privi di ambizione? Vedete forse qualcuno che punti a distruggere anziché incrementare il suo patrimonio di consenso? Non mi pare.

Dice io ho votato Meloni. Certo, pensavate che avesse votato Mimmo Lucano? Dice mi dispiace che il ministro si sia dimesso, io lo stimo: bastava che dicesse la verità, mi sono solo difesa. Poi dice alcune cose di altissimo valore istituzionale. Era lui l’uomo delle istituzioni, non io. Cioè: è lui che ha giurato sulla Costituzione di servire il popolo italiano, non io. È lui che mi ha inserito nelle chat, nelle mailing list, è lui che è venuto a prendermi per portarmi ai sopralluoghi. È lui che mi ha chiamata per farmi ascoltare la moglie, al telefono, senza che lei lo sapesse. Io l’ho sempre aiutato. L’ho visto ingenuo, in difficoltà: gli ho regalato un salvaschermo da mettere sul telefono, una protezione anti-spia. Era lui che chiamava e riceveva chiamate da ministri e presidenti, non io. «Si è trovato in una situazione che non ha saputo gestire». Infine, colpo di scena per i fan del boccaccesco, della Mantide che fa pesca a strascico fra potenti fino ad abbindolarne uno (a parte il fatto che, eventualmente, se ti fai abbindolare sei tu l’allocco). Dice, la Bionda: io avevo con lui un rapporto personale, non affettivo. È lui ad aver detto che c’è stata una relazione, un «fatto privato», non io.

Ecco il dettaglio che ci porta direttamente alla scuola dell’infanzia, dove lui è convinto di essere fidanzato con lei ma lei non lo sa. Il «fatto privato» secondo lui. Lei che si limita ad accettare gli inviti: prendere il passaggio, fare il sopralluogo, andare al concerto. Pensa se non ci fosse stata sessuale ricompensa, che storia ridicola.

Sono altre le donne in questa storia, non io – dice la Bionda. Cioè dice: io non sono la donna di questa storia. Ce ne sono altre, il ministro era ricattato: da direttori di settimanali, per esempio. So che c’è una talpa al ministero. Infine: ho registrato e conservato traccia di ogni cosa perché è stato lui a dirmi «non ti crederanno». Tu sei una donna, io un uomo. Io sono il ministro, tu non sei nessuno. Che storia antica. Quindi d’ora in avanti le bionde con le extension di cui danno credito sui social sanno come fare. Barbie bondgirl, powerbarbie. Poi la domanda capitale: per quale ragione al mondo una dovrebbe lavorare gratis? Per accrescere la sua reputazione, i follower, per fare curriculum, è ovvio. Un reddito reputazionale. Ma lui? Lui cosa sperava di ottenere in cambio di quell’incarico gratuito? Che storia da terza elementare. E noi? Noi cittadini italiani, cosa potevamo ottenere?

La Moglie. Una voce fuori campo, nel film. Un’altra bionda, anche lei molto alta (sul debole degli uomini di modesta statura per le donne che li sovrastano lascio la parola agli psicoanalisti) che sobriamente non compare mai se non nelle occasioni istituzionali, tipo Venezia, si vede che ha altri problemi da risolvere ma che in privato, giustamente, gli dice non renderti ridicolo.

Anche lei lo protegge. Gli dice straccia quel contratto di consulenza, gentilmente, stupido. Cerca di stare nella decenza. Lo sappiamo, questo, perché lui la mette in viva voce con la Bionda. Che caduta di stile, che violazione dell’intimità familiare. La donna più importante della sua vita messa in viva voce con l’altra. Altra che non è, fino a prova contraria, l’amante. Lei non conferma, e sì che ne trarrebbe beneficio. Anzi, dice non sono io. Cercate altrove.

La Capa. C’è un grande vulnus nella selezione dei maschi affidabili, nel pubblico e nel privato, qui. Ma in questo la Capa ci è sorella. Chi di noi non ha creduto all’uomo sbagliato. Perché aveva un ciuffo, perché era un simpatico sbruffone che chissà come mai si stava interessando proprio a noi non così fighe, perché ci lusingava, perché ci pareva devoto. Ci siamo sbagliate, ci sbagliamo sempre. Siamo brave solo con gli uomini delle altre.

Però va detto che la Capa se ne sbarazza, alla fine, dei suoi errori. Anche qui. Prendere appunti. La Capa li mette alla porta. Tardi, sì certo, ma lo fa.

Sceneggiatori: riscrivere la trama. La Capa non ha nessuno di cui fidarsi. La Capa dovrebbe infine risolversi a scegliere i competenti, non i devoti. Piano piano. Si rende conto del pericolo del ricatto. I maschi protervi fanno scemenze guidati dal testosterone. Del resto. Quelli che dicono, nei talk, pover’uomo, irretito da una bionda che l’ha annebbiato, da una bionda opportunista: non stanno forse parlando di sé, del loro passato e presente?

E basta un po’, con questa commedia sexy permanente in cui la tentatrice di fa deragliare. Tenete saldi i pantaloni, amici. Stringete la cintura. Siete voi a deragliare. Siete voi a presumere favori sessuali in cambio, anche quando li sperate e non ci sono. La nuova sceneggiatura del film: l’esercizio del potere richiede una quota di fedeltà, di castità. Siete in grado, o siete inadatti per difetto di controllo? Le bionde vincono, altrimenti.

Le bionde, qui, hanno vinto la partita. Barbie premier. Barbie moglie. Barbie influencer. Ragazze: avete visto come si fa? D’ora in avanti: occhiali a raggi X, controllo delle mail e a voi il governo. Non date quello che vogliono: promettetelo solo. Coi cuoricini, gli emoticon.

In Tecnologia della rivoluzione Diletta Huyskes apre una riflessione sulle responsabilità sociali di chi innova. Dal forno a microonde all’AI

L’idea che la tecnologia sia una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali, è un mito radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, come dimostra Diletta Huyskes nel suo libro Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale (Il Saggiatore, 2024), questo mito è ben lontano dalla verità. La tecnologia non è mai stata neutrale e spesso amplifica le ingiustizie esistenti.

Un esempio significativo che viene raccontato nel libro è il caso di ProKid+, l’algoritmo di polizia predittiva impiegato nei Paesi Bassi nel 2015, che ha condannato preventivamente un adolescente, Omar (nome fittizio), a un futuro da criminale. Reddito basso, background migratorio e un’età inferiore ai diciotto anni, sono solo alcune delle caratteristiche utilizzate dai sistemi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di migliaia di persone ogni giorno. Il progetto, noto come Top400, inizialmente pensato come una lista di adolescenti precedentemente condannati per almeno un reato, è stato successivamente ampliato includendo anche bambini e ragazzi che, pur non avendo ancora avuto problemi legali, erano considerati dall’algoritmo a rischio di esserlo presto.

Una tecnologia a sfavore delle minoranze

Questo algoritmo, che avrebbe dovuto rappresentare un approccio innovativo alla prevenzione del crimine, non ha fatto altro che reiterare stereotipi e pregiudizi preesistenti, privando i soggetti come Omar di qualsiasi possibilità, riscatto ed emancipazione e lasciandoli intrappolati in un circolo di sospetti e discriminazioni: «Questa sentenza è il risultato di una raccomandazione proveniente da un modello matematico che prometteva il rilevamento della criminalità utilizzando principalmente metodologie di apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che utilizza modelli statistici e algoritmi per analizzare e fare previsioni basate sui dati».

La pretesa di prevedere il crimine attraverso l’analisi dei dati ignora il fatto che tali modelli sono costruiti su basi che riflettono le disuguaglianze sociali, contribuendo a perpetuarle piuttosto che risolverle. Non a caso Huyskes cita Andrew Feenberg che nel suo testo, Transforming Technology, asserisce che la progettazione della tecnologia è una decisione ontologica ricca di conseguenze politiche. Huyskes ci guida attraverso una riflessione critica, evidenziando come ogni nuova tecnologia sia il risultato di un preciso percorso storico e sociale. Contrariamente all’immagine romantica del genio inventore che cambia il mondo con un’illuminazione improvvisa, la realtà ci mostra come le innovazioni tecnologiche siano frutto di compromessi, conflitti e distribuzioni ineguali di potere.

L’idea di un progresso lineare e inevitabile si sgretola di fronte all’analisi che Huyskes offre, svelando una verità fattuale: la tecnologia è costruita, modificata e implementata per servire interessi specifici, spesso a scapito delle fasce più vulnerabili della società. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’introduzione delle tecnologie domestiche nel ventesimo secolo. Queste invenzioni, come il forno a microonde, venivano presentate come soluzioni liberatorie per le donne, promettendo di alleviare il carico del lavoro domestico.

Tuttavia, come dimostra Huyskes, la realtà è stata ben diversa: piuttosto che emancipare, queste tecnologie hanno rafforzato gli stereotipi di genere, relegando ulteriormente le donne al loro ruolo tradizionale di casalinghe. Invece di liberarle, le hanno intrappolate in un ciclo di lavori domestici sempre più standardizzati e invisibili: «La speranza era che la tecnologia domestica avrebbe sollevato le donne dal loro lavoro non pagato nelle case, un tema politico su cui il movimento femminista stava concentrando quasi interamente le sue lotte in quegli anni».

Il controllo dei corpi

Infatti, nel 1974, Joann Vanek dimostrò come la condizione femminile nel lavoro casalingo non avesse subito nessun cambiamento con l’introduzione delle tecnologie domestiche; l’industrializzazione del lavoro domestico e la meccanicizzazione del focolare aveva creato nuove aspettative, un aumento della produttività e nuovi compiti: «Lungi dal sentirsi liberate, le donne che lavoravano nelle case, che quotidianamente e instancabilmente portavano avanti tutto il lavoro di cura necessario al sostentamento della vita economica e politica di intere nazioni, si sentivano sempre più meccanizzate, ma anche sempre più affaticate».

Nell’analisi di Diletta Huyskes emerge con forza il tema del controllo dei corpi come uno dei nodi cruciali nell’intersezione tra tecnologia e genere: «Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere?». L’esclusione delle donne dalla tecnologia non ha significato solo tenerle lontane dai luoghi di potere, formazione e creazione, ma anche privarle della possibilità di utilizzare e beneficiare di tali innovazioni. Questo schema di esclusione, che continua a persistere anche dopo molti decenni, rappresenta ancora il modello dominante nella gestione del rapporto tra genere e tecnologia.

Nel libro si racconta anche come a partire dal 1980, il gruppo di ricerca su donne e tecnologia della Fondazione per la ricerca scientifica e industriale dell’Istituto norvegese di tecnologia (Sintef), con le studiose Anne-Jorunn Berg e Merete Lie, ha iniziato a riflettere sulle conseguenze pratiche dell’esclusiva presenza maschile nelle fasi di progettazione e sviluppo tecnologico. Inizialmente, le domande riguardavano l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle donne. Tuttavia, con il progredire delle loro ricerche, la questione si è evoluta in: «Gli artefatti hanno un genere.

Questo ha portato a un ampliamento della ricerca, dall’analisi delle donne all’indagine sul genere e sul design in generale, invece di concentrarsi solo sulle conseguenze delle tecnologie. Berg e Lie hanno scoperto che gli artefatti tecnologici riflettono un genere, poiché vengono progettati con specifiche configurazioni di genere in mente. In altre parole, nascono con un’idea chiara di chi dovrà utilizzarli.

AI e stereotipi sociali

Automobili, computer, smartphone sono alcuni esempi di tecnologie usate da uomini e donne, ma progettate principalmente tenendo conto delle caratteristiche e delle abitudini di un uomo medio: «La testimonianza più forte degli ultimi anni sulle persistenti disuguaglianze di genere nel design di ciò che diamo più per scontato l’ha scritta l’attivista e scrittrice Caroline Criado-Perez. Un catalogo di fatti e cifre che raccontano di un mondo a misura d’uomo, forse tra i più scioccanti quello sulle case automobilistiche statunitensi che solo nel 2011 hanno iniziato a effettuare crash test anche con manichini femminili. Prima di quel momento, tutti i dati a disposizione e gli interventi necessari riguardo agli incidenti automobilistici avevano a che fare esclusivamente con i corpi maschili, per cui l’accuratezza nei casi di corpi femminili era sconosciuta».

Nel panorama contemporaneo, l’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera di questa riflessione critica. Lungi dall’essere una tabula rasa, l’AI porta con sé i bias e le ingiustizie del passato, riflettendo le stesse logiche di potere che hanno caratterizzato le tecnologie precedenti: «Non solo incorporano cultura, valori, pregiudizi durante le fasi di design iniziale, ma continuano ad alimentarsi di questi input sempre nuovi durante la loro intera esistenza». Oggi, le nuove tecnologie sono progettate per mantenere lo status quo e perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, contribuendo a rafforzare ciò che la studiosa femminista Patricia Hill Collins chiama «la matrice del dominio», un sistema sociologico che comprende diverse forme di oppressione come il capitalismo, l’eteropatriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo.

Uno degli esempi più emblematici dell’automazione di sistemi istituzionali già particolarmente discriminatori ed escludenti è quello della giustizia penale. Con l’obiettivo di trovare una formula matematica che potesse prevedere con precisione la probabilità di recidiva, sempre più dipartimenti di giustizia hanno sperimentato l’uso dell’intelligenza artificiale: quasi tutti gli stati nordamericani hanno adottato o testato software basati su AI per questo scopo. Questi sistemi calcolano le probabilità attraverso la valutazione del rischio: un punteggio di rischio elevato indica una maggiore probabilità che l’individuo commetta nuovamente un crimine in futuro: «Il calcolo che porta a questi punteggi è basato solitamente su delle domande rivolte direttamente alle persone imputate e i dati estratti dal casellario giudiziario. Si tratta di previsioni sul futuro in base a comportamenti passati, frequenze, statistiche, e i dati per addestrare modelli come questi spesso includono variabili proxy come “arresto” per misurare il “crimine” o qualche nozione di “rischiosità” sottostante».

Ripensare la tecnologia: giustizia e inclusione

Negli Stati Uniti, dove i dati relativi al crimine sono stati influenzati da decenni di pratiche di polizia basate su pregiudizi razziali, e dove alcuni gruppi sociali ed etnici sono stati storicamente più esposti a controlli di polizia, la mappatura del crimine non può essere considerata neutrale. A partire da questi presupposti, l’etnia viene tracciata indirettamente attraverso altre variabili correlate, come il codice postale o la condizione socio-economica.

Il risultato è un modello che presenta un tasso significativamente più alto di falsi positivi, cioè attribuisce un rischio elevato di recidiva a individui neri rispetto a quelli bianchi. Alcuni di questi strumenti mirano a prevedere i rischi di criminalità associati a singoli individui, basandosi sulla loro storia personale e su altre caratteristiche. È proprio ciò che è accaduto a Omar: giudicato da un software di polizia predittiva come un adolescente ad alto rischio di diventare un criminale, è stato trattato come tale fin da subito.

Come asserisce l’autrice, «L’intelligenza artificiale è molto più di una tecnologia. È un discorso utilizzato attivamente per plasmare le realtà politiche, economiche e sociali del nostro tempo». La tecnologia può essere un potente strumento di liberazione, ma solo se siamo disposti e disposte a interrogarci su chi ne controlla lo sviluppo e su chi ne beneficia davvero. È essenziale che il dibattito sulla tecnologia non rimanga confinato a un’élite specifica, ma diventi un discorso collettivo, aperto e inclusivo, in grado di affrontare le domande fondamentali su giustizia, equità e democrazia. In questo senso, Tecnologia della rivoluzione è un invito a ripensare il nostro rapporto con il progresso e con le forze che plasmano il nostro presente e il nostro futuro. Huyskes ci ricorda che ogni innovazione porta con sé una responsabilità, e che è nostro compito vigilare affinché il futuro tecnologico sia costruito su basi più giuste e consapevoli.

(Wired, 6 settembre 2024, apparso con il titolo No, la tecnologia non è neutrale ed ecco come ha condizionato la vita delle donne)

Da la Repubblica – Diritti, nuovi linguaggi, cultura woke, donne sono al centro del Festivaletteratura. Da sempre Mantova è un laboratorio per discutere senza preconcetti intorno ai temi che dominano il dibattito pubblico.

Nella seconda giornata di festival, in una città fiaccata da una pioggia battente ma non tradita dai lettori, Goldie Goldbloom, ebrea ultraortodossa attivista Lgbtqia+, ieri ha raccontato la sua storia all’interno della comunità chassidica. E oggi Olivia Laing (con Chiara Valerio in Piazza Castello alle 19,15) promette di concentrarsi su corpi e desideri, mentre l’ecuadoriana María Fernanda Ampuero parla di violenza di genere in contesti svantaggiati (Seminario vescovile, ore 19). Sabato sarà la volta di Deborah Levy e domenica di Jessa Crispin e Mona Awad.

Uno degli incontri più affollati, sotto il tendone di Piazza Sordello, ha visto protagonista la filosofa Annarosa Buttarelli, allieva e assistente di Luisa Muraro, curatrice delle opere e dell’archivio di Carla Lonzi, radici dunque nel femminismo della differenza. Libri recenti: Bene e male sottosopra (Tlon) e Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione (Feltrinelli). Sarà il titolo dell’incontro, “Contro il politicamente corretto”, sarà che a Mantova il pubblico è motivato e non si lascia sfuggire momenti di discussione, non c’è un posto libero e qualcuno rimane in piedi. Per Repubblica è un’occasione per proseguire a Mantova il dibattito sul diritto di parola. Con una sorpresa, che emerge parlando con la filosofa alla fine del suo incontro: può e deve essere cercato un punto di conciliazione.

Ci sarà pure un modo per sanare le rigidità degli opposti estremismi, per tentare di ricucire gli strappi tra femministe di ieri e di oggi, tra chi segue la teoria del gender e chi ne diffida?

Quel punto di equilibrio si chiama “discernimento”.

Vale a dire?

Sta nella capacità di recuperare un pensiero critico che sappia contestualizzare, mettere le cose in una prospettiva storica. Non si può ragionare a prescindere dai dati di realtà. Le posizioni differenti vanno sempre valutate dentro le situazioni per non cadere nei pre-giudizi che sono appunto giudizi formulati a priori.

Ottimo, proviamo a dare concretezza a quanto sta dicendo, visto che lei è una intellettuale che non ama le speculazioni astratte ma la filosofia concreta. Che pensa dello schwa e del linguaggio inclusivo?

È un’astrazione, e perdipiù non è pronunciabile. Non si può imporre una regola calata dall’alto al linguaggio che è qualcosa di vivo. La lingua materna, quella del cuore e delle lacrime, ci riconnette con ciò che sentiamo. Tutto il resto è una neolingua che rischia di diventare un codice astratto, studiato a tavolino. E poi noi donne abbiamo lottato tanto per conquistarci le declinazioni femminili, nei mestieri ad esempio, e ora ci viene proposto il neutro.

Quel neutro è un tentativo di inclusione. Non si tratta di escludere ma semmai di evitare di tenere fuori qualcuno. Perché dovrebbe dar fastidio?

In realtà anche la parola inclusività non mi convince del tutto. Mi sembra sia una forma di annessione. Mi viene in mente l’ambra che cattura dentro di sé gli insetti. Insomma, mi pare una forma di egemonia. La vera inclusività democratica per le donne è iniziata nel 1946 con il voto.

Passi che non le piace parlare di inclusione, che propone?

Mi piace il verbo accogliere.

È cattolica?

Né cattolica, né credente. Come Margherita Hack credo nel mistero e sono attratta dalla spiritualità.

Le sembra che questo sistema di regole per rendere i nostri comportamenti e modi di parlare più rispettosi delle minoranze manchi forse di spiritualità?

A volte manca di quella che Flannery O’ Connor chiamava la grazia, che è una forma di imprevisto, una sorta di folgorazione. Non vorrei rinunciassimo a produrre pensieri originali, autonomi, per attenerci ai diktat del politicamente corretto.

Non è un peccato che ci si divida tra femminismi? Non sarebbe meglio unire le forze del mondo progressista?

Si è creata una frattura nel femminismo, vero. Faccio notare che l’ondata queer ha radici nella cultura americana, lacerata da una schizofrenia tra il puritanesimo e l’idolatria delle libertà individuali.

Dunque?

Ho l’impressione che si stia cadendo in un paradosso, che il superamento di quello che viene detto il binarismo possa portare a una ricaduta in un’altra forma di identitarismo. Non è un caso che si parli di “identità di genere”. Gli stereotipi vanno smontati, sempre. È questo in fondo il significato ultimo del femminismo della differenza. All’università sono stata una volta processata perché avevo detto “noi donne”. Processata perché uno studente con barba e sottane si era sentito escluso, anzi esclusa. Poi abbiamo trovato un punto di conciliazione: avrebbe potuto essere considerato donna a patto di assumersi sopra le spalle la storia di noi donne: i roghi, gli abusi subiti durante le guerre, le lotte….

Non è una grande libertà potersi definire al di là della biologia?

Certo, a patto che anche io possa chiamarmi “donna” e non “persona che mestrua”. Su questo fronte ha ragione J.K. Rowling. Ha però sbagliato quando ha attaccato la pugile olimpionica Imane Khelif, che è una donna a tutti gli effetti nonostante un eccesso di ormoni maschili.

Provi a proporre una formula concreta che sostituisca lo schwa?

A volte dico: “noi qui, donne, uomini e altri generi”.

Tenda la mano anche filosoficamente.

Noi filosofi abbiamo la responsabilità di portare luci. Possiamo incontrarci sul rispetto della condizione umana.

Da il manifesto – La nuova raccolta di Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, pubblicata dalla Nave di Teseo (pp. 80 euro 18), prende il titolo da due versi di una poesia che vi troviamo collocata più o meno al centro: «nell’estremo forte degli occhi/ mai si stanca la sorte di accadere». E forse non è casuale, la collocazione centrale di questi due versi, perché è nella constatazione che esprimono che va cercato il significato più essenziale della raccolta. Va detto che non si tratta di un poema e che l’idea stessa di individuare per forza un nucleo tematico centrale, che tenga insieme le singole poesie, potrebbe essere considerata arbitraria. Non solo: il fatto in sé che i versi appaiano spesso imprendibili, nei loro singoli contenuti semantici, potrebbe perfino sconsigliare di coltivarla, un’idea simile.

Ma il punto è che sembra aver ragione Elisabetta Sgarbi, quando osserva, in epigrafe, che sono poesie in cui «Si entra accompagnati da un’immagine lieve e si impara per negazione nel poco a poco in rovina». Perché è questo senso di «negazione» e di «rovina» ciò che tutte le poesie della raccolta sembrano avere in comune l’una con l’altra, seppur nelle differenze di ciascuna: è il senso di un vuoto, di un’assenza. D’altronde qualcuno sostiene che scrivere è sempre raccontare un’assenza: e qui in effetti è come se, poesia dopo poesia, l’io poetante non facesse altro che questo: raccontare un’assenza – continuamente evocandola e convocandola, un’immagine dopo l’altra, quasi narrativamente. Esisteva, quell’assenza, è stata presenza in carne e ossa nella vita di chi ora le sta parlando: corpo, sensi, odori, sapori, gesti. È più di una semplice assenza: è una scomparsa, dunque ancor più dolorosa. Al tempo stesso, è come se le parole servissero anche a ricomporre i pezzi dello sgretolamento e della rovina che quella scomparsa ha procurato nell’esistenza di chi le è sopravvissuto.

Come se, in realtà, scrivere fosse uno strumento, oltre che di lacerazione, anche di purificazione: un modo, oltre che per raccontare un’assenza, anche per recuperare una presenza, assumendola e tenendola dentro di sé (come quando, rivolgendosi a quell’assenza, l’io poetante le dice: «Tu che mi diventi biografia»). O quantomeno come un modo per «reggere la frattura del vuoto», e cioè quantomeno per ritrovare un proprio posto, una propria collocazione nella vita che intanto continua a scorrere, anche se «in mezzo/ siamo stati già sconfitti».

L’unica possibile salvezza è in quell’accettazione delle cose a cui allude la constatazione dei versi che danno origine al titolo: nel prendere atto, da parte dell’io poetante, che si può vivere solo come si può («Come posso/ dove posso/ fino a qui/ dopo di me non so»). È tutto già accaduto, e tutto quel che è stato non può essere né omesso né dimenticato: ne «paghiamo le notti in sudore» e «facciamo l’alba sui vetri/ con le dita», ma dobbiamo fare «come se/ non lo sapessimo ancora».

E da qualche parte non è detto tuttavia che non possano ancora essere vissuti dei momenti di grazia, quasi pacificati: «voglio rimanere fra le tue cose», leggiamo infatti in uno dei versi finali. E poco dopo, addirittura: «dovendomi vivere/ mi sorrido fra le fughe/ del tuo esistermi/ in azzurre risonanze di grigio/ e ringrazio ogni cielo». Ecco: come una forma di definitiva inscrizione dell’altro dentro di sé, non più solo biografia ma parte acquisita della propria autobiografia.

Da indiscreto.org – Una ragazza cammina, da sola, per le strade di New York. È pieno giorno e indossa una t-shirt e un paio di leggings neri, delle scarpe da ginnastica, sulle spalle uno zainetto. Le immagini, che proietto quando entro in classe per fare formazione, sono tratte da un filmato che dura circa un paio di minuti. Quando chiedo all’aula cosa potrebbe accadere dopo i primi fotogrammi, le persone di genere femminile indovinano al primo colpo. La clip contiene la sintesi di dieci ore di cat-calling, cioè continue molestie, abusi e commenti non richiesti, subiti dalla protagonista, Shoshana B. Roberts, per il solo fatto di camminare da sola in città, e fanno parte di una campagna lanciata nel 2014 dall’organizzazione Hollaback per portare attenzione nei confronti di questa particolare forma di violenza. Anche se non ha mai visto il video, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile che incontro sa rispondere alla mia domanda.

Una donna che cammina da sola sembra costituire un’anomalia del sistema. I recenti, tragici, fatti di cronaca, lo confermano: nei trenta giorni che sono trascorsi dall’omicidio di Sharon Verzeni – la barista di Terno d’Isola uccisa a coltellate mentre passeggiava, di notte, vicino alla propria abitazione – al fermo dell’assassino Moussa Sangare, abbiamo ascoltato vicini di casa e giornalisti commentare l’abitudine della giovane di uscire di casa a tarda sera. Secondo i dati sul rapporto Istat sul “Benessere Equo e Sostenibile” (Bes) del 2022, in Italia una donna su due ha paura a uscire da sola di sera. Al contrario, gli uomini che percepiscono la strada come un luogo tutto sommato sicuro sono circa il 70% (percentuale che supera il 78% se si prende in considerazione la popolazione maschile tra i 20 e i 24 anni).

Il fatto che la sensazione di pericolo aumenti dopo il tramonto non significa che durante le altre ore del giorno scompaia: ogni donna sa che, a prescindere da ciò che indossa, dall’accurata scelta del tragitto e dei mezzi di locomozione per evitare strade o individui poco raccomandabili, il rischio di incorrere in commenti, sguardi e tentativi di approccio non richiesti è sempre presente, così come il timore che queste affermazioni si trasformino in veri e proprio agiti. In seguito al video del 2014 si sono moltiplicate le iniziative volte a portare attenzione sul fenomeno. Sempre a New York, nel 2017, Sophie Sandberg ha raccolto centinaia di molestie subite dalle sue follower di Instagram, le ha trascritte con gessetti colorati proprio in quelle strade in cui sono avvenute per poi fotografarle e postarle sul social, dando vita al profilo “Catcalls of New York”. Molte altre ragazze l’hanno seguita facendo lo stesso nella propria città e mostrando così come nessun luogo – non importa quanto ricco, quando rispettabile, quanto turistico o centrale – sia sicuro per una donna.

Secondo Leslie Kern, autrice de La città femminista, «i luoghi fisici come le città contano quando vogliamo pensare al cambiamento sociale». Ogni spazio, infatti, è plasmato dalle relazioni di potere che si manifestano nei rapporti sociali, nelle diseguaglianze, nelle discriminazioni che si reiterano nelle strade, nei locali, tra le panchine di un parco o dentro i vagoni di una tramvia. I contorni assunti da qualsiasi spazio urbano fanno sì che «alcune cose continuino a sembrare normali e giuste, mentre altre “fuori luogo” e sbagliate». Utilizzare le lenti proprie della geografia femminista, allora, consente, da una parte, di vedere «il modo in cui la discriminazione di genere si collega ad altre diseguaglianze sociali e il ruolo che lo spazio ha svolto nei sistemi di oppressione» e, dall’altra, di tentare nuove soluzioni urbanistiche per dare vita al cambiamento.

Dentro la città, i corpi delle donne sono concepiti come elementi da monitorare. Fin dai tempi antichi, strade e piazze sono i luoghi dove gli uomini intessono scambi commerciali ed economici, stipulano alleanze e definiscono rapporti di potere. Alle donne è consentito attraversarli per svolgere le mansioni quotidiane, ma non sostarvi liberamente. Non è un caso che i centri commerciali nascano, sul finire del XIX secolo, proprio come un vero e proprio spazio “di genere”, in cui le donne potevano essere accompagnate per trascorrere qualche ora dedicandosi ad acquistare oggetti per se stesse o per abbellire la casa. Oggi come un tempo, i grandi magazzini sono luoghi vasti ma recintati, a cui si accede in assoluta sicurezza perché sorvegliati da personale in divisa. Il filosofo francese Michel Focault li descriverebbe come “eterotopie”, cioè luoghi altri, soggetti a dispositivi di controllo e precise regole che ne determinano le relazioni che si svolgono all’interno.

È sempre Kern a ricordarci come oggi, complice il capitalismo, stiano sorgendo sempre più “luoghi terzi”, spazi informali pensati per le donne e le loro esigenze, luoghi che si dichiarano “friendly” e ben disposti ad accogliere altre soggettività marginali, anche loro a rischio di incorrere in soprusi e violenze fuori da ambienti considerati protetti. La geografa sottolinea però come queste novità non siano di per sé delle soluzioni. Da una parte perché la riorganizzazione degli spazi non garantisce a prescindere l’opportunità, per chiunque, di accedervi. I luoghi conquistati dalle donne e dalle persone LGBTQIA+ rischiano comunque di lasciare indietro minoranze etniche e poveri, schiacciati e spinti ancora più lontano dalla gentrificazione che muta il volto di ogni città medio-grande, facendoli sentire presenze indesiderate. Per trovare una soluzione, allora, e lasciare per un attimo l’ambiente chiuso – case, grandi magazzini, bar a misura di mamme con bambini e coworking in salsa diversity&inclusion – e tornare alla strada, cercando di capire cosa possiamo fare per riprendercela.

Nel suo Storia del camminare, Rebecca Solnit sottolinea come «la stessa parola strada (street) ha in sé una magicità sordida, perché assomma il basso, il banale, l’erotico, il pericoloso, il sovversivo». Sovversiva è, in effetti, non solo la presenza delle donne lungo le strade ma anche l’azione del camminare.

A lungo si è creduto che le donne non fossero portate a stare in movimento. Tra i sostenitori di questa ipotesi vi era l’anatomista Owen Lovejoy che, nel 1981, ha firmato un articolo scientifico intitolato The origin of men in cui tentava di dimostrare come il bipedismo rientrasse in un nuovo schema riproduttivo che consentiva al maschio ottenere maggiore successo nell’accoppiamento. Sollevandosi sulle zampe posteriori, i nostri antenati avrebbero non solo cambiato andatura ma cominciato a impostare l’ideale della famiglia patriarcale, in cui il maschio procaccia il cibo e lo porta alla femmina (grazie alla possibilità di trattenerlo tra gli arti superiori, non più impegnati nello spostamento) che può quindi stare in uno spazio protetto, portare avanti le gravidanze in sicurezza o sorvegliare la prole garantendone la sopravvivenza. Nonostante la teoria di Lovejoy sia stata ampiamente criticata e superata, qualcosa del suo ragionamento permane ogni volta che qualcuno ci ricorda che il posto più sicuro, per noi donne, è la cucina. I presunti benefici che ottenevano le nostre antenate – sfamarsi senza rischiare la pelle – erano funzionali a garantirne altrettanti alla controparte, in particolare il controllo sessuale, la garanzia che gli unici geni trasmessi attraverso la riproduzione fossero i loro.

Il controllo sulla sessualità è, ancora oggi, quello che impedisce alle donne di attraversare liberamente le strade. Tornando al femminicidio di Sharon Verzeni, non è un caso che i primi articoli si siano concentrati sul fatto che la giovane uscisse non per fare sport ma per incontrare qualcuno. Se il flâneur – il libertino che si perde volontariamente nella sua stessa città, resa irriconoscibile dai mutamenti del XIX secolo – è un uomo che cammina per pensare ed elaborare teorie su ciò che vede, spostandosi da un angolo all’altro della metropoli, la flâneuse è una donna pubblica, sulla cui sessualità bisogna agire un controllo coatto.

E il controllo è proprio ciò che subisce Caroline Wyburgh, colpevole, nel 1870, di essere uscita per una passeggiata con un marinaio inglese. Qualche ora dopo il suo rientro a casa, fu trascinata fuori dal letto, fatta arrestare dall’ispettore della polizia e obbligata a un’ispezione corporale con cui accertarne la verginità. Raccontandone la storia, Solnit sottolinea come «il solo fatto di passeggiare all’ora o nel posto sbagliato poteva rendere una donna equivoca e la legge permetteva di arrestarla sulla base di un’accusa specifica o di un semplice sospetto».

La vicenda di Wyburgh è triste e violenta:

Al quinto giorno, accettò di essere esaminata, ma la sua disponibilità venne meno quando, dopo essere stata portata nell’ambulatorio in camicia di forza, venne gettata sul lettino con le gambe divaricate e legate, e tenuta distesa a forza da un assistente che le piantò un gomito sul petto. Lottò e, rotolando giù dal lettino con le caviglie ancora assicurate dalle cinghie, si ferì malamente. Ma l’ufficiale medico rise, perché gli strumenti di ispezione l’avevano deflorata e il sangue le scorreva tra le gambe. «Dicevi la verità» fu il suo commento. «Non sei una cattiva ragazza».

Le ispezioni corporali, oggi, hanno lasciato il campo ai processi e alle accuse che si ascoltano ogni volta che una donna denuncia (o viene ritrovata morta) per il semplice fatto di aver attraversato una strada o un parco per fare due passi o una sessione di jogging occupando cioè uno spazio che avrebbe, almeno sulla carta, diritto a vivere.

Cercando su internet articoli o post che dovrebbero convincermi a comprare un tapis roulant per replicare, dentro una stanza, quello che potrei fare, gratuitamente, tra le vie del mio quartiere, il tema della sicurezza è sempre al primo posto. Prima ancora della garanzia di potersi allenare sempre, a prescindere dalle condizioni atmosferiche, chi scrive sottolinea l’importanza di fare movimento senza rischi per la propria incolumità. Sarà un caso, ma le immagini a corredo dei contenuti in cui mi imbatto ritraggono giovani donne felici, sole, mentre corrono sul nastro e guardano dalla finestra di un set allestito per l’occasione.

Non è un caso che il treadmill nasca proprio con l’obiettivo di controllare il corpo e la mente di alcuni soggetti. A partire da metà Ottocento, faceva bella mostra di sé in molti istituti penitenziari d’America. Si trattava ovviamente di un apparecchio rudimentale, diverso da quello a cui siamo abituati oggi, costituito da una struttura cilindrica di ferro, cava, su cui erano posizionati dei pioli a intervalli regolari. Tenendosi ai corrimano laterali, i carcerati salivano sui pioli e il loro peso faceva ruotare il cilindro che li costringeva quindi a muoversi ininterrottamente. Si trattava al contempo di una punizione per espirare la condanna e di un modo per ricavare energia dal movimento coatto dei detenuti.

Oggi, per molte donne, i tapis roulant mantengono questa duplice funzione che è al contempo di controllo sui corpi e di liberazione da molestie, denigrazioni e tentativi di approccio subiti ogni volta che si attraversa uno spazio pubblico. La libertà che sembra concedere è, tuttavia, illusoria.

Occupare spazio significa mettere in discussione le attuali relazioni di potere tra i generi. Rafforzare la dicotomia tra luoghi domestici sicuri e luoghi esterni pericolosi è fuorviante, se pensiamo che la maggior parte delle violenze di genere avviene proprio dentro le mura di casa, per mano di chi ci conosce. Abbiamo bisogno di entrare dentro ogni luogo interrogandoci, afferma Kern, «su come si evitino le norme di genere»: un’azione impossibile se non portiamo il nostro corpo nel mondo. Negli anni Settanta, le attiviste femministe americane avevano coniato lo slogan “take back the night” che urlavano marciando insieme per le strade, cercando di portare attenzione intorno al fenomeno delle violenze subite dentro e fuori gli ambienti familiari. Camminare continua ad essere un atto sovversivo, mai come oggi necessario.

(*) Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counselor, lavora e scrive sui temi della violenza intrafamiliare e sugli stereotipi di genere, realizzando interventi formativi su queste tematiche per enti, associazioni e cooperative. Ha collaborato con numerosi Centri Antiviolenza. Nel 2023 ha pubblicato “Si è sempre fatto così: spunti di pedagogia di genere”, edizioni Tlon.

(indiscreto.org, 4 settembre 2024, pubblicato con il titolo “È difficile camminare, se sei una donna”)

Da il manifesto – Seconda guerra mondiale. Il rumore delle armi risuona nel rombo dell’aereo che i bambini chiamano Pippo, nel vuoto degli uomini partiti al fronte, fra le lettere che non arrivano e nel ritorno di chi è scappato per non farsi ammazzare dai tedeschi come quei due soldati, uno del paese e l’altro suo amico siciliano che lo ha salvato, che vivono nascosti. Gli uomini più anziani li criticano e gli danno dei vigliacchi ma la guerra la vivono da lontano. Si sa tutto di tutti a Vermiglio, paesino di contadini al confine dell’Italia, sulle Alpi retiche dove il dialetto è più parlato dell’italiano, la lingua che si studia a scuola, e che il maestro insegna in una classe unica ai ragazzi e ai bambini e la sera agli adulti che non sanno né leggere né scrivere. Vermiglio è anche il titolo dell’opera seconda di Maura Delpero, bolzanina, che racconta di essersi ispirata ai luoghi della sua infanzia e alla figura del padre che non c’è più per il personaggio di questo maestro ma anche patriarca – Tommaso Ragno – per il quale la cultura, l’amore per i libri, e per Chopin al punto da comprare dischi quando la moglie fa fatica a trovare il cibo, non si traduce in altrettanta vicinanza umana alla sua famiglia, a quei figli che ha messo al mondo numerosi. Sono dieci, due morti piccoli ma mentre morivano la moglie che sembra una donna anziana ne aveva in pancia un altro e di ciascuno è sempre lui a decidere il destino: se rimanere contadini al paese, sposarsi, lavorare o studiare, quest’ultimo un lusso permesso a una sola, perché si deve eccellere e i sogni non bastano.

A partire da qui Delpero costruisce la sua narrazione modulata su quattro stagioni, dalla festa di Santa Lucia all’estate, con un riferimento abbastanza esplicito all’Albero degli zoccoli di Olmi, “citato” nell’ambientazione, nella texture dei dettagli, nelle luci, in quel dialetto parlato dai personaggi, nel lavoro con interpreti non professionisti. Per il regista bergamasco però i contadini e il loro universo erano il mondo da esplorare mentre qui rimangono sullo sfondo. Non è la loro voce e storia in un momento di passaggio e sofferenza che la regista cerca, al centro c’è piuttosto la donna in diverse età nel confronto con un patriarcato che la soffoca con le sue leggi, e in una idea di maternità salvifica che era già nel precedente Maternal, di cui riprende anche la figura della suora che bada ai bambini.

Così Lucia, la maggiore, si innamora di quel soldato che parla una lingua diversa dalla sua – e non sa leggere e scrivere ma le disegna cuori e nella sua inconsapevolezza diventa l’eroe. Si sposano, lei è già incinta, la figlia nasce insieme all’ultimo fratello della ragazza ma lui non c’è già più, a “salvarla” rimane la bambina, e da lei Lucia troverà la forza di andare in città a servizio – come un personaggio di Pietrangeli nell’Italia non ancora in pieno boom (Il sole negli occhi). Ada che si tormenta perché ha scoperto la sessualità vuole studiare ma il padre la lascia a casa, mentre Flavia stupefatta dal sangue nelle mutande – perché alle povere donne appunto nulla è detto del loro corpo in quel mondo – continuerà gli studi in collegio a Trento e magari si salverà in un’altra Italia a venire. Chissà.

Parliamo di donne: basta davvero l’intenzione di una “storia”? O forse è invece soprattutto una questione di sguardo che nella programmaticità di questo film non apre spiragli né entra in profondità, che non ama i bordi per porsi invece in una posizione netta. Ogni passaggio sta lì come sappiamo lo vedremo, il cappio del peccato, la negazione del desiderio, masturbarsi e pentimento e il padre severo che nel cassetto segreto conserva donne nude, e viene chiedersi se nonostante tutti quei figli abbiano mai davvero avuto un istante di piacere con la madre. E quell’Italia divisa come è ancora, il nord estremo e il sud che sembra in quel paese quasi l’Africa, la Sicilia di mandarini e donne vestite tutte di nero che i ragazzini guardano sulla carta geografica del sussidiario paterno. Ma anche queste rimangono piste interrotte che la regista mette in ordine e deposita per rispondere alle intenzioni di una scrittura, di un progetto, di una dimensione “maternale” (sui titoli di coda c’è il pianto di un neonato) che diviene una resistenza fra gesti segretissimi di ribellione e sguardi di bambine – la cosa migliore del film – capaci di mettere sottosopra la visione del mondo. Peccato trascurarli.

Da Viottoli – Dialogo in occasione di un incontro del ciclo “Eretiche”, organizzato dall’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne (OIVD) a Pinerolo il 5 maggio 2024.

Doranna – Il femminismo è stato un modo in cui io e altre donne ci siamo date reciprocamente voce fuori dall’ideologia patriarcale. Nel vostro libro intitolato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, oltre alle numerose immagini e illustrazioni inedite, avete raccolto più di sessanta testimonianze di donne protagoniste di questa storia. Molte di queste nella Libreria delle donne di Milano inventarono pratiche che contribuirono all’elaborazione di pensieri. A partire dagli anni ’70, la Libreria è infatti uno dei luoghi più vivi del femminismo italiano, un laboratorio sulle pratiche politiche del presente, basato sulla condivisione di esperienze e verità soggettive che illuminano la vita di tutte e di tutti, anche la mia. Vorrei sentire da voi, femministe e anche storiche, quali sono state le pratiche e le scoperte che hanno contribuito a far nascere la Libreria.

Luciana e Marina – L’idea di aprire una libreria, simile alla Librairie des femmes di Parigi, dove vendere libri scritti da donne e documenti prodotti dal movimento, è nata dal desiderio di alcune che da una decina d’anni avevano fatto autocoscienza: una pratica in cui sole donne, riunite in piccoli gruppi periodicamente, parlavano a partire da sé della propria esperienza di disagio fino a quel momento sentito come personale, senza ordini del giorno, con un ascolto non giudicante. Il personale diventava politico. Vi erano incontri più allargati in collettivi e in confronti internazionali dove le parole scambiate diventavano scritti che mostravano la parzialità e i danni del dis-ordine patriarcale e le modalità valorizzanti di stare tra donne. Su come realizzare la Libreria, dodici donne per un anno discussero tra loro, proponendo un progetto aperto alla collaborazione di altre per reperire scritti, opere artistiche e per contribuirvi economicamente. Dal 15 ottobre 1975 divenne un luogo aperto sulla strada dove si discuteva di tutto, illuminando la scrittura dei testi politici con la lettura delle scrittrici, alla ricerca di parole che dicessero l’esperienza femminile.Ad esempio, dadiversi incontri su autrici significative nacque il Catalogo giallo. Le madri di tutte noi e la scoperta dell’importanza di avere una genealogia femminile per non essere schiacciate in un presente in cui il senso della propria vita dipenda dall’annullarsi nell’altro.

Da allora la gestione è rimasta non gerarchica, le scelte avvengono attraverso il consenso non a maggioranza e le proposte nascono dal desiderio di una che prende vita dalla relazione con un’altra e cresce di due in due, fino ad arrivare, tra l’altro, alla pubblicazione nel 1987 di Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, un libro tradotto in spagnolo, tedesco, inglese, francese, che ne racconta scoperte e storia.

D. – Ho conosciuto la Libreria delle donne di Milano negli anni ’90 grazie a Pinuccia Corrias. Con lei ho imparato che il femminismo della differenza non è il presupposto per una rivoluzione sociale bensì per una rivoluzione simbolica, iniziando a misurarmi con la complessità della pratica del partire da sé. Con lei ho condiviso percorsi importanti di pratica delle relazioni tra donne, primo fra tutti il lungo percorso del gruppo pinerolese di ricerca teologica al femminile e il gruppo intergenerazionale sulla differenza sessuale, costituitosi in occasione del festival della filosofia di Pinerolo Pensieri in Piazza. In questi ambiti siamo entrate in relazione con alcune della Libreria delle donne di Milano, soprattutto con Luisa Muraro, di cui ho frequentato in Libreria nel 2015 il corso di scrittura pensante, che ha profondamente segnato il mio approccio alla scrittura. Per me è diventato un luogo politico fondamentale. Come lo è diventato per voi?

L. e M. – Entrambe abbiamo fatto autocoscienza con donne con cui ancor oggi ci incontriamo. Compravamo testi in Libreria per discuterli in altre associazioni, mentre abbiamo cominciato a considerarla il luogo principale di confronto politico dalla metà degli anni Ottanta, dopo che il Sottosopra verde (1983) propose di superare il separatismo per investire i luoghi di lavoro con il sapere e le pratiche femministe. Essendo insegnanti, contribuimmo alla Pedagogia della differenza, conosciuta attraverso Marirì Martinengo: utilizzavamo sempre il linguaggio sessuato; ricercavamo il contributo delle donne alla costruzione di civiltà e lo facevamo conoscere, anche modificando i libri di testo; sperimentavamo alcuni momenti in cui nelle classi separate per sesso permettevamo alle ragazze di trovare parole per dire la loro esperienza rispecchiandosi tra loro e in opere di donne, e ai ragazzi di cogliere la loro parzialità; valorizzavamo pratiche di relazione tra le ragazze e tra noi donne insegnanti.

Per noi è stata ed è fondamentale la riflessione sul rapporto con la madre che fonda, come dice il titolo del libro di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, che rompe con l’idea patriarcale dell’individualismo prometeico illuminista e mostra invece l’origine duale della vita, la dipendenza e la necessità del riconoscimento delle relazioni.

D. – Recentemente, all’interno di una mostra pittorica di un liceo artistico, campeggiava al centro della sala un quadro intitolato Tessitrici di relazioni: un girotondo di donne danzanti. Mi ha colpito veder raffigurato da una artista il segno tangibile di un cambiamento in atto, ciò che per me è stato il filo conduttore del mio agire politico nel femminismo:la pratica politica delle relazioni tra donne. Nel patriarcato le relazioni tra donne, fuori dalla sfera privata, non avevano esistenza sociale, tant’è che le donne spesso venivano rappresentate come nemiche, rivali, futili, invidiose l’una dell’altra. A me sembra invece, per esperienza diretta nel mio percorso, che alcune pratiche politiche femministe abbiano portato buoni frutti. Sempre più donne, in relazione tra loro, si danno autorità, sanno vedere nel presente e nella realtà ciò che ancora non è evidente, dicono ciò che è buono e ciò che non lo è e agiscono perché il positivo possa realizzarsi. Questo genera forza femminile.

Marina, nel suo saggio sulla storia vivente in La spirale del tempo, sostiene che una pratica si comprende facendola, parlarne può solo permettere di intuirla, di far nascere la voglia di provare. Condivido questa osservazione e vi chiedo di raccontarci quali pratiche sono importanti per voi oggi.

L. e M. – Il racconto di pratiche create per un particolare contesto può solo “autorizzare” all’invenzione, non si tratta di “ricette” o tecniche da imparare e applicare. È necessario continuare a riflettere sul presente, su come agiamo e sulle conseguenze di ciò che facciamo, cioè su quali pratiche mettiamo in atto, come fa il libro Femminismo mon amour che raccoglie articoli significativi nati dalle redazioni aperte dello scorso anno della rivista on line Via Dogana 3.

Come dici tu, è importante riconoscere autorità femminile. Si ha paura di questa parola per il fantasma patriarcale del potere che crea gerarchie per mantenersi, mentre autorità deriva da augere, far crescere. La si riconosce a una in un momento preciso, quando ti aiuta nella comprensione e realizzazione di un tuo desiderio, quando ti fa capire qualcosa del mondo. Abbiamo bisogno, come dice Vita Cosentino, del massimo di autorità con il minimo di potere.

Rimane importante partire da sé e dare credito alla parola dell’altra, come fa il movimento MeToo; riconoscere anche nei gruppi la forza creativa del rapporto duale di disparità, non esclusivo, dove si gioca il di più dell’altra; mantenere momenti di separazione dagli uomini, avere dunque, quella che Ina Praetorius chiama una “stanza della tessitura”, come fanno anche oggi Le Compromesse, alcune giovani attive in Libreria, per trovare parole con cui dire la propria esperienza e modi per renderle pubbliche.

Fin dall’inizio per il femminismo la scrittura è stata importante per sviluppare e far circolare il pensiero, dai Sottosopra, sorta di manifesti che escono senza periodicità, alla rivista Via Doganaprima cartacea e ora on line, daiQuaderni di VDal sito la cui redazione carnale si riunisce ogni giovedì, fino al coinvolgimento di case editrici su singoli progetti. Inoltre la libreria è un luogo di incontro pubblico in cui vengono proposti testi politici, letterari, artistici, soprattutto di donne, a partire dal desiderio di una e dopo una riunione di programmazione per individuare con quale taglio discuterne, lasciando molto tempo al dibattito e alla convivialità.

Fra le pratiche di scrittura quella relazionale generativa, che noi pratichiamo, nasce dal bisogno di non lasciarsi imbrigliare nelle letture già date per dire il nuovo che la singolarità di ciascuna può apportare: si tratta di chiedere il giudizio di un’interlocutrice a cui si riconosce autorità, non sentirsi sminuite per questo, non aver paura di essere defraudate dell’autorialità ma trovare modi per segnalare la pratica relazionale da cui il testo nasce.

D. – Entrambe fate parte di Comunità di Storia Vivente dal 2006. Condivido con voi e con la Comunità di Storia Vivente in faccia al Monviso questa pratica di ricerca e di scrittura femminile della storia che ci permette una lettura differente della realtà. Per me è stato importante, insieme alle donne della mia comunità, risignificare la mia storia personale alla luce di questa pratica. Voi che insieme Marirì Martinengo e Laura Minguzzi siete le fondatrici della Comunità di Milano potete ricordare qual è stata l’intuizione originaria e come si è sviluppato e continua questo percorso.

L. e M. – Ci piace cominciare con la citazione dal libro di Marirì Martinengo La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”, in cui nel 2005 per la prima volta emerge l’intuizione originaria della storia vivente: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; […] una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo» (p. 21). Da qui siamo partite per una pratica di comunità diversa da quella di ricerca storica che ci aveva portato a scoprire tracce di libertà femminile nella vita di donne del passato. Fu un lavoro di quasi vent’anni con incontri, ricerche, convegni, pubblicazioni, come il libro Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo. Con la pratica della storia vivente, invece, ciascuna ricerca in sé nodi irrisolti che sono tali perché non c’è ancora un simbolico che li rappresenti in modo aderente alla verità soggettiva. La scommessa è trovare parole per dirli e così scioglierli, individuando concetti che diano una chiave di lettura per rileggere il passato. Si liberano così energie bloccate dalla menzognera lettura patriarcale, sia di uomini sia di donne, e si apre la possibilità di una trasformazione del presente.

La pratica consiste in incontri periodici di poche donne in relazione di fiducia tra loro, in cui ciascuna fa emergere un proprio nodo mentre le altre ascoltano con attenzione ed empatia, rilanciando ciò che risuona in sé, e la scrittura e riscrittura chiariscono e rendono pubblico ciò che può cambiare il simbolico. Il lavoro è molto lungo perché sui nodi si sono creati degli equilibri, anche se a volte difficili. Attualmente noi due stiamo continuando la ricerca con Giovanna Palmeto e Laura Modini nella Comunità Sami e siamo nella fase della scrittura finale di nuovi racconti.

Sono già state pubblicate su riviste e libri diverse scoperte che è riduttivo riassumere per evitare di banalizzare e creare fraintendimenti, proprio perché hanno una dirompenza trasformativa rispetto alle interpretazioni correnti. Accenniamo che queste letture della realtà riguardano tra l’altro l’economia, la guerra, la violenza maschile, le forme di resistenza e la parola pubblica delle donne, la trasmissione genealogica femminile, la devianza dai modelli. Oggi possiamo riferire che trovano molti riscontri anche in giovani donne provenienti da varie parti del mondo, in quanto dal 2019 teniamo il corso di Historia viviente nel Master on line La política de las mujeres dell’Università di Barcellona. Le allieve, che seguono con noi un percorso di lettura di ciò che finora è stato prodotto e di scrittura in dialogo con i testi e la propria esperienza, sottolineano gli spostamenti nel loro modo di rapportarsi a momenti imbriglianti della loro esistenza e della realtà che le circonda. Scoprono la violenza e parzialità della storia finora appresa e riconoscono come pratiche politiche positive i comportamenti propri e di altre donne, anche della loro genealogia, spesso invisibili o svalorizzati, accrescendo la loro forza.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Santini Marina, Tavernini Luciana, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua,Il Poligrafo, Padova 2015.

Libreria delle donne di Milano, Le madri di tutte noi (Catalogo giallo), Milano 1982.

Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

Sottosopra, i numeri della rivista sono in vendita o consultabili in https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/sottosopra/

Muraro Luisa, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma (1991) 2022.

Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti & Vitali, Bergamo 2018.

Redazione di Via Dogana 3, Femminismo mon amour, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 2024.

Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005.

Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, SEI, Torino 1996; ipertesto nel sito curato da Donatella Massara “Donne e conoscenza storica” http://www.donneconoscenzastorica.it/vecchio/testi/libere/apertura.htm

(Viottoli, n. 1/2024)

Da Nuova Ecologia – Femminista, comunista, ambientalista. Il testo che segue è un “montaggio” dell’intervento della giornalista allo Youth climate meeting, l’incontro su giustizia climatica e transizione rivolto alle attiviste e agli attivisti di Legambiente, e non solo.

Mi chiamo Luciana Castellina, sono nata molti secoli fa e avrei tante cose da raccontarvi, ma andrei troppo per le lunghe. Sono presidente onoraria dell’Arci, di cui Legambiente è figlia. Faccio anche parte di un partito politico, Alleanza Verdi Sinistra, sebbene creda molto poco nei partiti in questo momento storico. E poi faccio un milione di altre cose, soprattutto necrologi, perché sono l’unica “sopravvissuta”.

L’imbroglio del neutro

Credo si debba salutare con forza l’espressione “ecofemminismo”, perché ogni cosa dovrebbe essere vista dal punto di vista delle donne, non solo l’ecologia. Se dobbiamo spiegare la questione femminile, bisogna innanzitutto dire che c’è stato un imbroglio storico, quello che chiamo l’imbroglio del “neutro”: utilizzato come riferimento di tutte le regole, di tutte le leggi, dell’intera organizzazione della società. Si è inventato un cittadino neutro e tutto è stato riferito a “lui”. Ma non nascono bambini neutri: nascono femmine, maschi e anche bambini di qualsiasi altro genere… Il cittadino neutro è stato disegnato come un maschio, come se questo potesse andar bene sia per le donne che per gli uomini, ma è un imbroglio appunto. Non è vero che maschi e femmine sono uguali: hanno esigenze diverse, corpi diversi, menti diverse. Parlare di “ecofemminismo” mi sembra quindi un grande passo avanti, perché almeno sull’ecologia si è cominciato a pensare in termini più articolati. Questo imbroglio è così forte che ho scoperto, e non volevo crederci, che anche nei sindacati quando ci sono trattative per il rinnovo di un contratto – e molto spesso dentro ci sono questioni relative al corpo di chi lavora, pensiamo alle malattie professionali – non viene mai preso in considerazione il corpo delle donne ma solo quello degli uomini, anche se il sindacato ormai ha una fortissima percentuale di donne al suo interno. Adesso si tratta di metterlo in pratica, l’ecofemminismo, di cominciare a pensare ai problemi della transizione ecologica e concentrarsi sul che fare. Le donne hanno un ruolo molto importante, per una ragione in particolare: perché bisogna ripensare il mondo in modo diverso da prima e se c’è qualcosa da ripensare è come ci collochiamo noi. Le donne non hanno mai determinato il modo in cui si deve fare il mondo, l’hanno sempre fatto gli uomini e noi ci siamo dovute adattare facendo finta di essere uomini, cosa spesso complicata, soprattutto durante una gravidanza.

Città femminista

Un aspetto fondamentale della transizione è come ridisegnare la città. E noi donne abbiamo il diritto di farlo a partire dal nostro punto di vista. Fino ad oggi non è stato possibile perché eravamo chiuse in cucina, e quindi si trattava al più di ridisegnare la cucina. Ridisegnare la città vuol dire, innanzitutto, pensare alla vita delle donne perché tutte le regole sono state fatte senza pensarci. E poi c’è un grande problema sul lavoro di cura, che serve a uomini e donne ma che ad oggi sembra riguardare soltanto la fatica gratuita delle donne. Con un gruppo di compagni e amici abbiamo messo su una task force in cui dentro c’è il meglio dei vari settori di cui la questione ecologica si compone, dalle politiche energetiche alla città. La prima iniziativa è stata proprio aprire un dialogo con il sindacato degli edili. Perché, se è vero che non si può più continuare a cementificare le città, che anzi si devono “rammendare”, cambiare senza consumare altro suolo, bisogna anche ripensare il lavoro degli edili. Questo lavoro di “rammendo” ha un interlocutore fondamentale: il femminismo. Così abbiamo fatto un’assemblea con il segretario generale del sindacato edili e i collettivi femministi di Roma per discutere della “Città femminista”. Va ripensato tutto, a partire dal cambiare l’abitare. Servono spazi, non basta l’asilo, ammesso e non concesso ci sia. Ma anche quando c’è, nessuno ha pensato al fatto che se il bambino prende il morbillo non posso portarcelo. E se lavoro, dove lo metto? Serve una soluzione. Lo stesso vale per il nonno: che faccio se si ammala? Bisogna ricostruire i quartieri affinché in ogni complesso ci siano “due stanze”, dove mettere nonni e bambini. Abbiamo bisogno di servizi che svolgano quel lavoro di cura che ricade esclusivamente su di noi. Questo cambia il mestiere degli edili, perché un conto è costruire Tor Bella Monaca, un altro è stare nel quartiere e vedere insieme a noi donne cosa, come e dove cambiare.

Il lavoro di tutta la vita”

Per capire che ero donna ci ho messo un bel pezzo. Non so se voi avete fatto prima, ma la mia generazione ha fatto fatica. Ho pensato a lungo che le donne fossero un po’ meno degli uomini: lo stesso essere umano ma un po’ più scemo, deboluccio. Abbiamo passato la giovinezza a cercare di nascondere di essere donne, a dimostrare che eravamo come gli uomini. E non è un grande obiettivo nella vita. Dovevamo scoprire chi fossimo. Lo ha spiegato bene Simone de Beauvoir: «Capire cosa vuol dire essere donna è un lavoro di tutta la vita». Ci si arriva poco per volta. Per questo la mia generazione ha capito così poco quando è esploso il femminismo. Le donne hanno cominciato a essere insofferenti nei partiti e in tutte le organizzazioni. Hanno creato i gruppi di autocoscienza, motivo di battaglia all’interno di tanti partiti. Ricordo quando al manifesto, negli anni ’70, decidemmo di organizzare un gruppo di lavoro sulla questione femminile: arrivammo e c’erano solo uomini, neppure una donna. Non era voluta venire nessuna, giustamente. Organizzammo quel gruppo senza aver capito che cos’erano i gruppi di autocoscienza, che sono stati invece momenti di riflessione fondamentali per capire qual era la nostra identità, avendone patita una che ci era stata cucita addosso. Fondamentalmente, i gruppi di autocoscienza sono stati un’inchiesta su noi stesse. E sono stati straordinariamente utili.

Meno carità, più politica

Un paio d’anni fa, all’ennesima richiesta di sottoscrivere un appello, mi sono ripromessa di non firmarne più neanche uno. La politica non può ridursi all’appellismo… Si mette una firma per rivolgersi a chi? Chi crede al Padreterno fa bene a rivolgersi a lui. Ma chi non ci crede a chi si rivolge? Il timore è che la politica si riduca a questo, quando invece è dire come io cambio il mondo, non chiedere a qualcuno che lo cambi per me. Ci si può rivolgere alle istituzioni, certo, ma è importante ricordarsi che ognuno di noi è un soggetto che può scegliere come ridisegnare il mondo. Sei tu quello che caratterizza la democrazia, non cosa sei tu. Sei tu, in qualche rapporto con gli altri. Anche il Papa l’ha capito. In uno dei suoi discorsi ai giovani, il pontefice ha detto che non serve la politica per i poveri, la carità, ma la politica dei poveri. È quello che diceva Marx, riferendosi alla classe operaia: i poveri devono conquistare la forza per essere loro la forza del cambiamento. Poi Bergoglio, nel timore di non essere capito, c’è tornato sopra: «La carità è una bellissima cosa, però ci vuole la politica». La politica è la soggettività, innanzitutto. E questo vale anche per noi donne, dobbiamo essere noi le protagoniste di quello che vogliamo fare. Non voglio la politica per le donne, voglio la politica delle donne. Altrimenti è carità.

Rivoluzione in corso

Abbiamo così tante cose su cui protestare che qualcuno potrebbe pensare che noi donne, poverette, stiamo malmesse. Stiamo benissimo, invece, e stiamo facendo la rivoluzione. Altre non ne vedo. Ne abbiamo fatta una straordinaria: ci stanno a sentire, quando prima non eravamo credute. Pensiamo alla cosa più banale: le ragazze americane che hanno denunciato i potenti di Hollywood riuscendo a mandarli in galera. Quando mai le donne hanno avuto questo potere? Qualcuno dirà: «Sì, ma continuano a essere ammazzate». Cito Lenin: «Non c’è rivoluzione senza spargimento di sangue». Ecco, non c’è niente da fare: la rivoluzione costa cara, e credo che l’esplosione di femminicidi lo dimostri. Loro ammazzano le donne che si evolvono, che si stanno liberando, che li stanno lasciando. Rossana Rossanda ha scritto un bellissimo libro, pubblicato dopo la sua morte: Un secolo, due movimenti. Si chiedeva, e chiedeva: «Possiamo ricomporci politicamente superando questa fase in cui siamo in lotta, maschi e femmine?». Domanda difficile. Penso che siamo lontani, ma che debba esserci l’obiettivo di una visione del mondo capace di superare la crisi che stiamo vivendo. La risposta di Rossanda era: «Sì, possiamo stare nello stesso partito, perché è vero, siamo due movimenti diversi perché la nostra condizione è diversa, però lo stare nello stesso partito è quello che dà, anche a noi donne, la forza di essere parte di un grande movimento popolare».

Quote rosa

Credo che la campagna di Giorgia Meloni sulla natalità – «non nascono più figli perché le donne sono pigre» – sia pericolosa, perché quelle argomentazioni rischiano di diventare popolari. E dobbiamo stare attente perché c’è un modo di combatterle che può diventare a sua volta pericoloso: le quote rosa. Per un verso le capisco perché sono simboliche. Non possiamo però nasconderci un fatto: come fa una donna con due figli a fare la parlamentare? Queste scelte comportano sempre una rinuncia: una può decidere se i figli li vuole o no, ma chi li vuole, e cioè la maggioranza delle donne, come fa? Mi spiego meglio. Se facciamo la battaglia solo sulle quote rosa rischiamo di essere perdenti, perché prevarrebbe il buon senso. Ho visto i dati delle donne manager: hanno figli nel 30% dei casi, i maschi manager nel 95%… Servono battaglie tradizionali, come quella per gli asili nido. Parlare di quote rosa senza includere questo equivale di fatto a dire che l’unica soluzione per noi è smettere di lavorare, che le lotte passate ci si rivoltano contro. Scusate se insisto ma ribadisco che ci sono vecchie lotte da continuare. E che la più importante di tutte è socializzare il lavoro di cura, altrimenti finiremo tutte a casa a fare le madri e le badanti.

Da Il Quotidiano Nazionale – Lo sguardo dell’altro e la narrazione come significante dell’unicità di un’esistenza. Il femminile e la maternità quale esperienza da pensare senza stereotipie. Il linguaggio, le parole per nominare il mondo anche quando si tratta delle sue forme di distruzione, la guerra e la violenza sugli inermi. Da sempre Adriana Cavarero, filosofa, figura di spicco del pensiero della differenza sessuale, docente universitaria e autorevole esponente di studi arendtiani, si confronta con i grandi temi della contemporaneità, a partire dal proprio essere donna e in costante dialogo con pensatrici e scrittrici quali Simone de Beauvoir, Simone Weil, Virginia Woolf, Karen Blixen, Elena Ferrante e Annie Ernaux. Nel nuovo “Donna si nasce”, scritto con Olivia Guaraldo e in uscita per Mondadori il prossimo 10 settembre, Cavarero affronta la questione del linguaggio.

Adriana Cavarero, quale ritiene essere, al momento, il tema più urgente?

«Ce ne sono diversi. Dal punto di vista della politica internazionale è sicuramente inevitabile la riflessione sulla violenza, sulle forme della distruzione contemporanea. Dopo l’11 settembre 2001 scrissi “Orrorismo”, dove già affrontavo la tematica della violenza sugli inermi che è molto attuale. La guerra ha cambiato forma: se nel periodo napoleonico era scontro tra eserciti a partire dalla prima guerra mondiale, e poi con un’accelerazione nella seconda, è diventata eccidio di civili. Oggi il guerriero espone poco il suo corpo mentre i tecnici della guerra distruggono attraverso sofisticatissime tecnologie avendo però come oggetto i corpi della popolazione civile».

Rispetto alla guerra emerge il tema della narrazione della stessa. Il flusso ininterrotto d’informazioni che provengono dai social e dai media sollecitano la riflessione?

«La narrazione richiede vicinanza, prossimità fisica. È colloquio tra corpi in presenza, all’interno di relazioni e nella dimensione della scoperta di sé e dell’altro. Quella sui social e sui media è una narrazione costruita per essere partigiana, per sostenere tesi e quindi spesso piena di falsità e di forzature ideologiche. Questo quando si parla di argomenti generali: quando si tratta, invece, di argomenti personali, i social spesso non sono altro che vetrine narcisistiche. Non c’è interesse per gli altri né scambio, è quella che io chiamo vetrinizzazione».

A partire da “Tu che mi guardi, tu che mi racconti”, il suo lavoro sulla narrazione come strumento di restituzione dell’unicità di un’esistenza si colloca in opposizione alla filosofia che persegue, invece, l’astrazione e l’universale, rimuovendo di fatto le peculiarità individuali, prima tra tutte la differenza sessuale.

«Questa è un’idea che ho preso da Hannah Arendt, che non parla né di soggetti universali, per esempio quello cartesiano, né dell’individualismo moderno, che non sarebbe altro che una moltiplicazione di soggetti tutti uguali. Arendt parla dell’unicità come diversità assoluta: ciascuno di noi è unico e occorre avere cura di questa unicità, che è anche una fragilità che caratterizza ogni essere umano».

La narrazione dà significato a questa unicità?

«Credo che ognuno di noi voglia un senso. Non è detto che poi esso ci sia, tuttavia tutti noi desideriamo che la nostra vita sia narrabile e narrata dagli altri, traducibile in una storia che abbia un significato. Non è un caso che Karen Blixen, che è stata una narratrice eccezionale, abbia scritto che tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia. E con lei Arendt, quando afferma che la storia rivela il significato di ciò che, altrimenti, rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi».

Nell’ultimo “Donne che allattano cuccioli di lupo – Icone dell’ipermaterno” (Castelvecchi) riflette sulla maternità con Elena Ferrante, Annie Ernaux e Simone de Beauvoir. Le donne restituiscono un racconto autentico del femminile?

«Diffido del termine autentico, come della parola verità, è un vocabolo molto pericoloso. Preferisco dire che queste donne esprimono certi lati dell’essere donna che sono interessanti perché escono dagli stereotipi. Siamo tutti abituati a una narrazione stereotipica del femminile, pensiamo alla maternità. Loro invece mettono in luce un lato di questa esperienza, cioè la gravidanza e il parto, che ha a che fare col corpo e che non a caso chiamano oscuro, tremendo, che si tende a tacere».

Generare è prima di tutto un’esperienza corporea?

«Generare ci mette in contatto con la natura, che è rigenerazione continua, rendendoci complici del processo generale della generazione. In questo senso l’esperienza della maternità, che è tutt’altro dalla cura dei bambini, permette una forma di conoscenza».

Rispetto al parto, nel libro riprende un tema presente già in “Nonostante Platone” l’appropriazione da parte del maschile dell’atto di generare.

«Platone disse che la filosofia è partorire con l’anima le idee. Attraverso i discorsi, il maestro faceva partorire agli allievi le idee delle quali erano gravidi. Nel “Simposio” Platone utilizza il linguaggio del parto, ginecologico, per descrivere la nascita delle idee. Da una parte si appropria del potere generativo delle donne, dall’altra lo squalifica come poco importante, non interessante in quanto mera produzione di corpi. Il parto vero, per lui, è quello delle idee, universale, ovviamente maschile».

Parlare di maternità oggi è rischioso?

«È difficile parlarne in termini positivi, e non della sua incidenza negativa rispetto al libero affermarsi di una soggettività femminile. Nella nostra cultura la maternità è stata tradotta nel dovere di generare. Il femminismo, soprattutto a partire da “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir, ha messo in luce la costrizione delle donne in un ruolo riproduttivo, domestico. In quanto trappola, e in favore di un discorso sulla libertà della soggettività femminile, la maternità è diventata un tema da evitare. Penso tuttavia che occorra riflettere su questo strano potere di generare, come lo definiva Virginia Woolf: come filosofa il mio compito è di restituire significato ai fatti, e un fatto è che ogni essere umano nasce dal corpo femminile».

Cosa pensa del dibattito attuale intorno al linguaggio?

«Il linguaggio è un tema fondamentale, così tanto che ne ho scritto il libro, insieme a Olivia Guaraldo, che uscirà il 10 settembre per Mondadori. S’intitola “Donna si nasce” e riflette sul linguaggio inclusivo, sull’utilizzo della schwa, sulla questione gender e della differenza sessuale. È un libro divulgativo che ritengo molto coraggioso, che ci ha richiesto un enorme sforzo di chiarezza».

Nell’attesa di leggerlo, quali letture ci consiglia?

«Tutta la grande letteratura: Mann, Tolstoj, Balzac, Woolf, Austen, Blixen. E pensatrici come Arendt, Weil, de Beauvoir, personalmente mi fido poco della mano maschile che descrive la maternità perché temo sia molto stereotipica».

Alla luce delle sue riflessioni, quale può essere la libertà per le donne?

«La libertà femminile non è un’imitazione pura di quella maschile. Su certi aspetti si somigliano, l’uguaglianza dei diritti risale alla Rivoluzione Francese e vale per tutti, ma per altri è qualcosa di diverso. La libertà è una costruzione politica che si concretizza nella comunità, pertanto l’esperienza della libertà si realizza insieme agli altri, nella relazione all’interno di un contesto. Non ci può essere una via individuale, solitaria verso la libertà ed essa non coincide mai, come si pensa erroneamente oggi, con il fare ciò che si vuole».

Siamo tutti individualisti?

«Il grande vizio della modernità è l’individualismo, quello che chiamano neoliberale, il cui unico rimedio è, a mio avviso, la valorizzazione della relazione. Questo significa che, per il fatto di essere al mondo, ognuno di noi è legato agli altri, condizionato dagli altri ma nell’accezione positiva del termine. La parola condizionamento ha spesso un significato negativo, pregiudicante la libertà individuale, mentre sottintende un legame, una relazione con gli altri. Credo sia una bella parola, sentirsi legati e anche in debito verso la natura, gli altri. La relazione è il rimedio».

Da Il Foglio – La sororité celebrata alle Olimpiadi ma mortificata dalla pretesa inclusività del gender. Dieci femministe firmano “Vietato a sinistra”

Sororité. Sorellanza è stata una delle parole, accanto a liberté égalité fraternité, del mega evento che la Francia ha messo in scena per l’apertura a Parigi delle Olimpiadi 2024. Da Olympe de Gouges a Simone Veil, le statue dorate delle pioniere del femminismo sono spuntate dalle acque della Senna, a testimoniare l’eredità della cultura e delle lotte delle donne. Nello stesso giorno i media hanno dato notizia della dichiarazione di Elon Musk contro uno dei suoi undici figli, il ventenne Xavier, diventato transgender con il nome di Vivian. «Mio figlio per me è morto». Ecco, proprio questa questione del gender, che sembra ossessionare tutto l’occidente, pro e contro – e l’ultimo caso è stato quello dell’impari incontro di boxe femminile, con la vexata quaestio dell’identità di genere della boxeuse algerina – è uno dei temi che sta dividendo il mondo femminista, con un contraccolpo negativo proprio sulla sorellanza (che presuppone non solo la relazione ma anche la capacità di vivere le diversità per ottenere i propri obiettivi). Da noi, dove Elly Schlein ha ballato sul carro del Gay Pride romano insieme all’onorevole Zan, sì, quello della legge sull’omofobia mai approvata perché conteneva un articolo controverso, dieci femministe hanno pubblicato un libro-manifesto sul conformismo ideologico dei progressisti: Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi). Tutte con le carte in regola, ricercatrici, attiviste, docenti, anche ex militanti di partito, hanno deciso di mettere in fila i cosiddetti temi “divisivi”, uno per ognuna di loro, e di sottoporli alla discussione con franchezza, senza reticenze e timori. La cosa ha una certa rilevanza, perché il femminismo, soprattutto quello italiano, ha sempre avuto uno stretto legame con il mondo della sinistra. Il libro arriva giusto giusto in un momento in cui il femminismo, o meglio i tanti femminismi sembrano essere diventati afoni, chiusi in piccoli gruppi diffidenti e riottosi, non più in grado di fare rete e soprattutto rimasti senza obiettivi, se non difendere i princìpi della società dei diritti individuali, l’adesione al “correttismo” dei nostri tempi, diventato ormai morale pubblica. Il linguaggio inclusivo rivendica infatti la fluidità e stigmatizza chi si riconosce nell’affermazione che i sessi sono due, maschile e femminile. Così identità di genere, gravidanza per altri, sex work, farmaci per bloccare la pubertà, trans che occupano gli spazi delle donne, ecc. sono diventati oggetti contundenti da lanciarsi l’una contro l’altra. Sembrano diventatati la questione dirimente, identitaria, anche rispetto ad altri temi decisivi come quello dell’aborto, che è ancora un nervo scoperto, e sui cui l’offensiva delle destre è potente e visibile. «Chi osa manifestare un pensiero diverso, esprimere una critica, un dissenso viene bollato come di destra, reazionario, bigotto, conservatore, perfino fascista, e si tenta in vari modi di metterlo a tacere», scrive la curatrice del libro Daniela Dioguardi.

Ma cosa sta succedendo al femminismo? Si sta suicidando ritornando al neutro universale? Siamo davanti a una mutazione antropologica che di fronte alla società neoliberista basata sui diritti ha come contrappeso etico il caos cognitivo e valoriale? Se lo chiede la filosofa Annarosa Buttarelli recensendo il libro su Doppiozero: «Si dà il caso che, oggi, il femminismo come soggetto politico si sia diviso in correnti, in pratiche differenti, in prese di posizione molto distanti tra loro. Tutto grazie al mercato neoliberista dei diritti. Così sinistra istituzionale e femminismi difensori della libertà individualistica si trovano d’accordo nel dare addosso al femminismo delle origini che non crede di avere (solo) dei diritti». Secondo la filosofa, in libreria con la “sua” Carla Lonzi (Feltrinelli), si è creata nel pensiero una forbice dicotomica, che produce concetti come l’affido condiviso che “cancella la madre”, la prostituzione come “lavoro” parificato agli altri neoliberisti, la maternità surrogata come diritto ad avere figli a prescindere dall’unità psicofisica materna, l’identità di genere che nega l’unità psicofisica di ogni corpo. Gender per tutti, quindi, a prescindere se c’è una donna di sesso femminile o una donna di gender femminile, e via così di dicotomia in dicotomia, di identità spacciate per fluidità. «Ogni dicotomia che si presenti nella storia», dice ancora Buttarelli, «tende a cancellare le donne di sesso femminile dalla cittadinanza e dall’autorità guadagnata dal pensare radicalmente. Forse abbiamo davanti una nuova èra che tende all’insignificanza del soggetto sessuato? Forse un revanchismo misogino di maschi che intendono riprendersi di nuovo l’autorità assoluta?».

Di fatto è guerra guerreggiata tra transfemminismo e femminismo intersezionale – che vedono entrambi le lotte delle donne accanto a quelle delle minoranze e in generale degli oppressi, fino quasi ad esserne il motore propulsore – e il femminismo della differenza, che oggi viene chiamato anche femminismo radicale. Il femminismo delle origini tiene saldamente al centro la parola Donna, contro tutte le tentazioni neolinguistiche della cultura gender, come “persona con utero” per la definizione in relazione al sesso biologico, e “persona non binaria” per l’orientamento sessuale. Vietato dire donna è infatti il titolo del capitolo di Laura Minguzzi, della Libreria delle donne di Milano: «Nell’epoca del transpatriarcato/fratriarcato, in cui identità fittizie sfidano la libertà femminile e il senso della differenza, mi sono domandata: quando è accaduto che il fatto di generare cominciasse a erodere la differenza dei sessi, la disparità/asimmetria della donna nella procreazione? Ci siamo accorte, a nostre spese, che con la proclamazione dell’inclusione universale qualcosa resta escluso: noi, per l’appunto, quelle che non vogliono rinunciare alla potenzialità del corpo sessuato. L’origine, la nascita come evento fondante, è cancellata in nome di un neutro performante di un’identità di genere, costruzione artificiale dell’origine del mondo».

«Donne e uomini devono essere uguali». «Uguali agli uomini o alle donne?». Messa in esergo al libro, è la storica battuta della disegnatrice satirica Pat Carra, come a dire che tra chi è differente non esiste una misura comune. L’attuale presenza nelle professioni e soprattutto la visibilità, l’assertività e la reputazione delle donne veicolata dalla comunicazione mainstream sembrerebbe dimostrare che almeno l’obiettivo della parità sia stato in gran parte raggiunto. Non è vero, sostiene Silvia Baratella, e nel primo capitolo smonta l’equazione passo per passo, dopo aver ricordato le grandi conquiste iniziate dagli anni Settanta, frutto di una sinergia particolarmente felice tra movimento delle donne e istituzioni, al tempo della Carta delle donne voluta da Livia Turco. Non solo divorzio e aborto, ma anche divieto di licenziamento per gravidanza, riforma del diritto di famiglia, patria potestà condivisa, parità di retribuzione… «Ma le nuove norme», scrive Baratella, «si inquadravano in un sistema che era perfettamente compatibile con l’esclusione femminile senza rimetterlo in discussione alla radice». E così il reddito delle donne resta inferiore a quello degli uomini, le carriere non vengono incoraggiate, la parità può rivoltarsi contro… «Il soggetto legittimante è sempre lui, l’uomo, perché è preso a modello e misura», sostiene Baratella. E l’esempio più evidente è quello della politica e delle alte cariche nelle aziende, dove si conta quante donne sono state elette o nominate, ma non in quale ruolo. C’è differenza tra parità ed equità, una differenza che penalizza ancora le donne. La mancanza di equità più clamorosa e più recente è quella che riguarda la bigenitorialità, riformata nel 2006 con la legge 54. Mentre prima nelle separazioni si attribuiva l’affido prevalentemente alle madri, con anche l’assegno di mantenimento, adesso, per renderla veramente “paritaria”, la madre è costretta ai traslochi bisettimanali. Se si oppone, rischia che servizi sociali e tribunale dei minori le tolgano i figli, perché colpevole di ledere l’immagine paterna. Le madri, intimidite, perdono potere pur di non perdere i figli. Non è questa una restaurazione della patria potestà? Se lo chiede Marcella De Carli Ferrari, autrice del capitolo La cancellazione della madre. Dalla maternità al corpo il passo è breve. Il corpo con la sua fisicità, le sue percezioni, le sue trasformazioni. Fare del nostro corpo ciò che vogliamo, dicono le autrici, sembra la nuova frontiera del neoliberismo, il corpo vissuto da un mercato in cerca di nuovi spazi e di nuova merce. «Attenzione, femminismo sta diventando una parola svuotata, bisogna risignificarla. Viene utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne, e con i prefissi trans, post, o con gli asterischi e schwa viene espropriata». Lo scrive la giovane performer di Arcilesbica Stella Zaltieri Pirola, che firma l’ultimo capitolo. Lo slogan storico il corpo è mio e lo gestisco io è diventato il corpo è mio e lo vendo io. «Le transfemministe credono davvero che prostituirsi o partorire figli che non si desiderano siano forme di libertà? E che la mancanza di prospettive economiche per le giovani donne legittimi la minimizzazione dei rischi dell’esporsi alla pornografia a fronte della prospettiva di guadagni? Invece per me è necessario schierarsi ancora e ancora dalla parte delle bambine».

Che ci siano dei problemi lo riconosce anche una femminista che al campo progressista fa esplicito riferimento. È Giorgia Serughetti, filosofa della politica, in libreria con Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica (Donzelli). Serughetti fa un’ampia analisi dei femminismi contemporanei, attribuendo loro un forte valore mobilitante, pur ricordando che la contraddizione tra uguaglianza e differenza è stata la cifra del femminismo del secondo Novecento. «La presenza più numerosa di donne nei luoghi decisionali, e la capacità di alcune leader di rompere il soffitto di cristallo, obbliga a ripensare i rapporti tra femminismo, politica della presenza e politica delle idee. Perché – l’esperienza ormai insegna – la crescita di protagonismo femminile non porta necessariamente con sé, come effetto automatico, una migliore rappresentazione delle esperienze plurali né degli interessi comuni delle donne; in alcuni casi può, contraddittoriamente, coincidere con l’affermarsi di idee e politiche contrarie ai diritti conquistati dall’attivismo femminista, in particolare quelli sessuali e riproduttivi». Serughetti si chiede se l’antinomia uguaglianza/diseguaglianza è ancora adeguata a rappresentare gli obiettivi del femminismo. Il fatto è che quando le donne acquisiscono pieni diritti, anche se solo formali, è più evidente la contraddizione tra donna e cittadina, e si crea una sorta di doppia appartenenza, in cui è difficile districarsi. La conquista dell’uguaglianza non risolve quindi il problema della cittadinanza femminile, perché all’origine c’è proprio il modello egualitario neutro di matrice maschile.

«La piazza insorgente del 25 novembre contro la violenza sulle donne,» scrive Serughetti, «come quelle che in tutto il mondo sfidano l’ordine patriarcale, non cerca rappresentanza ma autorappresenta le proprie istanze». Fra queste istanze, c’è tutto un mondo che pensa che ci debbano rientrare anche gender, Gpa e sex work… In nome della libertà femminile, ovviamente, ma non solo: sono diritti e quindi riguardano tutti. «Per il progressismo contemporaneo ogni riferimento a valori e realtà superindividuali viene considerato oppressivo e lesivo della libertà e autonomia dell’individuo», conclude la storica Francesca Izzo nella sua introduzione a Vietato a sinistra. Il tono è rovente, ma ha il merito di rompere l’ipocrisia. A settembre uscirà un altro saggio, scritto da altre due filosofe – è a loro che saggiamente dobbiamo chiedere di districare l’ingarbugliata matassa: sono Adriana Cavarero, che già aveva iniziato il percorso con Donne che allattano cuccioli di lupo, e Olivia Guaraldo. Entrambe rivendicano la differenza delle donne, in primis di essere il sesso che genera, che mette al mondo, e la necessità per il femminismo di considerarlo non un ostacolo, ma una forza. Il dibattito su sesso e genere oggi, ci dicono, è opaco e strumentalizzato, privo di chiarezza e polarizzato tra le istanze Lgbtqia+ e le forze cattoliche tradizionaliste, e la liberazione femminile non può avvenire con la cancellazione della differenza sessuale. Titolo del libro, che uscirà da Mondadori, è Donne si nasce, in aperta e scandalosa opposizione con la famosissima frase di Simone De Beauvoir, Donne si diventa, che metteva in evidenza come l’identità femminile fosse un prodotto culturale della società patriarcale. Questo assioma ha nutrito la seconda ondata femminista del Novecento e formato tutte le generazioni che sono seguite. Ma forse è ora di ritornare all’essenziale.

Da il manifesto – Il movimento è stato fondato in Austria sei anni fa da Monika Salzer. «Le minacce dei fascisti non ci spaventano» tuona la leader Anna Ohnweiller

Piccola fotografia delle oltre 30.000 Omas gegen Rechts (Nonne contro la destra): la terza età della Resistenza tedesca in prima linea contro i neonazi e i fascio-populisti di Alternative für Deutschland fin dal 2018. Reduci dal primo congresso nazionale a Erfurt chiuso cinque giorni fa, le irriducibili pensionate annunciano la lotta dura senza paura, letteralmente. «Le minacce dei fascisti non ci spaventano» tuona la leader Anna Ohnweiller davanti a 300 delegate rappresentanti le 200 sezioni del movimento fondato in Austria sei anni fa da Monika Salzer. Segue la standing-ovation prolungata spenta solo dal coro «Alerta, alerta, le nonne son più dure». Età media della platea: settant’anni. «Ogni giorno registriamo nuove iscritte» confermano all’ufficio tesseramento delle Omas gegen Rechts, ricordando il picco delle adesioni avvenuto la settimana dopo la pubblicazione sul magazine Correctiv dello scandalo della riunione nazista per deportare gli immigrati.

Ma la chiave del successo delle nonne antifa è tutta interna: organizzazione capillare e linea politica basata non solo sulla protesta in piazza bensì sui diritti delle donne a tutto campo, come provano i 15 workshop tematici organizzati al congresso di Erfurt.

«Abbiamo la responsabilità di lasciare ai nostri nipoti una società in cui valga la pena vivere» precisano le Omas, a partire dalla difesa del clima, altra forma di resistenza praticata insieme ai Fridays For Future. Non solo gli stretti contatti fra i due movimenti sono conclamati ma apertamente rivendicati da entrambe le parti nel nome della battaglia comune.

Del resto, le agguerrite pensionate sono una risorsa politica riconosciuta da tutti gli antifascisti. Il loro congresso è stato aperto dai saluti del presidente della Turingia, Bodo Ramelow (unico governatore della Linke in Germania) con il solenne ringraziamento per «l’instancabile impegno a difesa della democrazia».

Proprio nell’est della Repubblica federale risuona da anni l’allarme per l’ascesa di Afd, diventata oggi il secondo partito a livello nazionale e il primo negli ex Land della Ddr. Per questo le nonne hanno partecipato attivamente al dibattito sulla messa fuori legge del partito guidato da Alice Weidel, soppesando i pro e i contro insieme agli esperti giuristi.

Sempre con lo sguardo attento anche a ciò che accade oltreconfine: di recente le Omas gegen Rechts sono intervenute pubblicamente per censurare le incredibili espressioni contro le donne dell’aspirante vicepresidente Usa, James D. Vance. Il ministro italiano Matteo Salvini, invece, certamente le ricorda in prima fila nelle proteste per la liberazione di Carola Rackete, mentre gli austriaci si sono misurati con le loro manifestazioni contro «la neutralizzazione della Storia» innescate dall’inquietante proposta di smantellare l’insegna commemorativa sulla casa natale di Adolf Hitler. L’opposto del “consiglio” di molti esponenti della destra tedesca di stare a casa a fare la maglia, insomma, anche se le nonne sono diventate famose per via dell’inconfondibile berretto lavorato a uncinetto: si chiama Pussyhat, come il cappello usato nelle proteste contro Donald Trump, ed è ormai un simbolo identitario del gruppo.

Mentre la radicalità delle Omas paga anche istituzionalmente. Nella bacheca del movimento fanno bella mostra uno accanto all’altro il premio per l’integrazione della città di Friburgo ricevuto nel 2019, la medaglia “Paul Spiegel” per il coraggio civile consegnata dal Consiglio centrale degli ebrei tedeschi nel 2022 e la coppa per la cultura e pace della città-Stato di Brema. Ultimo arrivato: il premio per la pace di Aquisgrana 2024.

Plurititolate a difendere la democrazia mai così sotto attacco dei disvalori dell’ultradestra. Più e meglio dei leader politici seduti al Bundestag, la cui assenza è denunciata a voce alta: «Dove sono i partiti?» chiedono le nonne antifa che rischiano in prima persona.

Le minacce dei nazi ricordate da Anna Ohnweiller sono reali e da prendere seriamente, come dimostra il caso delle nonne di Sonneberg, piccolo borgo della Turingia amministrato da Afd, costrette a chiudere il loro profilo social in quanto «postare contenuti è diventato troppo pericoloso: riceviamo commenti di odio e le minacce di morte sono all’ordine del giorno. Mai la situazione è stata grave come ora. Dobbiamo proteggere perfino le nostre famiglie, è in gioco la nostra esistenza».

Solo l’anno scorso a Sonnenberg si sono registrati venti attacchi di matrice fascista, senza contare i tentativi di tagliare i fondi alle nonne: i dirigenti locali di Afd hanno denunciato il movimento alla Corte dei conti lamentando l’impegno «unidirezionale contro di noi» delle anziane antifa.

Da Quotidiano del Sud – La “Signora del giornalismo italiano” è la protagonista del libro Matilde Serao – la voce di Napoli, edito da BeccoGiallo. Un libro bello da leggere e da guardare, con disegni della fumettista Lidia Aceto e la sceneggiatura della giornalista Francesca Bellino che ci restituiscono una Matilde Serao, tra vita privata e vita pubblica, poco conosciuta e raccontata. Donna audace, coraggiosa, trasgressiva, fu la prima in Italia, in un mondo di uomini, a fondare e dirigere un giornale. Fece del giornalismo, oltre che della letteratura, la sua passione e ragione di vita, sorretta dall’amore per la sua Napoli e la sua gente, in particolare per le napoletane. Con i suoi articoli, reportage, inchieste «sapeva entrare nel cuore della gente» e quando nel 1906 vi fu l’ eruzione del Vesuvio, raccontata nel libro con disegni suggestivi, lei divenne «la voce di Napoli», la testimone di un popolo inizialmente curioso e euforico di fronte allo spettacolo dell’eruzione, poi muto, spaventato, colpito da cenere e lava, sopraffatto, schiacciato, impotente davanti alla più devastante eruzione vulcanica del Novecento, che causò oltre 216 vittime, 112 feriti gravi, 30mila sfollati e distrusse case e campi. Durante i giorni dell’eruzione (dal 4 al 23 aprile) la si vede andare «avanti e indietro tra la redazione e i paesi vesuviani per raccogliere storie, fatti e umori. Vuole essere in prima linea […] per descrivere gli avvenimenti con cuore sincero, affidandosi all’istinto» perché suo “dovere” di cronista è “di vedere”, raccontare, testimoniare. Così per il giornale Il Giorno da lei diretto e fondato insieme al suo compagno, dopo la separazione dal marito con cui aveva fondato Il Mattino, la si vede salire sul treno, entrare nelle città ai piedi del Vesuvio e dal vulcano sventrate, tra le viuzze martoriate, a contatto con anziani sgomenti, piccoli terrorizzati, uomini e donne disorientate, file di sfollati. Guarda, osserva e scrive, scrive, sempre. «Noi possiamo fare poco, noi, poveri cronisti dei dolori umani – scrive di ritorno dalla montagna – ma noi vogliamo vedere coi nostri occhi, questo dolore, noi vogliamo raccontarlo, perché esso commuova il cuore della gente all’eroismo e alla pietà, e vogliamo raccontarlo com’è, come esiste, come abbiamo fatto sempre, sulla testimonianza personale». Un amore, il suo, per la scrittura che affonda nell’amore per la madre. «Matilde ha cominciato a leggere e scrivere tardi. A otto anni non sapeva ancora leggere e scrivere. Venne stimolata a prendere in mano i libri solo quando la madre si ammalò e, allettata, le chiedeva di leggerle delle storie. Matilde scoprì così di amare la lettura e la scrittura». Amore per la madre, amore per le donne che la porta ad accogliere e crescere come una figlia la neonata nata dal tradimento del marito con una cantante e ballerina francese. Abbandonata dall’amante, in preda alla disperazione, la donna lasciò la creatura davanti alla casa di Matilde e lì, davanti all’uscio, si sparò. Matilde rimase al suo capezzale fino alla morte e si separò dal marito. Dopo l’eruzione torna sui luoghi desolati per non dimenticare «i morti che giacqueroۛ» e i vivi «che furono privi del tetto, del pane, delle vesti». Incontra tante persone tra cui la levatrice Vincenza Arpia tornata per «raccogliere […] un bambino nato tra le macerie». «Questa popolana dice una cosa profonda e grande. Un bimbo è nato nelle rovine. O resurrezione sempiterna della vita! O bimbo che sei un simbolo! Mai perisce, la vita: ed è un eterno germoglio di forza e di beltà». E con la vita rinasce la speranza di «un popolo che non ha altro conforto che questo: sperare». Un libro bello, un omaggio da donna a donna a una grande giornalista, che seppe scrivere restando sempre fedele a sé stessa. 

Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.

Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.

Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.

Da ied.it – IED News – «Sono per una progettualità senza confini, qualcosa che nel mondo di oggi corrisponda ai nostri bisogni ma anche ai sogni».

È con alcune sue parole che IED saluta Rossella Bertolazzi, appena scomparsa a Milano: donna dallo spirito indomabile e generoso, dotata di uno sguardo sagace, schietto e genuino sulla contemporaneità, sempre aperto al confronto con studenti, docenti, creativi, intellettuali. Femminista impegnata, professionista dalla cultura e dalla curiosità sconfinate nel campo delle arti visive, del design, delle contaminazioni virtuose fra i mondi del progetto.

Rossella Bertolazzi è stata questo, e molto altro.

Dal 2001 a capo della Scuola di Arti Visive IED Milano, ha trasferito in IED tutta la sua esperienza professionale e le competenze acquisite nei molti progetti che l’hanno coinvolta e in cui la relazione con studenti e docenti ha sempre occupato un posto centrale. In lei non è mai mancata un’entusiasta curiosità per tutto ciò che è nuovo e diverso, e che ha fatto nascere in IED percorsi formativi inediti, come quello di Sound Design.

Nel 2020 ha ricevuto il Premio Compasso d’Oro ADI alla Carriera in occasione della XXVI edizionedel riconoscimento mondiale nel design. «Le personalità e le imprese cui è stato conferito il Compasso d’Oro ADI alla Carriera hanno tutti ideato e creato opere che hanno fatto storia. Quando ho saputo del Premio mi sono chiesta: io cosa ho fatto? Nulla di tutto questo – così aveva dichiarato in occasione del conferimento del Premio. – Sono sempre stata un’outsider, da ragazzina ad esempio impazzivo per i film western; avrei voluto scrivere di cinema, invece ho scritto di società e ambiente. La possibilità di lanciare lo sguardo un po’ più lontano mi ha portata a fare molte cose nella vita, tutte apparentemente diverse, ma tutte con qualcosa in comune: la progettualità».

Ripercorrendo la sua carriera emergono le diverse redazioni e i contesti artistico-culturali in cui Rossella Bertolazzi ha operato: caporedattrice per Sapere, SE Scienza Esperienza, IKON, Ottagonoe per la testata dicultura materiale La Gola; direttrice per Cronache filmate del XX secolo, uno dei primissimi esperimenti di periodico multimediale e poi autrice televisiva per Mediaset, Telepiù e Rai. A fine anni Novanta è stata capo-progetto della trasmissione “La scuola in diretta” per Rai Educational, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione e pensata per promuovere le nascenti consulte degli studenti. Ha preso parte alla giuria della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (Bjcem) per diverse edizioni. Ha curato mostre e collaborazioni come quella con Mini Bmw per “Personal Design: dall’oggetto al soggetto” (2003, con Studio Azzurro) e quelle per MINI Design Award su “Il Futuro della città: slow o fast? La luce” (2005), “La città su misura” (2006), “La città che comunica” (2007) e “Il futuro della Città: l’ambiente. Dare valore all’acqua” (2008), oltre alla partecipazione al Noir in Festival di Courmayeur con i lavori degli studenti IED. 

Nel 2017 ha curato, insieme a Davide Sgalippa della Scuola di Arti Visive IED Milano, la mostra La luna è una lampadina per i 50 anni dell’Istituto Europeo di Design, che ha preso forma negli spazi de La Triennale ricostruendo il contesto in cui IED è nato e si è evoluto attraverso lo sguardo e i tracciati geografici dei suoi Alumni. Un’incursione interattiva nelle aule del passato, in un percorso fatto di idee e progetti, volti e avvenimenti che hanno tracciato lo sviluppo del network IED insieme a quello della nostra società, dal 1966 ad oggi. Un percorso di memoria resa attuale nella riproposizione di un metodo progettuale nell’ambito di workshop creativi che per tre settimane hanno coinvolto attivamente studenti e pubblico. Nel 2019 infine, ha curato il volume Dialogues – Architecture Interiors Design sui 25 anni dello studio Locatelli Partners (Rizzoli International).

Oggi le sue intuizioni, i suoi insegnamenti restano in quanti l’hanno conosciuta, nelle generazioni che ha visto formarsi, crescere e affermarsi attraverso innumerevoli progetti di design.

(ied.it – IED News, 17 luglio 2024,  https://www.ied.it/news/ied-saluta-rossella-bertolazzi)

Rossella Bertolazzi non è più tra noi

di Laura Minguzzi

Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SE\Scienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.

Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.


Rossella e l’anello

di Silvia Baratella

Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.

Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.

Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.


Rossella per me

di Fiorella Cagnoni

Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.

Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.

Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –

A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.


Paola Mattioli, Rossella Bertolazzi 2018

Da il manifesto – Alias – A MILANO. Triennale, la mostra di Gae Aulenti, a cura di Giovanni Agosti. Il percorso si sviluppa «in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica» (Aulenti). Edifici negozi mostre musei, e il teatro con Luca Ronconi. E in un gioco di carte, gli «attori» della sua vita professionale e privata…

Come avrebbe immaginato Gae Aulenti una mostra dedicata al proprio percorso creativo? Possiamo dedurlo da qualche suo pensiero: «Il sistema espositivo non può essere un semplice supporto del materiale da rappresentare, ma deve partecipare ad esso, esserne coinvolto e insieme coinvolgere lo spettatore, con chiara volontà». Quanto al percorso, dovrebbe essere immaginato «in modo che l’esperienza spaziale, procedendo per amplificazioni e variazioni continue, si sviluppi con forme autonome successive, in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica». Si coglie immediatamente un’idea espositiva orientata al teatro; non a caso il visitatore, con un upgrade di status, diventa spettatore. Il coinvolgimento è reale se contempla però anche uno spaesamento: perdersi per ritrovarsi con un’aumentata consapevolezza. Di qui la necessità di cambi di ritmo che interrompano la linearità del percorso e stimolino uno sforzo di conoscenza e di critica.

La mostra che la Triennale di Milano ha dedicato a Gae Aulenti (fino al 12 gennaio) prende avvio da una sala che immediatamente inghiotte lo spettatore nel meccanismo della macchina espositiva: sotto un soffitto di onde di stoffa si procede circondati dalle sagome ritagliate nel legno delle donne picassiane che corrono felici verso il mare. Il prototipo è il piccolo capolavoro dipinto dal malagueño nel 1922 durante le vacanze sulle spiagge di Dinard. La sala ripropone l’allestimento, pensato insieme a Carlo Aymonino e Steno Paciello, per la sezione italiana alla Triennale milanese del 1964, che era valsa a Gae Aulenti il Gran premio internazionale assegnato dalla stessa Triennale. Nel gioco di squadra quell’idea così teatrale è come una firma: infatti quindici anni dopo Aulenti avrebbe voluto un dettaglio di quell’allestimento sulla copertina del catalogo della sua prima mostra monografica al PAC di Milano. Questo impatto trascinante fa subito i conti con il brusco cambio di passo dell’allestimento del negozio Olivetti di Buenos Aires del 1968: macchine da scrivere e oggetti di design disposti su gradoni, ricavati entro spicchi di piramide che precipitano in direzione dell’osservatore. Così siamo calati immediatamente in un territorio aulentiano, nel segno di una calcolata discontinuità.

Una mostra su Gae Aulenti non poteva essere pensata secondo i canoni di una mostra di architettura. Anche per questo la curatela è stata affidata a Giovanni Agosti, che, come lui stesso ammette nell’introduzione alla guida che accompagna i visitatori (in attesa del catalogo, la cui pubblicazione è prevista per l’autunno: l’una e l’altro per i tipi di Electa), non è né storico dell’architettura, né del design, né del teatro, «ma solo uno storico dell’arte che le ha voluto però molto bene». Hanno affiancato Agosti Nina Artioli, nipote dell’architetto e contitolare dello studio Tspoon che ha progettato l’allestimento, e Nina Bassoli, curatrice del settore Architettura della Triennale.

Il congegno drammaturgico del’esposizione prevede una sezione «tradizionale» in cui sono esposti materiali documentari (incuriosiscono i diari e alcune lettere) e disegni, tra i quali spiccano gli splendidi lucidi a china e retino con le piante e gli alzati di alcuni dei progetti più famosi di Aulenti. È un lungo corridoio perimetrale che si innesta nel tratto superstite della Galleria dei disegni, che lo stesso architetto aveva progettato per la Triennale del 1994. Dal corridoio si può gettare l’occhio sulla «macchina evocatoria», come la definisce Agosti, che in tredici spazi incastrati l’uno nell’altro, rispettando l’ordine cronologico, restituisce, con spezzoni ricostruiti in dimensioni reali, altrettante tappe fondamentali della storia di Gae Aulenti.

Per una felice combinazione il percorso aperto dalla corsa delle amazzoni picassiane si chiude con i due progetti per, rispettivamente, la stazione Museo della metropolitana di Napoli (2001) e l’«aeroportino» di Perugia (2012), che è l’ultimo lavoro: una chiusura che suona come un commiato, con il tocco struggente dato dall’apparire sui monitor degli arrivi e partenze dei disegni dell’amatissimo nipote Pietro, inseriti come lampi nell’elenco dei progetti, realizzati e non, di nonna Gae.

Tra l’incipit e l’exit della mostra, lo spettatore ha sperimentato continui spiazzamenti. Davanti a lui si è palesato uno spaccato del negozio Fiat di Zurigo (1973) con le automobili disposte spericolatamente su una parabolica, come se la strada avesse fatto irruzione nel negozio. Ha messo piede nel salotto di casa Brion a San Michele di Pagana (1973), dove il senso di morbidezza dato dalla moquette è chiamato a una resa dei conti con le complicazioni introdotte dai rialzi, dai gradini e soprattutto dal brusco presidio dei pilastri.

I pilastri sono un marchio di fabbrica, una cifra «psichica» più che stilistica che pervade, in modo trasversale, i lavori di Gae Aulenti: dominano con la loro caratura drammatica sulla scena

della celebre Elektra scaligera con la regia di Luca Ronconi (1994); stipano lo spazio aggraziato dell’aeroportino di Perugia; si fanno foresta urbana nel rifacimento di Piazza Cadorna a Milano (2000); diventano elementi attorno ai quali far ruotare lo spazio labirintico immaginato per la mostra dedicata a Christo alla Rotonda della Besana a Milano (1973). Il pilastro è una sorta di costante drammatica che vigila sulla scena architettonica mettendosi di traverso rispetto a ogni rischio di percezione accomodante. È il segno, volutamente invasivo, del pensiero e dell’energia critica che abita ogni progetto della Gae.

Per lei, scriveva Alberto Arbasino, c’è un’equivalenza di piani tra «riflessioni critiche, idee, muri e mattoni», tutti allo stesso modo «strumenti culturali e concreti». Un concetto chiarito nel meraviglioso incipit dello scritto dedicatole in Ritratti italiani (Adelphi): «Gae Aulenti dice, con calma: mai Decoration; soltanto Design. Spiega meglio, criticamente: Struttura non superficie. Cioè Forma, non epidermide, né rivestimento».

Questa visione emerge liberata in tutta la sua drasticità nei due allestimenti teatrali riproposti nella «macchina evocatoria» della mostra milanese: l’Elektra, dove la reggia di Micene era trasformata in un mattatoio insanguinato, e le Baccanti (1977), sempre per la regia di Ronconi, al Laboratorio di Progettazione di Prato. In mostra ci si addentra nello spazio claustrofobico dove davanti a due letti d’ospedale gli spettatori (solo 24) assistevano alla recita di una parte del secondo stasimo della tragedia. La traduzione era di Edoardo Sanguineti, che dopo lo spettacolo ammise di aver capito «per la prima volta cos’è una tragedia greca».

Quello con Ronconi è un rapporto chiave per Gae Aulenti. Si erano conosciuti nei camerini della Scala nel 1974, dopo la prima contestatissima dellaWalkiria con le scene di Pier Luigi Pizzi. Lei si era fatta avanti per esternare tutta la propria ammirazione, e da lì era scattata la voglia di iniziare a collaborare. Ronconi, semplicemente «Luca», non poteva mancare nel mazzo delle 88 carte (disegnate da Giovanna Buzzi) dei personaggi, pubblici e privati, che hanno popolato i mondi di Gae Aulenti. Un «Gioco», in vendita a 20 euro, che è parte integrante del congegno della mostra. Come scrive Agosti «gli spazi sono degli stati in luogo, quasi la realizzazione delle didascalie di un dramma, dove gli attori sono quelli figurati dalle carte da gioco».

Ma sulla scena di Gae Aulenti si poteva entrare anche per vie privilegiate aperte in forza di tenerezza, come testimonia la foto indimenticabile di lei che tiene per mano la nipotina Nina nel tumulto del cantiere del Musée d’Orsay.