Da il Corriere della Sera – Negli ultimi quattro mesi sull’Economist sono uscite due inchieste ampie e documentate intorno ai costi della maternità sulle carriere femminili: sarà che il trauma pandemico causato dalla chiusura nella propria intimità ha fatto riemergere prepotentemente l’esigenza di tornare su vecchie questioni, fra cui il celebre quesito femminista «a che cosa vogliamo – e possiamo – dire sì, in quanto donne e madri?».
I dati delle inchieste sono fin troppo chiari: a causa della child penalty, le donne (quando va bene) faticano a rientrare al lavoro. Le loro carriere subiscono una vera e propria caduta fatta di rinunce, rallentamenti, retromarce, deviazioni, scelte coatte. Questo accade ben oltre i periodi di maternità obbligatoria e i congedi parentali di vario genere. Anche quando, apparentemente, il lavoro (inteso come incarico formale giuridicamente regolamentato) resta in piedi, l’identità delle professioniste-madri subisce decelerazioni entrando in una crisi permanente fatta di calcoli (molte chiedono il part-time, se ne hanno diritto), (s)bilanciamenti, (dis)investimenti, quiet-quitting (lavorare cioè solo nei modi e tempi indicati dal contratto, senza assumersi nuove o straordinarie responsabilità).
Così la child penalty si identifica con il suo correlato più naturale: la motherhood penalty. Tutto ciò, naturalmente, appesantendo la propria esistenza con sensi di colpa e relativi traumi inflitti a sé stesse, ai coniugi, alla prole. Della serie: «Avete voluto la bicicletta…». Secondo gli studi pubblicati dall’Economist, lo scarto fra le carriere maschili e le carriere femminili è spiegabile, per molti Paesi, con l’accesso differenziato alla formazione e con varie forme di discriminazione di genere sui luoghi lavoro.
Ma nel “mondo ricco” le donne studiano quanto e spesso più degli uomini, e la caduta delle carriere si spiega quasi esclusivamente con i costi economici, di tempo e di lavoro mentale della cura dei figli. Si torna sempre lì: gli asili nido, le scuole, i periodi di malattia, insomma il refrain della bicicletta e della pedalata che ci siamo scelte e volute. I dati sono incontrovertibili e l’unica cosa certa in tutta questa vicenda è che maternità e lavoro viaggiano su binari spesso divergenti: a partire dal bene più scarso di cui disponiamo, il tempo, ogni giro di lancetta va ponderato fra esigenze del mondo (le riunioni delle 18.00) ed esigenze del nido (quell’eroica pulsione a governare la quotidiana Guernica in cui abitiamo fra le 17.00 e la nanna).
Come uscirne? Studi della London School of Economics e di Princeton, che riprendono le analisi di Claudia Goldin, Nobel per l’Economia proprio su questi temi, parlano chiaro: le promozioni e gli avanzamenti in carriera possono tornare a essere una realtà anche dopo i figli solo cambiando completamente l’assetto del lavoro di cura e mettendo all’ordine del giorno il tema sacrosanto della riproduzione sociale, cioè valorizzando al massimo la riproduzione biologica come motore che permette l’avanzamento della società e della storia. Sì, ma come, se l’unico traguardo sembra la quadruplicazione dei nonni e delle nonne (quando ci sono) o la rincorsa disperante a baby-sitter, associazioni, amici della domenica?
Ripartiamo da due temi.
Primo, appunto: la riproduzione sociale. I figli che costano tanto alle madri sono solo delle madri (e dei padri e dei nonni)? La metafora della bicicletta è molto utile proprio perché è sbagliata. Un figlio non è un vezzo o un capriccio, ma è un progetto individuale perché sociale e sociale perché individuale. È un esempio perfetto della celebre corrispondenza fra personale e politico. Se si assume questo punto di vista, allora la genitorialità potrebbe essere valorizzata non solo con premi nascita o bonus nido, che sono sempre contingenti e non sono mai abbastanza, ma come un tassello fondamentale e produttivo nella vita delle donne e delle famiglie intere.
Si potrebbero inoltre valorizzare le forme di socializzazione che trascendano la famiglia tradizionale ampliata ai soli nonni (o agli zii e ai cugini). È il modello relazionale del mondo contadino, sostenibile economicamente e soprattutto psicologicamente a tutti i livelli famigliari.
Secondo tema: ci chiediamo abbastanza da dove vengano tutte le nuove forme di nevrosi della casalinga? Negli anni Sessanta (e anche prima), le forme compulsive e i disordini di cui soffrivano molte donne erano spiegabili con l’imposizione di un modello per cui certe mansioni erano rese obbligatorie e inevitabili e costituivano una norma vera e propria che a volte veniva repressa e si ripresentava sotto forma di fissazioni per il lavoro di cura, ma anche di depressione post-parto e di altri disordini legati alla vita del nido, come un linguaggio violento verso i figli. Oggi i disordini mentali che accompagnano la caduta delle carriere (a volte la causano, altre volte la seguono) sono nuovamente l’esito di un corto circuito: perché paragonare le carriere femminili a quelle maschili? A chi giova questa comparazione? Certamente non alle donne.
Qualche anno fa la Libreria delle donne di Milano ha pubblicato dei testi sul “doppio sì”, un sì alla maternità e un sì al lavoro, per immaginare il lavoro come uno dei nuclei dell’esistenza e non come spazio alternativo alla cura. Il progetto era ribaltare il ruolo materno tradizionale come “ostacolo” da un lato e rappresentazione dell’angelo del focolare dall’altro, per mettere invece al centro una rivendicazione sacrosanta e apparentemente antieconomica: e se le donne volessero stare vicino ai figli? Se fosse invece un gesto di libertà femminile, ancestrale quanto partorire, quello di voler rallentare finché il nido non si è svuotato? Questo sarebbe possibile, naturalmente, solo affermando una gerarchia di valori in cui la relazione madri-figli non venisse ignorata, ma al contrario valorizzata come fondativa dell’esperienza di una persona adulta.
Evidentemente, invece, se il modello dominante è la giornata di otto ore (almeno), con tanto di call, trasferte e accelerazioni a ogni ora, tutto ciò che si discosta da quel modello dominante rientra nella crisi e nella narrazione della caduta che un po’ è presente anche nelle inchieste dell’Economist. Se a questo aggiungiamo il ritorno, potente, del modello di gravidanza, parto e allattamento ultra-naturali, ultra-vincolanti, ebbene, l’ennesimo corto circuito dell’equilibrio neoliberale è innescato. In inglese si dice it takes a village to raise a child: per crescere un bimbo serve un villaggio intero. Tornerei, e in fretta, a guardare alla riproduzione come gesto sociale e politico, liberando le madri dall’ennesimo fardello perfezionista e disumano per cui non si è mai abbastanza, quando si è già tantissimo.
(*) Angela Condello è docente di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Messina
Da La Valigia Blu – I dissidenti in Russia non hanno vita facile, e la situazione sembra solo peggiorare. Il 22 marzo scorso, la Russia è stata vittima di un feroce attacco terroristico. L’attacco, durato in totale 18 minuti, ha causato 139 vittime. Nonostante la rivendicazione dell’attacco da parte dell’ISIS-Khorasan, il ramo dell’organizzazione terroristica attivo principalmente in Afghanistan e nel Caucaso, il presidente russo Vladimir Putin non ha esitato a strumentalizzare quanto accaduto alludendo a possibili responsabilità da parte ucraina. Per quanto riguarda la politica interna, conseguenza immediata dell’attentato è l’inasprimento del governo russo nei confronti delle questioni relative alla sicurezza.
Le leggi russe relative al terrorismo sono state a lungo un’arma efficace contro il dissenso. Infatti, la legge sul terrorismo varata nel 2006, così come quella sull’estremismo, è stata spesso strumentalizzata per sopprimere il dissenso e controllare il dibattito pubblico, lasciando poco spazio a istanze di opposizione.
Sono 3.738 le persone condannate ai sensi della legge contro il terrorismo nel periodo che va dal 2013 al 2023. Ma tanti sono anche i casi antecedenti a quella data. Tra questi c’è la storia di Ivan Astashin, attivista per i diritti umani che per anni si è battuto contro gli abusi in divisa e contro le condizioni disumane imposte nelle carceri russe. Nel 2009, Ivan lanciò una molotov contro una stazione dell’FSB, il servizio di sicurezza federale russo. Il gesto, più simbolico che realmente tattico, non causò vittime né feriti, né danni sensibili agli uffici: si limitò a rompere una finestra. Ciononostante, Ivan fu accusato di terrorismo e condannato a tredici anni di carcere. Anche in virtù della propria esperienza, Ivan si è impegnato nell’attivismo a tutela dei diritti umani, e a raccontare la tragica situazione delle carceri russe, in cui gli abusi in divisa sono all’ordine del giorno e i dirittihttps://www.rivistastudio.com/sheila-heti-intervista/ dei detenuti sono sistematicamente lesi.
Ivan Astashin è uno dei protagonisti di La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel Paese di Putin (Altreconomia) , libro scritto a quattro mani dalla scrivente e da Federico Varese [. Astashin è uno dei cinque oppositori del regime di Putin di cui abbiamo raccontato le vicende: i protagonisti del libro sono persone reali, che si sono raccontate in lunghe interviste ripetute a distanza di mesi, così da coprire un arco temporale vasto e sensibile ai cambiamenti che la Russia ha attraversato dal lancio dell’invasione su larga scala scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Ogni storia svela un aspetto specifico della società russa, e soprattutto di cosa vuol dire essere dissidenti nel Paese di Putin.
Apriamo il volume con la storia di Ljudmila, una blokadnica (dal russo blokada, “assedio”), vale a dire una sopravvissuta all’assedio di Leningrado (1941-1944). In risposta all’invasione dell’Ucraina, Ljudmila è scesa in strada a manifestare contro la guerra, ed è stata arrestata nonostante l’età avanzata. Ljudmila racconta degli scambi che ha avuto con i giovani soldati. Lei che la guerra l’ha vissuta davvero e ne ha sofferto gli orrori sulla propria pelle ha spiegato, con comprensione e umanità, come la retorica bellicista di Putin, fondata sulla mitizzazione della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, sia un dispositivo per giustificare altrettanti orrori, anziché per rendere omaggio agli eroi del passato.
La seconda storia del volume ci porta invece in periferia, nelle campagne moscovite, dove padre Ioann, un pope ortodosso, è stato arrestato per aver denunciato i crimini russi in Ucraina durante un’omelia a una platea di dodici persone. La storia di Ioann rivela come la Chiesa ortodossa russa sia un importante alleato politico del Cremlino, sposandone le politiche violente e imperialiste e diffondendo propaganda bellicista tra i fedeli. L’assurda storia di Ioann, però, ci ricorda anche come sia sempre più difficile trovare spazi sicuri nella Russia di oggi: i delatori possono nascondersi anche fra una platea di una manciata di persone in un villaggio di campagna.
Grigorij Judin è la terza figura chiave del libro. Ricercatore e docente, con lui svisceriamo le difficoltà di sondare l’opinione pubblica nella Russia di Putin e, in generale, in contesti non democratici. Numerosi studi dimostrano come i sondaggi possano essere influenzati molte variabili, che in contesti non democratici acquisiscono peso maggiore: la formulazione delle domande, il luogo e il momento in cui vengono poste, la familiarità dei partecipanti con l’argomento in questione, la misura in cui essi si sentono liberi di esprimere la propria opinione in sicurezza, l’ente che conduce il sondaggio, e così via. In questo scenario fumoso è difficile misurare il consenso popolare di un regime, e quindi rispondere a una domanda che dal lancio dell’invasione su larga scala ha impensierito molte persone in Russia e non: quanto di quello che sta succedendo in Ucraina è colpa di ciascun cittadino russo? La questione chiama in causa i concetti di colpa e di responsabilità collettiva, e la relazione di accountability che lega governanti e governati, ossia il vincolo di responsabilità bidirezionale degli uni verso gli altri.
A chiudere il volume c’è la storia di Doxa, rivista indipendente nata in seno alla Higher School of Economics, ateneo moscovita di fama liberale, raccontata da Katja, redattrice. La parabola di Doxa e del collettivo di ragazze e ragazzi che la animano mostra il tentativo da parte delle autorità russe di soffocare il dibattito politico all’interno delle università, ma anche di imporre un modello di giornalismo “neutrale”, che in questo contesto significa non critico nei confronti del potere. Di erodere, dunque, spazi che storicamente sono stati culle di dibattiti, cambiamenti e rivoluzioni.
Il filo rosso che lega le storie di Ljudmila, Grigorij, Ioann, Ivan e Katja sono le tattiche di resistenza quotidiane di chi si trova a lottare in un paese in cui fare opposizione è pressoché impossibile. Il processo storico che ha attraversato la Russia dal crollo dell’URSS ai giorni nostri, infatti, ha fatto sì che il paese si ritrovi ad oggi privo di infrastrutture che possano canalizzare il dissenso entro un fronte coeso, e fare opposizione sistematica al Cremlino. Questa situazione non è dettata dal caso, ma dalla combinazione di circostanze preesistenti l’ascesa di Putin, e dalla precisa volontà di Putin di esacerbare una situazione non favorevole allo sviluppo democratico della società civile sin dal suo primo mandato presidenziale. Analizziamo nel dettaglio la questione in un saggio conclusivo, a cui seguono poi due appendici. Nella Cronologia elenchiamo nel dettaglii i momenti fondamentali della dialettica fra opposizione e repressione dal duemila ad oggi. Nel Glossario della resistenza, invece, illustriamo metodi alternativi che cittadini e cittadine russe hanno escogitato per continuare a esprimere il loro dissenso in un contesto così soffocante.
Con La Russia che si ribella ci siamo posti l’obiettivo di mostrare dinamiche interne alla Russia di Putin che spesso rimangono lontano dalle cronache giornalistiche. Attraverso le voci dei nostri intervistati, abbiamo voluto mostrare le difficoltà e le sfide che attendono quella parte di popolazione che non si trova d’accordo con le politiche del Cremlino, e le soluzioni che sono state trovate per farvi fronte. Osservando da vicino le esperienze molto diverse fra loro di cinque dissidenti, il volume rivela passo passo i nodi e i dilemmi fondamentali della popolazione contraria al regime di Putin, facendo luce sul volto di una Russia che difficilmente si riesce a scorgere oltre le maglie della repressione putiniana.
Da Il Quotidiano del Sud – Domenica 14 aprile ho partecipato all’incontro annuale delle Città Vicine, organizzato da Anna Di Salvo e Mirella Clausi di Catania per dare “Voce alle città: la parola alle pratiche” in questi tempi «che ci stanno venendo incontro con accadimenti terribili», come ha esordito Di Salvo in apertura. Un incontro on line che ha visto la partecipazione di molte donne e qualche uomo di ogni parte d’Italia. La discussione ha dato voce a pensieri e pratiche “creative” che quotidianamente donne e ragazze mettono in campo per vivere e non sopravvivere, per conservare la “gioia” e continuare ad avere “fiducia nei rapporti umani”. Racconti e pratiche di donne in una “visione differente di città”, quella che l’urbanista Elena Granata nel suo libro Il senso delle donne per la città chiama la “città immateriale” o il “simbolico femminile della città” che le Città Vicine, come ha ricordato Di Salvo, hanno sempre praticato per “edificare le città alla luce del loro desiderio”. Una visione femminile dell’abitare la città, vista come “comunità di corpi che abitano spazi e tempi umanizzati”, perché le città “non sono le pietre ma le persone, le relazioni, i corpi viventi di uomini e donne”. Ed è sulle relazioni, sull’“energia creativa delle relazioni”, comprese quelle “impensate” di solidarietà e sostegno, create con le nuove tecnologie digitali, che donne e ragazze, come ha raccontato Laura Colombo, fanno leva come “via d’uscita” dalla “paura” dello stupro, “paura di tornare a casa”, perché se è vero, come è vero, che ci sono segnali di cambiamento negli uomini e nei giovani maschi, in loro permane la paura che le mette in una posizione difensiva. Un senso di “sicurezza” nelle città, rese insicure dalla violenza maschile, secondo Mirella Clausi lo dà la presenza della gente ma anche le telecamere. Il convegno ha dato voce con Simonetta Patanè al racconto di pratiche di “relazione politica ed economica” di cura del “territorio” e di recupero “di arti e pratiche antiche” attraverso progetti di sviluppo “sostenibile” e ripopolamento di zone interne. Pratiche che richiamano un turismo che non “si mangia la città” ma rispetta la “durezza” dei territori. Relazioni e cura sono pratiche che le donne hanno sempre fatto ma oggi, come è stato ripetuto, è necessario che diventino l’orientamento del mondo, per salvare città come Palermo che sta andando “verso la mancanza di acqua”. Così come la cura, questo “lavoro di invenzione quotidiana” che richiede “talento” e che per Marina Terragni “dovrebbe rientrare nei curricula lavorativi delle donne”. Voce è stata data al racconto di pratiche di buona amministrazione nelle città di Foggia e Vicenza dove spira “un’aria nuova” con una sindaca e un sindaco voluti e sostenuti dalle donne, senza dimenticare che “il problema a Bari e alla Regione, è nato purtroppo da alcune donne che sono state indagate per corruzione e voto di scambio”. Voce a chi si oppone a Vicenza all’alta velocità, un’opera inutile e dannosa per l’ambiente, dove l’apertura dei cantieri ha mobilitato gli espropriati, come sta avvenendo a Villa San Giovanni per il Ponte sullo Stretto. E ancora, voce è stata data a pensieri e sentimenti di paura e di angoscia per la guerra in Ucraina e a Gaza con annesse rappresaglie tra Israele e Iran, che ci restituiscono immagini di morte e distruzione di città, corpi e palazzi sventrati, e un’assenza totale di “relazioni diplomatiche”. Tante voci, tanti racconti, tante pratiche e la proposta di Loredana Aldegheri di aderire all’appello di Ginevra Bompiani e Barbara Alberti per “uno sciopero mondiale contro la guerra”. A conclusione del convegno, dietro proposta di Laura Colombo, ci si è date appuntamento all’anno prossimo alla Libreria delle donne di Milano, che festeggerà i suoi 50 anni.
Discutere del silenzio potrebbe rappresentare una contraddizione in termini, ma una contraddizione può produrre pensiero, parola e azione.
Di silenzio (ma non solo), si è discusso sabato 13 aprile 2024 alla Libreria delle donne di Milano durante la presentazione de Il silenzio del noi (Mimesis 2023, pp. 90), un volumetto di Niccolò Nisivoccia; l’autore, avvocato ma anche editorialista, scrittore e poeta, ha ragionato sulla scomparsa non tanto del silenzio, ma di un silenzio strettamente legato ad una dimensione collettiva del parlare e dell’agire.
Una dimensione che, secondo lui, ha iniziato a scomparire verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso quando è sparito anche il noi. Un noi che è svanito quando abbiamo smesso di confrontarci, di scontrarci, di dialogare, di assegnare alla parola un valore preminente, sostituendolo con un individualismo arrogante e assordante.
La discussione sul silenzio ha prodotto in me pensiero e ordine del pensiero (ma al momento volutamente non parola) per quella feconda contraddizione a cui accennavo sopra.
Alla metà degli anni ’70 ero un giovane uomo, di famiglia operaia immigrata dal Friuli, avevo studiato in un istituto tecnico come perito elettronico e le parole che ascoltavo e leggevo mi hanno permesso (come a molte altre e altri nella mia stessa condizione sociologica ed esistenziale) di parlare in pubblico, intervenire durante le assemblee del mio luogo di lavoro (allora una grande multinazionale informatica statunitense), discutere all’interno della rappresentanza sindacale interna, parlare nelle riunioni di gruppo politico e via via nel tempo fare anche seguire un corso di studi universitari umanistici.
Parole pronunciate e lette che mi hanno permesso di considerarmi come appartenente a un noi molto ampio.
Questa situazione non è durata a lungo, il parlare si è ritirato nelle stanze e nei luoghi deputati e sono state delegate a chi tali strumenti li aveva e li sapeva usare; piano piano le/i parlanti si sono via via azzittiti e hanno lasciato agli “esperti” (intellettuali, politici di professione e così via) la preminenza della parola. E, con la lenta scomparsa della parola libera e diffusa, è scomparso anche il noi.
Nell’incontro di sabato si è discusso meno di come uscire da questa afonia del noi; su questo sento mancarmi le parole e preferisco ritirarmi in un silenzio che ascolta e mi sento solo di dire, al momento, con le parole di un filosofo, che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Da la Repubblica – La povertà in Ungheria, la fuga in Usa, la figlia olimpionica. E il premio Nobel per gli studi sugli antivirali. Parla la biochimica che ha raccontato in un’autobiografia la sua storia piena di ostacoli
«Ho detto a mio marito: ora tocca a te, devi vincere un Oscar». Katalin Karikó è una donna straordinaria, e anche spiritosa. L’unica qualità che forse non si evince dalla sua autobiografia Nonostante tutto. La mia vita nella scienza, da ieri anche nelle librerie italiane. Nel racconto di una vita dedicata allo studio e alla ricerca, dall’infanzia trascorsa a osservare piante e animali nella sperduta campagna ungherese, al premio Nobel per la medicina conferitole nel 2023 per aver dato un contributo fondamentale ai vaccini anti-Covid, emergono umiltà, determinazione, passione. Di humour ce n’è pochissimo. E d’altra parte la storia di Katalin Karikó è stata una successione di ostacoli. L’infanzia poverissima in una famiglia contadina di un Paese socialista. Gli anni dell’università e dei controlli da parte della polizia politica. La decisione di trasferirsi, alla metà degli anni Ottanta, negli Usa per studiare i segreti dell’Rna (l’acido ribonucleico che nelle cellule, tra l’altro, sovrintende alla sintesi delle proteine): un viaggio da migrante d’altri tempi, con i pochi risparmi nascosti nell’orsacchiotto di peluche della figlia di due anni e il marito Béla che, appena arrivato a Philadelphia, si mette a lavorare come “aggiustatutto” in un condominio.
E poi i nuovi capi americani, che diffidano delle sue idee. Nonostante tutto, la biochimica ungherese insiste: vuole comprendere il ruolo dell’Rna messaggero e utilizzarlo a fini terapeutici. La svolta c’è nel 1997: Karikó inizia a collaborare con l’immunologo statunitense Drew Weissman. All’inizio degli anni Duemila i due scienziati capiscono come usare l’mRna per veicolare vaccini antivirali: è la tecnica che sarebbe poi stata sviluppata dall’americana Moderna e dalla tedesca BionTech (di cui Karikó diventa vicepresidente nel 2013) per i vaccini contro il Covid. Da lì la popolarità e il premio Nobel dell’anno scorso, condiviso con Weissman. Ma in famiglia qualcun altro si era già fatto notare: nel 2008 e nel 2012 alle Olimpiadi di Pechino e Londra, Susan Francia vince due medaglie d’oro di canottaggio nell’“otto con”. È la figlia della Karikó, la bimba che nel 1984 era volata dall’Ungheria agli Usa stringendo un orsacchiotto imbottito di banconote.
«Non mi risulta che ci siano altre famiglie con un Nobel e due ori olimpici», ride la professoressa, «Ora manca solo l’Oscar a mio marito».
Professoressa Karikó, ai Giochi di Pechino e Londra lei si presentava come la mamma di una campionessa olimpica. Ora sua figlia può ricambiare…
«Infatti ha voluto una copia della medaglia che viene consegnata ai Nobel: la tiene in bella mostra nella sua casa di San Diego, accanto ai due ori olimpici».
Una famiglia plurimedagliata: è solo una coincidenza?
«Per praticare canottaggio ci vuole naturalmente forza fisica. Ma è uno sport quasi più mentale che fisico: continui a fare una cosa quando invece tutti gli altri smetterebbero di farlo».
La stessa determinazione con la quale lei ha portato avanti le sue ricerche sull’Rna messaggero come veicolo di possibili terapie?
«Esatto. È molto importante che ci si dia sempre un obiettivo. Io l’ho sempre fatto e voglio continuare».
Nel libro racconta molto della sua infanzia e della sua vita privata. Perché questa scelta?
«Quanto ci succede nei primi quattordici anni di vita è fondamentale per definire il tipo di persona che saremo nel resto della vita. Le difficoltà in cui ho visto dibattersi mio padre macellaio mi hanno aiutata quando è toccato a me superare degli ostacoli. Ho pensato che rievocando anche la mia infanzia il racconto della mia esperienza sarebbe risultato più genuino».
Qual è stato l’ostacolo più difficile da superare?
«Trasferirmi negli Usa dall’Ungheria comunista. Ma è stato forse anche più difficile ricominciare da capo a cinquantotto anni e trasferirmi in Germania per lavorare alla BionTech, di nuovo in un Paese di cui non conoscevo la lingua. La prima settimana ho pianto tutte le notti. Anche quella volta è stato fondamentale Béla, mio marito. Mi disse che ce l’avrei fatta e che non mi avrebbe sopportata se, una volta tornata in America, avessi cominciato a rimpiangere l’occasione persa».
Il suo essere donna le ha reso la vita più difficile nel mondo accademico?
«Quelli che hanno creduto in me erano uomini. Ho anche avuto un capo maschio che mi trattava male e che faceva altrettanto con colleghi uomini. Ma non sono arrabbiata, cerco sempre di dare più importanza alle cose che ho imparato da lui».
In molte professioni, compresa la ricerca, esiste ancora un profondo gender gap. Come se ne esce?
«Fornendo servizi sociali di qualità alle madri. Le donne continueranno a restare incinte e a partorire, e quando i bambini piangeranno, tutti guarderanno loro come a dire “fa’ qualcosa”. Quando mia figlia era piccolissima in Ungheria il pediatra pubblico passava a trovarci a casa tutti i giorni. Negli Stati Uniti e in molti altri Paesi i servizi pediatrici e per l’infanzia sono costosissimi. E questo ha conseguenze sulla realizzazione professionale delle madri».
Suo marito la incoraggiò a migrare tutti negli Usa, quando eravate una giovane famiglia, e poi ad andare lei da sola in Germania…
«Infatti alle studentesse che incontro dico: “Dovete trovare il marito giusto”. Io l’ho trovato.
L’unica cosa in cui non si era mai cimentato era la cucina, ma quando mi è stato offerto il lavoro in Germania ha detto: “Se è la migliore occasione che ti offrono, vai. Imparerò anche a cucinare”».
Lei ha studiato per tutta la vita. Ci riesce anche ora, dopo il Nobel?
«Continuo a farlo, anche se ricevo inviti dappertutto nel mondo e incredibili offerte di denaro per singole conferenze. Ma dico molti no, perché voglio concentrarmi sui prossimi progetti di ricerca».
Quali sono?
«Nello studiare come il nostro organismo sintetizza l’Rna e come lo degrada ho capito che questi meccanismi hanno a che fare con alcune malattie. E sono convinta che si possano iniziare delle sperimentazioni sugli esseri umani per verificarlo».
Una nonna Nobel e una mamma campionessa olimpica: che futuro immagina per i suoi due nipotini?
«Mia figlia li porta a nuotare e a sciare. Io parlo loro delle piante, dei funghi, della scienza. Cerchiamo di stimolarli in entrambe le direzioni».
Il libro: Nonostante tutto. La mia vita nella scienza di Katalin Karikó (Bollati Boringhieri, trad. di Andrea Asioli, pagg. 272, euro 22)
Da la Repubblica – Se il governo a Teheran pensa che basti spaventare la gente per fermare le proteste, che basti dire “siamo in tempo di guerra”, si sbaglia. Azar Nafisi segue le ultime convulsioni della crisi in Medio Oriente dagli Stati Uniti, dove vive da più di vent’anni. Per modo di dire. Perché la scrittrice diventata famosa con Leggere Lolita a Teheran, considerata una delle voci più importanti dell’Iran in esilio in realtà vive legata a filo doppio – via telefono o via internet – con Teheran e con i familiari e gli amici che ha ancora lì.
Signora Nafisi, ha sentito i suoi contatti? Qual è stata la reazione dopo l’attacco di sabato?
«Davvero lo vuole sapere? Allora le devo raccontare che abbiamo scherzato molto su questo grande attacco… che non ha fatto nessun danno. Ora, a parte le battute, le reazioni che ho raccolto sono di scetticismo: i miei amici, i miei parenti, tutti dicono che la guerra vera per gli iraniani non è quella contro Israele ma quella contro il regime islamico che li opprime. E che ora usa questa crisi come diversione dai problemi domestici che non vuole affrontare. Come credo stia facendo anche Netanyahu».
Però la Storia insegna che un Paese in guerra o sotto attacco si unisce dietro al governo: anche a un governo impopolare…
«Certo, ma non è questo il caso. Se il governo a Teheran pensa che basti spaventare la gente per fermare le proteste, che basti dire “siamo in tempo di guerra”, si sbaglia: in Iran la paura non funziona più. Sono tante le persone che non hanno più paura: quelle che scendono in piazza nonostante gli sparino addosso, le donne si tolgono il velo e finiscono in carcere, i giovani che ballano e come risposta trovano i proiettili. Tutto questo è accaduto per mesi: eppure, nessuno si è fermato, la protesta è andata avanti. Per gli iraniani il concetto di vita ormai coincide con quello di libertà. Non c’è vita se non c’è libertà: per questo la gente è pronta a morire. E per questo il regime non può più spaventare tutti quelli che vogliono la libertà».
Quindi questo può essere un momento di cambiamento anche interno?
«Il cambiamento interno è già in atto. Si chiama Donna Vita Libertà. Questo movimento ha cambiato l’Iran: ci vorrà tempo, ma non si torna indietro. La gente ha trovato il suo potere, lo hanno trovato le donne, che usano il loro corpo, i loro abiti, i loro movimenti, il trucco per dire se stanno o no col regime. E che sono pronte a pagare il prezzo del loro “no”».
Sui social network che fanno riferimento all’Iran, da dentro il Paese e da fuori, si legge sostegno a Israele: come dobbiamo interpretare questo segnale?
«Alla gente piace tutto quello che non piace al regime. Nel momento in cui Israele è indicato come il nemico, la reazione di chi si oppone al regime è “Be’, allora non deve essere così male”. Non lo leggerei come un segnale politico. Anche perché anche sulla questione palestinese le idee sono confuse: pochi capiscono veramente che c’è una differenza fra essere palestinese ed essere necessariamente di Hamas. Lo stesso vale per i libanesi e Hezbollah. Le informazioni che arrivano in Iran non sono affidabili: chi vuole capire davvero deve andare a cercare in rete. E non tutti lo fanno».
Ha una speranza per il futuro del suo Paese?
«Certo che ce l’ho. All’inizio del regime islamico, l’ayatollah Khomeini emise il decreto che rendeva obbligatorio il velo per le donne. Decine di migliaia di donne scesero nelle strade a protestare. Uno dei loro slogan principali era: “La libertà non è occidentale o orientale. La libertà è globale”. Queste parole oggi sono valide per l’Iran, la Palestina, Israele, l’Ucraina, l’Afghanistan e ogni nazione del mondo. Sono queste parole che rinnovano la mia speranza per il futuro del mio Paese».
Da Facebook – C’è una grande assente nel profluvio di analisi geopolitiche che circolano, ed è l’opinione pubblica, o se preferite la società civile, di tutti i paesi coinvolti, da protagonisti o da comparse, nella crisi gigantesca che stiamo vivendo. I fari sono tutti puntati sui governi e sugli eserciti, su capi e capetti tutti affetti da una sindrome di infantilismo criminale, come bambini che se le danno litigando su chi ha cominciato per primo e chi si deve vendicare per ultimo. Ma non c’è governo, fra questi che ci stanno portando allo sfacelo, che non debba (o non dovrebbe) confrontarsi con una crisi interna di consenso e legittimazione devastante. In Israele Netanyahu aveva più di mezza società in piazza prima del fatidico 7 ottobre, e continua ad essere ampiamente detestato adesso. L’Iran ha alle spalle il movimento femminile e giovanile di protesta forte e intelligente di cui il mondo si era innamorato ma che oggi è completamente oscurato non solo dal suo regime ma dai media di tutto il mondo. Gli Stati uniti, che siano di Biden o di Trump, sono attraversati da una crisi d’identità e di senso che allarga di giorno in giorno la divaricazione fra società e istituzioni. Dell’opinione pubblica europea non si ha notizia, perché se se ne avesse il suo arruolamento presunto nella guerra d’Ucraina e nel sostegno a Israele si sbriciolerebbe, o obbligherebbe quantomeno a fare un distinguo fra l’Europa dell’Est e l’Europa dell’Ovest, e bye bye alla favola della compattezza dell’Unione. Dei russi abbiamo deciso che sono tutti manipolati da Putin ma chi ne sa racconta che c’è pure un’altra Russia di cui nulla sappiamo; degli ucraini abbiamo deciso che sono tutti felicemente in armi ma fra esodo e diserzione sappiamo che chi può, giustamente, si sottrae. Chi mi conosce sa che io sono tutt’altro che una movimentista e che non ho mai creduto nel valore taumaturgico delle piazze. Ma adesso è proprio venuto il momento di riempire le piazze per dire un gigantesco NO a questo delirio di un potere cieco, ignorante e imbarbarito, dimostrargli che non è onnipotente e mettergli un freno. Non c’è altro modo per togliersi da quell’“orlo del baratro” su cui ogni mattina veniamo informati che ci stanno mettendo.
Allora ci vediamo il 25 aprile a Milano. Troviamoci sotto lo striscione “Mai indifferenti”.
(La redazione del sito)
Da Pressenza – Negli scaffali delle librerie in questi giorni si può trovare il lavoro collettaneo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi, curato da Daniela Dioguardi per i tipi di Castelvecchi Editore (2024). Per presentare il libro abbiamo formulato delle domande a Silvia Baratella della Libreria delle donne di Milano, autrice di uno dei testi.
Qual è stata la spinta a scrivere questo libro e perché definite “temi scomodi” i dieci interventi raccolti nel volume?
Abbiamo deciso di scrivere perché i temi che affrontiamo, temi cruciali per le donne e che chiamano in causa l’inviolabilità del corpo femminile, sono diventati impossibili da trattare nel dibattito pubblico, soprattutto negli ambienti progressisti e di sinistra: alcune di noi negli ultimi anni sono state bersaglio di censure e talvolta di intimidazione. Tuttavia siamo convinte che sia indispensabile riportarli al centro del dibattito. “Scomodi”, sempre, sono gli argomenti che scombinano l’idea che le donne debbano essere a disposizione altrui. Questo facciamo nel libro, un pamphlet curato da Daniela Dioguardi di Udipalermo, e scritto da femministe che vengono da diverse esperienze: UDI, Arcilesbica, Libreria delle donne di Milano, collettivo Donne di Baggio (sempre a Milano), gruppi donne delle Comunità Cristiane di Base, Rete Abolizionista Italiana… Oggi c’è in atto una forte tendenza a disciplinare le donne e a mettere a profitto i loro corpi spacciata per autodeterminazione e considerata libertaria, mentre noi non esitiamo a definirla liberista. Parallelamente si cerca di rendere invisibili le donne come soggetti. È impressionante la fascinazione che queste due tendenze esercitano sugli ambienti progressisti, quelli che più dovrebbero avere a cuore la giustizia sociale e, anche, la lotta contro l’alienazione capitalista.
Tu parli di una volontà giuridica sulla normazione dei corpi. Nella fattispecie a che cosa ti riferisci?
Le proposte di legalizzazione della prostituzione, per esempio: grazie alla legge Merlin prostituirsi non è reato, lo sfruttamento della prostituzione altrui sì. Allora cosa si vuole legalizzare? La possibilità di esercitare un controllo sulle prostitute? I profitti dei magnaccia? O si vuol dare una patente di rispettabilità ai “clienti”? Un altro tema è la gestazione per altri. C’è chi reclama un “diritto” (irrealistico) ad avere figli. Ma potrebbe esercitarlo solo mettendo al suo servizio un corpo altrui, il corpo di una donna. E genererebbe un rapporto proprietario con le creature piccole, fondato sull’averle pagate e non sull’averle messe al mondo. Tutte le norme di questo tipo si risolvono in una perdita di libertà per le donne coinvolte: si potrebbero imporre controlli sanitari alle prostitute – ma chi controllerebbe i clienti a tutela della loro salute? – o schedarle, tutte cose oggi vietate dalla legge Merlin. E nei paesi dove la prostituzione è regolamentata la tratta non sparisce, al contrario aumenta. Quanto alla gravidanza per altri, nei paesi in cui è legale diventa legale anche imporre contratti a condizioni spaventose, in cui le donne sono obbligate a sottoporsi a trattamenti medici dannosi per loro, non possono lasciare il luogo di residenza (domicilio coatto!), non possono far visita ad ammalati in ospedale, non possono avere rapporti sessuali… la loro vita è completamente fuori dal loro controllo, e mai nel loro interesse.
Un altro disciplinamento dei corpi, anche se non è una legge, sta nella standardizzazione della diagnosi di “disforia di genere” per ogni comportamento libero: se sei una bambina e giochi a calcio, devi trasformare il tuo corpo (all’apparenza) in quello di un calciatore maschio. O se sei un bambino che gioca con le bambole devi trasformarti in (finta) bambina. Gli stereotipi non si discutono e non si cambiano, il tuo corpo sì. Medicalizzando comportamenti non conformi o crisi d’identità magari passeggere si rendono bambine e bambini dipendenti da farmaci per tutta la vita. A trarne un beneficio certo sono solo le case farmaceutiche. Ma a preoccuparsene si è accusate di transfobia.
Puoi chiarirci perché una legiferazione sui corpi, specificamente su quello della donna, tenderebbe ad oscurare la visibilità politica di quest’ultima nello spazio pubblico?
A dire il vero, a oscurare la visibilità delle donne nella sfera pubblica non sono tanto le leggi sui corpi quanto, paradossalmente, quelle sulla parità. E stanno arrivando persino a limitare la libertà femminile. Un esempio, accaduto proprio in una regione di centro-sinistra, lo raccontiamo nel pamphlet: interpretando una norma “antidiscriminatoria”, sono state dichiarate “discriminatorie” delle associazioni in quanto femminili. Si tratta di Arcilesbica (e non vedo come un’associazione di lesbiche potrebbe associare uomini!) e di alcune UDI provinciali. L’UDI, Unione Donne in Italia, nata durante la Resistenza dai Gruppi di Difesa della Donna, ha sempre associato solo donne dal 1944 a ora. Adesso glielo si contesta! E il risultato di questa interpretazione qual è? Che non possono accedere a determinati fondi pubblici, che associazioni di soli maschi possono ottenere, perché la formula “soci” nei loro statuti è considerata maschile sovraesteso automaticamente “inclusivo”. Insomma, anziché discriminatorie sono discriminate. Però pretendere di decidere con chi devono associarsi le donne è non solo una violazione della libertà di associazione, ma anche un tentativo di cancellare la presenza femminile autonoma dalla scena pubblica. Operato dalla sinistra. Il governo di centro-destra, invece, usa la parità per promuovere le quote azzurre nella scuola (e non solo): per il ministero ci sono “troppe donne”, quindi bisogna creare canali privilegiati per assunzioni e carriere maschili. Strano che le donne al lavoro, dove ci sono, possano essere considerate “troppe” in un paese in cui gli uomini sono occupati al 70% e le donne solo al 53%. Anche il diritto di famiglia sta registrando un’involuzione, grazie all’ideologia bipartisan della “bigenitorialità”, che in nome della parità penalizza le madri nella separazione. Un tema che abbiamo approfondito nei nostri testi.
Ma non sono solo le leggi a cercare di togliere visibilità alle donne come soggetti. È in corso una battaglia simbolica attraverso il linguaggio. Schwa, chiocciole e asterischi impronunciabili per neutralizzare il genere grammaticale, prontuari di terminologie “politicamente corrette” per sostituire tutti i riferimenti femminili con circonlocuzioni macchinose e francamente offensive, come “persone che mestruano”, “allattamento al petto”. Lo si presenta come linguaggio “inclusivo” verso le persone che non vogliono essere definite in base al sesso, in realtà è aggressivamente escludente verso tutte, e solo, le donne: nessuna parola che riguardi i maschi viene censurata. L’ideologia queer, apprezzatissima a sinistra, anziché criticare e smantellare gli stereotipi, che lascia intatti e anzi assolutizza, attacca e critica i sessi reali, cercando di cancellare quello femminile. In questa cornice, si pretende dal femminismo che si metta al servizio delle teorie gender fluid all’ultima moda e di tutte le minoranze che le incarnano. E quelle che non si assoggettano diventano, appunto, “scomode”. La destra, da parte sua, continua intanto pervicacemente a rifiutare l’uso del femminile per cariche e posizioni professionali ricoperte da donne: altro modo di farle sparire.
Appare chiaro che la vostra critica si concentra a sinistra quando le problematiche, invece, promanano da fonti plurime?
In realtà, critichiamo anche la destra. Ma dalla sinistra ci aspetteremmo tutt’altro, e siamo preoccupate che rincorra acriticamente le tendenze che ho descritto, cieca ai meccanismi di sfruttamento che ci stanno dietro e sorda a ogni richiamo al senso critico e al senso di giustizia che dovrebbe, lei sì, avere nel suo Dna. Le donne non si meritano – e per la maggior parte non accettano – di essere considerate cure per la sterilità altrui, oggetti sessuali o “persone che mestruano”. Né vogliono essere sfruttate e vedere svalutato o cancellato quello che realizzano. In quest’ultimo mezzo secolo hanno costruito percorsi e pratiche di libertà, non vi rinunceranno. Se la sinistra non lo capisce e non riprende a distinguere la libertà dal liberalismo, le destre si approprieranno di temi e argomenti, ma poi li piegheranno alle loro politiche autoritarie, e inique, perché loro il senso di giustizia nel Dna non ce l’hanno mai avuto.
Un’ultima domanda: in questi giorni, durante un intervento sulla natalità, la Meloni è tornata ad attaccare il cd. “utero in affitto”, ricordando non solo che in Senato c’è una legge che lo renderebbe “reato universale”, ma anche il fatto che «non bisogna perdere la specificità del ruolo della madre e del padre». Orbene, come pensate di marcare la differenza rispetto a queste posizioni?
Ecco, come volevasi dimostrare. La sinistra dice che affittare l’utero è empowerment e autodeterminazione, che le coppie sterili hanno “diritto” ai figli. La destra dice che è una pratica da debellare (e sono d’accordo), ma per riaffermare un modello di ruoli rigidi e di coppia eterosessuale obbligatoria. La differenza sessuale esiste ed è un fatto naturale e innegabile, ma non comporta ruoli innati né predestinazioni. Per dirla con le parole della filosofa Luisa Muraro, «nulla di ciò che è umano è precluso a nessuno dei due sessi». Ma madre e padre non sono uguali, non c’è simmetria. La madre è tale perché mette al mondo la figlia o il figlio, li “fa”, materialmente, non perché è “buona” o portata ai sacrifici o votata solo ai figli, ma è lei che li fa e questo crea un legame che, per come la vedo io, viene prima di ogni altro, e prima di quello di coppia. Può decidere lei di separarsi dalla creatura piccola, ma se non lo fa ed è in grado di occuparsene, nessun altro deve poter spezzare il loro legame. Il padre c’è per forza, a monte del concepimento, e può essere accanto a loro – se lo vuole – solo se lei lo accetta e lo desidera al suo fianco (e di solito è così). Se lei desidera crescere la creatura da sola o con la sua compagna, deve poterlo fare. La «specificità del ruolo della madre e del padre» serve a subordinare lei al padre. Personalmente, credo che si dovrebbe riconoscere un ruolo di tutela legale sul minore a una seconda persona solo a partire dalla scelta della madre di crescerlo con quella persona. Chiunque sia. Fermo restando il diritto della figlia o del figlio a conoscere le proprie origini paterne ove possibile. Ti sembrano differenze abbastanza significative dal modello di Meloni? Spero di sì.
Quanto al divieto della gestazione per altri: sono per il divieto di qualunque pratica che permetta di perseguire i propri fini attraverso il corpo altrui. Non riconoscerei un atto di proprietà su un altro essere umano e approvo la messa al bando universale della schiavitù. Allo stesso modo, non riconosco la liceità dell’uso del corpo di una donna e di proprietà sul figlio o figlia di lei, e sono per la messa al bando universale della gestazione per altri. La sinistra si oppone da sempre alla schiavitù, perché non fa altrettanto con l’utero in affitto? Sono cose come queste su cui vogliamo riaprire il dibattito.
Da la Repubblica – E se fosse il desiderio a mancare? Difficile confessarlo mentre i dati raccontano una catastrofe demografica prossima ventura. Eppure, forse, per capire come mai nel 2023 sono nati nel nostro ormai vecchissimo paese soltanto 379mila bebè, nemmeno gli abitanti di un quadrante di Roma, bisogna allargare il punto di vista. Perché al netto di tutto ciò che manca, dal welfare ai nidi a uno straccio di lavoro sicuro, tra le ragioni della crescita zero c’è un dato esistenziale che oggi anche i demografi iniziano a conteggiare. È il movimento, non più carsico, chiamato childfree, enclave all’interno dei cinque milioni di coppie già senza figli in Italia, donne e ragazze ma anche sempre più maschi che apertamente dichiarano: «Bambini no grazie, non vogliamo riprodurci, non vogliamo essere madri o padri, non fa parte del nostro progetto di vita». Età media dai trenta ai quarantacinque anni, ultime Millennials e prime Zoomers (Generazione Zeta), fino a ieri nascoste perché mica è facile uscire allo scoperto e affermare, senza essere definite egoiste o nichiliste, che non è una questione di natura, cioè la sterilità ad esempio, o una questione economica, la mancanza di welfare e di sicurezza. No, non volere figli, è qualcosa che viene dal profondo del cuore, come raccontano Stefania Antonini, che ha quarantotto anni e questa scelta l’ha fatta già molto tempo fa, o Clara Di Lello, che di anni ne ha trenta, ma è già certa della sua decisione childfree. Oppure Mario, dice di essere «uno zio fantastico», ma, aggiunge, «con Samanta abbiamo una buona vita, i nostri ritmi, i nostri lavori, i nostri viaggi, per un bambino il posto non c’è».
Sono tante e tanti, sempre di più, come dimostra una indagine dell’Istituto Toniolo su settemila donne tra i 18 e i 34 anni senza figli: il 21 per cento dice chiaramente di non volerli, mentre il 19 per cento afferma di essere “debolmente interessata” alla maternità. Dunque il 50 forse non sarà madre. Complice una rivoluzione antropologica e sociale che (per fortuna) ha “liberato” le donne dallo stigma per il quale non essere madre voleva dire imperfette, mancanti, persone a metà. Una contraddizione nell’affanno occidentale contro le culle vuote, ma come spiega il demografo Alessandro Rosina, «avere figli è una scelta libera, non è cercando di convincere chi non li vuole che cambieranno le cose, ma sostenendo invece chi vuole diventare genitore». Non è un gioco di parole, ma la constatazione di un mutamento radicale in atto. «I giovani non sentono la procreazione come un imperativo biologico e sociale, vogliono pensare al proprio destino liberamente, se il progetto di un figlio si integra con le proprie scelte di vita, se non ostacola i progetti, allora scelgono la maternità e la paternità. Altrimenti no grazie, senza rimpianti».
Nell’universo delle donne childless, ossia senza figli per le più diverse ragioni, il numero delle childfree, cioè “libere” dai figli, è in netto aumento. «Tra le donne nate alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli ottanta, la quota che non ha figli è del 22 per cento. Di questo 22 per cento, circa il 12 per cento è childfree. Donne cioè che hanno liberamente scelto di non essere madri e oggi rivendicano il diritto, in una società che ancora le giudica perché non procreano, di dimostrare che l’identità femminile non è necessariamente coincidente con la maternità». (Tra le nate negli anni Cinquanta il numero delle childless era soltanto dell’11 per cento). Dunque mentre si urla alla catastrofe demografica è invece da questo dato di mutazione antropologica che si dovrebbe partire. Suggerisce Rosina: «Non saranno le ossessive campagne sulla natalità che faranno cambiare idea alle donne che non vogliono figli». La fatica poi delle famiglie, tra le difficoltà di conciliazione e precarietà, «sta creando una narrazione negativa che spaventa ancora di più le coppie incerte e in particolare le donne».
Già, ma chi si dichiara childfree lo è davvero? Quanto una non-maternità è frutto di volontà o invece di rinvii, di un desiderio inascoltato o ascoltato troppo tardi? Stefania Antonini fa l’insegnante di yoga ed è anche councelor. Del suo essere childfree è diventata testimonial, «perché troppo spesso ci trattano da egoiste, ci rinfacciano che gli italiani si estingueranno». «Non ho rimpianti: un figlio non l’ho mai voluto. Mio marito Andrea l’ho incontrato a trent’anni, a quaranta ci siamo chiesti se davvero saremmo voluti diventare genitori e la risposta è stata no, restiamo così, questa è la nostra felicità. Il desiderio di maternità non l’ho mai sentito, mi piacciono i bambini ma amo una vita dove posso avere il pieno controllo del mio tempo e delle mie giornate, dei miei spazi». Stefania è serena: «Andrea e io viaggiamo molto, prendiamo la moto e via senza orari, non volevo prendermi cura di una terza persona, avere la responsabilità di educarla. Egoismo? Perché? Non facciamo male a nessuno. E di fronte alle vite affannate delle mie amiche, con figli adolescenti, penso di essere fortunata». Mario ha trentotto anni, Samanta la sua compagna ne ha trentacinque. Lavora nella cooperazione, va dove c’è bisogno di aiuto, Afghanistan, Nigeria, Ucraina. «Saremmo pienamente in tempo per diventare genitori, ma non lo diventeremo. Abbiamo vissuto entrambi un’infanzia complicata, genitori separati, famiglie divise. Avere un bambino ci è sembrato un compito troppo grande, difficile. Anche Samanta parte spesso, lavoriamo moltissimo, poi però ci ritroviamo in casa con i nostri libri, la musica e questo basta». Anche Mario non ha rimpianti: «Abbiamo un bel gruppo di amici, con e senza figli, condividiamo vacanze, cinema, serate. Fratelli, sorelle, nipoti, genitori di cui ci prendiamo cura. Una vita piena. Assisto bambini malati, denutriti, in zona di guerra: anche senza un figlio mio e di Samanta il mondo può andare avanti lo stesso».
Da il manifesto – È stata una delle spagnole più note del Ventesimo secolo e ha esercitato una leadership senza precedenti, diventando la prima donna del suo paese a occupare la carica di segretaria generale e poi di presidente di un partito, ha attraversato il regime di Primo de Rivera, la Seconda Repubblica, la Guerra Civile, la dittatura di Franco, la Transizione alla democrazia, e parlare di lei significa approfondire argomenti come la formazione del movimento operaio in Spagna, la storia del comunismo o il rapporto tra genere e coscienza di classe.
E se, come ha scritto di recente su El País l’autorevole storico Gutmaro Gómez Bravo, è necessario che lo studio del passato come radice del presente non sia condizionato dalla polarizzazione e dallo scontro, non c’è dubbio che oggi abbia un senso preciso rievocare Dolores Ibárruri, mentre è in corso una vera “guerra alla memoria” scatenata dall’estrema destra, in Spagna come altrove.
Appare dunque particolarmente opportuno che alla già vasta letteratura su Ibárruri si siano aggiunte, in coincidenza con il centenario del PCE, due nuove biografie: ¡No pasarán! Biografía de Dolores Ibárruri, Pasionaria (Ediciones Akal, pp. 608) di Mario Amorós, e Pasionaria. L’inaspettata vita di Dolores Ibárruri di Jorge Díaz Alonso (People, pp.424, e. 20, traduzione di Marcello Belotti), corredata nella nuova edizione italiana da una prefazione di Pablo Iglesias e uno scritto di Luciana Castellina sul “giorno caldissimo” dei funerali di Togliatti, cui l’ormai anziana Dolores partecipò con intrepida energia.
Nel suo libro (che include una cronologia, un indice biografico dei personaggi citati e un’ampia bibliografia), Díaz affronta con sguardo contemporaneo una figura affascinante e complessa, mettendone in luce i meriti, le ombre, le contraddizioni, le asprezze, l’adesione all’ortodossia sovietica ma anche la duttilità necessaria ad affrontare tempi nuovi.
A suscitare l’interesse del biografo, però, è soprattutto il cammino che portò Ibárruri, nata nel 1895 in una comunità di minatori baschi dove le donne potevano solo «filare, partorire e piangere», a costruirsi una «vita inaspettata». Come riuscì, la ragazzina studiosa che avrebbe voluto fare la maestra e che invece dovette andare a servizio in un’osteria, a trasformarsi in un simbolo dell’antifascismo e in una dirigente politica di primo piano, che conobbe il carcere e un lungo esilio, viaggiò per il mondo, si lasciò alle spalle un matrimonio infelice e si concesse una lunga relazione con un uomo di quattordici anni più giovane?
La sua sorte cominciò a cambiare dopo le nozze con Julián Ruiz, giovane minatore del PSOE: un’unione che per Dolores significò il primo contatto con la politica (nel 1921 lei e il marito parteciparono insieme alla nascita del PCE), ma che fu segnata dalla repressione, da una miseria estrema, da molte amarezze e dalla morte di quattro dei sei figli. Per anni Ibárruri lavorò duramente, provvedendo alla famiglia quando Julián era in carcere, ma non smise di coltivare l’assidua militanza che le aveva aperto altri orizzonti e di scrivere sul giornale dei minatori El Minero Vizcaíno, dove si firmava Pasionaria, un nom de plume che sarebbe diventato celeberrimo. Il matrimonio finì nel 1930, quando Dolores, chiamata alla redazione madrilena di Mundo Obrero, entrò nel Comitato Centrale del PCE e venne eletta deputata durante la Seconda Repubblica.
Fu con la guerra civile, però, che si trasformò in una leggenda: la sua voce e la sua immagine, mentre visitava il fronte o chiedeva il sostegno internazionale, diventarono familiari non solo ai soldati e alla popolazione civile, ma anche agli antifascisti di tutto il mondo e, ovviamente, ai loro avversari.
Aveva l’aspetto di una popolana qualsiasi, una madre e una sposa vestita modestamente di nero, con i capelli raccolti in una crocchia severa: un personaggio che ormai le assomigliava solo in parte; ma Ibárruri sapeva bene che, nonostante la Repubblica prevedesse l’uguaglianza tra i sessi in ogni ambito, rappresentare il “nuovo” e insieme rimandare a echi tradizionali era il modo più efficace per fare breccia in un contesto ancora profondamente maschilista.
C’erano poche presenze femminili sulla scena pubblica, e Dolores, autodidatta e di estrazione proletaria, vi aveva fatto irruzione con enorme forza, una straordinaria capacità oratoria e un carisma indiscutibile: «una donna reale che per la sua differenza riesce a diventare un referente mitico davanti al quale la società maschile, in bene o in male, reagisce», disse di lei Vázquez Montalbán.
Secondo Irene Montero, ex ministra de Igualdad del governo spagnolo, rileggerne la vita in un’ottica femminista è oggi inevitabile, e Díaz, pur sottolineando che Ibárruri non si definì mai tale, la considera portatrice di un femminismo “diverso” e con forti connotazioni di classe, che includeva finalmente le operaie, le lavoratrici del terziario e le contadine: Pasionaria le sollecitava a mobilitarsi per l’uguaglianza salariale e il diritto al lavoro, per l’aborto e il divorzio, per un sistema pubblico di assistenza.
Essere comunista, disse nel ’47, significa anche lottare «contro le trappole feudali e i pregiudizi che hanno fatto della donna, attraverso i secoli, non solo la schiava della società, ma dell’egoismo degli uomini».
Amata e odiata, venerata come una santa laica o diffamata come «strega bolscevica», Dolores Ibárruri è stata una formidabile protagonista del suo tempo, e in esso va collocata; quando morì, a novantaquattro anni, più di duecentomila persone accompagnarono i suoi funerali, e forse il modo migliore per ricordarla sta in quel che scrisse di lei Ernest Hemingway: «Se aveste potuto sentirla… Le parole nascevano dalla sua bocca irradiando una luce che non è di questo mondo. La sua voce aveva l’accento stesso della verità».
Da Zeitun.info. Notizie e libri sulla Palestina – Come si educa nella scuola israeliana? Come vengono presentati la Palestina e i palestinesi nei più popolari manuali di storia, geografia, educazione civica attualmente in uso? Qual è la finalità dell’educazione in uno stato come Israele in cui l’identità nazionale e personale si fondano su quella che viene definita la grande narrazione sionista, capace di orientare scelte e coscienze? E ancora: come l’insegnamento può divenire un’arma per garantire la legittimità di uno stato?
A queste domande risponde, in dense 286 pagine, il lucido saggio di Nurit Peled-Elhanan, docente presso la facoltà di Scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di Gerusalemme che, insignita nel 2001 dal Parlamento europeo del premio Sacharov per la libertà di pensiero e i diritti umani, è tra i fondatori del Tribunale Russel sulla Palestina istituito nel 2009. Il libro, Palestine in Israeli School Books. Ideology and Propaganda in Education, è stato pubblicato a New York nel 2012 e tradotto in italiano per le Edizioni Gruppo Abele nel 2015 [con il titolo La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, Ndr].
In Israele, dove «la lettura critica della narrazione ufficiale è considerata tuttora un atto non patriottico, se non addirittura di puro tradimento», il libro non ha trovato editori.
L’interesse del saggio è almeno duplice perché, oltre a consentire di inquadrare il discorso in un contesto storico che dà ragione della natura di particolare “etnocrazia” o “democrazia etnica” dello Stato ebraico, svela, secondo i principi della teoria socio-semiotica, i meccanismi di costruzione del consenso messi in atto, attraverso raffinate strategie di comunicazione, anche in altri Paesi.
L’autrice, con un linguaggio specialistico ma di facile comprensione, aiuta a decodificare messaggi apparentemente neutri e oggettivi per rintracciarne la matrice ideologica e mettere in guardia il lettore dai possibili inganni di un’educazione formale finalizzata a produrre e riprodurre memoria collettiva e non a fornire strumenti di indagine storica.
Attorno all’illuminante distinzione tra storia e memoria si fonda la premessa della ricerca che dimostra come la costruzione di una memoria mitica e dittatoriale, che mette nell’oblio duemila anni di civiltà palestinese, sia in contraddizione con le esigenze della storia che dovrebbe interpretare, con disinteresse e innocenza, i fatti del passato. Il sionismo, nei testi scolastici analizzati, è un assunto indiscutibile, anche in quelli considerati progressisti. L’obiettivo è chiaro:
preparare giovani soldati che, a diciotto anni, a conclusione della scuola, possano attuare con determinazione la politica israeliana di occupazione dei territori palestinesi.
Il comune sentire “antiarabo” è diffuso in Israele, dove «l’appellativo arabo richiama masse sporche di gente esagitata, terrorismo, primitività, oppressione delle donne, sovracrescita demografica e fondamentalismo»: le sue radici stanno anche negli stereotipi diffusi dai libri di testo, il canale privilegiato attraverso cui gli studenti ebrei acquisiscono informazioni sui palestinesi che vivono accanto a loro senza avere con loro contatti dal momento che costituiscono un out group
connotato negativamente e discriminato. Si tratta di un razzismo che viene alimentato da élite culturali come insegnanti, giornalisti, accademici, scrittori, uomini politici che aboliscono qualsiasi emotività nel racconto delle sofferenze dei palestinesi, percepiti come problema da risolvere, non come cittadini, o semplicemente esseri umani, portatori di diritti.
Anche l’iconografia dei libri di testo, con un uso sapiente anche dell’inquadratura solitamente al di sotto della nostra vista, o la stessa cartografia, che veicola il principio dell’esclusione, o il layout della pagina contribuiscono a radicalizzare la percezione dei palestinesi come problematici, distanti, inferiori, spesso ridotti alla stregua di oggetti da porre sotto controllo: l’emarginazione politica, sociale e culturale di cui sono vittime si riflette nell’emarginazione che subiscono nei libri di testo e i massacri subiti, che il saggio presenta con puntualità in una raccapricciante sintesi di quelli principali, sono giustificati e resi inoffensivi alla coscienza.
La conclusione è sconfortante e inequivocabile: le pratiche razziste e discriminatorie sono trasmesse dalla scuola e, più in generale, dall’apparato statale di Israele che meriterebbe, secondo l’autrice, l’inclusione nella lista dei Paesi razzisti da parte della Commissione delle Nazioni Unite. L’immagine scontata e tradizionale in Israele che vede ogni arabo seduto a fumare il narghilè o pronto ad abbracciare un’arma va cancellata. La scuola, che dovrebbe insegnare la complessità del giudizio e la diffidenza nei confronti delle semplificazioni identitarie, in Israele fallisce il suo obiettivo. Purtroppo non solo lì.
(*) Laura Forcella Iascone insegna italiano e latino in un liceo scientifico di Brescia, per il quale è responsabile delle iniziative culturali. Laureata in Lettere con una tesi di argomento geografico, ha collaborato con riviste, enciclopedie e libri di testo ed è coautrice di manuali scolastici di latino per la casa editrice “La Spiga”.
Da Avvenire – Un forno per riaccendere la speranza. Un pane per uscire dalla fame. Nell’Afghanistan dei taleban alle donne sono concesse poche chance, non solo per vivere ma perfino per sopravvivere. Così anche un piccolo progetto di cooperazione internazionale può innescare un grande cambiamento e fare la differenza per centinaia di persone. Un manipolo di operatori di un ente italiano del Terzo settore ha riattivato alcune panetterie in disuso nei distretti più poveri di Kabul, affidandole a piccole équipe di donne che cuociono i pani tradizionali, naan in lingua dari, distribuendoli poi a centinaia di madri capofamiglia.
È un’idea semplice ma che per realizzarsi ha avuto bisogno di oltre un anno. A partire dal nome del progetto, “Bread for women”*, pane per le donne, che le autorità taleban hanno cambiato in “Bread for families”, pane per le famiglie. «Non è stato facile convincere i capi dei distretti – racconta Livia Maurizi, Capo dei programmi di Nove Caring Humans, una giovane donna che dietro un aspetto dolce e paziente cela una volontà di ferro e una motivazione altrettanto intensa. E non è stato nemmeno facile trovare donne che si fidassero di noi». Perché uscire di casa da sole è vietato, e i rischi per chiunque si voglia rendere indipendente sono tanti e concreti.
Ma dallo scorso febbraio i forni dismessi, alimentati a gas anziché a legna per consentire una produzione più ampia, sono stati ristrutturati, resi funzionali, efficienti e sostenibili sia per l’ambiente sia per la salute delle donne che vi lavorano. Le panettiere sono state formate non solo sulle tecniche di panificazione, ma anche sui rudimenti di contabilità e di gestione economica: in tutto, tra fornaie, assistenti fornaie e addette alla distribuzione del pane, è impegnata una dozzina di operatrici. Gli impianti – in realtà poco più sofisticati di grandi bidoni metallici interrati – funzionano dodici ore al giorno: grandi quantitativi di naan vengono sfornati e distribuiti a un totale di 120 donne (40 per ogni forno) selezionate in base ai bisogni; per lo più si tratta di vedove – l’Afghanistan è il Paese al mondo con più donne sole capofamiglia a causa del succedersi decennale di guerre – con molti figli a carico e nessuna fonte di sostentamento. Ciascuna beneficiaria riceve gratuitamente 5 pani da 300 grammi, sette giorni alla settimana, e questo contribuisce a sfamare almeno 800/1000 persone. Il pane è l’alimento base del regime degli afghani, il cibo più economico e l’unico che la maggior parte delle famiglie possa permettersi.
«A causa delle restrizioni dei taleban io e le mie figlie non possiamo lavorare – racconta Mahdiya, quarantacinque anni, vedova dal 2019, madre di cinque figli – Far parte di “Bread for women” mi ha aiutato a sfamare i miei figli. La mia famiglia non riusciva a comprare neppure un pane al giorno, immaginate come cinque pani hanno cambiato la mia vita».
Come funziona il progetto? «Noi paghiamo alle fornaie il prodotto finito, loro si organizzano con le materie prime e i compensi alle assistenti – continua Maurizi – Così possono disporre di un piccolo reddito personale, e in Afghanistan è una grande conquista. Stiamo gettando le basi per una sostenibilità economica: quando il progetto finirà, e non finanzieremo più la vendita di pane, le fornaie avranno il know-how e l’infrastruttura per proseguire l’attività con le loro gambe. L’idea è che il forno diventi “di comunità”; le famiglie o i ristoranti potranno portare i loro cibi a cuocere pagando un piccolo canone».
Un altro grande traguardo, oggi, è poter contribuire ai bisogni alimentari di decine di famiglie in un Paese afflitto da una carestia sempre più grave per l’effetto combinato della crisi economica, dell’aumento dei prezzi delle materie prima e dei beni di prima necessità e dal crollo dell’occupazione femminile. L’80% delle donne – spesso capofamiglia – non ha più i mezzi sufficienti per rispondere ai bisogni primari per sé stessa e i propri figli.
E non è tutto. Il progetto “Bread for women” ha ottenuto un effetto non secondario: far uscire le donne dall’isolamento, creare per loro una minima occasione di socializzazione in un Paese dove il minimo movimento delle donne è osservato e potenzialmente sanzionato. «Venire al forno mi aiuta economicamente – racconta Aliyah, trent’anni e sette figli, vedova da sette, quando il marito è stato ucciso da una bomba in strada a Kabul. – Ha un impatto anche sulla mia salute mentale, vedere altre donne, parlare con loro, condividere le preoccupazioni mi fa bene. Osservare la resilienza e la forza delle donne afghane anche in questa situazione difficile, la loro battaglia per essere forti e lottare per la loro famiglia, rende più forte anche me».
(*) “Bread for women” è un progetto pilota di forni di comunità, finanziato da Linda Norgrove Foundation, dall’8×1000 all’Unione Buddista italiana e da Uplift Afghanistan Fund. Ma è stato studiato in modo che sia replicabile su larga scala, in altri distretti di Kabul e in altre regioni più bisognose e remote dell’Afghanistan, per generare un impatto economico positivo su più larga scala.
Da Jacobin Italia – La nota filosofa Nancy Fraser avrebbe dovuto tenere la cattedra Albertus Magnus all’Università di Colonia il prossimo maggio. Alla fine della scorsa settimana, però, il suo invito è stato ritirato dal rettore dell’università, Joybrato Mukherjee, per aver firmato una lettera di solidarietà pro-Palestina lo scorso autunno. In questa intervista, Fraser parla per la prima volta di quel che è successo.
L’Università di Colonia l’ha disconosciuta dalla cattedra Albertus Magnus. Cosa prevedeva questo incarico?
La cattedra prevedeva un soggiorno di alcuni giorni e conferenze pubbliche nell’ambito di un programma che doveva essere dedicato allo scambio aperto. Ho deciso di tenere delle conferenze a partire dal mio attuale progetto di libro sui tre volti del lavoro nella società capitalista, un argomento che non aveva nulla a che fare direttamente con Israele o la Palestina. Avevo lavorato sodo per scrivere queste conferenze. Tra l’altro, avevo anche comprato un costoso biglietto aereo.
Può spiegare come è avvenuta la cancellazione?
Qualche giorno fa ho ricevuto un’e-mail da un professore di Colonia, Andreas Speer, che organizza questi eventi. Mi ha detto che aveva appena sentito il rettore dell’università, che era preoccupato per il fatto che avevo firmato la dichiarazione Philosophy for Palestine a novembre e voleva che chiarissi la mia posizione. Ho pensato: che faccia tosta! Voglio dire, che cosa gli importa di sapere quali sono le mie opinioni sul Medio Oriente? Sono un soggetto libero, posso firmare quello che voglio.
D’altra parte, non volevo essere eccessivamente conflittuale. Così ho risposto dicendo: «Certo, ci sono molti punti di vista diversi sulla Palestina e su Israele, e c’è molto dolore da tutte le parti, compreso quello che ho provato io stessa come ebrea. Ma c’è una cosa su cui non ci può essere disaccordo». Ho citato una frase di una dichiarazione che il rettore dell’università aveva pubblicato sul sito dell’ateneo, sull’importanza di una discussione aperta e rispettosa. Quindi, ho detto al signor Speer: «La prego di assicurare al rettore che può assolutamente contare su di me quando si tratta di una discussione aperta e rispettosa». Pensavo che questo avrebbe messo fine alla questione. Ma in realtà, appena uno o due giorni dopo, ho ricevuto una mail diretta dal rettore che diceva di non avere altra scelta se non quella di ritirare l’invito. È scritto esplicitamente, nero su bianco, che poiché ho firmato questa lettera e non l’ho disconosciuta nelle nostre successive comunicazioni, sono stata cancellata.
Qual è stato il principale punto di scontro? L’uso dei termini apartheid e genocidio? O il boicottaggio delle istituzioni israeliane, a cui la lettera invita a partecipare?
Non lo so davvero, perché non ho ricevuto ulteriori spiegazioni. Il rettore mi ha proposto di fare una video chiamata in cui mi avrebbe spiegato ulteriormente il suo punto di vista. Non ho risposto. È una questione pubblica. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di parlare apertamente. Quindi, spetterà a lui chiarirlo. Ora c’è anche una dichiarazione sul sito dell’università. A me sembra che tutto questo sia una cortina di fumo. È una chiara violazione della politica dichiarata dall’università e degli stessi valori che invocano con il nome Albertus Magnus. Tali valori sono proprio quelli della libertà accademica, di opinione, di parola e di discussione. Qualunque complicata razionalizzazione venga fornita per spiegare perché questo procedimento non violi tali valori mi sembra vuota. È un segnale molto forte a tutte le persone dell’università e agli studiosi di tutto il mondo: se osate esprimere certe opinioni su certi argomenti politici, non sarete i benvenuti qui in Germania. Ha un effetto raggelante sulla libertà di espressione politica delle persone.
Quando dice che questa è una violazione delle politiche dell’università, prevede di intraprendere un’azione legale?
Ci ho pensato. Non è la mia priorità. Ma non lo escludo nemmeno. Prima di tutto voglio convincere le persone che questo è un caso davvero oltraggioso di quella che, secondo molti, è una tendenza molto più ampia nella Germania di oggi. Le persone che occupano posizioni di potere nelle università e nelle istituzioni artistiche tedesche e i membri del governo federale tedesco che potrebbero incoraggiarli in questo senso dovrebbero pensarci due volte. Stanno violando chiaramente le norme accademiche e, francamente, anche quelle costituzionali ampiamente diffuse in materia di libertà politica e libertà di parola. Ciò danneggerà notevolmente l’accademia tedesca.
Considerando solo la storia più recente dell’indignazione pubblica e delle cancellazioni in Germania, sembra che lei sia in buona compagnia. Ci sono stati i casi di Maša Gessen, Ghassan Hage, Judith Butler e molti altri. Molti di loro, come lei, sono ebrei. È preoccupata per questo?
Non per me stessa. Sono installata a New York e ho un enorme sostegno, tra cui una lettera estremamente forte del presidente della mia università, la New School, Donna Shalala, che si apre con la grande frase: «Albertus Magnus sarebbe inorridito!». Fa notare che è particolarmente preoccupante che un’istituzione tedesca cancelli un membro della facoltà della New School, che non solo ha salvato gli studiosi tedeschi in fuga dal fascismo, ma ha anche creato uno spazio per continuare il corpo della teoria critica che era stato spazzato via in Germania. La New School ha contribuito a quel corpo di pensiero così come ho fatto io personalmente. Quindi, questo è un insulto alla New School, oltre che a me. Ma soprattutto è una violazione delle norme sulla libertà accademica.
Crede che questa sia una tendenza?
Sì, e sono molto preoccupata. La vedo come una febbre che sta attanagliando la Germania e, in misura minore, l’Austria. È una cosa molto dannosa. Penso anche che sia importante che i tedeschi capiscano qualcosa della complessità e dell’ampiezza dell’ebraismo, della sua storia, della sua prospettiva. I tedeschi stanno in un certo senso sottoscrivendo l’idea di un giuramento incondizionato di fedeltà a Israele, come se la responsabilità storica tedesca comportasse il sostegno incondizionato allo Stato di Israele. Considerando ciò che Israele sta attualmente facendo, questo è un tradimento di quelli che definirei gli aspetti più importanti e pesanti dell’ebraismo come storia, prospettiva e corpo di pensiero. Mi riferisco all’ebraismo di Maimonide e di Baruch Spinoza, di Sigmund Freud, Heinrich Heine ed Ernst Bloch.
Può specificare cosa intende?
Quest’altra tradizione dell’ebraismo sta riducendo l’ebraismo non solo al nazionalismo, ma a un ultranazionalismo del tipo di quello che sta calpestando e fondamentalmente distruggendo la Striscia di Gaza. A proposito, ho appena firmato un’altra lettera! Non sono pentita. Una lettera contro lo “scolasticidio” israeliano, cioè la distruzione di scuole e università a Gaza. Più di cento professori sono stati uccisi lì. Nove rettori di università sono stati uccisi. I nomi delle persone che vi ho menzionato prima sono solo una lista, ma ce ne sono molte altre. Basti pensare ad Albert Einstein, a cui fu offerta la presidenza dello Stato di Israele e che rifiutò. Si tratta di persone che per la loro stessa ebraicità hanno difeso diritti universali, non una ristretta identità tribale.
Alcuni dei suoi critici hanno sostenuto che in realtà lei non è stata cancellata, ma semplicemente le è stato rifiutato una sorta di tributo.
Ci sono tedeschi che sono tentati di sorvolare e di dire che si trattava solo di un premio onorario. Molti tedeschi, anche giornalisti, sono stati intimiditi e hanno accettato una visione molto distorta del significato della libertà accademica. L’argomentazione secondo cui si potrebbe semplicemente togliere qualcosa perché è solo un premio e non è veramente un ruolo accademico è una sciocchezza. In realtà quella di visiting professor è una nomina accademica. Come tutti gli altri titolari di questa cattedra, sono stata scelta per il mio lavoro accademico. L’idea che ciò che faccio giustifichi il ritiro di un invito dice già che l’autonomia accademica viene violata. Su questo non c’è dubbio. Voglio dire a queste persone che è vero che avete la responsabilità di pensare profondamente agli ebrei. Ma ci state pensando nel modo sbagliato. C’è un altro modo di pensare.
Critici come Maša Gessen hanno sostenuto che negli ultimi anni l’interpretazione specifica della «Staatsräson” (ragion di stato) tedesca nei confronti di Israele ha aiutato gli estremisti di destra come l’Alternative für Deutschland (AfD). È d’accordo?
Non posso fare commenti specifici sull’AfD. Ma posso dirle che negli Stati uniti la destra cristiana evangelica ha la sua versione del “maccartismo filosemita”, per usare l’espressione di Susan Neiman. E hanno una logica teologica che è di per sé profondamente antisemita. Ma la cosa più preoccupante della Germania per me non è l’AfD.
Che cos’è?
Il centrismo di destra, dove risiede il vero peso dell’opinione pubblica. È così facile che venga influenzata da argomenti che per me sono palesemente falsi. Come l’argomentazione secondo cui, cancellando il mio invito, nessuno starebbe violando la libertà accademica, ma semplicemente scegliendo di non onorare una persona che ha le opinioni che pensano io abbia.
Lei ha detto che non c’è un legame profondo tra Filosofia per la Palestina e il ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere a Colonia. Ma direbbe che non c’è un legame tra la posizione assunta nella lettera e i suoi scritti accademici?
Indosso più di un cappello. Svolgo un lavoro teorico. Occasionalmente firmo lettere come cittadina. Non credo che questi aspetti debbano essere direttamente collegati. Tuttavia, a volte scrivo in modo più agitato o propagandistico. L’esempio migliore è Femminismo per il 99% di cui sono coautrice con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Abbiamo preso le idee che ognuna di noi aveva sviluppato nel proprio lavoro e le abbiamo fuse. Si tratta di un manifesto su come tracciare un percorso diverso per l’attivismo femminista, per intenderlo come interesse del 99%, delle donne, degli uomini e dei bambini, in contrapposizione a un certo tipo di femminismo neoliberale aziendale. Ho cercato di divulgare le mie idee accademiche, ma non ho mai scritto sul Medio Oriente. Non ho grandi competenze, ma sono una cittadina che pensa e legge. E come ebrea, sento la speciale responsabilità di dire «non in nostro nome».
Forse perché ciò che viene fatto a Gaza è, in una certa misura, fatto in nome del popolo ebraico?
Esattamente. Non c’è dubbio che ci sia una strumentalizzazione, o addirittura si faccia un’arma, dell’accusa di antisemitismo applicata in modo del tutto sbagliato alle persone che ritengono che condannando l’attuale corso del governo israeliano, si sostiene una correzione di rotta per migliorare la situazione dei palestinesi così come del popolo ebraico ovunque.
Sembra una cosa onorevole da dire. In Germania, tuttavia, il Bundestag ha approvato una risoluzione che dichiara il boicottaggio delle istituzioni israeliane come un caso di antisemitismo.
Molti in Germania associano tali boicottaggi a immagini di boicottaggi storici contro gli ebrei tedeschi negli anni Trenta.
È un’associazione interessante. Però all’epoca non esisteva uno Stato ebraico che si impegnava in una carneficina militare illegittima. Un parallelo migliore sarebbe il Sudafrica, dove c’è stato un forte boicottaggio accademico, un boicottaggio sportivo e un boicottaggio culturale, che ha avuto un certo impatto insieme al boicottaggio economico per porre fine all’apartheid. Tra l’altro, i tedeschi non si limitarono a boicottare gli ebrei. Li espulsero, li radunarono, li mandarono nei campi di concentramento e li uccisero. Niente di tutto ciò sta accadendo qui.
Ha intenzione di ripetere il ciclo di conferenze di Colonia altrove?
Lo farò altrove! Si tratta di una nuova versione ampliata e rivista di alcune conferenze che ho tenuto a Berlino due anni fa. Ora ho molto materiale nuovo, che non vedevo l’ora di presentare. La mia università, la New School, sta organizzando un evento. Mi è stato anche suggerito di tenere una conferenza in altre parti della Germania con il titolo: Questo è ciò che non volevano farvi sentire a Colonia.
Alcuni professori tedeschi hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. Crede che la gente in Germania possa cambiare idea su questi temi?
Non sono abbastanza vicina per avere un’opinione informata in merito. Ma ho l’impressione che la febbre si diffonderà. Non sono in grado di dire se il mio caso sarà l’evento scatenante, o il prossimo, o quello successivo. C’è un crescente disagio al riguardo. Almeno a New York.
Si vede come una vittima di quello che prima ha descritto come antisemitismo filosemita?
Suppongo di sì. Sono stata cancellata in nome della speciale responsabilità tedesca per l’Olocausto. Presumo che tale responsabilità ne debba comportare una nei confronti degli ebrei. Ma, naturalmente, si restringe alle politiche statali di qualunque governo si trovi a governare in Israele. Per noi negli Stati uniti, maccartismo è una parola potente. È un modo per mettere a tacere le persone con il pretesto che si è presumibilmente a favore degli ebrei.
Negli ultimi sei mesi gli Stati uniti e la Germania sono stati i due principali fornitori di sostegno e armi a Israele. Che peso ha questo nella sua visione della Germania?
Il primo colpevole sono gli Stati uniti. Non sto salvando la Germania, ma in realtà, se vi interessa sapere chi finanzia le politiche di Israele, sono gli Stati uniti. Tuttavia, per la prima volta nella mia vita, e credo in assoluto, c’è una discussione pubblica equilibrata sulla questione della Palestina. Le voci palestinesi sono presenti nella sfera pubblica. Le organizzazioni, comprese quelle ebraiche di sinistra, che criticano la politica israeliana sono nella sfera pubblica. Joe Biden è sotto pressione. Ha parlato in modo più duro delle condizioni degli aiuti a Israele e ha chiesto un cessate il fuoco. Resta da vedere se questo si tradurrà in veri e propri tagli o condizionamenti degli aiuti, se i democratici al Congresso cercheranno di forzare la questione. Ma almeno il rubinetto aperto del nostro governo sugli aiuti militari è diventato politicizzato e contestato.
Mi auguro che qualcosa di simile si sviluppi anche in Germania. Che almeno diventi una questione pubblica su cui si possa discutere, senza essere accusati di antisemitismo o essere cancellati.
Da il manifesto – Il ricorso delle klimaseniorinnen. Sono 2.500, hanno un’età media di 73 anni, collaborano con Greenpeace e vanno in piazza
«Oggi è un giorno di gioia, di sollievo e di emozioni fortissime, ci spiace per l’esito della causa dei giovani portoghesi, abbiamo detto loro che la nostra vittoria è anche per loro», dice da Strasburgo Norma Bargetzi-Horisberger, una donna di 69 anni che vive a Cassina D’Agno, nel canton Ticino, ed è una delle militanti più attive dell’associazione KlimaSeniorinnen, anziane per il clima. Ieri mattina era a Strasburgo con un gruppo di attiviste per assistere alla sentenza della Corte europea per i diritti umani (Cedu).
Le Anziane per il clima erano già state a Strasburgo un anno fa, per la prima udienza del processo, hanno sfilato insieme a Greta Thunberg, simpatizzano per le azioni degli attivisti di Ultima Generazione che si incollano all’asfalto per bloccare il traffico e gettano vernice lavabile su monumenti e opere d’arte, e a febbraio hanno marciato da Landquart a Davos nella manifestazione che ha contestato il Forum economico globale. «Sono diventata un’attivista perché mi sento in parte responsabile di questo disastro, è inutile negare che è stata la mia generazione a fare i danni più grandi», ha detto Norma Bargetzi-Horisberger al Corriere del Ticino nei giorni del summit.
L’associazione Anziane per il clima è nata nel 2016, nel 2020 ha presentato il ricorso alla Corte di Strasburgo, con l’appoggio di Greenpeace Svizzera, e ieri ha ottenuto una vittoria che potrebbe influenzare le politiche sul clima in Svizzera e, in maniera indiretta, nel resto del mondo. All’inizio erano in 150, ora sono 2.500 in tutti i cantoni elvetici, con un’età media di 73 anni, ma è facile prevedere che nel futuro prossimo i numeri cresceranno ancora. «Il nostro lavoro è stato fondamentale per sensibilizzare la Svizzera e il mondo intero in merito al fatto che i cambiamenti climatici costituiscono la principale minaccia per i diritti umani», dicono.
L’iscrizione è consentita solo alle donne che hanno compiuto i 64 anni di età, perché «le anziane sono le vittime principali dei cambiamenti climatici» e non tutelarli, per loro, vuol dire violare un diritto umano. Secondo l’avvocato delle ricorrenti Jessica Simor, il caldo aumenta il rischio di problemi renali, provoca attacchi d’asma e disturbi cardiovascolari negli anziani, soprattutto fra le donne. Le statistiche parlano chiaro: tra il 1991 e il 2018 il 31 per cento delle morti registrate in Svizzera per le ondate di calore sono state attribuite alle conseguenze di cambiamenti climatici provocate da azioni umane e ad avere la peggio sono stati soprattutto bambini e donne anziane. Uno studio sull’impatto delle ondate di calore pubblicato nel 2022 da Environmental Health Perspectives dimostra che le ultrasettantacinquenni appartengono alla categoria più a rischio.
Ė accaduto non per caso. Un invito di Silvia Aonzo a partecipare a un Convegno, una tre giorni (8-9-10 dic.) nella scuola parentale di ispirazione montessoriana che lei sostiene, creata da Barbara Cerutti con altre mamme solo tre anni fa, dove entrambe insegnano come volontarie a un piccolo gruppo di bambini e bambine della Primaria. Titolo dell’incontro Archeosaperi femminili. Luogo dell’incontro, le sale di via San Dalmazio 24, del quartiere Lavagnola. Un progetto educativo CreAttiva in collaborazione con Comunità femminile di Cura ed Eredibibliotecadonne.
Venerdì pomeriggio, primo giorno dell’incontro è stato proiettato il film documentario Segni fuori dal tempo, sull’archeologa e linguista lituana, naturalizzata americana, Marija Gimbutas, che avvalendosi dell’innovativo metodo multidisciplinare ha ridisegnato il volto delle antiche civiltà matriarcali dell’antica Europa, poi invase tra il terzo e il quarto millennio a.C. dagli Indoeuropei. E fu l’inizio del patriarcato.
Io mi sono sentita profondamente in stretto legame con questa linea di ricerca fondata sull’origine della nostra storia, su una storia che fa leva e pone a suo fondamento l’orizzonte simbolico della madre. La storia è tempo e la memoria è madre della storia. È con l’invenzione linguistica e simbolica della pratica della storia vivente che noi della Comunità di storia vivente di Milano, con Marirì Martinengo, sua ideatrice (La voce del silenzio. Storia di Maria Massone, donna sottratta, 2005), abbiamo posto le basi di un nuovo inizio della narrazione storiografica. Un percorso di risignificazione o destoricizzazione, come si usa dire oggi, avvenuto rielaborando i nostri nodi irrisolti: le ferite reali o simboliche, che la storia patriarcale ci ha inferto per migliaia di anni. Fare di noi stesse documento storico è stata l’idea rivoluzionaria che ha permesso la svolta. Lo scavo in profondità dove il presente e il passato arcaico si collegano a partire da sé, dalla nostra esperienza svelata, nel contemporaneo, nel nostro tempo. Spezzando il tempo lineare incentrato sul maschile come valore dominante abbiamo posto al centro le nostre ferite obliate, rimosse, il rimosso della storia, nel mio caso, la tragedia della morte di mia madre quando avevo vent’anni. La mia orfanità è diventata nella Comunità di storia vivente da evento personale a evento storico universale, riletto in chiave politica tramite l’autocoscienza, come segno di una profonda trasformazione della storia italiana. La modernità violenta che negli anni sessanta ha trasformato l’economia italiana. Intendo la mutazione da paese agricolo a paese altamente industrializzato. Una società violentata. Questa risignificazione antropologica immessa nella narrazione storiografica è stata possibile grazie all’agire di un’autorità femminile che ha prodotto una modificazione dello sguardo interiore e un punto di vista differente. Dal 2006 al 2018, per tutti questi anni, ci siamo riunite in Libreria o a casa di qualcuna e insieme a partire dal racconto orale di ciascuna abbiamo portato alla luce il nodo irrisolto annidato nelle “viscere”, come scrive Marίa Zambrano, e con la pratica dell’autocoscienza, cui siamo debitrici, abbiamo rielaborato la nostra esperienza e abbiamo scritto e pubblicato i nostri racconti di Storia. Un debito di riconoscenza alle invenzioni del femminismo delle origini (alla pratica dell’autocoscienza, alla disparità, all’affidamento) e all’autorità di Marirì, che abbiamo riconosciuto perché ci ha permesso di crescere soggettivamente ed essere presenti nella vita pubblica. Figura di madre simbolica che ci ha portato a riscattare la madre reale. Per me la voce del silenzio è stata quella di Eva, mia madre. Abbiamo posto fine alla scissione cultura/natura, uno dei pilastri del patriarcato. Questi racconti di verità soggettiva, storie che fanno la Storia, testimoniano la fine del patriarcato nelle nostre menti. Esprimono la forza della parola, veritiera, indipendente perché fedele alla propria origine insieme alla gioia e al piacere della riappropriazione della propria storia, non in contrapposizione con l’altro, nel mio caso con mio fratello, negazionista climatico e anche incapace di fare i conti con la memoria. Anche lui è stato danneggiato dall’inconsapevolezza del ruolo che il patriarcato gli ha imposto e dalla legge patriarcale dell’oblio. Sono riuscita a fargli comprendere il valore della memoria e del pensare veramente a partire da sé. Anche nel piccolo gruppo esperienziale della domenica mattina ho sentito che veniva compresa dalle donne presenti la modalità innovativa della storia vivente e ognuna delle partecipanti ha individuato e raccontato un nodo della propria storia. Noi della Comunità di Milano dopo tredici anni di lavoro sulle parole, con le parole, in stretta relazione di fiducia, abbiamo pubblicato La Spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (2019). Nel titolo, suggerito da Marirì stessa, è sottesa la nostra pratica rivoluzionaria. La forma della spirale indica un percorso aperto, non dicotomico che, pur andando in profondità, essendo bidirezionale vola in alto e tocca la trascendenza e l’universale. Rappresenta la fine della storia sacrificale come scrive María Zambrano in Persona e democrazia. Fine della storia sacrificale, non è la fine della storia come predetto negli anni ottanta da alcuni storici e filosofi ma la fine della storia fatta e scritta da uomini, dal “cosiddetto” popolo eletto che fa la guerra per diffondere “la democrazia”, quella di impronta ateniese, che non prevede la libertà femminile. Libertà per le donne è libertà per tutti.
Da RivistaStudio – Nessun fenomeno sociale, negli ultimi anni, mi sta affascinando tanto quanto il mutamento del lavoro. Guardo con entusiasmo e speranza agli esperimenti di settimane lavorative di quattro giorni, osservo turbato le statistiche che hanno fatto poi parlare di “great resignation”, grandi dimissioni, e mi chiedo a cosa porteranno. Mi interesso a quell’altro fenomeno molto chiacchierato di questi anni, il “quiet quitting” [mantenere il proprio posto di lavoro facendo il minimo indispensabile e senza impegnarsi per avanzare], e per la prima volta nella mia vita sono riuscito a sperimentare qualcosa di simile a un’organizzazione, raccogliendo le opinioni e i desideri di molti colleghi e colleghe su come creare, al termine dell’emergenza sanitaria, un giusto bilanciamento del lavoro tra la casa e l’ufficio. Mentre mi adoperavo in quest’ultimo sforzo così nuovo mi accorgevo che tutti i fenomeni a cui guardavo con curiosità avevano una caratteristica comune: riguardavano la sfera dell’individuo, e mai quella del collettivo.
Negli anni in cui “attivismo” è diventata una parola per definire, nove volte su dieci, dei cialtroni che parlano di banalità arrabbiate davanti a un ringlight su Instagram, è appena uscito un libro che intende ribaltare la prospettiva, rimettere la parola in buona luce, e tornare a parlare di dimensione collettiva quando si parla di lavoro, senza self-help e altri automiglioramenti. Si chiama Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani, 2024) e l’ha scritto Irene Soave, scrittrice e giornalista per il Corriere della Sera. Contiene uno spettro veramente ampio di argomenti trattati: vigilanza, felicità, Sud e Nord, salute mentale e fisica, discriminazioni, ascensore sociale, gravidanze. Sarebbe stupido pretendere di farne un riassunto esaustivo in un articolo, e quindi posso dire che quello che unisce meglio tutti i capitoli è, nelle intenzioni della scrittrice o nei miei occhi, la necessità di ritrovare uno spirito di comunità e organizzazione tra lavoratori – o lavoratrici. La mancanza di questo senso di collettività, mi sembra, sta in tutte queste reazioni disordinate all’infelicità lavorativa che abbiamo scoperto durante il Covid, e che ha dato origine ai fenomeni di cui sopra.
Se il problema del lavoro è collettivo, dice Soave, la risposta non può essere individuale. Un esempio recente: la nascita del MeToo è una delle poche e rare risposte collettive a un problema (anche) lavorativo che abbiamo visto negli ultimi anni. Ha coinvolto centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo, ha spaventato chi deteneva e detiene il potere, ha anche dato il panico a centinaia di migliaia di uomini terrorizzati di perdere un privilegio che hanno sempre ritenuto diritto naturale. Soave traccia un filo rosso tra quell’hashtag e il Rapporto Hite, un celebre – appunto – rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 1976. Era basato su oltre tremila interviste a donne americane, e ne veniva fuori, in breve, che il piacere sessuale non era una cosa che molte donne provavano, e che la figura dell’uomo non era una conditio sine qua non per il raggiungimento dell’orgasmo. Anzi. «Il Rapporto Hite (…) ai lettori maschi diceva: state sbagliando tutto. Alle lettrici diceva una cosa più potente ancora: no, non succede solo a te». Sentirsi comunità. Il 15 ottobre 2017 l’attrice Alyssa Milano scrive su Twitter: «Se sei stata molestata o aggredita sessualmente scrivi “me too” nelle risposte a questo tweet». Nelle prime dodici ore arrivano più di cinquecentomila risposte.
Un momento: ma questo è un libro che parla solo di lavoratrici, quindi? No: con una mossa audace, Soave usa un “femminile sovraesteso”. È quello che da sempre, in molte lingue, si fa con il maschile. Quello per cui scriviamo cose che si chiamano “Statuto dei lavoratori”, per esempio, per intendere tutti gli spettri di genere, o ancora diciamo “i cittadini”, “i consumatori”, “i clienti”, e così via. Risolvendo i problemi che escludono le lavoratrici, si legge, starebbero meglio tutti i lavoratori. Il maschile di solito si sovraestende per abitudine e pigrizia, per poca cura del femminile. Il femminile di Soave si estende per solidarietà e protezione: è una mantella per ripararsi tutti – e tutte – insieme dalla pioggia. E la pioggia sono le sofferenze di noi, lavoratori e lavoratrici in diversi modi insoddisfatti e infelici, aspiranti quiet quitter.
C’è un bel fraintendimento, nel significato profondo di quiet quitting. Che significa? È stato tradotto come “dimissioni silenziose”, una grande presa di consapevolezza – finalmente! leggevamo sui soliti New Yorker e New York Times e Guardian e così via – del fatto che così non va bene. Eppure non vuol dire lasciarlo per davvero, questo lavoro, pur se in silenzio e di nascosto. «No», scrive Soave, «significa che fai solo quello che il tuo contratto ti dice di fare, per le ore in cui devi farlo. Non fai straordinari, non prendi progetti né responsabilità che escano dal tuo orario, non esegui mansioni che non siano indicate sul tuo contratto. Rivoluzionario, no? Be’, no. Intanto fare quello per cui sei pagato e negli orari pattuiti non significa “non lavorare” o “quasi licenziarsi”. Anche farlo malvolentieri significa lo stesso lavorare».
Si è visto che al quiet quitting le aziende rispondono spesso con un “quiet firing”: impedendo alla lavoratrice (sovraestendo pure io) di avanzare, riducendole i compensi o i bonus, rendendole la vita più complicata. Quindi, molte quiet quitter hanno rinunciato, e sono tornare a lavorare come prima, più di prima. Questo succede perché il quiet quitting è un atto solitario, e privo di protezione. «Come tale», scrive ancora Irene Soave, «i suoi ritorni ma anche i suoi costi si scaricano tutti e solo su chi lo mette in pratica. Se a farlo fossero tanti si chiamerebbe, in italiano, stato di agitazione, o sciopero bianco».
La colpa di questa infelicità è talvolta di quelli che il filosofo David Graeber chiamava bullshit jobs. Chi lavora in campo creativo li conosce bene: Graeber parla addirittura di «violenza spirituale» per questi compiti senza regione, che generano un tipo di insoddisfazione e alienazione più profonda perché privi di una apparente logica. Così alienati, appunto, che non riusciamo a immaginare come uscirne. Ancora Soave: «Il nostro quiet quitting non è collettivo, e più che rivendicare è un ritirarsi, se per rivendicazione e collettività non intendiamo la condivisione di stories Instagram con lo slogan I don’t dream of labor […]. E a scioperare da soli, comunque, come si fa?».
C’è molta rassegnazione e nostalgia, e poca rabbia e concretezza, nel modo in cui ci rapportiamo al lavoro. Piagnucoliamo, e pensiamo commossi a quando credevamo di poter guadagnare i soldi dei nostri genitori. O ci commuoviamo ancora di più se ci ricordiamo della fine che hanno fatto i sogni di madri che immaginavano per le figlie una parità ormai prossima, un’indipendenza totale, e invece. Un mio amico dice sempre che il lavoro è normale che faccia schifo, altrimenti non ci pagherebbero per farlo. Soave la mette giù un po’ più epica, e ricorda che è dalla Genesi 3:19 che il lavoro è assegnato all’uomo come punizione divina. Ma se fa così schifo, che dobbiamo fare? Organizzarci un po’ di più, dice in fondo Lo statuto delle lavoratrici. E questa organizzazione passa in primo luogo dal conoscere un po’ meglio i propri diritti, doveri e confini.
C’è poi da dire che questo saggio ha la forza narrativa che libri simili di solito non hanno: è arricchito da una scrittura vivace e brillante, e costellato di storie di amiche ed esempi e pioniere, lavoratrici fortunate e sfortunate e altri casi di donne che lottano e spesso perdono e talvolta vincono, che mi sembra si potrebbero pure leggere come modelli di storie per “bambine ribelli” più ispirazionali e reali di una Chiara Ferragni o una Margaret Thatcher.
Questo Statuto è soprattutto un libro intelligente, quasi rivoluzionario: mi ha ricordato che si possono dire cose radicali senza gridare su Instagram, e che si può farlo con competenza e preparazione. C’è in fondo la storia di un dissidente bielorusso che dice una frase che diventa la scintilla da cui parte tutta questa operazione. Lui dice: «Se non puoi parlare al mondo, parla al Paese. Se non puoi parlare al Paese, parla alla città. Se non ti lasciano, ai quartieri. Se non ti sentono, ai vicini. Se i vicini sono delatori, tieni un diario, e un giorno a cambiare le cose sarà proprio quel diario. Se non cambia niente, scrivilo lo stesso». Soave l’ha scritto. Io penso sia un’ottima idea consigliarlo e regalarlo.
Da Doppiozero – Frammenti incompiuti, aneddoti brevi, riflessioni teoriche, letteratura e poesia. Le improvvisazioni procedono per associazioni libere, la clinica poetica della psicoanalista Gohar Homayounpour piroetta al ritmo del blues. «Il blues è un genere legato alla depressione, al turbamento, alla sventura, al tradimento e alle sue ferite, al dolore e al rimpianto. Però guai a dimenticare che il blues è anche musica da ballo, un ballo scatenato che inneggia al piacere, al trasporto, all’umorismo e alla vita».
In Blues a Teheran. La psicoanalisi e il lutto, (Raffaello Cortina, 2024), il “doppio sguardo” di iraniana cittadina di molti mondi e la sua formazione poliglotta permettono all’autrice la spontaneità di un discorso aperto, di una riflessione teorica originale. Nelle interviste non vuole parlare dell’attualità, non vuole essere ridotta a espressione critica della situazione politica di un regime repressivo, crudele e spietato soprattutto nei confronti della popolazione femminile, proprio perché le donne sono da anni l’avanguardia delle proteste contro il regime islamico. Si fa guidare dalla bella espressione di Adam Phillips di “tirannia dello scopo”: l’illusione di sapere che cosa si vuole davvero va interrogata per sfuggire alla tirannia del consumismo, ma anche allo schematismo ideologico che vorrebbe restringere l’immagine della donna iraniana a vittima, oppure a una caricatura dell’erotismo orientalista.
Non solo il dolore è tale dappertutto, ma anche la tragedia di Edipo è, per Gorah Homayounpour, un copione che può funzionare a tutte le latitudini. La rilettura culturale del mito la porta alla figura di Shahrazād, l’archetipo della donna persiana, a tipi femminili del tutto scomparsi nelle rappresentazioni mainstream in Iran, che non parlano di amore, di donne che amano le donne, di donne che stanno sia con uomini che sia con donne, di donne che hanno l’amante ma non vogliono sposarsi.
«Presentare le donne iraniane come vittime significa adottare un’ottica riduzionista che ignora moltissime donne lavoratrici, donne che negli ultimi decenni sono state il volto della resistenza politica, donne che si sono prese cura delle loro famiglie in situazioni di migrazione, donne che hanno rifiutato di piegarsi alle leggi opprimenti che le cingono d’assedio, giovani donne perlopiù laureate. Quella visione riduzionista impedisce anche di vedere le donne castranti (e quindi uomini “evirati”) che popolano certe famiglie iraniane».
A partire da queste considerazioni Gohar Homayounpour sviluppa l’idea di una variante specifica del complesso d’Edipo. La sua lunga esperienza clinica la porta a concludere che, per molte ragazze iraniane, il grande oggetto d’amore rimane la madre. Generazioni di donne iraniane hanno vissuto in rapporto fusionale con la madre, che a sua volta era in simbiosi con la propria: la genealogia femminile è un collante fin troppo tenace. Per reazione, per difendersi da questo abbraccio materno che vuole le figlie tutte per sé, si va alla guerra fra donne, verso un territorio di morte attraversato da invidia, odio, aggressività. In questo spazio claustrofobico e chiuso non è facile far entrare un terzo, una funzione paterna/maschile. Anche perché questi uomini, accuditi dalle madri, snobbati dalle mogli e dai figli, si rifugiano in uno stato inerziale, oppure sfogano modo violento una frustrazione infinita.
Goran Homayounpour chiama “complesso di Shahrazād” questa ribellione alla legge del padre in una società retta dal diritto patriarcale. Ritornare all’archetipo di Shahrazād, andare alla sua ricerca, significa far risorgere le sue figlie, ritornare a narrare anche tutto ciò che fa ancora paura nelle Mille e una notte.
Nata a Parigi da genitori iraniani – suo padre ha tradotto in farsi i testi di Kundera e nel libro sono riprodotte le cartoline che si sono scambiati –, scopre per la prima volta Teheran da ragazzina. Poi ha vissuto in Canada e negli Stati Uniti, Boston è la città della sua formazione psicoanalitica, ma fa una scelta controcorrente e si trasferisce a Teheran. La sua esperienza di poliglotta nomade nutre un punto di vista critico su cosa capita quando un flusso si inverte. In Iran – che nel 1979 ha accolto tre milioni di afghani in fuga dalla guerra sovietica –, dopo le sanzioni imposte dal 2018 dagli Stati Uniti la situazione economica è così peggiorata che ora migliaia di afghani cercano di rientrare nel loro paese. L’autrice propone una prospettiva diversa da quella stereotipata del senso comune populista, secondo la quale gli arrivi sono sempre troppi, e la chiama “Migrazione a rovescio”. Quando accade agli esseri umani è «un indizio incontrovertibile: nulla prova in maniera più lampante che un paese o una città non sono più quelli di una volta. Se una persona mi lascia, analogamente, non posso non provare un sentimento di angoscia, perché vuol dire che anch’io mi sono esaurita, che non sono più quella di prima. Per questo l’abbandono disorienta». Quando arrivano gli altri diciamo che ci tolgono possibilità, ma quando se ne vanno? È la prova che noi siamo esauriti, che non abbiamo più risorse, mentre finché vogliono venire da noi significa che siamo vivi e vegeti. Vitali.
Docente di psicologia e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association, e in Italia della SPI, Gohar Homayounpour ha fondato nel 2007 il Freudian Group di Teheran. Un’associazione non riconosciuta né autorizzata dal governo, impossibilitata a rilasciare diplomi e certificati, tuttavia in affanno per le numerosissime richieste di adesione.
Proprio in un contesto dove pare impossibile eludere nella stanza d’analisi il discorso sociopolitico, «l’aspetto più grandioso della mia condizione di psicoanalista a Teheran è che posso fare psicoanalisi nella sua forma originaria, sovversiva, rivoluzionaria» – come possedere un terzo occhio, un terzo orecchio. Perché «la lingua dell’inconscio è la lingua del margine» che permette di intuire significati in un garbuglio di frasi smozzicate che emergono in una situazione di paura.
Nel suo testo precedente, Una psicoanalista a Teheran (Raffaello Cortina, 2013), anche questo censurato, raccontava che in Iran le era più facile identificarsi con ogni cosa e ogni persona, con una fatica emotiva molto maggiore in tutte le situazioni e così anche con i pazienti. «Mi sono ritrovata incapace di rifiutare una scatola di dolci che mi aveva portato un’anziana paziente. Inoltre, qui mi sento molto più a disagio nel parlare della mia parcella o quando invito i pazienti a prendere posto sul lettino o devo dire loro che il tempo della seduta è giunto a termine».
Vista da Teheran, la psicoanalisi le appare passata da un eccesso di frustrazione – una sorta di “prova” somministrata a ogni paziente – a un eccesso di cura. Il terapeuta, come certe “madri coccodrillo”, è oggi troppo preoccupato di lasciar cadere l’altro, come se questo fosse un neonato inerme, convinto di dover curare più con la sua presenza che con il suo pensiero. Una clinica dell’accudimento: i terapeuti stessi non riescono a credere nella necessità di una postura più paterna, meno claustrofilica, più indirizzata all’apertura all’esterno.
«Eppure (ma forse qui è in gioco una critica più generale della psicoanalisi contemporanea) ho l’impressione che tendiamo a dimenticare il contributo inestimabile dell’“assenza” allo sviluppo di una mente sana; a dimenticare che l’ansia da separazione riguarda spesso l’eccessiva vicinanza all’oggetto, dal quale temiamo di venire inghiottiti, il desiderio di allontanarci dall’oggetto, accompagnato dal terrore della sua potenziale vendicatività nel momento in cui quel desiderio venisse a manifestarsi».
La psicoanalisi si è fatta melanconica in una realtà condivisa con l’oggetto materno, dove il pensiero, la realtà del tempo e dello spazio risentono di una mancanza di interesse per il contesto collettivo.
All’inizio del libro Gohar Homayounpour riparte da Lutto e melanconia di Freud, anche nel ricordo di un lutto personale: lo strazio delle lacrime sul pavimento di un bagno quando viene raggiunta dalla notizia che il padre era morto mentre nuotava nel lago di Ginevra.
Ecco ancora il blu persiano che tiene lontano il malocchio, il blues che non erotizza ma trasforma la tristezza.
Da La Stampa – “Dal latte materno veniamo” non deve essere consegnata alla clinica della maternità medicalizzata
In memoria della scultrice Vera Omodeo, scomparsa da pochi mesi, la famiglia ha offerto alla città di Milano una scultura in bronzo da lei realizzata negli anni Ottanta, dal titolo Dal latte materno veniamo. Si tratta di una figura femminile ad altezza naturale, i fianchi cinti da un peplo, il viso chinato a fissare con sguardo tenero e serio il bimbo che sta allattando. Ne è nato uno scandalo in un certo senso assonante con la pruderie che a fine Ottocento accolse il dipinto di Gustave Courbet L’origine del mondo, che notoriamente ritrae una vagina, transitato per la collezione privata di Jacques Lacan ed esposto al pubblico solo nel 1995 al Museo d’Orsay. Oggi è scandalosa non la sessualità ma la relazionalità del rapporto escludente tra madre e bambino, la cura che è nutrimento materiale e simbolico, la «lingua della nutrice» propria della donna che ci ha allattato e portato in braccio introducendoci alla vita, che Dante diceva necessaria a parlare di cose d’amore.
Tutto inizia con il parere negativo dato dalla commissione di esperti incaricata di valutare le proposte di collocazione di opere artistiche in spazi pubblici cittadini, un organismo introdotto nel 2015, ai tempi della giunta Pisapia, composto dai referenti della Commissione del paesaggio, della Soprintendenza di archeologia e belle arti, della Direzione cultura e dell’Area governo del territorio del Comune di Milano.
Un parere dato all’unanimità, si legge nel verbale della riunione tenuta in remoto lo scorso 5 marzo, in cui si è «discusso di come la scultura rappresenti valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne l’inserimento nello spazio pubblico». Tanto da stabilire «che l’opera venga data in donazione a un Istituto privato (ad esempio un ospedale o un istituto religioso), all’interno del quale si maggiormente valorizzato il tema della maternità, qui espresso con sfumature squisitamente religiose».
Due frasi che si è indotti a leggere più volte, nel dubbio di non aver capito. L’allattamento materno, la nostra origine dalla madre, sarebbero riferimenti religiosi, non universalmente condivisibili, tali da scoraggiare l’inserimento nello spazio pubblico?
Vale la pena soffermarsi sull’accaduto uscendo dalla cronaca e dal suo utilizzo politico – il prevedibile attacco delle destre a difesa di una maternità ipostatizzata e retriva, l’intervento riparatorio del sindaco Sala, purtroppo risolto in una proposta che sembra non cogliere la questione simbolica in gioco, con la collocazione dell’opera nei giardini della clinica ostetrica Mangiagalli, consegnando dunque Dal latte materno veniamo al luogo della nascita medicalizzata che recentemente il Corriere della Sera ha chiamato «la fabbrica dei neonati», addirittura come messaggio contro la denatalità.
L’unanimità su una simile decisione non sarebbe stata possibile se la commissione non fosse partecipe di una comunità, di una koinè di parlanti, di un humus culturale che impone di riflettere sul senso del materno in un mondo che sembra diventato cieco alla bellezza, alla gratuità del puro accadimento della nascita, quasi che a contenere la generatività femminile fosse l’abbraccio secolare della religione, oppure la produzione di maternità al di là della madre. Eppure la maternità è quanto di più umano, e di più animale, ci sia. Quanto di più legato alla vita. E la vita non è religione, la vita è vita. Se la possibilità femminile di dar vita si trasforma in politiche della nascita, in ideologie della nascita, in tecniche della nascita, mettendo tra parentesi il nostro essere carne, corpi, animali, il nostro mondo sarà sempre più mortifero, incapace di proteggere la vita, perché sarà derealizzata, anche quella dei più piccoli, anche sotto le bombe, o in mare.
Mamma gorilla con il suo piccolo in braccio ci appare umana. Non religiosa, semplicemente materna, e nostra simile. Nella promiscuità sessuale dei primordi della nostra specie, secondo il giurista e antropologo Johann Jakob Bachofen, la discendenza matrilineare sarebbe stata all’origine di una società di diritto materno in cui vigeva la comunità dei beni, ma con l’instaurarsi del patriarcato, dunque della proprietà e del diritto positivo, il potere della generatività è stato sottratto alla donna, lasciandole l’aspetto biologico della gravidanza e del parto. Cosa farne – cosa ne farebbe la commissione – delle Mater matuta etrusche, delle Pomone romane, delle Grandi madri neolitiche e paleolitiche, delle Pachamama andine, di tutte le sculture di dee protettrici della nascita? E del simbolico materno agito in politica, a cominciare dalle Madri argentine di Plaza de Mayo che, dicendosi madri di tutti i desaparecidos e facendosi luogo di quella maternità, seppero sconfiggere una giunta golpista tra le più criminali? Cosa rispondere alle sopravvissute di Auschwitz quando, nella loro testimonianza, alcune affermano che la maggiore forma di resistenza al nazifascismo sia stata mettere al mondo figli, proprio perché si intendeva cancellare dal mondo loro e tutta la loro schiatta?
L’assunzione del materno è diventata una categoria politica laica che riguarda uomini e donne, madri e non madri, che prevede maternità concrete e maternità simboliche, non necessariamente di figli ma di idee, progetti, mondo.
In piazza Duse, dove era stata in origine prevista la collocazione della scultura, in risposta al parere negativo della commissione è nato un flashmob di protesta: donne che allattavano, liberamente, giocosamente. Sarebbe un bel segnale se Dal latte materno veniamo fosse collocata nel cuore di Milano, nel verde, tra le persone, i bambini, i gatti, come un messaggio di vita, affermazione di forza femminile, consapevolezza della nostra realtà di corpi non astratti ma in relazione.
Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona, 5 aprile 2024.
Secondo incontro del ciclo Pensare il presente 2024
Ida Dominijanni, Realtà e verità: la pornografia dell’orrore
Giulia Siviero, Il giornalismo occidentale e la narrazione del conflitto
Da Corriere della Sera – Olivia Maurel ha 32 anni, i capelli lunghi neri, un viso solare e un sorriso aperto. Ma la sua vita non è stata sempre rosa e fiori, quando aveva 17 anni ha capito di essere stata concepita attraverso la maternità surrogata e soltanto due anni fa ha avuto la prova definitiva che i suoi genitori avevano pagato una donna in Kentucky per portare avanti la gravidanza con i suoi stessi ovuli, quello che si chiama una surrogata tradizionale. Una scoperta che le ha creato gravi problemi psichici tanto da arrivare a tentare il suicidio. Oggi Olivia, che vive a Cannes in Francia, si batte con tutte le sue forze per l’abolizione universale della pratica ed è stata tra le promotrici della Dichiarazione di Casablanca, firmata nel marzo dell’anno scorso da 100 tra medici, giuristi, psicologi e sociologi di 75 nazionalità per arrivare a vietare la gestazione per altri in tutto il mondo come è accaduto per le mutilazioni genitali femminili. Ieri mattina Maurel è stata ricevuta dal Papa in Vaticano cui aveva scritto una lettera accorata. Oggi e domani all’Università Lumsa si svolgerà la Conferenza Internazionale di Roma sull’abolizione della maternità surrogata.
Ha incontrato il Papa, è stato emozionante?
«Voglio mettere in chiaro che io sono atea e femminista. E l’ho detto anche a lui. Per me è stato un po’ come incontrare un capo di Stato, lui è stato molto amichevole e simpatico. Abbiamo anche riso tanto. Ha detto e ripetuto più volte che la maternità surrogata è un mercato di donne e bambini. E poi mi ha parlato di come durante la gravidanza avviene uno scambio reciproco tra gestante e bambino, le cellule fetali entrano nella circolazione materna e le cellule materne entrano nella circolazione fetale. Mi ha colpito che sapesse questo, non succede tutti i giorni che le persone importanti siano così preparate. Per il Papa è sacrosanta la nostra battaglia per arrivare a definire la maternità surrogata reato universale».
Quando ha realizzato di essere nata attraverso una madre surrogata?
«Ho sempre saputo che c’era qualcosa che non andava: non avevo foto della mia nascita, mia madre era più grande delle altre madri. I miei genitori non me l’hanno mai detto ma io avevo comunque tanti segnali. Poi a 17 anni ho iniziato a fare qualche ricerca e ho visto che nel 1991, anno della mia nascita, la maternità surrogata era legale in Kentucky, dove sono nata. Allora qualcosa è scattato nella mia testa. E poi ho cominciato a parlarne apertamente ma non con miei genitori. Ma la prova l’ho avuta quando avevo 30 anni con il test del Dna che mi aveva regalato mia suocera. Ed è così che l’ho scoperto».
Perché non l’ha mai detto ai suoi genitori?
«Perché c’è un conflitto di lealtà, loro hanno fatto di tutto per averti, non vuoi andare loro contro quindi non gliene parli. Tutti i figli avuti tramite madre surrogata con cui sono in contatto fanno lo stesso. Non vogliamo ferire le persone che amiamo. Non ce l’ho con i miei genitori ma con le leggi che permettono questo commercio. Perché se fosse vietato il mercato non esisterebbe. Non ci sarebbe questo ignobile giro di denaro».
Lei ha avuto problemi psicologici a causa di come è venuta al mondo?
«Depressione, alcolismo, droghe, tentativi di suicidio. Ne ho passate di tutti i colori. Ancora oggi che ho un marito e tre figli sono seguita da uno psicanalista. Ho dovuto affrontare i problemi di identità causati dal fatto di non conoscere le mie origini. È importante sapere da dove vieni. Oggi con la maternità surrogata finisci con l’avere tre madri: quella che porta avanti la gravidanza, quella che ha venduto i suoi ovuli e la madre che ti ha cresciuto. È orribile».
Come hanno preso i suoi genitori questo suo attivismo contro la surrogata?
«All’inizio li ho persi, hanno pensato che ce l’avessi con loro e non con il sistema. Ancora oggi non ci parliamo ma sono in contatto con mio marito e conoscono, naturalmente, i bambini. Ma ora capiscono perché lo faccio. È una missione che compio per puro spirito altruistico, non sono di certo pagata. Io e mio marito abbiamo un solo stipendio, tre figli, e copriamo tutte le spese. Perché crediamo sia giusto».
C’è chi dice che è un gesto di altruismo, di amore verso chi non può avere figli.
«La ragione principale per cui sono contro la maternità surrogata è che i bambini non possono essere comprati. È contro qualsiasi principio etico. Io capisco che ci siano persone che soffrono di infertilità e che desiderano avere un bambino. Le capisco, so quanto sia difficile. Ma non è che siccome tu hai un desiderio devi calpestare i diritti delle donne e dei bambini. Non è un diritto avere un figlio».
C’è un’associazione che si batte a favore della legalizzazione che presenta la storia di due donne, nate da maternità surrogata che sono felici. Cosa risponde loro?
«C’è la libertà di espressione per fortuna e mi piacerebbe discutere serenamente con loro. Io ho sentito storie terribili di madri e di bambini . Se ci sono persone che, invece, sono felici sono contenta per loro ma questo non giustifica la pratica. Voglio dire anche durante la schiavitù potevi incontrare schiavi felici ma a un certo punto abbiamo detto: no questo è sbagliato. Non è etico. Eppure ancora oggi ci sono 36 milioni di schiavi nel mondo. La surrogazione di maternità non sarà mai etica perché sfrutta la donna e mercifica il bambino. Poi ti dicono che lo fanno donne benestanti ma non è vero. È solo la propaganda del mercato che cerca di dire: “È tutto bellissimo, perfetto e buono”».
La tesi è che se venisse regolato non ci sarebbero abusi.
«Ma non è vero. Guardi la Grecia che si vantava di avere una legge a prova di abusi e ha dovuto chiudere un’agenzia che aveva trafficato 160 donne. Non fermiamoci alle immagini che ci propinano sui social media. Ci fanno vedere solo il lato bello ma hanno comprato un bambino. Guardiamo a quello che succede in Ucraina, in Nigeria, in Kenya».
Cosa pensa della legge che sta per essere approvata in via definitiva in Italia?
«Penso che sia fantastica. Va perseguito il reato compiuto all’estero, è lo stesso problema che abbiamo in Francia. Tornano con il bambino in braccio e mettono lo Stato davanti al fatto compiuto. Non è così che si fa. Quindi la legge italiana è un ottimo punto di partenza ma l’obiettivo è il bando universale».
Lei due settimane fa era alle Nazioni Unite. A che punto è la battaglia per il bando universale?
«Sì ho parlato a un evento all’Onu e lo considero un passo avanti. Certo siamo solo all’inizio ma bisogna continuare a lottare come è successo per la schiavitù, anche se non voglio comparare le due cose. Dobbiamo parlare con la gente e spiegare loro cosa è la maternità surrogata, cosa significa affittare il corpo di una donna e comprare un bambino. Una volta che mostri i contratti, che parli della realtà la gente capisce. Perché le madri surrogate non possono parlare, rischiano una causa, dobbiamo parlare noi».