dal Corriere della Sera
Luisa Muraro, ottantaquattro anni, e Jennifer Guerra, trenta. Da “vittoria” a “legami”, com’è cambiato il modo di nominare e difendere i diritti. Anche da un nuovo nemico: l’“io”
Sulla porta dello stabile di via Dogana 2, a Milano, c’era in origine un cartello: «Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista». Ora quel cartello non c’è più e nel frattempo la Libreria delle donne di Milano, che quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività, ha anche cambiato sede, trasferendosi in via Calvi, non lontano da piazza Cinque Giornate. Oggi questo luogo è la casa del femminismo della differenza italiano, il “salotto più comodo del femminismo più scomodo”, sulle cui poltrone si sono sedute alcune delle più importanti pensatrici e femministe dell’Italia e del mondo intero.
La sua fama è inevitabilmente legata alla filosofa Luisa Muraro, ottantacinque anni il prossimo 14 giugno, che insieme ad altre figure come Lia Cigarini, Elena Medi e Giordana Masotto fondò la libreria nel 1975, un luogo per «mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili», come si legge in uno dei primi Sottosopra, la storica pubblicazione della Libreria. La Libreria non è mai stata solo luogo di letture, ma anzi e soprattutto luogo di invenzione, anche in polemica col femminismo di allora, impegnato nella lotta per la partecipazione democratica. Centrale fu l’incontro di alcune con la femminista francese Antoinette Fouque e col suo gruppo Psy et Po [Psychanalise et Politique], che ispirò le milanesi non solo ad aprire un’analoga Librairie des Femmes, ma anche a esplorare pratiche e teorie ancora inedite nel movimento, come l’idea che le donne non sono tutte uguali.
Ed è proprio intorno al binomio uguaglianza-differenza che si svolgono cinquant’anni di attività della Libreria, a partire dal famoso Sottosopra verde intitolato Più donne che uomini del 1983, che rappresentò una svolta cruciale e, per molte, anche la chiusura di un capitolo del movimento femminista italiano. Lì le donne della Libreria affermavano “la voglia di vincere”, dopo anni passati a pensarsi come una minoranza. «Non è qualcosa che dicevamo così per dire», racconta Luisa Muraro. «La voglia di vincere c’era, ed era efficace. La riconosco come una parola che ci caratterizzava e ci ha spinte ad agire. Voleva dire non riconoscersi nel “di meno” dell’esperienza femminile, ma nel “di più”». È qualcosa che oggi noi giovani femministe facciamo fatica ad associare al femminismo, non solo perché ci sembra di essere ben lontane da una vittoria, ma anche perché spesso siamo portate a concentrarci più sui nostri problemi contingenti che sulla dimensione costruttiva del nostro essere donne.
Questo è un altro punto di distanza col femminismo attuale: non è raro sentire in Libreria che «il patriarcato è finito». La prima volta che ho sentito questa frase sono balzata dalla sedia. “Patriarcato” è una parola che anima i nostri dibattiti e le nostre analisi, e la parola che Elena Cecchettin ha scelto per spiegare le vere ragioni del femminicidio della sorella Giulia. Ma allora perché, chiedo a Muraro, se il patriarcato è finito io continuo a viverlo sulla mia pelle? La filosofa mi invita a cambiare prospettiva: «Per noi il patriarcato non si manifesta più, nel senso che non ha più forza, non ha più mordente. La nostra stessa esistenza è la prova che il patriarcato è finito». Quindi per voi il patriarcato è più un sistema simbolico che materiale?, le chiedo ancora. E se è finito, perché gli uomini uccidono ancora le donne? «Perché non hanno più voglia di combatterle, quindi rimane soltanto l’odio per la loro baldanza, per la loro libertà. E questo odio è così forte che uccidono anche le donne che non vi si oppongono».
All’ordine simbolico patriarcale Muraro e le altre hanno contrapposto un ordine differente, che è quello della madre. Ecco un altro tema che ci distanzia. “Materno” è una parola che a noi giovani fa un po’ paura, perché ci vediamo – forse sbagliando – un’esaltazione della maternità e la creazione di una gerarchia tra donne, prima le madri poi le non madri, faccio notare alla filosofa. «C’è la maternità come fatto e la maternità come dispositivo simbolico, sono due cose diverse. Io stessa sono una madre che non si identifica con la figura della madre. La dimensione della maternità non è mai assoluta, e questo fa sì che si possa anche non essere madri per partecipare a questo ordine, che mette al mondo la forza femminile».
La riscoperta del legame con la madre, secondo Muraro, ha reso il gruppo della Libreria una minoranza nel panorama femminista, che con l’autocoscienza aveva tagliato i ponti col ruolo materno, oltre che con le madri vere e proprie. «La riscoperta dell’affetto per la madre porta con sé anche una sorpresa: il riconoscimento di un legame altrettanto profondo con le altre donne, che diventano amiche, compagne di percorso», spiega Muraro. «Prima avvertivo questa potenza, ma è solo quando ho iniziato a lavorare con le donne che l’ho capita fino in fondo». Questa relazione non solo consente alle donne di trovare una collocazione, ma consente di trovare «parole proprie che hanno un peso nel mondo».
Oggi quando si parla di linguaggio in ambito femminista si pensa quasi sempre a questioni formali, dai nomi professionali declinati al femminile al dibattito sulla schwa. Ma per la Libreria si tratta di un altro piano: «Riconoscersi, prendere la parola e farla contare». Un processo in cui un pronome spicca su tutti gli altri: io. Non l’io dell’individualismo in cui spesso scivola il femminismo egemonico di oggi, in cui a contare è il successo della singola donna, ma un io collettivo che si rafforza nella relazione con le altre. Che nella Libreria delle donne di Milano va avanti da cinquant’anni.
da Lucy-Sulla cultura
«Succede una cosa così, enorme, che coinvolge una persona che hai conosciuto bene, che viene accusata di avere responsabilità in una strage e di essersi suicidata, e loro ci sono», racconta Claudia Pinelli, figlia di Giuseppe “Pino” Pinelli e Licia Rognini, mentre un pigro sole si fa spazio nel pallore milanese. Con “loro” Claudia si riferisce ai parenti marchigiani di sua madre. «Non era scontato» perché, quando suo padre muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, precipitando dalla finestra della questura di Milano, c’è chi crederà alle versioni ufficiali e alle menzogne raccontate inizialmente dalla stampa.
«Senigallia è stato un luogo rifugio», continua Claudia. Lì Licia Rognini Pinelli poteva essere se stessa, senza maschere e ruoli. «Qui non era solo la vedova di», e i suoi familiari senigalliesi non hanno mai avuto dubbi sulla posizione da prendere. La casa di Anna, la cugina di Licia, affaccia sul Misa, il fiume che divide Senigallia in due metà. Ai muri si alternano dipinti e fotografie d’epoca in bianco e nero, alcune un po’ sbiadite. Anna ne prende una che raffigura tre ragazze intente a chiacchierare sulla Terrazza centrale del Duomo di Milano. «“Venitemi a trovare ma portate da mangiare”, ci diceva, e noi salivamo a Milano con la macchina». Era Pino quello che cucinava in casa. «Quando veniva qui voleva rilassarsi, non voleva parlare molto di quelle cose. Lei non diceva, e noi non chiedevamo», specifica Anna, «ma è stata sempre grintosa, questo scrivilo. Una donna seria, come si vede nelle foto». Nei giorni a cavallo della strage di piazza Fontana e la morte di Pinelli l’aria era irrespirabile: Licia si sentiva soffocare, stretta tra un’iniziativa e un’altra e marcata dai troppi ricordi, con l’ambiente politico locale che a ogni anniversario si riempiva di voci, parole, sconosciuti. Allora partiva da Milano, in un viaggio lungo e segnato da un groviglio di sentimenti: le campagne marchigiane si aprivano nella loro sinuosità, con le case basse e colorate vicino alla costa e l’Adriatico piatto e sabbioso a difendere l’orizzonte. Licia cercava un posto dove poter sparire e allontanarsi dalle pressioni, spiega Claudia, che la mettesse al sicuro da sguardi invadenti. E Senigallia era il luogo ideale: c’era il rumore del mare, lo sguardo schivo del paese e la riservatezza ruvida dei marchigiani. Non si poteva andare via definitivamente da Milano, prosegue Claudia, «perché sarebbe stato un dargliela vinta», ma serviva un luogo più protetto per lei e Silvia, ancora bambine, almeno d’estate. Licia allora aveva comprato una casa da ristrutturare, che portava ancora i segni del terremoto che nel 1930 aveva scosso la città, ma in una buona posizione: vicino alla ferrovia che costeggiava la spiaggia chiara e arenosa e ne attutiva il suono. L’ostilità del vicinato era tangibile, l’atteggiamento maldisposto si ripercuoteva nei piccoli gesti della vita quotidiana, nei dispetti dettati dalla diffidenza e dalle voci diffuse su Pinelli. E all’inizio non fu semplice. «Scendeva con un suo carico non indifferente di preoccupazione e tensione», precisa Claudia, «ma non ha mai modificato il suo comportamento, sereno e dignitoso, cercando di preservare la sua vita privata», perché la battaglia che Licia ha portato avanti non era per se stessa o solo per il marito assassinato, ma per tutti. «Non è scontato resistere come ha fatto lei, malgrado le delusioni e le porte in faccia. Scontrarsi contro i muri di gomma innalzati dalle istituzioni, lottare per anni per avere risposte», affrontare un potere che è creduto e che si avvale dell’informazione per consolidare la propria versione. «Le cose non sono andate così», contestava Licia, «non come ve le hanno raccontate», ed è andata avanti con la sua lotta.
Irma Diambra e Giovanni Rognini, genitori di Licia, lasciarono Senigallia per Milano alla fine degli anni Venti, quando arrivò la chiamata dalla Pirelli. Licia aveva 18 mesi. Senigallia era un luogo di migrazione, il lavoro scarseggiava. «Mio nonno non aveva preso la tessera del fascio, e pur essendo falegname nessuno gli dava più lavoro», spiega Claudia. Da lì il trasferimento, e nelle Marche si tornava solo durante le ferie. A Licia il mare non piaceva, ma Senigallia era un luogo a cui era profondamente legata, e così anche Pino. «Mamma mia, quant’era svelta quando camminava. Io non ci stavo dietro!», ridacchia Anna, sistemandosi un ciuffo grigio dietro l’orecchio. Si andava anche in spiaggia, si faceva il bagno, qualche volta al cinema. L’emozione offusca la memoria di Anna mentre parla dell’affetto che la lega a Licia: nei ricordi si intrecciano le date, qualche nome, i dettagli dei palazzi popolari di viale Monza si mescolano con quelli della ristrutturazione della casa vicino la ferrovia. Durante gli anni ’70 l’eco delle manifestazioni di Milano arrivò a bussare alle porte dei vicini, riverberando. «Francisco Ferrer era là / caduto in un tetro fossato / e gli uccisori incoscienti / sfilavano avanti il cadavere insanguinato di colui / che voleva redimere anch’essi infelici/». Sono i versi scritti da Giovanni Pascoli e dedicati alla memoria del pedagogista anarchico Francisco Ferrer, condannato a morte dal regime monarchico spagnolo, che gli anarchici senigalliesi vollero riprendere e incidere in una lapide commemorativa posta nel 1959 a ridosso del Foro Annonario, luogo simbolico e baricentrico della città.
Nonostante la repressione fascista avesse colpito duramente il movimento, negli anni a cavallo tra il ’50 e ’60 le Marche continuarono a essere un terreno fertile per l’anarchismo italiano, eredità di una lunga tradizione libertaria risalente al XIX secolo. Una presenza che a Senigallia era già forte e tangibile agli inizi del ’900, come testimonia la “Settimana Rossa”, la più grande insurrezione popolare prebellica che nel 1914 da Ancona si propagò in tutte le Marche e nelle vicine Toscana ed Emilia Romagna. Quando Licia nasce nel 1928, a soli quattordici anni dall’evento, il clima politico instaurato da Mussolini era dilagante: il fascismo sottoponeva a una dura e costante repressione ogni oppositore politico, e socialisti, comunisti e anarchici furono colpiti sistematicamente da violenze squadriste, carcere, confino e uccisioni. Coloro che rifiutavano la tessera del fascio venivano estromessi dalla vita civile. Un destino che toccò anche Giovanni, il padre di Licia, anarchico che in passato aveva partecipato alla Settimana Rossa, costretto a trasferirsi a Milano in cerca di lavoro. Per questo, a Senigallia il gruppo degli anarchici non credette alle versioni inizialmente diffuse. «Pino sembrava ancora più grande di quello che era: si presenta in questa sede che era aperta tutti i giorni, nel pomeriggio, ed era vicino Porta Fano. C’era un anziano in pensione a gestirla, un piccolo bar e i ragazzi della zona che venivano», racconta Enrico Moroni, dell’Unione Sindacale Italiana. Erano entrambi giovani: lui figlio di un anarchico, e Pino ferroviere e anarchico milanese. «Lui aveva questa capacità di tessere i rapporti un po’ con tutti. Era impegnato nella Crocenera anarchica», la struttura di sostegno dei militanti in carcere, «manteneva la corrispondenza, mandava i libri. Scriveva lettere ai suoi compagni, ingiustamente incarcerati, in cui esprimeva le sue posizioni pacifiste». Poi arriva il dicembre del 1969. «Quando ho appreso dai telegiornali la notizia di quanto accaduto a Pino mi trovavo a Senigallia, dove ero ritornato per sfuggire alle retate in corso dopo la strage in piazza Fontana della quale si incolpavano gli anarchici. Né io, né mio padre abbiamo dato credito alla versione della Questura e siamo immediatamente partiti per essere presenti ai funerali. Mio padre era tra i pochi compagni anziani arrivati da fuori Milano». Enrico ricorda la folla, lo sgomento, le bandiere sventolare e la polizia dovunque. «Era anarchico, era stato partigiano ed era innocente». Bisognava unirsi e chiedere giustizia allo Stato.
Il libro La strage di Stato, di Eduardo Di Giovanni, Marco Ligini ed Edgardo Pellegrini, esce a sette mesi dall’attentato di Piazza Fontana, e raccoglie informazioni e testimonianze per ricostruire le responsabilità dei fascisti e degli organi istituzionali nell’azione compiuta il 12 dicembre 1969. Dedicato alla memoria di Pinelli, la controinchiesta è frutto del lavoro di giornalisti, avvocati e giovani militanti della sinistra extraparlamentare (e non), che nella loro diversità si uniscono nel progetto. Cercare di cambiare una falsa narrazione per reagire a una violenza imposta, e correggere l’atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica che era convinta di quello che era stato detto. Che dietro la strage di Piazza Fontana ci fosse la mano degli anarchici, e quindi di Pinelli e degli altri compagni inizialmente sospettati, interrogati e incarcerati ingiustamente. «Momenti che sono durati anni», chiarisce Claudia, che Licia affrontò a testa alta, senza cercare la validazione degli altri e «con una dignità incredibile», mentre la sua vita veniva scandagliata. Rifiutando l’idea di diventare un personaggio pubblico, un simbolo nazionale. Diceva Licia: «Uno Stato che non vuole riconoscere la verità è uno Stato che non esiste. Io non mi sento sconfitta perché non ho avuto giustizia nelle aule di tribunale. Giustizia è che tutti sappiano la verità». All’età di 96 anni, lo scorso 11 novembre, se n’è andata. «Ha vissuto tanto e intensamente», ricorda Claudia. E a Senigallia la cittadinanza si è mossa per renderle omaggio. Fabrizio Marcantoni, titolare della libreria Ubik, ha lanciato una raccolta firme da consegnare al sindaco per fissare un ricordo perenne di Licia nella sua città natale. L’idea è nata dopo un convegno tenutosi in sua memoria a pochi giorni dalla sua scomparsa nella Biblioteca comunale cittadina, a cui ha preso parte Silvia Pinelli, una delle figlie. «L’iniziativa vuole dare un segno. Al di là del fatto pubblico, la dignità di Licia non tiene conto degli schieramenti politici», spiega Fabrizio. Fuori dalla libreria c’è un espositore per manifesti che illustra la mozione e invita a partecipare. Fabrizio prende un plico di fogli e legge i nomi: c’è chi arriva da Venezia, chi da Milano, Trieste, poi naturalmente Senigallia, i paesini limitrofi, ancora Milano, Treviso, Reggio Emilia, dall’estero. «Era conosciuta qui, veniva spesso d’estate: aveva gli amici, i vicini, la mia generazione sa chi è», eppure hanno firmato molti giovani. «È sorprendente, perché dopo sessant’anni ti accorgi che la memoria è ancora viva», continua Fabrizio. «È stata una donna straordinaria», e l’eco della sua storia continua a esserlo. Al Liceo Enrico Medi di Senigallia, durante la programmazione dell’attività di educazione civica durante il consiglio di classe d’ottobre, è stato presentato un progetto sul Bene Comune per riflettere sull’importanza di intitolare spazi pubblici alle figure femminili che hanno segnato la storia, la scienza, l’arte e la cultura della città. «Ho proposto ai ragazzi di fare una mappatura della città, di dividersi in zone e fare dei sopralluoghi», spiega Paola Via, docente di lettere del liceo. «Abbiamo ragionato sul fatto che Licia appartiene a una storia locale che si può agganciare alla grande storia. Ciò ha permesso ai ragazzi di conoscere più a fondo gli anni di piombo, il silenzio delle stragi, le sentenze che ancora rimangono vaghe. Come si attiva una collettività», spiega Paola, perché nonostante la verità giudiziaria non sia ancora emersa, «c’è una comunità che ha lavorato in questa direzione». Il senso di giustizia di Licia ha investito generazioni e lasciato un segno, perché difendere e proteggere la memoria di Pino ha significato, in una prospettiva più ampia, sostenere e far rispettare i diritti di tutti. Ha continuato a viaggiare, lavorare, cantare, scrivere, fare yoga, interrogare lo Stato, chiedendo verità e giustizia. Rifiutando il ruolo che le volevano imporre, e tenendo il privato stretto a sé. «Io sono così, sarete voi a cambiare», ha detto, e così è stato fino alla fine.
(*) Lavinia Nocelli è una giornalista freelance e fotografa che si occupa di migrazione, diritti e salute mentale. I suoi lavori sono stati pubblicati da testate italiane e internazionali tra cui BBC, The Independent, The New Arab, L’Espresso, Irpi, Avvenire, Il Manifesto, La Stampa, RSI, tra gli altri.
da Facebook
«Ciò che Israele sta commettendo nella Striscia di Gaza non è solo un genocidio, come è stato definito da giuristi, organismi internazionali, Ong e studiosi dell’Olocausto, ma, distruggendo irreparabilmente gli ecosistemi naturali, avvelenando l’aria, l’acqua, la terra, sta perpetrando anche un ecocidio.
Oggi Gaza non ha più terre coltivabili; le fattorie e le serre sono state rase al suolo dai raid israeliani; la fauna selvatica è stata decimata; i campi di fragole, gli uliveti (vitali per il biosistema della Palestina), i frutteti e le piante sono stati contaminati dal fosforo bianco delle bombe e dai metalli pesanti. Senza foraggio, il 95% del bestiame di Gaza è morto, come ha segnalato mesi fa la FAO.
Gli attacchi dell’esercito israeliano alle infrastrutture hanno danneggiato gli impianti di desalinizzazione e i pozzi idrici, riducendo del 93% rispetto a prima della guerra la disponibilità d’acqua potabile; uno studio condotto dalle Nazioni Unite ha confermato che un anno fa la quantità fruibile per persona, al giorno, era di circa 2-8 litri: ben al di sotto, cioè, non solo della soglia minima di emergenza stabilita dall’Oms (15 litri) ma anche delle raccomandazioni standard di 50-100 litri al giorno.
Le distruzioni su larga scala degli edifici, delle strade e degli impianti civili di Gaza fin dai primi mesi del conflitto ha prodotto svariati milioni di tonnellate di detriti, alcuni dei quali contaminati con ordigni inesplosi, amianto e altri sostanze tossiche, molto pericolose – anche a lungo termine – per la salute umana e animale. Sepolti, tra la polvere e i calcinacci, ci sono anche resti umani.
I fumi prodotti dall’incenerimento di svariate centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti a cielo aperto (accumulati dopo il danneggiamento degli impianti di trattamento) stanno inoltre contribuendo in modo importante alla diffusione di malattie e a un inquinamento atmosferico elevatissimo.
Le poche iniziative che la municipalità di Gaza può mettere in campo non sono infatti sufficienti a contrastare il rapido deterioramento dell’ambiente.
Quelli prodotti dall’offensiva che dalla Striscia si è espansa in una guerra regionale sono danni climatici (sanitari e sociali) gravissimi che continueranno ad essere avvertiti per decenni: a sottolinearlo sono gli autori di un nuovo studio internazionale sul costo climatico dei bombardamenti su Gaza pubblicato dal Social Science Research Network.
Il paper si è concentrato sulle emissioni di gas serra associate all’uso di materiali bellici (e alle attività militari in genere, compresi i voli dei cargo dall’Europa e dagli Usa per rifornire di armi Israele) e, tra gli altri, sugli effetti del consumo da parte dei gazawi di milioni di litri di carburante per far fronte alla crisi energetica causata dalla distruzione dell’unica centrale elettrica e della rete ad energia solare.
Nei primi 15 mesi del conflitto la quantità di carbonio emessa – quasi 2 milioni di tonnellate – ha superato di gran lunga la quota prodotta ogni anno da 36 Paesi: se i razzi di Hamas e il carburante per bunker rappresentano lo 0,2% di tali emissioni, l’approvvigionamento e l’uso di armi, carri armati e altri armamenti da parte di Israele ne rappresentano il 50.
I ricercatori hanno anche stimato quale potrebbe essere il costo climatico della ricostruzione: 32 milioni di tonnellate di carbonio, una cifra che equivarrebbe alla gestione di 84 centrali elettriche a gas per un anno.
Pur non ancora ufficialmente riconosciuto come crimine internazionale dalla Corte Penale Internazionale, molte fonti scientifiche e osservatori ambientali hanno ravvisato l’ecocidio, a Gaza, nella distruzione massiccia, intenzionale e sistematica dell’ambiente e delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie messa in atto dalle forze israeliane. Una devastazione irreparabile che, tuttavia, non avrebbe avuto inizio con la campagna militare seguita al 7 ottobre 2023 ma molto tempo prima, anche attraverso pratiche che includono l’uso massiccio di pesticidi sui terreni dei contadini, la sostituzione delle piante di ulivo con specie aliene come l’eucalipto e il pino di Aleppo e delle capre nere palestinesi con quelle bianche, come ha ricordato anche di recente la studiosa israeliana Irus Braverman».
Una parte di questo mio articolo è uscita oggi sulle pagine Esteri di Avvenire.
https://www.avvenire.it/mondo/pagine/israele-distrugge-terra
da Mem.Med – Memoria Mediterranea
Nell’ambito del fitto programma di iniziative della “Settimana di lotta, memoria e giustizia” promossa da Mem.Med. – Memoria Mediterranea e altre realtà solidali, che dall’11 al 15 giugno vede la presenza a Palermo, tra le altre, di madri sorelle e familiari di giovani tunisini unite dall’esperienza della perdita di un proprio caro lungo le rotte migratorie, e dall’instancabile lotta per ottenere verità, giustizia e riconoscimento, nella mattina di mercoledì 11 si è tenuto un presidio
davanti al Consolato del loro Paese. Durante la manifestazione al Console è stata consegnata la lettera di denuncia e rivendicazione che pubblichiamo integralmente.
(Silvia Marastoni)
Signor Console,
Siamo madri, sorelle e familiari di giovani tunisini scomparsi nel tentativo di attraversare il mare. Siamo donne segnate da anni di attesa, silenzi, promesse disattese e da una continua e solitaria ricerca di verità e giustizia. Abbiamo deciso di rompere il silenzio e rivolgerci direttamente a Lei, non più per supplicare, ma per rivendicare. Perché è un nostro diritto – e un Suo dovere – rispondere alle nostre domande e assumersi le responsabilità che lo Stato tunisino continua a eludere.
1. Verità e giustizia per i nostri figli e fratelli scomparsi
Chiediamo trasparenza, comunicazione e accesso alle informazioni riguardanti i casi di scomparsa dei nostri cari.
Chiediamo spiegazioni sulla sparizione di Hamdi Besbes, meccanico a bordo del peschereccio “Hadj Mohamed”, arrestato il 23 luglio 2020 a Lampedusa con migranti a bordo. La famiglia ha ricevuto versioni contraddittorie dalle autorità tunisine: Hamdi prima sarebbe stato ricoverato, poi fuggito, poi del tutto ignorato.
Chiediamo copia del presunto rapporto fornito al padre, che il Console Jaballah si è rifiutato di consegnare, e del rapporto dell’assistente sociale che ha ascoltato il racconto di un minore presente sul peschereccio.
Chiediamo aggiornamenti sulle analisi del DNA realizzate in Tunisia (aprile 2021) e in Italia (ottobre 2021) e i risultati dei confronti genetici. Come può essere che, dopo anni, non sia stata fornita alcuna risposta?
Chiediamo informazioni chiare sul destino di Mohamed Jamal El Mili e Bechir El Mili, scomparsi nel 2011, e di tutti i giovani partiti su imbarcazioni scomparse tra Tunisia e Italia.
Non è più accettabile che lo Stato non abbia mai offerto alcuna risposta dopo quattordici anni.
Chiediamo che questa rappresentanza diplomatica si assuma pubblicamente le sue responsabilità.
Denunciamo con forza:
– L’assenza di una struttura stabile di contatto e supporto alle famiglie tunisine dei dispersi e dei migranti detenuti o morti in Italia, e l’assenza di comunicazione proattiva da parte del Consolato. È inaccettabile che la società civile debba sostituirsi alle istituzioni dello Stato per fare indagini, riconoscimenti, traslazioni e supporto alle famiglie.
– La complicità dello Stato tunisino nel processo di esternalizzazione delle frontiere europee, che trasforma la Tunisia in gendarme del Mediterraneo, in cambio di prestiti condizionati e favori diplomatici. La Tunisia ha firmato accordi informali e non trasparenti con l’Italia e l’UE per impedire le partenze, per deportare migranti e per chiudere gli occhi sulle violazioni commesse nei CPR e nei centri di detenzione.
– Le condizioni disumane dei cittadini tunisini detenuti nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio in Italia, dove subiscono maltrattamenti, privazione di diritti, isolamento e umiliazione. Nessun funzionario consolare si è presentato per verificarne le condizioni o ascoltare le loro denunce. I diritti fondamentali dei cittadini tunisini vengono calpestati con la piena complicità delle autorità tunisine.
– La pratica sistematica delle deportazioni forzate dalla Sicilia e dall’Italia verso la Tunisia, spesso senza possibilità di appello legale, con voli settimanali organizzati in silenzio e in fretta, violando ogni principio di dignità e diritto alla difesa.
– L’inaccessibilità delle procedure per ottenere visti di ingresso legale in Italia, che costringe giovani, lavoratori e famiglie a intraprendere viaggi pericolosi e illegali. Da anni ottenere un appuntamento al Consolato per un visto è un miraggio: un sistema opaco, arbitrario, corrotto e irresponsabile che criminalizza la mobilità e alimenta la clandestinità.
– L’assenza di trasparenza e di supporto nelle pratiche di identificazione delle persone migranti decedute in mare, lasciando centinaia di corpi senza nome, mentre le famiglie aspettano risultati del DNA da anni, senza alcuna comunicazione ufficiale, trattate con disprezzo e indifferenza.
Signor Console, non è solo una questione amministrativa. È una questione politica e morale. Lo Stato tunisino è oggi responsabile della morte sociale di migliaia di giovani, non solo attraverso la sua inazione all’estero, ma anche per il contesto di disperazione che alimenta la harga: una crisi economica senza fine, un regime autoritario che ha cancellato ogni opposizione e libertà d’espressione, una società che spinge i giovani alla fuga e alla morte.
Il vostro silenzio, il vostro immobilismo, la vostra burocrazia assassina fanno parte del problema. È tempo che il Consolato tunisino a Palermo:
– Istituisca immediatamente un referente ufficiale per i dispersi e le famiglie migranti, con numero e contatti pubblici.
– Dia seguito alle domande delle famiglie e fornisca copia dei rapporti e documenti relativi ai casi di scomparsa, senza ulteriori ritardi.
– Richieda e pubblichi un’indagine interna sugli accordi di rimpatrio con l’Italia e sulla gestione dei CPR.
– Faccia pressione sulle autorità tunisine e italiane per garantire trasparenza, accesso legale alla mobilità e il rispetto dei diritti fondamentali di ogni cittadino.
– Collabori attivamente con la società civile, le associazioni e le famiglie nella ricerca dei dispersi e nel processo di identificazione dei corpi. Finché queste richieste non verranno soddisfatte, continueremo a denunciare pubblicamente la vergogna e la responsabilità dello Stato tunisino, dei suoi rappresentanti e dei suoi accordi mortali. Non ci fermeremo. Perché ogni vita conta. Perché ogni madre ha diritto alla verità.
Verità. Giustizia. Dignità. Ora.
Le madri tunisine, le sorelle, i familiari. Con il sostegno della società civile tra la Tunisia e l’Italia.
da DoppioZero
Modernità esplosiva, sottotitolo: Il disagio della civiltà delle emozioni, è uno dei tre saggi che aprono la collana einaudiana dei nuovi Maverick: interessante novità di aprile 2025. In copertina guardiamo da vicino un occhio chiaro che a sua volta ci guarda. Il libro, tradotto molto bene da Valentina Palombi, l’ha scritto Eva Illouz, sociologa che da più di trent’anni si occupa di relazioni amorose, intimità e più in generale di emozioni. Ha iniziato a farlo con dei libri di nicchia, alcuni dei quali mai tradotti in italiano, come Consuming the Romantic Utopia: Love and the Cultural Contradictions of Capitalism, che è uscito nel 1997, quando pochi altri nel mondo prendevano sul serio le forme contemporanee del fenomeno amoroso o, se non altro, se ne occupavano. Dopo quel testo ne sono seguiti tanti altri, ma in particolare due degni di nota: Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi (che in italiano è uscito la prima volta nel 2007, per Feltrinelli) e Perché l’amore fa soffrire (2013, Il Mulino – parlo sempre della pubblicazione italiana numero uno). Per chi si appassioni ai temi e alla mente di Eva Illouz esistono svariati saggi da recuperare, ma vale la pena di chiamare in causa questi tre perché Modernità esplosiva ne costituisce l’ultimo atto. Tutte le domande che Illouz si è fatta in questi anni al riparo dell’accademia esplodono ora in una questione di dominio (felicemente) pubblico: il malessere che proviamo è una «conseguenza inevitabile della modernità»? O anche: «In quali modi la modernità – un concetto vago e complesso – si è manifestata nella nostra vita emozionale»?
La tesi di Illouz è che le emozioni non si formino «nel sé più di quanto il linguaggio risieda nel sé». In breve, le emozioni rappresentano raffinati codici di reazione all’ambiente che sono, però, meno istintivi di ciò che crediamo. Questi codici vengono di volta in volta ridiscussi e forgiati dai cambiamenti della società e sarebbe un errore interpretarli sempre nello stesso modo, privatamente, come identiche reazioni animali a uno stimolo esterno, senza adattare lo sguardo allo stile della civiltà in cui si stanno manifestando. Per questa ragione, delle emozioni non si devono occupare solo gli psicologi, ma pure e soprattutto i sociologi. Se stiamo male, oltre a lavorare su noi stessi, possiamo cercare di capire quello che non dipende da noi. Infatti, come scrive Illouz nelle sue pagine inaugurali: oggi «la nostra psiche soffre di un eccesso di auto-attenzione emozionale, come se il nostro obiettivo collettivo consistesse oramai semplicemente nel “sentirsi bene”. Se questo libro ha un’ambizione è quella, paradossale, di aiutarci a distogliere lo sguardo dai nostri sé emozionali».
In effetti, da Intimità fredde in avanti, Illouz è sempre più critica verso certe derive consumistiche della società terapeutica, ma il saggio va da un’altra parte, e quest’altra parte è precisamente guardare come le emozioni si sono trasformate nella società moderna fino ai giorni nostri.
Che cosa vogliono dire le emozioni adesso? E quali emozioni si nascondono sotto i dati?
Se la speranza, per esempio, ha dato luogo alla coloritura prevalente dei tempi moderni, ora non è più vero. Se siamo meno speranzosi è perché aumentano le disuguaglianze, le istituzioni democratiche sono in crisi, la tecnologia ci estrania della nostra vita quotidiana, e poi il lavoro è precario, così come sono inaffidabili relazioni sentimentali e matrimoni.
Può sembrare un cammino pessimistico e sconfortante, in realtà è l’opposto: Eva Illouz oppone ai «sé emozionali» dei “noi emozionali”. Che effetto fa? Alla fine della lettura ci si sente meno soli, perché le emozioni che siamo soliti introdurre con un: “io provo” o con un: “io sento”, sono invece diventate oggetti collettivi in qualche modo esterni alla psiche, oggetti di studio più interessanti che spaventosi. Leggendo il saggio si cambia prospettiva. Il «disagio delle emozioni» si rivela una mappa utile a indicare quali sono gli aspetti della società che potremmo voler trasformare, così da provare insieme emozioni migliori. È un po’ la differenza tra temere di avere una brutta malattia e mettersi a studiare cellule impazzite con la strumentazione più adeguata. Se ne ritrae un conforto di tipo intellettuale e non psicologico, unito alla curiosità rispetto a un oggetto che quando appariva generico ci metteva più ansia – sempre a proposito di stati d’animo.
Tra le tante cose che Eva Illouz ha messo a punto negli anni, affinando il suo stile, ce n’è una che nel saggio salta particolarmente all’occhio ed è l’utilizzo della letteratura come materiale sociologicamente rilevante, tanto più nello studio delle emozioni; quindi, le pagine sono una miniera di riferimenti e immagini prese dai romanzi, per lo più dai classici, ma non solo. La densità è elevata, il materiale infiammabile. Così come il titolo, che si spiega pensando alla mescolanza esplosiva di emozioni intense in confitto tra loro. Nelle pieghe degli esempi e dei ragionamenti, tipico dell’autrice è seminare delle definizioni particolarmente memorabili, come quella che dà dei romanzi, che sarebbero: «il luogo in cui la mente si aggiorna su chi sente una data cosa, dove e perché» o delle emozioni stesse che sarebbero: «momenti stilizzati di essere». Le emozioni sono diventate progressivamente più importanti perché, secondo la sociologa, nella contemporaneità sono sempre legate al lavoro di autodefinizione di sé che ciascuno porta avanti instancabilmente per misurare non solo come sta, ma anche se è un fallito oppure no. Se fino a qualche decennio fa le emozioni individuali erano schermate dall’educazione del carattere a certi valori morali, ora che questo apprendistato caratteriale è in declino, sono le emozioni a dire di noi quanto la nostra vita sia realizzata o mancata: se stiamo bene, siamo vincenti, se proviamo emozioni negative ecco che si misura un primo grado di fallimento da riparare con una cura. Per dirlo con le parole di Illouz: «La realtà diventa così intensamente emozionale, si trasforma in una serie di transazioni emotive che possono rivelarsi esplosive, proprio perché il contenuto della vita emozionale è diventato il principale fondamento della realtà e l’oggetto stesso di queste transazioni. Le emozioni sono diventate la realtà degli individui e il loro campo di battaglia, ciò che si sforzano di plasmare e controllare e ciò per cui lottano con gli altri».
Le emozioni che la sociologa scandaglia sono in particolare dieci, raccolte in tre sezioni che organizzano il libro: nella prima parte, che si concentra su luci e ombre del sogno americano, si prendono in esame speranza, delusione e invidia; nella seconda è la volta di ira, paura e nostalgia, che per Illouz sono le emozioni di riferimento se si parla di nazionalismo o democrazia; infine seguono le emozioni della sfera intima, cioè la coppia di vergogna e orgoglio, la gelosia, e in ultimo quel complesso conglomerato a cui diamo il nome riassuntivo di ‘amore’. In tutti i casi la linea del tempo non è mai il mancorrente che aiuta a seguire le scale del ragionamento, l’autrice si muove con disinvoltura e rapidità avanti e indietro. In ciascun caso, i quadri letterari aiutano a intendersi sul modo in cui si scatena l’emozione oppure a portare avanti la tesi.
Un caso particolarmente emblematico di come lavora Eva Illouz è rappresentato dall’ira.
Si parte tipicamente da Achille, ma poi si ragiona su come essere arrabbiati oggi non sia per forza una ragione di orgoglio sociale: dipende. L’ira non è sempre la difesa eroica da un oltraggio morale. Se a essere arrabbiato è qualcuno che non può permetterselo, perché non ha una voce abbastanza ferma da interpretare con successo il copione omerico, l’ira collassa in una forma di vergogna, nel risentimento. E, la maggior parte delle volte, l’ira sta al confine tra la virtù e l’affermazione spesso egoistica di un io frustrato. Per questo l’ira viene definita dalla sociologa un «enigma dell’anima», perché è molto ambigua, muta di valore da una situazione all’altra, da un agente all’altro, e pure quando erompe in difesa della giustizia può trasformarsi in una violenza peggiore di quella denunciata o subita.
Una sintesi altrettanto affilata riguarda l’invidia che viene detta: «l’emozione muta». Chi è invidioso, infatti, non può che tacere il suo sentimento, perché esplicitare l’invidia verso qualcuno sarebbe come ammettere la propria inferiorità, ma soprattutto vorrebbe dire oggettivare che la vita fortunata e migliore è quella dell’altro. Chi è invidioso, per il solo fatto di ammettere che lo è, viene considerato un perdente.
Queste considerazioni non sono vere in generale, soprattutto non sono sempre state vere: dal futuro o dal passato le nostre emozioni potrebbero essere difficili da comprendere così, nel significato che hanno per noi adesso.
Nel guardare a come si sono contorte le emozioni intorno alla società e ai suoi mutamenti, Eva Illouz risolve anche dei rebus che ci aiutano a mettere a fuoco alcuni meccanismi emozionali collettivi. Prendiamo l’orgoglio, per esempio. L’orgoglio va in coppia con la vergogna perché rappresenta il suo opposto, oppure la controffensiva che la psiche mette in campo quando l’imbarazzo è troppo grande e ingiustificato. Allora è lì che subentra l’orgoglio.
Su questa emozione la sociologa fa un rilievo importante: l’orgoglio è un’emozione positiva, talvolta nazionale, in grado di portare avanti miglioramenti sociali, a condizione però che sia provvisoria. Quando si radica nel tempo, l’orgoglio si svuota del suo significato reattivo e smette di essere «quieto», l’orgoglio diventa «un’identità autocompiacente» che non è più disposta a confrontarsi con le altre. Un mite orgoglio, al contrario, è un’arma intelligente da usare contro la discriminazione, così come è avvenuto col movimento pride in tutto il mondo.
Nelle parole di Illouz le emozioni si svuotano completamente del loro valore patetico: diventano lenti per leggere il contemporaneo e la cronaca, più volte usata per addentrarsi nello spettro emotivo. Un’ultimissima cosa da sottolineare è che le quaranta pagine di bibliografia, raccolte in trent’anni di studio, sono una miniera d’oro per chiunque voglia restare in tema. La voce autorevole di Eva Illouz fa venire una grande curiosità nei confronti dei futuri nuovi Maverick.
Sono arrivata a Trieste in una domenica di gennaio, accolta da una pioggia insistente e una nebbia densa, insieme a Sofia e Giorgia, le mie compagne e amiche in questa settimana di volontariato con ResQ – People Saving People, presso il Centro Diurno di via Udine 19, che chi lo frequenta chiama Chai Khana. Dopo un passaggio dei compiti con le volontarie della settimana precedente, abbiamo conosciuto i nostri coinquilini e ci siamo un po’ riposate e ambientate, prima di immergerci totalmente nelle attività quotidiane del Centro: una realtà inizialmente caotica, piena di regole non scritte, di volti nuovi, di dinamiche da imparare. Ci sentivamo spaesate, soprattutto nel gestire gli aspetti pratici come la lavanderia. Ma presto ci siamo rese conto che l’accoglienza non stava solo nei compiti da svolgere, ma nei sorrisi, negli sguardi, nella disponibilità silenziosa di chi, giorno dopo giorno, si presentava lì non per ricevere soltanto, ma anche per condividere.
Ogni mattina al Centro trovavamo persone che aspettavano all’ingresso, infreddolite e con zaini che spesso non si toglievano mai dalle spalle. Alcuni volti diventavano familiari, altri arrivavano per la prima volta.
Col tempo, ho imparato che bastava poco per rompere il ghiaccio: una partita a calciobalilla, una battuta mal tradotta e un tè, o chai, condiviso con qualche biscotto. I ragazzi ci hanno accolte con gentilezza e ironia, rendendoci parte del gruppo ben prima che ci rendessimo conto di esserlo.
La sera, in piazza con Linea d’Ombra, ho scoperto un altro lato di Trieste. Lì ho ritrovato Alì, che avevo già conosciuto al Centro, con il suo sorriso tenace e la determinazione di chi studia italiano da solo, perché le lezioni che segue lì non gli bastano. E poi Udinn, partito da solo dal Pakistan, che racconta la propria fede come unica compagna di viaggio. Tra una distribuzione di pasti e un gesto di cura spontaneo, ho capito che in quella piazza non c’era solo bisogno: c’era dignità, solidarietà, fratellanza. I piatti passavano di mano in mano e ognuno in modo naturale sapeva esattamente cosa fare. In quell’esatto momento ho smesso di sentirmi semplicemente una volontaria: ero lì insieme a loro, a fare la mia parte come chiunque altro.
Ricordo Alì chiedermi: «Ma tu sai about noi?» così come ricordo la mia difficoltà nel trovare le parole per rispondere a quella domanda. E forse era proprio quello il punto: non si trattava di capire con la mente, ma di sentire. In quel silenzio, mentre mi sorrideva senza insistere, ho realizzato che nessuna spiegazione sarebbe bastata. Quello che stavo imparando non si poteva ancora dire, ma solo vivere.
Da quel momento, ogni giornata è diventata una scoperta. A momenti di leggerezza e divertimento come le partite a calcetto e le canzoni ascoltate insieme su YouTube se ne alternavano altri di stanchezza fisica e mentale, in cui il pensiero che molti di quei ragazzi dormissero per strada diventava difficile da sopportare. Vedere la polizia entrare nel Centro per segnalare un possibile minore, assistere ai trasferimenti improvvisi verso campi temporanei, distribuire giacche troppo grandi a chi aveva solo freddo: tutto questo lasciava, in me, un segno.
Eppure, nonostante la fatica, mi sono scoperta instancabile. Mi sorprendevo di me stessa, della voglia di esserci ancora, di scendere ancora una volta in piazza e così è stato anche l’ultima sera. Era gennaio, faceva freddo davvero, ma lì, tra balli, canti, saluti e foto tutti insieme, quel freddo sembrava sparire. La piazza non somigliava nemmeno a un luogo esterno, all’aperto, ma era piuttosto un rifugio capace di scaldare più di qualsiasi coperta.
La mia vita a Milano poi è ripresa, con le sue corse e i suoi impegni, e a volte i ricordi sembrano affievolirsi. Ma quello che ho vissuto a Trieste continua a riemergere, nei gesti, nei pensieri, nei volti che mi porto dentro. E in effetti, alla fine, in piazza ci sono tornata davvero, ogni volta che nei week end mi è stato possibile.
Io pensavo di essere lì per accogliere, ma ho scoperto con profonda felicità ed emozione che anch’io sono stata accolta.
(*)Marta Troiano ha venticinque anni, vive a Milano ed è prossima alla laurea magistrale in Migration Studies presso l’Università Statale. Ha seguito fin dalla sua creazione la Onlus ResQ – People Saving People (attiva nelle operazioni di Ricerca e Salvataggio nel Mediterraneo Centrale e in altri progetti di solidarietà con rifugiate/i e migranti), partecipando alle iniziative organizzate in città e poi come volontaria a Trieste.
da Pressenza
Per i lettori di Pressenza il nome di Gian Andrea Franchi, da dieci anni in prima linea con Lorena Fornasir nell’accoglienza dei migranti che approdano dopo inenarrabili sofferenze lungo la rotta balcanica nella Piazza del Mondo di Trieste, suonerà sicuramente familiare. Parecchi gli articoli che salteranno fuori dai nostri archivi digitando il suo nome, in particolare quelli (febbraio 2021) che denunciavano l’incredibile accusa di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», per aver ospitato una famiglia curdo-iraniana un paio d’anni prima. Indagine poi archiviata, ma che in quei mesi (si era nel dentro&fuori dalla pandemia) riempì di indignazione i tanti che da anni seguivano questa coppia di attivisti non più giovanissimi, nella loro instancabile, quotidiana, mirabile professione di cura, a cominciare dalle parti più martoriate di quei corpi in transito: i piedi. Piedi ridotti a zeppe di bolle e piaghe, chiusi dentro scarpe senza neppure i lacci, per non dire tutto il resto: l’esperienza dei respingimenti, il terrore accumulato in mesi o anni di viaggio, la realtà del trauma dentro gli occhi.
In risposta a quell’accusa, Gian Andrea si limitò alle seguenti righe:
«Rivendico il carattere politico, e non umanitario, del mio impegno con i migranti. Impegno umanitario è un impegno che si limita a lenire la sofferenza senza tentare d’intervenire sulle cause che la producono. Impegno politico, nell’attuale situazione storica, è prima di tutto resistenza nei confronti di un’organizzazione della vita sociale basata sullo sfruttamento degli uomini e della natura, portato al limite della devastazione (come la pandemia ci ha dimostrato). È inoltre tentativo di costruire punti di socialità solidale che possano costantemente allargarsi e approfondirsi.»
Parole che da sole basterebbero a sintetizzare i contenuti e le intenzioni di questo bel libro, che per l’appunto si intitola “Per un comunismo della cura”, recentemente pubblicato da DeriveApprodi, che Gian Andrea Franchi sta presentando ovunque si presenti l’occasione – e l’occasione per Milano è stata qualche giorno fa alla Libreria delle Donne, con la conduzione di Silvia Marastoni.
Incontro emozionante, anche grazie all’intervento di apertura di Lorena Fornasir, che non potendo essere presente di persona ci ha regalato una decina di minuti in diretta dalla “sua” Piazza del Mondo, con i ragazzi che arrivavano alla spicciolata… e quel monumento che per anni era stato il naturale punto d’incontro al centro della Piazza, ormai transennato da tutti i lati… e il vecchio porto austriaco in lontananza che per anni era stato il miserrimo rifugio per tanti, non più agibile, tombato pure quello d’ordinanza.
«In questa piazza approdano i figli dei figli del nostro colonialismo, delle nostre guerre umanitarie, i disastri che produciamo esportando guerra anche quando la chiamiamo pace» ci ha detto Lorena con l’urgenza imposta da quello che per lei era un momento di lavoro. «Percorsi di dolore di cui siamo testimoni da quando, nel 2015, abbiamo cominciato questa pratica di cura a Pordenone. Da allora a oggi il cambiamento è stato solo in peggio per la ferocia che si è compiuta su queste persone, che si presentano con i loro corpi torturati, seviziati dalle polizie ai vari confini […]. Ciononostante noi qui siamo, perché riteniamo che non sia possibile voltare la faccia dall’altra parte, perché come diceva Max Frisch pensiamo che il “silenzio delle pantofole sia molto più pericoloso del rumore degli stivali” e questo ci sostiene nella nostra resistenza quotidiana, contro queste politiche di morte, in cui la vita umana non vale più nulla. […]
Una sera è arrivato alla nostra “panchina della cura” un uomo che avrà avuto trent’anni ma ne dimostrava il doppio, tanto il suo corpo era devastato, ed è stato difficile per me intervenire su quelle ferite che non riesco nemmeno a descrivere; non osavo incrociare il suo sguardo e quando alla fine l’ho fatto ho capito che ciò che non osavo guardare era il mio stesso trauma, sapendo che a cento chilometri da qui nella bellissima Croazia (vi invito a boicottare la Croazia), ci sono ragazzi che muoiono annegati. I morti di cui non si saprà mai nulla e di cui noi ricamiamo i nomi su questo “lenzuolo della memoria”: sono soprattutto i ragazzi migranti che li ricamano…». E sul primo piano dei nomi ricamati in rosso sul bianco del lenzuolo, Lorena si scusa ma deve proprio andare: «Stanno arrivando sempre più persone, la Piazza mi chiama…».
Il microfono può quindi passare a Gian Andrea, che a ottantanove anni ha ancora l’energia dell’attivista che in effetti è sempre stato. Ex professore di liceo in città diverse, ricorda con particolare entusiasmo quegli anni «a cavallo tra i ’60 e ’70, aperti alla speranza, in cui ci si sentiva parte di un movimento, di lotte, di tentativi di costruzione di forme nuove di vivere insieme… Fu in quell’epoca che decisi di entrare nel PCI e ne uscii dopo tre anni, deluso nell’assistere alla ritirata del Partito di fronte a quella che a me sembrava una fioritura, con le scuole occupate, gli studenti che si ponevano e ci ponevano delle domande, richieste di presenza, partecipazione, senso della vita… le stesse che si ponevano gli operai in sciopero nelle fabbriche, che senso aveva passare tutta la vita a una catena di montaggio… erano domande anche filosofiche, che finalmente circolavano a livello di massa. Poi nel 1969 c’è stata la strage di Piazza Fontana, ed è stato il segnale che il potere avrebbe reagito con inimmaginabile ferocia. E poi c’è stata l’involuzione, la lotta armata, ne ho conosciuti parecchi che si sono persi in quei percorsi.
Io mi sono chiesto perché è finita così e una delle risposte che mi sono data è che lottare, in un certo senso, è più facile che costruire. Noi abbiamo lottato, ma non siamo stati capaci di costruire qualcosa che durasse veramente, come anni dopo ci avrebbe insegnato il movimento zapatista: per lottare bisognava avere qualcosa in grado di durare, altrimenti rimane solo la lotta, in cui è l’avversario che decide anche per te, e tu ti definisci in rapporto all’avversario, rispondi ai suoi attacchi o schemi. […] E quindi appunto in questo libro ho cercato non solo di spiegarmi la complessità di ciò che è successo, ma anche di inquadrare il fenomeno della migrazione nella sua realtà: sia in prospettiva, perché secondo i calcoli dell’IOM (International Organization for Migration, che fa parte dell’ONU) i migranti potrebbero essere un miliardo e mezzo entro vent’anni, e addirittura quattro miliardi entro la fine del secolo, sia come opportunità, per un cambio di rotta quanto mai necessario.
E quindi ecco il riferimento al comunismo, nel suo significato più fondamentale, come “messa in comune della cura”, creazione di nuove forme di comunità, antidoto alla malattia mortale delle nostre società che è l’individualismo, in cui ognuno guarda solo alla propria cerchia, famiglia, territorio. Essendo andato a sbattere contro questo fenomeno migratorio, ho capito che in questo confronto con situazioni estreme poteva esserci una chiamata a cui rispondere: non solo per cercare di aiutare loro nei loro bisogni e aspirazioni, ma come indicazione di futuro per tutti noi. Perché come non capire che il motivo fondamentale di questi flussi migratori è un problema che ci riguarda tutti come esseri viventi, ovvero l’alterazione degli equilibri biologici che regolano il pianeta terra, la vita stessa? Come non capire che questi giovani che arrivano soprattutto dall’Asia del sud, ma anche dall’Africa, sono solo un’anticipazione di un fenomeno ben più grande che molto presto riguarderà i nostri figli e nipoti?
E allora cerchiamo di ripartire appunto dal cuore, ovvero dalla Piazza del Mondo, dall’accoglienza di queste persone, dalla fecondità degli incontri e riunioni, dal ritrovarsi nella soluzione delle esigenze più fondamentali e vitali, nella sperimentazione di resistenze creative. Per costruire dal basso qualcosa che abbia senso, a partire da quel concetto di Disperata speranza del giovane filosofo ebreo Carlo Michelstaedter, su cui ho scritto la mia tesi di laurea e continuato a lavorare per il resto della mia vita».
Gian Andrea Franchi, Per un comunismo della cura, Ed. DeriveApprodi 2025, 172 pag. € 18
(*) Daniela Bezzi. Giornalista, operatrice culturale, ricercatrice indipendente, ha vissuto e lavorato per lunghi periodi in Giappone, Gran Bretagna e India prima di ristabilirsi in Italia dove collabora con varie testate sui temi dell’ambiente, dei diritti umani e del lavoro.
Testimoniare il male senza dimenticare il bene è il titolo del convegno nazionale delle Città Vicine ospitato il 17 e 18 maggio scorso dalla Libreria delle donne di Milano in occasione del cinquantesimo della sua nascita. Un’ospitalità politica da parte di un luogo – come ha ricordato Anna Di Salvo nella sua relazione introduttiva – «fondativo di riferimento, di radicalità politica, di sostegno e apertura di orizzonti» per le Città Vicine che, a loro volta, il prossimo luglio compiranno 25 anni dalla loro nascita. Un percorso politico, quello delle Città Vicine, testimoniato da convegni, pubblicazione di libri, riviste, articoli, mostre Mail-Art e performance artistiche, vacanze politiche, viaggi per lunghi anni a Lampedusa, Riace, Niscemi, Sigonella, «luoghi di approdo a volte felice per le/i migranti in cerca di una nuova vita, spesso luoghi di morte dove donne, uomini e bambini hanno perso la vita in tragici naufragi. Anche luoghi dove la barbarie del nostro tempo ha installato missili, parabole e armamenti bellici e nucleari mettendo a rischio la vita degli/delle abitanti di quei paesi e imponendo un vero e proprio stato di guerra simbolico e reale». Di fronte allo smarrimento generato da un’Europa «rappresentata in gran parte da una leadership di donne che ha aderito alla politica del riarmo e si mostra condiscendente a scelte belliciste», tornano attuali le domande di Simone Weil riprese nel libro L’Europa delle Città Vicine (ed. MAG Verona 2017, a cura di Loredana Aldegheri, Mirella Clausi e Anna Di Salvo), tratto dal convegno del 21 febbraio 2016: «Cosa sta accadendo in Europa oggi? Quali prospettive e quali possibilità abbiamo di aprire nuove vie per un’Europa più vicina alle vite, ai bisogni, ai desideri? Ci sono pratiche che presentano una natura costituente oggi necessaria?» (da: La persona e il sacro). Di fronte a questa Europa e alle tragedie umane estreme, prima tra tutte il genocidio del popolo palestinese a Gaza, che tutte/i viviamo con un sentimento di “vertigine”, cosa significa testimoniare il male senza dimenticare il bene, frase che Maria Concetta Sala ha espresso nel convengo nazionale delle Città Vicine del 2023 per dire la sua pratica, come ha ricordato in apertura del convegno Clara Jourdan, che ha coordinato gli interventi?
Per Bianca Bottero, parafrasando Ada Colau, significa «trasformare la paura in speranza», per Loredana Aldegheri «resistere, saper guardare la magica forza del negativo», sapendo guardare, aggiunge Giusi Milazzo, le «piccole luci» che danno «speranza». Per Laura Colombo significa «riconoscere che anche nelle condizioni più dure c’è qualcosa da preservare, difendere, far emergere. Significa resistere alla tentazione di voltarsi dall’altra parte, guardare e agire, senza lasciarci paralizzare dal dolore né cadere nell’indifferenza. Significa imparare a stare nel patimento, restare alla realtà anche quando è dolorosa e trasformare la consapevolezza della sofferenza in una leva per agire». Un agire, secondo Maria Castiglioni, capace di produrre «azioni simboliche inedite, pratiche costituenti, che uniscano giustizia, bellezza e verità» come nell’azione delle Città Vicine nell’andare a Lampedusa e a Riace, facendosi «mediazione vivente». Mediazione vivente che ha in sé giustizia, verità e bellezza è la Libreria delle donne di Milano, aggiunge Laura Minguzzi. Per Simonetta Patané «rendersi conto del male» e voltarsi «verso il bene» non è bastevole in quanto le azioni sono «inefficaci» perché di «pochi», bisogna «riprendere in mano la forza» nel senso di agire con «forza» e «determinazione», «urlare», e si dice «non disposta ad essere meno forte per paura di essere violenta». Adriana Sbrogiò alla parola «violenza» reagisce dicendo di non essere d’accordo con Patané perché la violenza lei l’haconosciuta sul suo corpo con la guerra e perché la «violenza genera violenza» e solo se nella storia entra l’amore può cambiare qualcosa.
Clara Jourdan osserva che l’efficacia di un’azione non si misura sulla quantità ma sul piano simbolico. A Gaza, per esempio, «non possiamo fare cessare il massacro ma possiamo fare conoscere le mediazioni viventi che esistono e il fatto che sono poche non ci deve scoraggiare. Ci sono gruppi di donne e uomini israeliani che si incontrano diventando loro la mediazione vivente. Può sembrare che non abbiano efficacia ma non è vero, sul piano simbolico sono potenti». «Tutte le trasformazioni sono avvenute con pochi», dice Donatella Franchi che ricorda le parole di Hebe María Pastor de Bonafini, madre de Plaza de Mayo, pronunciate a Bologna nel 2007: «Per pensare la rivoluzione non occorre essere molte». Mediazione vivente è quella che fanno le donne di Città del Messico, presenti al convegno con Patricia Meza Rodríguez, che si mettono in relazione con le madri e le figlie delle donne vittime di femminicidio e ne riscattano la memoria, ricamando la loro storia e il loro nome.
In questo tempo di smarrimento generale «c’è la consapevolezza della ricerca di un nuovo vivere insieme e il femminismo, secondo Annarosa Buttarelli, è l’unica realtà mondiale che riesce ancora a pensare e a dare un orientamento» ma «deve imparare la sua trasformazione» che è «radicalità e originalità» perché «è quello che cercano le nuove generazioni», con le quali oggi esiste un problema di incomunicabilità, nel mentre la destra, secondo Mirella Clausi, riesce ad attirarle a sé dando «risposte al loro sentire» e utilizzando «intelligentemente un linguaggio più femminile di come sta facendo la sinistra». Questa generazione di giovani, dice Traudel Sattler «ha ottime relazioni con le proprie madri reali, invece con le madri simboliche si rivoltano. Ci sono dei muri che si sono creati. Molte giovani non conoscono il pensiero della differenza. Si rifiutano di sapere». Giovani che «sono tutte nell’azione e mancano di riflessione», aggiunge Donatella Franchi, ma vanno ascoltate ed «è importante trovare nuovi modi per dire le cose», aggiunge Silvia Baratella. C’è difficoltà di comunicazione anche con le donne di Non Una di Meno dove «non ce n’è una disposta a dialogare» e con il movimento Lgbtq+ che spesso nelle città, come a Catania, racconta Anna Di Salvo, dopo la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Ed. Castelvecchi), arriva a «offese e delazioni e a veri e propri attacchi», causando la rottura con organizzazioni di sinistra che preferiscono stare dalla loro parte piuttosto che difendere decenni di politica insieme alle donne della differenza. Ma l’incomunicabilità non c’è solo fuori ma anche dentro il femminismo della differenza, come dice Letizia Paolozzi. Ma è solo incomunicabilità o c’è altro? Per Paolozzi c’è il fatto che donne della differenza, prima di tutto la Libreria di Milano, hanno riempito «di tanti contenuti» la differenza sessuale, quando si diceva che questa «non ha contenuti». Laura Colombo nel respingere tale accusa rileva che non è solo questione di linguaggio ma c’è altro, un non detto ed «è come quando si rompe una relazione d’amore per cui l’altro qualsiasi cosa faccia non basta mai». Incomunicabilità anche con le donne delle istituzioni «legate ai diritti, al genere e parlano neutro».
Come abbattere il muro dell’incomunicabilità? Con quali nuove pratiche? Con quale nuovo linguaggio? C’è come Luciana Tavernini chi ci sta provando con la «formazione» per «crescere insieme ad altre che vogliono capire come trasformare il mondo» e Annarosa Buttarelli con la sua Scuola di alta formazione per le amministratrici. Dall’incomunicabilità al conflitto con il potere. Come affrontare il conflitto con il potere? Chi è il potere? E se il potere sono i poteri forti, occulti, dice Daria Ferrari, come e con chi confliggere? Chi decide di confliggere con il potere va sostenuta sempre e comunque, anche se non si è d’accordo?
Un convegno, quello delle Città Vicine, come si può vedere dagli interventi, che ha dato modo di riflettere e dialogare su questioni dirimenti per le donne, le giovani e il femminismo della differenza sessuale e che restano aperte a ulteriori riflessioni e confronti. Ha indicato un orientamento per stare e agire in questo momento storico senza farsi sopraffare dal negativo.
da il manifesto
Da Hannah Arendt a Audre Lorde. Un percorso di saggi, biografici e storici. «Il vostro silenzio non vi proteggerà», di Caterina Venturini (Solferino); «Eroine», di Kate Zambreno (Nottetempo); «Filosofe», di Francesca Romana Recchia Luciani (Ponte alle Grazie)
Esiste ormai un vero e proprio filone di scrittura saggistica e biografica dedicato alle artiste e pensatrici del passato. A volte vi si riscontra anche un gioco di rispecchiamenti e rimandi tra le istanze personali delle autrici contemporanee e quelle delle eroine protagoniste. Ne è un esempio Il vostro silenzio non vi proteggerà. Una storia di Audre Lorde di Caterina Venturini, edito da Solferino (pp. 160, euro 15.50), nato in seno al progetto di podcast di Inquiete festival di scrittrici a Roma: «Genealogie».
Venturini, seguendo una delle istanze tra le più liberatorie del femminismo, quella del partire da sé, inizia la sua analisi sulla scrittrice afroamericana, raccontando il frangente nel quale si trova quando le viene chiesto di partecipare al progetto. È stata operata alla gola per un esteso tumore alla tiroide e si trova completamente afona in ospedale. Si sa quanto il tema della voce, dell’espressione, sia fondamentale per Audre Lorde che in Sorella Outsider. Scritti politici (Meltemi, 2022) dichiara: «quello che è più importante per me deve essere detto, verbalizzato e condiviso, anche a rischio di vederlo ferito o equivocato».
E infatti Venturini sottolinea che: «leggere Lorde significa trovare incarnata la frase più bella del femminismo: il personale è politico». In questo gioco di specchi Venturini non dimentica però il dato di fatto del razzismo, che non può essere ignorato dalle donne bianche che non lo subiscono e che invece «devono considerarlo una differenza biografico-politica fondamentale e dirimente».
Anche Filosofe. Dieci donne che hanno ripensato il mondo di Francesca Romana Recchia Luciani, edito da Ponte alle Grazie (pp. 240, euro 18) ed Eroine di Kate Zambreno per Nottetempo (pp. 336, euro 19.90), con la traduzione di Federica Principi, si inseriscono a pieno titolo in questo nascente genere letterario. Si tratta di due testi molto diversi fra loro, uniti in qualche modo dal desiderio di rendere omaggio a pensatrici e figure cruciali, soprattutto del ’900, la cui importanza non è stata riconosciuta, o abbastanza sottolineata, a causa di discriminazioni maschiliste.
In particolare, l’istanza di riparazione domina nel libro di Kate Zambreno che deriva dal suo blog Francis Farmer is my sister. A un certo punto, in un momento di smarrimento personale dovuto a un trasferimento a seguito del marito, l’autrice statunitense trova conforto nella lettura e si rende conto che: «queste donne esistite nel chiuso del letto, della stanza, intrappolate in casa: ecco cosa ho bisogno di fare. Raccontare le loro storie».
In Eroine è predominante, infatti, il racconto di vicende accadute a diverse scrittrici che sono state dimenticate o fraintese. Nei brani da cui il libro è composto, e che sono quelli che Zambreno nel tempo pubblicava nel blog, ritorna spesso, per esempio, la figura di Zelda Fitzgerald, il racconto delle ingiustizie che ha subito a causa della sofferenza mentale, nonché di come il suo talento sia stato trascurato se non del tutto ignorato.
Tra le pagine di Zambreno troviamo inevitabilmente anche Virginia Woolf, la cui sofferenza viene qui comparata a quella di Gustave Flaubert, con la differenza che: «a lui non dissero mai di stare in guardia dal proprio genio. A lui non dissero mai che avrebbe finito per ammalarsi». La struttura del testo composto da brani di anche poche righe permette una lettura diluita nel tempo e rispecchia il costante lavoro di ricerca, nonché la sincera spinta politica che ha condotto Zambreno alla scrittura di questo libro che è anche frutto di un’esperienza collettiva femminista online.
Molto diverso il volume di Francesca Romana Recchia Luciani, intanto per l’impianto decisamente più classico. Il testo è infatti è diviso in capitoli tutti circa della stessa lunghezza, una ventina di pagine, dedicati a grandi filosofe del ’900: Simone Weil, Simone de Beauvoir, Hannah Arendt, ma anche Lou Salomé, María Zambrano, Audre Lorde, Carla Lonzi.
Il punto di vista che innerva ogni approfondimento è che: «teoria e biografia si co-appartengano e che la filosofia resti muta e vuota senza la vita vissuta di chi la produce e le relazioni interpersonali in cui va a incarnarsi». Per questo ogni parte analizza in una sintesi agile e allo stesso tempo accurata, non tanto le opere delle autrici, quanto il loro percorso filosofico inteso anche come percorso di vita, all’interno di uno specifico contesto storico. Si tratta di un approccio particolarmente interessante perché fa emergere come per queste pensatrici la pratica politica fosse un elemento cruciale, affatto secondario rispetto a quella della scrittura. Del resto, Hannah Arendt lo sapeva: «ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione».
da Il Fatto Quotidiano
«Il cromosoma Y impone regole precise alle quali si deve obbedire». Così si apre Cose che ai maschi nessuno dice. Baciare, fare, dire (Feltrinelli), l’ultimo libro di Alberto Pellai, psicoterapeuta e padre con introduzione di Gino Cecchettin. Ma le regole di cui parla non sono scritte nel DNA: sono incise nella cultura, trasmesse sottovoce, scolpite nei silenzi tra padri e figli. Regole che insegnano a non piangere, a non chiedere aiuto, a soffocare tutto ciò che può sembrare debole. Come se essere uomo volesse dire solo questo: trattenere, nascondere e resistere. Anche quando fa male.
Con il suo stile diretto e empatico, Pellai costruisce un libro che è un ponte tra padri e figli. Tra l’adulto e l’adolescente. Tra chi ha imparato a sopravvivere senza parole, e chi invece vorrebbe provare a vivere con più verità. Non è un manuale, né un saggio teorico. È un dialogo aperto, un invito alla vulnerabilità condivisa. E, forse soprattutto, è un modo per scardinare una società patriarcale. Perché raccontare le emozioni – e dare loro spazio, valore e dignità – in un mondo che le associa al “femminile” è già un modo per scardinare un potere maschilista.
Il cuore del libro è proprio la relazione padre-figlio: non solo come vincolo biologico, ma come occasione educativa. Pellai parte da conversazioni reali con suo figlio adolescente, le usa come input per esplorare temi scomodi e fondamentali: il dolore emotivo, la violenza, la pornografia, la sessualità, le dipendenze, il corpo e i social. Ogni capitolo è una lente puntata su un aspetto della crescita maschile che troppo spesso viene lasciato al buio, o peggio ancora distorto da modelli tossici. Il rischio, dice l’autore, è che i ragazzi, non potendo esprimere paura o tristezza, finiscano per comunicare solo rabbia e disgusto. Dietro l’aggressività, spesso per Pellai, c’è un dolore senza linguaggio.
Da questa assenza di alfabetizzazione emotiva, suggerisce l’autore, possono derivare conseguenze che vanno ben oltre la sfera personale. La difficoltà maschile nel riconoscere e comunicare ciò che si prova può contribuire a un clima relazionale fragile, segnato dal bisogno di controllo, dalla paura del confronto, dalla tendenza alla sopraffazione. Un’educazione sentimentale negata o distorta, dice Pellai, non resta senza effetti: può diventare rabbia, chiusura e violenza. E se oggi la cronaca racconta ogni giorno storie di femminicidio, forse è anche perché per troppo tempo ai maschi non è stato insegnato ad abitare le emozioni, ma solo a reagirvi con rabbia e violenza.
Ecco allora che il libro si fa strumento: per decostruire lo stereotipo del “vero uomo” – forte, dominante, inossidabile – e costruire invece uomini, capaci di ascoltarsi, di rispettarsi, di riconoscere la propria fragilità senza vergogna. Non si tratta di “femminilizzarsi”, come una parte della società vuole catalogare. Si tratta di umanizzarsi secondo l’autore. Di tornare al centro, alle emozioni primarie che ci abitano dalla nascita, indipendentemente dal genere.
Ciò che rende questo libro ancora più prezioso è il dialogo costante con i ragazzi. Pellai non parla ai giovani, parla con loro. Le loro voci sono riportate in ogni capitolo, come risposte, come controcanto, come specchio di una nuova generazione più consapevole. Raccontano come si sentono quando si innamorano, quando hanno paura, quando si confrontano col proprio corpo o con quello degli altri, quando si sentono forti o inadeguati. La scrittura di Pellai accoglie tutto questo con rispetto e senza paternalismi.
Il messaggio finale è chiaro: essere maschi è un dato biologico. Diventare uomini è una scelta. Una costruzione. Un progetto. Non più imposta da fuori, ma generata da dentro. E per farlo serve una guida. Non un comandante, ma un padre che sa raccontarsi. Che non ha paura di dire: «anch’io ho avuto paura».
Cose che ai maschi nessuno dice è un libro che sarebbe comodo archiviare tra gli scaffali dell’educazione genitoriale. Ma in realtà parla a tutti. Ai padri, certo. Ai figli. Ma anche a tutti gli uomini, che continuano a crescere in un sistema che li vuole divisi: emotivi o forti, sensibili o virili. Pellai ci ricorda che si può – e si deve – essere entrambe le cose. Anzi, che essere uomini veri significa proprio questo: non scegliere tra le emozioni, ma imparare a viverle tutte.
da Avvenire
Più idee, tempo risparmiato, lezioni e compiti su misura: il nostro viaggio tra gli apripista delle tecnologie, tra potenzialità e limiti
Una delle più grandi sperimentazioni di intelligenza artificiale in classe si è appena conclusa in Italia, tra i banchi di ventisei classi degli istituti salesiani primari e secondari del Triveneto. L’intuizione di portare a scuola l’Ia è nata un anno fa per una precisa volontà dell’Ispettoria salesiana del Nord-est che l’ha battezzata “Go Beyond traditional education”. Il progetto – condiviso con i partner tecnologici Google for Education e MR Digital – si è concretizzato durante tutto l’anno scolastico e in questi giorni, prima del suono dell’ultima campanella, tira le somme anche grazie alla collaborazione con l’Istituto universitario salesiano di Venezia (IusVe) che ha analizzato i dati e i risultati della sperimentazione.
Dopo un periodo di formazione sugli strumenti, settecento docenti di tutte le età hanno imparato a usare Gemini, il chatbot di Google, per creare esercizi, impostare lavori di gruppo e rendere più interattive le lezioni. Le applicazioni didattiche affidate al cervello elettronico manovrato dalla creatività degli insegnanti sono state oltre seicento, che hanno coinvolto novemila studenti e che vanno dalla personalizzazione dei percorsi formativi all’attualizzazione del programma fino alla preparazione delle verifiche.
«Io, per esempio – racconta una maestra in una classe seconda primaria – ho usato Gemini per il Dantedì, la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri. Per far conoscere il poeta a miei piccoli alunni (impresa non facile) ho chiesto all’intelligenza artificiale di creare una caccia al tesoro a tema. Ciascuna stazione prevedeva poi di ascoltare una filastrocca, sempre messa a punto e letta dall’Ia». Anche una collega di terza elementare ha chiesto a Gemini di progettare un gioco a tappe: i bambini dovevano completare un esercizio di grammatica – la declinazione di una coniugazione o la concordanza dei nomi – che prevedeva pure un’attività fisica correlata. Alle superiori invece spesso sono stati gli stessi studenti a interpellare l’Ia: alcuni hanno dovuto generare un riassunto sbagliato dei Promessi sposi per poi correggerlo, altri hanno scritto un prompt per ottenere una sequenza di Dna con certe caratteristiche che poi gli stessi alunni hanno dovuto verificare con le nozioni apprese in modo tradizionale.
Al di là delle singole esperienze, in generale gli insegnanti – che per l’85% non aveva mai usato l’intelligenza artificiale – hanno messo volentieri le mani in pasta e hanno apprezzato i nuovi strumenti, soprattutto per il tempo risparmiato. Per organizzare le attività didattiche – sono i dati raccolti al termine di un anno di Ia in classe – in media i docenti hanno adoperato il 40% del tempo in meno; in più la metà ha registrato un miglioramento nella partecipazione degli studenti e il 39% ha osservato pure un innalzamento della qualità dell’apprendimento. C’è poi il tema della personalizzazione della didattica per studenti con bisogni educativi speciali, sempre più numerosi e diversificati nelle classi, che l’intelligenza artificiale aiuta ad applicare con meno fatica.
«La sperimentazione con le scuole salesiane – spiega ad Avvenire Marco Berardinelli, responsabile di Google for Education Italia – è stata preziosa anche per noi. Abbiamo avuto un anno di feedback sia da parte dei docenti sia da parte degli studenti che ci indicano quali sono i vantaggi di cui hanno beneficiato e come la tecnologia possa ancora evolvere per la scuola».
I religiosi, da parte loro, sono disposti ad accogliere la sfida anche perché – ricorda don Elio Cesari, presidente del Centro nazionale delle opere salesiane – «Noi vogliamo abitare il mondo e il contesto in cui i nostri giovani vivono quotidianamente. Abbandonarli sarebbe un atto di profonda irresponsabilità». «Il desiderio – ha continuato don Lorenzo Teston, delegato per la scuola dell’Ispettoria salesiana Italia Nord-est – è coniugare la nostra tradizione educativa con le opportunità offerte dagli algoritmi. Vogliamo mettere la tecnologia a servizio dell’apprendimento, promuovendo uno sguardo critico nei confronti dell’Ia, favorendo l’inclusione di tutti gli studenti e potenziando le capacità di ascolto dei docenti».
Porte aperte, dunque, alle tecnologie anche se con alcuni paletti chiari, ribaditi pure da don Silvio Zanchetta, superiore salesiano per il Nord-est: «Dobbiamo essere noi educatori e insegnanti a imporre la nostra volontà sull’intelligenza artificiale, così da non diventare semplici consumatori passivi e inevitabilmente suoi servitori. Possiamo farlo soltanto attraverso una piena comprensione delle potenzialità e delle funzionalità, dei rischi e dei limiti di questo mondo. La sfida didattica per noi salesiani rimarrà sempre una sfida educativa e per questo non possiamo esimerci per questo duplice compito: conoscere seriamente e con professionalità la tecnologia stessa e al contempo educare la coscienza dei ragazzi e delle ragazze all’uso intelligente e responsabile delle tecnologie».
Con chatbot e senza manuali: lezioni e compiti solo su misura
Sulla cattedra dell’aula di storia e geografia c’è un planisfero e un tablet: strumenti antichi e nuovi che i docenti maneggiano con la stessa naturalezza. Siamo a Cologno Monzese, nell’hinterland milanese, lungo i corridoi dell’Istituto comprensivo Viale Lombardia che all’inizio dell’anno scolastico è stato scelto dal Ministero dell’Istruzione – insieme ad altri quattordici istituti di Toscana, Calabria e Lazio – come sede per la sperimentazione nazionale dell’intelligenza artificiale in classe. «La nostra scuola media di Via Toti applica una didattica innovativa – comincia la dirigente Eleonora Galli, da dodici anni al timone di comando – e forse la scelta del Ministero è caduta su di noi proprio per questo».
Chi si aspetta di entrare in una struttura avveniristica, però, sbaglia di grosso. La scuola secondaria di primo grado, che ospita 13 classi e 275 alunni, appare al visitatore che ne varca la soglia simile a tante altre scuole italiane sulla quale una precisa volontà sembra avere stratificato a poco a poco interventi di ammodernamento tecnologico: dalle aule personalizzate con un QRCode che raccoglie i lavori digitali degli alunni, alla biblioteca che offre un prestito ebook fino all’intelligenza artificiale, che di questo percorso è solo l’ultima traccia. Da cinque anni nell’istituto di Via Toti non esistono più i libri di testo, cartacei né digitali. Al posto dei manuali gli alunni sono dotati di un tablet che gli insegnanti adoperano per organizzare le lezioni e i compiti in classe. In questo senso l’intelligenza artificiale, in corso di sperimentazione su due seconde medie, si è rivelata utile ai docenti. «Dovendo preparare da zero i materiali, l’Ia – spiega Valeria Barbieri, insegnante di matematica e scienze – velocizza il lavoro e permette di personalizzare l’insegnamento. A patto che si sappia adoperarla».
Per la sua vocazione alla didattica innovativa, ancora prima di essere inserita nella sperimentazione ministeriale, la scuola ha attivato per i professori una formazione sugli strumenti di intelligenza artificiale. Tutto il corpo docente, compresi i più scettici e i meno pratici, hanno preso dimestichezza con Google Classroom e Canva Ai con cui gli insegnanti oggi creano regolarmente contenuti, immagini, video, sintesi, mappe concettuali e percorsi visivi. Perciò, quando è partita la sperimentazione del Ministero, che inizialmente prevedeva solo l’uso della suite base di Google, i docenti sono rimasti un po’ delusi dagli strumenti che aggiungevano poco a quanto già collaudato. Le cose sono migliorate quando, in corso d’opera, agli insegnanti è stato concesso anche l’uso di NotebookLM.
Questo assistente di intelligenza artificiale di Google non attinge la sua conoscenza da contenuti generalisti (come fa invece Gemini o ChatGPT), bensì da una lista di fonti precedentemente scelta e caricata dal docente. «Inserendo un libro di livello C1 – esemplifica il professore di inglese Paolo Vecchione – sono riuscito a creare un podcast di un livello linguistico più basso, simile a quello dei miei studenti, con cui allenare la capacità di ascolto. Ho anche generato esercizi diversificati in base alle competenze dei singoli alunni. È un grande aiuto, quasi come avere quattro braccia». «In storia – racconta la docente Sara Dainese – ho creato video integrando domande per verificare il grado di attenzione dei ragazzi e mi sono accorta che con questo metodo i ragazzi trattengono molto di più rispetto allo studio tradizionale». «Le possibilità che apre questa tecnologia – conferma il collega Paolo Dassi, che insegna italiano e storia – sono tantissime. Pensiamo solo ai ragazzi con bisogni educativi speciali, che in alcune classi rappresentano la metà degli alunni. Oppure agli studenti stranieri: con l’Ia si riesce a personalizzare meglio e più velocemente l’apprendimento nei loro confronti».
Singole esperienze che anticipano la valutazione complessiva della sperimentazione dell’intelligenza artificiale che si avrà attraverso i risultati di verifiche parallele nelle classi sottoposte al test e in altre di controllo e delle prove Invalsi, alla fine del prossimo anno scolastico. Perché la sperimentazione funzioni davvero però – è intanto il comune sentire tra il corpo docenti – servirebbe che la scuola fosse dotata della licenza di Gemini, l’intelligenza artificiale più completa di Google, che invece per ora non è prevista nelle classi incluse nel programma ministeriale. «Ci permetterebbe – riassume il professore Dassi – di fare un salto di qualità. Diventerebbe un vero assistente per ciascun ragazzo, anche nei compiti a casa. Potrebbe fornire correzioni in tempo reale e assistenza per la pronuncia o rispiegare qualche concetto: tutte cose che oggi uno studente fragile senza il supporto della famiglia non può ottenere, a meno di pagare un insegnante privato».
Per fare questo salto senza precipitare bisogna che ogni docente padroneggi lo strumento, in modo da fare richieste sensate agli studenti. È possibile? «La sfida – risponde la dirigente Galli – è far capire ai docenti che questi strumenti vanno approcciati e sperimentati e che oggi non si può fare gli insegnanti senza. Altrimenti i ragazzi userebbero l’Ia da soli e lo farebbero male. Il metodo di un utilizzo proficuo dei chatbot deve venire da noi, così che i ragazzi li adoperino in ottica di lavoro e non per copiare».
da Pangea
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, «per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo scopo». Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901. Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare indemoniato, «barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante». Aveva da poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi, soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà “degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: «Vieni qui al lume della candela. Non ho paura/ di contemplare i morti», scrive il poeta, abissale, come sempre – riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq, l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque, tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani: è tratto dal «verso 38 della Quinta elegia di Rilke», mi dice l’autrice. Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale, con lento candore, sembra un po’ “cannibalizzare” la pittrice. Che idea si è fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio libro.
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la “libertà” per Paula; che cos’è la “libertà” per Marie, una scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i “lari”, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma mai “confessionale”, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra, oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula. Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la maternità è ambiguo, affascinante.
Esiste a suo avviso una diversità “genetica” tra opere d’arte femminili e maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio “di genere”?
Nulla di “genetico”, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia, sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli. Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento e dell’emarginazione, e una certa centralità domestica. Lo sguardo di Paula sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: «Ci siamo guardati, con un brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una porta dietro la quale c’è Dio». I quadri di Paula emanano una sacralità frugale, che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto con il “sacro”, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte. L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di sacralizzarlo.
La “carne” è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker: un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico, palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del “toccare” come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le strade di Parigi, città che adorava, si sentiva “nuda” sotto lo sguardo insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale, come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca, gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere, accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale. Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e “morali”, si fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere all’IA?
Spesso pongo delle domande a ChatGPT (beh, non troppo spesso, visto che ogni volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico, non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare un gesto “politico”?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista” possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della Vergine Maria!
da CarmillaOnline
L’autrice del libro recensito, Valentina Pisanty, ha partecipato come relatrice all’incontro “Verso il Giorno della memoria. Ricordare al tempo di Gaza”, organizzato da Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace il 19 gennaio 2025 presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a Milano.
(La redazione del sito)
Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13.30.
Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.
Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan. Cresce la solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi, fino a quel momento sostanzialmente ignorati, fino a che, nel 1975, su iniziativa dell’Unione Sovietica, l’Assemblea dell’Onu vota la Risoluzione 3379 nella quale si afferma che «il Sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale» (risoluzione che sarà abrogata nel 1991). L’ostilità nei confronti del sionismo cresce nel 1982 con l’invasione israeliana del Libano durante la quale vengono perpetrati i massacri di inermi civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila. Fioccano allora i paragoni tra Israele e il Terzo Reich invertendo la retorica della Shoah che, nel frattempo, si stava affermando come legittimazione dello Stato sionista per opera dei conservatori israeliani, andati per la prima volta al governo nel 1977 con il partito Likud.
Anche a seguito degli eventi storici brevemente tratteggiati, il governo israeliano inizia a interessarsi alla lotta contro l’antisemitismo nel mondo. Solo nel 1988 viene istituito l’Inter-Ministerial Forum for Monitoring Anti-Semitism, cui viene affiancato lo Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Antisemitism and Racism dell’Università di Tel Aviv. Il fatto è che la nuova centralità assunta dall’antisemitismo si afferma insieme al discorso sul nuovo antisemitismo, inizialmente riferito alla citata risoluzione dell’Onu. Il sionismo delle origini aveva rifiutato l’idea di un “eterno antisemitismo” quale fondamento dell’ostilità dei paesi arabi perché questo avrebbe portato a immaginare un futuro di guerra perpetua. In contrasto con questa visione «guadagnò terreno la narrazione mitica […] del destino di Israele come un ciclo ininterrotto di catastrofi e redenzioni», rafforzata dalla retorica delle leadership arabe, non sempre esenti dall’attingere all’archivio antiebraico importato dall’Europa.
Il passaggio dal nuovo antisemitismo all’antisionismo come forma per eccellenza dell’odio antiebraico necessita di un passaggio intermedio: l’idea, sostenuta dalla politica estera del Likud, di Israele come “ebreo collettivo”. Idea in base alla quale chi critica lo stato sionista vuole in realtà colpire tutti gli ebrei. In primo luogo bisogna notare il fatto paradossale che identificare Israele con tutte le persone di fede giudaica, attribuendo a tutti gli ebrei le responsabilità degli atti compiuti dal governo di Tel Aviv, è proprio uno di quegli atteggiamenti che è stato giustamente identificato come caratteristica di un antisemitismo mascherato da antisionismo. Insomma, l’idea di Israele come “ebreo collettivo” assomiglia molto a una forma di antisemitismo rovesciata di segno. Ma c’è di più. Parlare di “ebreo collettivo” significa personificare intere comunità nazionali o religiose (non solo Israele ovviamente) e immaginare questi “personaggi-sineddoche” come soggetti che si combattono nell’agone storico assumendo, attraverso grossolane semplificazioni, «tratti caratteriali semi-permanenti, biografie storiche, tradizioni ancestrali e motivazioni psicologiche profonde». In breve la figura dell’ebreo e quella dei suoi nemici vengono essenzializzate.
Ma è proprio questo tipo di operazione concettuale che costituisce uno dei nuclei fondanti dell’antisemitismo.
Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei, riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo. Ma la naturalizzazione delle categorie socialmente costruite è tipica di ogni discorso razzista.
Chi invece aspira a liberarsi dalla narrazione antisemita, sostiene Pisanty, considera l’avversione contro gli ebrei come un fenomeno storicamente variabile interrogandosi sulle dinamiche che hanno di volta in volta reso possibile la sua insorgenza. Quando analizziamo queste dinamiche possiamo rilevare che l’antisionismo attinge allo stesso repertorio storico del pregiudizio antiebraico? Perché è proprio questo che bisognerebbe dimostrare, caso per caso, quando si cerca di identificare antisionismo e antisemitismo. Una dimostrazione tanto più necessaria alla luce del fatto che la storia ci dimostra come filosionismo e antisemitismo non siano mutuamente esclusivi. Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Lord Arthur Balfour, il ministro degli esteri della Corona britannica che, con la sua famosa Dichiarazione del 1917, dà il via libera all’emigrazione ebraica della Palestina con l’obiettivo dichiarato di scongiurare il rischio di un’infiltrazione giudaico-bolscevica nel suo paese. Sta di fatto che la dimostrazione della suddetta identità, afferma l’autrice, non viene mai fornita. La coincidenza tra i due tipi di fenomeni viene semplicemente presupposta.
E allora chiediamoci chi è questo mitico ebreo bersaglio dell’odio antisemita.
Gli attributi antitetici di cui è portatore si ricompongono in un unico personaggio da feuilleton la cui caratteristica più saliente è per l’appunto la doppiezza. Come si fa a essere simultaneamente capitalisti e comunisti, apolidi e nazionalisti, prepotenti e servili, e chi più ne ha più ne metta? Basta immaginare che tutte le contraddizioni siano artifici di copertura. L’“Ebreo” non è mai colui che dice di essere. Dietro la maschera della povera vittima si nasconde il più perfido dei manipolatori.
Se la doppiezza è la caratteristica essenziale presa di mira dal classico odio antiebraico «il nemico immaginario degli antisemiti non ha gli stessi tratti del nemico degli antisionisti, che di Israele detestano l’arroganza, la belligeranza, la ruvidezza, la chutzpah».
Ma tutto ciò viene bellamente ignorato da chi, per comminare scomuniche o addirittura sanzioni legali, brandisce la Working definition dell’antisemitismo adottata nel 2016 dalla International Memorial Holocaust Alliance (Ihra). Questo atto ufficializza, di fatto, l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Abbiamo utilizzato l’espressione “di fatto” perché, come racconta dettagliatamente Pisanty, la Ihra in realtà accoglie soltanto la definizione generale della Working definition mentre, dopo un’aspra discussione tra i rappresentanti dei suoi trentacinque Stati suoi membri, esclude esplicitamente gli esempi che ne costituiscono la parte più cospicua, consapevole della loro problematicità soprattutto per la parte che riguarda l’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2018, tuttavia, vari sostenitori della versione integrale cominciarono ad affermare che l’accordo raggiunto due anni prima riguardava l’intera definizione e chi affermava il contrario era un “antisionista antisemita”. Questa è la versione oramai comunemente accettata della storia tanto che l’Eumc, l’organismo indipendente che aveva originariamente ideato la definizione operativa come mero strumento per individuare possibili fenomeni di antisemitismo, finisce per rinnegare la sua stessa Working definition.
Insomma in questa vicenda i paradossi si accumulano. Tra questi uno dei più preoccupanti è quello che porta a sottovalutare le reali nuove insorgenze di odio antiebraico perché l’antisionismo non viene soltanto considerato come un equivalente dell’antisemitismo, ma soprattutto come l’unica forma realmente rilevante di antisemitismo. L’esempio più lampante di questa dinamica è il caso, evidenziato dall’autrice, dell’ungherese George Soros, individuato come nemico per eccellenza nella campagna elettorale del 2008 dal presidente magiaro Viktor Orbán. Si tratta di una trovata escogitata dai consulenti delle campagne elettorali di Netanyahu che, assoldati da Orbán sotto consiglio dello stesso premier israeliano, non si sono fatti scrupolo di mobilitare un intero arsenale di argomentazioni antisemite nei confronti del finanziere ebreo Soros. Argomentazioni riprese poi a piene mani da moltissimi leader politici di altri Paesi. Tra questi gli italiani Salvini e Meloni che hanno aggiunto a carico di Soros un altro classico della propaganda antiebraica: accusato di finanziare i flussi migratori verso l’Europa, il finanziere ungherese viene considerato l’architetto occulto di una nuova sostituzione etnica, secondo i dettami del famigerato piano Kalergi. Questa galleria degli orrori non può che finire con Netanyahu che accusa Soros di essere l’eminenza grigia dietro ai suoi guai giudiziari e con il figlio del premier che pubblica un meme, raffigurante il finanziere ungherese, dal tono inequivocabilmente antisemita.
La cosa più grave di tutta questa vicenda è che, nonostante il gran parlare del pericolo antisemita, «attraverso il mito di Soros, frammenti dell’archivio antiebraico siano stati riscattati dalla latenza e abbiano ricominciato a circolare non solo nei circuiti dell’estrema destra, ma anche nei settori della cultura mainstream». Ma c’è anche di peggio, sottolinea con dolore Pisanty: se si consolida l’idea che opporsi al massacro dei palestinesi significa essere antisemiti, l’antisemitismo stesso può, nel più tragico dei paradossi, acquisire un’accezione positiva per il senso comune.
Se questi sono i risultati, sembra proprio che la difesa dagli ebrei da nuove insorgenze di antisemitismo non sia la principale preoccupazione di chi ha imposto come dogma di fede, in molti casi giuridicamente vincolante, il nuovo antisemitismo. In effetti in gioco sembra esserci qualcosa di diverso. Pisanty accenna a questo ordine di problemi quando sostiene che la già citata International Memorial Holocaust Alliance «è l’organizzazione internazionale cui si deve il progetto di riempire il vuoto ideologico creato dal crollo del comunismo con la narrativa “cosmopolita” dell’Olocausto che ha plasmato l’immaginario politico occidentale dell’ultimo quarto di secolo». In questo immaginario, sottolinea l’autrice, hanno trovato comodamente posto i diversi partiti di estrema destra che negli anni duemila hanno acquisito sempre più consenso. Il vecchio antisemitismo, incistato nel loro DNA, è stato prontamente condonato in cambio del ripudio del nuovo antisemitismo, cioè dell’appoggio incondizionato alle politiche di Israele. Lo Stato sionista gli ha così conferito una patente di democratica rispettabilità, noncurante del razzismo di cui sono ancora i campioni. È sufficiente che questo non si eserciti, almeno esplicitamente, nei confronti delle persone di fede e cultura ebraica.
Nel nuovo immaginario, invece, non trovano spazio l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antiamericanismo che vengono demonizzati in quanto correnti politiche ispiratrici di un antisionismo equiparato tout court all’antisemitismo. Insomma, ce n’è abbastanza per respingere senza indugio il nuovo dogma, come fa Pisanty nella conclusione del suo libro dove introduce, purtroppo solo di sfuggita, il tema del clima bellico in cui tutta questa vicenda sembra inscriversi.
Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario.
da Domani
Il decreto sicurezza è legge, «una legge fascista». La definisce così Tamar Pitch, professoressa di Filosofia del diritto all’università di Perugia, studiosa della questione criminale e del rapporto tra genere e diritto, e autrice de Il malinteso della vittima. «Da molti anni la politica agisce con pacchetti, leggi, decreti. Ora però si è oltrepassato il limite, perché questo è un provvedimento molto pericoloso», dice Pitch, «un salto di qualità».
Cosa si intende per sicurezza?
Oggi, per sicurezza si intende la messa al riparo dei e delle cittadine dal rischio di incorrere in reati da criminalità di strada. La retorica presenta la sicurezza come un diritto individuale: ciò che prima veniva chiamato ordine pubblico, così rinominato, si presta a rendere incontestabili le politiche che dovrebbero tutelarlo, giacché è difficile contestare un diritto. Poi si è andati oltre e si è iniziato a dire che ciò che conta non è tanto la sicurezza in sé, ma la sua percezione. Lo ha fatto Marco Minniti (ex ministro dell’Interno, ndr), ammettendo in un certo senso che, dunque, l’Italia è un paese “sicuro”, come del resto ben mostrano le statistiche sui reati. Come si produce la “percezione” di sicurezza? Sterilizzando il territorio pubblico, mandando via i cosiddetti indesiderabili, quelli che danno fastidio, o fanno paura. A chi? Se guardiamo bene le politiche di sicurezza, vediamo che esse sono indirizzate perlopiù a rassicurare un particolare tipo di soggetto: uomo, bianco, non ricco ma nemmeno troppo povero, certo non giovanissimo, visto che molte di queste politiche penalizzano i più giovani. Le figure della paura sono sempre le stesse: i “diversi”, i mendicanti, i migranti troppo visibili, i e le sex worker, quelli che lavano le macchine ai semafori o frugano nei cassonetti.
Perché fenomeni sociali complessi vengono governati unicamente con lo strumento del Codice penale?
È un modo per acquisire consenso, si chiama populismo penale. Non è solo il governo italiano a servirsene, è una tendenza generalizzata in occidente dalla fine degli anni Ottanta a ora: le politiche neoliberali smantellano il welfare in nome della libertà individuale e all’insicurezza sociale che ne deriva rispondono con più reati, maggiori pene, detenzione amministrativa, Daspo, eccetera. C’è chi ha parlato di un passaggio dal sociale al penale: questo è quello che è successo negli ultimi quarant’anni. Ma con questo decreto-legge si è andati oltre, come dicono molti magistrati/e, studiosi/e, avvocati/e. Questa è una legge fascista.
Il dl colpisce alcune soggettività per chi sono, non per quello che fanno.
Vengono criminalizzati dissenso e povertà, e chi non è come “noi”. Sono i capri espiatori. Di fronte a un ceto medio impoverito e infragilito, sembrano le risposte da dare.
La deriva securitaria trasforma tutte e tutti in vittime potenziali. Perché parla del malinteso della vittima?
Nel mio libro parlo dell’emergere della vittima come soggetto politico e come status ambito. Solo proclamandosi vittime di qualcuno o qualcosa si riesce oggi a essere riconosciuti come interlocutori politici. Si fa un uso e un abuso di questo statuto, di cui si servono poi anche le politiche di sicurezza. Chi sono le vittime? Tutti i bravi cittadini, potenziali vittime dei cattivi. Così si divide la popolazione e le persone “per bene” sono sempre a rischio di vittimizzazione da parte dei “per male”.
Nota lo stesso approccio nel contrasto alla violenza di genere?
Le politiche di sicurezza in generale, e quest’ultima legge non è certo diversa, sono politiche dirette perlopiù, come dicevo, alla sterilizzazione del territorio pubblico, con divieti, Daspo, recinzioni, di fatto esclusione dei poveri e marginali dalle parti “pregiate” della città. Le donne subiscono una vittimizzazione doppia: per un verso, fin da piccole sono scoraggiate a circolare liberamente dove vogliono, per altro verso, come sappiamo, vengano minacciate, molestate, uccise dentro le sicure mura di casa, a scuola, al lavoro da partner ed ex, datori di lavoro, insegnanti e così via, piuttosto che da sconosciuti scuri di pelle in qualche angolo buio della città. Dicevamo un tempo, e lo diciamo anche oggi, che le città sicure le fanno le donne che le attraversano e le vivono. Non è con il nuovo reato di femminicidio, non è con l’ergastolo senza se e senza ma (o, come diceva Berlusconi, con un poliziotto accanto ad ogni bella, sic, donna), che si contrasta la violenza di genere ma con politiche che diano alle donne (ma direi a tutti/e) maggiori risorse economiche, sociali, culturali. In una ricerca del 2001, svolta con Carmine Ventimiglia, proprio questo emergeva: le donne che vivevano la città più liberamente erano quelle cui queste risorse mancavano meno. In conclusione, più sicurezza sociale, meno paura, più libertà. Per tutti e tutte.
Nel suo documentario del 2009 sulla TV italiana, la giornalista Lorella Zanardo commenta: «Ho pensato che la TV non mi riguardasse […], ma queste immagini balzano fuori dalla TV». Per quanto la televisione possa sembrare finita, ridotta a uno smartphone domestico a grande schermo, le immagini televisive degli anni 2000 continuano a perseguitarci. Anzi, caricature di sé stesse, ipertrofie, si sono incorporate in noi donne. In più di quindici anni, il «numero infinito di donne umiliate» è andato aumentando con la moltiplicazione delle piattaforme online, forzandoci a adeguarci attraverso invasive procedure chirurgiche ed “estetiche”. Eppure, le domande poste da Lorella Zanardo sono ancora rilevanti.
Come può una donna sviluppare un senso di sé in una cultura satura di immagini di “donne-oggetto”? Cosa ne è dell’essere donna quando prevale l’apparire? Com’è che si sono banalizzati gli interventi per trasformarsi in quelle immagini? E cosa significano? Stiamo forse vivendo il periodo di più forte trasformazione fisica delle donne: dov’è il senso di urgenza? Urgenza nello studiarlo, analizzarlo e forse, chissà, combatterlo? Ne discute Yağmur Uygarkızı, filosofa femminista, specializzata nell’interpretazione della violenza maschile contro le donne. Dalle sue ricerche filosofiche e investigative sulla prostituzione-pornografia, sul multiculturalismo e di bioetica, Yağmur presenterà una lettura femminista della “chirurgia estetica”.
(borazansesli.com, 5 giugno 2025)
da il manifesto
Il femminicidio di Martina Carbonaro ha riaperto una discussione sul patriarcato e su come i più giovani vivono i rapporti tra i sessi. Qualche sera fa a una domanda di Lilli Gruber a “Otto e mezzo” Massimo Cacciari ha risposto tornando sull’argomento affermando, più o meno letteralmente, questi concetti: L’uccisione di quella ragazza non è un fatto di «cronaca nera», ma il «sintomo» di una «trasformazione culturale in senso antropologico, che dura almeno da un secolo» e che investe il mutamento dei rapporti tra i sessi.
I soggetti più deboli – coloro che con la parola e il ragionamento non riescono ad accettare questi cambiamenti – si oppongono con riflessi violenti (e questo è il caso, ormai tipico, del maschio che non accetta di essere lasciato).
Reagire a queste realtà con l’aggravamento delle pene è una «cosa ridicola».
Bisogna poi vedere che il mondo adulto, «noi grandi», sta promuovendo la diffusione quotidiana di un linguaggio di violenza, il «crollo di ogni forma di diritto internazionale», con il «diritto del più forte» che vince dappertutto: «seminiamo tempeste…».
E se le sue interlocutrici – Lilli Gruber, Annalisa Cuzzocrea della Stampa, e l’avvocata Cathy La Torre, con Beppe Severgnini del Corriere della sera – insistevano sulla necessità di un impegno della scuola per l’«educazione sentimentale» e «sessuale» degli adolescenti, il filosofo-politico interrompeva ricordando da un lato che «l’unica grande rivoluzione che stiamo vivendo negli ultimi cinquanta anni è stato il pensiero femminista…», che l’epoca patriarcale è finita e «non risorgerà mai più», dall’altro che l’educazione deve allora servire a «interiorizzare, assimilare queste trasformazioni» quindi sapere «attrezzare i giovani a affrontare questi salti d’epoca».
E a questo dovrebbe rivolgersi «la buona politica». Prevalgono invece i leader alla Trump, prototipo del maschilismo, predicatore della forza e del possesso…
Chi volesse ascoltare tutto lo scambio può facilmente trovare in rete la puntata di “Otto e mezzo”, su La7, del 28 maggio scorso. Io mi fermo qui, al punto della “buona politica”. Espressione ripetuta da Cacciari ma rimasta – forse inevitabilmente nella logica discorsiva di un talk-show (per quanto vivacemente “invasa” e forzata dal filosofo ormai spesso presente in tv) – un po’ appesa all’ignoto.
Chi potrebbe praticare, o chi già pratica, questa “buona politica”? Quali ne dovrebbero essere i presupposti? I fondamenti etici e teorici? Gli ideali, i programmi, le pratiche democratiche? Tutto il discorso del “talk” tendeva a criticare, con buone ragioni, la politica dell’attuale governo, e i populismi e autoritarismi destrorsi (per non dir di peggio).
Ma la sinistra, le sinistre, non hanno nulla da rimproverarsi? Sono abbastanza d’accordo – per quel che vale – con alcune delle tesi cacciariane. Se è vero che il tramonto del patriarcato – come «ordine simbolico» durato millenni – dura da un secolo, com’è che non ne ho quasi mai sentito parlare nel vecchio Pci (nemmeno dal dottissimo filosofo ed ex sindaco di Venezia)?
C’erano stati alcuni tentativi di “contaminare” il vecchio partito comunista con il pensiero femminista (l’esperienza della “Carta delle donne comuniste”, a metà anni ’80, poi chiusasi con la “svolta” che pose fine a quel partito).
Ci sarebbe da ripensare tutto un pezzo di storia, e affrontare la discussione odierna su sessi e generi, sulla violenza e la guerra, molti temi divisivi anche nella galassia femminista. Ma qualche parola e pensiero non solo televisivo e socialmediatico dovrebbe finalmente venire dal mondo maschile. Specialmente quello che si considera “progressista” e di sinistra.
da La Sicilia
Hanno celebrato la festa della Repubblica ricordando le “Madri Costituenti”, le 21 donne – elette in un’assemblea di 556 parlamentari – chiamate a scrivere i principi e gli articoli della nostra Carta nata dalla Resistenza, dalla lotta partigiana al nazifascismo che avrebbe voluto dominare il mondo ripristinando la schiavitù e la tirannia. Perché la loro memoria sia trasferita ai giovani e riportata al centro del dibattito italiano La Città Felice, Toponomastica femminile, l’Associazione etnea studi storico-filosofici, la RagnaTela e Sunia hanno tenuto un flash-mob nella piazzetta antistante il porticciolo di San Giovanni Li Cuti. Uno spazio che, dal punto di vista formale, è una via e che queste associazioni chiedono diventi piazzetta e sia dedicata “alle 21 Madri della Costituzione”. La targa – ha spiegato Anna Di Salvo – è già pronta e si attende la risposta del Comune, così come anche alla richiesta di ripristinare le targhe, entrambe scomparse, che intitolano la pista ciclabile del lungomare alle “Staffette partigiane” e un’area del Giardino Bellini alle “Madri Costituenti”.
L’associazione Toponomastica femminile, inoltre, ha chiesto, senza ottenere risposta, che un’ala del palazzo comunale sia intitolata a Maria Grazia Cutuli.
Le donne votarono per la prima volta, tra le ultime in Europa, alle elezioni amministrative del 1946 e poi il 2 giugno quando bisognava scegliere tra monarchia e repubblica ed eleggere i partecipanti all’Assemblea costituente. Le donne andarono a votare in massa, furono 12 milioni contro gli 11 milioni di maschi. Tra le elette 21 donne, 9 comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste, 1 dell’Uomo Qualunque. Ed è degno di nota che ben due di loro furono elette nel collegio di Catania: Maria Nicotra (Dc) e Ottavia Buscemi Penna (Uomo Qualunque). Inoltre 5 di loro fecero parte della commissione dei 75 chiamata a scrivere gli articoli della Costituzione. Il loro ruolo fu di grande importanza, come ha ricordato lo storico Salvatore Distefano. Hanno dato il loro contributo a definire la nostra Repubblica come fondata sul lavoro – una norma rivoluzionaria – e centrata sui valori della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’unità nazionale, della libertà di parola e di stampa. Si sono battute per i diritti sociali, per l’istruzione, per la cultura, e soprattutto per la pace. Sono state loro a trovare il termine giusto scrivendo che «L’Italia ripudia la guerra» e lo hanno fatto insieme, superando le differenze ideologiche e di partito. «Quando si votò per il ripudio alla guerra ci tenemmo la mano!», scrisse una di loro, Teresa Mattei. A riprova, come ha sottolineato Mirella Clausi, «dell’importanza e della forza della relazione tra le donne». Eppure, hanno denunciato, il nostro Paese ha tradito il loro lascito e partecipa alla guerra. «L’Italia non condanna Israele per il genocidio del popolo palestinese e continua a dipendere dagli Usa, e non spinge l’Unione europea a evitare politiche di guerra».
In tante si sono alternate a ricordare la figura di alcune delle Madri Costituenti, a partire da Teresa Mattei, partigiana combattente, arrestata e torturata, poi politica e grande pedagogista. Lei, che faceva parte dell’ufficio di presidenza della Costituente, fu una delle donne che lottarono per aprire alle donne le porte della magistratura. Furono battute, così come Maria Maddalena Rossi, giornalista antifascista, che in parlamento lottò perché anche le donne stuprate dalla Quinta armata francese fossero riconosciute tra le vittime di guerra e risarcite. Ma la maggior parte dei parlamentari erano maschi. E poi Nilde Iotti, parte della commissione dei 75 e, nel 1979, prima presidente donna della Camera dei deputati. E ancora Lina Merlin, socialista antifascista, arrestata e mandata al confino, una delle redattrici dell’art. 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza e la pari dignità sociale di tutti i cittadini, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». A lei – che contribuì anche all’articolo che fa obbligo alla Repubblica di difendere la salute dei cittadini – è legata la legge del 1958 sulla prostituzione. Raccontava che allora, quando vennero proibite le case chiuse, molte prostitute la ringraziavano per averle tolte dalla schiavitù.
Un modo di festeggiare la festa della Repubblica del tutto diverso dall’esibizione muscolare di mezzi e uomini delle forze armate.
da Diotimafilosofe.it
Chiara Zamboni mi ha chiesto di recensire il Quaderno di via Dogana Esserci davvero, invitandomi a prendere uno spazio ampio per la recensione: un grande respiro. Anche Luisa Muraro non ha mai scritto una recensione in senso classico (una semplice recensione o recensione qualsiasi), perché il libro l’ha sempre mostrato come qualcosa da e che fa pensare.
Provo, quindi, a presentare questa intervista di Clara Jourdan a Luisa Muraro sostando sui tagli – ne ho scelti più di uno – che mi hanno fatto meditare, «autorizzandomi a una lettura in grande», che interpreto libera e di attento ascolto.1
Prima di procedere, due brevi annotazioni. La prima sul titolo, l’altra sull’intervista come forma di interazione.
Esserci davvero è un titolo bello, potente, autentico. Lo sento vero e lo sperimento, a partire da me, nella mia esperienza politica attraverso pratiche teatrali: sperimentazione, intima e aperta insieme, di trasformazione e ricerca. In questo contesto, vivo davvero una presenza in ogni tentativo di concentrazione, di attenzione, di cura, di scoperta, di presa di parola, coscienza e responsabilità. Nell’esserci davvero c’è la percezione, il sentire che ci siamo e la capacità di stare in relazione con gli accadimenti. Questa presenza ci porta a non stare nel già dato e nel già noto; esserci davvero è, come dice Muraro, non avere uno schema da riempire,2è coinvolgersi e rimanere convolte in modo non strumentale e non finalizzato alla pura messa in scena. Svelamento di una presenza autentica che staziona in un luogo di verità di osservazione.3Con attenzione interessata. Esserci in prima persona in qualcosa che accade.4
In questa ontologia, c’è un aspetto altrettanto importante da sottolineare. Se esserci davvero è non avere uno schema, è stare nel reale e in quello che ci capita, ciò significa che noi non siamo sempre dentro l’essere e abbiamo la capacità di sentire un vuoto. È la rivelazione della propria passività, come dice María Zambrano.
L’altra annotazione sull’intervista, condotta con stile dialogico. C’è un forte coinvolgimento fra Clara Jourdan e Luisa Muraro. Le domande sono precise e non sono standardizzate; si tratta di una precisione di ascolto in movimento che puntualizza temi, ricordi, intuizioni, precisazioni in un approfondimento di pensieri ed esperienze con delle messe a fuoco.5Una intervista che è anche un pensare in presenza.
I tagli
Facendo un taglio – scrive Luisa – si forma pensiero, cioè tu puoi cominciare a pensare, pensare proprio nel senso di articolare: questa cosa qui e non quest’altra. Il taglio è questo: questo sì c’entra, di questo si tratta, questo no, invece. Sono operazioni di ordinamento di un campo.6C’è una molteplicità di realtà e occorre trovare un taglio o più tagli da mostrare.
Per renderli visibili è necessario innanzitutto sapere cosa ci sta particolarmente a cuore e perché. Questo presuppone avere consapevolezza del sapere di sé e dei propri desideri inventivi, che ci suggeriscono – etimologicamente – di “entrare in un luogo e vedere che cosa troviamo”. Si tratta poi di sostare su quei frammenti di realtà scelti, contestualizzarli dal punto di vista esperienziale e filosofico e rispondere alle domande essenziali.
Molti sono gli aspetti di questa conversazione che mi stanno a cuore, per questo sono diversi i frammenti individuati.
Frequentazioni di parole in luoghi non comuni
Muraro, in un’intervista a il manifesto, ha dichiarato che il meglio del suo lavoro filosofico viene da un niente che si popola di parole comuni. Scrive a questo proposito: A me piace portare parole comuni in luoghi che queste non hanno mai frequentato. È un modo di scrivere potente, a mio avviso, è una sintassi “tagliata” dalla retorica, attenta al contesto e a chi legge: è tenere il sapere alto nella disponibilità comune.7
Quando ho iniziato a studiare filosofia, all’università, i primi due corsi che ho seguito sono stati uno di filosofia del linguaggio tenuto da Chiara Zamboni su Chiari del bosco e i Beati di María Zambrano e l’altro, di ermeneutica, di Luisa Muraro sulla teologia favolosa. Lì ho sperimentato per la prima volta che si possono argomentare cose molto difficili senza fare perdere loro complessità.
Il corso di Muraro sulle fiabe e la teologia favolosa si è concluso con un pranzo con soppressa vicentina e vino rosso. Nell’intervista Jourdan fa presente che Muraro riprende l’allegoria, dove, secondo la visione della filosofa, anche il letterale conta, proprio come aveva fatto durante il corso sulla teologia favolosa. E c’è anche altro. L’allegoria come capacità di vedere nelle cose che si vedono anche dei significati che sono nascosti dalle cose stesse, mostrati e nascosti.8
Le parole sono importanti
Luisa Muraro ha una attenzione particolare per le parole. Scegliere le parole giuste, le parole adatte, capaci di dare vita a un linguaggio preciso, non superficiale, è una pratica politica.
Una modalità che mi piace per scegliere le parole è quella di partire dalla loro etimologia, che è «l’individuazione e la ricostruzione degli etimi, che sono il significato reale, vero di una parola, la ricerca del vero, della reale origine di un termine o di una espressione». Si tratta di una operazione che invece di definire compiutamente una parola, la apre alla possibilità di meditare sulla parola stessa, schiudendola a nuove potenzialità. Questo vale sia per le parole che non conosciamo, sia per le parole che sono diventate usurate a forza di essere usate male: termini che hanno perso la loro forza espressiva. Risalire all’etimologia delle parole non è un esercizio virtuosistico, ma euristico, di scoperta. Significa ritrovarne l’origine, la genesi, la storia; significa, in altre parole, farle rinascere: ricostruirne la genealogia.
In Muraro c’è un continuo lavoro sulle parole, sulla lingua, sulla linguistica. Sono le circostanze, le situazioni concrete che la spingono a interessarsi di qualcosa in particolare. La politica delle donne, ad esempio, essendo una pratica di parole e di presa di parola è stata il movente per lo studio della linguistica.
Occorre che qualcosa muova la connessione tra lei e la realtà per spingerla alla ricerca. È stato così con il pensiero della differenza sessuale, con la psicanalisi, con la linguistica, con la scrittura e la sintassi della scrittura, che è un aspetto della lingua molto trascurato, non nella realtà, perché per scrivere la sintassi è fondamentale, ma nell’attenzione delle persone: la sintassi è un ordine delle parole che si forma nell’incontro e nello scambio tra chi scrive e la lingua.9
Il pensiero nasce proprio in questa connessione tra lei e la realtà: per pensare, bisogna che si muova quello, il tuo dentro e il tuo fuori bisogna che si parlino.10
Per questo la teoria non è mai fine a se stessa: Luisa Muraro prende in considerazione quello che accade, quello che ci capita, i problemi del vivere e lo fa facendo parlare continuamente la realtà ordinaria con la ricerca linguistica.11
Ed è in questo accordo tra chi scrive e la lingua che per Muraro nasce la scrittura.
La scrittura
Le pagine di questa intervista dedicate alla scrittura sono molto interessanti.
Perché scrive – e scrive tanto – Luisa Muraro? Perché pensa: io non penso indipendentemente dalla scrittura.12Solo scrivendo si articola il pensiero. La scrittura per lei non è uno strumento, ma una specie di stampo su cui procedere. Le intuizioni che le nascono trovano poi una vera e propria articolazione solo attraverso la scrittura.
La scrittura per lei è un bisogno quasi fisiologico e una dipendenza simbolica. Quando la scrittura è bene riuscita (accade soprattutto con il femminismo), c’è un godimento, un profondo benessere, uno stato di felicità e di beatitudine.
Il suo esserci è ineludibile dalla scrittura che è strategia esistenziale e pratica: pratica per ordinare il simbolico dentro e pratica per ordinare quello che lei chiama il livello elementare. Di quest’ultimo e del livello sofisticato, a cui dedico un paragrafo dopo, la scrittura costituisce un ponte. Così, come è liminare tra il simbolico e il fisiologico.
Studio, parola e scrittura costituiscono un trittico. Questo trittico, di cui la scrittura è al contempo parte e matrice, crea la sua scena interna, dove perché qualcosa avvenga bisogna che ci sia una relazione in carne ed ossa che assicuri la realtà. È un punto importante questo. Significa più cose. Innanzitutto, che per Muraro non c’è né astrazione, né sintesi. Sono le donne e gli uomini, in carne ed ossa, che aprono passaggi alla realtà del reale, affinché qualcosa avvenga nelle nostre scene interne. È anche il partire da sé che per lei vuol dire rinunciare al punto di vista oggettivo esterno per coinvolgersi nella realtà in questione, e farlo distaccandosi da sé, per mettersi nel movimento della trasformazione di sé e della lingua, una cosa mediante l’altra.13Coinvolgimento nella realtà, quindi, non immersione: stare in sintonia con il movimento dell’essere, in uno spostamento che ci trasforma e ci fa guadagnare il senso di realtà. «A noi le cose, fondamentalmente, non sono ma accadono e non è sbagliato dire che può capitarci di tutto».14
Metafora e metonimia e i due livelli: elementare e sofisticato
Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia,15dove viene mostrata la teoria del linguaggio non come teoria fine a sé stessa, ma secondo il taglio dell’attenzione al mondo vissuto, è lo sviluppo di una intuizione. Muraro si è fatta e si fa guidare spesso dalle intuizioni, che sono sì, per definizione, forme privilegiate di conoscenza, ma soprattutto – per lei – intelligenti percezioni di un frammento di realtà, sostenute da accadimenti, da fatti.
L’intuizione in questo caso nasce dalla recensione di un libro di un suo amico Corrado Levi e nel dire qualcosa sul testo nasce una intuizione che Luisa aggettiva come consistente. Si tratta di questo: la cultura che spiritualizza è una cultura delle metafore, mentre la cultura materialista, non nel senso ideologico della parola, ma la cultura che tiene conto del nostro essere corpo, non metaforizza, fa accostamenti, fa combinazioni. Era, scrive, un’idea non nuovissima, ma in me è rifiorita con molta forza.
Dalla recensione nasce l’intuizione che viene poi elaborata in idea in un articolo sulla rivista “Aut aut” dal titolo “Maglia o uncinetto? Metafora e metonimia nella produzione simbolica”.
Questa è la gestazione di Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, testo complesso in cui convivono, citando Ida Dominijanni, molte questioni «dalla complicità tra ordine simbolico e ordine sociale alla centralità della dimensione linguistica nelle formazioni capitalistiche postfordiste e nella politica mediatizzata delle democrazie di fine secolo». Ma Maglia o uncinetto è soprattutto un libro che si fa strada riscattando l’esperienza vissuta e «l’essere-avere un corpo». Lo fa riconoscendo importanza alla direttrice metonimica.
Le due direttrici, come spiega Muraro, non sono sorelle gemelle. La metafora «ci fa superare il livello descrittivo e la particolarità dell’esperienza», mentre «nella metonimia il rapporto tra senso figurato e quello letterale coincide con un nesso materiale, di tipo spaziale, temporale, causale o altro».16
La metonimia è combinazione di cose, sta nella prossimità tra parole e cose, lavora da contesto a contesto, crea un sapere della pratica per contatto o contagio, superando la falsa distinzione tra l’ordine simbolico e quello materiale. In questo intreccio fra i due ordini, i corpi e i vissuti esperienziali si iscrivono nel simbolico senza sostituzione metaforica.
Muraro non critica la metafora di per sé, ma mette in guardia dall’usare male la direttrice metaforica. Le metafore che nascono da pensate originali, se non rimangono giochi complicati prettamente linguistici, hanno la capacità di inventare collegamenti, facendo variare la realtà in modo indefinito. Questo è un aspetto che Luisa valorizza. Ciò che disapprova è il primato dell’asse metaforico su quello metonimico: supremazia che per lei si è trasformata nella subordinazione della metonimia sulla metafora, in regime di ipermetaforicità. In altre parole, un eccesso di metafora. La sostituzione metaforica rende superflua e scontata l’esperienza, perdendo contatto con il mondo. «Col risultato – come scrive Dominijanni – di una sempre maggiore rarefazione dell’esperienza o di una sua codificazione entro significati precostituiti che assumono valore di norma e di normalizzazione sociale. Astrazione, generalizzazione, razionalizzazione, duplicazione del mondo in parole e immagini».
Nel mio percorso femminista, l’esperienza è un primum di verità. Come insegna Chiara Zamboni, essa non si fonda solo sui fatti e sullo stare in rapporto a essi. Si fa esperienza di un grado diverso di realtà quando ci si pone in ascolto e si esprime anche la parte più enigmatica che i vissuti portano con sé, sottraendosi ai linguaggi dominanti che interpretano in modo dominante la realtà nostra e altrui. L’esperienza, infatti, non è mai solo soggettiva. Parlare dei nostri vissuti con verità significa stare sull’irrinunciabile del nostro esserci e saperlo al contempo metterlo in condivisione con altre e altri in una trasformazione anche dei contesti sperimentati da noi e da altri. Partire dal nostro vivere qui e ora, dalla posizione che abitiamo, è una pratica di trasformazione politica per tutte. Le donne filosofe studiate e amate, come Zambrano per me, non parlano per assoluti perché sanno che «l’esperienza è frutto del tempo e non ne prescinde: lo innalza piuttosto senza distruggerlo, lasciandolo essere nel suo accadimento, nel suo essere e non essere». L’esperienza «non esige e non invita a sfuggire l’istante ma neppure l’abbandona con mera irrazionalità».17
E ora un breve accenno ai due livelli. Muraro riprende Winnicott sull’ipotesi dei due livelli, spiegandoli a partire da sé e facendo leva sulla pratica di rigiocare tutto. Per vivere […] – scrive – quello che consapevolmente o inconsapevolmente facciamo è di rigiocare tutto. Rigiocare tutto significa rigiocare qualcosa che domanda di essere. E questo avviene sempre su due livelli, quello elementare e quello sofisticato. Bisogna tenere conto che ci sono due livelli, avverte infatti Muraro.
Il livello sofisticato è dove le cose sono, il piano elementare è invece bisogno di esistenza simbolica. Occorre tenere assieme quello che è e il senso di quello che è. Il livello sofisticato è di una sofisticatezza insulsa se non si considera che lì si tenta di rigiocare qualcosa che domanda di essere. L’elementare è il qui e ora, il rudimentale, ciò che richiama l’infanzia, ciò che invita la risposta delle persone a un livello più profondo. È la scrittura in Muraro che, praticamente, fa da ponte tra i due livelli.
Cosa significa portare la questione elementare nel livello sofisticato? Significa esserci intensamente. Che effetto ha? Per chi cerca di mette l’elementare nel sofisticato una sensazione viva di forte mediazione; per chi ascolta/legge sentire che non è una lettura convenzionale e che c’è qualcosa che rimanda a un livello profondo dove circola verità, dove non è tutto fasullo o adulterato. Muraro tiene il sapere sofisticato nella disponibilità comune, legando divulgazione e sapere sofisticato.
Come scrive Chiara Zamboni, «le più grandi creazioni culturali come le più modeste sono frutto di un giocare con gli elementi più essenziali e comuni della nostra esistenza».18
Infanzia, fratelli e sorelle
Tra i tagli che mi piacerebbe affrontare ci sono anche l’oggetto di studio che cattura, la questione dei passaggi/variazioni degli interessi di ricerca e il tema della narrazione. Alla fine, però, mi soffermo sull’infanzia. Come intuisce Jourdan, l’infanzia e la consapevolezza della sua importanza è molto forte nel pensiero di Muraro. Lì c’è la relazione materna, il suo rapporto con la storia, con la mistica, con la teologia favolosa e, soprattutto, c’è il legame con i fratelli e le sorelle. Roberta De Monticelli dice che il livello più profondo di quello che noi viviamo e sentiamo – che lei chiama il sentire originale di ciascuno – si risveglia nella relazione con altre persone. Per me questo è avvenuto in prima battuta nell’infanzia con i miei fratelli e sorelle, poi il risveglio profondo è stato di nuovo con altre donne, nella pratica politica del movimento delle donne.19 E ancora, con forza: Per me, l’importanza dell’infanzia è perché è stata il regno dei rapporti con i fratelli e con le sorelle. Sì, tutto, tutto si può trovare con i fratelli e le sorelle, tutto.20
Anche io sento forte il legame con le mie sorelle. La sorellanza è una relazione intensa di per sé e al contempo intensifica le altre relazioni.
Tenendo insieme i due livelli di cui parla Luisa, avevo studiato il legame tra María Zambrano e la sorella Araceli. “Che gioia avere una sorella; con lei scoprii ciò che è più importante nella mia vita, la sorellanza, la sorellanza, più della libertà, la sorellanza”, afferma Zambrano.21Questa relazione orienta anche il modo in cui Zambrano concepisce la sizigia,22in quanto è a partire da questo legame di sangue, e non solo, con Araceli, che si delineano gli aspetti che connotano altre relazioni.
Per questo si può parlare del legame con le sorelle in termini di una pratica politica e spirituale che, partendo da un percorso di radicalità femminile, ha dato vita alla condivisione di esperienze di vita e di pensiero con altri/e, formando comunità trasversali di amici e amiche e su cui potere contare in modo intelligente, gioioso, accudente, passionale e anche conflittuale.
E questo prende vita nell’infanzia, essa stessa, parafrasando Zambrano, punto di partenza di un sentire originario in cui andranno a cadere tutti gli altri sentire.
Chiusura
Da Luisa Muraro e da Chiara Zamboni ho compreso l’importanza e la bellezza di “fare pensiero”, il lavoro del pensiero, proprio della filosofia,23ho imparato a cogliere – perlomeno cercare di farlo – il momento esatto in cui qualcosa di importante si muove, ho appreso a provare timore, tremore e piacere nel pensare.
Per significare l’esattezza, Chiara invita a sottrarsi al meccanismo per cui a una domanda c’è solo una risposta giusta, questo sottrarsi ci apre a processi creativi che implicano diversi rapporti tra sé e le altre; per Luisa c’è l’esattezza di seguire il processo e del sapere narrare, come atto simbolico, il senso dell’accadimento storico.
Se dovessi indicare una parola per chiudere questa recensione designerei “schivata” che Luisa adopera per indicare una liberazione, «la liberazione della mente nel senso del suo aprirsi all’attività simbolica che fa cadere il finto parallelismo tra mondo reale e mondo ideale delle parole. Tra le parole e cose cessa l’inerte rapporto di esteriorità reciproca e torna a stabilirsi quel rapporto ambiguo per cui si deve dire che le parole sono e non sono le cose, di cui facciamo esperienza sensibile leggendo la poesia e prima ancora, nell’infanzia, giocando».24 Quello che è «il grande gioco fra il linguaggio e l’essere».25
Note
1 Le parti in corsivo sono le frasi di Luisa Muraro dell’intervista. “L’ascolto è la pratica simbolica di chi ha il senso dell’autorità della parola”, in Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, cfr. https://puntodivista.libreriadelledonne.it/lo-splendore-di-avere-un-linguaggio/
2 Invece queste donne, che erano donne del partito che cercavano il contatto con noi, a me sembrava sempre che avessero uno schema da riempire, Quaderni di via Dogana, Luisa Muraro, Esserci davvero, a cura di Clara Jourdan, Libreria delle donne di Milano 2025, cit. p. 80.
3 Ivi, p. 19.
4 Ivi, p. 18.
5 Ivi, p. 76.
6 Ivi, p. 59. 7 Ivi, p. 91.
8 Ivi, p. 92.
9 Ivi, p. 52.
10 Ivi,p. 30.
11 Secondo il punto di vista che dà attenzione al mondo comune: non è mai sviluppata la teoria fine a sé stessa, continua a essere nutrita dalla considerazione di quello che capita ai bambini, alle donne, alle varie categorie che si dibattono con i problemi del vivere. Ivi, p. 30.
12 Ivi, cit., 52.
13 Parole di Luisa Muraro riprese per invitare alla redazione aperta di VD3 “La scommessa di partire da sé”: https://www.libreriadelledonne.it/incontri_circolodellarosa/invito-alla-redazione-aperta-di-vd3-la-scommessa- del-partire-da-se/.
14 Luisa Muraro, “La Schivata” in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, Liguori Editore, Napoli 2009, cit., p. 12.
15 Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sull’inimicizia tra metafora e metonimia, nuova edizione, Manifestolibri, Roma 2017.
16 Ivi, pp. 53-54.
17 María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, edizione italiana a cura di Rosella Prezzo, Raffaelo Cortina Editore, Milano 1996, cit., p. 67.
18 Chiara Zamboni, “Immaginazione giocosa e l’altra faccia del mondo, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, Liguori Editore, Napoli 2009, cit., pp. 13-14.
19 Ivi, p. 11.
20 Ivi, p. 10.
21 Mandata in onda nel programma “Muy personal” della Televisión Española. Trascrizione di María Milagros Rivera Garretas, Duoda. Revista de Estudios Feministas, n.° 25, 2003, traduzione di Clara Jourdan in Diotima, Archivio “Per amore del mondo”.
22 Piccole comunità nate per amicizia, affinità metafisiche (la metafisica sperimentante di Zambrano) e i sogni condivisi. Cfr. Sara Bigardi, Sizigia, Spazio relazionale e simbolico, in Aurora n. 18, 2017, pp. 18-24.
23 “La filosofia nasce dal senso della necessaria mediazione, è un impegno per la dicibilità dell’essere, guadagnata con lavoro simbolico”.
24 Luisa Muraro, “La schivata”, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, cit., p. 25 Ibidem.
(Per amore del mondo n. 20 2024/2025)
da Il Fatto Quotidiano
Vi porto tutti al mare, disse Vittoria Ferdinandi a un nutrito ma stupito gruppo di concittadini il giorno dell’elezione a sindaca di Perugia, a maggio dell’anno scorso.
Mi ricordai delle parole di Theodor Adorno, il filosofo tedesco che diceva: tutto ciò che c’è non è tutto. Lui contestava l’opinione sulla intrasformabilità delle cose. Io volevo dire: con l’ambizione, la fiducia in noi stessi e la connessione sentimentale trasformeremo questa città oltre la nostra stessa immaginazione. E andremo dove mai avremmo creduto di arrivare.
Perugia col mare è la metafora dell’impossibile. Ma la sua missione quotidiana sarebbe quella di dare gioia e felicità ai suoi concittadini.
La politica cos’è se non la capacità di costringere i buoni sentimenti dentro una dimensione comune e condivisa? Restituire il senso di comunità, il valore del bene comune.
Un sindaco deve dare strade, scuole, gestire il traffico, far pulire la città.
Non amministro un condominio e il municipio non è una Srl.
L’opposizione dice che lei più che amministrare è maestra dell’aria fritta. Molte parole, pochi fatti.
Certo, è più facile amministrare come facevano loro. Avevano proposto mezzo miliardo di euro di progetti figli del Pnrr nel chiuso degli uffici. Io ho smontato pezzo a pezzo, e fatto capire alla gente, ho chiesto alla gente di condividere, di aiutarci a spendere bene, utili, vicini ai bisogni. Si perde tempo? Sì, si perde tempo. Magari è più faticoso, di sicuro è più lenta l’amministrazione che condiziona il fare alla condivisione però è l’unica strada possibile secondo me.
Lei vuole più felicità per i perugini.
La metà degli elettori non vota più. Quando mi chiedono di rappresentare tutti i cittadini, “devi essere il sindaco di tutti” mi dicono, allora sorrido: tutti chi? Metà di quei tutti dove sono? Chi sono?
La politica allontana.
La politica disillude. La gente è interessata alla politica solo se noi siamo interessati alla gente. Perché adesso sembra che niente è vero. Ricorda Nietzsche? Se niente è vero tutto è permesso.
Il nichilismo, l’apologia del caos.
Quindi devo fare in modo che i corpi si tengano per mano. I corpi, l’uno e l’altro. I social sono divenuti una calamità generazionale perché ciascuno può scrivere cose orribili nel buio della propria solitudine, senza scrutare il volto di chi è destinatario delle sue contumelie.
Lei è sindaca, ma forse ha voglia di fare la psicologa, il suo vero e amato mestiere.
Ripeto: non sono qua per fare l’amministratrice di condominio. La contabilità delle opere pubbliche realizzate senza chiedere conto, un’idea, un giudizio. Sto costruendo apposta le case della partecipazione. Gli incontri sono affollati, scruto una consapevolezza nuova.
Lei è coraggiosissima, ha persino detto: voglio collettivizzare la felicità.
E allora? Deve divenire sentimento comune, legame identitario. Come si cambia la città se non così?
Aria fritta, diranno quelli.
Aria fritta un corno!
Voi donne siete in gran carriera. La presidente del Consiglio, la leader dell’opposizione…
Meloni sa parlare, conosce l’empatia, ma costruisce la sua parte attivando come collante la paura: ora dell’immigrato, e a turno un po’ di tutti. Persino della guardia di finanza.
Lei invece attiva il sorriso?
L’ottimismo, la voglia di vivere in modo degno e sufficientemente felici.
Chi ha votato alle ultime politiche?
Partiti di minoranza che veleggiano dentro il mare basso di pochi punti percentuali. Però sono andata a votare per Elly Schlein quando si è trattato di decidere la leadership.
Siete donne in carriera e anche esteticamente distanti dalle forme di chi ha avuto nei decenni passati un ruolo nel centrosinistra.
Il suo, mi permetta, assomiglia a un desolante giudizio sessista. L’estetica come motore della carriera? Ai maschi si chiede della camicia, delle scarpe, del colore dei capelli? Il valore di questa nuova dimensione femminile è etico, non estetico.
Lei dopo Perugia vorrebbe misurarsi in un ruolo nazionale?
In molti me lo chiedono per via delle mie idee sulla funzione della politica. Ne sono attratta ma anche a volte impaurita. In politica nulla sembra vero.
Quasi quarant’anni. E quasi single.
Single, ma col cuore in tumulto.
da Pressenza
Noi donne di diverse realtà del paese, dal nord al sud, impegnate da anni per la pace, per il disarmo e il rifiuto della logica della guerra, abbiamo deciso di unirci in una Rete nazionale di donne per la pace: uno spazio impegnato che colleghi territori, saperi e pratiche di insubordinazione alla guerra.
Condividiamo l’analisi che individua nel patriarcato con i suoi paradigmi della forza e del dominio l’origine prima della guerra, voluta da un capitalismo sempre più “cannibale”.
Non possiamo tollerare oltre la strage di innocenti che avviene sotto i nostri occhi. Troppa sofferenza, troppo dolore, troppa ingiustizia!
Le regole nate nel Novecento per arginare la violenza sono saltate una dopo l’altra. La ferocia ha preso il sopravvento e diventa sempre più grande il rischio di una guerra mondiale, cioè della fine della vita sul nostro pianeta.
Sappiamo che la pace va costruita in un percorso difficile ma necessario.
Lavoreremo per coinvolgere altre realtà femminili, per informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e per una trasformazione culturale capace di rovesciare i paradigmi della forza con l’etica della cura e della giustizia, di bandire la violenza dalla società.
La nostra prima manifestazione tutte insieme “100 1000 10000 piazze per la pace” sarà il pomeriggio di giovedì 26 giugno.