Da Altraeconomia – Si fatica a respirare tra la folla di manifestanti, dall’alto si vede una distesa immensa di bandiere con la stella di David. Ad altezza uomo, invece, centinaia di migliaia di cartelli. I cecchini dell’esercito di Tel Aviv presidiano i tetti delle case di Gerusalemme Ovest, mentre un fiume di manifestanti sfila verso la Knesset, il Parlamento israeliano.

«Edan Alexander, 20 anni, riportatelo a casa», si legge in uno degli striscioni. Il fratello lo tiene gelosamente tra le mani, lo sguardo dritto di fronte a sé e la voce rauca di chi ha trasformato il dolore in rabbia: «Bibi, è il momento di dimetterti!». A fine marzo e poi ancora il movimento contro Benjamin Netanyahu è tornato in piazza con quella forza e quella determinazione che il 7 ottobre aveva improvvisamente congelato.

«Protestiamo da diverse settimane. Vogliamo che Netanyahu si dimetta e vada in prigione, stiamo cercando di fare più pressione possibile per chiedere il rilascio delle persone ancora trattenute a Gaza. Il mio governo sta uccidendo la mia gente e anche altre persone innocenti. Noi vogliamo la pace che in questa terra si traduce nella possibilità di vivere qui e fare in modo che i palestinesi abbiano il loro posto. Non vogliamo che questa guerra continui, e non vogliamo essere governati da persone fasciste e corrotte. Il governo non sta facendo niente per risolvere la situazione, la sta solo peggiorando perché Netanyahu ha paura di andare in prigione e sa che, quando finirà la guerra, lui verrà arrestato. Sta proteggendo i suoi interessi e non quelli delle persone», spiega una manifestante.

«Molti qui non vogliono la guerra a Gaza – continua – non vogliono che persone innocenti vengano ammazzate. Pensiamo che Hamas non meriti di esistere ma distinguiamo Hamas dai palestinesi. Speriamo che la guerra finisca ma non vogliamo più che Hamas governi Gaza. Ciò che è accaduto il 7 ottobre è stato un massacro e le persone di Hamas non sono parte della resistenza, sono criminali, noi ne siamo le vittime adesso, ma tutto il mondo potrebbe esserlo un giorno».

È il primo pomeriggio di quelli che saranno sette giorni ininterrotti di proteste in Israele per chiedere l’immediato rilascio degli ostaggi ancora trattenuti a Gaza e la caduta del governo Netanyahu. Una protesta che rispecchia tanto le tensioni interne, quanto i paradossi della società israeliana. Sebbene moltissimi cittadini del Paese siano furiosi contro Netanyahu e ne chiedano le dimissioni, la maggior parte dei manifestanti fa riferimento ai massacri del 7 ottobre come se il tempo si fosse fermato a quel giorno. La centralità e la violenza dell’esercito nella società israeliana non sembrano messe in discussione neanche di fronte al genocidio in corso a Gaza.

D’altronde, tra le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza in questi mesi, ci sono israeliani di diversi orientamenti politici che si sono uniti in solidarietà alle famiglie degli ostaggi e all’indignazione per il loro abbandono dentro la Striscia. La maggior parte dei manifestanti, comunque, gravita intorno all’area di centrosinistra, sionisti liberali che già l’anno scorso protestavano contro il governo Netanyahu e la riforma della giustizia.

Allora al centro del movimento di protesta c’era il tentativo di difendere la Corte suprema israeliana dalla riforma portata avanti dal ministro della Giustizia Yariv Levin per conto del governo. Ma quello che sembra mancare nelle rivendicazioni democratiche dei manifestanti israeliani liberali di ieri e di oggi sono i diritti dei cittadini palestinesi, che non hanno mai avuto fiducia nel sistema giudiziario israeliano né tanto meno nella sua democraticità. D’altronde si tratta dello stesso tribunale che non ha impedito l’espropriazione indebita delle terre palestinesi, non ha protetto i cittadini arabi dalle demolizioni delle case, non ha difeso lo status della lingua araba, e ha permesso che altre leggi ingiuste e razziste venissero approvate.

Intanto in coda al corteo, distanti diversi metri dal resto dei manifestanti, alcuni cartelli recitano «nessuna democrazia sotto occupazione», «free Palestine», «stop the genocide», «democrazia per tutti».

Ada, una manifestante all’interno del piccolo gruppo di persone contro l’occupazione militare israeliana in Palestina, urla: «La democrazia non è possibile senza uguaglianza, la democrazia non può coesistere con l’occupazione e il controllo militare in Cisgiordania».

«Il governo in carica non è un’eccezione ma parte di un’ideologia e di un progetto fondato su supremazia etnica e razzismo – spiega l’attivista – Noi sappiamo di non avere solo un problema con il nostro governo ma con tutto il sistema di occupazione e colonizzazione della Palestina. Non vogliamo questa guerra, che non ha nessuno scopo, ma neanche l’occupazione militare israeliana in Cisgiordania. Non condividiamo le idee della maggior parte dei manifestanti qui oggi, ma questo è un grande gruppo che si oppone al governo, e dobbiamo sfruttarlo – continua – Personalmente non nutro nessuna aspettativa rispetto al dibattito in parlamento perché anche l’opposizione oggi è di destra, la sinistra sionista non è davvero sinistra, e la maggior parte dei cittadini israeliani è a favore della guerra. Ma noi siamo qui, anche se solo un piccolo gruppo, per alzare la nostra voce e ricordare che non esiste democrazia sotto occupazione».

All’interno delle proteste contro la coalizione di estrema destra è presente, infatti, una parte della popolazione israeliana che chiede anche la fine dell’occupazione, del regime di apartheid e del massacro in corso a Gaza. Si tratta del “blocco contro l’occupazione” che raccoglie diverse sigle tra cui Hadash (partito comunista con sede in Israele formato per il 90% da arabo-palestinesi) e il suo movimento giovanile, Breaking the Silence, Ong fondata da ex militari israeliani per far luce sulle politiche di occupazione, Standing together e altre. Insieme a loro anche i giovani israeliani che rifiutano il servizio militare, tre dal 7 ottobre a oggi, e diversi palestinesi con cittadinanza israeliana.

Lo spezzone in coda procede con rigorosa distanza dal resto dei manifestanti, quasi fosse un corpo estraneo. A seguire solo le forze dell’ordine. I metri che separano fisicamente il corpo centrale della manifestazione dal blocco contro l’occupazione sono una rappresentazione in scala ridotta della distanza che, dopo il 7 ottobre, divide le posizioni di chi sostiene la lotta contro l’occupazione dall’ampio movimento che è tornato a sfidare il governo Netanyahu.

Ma se da un lato la continuazione degli orrori della guerra in atto ha radicalizzato e reso sempre più distanti tutte le posizioni in campo, facendo carta straccia di ogni forma precedente di convergenza e collaborazione arabo-israeliana, dall’altra rende quest’ultima ancor più necessaria, mostrando in tutta evidenza l’impossibilità di far scomparire la questione palestinese sotto il tappeto della storia. Rimane così solo il fragile filo della speranza che il movimento guidato da liberali e familiari degli ostaggi possa portare a una riflessione più ampia e aprire nella società israeliana una discussione sui rapporti di dominio e supremazia a cui le comunità arabo palestinesi sono sottoposte da decenni. Questo nell’interesse di tutti coloro che vivono “tra il fiume e il mare”.

Da Radio Popolare – Elena Mordiglia, giornalista di Radio Popolare, è venuta a trovarci alla Libreria delle donne un piovoso venerdì pomeriggio. Abbiamo parlato con lei di libri, di come si lavora in libreria e naturalmente di femminismo. Dalla nostra conversazione è nata una puntata della sua trasmissione “Sui generis”, andata in onda nella serata di venerdì 17 maggio 2024.

Qui di seguito il link al podcast

(Radio popolare, 21 maggio 2024)

Da Avvenire – «Vado io al commissariato». Con questa frase secca, pronunciata in preda all’angoscia, Nora Morales de Cortiñas ha cominciato la sua seconda vita. Era il 16 aprile 1977. Nora aveva da poco compiuto quarantasette anni e meno di 24 ore prima il suo figlio maggiore, Gustavo, era desaparecido. Due militari in borghese gli si erano avvicinati mentre si accingeva a prendere il treno alla stazione di Castelar per raggiungere il lavoro a Buenos Aires, a mezz’ora di distanza. Gli avevano puntato una pistola alla schiena e l’avevano caricato sull’auto. Da quel momento, Gustavo ha smesso di vivere senza poter morire. Questo significa essere un desaparecido. Accadeva spesso nell’Argentina dell’ultima dittatura, tra il 1976 e il 1983. Oltre trentamila donne e uomini – per lo più giovani – sono stati risucchiati dalla macchina repressiva del regime. Sequestrati e rinchiusi in oltre cinquecento campi clandestini, torturati, drogati, caricati sugli aerei e gettati ancora in vita nelle acque dorate del Rio de la Plata. I loro corpi, la stragrande maggioranza delle volte, non sono mai stati ritrovati. Nora tutto questo l’avrebbe scoperto molto dopo.

All’epoca, come le ripeteva il figlio, «vivevo rinchiusa tra quattro mura». Poi, quel giorno, ha deciso di uscire. «E non sono mai più tornata indietro» racconta la cofondatrice delle Madres de Plaza de Mayo nonché pilastro di Madres – Línea fundadora – uno dei due rami in cui si è diviso il movimento nel 1986 – nel giardino della sua casa di Castelar dove riceve gli ospiti vestita con cura impeccabile e un filo di matita azzurra intorno agli occhi, i capelli color argento liberi dal fazzoletto. La voce è flebile e cammina grazie all’aiuto di un bastone. A novantaquattro anni, però, Nora continua ad andare avanti, inarrestabile. Agli scioperi generali contro i tagli alla spesa pubblica del governo di Javier Milei, è stata in prima fila. E, ogni giovedì alle 15.30, la si incontra puntuale alla “Piramide” di Plaza de Mayo per la “ronda”: la marcia di mezz’ora intorno al monumento di fronte alla Casa Rosada che le Madres compiono da 2.448 settimane.

Nora, avrebbe mai pensato di diventare un’attivista?

Assolutamente no. Per quarantasette anni sono stata una semplice casalinga. La moglie innamorata di Carlos e la madre di due figli maschi studiosi e grandi lavoratori. Due giovani coraggiosi il cui sogno di migliorare le condizioni dei più poveri li ha portati a militare nel gruppo peronista dei Montoneros. Per questo la dittatura li ha perseguitati. E Gustavo è “desaparecido” quando aveva ventiquattro anni.

Chi è Nora ora?

La donna che Gustavo l’ha portata ad essere.

Mi spieghi…

Quando mio figlio è scomparso non sapevo che cosa fare. Sono uscita di casa e ho cominciato a bussare a tutte le porte. Sono andata dalle organizzazioni per i diritti umani, nei commissariati, nelle caserme, nelle prigioni, ovunque. A tutti ripetevo le stesse domande: «Dove si trova Gustavo? Sta bene? È vivo?»

Che cosa le rispondevano?

Tutti dicevano di non sapere niente. I responsabili degli organismi per i diritti perché effettivamente non avevano informazioni. Agenti, giudici, militari perché la menzogna era parte della strategia repressiva. Negano tuttora. Così ignoro cosa sia accaduto a Gustavo. L’unico modo era imbattersi un ex detenuto sopravvissuto che potesse dare qualche notizia. A differenza di altre madri, non l’ho mai trovato.

Come sono nate le Madres?

Abbiamo iniziato a trovarci con le altre madri nei corridoi delle istituzioni in cui ci recavamo a chiedere notizie. Pian piano ci siamo conosciute. Tutte eravamo là per la stessa ragione: un figlio o una figlia erano scomparsi nel nulla. In modo spontaneo, abbiamo capito che insieme avevamo maggior forza. E abbiamo cominciato a organizzarci. Ad avere l’idea di marciare in Plaza de Mayo è stata Azucena Villaflor, una gran donna e una leader naturale. La prima volta, il 30 aprile 1977, si sono ritrovate in tredici di fronte alla Piramide. Oltretutto era un sabato e c’era poco movimento di funzionari. Sono, così, tornate il venerdì successivo ed erano il doppio. Io sono arrivata al terzo appuntamento, il 13 maggio. Era ancora un venerdì ma, nel giro di qualche settimana, l’abbiamo spostato al giovedì su consiglio di una madre un po’ superstiziosa. Diceva che il venerdì era il giorno delle streghe e i giorni con la “r” portavano sfortuna…

E, invece, il simbolo del fazzoletto bianco come è nato?

È stata una delle madri, Eva Márquez de Castillo Barrios, ad avere l’idea. Avevamo deciso di partecipare al tradizionale pellegrinaggio alla Basilica di Luján, previsto il 1° ottobre 1977. Ciascuna di noi arrivava da un punto distinto, come riconoscerci in mezzo alla folla che quell’anno si prevedeva di oltre 100mila persone? Eva allora ha proposto di metterci in testa un pannolino di tela dei nostri figli…

Non avevate paura di protestare contro la dittatura?

Certo che ne avevamo, ma l’amore per un figlio è più forte della paura. E noi avevamo 30mila figli. Passo dopo passo, nella piazza, abbiamo imparato ad essere madri di tutti i desaparecidos.

Quale è stato il momento più duro della vostra lotta?

Ce ne sono stati tanti. Di sicuro quando hanno fatto scomparire tre delle madri fondatrici: Azucena Villaflor, Esther Ballestrino de Careaga e María Eugenia Ponce de Bianco nel dicembre del 1977. Poi quando abbiamo saputo che i nostri figli venivano gettati nel fiume ancora vivi. E che i militari si appropriavano dei bambini delle detenute desaparecidas.

Madres de Plaza de Mayo è, come dice il nome, un movimento di mamme. E i padri?

C’erano e hanno lottato, solo in modo diverso. Siamo state noi a chiedere ai nostri mariti di non venire in piazza. Con loro si sarebbero accaniti in modo ben più crudele. Comunque ci accompagnavano, si mettevano in disparte e ci osservavano in disparte, senza perderci mai d’occhio. Quando ci portavano al commissariato, poi venivano a riprenderci.

Crede che il fatto di essere donne vi proteggesse in qualche modo dalla ferocia della repressione?

La desaparición di Azucena, Esther e María Eugenia ha dimostrato che non eravamo invulnerabili. Potevano colpirci in qualunque momento. Perché non ci hanno fatto sparire tutte? Non ci consideravano una reale minaccia. E sbagliavano.

Voi avete combattuto una dittatura senza armi. Qualcuno direbbe che è una stata una scelta ingenua…

La nostra esperienza dimostra che la lotta nonviolenta è possibile ed efficace. Abbiamo scelto di non essere come coloro che torturavano e assassinavano i nostri figli. Di rispettare la sacralità di ogni vita. Per questo, tuttora, ci rifiutiamo di odiare. Non è per rancore o vendetta che abbiamo chiesto il processo e la condanna per i responsabili della repressione. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo, per quanto ormai la macchina giudiziaria si sia messa in moto, affinché una simile tragedia non si ripeta. Per carità, non amo i militari che hanno collaborato con il regime. Solo non voglio essere parte di questa storia di violenza.

Che cosa augura all’Argentina?

Che si realizzino i sogni per cui lottavano i nostri figli. Pane e dignità per tutti. Mi ha insegnato a sognarlo Gustavo, con la sua assenza. E a combattere affinché si avveri. In molti modi. Dalla fine della dittatura, accanto all’impegno per la verità, la memoria e la giustizia, ho accompagnato le resistenze di tanti in Argentina e nel mondo impegnati nella costruzione di una società più umana. Ho imparato che qualunque progresso è il frutto di battaglie incruente di tanti e tante: per questo ogni mattina mi sveglio con la voglia di combattere. E ho imparato anche che insieme si può vincere. Specie quando la lotta la fanno le donne. Siamo delle inguaribili rivoluzionarie.

Da Internazionale – Sono tornata a lavorare nelle scuole femminili. Ho ricominciato ad ascoltare le voci delle ragazze e a interrogarmi sui silenzi delle donne. Negli anni ottanta ho ascoltato e parlato con centinaia di ragazze tra i sette e i 18 anni in varie scuole negli Stati Uniti. Ricordo il giro di boa dell’adolescenza quando, crescendo, le ragazze chiamavano stupida, maleducata, egoista, cattiva o pazza ogni voce onesta. Spiacevole e insopportabile erano gli aggettivi usati da Anna Frank.

Ricordo le adolescenti che descrivevano quello che era successo alla loro voce. Neeti, 16 anni: «La voce che combatte per ciò in cui credo è rimasta sepolta dentro di me». Iris, 17 anni: «Se dovessi dire cosa sento e cosa penso, nessuno vorrebbe stare con me, la mia voce sarebbe troppo forte» e poi, quasi per spiegarsi, «ma bisogna pur avere delle relazioni». Ricordo di averle detto: «Se non dici cosa senti e cosa pensi, allora perché accetti queste “relazioni”?»

Soprattutto, ricordo di essere rimasta colpita da quanto la gente s’impegnasse a chiudere la bocca alle ragazze. Come se fosse impossibile ascoltarle e continuare a vivere come avevamo sempre vissuto. Come se, in qualche modo, le ragazze potessero far saltare una copertura. Mi sconcertavano gli incentivi che venivano offerti alle ragazze per non dire quello che avrebbero voluto dire, la pressione esercitata per fare in modo che, una volta cresciute, le loro voci – voci che si sentono comunemente tra le ragazze giovani, voci che gli artisti hanno sentito e registrato in ogni epoca e cultura – rimanessero coperte o, se esplicitate, fossero considerate troppo forti, eccessive o in qualche modo sbagliate e non fossero ascoltate o prese sul serio.

Ascoltare le ragazze mi ha fatto ripensare a ciò che intendiamo quando parliamo di relazioni. Il dipartimento della sanità degli Stati Uniti ha parlato del dilagare della solitudine e di come i contatti siano essenziali per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere. Ma mettere a tacere le ragazze è la spia di un problema più profondo. Da loro ho imparato cos’è il momento in cui si decidono le sorti di una relazione. Quello in cui se dici cosa senti e cosa pensi nessuno vuole stare con te e se non lo fai se ne vanno tutti. In un modo o nell’altro, sei sola. È un problema diffuso, ma ascoltare le ragazze è stato rivelatore e rivoluzionario nel definire un problema – la crisi di connessione – che è diventato pervasivo e urgente.

La scorsa primavera, quando ho ricominciato a intervistare le ragazze, mi sono trovata a ripetere le cose che avevo detto a Iris negli anni ottanta. Liza, 16 anni, mi dice che si «trattiene» per non mettere a rischio dei «legami più profondi». Parla di «attenzione e protezione» e altre ragazze mi parlano di non ferire i sentimenti degli altri o di mantenere il quieto vivere o di non creare problemi o di non provocare esclusioni o rappresaglie: motivazioni a cui le ragazze si appigliano per mettere a tacere ogni voce onesta e concludere, come fa Liza, che la lotta per la relazione è «una battaglia che non vale la pena di combattere».

«Le persone non apprezzano se dici queste cose», sento ripetere continuamente alle ragazze. So bene cosa vuol dire. Jane Eyre ha dieci anni all’inizio del romanzo di Charlotte Brontë. Quando sua zia le dà della bugiarda, risponde che, se fosse una bugiarda, le direbbe che le vuole bene, quando in realtà non è vero. È questa la voce che la gente non vuole sentire.

Quando qualcuno mi dice che vuole che le ragazze facciano sentire la loro voce, penso a Elise, undici anni, che fa la quinta elementare in una scuola pubblica. Quando le chiedo se in certi casi sia giusto dire bugie, risponde: «La mia casa è tappezzata di bugie». Nella tragedia di Euripide, Ifigenia dice al padre, Agamennone, che è «pazzo» se pensa di sacrificarla per compiacere gli dèi e fare in modo che i venti portino l’esercito greco a Troia. Ifigenia mette in discussione la cultura difesa dal padre, una cultura che dà più valore all’onore degli uomini che alla vita. Nel film La bicicletta verde, del 2012, scritto e diretto da Haifaa al Mansour (che, essendo una donna in Arabia Saudita, è stata costretta a girare all’interno di un furgoncino), Wadjida, una bambina di dieci anni, vuole una bicicletta. Non si lascia scoraggiare da una cultura in cui le donne non possono guidare e le bambine non possono andare in bicicletta. S’iscrive a una gara di recitazione del Corano, la vince e, con l’aiuto della madre, ottiene la bicicletta verde che desiderava. Alla fine del film, la vediamo pedalare felice.

Judy, 13 anni, dice che sta perdendo la mente. Indicandosi la pancia, spiega che la mente «è collegata al cuore e all’anima, ai sentimenti profondi e ai sentimenti reali». Mette in contrapposizione la mente e il cervello che, dice, è localizzato nella sua testa ed è collegato alla bravura, all’intelligenza e all’educazione. Nel corso della crescita, osserva, i bambini rischiano di dimenticarsi della loro mente per colpa di tutte le cose che «ti ficcano nel cervello». È responsabilità delle scuole – questo è il sottinteso – se i bambini perdono il contatto con quella che Judy definisce «una forma più profonda di conoscenza».

È per questo che sono tornata a lavorare nelle scuole. Ed è per questo che le dirigenti delle scuole femminili stanno lanciando l’allarme o forse, più precisamente, stanno prendendo in mano la situazione, vedendo il potenziale per una trasformazione che parte dalle ragazze e coinvolge la loro istruzione.

Ecco cosa ho imparato ascoltando le ragazze e cosa mi ha stupito. La gente parla di ragazze che devono trovare la loro voce, ma in realtà le ragazze una voce ce l’hanno. La loro fiducia in se stesse, la loro chiarezza e il loro coraggio possono essere sorprendenti. Quando le chiedono di raccontare di una volta in cui si è sentita incerta o indecisa, Diane, otto anni, dice che è dispiaciuta perché ogni sera, a cena, quando prova a parlare suo fratello e sua sorella la interrompono “rubando” l’attenzione di sua madre. «Tu cosa fai?», le chiede l’intervistatore. Una sera, risponde Diane, ha portato un fischietto a tavola e, quando l’hanno interrotta, ha fatto un fischio. «La mamma, mio fratello e mia sorella hanno subito smesso di parlare e si sono girati verso di me. A quel punto ho detto senza alzare la voce: “Così va molto meglio”».

La scorsa primavera ascoltando Talya, una bambina di prima elementare, ho sentito la stessa chiarezza nel descrivere ciò che avviene nelle relazioni e lo stesso spirito d’iniziativa nel reagire a ciò che conosciamo. «Ho delle amiche stupende», mi ha detto, ma ha anche un’“amica-nemica”. L’amica-nemica «all’asilo mi ha messo la sabbia negli occhi» e, in prima elementare, «ha costretto tutta la classe a comportarsi come lei mentre a me non piace come si comporta. È come se dicesse: “Sono la padrona della classe, siete ai miei ordini”». Alla domanda se ha fatto qualcosa, Talya ha risposto: «Semplicemente… dobbiamo usare il potere d’ignorare».

Queste bambine illustrano il concetto di consapevolezza che il neuroscienziato António Damásio descrive nel suo saggio Emozione e coscienza (Adelphi 2000). Le bambine registrano l’esperienza di ogni momento nei loro corpi e nelle loro emozioni, associandola alla musica o alla sensazione di quello che sta succedendo per poi riprodurla nelle loro menti e nei loro pensieri. In questo modo riescono a descrivere quelli che possiamo considerare dei crimini e misfatti relazionali – rubare l’attenzione di qualcuno, comportarsi come il padrone di qualcun altro – e imparano a fidarsi della loro forza di reazione. In L’incontro e la svolta (Feltrinelli 1995), io e Lyn Mikel Brown abbiamo presentato i risultati del nostro studio quinquennale su cento ragazze tra i sette e i 18 anni. Le abbiamo chiamate le delatrici del mondo relazionale. E sappiamo tutti cosa succede ai delatori.

«Non lo so… non lo so… non lo so». Quando le ragazze attraversano la soglia che le porta dall’infanzia all’adolescenza, nelle interviste questa frase si ripete continuamente. Ascoltate e interrogate con attenzione, spesso le ragazze dimostrano di sapere quello che dicono di non sapere: su se stesse, sugli altri e sul mondo in cui viviamo. Sembra quasi che abbiano smesso di fidarsi della loro conoscenza e abbiano imparato a nascondere ciò che sanno per paura di offendere qualcuno o di dare la risposta sbagliata. Di non dire quello che gli altri vogliono sentire.

Anna, una brillante studente di 14 anni, scrive due temi distinti sulla leggenda dell’eroe: uno per prendere un voto alto, l’altro per dire quello che vuole dire. Anna viene da una famiglia della classe lavoratrice e ha bisogno di un buon voto per prendere una borsa di studio e andare al college. Ma ha anche bisogno che la sua insegnante sappia cosa pensa davvero sulla leggenda dell’eroe, perché per Anna, che ha un padre disoccupato e violento, è una leggenda pericolosa, che può portare gli uomini a coprire la loro vulnerabilità con la violenza. E così consegna due temi: uno che piacerà all’insegnante, e l’altro che la farà arrabbiare. A suo credito, l’insegnante li ha letti entrambi.

Anjili, che frequenta l’ultimo anno delle superiori, interpreta la poesia Alla sua timida amante (1681) di Andrew Marvell in modo giudicato sbagliato. L’insegnante scrive: «Questo non è un compito per l’università». Anjli, però, ascolta il narratore di Marvell, un uomo preoccupato della propria mortalità, e sente la sua voce dal punto di vista dell’amante, la dama di cui vuole vincere la ritrosia. La traccia diceva di analizzare il tono della poesia, e Anjli ne avverte la potenza: quella di Marvell, alle sue orecchie, è una poesia “terrificante” e “spaventosa”.

Nella sua recensione di Emozione e coscienza sul New York Times, Carolyn Heilbrun, una nota intellettuale femminista, giudica la lettura che Anjli ha dato della poesia di Marvell come «una nuova interpretazione della potenza dell’opera», citando le parole della sua insegnante. Tuttavia, osserva, «ci sono scuole che ancora non sono in grado di apprezzare questo genere di reinterpretazione». Il sottinteso è che per essere ammessa all’università probabilmente Anjli dovrà tenere a freno la sua originalità.

Heilbrun ha definito Emozione e coscienza “rivoluzionario”. «Dovrebbe far suonare un allarme nazionale», ha scritto sul Boston Globe, definendo il libro “rivelatore”. Oggi negli Stati Uniti è fuori catalogo. La ricerca parlava di ragazze che lottavano per non perdere la loro voce, ma la cultura voleva fortemente che la perdessero. Eppure le studenti del mio seminario alla New York University sulla resistenza all’ingiustizia si sono riconosciute in Emozione e coscienza in modi che si discostano dalle letture precedenti. Una studente scrive: «Mi ricordo una lunghissima fase della mia vita in cui la mia risposta a tutto era “non lo so” e qualsiasi cosa dicessi facevo sempre questa premessa (lo faccio ancora oggi)». Riflettendo sulle implicazioni per la resistenza all’ingiustizia, introduce un’immagine sorprendente: «Quando insegniamo alle persone a non usare in modo autentico la loro voce, cuciamo e stendiamo un velo di dubbio su tutto ciò che sappiamo, che soffoca la loro volontà di parlare e di affrontare il conflitto». Per un’altra donna del corso, questo è stato «il trauma dell’esperienza formativa della mia infanzia».

Ecco una “poesia io” composta ascoltando la voce in prima persona di una ragazza di seconda media che ho intervistato la scorsa primavera:

Che cosa ho fatto?

Ero confusa

Ho detto

Che non lo sapevo

Cosa ho detto?

Ero

Non sono stata io

Mi dispiace

Non lo sapevo

Ho solo

Mi sono dimenticata

Ho provato

Ho provato

Capisco

Sono stata io

Non m’importa

Mi sono scusata

Ho parlato

Posso

Davvero non m’importa

Ho detto

Che non m’importa

Una voce alla seconda persona, un “tu”, si rivolge allora all’“io” e le dice:

C’è un lato buono e un lato cattivo

Non puoi sempre combattere tutte le battaglie

Devi scegliere quali battaglie vuoi combattere

Ed ecco l’“io”, che ci prova e poi non le importa più:

Ci sto provando

Voglio dire

Non

Onestamente non m’importa

Non me ne importa niente.

Nel saggio L’errore di Cartesio (Adelphi 1995) Damásio presenta i risultati della sua ricerca in campo neurobiologico. La separazione cartesiana tra ragione ed emozione, considerata per secoli la condizione necessaria della razionalità, si rivela in realtà come la manifestazione di lesioni o traumi cerebrali. Questa separazione lascia intatta la nostra capacità di risolvere problemi logici, ma ostacola la nostra capacità di ragionare in modo induttivo, d’imparare dall’esperienza e dunque orientarci nel mondo sociale umano. La psichiatra Judith Lewis Herman sostiene una tesi analoga in Guarire dal trauma (Magi Edizioni 2005). La separazione del sé dalle relazioni, considerata in passato come un passaggio dalla dipendenza all’indipendenza, è in realtà il residuo di un trauma, la reazione del sé all’esperienza di essere stato sopraffatto.

È stato l’ascolto delle ragazze ad attirare la mia attenzione verso la natura di genere di queste separazioni e a farmi capire quanto siano parte integrante di un rito di passaggio che compromette la capacità dei bambini di vivere in relazione con se stessi e con gli altri. Staccando il pensiero (“maschile”) dall’emozione (“femminile”) e separando il sé (“maschile”) dalle relazioni (“femminili”), la codifica di genere delle capacità umane crea una crisi di connessione. Ciò che sembrava ordinario (avere una voce e vivere in relazione) diventa quindi straordinario. Sono state le adolescenti a portare allo scoperto tutto questo. Le relazioni dipendono dal possedere una voce e la cultura del patriarcato dipende dal silenzio delle donne.

Dico questo in un momento storico in cui le voci di due ragazze hanno avuto un impatto enorme. Penso a Greta Thunberg, 15 anni, con il suo cartello scritto a mano, in piedi, da sola, davanti al parlamento svedese. Il suo sciopero studentesco individuale ha innescato la più grande manifestazione sul clima nella storia, con milioni di persone che sono scese in strada per protestare contro l’incapacità dei politici di prendere sul serio la crisi climatica. Quando è stata invitata negli Stati Uniti per parlare al congresso e i parlamentari sono corsi a ringraziarla, la sua risposta è stata, in sostanza: «Non ringraziatemi, fate qualcosa». Al World Economic Forum di Davos ha detto: «Dovete sentire la paura che sento io ogni giorno. E poi dovete agire». A chi le diceva che avrebbe dovuto essere a scuola, ha risposto: «Dato che a voi adulti non importa un accidente del mio futuro, non importa neanche a me».

E penso a Darnella Frazier, 17 anni. Tra le tante persone che hanno assistito all’omicidio di George Floyd per mano del poliziotto Derek Chauvin, è stata l’unica a tirare fuori il telefono, accendere la videocamera e registrare tutta la scena. La sua registrazione è la prova che ha portato all’arresto di Chauvin. Se non avesse registrato ciò che aveva visto, ha detto, nessuno le avrebbe creduto. Eppure, come ha raccontato, «quell’uomo stava soffrendo» e «non era giusto». In un certo senso, ciò che stava succedendo era ovvio, eppure Darnella è stata l’unica a fare qualcosa.

Ho intitolato il mio nuovo libro In a human voice (‘Con voce umana’) perché quello che prima era confuso adesso è diventato ovvio. La “voce diversa” del mio libro precedente (la voce dell’etica della cura e dell’attenzione), anche se considerata inizialmente come “femminile” e associata alla donna, è in realtà una voce umana. La voce da cui si differenzia è la voce del patriarcato, legata alle gerarchie di genere. E quando il patriarcato è al potere ed è imposto, la voce umana è una voce di resistenza. Dalle ragazze ho imparato ad ascoltare una voce umana che è andata in clandestinità, e a riconoscere la differenza tra la voce di copertura (accettata culturalmente) e la voce sotterranea (radicata nell’esperienza). Dalle ragazze ho imparato a fare caso alle parole “davvero” e “in realtà”, all’espressione “onestamente” e a riconoscere come possono segnalare il passaggio dalla voce di copertura, la voce che dice cosa penso e sento, alla voce sotterranea, la voce che dice cosa penso davvero, cosa penso in realtà o cosa direi se dovessi essere completamente onesta. Le ragazze mi hanno insegnato che la voce sotterranea è più accessibile di quanto immaginassi, ma anche che, per sentirla, devo mettere in dubbio la voce di copertura. In uno studio con le coppie, ho scoperto che questo vale anche per gli uomini. La mia capacità di sentire la voce umana dipendeva dalla capacità di dubitare di una voce di copertura che suonava più maschile. Ciò che ho imparato ascoltando le ragazze si è rivelato molto più universale di quanto pensassi, perché, quando ho cominciato, la riduzione al silenzio delle ragazze era liquidata come irrilevante o come una correzione necessaria.

L’anno scorso una studente mi ha scritto un’email. Alla soglia dei trent’anni, era tornata all’università per fare un master in diritto e si era iscritta al mio seminario sull’ascolto. Mi scriveva per ringraziarmi. «Esercitarmi ad ascoltare me stessa e ciò che so nel profondo mi ha fatto aprire gli occhi. Mi rendo conto che troppo spesso, in vari momenti della mia vita, non mi sono fidata del mio intuito, o non sono riuscita ad arrivare a conclusioni che erano evidenti, e non capivo perché». Voleva ringraziarmi soprattutto per averla contraddetta quando un giorno, presentando il suo lavoro alla classe, aveva detto che non sapeva perché la parola «dissociativo» fosse stata usata due volte dalla persona che aveva intervistato. Ascoltando la sua presentazione, era chiaro che sapeva benissimo quale fosse la funzione di «dissociativo» nel contesto della sua intervista. Come lei stessa aveva sottolineato, l’espressione «non lo so» era «onnipresente». E così, quando ha detto anche lei «non lo so», le ho risposto che non ci credevo. In realtà, mi ero fidata di lei quando lei non si era fidata di sé. «Il fatto di dare a me e a tutta la classe il permesso di ascoltarci e fidarci di noi stesse ha significato moltissimo per me, più di quanto lei forse non immagina».

Secondo i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, oggi negli Stati Uniti i livelli di depressione e pulsione suicida tra le ragazze adolescenti sono ai massimi storici. In uno studio su diecimila adolescenti negli Stati Uniti, è stato chiesto alle ragazze se a volte rinunciano a dire quel che pensano davvero o a discutere solo perché vogliono essere accettate dagli altri: il 46% delle intervistate ha risposto di sì, e la percentuale sale al 62% tra le ragazze con una media dei voti alta. Credo che il motivo sia che hanno più opportunità, e quindi hanno anche più da perdere.

La responsabilità degli altissimi livelli di disagio psicologico tra le ragazze è spesso attribuita ai social network, ed è innegabile che con questi il costo di parlare sia diventato più alto. La scorsa primavera, durante un’intervista, è stato chiesto a due ragazze cosa avrebbero voluto cambiare del mondo, ed entrambe hanno risposto «il giudizio degli altri». La facilità nel giudicare ricade pesantemente sulle ragazze – spesso senza motivazioni concrete – una volta che raggiungono l’adolescenza, e i social network non fanno che amplificare gli effetti dei giudizi negativi. Ma il mio sospetto è anche un altro, e cioè che per le ragazze e per le donne con l’aumentare delle opportunità aumenti anche la pressione a non dire cosa pensano e sentono per non compromettere i contatti professionali e le possibilità di crescita.

Mettere a tacere il sé, tuttavia, è la ricetta della depressione, e la perdita della relazione può portare alla disperazione e al distacco. La crisi di connessione è sempre caratterizzata da segni di disagio psicologico. Ma, dal punto di vista della società, ridurre al silenzio le ragazze è un modo per permettere alle donne di accedere alle strutture patriarcali senza sottolineare l’evidenza o creare problemi.

Sono tornata a lavorare nelle scuole femminili perché ho imparato a vederle come dei laboratori in cui sperimentare a livello educativo la liberazione della democrazia dal patriarcato. Con questo, intendo dire che la battaglia per la relazione è una battaglia che vale la pena di combattere ed è una parte ineludibile dell’educazione delle ragazze. Per educare le ragazze è necessario anzitutto appoggiarle nella loro sana resistenza e dare loro il coraggio di non fare quello che è sempre un pessimo affare, cioè scendere a patti con il patriarcato e cedere al silenzio. E poi incoraggiarle ad accettare la sfida di scoprire come essere presenti e vivere in connessione profonda, sia con se stesse sia con gli altri, soprattutto di fronte al conflitto e al disaccordo.

Carol Gilligan è psicologa, studiosa di etica e femminista statunitense. Tra i suoi libri pubblicati in Italia Con voce di donna (Feltrinelli 1991) e La virtù della resistenza (Moretti & Vitali 2014). Questo articolo è stato pubblicato in originale sulla rivista culturale on line Aeon con il titolo Silencing of the girls.

(Internazionale n. 1562, 17 maggio 2024)

Da Corriere della Sera – L’avevano paragonata ad Anton Cechov e a Guy de Maupassant, in quanto magistrale autrice di racconti. Ma la canadese Alice Munro, scomparsa all’età di novantadue anni, aveva una sua spiccata originalità e una sensibilità tutta femminile, frutto di travagliate esperienze di vita, che la rendevano inconfondibile e avevano indotto l’Accademia di Svezia ad assegnarle il premio Nobel per la Letteratura nel 2013.

Nessuno come lei sapeva raccontare in modo nitido, con un linguaggio colloquiale, senza fronzoli di alcun genere, le vicende prosaiche delle persone comuni, la vita famigliare, le scelte e le pene quotidiane, i momenti di ripiegamento interiore e quelli di faticoso cambiamento. La povertà, le frustrazioni e la voglia di riscatto.

Alice Munro aveva però anche una capacità impressionante di far svoltare le esistenze dei suoi personaggi, di introdurre nelle sue brevi storie fattori del tutto imprevedibili, destinati a colpire e appassionare. Un talento cristallino che l’aveva fatta amare da lettori di tutto il mondo, dopo l’esordio negli anni Sessanta sulle riviste letterarie del suo Paese.

Non era certo cresciuta nella bambagia. Nata il 10 luglio 1931 a Wingham, nella regione canadese dell’Ontario, il suo nome originario era Alice Laidlaw. Veniva da una famiglia colpita duramente dalla Grande Depressione seguita alla crisi del 1929. Il padre allevava nella sua fattoria animali da pelliccia, in particolare volpi argentate, e la madre, insegnante, lo aiutava sul versante commerciale di quell’attività faticosa e precaria, alla quale poi il marito avrebbe dovuto rinunciare per lavorare in fabbrica.

L’ambiente intorno era difficile e malfamato, con una notevole presenza di contrabbandieri e prostitute. «Vivevamo al di fuori di ogni struttura sociale, in una specie di piccolo ghetto», raccontava Munro. Ma aggiungeva che «era una vita interessante»”, nel quale provava un «grande senso di avventura».

La situazione era peggiorata quando la madre, a soli quarant’anni, si era ammalata del morbo di Parkinson, che l’aveva relegata a letto. E Alice, dodicenne, aveva dovuto assisterla: sostanzialmente reclusa in casa, tra le faccende domestiche e l’esigenza di non lasciare sola la mamma, aveva trovato una preziosa valvola di sfogo nella scrittura.

La passione di narrare era immensa, il talento non mancava. E così nel 1949 la ragazza aveva vinto una piccola borsa di studio biennale per frequentare l’University of Western Ontario. Ma i soldi erano davvero pochi, solo attraverso lavoretti saltuari riusciva a mantenersi. Poi aveva incontrato James Munro, di origine borghese. Si erano innamorati e sposati nel 1951, nonostante l’opposizione della famiglia di lui, ed erano andati a vivere lontano, a Vancouver, sulla costa del Pacifico. In seguito avrebbero aperto e gestito una libreria.

Alice aveva assunto così il cognome Munro, che avrebbe mantenuto anche dopo il divorzio da James. Dalla loro unione erano nate tre bambine, mentre una quarta era morta, nel 1955, poco dopo essere venuta alla luce. Un evento doloroso che avrebbe segnato la scrittrice.

Nonostante i lavori domestici e la cura delle figlie, Alice Munro non aveva certo smesso di scrivere, era la sua vocazione profonda. Ma proprio perché la sua giornata era così densa d’impegni minuti, ricordava, non aveva mai pensato di impegnarsi nella stesura di un romanzo vero e proprio. Aveva esercitato il suo talento nei racconti, mettendosi al lavoro mentre le bambine dormivano o erano a scuola.

Nel 1950, quando era all’università, era riuscita a pubblicare una short story su una rivista studentesca, ma poi per lungo tempo la sua attività era rimasta un fatto privato, noto solo ai suoi cari e a una ristretta cerchia di amici. Nel 1959, alla morte della madre, aveva scritto un racconto di forte impatto dedicato al suo rapporto con lei, La pace di Utrecht, con cui aveva cominciato a farsi conoscere.

Molto importante era stato a tal proposito l’incoraggiamento di Robert Weaver, autore radiotelevisivo e fondatore della rivista letteraria “Tamarack Review”, che ne aveva subito colto le potenzialità e l’aveva incoraggiata e presentata al pubblico. Lei lo avrebbe ricordato come «l’uomo a cui devo quasi tutto».

La prima raccolta di racconti firmata da Alice Munro, La danza delle ombre felici, era uscita in volume nel 1968 e aveva ottenuto un notevole successo di critica, vincendo subito il Governor General’s Award, il più prestigioso premio letterario canadese. In Italia sarebbe uscito solo nel 1994 presso la piccola casa editrice La Tartaruga nella traduzione di Susanna Basso, alla cui fine sensibilità erano state in seguito affidate da Einaudi le successive versioni delle opere di Munro nella nostra lingua.

Era seguito poi un lavoro particolare, La vita delle ragazze e delle donne (1971): nelle intenzioni un romanzo, ma sempre composto di varie storie collegate tra loro. Una caratteristica che si può riscontrare anche in un’altra e più nota opera di Alice Munro, Chi ti credi di essere?, uscita in Canada nel 1978 e in Italia nel 1995 presso le Edizioni e/o.

Con il tempo Alice Munro si era affermata non solo in Canada ma in tutto il mondo anglosassone e dagli anni Settanta in poi aveva pubblicato regolarmente le sue raccolte, con un riscontro crescente anche tra un pubblico di affezionati lettori. Nel frattempo anche la sua vita era cambiata: nel 1972 si era separata dal primo marito e poi era tornata a vivere nell’Ontario con il geografo Gerald Fremlin, che aveva sposato nel 1976.

Nonostante fosse ormai considerata una personalità di notevole rilievo, fino al momento del Nobel la sua fama, notava non senza polemica un convinto ammiratore di Munro, Jonathan Franzen, era rimasta molto inferiore alla sua bravura. Forse anche perché gran parte della produzione di questa autrice propone vicende ambientate nel Canada rurale, un piccolo mondo apparentemente angusto e poco affascinante, a cui la sua arte narrativa giunge a conferire un’esemplarità universale.

Nel 2012 Alice Munro aveva annunciato che avrebbe smesso di scrivere e aveva mantenuto il proposito nonostante il riconoscimento dell’Accademia di Svezia. Personalità schiva, aveva però una straordinaria capacità di osservazione e di comprensione: «Parlo molto con la gente. Ascolto le storie della comunità in cui vivo». La sua “poetica del quotidiano” le aveva procurato un successo crescente anche in Italia: in coincidenza con il Nobel le era stato dedicato un Meridiano Mondadori, già preparato in precedenza e curato da Marisa Caramella. «Voglio emozionare le persone – aveva detto Munro – con delle sorprese, ma non dei trucchi. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così». Un obiettivo che le sue opere avevano sempre raggiunto in pieno.

Video di PDH Paroles D’Honneur, traduzione di Margherita Giacobino

La Nakba è ricordata dal popolo palestinese ogni anno il 15 maggio, un giorno dopo la fondazione dello stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948.

Faire Bloc, organizzazioni ebraiche anticoloniali di diversi paesi, insieme ad associazioni e attivisti, si sono riunite a Parigi il 30 marzo 2024 nella sede di Paroles D’Honneur, per riaffermare la legittimità della causa palestinese e la solidarietà internazionale. Pubblichiamo l’intervento in italiano di Rima Hassan, giurista franco-palestinese e fondatrice dell’Osservatorio dei campi dei rifugiati. Nel video, la versione integrale in francese e inglese [NdR].

Da Erbacce – La Nakba è il punto di partenza dello spossessamento dei palestinesi

Comincio col dire da dove parlo: io sono una discendente della Nakba. La mia famiglia è stata cacciata dal territorio che oggi appartiene a Israele e mandata nei campi di rifugiati in Siria. Io sono nata in uno di questi campi.

Quindi dico con molta emozione che vorrei che i miei nonni prima di morire avessero visto ciò che sta avvenendo qui oggi. Mando un pensiero a loro e alle persone che si trovano ancora nei campi e che possono trarre una speranza da ciò che si fa qui, e vi ringrazio.

Edouard Saïd ha detto che la Shoah è stata la catastrofe dell’Europa e la Nakba è stata la catastrofe del mondo arabo.

Nel primo caso di tratta di sterminio, nel secondo di cancellazione.

Per me la Nakba è il solo quadro efficace per affrontare la questione palestinese, perché la Nakba è una meccanica di sparizione, di cancellazione del soggetto palestinese, che si materializza in modi diversi, oggi con l’occupazione, la colonizzazione, l’apartheid e il genocidio.

Il termine Nakba, che significa catastrofe, è stato usato per la prima volta da Constantin Zureiq, un intellettuale siriano, che l’ha definita la madre di tutte le catastrofi, soprattutto riguardo al nazionalismo arabo.

Elias Khoury, un intellettuale libanese, nel 2011 ha cominciato a fare sulla Nakba un lavoro teorico che continua ancora oggi. Si tratta di intendere la Nakba non come un evento storico datato e ormai passato, ma come un concetto basilare per la narrativa palestinese in tutte le sue dimensioni, il punto di partenza di questa cancellazione che oggi si materializza nelle sue diverse realtà, perché i palestinesi si trovano in diversi territori e vivono con statuti diversi.

Io sono nata arrabbiata, perché mi sono trovata prestissimo di fronte alla dimenticanza, che è l’inizio della cancellazione.

Quando sono arrivata in Francia ho dovuto sistematicamente fare un lavoro di educazione per sopravvivere in quanto rifugiata palestinese. Ho dovuto commemorare la Nakba quotidianamente. Quando si è rifugiati palestinesi, spossessati della propria terra e identità, non si aspetta il mese di maggio per commemorare la Nakba, lo si fa tutti i giorni.

Quando noi lasciamo i campi, perdendo anche questo legame, cominciamo quasi a scomparire anche noi.

Il campo rappresenta la cancellazione perché materializza l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, ma allo stesso tempo è anche lo spazio di sopravvivenza. Un luogo di memoria, a cui i palestinesi sono legati. Perché, in mancanza del legame con la propria terra, ci sono cose che si vanno perdendo da una generazione all’altra.

Che cos’è la Nakba? L’espulsione, al momento della creazione dello stato di Israele, di 800.000 palestinesi dalle loro terre. Più di metà dell’intero popolo di 1.400.000 persone. Tra cui la mia famiglia. Ma non solo: la distruzione di 532 villaggi, completamente rasi al suolo. Quindi per i palestinesi spossessati alla sofferenza dell’esilio si aggiunge la perdita dei luoghi della memoria, del passato e delle usanze.

Si parla spesso della Palestina e dei palestinesi come di un popolo che ha un’identità nazionale unitaria. Ma i palestinesi hanno anche delle identità regionali, che vanno perdute. Per me è una cosa molto dolorosa, che fa parte della cancellazione.

Pensiamo al ricamo tatriz, che era una specie di carta d’identità delle donne palestinesi, in cui i disegni, i colori, i tipi di ricamo, indicavano da che località venivano le donne, quanti figli avevano, qual era la loro identità regionale.

Lo stesso avviene per gli accenti.

Questi elementi sono andati perduti con la Nakba. E tutto ciò ha una stretta relazione con quello che accade oggi a Gaza.

La popolazione di Gaza non ha un’identità unica, ma è composta all’85% da rifugiati, provenienti da diverse regioni. È per questo che il ruolo dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i palestinesi, è importante.

I media occidentali e quelli del mondo arabo hanno usato termini diversi per quel che è successo il 7 ottobre: Hamas ha parlato di territori ‘liberati’, parola che in Occidente è stata completamente occultata. E questo significa che i combattenti di Hamas sono figli della Nakba.

Finché non avremo tutti collettivamente trovato una soluzione e dato delle risposte ai figli della Nakba, ovunque si trovino, resteremo all’interno di questa cancellazione e del conflitto che oggi si vive a Gaza.

Quasi nessuno ha analizzato i fatti in questa dimensione storica, e io credo che si tratti di un errore gravissimo.

Oggi si parla di quello che accade a Gaza, ma la situazione è la stessa in Cisgiordania, dove ci sono 19 campi e milioni di palestinesi costretti all’esilio.

E il punto di partenza di tutto è la Nakba. È per questo che si parla di “Nakba continua”.

Da Alias il manifesto – A volte è sorprendente provare molte e differenti emozioni solo leggendo un piccolo libro. È quanto può succedere con la Corrispondenza tra Victoria Ocampo e Virginia Woolf, che arriva in libreria per l’editore Medhelan, sapientemente curato da Francesca Coppola, e con un saggio introduttivo di Nadia Fusini (pp. 200, euro 18,00).

Nonostante il corpo delle lettere sia esile, ventitré della Woolf e tre della Ocampo, l’insieme dei paratesti che accompagnano questo dialogo a distanza lo abbracciano in modo preciso e competente, così che possiamo leggere nella condizione migliore per scoprire quante cose si nascondono dietro e dentro alle righe di due grandi donne così intelligenti e sensibili, così diverse. Il loro ritratto è brillantemente disegnato nelle prime pagine da Fusini, al punto che le vediamo nella loro presenza fisica e intellettuale, ascoltiamo la voce sempre ironica e spesso affrettata dell’una e quella ammirata e devota dell’altra, in un racconto del senso profondo del loro legame, la cui radice è per entrambe la fiducia nella libertà femminile, la fiducia che una donna debba essere libera di cercare da sé il proprio posto nel mondo.

Da questa radice spontanea nasce lo sguardo amoroso di Victoria per Virginia, da lei Victoria si sente autorizzata a credere in se stessa, nella propria scrittura, a lei sente di fatto di dovere l’essenziale: «Se c’è qualcuno nel mondo – scrive – che può darmi coraggio e speranza è lei. Per il semplice fatto di essere com’è e di pensare come pensa».

Giustamente Nadia Fusini sottolinea che siamo di fronte a qualcosa di inedito, e non è la prima volta, qualcosa che smentisce quella «febbre che regnerebbe nell’universo delle donne, e cioè l’invidia», cui molto facilmente crediamo per una falsa tradizione, una febbre ancora oggi spesso all’ordine del giorno ma che per fortuna studi, analisi e racconti di molte donne finalmente smentiscono (non perché questi sentimenti negativi non esistano, ma per illuminare quanto è sempre stato tenuto fuori scena).

L’accurata ricostruzione di Manuela Barral ci avvicina a vita, opere e desideri di Victoria, e alla sua impresa forse da noi più nota, la rivista e casa editrice Sur, che pubblicherà, affidate a Jorge Luis Borges, due importanti traduzioni di Woolf, Una stanza tutta per sé nel 1936 e Orlando nel 1937; nel ’38 “arriva” Gita al faro, tradotto da Antonio Marichalar, ma altre scritture e conferenze l’amica argentina dedica alla scrittrice inglese, consapevole che anche questa invenzione, non solo di una scrittura per sé, ma di una casa editrice per altre e altri (come la Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf) è comune passione, comune intenzione di incidere in una tradizione mirabile per l’una, a ridosso del vuoto per l’altra.

Ma il vero, puro piacere è posare direttamente lo sguardo sulle loro lettere: si tratta di dettagli, quelli in cui le signore della scrittura diventano impareggiabili, tra scambi di fiori e farfalle, il ritrarsi puritano di Virginia di fronte a regali «meravigliosamente inopportuni» e la sovrabbondanza di doni, omaggi che viaggiano da un continente lontano, segnati dalla nostalgia («Come fare, Virginia, per incollare l’Europa all’America e asciugare l’oceano che le separa?»), ma intanto, a Londra, l’amica dalla mente visionaria la immagina «mentre ascolta il vento muovere migliaia di ettari di erba della pampa».

Lo stile, anche il semplice stile epistolare di Virginia è sempre riconoscibile e scintillante, mai innocente perché vivo di insaziabile curiosità, quando ad esempio chiede di minuzie della vita quotidiana vuole sapere tutto: «Mi dica che cosa fa, con chi esce, mi descriva la campagna, la città, la sua casa, la sua stanza, tutto, anche quello che mangia, i gatti, i cani, e il tempo che passa a fare questo e quello». Lei deve vedere, immaginare, sognare anche quando legge una lettera. Certo poi è sobria nel suo dolore quando accenna alla morte dell’adorato nipote Julian, e franca quando mostra tutta la sua irritazione per l’inaspettato arrivo di Victoria in compagnia di Gisèle Freund con la sua macchina fotografica. Suo è infatti uno dei più famosi ritratti della Woolf, che compare insieme a molte altre immagini in questo prezioso e delicato libro il cui arrivo è bene festeggiare.

Da 27esimaora.corriere.it – Letizia sale sul palco, si avvicina al microfono e dice: «Come stai?». È la prima domanda per Elena Cecchettin. Lei risponde senza incrinare la voce: «In quattro mesi mi sono ammalata una decina di volte. Quando stai male, stai male anche fisicamente. Adesso mi sto riprendendo, ma non posso dire di stare bene». Nella Sala Azzurra del Salone Internazionale del Libro di Torino tutte le poltrone sono prese. Le occupano soprattutto ragazze e ragazzi. Sono venuti – in tanti anche quaranta minuti prima in coda – per ascoltare la sorella di Giulia, uccisa a coltellate l’11 novembre 2023 dall’ex fidanzato Filippo Turetta. L’ultima volta che Elena aveva parlato in pubblico era nell’Aula Magna dell’Università di Padova alla laurea in memoria di Giulia, lo scorso 2 febbraio. Dopo oltre tre mesi, torna a esporsi per dialogare con i coetanei e le coetanee della Generazione Zeta attraverso un incontro realizzato in collaborazione con La27ora e D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, che hanno raccolto le domande.

Giovanni le chiede come si convive con tanto dolore. «In famiglia ci manca Giulia in momenti diversi. Io sto cercando il mio modo per convivere con la sofferenza che non se ne andrà mai. Sto tentando di riappropriarmi della mia vita». Agata domanda quali sono gli aspetti di sessismo della nostra vita quotidiana a cui non facciamo più caso. «Bisogna cercare di prevenire: dal cat calling ai commenti che sessualizzano le donne o a quelli che le sminuiscono. Sono tutti atti di violenza». Eleonora vorrebbe invece sapere quanto ritenga ostacolante il fenomeno del victim blaming (colpevolizzazione della vittima ndr) nel percorso di denuncia. E lì la risposta di Elena fa partire un forte applauso: «Se le donne denunciano e non vengono credute, saranno meno spronate a farlo. Ma al di là delle denunce io dico alle persone che subiscono violenza: parlatene con gli amici, con la famiglia. Cercate di comunicarlo in giro, anche tramite i social, fate in modo che si sappia: può aiutare».

Denis chiede se esistano dei modelli per una mascolinità più consapevole. «Gli uomini devono mettersi in discussione. Noi donne non dobbiamo smettere di avere delle pretese, dobbiamo richiedere il nostro spazio, se dico no è no». Letizia ha un’altra domanda. Come si reagisce allo sguardo giudicante della società? «La cosa più brutta della mia vita è successa l’11 novembre 2023. Trovo assurdi i commenti d’odio sui social. Ci rido sopra. Ma è importante circondarsi di persone che ci ricordano veramente chi siamo».

Risponde a tutto Elena mentre scava dentro di sé riflessioni e pensieri. Il suo sguardo a volte è ondivago, sempre gentile. Accanto a lei ci sono Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicaria del Corriere della Sera e Alessandra Campani, operatrice di centro antiviolenza e referente del gruppo prevenzione di D.i.Re. Dice Stefanelli: «La famiglia Cecchettin sta portando il discorso della violenza fuori dalle accademie e lo sta mettendo nelle nostre case. La loro generosità ci aiuterà a cambiare». Proprio per cambiare dobbiamo continuare a fare rumore, non solo con le chiavi in mano, anche con le parole, insiste Campani. «In Italia gli omicidi diminuiscono, i femminicidi no. Spesso la parola stessa – femminicidio – viene contestata. Bisogna ripartire dal linguaggio per contrastare questo fenomeno», aggiunge Stefanelli. Poi Campani insiste su un punto: «Il femminismo è per tutte e tutti. Non è per le donne, è per la libertà che garantisce a uomini e donne».

Ecco allora il parallelismo tra la lotta delle partigiane nella Resistenza e le battaglie delle donne. Elena, che cos’è la forza? «Forza è anche resistenza. Dobbiamo voler essere forti, non solo tirare i pugni ma resistere. Magari ci vorrà tantissimo tempo ma sono convinta che il cambiamento prima o poi arriverà. È rivoluzionario credere di valere». Valere, valgono – senz’altro – le sue parole per le quali, alla fine, in moltissimi la ringraziano.

Da Erbacce – In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20.00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere. Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito. Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante. Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo. Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così. Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore. Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria. Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca. Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio. Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra. Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto l’aeroporto di Heathrow a Londra. Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie. Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia. Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato l’assenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi. La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla. Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie d’erba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola. Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio. Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi. Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg. Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli. Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete. La farina è scarsa e più preziosa dell’oro. Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno. E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti. Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri dodici in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino. Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare. Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt] e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale. Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria. La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca. Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso. A un certo punto l’umiliazione della sporcizia è inevitabile. A un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco. Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco. Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se fosse stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri. Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese? Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale. Di storie. Di ricordi, libri e cultura. Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo. Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università. Il genocidio è la demolizione intenzionale dell’umanità di un altro. È la riduzione di un’antica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare l’indicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino. È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dell’umanità dei palestinesi. Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming l’immagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti. Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel XXI secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo. La traduzione dall’inglese è di Aldo Lotta.

L’articolo è tratto dal sito Zeitun – Notizie e libri sulla Palestina (https://zeitun.info/).

Da La Stampa – In un dipinto di William White Warren dai tenui colori rosa e giallo crema le due sorelle Nightingale – Parthe diminutivo di Parthenope, classe 1818, e la più giovane Florence detta Flo – appaiono raffigurate in perfetta armonia. Ma il bel quadro è mendace. Le ragazze che avevano visto la luce a Napoli e a Firenze (da cui i loro nomi) durante un lungo tour dei facoltosi genitori, quando rientrarono in Inghilterra, a Embley Park, non trovarono pace. La rivalità tra le sorelle stravolse la quiete campestre, con la mamma Fanny spalleggiata da Parthe nell’osteggiare le ambizioni della ribelle Florence. Quest’ultima però vincerà su tutta la linea: diventerà la grande madre dell’assistenza infermieristica moderna, la creatrice dei più avanzati ospedali da campo, l’ideatrice della ricerca statistica d’avanguardia per la cura e l’assistenza ai malati. Adesso in America e in Inghilterra la bella biografia scritta come un romanzo di Melissa Pritchard, Flight of the Wild Swan [‘il volo del cigno selvatico’, Ndr] (Bellevue Literary Press, elogiata dal New York Times), dedicata a Florence Nightingale ha suscitato un grande dibattito sui modi e sulle forme con cui il “cigno selvatico” riuscì ad emergere nonostante l’ostilità della famiglia patriarcale.

Come e dove nacque la tempra di Flo, prima donna a lottare per dare alle altre donne un ruolo nella medicina moderna e fu capace di sconfiggere gli esponenti del mondo accademico, medico e militare che la ostacolavano?

Flo, come scriveva nel diario, sia a Londra che in campagna si sentiva prigioniera. Furono le tate a dare lezioni di buone maniere e di comportamento a Parthe e a Flo. Papà William impartiva invece nozioni di greco, latino, italiano, francese, tedesco, storia, filosofia e matematica: Florence era un’appassionata di questi studi che l’indolente Parthe non considerava adatti a una signorina. A ventiquattro anni Flo annunciò la sua vocazione: non voleva sposarsi bensì diventare infermiera. Le reazioni della madre e della sorella furono incontrollate: era un lavoro inadatto alla sua condizione sociale e le infermiere erano considerate alcoliste e frequentatrici di lupanari e bassifondi. La testarda Flo, però, passava il tempo a compulsare i primi rapporti sulla salute pubblica inglese, che stavano iniziando a uscire attorno a metà ’800.

Nel 1853 fu finalmente libera di realizzare la sua vocazione medica grazie al contributo annuo versatole dal padre. Partì, assieme ad altre trentotto infermiere, per Scutari, sede dell’ospedale militare dopo che nel 1854 l’Impero britannico, alleato della Turchia, era entrato in guerra contro la Russia. All’arrivo la giovane donna fece una scoperta tremenda: più di diecimila soldati giacevano non curati e abbandonati nella sporcizia, pieni di pustole e colpiti da malattie infettive. Miss Nightingale riuscì a imporre una situazione più vivibile ed elaborò importanti teorie su come un ambiente sano e una dieta appropriata limitassero la diffusione dei microbi.

Gli alti comandi militari la consideravano una mestatrice, non tolleravano la sua ingerenza e cercarono di sabotarla in tutti i modi. In Inghilterra, però, grazie alla pubblica opinione e a giornali come The Times, si verificò un importante cambio di passo: si diffuse la leggenda della “signora con la lampada”, di Flo, un angelo che di notte, in ospedale, portava sollievo a feriti e moribondi. Nightingale riuscì ad avviare una riforma completa della sanità militare. Dopo essersi gravemente ammalata, ripartirà per la Crimea, e darà vita a una personale “unità di combattimento”, fatta di amici e di sostenitori dei suoi progetti di cura che mantenevano i contatti con i politici e con i giornali, che diffondevano i dati clinici da lei analizzati e rappresentati tramite grafici colorati, “torte” e istogrammi.

Per Florence, dunque, in un primo momento le istanze del patriarcato furono incarnate dalla madre e dalla sorella e poi dalla società maschile tradizionalista. Non è un caso che a vent’anni Flo componesse un saggio sulle convenzioni sociali che opprimevano le donne, che le costringevano alla pigrizia mentale e a sottovalutare le proprie potenzialità. La sua capacità di “resilienza” al diktat sociale nacque dunque proprio resistendo alla famiglia. Ma si trasformò in un impulso a elaborare, a partire da una condizione personale, strategie e programmi che coinvolsero l’intera società.

Nel 1860 pubblicò Notes on Nursing, pietra miliare del curriculum delle scuole per infermieri che ancora oggi rappresenta l’introduzione classica a quell’attività di cura.

Da Odessa – In occasione della presentazione in Libreria, il 17 maggio 2024, proponiamo la ricca recensione di Claudia Mazzilli al libro di Gabriella Galzio Ritorno alla Dea, Agorà & CO. 2022, pubblicata il 5 maggio 2022 su ODISSEA, Blog di cultura, dibattito e riflessione diretto da Angelo Gaccione:

https://libertariam.blogspot.com/2022/05/lo-sguardo-giano-dellutopia-diclaudia.html

Da Il Fatto Quotidiano – Uno dei capisaldi intorno a cui, sin dall’inizio di quest’epoca di guerra, ruota la propaganda bellicista è la riduzione sistematica di ogni discorso sulla pace alla favoletta dei soliti buonisti. Ecco le “anime belle”, coloro che si pretendono candidi e puri, disarmati e incontaminati, ma che al dunque si rivelano incapaci di guardare in faccia la realtà, di operare sul corso degli eventi e mutarlo. La favoletta dei buonisti si va riaffermando in questi giorni di concitata campagna elettorale, dato che le vecchie accuse sembrano ormai tutte cadute. Susciterebbe almeno ilarità dare del putinista o putiniano a chi, già due anni fa, aveva sollevato dubbi sul crollo imminente della Federazione Russa, sulla caduta ingloriosa di Putin, sulla magica e sfavillante vittoria dell’esercito ucraino, forte di armi e sostegno occidentali. I pacifisti avevano ragione su tutti i fronti. A parlare sono i fatti. E non è certo gradevole il ruolo delle cassandre inascoltate. Ma il paradosso è che quegli stessi che allora promuovevano la campagna di Russia con articoli boriosi e interventi altisonanti, ora si sono rimangiati tutto; fischiettano e fanno finta di nulla o, peggio, si impossessano delle parole dei propri oppositori. Dato che in questo Paese non ci sono tradizionalmente limiti a piroette ciniche, capriole impudenti, voltafaccia e ribaltoni di ogni risma, si può perfino condire qui e là il proprio eloquio in patria con le due sillabe “pa-ce”, per poi infilarsi l’elmetto in Europa, pronti all’invio continuo e moltiplicato di armi. E i pacifisti? Quelli che sin dai primi giorni dell’invasione russa chiedevano trattative? Ebbene restano nel torto ontologico: sono miopi buonisti, antiquati cattocomunisti, neoperonisti seguaci del papa argentino, pericolosi esponenti di un francescanesimo militante, ecc. Gente che immagina di risolvere tutto a colpi di slogan, senza fare i conti con la “dura realtà”, quella della linea del fronte, degli eserciti che si combattono, dei metri guadagnati o persi. Il loro grande rimosso sarebbe la dura, inaggirabile realtà della guerra. Senonché le cose stanno esattamente all’opposto. Le fiamme, i proiettili, le schegge di bombe, le sventagliate di mitra non hanno risolto nessun problema, né nelle pianure ucraine né nelle tendopoli desolate di Gaza. L’unico risultato è stato un numero spropositato di corpi umani immolati sull’altare del vetusto rito della guerra e del nuovo profitto tratto dalle armi. Non uno scontro di civiltà, bensì un incontro di interessi. Questo non ha nulla a che vedere con la politica il cui scopo, oggi più che mai, è quello di preservare le vite. Che cosa dovrebbe venire prima? La posizione dei pacifisti è dunque quella di chi ragiona, argomenta, analizza e considera le vie concrete e percorribili che può aprire una politica assennata, cauta, lungimirante. Abbiamo ancora sempre nelle orecchie quella propaganda gridata, gli insulti e gli attacchi personali che coprono ogni serio confronto. I pacifisti non si arrendono all’invio di armi, né credono alla favola (questa sì, favola) della guerra asettica e intelligente, condotta da qualche parte, magari in un cielo lontano, da dispositivi neutri e neutrali. La guerra è sempre sporca e sempre stupida. Soprattutto: non riguarda un cosmo lontano. Miete vittime continuamente e si avvicina a noi. Perciò vogliamo parlare di prospettive e avere da coloro che si candidano per il Parlamento europeo risposte precise. Come immaginano nel futuro prossimo il rapporto con la Russia? Lavoreranno per ristabilire i contatti venuti meno oppure ritengono che quella crepa, anzi quella cesura in territorio europeo, che passa per il Donbass, sia definitiva? E sarebbe anche opportuno che i vari candidati ci parlassero dei modi per salvare ciò che resta dell’Ucraina, per ricostruirla. Ci sarà – speriamo – un dopo-Zelensky. E allora si pone necessariamente anche il problema dell’Europa. Mai se ne è parlato così poco. Segno del terribile degrado, culturale e politico. Ma sintomo anche di un grande disorientamento che investe anche una Unione europea che sembra disgregarsi e perdere definitivamente i propri obiettivi sotto i colpi della guerra e dell’avanzata ovunque della destra estrema. E vogliamo anche sapere da candidati e partiti come intendono rilanciare il ruolo, delicatissimo e indispensabile, dell’Europa in Medio Oriente. Che ne sarà dei sopravvissuti alla carneficina di Gaza? Ci sarà una sorta di protettorato arabo, saudita? Come vedono il futuro del popolo palestinese? E come si può sostenere quella parte, per quanto piccola, della società israeliana che si è opposta a Netanyahu? Questi sono i temi di una politica della pace che vengono intenzionalmente aggirati da chi vuole continuare a far parlare solo di armi e a lasciare la parola solo alle armi.

Ieri, 8 maggio 2024, è morta a ottantasette anni Giovanna Marini. Compositrice, cantante, etnomusicologa e ricercatrice sul campo, autrice di ballate, ha “salvato” e fatto conoscere un enorme patrimonio di brani di musica di tradizione orale del nostro paese. Per me è stata importantissima. Dai dodici-tredici anni ho cominciato a conoscere le sue opere, presenti in casa nella collezione de “I dischi del sole” di mio padre. Era una delle poche donne in quell’ambito che non si limitasse a raccogliere e interpretare le canzoni popolari ma producesse anche testi, e dunque parola propria: le sue famose ballate. Ancora oggi in parte vedo la società statunitense con gli occhi del suo Vi parlo dell’America, un 33 giri di due facciate sul suo soggiorno a Boston nel 1965/66. Per me era importante dare credito a un pensiero e una voce di donna come la sua, anche se lei non sottolineava il suo sesso né si dichiarava femminista.

Non era femminista, ma ha tracciato un filo di genealogia femminile riconoscendo il suo debito con Giovanna Daffini, ex-mondina che le insegnò il modo di usare la voce nel canto tradizionale e le trasmise il suo patrimonio di canzoni.

Non era femminista, ma ha saputo affondare il suo sguardo lucido, intelligente e spietato nel groviglio complesso del materno e delle relazioni tra madre e figlia, e qui voglio ricordarla proprio con la sua opera La creatora (ovvero in nome della madre) del 1972. È una ballata che mette in scena una creazione traposta al femminile e gli effetti deleteri del rifiuto della figlia di riconoscere il debito con la madre, della sua incapacità di agire il conflitto, della sua sterile negazione. Da ragazzina l’avevo interpretato come un atto d’accusa alla tirannia delle madri, aiutata in questa lettura di comodo dal fatto che Giovanna Marini non faceva sconti a nessuna delle sue due protagoniste, finché non lessi un’intervista in cui lei stessa spiegava, spiazzandomi, di essere «ovviamente» dalla parte della madre… Chissà che la mia attuale idea di femminismo non la debba anche un po’ a questa sua lezione imprevista.

Da Quotidiano Nazionale – Roma, 8 maggio 2024 – La voce di Giovanna Marini. Una voce che veniva da lontano. Dalla storia del nostro Paese, dai canti popolari, dalle canzoni contadine e da quelle di lotta. Ma anche la sua modernità, la sua ironia, la sua intelligenza: la sua compostezza. Giovanna Marini, scomparsa oggi a ottantasette anni, è stata tutto questo. La voce più limpida della canzone d’autore, di quella d’impegno politico. Una luce, all’origine della lunga e meravigliosa storia della canzone d’autore italiana.

C’è un disco, che Giovanna Marini nel 2002 ha inciso insieme a Francesco De Gregori. Si chiama Il fischio del vapore. Insieme, i due raccolgono e reinterpretano classici della musica popolare italiana. Ed è un disco che profuma di amicizia, di complicità: si sente che è il frutto di un lungo dialogo, di un rispetto reciproco, di un affetto. E di una appartenenza a una storia comune.

Nata a Roma il 19 gennaio 1937, figlia del compositore Giovanni Salviucci, allieva del leggendario chitarrista classico Andrés Segovia, Giovanna Marini è stata una delle prime, e delle più importanti cantastorie del panorama musicale italiano. Ben prima che i cantautori diventassero moda, ventata di novità, prodotto da vendere. All’inizio degli anni ’60 lei frequentava intellettuali e scrittori, da Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino; conosceva l’esperienza di Cantacronache e incontrava i primi grandi protagonisti della canzone sociale e politica italiana: personaggi comeIvan Della Mea o come Paolo Pietrangeli, l’autore di Contessa, che diventerà canzone simbolo del ’68 italiano. Ma già prima, Giovanna Marini partecipava al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel 1966 a Ci ragiono e canto di Dario Fo. E intanto imparava: da una mondina, Giovanna Daffini, imparava le canzoni delle lavoratricidei campi di riso, dal poeta sardo Peppino Marotto l’arte del racconto popolare. La canzone come vocazione, come voce degli ultimi, come strumento di denuncia sociale.

Negli anni ’70, Giovanna Marini fondò la prima scuola popolare di musica in Italia, al Testaccio. La chiamavano “la Joan Baez italiana”. Ha avuto, della Baez, la stessa forza, lo stesso coraggio di affrontare il mondo con una voce e una chitarra soltanto. Ha raccontato con le sue canzoni le lotte contadine e l’autunno caldo nelle fabbriche italiane, l’Italia degli anni di piombo e della strategia della tensione, del terrorismo. E lo ha fatto dalla prospettiva dei perdenti, di coloro che subiscono la storia.Ha raccontato l’omicidio di Pasolini, l’amico poeta massacrato all’Idroscalo di Ostia, e la vicenda di Ulrike Meinhof, la donna “suicidata” in prigione dai suoi carcerieri. Ha raccontato la tragedia mineraria di Marcinelle, leFosse Ardeatine, la strage di Ustica. Lo ha fatto con l’approccio quasi di una giornalista, di una cronista che racconta con partecipazione, mai con distacco. E lo ha fatto anche da un punto di vista colto: per dieci anni, ha insegnato etnomusicologia all’Università Paris VIII.

Una donna grandissima la cui arte è un viaggio, un’avventura dentro la voce, dentro la Storia, dentro l’emozione. Una donna che di sé diceva: «Faccio la musica con la mia testa, con le mie mani, come i biscotti della nonna».

Da la Repubblica – Si fa presto a dire natalità. In Italia una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre e il 72,8% delle convalide delle dimissioni dei neogenitori riguarda le donne.

Anche per questo è ancora in calo il numero medio di figli per donna che partoriscono sempre più tardi rispetto alla media europea, a 32 anni e mezzo. E il 2023 ha registrato un nuovo minimo storico delle nascite in Italia, ferme sotto i 400mila bambini, con un calo del 3,6% rispetto all’anno precedente. Le donne scelgono di non avere figli o ne hanno meno. E la contrazione della natalità che accompagna l’Italia da decenni ormai coinvolge anche la componente straniera della popolazione.

Se il rinvio della maternità e la bassa fecondità sono frutto di numerose concause, i dati rivelano che più aumenta la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, più aumenta il tasso di fecondità. Un elemento da tenere in debita considerazione, in un mercato del lavoro che sconta ancora un gap di genere fortissimo.

Poche occupate, ancor meno se con figli

Dai dati del Rapporto di Save the Children, emerge che in Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello EU27 (9,4 punti percentuali).

Per le donne, il tema del bilanciamento tra lavoro e famiglia rimane critico per chi nella propria famiglia svolge un lavoro di cura non retribuito. Una spia delle difficoltà che le madri affrontano nel conciliare impegni familiari e lavorativi è rappresentata dal numero di donne occupate di età compresa tra i 25 e i 54 anni: a fronte di un tasso di occupazione femminile del 63,8%, le donne senza figli che lavorano raggiungono il 68,7%, mentre solo poco più della metà di quelle con due o più figli minori ha un impiego (57,8%). Al contrario, per gli uomini della stessa età, il tasso di occupazione totale è dell’83,7%, con una variazione che va dal 77,3% per coloro senza figli, fino al 91,3% per chi ha un figlio minore e al 91,6% per chi ne ha due o più.

Marcate sono pure le disparità territoriali, a danno delle regioni del Sud d’Italia dove per le donne, l’occupazione si ferma al 48,9% per coloro senza figli (sono il 79,8% al nord e 74,4% al centro) e scende al 42% in presenza di figli minori arrivando al 40% per le donne con due o più figli minori (al nord sono il 73,2% e al centro 68,3%).

Dimissioni volontarie: opportunità per gli uomini, sacrificio per le donne

Anche guardando ai dati delle dimissioni volontarie post genitorialità è evidente come la nascita di un figlio influisca sulla disparità di genere nel mondo del lavoro. A dimettersi sono principalmente le madri, al primo figlio ed entro il suo primo anno di vita. Nel corso del 2022, infatti, sono state effettuate complessivamente 61.391 convalide di dimissioni volontarie per genitori di figli in età 0-3 in tutto il territorio nazionale, in crescita del 17,1% rispetto all’anno precedente. Il 72,8% del totale (pari a 44.699) riguarda donne, mentre il 27,2% riguarda uomini (pari a 16.692), con una crescita maggiore di quelle femminili rispetto all’anno precedente. E se per gli uomini la motivazione predominante è di natura professionale, per le donne quella principale è la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del bambino/a: il 41,7% ha attribuito questa difficoltà alla mancanza di servizi di assistenza, mentre il 21,9% ha indicato problematiche legate all’organizzazione del lavoro. Complessivamente, le sfide legate alla cura rappresentano il 63,6% di tutte le motivazioni di convalida fornite dalle lavoratrici madri.

Il part-time è donna

Dai dati emerge inoltre che in Italia, mentre il lavoro a tempo pieno è più comune tra gli uomini rispetto alle donne, accade l’opposto per il lavoro part-time. Solo il 6,6% degli uomini che lavora, lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, che per la metà dei casi (15,4%) subisce un part-time involontario. Tra coloro che hanno figli, aumenta notevolmente la percentuale di donne impiegate a tempo parziale (36,7%) rispetto a quelle senza figli (23,5%). Tra gli uomini, invece, si passa dall’8,7% per chi non ha figli al 4,6% per i padri.

Le regioni mother friendly

In cima alla classifica delle regioni più mother friendly c’è ancora una volta la Provincia autonoma di Bolzano, seguita dall’Emilia-Romagna, mentre l’ultimo posto è della Basilicata, preceduta da Campania e Sicilia. La Toscana guadagna una posizione, conquistando il terzo posto. Tra le regioni che più sono migliorate rispetto all’anno precedente, il Lazio che passa dal tredicesimo all’ottavo posto guadagnando cinque posizioni e la Lombardia che dall’ottavo si attesta al quarto.

Da lepersoneeladignita.corriere.it – Per lui quella bambina non doveva nascere, quasi nove anni fa pregava la donna con cui aveva una relazione di non metterla al mondo, di non “condannarlo a morte”.

«Per una che dovesse andare avanti con la gravidanza anche se il maschio non vuole […] è una violenta […] perché penso, dio cristo, che l’aborto è una conquista per tutti, non solo per le donne» scriveva Armando (il nome è di fantasia) nel settembre del 2015.

Ma per lei abortire era «un gesto impensabile» e lui addirittura minacciava di uccidersi.

«Mi metto di fronte a te in ginocchio, supplicante. Non trafiggermi, non affondare la tua lama nel mio corpo. Non condannarmi a morte. Perché questo è quello che succederebbe, io ne morirei in un modo o nell’altro» scriveva a settembre del 2015.

E ancora:

«Dato che hai sequestrato il mio spermatozoo adesso è tuo? Questa è una minaccia, una minaccia mafiosa» si legge in un messaggio datato agosto 2015.

La donna porta avanti la gravidanza da sola, la bambina nasce e l’uomo non la riconosce. Ma a un certo punto ricompare chiedendo il riconoscimento della bambina, tra cui la prova del Dna, ma soprattutto il cambiamento del nome di battesimo della minore nonché l’anteposizione del suo cognome a quello della madre e altre imposizioni sul regime educativo della minore stessa. Inizia così una vicenda giudiziaria senza fine.

Oggi quella bambina ha otto anni, la chiameremo Maria, e vive nella costante paura di essere portata via alla sua mamma. Si rifiuta in modo categorico di incontrare il padre che ha fatto richiesta di riconoscimento tardivo e ora si batte nei tribunali per averla con sé. Nessun giudice ha mai voluto ascoltare questa bambina, che oggi ha otto anni, nonostante la Corte di Cassazione si sia espressa più volte in tal senso. In una relazione datata 23 luglio 2019 le maestre dell’asilo parlano di «una bambina molto intelligente, affettuosa e partecipe» che, però, regrediva ogni volta che doveva essere consegnata al padre.

«La bambina conosce la scansione del tempo, cosa piuttosto inusuale per la sua giovanissima età, e riconosce ordinatamente anche i giorni della settimana. Questo le permette di distinguere le giornate dedicate alla madre e quelle nelle quali il ritiro era previsto da parte del padre. In particolare, durante queste ultime, il suo stato d’animo notevolmente agitato durante tutta la mattinata, assumeva atteggiamenti di chiusura e auto-protezione. In particolare queste giornate erano caratterizzate da pianti inconsolabili con la continua richiesta di chiamare la madre, supplicandoci che con il padre non voleva andare» scrivono le educatrici.

Qualche settimana fa l’atto esecutivo emesso dal tribunale di Venezia, senza che sia stata svolta alcuna istruttoria, in cui la piccola viene affidata di giorno ai servizi sociali per poi tornare dalla madre di sera.

«Io sono entrata in tribunale pensando di avere tutte le ragioni e di essere tutelata, non mi sarei mai immaginata una cosa del genere, quando mia figlia aveva diciotto mesi il Ctu [consulente tecnico d’ufficio, Ndr] ha stabilito che la bambina era affetta da conflitto di lealtà e che io le inviavo messaggi subliminali» dice oggi la donna, il cui caso è stato uno di quelli presi ad esempio dalla Commissione Femminicidio come esempio di vittimizzazione secondaria.

Ora la donna ha impugnato in appello il provvedimento chiedendo intanto la sospensione. Il caso coinvolge anche il Parlamento. La senatrice Valeria Valente, che nella scorsa legislatura ha presieduto la Commissione Femminicidio, ha richiesto gli atti al tribunale per verificare come sia possibile che un meccanismo infernale del genere possa andare avanti in totale spregio delle sentenze della Cassazione. E così nel frattempo è stato investito anche il ministro Carlo Nordio.

«Ci sembra che qualcosa non quadri in ottica della riforma Cartabia. Proporremo alla commissione femminicidio di acquisire gli atti per vederci chiaro» ha detto Valente alla Dire.

Sulla vicenda è intervenuta anche la capogruppo di Alleanza verdi e sinistra alla Camera, Luana Zanella: «È un caso doloroso a cui va trovata assolutamente una soluzione, la Commissione Femminicidio se ne occupi. – ha spiegato – Conosco da tempo la donna, le sue ragioni sono molto forti, la commissione parlamentare deve riprendere in mano il suo dossier, studiarlo, verificare le criticità della riforma Cartabia e il perché il Tribunale di Venezia non abbia applicato la Convenzione di Istanbul».

Intervento introduttivo all’incontro alla Casa della Cultura, Milano 14 aprile 2024, Parole e oltre. A partire dall’appello Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace. Video: https://youtu.be/BCb5c5XnhnE

Questo appello è nato non per caso ma da relazioni profonde.

Di fronte alle atrocità del 7 ottobre e alla successiva spaventosa reazione dell’esercito israeliano, ci siamo ritrovate tra amiche – all’inizio eravamo solo donne – per confrontarci sul sentimento di disperazione, di spaesamento, d’impotenza di fronte a ciò che stava accadendo. È stata una di noi, Joan Haim, che ha sentito fortemente la necessità di fare qualcosa di concreto, di costituirci non come un gruppo (non volevamo fare l’ennesimo gruppo) ma con una dichiarazione: Mai indifferenti.

Ognuna di noi ha cercato con uno sforzo di verità di esplorare e di dire i propri sentimenti, anche quelli più contradditori, fino ad arrivare alla stesura di un testo che è poi diventato l’appello dove abbiamo cercato di registrarli e di tradurli in politica. Volevamo spezzare la voce univoca delle istituzioni ebraiche che ci turbava, evitare la politica degli schieramenti “o sei con me o sei contro di me”, contro l’uso strumentale e distorto di parole gonfie di sangue e di lacrime quali antisemitismo, genocidio, sionismo, disumanizzazione dell’altro, senza la necessaria conoscenza della storia. E questo uso viene fatto strumentalmente dal governo di Israele, da parte di molta stampa e un po’ ovunque nel mondo, aggravando il conflitto, alimentando solo odio e facendolo apparire senza soluzione.

Vorrei qui citare una frase da un testo di Simone Weil, tratta da Non ricominciamo la guerra di Troia. Potere delle parole, scritto nel 1937: “Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.

Questo nostro impegno può contribuire a minare il clima di odio e di violenza che ci circonda. Insieme a tante altre persone e gruppi che già ci sono nel mondo vogliamo creare una rete che faccia sentire la sua voce, anche in Israele dove c’è chi lotta contro l’occupazione, per la pace e per l’idea di convivere con uno stato palestinese. Infatti, un altro desiderio che scaturisce da questo impegno è dare sostegno e visibilità a coloro che in Israele vogliono il rilascio degli ostaggi, il cessate il fuoco, la nascita dello Stato di Palestina, una pace giusta. C’è Haaretz, quotidiano di opposizione di grande qualità che non ha paura di affrontare i temi più controversi e scottanti, ci sono associazioni quali Standing together, Parents circle, Women wage peace, e molti altri, donne e uomini coraggiosi, arabi e israeliani, che operano in vari modi, manifestando, mettendo in atto un’altra politica fatta da persone che vedono e si riconoscono nel dolore dell’altro anche andando contro istintivi sentimenti di rabbia. Dobbiamo far conoscere la loro esistenza. Sono solo una minoranza, è vero, può sembrare utopico nella terribile congiuntura attuale ma sono punti di partenza per ricominciare.

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Da una infanzia ucraina. Una galleria di scatti presi da librerie, archivi privati, artisti contemporanei, bancarelle, commentate da pagine narrative, che compongono un cifrario dell’oggi: “La foto mi guardava”, Adelphi

Da Alias – il manifesto – Costruito come corredo di didascalie narrative a una galleria di cinquantasette immagini fotografiche della più disparata provenienza, il libro di Katja Petrowskaja La foto mi guardava (traduzione di Ada Vigliani, Adelphi, pp. 259, € 24,00) sprigiona una forza che attinge in eguale misura al dominio della parola e a quello dell’immagine: l’una rinvigorisce e feconda l’altra, la colora di senso e magia. Per realizzare il suo lavoro – che raduna brani nati tra il 2015 e il 2021 come singoli pezzi giornalistici, ognuno dotato di un titolo carico di significato – l’autrice compulsa volumi fotografici e archivi privati, visita gallerie di artisti contemporanei, setaccia librerie antiquarie e bancarelle.

Attenta al punctum di Roland Barthes come alla sezione aurea, insegue la logica che vige nello spazio di ogni foto, la sua capacità di farsi “esperienza”, di essere vissuta con un alto grado di interattività (in “Babuška in cielo” la figura di anziana vestita di tutto punto, stile primi anni ’70 sovietici, e librata a mezz’aria su una seggiovia che si inerpica su una qualche vetta, innesca un intenso scambio di visione tra chi è ritratto e chi vede la foto).

Petrowskaja seleziona scatti evidentemente fortuiti, di un minimalismo disarmante, o immagini cesellate «fino a che non resti altro che l’anima distillata». Se «ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio», in alcuni casi «ciò che accade all’improvviso plasma il tempo», come nell’inquadratura di Vanessa Winship commentata nel pezzo titolato “Sul Mar Nero”, in cui conta ciò che resta fuori dal campo visivo, ciò che è immaginato come “in procinto” di entrare in scena.

L’intento dichiarato è quello di cogliere il rapporto trasognato che si instaura tra luce e oscurità, umanità e paesaggio, movimento e immobilità: tutte le «transizioni tra natura e cultura», insomma. Non senza interrogarsi sullo statuto di verità reclamato da una foto, per rilevare eventuali distorsioni tra realtà e imposture: è il caso di “Curva radiosa” – con la simulazione di normalità inscenata dal governo sovietico alla Corsa per la Pace partita in bicicletta da Kiev nel maggio 1986, mentre le onde radioattive di Černobyl’ colpivano alla stregua di un nemico invisibile;  o di “Paese calpestato”, in cui l’Ucraina del ’42 è fotografata da un soldato tedesco come se le tracce della guerra fossero parte del ciclo delle stagioni.

Nelle pagine di questo volume Petrowskaja rincorre temi e luoghi prediletti, capi di una trama narrativa già dipanata diffusamente in Forse Esther, itinerario romanzesco e documentario al tempo stesso nei meandri della propria genealogia: le peculiarità del mondo ebraico e i diritti delle donne, il destino storico dell’Ucraina e le vicissitudini di Praga o Berlino, i relitti dell’utopia sovietica andata in pezzi (nel brano “Restricted Areas” il sogno della felicità futura viene fatto indietreggiare fino a toccare il più remoto passato, quello dell’era glaciale). Ma anche «lo scollamento tra vita reale e American Dream», e perfino l’incontro tra quei due blocchi al tempo della guerra fredda – come in “Samantha dello spazio”, o “Disgelo”; o in “Eyes Wide Shut”, in cui viene richiamato il viaggio nell’Urss del 1947 di John Steinbeck e Robert Capa.

Il libro è saturo di rimandi culturali, al crocevia di molte arti, emozioni e saperi: ci imbattiamo nei nomi di Andrej Tarkovskij, David Lynch o Wim Wenders, ma anche nelle performance del giovane artista russo Pëtr Pavlenskij – assimilato ai martiri protocristiani per il suo uso del corpo come strumento di sfida allo stato. Su tutto dominano gli scrittori: Calvino e Lispector, Kafka e Šalamov, Kerouac e molti altri ancora, ad animare un personalissimo, decisamente accogliente pantheon letterario ideale.

E se la pittura, madre della fotografia, è costantemente sullo sfondo, alcuni tra i più classici prototipi artistici universali trovano nuova carne e veste in creature del più concreto oggi: ci viene così incontro una Venere di Botticelli in panni di migrante, avvolta nel velo dorato di profuga scampata al mare ed emblema di tutti i salvati; o una “Madonna dell’Alentejo “– la madre rom portoghese intenta ad allattare nel primo piano di una movimentata foto di gruppo che «mostra tutte le sfumature tra l’autenticità e la messinscena», «tra la street photo e il tableau vivant».

Mettendosi sulle tracce delle biografie di fotografi variamente noti, o accumulando congetture su quelli anonimi, Petrowskaja lascia emergere una manciata di tratti che si stagliano indelebili: il genio di Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; il volto ineffabile della regista e danzatrice Maya Deren (ripreso in copertina); le imprese documentaristiche di Josef Koudelka al tempo della Primavera di Praga. Su tutto si innesta la grana del ricordo, senza eccessive distinzioni tra reminiscenze dell’infanzia sovietica e memoria storica, déjà-vu più o meno veritieri, che rendono possibile abbracciare stratificazioni temporali multiple, o ricordi mancati che scattano nell’atto stesso del guardare e colmano vuoti o afasie indicibili. Oppure sogni altrui in cui veniamo catapultati.

Ne viene fuori un libro-caleidoscopio della modernità e dei suoi smarrimenti, taccuino di catastrofi immani e di singoli gesti coraggiosi, che è al contempo camera oscura della memoria personale di Petrowskaja e flip book del presente dell’umanità. Un cifrario dell’oggi che si srotola nella ricerca di verità e bellezza, vivificato da gioie minime di artista: quando l’autrice fotografa una nuvola insolita, si dichiara felice come se fosse stata lei a crearla.

Da Il Quotidiano del Sud – Identità di genere, maternità surrogata (Gpa), legalizzazione della prostituzione intesa come lavoro (sex-work), blocco della pubertà in bambine/i che si percepiscono di sesso diverso da quello di nascita, uso di un linguaggio “neutro” che per essere inclusivo esclude le donne, sono temi che in questi anni sono stati divisivi e scomodi. Divisivi tra le femministe e scomodi per quei partiti e organizzazioni della sinistra che li sostengono, li hanno fatti propri, e non hanno mai accettato un dialogo e un confronto con le femministe della differenza che pure, in varie occasioni, l’hanno cercato. Alcune di loro oggi ci riprovano con un libro dal titolo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, curato da Daniela Dioguardi, con l’introduzione di Francesca Izzo e edito da Castelvecchi. Le autrici, «unite dalla passione per la differenza e la libertà femminile» ribadiscono le ragioni, ragionate e argomentate, della loro contrarietà alla teoria dell’identità di genere che «elimina il dato di natura in base a cui si nasce di due sessi», alla Gpa che elimina la madre, la donna, al sex-work che sdogana la prostituzione definita da Rachel Moran “stupro a pagamento”. Questioni sostenute dal movimento Lgbt+, da Non Una di Meno e dal transfemminismo, che «inneggiano a una libertà individuale incondizionata», «senza vincoli nel disporre di sé sul mercato». Con il transfemminismo lo slogan «il corpo è mio e lo gestisco io» è diventato «il corpo è mio e lo vendo io», ultima «frontiera del neoliberismo». Non è un caso che nel movimento ci sia «una forte presenza maschile che rielabora il femminismo». Molti i racconti di esperienze, fatti, eventi, che testimoniano il clima di intolleranza, intimidazione e «prevaricazione ideologica» in Italia, in Europa, come nel mondo anglosassone, alimentato da chi sostiene quelle teorie. Un clima in cui chi osa «manifestare un pensiero diverso, esprimere una critica, un dissenso» viene insultato, accusato di “istigazione all’odio”, bollato come di destra, reazionario, omofobo, transfobico, perfino fascista. La narrazione corrente vuole che chi è a favore è di sinistra, progressista, difende la libertà e l’autodeterminazione. Le autrici raccontano di femministe cacciate «con urla e spintoni» da università, eventi, manifestazioni, censurate con impedimento a parlare. Un clima inaccettabile, nel silenzio assordante delle forze progressiste. Perché «le transfemministe condannano la violenza domestica e applaudono la violenza a pagamento nella prostituzione e nella Gpa?», «credono davvero che prostituirsi o portare figli che non si desiderano siano forme di libertà?». «Perché per porre fine alle discriminazioni e dare diritti a transgender, queer, gay, si deve cancellare la differenza sessuale?». Perché la sinistra sostiene queste idee? Per convinzione, per paura di perdere consensi o per l’uso della «terminologia dell’inclusione e della lotta alle discriminazioni, cara al mondo progressista dei diritti»? Le autrici mettono in luce come “inclusione”, “parità”, “diritti ugualitari” si stanno ritorcendo contro le donne. Nei tribunali se una madre tenta di opporsi all’“affido condiviso” con l’ex violento, la minaccia è l’allontanamento delle/i figlie/i. Associazioni storiche di donne come Udi e ArciLesbica vengono escluse dai finanziamenti pubblici perché non hanno “soci”, sono vietate le società quotate in borsa di sole donne come le liste di sole donne nelle elezioni politiche e il ministro Valditara introduce la “quota blu” nel concorso per dirigenti scolastici. Basta rivendicare nuove leggi paritarie, va fatto “vuoto legislativo” e quelle che danneggiano le donne vanno cancellate. La sinistra e le forze progressiste accetteranno di dialogare con le femministe della differenza?

Da Una Città – Cristina Gramolini, insegnante di Storia e Filosofia, ha fatto coming out nel 1989 e l’anno seguente è diventata attivista del movimento lesbico. È stata tra le promotrici delle tre “Settimane Lesbiche Italiane” nel 1991, 1996 e 1998. Nel 1996 ha partecipato alla fondazione dell’associazione nazionale Arcilesbica e ne è stata la presidente dal 2002 al 2005, e di nuovo dal 2017 a oggi. Il libro di cui si parla nell’intervista è Noi, le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo (AA.VV.), Il dito e la luna, 2021.

Puoi raccontarci qual è stato il tuo tragitto?

Sono nata nel 1963 in una città di provincia e l’omosessualità è stata sempre la mia condizione. Ovviamente non l’ho subito accettata, mi ha anche un po’ spaventata quando ero adolescente. Prima di grandi innamoramenti o fantasie romantiche, comunque, non ero stata una ragazzina aderente al modello femminile. Poi sono arrivate le prime cotte e lì mi sono un po’ preoccupata, sinceramente. Nel senso che mi sono resa conto che avrei dovuto affrontare una difficoltà grande. Essendo stata sempre un po’ anticonformista, il fatto di essere diversa era qualcosa che potevo sopportare tranquillamente. Ma quella cosa lì, mi sono chiesta: la reggerò? Insomma, mi ha fatto paura. All’inizio ho pensato: chissà, magari è temporaneo, però mi succedeva sempre! A un certo punto me lo sono detta. In effetti, nel movimento noi dicevamo che prima di tutto il coming out bisogna farlo con se stesse. Questa riflessione però è venuta dopo. In quel momento ero sola. Quindi mi sono detta: vabbè, è così, cercherò di proteggermi. Perché mi sentivo molto minacciata.

Non so quanto fosse reale quella percezione, o quanto ingigantita. Avevo paura di cosa potesse succedere in casa, mi sembrava una cosa che non sarebbe mai stata dicibile. Sto parlando dell’inizio degli anni Ottanta. Era una cosa troppo mia, non sapevo con chi affrontarla. Quindi ho deciso che l’avrei vissuta con molta discrezione. Però non ho mai fatto finta di essere altro. All’epoca ero anche un’attivista nel movimento degli studenti. Mi è sempre interessato fare un po’ di agitazione. È stato così che ho incontrato il movimento delle lesbiche, che a quel tempo era separatista. È accaduto in modo casuale: sul foglio del “Paese delle Donne” c’era un invito a una vacanza lesbica del Cli, il Collegamento delle lesbiche italiane. Così io e la mia compagna ci siamo andate. Per me era una cosa completamente inaspettata, perché quelle donne non erano facili da trovare. Io leggevo i giornali dei movimenti, della sinistra, andavo alle manifestazioni, ma non le incontravo mai! Ecco, in quella vacanza ho visto che loro esistevano e ho subito capito che mi interessava quello che facevano: in sostanza mettevano in atto forme di visibilità prudente, comunque coraggiosa, ma un po’ protetta. A quel punto ho pensato: beh, questo lo posso reggere. Rimaneva il fatto che conducevo una doppia vita: quando andavo a quei convegni, a quegli appuntamenti, ero dichiarata, però mi guardavo sempre un po’ le spalle rispetto al controllo delle informazioni su di me nella vita di tutti i giorni.

Nel frattempo ero diventata un’insegnante, mia madre mi diceva: «Se lo scoprono, cosa ti succederà?».

Ai tuoi genitori quando l’hai detto?

A un certo punto gliel’ho detto, purtroppo in un momento di rabbia. Comunque ero già grande, avevo ventisette anni.

Loro lo sapevano, secondo te?

Facevano finta di non saperlo, però non sono trasecolati. Non hanno detto: «Ah, certo, è la scoperta dell’acqua calda!», però non si sono neanche stupefatti. Purtroppo, come dicevo, è avvenuto in un contesto di rabbia, non è stata una cosa serena. Comunque dopo ho iniziato a ricevere questa raccomandazione costante di stare attenta. Insomma, non è stato motivo di gioia familiare, ma neanche chissà quale catastrofe, come fantasticavo prima.

Nel 1994 il Parlamento europeo ha fatto una risoluzione che sollecitava gli Stati membri, quindi anche l’Italia, a promulgare delle leggi per equiparare la posizione dei cittadini omosessuali. Era una notizia da telegiornale in prima serata, che ha provocato una grande discussione, un grande turbamento anche sui giornali, finalmente.

Questo avvenimento ha fatto decollare il movimento gay, nel senso che sono cominciati i pride, quelli con i cortei. Prima c’erano, ma erano celebrazioni che avvenivano in circuiti di cui sapevi solo se facevi parte del giro. A Milano si era fatto qualcosa già nel ’92, avevano inscenato dei matrimoni in piazza della Scala, officiati da Paolo Hutter che era consigliere comunale. Però normalmente non facevano notizia nazionale. Invece quel provvedimento dell’Ue ha proprio dato una spinta, non tanto alle lesbiche femministe ma all’associazionismo gay, per uscire fuori, proprio in mezzo alla strada. Ecco, ricordo di aver provato un’attrazione fortissima per una visibilità piena: sentivo che era quello che desideravo. Non volevo più vivere nell’ansia della doppia vita: basta!

Mi sono quindi allontanata dal movimento delle lesbiche femministe perché mi sono come ubriacata della piazza, del corteo, del coming out, dell’andare ai convegni presentandomi per quello che ero. Devo dire che non sono tanto coraggiosa, però, pur continuando ad aver paura, sentivo il forte bisogno di vivere una vita fuori dalla clandestinità. In questo senso dico sempre che ho un debito con tante realtà e tante persone e certamente con il movimento gay. La spinta alla visibilità l’ho presa da lì.

Dopodiché è venuto il momento in cui l’ho detto a scuola. Certo, tutte le volte con timore, perché non sai mai… Nel corso di una discussione sui provvedimenti dell’Unione europea mi è stato chiesto come la vedessi e ho risposto: «Penso questo e questo, perché mi riguarda». Mi sarebbe sembrato ambiguo e ipocrita non espormi. Poi, ripeto, non ne potevo più e quindi l’ho detto. Però se prima avevo avuto paura in famiglia, dopo ho avuto paura a scuola. Ho pensato: «Mi chiameranno? Ci sarà qualche famiglia che…». Perché non era come adesso. Comunque non è mai successo niente. I colleghi? Per lungo tempo, ma in fondo anche adesso, fanno finta di niente, perché non sanno come trattare la materia. È capitato che facessero delle domande sulla mia situazione familiare perché non sapevano e dopo erano pentiti di avere chiesto.

Devo dire che mi considero fortunata. Non a tutte è andata bene. Se penso al mio percorso, so di aver avuto tanta paura, ma poi non mi è mai capitato di essere veramente in pericolo. Altre persone, donne e uomini, hanno dovuto affrontare delle ostilità. Nel mio caso, una volta che l’hanno saputo tutti, giovani e vecchi, parenti vicini e lontani, è passata anche la paura. Chi non c’è passato non lo capisce: è come se qualcuno potesse minacciarti, scoprirti o colpevolizzarti in qualunque momento. È stata una brutta vita. È durata fino a ventisette, ventott’anni e poi per fortuna è finita!

Da allora raccomando il coming out a tutti. È meglio affrontare il problema invece che vivere con questo fantasma. Va anche detto che rispetto ai miei racconti antidiluviani nel frattempo è cambiato tutto.

Nel libro Noi, le lesbiche, ripercorrendo il vostro percorso, individuate una data cruciale, quella delle unioni civili, dopo la quale alcuni nodi cominciano a venire al pettine…

Chiaramente dentro la comunità Lgbt c’era già chi voleva metter su famiglia con i figli, chi andava a fare l’inseminazione artificiale, oppure c’era chi voleva fare la transizione e chi l’aveva fatta. C’è sempre stata tutta una gamma di tematiche. Tuttavia per molto tempo la questione di punta era il riconoscimento delle coppie, quindi le altre cose rimanevano un po’ in secondo piano.

Anch’io, rispetto a cose sulle quali avevo dei dubbi, non stavo lì a dire: «Su questo vorrei dei chiarimenti», perché – appunto – la battaglia era concentrata su un altro obiettivo. Quello che è uscito fuori dopo le unioni civili, quindi, non è piovuto dal cielo. Semplicemente, una volta raggiunto quel traguardo venivano avanti le altre questioni. Solo che non c’è stato il tempo di discuterne; è stato dato tutto per scontato, invece c’erano cose su cui non c’era accordo. E poi, di punto in bianco, è cambiato il clima. Anche prima delle unioni civili c’erano state delle divergenze all’interno del movimento, ad esempio tra chi voleva il matrimonio, chi l’unione civile e chi non voleva niente perché era omologante. C’era addirittura un’associazione gay di destra, berlusconiana. Poi c’erano gli omosessuali credenti… insomma, c’era un panorama frastagliato, però si conviveva, nessuno è stato mai cacciato, stigmatizzato o allontanato con infamia, ostracizzato perché portatore di istanze particolari. E ti assicuro che ce n’erano di tutti i gusti…

Invece sulla questione di come avere figli e di come determinare la propria identità di genere è subentrata improvvisamente l’intransigenza. E io, che nel 2016 avevo già una certa età e che nel movimento avevo passato tutta la mia vita adulta, nel giro di un anno mi sono ritrovata delegittimata e infine estromessa.

Pensavo che davanti a disaccordi avrebbero potuto mandarci a quel paese, ma non essere addirittura cacciate.

Puoi raccontare cos’è successo?

Noi avevamo già manifestato alle Famiglie Arcobaleno che dentro Arcilesbica c’erano delle forti perplessità, che a un certo punto avevamo messo nero su bianco. Le famiglie Arcobaleno sono nate con l’obiettivo di tutelare le coppie dello stesso sesso con figli avuti da precedenti matrimoni, o avuti altrimenti. In quella fase (2012) ero anche stata invitata a un loro appuntamento per discutere proprio di questo. In prima battuta il mio pensiero era: se la Gpa [gestazione per altri, Ndr] è una cosa fatta gratuitamente, va bene, perché se una donna lo fa senza ritorno economico vuol dire che ti vuole bene, e quindi chi sono io per dire: no, tu non devi? Siamo andate avanti per alcuni anni cercando di stare su questo crinale. Intanto però si era iniziato a parlare di rimborsi. Ricordo anche chi diceva: «Beh, se vengono da noi dei padri che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri all’estero, noi comunque li accogliamo».

Già nelle ultime manifestazioni a favore delle unioni civili c’era stata una polemica sulla stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner), perché Renzi l’aveva tolta dalla proposta di legge per evitare il riconoscimento automatico dei figli nati da Gpa all’estero, e questo aveva suscitato malumori.

Ecco, ricordo l’ultima manifestazione prima dell’approvazione della legge con tutti gli interventi sul palco che esplicitamente rivendicavano la gestazione per altri. Devo dire che la cosa mi aveva turbato per la leggerezza di certi approcci. La madrina della manifestazione, dal palco, si era detta disposta a farla lei la gestazione per altri.

Insomma, ero lì di sotto ed ero rimasta piuttosto imbarazzata. In Arcilesbica facciamo periodicamente dei congressi. In uno di questi la sociologa Daniela Danna ci ha messo in guardia su come anche la Gpa gratuita in realtà tale non fosse, producendo documenti sui rimborsi erogati alla “gestante per altri” per guadagni non conseguiti, e dimostrando che sono una forma di pagamento. A quel punto abbiamo detto: «No, allora niente». Cioè, bisogna pensare ad altre soluzioni. Lo abbiamo scritto, lo abbiamo dichiarato e lì sono cominciati i guai. Questo infatti non è stato accettato. Ci hanno accusato di avere una posizione omofobica. L’argomento era: «Voi accettate le madri lesbiche e non accettate i padri gay». Noi abbiamo risposto: «Scusate, ma la donna che va a fare l’inseminazione artificiale, certo, prende il seme dal donatore, ma il figlio lo fa lei! Non mette nessuno a fare lavoro riproduttivo». Un falso paradigma egualitario ha fatto sì che noi sembrassimo discriminatorie: per noi donne i figli sì, per voi uomini no. Ci hanno accusato di odiare gli uomini.

La produzione del seme per l’uomo e l’estrazione degli ovociti e poi la gravidanza e il parto per la donna sono due procedure radicalmente diverse.

Tra l’altro l’uso di due donne, della donatrice e della portatrice, è un modo per tutelarsi da un ripensamento, perché, attenzione, se l’ovocita è il mio, posso anche firmare un contratto, ma se ci ripenso, essendo il genitore genetico, non c’è contratto che tenga. Se invece la portatrice porta un ovocita non suo non c’è legame genetico. Io a un certo punto mi sono proprio scandalizzata: più apprendevo come avveniva realmente la pratica più la trovavo sbagliata. Non rispetta la salute e l’integrità della gestante, va solo a vantaggio dei committenti.

Nel 2015 c’è stato un appello da parte di un gruppo di femministe di Roma intitolato «Quale libertà» e io ho l’ho firmato a titolo personale. Pensare che un soggetto con reddito forte potesse ottenere un servizio riproduttivo retribuito o rimborsato, regolato da un contratto che monetizza i rischi per la salute, mi evocava sempre più una pratica coloniale. Per non parlare della questione dell’assistenza psicologica alla gestante, che alcuni contratti raccomandano, altri impongono. Una specie di affiancamento a garanzia che il tutto vada a buon fine, che si presta a varie riflessioni.

Devo dire che tutto questo non me lo aspettavo. Il nostro era un movimento libertario, critico della sessualità, critico della propaganda, demistificante… e all’improvviso ci ritrovavamo con il raccontino della famigliola felice. Mi è stato detto: se uno ha i soldi, e invece di comprare un appartamento preferisce portare a casa un neonato grazie a una donna disponibile, qual è il problema?

Ecco, noi siamo passati dall’essere un movimento di liberazione a questa cosa qui.

E poi c’è la questione del senso del limite. Voglio dire, qui non parliamo di persone sterili. Basterebbe “collaborare”, per così dire. Un tempo esisteva l’autoinseminazione. La casa editrice Il Dito e la Luna ha pubblicato un libello, in traduzione dall’inglese, che si intitola appunto Autoinseminazione, di Lisa Saffron. Grazie a questo libro, c’è della gente che ha fatto nascere dei bambini. Eravamo una comunità. In una comunità ci sono delle amicizie. L’amicizia non è un amore, ma è una relazione e quindi si faceva questa cosa, che non erano rapporti sessuali occasionali, era proprio l’autoinseminazione. La donna rimaneva incinta e il bambino aveva due genitori. Costo zero, senza manipolazione medica, né contratti. Qui a Milano conosco più di un caso di bambini nati così, che hanno avuto la possibilità di crescere stando un po’ con la madre lesbica e un po’ col padre gay. Per dire che non è vero che non ci siano altre strade. In fondo, se una donna vuole proprio dare un figlio a un amico, oggi lo può fare: esiste il parto anonimo; lui è il padre genetico e in quanto tale può assumere la responsabilità genitoriale. Mi dispiace dirlo, ma quando si parla di Gpa io vedo un racconto falso di solidarietà mentre si parla di commercio.

Ora sono troppo vecchia, ma ho considerato un percorso accettabile quello di mettere al mondo un bambino o una bambina con un amico, poi non l’ho fatto. Certo, non c’è niente di facile, perché puoi non andare d’accordo, però è una dimensione umana, di rapporto, di responsabilità. Si rischia in un rapporto d’amore, si rischia in un rapporto di amicizia, ma almeno non si compra.

Un discorso critico non riguarda solo gli uomini, perché anche le donne lesbiche, temendo che, specularmente, l’amico donatore potesse rifarsi avanti, hanno immaginato di avere una figliolanza senza un padre che potrebbe improvvisamente diventare un nemico. Poi hanno cominciato anche loro a concepire l’idea di un figlio di due donne. Allora, per carità, si sa che la relazione di cura non passa tramite il Dna, però se convivo con una donna e vogliamo fare questa esperienza, una delle due la fa nel corpo, l’altra la assume come piena responsabilità, però resta una differenza radicale tra le due.

Io non so che farci, ma non riesco a concepire un certificato che dice che qualcuno è nato da due persone dello stesso sesso. Nessuno nasce da due persone dello stesso sesso. Come fai a scriverlo? Una donna è madre, l’altra è madre adottiva. Ora invece si vuole il riconoscimento alla nascita. A me sembrerebbe più logica l’adozione: se il partner del padre vuole assumere la responsabilità genitoriale, sarà genitore adottivo.

Comunque sono tutte discussioni dove si può essere più moderati, o più utopisti, più conservatori, però mi sembrano riflessioni legittime. Invece è diventato tutto tabù: se solo dici che, secondo te, il secondo genitore deve adottare, sembra che tu voglia nuocere ai bambini.

Se dici che due madri e due padri rappresentano condizioni diverse, sei omofobica. Insomma, tutto questo ha creato dei dissapori immensi. Dopodiché è uscita fuori la questione dell’identità di genere e lì il conflitto è deflagrato.

Com’è avvenuta la spaccatura nel movimento?

Il conflitto è divampato dentro Arcilesbica, che è una rete di tanti circoli locali. Quando siamo andate a discutere di come riconfigurare la richiesta dei diritti ci siamo spaccate. Una parte era più allineata con la piattaforma pride; l’altra parte, dove mi sono collocata anch’io, era per mettere dei paletti. Questa discussione, che ci ha dilaniate, è stata seguita dall’esterno da tutto il movimento che faceva il tifo per la parte più affine. Alla fine ha prevalso, di misura, la parte che ha assunto delle posizioni, diciamo, femministe. Il movimento, che aveva scommesso sulla vittoria dell’altra parte, è ricorso a delle contromisure. Il nostro congresso si è tenuto a dicembre del 2017, a maggio del 2018 ci hanno mandato via dal Cassero, la sede Lgbt di Bologna.

Già prima del nostro congresso, mentre divampava la polemica interna, il circolo Mario Mieli di Roma aveva chiesto il nostro allontanamento dal pride. Abbiamo fatto piuttosto casino: ho chiamato il Comune, l’assessore alle pari opportunità di Bologna, ma non c’è stato niente da fare. Non hanno trovato neanche un’altra soluzione. Il Cassero è stato concesso all’inizio degli anni Ottanta e quindi c’è un rapporto consolidato, per cui l’amministrazione di sinistra ha creduto alla versione secondo la quale noi eravamo un piccolo gruppo ideologizzato. Sergio Lo Giudice ha dichiarato a La Repubblica che l’involuzione ideologica di Arcilesbica non era più compatibile con quella sede. Però quella sede era stata compatibile con i gay di destra quando c’era Berlusconi!

Quello che francamente mi ha ulteriormente infastidito è che hanno preteso di spiegare a noi che cos’è femminista, e cioè l’autodeterminazione della donna che vuole fare la Gpa per loro. Insomma, alla fine noi eravamo dipinte come bigotte che volevano impedire alle donne l’uso del loro corpo. Siamo finite su tutti i giornali di Bologna. È stata una cosa pesante da reggere per tutte le parti contendenti.

Quando i gay sono, per così dire, saliti in cattedra, diverse donne li hanno confermati. Anche perché non confermarli voleva dire doversene andare, e molte non se la sono sentita. Io però non ce l’ho fatta a far finta di non capire quello che stavano dicendo. Per la mia storia politica e per l’idea che ho della libertà ho dovuto andarmene. Pensa che una mia amica, Lucia, che non ha mai voluto firmare nulla per discrezione, che diceva sempre: «Firmiamo come associazione», beh, da quando c’è questa polemica vuole firmare tutto con nome e cognome, perché dice: «Voglio che un domani si sappia da che parte stavo».

Capisci? Questo movimento per un sacco di anni si è presentato come di sinistra, perfino di estrema sinistra, anticapitalista, femminista e poi guarda adesso…

È venuta al pettine anche una gerarchia tra gay e lesbiche. Un capitolo del vostro libro è emblematicamente intitolato: “Le lesbiche non sono le mogli dei gay”.

Ci sono delle partecipazioni femminili alle imprese maschili, miste, che sono partecipazioni collaborative. Accade anche nei partiti, cioè le donne danno una mano, magari sono anche brave, più brave, ma fanno quella cosa lì. Noi, da che siamo nate ci siamo chiamate “Arcilesbica” perché ci consideravamo portatrici di una alterità rispetto ai gay, e anche di una indisponibilità. Cioè non eravamo sempre pronte a seguire: ci riservavamo di sostenere o meno le iniziative di volta in volta.

Ci sono donne che sono rimaste nell’Arcigay perché a loro non piaceva la separazione delle donne. Quelle più femministe volevano invece un’organizzazione propria. Finché siamo andati d’accordo o in presenza di pochi dissidi, ha funzionato, quando è scoppiato lo scontro tra i fratelli e le sorelle, alcune donne hanno scelto i fratelli. Quindi, anche se abbiamo vinto il nostro congresso, siamo rimaste solo noi, perché quelle che lo hanno perso sono andate via.

Oggi le piazze sono piene di donne. Ci sono anche molte giovani lesbiche che ci disprezzano perché ci credono discriminatorie. Il fatto è che in questo frangente la differenza tra gli interessi maschili e quelli femminili è venuta fuori, per chi l’ha voluta vedere.

Anche nelle ultime vicende sulla trascrizione dei certificati di nascita dei figli è riemersa l’idea che non sia rilevante la differenza tra i sessi, che le coppie dello stesso sesso, a prescindere da quale, sarebbero equivalenti nella genitorialità e quindi debbano avere pari diritti. Ma il paradigma egualitario nell’attività generativa, riproduttiva, nella funzione materna o paterna, non funziona. Non a caso nella Gpa la gestante non deve allattare, per evitare che si rafforzi l’attaccamento che già esiste tra il neonato e la donna che l’ha partorito. In nome di un’uguaglianza intesa come livellamento, non si vuole distinguere tra ruoli differenti di madre e padre. Molte giovani lesbiche pensano che noi siamo discriminatorie perché diciamo questo.

Oggi il movimento si definisce transfemminista…

È un termine ombrello, ci stanno dentro anche gli etero. Per me è un discorso che viene dai centri sociali. Transfemminismo ha questo prefisso, “trans”, che non vuol dire transessuale, bensì che travalica le norme di genere. Chiunque travalica quelle norme è già trans, capisci?

Hanno creato questa cornice in modo da avere dei movimenti di ribellione in grado di accogliere il numero più alto di persone. Io ci vedo anche la volontà di ricomposizione di un blocco antagonista. L’altra caratteristica tipica dei centri sociali è l’idealizzazione della marginalità in chiave antisistema. Infatti alle transfemministe non interessa tanto la coppietta coi bambini, interessa di più la sex worker o la trans perché quella è una figura antisistema. Nell’orizzonte psicologico e politico degli antagonisti si deve sempre tirar fuori qualcosa di eversivo, e quindi hanno creato queste icone. Poco gliene importa se la realtà fuori dall’icona è lo sfruttamento della prostituzione. Loro dicono: «sex work is work» [‘il lavoro sessuale è lavoro’]. A me sembra che vogliano più che altro scioccare i benpensanti.

Sono piuttosto delusa da questo ambiente, che pure è stata la mia parte politica. Io sono sempre stata di sinistra. I centri sociali non erano il luogo del mio impegno, ma facevano parte della grande famiglia, e adesso mettono in atto delle pratiche che non mi piacciono affatto.

Sono cresciuta pensando che la sinistra fosse il luogo del pensiero illuminato, adesso ci ritroviamo che non si può né pensare né parlare. La sinistra moderata ha abdicato a tutte le cose socialiste, quindi, ripeto, sono piuttosto delusa, però questo non mi ha in nessun momento portato a guardare a destra o alla Chiesa. Sono una donna di sinistra senza rappresentanza, senza un luogo. È stato anche per questo che con altre, per non essere messe in un angolo, tacitate, abbiamo iniziato a cercare compagne e compagni di strada che, in base a principi progressisti, di sinistra, libertari, rifiutassero certi propositi che per noi sono falsi diritti. Rimaniamo una minoranza, pure abbastanza negletta, però ora una rete c’è. Va anche detto che quelli che invece prima erano marginali, nel frattempo sono diventati mainstream e tengono in pugno anche le forze politiche progressiste. Il pensiero critico oggi è minoritario. Io non ho paura di essere minoranza, sono rammaricata per il fatto che le donne che osano sollevare critiche oggi sono censurate in tutti gli ambienti Lgbt. Anche uomini importanti per il movimento sono stati sacrificati e messi da parte per le loro posizioni. A volte sento che potremmo in qualche modo essere in pericolo; voglio dire, se ci presentassimo in certi luoghi, beh, non so come andrebbe a finire. Esiste un video di una recente manifestazione a Bologna dove c’è una performance con degli attori mascherati che srotolano dei sacchi neri dove ci sono delle facce; c’è un secchio di vernice viola, loro ci mettono i piedi dentro e poi calpestano le facce dei “potenti del mondo”. Ebbene c’è la faccia di Erdoğan, di Salvini, di Meloni… e c’è pure la mia! Capisci cosa voglio dire? C’è un livello di tensione che può diventare pericolosa.

Come ti spieghi questa violenza, queste pratiche cosiddette di “deplatforming” con cui si mettono delle persone al bando, le si zittisce?

Purtroppo sono pratiche che vengono dall’estrema sinistra. I fascisti non devono parlare, punto. «Fuori i fascisti dall’università»: quante volte l’abbiamo detto? Il problema è che se tutti quelli che non la pensano come te diventano fascisti… Questa modalità è farina del nostro sacco, nostro in quanto sinistra. Sicuramente non è farina del sacco Lgbt, perché soprattutto i gay hanno sempre usato l’ironia, la parodia, come arma polemica. Quando frequentavo il Cassero i primi anni, c’era un gay che diceva: «Ah, quella lì mi ha trattato male, allora le volevo dare… una sventagliata!», cioè un colpo con il ventaglio. Questo era il modo di fare invettiva, quindi figurati.

Questa enfasi sulla famiglia è una novità nel movimento.

È così, il movimento è cambiato. D’altra parte cambiano i climi culturali; adesso in effetti c’è molto familismo. Quando c’è stata l’ondata della contestazione si è messo in discussione tutto, poi c’è stato un refluire, un rientrare un po’ nell’alveo, e anche gli omosessuali hanno voluto trovare una dimensione di normalità. Si può ben capire.

Come ricordavo prima, quando ero molto giovane, il passaggio dall’essere clandestina al non esserlo più ci ha fatto scoprire il piacere di essere finalmente normali. Passati i faticosi anni del coming out, dell’“oddio, cosa succederà?”, visto che alla fine non succedeva niente, si cominciava a uscire con la propria compagna, ad andare a casa dei genitori. Per un po’ ci siamo godute la tranquillità. Lo stare sempre contro, sempre fuori, è anche sfibrante. Nell’attuale contesto, credo che una parte della comunità abbia pensato: anche se sono omosessuale non vuol dire che non possa dare un nipotino ai miei genitori, in qualche modo si può dire che ha voluto “tutta la normalità”.

Guarda che prima era proprio brutto, nel passato molti rapporti non stavano in piedi perché la gente combatteva intimamente contro se stessa, quindi nascevano degli amori, delle relazioni che però magari non reggevano perché uno dei due fuggiva. Abbiamo molto sofferto, perciò se qualcuno oggi sogna una normale famiglia felice, io non ho niente da dire. Mi oppongo a che si aprano varchi ad abusi, violenze, sfruttamenti. Mi va bene che ognuno scelga e cerchi la felicità dove vuole, purché non si legittimino rapporti sociali ingiusti o nocivi.

Non ho fatto tutta questa strada per arrivare qui! Cioè, quando vedo le foto di donne puerpere per altri, quelle di colore che costano di meno, oppure i cataloghi dove puoi scegliere la portatrice… io mi vergogno!

Mi dispiace che siamo arrivati qua. Forse semplicemente i movimenti, quando vincono, cambiano pelle. Mica è successo solo a noi. Certe volte penso anche alla storia del socialismo, al fatto che un movimento nel vincere manca la promessa. Però non è che per questo sono state battaglie sbagliate. Bisogna rimettersi in moto.

Io poi non ho soluzioni, ti sto raccontando quello che ho visto succedere. Forse se le persone transessuali accettassero di essere persone transessuali, se ognuno trovasse un suo posto nel mondo, senza prendere il posto di qualcun altro, se si accettassero le differenze, potremmo ritrovarci. Non so quando accadrà, però io spero che prima o poi sarà possibile mettersi attorno a un tavolo e discutere di come tutelare i diritti di tutte le persone senza che ne vada però dei diritti delle donne, che da sempre sono i soggetti sacrificabili.

Come spieghi questa adesione di tante giovani donne al transfemminismo? È una questione di generosità femminile?

Non credo. Da giovane, se mi avessi chiesto se preferivo occuparmi dei campesinos [contadini, Ndr] salvadoregni o delle donne, ti avrei risposto: dei campesinos!

Il fatto è che impegnarsi per migliorare la condizione delle donne vuol dire assumere la differenza come il punto da cui tu parti, e invece noi donne spesso da lì vogliamo sloggiare! Per questo io, qui, più che la generosità vedo un desiderio di fuga dalla differenza femminile.

Questa esplosione di un apparente desiderio di diventare uomini da parte di ragazze giovani fa molto pensare…

Sono d’accordo. Il fatto è che essere donna non è tanto conveniente. Io oggi mi sto dedicando a ricreare una rete, non solo come protezione per chi non può parlare, ma anche per parlare nonostante altri non vogliano. Una volta che immetti nel corpo sociale dei pensieri, questi faranno la loro strada, anche se si vorrebbe metterli a tacere. Il nostro obiettivo è di riaprire un canale di comunicazione con le sinistre per richiamarle a un ruolo più critico, perché poi spetterebbe a loro trovare una sintesi. Io sono portatrice di una differenza, sono lesbica e non voglio che nei cortei mi si dica che esistono le lesbiche col pene. Questo proprio no.

Nel documentario Human adult female, una delle intervistate, vigile del fuoco inglese, racconta di essere stata bannata da un sito di appuntamenti lesbici perché nelle tre righe di presentazione aveva segnalato la sua preferenza per «donne biologicamente femmine».

È questo il paradosso: per salvaguardare le possibilità dell’autodefinizione, in qualche modo io non posso più esistere. Perché lui si possa autodefinire donna, io non mi posso più definire tale. Ripeto, penso che sia anche compito della politica intervenire. Io non voglio scomparire, dopodiché non è solo compito mio trovare la sintesi.

Dopo aver vissuto un tempo in cui l’omosessualità era un grave handicap, ora mi trovo a vivere in un tempo in cui sono emerse delle contraddizioni che vanno affrontate con il massimo di intelligenza possibile. Ogni periodo ha un tema urgente. Ai tempi dell’università, con le mie amiche e compagne ci interrogavamo su quale potesse essere il nostro ruolo per incidere nella realtà. Io ho risposto impegnandomi a dare visibilità a questa condizione, mi sono esposta personalmente. Mi sembrava che di libri ce ne fossero tanti e di facce poche, così ho deciso di metterci la faccia. Oggi di nuovo si tratta di capire cosa ha senso fare e in qualche modo risolveremo anche la contraddizione del presente perché la strada intrapresa ha degli aspetti di totale assurdità: le lesbiche non accetteranno mai di fare sesso con uno che ha il pene, anche se si cerca di farle sentire in colpa. Ci sono in campo delle pretese che non hanno nessuna chance di avere corso. Forse possono riuscire a colpevolizzare una sedicenne dicendole che non è abbastanza accogliente e inclusiva, ma noi no.

Molti compagni e compagne non vogliono starci a sentire, ma non possono liquidarci definendo fasciste delle donne che hanno settant’anni e hanno passato la vita nell’Udi; così perdono di credibilità loro. Noi per un po’ siamo rimaste sotto schiaffo, perché è stato tutto molto doloroso, si sono rotte delle amicizie, poi però ci siamo riprese.