Da Erbacce – Sono una cartoonist di Gaza. Dal 7 maggio 2024 vivo a Khan Yunis, nel campo di Ain Jalut, in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finisce, disegno sulla tenda.

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Dal Corriere della Sera – Dal 2022 guida la fondazione dietro all’app che, dopo il dietrofront di Telegram, resta ultimo baluardo dell’assolutismo nella privacy. Ex Google, che ha lasciato in modo polemico nel 2019, della sua app dice: «Signal lavora all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso»

Chi è Meredith Whittaker, simbolo della privacy tecnologica che guida Signal

Nostra Signora della privacy ha una laurea in Retorica e Letteratura inglese presa a Berkeley e un ciuffo bianco sui neri capelli ricci. Da quando, nel settembre 2022, Meredith Whittaker è presidente della fondazione che sta dietro l’app Signal, è diventata un faro, l’icona di un’altra visione della tecnologia, in cui l’accesso famelico ai dati degli utenti non sia più un mantra ma un qualcosa da ripudiare o per lo meno da gestire con mille cautele. Ora che anche Pavel Durov, il fondatore di Telegram, sembra aver ceduto alle pressioni, cambiando le policy della sua app e concedendo l’accesso alle autorità (in casi legati a reati), Signal resta l’ultimo porto franco.

Signal è relativamente poco nota tra le app di messaggistica istantanea, ha tra i 100 e i 150 milioni di utenti (non esistono statistiche pubbliche aggiornate), contro il miliardo di Telegram e gli oltre 2 di WhatsApp. L’approccio estremamente rigoroso alla privacy lo ha reso però piuttosto diffuso tra tecnologi, giornalisti, personale politico, stelle dello spettacolo e dello sport. E piace anche a chi vuole discrezione mentre organizza proteste, da Black Lives Matter alle milizie paramilitari degli Oath Keepers.

«Signal, innanzitutto, è un’app creata da un’organizzazione no-profit, la Signal Foundation. È un progetto open source, e dunque il codice sorgente, cioè le istruzioni con cui è programmato, sono visibili a tutti e chiunque abbia delle doti di programmazione può contribuire a svilupparlo. È per questa ragione che Signal non può usare “trucchi”: è un po’ come se ogni dettaglio della sua struttura fosse scritto su una bacheca visibile a tutti» spiega Riccardo Meggiato, esperto di cyber-sicurezza e informatico forense. Poi aggiunge: «Ciò non toglie che la tecnologia crittografica utilizzata da Signal garantisca uno dei più elevati livelli di sicurezza: è “end to end”, quindi solo i partecipanti a uno scambio di messaggi hanno le rispettive chiavi per codificare e decodificare i contenuti scambiati». C’è di più: «Signal inoltre adotta un sistema di “codici di sicurezza”: ogni conversazione è contrassegnata da un codice di sicurezza diverso, visibile ai partecipanti, che ne garantisce l’integrità. Se il numero cambia, vale la pena verificare se uno dei partecipanti ha re-installato l’app, o cambiato telefono. In caso contrario è meglio fare attenzione. C’è poi la possibilità di comunicare solo tramite nome utente, in modo da non condividere alcun numero di telefono». Per queste sue caratteristiche Signal è diventata ormai da qualche tempo l’app d’elezione per chi ha la necessità di comunicare in modo davvero sicuro, al punto che è diventata anche una sorgente di contenuti e comunicazioni illegali. «Per certi versi – conclude Meggiato – Signal è la versione “seria” di ciò che Telegram prometteva di essere e che, in fondo, non è mai stato».

Nata nel 2014 dalla fusione di due progetti open source, RedPhone e TextSecure, a opera di Moxie Marlinspike, un hacker e crittografo americano, è oggi gestita da una fondazione no-profit, la Signal Technology Foundation, che si finanzia esclusivamente attraverso donazioni e sovvenzioni. Un modello che permette di mantenere una totale indipendenza e di non dover rispondere a logiche di pure profitto che spesso confliggono con la tutela della privacy. Mentre WhatsApp, pur utilizzando proprio il protocollo di crittografia di Signal, è di proprietà di Meta (ex Facebook) e raccoglie metadati sulle interazioni degli utenti, Signal adotta una politica “zero-knowledge”: i dati sono crittografati end-to-end e nemmeno i server di Signal possono accedervi. Telegram, invece, non crittografa i messaggi di default e il suo codice non è open source, il che rende impossibile verificarne la sicurezza in modo indipendente.

La carriera di Whittaker

Il percorso professionale di Whittaker è interessante quanto l’app che guida. Per ben tredici anni ha lavorato in Google, vivendo dall’interno l’evoluzione del colosso tech e la sua transizione verso l’intelligenza artificiale (AI), ben prima dell’esplosione del settore con ChatGpt. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente, portandola a guidare proteste interne contro le presunte molestie sessuali sul posto di lavoro e i contratti di Google con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per lo sviluppo di AI militari. Nel 2019, Whittaker lasciò il colosso americano in modo polemico, per concentrarsi sul combattere «per un’industria tecnologica responsabile», dicendo: «È chiaro che Google non è un posto dove posso continuare questo lavoro». Da allora ha tenuto fede alla sua parola e la sua missione sembra essere diventata il mettere in guardia sui rischi dell’intelligenza artificiale e sulla pericolosa concentrazione di potere nelle mani di poche grandi aziende tecnologiche. Ha co-fondato l’AI Now Institute, con cui Whittaker si batte instancabilmente per indagare le implicazioni etiche e sociali dell’AI sul nostro futuro, partendo dai diritti e dal benessere collettivo. Whittaker non crede agli scenari distopici sull’AI che ci sterminerà. Anzi, invita a smitizzarla, ricordando che non si tratta di magia o di un’entità immateriale, ma di una tecnologia basata su enormi quantità di dati concentrati nelle mani di pochi attori.

E quando, come in un’intervista con Corriere LOGIN dello scorso anno, le vengono citate regolamentazioni come l’AI Act adottato dall’Ue, lei rilancia sempre la palla un po’ più in là: «Non basta limitarsi a contenere i rischi: serve un ripensamento più profondo dei presupposti su cui si basa lo sviluppo dell’AI. Abbiamo bisogno di fermarci un attimo e pensare: che cos’è l’intelligenza artificiale? Non è un qualcosa di immateriale che abbiamo portato in questo mondo: è una tecnologia che si basa su un’enorme quantità di dati concentrati nelle mani di una ristretta cerchia di soggetti». Da cui nessun volo fantascientifico su futuri alla Terminator (che tanto piacciono a Elon Musk, tra gli altri), ma un grido d’allarme concreto: «Il vero rischio è che l’AI inizi a presentare la realtà misogina e razzista come naturale, illudendoci che le risposte di una macchina siano oggettive. Queste problematiche possono essere evitate almeno in parte assicurandosi che tutti siano correttamente rappresentati nei set di dati che alimentano le AI».

Ecco perché Signal, con la sua crittografia end-to-end e la sua vocazione al no-profit, rappresenta per Whittaker un modello alternativo: «Signal sta lavorando all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso. Sta cercando di creare qualcosa che interrompa il flusso diretto dei dati».

Il 27 settembre 2024 a Catania presso il salone Russo della Camera del Lavoro si è tenuta la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi. Nel corso della discussione si è molto parlato del contenuto di una locandina in difesa dell’aborto che è girata sui social. Ludovica Augugliaro, studentessa, ci ripropone sotto forma di contributo scritto l’intervento che ha fatto in quell’occasione.

«Il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco», così leggiamo su un manifesto il cui scopo era portare l’attenzione su una questione tanto importante quanto delicata come l’aborto. Benché molti vedano dietro questa grottesca scelta di termini un mero tentativo di inclusività, io vi leggo ben altra cosa. L’essere inclusivi dovrebbe essere pari all’aggiungere una sedia e non sgomitare per prenderne una già assegnata a qualcun altro giunto prima. Questo è il modus operandi dell’inclusività odierna, o di ciò che si spaccia per essa, e cancellare la parola DONNA anche all’interno di un discorso che la riguarda in prima persona, in favore di termini scioccamente considerati “neutri”, ne è la triste prova.

Se veramente lo scopo fosse stato quello della neutralità sarebbe bastato scrivere semplicemente “Il diritto all’aborto è a rischio”. Dunque perché optare per una costruzione degradante, riduttiva e, come scritto prima, grottesca come “persone con utero”?

Persone con utero serve a ricordare che, oltre alle donne, l’aborto va tutelato anche per gli uomini trans, che sono biologicamente esseri umani di sesso femminile, e le persone non-binary che, benché non si identifichino né nel genere femminile né in quello maschile, come qualsiasi altro essere umano vengono al mondo come maschi o femmine.

Quindi, la censura della parola DONNA nel manifesto sopracitato, ridurla a “persona con utero”, significa di fatto anteporre per rilevanza il genere al sesso, anche trattandosi di aborto, e voler mettere in primo piano persone che hanno un intero mese dell’anno dedicato alle loro battaglie e alle loro comunità e che, anche parlando di un tema che riguarda principalmente le donne, devono sgomitare per prenderne il posto in prima fila a partire da un manifesto.

L’essere efficacemente inclusivi prevede questo: chi include deve aggiungere uno spazio, un posto a sedere, senza però perdere il proprio, chi viene generosamente incluso in un dialogo deve invece comprendere quando è tempo di parlare e quando di ascoltare. Sgomitare per prender parola a tutti i costi, ricercare perpetuamente i riflettori, voler incessantemente essere i protagonisti di qualsiasi dialogo degenerandolo in un ridondante monologo, non solo è segno di mancata educazione ma è anche terribilmente inefficace in quanto gli interlocutori, annoiati e sfiniti, perderanno l’attenzione e il piacere di includere tali persone in futuri dibattiti.

Una definizione tanto elementare come donna: essere umano adulto di sesso femminile oggi, per qualcuno, è inaccettabile in quanto “poco inclusiva” o addirittura transfobica. Eppure proprio in queste definizioni elementari risiede l’identità delle persone transgender e ciò che le rende tali. Una donna trans è di fatto un uomo (essere umano adulto di sesso maschile) che, data la sua disforia di genere, necessita di essere percepita socialmente come una persona di sesso femminile, e quindi una donna.

Vorrei ricordare che il principio su cui si basa l’intera argomentazione gender è proprio la distinzione tra questo e sesso. Il primo, teoricamente, è determinato dall’esperienza dell’individuo nella società, il secondo è concreto, inequivocabile, a partire dal concepimento. La radice stessa di tale discorso oggi è pressoché dimenticata, in quanto, benché esistano numerose identità di genere, il sesso biologico resta duale: maschile e femminile. Ciononostante, in discorsi dove quest’ultimo dovrebbe avere la precedenza in quanto a rilevanza, come l’aborto, lo sport, la divisione degli ambienti negli spogliatoi e nei bagni pubblici e il criterio più opportuno sul quale andrebbero scelti, vince sempre il gender. La concretezza del sesso d’appartenenza è inesorabilmente in secondo piano rispetto a qualcosa di astratto anche nella sua definizione tutt’altro che univoca.

Mettere l’elementarità delle cose in discussione lede, in primis, le fondamenta della comunità LGBTQIA+. Se alla semplice domanda «Cos’è una donna?» non è più possibile rispondere in maniera semplice, logica e condivisa, allora lo stesso catalogo di etichette, ognuna con la sua bandierina, su cui si basa la comunità queer non ha ragione di esistere.

Il paradosso del panorama odierno è che, se da una parte è quasi impossibile fornire definizioni altrettanto elementari e sensate come quelle che si desidera surclassare, contestualmente la tendenza è quella di etichettare qualsiasi cosa, anche la più scontata. Ho scoperto infatti che, nel catalogo arcobaleno, sono in vendita anche un paio di etichette che mi riguardano. Sarei infatti demisessuale e sapiosessuale. Cosa descrivono queste due identità dotate del proprio merchandising di bandierine e spillette? La prima è una sfumatura dell’asessualità e identifica coloro che per fare l’amore con qualcuno necessitano di una connessione mentale e sentimentale che preceda l’atto. La seconda, invece, denota chi trova attraenti sessualmente persone intelligenti.

E quindi, per la mia riluttanza ad avere un rapporto sessuale con persone a caso ma con pene e l’aver scelto come compagno una persona capace di sollecitare anche il mio intelletto e di reggere conversazioni di lunga durata, ben lontane dai sottintesi volgari scambiati via chat tramite emoji del fuoco e della pesca, sono anch’io queer e appartengo a questa tribù. Adesso che ne sono a conoscenza, cosa della mia vita e della mia identità è cambiato? Assolutamente nulla.

Tuttavia, per alcune persone, i giovanissimi soprattutto, questo senso di appartenenza è vitale. Viviamo in una società di ragazzi iperconnessi e inesorabilmente soli e per sfuggire a tale solitudine necessitano di appartenere a un gruppo, e una comunità come l’LGBTQIA+ risulta piuttosto accattivante. Vuoi per i colori sgargianti della bandiera arcobaleno, in contrapposizione al grigio degli eterosessuali “basic”, per la crescita immediata del numero dei followers aggiungendo pronomi e bandierina nella descrizione del profilo, finanche per content creators che basano le loro intere piattaforme unicamente sulla loro identità di genere e/o il loro orientamento sessuale e che, in questo modo, raggiungono numerosa visibilità, notorietà: fama.

Per loro sfortuna si ritrovano da una parte educatori, dai genitori agli insegnanti, impreparati su queste tematiche che travisano o, peggio, ignorano, dall’altra abili oratori che vendono i loro stili di vita come uniche alternative e magiche soluzioni a profondi disagi interiori che meriterebbero altri tipi di supporto.

A questi ragazzi, ai miei coetanei, vorrei dire questo: un’etichetta, con tanto di bandierina, non decreta chi voi siate. Siamo molto più del nostro orientamento sessuale, dei nostri pronomi, delle spillette attaccate allo zaino. L’ identità si costruisce, pezzo dopo pezzo, tramite le relazioni sociali (reali, non virtuali) che si instaurano, attraverso lo stile personale e, soprattutto, grazie a ciò che si legge. Solo con la lettura è possibile sviluppare un pensiero critico, l’unico scudo contro un costante e subdolo indottrinamento che non accetta alcun confronto, che, a partire dal linguaggio, silenzia e censura chiunque la pensi diversamente.

Da Doppiozero – Fra i grandi meriti di Omero, nota Hannah Arendt, c’è quello di aver reso immortali gli eroi di cui racconta la storia. Non sappiamo chi fosse Omero, il narratore che chiamiamo con questo nome, ma sappiamo chi fossero Achille, Ettore e Ulisse perché ne conosciamo le storie e non ci stanchiamo di rileggerle e raccontarle. Racchiusa nelle storie, la loro fama è imperitura e li salva dall’oblio. Non sono però solo i guerrieri a guadagnarsi questa immortalità donata dal canto omerico. Penelope, la tessitrice che fa e disfa la sua tela, è la protagonista di una storia davvero memorabile che la tradizione non ha infatti mai potuto dimenticare.

A Roma, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, si è di recente aperta Penelope, la prima mostra dedicata al personaggio omerico, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa. Potete visitarla fino al 12 gennaio 2025, ammirando cinquanta opere che, attraverso la tradizione visiva e letteraria, ripercorrono il mito e la fortuna della regina tessitrice, celebre per il suo gesto di fare e disfare. Genialmente, l’esposizione comprende anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro la materia tessile. Da Penelope alla grande artista sarda, dall’immaginario antico all’arte contemporanea, la mostra ci invita ad esplorare l’universo, simbolico e operativo, delle donne che tessono, che fanno del gesto della tessitura una trama di libertà, creatività e riscatto.

Racconta il mito che fu la dea Atena a donare alle donne l’arte del tessere, riservando invece agli uomini quella del guerreggiare. Ovviamente la parola greca è techne, un termine che, al contrario dell’italiano arte, non convoca immediatamente la bellezza, bensì una certa rigorosa perizia, una capacità del fare, un’abilità e una competenza fondate su un sapere. In Platone la figura del ‘tecnico’, comprensiva di quello che noi chiameremmo artigiano e artista, implica la conoscenza di un campo specifico o, meglio dell’idea, della forma che è al centro di questo campo – poniamo, l’idea di letto, guardando alla quale il costruttore di letti trae le regole oggettive così come il materiale adatto per la fabbricazione del letto. Ogni tecnico ha un sapere specifico dell’oggetto di cui è competente e che impone un ordine preciso al suo operare, dettandone le procedure, i tempi e la materia. Nel dire che un’opera è fatta a regola d’arte c’è dunque una sorta di ridondanza: l’arte, ovvero la techne, consiste sempre, e di per sé, nella sua regola. Il tecnico è precisamente l’esperto che vede e segue, esegue, questa regola. L’arte del tessere, in cui eccelle la regina di Itaca, sarà quindi un sapere specialistico delle regole, degli strumenti e del materiale, nonché delle modalità di intreccio, trama e ordito, adatti a produrre il tessuto. Diciamo, nel caso di Penelope, a produrre la tela, il sudario per Laerte.

L’algida spiegazione razionale dell’operare tecnico, fatta da Platone, ci aiuta qui tuttavia solo fino a un certo punto. Platone non prevede infatti che il tecnico, una volta fabbricata la tela, la disfi. Il gesto della tessitrice Penelope è anomalo, anzi scandaloso. Penelope possiede certamente un sapere perfetto della tecnica del tessere ma evidentemente sa qualcosa di più, qualcosa che, pur accadendo nella stanza dei telai in cui, come tutte le donne, è confinata, travalica questo confine, questo ruolo, questa specie di prigione femminile, e agisce sull’assetto politico del regno, là dove dominano gli uomini e lei è esclusa. Tessendo la tela di giorno e disfacendola di notte, Penelope per quattro anni tiene in scacco i pretendenti alla sua mano e la sorte di Itaca. Come con l’astuzia, la metis, il marito ha escogitato il trucco del cavallo di legno per sconfiggere il nemico in battaglia, così la metis di Penelope escogita il trucco del fare e disfare la tela per sconfiggere i pretendenti al governo di Itaca. Al contrario del marito, che opera nella propria sfera di competenza, ovvero nella sfera maschile del guerreggiare, Penelope, pur operando nella sfera propriamente femminile del tessere, fa in modo che gli effetti della sua astuzia riesca a travalicarla. Quel che avviene nella stanza dei telai riguarda direttamente la vicenda politica di Itaca, è questo il nucleo memorabile della storia.

Come ci raccontano Omero e la letteratura antica in generale, nella cultura occidentale, al contrario di ciò che avviene in altre culture, la tessitura è riservata anticamente alle donne o, meglio, il loro confinamento nell’ambito domestico prevede che esse vi svolgano il lavoro di tessitrici. Gli esempi testuali abbondano. Basterà qui, per stare ai poemi omerici, ricordare le parole che Ettore, pur dolce e mite marito, rivolge alla moglie Andromaca che, uscita dalla casa, si reca alla porta Scea per scongiurarlo in lacrime di non scendere in battaglia: «su, rincasa e bada ai tuoi lavori, il telaio e il fuso – le dice Ettore – e ordina alle ancelle di mettersi all’opera; alla guerra penseranno gli uomini» (Iliade, VI, vv. 490-93). Penelope stessa, che ha osato parlare nella sala degli uomini, il megaron, viene invitata dall’arrogante figlio Telemaco a tornare nella stanza dei telai. La politica e la guerra spettano agli uomini, la casa in cui si svolgono i lavori domestici e, in primis, la tessitura, spetta alle donne. I ruoli di genere, come oggi si direbbe, sono chiari. Donando alle donne l’arte della tessitura, in un certo senso, è stata miticamente Atena a escluderle dall’ambito pubblico e a imprigionarle in quello domestico. Ciò non implica che, per i Greci, quella della tessitura sia un’arte inferiore o secondaria, visto che di tale arte si pregia, anzi, la stessa Atena e molte divinità femminili. C’è nell’arte del tessere un orgoglio per l’abilità di produrre splendidi e utili oggetti, nonché una riconosciuta creatività che va al di là dell’utile. Dal tessuto, dall’ambito del textum, derivano del resto parole molto significative come testo e trama. Il tessuto istoriato è tale perché, come il grande Omero, racconta storie. Le crea, le inventa e le tramanda.

Si legge nel catalogo della mostra che nella tradizione iconica Penelope appare spesso malinconica. La malinconia, insieme alla fedeltà e alla pudicizia, scrive la curatrice Alessandra Sarchi nel suo saggio illuminante, costituiscono le sue principali caratteristiche. Pudore e riservatezza sono sottolineate anche nel saggio, altrettanto illuminante e documentato, dell’altro curatore, Claudio Franzoni. Sono saggi ricchissimi e avvincenti, indispensabili per chi visiti la mostra o voglia approfondire i vari filoni letterari, artistici, speculativi e simbolici che si stringono intorno alla figura di Penelope o da essa sgorgano.

Secondo un’autorevole tradizione, la casta e malinconica Penelope, modello di tutte le mogli, è un’icona dell’attesa. Forse ha una struggente nostalgia del marito e ancora spera che torni. Forse simboleggia appunto la moglie fedele alla quale manca il marito, ovvero la moglie che l’assenza del marito e l’incertezza per la sorte di lui rende triste e sconsolata. O forse suggerisce che nello stare confinata tutta la vita nella stanza dei telai, in fondo, c’è ben poca gioia. Molto stupore desta comunque il fatto che, quando Ulisse finalmente torna, travestito da vecchio mendicante, al contrario del cane Argo e del porcaro Eumeo, Penelope non lo riconosca. È Omero a raccontarci questo fatto davvero strano, tutt’altro che trascurabile. Quando Ulisse si palesa, lei non gli crede, vuole le prove. Avrà pensato che dopo tanti anni fosse improbabile che Ulisse fosse ancora vivo? (e alquanto forte e vigoroso come si evince dalla prova dell’arco). O avrà pensato che il suo trucco di fare e disfare per tenere sotto scacco il trono e il destino di Itaca, il suo astuto gioco della politica, fosse giunto inesorabilmente alla fine? Dopo tutto, che ne è di Penelope quando Ulisse si reinsedia nel regno? La regina Penelope, protagonista di una memorabile storia, dopo il ritorno del re, suo legittimo marito, ha ancora una storia?

In effetti è plausibile persino ipotizzare che, nel momento in cui la sua memorabile storia finisce, quando il suo personaggio, che ha svolto un ruolo cruciale nella trama del racconto, esce di scena; che quando Omero chiude la vicenda del fare e disfare perché è tornato il re, Penelope abbia nostalgia del passato. Ora sarà come tutte le altre tessitrici, seguirà diligentemente la regola della sua arte, produrrà splendidi e utili tessuti ma non li disferà più. Anche la complicità con le ancelle per fare funzionare il trucco sarà solo un ricordo. La fama che ne ha fatto una delle icone fondamentali nell’immaginario dell’occidente svanirà nella noia casalinga dell’ordinario.

Il segreto dell’arte di Maria Lai è efficacemente espresso dal suo motto secondo il quale «essere è tessere», a cui si accompagna la sua acuta osservazione sulla somiglianza fra il filo della tessitura e quello della scrittura. Lo testimoniano, fra le realizzazioni dell’artista, i celebri libri di stoffa così come i telai, i grovigli e i fili che legano la montagna e l’abitare in un’opera collettiva. Nell’antichità erano le Moire a filare, e filavano la vita singolare di ogni essere umano, dalla nascita alla morte, essendo la morte semplicemente il filo troncato, spezzato. Sì, essere è tessere, anche perché, secondo il mito delle Moire, il nostro essere qui, in questo mondo o, se si vuole, il nostro esistere come singolarità incarnate, è un filo sottile, intrecciato con altri fili, che si dipanano in una trama collettiva, istoriata temporaneamente, per un tratto, per nodi provvisori, dalla storia di ciascuna vita. Notoriamente le Moire si sono guadagnate nella tradizione una fama sinistra perché tagliano il filo, decretano la morte. Si dimentica però che esse sono all’opera anche quando il filo si forma e nasce, al suo inizio. Come ben sa Penelope, c’è un inizio per ogni filatura, così come, intrecciando i fili, per ogni tessitura. Forse anche per questo la regina disfaceva di notte la tela: per ricominciare, per far sì che la sua storia non finisse e diventasse interminabile, perché sempre tornava al senso davvero memorabile e infinitamente ripetuto del suo inizio.

Da Il Quotidiano del Sud – L’iraniana Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace 2023, attivista per i diritti umani e contro la pena di morte e la tortura, in occasione della 79esima Assemblea generale dell’Onu in corso a New York, ha fatto pervenire al segretario generale Guterres e a tutti i membri dell’Assemblea un appello dal carcere di Evin (Teheran) dove sta scontando una condanna a dodici anni e undici mesi. «Sono trascorsi due anni dalla nascita del movimento “Donna Vita Libertà” – scrive – che ha attraversato tutto l’Iran […]. Il prezzo pagato per aver aderito a questa sollevazione collettiva e per aver mostrato solidarietà al popolo unito […] è stata una repressione che continua ancora oggi. Il mondo è testimone di uccisioni, esecuzioni, incarcerazioni e di una violenta e spietata repressione delle donne nelle strade, nei centri di detenzione e nelle prigioni. In questi giorni […] assistiamo alle sentenze di condanna a morte emessa dal regime contro donne attiviste come Pakhshan Aziz e Sharifeh Mohammadi», a tutti chiede di «agire con urgenza e determinazione […] per fermare le selvagge esecuzioni di massa dei prigionieri, liberare tutti i prigionieri politici e fermare la repressione delle donne e di tutte le istituzioni civili». I muri della prigione non hanno mai impedito a Narges Mohammadi di far sentire la sua voce. Oggi è in carcere anche per aver scritto un libro, Più ci chiudono più diventiamo forti. Voci di donne iraniane in lotta per la libertà, da poco tradotto in italiano e pubblicato da Mondadori. Il libro, per cui è stata accusata «di aver infangato il nome dell’Iran in tutto il mondo», raccoglie interviste a dodici detenute, sue “compagne” di prigione. Dodici detenute che raccontano, documentano, discutono con lei sulle condizioni disumane del carcere, e in particolare su una forma specifica di tortura, la “tortura bianca”, usata in tutte le carceri iraniane e anche contro di loro: la detenzione in isolamento con deprivazione sensoriale portata alle estreme conseguenze. Quello che viene fuori dai loro racconti sono storie dolorose di donne che solidarizzano tra loro, non si piegano al carnefice, alla repressione, alle botte, agli insulti, alle minacce e intimidazioni ma restano fedeli a se stesse e ai loro ideali politici e religiosi per cui sono in carcere. «A tenermi in piedi – scrive Narges in un appello consegnato in carcere alla madre Ozza Bazargan – in questa prigione, mentre il mio corpo è ferito e contuso, sono l’amore per il popolo onesto ma tormentato di questo paese e i miei ideali di giustizia e libertà». Donne che fanno scioperi della fame per protestare per le loro condizioni carcerarie o per “commemorare” i morti della repressione seguita alle manifestazioni per la morte di Mahsa Amini e «dimostrare vicinanza alle famiglie». Per punirla le viene negata la possibilità di parlare al telefono con la figlia Kiana e il figlio Ali, che vivono in Francia col padre Tahi Rahmani, giornalista progressista che ha lasciato l’Iran dopo essere stato arrestato e incarcerato per un totale di quattordici anni. Narges Mohammadi è una giovane donna, nata il 21 aprile 1972, laureata in fisica, e sin dall’università si batteva per i diritti umani e la giustizia sociale. Durante quegli anni – come racconta nel libro – ha subito i primi due arresti e da allora è stato un entrare e uscire dal carcere «per aver agito contro la sicurezza nazionale, per l’appartenenza al Centro dei difensori dei diritti umani, per propaganda contro il regime». Ma lei è una donna indomita. «Non smetterò mai di lottare affinché i diritti umani e la giustizia trionfino nel mio paese». Per quella lotta lei è in carcere e continuerà a fare sentire al mondo la sua voce.

Da La Sicilia – Vietato a Sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi editore) è un pamphlet attraverso cui le femministe della differenza vogliono rivendicare la propria storia e le proprie pratiche attaccate e contestate dalle compagne di strada, le transfemministe e le femministe intersezionali, e anche dalle forze di sinistra con cui per anni hanno fatto un importante percorso comune. Uno scontro su temi complessi, delicatissimi e “divisivi” che dieci femministe con storie diverse hanno raccontato a partire da una prospettiva comune, quella della difesa della donna da un pensiero e da un approccio teso a svalutarla negando la centralità del corpo e del sesso e, dunque, della differenza tra maschi e femmine. Un attacco alla dualità sessuale pensato nell’ottica dell’inclusione volta a dare pari dignità e uguaglianza ai gruppi minoritari e messi ai margini, come gay, transessuali, transgender, intersex. In questa prospettiva – sostengono le femministe della differenza – il “gender” viene visto come la via per eliminare alla radice le differenze sessuali considerate fonte di discriminazione. E dire che sono state proprio le femministe le prime a distinguere tra sesso biologico con cui si nasce e genere, cioè il «ruolo sociale, comportamentale ed emotivo che le diverse società attribuiscono ai due sessi».

Daniela Dioguardi, curatrice del pamphlet – a Catania in occasione della presentazione del libro che si è tenuta alla Camera del Lavoro su iniziativa de La Ragna-Tela e Fare Stormo – ha denunciato che chi non è d’accordo su questioni come la gestazione per altri, chi non considera la prostituzione un lavoro come un altro, chi non condivide il blocco farmacologico della pubertà in casi di disforia sessuale, viene accusato di essere reazionario, transfobico e persino fascista, mentre condividere queste idee e pratiche sarebbe espressione di laicità e modernità. Un approccio contro cui le femministe della differenza prendono posizione pubblica rivendicando la centralità del corpo e l’importanza della dimensione universalistica del tutto abbandonata per assumere il «paradigma individualistico diventato dominante nell’economia come nella politica e nell’etica». Paradigma in nome del quale «la concezione della libertà come affermazione positiva dell’integrità della persona viene scambiata con l’idea mercantile della libertà senza vincoli nel disporre di sé sul mercato». Una libertà per cui si pretende di avere diritto alla maternità surrogata che svilisce la complessità della procreazione umana trasformandola in una forma di produzione che riduce la maternità a mera gravidanza, a una sorta di «lavoro da fare svolgere alle operaie della riproduzione». Un’idea di libertà che reputa un diritto la mercificazione del proprio corpo e considera la prostituzione come un normale lavoro sebbene questa sia una delle moderne forme dello sfruttamento e del colonialismo.

«Si rivendica come un diritto l’avere un figlio, scegliere il sesso, prostituirsi», sostiene Silvia Baratella della “Liberia delle donne” che sottolinea come «i diritti ufficiali sono costruiti sul corpo maschile per cui l’eccedenza femminile rimane fuori». «Anche la legislazione di parità, che pure ha rimosso molti ostacoli alla realizzazione delle donne – denuncia – non solo non ha raggiunto del tutto l’obiettivo, ma produce paradossi». Per cui – come ha evidenziato Anna Di Salvo nell’introdurre l’incontro – in nome della bigenitorialità, in caso di separazione per violenza del coniuge, la donna rischia di vedersi togliere i figli accusata di “alienazione parentale”, cioè di istigarli contro il padre che i piccoli non vogliono incontrare per paura. Ancora. Il ministro dell’istruzione Valditara ha previsto “quote blu”, cioè quote maschili, per i posti di presidi, data la prevalenza di donne in questo ruolo. E nell’Emilia rossa l’Udi e un’associazione di lesbiche si sono viste rifiutati i finanziamenti previsti perché non hanno maschi tra i soci. Un approccio, questo, che – in nome di quello che viene definito progresso e modernità – anche la Sinistra ha fatto proprio. Di qui il titolo provocatorio del libro “Vietato a Sinistra”.

La volontà di cancellazione della donna – ha denunciato la femminista e deputata Avs Luana Zanella – passa anche dall’uso del linguaggio: dal ricorso al neutro, lo schwa, e dall’uso dell’espressione “violenza di genere” anziché violenza maschile contro le donne, e dalla perifrasi “persona con utero” per indicare la donna. È di questi giorni il manifesto di “Non una di meno” dove si legge che «il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco». «Per essere inclusive bastava dire: il diritto all’aborto è sotto attacco, perché ad abortire sono le donne».

Temi su cui si sono consumate rotture di relazioni politiche e amicali e persino l’interruzione di ogni forma di dialogo. Eppure è da qui, dal confronto, che bisogna ripartire per una politica condivisa delle forze di sinistra.

Alla Libreria delle donne di Milano si possono trovare tutte le edizioni originali (i “libretti verdi”) delle opere di Carla Lonzi e degli scritti di Rivolta Femminile.

La redazione

Da Doppiozero – «Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente». Con queste perentorie parole si chiude Sputiamo su Hegel, forse il più noto scritto di Carla Lonzi (1931-1982), storica e critica d’arte assai acuta, poi filosofa femminista radicale, il cui pensiero non convenzionale è all’origine del femminismo della differenza sessuale. Annarosa Buttarelli, nel suo recente Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Milano, Feltrinelli 2024, un breve ma denso profilo intellettuale e politico, pubblicato nella collana Eredi a cura di Massimo Recalcati, scrive che il rivoluzionario testo, stampato nell’estate del 1970, rappresenta per la sua autrice «il primo pericoloso passaggio – in pubblico – verso la liberazione». Proprio quell’estate, Lonzi aveva fondato, con la pittrice Carla Accardi e la giornalista e attivista Elvira Banotti, il movimento Rivolta femminile, il cui manifesto in sessanta punti aveva tappezzato i muri di Roma e poi di Milano. Liberarsi dall’hegeliano rapporto servo-padrone, riportato alla millenaria oppressione della donna da parte del patriarcato, è uno dei nodi della filosofia della trasformazione di Lonzi che, attraverso autocoscienza, deculturazione e rivolta femminile, voleva letteralmente «sputare Hegel fuori da sé», e fuori dalle altre donne trasformate. «La donna così com’è è un individuo completo», scriveva Lonzi, «la trasformazione non deve avvenire su di lei, ma su come lei si vede dentro l’universo e su come la vedono gli altri».

Parole chiare, e forse scomode, soprattutto allora, che hanno distinto un pensiero filosofico d’avanguardia, molto amato e negli anni costantemente approfondito. 

Non pochi sono stati infatti i contributi di studiose femministe, storiche dell’arte, critiche o filosofe, prevalentemente donne, che hanno affrontato l’opera mirabile (e ineludibile) di Lonzi, avvicinandola dal lato filosofico o da quello della critica d’arte. Dalle prime ricerche sul femminismo di Maria Luisa Boccia negli anni ’90 (L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano 1990), fino ad arrivare, appunto, a quelle attuali di Buttarelli, secondo la quale Lonzi è la pensatrice femminista più amata al mondo. Certamente è impossibile immaginare la storia del femminismo in Italia senza di lei. 

Su questo non si può non concordare, al di là delle specifiche passioni, o appropriazioni, scatenate da un pensiero filosofico tanto originale e al contempo rigoroso e concreto, che accende l’interesse anche delle nuove generazioni di giovani irriducibili, che oggi rifiutano ogni forma di patriarcato e pretendono confidenza con le parole e le forme più feconde del femminismo del passato. Anche per questo, forse, si stanno ripubblicando le preziose opere, ciclicamente irreperibili, della prima e della seconda Lonzi, la critica d’arte e la filosofa femminista, grazie all’iniziativa della casa editrice La Tartaruga (con la supervisione e cura proprio di Buttarelli), che segue il precedente sforzo di Sandro D’Alessandro e della sua Et al./edizioni, che aveva già riproposto, tra 2010 e 2011, diversi titoli dell’autrice, di nuovo esauriti in tutte le edizioni (o con prezzi alle stelle su e-bay).

Io sono stata fortunata, ho ritrovato in casa la prima edizione di Sputiamo su Hegel, quel piccolo libretto con la copertina verde degli Scritti di Rivolta femminile, la casa editrice fondata da Lonzi, testimonianza aurorale del femminismo di mia madre, Grazia Centola, che poi la intervistò nel 1981 per “Quotidiano donna”, il suo giornale. Proprio quel «sottile libretto verde» che, scriveva mia madre, «ha aperto a molte di noi, sugli inizi degli anni ’70, una strada che ci avrebbe portate lontano». Molto lontano. Attraverso una profonda irrinunciabile trasformazione del modo di pensare e di essere delle donne, della cultura borghese dalla quale spesso provenivano, del marxismo e del loro stesso fare politica, anche attivamente, nei partiti o gruppi della sinistra, della psicanalisi, della famiglia e semmai dei figli, dei rapporti uomo-donna, ma anche tra donne, del proprio corpo, dei desideri, della sessualità. 

La conversazione, intitolata “Con il problema dell’uomo alle spalle”, verteva sull’ultimo libro di Lonzi, intitolato Vai pure, allora da poco pubblicato sempre da Scritti di Rivolta femminile, spregiudicata analisi a due voci del rapporto di coppia che, nei diciassette anni precedenti, aveva legato Lonzi allo scultore Pietro Consagra, al quale, alla fine del lungo dialogo registrato con il magnetofono (che è anche, di nuovo, un discorso sull’arte e nell’arte e soprattutto sul potere, oltre che il “verbale di un fallimento spaventoso”), Carla appunto dice “vai pure”. «E dopo, dopo cosa succede?», chiedeva mia madre, «Non voglio sapere come finirà, perché non so cos’è la vita matura. Se è il finire in una coppia che si sostiene e sclerotizza o se, arrivati a un certo punto, non sarà più congeniale per me riprendere il cammino da sola per una esplorazione finale della mia vita». 

Era un discorso lungimirante, benché animato, ora capisco, da un profondo rovello. Ma purtroppo, fatta ancora una volta tabula rasa, non ci fu più tempo, Lonzi, che era stata male negli anni Sessanta, si ammalò di nuovo e morì, a Milano, l’anno successivo, con Consagra al suo fianco. 

La nuova collana promossa dalla casa editrice fondata nel 1975 da Laura Lepetit, che fu molto vicina a Lonzi e alle sue compagne nei primi anni Settanta, oggi della Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi e diretta da Claudia Durastanti, è stata aperta, l’estate scorsa, proprio dal volume Sputiamo su Hegel e altri scritti, che raccoglie i primi scritti femministi di Lonzi, pubblicati nei “libretti verdi” e poi stampati in unico volume nella medesima collana nel 1974. Quello del 1970 che dà il fulminante titolo all’intero libro, il successivo e forse ancor più radicale La donna clitoridea e la donna vaginale del 1971, anch’esso dotato di un titolo “scomodo” che subito infranse un tabù e un modo di essere, distinguendo due categorie femminili e privilegiando la donna clitoridea, svincolata e liberata anche dagli schemi sessuali imposti dal patriarcato (e non dalla fisiologia, spiega l’autrice con tanto di illustrazioni). Raccolti insieme ad altri scritti di Rivolta femminile, tra cui naturalmente il Manifesto del gruppo, che apre il volume ed è una chiarissima e “lapidaria” dichiarazione di intenti, che si conclude con il famoso «Comunichiamo solo con donne».

La nuova edizione ha una copertina assai bella, che chissà se le ribelli separatiste di Rivolta femminile avrebbero approvato. Si tratta di Violarosso, un quadro del 1963 proprio di Accardi, con i classici segni dell’artista, ormai sottili e quasi grafici, che compongono una specie di calligrafia-pattern. Tra i segni di Accardi, che si ripetono su un fondo di colore uniforme (che nella stampa risulta fucsia ma in verità è viola), alla ricerca di un potente effetto luminoso che Gillo Dorfles chiamò “brillanza”, ve ne è anche uno che, un poco dilatato, diventerà poi il logo di Rivolta femminile. Anche per questo, efficace il progetto grafico, accattivanti i colori, significativa l’opera scelta, esposta tra l’altro nella grande retrospettiva dedicata nel 2024 ad Accardi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, forte il messaggio che passa, anche nella specialissima relazione tra le due Carle, molto legate negli anni precedenti il 1970 e destinate ad allontanarsi un po’ bruscamente nel 1973. «Ho patito molto di essere rigettata da lei. Il perché? Perché io volevo fare l’artista, non la femminista», confida Accardi ad Anne-Marie Sauzeau, anche lei critica, femminista e compagna di vita di artista (Alighiero Boetti), in uno scritto su Lonzi di qualche anno fa. Anche perché Accardi funge, in un certo senso, da trait d’union tra i due periodi, la critica e il femminismo, e tra i due primi libri editi da La Tartaruga. 

Il secondo è infatti Autoritratto, il capolavoro di Lonzi critica d’arte, che dialoga con 14 importanti artisti del suo tempo, registrando le conversazioni (raccolte tra 1965 e 1969) e ricomponendole poi, «in modo da riprodurre una specie di convivio, reale per me che l’ho vissuto, anche se non si è svolto nell’unità di tempo e di luogo», con un montaggio coraggioso e poetico, quasi una ricerca sulla lingua oltre che sui linguaggi dell’arte. Lonzi è insofferente, cerca una critica orizzontale, paritetica, rifugge il rapporto di potere che si cela nell’atto critico, ma partecipa al dialogo come una di loro.

Il volume, rieditato nei mesi scorsi sempre per la cura di Buttarelli, che anche in questo caso sceglie di non premettere un saggio introduttivo è un «libro fondamentale per come si scrive d’arte ma è anche il preambolo della pratica dell’ascolto che rivoluzionerà il femminismo di Carla Lonzi».

Naturalmente Accardi è compresa, unica donna, tra gli artisti protagonisti del famoso convivio (gli altri sono Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato e, in assenza, Twombly), apice di un sodalizio «largamente comunicativo e umanamente soddisfacente», come lei stessa scrisse. Pubblicato nel 1969 da De Donato, con in copertina un Concetto spaziale di Fontana, il più anziano e famoso tra gli artisti coinvolti, forse non approvato dall’autrice, che aveva scelto con cura il resto dell’apparato iconografico del volume, composto prevalentemente da piccole fotografie molto private e intime, sue e degli artisti che colloquiano con lei, Autoritratto è un’opera fondamentale nella storia della critica d’arte italiana per metodo e contenuti. Un’opera preziosa per comprendere le vicende della cultura non solo artistica di quegli anni, con la quale di colpo si chiude la vicenda critica di Lonzi, e si apre quella filosofica e femminista.

A ben vedere, impossibile immaginare non solo la storia del femminismo ma anche quella della critica d’arte senza di lei che, dopo aver rotto ogni schema in quel campo, fu capace all’improvviso di lasciare tutto, scegliendo la strada filosofico-politica, la strada dell’autocoscienza, del separatismo, e della concreta trasformazione, come ricorda Buttarelli nel suo libro.

Lei, che era stata l’allieva più promettente di Roberto Longhi, padre-patriarca della critica d’arte italiana, lei che era stata una delle «menti più lucide della generazione critica che aveva attraversato gli anni sessanta», come scrive Laura Iamurri nel suo volume su Lonzi e l’arte in Italia, descrivendone anche, sulla base delle fonti, i precedenti anni di formazione.

Ma nulla, forse, fu davvero improvviso, bensì inesorabilmente consequenziale e connesso al problema del potere (lo approfondiscono sia Iamurri che Giovanna Zapperi). L’arte, per Lonzi, non poteva farsi vettore di quelle forme liberatorie di costruzione del sé e di formazione dei legami, sulle quali stava lavorando dai primi anni sessanta, anche con Accardi, l’arte alla fine è maschile, e lei si allontana anche dagli artisti.

Non era facile, non era scontato, c’era stato anche il Sessantotto. Si apriva un decennio nuovo: di lotte, conflitti, tensioni, violenza, e anche di nuovi linguaggi creativi, nuove parole chiave, nuovo femminismo, nuove priorità, tra cui liberarsi da ogni forma di oppressione. Ma Lonzi quella vita vissuta a fianco degli artisti in difesa dell’autonomia della creazione, e della creatività, libera infine anche dal potere della critica, l’aveva lasciata: aveva scelto il femminismo, l’“uscita allo scoperto”, come lei stessa dice, lo sdegno per quella cultura maschile millenaria e misogina che aveva imposto l’inferiorità della donna.

Con Rivolta femminile aveva dimostrato di «saper andare via da dove una donna non può stare», come scrive Buttarelli, in un libro che non è esattamente una biografia e nemmeno un’esegesi, bensì si pone in risonanza con Lonzi, in un attraversamento dell’inesausta vitalità del suo pensiero, lungo un percorso scandito da capitoli che toccano in maniera non cronologica i principali scritti del periodo femminista, rileggendoli per similitudini e confronti e fornendo chiavi e spunti di riflessione, più che di interpretazione, sempre interni al corpo a corpo con il pensiero e l’opera dell’autrice.

Lonzi oggi si studia in tutto il mondo, non so dire se più come filosofa femminista che come critica.

Ma, a conti fatti, forse non furono veramente due vite e due Carle, anche se così parve, e in questi termini, quasi contrapposti, Lonzi era stata letta negli anni.

Un prima e un dopo, con il giro di boa del decennio più lungo del secolo breve a fare da discrimine. 

Due ambiti di ricerca e pratica separati, quasi che questo iato tra un prima e un dopo, questo farsi lei stessa, come scrive, tabula rasa, in un pensiero/azione assolutamente identificato con la vita, fosse irriducibile. Difficile, seppur utile, interpretare però. Buttarelli, che vuol far «far brillare i testi nella loro capacità autonoma di accompagnare chi legge a una augurabile trasformazione di sé» invece un poco lo considera un tradimento. Del resto, Lonzi scrive nel suo Taci anzi parla. Diario di una femminista, pubblicato nel 1978 da Rivolta femminile, «Quando un altro mi spiega una cosa mia, mi interpreta sia in bene che in male, ci vuole proprio molta delicatezza e intelligenza perché io lo accetti». Dunque Lonzi rifugge dall’interpretazione e non vuole lasciare alcuna eredità? O forse, come scrive Buttarelli, che molto si rivolge al monumentale diario, la sua è una eredità senza testamento «di cui non ci si può appropriare ma si può abbracciare»? Scritti trasformativi che cambiano la vita, li definisce la filosofa che ha avuto, dal 2017, la responsabilità scientifica del Fondo Carla Lonzi, per qualche anno depositato presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma per volontà del figlio Battista Lena e sensibilità dell’allora direttrice Cristiana Collu. Partì allora una meritoria attività di catalogazione e digitalizzazione dei documenti, preziosa per le studiose e gli studiosi di ambo i fronti, il femminismo e la critica d’arte. In questi ultimi mesi, tra grandi polemiche, il comodato è stato sospeso, per la visione diversa della nuova direttrice, e il Fondo sta cercando un’altra casa. Di sua iniziativa, mia nipote ventenne ha rintracciato online, digitalizzate, le minute delle lettere di Carla a mia madre, sua nonna, in occasione di quella intervista. Conferma del fatto che Lonzi interessa ancora alle più giovani.

Grazie alla sua visione e al suo pensiero, che tocca temi e nodi nuovamente attualissimi, Lonzi ha potuto cambiare «il linguaggio con cui le donne parlano di loro stesse, della loro sessualità e dei loro desideri». Rimbombano nelle orecchie le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto […] ora serve una sorta di rivoluzione culturale».

In particolare la lotta al patriarcato e la liberazione dai ruoli, anche sessuali, imposti da una cultura misogina pervasiva, che si annida anche nelle rivendicazioni egalitarie contro le quali Lonzi e le altre allora insorgevano «L’uguaglianza tra i sessi è la veste con cui si maschera oggi l’inferiorità della donna». Affermazioni che colpiscono con chiarezza e senza mediazioni, «Non vogliamo tra noi e il mondo nessuno schermo». Anche per questo, forse, il Manifesto e gli scritti di Lonzi possono avere ancora oggi un effetto dirompente sulle ragazze che vivono un femminismo diverso, intersezionale e connesso alle rivendicazioni di genere.

Ma non era questo il suo obiettivo. Lonzi non è mai diventata una maestra. Non era nella sua rivolta. Lei aveva decostruito, decolonizzato, deculturalizzato, utilizzando autocoscienza e separatismo per smontare, con autenticità, in primo luogo la sua vita e la sua cultura, tabù e pregiudizi, stereotipi e ruoli, ma non per essere una maestra del pensiero.

Del resto non voleva lasciare un’eredità, come suggerisce Buttarelli, ma piuttosto scrollarsi di dosso ogni incrostazione, ogni retaggio e vincolo di una cultura di sopraffazione millenaria, rifiutata con un taglio netto.

Ci vuole un grande coraggio per fare questo vuoto. Buttarelli è sincera, rivela di essere diventata “lonziana” da giovane, di aver avuto una vera e propria conversione nel 1974: «da quel momento ho iniziato a essere una donna».

E in questa decostruzione, in questo svuotamento quasi artaudiano, Buttarelli parla anche del vuoto dello zen e delle mistiche contemporanee, come Teresa di Lisieux, che Lonzi avrebbe scelto come riferimento morale, per comprendere l’abbandono di parti di sé e di posizioni, fuori da qualunque compromesso, verso un’autenticità inesorabile, come prima di lei per esempio Cristina Campo, Lonzi si consuma, pur non essendo una mistica.

La nuova edizione di Autoritratto porta in copertina una fotografia di Teresa di Lisieux nei panni di Giovanna d’Arco in prigione, durante una mise en scène al convento del Carmelo. Durastanti scrive che era desiderio dell’autrice “accompagnare” il suo libro proprio con questa fotografia, o forse con un particolare, come il primissimo piano del volto della santa mistica, diventato un’opera di Giulio Paolini proprio nel 1969. Teresa nella parte di Giovanna d’Arco in prigione, omaggio all’amica Carla, che all’epoca «nutriva un particolare interesse per la figura di Teresa di Lisieux».

Da Il Mulino – Di che cosa parliamo quando parliamo di maternità surrogata? Oggi tutti si esprimono sull’argomento, con piglio sicuro e toni ultimativi, in un clima politico fortemente ideologizzato e inquinato da confusioni, ambiguità, malintesi, primo fra tutti quello derivante dall’indebita sovrapposizione di questo tema con quello dei diritti delle coppie omosessuali. Può allora essere utile ripartire dall’inizio e provare a fissare alcuni punti fermi.

La surrogazione di maternità, o gestazione per altri (di qui in poi, per comodità, anche Gpa), è una pratica che consente di scomporre il processo procreativo in varie fasi, affidandole a soggetti diversi. Il modello oggi di gran lunga prevalente prevede che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna (diversa dalla prima) si offra per ospitare nel proprio utero gli embrioni (spesso più di uno) creati in laboratorio attraverso le tecniche della fecondazione in vitro. Ne risulterà una gravidanza particolarmente impegnativa per la gestante, tenuta ad assumere ormoni prima e dopo l’impianto ed esposta al rischio di complicanze, aborti spontanei, depressione post-partum superiore alla media. Non proprio una gravidanza fisiologica, dunque, nonostante si senta talvolta parlare della Gpa come di una pratica “vecchia come il mondo”, di cui si troverebbe traccia già nella Genesi, dove Agar (una schiava!) dà un figlio ad Abramo…

Quando parliamo di maternità surrogata ci riferiamo, inoltre, a un rapporto giuridico, mediato da un contratto tra soggetti privati, che richiede talvolta di essere convalidato dall’autorità giudiziaria. A sottoscrivere l’accordo c’è, da un lato, la donna che si impegna a portare avanti la gravidanza, rinunciando a rivendicare qualsiasi legame con il bambino che ha partorito. La chiamerò, di qui in poi, “madre naturale” o “madre surrogata”. Non “portatrice”, come si usa anche fare, perché è termine asettico che banalizza in modo davvero inaccettabile l’esperienza della gravidanza, nel corso della quale la madre ha scambi biologici ed emozionali con il feto, comprovati dall’epigenetica. Dall’altro lato ci sono i singoli o le coppie infertili che alla donna si rivolgono per superare la loro impossibilità di generare. Li chiamerò, di qui in avanti, “committenti” o “genitori intenzionali” (le formule più frequentemente usate nei testi legislativi, là dove la Gpa è legale).

Ciò che mi sembra importante evidenziare è che stiamo parlando di un accordo che intercorre tra persone che prima di essere state messe in contatto da un’agenzia non si conoscevano. Questo è il caso tipico, per lo meno. Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella, un’amica o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà ci sono tutta una serie di altri soggetti attorno alle parti che siglano il contratto: agenzie incaricate di fare incontrare la domanda e l’offerta (e di provvedere alla necessaria “formazione” della surrogata), cliniche, avvocati, psicologi. Un indotto dalle ricadute economiche non indifferenti, che contribuisce a dare un’idea degli interessi in gioco, anche là dove la Gpa sia ammessa esclusivamente nella forma “altruistica”.

Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà si tratta di un rapporto giuridico mediato da un contratto tra soggetti privati.

Ecco un ulteriore punto da chiarire, forse il più delicato e controverso dell’intera faccenda. Oggi normalmente si distinguono due versioni di Gpa: commerciale e altruistica. Nel primo caso la donna che sottoscrive il contratto viene remunerata per il suo “lavoro”, nel secondo riceve un “rimborso spese”. Nella realtà, distinguere tra queste due forme di compenso è molto difficile. Daniela Danna, una delle massime esperte italiane sul tema, non ha dubbi:

“La differenza tra Gpa altruistica e Gpa commerciale […] non esiste. Le donne, tranne rarissime eccezioni nell’ambito di relazioni strette già esistenti – non si prestano a portare a termine una gravidanza per altri se non ricevono un compenso, in alcuni paesi ufficialmente sottoposto a un tetto (facile da aggirare)” (“Fare un figlio per altri è giusto”. Falso!, Laterza, 2017, p. 6).

Distinguere tra remunerazione e rimborso è arduo non solo per la facilità con cui i controlli possono essere aggirati, ma perché il rimborso tipicamente non copre solo le spese mediche o gli abiti pre-maman, ma anche i “mancati guadagni” di donne che, al momento della stipula del contratto, possono essere disoccupate o lavoratrici precarie.

Più in generale, distinguere tra “lavoro” e “dono”, in questo campo, non è semplice. In tutti i casi, lo abbiamo visto, esiste un contratto, che vincola la gestante a tutta una serie di obblighi (stile di vita salubre, accertamenti medici, assistenza psicologica), limitandone la libertà, per non parlare della privacy. In alcuni casi i contratti prevedono che la stessa decisione di abortire, o non abortire (quando siano consigliabili interventi di “riduzione embrionale”) non sia pienamente nella disponibilità della donna, tenuta a risarcire i genitori intenzionali in caso di scelte a loro sgradite.

Esiste poi, soprattutto, l’obbligo di consegnare il neonato a coloro che lo hanno “commissionato”. Su questo punto è bene essere chiari. Si favoleggia, talvolta, di Paesi che riconoscerebbero alla donna il diritto di cambiare idea, nel caso in cui l’esperienza della gravidanza e del parto faccia sorgere in lei il desiderio di non interrompere la relazione con il suo bambino. La realtà è diversa. In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola. Anche nel Regno Unito, spesso portato ad esempio di Paese in cui sarebbe previsto il diritto al ripensamento, l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali. Non diversamente dispone il progetto di legge elaborato dall’associazione Coscioni, depositato in parlamento durante la scorsa legislatura: in caso di controversie tra committenti e madre naturale deciderà un giudice, “adottando in via d’urgenza un provvedimento nell’interesse dei minori anche in base alle intenzioni manifestate dalle parti e recepite nell’accordo di gravidanza solidale e altruistica”. L’ultima parola, dunque, è di un tribunale. Che – l’esperienza insegna – nel superiore interesse del minore ad essere cresciuto in una famiglia più agiata di quella della madre naturale, lo affida di regola ai genitori intenzionali. Solidarietà obbligatoria? Altruismo forzato? Dono esigibile per via giudiziaria? È chiaro che la presenza di un accordo giuridicamente vincolante e formalmente coercibile cozza con l’idea di un gesto gratuito e ispirato a generosità…

In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola: l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali.

Ma perché, allora, è così facile imbattersi in testimonianze di madri surrogate che dichiarano di avere agito per amore, e non per soldi? (per farsi un’idea, si veda il volume di S. Marchi, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri, Fandango, 2017). A me sembra che si debba riflettere per lo meno su due aspetti. Per un verso – l’abbiamo visto – non dobbiamo pensare alla Gpa come a una relazione che riguarda esclusivamente una donna e una coppia infertile, ma tenere presente ciò che si muove dietro di loro: le agenzie, le cliniche, gli studi legali, gli psicologi… Il fatto che una surrogata non sia (ufficialmente) pagata, insomma, non implica che attorno a lei non esista un mercato. E dove c’è mercato c’è marketing; ci sono le donne che fanno da testimonial per le agenzie e sono tenute a restituire una certa immagine dell’attività in cui sono state coinvolte. Ma c’è poi, forse, anche una spiegazione più banale dietro al grande bisogno di alcune madri surrogate, e di coloro che ad esse si rivolgono, di raccontare – e raccontarsi – la Gpa in termini diversi da uno scambio commerciale: il fatto che, osservata dall’esterno, assomiglia un po’ troppo alla compravendita di un bambino. Qualcosa che perfino nell’epoca del neo-liberismo trionfante risulta difficile da accettare…

Su questo aspetto vale la pena di interrogarsi. Che cosa vendono, o “regalano”, le surrogate? Un bambino? O piuttosto un servizio, una prestazione, per quanto molto particolare e irriducibile a qualsiasi altra, perché consistente nella messa al mondo di un essere umano? Al di là della difficile risposta a questo quesito, una delle ragioni per cui dovrebbe essere a mio avviso mantenuto il divieto della Gpa ha a che fare con il rischio che l’esperienza sempre singolare e concreta della gravidanza venga banalizzata e ridotta a mera fabbricazione di un “prodotto” da offrire a chi ne faccia richiesta.

L’altra ragione, su cui mi sono soffermata maggiormente altrove (Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato, Bollati Boringheri, 2023) rinvia alla libertà delle donne di autodeterminarsi, che non va confusa con l’autonomia negoziale e va difesa anche contro le pressioni del mercato.

Il fatto che i bambini siano persone, e non oggetti, se per un verso giustifica il divieto di istituzionalizzare una pratica che li priva programmaticamente della relazione con colei che li ha messi al mondo, per altro verso induce a criticare proposte di legge punitive come quella presentata in Parlamento dalle destre, che, facendo della Gpa un “reato universale”, avrebbe ricadute deleterie sui bambini già nati attraverso tale pratica. Se i bambini sono persone, se i loro bisogni devono essere messi al primo posto, non si possono fare pagare a loro le colpe degli adulti che, per averli, hanno fatto ricorso alla Gpa nei Paesi in cui è legalmente riconosciuta. “Colpe”, peraltro, originate da un desiderio di genitorialità comprensibile, che non va criminalizzato. Non si tratta qui di inasprire le pene e rendere la vita difficile ai trasgressori. Si tratta di fare una battaglia culturale sul significato della Gpa, che non può essere considerata una semplice tecnica di riproduzione assistita. E chiedersi se il desiderio di avere bambini, di accudirli e amarli non possa essere soddisfatto attraverso forme di genitorialità diverse da quella biologica, basate sull’adozione e sull’affido (da aprire anche alle coppie omosessuali). E forse anche sulla disponibilità ad accompagnare la crescita dei figli altrui, in nome di legami di solidarietà e di affetto che non hanno bisogno di contratti per esprimersi.

Da l’Unità – Il suo discorso a Venezia in occasione del premio assegnatole dalla giuria presieduta da Isabelle Huppert, ha – come afferma Maura stessa – toccato un nervo scoperto: il silenzio sociale nei confronti di temi come la complessità della maternità al di fuori della sua narrazione più convenzionale e l’ancestrale e ormai inaccettabile difficoltà della sua conciliazione con il lavoro. «Mi auguro che la società – ha dichiarato la regista Maura Delpero nel ritirare il Leone d’Argento – dato che si riproduce attraverso i nostri corpi, inizi a sentire questo problema come suo e non lasci sole le donne».

La piccola e insieme maestosa storia corale di Vermiglio si svolge nel 1944 in un piccolo paese incastonato nella Val di Sole, una terra di confine che accompagna e abbraccia le vicende dei protagonisti diventando paesaggio interiore, bianco e siderale in momenti drammatici e verde e assolato in momenti più teneri. Le vicende si snodano con un rispetto filologico della lingua e del momento storico, ma proprio questa collocazione così puntuale in un tempo e in un luogo specifico diventa funzionale al racconto di una vicenda che può tranquillamente collocarsi al qui e ora. È proprio questa la ragione che ha spinto il Comitato di Selezione per il film italiano a sceglierlo per la 97ª edizione degli Academy Awards per concorrere nella categoria International Feature Film Award, «Per la sua capacità di raccontare l’Italia rurale del passato, i cui sentimenti e temi vengono resi universali e attuali».

Il tuo percorso di formazione parte dalla città di Bologna, credi che sia stato importante per la tua crescita artistica?

Assolutamente sì. Bologna mi ha fatto conoscere il cinema. Ho studiato Lettere all’università, guardando film in Cineteca, dove ho scoperto la storia del cinema e la cinematografia contemporanea attraverso le rassegne che passavano di lì, occasioni che mi hanno aperto al mondo. A Bologna ho passato gli anni della mia formazione e sono diventata un’adulta, la mia formazione ideologica è partita da lì. Io non credo che il cinema sia un’arte giovane, è un’arte per adulti, per aver qualcosa da raccontare devi aver vissuto e io lì ho vissuto tante cose, sono certa che quello che porto adesso nel cinema è frutto di quello che sono diventata attraverso questa città.

Quanto è stata influente la collaborazione con una compagnia teatrale per la tua formazione, se lo è stata?

Difficilmente avrei fatto un lavoro su un altro spettacolo. Quello spettacolo nello specifico era molto cinematografico. Ho sentito che quello spettacolo potesse avere uno sguardo in più che non fosse solo di servizio o ancillare, ma che potesse in qualche modo risignificarlo. Mi piaceva stare in teatro, guardare gli attori tirare su lo spettacolo, è stata un’esperienza a tutto tondo.

Il tuo discorso di ringraziamento per il Gran Premio della Giuria ricevuto a Venezia ha avuto grande eco. Ci vuoi dire qualcosa su questo?

La quantità di messaggi che ho ricevuto dopo quel discorso non mi ha stupita ma mi ha fatto pensare, in fin dei conti è stato un discorso semplice e, nel mio caso, assolutamente sentito perché sono stata io stessa una giovane mamma che girava il suo film con enormi difficoltà. La sensazione che hai quando fai questo mestiere – e non è solo una sensazione, perché a volte te lo senti proprio dire – è che te la sei cercata. Ai miei colleghi maschi questo non è mai stato detto. I registi che fanno film con bambini piccoli sono tanti, ma rimane una questione che non tocca nessuno. Il riverbero che ha avuto questa semplice frase mi ha fatto capire di aver toccato un nervo scoperto. C’è troppo silenzio attorno a questo tema, si lascia che le donne si mettano sulle spalle il peso di questa scelta come fosse un capriccio personale mentre è una questione che riguarda tutti.

Pensa che la società di oggi si stia definitivamente smarcando dal retaggio culturale patriarcale o la strada per la parità è ancora lunga?

Il tema della maternità complessa che tratto in Vermiglio affonda le radici nella mia infanzia, ma è anche un modo concentrato di raccontare nel complesso le questioni legate alla maternità in generale, soprattutto all’interno di una società patriarcale che certo sta cambiando, ma che ancora non ha fatto il passo decisivo. Io mi ritrovo a parlarne in maniera più diretta e subliminale per una questione legata al mio inconscio e alla mia infanzia, ma sono anche contenta dal punto di vista politico di mettere queste questioni al centro dei miei film. È una cosa buffa quella che è successa nei secoli, questa programmatica esclusione di un genere rispetto a un altro. Tutti noi lo abbiamo normalizzato perché siamo nati in un mondo così; tuttavia, io faccio sempre l’esercizio di raccontarmi le questioni come se dovessi rispondere a un bambino che mi fa una domanda, e raccontare la questione di genere a un bambino non può che generare la domanda: «Ma perché?».

A proposito di bambini, come è stato per lei lavorare con attori così piccoli?

Innanzitutto, credo che loro siano preziosi. Il loro sguardo, soprattutto in un racconto duro come quello del film, è uno sguardo che dà futuro e, insieme, leggerezza. I bambini riescono a dire le cose in maniera irriverente e dolce insieme, dicono le cose che noi adulti pensiamo ma non ci permettiamo di dire. Mi è piaciuto, soprattutto in Vermiglio, avere questa sorta di coro greco che commenta di notte i grandi avvenimenti come le micro-questioni della famiglia, avere i loro sguardi sussurrati delle cose che non si possono dire, vivere il processo di rielaborazione nelle loro giovani menti di quello che accade in casa. A loro quando giri non puoi dire tutto, alcuni sono troppo piccoli per storie così dure. Questo porta a volte a creare storie nelle storie pensando a quello a cui anche nella vita reale avrebbero accesso: quando io da bambina entravo in cucina le voci degli adulti si abbassavano e io raccoglievo frammenti. E li mettevo assieme e ora li racconto.

Da il manifesto – Máxima Acuña, la contadina peruviana simbolo mondiale delle lotte contro l’estrattivismo: «Ricevo minacce di morte, ma credo che grazie all’unità delle lotte si possa vincere contro il potere»

Con il suo metro e mezzo scarso di altezza e la sua voce mite, la contadina peruviana Máxima Acuña da più di dieci anni sta tenendo testa a un colosso minerario. Difende un bene ancora più prezioso dell’oro di cui l’industria estrattiva va a caccia senza scrupoli: il suo diritto a esistere e la salute dell’ambiente. La sua origine è umilissima: nata a Sorocucho sulla Cordigliera andina nel 1970, è cresciuta nella casa dov’è nata, con i genitori, anche loro contadini, persone semplici che come lei non sapevano né leggere né scrivere ma che le hanno insegnato a lavorare la terra e a convivere con la natura. Il terreno dove si trova la sua casa e vive con la famiglia, il marito e quattro figli, è l’unica cosa che possiede; si nutre dei prodotti da lei coltivati, beve l’acqua della laguna che alimenta il suo terreno e lavora la lana delle sue pecore per realizzare vestiti e artigianato da vendere. Una vita, la sua e quella di migliaia di altri campesinos che non vale nulla di fronte alla sete di profitto di una multinazionale. Suo malgrado è diventata una famosa attivista e simbolo di resistenza, insignita di premi e riconoscimenti, chiamata da ogni parte a raccontare una storia che non è ancora finita e che riguarda tanti. È venuta di recente in Italia dove fra le altre cose ha partecipato a GEA, la scuola di giustizia ecologica e sociale che si è tenuta a Trevignano.

Quando e perché è iniziata la sua lotta?

La mia lotta è iniziata nel 2011 quando le imprese Yanacocha del Perù e Newmont degli Stati Uniti hanno iniziato a invadere il nostro territorio con i loro macchinari per espandere la loro attività estrattiva. Hanno convinto tutti i nostri vicini a vendere le loro terre anche se in realtà è come se gliele avessero rubate perché sono stati intimiditi e minacciati e alla fine hanno ricevuto una somma molto minore del reale valore delle loro terre. Noi non abbiamo accettato i soldi in cambio della vendita perché crediamo che la terra abbia un valore che non si può quantificare ed è l’unico bene che possediamo. Noi ci sentiamo i custodi della terra.

La società mineraria Yanacocha vuole realizzare un imponente e controverso progetto di estrazione di oro e di rame dal nome “Conga”. Un investimento di 5 miliardi di dollari che mira a creare una miniera estesa per oltre 20 km². Con quali conseguenze per il territorio e chi lo abita?

La realizzazione del progetto Conga porterebbe alla distruzione di migliaia di ettari di territorio andino: l’estrazione dell’oro rilascia metalli tossici nella terra che noi coltiviamo, prosciuga le più di venti lagune che forniscono l’acqua che noi beviamo e utilizziamo per irrigare i nostri campi, rilascia polveri nell’aria che respiriamo. Alcune di queste lagune sono l’unica fonte di acqua per gli abitanti di Celendín e Cajamarca. Inoltre per noi queste lagune non hanno un valore solo materiale, ma anche simbolico importantissimo. L’elemento liquido dell’acqua nella cosmovisione andina è centrale, l’acqua ci dà la vita, senza l’acqua nessuno potrebbe vivere. La gente della città deve pagare per bere l’acqua, noi campesinos prendiamo l’acqua dalle fonti di acqua pura, non dobbiamo pagare niente. Quest’acqua, l’acqua della Pachamama (madre terra in quechua, la lingua andina) dà vita anche a tutte le persone nella città perché arriva dalle lagune.

In che modo il conflitto con l’impresa mineraria ha condizionato e danneggiato la sua vita? Quali minacce ha ricevuto?

Abbiamo subito maltrattamenti fisici e psicologici. Siamo stati picchiati dalle forze di polizia locali, su pressione della società mineraria abbiamo subito uno sfratto illegittimo, siamo stati denunciati ingiustamente di invasione di terreno. Ci è stato reso difficile coltivare, abbiamo visto uccidere i nostri animali, i raccolti della nostra terra sono stati rubati. Abbiamo trovato la nostra casa distrutta in più occasioni, una volta anche il tetto e i pannelli solari e la videocamera che avevamo istallato per registrare i soprusi di cui eravamo vittime. La nostra libertà di movimento è limitata perché non possiamo più uscire ed entrare in casa senza essere identificati dai check-point che l’impresa ha insediato. Inoltre, è partita contro di me e la mia famiglia una campagna pubblica di diffamazione in cui si sostiene che siamo dei bugiardi e dei pazzi che si oppongono allo sviluppo. In questo modo hanno convinto i vicini di casa a non avere nessun tipo di relazione con noi. Un’altra conseguenza è che a causa di questa nomea non possiamo trovare lavoro. Non abbiamo più privacy, pace, tranquillità nella nostra casa perché con i loro macchinari sono arrivati sui confini della nostra terra, nel cielo sopra di noi vola un drone, siamo circondati dalla polizia e dalla loro vigilanza privata che ci controllano e che sono corrotti dall’impresa. Ci hanno proibito di andare nelle lagune della nostra terra, hanno anche distrutto i documenti che attestano che la proprietà della terra è nostra.

Nel 2014 la Corte Suprema della regione l’ha prosciolta dall’accusa di occupazione illegale, nel frattempo la sua lotta è diventata nota a livello internazionale, nel 2016 ha vinto il premio Goldman, il più importante per l’ambiente a livello mondiale, una sentenza recente della Corte di Giustizia regionale (agosto 2024) ha accolto la richiesta di fermare il progetto a causa dei danni che provoca all’ambiente; tuttavia la battaglia non è finita.

Io devo ancora lottare insieme alla mia famiglia. Continuiamo a ricevere minacce di morte e a essere mandati in prigione, le denunce non si fermano. Siamo molto più soli e abbandonati, perché la gente dei villaggi che prima ci appoggiava ora è sparita, sono stati intimiditi dalle imprese coinvolte. Il processo giudiziario non è ancora terminato e noi non abbiamo le risorse economiche per seguirlo fino alla fine. Ma il pericolo più grande rimane quello della vita: è un rischio molto concreto, molte volte questo tipo di problemi è stato risolto in questo modo e nessuno lo è venuto a sapere oppure nessuno ha pagato per questo.

In che modo andare avanti? Di cosa c’è bisogno per vincere questa battaglia definitivamente?

L’unico modo è l’unità; un’alleanza fra autorità, organizzazioni, politici, giovani e anche le altre donne che lottano. Penso che questa possa essere la strada per vincere contro questi poteri. Per questo ho accettato l’invito della Scuola Gea di venire a Roma, per tessere nuove alleanze e costruire una rete di lotta comune. Sono molto grata alla scuola Gea perché con loro ho potuto incontrare il partito di Sinistra Italiana e dei Verdi che si sono impegnati a sostenere le mie spese legali e a portare il mio caso nella commissione esteri del Parlamento italiano. Ho incontrato anche il Dicastero dello Sviluppo umano integrale della chiesa di Papa Francesco e loro si sono impegnati a mettermi in contatto con il vescovo di Cajamarca. Solo lottando insieme le ingiustizie contro la mia famiglia e la distruzione di Madre Terra termineranno. La nostra lotta non riguarda solo la nostra terra, ma anche quella di coloro che vivono nelle città e pensano solo ai soldi: la fame un giorno arriverà anche lì, e allora che faremo? Dobbiamo lottare non solo per noi, non solo per voi, ma per il Pianeta intero.

Da Internazionale – “Vi chiediamo visioni di società senza armi, stati senza eserciti, comunità liberate dal lutto della guerra. E vi chiediamo di farlo nello spazio di un poster”. Questa è la richiesta di Cheap nella loro ultima call for artists.

Cheap è un progetto di arte pubblica fondato a Bologna nel 2013 da sei donne che hanno scelto di lavorare con la poster art. Ogni anno lanciano un invito rivolto a chiunque si occupi di arte visiva per realizzare poster da attaccare nelle strade di Bologna. Il tema di quest’anno è stato: Fuck war!

Il collettivo bolognese ha deciso di dedicare questa edizione alla guerra, con un occhio di riguardo alla Striscia di Gaza. “Era inevitabile che il massacro che si sta compiendo in Palestina fosse al centro del lavoro di molte delle artiste che hanno partecipato alla call. Non è nemmeno una guerra: quello a cui stiamo assistendo è un genocidio che il sistema dell’informazione – soprattutto in Italia – si sta in larga parte rifiutando di indagare e denunciare. Abbiamo voluto tentare di aprire una breccia nella conversazione pubblica surreale che sentiamo attorno a noi su quello che sta succedendo in Palestina. Chiedere il cessate il fuoco non è una richiesta radicale come viene bollata: davanti a 40mila civili uccisi è il minimo a cui ci si possa appellare”.

L’invito ai partecipanti è stato quello di disertare l’immaginario bellico e sabotare la retorica che lo sostiene. Sono arrivati 1.120 poster da 41 diversi paesi nel mondo, 662 partecipanti che hanno lavorato con diverse tecniche e mezzi: fotografia, collage, illustrazione, tipografia, intelligenza artificiale e grafica.

I manifesti per le strade di Bologna rimandano a un immaginario non solo di pace ma anche di giustizia sociale, invitano ad azzerare la spesa militare per investire in istruzione e sanità, visioni di società senza armi e di stati senza eserciti.

La artiste di Cheap saranno a Ferrara il 4 ottobre, durante il festival di Internazionale, per presentare il loro ultimo libro Disobbedite con generosità (People).

Da Disarmisti esigenti – Il 26 settembre è la giornata ONU contro le armi nucleari. Oggi, rispetto al periodo della guerra fredda, in cui avvenne l’episodio in cui il colonnello sovietico Stanislav Petrov rimediò a un falso allarme nucleare contro la capitale Mosca, evitando una guerra nucleare per errore*, questo rischio tende ad aggravarsi sia per il caos geopolitico (si pensi alle guerre sul territorio ucraino e in Medio Oriente), sia per i progressi tecnologici male indirizzati (miniaturizzazione delle armi, velocità ipersonica, intelligenza artificiale).
Le spese in armamenti nucleari vanno crescendo ed i 9 Stati dotati hanno superato nel 2023 la cifra di 90 miliardi di dollari per i loro arsenali.

Citiamo la petizione (https://www.petizioni24.com/ricordiamo_petrov_no_rischio_nucleare )

con la quale abbiamo proposto e proponiamo alle attiviste e agli attivisti pacifisti italiani di darsi da fare perché siano intitolate vie o piazze all’obiettore russo (obiettore dell’intelligenza!) per sensibilizzare sul crescente rischio nucleare.

La campagna ICAN (Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari), premio Nobel per la pace 2017, ha appena organizzato, dal 16 al 22 settembre, una settimana di azione globale per dire basta alla spesa nucleare.

Sul sito ufficiale dell’organizzazione (ICAN – Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari icanw.org)abbiamo la notizia che 73 Stati hanno già ratificato il Trattato di proibizione delle armi nucleari.

In Italia le forze aderenti ad ICAN lavorano per coinvolgere gli Enti Locali nell’ICAN PLEGDE (100 città, tra le quali la capitale Roma, grazie in particolare a WILPF Italia), cui attualmente aderiscono circa 30 parlamentari, nella modalità per essi predisposta.

Un altro terreno di opposizione disarmista che si è aperto, con possibili implicazioni antinucleari, riguarda la decisione di installare in Germania nel 2026 missili a raggio intermedio (da 500 a 5.500 km), che è anche frutto della disdetta del Trattato INF (Forze nucleari intermedie), dichiarata, nel 2019, dall’allora presidente USA Donald Trump.

A Berlino, il 3 ottobre 2024, è prevista una grande mobilitazione nazionale del movimento pacifista tedesco. Su questo punto dei cosiddetti EUROMISSILI l’esperienza “storica” del Cruisewatching a Comiso (oggi sede della Pagoda per la Pace) e in Europa, sviluppatasi dal 1984 al 1987, dà l’indicazione di non mollare mai, fino al possibile, riconosciuto, successo (allora costituito dalla firma del Trattato da parte di Gorbaciov e Reagan).

* Il film di Peter Anthony The man who saved the world sulla vicenda del colonnello sovietico Stanislav Petrov che il 26 settembre 1983 salvò il mondo, è visionabile su You tube alla URL: https://www.youtube.com/watch?v=8TNdihbV5go).

(http://www.disarmistiesigenti.org/2024/09/25/petrovday2024/ , 25 settembre 2024)

Da la Repubblica – Barbe lunghe, niente abiti occidentali, obbligo di andare in moschea: la polizia morale ora perseguita anche i maschi afghani

Dopo aver azzerato i diritti delle donne – impossibilitate a spostarsi da sole, vestirsi come vogliono, andare a scuola e perfino lavorare – nell’ultimo mese i talebani hanno iniziato a imporre regole strettissime anche agli uomini. E ora che tocca a loro, qualcuno si pente di non aver difeso abbastanza i diritti di mogli, madri e sorelle. Diritti negati che secondo associazioni come Amnesty International sono una vera persecuzione di genere, configurabili come crimini contro l’umanità.

Secondo gli osservatori, il cambio di passo segna un mutamento all’interno del regime talebano. Gli equilibri di potere stanno cambiando: la fazione più conservatrice – emanazione delle aree rurali – guadagna influenza. E ora cerca di affermarsi aggressivamente anche nelle aree urbane. Attaccando l’eccessiva – a loro giudizio – occidentalizzazione maschile. Ecco perché, con nuove leggi promulgate a fine agosto – hanno deciso di imporre agli uomini di portare la barba lunga almeno un pugno. Intromettendosi, proprio come già fatto con le donne, anche nel loro armadio: imponendo dunque l’addio ai jeans e ai capelli corti, con regole che impongono look che si allontanino da un tipo di immagine considerata “non islamica”. Non solo: nel nuovo Afghanistan ora gli uomini non possono nemmeno guardare donne che non siano loro mogli o parenti. Figuriamoci parlargli.

Le nuove restrizioni hanno colto di sorpresa la popolazione maschile afgana. E un certo malcontento ora regna anche fra i sostenitori del regime. Lo hanno ripetuto in tanti – a patto di mantenere l’anonimato – al Washington Post che ha fatto una serie di interviste telefoniche sulla questione: «Se noi uomini avessimo alzato la voce quando è toccato alle nostre donne, oggi ci troveremmo in una situazione diversa», ha affermato uno degli intervistati parlando dalla capitale Kabul: «Ora, tutti si fanno crescere la barba perché non vogliamo rischiare di essere arrestati in strada, interrogati, umiliati». Per carità, quello che viene oggi imposto agli uomini è poca cosa rispetto alle imposizioni cui sono state sottoposte ragazze e donne negli ultimi tre anni, dopo, cioè la drammatica uscita degli americani dal Paese. Ridotte letteralmente al silenzio, giacché non possono alzare la voce in pubblico, sono impossibilitate a proseguire gli studi dopo le elementari, escluse dall’università, costrette a sparire sotto pesanti burqa.

Ma gli agenti della moralità religiosa, riconoscibili dalla tenuta bianca, ora bussano anche alle porte degli uomini: e non solo per lamentarsi del loro abbigliamento ma anche, ad esempio, per non averli visti in moschea. I dipendenti pubblici senza barba rischiano il licenziamento o importanti trattenute sullo stipendio. E i barbieri ormai si rifiutano di tagliarla. Non basta: molti tassisti vengono arrestati con l’accusa di aver violato le regole sulla segregazione di genere: per aver cioè accettato di trasportare donne non accompagnate da un parente sulla loro auto. O per aver fatto suonare musica dalle loro autoradio. Sono una delle categorie più colpite: «Da quando non possiamo più portare a casa le donne non accompagnate i guadagni sono crollati del 70 per cento», spiega uno di loro.

Le nuove leggi danno alla polizia morale l’autorità di trattenere i sospetti fino a 3 giorni. E chi ad esempio salta la preghiera in moschea, finisce sotto processo, condannabile in base all’interpretazione rigida che i talebani fanno della legge islamica della sharia. Le nuove violazioni sono punite con multe o pene detentive. Ma chi è colpevole di infrazioni più gravi come l’adulterio, è condannato alla fustigazione o alla morte per lapidazione, come d’altronde già avveniva un quarto di secolo fa.

L’aver toccato i privilegi maschili, piace poco anche ai sostenitori del regime: «Siamo tutti musulmani praticanti, sappiamo cosa è obbligatorio e cosa no. È inaccettabile usare la forza anche contro di noi», ha detto uno di questi al WP. Concludendo amaro: «Anche chi sostiene i talebani ora vuol lasciare il paese».

Questo in realtà vale per chi vive a Kabul, la città più cosmopolita del paese, o in altre aree urbane. I residenti di zone rurali e più conservatrici dicono di aver notato a malapena il cambiamento. Un residente della provincia di Helmand, racconta che quelle regole sono la consuetudine: «Finora non si è presentata nessuna polizia morale qui. Si concentrano sulle città, da noi non serve». Per alcune donne le nuove restrizioni al maschile sono fonte di una qualche speranza: «Rispetto a quel che è stato imposto a noi, gli uomini sono rimasti totalmente in silenzio fin dal primo giorno, il che ha dato ai talebani il coraggio di continuare a imporre regole tremende», ha detto nelle interviste una donna di 24 anni residente a Kabul. «Ora che toccano i loro privilegi i talebani stanno finalmente perdendo il sostegno degli uomini. Chissà che non si finisca per protestare insieme». Ma per molte altre, anche questa è una mera illusione: «Non resta che lasciare il paese» dice un’altra donna. «L’Afghanistan sprofonda nel passato: non c’è più futuro».

(la Repubblica, 24 settembre 2024)

Da Il Fatto Quotidiano – Voi ebrei! Anche lei a usare il plurale? Abbiamo perso l’identità, è andata al macero la storia personale, la reputazione personale, la memoria e anche, se permette, il senso della misura. Questo flagello quotidiano è insopportabile.

Edith Bruck, potrei controbattere dicendo che ogni critica a Israele, anche la più fondata e prudente, è spesso tacciata di essere freccia nell’arco degli antisemiti.

Non lo sentirà mai da me come del resto sono pronta a riconoscere che Netanyahu sia la vera disgrazia, il cappio al collo di Israele, la frusta che allontana quella terra dalla pace. La insozza di sangue, la tiene in preda a una nevrosi quotidiana. Io contesto e duramente la politica di quel governo, come lo contesta la maggioranza degli israeliani. Altro che voi ebrei!

Si sente particolarmente afflitta dal timore di essere ricompresa in quella che viene accusata d’essere la trincea oltranzista, quella di chi lotta per allontanare la pace e non la guerra?

Un giorno Calvino mi venne a trovare a casa e mi disse: voi ebrei. Gli risposi a brutto muso: Italo, voi chi? C’è qualcosa in più dell’approssimazione, c’è un giudizio, e troppo spesso spregiativo, sull’insieme, sul popolo. È questo che offende. Un ebreo ricco non vuol dire che ogni ebreo è ricco. Se quel tizio è particolarmente rapace, nessuno è autorizzato a pensare che siamo un popolo di Rasputin.

Pensa che il voi” che lei sente affibbiato addosso abbia un tratto schiettamente razzista?

Anche mio marito un giorno mi disse: voi ebrei. È proprio dentro non al linguaggio ma all’animo, alla coscienza collettiva. E questo è il vero dramma.

Ha letto degli ultimi incredibili fatti di sangue?

Mostruoso! Immettere dentro i cerca-persone cariche di esplosivo per compiere una strage è sinceramente un atto barbarico.

Si dice che sia stato Israele.

Israele dice di no.

Tutti i sospetti portano al Mossad, il servizio segreto di Tel Aviv.

Israele ha il problema di Netanyahu e costui alimenta la guerra perché è il suo unico modo per rimanere sulla poltrona. Per lui rimanere sulla poltrona significa anche allontanare i processi.

La questione personale del primo ministro, condivisa dalla compagine di governo, diviene la bomba su cui esplode il conflitto con i palestinesi?

Io penso così e dico di sì. Il governo di Israele non sembra avere altra chance e non sembra avere altro interesse che proseguire la guerra infinita con i palestinesi.

Hamas è l’autore della strage dei civili israeliani portata a termine il 7 ottobre scorso. Barbarica, indicibile, disumana. La risposta di Israele è altrettanto terribile: Gaza rasa al suolo, la striscia occupata, 40mila morti nella parte palestinese. Non crede che Israele stia tirando troppo la corda?

Credo che Israele sia piegato a questa malvagia dottrina della guerra in permanenza. E credo pure che la maggioranza degli israeliani, parlo del popolo, rifiuti di dare spazio unicamente alle bombe. Le bombe producono altre bombe.

C’è un modo per fare la pace?

Un modo c’è: dare ai Palestinesi uno Stato, una terra su cui issare la propria bandiera. Solo così ci sarà pace.

La sua idea non ha molte speranze di successo. Da quanto manca da Israele?

Sono oramai quarant’anni. Ho lasciato lì un nipote che mi racconta della nevrosi collettiva, del fatto che non si vive più ma si corre da un rifugio all’altro, da una crisi all’altra, da un’allerta all’altra. È un popolo in preda alla paura, un popolo nevrotico e non potrebbe essere altrimenti. Anche questo bisogna valutare quando si giudica.

Lei lasciò Israele per non arruolarsi nell’esercito…

Chi ha conosciuto i campi di concentramento può accettare di indossare una divisa militare? Corsi via, sbarcai a Napoli dopo aver sposato un marinaio solo per ottenere la cittadinanza. A Napoli incrociai gli sguardi amichevoli, quegli occhi e quei sorrisi, gente sconosciuta che però mi fecero sentire subito a casa. Capii allora che l’Italia sarebbe stata il mio Paese. E sono stata felice e fortunata.

Com’è cambiata l’Italia da quando è stata accolta?

Era sorridente ed è divenuta ombrosa. Era generosa, ora è egoista. L’Italia ha avuto una regressione anche nei comportamenti, nella postura collettiva. Non è un caso che oggi la guidi una donna della destra estrema e non è un caso che ci sia Salvini al governo.

Lei dice purtroppo?

Putroppo, sì. L’Italia è cambiata in peggio. E si vede!

Da Facebook – Papa Francesco critica la democratica Kamala Harris di essere favorevole all’aborto e la paragona a Trump in quanto contrario all’immigrazione. Sostiene che ambedue sono favorevoli alla morte.

A parte il fatto che trovo assurdo un simile paragone (vedere in proposito il post di Massimo Lizzi), vorrei che papa Francesco leggesse quello che ha scritto Luisa Muraro nel 2018:

«Quando papa Francesco ripete che manca una teologia della donna, ha ragione del suo punto di vista, a lui manca davvero perché la teologia cattolica si basa sulla sintesi di Tommaso d’Aquino che si è basato sul pensiero di Aristotele secondo cui le donne sono regolate per definizione da autorità e poteri di questo mondo. Manca al papa un’idea compiuta e articolata della libertà delle donne in sé e per sé, viste cioè in rapporto a Dio e non alle autorità di questo mondo. Che è una lacuna grave per un uomo nella sua posizione, chiamato a pronunciarsi anche su questioni in cui ne va della libertà femminile, come l’aborto. Legiferare sull’aborto è difficile in generale, per la stessa ragione. Ci sono complicazioni dovute alla mancata formulazione di un principio basico della libertà femminile che dice: Niente e nessuno può costringere una donna a diventare madre» (Luisa Muraro, Cambio di civiltà, Sottosopra, 2018).

Da il manifesto – I raccapriccianti atti di terrorismo avvenuti nei giorni scorsi in Libano attraverso cercapersone e ricetrasmittenti sono una eclatante manifestazione di uno degli aspetti meno compresi della rivoluzione digitale.
Relativamente poche persone, infatti, hanno messo a fuoco il fatto il mondo si sta computerizzando, processo che sta causando, oltre al resto, alterazioni profonde nei rapporti con l’ambiente in cui viviamo, oggetti inclusi.
La prima fase della computerizzazione del mondo è stata palese perché è stata semplicemente la fase della diffusione dei computer tradizionali, dai cosiddetti mainframe agli attuali desktop e notebook. Negli ultimi 20-30 anni, però, la miniaturizzazione dei componenti e il drastico calo dei costi (anche della connessione a Internet) ha avviato una seconda fase, meno visibile e soprattutto meno compresa, che sta portando a computerizzare un numero crescente di esseri umani, di spazi e di cose.
Gli esseri umani si stanno computerizzando – volontariamente, ma in larga parte senza essere pienamente consapevoli delle implicazioni – innanzitutto tramite l’adozione e l’uso molto intenso dello smartphone, ormai posseduto da oltre quattro miliardi di persone. Allo smartphone in anni recenti si stanno aggiungendo – in attesa di impianti sottopelle – orologi, braccialetti, occhiali e anelli smart, dove smart è sinonimo di «con computer a bordo dotato di sensori e connesso a Internet». Le persone godono delle spesso notevoli funzionalità degli oggetti smart, che spesso portano con sé anche quando dormono, ma allo stesso tempo si prestano a una raccolta dati, anche estremamente sensibili, su di loro e sull’ambiente in cui si trovano, una raccolta dati assolutamente senza precedenti per vastità e capillarità, con conseguenze – per gli individui e per la società – ancora tutte da mettere a fuoco.
Per gli spazi, invece, basta pensare alla smart city, dove smart vuole innanzitutto dire la disseminazione di computer connessi a Internet negli spazi pubblici. Innanzitutto le migliaia di telecamere smart che stanno distopicamente presidiando le strade e le piazze delle nostre città (oltre che scuole, università, ospedali, uffici pubblici…), ma anche computer (dotati di sensori, ovvero, microfoni, telecamere, geolocalizzatori…) sui mezzi di trasporto (sia pubblici, sia quelli gestiti da privati come auto, scooter, biciclette e monopattini in condivisione), computer nei cassonetti dell’immondizia per controllare la raccolta differenziata, computer ai semafori e agli attraversamenti pedonali, e molto altro ancora.
Una computerizzazione degli spazi che riguarda anche moltissimi spazi privati, non solo molti luoghi di lavoro, ma anche le stesse case delle persone, sempre più popolate di oggetti computerizzati che ascoltano e magari anche vedono, come, per esempio, gli assistenti personali tipo Alexa e le televisioni smart. In generale, sta diventando sempre più difficile passare del tempo in spazi non computerizzati, ovvero, spazi che non ci spiano, un cambiamento fondamentale del nostro rapporto con lo spazio.
E infine, appunto, gli oggetti. Tutti quelli che abbiamo già citato, a partire dagli smartphone, ma anche molti altri che in questi anni si sono progressivamente computerizzati: frigoriferi, lavatrici, termostati, lampade, bilance, forni, allarmi, televisori e molti altri ancora, tra cui le automobili e in generale i mezzi di trasporto, dai monopattini elettrici a elicotteri e aeroplani. Tutti oggetti che, dotati di computer (per quanto rudimentali nel caso degli oggetti più semplici), e di una connessione con l’esterno (quasi sempre senza fili), hanno mutato in maniera radicale la loro natura.
Sono, infatti, diventati – quasi sempre all’insaputa di chi ingenuamente pensa di esserne il padrone – da una parte, oggetti che posso spiare il comportamento di chi li utilizza (eventualmente anche tramite microfoni o telecamere) e, dall’altra, oggetti che possono in linea di principio essere comandati dall’esterno per mutarne le funzionalità (per esempio rallentando o fermando un’automobile in corsa), fino al caso estremo – ma purtroppo di tragica attualità – della deliberata attivazione di una carica esplosiva nascosta come è avvenuto in Libano.
La computerizzazione del mondo finora è avvenuta in larga parte sottotraccia, con al limite qualche preoccupazione per la privacy delle persone. In realtà, è un processo di importanza capitale per il futuro delle nostre società, un processo di cui – senza minimizzarne i potenziali benefici – vanno problematizzati tutti gli aspetti. In particolare, invece di vedere solo gli aspetti positivi, lasciando mano libera alle imprese, peraltro tendenzialmente le solite Big Tech, dovremmo democraticamente decidere se, quando, come e a beneficio di chi computerizzare persone, spazi e oggetti, dando massima priorità alla trasparenza e alla libertà – non solo di scelta – delle persone. Naturalmente per fare ciò è necessario, oltre al resto, padroneggiare le tecnologie della computerizzazione lungo tutta la filiera produttiva. Una sfida, e tra le più importanti, per l’Europa del presente e dei prossimi anni.

Da Il Quotidiano del Sud – Due anni fa il 16 settembre moriva la giovane curdo iraniana Masha Amini, studentessa ventiduenne arrestata e pestata brutalmente dalla “polizia morale” per aver indossato il velo in modo improprio. Seguì la “rivolta” delle donne iraniane al grido “Donna, Vita, Libertà”, a cui si unirono anche uomini. Allora Maysoon Majidi, la regista curda iraniana e attivista per i diritti umani, in particolare delle donne, detenuta da nove mesi nelle carceri calabresi con l’accusa di essere una scafista, era nel Kurdistan iracheno, dove – come ha scritto in una lettera dal carcere – era fuggita col fratello dopo aver ricevuto minacce da parte del regime iraniano. In Iraq, dove aveva lavorato in televisione oltre che come reporter e giornalista indipendente, prese parte alla “rivoluzione” organizzando «la prima performance davanti alla sede delle Nazioni unite» e aprendo «il canale “Ack news” per pubblicare notizie in tempo reale». Due giorni dopo quell’anniversario al tribunale di Crotone si è svolta la terza udienza del processo a suo carico e questa volta non è stata lasciata sola, fuori e dentro il Tribunale. A scuotere le coscienze hanno contribuito certamente la sua lettera dal carcere e un appello che il padre, Ismael, vecchio e ammalato, ha rivolto dall’Iran «a tutte le associazioni e organizzazioni che si impegnano nella difesa dei diritti delle persone perché si occupino del caso» della figlia e ha chiesto giustizia perché «le accuse sono prive di fondamento». «Questa è la mia voce! Mi chiamo Maysoon Majidi – si legge nella lettera –, sono nata il 29 luglio 1996. Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membra dell’organizzazione dei diritti umani “Hana”, partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iran) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni.» Poi, la fuga con il fratello e l’arrivo, dopo tante peripezie, in Turchia, le violenze subite, la partenza e la traversata che, ancora una volta, ha raccontato nei particolari in Tribunale, per dimostrare la sua innocenza. «Fin da piccola – ha scritto il padre – Mayson ha dimostrato capacità artistiche, si è espressa con le matite colorate ancor prima di andare a scuola, sempre incoraggiata da noi di famiglia. Nella classe che corrisponde alla quarta elementare ha cominciato a scrivere poesie, alla scuola media è diventata redattrice della rivista della scuola e nell’ultimo anno ha vinto il premio tra gli studenti narratori in Iran. Appassionata d’arte, si è iscritta all’Università per studiare teatro e regia teatrale» e quando si è «impegnata in politica e nell’attivismo per la difesa dei diritti umani» ha subito «interventi pesanti da parte delle guardie dell’Università, che l’hanno picchiata e torturata molte volte.» Come avrebbero mai potuto immaginare padre e figlia che quello che doveva essere il viaggio verso la libertà si sarebbe trasformato in un “incubo” e in un’accusa “assurda” di “scafista”? Accusa da cui nel tribunale di Crotone si sta difendendo anche un’altra donna iraniana, Marjam Jamali, fuggita dal regime con il figlio di otto anni. È stata accusata da due uomini, che durante la traversata hanno tentato di molestarla. Dopo sette mesi di carcere, vive a Roccella Jonica ai domiciliari insieme al figlio, cosa che è stata negata per tre volte a Maysoon, separata dal fratello. Mi auguro che alla fine a queste due “Donne” sarà resa giustizia, restituendo loro “Vita” e “Libertà”.

Da l’Università di Verona – Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 4 ottobre 2024, dalle 17.20 alle 19, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 22 novembre.

Venerdì 4 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Diana Sartori – Se manca la terra sotto i piedi, vivere in lacuna

Venerdì 11 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula da destinarsi Wanda Tommasi – Terre ferite.

Venerdì 18 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi Snejanka Mihaylova – Metanoia: il cuore dell’ascolto.

Venerdì 25 ottobre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Margherita Morgantin – L’esilio ereditato. Dov’è il mio accento?

Venerdì 8 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Antonietta Potente – La terra dentro.

Venerdì 15 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Elisabeth Jankowski – Dentro la Torre di Babele.

Venerdì 22 novembre 2024, ore 17.20-19 aula Menegazzi
Vittoria Ferri – Scrivere la terra. L’immaginazione come posizione politica.

Gli incontri si terranno in aula Menegazzi, ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.
Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia e alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.

Camminare sulle acque per pensare la terra

Siamo arrivate al tema della terra, che quest’anno proponiamo al seminario, attraverso le domande politiche che le guerre contemporanee e le emigrazioni coatte sollevano. In una guerra è sempre questione di terra e di lingua assieme, così come lo è in un esilio costretto che porta lontano da dove si è nati.

Terra occupata, strappata, martoriata, bombardata e poi divisa, spartita alla lettera. Metaforicamente, terra delle radici, delle origini, dei miti, terra dei luoghi amati nei quali ci si riconosce, terra della speranza, del futuro. L’aspetto letterale e quello metaforico non possono mai essere del tutto separati e occorre tenere conto di questo intreccio.

Abitare e pensare la terra significa percepirla dentro un contesto comune che coinvolge sia gli esseri umani sia quelli non umani, dagli animali alle rocce, agli esseri tutti.
Allo stesso tempo portiamo la terra dentro di noi. Siamo presso il mondo e in noi stessi contemporaneamente e senza contraddizione. Questo modo di sperimentare la terra tra dentro e fuori ne fa una sorgente di possibili esperienze e significati. Mai esauribile.

Le domande politiche che sentiamo riguardo la terra, la guerra, la lingua e le migrazioni sono molto forti. In un certo senso schiaccianti. Lasciano poco spazio e chiudono in sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, che risultano sterili. Quello che possiamo davvero fare è invece rivolgerci alla pratica del simbolico, la pratica femminista di esprimere il reale, guardandolo con tutte noi stesse e legando le parole, il corpo, e l’esperienza del mondo, che noi patiamo, con quella finezza che ci viene dall’aver imparato a mettere a frutto la differenza sessuale. Le azioni ne verranno di conseguenza, con la misura che viene da questa pratica e non dalle risposte suggerite dal simbolico già circolante e ripetitivo. Piuttosto che entrare nei conflitti già disegnati, questa pratica propone di stare sulla terra e vicino ad essa, di guardarla dal punto di vista delle acque, che scivolano, confondono i confini. Camminare su di esse. È un’immagine di leggerezza: sfiorando la nostra paura di andare a fondo, invita ad avere una visione più ampia, aperta, a partire da ciò che riusciamo a vedere come vitale e che di solito emerge come imprevedibile, là dove meno ce lo aspettavamo. Aprendo nuove strade.

Bibliografia:
Mahmud Darwish, Oltre l’ultimo cielo. La Palestina come metafora, Milano 2007.
Anna Maria Mori e Nelida Milani, Bora. Istria. Il vento dell’esilio, Venezia 2021.
Hannah Arendt, Vita activa, Milano 2019.
Eva-Maria Thüne, All’inizio di tutto la lingua materna, Torino 1999. Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano 2002.
Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli 1996.

Da Eredi Biblioteca Donne – Con la pubblicazione della recensione di Betti Briano Eredibibliotecadonne non vuole offrire soltanto un consiglio di lettura ma si propone di anticipare spunti di riflessione in vista di un’occasione di dibattito sui controversi temi trattati nel libro che potrebbe avvenire con un pubblico incontro con alcune delle autrici da tenersi a Savona in autunno/inverno (ndr).

A giugno è uscito un volumetto snello, ma assai ‘corposo’ nei contenuti, il cui titolo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Ed. Castelvecchi) dichiara l’intenzione di rompere la cappa del politicamente corretto che grava a sinistra su una serie di temi che hanno pesanti ricadute sulla condizione delle donne, sulla loro esistenza materiale e simbolica. Un libro di cui c’era bisogno per aprire un dibattito necessario; un pamphlet coraggioso, che le autrici hanno dato alle stampe pur sapendo che non avrebbe avuto vita facile e che la sua promozione sarebbe stata un percorso a ostacoli; una raccolta di saggi che scoperchia la malsana minestra che sobbolle nella pentola progressista, dove ogni saggio prende in esame un ingrediente per svelarne la tossicità e ad ogni ingrediente corrisponde una delle questioni che risultano più urticanti, divisive, se non addirittura dei veri e propri tabù, nell’ambiente politico e culturale al quale il testo è principalmente rivolto.

Il primo saggio, La misura della parità di Silvia Baratella, introduce i paradossi che si vengono a creare per effetto di leggi, nate nella seconda metà del secolo scorso per rispondere alle nuove domande di agio e possibilità da parte delle donne, che finiscono per risolversi in limiti e danni alla libertà femminile; perseguire l’uguaglianza con gli uomini non ha significato ‘liberare’ le donne, ma in molti casi aggiungere iniquità e svantaggio nella loro vita. L’autrice mette in guardia da politiche (assai in voga nella sinistra e in certo femminismo) scaturenti dall’equivoco che moltiplicare le leggi volte a ‘parificare’ diritti e opportunità sia la strada maestra per realizzare la giustizia tra i sessi, e auspica un cambiamento di paradigma in cui “le donne in relazione siano fonte e legittimazione della propria libertà e negozino con gli uomini un nuovo e più civile spazio pubblico”.

L’intervento di Marcella De Carli Ferrari La cancellazione della madre attraverso la legge sull’affido condiviso disvela la minaccia che rappresenta per le madri e i bambini la Legge 54/2006, voluta dalle associazioni dei padri separati (appoggiati dalle destre), votata da tutti i partiti e accolta persino da qualche frangia del femminismo paritario. L’idea contrabbandata di coinvolgere maggiormente i padri nella gestione dei figli si risolve concretamente in un sistema atto “a mantenere il controllo paterno sui figli e sulla ex moglie”. La legge non solo non tiene conto del differente legame del figlio e della figlia con la madre rispetto a quello col padre, ma costringe le madri a ripartire la convivenza con i figli persino col coniuge violento e maltrattante per non incorrere nell’accusa di alienazione parentale con le vicissitudini sociali e legali che ne conseguono.

Lorenza De Micco e Anna Merlino in C’era un’assemblea civica sulla genitorialità sociale a Milano raccontano attraverso una personale emblematica esperienza come può avvenire che attraverso il condizionamento, se non addirittura la manipolazione, di ‘assemblee’ di democrazia diretta mirate a fornire ‘pareri’ in merito a questioni d’interesse trasversale, si vengano a formare orientamenti che danno origine specie in sede europea a deliberazioni e proposte legislative su materie sensibili (quali genitorialità e Gpa) che di fatto non sono rappresentative del sentiment popolare ma riflettono gli interessi di determinate categorie e lobby influenti e abili nel farsi ‘ascoltare’ da chi detiene il potere.

Anche Daniela Dioguardi parte dalla propria esperienza per denunciare in Mercato, libertà e censura del pensiero i pesanti attacchi con cui si cerca di intimidire e silenziare chi oggi esprime posizioni critiche nei confronti di alcune idee e politiche che caratterizzano il mondo Lgbtq+, Non Una di Meno e il transfemminismo. Chi si oppone alla teoria dell’identità di genere, alla Gpa come al riconoscimento delsex work‘da sinistra’, in contrasto ad un’idea liberista e mercantile dell’uso dei corpi e dell’esercizio della libertà personale, non solo deve scontare le accuse classiche di bigottismo, conservatorismo e fascismo o a quelle più trendy di omo-transfobia e avversione ai/alle sex worker, ma va spesso incontro anche a ‘scandalosi’ episodi di negazione di agibilità politica e di spazi di dibattito proprio da parte degli ambienti che dovrebbero vantare i maggiori tassi di democrazia nel DNA.

Nel testo Prostituzione, pornografia e libertà Caterina Gatti mette in luce una delle conseguenze più aberranti cui sta portando la degenerazione del principio di libertà che ha preso piede nel campo progressista e in parte del movimento delle donne; si tratta dell’idea che il sex work sia un lavoro come un altro e che la conquista dell’autodeterminazione includa anche la possibilità di scegliere di vendere il proprio corpo attraverso l’attività prostitutoria o quella pornografica. Ci sono note scrittrici che, avendo raccontato, partendo proprio dalla conoscenza diretta, la condizione di degrado fisico e psichico cui vanno incontro le donne nel mondo della prostituzione, hanno incontrato ostacoli alla promozione dei loro libri e subito veri e propri boicottaggi, come successo a Rachel Moran per la presentazione di Stupro a pagamento addirittura presso la Casa Internazionale delle donne. D’altronde le posizioni abolizioniste vengono non solo marginalizzate ma osteggiate con veri e propri attacchi intimidatori e ‘squadristici’ nei confronti di chi le porta avanti.

Cristina Gramolini parla con amarezza di una Rivoluzione gentile” che non è più gentile. Si riferisce alla trasformazione della originaria gentilezza, con la quale molte istanze del mondo Lgbtq+ erano state portate avanti con successo, in intolleranza e violenza nei confronti delle donne contrarie ai nuovi cosiddetti diritti sostenuti da quel movimento: maternità surrogata, blocco della pubertà, sex work. Descrive alcuni sconcertanti episodi esemplificativi: la cacciata di ArciLesbica dalla sede che condivideva con Arcigay nel 2018, la contestazione di una conferenza di Sheila Jeffreys da parte di un’assemblea transfemminista a Milano nel 2020, l’interruzione della presentazione di Sex work is not work (Ilaria Baldini et al., Ortica 2023) alla Fiera dell’editoria femminista di Roma nel 2023. Nel precisare che dall’ambiente progressista non è levato alcun cenno di indignazione per così gravi attacchi alla libertà di pensero e al dibattito democratico, conclude che il consenso delle nuove lobby e del popolo dei pride viene considerato con tutta evidenza irrinunciabile.

Persino esperienze significative di dialogo tra associazioni femministe con gruppi di uomini impegnati nella lotta alla violenza nei confronti delle donne subiscono i contraccolpi dell’assalto che il transfemminismo intersezionale sta portando alla differenza sessuale in nome dell’inclusione dei soggetti non binari. Anche Doranna Lupi in I sessi sono due come oltraggio all’inclusività porta come esempio paradigmatico una vicenda avvenuta a Pinerolo, la sua città, di cui è stata diretta testimone: la trasformazione dell’ottima prassi di celebrare la Giornata del 25 Novembre con un simbolico incontro tra le donne e gli uomini, che avevano intrapreso un percorso di presa di coscienza e di fuoriuscita dalla violenza sulle donne, in una anonima e neutra occasione di lotta contro la ‘violenza di genere’, dove la ‘donna’ sparisce per lasciare il posto a tutte le altre ‘identità’ e la Giornata finisce per celebrare la lotta contro la violenza nei confronti di chi non si sa, da parte di chi nemmeno.

Laura Minguzzi in Vietato dire donna si chiede se del vecchio ordine patriarcale tramontato non sia rimasta la pesante eredità della misoginia, che si manifesta con la cancellazione delle “donne di sesso femminile” in nome dell’inclusività, della nuova morale dettata dal politicamente corretto. Tutto è iniziato, secondo l’autrice, quando si è preso a banalizzare l’esperienza della nascita e a negare la “disparità/asimmetria” tra donne e uomini nella procreazione dissolvendo così il fatto fondativo della differenza sessuale in una generica e neutra attività generativo-produttiva. Il risultato è che pur essendoci liberate dal patriarcato ci vediamo ricacciate, ad opera di fratrie violente quanto pervasive, nel “cono d’ombra dell’insignificanza… e rappresentate da un neutro indifferenziato che si propone di cancellare la madre”.

In Il femminismo al tempo del RUNTS Laura Piretti riporta un esempio eclatante di quale assurda conseguenza arrivi a comportare l’ossessione paritaria nell’applicazione di norme che regolano aspetti qualificanti della vita politica come l’agibilità di spazi pubblici da parte dell’associazionismo femminile. Si riferisce all’avviso, rivolto dal RUNTS (Registro unico nazionale del terzo settore) dell’Emilia- Romagna ad alcune sedi UDI della regione, di non conformità dei loro statuti alle regole di “democraticità e apertura che devono caratterizzare le APS” in quanto queste, prevedendo l’iscrizione di sole socie, discriminerebbero gli uomini; vale a dire che una gloriosa istituzione nata dai Comitati di difesa della donna che porta il nome Unione Donne Italiane dovrebbe aprirsi agli uomini per avere riconoscimento pubblico…

Tocca in ultimo a Stella Zaltieri Pirola denunciare in Per me le cose sono due” lo svuotamento che sta subendo la parola ‘femminismo’ qualora venga “utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne” e la risignificazione cui va incontro quando si presenta accompagnata dai prefissi trans e post o quando alla desinenza si sostituisce l’asterisco o la schwa. La neo-lingua che viene avanti si accompagna non a caso con un uso sempre più degenerato del principio dell’autodeterminazione, che viene ormai esteso fino alla vendita del corpo per pornografia, prostituzione o Gpa; ne consegue così che mentre ci si adopera per esecrare la violenza domestica, si finisce per acclamare la violenza sessuale a pagamento.

Le vicende paradossali e persino grottesche raccontate nei dieci interventi richiamano tutte in qualche modo la storia del disegno di legge Zan, ricordata da Francesca Izzo nell’introduzione alla raccolta; una proposta di legge che, pur riscuotendo un ampio consenso intorno alla lotta all’omotransfobia, ha finito per cadere a causa delle rigidità sul principio dell’identità di genere, proprio quello su cui molte femministe avevano sollevato obiezioni e proposto modifiche che erano state respinte dai sostenitori e bollate come “assist alle pulsioni omofobe e reazionarie”. Tutto ciò- sostiene Francesca Izzo- rivela la “crisi dissolutiva delle culture politiche” che stanno alla base della nostra democrazia, la loro inadeguatezza a confrontarsi col nuovo protagonista della storia che è la libertà femminile.

Non si può non convenire sull’evidenza che le politiche democratiche ad oggi non solo non sono state in grado di andare oltre l’orizzonte della parità ma rivelano sempre più dimestichezza con l’idea, prevalente nel mondo Lgbtq+ (di grande successo anche nel mainstream mediatico e accademico), che per affrontare alla radice la discriminazione nei confronti delle donne si debba annullare la differenza sessuale. Siamo al punto in cui sostenere l’indifferenziato e il neutro è di sinistra e progressista, parlare invece di ‘donne’ e ‘uomini’ anziché genericamente di ‘persone’ è retrogrado e reazionario. C’è da chiedersi dove si vuole arrivare, a quale deriva di civiltà si stia andando incontro. Il libro lancia un allarme che non deve restare inascoltato, ma va accolto e rilanciato, per le generazioni future e per il rispetto delle donne che negli ultimi due secoli hanno lottato per farci uscire dal “cono d’ombra”.

Da il manifesto – C’è sempre un albero. Nei ricordi e nei racconti di chi giunge nel Levante c’è sempre un albero. Spesso più di uno. A volte non è un albero, è un arbusto o un campo coltivato. Un essere vivente inanimato – i nonumani li chiama Paola Caridi – fa sempre da sfondo a una narrazione, un viaggio, un’avventura, una scoperta. Da sfondo o, ancora più spesso, da protagonista: che sia dove ha le sue radici, o dentro una cucina dove i suoi frutti si preparano a far danzare il palato, nell’esplosione di un sapore insolito, ma familiare.

C’è sempre un albero, e stupisce non averci pensato prima. C’è quando in un angolo di Palestina ci si sente a casa – «sembra la Puglia», «sembra l’Umbria» – o quando la prima volta si resta a bocca aperta perché il Levante è lì, a due passi, appena al di là del Mediterraneo, eppure l’immaginario europeo è irragionevolmente piatto e banale: deserto, sabbia, rocce, venti caldi.

E invece no, in un fazzoletto di terra convivono e si danno il cambio tanti habitat diversi, tante biodiversità, dal mare alla collina, dal deserto alle foreste del nord.

L’AMBIENTE non è uno sfondo, o una coreografia. È parte integrante delle storie e della storia. E allora leggereIl gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi significa davvero addentrarsi in un manifesto di botanica politica. Scritto dalla giornalista e autrice Paola Caridi, edito da Feltrinelli (pp. 160, euro 17), ricorre ai ricordi personali e alla leggenda, agli archivi e all’attualità per provare a raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista di chi c’è e c’è sempre stato, silenzioso ma inevitabile, sfruttato, servito, amato o perduto.

Nei complessi equilibri regionali la flora ha un ruolo, anzi ne ha tanti: strumento di propaganda sionista agli inizi del Novecento (il deserto da far fiorire), ancora a cui aggrapparsi per mantenere un legame con la propria terra (le arance di Giaffa nell’immaginario dei rifugiati palestinesi e l’appropriazione successiva dello Stato di Israele, a dire «noi possediamo questa terra»), bacino di sfruttamento del colonialismo europeo (i gelsi libanesi e la catastrofe annunciata), alleato inconsapevole della rimozione (i pini importati dall’Europa dal Jewish National Fund per assecondare il gusto del nuovo arrivato e occultare il peccato originale, la distruzione dei villaggi palestinesi).

Nel caso palestinese è la memoria di una presenza, lo è la flora in sé ma lo è anche il modo in cui si è intrecciata alle vite delle persone, fin dall’antichità assecondata perché fornisse l’opulenza dei suoi frutti. La rete idrica di Battir, meritevole del riconoscimento dell’Unesco, sta là a testimoniare l’equilibrio con la terra, come i giardini in miniatura che spuntano sui terrazzi nelle viscere dei campi profughi stanno a testimoniare il sollievo antico di uno spazio verde, ampio e senza confini.

CARIDI, profonda conoscitrice della regione, dove ha vissuto per anni, ci regala una piccola perla, inusuale e inattesa, un viaggio storico e politico dalle tinte fosche ma che non tace la dolcezza: la bellezza che emerge dalle pagine, il colore e il sapore del nonumano che è sempre lì, presente. Testimone silenzioso o quieto alleato, quando segnala la vita che fu. Come i fichi d’india: vecchie linee di confine, continuano a crescere nei villaggi palestinesi svuotati con la Nakba e guidano alla scoperta dei resti di case e piazze. O come i sicomori alla cui ombra dolce tante storie sono state narrate e trasmesse; o lo za’atar, il timo della tradizione culinaria, la cui raccolta è una sfida ai divieti posti dalle autorità israeliane, perché a volte basta un sapore o un odore per sentirsi a casa propria.

Il libro di Paola Caridi è un atto politico in un periodo di buio della ragione, una sfida al colonialismo che fu e che è, che come Israele modifica i luoghi per piegarli alla propria immagine o che come quello europeo dei secoli scorsi impone monocolture feroci o si impossessa della terra battezzando a proprio gusto i nonumani. Come se un nome non ce l’avessero già. Sono parte della famiglia.