da il manifesto

Rosa Luxemburg, nata nel 1871 nella Polonia russa in una colta famiglia ebrea, si forma in un tessuto culturale composito e si afferma precocemente come teorica marxista. Costretta all’esilio, svolge in Germania un’intensa attività politica, giornalistica e teorica all’interno della socialdemocrazia. A partire dal 1904 subisce numerose incarcerazioni, che si intensificano tra il 1915 e il 1918. Trascorre quaranta mesi in carcere come conseguenza della sua opposizione alla guerra, sostenuta invece dal suo stesso partito con il voto ai crediti bellici nell’agosto del 1914; anche dalla prigione continua tuttavia a intervenire nell’azione politica contro il conflitto, prima attorno alla rivista Die Internationale e poi nella Lega di Spartaco. Mantiene una posizione al contempo critica e autonoma che, pur nel sostegno alla Rivoluzione russa dell’ottobre 1917, la porta a dissentire da Lenin e dai bolscevichi su questioni decisive come la politica agraria e, soprattutto, la tendenza del partito a una direzione autoritaria.

Ritroviamo alcune delle lettere della sua prigionia in Un ardente desiderio di primavera. Erbe, animali e cieli nelle lettere dal carcere (pp. 184, euro 20), un volume di grande bellezza edito da Casagrande, curato e tradotto da Danilo Baratti e Patrizia Candolfi. Le lettere in questione, venti, si collocano nell’intervallo tra il 1914 e il 1918 e sono scritte dalle prigioni in cui Rosa Luxemburg era detenuta.

Il 16 febbraio 1917, dalla prigione di Wronki (nell’allora Prussia) scrive a Mathilde Wurm, Tilde, militante socialdemocratica tedesca: «Oh, questo sublime silenzio dell’infinito: mi sento a casa mia in tutto il mondo, ovunque ci siano nuvole e uccelli e lacrime umane. Ieri sera c’erano delle meravigliose nuvole rosa sopra il muro della mia fortezza. Stavo davanti all’inferriata e ho recitato per me sola la mia poesia preferita di Mörike».

Nelle pagine, la natura ritorna incessantemente come respiro necessario: seguendo il mutare del cielo oltre le sbarre, Luxemburg accoglie tra le mani le erbe del cortile e le affida alla pazienza di un erbario. Così, mentre la storia precipita, il ricamo delle erbe custodisce la vita, nei gambi carnosi degli anemoni – disegnati – e dei petali ostinati della pulsatilla comune, i cui colori sembrano rifiorire anche nell’ombra della pagina.

Le piante essiccate e classificate valgono come tracce di un gesto preciso, affine all’attenzione metodica per la salvazione di quei frammenti minimi di natura – cura che attraversa anche la scrittura epistolare della prigionia. In questo lento lavoro di raccolta, di nominazione e di scrittura spicca fra tutti la semplicità blu del fiore della borragine e delle sue foglie, raccolti entrambi il 24 luglio del 1915, in estate, nell’orto nel cortile dell’infermeria del carcere femminile di Berlino.

Accanto alla nomenclatura botanica, nei tratti nella grafia di Rosa Luxemburg, compaiono anche i luoghi di ritrovamento delle erbe e dei fiori. L’erbario diventa così un territorio di resistenza della memoria, custodita a fasi alterne, tra libertà e reclusione, e, al tempo stesso, un linguaggio silenzioso capace di mantenere – contro gli strattoni della storia – una fedeltà al vivente.

Nel volume di Casagrande sono riprodotti sedici fogli tratti dagli erbari, i cui originali sono conservati presso l’Archiwum Akt Nowych di Varsavia: un lavoro che poté prendere forma grazie alla presenza decisiva di alcune donne legate a Rosa Luxemburg da un rapporto di salda amicizia, tra cui la femminista Clara Zetkin (fin dal 1890) – e che proseguì così anche come esito relazionale, forma condivisa di attenzione e cura. Nell’aprile 1917 proprio a Clara, per ringraziarla del mazzo di fiori ricevuto, Rosa scrive: «Ho potuto sistemarmi qui un intero tavolino di fiori e mi sento una regina».

Come indicato nell’introduzione di Baratti e Candolfi, accanto ai pochi fiori e alle erbe spontanee – raccolti nei cortili delle carceri durante le brevi uscite sotto sorveglianza – furono soprattutto le persone a lei vicine a inviarle, per lettera, esemplari essiccati o mazzi di fiori freschi, affidati alla trasformazione lenta della pressatura e della catalogazione. Alle tavole botaniche si intreccia così una corrispondenza intensa, in cui «la cinciallegra in gabbia» dialoga con l’amore per la vita e le sue forme.

Dal carcere Luxemburg riuscì a far circolare numerosi articoli, tra cui il pamphlet La crisi della socialdemocrazia, una dura presa di posizione contro le scelte di Kautsky e della Spd sulla guerra, che verrà tuttavia pubblicato solo clandestinamente nel 1916 con lo pseudonimo di Junius. Nella corrispondenza si colgono i segni della teorica marxista, avvisata e disincantata: sia sui compagni di partito, sia sulle derive romantiche di un ritorno a una Natura idealizzata e necessariamente falsata. A tal proposito, in una lettera del 2 maggio 1917 a Sophie Liebknecht, scrive: «A lei posso ben dirlo tranquillamente: non andrà subito a sospettare un tradimento del socialismo. Lei sa che spero di morire ancora sulla breccia: in una battaglia di strada o in prigione. Ma il mio io più profondo appartiene più alle cinciallegre che ai “compagni”. E non perché io, come tanti politici interiormente falliti, trovi nella natura un rifugio, un luogo di riposo. Al contrario, anche nella natura trovo a ogni passo tanta crudeltà che ne soffro molto. Pensi, ad esempio, che non riesco a togliermi dalla mente il seguente piccolo episodio. La scorsa primavera stavo tornando a casa da una passeggiata nei campi nella mia strada tranquilla e deserta, quando ho notato per terra una piccola macchia scura. Mi sono chinata e ho visto una tragedia silenziosa: un grosso scarabeo stercorario giaceva sul dorso, e cercava invano di difendersi con le zampe, mentre un’orda di minuscole formiche gli brulicava intorno e se lo mangiava ancora vivo!»

Come afferma il botanico Nicola Schoenenberger nel saggio in volume dal titolo Flora carceraria, l’erbario di Rosa Luxemburg mette in luce il valore conoscitivo della presenza delle specie in un luogo preciso: ogni pianta raccolta, datata e conservata, diventa traccia materiale di un luogo e di un momento, una prova silenziosa dell’incontro tra il corpo prigioniero e il mondo vivente. Proprio per questo, i campioni raccolti da Luxemburg nei cortili delle carceri permettono oggi di ricostruire con sorprendente precisione l’ecologia di quegli spazi – secondo una cartografia sensibile dei luoghi della reclusione, in cui la natura conserva memoria della vita che vi è passata, «nei cortili di prigione nei quali era costretta». Si compone dunque, in forme intime e luminose, l’unità profonda tra la combattente e l’umana, in tutte le declinazioni della nostra vulnerabilità. È proprio lì che la forza della teorica e della militante convive con la capacità di stupirsi per un fiore, per ogni erbaccia «che cresce tra le pietre», per una meravigliosa piuma azzurra di una ghiandaia di Südende – per le vibrazioni del vivente che ci circonda e che siamo.

da La Stampa

Che bel mondo sarebbe senza adulti: mi scopro a pensarlo con una frequenza che mi scandalizza e, insieme, mi elettrizza. La configurazione demografica ha fatto di noi una specie egemone, prevaricante come tutte le specie egemoni, e piuttosto monologante. Lo psicanalista Matteo Lancini ha detto a questo giornale che i genitori contemporanei ascoltano i figli più di qualsiasi altra generazione ma che il loro è un «ascolto selettivo: rabbia, tristezza e paura non fanno parte di questo patto. Ai nostri ragazzi abbiamo chiesto di proteggerci dalle emozioni che ci disturbano». Parliamo e straparliamo di ragazzi che, quindi, conosciamo a metà. Parliamo e straparliamo di come dovrebbero essere, e del loro bene, del loro meglio, e siamo certi di poterglielo insegnare, di poterli e doverli indirizzare, e ce ne crediamo capaci e all’altezza proprio perché li ascoltiamo di più. Dall’altra parte, genitori o no, siamo adulti dilaniati dalla consapevolezza della nostra inadeguatezza, che però non ci sposta dal prendere in considerazione la possibilità di sottrarci dall’universo di riferimento dei ragazzi, di dismettere i panni degli educatori e indossare quelli degli educati. Continuiamo a credere di dover dare il buon esempio, anche se dubitiamo di poterlo incarnare. Non mettiamo mai in discussione il fatto che possa essere sbagliata l’idea stessa di dare un esempio, di segnare il varco, il solco, il perimetro entro cui la generazione che ci segue debba e possa muoversi, specialmente quando quella generazione dà segnali di insofferenza verso di noi (come accade sotto i nostri occhi da diversi anni): un’insofferenza che non vogliamo vedere e meno che mai interrogare.

Nathania Zevi ha scritto su questo giornale che tra le ragioni per le quali si fanno sempre meno figli c’è anche l’esempio che, in questi anni, della maternità hanno dato le donne: un’impresa eroica, spossante, titanica, che toglie più di quanto restituisce. Ha parlato di un esempio che «abbiamo dato o che non siamo riuscite a dare». Non posso darle torto su un punto: la maternità è stata indagata, negli ultimi anni, nei suoi aspetti più complessi e dolorosi (prima, però, e cioè negli ultimi secoli, la maternità non veniva nemmeno indagata ma imposta come un compito: siamo appena all’inizio di un tentativo di riequilibrare le narrazioni). Lucy Jones in Matrescenza ha raccontato tutto quello di cui di magnifico e di orrendo, di biologico e psicologico, della maternità e del parto le donne sono all’oscuro, non solo perché non viene raccontato ma pure perché non viene studiato: non è esistita, finora, domanda. Perché non sono esistiti, finora, dubbi profondi come quelli che ora ci sono su cosa significhi e comporti diventare madre, su quanto sia naturale e su come, quanto, e per quanto cambi il corpo e la mente e la psiche delle donne. Non possiamo pensare di estromettere tutto questo credendo che sia inibente: per incredibile che possa sembrare, la cultura della maternità è ancora acerba, perché di recente è stato acquisito che essa non è un destino. Questa acquisizione rallenta (non ferma: rallenta) la demografia: complica e affolla il piano della scelta e lo fa collimare con quello della rinuncia. Vero. Affrontiamolo.

Un figlio è un peso e richiede rinunce: dobbiamo poterlo dire così come abbiamo detto sempre che un figlio è una rivoluzione e porta felicità. La regolazione della frequenza, dell’equilibrio, del tono con cui diciamo tutto questo non può essere improntata al desiderio di dare un esempio: non tocca a nessuno incentivare o disincentivare la maternità. A un Paese civile tocca mettere tutti in condizione di fare o non fare figli, nonostante le conseguenze che farne o non farne ha. La paura di diventare madri va ascoltata, compresa, rispettata: è un valore e, come tutte le paure, è un’allerta che, nella giusta dose, può salvarci la vita. Anziché credere che le donne non fanno figli perché hanno paura di fare le madri, perché non proviamo a immaginare che le donne che non fanno figli abbiano ragioni diverse dal terrore di perdere la propria autonomia, che siano individui nuovi, che rigettano la pienezza e sposano la vuotezza, che sono immuni agli esempi e disinteressate ai consigli perché vogliono scrivere una Storia nuova, inedita. Lasciamole fare, liberiamole dai nostri errori, dal nostro peso, dal nostro senso di colpa, dalle nostre letture. Fidiamoci di loro. Senza la nostra impronta è possibile che facciano meglio. Il Premio Strega Ragazzi è andato qualche settimana fa a un romanzo di una grande scrittrice americana, Jacqueline Woodson: si chiama Proteggimi e parla di un’insegnante che ogni venerdì lascia soli i suoi studenti Bes (bisogni educativi speciali), perché capisce che tra loro possono aiutarsi più di quanto farebbe lei.

In un documentario importante sulla maternità, Tua madre di Leonardo Malaguti, una suora dice a un certo punto che l’apocalisse arriverà quando sarà realizzata la parità tra uomini e donne, tra padri e madri. Ecco un’altra cosa buona cosa da fare, per far nascere un mondo nuovo: convocare i padri.

da La Stampa

Non c’è mai lieto fine né conferma di cliché sessisti o eteronormativi. In lei il mondo non esiste come scenario, ma come campo di esperienza

LILIANA RAMPELLO, Un anno con Jane Austen, Editore NERI POZZA Pagine 432

Genere: SAGGISTICA Prezzo 26 €

L’unico ritratto in vita di Jane Austen, nata il 16 dicembre di duecentocinquant’anni fa, è quello eseguito a matita e acquarello intorno al 1810 dall’amata sorella Cassandra. Di solito, si nota la cuffia – la indossava sempre, ha raccontato il nipote – o gli occhi grandi e la bocca sottile. Ma colpiscono anche i riccioli lisciati sulla fronte, in puro stile Regency. Eppure, non sono i singoli dettagli, ma il modo complessivo di occupare lo spazio a creare lo stile “Jane Austen”. Questa piccola figura non particolarmente bella, e silenziosa, che nel medesimo tempo appare distratta e concentrata, sembra avere in testa molte cose, oltre alla cuffia, e ci ispira autorevolezza; pur essendo, anzi proprio perché è e vuol farsi riconoscere come, una donna. Come ha fatto?

Gli occhi sono attenti, ma, anziché cercare il nostro sguardo, sfuggono, cercando un punto fuori campo: vanno oltre. Magari, durante la posa, la scrittrice è rimasta seduta accanto al piccolo tavolo dodecagonale, nell’angolo del salotto dove scriveva, mentre le altre persone di famiglia attraversavano la stanza. In quarantun anni e mezzo di vita (1775-1816) Austen infatti non ha mai avuto un ambiente soltanto suo. Ma, in senso simbolico, lo spazio della narratrice e quello delle sue eroine compongono universi interi. Sono «i mondi di Jane Austen» (come li ha definiti Diego Saglia), territori creativi spaziosi dove, assieme alla finzione, regna l’autoironia di una voce proveniente «by a Lady» (come si leggeva sul frontespizio dei romanzi pubblicati durante la sua vita: tutti anonimi, ma esplicitamente attribuiti a una “Signora”).

Guardando ancora quel ritratto, sono interessanti le braccia in posizione conserta, come a delimitare il corpo, invece di assumere la postura innaturale di tante donne stordite raffigurate nei quadri sette-ottocenteschi. La ragazza con la cuffia, invece, sta ferma, con l’intelligente tranquillità di chi sa di aver mostrato e fatto sentire, con la sua prosa, tre cose che non erano mai esistite prima, e che sono fondamentali per capire la grandezza dei romanzi di Jane Austen.

Le prime due segnano una linea di non ritorno nella storia del romanzo moderno e sono state indicate, tracciando anche una genealogia di riferimento, da Virginia Woolf. Vale a dire: i libri di Austen inventano la voce di una donna, ci fanno sentire come pensa e come parla una donna, sia da scrittrice sia da protagonista di una storia.

In più, la scrittura di Austen fa esistere non solo quelli che Woolf chiama i momenti d’essere, ma anche i momenti di non essere: «gran parte di ogni giornata non la si vive consciamente. Si cammina, si mangia, si vedono cose, si provvede alle nostre incombenze; l’aspirapolvere rotto; il pranzo da ordinare; la nota della spesa per Mabel; il bucato; i pasti da cucinare; i libri da rilegare. Mi venne un po’ di febbre l’altra settimana: quasi tutta la giornata fu non-essere. Una vera scrittrice riesce a rendere entrambi gli stati. Jane Austen secondo me ci riesce», scrive Woolf in Uno schizzo del passato (1939), nella traduzione di Adriana Bottini.

Il terzo punto fondamentale per capire il potere intramontabile di Ragione e sentimento, Orgoglio e Pregiudizio, Mansfield Park, Emma (usciti tra il 1811 e il 1815), Persuasione e Northanger Abbey (entrambi pubblicati nel 1818), è stato illuminato da Liliana Rampello con Sei romanzi perfetti (2014), il lavoro di curatela dei due volumi dei Meridiani Austen (2022-25), e con il suo recente libro pubblicato da Neri Pozza Un anno con Jane Austen, dove si ripercorre il paese di AustenLand come sfogliando un calendario (con un brano per ogni giorno dell’anno), organizzato però secondo un sistema di simmetrie, rimandi e confronti che pare un gioco eppure è assolutamente serio.

Elinor e Marianne Dashwood, Elizabeth Bennet, Fanny Price, Emma Woodhouse, Catherine Morland, Anne Elliot: al centro delle storie e delle avventure di ciascuna di loro – Rampello lo mostra benissimo – Austen mette, come nodo centrale, la felicità individuale. Questa però è intesa non come autorappresentazione romantica, ma come apprendistato personale e sociale alla capacità di guardare e riconoscere i propri bisogni, distinguendoli dalle velleità e scegliendo bene, di conseguenza, o talvolta anche reinventandosi, i punti di partenza e di arrivo della felicità. Qui sta il terzo punto sostanziale dei sei capolavori.

La promessa di felicità progressivamente esaudita del racconto arriva, dunque, con il riconoscimento della differenza tra “orgoglio” e “vanità”, dentro un sistema pieno di ostacoli, divieti culturali e pregiudizi, che molto spesso continueranno a pesare, visto che ci troviamo in un mondo in cui se sei una donna non sfuggi al destino di essere considerata o come una ragazza da marito o come una povera zitella (a meno che tu non sia ricca). Ma sono limiti materiali e sociali che non vanno travestiti, romanzati o accettati come regole naturali. Lo spazio simbolico percorso dalle eroine di Austen, spesso anche ballando, è quello che intercorre tra necessità e libertà: proprio in questo incontro abita la verità del romanzo. Il matrimonio finale varrà da sigillo sociale di questa traiettoria di esperienza, non è l’orizzonte esclusivo della realizzazione di sé. Per questo, che sia un bene o un male, non andremo mai a un ballo – a meno di non partecipare a una rievocazione austeniana – ma da lettrici (o da lettori), continuiamo a sentire l’urgenza di felicità delle sue eroine come una tensione romanzesca e vitale che ci riguarda e ci interessa ancora così tanto.

Ci vorrà un romanzo intero per elaborare e trasformare l’arroganza con cui Darcy, al primo incontro, ha definito Elizabeth «passabile», perché Austen non rende mai attraente e desiderabile la sottomissione delle ragazze a stereotipi sessisti. La forma di romanzo dentro le quali abitano, pensano e parlano le sue protagoniste è quella della novel realista, dove trama, relazioni, ambientazione, e soprattutto punto di vista interno e esterno alle storie sono tutti livelli testuali che fanno esistere il mondo non come scenario e performance, ma come campo di esperienza; anche come occasioni di sogni, se si è giovani, o della felicità di camminare e ruzzolare da un prato, se si è ragazze; ma lo spazio narrato resta costellato da limiti prosaici, per l’appunto, resistenze e confini di classe, di ragazze che non potranno mangiare bene, chiamare un dottore, sposarsi o indossare un abito nuovo se non hanno rendite sufficienti – visto che i patrimoni vanno sempre ai maschi. Anche per questo i dialoghi dei romanzi di Austen sono così originali e importanti: perché i discorsi in società sono, in termini narrativi e drammatici, il riflettore perfetto sia della vita (e dei momenti di non essere di cui parlava Woolf), sia di come le relazioni umane siano luoghi straordinariamente comuni, cioè quotidianamente “parlati” da forme di disciplina e di repressione del desiderio e dei corpi. Se poi si tratta di corpi femminili anche di più, tant’è vero che sarebbe tempo di riconoscere a Austen il merito di aver reinventato il novel non tanto in termini generici, quanto proprio nel senso di novel d’autrice.

Come mostra la fortuna di Austen a partire dal cinema degli anni Novanta ispirato alla sua opera, il fascino pop testimoniato dalle tante forme di reinvenzione di Austen va compreso e accolto come conferma di un modello diventato immortale non solo come stile di scrittura e narrazione, ma anche come intrattenimento e perfino di consolazione. Eppure una precisazione è dovuta.

Leggendo, e spesso ridendo (perché un altro scandalo di Austen è stato quello di essere una scrittrice ironica, come svela così bene anche la ripresa creativa di Bridget Jones), non siamo mai nei territori del romance, inteso, anche nel senso più largo, come storia d’amore a lieto fine, dove incontriamo giovani donne e uomini di successo dai nomi stranieri, che agiscono in luoghi comunemente straordinari, dove tutto è immediatamente possibile e se ci si innamora o si fa sesso si confermano i clichés sessisti e eteronormativi più sfruttati. C’è posto per tutti, ma invocare Austen come modello di riferimento di questo tipo di scritture è un atto di appropriazione o attribuzione culturale e commerciale essenzialmente falso, qualche volta anche violento, e, proprio ispirandoci a Austen, dobbiamo avere il coraggio sorridente di dichiararlo, anche per non fare il gioco di chi continua a recintare Austen sugli scaffali patriarcali della letteratura “femminile”. Spazi scomodissimi, spesso anche imbarazzanti, se consideriamo che Austen è stata amata e imitata dai più grandi scrittori oltre che dalle autrici. L’importante teorico Edward Said l’ha attaccata, usando Mansfield Park come esempio di letteratura tipicamente orientata da uno sguardo coloniale; ma essere uno straordinario intellettuale non lo ha forse preservato dal pregiudizio contenutista, visto che la verità dei testi non va cercata nelle singole frasi, ma nell’esperienza formale complessiva che facciamo di un dialogo, una situazione, un mondo.

I romanzi di Austen – che leggiamo grazie al lavoro di traduttrici straordinarie (Susanna Basso, e recentemente Stella Sacchini e Elisa Bizzotto) – sono pieni di ragazze piene di risorse che talvolta possono anche rovesciarsi in pericolosi difetti: la ragionevolezza di Elinor, in Ragione e sentimento, per esempio, o la superbia di Emma, che crede a tutto quello che pensa, o la fantasia meravigliosa di Catherine, in Northanger Abbey, il romanzo scritto per primo ma pubblicato per ultimo, che si può anche intendere come il libro più bello dedicato alle lettrici, visto che la protagonista è per l’appunto una ragazza che ha letto tanti romanzi e grazie a questa esperienza incontra nuove amiche, e un amore. L’opera di Austen ha due secoli e mezzo, ma è così contemporanea perché parla anche di come la storia del romanzo moderno sia, alla prova dei fatti, una storia di generazioni e generazioni di donne che hanno letto i romanzi. Tre persone su quattro che si presentano alla cassa di una libreria, in Italia, in questo momento, sono donne. Forse anche di più quando acquistano Austen. La Lady immortale con la cuffia guarda e sorride, perché sa chi è, come aveva scritto spiritosamente in una lettera del 1815: «The most uninformed Female who ever dared to be an Authoress»: la donna più ignorante che abbia mai osato essere un’Autrice.

da Avvenire

Un messaggio audio ha confermato quello che si temeva: Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace divenuta uno dei simboli più conosciuti della resistenza del popolo iraniano alla tirannia, è stata picchiata prima di essere portata via a forza. Dopo un anno trascorso ai domiciliari, godendo anche di una piccola porzione di libertà, ieri l’attivista per i diritti umani è stata arrestata insieme ad altri mentre partecipava alla commemorazione dell’avvocato Khosrow Alikordi, morto a quarantacinque anni una settimana prima per un presunto malore nel suo ufficio a Mashhad, una cittadina nota come luogo di pellegrinaggio all’estremo nord-est del Paese. È stato proprio il fratello del professionista, Javad, a testimoniare in un audio che le forze di sicurezza, accorse per disperdere la manifestazione, hanno picchiato Mohammadi e altri attivisti prima di trascinarli via. Esistono fermo-immagini di alcuni video che mostrano la premio Nobel in piedi su un palco, con una giacca bianca e una gonna nera, circondata da decine di persone, mentre parla con un microfono nella mano sinistra. Della sua sorte e di quella degli altri arrestati (si conoscono i nomi di Sepideh Gholian, Hasti Amiri, Pouran Nazemi, Alieh Motalebzadeh) non si hanno dettagli: secondo il network online Iran International, sono stati trasferiti in un centro di detenzione collegato al servizio di intelligence delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a Mashhad. Si sa anche che la folla ha intonato slogan a sostegno del principe Reza Pahlavi. L’avvocato di cui si commemorava la morte era lui stesso un ex prigioniero e difendeva diversi attivisti antiregime finiti in carcere. La morte di Alikordi ha suscitato un’ondata di sdegno e una contestazione alla versione ufficiale dell’arresto cardiaco avvenuto mentre lavorava nel suo studio. Di qui la manifestazione di ieri, alla quale la premio Nobel si è recata dopo un viaggio in auto da Teheran di diverse ore.

Narges Mohammadi, nata cinquantatré anni fa a Zanjan, nell’Iran nordoccidentale, dai primi giorni di dicembre 2024 si trovava agli arresti domiciliari per gravi problemi di salute, sorti in seguito alle torture e ai ripetuti scioperi della fame attuati nei lunghi anni di detenzione. Ingegnera fisica e giornalista, la sua battaglia per i diritti umani e delle donne in particolare è cominciata sin dall’università. Nel 1999 ha sposato il giornalista dissidente Taghi Rahmani, rifugiato in Francia dal 2012 con i due figli gemelli dopo aver scontato 14 anni di prigione. Sono stati proprio loro, Ali e Kiana, oggi dicianovenni, che Mohammadi non vede da quando erano bambini, a ritirare per suo conto il premio Nobel per la pace, assegnatole nel 2023 per la sua strenua e coraggiosa lotta per la libertà e la democrazia.

L’arresto di ieri è solo l’ultimo attacco contro di lei, una lunga odissea cominciata nel 1998, da quando ciclicamente le autorità iraniane hanno cercato di mettere a tacere la sua voce contro la pena di morte e per il diritto delle donne a non indossare il velo islamico imposto dagli ayatollah. Nel 2008, le autorità iraniane hanno chiuso con la forza il Centro per i Difensori dei Diritti Umani da lei diretto con l’altro Nobel per la pace, l’avvocata Shirin Ebadi, che vive in esilio a Londra. L’anno dopo il suo passaporto viene confiscato; nel 2011 è arrestata per il suo impegno a favore degli attivisti per i diritti umani detenuti e delle loro famiglie. Mohammadi finisce in carcere anche nel 2015, con un’altra condanna e ulteriori anni di detenzione. Nel maggio 2016 è condannata a 16 anni di carcere; rilasciata nell’ottobre 2020, torna in galera ancora una volta, pochi mesi dopo aver scritto White Torture, un atto d’accusa contro il sistema carcerario che pratica un sistema di “tortura bianca” per annientare la resistenza delle detenute: privazioni del sonno, ricatti emotivi, minacce di morte nei confronti dei figli. Il libro è stato tradotto in Italia nel 2024 da Mondadori con il titolo “Più ci rinchiudono, più diventiamo forti”.

La determinazione di questa donna è incrollabile: Mohammadi persegue la sua lotta senza sosta, sostenendo la rivolta “Donna, Vita, Libertà”. Il 12 gennaio 2022, durante un processo farsa durato cinque minuti, è condannata a otto anni e due mesi di carcere e 74 frustate. Tornata nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, negli ultimi mesi le sue condizioni di salute si sono deteriorate per vari scioperi della fame, per la mancata assistenza medica e per le torture inflitte. Ricoverata d’urgenza per un infarto, la sua famiglia e i suoi sostenitori hanno temuto il peggio per la sua vita. Nel dicembre 2024 è tornata in libertà per ragioni mediche. Fino a ieri. Le autorità iraniane hanno ammesso di aver arrestato 39 persone, tra cui la premio Nobel, perché dopo la cerimonia di commemorazione dell’avvocato Alikordi si era formato un assembramento fuori dalla moschea e Mohammadi, con il fratello del defunto e altri attivisti avrebbero incitato la folla a cantare slogan tra cui “Morte al dittatore” e a fare «commenti provocatori tali da turbare l’ordine pubblico». I poliziotti, secondo questa versione, sono intervenuti per gestire la situazione. Due di loro sarebbero rimasti feriti. Una versione contraddetta da diversi partecipanti. Secondo lo stesso fratello di Narges, Hamidreza Mohammadi, la donna è stata «picchiata sulle gambe e afferrata per i capelli» durante l’arresto. Di lei e degli altri fermati non ci sono più notizie.

Dobbiamo risalire al 2005 per riannodare i fili della memoria e trovare il bandolo della matassa, cioè l’idea che dette origine alla rassegna teatrale Anima Mundi, la drammaturgia femminile. Ai tempi, come drammaturga, mi ero resa conto che non esisteva alcuna possibilità, nel senso di una semplice prassi, per proporre ad un teatro un proprio testo da mettere in scena, non perché il mio testo non fosse valido ma perché comunque non sarebbe stato valutato perché la prassi, appunto, era tutt’altra e complessa. Non volendo indagarne i motivi e quindi dare la stura alle solite sterili recriminazioni, pensai che, sic stantibus rebus, si poteva benissimo: fare da sé, ovvero fare da noi, autrici teatrali.

Mi consultai con alcune amiche drammaturghe di Milano e Roma che, come me, vivevano la frustrazione di non riuscire a rappresentare i nostri testi. Tutte accolsero l’idea con un ‘evviva!’ sincero e immediato. Organizzammo così un programma e chiedemmo al generoso Aleardo Caliari di ospitarci per due settimane nel suo Teatro della Memoria, in via Cucchiari. Ovviamente eravamo tutte ben consapevoli che non esistevano finanziamenti o sponsor di sorta, peraltro nemmeno ricercati vista la difficoltà dell’impresa. Un teatro scritto da donne? Figuriamoci!

Fu una ventata di energia collettiva, eravamo: Maria Cinzia Bauci, Maricla Boggio, Anna Ceravolo, Annabella Cerliani, Luciana Luppi, Camilla Migliori, Maura Pizzorno, Stefania Porrino e le attrici e gli attori che interpretavano le pièces, fra cui Marino Campanaro, Monica Nagy, Pierantonio Gallesi, Loredana Martinez…

Dal 12 al 24 aprile 2005, demmo così vita alla rassegna riscuotendo un buon successo di pubblico, attratto forse dalla novità e varietà delle pièces che spaziavano dal drammatico, al paradossale, al comico, alla rievocazione storica, alla satira. Ci raggiunse a Milano, da Genova, persino la musicista Barbara Petrucci che arrivò portandosi dietro il suo ingombrante, storico e delicatissimo clavicembalo per suonare un brano scritto da Maria Gaetana Agnesi nello spettacolo di Stefania Porrino, intitolato “Le sorelle Agnesi, la gloria del mondo, la gloria del cielo”.

A volte capitava che qualcuno del pubblico si fermasse dopo lo spettacolo per farci delle domande del tipo: qual era la differenzarispetto al teatro scritto da uomini? Come distinguerlo? Ovvio, rispondevamo, per il punto di vista che a volte completava quello maschile o, in altri casi, lo confutava come nelle pièces teatrali dedicate a celeberrime figure femminili della storia o della drammaturgia classica: Penelope, Antigone, Ofelia, Medea…, in ogni caso erano opere che “facevano la differenza”, come si dice, in scontata analogia con il principio basilare espresso dal cosiddetto femminismo della differenza nato negli anni ’70 alla Libreria delle donne di Milano.

Terminata con grande soddisfazione ma anche con un po’ di tristezza la rassegna, mi resi conto che il successo dell’iniziativa poteva incoraggiarmi a darle un seguito e a estenderla, con opportune modalità, a tutte le autrici teatrali, nel senso di un appuntamento annuale aperto a ogni regista e drammaturga italiana. Presentai il progetto all’Assessorato alla Cultura del Comune che, con fiducia, a partire dal 2008, mi permise di usufruire gratuitamente del chiostro ‘Nina Vinchi’ del Piccolo Teatro per la serata di presentazione della rassegna.

Concludendo, l’amore che le donne hanno per il teatro è sempre esistito anche se, com’è noto, solo negli anni ’70, le donne si “dettero il permesso” di scrivere e anche di dirigere opere teatrali, cioè di diventare autrici, non più personaggi descritti da uomini.

(www.libreriadelledonne.it, 12 dicembre 2025)

da RivistaStudio

È un libro per certi versi timido, L’uso della foto. Il soggetto di cui si parla sembra sempre altrove, come se volesse negarsi all’obiettivo che cerca di catturarlo, alla penna che si avvicina a descriverlo ma poi non affonda, devia, prende altre strade.

Pubblicato lo scorso mese da L’Orma Editore con traduzione di Lorenzo Flabbi, L’uso della foto è in realtà un libro di vent’anni fa che l’autrice premio Nobel Annie Ernaux ha scritto insieme al giornalista Marc Marie, suo amante per alcuni mesi. È composto da quattordici fotografie scattate fra il marzo del 2003 e il gennaio del 2004, immagini che testimoniano quel che resta dell’amore quando l’amore è stato consumato, la fragile tenerezza degli abiti abbandonati sul pavimento e delle stanze disordinate, buttate all’aria, che nessuno si preoccupa di tenere in ordine quando c’è una passione che divampa e reclama spazio. «Mi capitava spesso», scrive Ernaux in apertura, «sin dall’inizio della nostra relazione, di restare affascinata nel ritrovare al mattino la tavola non sparecchiata della sera prima, le sedie spostate, i vestiti aggrovigliati, buttati a terra alla rinfusa nel fare l’amore. Il paesaggio era ogni volta diverso. Doverlo distruggere, quando ognuno raccoglieva le proprie cose, mi stringeva il cuore. Avevo l’impressione di cancellare l’unica traccia oggettiva del nostro piacere».

Un racconto cristallizzato

Nella poetica di Ernaux la scrittura è un tentativo di illuminare il passato e offrirgli un senso nuovo. Tutti i suoi lavori sono autobiografici, molti si concentrano sugli anni della giovinezza e sono stati scritti a decenni di distanza dai fatti narrati, ma qui manca un elemento cardine: non c’è il filtro della memoria. L’uso della foto è stato scritto in presa diretta, spinto più dall’urgenza di cristallizzare il presente che dal desiderio di osservare con sguardo inedito, ermeneutico, i fatti già trascorsi.

Ciascuna delle quattordici immagini – una selezione operata su una quarantina di fotografie – è corredata da una descrizione di Ernaux e una di Marie, che raccontano cos’è accaduto subito prima e subito dopo, il contesto in cui è stata scattata, le stanze d’albergo, i ristoranti dove avevano appena cenato o la scomodità di certi stivaletti difficili da slacciare, che arrivano a ricordare le loro infanzie, le famiglie d’origine, i grandi magazzini dove era stato acquistato, coi saldi, un reggiseno di pizzo colorato.

L’uso della foto è anche, di fatto, un gioco tra amanti: Ernaux e Marie scrivevano da soli, senza far leggere nulla all’altro e domandandosi spesso «Cosa starà scrivendo di me?». Colgono elementi differenti della medesima scena, e nel tentativo di comporre un’opera unitaria non fanno che esplicitare la distanza irriducibile che sempre resiste fra due esseri umani, anche quando a unirli c’è una passione sbocciata da poco.

Libri politici e discreti

Ernaux ha esplorato spesso il sentimento amoroso. In Passione semplice, Un ragazzo, Perdersi, che a differenza di L’uso della foto non sono affatto libri timidi, Ernaux ausculta i palpiti del proprio cuore, ogni minima angoscia o effimero entusiasmo, e squaderna sotto gli occhi dei lettori la propria radiografia emotiva. Qui, invece, di sentimenti non si parla quasi mai – solo alcuni accenni alla ex compagna di lui, qualche vaga gelosia, niente di più. Questo è un libro che parla di corpi – e noi possiamo solo immaginarli, avviluppati e felici nella cornice esclusa dall’inquadratura, mentre fanno l’amore, perché di fatto non si mostrano mai. Neanche una mano, neppure la rotondità di un fianco. Al loro posto, solo gli indumenti che portano ancora le impronte di chi li abitava poco prima. I vestitini leggeri di lei, o i pantaloni di tessuto grezzo di lui, sono i testimoni più fedeli del momento in cui i corpi, vivi e appassionati, sono esplosi di desiderio: è successo davvero, sembrano dirci le fotografie, questo è quello che resta.

Quei reggiseni svuotati che compaiono spesso in primo piano, all’apice della montagnetta di abiti, rimandano però al vero, nascosto, protagonista del libro: il cancro. Mentre Ernaux scrive, fotografa e si gode la sua storia d’amore con Marie, è infatti in cura per un tumore al seno. Quando i due escono a cena per la prima volta lei glielo dice subito, come se volesse testare la tenuta del suo desiderio, che dovrà essere più forte di tutto, anche del timore della morte. «Ho un cancro», gli dice, e, subito dopo, «Vorrei andare a Venezia con te».

Non c’è retorica nel modo in cui Ernaux e Marie parlano della malattia: «Ti sei fatta venire il cancro solo per poterne scrivere», le dice lui. Il corpo malato non viene taciuto, né edulcorato, si racconta per quello che è: interamente glabro, dall’incarnato cereo, il capo protetto da una parrucca, attraversato da un sistema di tubi e sacche per la chemio, marchiato da un catetere sotto la clavicola, il capezzolo bruciato dalla radioterapia.

Credo che l’aspetto più potente della scrittura di Ernaux sia il fatto di essere profondamente politica senza mai dichiararlo, senza redigere manifesti. È così nella Donna gelata, che di fatto è un’introduzione al femminismo, in Memorie di ragazza, dove si tematizza il consenso, nell’Evento, dove il diritto all’aborto diventa battaglia sociale e di genere, in Una donna e Il posto, che dietro ai racconti sui genitori nascondono una profonda riflessione sull’identità di classe. Nell’Uso della foto è il corpo malato a prendersi lo spazio, un corpo femminile che, segnato dalla malattia ma anche dall’età – quando scrive, Ernaux ha sessantatré anni –, reclama il proprio desiderio, il proprio piacere, con la medesima sicura pacatezza con cui rivendicherebbe l’ossigeno per respirare, o il cibo di cui nutrirsi. Non fa mai chiasso, la scrittura di Ernaux, ma è raro che indietreggi. «In Francia», scrive, «l’11 per cento delle donne ha avuto o ha un cancro al seno. Più di tre milioni di donne. Tre milioni di seni suturati, scannerizzati, marcati da disegni rossi e blu, irradiati, ricostruiti, nascosti sotto camicette e t-shirt, invisibili. Bisognerà pure osare mostrarli un giorno, in effetti. [Scrivere del mio, fa parte di questo svelamento]».

La fotografia come testimonianza

Per André Bazin la fotografia nasce dall’esigenza di sottrarre la vita alla morte conservandone una testimonianza, una traccia luminosa su pellicola che resista allo scorrere del tempo: questa cosa è successa, dicono le fotografie, questa persona è esistita su questa terra. Roland Barthes, dopo di lui, ha invece esplicitato il paradosso intrinseco al medium fotografico. Se da un lato certifica l’esistenza dell’oggetto immortalato, dall’altro rappresenta la prova irrefutabile che quel momento è andato, perduto per sempre, in fin dei conti anch’esso defunto: «Ciò che la fotografia riproduce all’infinito è un evento che non si ripeterà mai più». Ogni scatto è perciò anche un memento mori: attesta la presenza di un pezzo di realtà che porta dentro di sé le condizioni della sua stessa mortalità, che presto o tardi si farà assenza e figura fantasmatica. «È come una perdita che stia guadagnando velocità», scrive Ernaux, «Invece di frenarla, la moltiplicazione delle immagini dà la sensazione di scavarne ancora di più il vuoto».

Nell’Uso della foto l’autrice, con la complicità del suo amante, intreccia un dialogo con la morte – che non si può scrivere, né fotografare – a partire dalla posizione liminare del suo corpo malato e desiderante, che si nega all’obiettivo ed è combattuto tra due istanze: da un lato il pensiero stesso della morte, dall’altro il richiamo inesorabile del piacere. Fra i due, lo spazio della vita che ancora rimane, e che si fa arte: «Se, in una forma o in un’altra, l’ombra del nulla non aleggia sulla scrittura, allora non c’è niente che possa valere davvero all’uso dei viventi».

Il ciclo di quattro puntate intitolato “Paternità nella crisi del patriarcato”, in onda all’interno di Uomini e Profeti su Rai Radio 3 (e disponibile su RaiPlaySound), secondo me che ne ho fatto un ascolto partecipato e appassionato, propone una riflessione importante sulla soggettività, le relazioni e le trasformazioni contemporanee del maschile. Il filosofo e psicoanalista junghiano Romano Madera affronta il tema della paternità, della differenza e del femminismo partendo dalla propria esperienza personale.

Il titolo della prima puntata, “Cominciare da sé ma non finire con sé”, citazione di Martin Buber, riassume bene il centro del discorso: partire da sé, ma per aprirsi all’altro. L’esperienza soggettiva non è un punto d’arrivo, bensì una porta d’accesso alla relazione.

Madera evoca il rapporto con il proprio padre e la scoperta del limite, cercando di capire cosa significhi essere uomo oggi, dopo il tramonto del patriarcato tradizionale. “Partire da sé” non è un atto narcisistico, ma una presa di parola che si radica nel vissuto per entrare in dialogo con l’altro.

La sua riflessione si muove tra personale e politico, tra introspezione e storia collettiva. Riconosce il debito verso il femminismo che ha costretto gli uomini a guardarsi allo specchio e a fare i conti con il proprio privilegio e con la perdita di un’identità ormai in crisi. Per Madera il femminismo è una vera rivoluzione antropologica: ha decostruito la presunta “naturalità” del potere maschile e ha aperto nuove domande sul desiderio, sul potere e sull’ascolto delle voci rimaste a lungo inascoltate.

Uno dei nodi centrali del suo discorso è il misconoscimento maschile: molti uomini faticano a riconoscere lo sguardo femminile, non per cattiva volontà, ma perché abituati a considerarsi la misura del mondo. Le donne, invece, hanno dovuto esercitare uno sguardo doppio – su di sé e sull’altro – sviluppando una consapevolezza più complessa. Questo squilibrio è una delle eredità più tenaci del patriarcato.

Madera distingue, in linea con il pensiero femminista non paritario, tra emancipazione e liberazione. La prima riguarda l’accesso a diritti e spazi all’interno di un sistema dato; la seconda implica una trasformazione più profonda del modo di pensare, di sentire e di desiderare. Le donne hanno spinto questo processo fino in fondo; molti uomini, invece, si fermano all’emancipazione concessa, senza mettere in discussione i modelli di potere e competizione che li imprigionano.

Per cambiare davvero le relazioni tra uomini e donne, occorre che gli uomini imparino a sopportare la vulnerabilità e la differenza: non a imitare le donne, ma a entrare in relazione con loro senza paura e senza dominio.

Un altro tema cruciale è quello del desiderio. Desiderare non è mai un atto libero: è plasmato da aspettative e norme sociali. Gli uomini sono stati educati a desiderare potere e successo, le donne cura e riconoscimento. Entrambi i ruoli sono gabbie. “Partire da sé” significa interrogare il proprio desiderio, scoprire come si è formato e decidere se seguirlo o trasformarlo. Il cambiamento autentico, ricorda Madera, non passa solo per le leggi o le istituzioni, ma attraverso un lavoro simbolico e affettivo su di sé.

La riflessione tocca poi le trasformazioni della famiglia e del lavoro. Il modello patriarcale del padre autoritario e della madre dedita è in crisi, ma non ancora sostituito da un ordine più giusto. Le donne lavorano, ma la cura domestica resta in gran parte sulle loro spalle. Gli uomini che provano ad assumersi queste responsabilità incontrano ancora resistenze culturali: il mondo del lavoro e le aspettative sociali restano modellati sull’idea dell’uomo “senza legami”.

Madera invita a immaginare nuove forme di paternità e maschilità, dove la cura diventi un gesto di libertà condivisa e non un dovere; la casa, il lavoro e la famiglia diventano così spazi politici, luoghi in cui si decide il senso stesso della libertà.

La conclusione del ciclo ribadisce che la liberazione resta il compito ancora aperto: non solo per le donne, ma anche per gli uomini, chiamati a ridefinire il proprio immaginario, il desiderio e la funzione paterna.

Il conduttore non propone ricette, ma apre domande decisive: che cosa resta del sé dopo aver incontrato davvero l’altro? Come si può amare, lavorare e crescere figli senza riprodurre gli schemi del potere?

da DoppiozeroHo delle polaroid incastrate nella cornice del grande specchio che occupa la parete della sala: una piastrella di Lisbona, un lampione di Venezia, dettagli di corpi femminili di marmo. Le hai scattate tu: è il tuo sguardo. C’è poi un altro scatto, questo è nella mia testa: verso Punta della Dogana, sono dietro di te, sei di spalle e le canette ti girano attorno. Sei avanti, e un po’ in là, a capire prima. L’ultima volta che ci siamo viste hai detto che ci aspetti davanti al mare, con i sassi di Nervi: ci hai descritto la sottile linea bianca che li attraversa. Avrai con te Lisetta, Goliarda, Agota, Grace, Anne e tutte le altre.

Anna Toscano era poeta, docente, scrittrice, fotografa e critica. Abbiamo le sue raccolte di versi (Cartografie, Samuele Editore è l’ultima raccolta pubblicata); i suoi saggi (Il calendario non mi segue. Goliarda SapienzaCon amore e con amicizia. Lisetta Carmi, Electa edizioni); gli articoli su queste pagine (Anna Toscano) e molte altre riviste – Artribune, Domani, Nazione Indiana, Il Sole 24 Ore, Rivista Studio. Scriveva con le parole e con gli abiti che sceglieva, con i giocattoli rotti da salvare, con le piante e le teiere, con le scatole di biscotti e la polvere nelle tasche. Trascorreva il tempo «disponendo parole, spostando oggetti, leggendo virgole e accudendo cane, che è tutta un poco la stessa cosa».

Come la si ricorda? Come si restituisce quanto ha attraversato e raccontato? Siamo tra noi, qui, dove, con te, ci troveremo sempre: nelle voci femminili che ci hai fatto incontrare e hai intrecciato; voci di carta e di carne, di manichine e di cose. Voci che si son fatte, tra le tue mani, versi corpo e carne.

[Anna Stefi]

«E se mi risveglio sulla Striscia di Gaza?». È la prima cosa che mi hai detto quando siamo venute a salutarti per l’ultima volta, e mi ha fatto pensare di essere arrivate comunque in ritardo, che la tua testa bellissima fosse già andata allo strazio di chi muore lontana quattromila chilometri, lasciando il tuo corpo qui a fare i doveri di casa con un’ospite privilegiata che non ne voleva proprio sapere di salutarti per sempre. Ma sbagliavo: eri tu, tutta tu, che tieni insieme i vivi che lasci a Venezia e i morti di Gaza; le nostre cane sgangherate e le vetrine delle pasticcerie; le mostre da vedere e i cimiteri su cui lasciare piccole cose perché in fondo che cos’è una tomba se non un museo e viceversa?; tua madre che si impone per dire la sua anche da morta e mia figlia di lato che ti torna nei sogni; le reiette come fossero protagoniste di un romanzo da scrivere e le scrittrici come se fossero da struccare, mettere davanti a una fetta di torta e parlarsi; la vita con tutta la morte che può contenere. Hai sempre parlato con la morte, tu: la portavi alle feste, ai festival, l’hai infilata nei regali che ci spedivi, nelle poesie che scrivevi e in quelle delle care altre che ci leggevi. Ci hai dialogato così bene con la morte da aver convinto un allora novenne molto attento che assisteva in prima fila ai tuoi racconti su Lisetta, che la nostra potesse non solo essere ancora viva, a girovagare in qualche vicolo genovese fotografando gli ultimi come fai tu, ma addirittura che gli avesse dormito accanto per tutta la notte seguente. E parlavi con la morte così bene da aver convinto anche me, sai, che a gennaio sentendo la parola tumore ho pensato addio, che a giugno vedendoti stanca dopo pochi passi ho pensato basta, e a dicembre leggendo il tuo «Chiara, sono gli ultimi giorni» ho pensato ecco, che quando mi hai salutata alla fine, invece, ho creduto che tu e la morte insieme avevate trovato ancora una soluzione e che avrebbe tenuto insieme anche me, come tutto quello che ci portavi tu dall’altrove. E così: eccomi qui a parlarti, Anna.

[Chiara Alessi]

Ho pochissime vere amiche che fanno il mio stesso mestiere, quello delle parole, così poche che stanno in una mano e tutte abitano lontano da Napoli. Fra tutte Anna Toscano era l’unica ad avere la mia età. Adesso è andata ad abitare così lontano che non posso più ricevere i suoi pacchetti né spedirle i miei. Tuttavia, non sarà mai così lontana da non risentire la sua voce che per vent’anni mi ha raccontato cose. Ad esempio, di manichine, che salvava e collezionava. Una volta ne vidi una antica in un negozio e le mandai la foto: «Salvala! Salvala!», mi scrisse. Ma costava troppo, dovemmo abbandonarla. Mi ha raccontato dei suoi genitori, di sua nonna, di sua sorella, di case, delle poete che amava, Anna Maria Carpi, Bianca Tarozzi, di canette, di Gianni che avrebbe poi sposato.

Anna è stata poeta di qualità superiore, Al buffet con la morte Cartografie sono due capolavori, curatrice geniale di antologie, Chiamami col mio nome, prima riscopritrice dei versi di Goliarda Sapienza, perfetta narratrice di vite, da Goliarda a Lisetta Carmi. Ogni volta che le ho affidato una donna da raccontare in Strane Coppie (Janet Frame, Sybille Bedford, Agota Kristof o Carson McCullers), lo ha fatto con tale immersione che tutte ne saltavano fuori salvate.

Quel che dovrebbe fare chi scrive davvero è essere sempre immersa nel dolore, trasformandolo in parole l’indicibile, e cercare con ogni sua forza chi lo ha fatto prima e resta esclusa, o dimenticata. Due attitudini che in Anna erano acutissime, perché nessuna restasse indietro, nemmeno le manichine. E poiché più spesso alle donne capita in arte d’essere seppellite, Anna con metodo metteva luce e tesseva fili. E intanto passeggiava per Napoli in un gran contrabbando di frolle, le sue preferite. Penso spesso a quella gelateria che chiude e causa la morte della nonna, ultimo baluardo della vita in Al buffet con la morte: ci sarà molto da scrivere su che spazio occupa la sua poesia nel canone contemporaneo, delle parole che ha reso coloratissimi pesci-gioiello, perle di impiraresse veneziane, pura bellezza, cristallo di dolore. Grazie Anna, poi ci sentiamo.

[Antonella Cilento]

È stata Agota Kristof. Dovevo debuttare con Trilogia della Città di K. al Piccolo e un giorno ho scritto ad Anna. Mi ha accolta come se ci conoscessimo da sempre. Ho ritrovato con lei una più lucida misura, senza perdere il trasporto che entrambe nutrivamo per quella storia bella e terribile. Poi è venuta a Milano: aveva scritto un bel testo per il programma di sala senza vedere ancora nulla, ma c’era già tutto. Pensai che avesse un superpotere. Al bar accanto al Melato, abbiamo parlato per due ore di Agota, Goliarda Sapienza, Mariella Mehr, poesia, amicizia, maternità, scioperi (ce n’era uno e lei doveva tornare a Venezia), tempi perduti e ritrovati. Ero stordita, felice. Anna è venuta allo spettacolo, ha scritto, abbiamo fatto un incontro col pubblico. Era così: definitivamente generosa. Ogni tanto mi arrivava un’immagine notturna o solare da Venezia. Un pensiero affettuoso, idee vive e brillanti, il racconto di un sogno. In una strana notte insonne, ad esempio, le era apparso un corteo di otto Goliarde su un palcoscenico e ognuna si raccontava: una per ogni evento forte della vita. Era certa, disse, che fosse stata la “mia” Trilogia a farle comparire a quel modo. Le ho scritto a metà ottobre: vieni a teatro? Facciamo L’analfabeta! Lei ha risposto, al solito festosa: è una notizia bellissima! Ma non l’ho più sentita e mi son detta: forse posso riscriverle… Dieci giorni dopo è arrivata una sua foto: Federica Fracassi agli applausi di fine spettacolo. Con un commento: «Super!». Cara Anna, se penso a quanto abbiamo ragionato su Lucas, Claus e ogni finale possibile! Adesso, per quanto sia incredibile non poterne riparlare, posso quasi vederti mentre ne discuti, in quel tuo modo senza scorciatoie, direttamente con la nostra Agota. Vi vedo, un po’ appartate, nel misterioso mondo ancora a noi precluso, coi begli occhiali tondi e, dietro, i vostri occhi intelligenti, insieme allegri e malinconici, e mi sembrate assai più forti di ogni possibile visione.

[Chiara Lagani]

«Il corpo pare lo dobbiamo restituire / e quanto ci è costato / dobbiamo cedere tutto al mondo / quando ce ne andremo»: ho ritrovato questi versi ieri, sottolineati in Cartografie, libro di poesie pubblicato da Anna l’anno scorso. Era insieme a un altro che lei mi aveva consigliato, sapeva a cosa stavo lavorando e mi mandava fotografie di pagine, riferimenti, consigli, sollecitazioni. Perché Anna era sempre generosa del suo sapere e dei suoi talenti, che in lei diventavano anche azione, attenzione, presa di posizione e luogo dove stare insieme nel comprendersi. Dono prezioso e unico. Come erano le sue polaroid che lei scattava a persone, cose, ombre: “quell’ombra della polaroid in cui l’ombra di un lampione crea delle lancette” un brandello di quello che mi aveva scritto inviandomene una che mi aveva fatto fantasticare, entrare nell’incantamento del suo raccontare. In questo confuso scrivere, impastato dal dolore, dalle emozioni, dal rimpianto (dovremo poi scrivere della grande eredità di Anna, dovremo renderle omaggio cercando di dare il giusto valore al suo incredibile lavoro), non riesco a non pensare al corpo di Anna. Accanto, quello di Gianni. Un corpo grande, in cui ti veniva naturale rannicchiarti, ascoltando le sue parole. Era bello vederla arrivare con la sua camminata tra il baldanzoso e il pensieroso. Il suo stile era inconfondibile, e a me piaceva tantissimo. I capelli dal taglio preciso che rendevano grafico il suo bel volto. Le magliette a righe messe una sopra l’altra, i jeans ampi. Gli accessori che lei scovava ovunque. Lei sapeva tenere tutto insieme senza pregiudizi. Le piacevano le sovrapposizioni, sorta di personalissima post production. I cappelli tanti, e le stavano sempre tutti bene. Gli occhiali importanti che mettevano in evidenza i suoi occhi attenti e curiosi. Ecco Anna, io sono lì in campo Santa Margherita, forse ti aspetto alla Marcopolo, e tu arrivi e mi dici che non è vero mentre mi abbandono al calore di quel tuo corpo grande e generoso.

[Maria Luisa Frisa] 

Nella borsa ho un astuccio, una busta di tela écru con la cerniera tortora che mi ha regalato Anna qualche anno fa. A un certo punto ho preso una borsa nuova perché ci stesse dentro meglio. C’è stampata sopra, con la sua calligrafia, una delle sue poesie. «Io con le parole faccio cose / con le parole svuoto una stanza / con le parole compio una danza / cucino un risotto, vado al ridotto. / Con le cose faccio parole / scelgo un baule / e lo riempio di sillabe nuove». Anna con sapienza e pazienza quotidiana ha restituito delle parole a una persona schiva e asciutta come me perché potessi riutilizzarle, è la persona con cui giorno dopo giorno ho condiviso nell’ordine cani, attrezzi, piante, cuori, cappuccini freddi e, naturalmente, libri. Entrambe golosastre autolimitantesi, con Anna voglio condividere ancora un biscotto.

[Sabina Rizzardi]

Ti chiamo col tuo nome, Anna, e ti chiamo antenata. 

Antenata coetanea – tu grande, io molto più piccola – con una vocazione comune di orfane da parte di madre per vie divergenti: ripercorrere la strada a ritroso, cucire arazzi con i detriti seminati dalle altre, detective sulle tracce delle parole di chi ci ha precedute, archeologhe di matrilogie. Ogni donna che scrive sa che lo fa sulle loro ossa: entra in uno sterminato cimitero e si accomoda su quello che altre hanno pensato, poi scritto. 

Ti chiamo col tuo nome, Goliarda, e ti chiamo ancestrale. 

Qualcuna di atavica, primordiale, che sa cose che noi altre non sappiamo. Come: che non conviene sottrarsi, ma accoglierla, quando arriva, e farsi ricoprire dal suo corpo di pietra caldo di sole. E anche: che il buio non è nero, che il giorno non è bianco, che fermarsi è correre ancora di più. 

Ti chiamo col tuo nome, Janet, e ti chiamo tempesta.

Proprio l’altro giorno mi dicevi: della tempesta ti puoi fidare, del paciugo di alghe, gusci imperfetti, uccelli laceri, rasoi affilati, corni d’ariete e conchiglie che lascia scritte sulle miglia di spiaggia. E poi hai aggiunto: tu piangi ora e mi parli di vita. E tu che non piangevi.

Ti chiamo col tuo nome, Wisława, e ti chiamo cuore.

Ascolta, ti dico ora, come mi batte forte il tuo, di cuore. Lo sapevamo, poteva accadere, doveva accadere, è accaduto prima. Però morire – questo a una gatta non si fa. Perché cosa può fare una gatta in un appartamento vuoto?

Ti chiamo col tuo nome, Anna, e sopra tutto tutto questo ti chiamo amica, mia nostra.

L’autunno si è fermato sui rami, è immobile. Forse sei solo andata nell’altra stanza al buio a prendere gli occhiali. Perché chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità. O meglio, è sostanza divina.

[Laura Pezzino]

Anna, zazzera corta che non sapeva ingrigire, occhiali tondi e magliette a righe su pantaloni ampi e scarpe sempre pronte a saltare nel vento e nel mare, quando ho saputo che la tua anima era libera ero su treno che non mi stava portando da te come altre volte, e tra le lacrime ho scritto due (brutte) poesie che parlano della distanza e del tempo, ero furiosa con loro. Volevo farti una torta di mele, che ti piaceva tanto, e invece ho scritto una poesia. Era successo così anche alla tua Goliarda che in una notte di disperazione, quando perde sua madre, inizia a scrivere. Forse per questo la amavi tanto, entrambe sapevate che la propria parte di gioia si ricava scavando con le unghie e la penna nella roccia dei dolori. Eri poesia. Tu accettavi la vita perché sapevi danzare con la morte e la perdita, invitandole a un buffet, prendendole in giro, tirando loro i noccioli dall’altro capo del tavolo, divertita. La tua voce per me era un flauto magico e mi prendevi in giro con Gianni perché a ogni vostro reading di poesia io piangevo sempre, come se quella tua voce con un solo sussurro potesse smuovere in me slavine trattenute troppo a lungo. L’ultima volta che l’ho sentita è stato a novembre, raccontavi di un incontro immaginario tra Lisetta Carmi e Goliarda Sapienza. Era la tua voce di sempre, solo un poco più stanca. Ora ti vedo entrare in quella stanza con loro e tutte le altre che hai amato, nella luce obliqua di dicembre, prendete un tè e una fetta di torta, ridete, ti vedo stringerle come hai fatto con noi Altre a cui hai aperto la porta e il cuore, rendendoci sorelle, ovunque fossimo. Hai scritto in una delle tue poesie che in questa vita tutto è in affitto, tutto va ceduto, prima o poi, tranne che il cuore, quello è l’unico posto che si occupa per intero. Il nostro oggi è allagato da te, diventato in un giorno una Venezia dall’acqua sempre troppo alta. La tua Goliarda diceva che «i morti hanno torto se dopo morti non c’è nessuno che li difende» e tu, qui da noi, avrai sempre ragione, finché non ci vedremo di nuovo, al mare.

[Giorgia Antonelli]

Anna ha sempre visto oltre la trama del visibile: me ne sono accorta dalla prima conversazione che abbiamo avuto, riguardo una scrittrice di fulgido talento scomparsa troppo presto, cosicché la memoria di lei si era dissolta e i suoi libri erano rimasti a navigare alla deriva, senza nessuno che se ne ricordasse. Nessuno tranne Anna, la sola persona che all’epoca delle mie ricerche su Brianna Carafa seppe mostrarmi la via. Siamo diventate amiche parlando di letteratura e poi subito di cani, poi di capelli, di anelli e manichini, poi di Fortuny e di Proust e delle pietre di Venezia, poi ancora di amore, di case, di paure. Ho in testa le increspature nella sua voce mentre manda un messaggio vocale salendo e scendendo da un ponte come in quella sua poesia bellissima in cui il ponte è il passaggio e oltre il ponte lei torna bambina, con le scarpe con gli occhi e tutto ricomincia. Anna ha avuto – ha ancora, perché l’ha impressa nelle poesie che in questi giorni zampillano da ogni dove – delle cose invisibili e sommerse, una visione così precisa da permetterle di porgerti pensieri quasi calmi, pacificati in una saggezza percorsa da un’inquieta corrente sotterranea: nell’equilibrio della sua specifica forma di eleganza ribolliva una personalità forte persino nelle delicatezze, un’allegria tenace per virtù di coraggio. In lei ho sempre sentito una forma di assoluto che si sposava all’attenzione per cose minuscole, rivelazioni splendidamente pragmatiche.

Non ho incontrato mai nessuno che guardasse come lei: con un’esattezza misurata e appassionata, da dietro i suoi occhiali inconfondibili, come tutti gli oggetti che intorno a lei si animavano di vita infusa dal suo gusto per il bello, l’essenziale, il poetico. In una domenica di settembre, dopo avermi raccontato i segreti di Venezia, sotto il cielo bianco mi ha sorriso dall’imbarcadero, Gianni accanto, le canette al guinzaglio. E mentre il vaporetto si allontanava, dalla laguna ho guardato quel loro amore strepitoso, per sempre salvo.

[Ilaria Gaspari]

Mi sono crogiolata molto

tra parentesi (mie o di altri)

senza scansione del tempo che non fosse interna.

Non avevo capito che è il punto

– come dicono anche i manuali di scrittura –

che rende possibile il respiro.

[Anna Toscano]

da volerelaluna

«Il vecchio continente […] deve reagire, a cominciare da una vera Unione della Difesa, costruendo un’Unione federale e difendendo l’Ucraina». Così, in un’intervista di Repubblica a Daniel Cohn-Bendit, che conclude: «Spero che gli storici futuri [ma ci saranno? ndr] potranno dire: “L’Europa ha vinto contro il mondo del male, ossia gli Usa, la Russia e la Cina”» [e tutto o quasi l’ex Terzo mondo, ndr]. Cioè, “buoni”, l’Europa; e “malvagi”, tutti gli altri. È il punto di approdo di una deriva che ha portato molto lontane tra loro vite che più di mezzo secolo fa si erano trovate accomunate nelle lotte del ’68 e dei primi anni ’70. Una distanza cresciuta nel corso degli anni ma resa ancor più profonda con l’esplosione della guerra in Ucraina: un percorso analogo a quello di Adriano Sofri, di cui sono stato e sono amico ed estimatore della sua intelligenza e della sua onestà intellettuale; come lo ero e sono di Daniel Cohn Bendit. L’esito obbligato di quelle derive è la militarizzazione della società in vista della guerra: calda, fredda o ibrida, locale o globale, convenzionale o nucleare; chi può dirlo?

Ma affidare la ricostituzione di un’identità liberaldemocratica europea alle armi, alla sua militarizzazione, là dove hanno fallito la politica istituzionale, il mercato, la finanza, l’euro, il vantato primato ambientale e quel simulacro di transizione che è stato il Green Deal significa consegnare il destino dei popoli europei agli Stati maggiori delle forze armate e all’industria delle armi. Scompare così dall’orizzonte di chi ha percorso quella deriva qualsiasi preoccupazione per il futuro del pianeta e di ogni suo territorio, minacciati dalla crisi climatica: ha un bel dire, Cohn-Bendit, che Trump ha cancellato il problema; chi opta per il riarmo come priorità compie la stessa scelta, ma senza dichiararlo. E non è poco. Ma scompare con essa anche il frutto più ricco e promettente della presa di coscienza di mezzo secolo fa: la lotta al patriarcato, portata “in prima linea” dal femminismo. Che non è solo lotta alla violenza sulle donne – residuo di un passato che resiste o emergenza di una difficile transizione – ma è denuncia e decostruzione di ogni forma di dominio: lo sviluppo di quello che era stato – soprattutto per Cohn-Bendit – il programma del ’68 e delle lotte di fabbrica e sociali degli anni successivi: la destituzione del potere degli oppressori sugli oppressi (Freire), di chi comanda su chi è condannato a obbedire, del prepotente sui diritti degli altri e – come ci mostra l’attualità degli “effetti collaterali” della guerra – dell’ipocrisia sulla verità, della corruzione sull’onestà e del cinismo sulla fraternità e sulla sorellanza. Vi contribuisce una visione del mondo ridotta a una giocata a Risiko, dove ci sono solo guerre, armamenti, confini, conquiste, vittorie o rese: una visione innescata dal sostegno a oltranza dell’Ucraina aggredita – con armi altrui e sacrificio di soldati locali – senza alcuna prospettiva di sbocco se non il crollo della Federazione Russa o una ecatombe nucleare, senza mai prospettare un negoziato sensato o anche solo una tregua vera.

Come scrive l’appello firmato Scienza Medicina Istruzione Politica Società (www.smips.org), «Si tratta dell’ultimo stadio della forma economico-sociale dominante, consistente in un capitalismo militarizzato, che per presidiare il dominio del denaro e di una finanza incondizionata, procede alla militarizzazione non solo di tutto ciò che attiene alla cosiddetta sicurezza, ma della intera, cioè della mente, del cuore, della cultura, dell’informazione, dell’Accademia, della scuola». Ma quella corsa alla militarizzazione della società si rivela, giorno dopo giorno, diretta non solo verso l’esterno, “il nemico”, ma anche e soprattutto verso l’interno: il migrante (in un’epoca in cui milioni di abitanti del pianeta saranno costretti ad abbandonare le loro terre, rese invivibili da guerre e crisi climatica), l’escluso, il dissidente, il povero; la guidano in questa direzione i governi dell’Unione Europea (rientrati, dopo la Brexit… nel Regno Unito) ma, in ultima analisi, ancora gli Stati Uniti; e non solo quelli di Trump: Fuck the EU! diceva una portavoce di Obama innescando la vicenda che ha portato all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin: e i governi dell’Unione europea allora come fino a ieri, non hanno fatto che adeguarsi…

Oggi tutto l’establishment occidentale – non solo governi e partiti, ma anche media, Università e associazioni professionali, impegnati a convincerci che non c’è alternativa alla guerra – va contrastato in nome della diffusa volontà di pace che persino i sondaggi riconoscono maggioritaria ovunque e che le manifestazioni per la Palestina in corso in tutto il mondo mettono in evidenza con il loro rinnovato attivismo. Stiamo assistendo o siamo attori, in diversa misura e con diversa intensità, di una mobilitazione mondiale che ai temi della pace e del contrasto al riarmo accomuna in misura crescente difesa dell’ambiente, dei salari, dell’occupazione, della salute, dell’istruzione: tutte vittime designate della corsa alle armi. Ma nei popoli, tra la “gente”, il desiderio di pace è ben più esteso dell’arco delle associazioni e dei movimenti che si riconoscono in questa convergenza di temi. Per questo è urgente che le organizzazioni coinvolte nelle attuali mobilitazioni si facciano promotrici, a livello per lo meno europeo, di un appello rivolto anche a tutte le forze contrarie a guerre e militarizzazione – quali che siano le loro posizioni sulle altre questioni di ordine sciale e ambientale – affinché si impegnino, nei rispettivi ambiti, a portare contraddizioni e disgregazione dentro il furore bellico dei propri rappresentanti. Il tempo è ora!

da il manifesto

Anatomia di una separazione o documento politico sulla relazione tra i sessi, rileggere oggi Vai pure è di una certa attualità. Si tratta del volume che Carla Lonzi prepara e pubblica nel 1980 riportando la sua conversazione in quattro giornate con Pietro Consagra, facendoci entrare dentro il rapporto tra una donna e un uomo. Si erano conosciuti alla metà degli anni Sessanta, Lonzi e Consagra, e a unirli era stata l’arte, ambiente da cui lei decide presto di congedarsi perché non corrispondente alla sua radicalità, ma soprattutto un legame d’amore. Forte, importante, fatto di alleanza e desiderio, soprattutto nei primi anni, non sempre facili, poi di conflitti insuperabili. Uscito per la prima volta nei «Prototipi» delle edizioni di Rivolta Femminile, viene ripubblicato nel 2011 dalle edizioni et.al e ora è nuovamente disponibile per La Tartaruga (pp. 168, euro 19), a cura di Annarosa Buttarelli che ne firma una puntuale postfazione.

A casa di Carla, luogo indicato in quelle 4 giornate del 1980 dal 25 aprile al 9 maggio, registrano ciò che si dicono riportando su carta l’analisi incarnata di una resa dei conti. Per comprendere come arrivano a quel punto si può intanto leggere il diario di Lonzi, Taci, anzi parla (1978, poi 2010 e 2024), in cui «Simone» (cioè Pietro) è tra le sue interlocuzioni significative, se ne possono osservare le mutazioni via via che la scoperta del femminismo diviene inaggirabile indagine di sé, quando l’autocoscienza prosegue e rompe le illusioni, una per una, smantellando inganni, sistemi di potere e inferiorizzazione.

Nel 1973, Lonzi appunta diverse cose proprio nel suo diario rivolgendosi al suo compagno di allora: «Avevo diversi amici, personalità di cui subivo l’influenza, però sono stata saggia e oculata: il cuore, proprio il cuore l’ho dato a te, e era la parte più veritiera. Con te ero più me stessa, tu mi amavi più come ero, gli altri mi mitizzavano di più; o meglio, vedevano solo una parte». Dopo sette anni, la frontalità ormai ineludibile è di due esseri umani nella tensione di osservare l’esaurimento di una esperienza, tra disincanto e allarme.

C’È UNA FOTO, nella copertina di Vai pure, in cui sono seduti ai lati di una scrivania, lui concentrato a leggere qualcosa mentre lei lo guarda. È scomparso il sole caldo di quella volta in cui, nel 1968, è proprio Consagra a fotografare Lonzi. Sono in Texas, a San Antonio, il ritratto di lei ha dietro una costruzione illuminata di una fiera internazionale che le faceva da aureola. Anche questo lo racconta nel diario, quando descrive l’esperienza del suo cancro e della sua operazione proprio negli Stati Uniti.

Cosa accade allora in quel 1980? Anno interessante – ad esempio Adrienne Rich svela i gangli dell’eterosessualità obbligatoria assunta come sistema di potere e sulla scena artistica mondiale, Marina Abramovic e Ulay sperimentano Rest Energy, che li vede in equilibrio precario mentre tendono un arco, sbilanciati sui talloni. Lui tiene la freccia tesa sul petto di lei, basterebbe una frazione di secondo a spaccarle il cuore e in quella eventualità c’è un affidarsi ma pure una disparità di potere maschile su una donna spalancata ed esposta che non cede. Se della performance dei due artisti ricordiamo i suoni dei loro battiti cardiaci, per 4 minuti, di Carla Lonzi e Pietro Consagra l’impressione delle loro 4 giornate è la capacità di sapersi salutare, come accaduto già transitoriamente.

Ora però il clima è definitivo, perché tutto è accaduto, lei davvero gli dice che può andare dopo che si è compresa l’insostenibilità di due mondi opposti, due lingue agli antipodi. Quella di Lonzi, libera, dice, ad esempio, che non è possibile il perdurare di un incontro di due soggetti senza che uno riconosca l’altro interamente e non come presenza accessoria. Anche questa reciprocità, da non confondere con una richiesta di autorizzazione per esistere, è il sottofondo di Vai pure.

Il confronto serrato è su quanto abbiano scelto per le loro esistenze: in Vita mia, l’autobiografia che Pietro Consagra pubblica nel 1980 con Feltrinelli, Lonzi nota quanto lo scultore scambi i processi, i passaggi con le «tappe» mentre lei nel suo Taci, anzi parla, edito la prima volta nel 1978, «si vede cosa è stata per me la tua presenza in quegli anni, dal tuo libro non si vede cosa è stata la mia presenza per te, non c’è proprio».

DUE ORIZZONTI che potrebbero ascriversi nell’ordine di una differenza sessuale al lavoro e in effetti c’è una fatica, un discreto impegno ma infine una irraggiungibilità non più rimediabile. Consagra si lambicca, è a tratti sinceramente incline ma non sostiene l’intransigenza, il nocciolo della questione: le domanda, quindi, perché lei continui a parlare di «un rubacchiamento» mentre quel che solleva Lonzi è ancora una volta, e con semplicità, di un’altra portata. Il tema è che, dice Lonzi, «io trovo astratto, cioè non vero, irreale, tutto questo costruirsi della personalità maschile come un produrre da sé.

Questo produrre da sé non è vero, non esiste. Esiste sempre un rapporto, un dialogo». E fintanto che un dialogo non si pone tra due coscienze, una delle due crede di essere «assoluta», e anche – si potrebbe aggiungere – irrelata. Il diario fa vedere quanto a uno «scatto di coscienza corrisponde un processo che non è prestigioso come lo scatto di coscienza» per segnalare come questo momento «non prestigioso» venga sempre nascosto «ed è quello in cui la donna è presente».

Diversamente, l’uomo di questo salto di coscienza ne fa un salto di cultura, gestendone il profitto. Ancora una volta il meccanismo è della appropriazione, Lonzi lo chiama qui «assorbimento», e del disconoscimento che ne consegue a fronte di un protagonismo maschile.

Sono argomenti che, a quell’altezza, avevano già circolato ampiamente negli scritti di Lonzi e con il gruppo di Rivolta era già intervenuta in più contesti, ad esempio in un documento del 1971, «Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile», o anche quello del 1972 «Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi» (riuniti in Sputiamo su Hegel nel 1974, poi 2010 e 2023). Da un lato dunque c’è il protagonista, monologante ed estroflesso nei suoi rapporti sociali e di mantenimento della sua posizione, che non è più l’uomo «in crisi» della metà degli anni Sessanta, dall’altro lato c’è la «massima dilatazione» il cui sfondo, quando Lonzi scrive il diario, è il femminismo e che le ha consentito di porsi «come mito di nessun genere» piuttosto invece come «un’istanza di autenticità e l’altro capisce che o risponde sullo stesso piano o è meglio che stia zitto».

IN «VAI PURE», prima che Carla e Pietro concludano questo loro apprendistato che ha seguito l’amore, la ferita, la fragilità, fanno capolino la sessualità come l’abbraccio. Colpisce inoltre quanto nessuno dei due sia mai grato all’altra bensì vi sia «una esasperazione continua delle posizioni» che diventa, ineluttabilmente, impraticabile. Cruciale il passaggio in cui, parlando della dialettica servo-padrone segnandone la prospettiva marxiana, Carla Lonzi centra un punto piuttosto attuale nei rapporti cosiddetti emancipati (Consagra non sembra ostile alla sua pratica femminista); oggi lo chiameremmo un percorso denso, condiviso nella libertà di una visione del mondo. Ebbene, peccato che: «qui, siccome il rapporto è privato, a due, senza testimoni, bisogna che siano proprio i due interlocutori a mettere giù i punti di coscienza. L’uomo finora ha usufruito di un profitto senza accorgersene, adesso se ne accorge, perché se ne è accorta l’altra. Me ne sono accorta io quindi ti ho portato a dover ammettere che la cosa è così, siccome siamo sul piano della coscienza, e la coscienza vuol dire la verità».

da Il Sole24Ore

La nostra società considera le donne che lavorano fondamentali, tranne quando si tratta di riconoscerle, pagarle e tutelarle. La retorica che ci circonda è edulcorata, ma strutturalmente disonesta: riconosce il sacrificio, ma non lo trasforma mai in diritto. Le donne questo teatrino lo conoscono bene perché sino a qualche decennio fa vivevamo dentro un’economia che non aveva bisogno di mascherare la sua brutalità: le lavoratrici, ad esempio, erano pagate meno degli uomini perché «non dovevano mantenere la famiglia». Punto. Era un pensiero talmente dominante da diventare indiscutibile: non era percepito come discriminazione, ma come organizzazione naturale della società. Il salario era corrispondente alla gerarchia e noi occupavano un gradino più basso.

La protesta delle tabacchine di Lanciano nel 1968

Poi, la “naturalità” dell’ordine sociale si è incrinata. Nel 1968 alla Manifattura Tabacchi di Lanciano, la notizia di centinaia di licenziamenti fa saltare l’ingranaggio della rassegnazione: quegli esuberi non erano solo perdite di reddito, ma privazione di identità e dignità. Le tabacchine, che la società aveva educato alla discrezione e al silenzio, reagiscono con un atto di sovversione: occupano la fabbrica. Quaranta giorni di sciopero, barricate, tensioni, piazze piene. Un’intera città, studenti, operai, commercianti, preti, casalinghe, trascinata dentro una vertenza guidata da donne, in un’epoca in cui le donne non dovevano guidare niente.

Il gesto non è soltanto coraggioso: è addirittura scandaloso. La narrazione dominante afferma che il sacrificio delle donne è personale e silenzioso e invece loro lo trasformano in rivoluzione pubblica: allattando i figli piccoli ai presidi, mentre i mariti, abbracciati ai cancelli del tabacchificio, intimavano o le pregavano di tornare a casa a occuparsi di loro. La loro lotta non fu solo economica ma anche sanitaria: l’esposizione continua a polveri e umidità provocava bronchiti croniche, dermatiti, malattie professionali e aborti spontanei. Le tabacchine chiedevano controlli medici, pause obbligatorie, strumenti di prevenzione, riconoscimento della nocività. In numerose manifatture, tra gli anni Cinquanta e Settanta, comitati spontanei si trasformarono in delegazioni sindacali, rompendo l’idea che le operaie dovessero subire in silenzio.

Le mani invisibili dietro La Perla

Cinquant’anni dopo, a Bologna, un altro gruppo di donne vive una variante moderna della stessa violenza. La Perla è una delle più note aziende di intimo al mondo, ma le mani che producono quella bellezza restano invisibili: modelliste, cucitrici, ricamatrici che incarnano un sapere artigianale riconosciuto a livello internazionale e che, di fronte alla crisi, vengono trattate come costi sacrificabili. Quando arrivano gli esuberi che coinvolgono centinaia di lavoratrici, le motivazioni sono le stesse di sempre, solo meglio infiocchettate: si parla, infatti, di «razionalizzazione» e «ristrutturazione». Se negli anni Sessanta il sopruso era brutalmente esplicito, oggi è ipocritamente neutro.

Il simbolo del reggiseno rosso: non potete fare finta di non vederci

E allora le donne di La Perla, guidate dalle loro rappresentanti sindacali, rispondono con scioperi e occupazione, pressione mediatica e politica. Non solo fabbrica chiusa, ma tavoli istituzionali, vertenze legali, interviste, manifestazioni a Bruxelles. È una lotta che mescola conflitto, competenza, strategia ostinazione, e che non chiede pietà ma rispetto. Gioia e rivoluzione, come cantavano gli Area: ai presidi le lavoratrici si presentano sempre con un enorme reggiseno rosso che campeggia sotto i ministeri e che intima un messaggio semplice ma potente: siamo qui con la nostra ostinazione e non potete fare finta di non vederci.

Nel 2021 nasce UnicheUnite, un collettivo che produce, vende, organizza eventi, per sostenersi economicamente e per non disperdere un capitale di competenze e relazioni.

Più di duecento lavoratrici reintegrate

La vertenza, lunga e ostinata, produce uno straordinario risultato: con l’acquisizione dello stabilimento da parte della nuova proprietà, più di duecento lavoratrici vengono reintegrate in una nuova società con l’obiettivo di rilanciare la produzione. Non c’è un miracolo, c’è un metodo: presidio continuo, pressione mediatica, coinvolgimento istituzionale, difesa del made in Italy, denuncia della logica finanziaria che smantella siti produttivi per ragioni speculative.

Il risultato è, per gli standard attuali, un’anomalia radicale: è un esito talmente inusuale da sembrare un miracolo, proprio perché abbiamo interiorizzato l’idea che la sconfitta sia inevitabile e che la vittoria sia eccezionale. Ma qui non c’è nessun miracolo: c’è una strategia che ha funzionato.

Donne che rifiutano la rassegnazione

Ed è questo che accomuna profondamente le tabacchine di Lanciano e le “perline” di Bologna: non solo l’oggetto della battaglia (il lavoro), ma la sua filosofia. In entrambi i casi, le donne hanno rifiutato l’idea violenta della rassegnazione. Hanno rifiutato il ruolo della vittima controllata, resiliente e composta. Le tabacchine e le lavoratrici di La Perla hanno fatto ciò che di solito non si perdona alle donne: non sono state accoglienti, non sono state “brave e zitte”.

In modo diverso, in tempi diversi, hanno affermato lo stesso principio: la dignità è collettiva o non è. Il potere può ignorare una donna sola, ma cento donne insieme diventano un problema. Il patriarcato industriale degli anni Sessanta e il capitalismo finanziario del XXI secolo condividono un presupposto: che le donne siano fragili, sostituibili, disponibili. La storia dimostra che è proprio questa convinzione a renderle pericolose, perché quando decidono di non esserlo più, cambiano un modello di potere.

Un promemoria universale: organizzarsi per migliorare

E allora forse non dovremo raccontare queste storie come straordinarie: se una vittoria è eccezione, non è imitabile. Se è miracolo, non è metodo. Ciò che le tabacchine e le perline ci consegnano è un promemoria universale: non bisogna essere potenti per cambiare la propria condizione, bisogna essere organizzate.

Non bisogna essere straordinarie, bisogna essere intransigenti. Non bisogna essere perfette, bisogna essere stanche nel modo giusto: quel tipo di stanchezza che chiede trasformazione.

In fondo, il gesto più rivoluzionario non è resistere, ma decidere di non farlo da sole. E le tabacchine e le perline hanno lanciato un messaggio chiaro: se non ci danno il futuro, noi ce lo prendiamo.

Testo dell’intervento di Alfonso Navarra a un incontro on line promosso da Disarmisti esigenti l’8 dicembre 2025

Il giornalismo nonviolento, pur non essendo un metodo formalmente codificato, come la Comunicazione Nonviolenta (CNV) di Rosenberg, può essere definito come un approccio all’informazione che applica i principi di Ahiṃsā (non-danneggiamento) e Satyagrāha (forza della verità) di Gandhi, concentrandosi sulla comprensione dei bisogni e la ricerca di soluzioni, anziché sulla polarizzazione e la sensazionalizzazione.

Ecco i principi chiave che potrebbero definire il giornalismo nonviolento:

1. Concentrarsi sulla struttura, non sulla contesa (“principio strutturale”)

– Identificare e rivelare i bisogni: andare oltre la denuncia delle azioni immediate e identificare i bisogni umani universali (es. libertà, sicurezza, dignità, riconoscimento) che sono insoddisfatti e che guidano il conflitto.

– Contestualizzazione completa: non limitarsi a riportare chi ha fatto cosa, ma fornire il contesto storico, sociale ed economico che ha portato all’evento. Rifiutare le narrazioni semplicistiche che dividono le parti in “buoni” e “cattivi”.

– Denunciare la violenza strutturale: riconoscere e denunciare non solo la violenza visibile (guerra, terrorismo) ma anche la violenza strutturale (povertà, disuguaglianza, discriminazione sistemica) che è spesso la radice del conflitto.

2. Sostenere l’empatia e il dialogo (“principio relazionale”)

– Dare voce a tutte le parti: dare spazio equo alle voci di tutte le parti in conflitto, le “vittime” in primo luogo, ma anche agli “oppressori”, ai mediatori e, soprattutto, ai cittadini comuni che cercano soluzioni.

– Uso consapevole del linguaggio: evitare il linguaggio che polarizza o demonizza. Utilizzare termini che descrivano i fatti e l’impatto della sofferenza, piuttosto che etichette morali o giudizi (es. descrivere la violenza senza usare un’etichetta legale definitiva se non confermata, per mantenere aperto il dialogo).

– Rifiuto della sensazionalizzazione: non focalizzarsi sui dettagli più violenti o sanguinosi al solo scopo di aumentare l’audience (giornalismo della tragedia), ma riportare la sofferenza con dignità e rispetto.

3. Orientamento alla soluzione (“principio costruttivo”)

– Coprire le iniziative di pace: invece di concentrarsi unicamente sul fallimento dei negoziati o sull’escalation, dedicare spazio e attenzione alle iniziative di pace, mediazione e riconciliazione in corso, anche se su piccola scala (es. gruppi di collaborazione palestinesi/israeliani e non solo foto di massacri).

– Rappresentare la complessità: riconoscere che le soluzioni sono raramente binarie. Evitare di ritrarre la pace come l’assenza di guerra; mostrare invece il processo complesso e incrementale attraverso cui le relazioni vengono ricostruite.

– Responsabilità del lettore/ascoltatore: fornire ai lettori e agli ascoltatori informazioni che li rendano cittadini attivi e informati sulla possibile risoluzione del conflitto, piuttosto che spettatori passivi e spaventati.

In conclusione, mentre il giornalismo tradizionale spesso utilizza il conflitto come prodotto (attraverso la logica della contesa e del dramma), il giornalismo nonviolento, che chiamo provocatoriamente “antigiornalismo”, cerca di usare la sua influenza per promuovere il dialogo e individuare il terreno comune necessario per una pace duratura. Tenendo sempre presente la massima: una “brutta pace” (= tregua militare in cui tacciono le armi) è sempre meglio di una bella guerra (= accanimento sanguinoso e devastatore con cui si difendono i confini ritenuti “giusti”).

da L’Altravoce il Quotidiano

Nei due anni di genocidio Israele ha tentato di ucciderli tutti, di cacciarli dalla loro terra, li ha bombardati, massacrati, affamati, mutilati, trafitti nel corpo e nell’anima, ha raso al suolo le loro case costringendoli a sfollare e a vivere in tende improvvisate, ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, ma loro, i palestinesi, nonostante il dolore, le sofferenze e un mare di lacrime, hanno resistito con coraggio e determinazione. Una resistenza che bambine/i, ragazze/i hanno portato avanti avendo come unica arma i libri, le lezioni e il desiderio di studiare per lasciare aperta la porta alla speranza e al futuro. Bambine/i hanno continuato in tende le lezioni con insegnati volontari. Migliaia di ragazze/i non hanno smesso di studiare, di seguire corsi accademici online, con tutte le difficoltà dovute alle interruzioni di elettricità, al cedimento delle reti di comunicazione, allo sfollamento e al lutto. C’è stata chi come Thuraya Fatid si è diplomata. «Prendere il diploma di liceo – racconta in un articolo su “La Stampa” a firma di Majd Al-Assar – è stato un miracolo. Abbiamo perso due interi anni scolastici, ma ero determinata a continuare gli studi, soprattutto dopo aver perso la casa e dopo che mio fratello è stato ucciso. Ho studiato in una tenda, sono rimasta sveglia notte dopo notte alla luce della torcia del mio cellulare per preparare l’esame di fine corso». Da quando è iniziata la tregua, nonostante Israele non cessi di violarla e di impedire l’entrata a Gaza di tutti gli aiuti umanitari, la resistenza è diventata rinascita con l’apertura, tra le macerie, delle scuole e dell’Università islamica a Gaza. «Mi ci è voluta mezz’ora per arrivare a scuola a piedi, e la maggior parte delle strade sono danneggiate e piene di macerie e pietre, il che mi stanca molto. Il cessate il fuoco mi rende felice», parole di una studentessa. Felicità condivisa dalla giovane Thuraya. «Sognavo – lei dice – di riuscire un giorno a vivere la vera vita universitaria, di conoscere compagni e professori, e adesso una parte di quel sogno è diventata realtà. Sono molto felice, malgrado tutte le difficoltà del momento». Nelle scuole in aule improvvisate non ci sono i banchi, le/gli studenti si siedono per terra, ma sono felici. All’Università islamica il campus vero e proprio è un mare di macerie, i pochi edifici danneggiati portano i segni dell’artiglieria israeliana. La riapertura delle scuole e dell’Università, col ritorno di migliaia di studenti, ha un grande significato simbolico per una generazione che guarda al futuro e affida la propria rinascita non alle armi, non alla guerra ma allo studio, ai libri, al desiderio di imparare che è più forte della distruzione che li circonda. Rinascita è il matrimonio di massa celebrato il 2 dicembre scorso nel sud della Striscia. Tra gli edifici bombardati si sono sposate 54 coppie provenienti da varie parti della Striscia, in centinaia hanno assistito alla cerimonia. Rinascita è il festival del cinema femminile lanciato dal regista palestinese Ezzaldeen Shalh e tenuto, dal 26 al 31 ottobre, in tende temporanee nel centro di Gaza. Cinquecento donne hanno assistito alla proiezione di ottanta film di registe di oltre venti paesi, tra Medio Oriente, Nord Africa, Europa e America. Aperto con la proiezione del film “La voce di Hind Rajab”, la prima nel mondo arabo, il festival aveva come titolo “Donne leggendarie durante il genocidio” in onore delle donne palestinesi che «hanno sopportato gli orrori della guerra, dalla perdita alla detenzione, fino allo sfollamento». Donne sopravvissute al genocidio che vogliono vivere, rinascere e sperare insieme a tutto il loro popolo. Donne da ammirare e sostenere nella rinascita come nella resistenza.

dal Corriere della Sera

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Centinaia di capi scoperti. Centinaia di code, di trecce nere che ondeggiano libere. Bisogna scrutare con attenzione i video della fiumana che taglia il via della maratona di Kish per scovare un hijab. C’è qualche fascia che ferma frangette ribelli, qualche cappellino da baseball portato all’indietro, ma pochissimi i veli a coprire le chiome delle duemila iraniane che venerdì hanno preso parte alla maratona sull’isola nel Golfo Persico. «Una “immorale” la puoi arrestare, ma duemila non è così facile», ci scrive Ghazaleh, giovane professoressa di Teheran. Non ha partecipato alla gara che tanto ha fatto infuriare gli ayatollah e i loro seguaci, ma sono due anni che corre per le strade della capitale a testa libera. Dice: «Non sanno più come fermarci».

Gli uomini di Ali Khamenei, sorpresi e sconcertati dall’affronto senza precedenti, sui giornali di regime condannano la «scandalosa competizione», che qualche integralista indignato sui social chiama «Las Vegas della corsa». Confusi sul da farsi, i giudici fanno partire gli arresti. I primi a «pagarla» sono due organizzatori della maratona colpevoli di non essere riusciti a fare rispettare le leggi morali che governano la Repubblica Islamica. E balbettano: «Per dirla tutta noi avremmo avvertito che era fondamentale osservare le regole d’abbigliamento». Ma la procura di Kish non perdona: «È stato indecente il modo in cui si è svolto l’evento». L’agenzia di stampa ultraconservatrice Tasnim critica «l’assenza totale di controllo e il mancato rispetto dei codici da parte di un numero significativo di partecipanti».

Ghazaleh crede che non si fermeranno ai due arresti: «I loro scagnozzi staranno studiando i profili social per capire chi altro punire. Staranno cercando le persone con più follower perché la vendetta sia rumorosa. Poi, smetteranno di parlarne, come è successo con l’ultimo caso del concerto all’aperto a Teheran. Anche lì si cantava e ballava a capo scoperto: io c’ero».

Le ragazze iraniane sanno come funziona. Conoscono a memoria i rischi che corrono quando sfidano le leggi medievali della dittatura. E a Kish – come per le strade di Teheran, di Isfahan, di Tabriz – hanno affrontato gli ayatollah sul solito fronte, quello più caldo: il velo. Queste giovani donne sembrano avere sempre meno paura delle autorità che governano il Paese. È dall’uccisione di Mahsa Jîna Amini, dal 2022, che la lotta del movimento Donna Vita Libertà è diventata una rivoluzione in grado di cambiare le regole del gioco. «Una rivoluzione che non ha fatto cadere il regime», dicono i pessimisti, ma ha stravolto la società. Ha liberato le ragazze, e, soprattutto, ha «convertito» i padri, i fratelli, gli amici. Gli unici a rimanere immobili sono coloro che detengono il potere e che tremano all’idea di perderlo.

Amir ha 25 anni e venerdì correva sull’isola di Kish: «È stato bello vedere così tante donne senza velo. Le nostre sorelle sono coraggiose e noi le sosteniamo». Erano tremila gli uomini che hanno partecipato alla quinta edizione della maratona. Correvano separati dalle atlete, «ma poi abbiamo festeggiato insieme».

I legislatori hanno accusato la magistratura di non far rispettare la legge sull’hijab. Il capo della Corte suprema Gholamhossein Mohseni Ejei ha chiesto un’applicazione più rigorosa e intanto il presidente cosiddetto riformista Masoud Pezeshkian si è rifiutato di ratificare un disegno di legge che avrebbe imposto sanzioni più severe per le donne. Il governo, indebolito dalla Guerra dei dodici giorni con Israele, da un’economia a pezzi e da una siccità senza precedenti, è accusato dalle frange più conservatrici di lassismo: le lotte interne debilitano il potere.

«Non ci fanno più paura, li combattiamo su ogni fronte. Anche lo sport qui è politica», continua Ghazaleh. In Iran alle donne è vietato andare in bicicletta e nuotare in pubblico. Sono vietati gli stadi ed è proibito giocare a biliardo.

da La Stampa

Piazza Unità d’Italia, Trieste: tripudio di luci e alberi di Natale. Novecento metri più in là, i magazzini del Porto Vecchio. Nessuna luce, niente stelle natalizie. Più di cento persone cercano di dormire nonostante il forte vento che scende dal Carso. Nonostante il cattivo odore e lo squittio dei topi.

Sono migranti, arrivati dalla famigerata rotta balcanica fino a Trieste, in attesa di essere ricevuti dalle autorità italiane. «Torna domani» è quello che tutti i giorni si sentono dire dalla Questura, dove si presentano appena arrivati, anche a costo di stare in fila per ore. Per qualcuno quel domani si trasforma in mesi, passati senza un posto in cui dormire se non gli umidi silos del porto. Circa novanta di loro, settimana scorsa, sono stati “trasferiti” con lo sgombero di uno di questi edifici. Nella struttura accanto, in silenzio, ha invece perso la vita Hichem Billal, trentaduenne algerino arrivato a Trieste sei mesi fa. Quando l’hanno trovato era già morto da ore per il freddo. «Era venuto più volte a farsi medicare da noi volontari: estremamente vulnerabile, era totalmente consumato nel corpo. Mi parlava della moglie e del suo bambino», racconta Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra, che dal 2019 sostiene i migranti che arrivano in città.

Hichem è la quarta vittima delle basse temperature nel giro di pochi giorni in Friuli-Venezia Giulia. Due uomini pakistani, Nabi Ahmad di trentacinque anni e Muhammad Baig di trentotto, sono morti avvelenati dal monossido di carbonio a Udine mentre tentavano di scaldarsi con un fuoco alimentato da oggetti in plastica. Uno dei due aveva ricevuto l’invito a presentarsi per compilare la domanda di protezione internazionale. Shirzai Farhdullah, anche lui morto intossicato a Pordenone, aveva invece venticinque anni e arrivava dall’Afghanistan. Tutti e tre fino a poco fa, prima di spostarsi a cercare aiuto in altre città della regione, facevano parte dei fantasmi dei magazzini di Trieste.

Noman, kashmiro che vive da due anni in Italia, conosceva bene Shirzai. È stato lui a recitare in piazza il rito funebre in onore dei quattro morti per il freddo. Anche Noman ha dormito a Porto Vecchio per mesi. Da quando ha ottenuto il permesso di soggiorno, però, ha scelto di aiutare gli altri: «Ora vivo in un appartamento con altre persone e lavoro come badante, ma so cosa significa sopravvivere in strada. Tutte le sere sono in piazza per distribuire coperte, scarpe e cappotti. Vado anche a cucinare per gli altri al porto, improvvisando una cena con quello che c’è: riso, farina, olio». Il giovane vuole restituire l’aiuto che gli è stato dato in passato. «Quando qualche tempo fa sono andato con gli altri volontari a fare un giro per le montagne vicine al confine – racconta – mi sono inginocchiato per pregare accanto a una pozzanghera di fango. È stata quell’acqua sporca a salvarmi la vita durante la traversata».

Noman spiega che ogni giorno scopre che qualcuno durante la notte si è ammalato, ha una sospetta polmonite o non riesce nemmeno a muoversi per la febbre. Yousef, afghano che da cinque mesi si aggira nel porto, conferma che molti suoi «amici e fratelli migranti» soffrono l’essere continuamente esposti a pioggia e vento. La maggior parte di loro arriva da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Ma molti sono anche i curdi, dalla Turchia o dall’Iraq, e i nepalesi. «Il numero di persone che vivono nei magazzini varia tra i 180 e i 250. La politica cittadina, in modo scientifico, vuole demotivarli e indurli ad andarsene. Sono ridotti a non-persone, a subumani, costretti a vivere tra i topi», spiega Fornasir, «spesso l’unico modo di accedere al sistema di accoglienza è tramite sgombero. Molti implorano la polizia di prenderli, di portarli via con loro». Capita, però, che chi viene trasferito si ritrovi ancora più isolato: molti finiscono in Sardegna, in case abbandonate all’interno dell’isola e lontane dai grandi centri abitati, dove è difficile anche solo frequentare un corso di italiano. Gli ultimi sgomberati verranno invece portati in Toscana.

Il rischio di essere mandati fuori dall’Italia, però, è ancora più grande. Lo spiega Fornasir: «Un tempo curavo vesciche e piedi devastati, oggi mi ritrovo davanti corpi pieni di cicatrici, ossa rotte, nasi spaccati, timpani saltati. I migranti che percorrono la rotta balcanica sono sistematicamente torturati. E chi è respinto è destinato a subire altri abusi».

“Perché non accada”, la ricerca (qui) commissionata da ActionAid su «come si percepiscono in Italia la violenza e le diseguaglianze di genere e come prevenirle» mette in luce una situazione italiana in cui la violenza maschile nei confronti delle donne rappresenta il riflesso di una cultura maschile che non è stata superata, ma che continua a influenzare profondamente la nostra vita quotidiana.

Dal mio punto di vista, questa indagine solleva almeno due questioni: il modello di mascolinità che ha contribuito a formare la mia persona, e la responsabilità che ho nella modifica delle dinamiche tra i sessi.

Una delle sezioni più importanti del rapporto, su cui desidero soffermarmi, riguarda la giustificazione della violenza: oltre il 20% degli uomini è convinto che sia giustificato esercitare controllo sulla propria partner, e circa il 13% trova accettabile la violenza fisica in alcune situazioni. La violenza economica è considerata accettabile da un uomo su tre, e lo è per quasi la metà dei maschi Millennials (la generazione composta da persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e la metà degli anni novanta) e per quelli della Gen Z (la generazione delle persone nate tra la seconda metà degli anni novanta del XX secolo e il 2010). Per uno su quattro la violenza verbale e quella psicologica sono ampiamente motivate da provocazioni e comportamenti “scorretti” delle donne. La maggioranza (55%) dei Millennials ritiene legittimo il controllo sulla partner, soprattutto in caso di tradimento o di mancata cura della casa e dei figli.

Questi dati non sono solo molto preoccupanti: evidenziano come la mascolinità prevalente si basi ancora sul diritto (o presunto tale) di esercitare potere, controllo e punizione. Dati come questi dovrebbero spingere noi uomini verso un cambiamento profondo: non è sufficiente fermare la violenza, è necessario intervenire sul «senso del mio potere come uomo» all’interno della relazione.

Questi dati mi pongono e ci pongono dinanzi a un bivio: posso credere che “non appartengo a quelli che giustificano la violenza”, oppure posso interrogarmi su quale modello relazionale stia contribuendo a mantenere. La violenza rappresenta manifestamente il risultato di norme non evidenti: se risulta ancora accettabile che un uomo possa “tenere sotto controllo” o che certi comportamenti femminili “giustifichino” una reazione violenta, è perché la differenza di sesso è stata vista come una gerarchia piuttosto che come una libertà.

Il rapporto esamina anche i carichi di cura: mentre le donne si occupano fino all’80% delle faccende domestiche in alcune generazioni, il coinvolgimento degli uomini è ancora molto basso. Questa disparità non riguarda solo il carico di lavoro: rappresenta una “ferita” nelle relazioni tra i sessi. La cura non dovrebbe esser solo un “compito femminile”, ma un aspetto completamente umano. Perché quindi la mascolinità non può abbracciare senza riserve la responsabilità affettiva e domestica, la vulnerabilità e il tempo dedicato all’altro senza partire da una posizione di potere?

Gli elementi più interessanti della ricerca riguardano la necessità di spingere gli uomini a superare la mentalità del “per fortuna che lo faccio” o del “faccio quel che posso” e di adottare invece una logica di collaborazione. Non come un favore, né come un’“aggiunta personale”, ma come una parte integrante della relazione. Non possiamo più definirla “partecipazione” marginale e condizionata: è corresponsabilità. Quando in casa cucino o faccio la polvere non è “un aiuto”, un “compito”, qualcosa che faccio perché “è giusto ideologicamente”, ma un fatto di cura verso di me e la mia compagna. Spetta agli uomini il compito di scuotere questo schema, non solo nelle sfere personali, ma anche in ambito politico, professionale.

Un altro aspetto del rapporto è la proposta di passare dalla sensibilizzazione occasionale alla prevenzione primaria: un programma che intervenga prima che si manifesti la violenza, affrontando le cause, come stereotipi, norme quotidiane, ruoli e dinamiche di potere. Ciò significa che la differenza fra i sessi non deve essere ridotta a una semplice uguaglianza formale, ma deve essere riconosciuta come diversità nei desideri, nei corpi e nelle relazioni, da cui si deve poi sviluppare una nuova cultura della relazionalità.

In qualità di uomo, se desidero contribuire a questo cambiamento, devo accettare che la prevenzione non è solo una questione “femminile” o “un compito delle politiche”. È soprattutto una mia responsabilità. È il mio corpo, la mia sessualità, il mio modo di stabilire legami che devono evolversi. Se la cultura della violenza è profondamente radicata nella normalità del controllo maschile, allora la cultura della libertà deve essere edificata su una differenza pienamente accettata. Il rapporto indica che le donne non eterosessuali, le persone con disabilità e le nuove generazioni comprendono meglio queste dinamiche e partecipano in modo più attivo. Questo ci mostra che il cambiamento è realizzabile, ma tuttora molti uomini non vi sono ancora completamente coinvolti.

In conclusione, “Perché non accada” è un appello a modificare non solo le istituzioni, ma anche i modelli relazionali e simbolici che consentono la persistenza della violenza maschile. Dal mio punto di vista di uomo la sfida è sia personale sia collettiva: diventare un uomo che non ha bisogno di dominare per sentirsi maschio, ma che sceglie la differenza come strumento di dialogo, la vulnerabilità come forma di forza e la cura come modo di condividere il potere.

Un cambiamento della mascolinità dove non si tratti più di una virilità basata sul dominio, ma di una virilità che si fonda sulla responsabilità. Trovo sorprendente che i giovani uomini manifestino ancora una maggiore tolleranza verso le giustificazioni della violenza, il che indica che l’impegno maschile per il cambiamento risulta ancora inadeguato. È giunto quindi il momento per gli uomini di partecipare alla prevenzione, non come “alleati esterni”, ma come attori principali del cambiamento che desiderano rappresentare.

In primo luogo con un lavoro su noi stessi, individuale e anche di gruppo, che preveda la rottura quotidiana con la complicità maschile negli ambiti pubblici e privati e un rapporto stretto e costante con il femminismo.

Un intervento di Mar Arza

di MNAC

Questo intervento ci interroga se sia possibile eliminare le strutture patriarcali implicite nel nostro modo di vivere. Nasce da una riflessione dell’artista sulla tecnica dello strappo che ha permesso di conservare la preziosa collezione di pittura murale romanica del Museo. Questa tecnica consiste nel far aderire con colla solubile sui dipinti una tela fine che quando viene rimossa si porta lo strato più superficiale della pittura impregnata nel muro, che poi si trasferisce su un altro supporto. Durante una visita al magazzino delle riserve museali l’artista scoprì le seconde estrazioni delle pitture murali. Se i primi strati di pittura sono esposti al museo, i secondi si trovano nel magazzino e servono come oggetti di studio. Ricordano delle pelli secche, con le loro macchie di pittura confuse, in alcuni casi completamente astratte.

Davanti alla qualità materica di questi pezzi e della loro capacità evocatrice, la ricerca dell’artista va a convergere con riflessioni precedenti che hanno come asse centrale la spinta a cancellare i segni strutturali di un sistema patriarcale che permane presente, spesso in modo inavvertito, e che richiede una lotta costante, un’azione decisa per sradicare la violenza occulta e la discriminazione.

Il progetto consisterà nel realizzare un dipinto murale su una parete del museo in cui apparirà una frase che esprime che questa struttura patriarcale non si smantella per caso. Si procederà a rimuoverla mediante la tecnica dello strappo, di modo che, nonostante venga estirpato lo strato più superficiale, si possano ancora vedere sul muro resti indelebili. La difficoltà si rende patente. Mar Arza ci interpella: quanti strati ancora abbiamo bisogno di rimuovere per neutralizzarne gli effetti e la presenza?


(Museu Nacional d’Art de Catalunya, 12 giugno 2025, traduzione di Clara Jourdan)


Mar Arza (1976) vive e lavora a Barcellona; tra le sue esposizioni ricordiamo le opere della Colección La Relación, Duoda Centre de Recerca de dones. L’installazione Strappo si trova nelle sale del romanico del Museu Nacional d’Art de Catalunya, tra San Climent de Taüll e Santa Maria. Video: https://canal.mesmnac.cat/llegeix/strappo-no-per-atzar-cau-el-patriarcat/ Il progetto echeggia il testo È accaduto non per caso (Sottosopra, gennaio 1996) pubblicato da Duoda nella traduzione di María-Milagros Rivera Garretas: El final del patriarcado. Ha ocurrido y no por casualidad.


Strappo No por azar cae el patriarcado

Una intervención de Mar Arza

Esta intervención nos cuestiona sobre si es posible eliminar las estructuras patriarcales implícitas en nuestras formas de vivir. Surge de una reflexión de la artista sobre la técnica del strappo que ha permitido conservar la valiosa colección de pintura mural románica del Museo. Esta técnica consiste en adherir con cola soluble una tela fina sobre las pinturas que, cuando se extrae, se lleva la capa más superficial de la pintura impregnada en el muro, que posteriormente se traspasa a otro soporte. En una visita a las reservas del Museo la artista descubrió las segundas extracciones de las pinturas murales. Si las primeras capas de pintura están musealizadas, las segundas se encuentran en las reservas del Museo y sirven como objeto de estudio. Recuerdan a unas pieles secas, con sus manchas de pintura desdibujadas, en algunos casos totalmente abstractas.

Ante la calidad matérica de estas piezas y de su capacidad evocadora, la investigación de la artista converge con reflexiones anteriores que tienen como eje central el impulso de borrar las marcas estructurales de un sistema patriarcal que permanece presente, a menudo de forma inadvertida, y que requiere una lucha constante, una acción decidida para erradicar la violencia soterrada y la discriminación.

El proyecto consistirá en realizar una pintura mural sobre una pared del museo en la que aparecerá una frase que expresa que esta estructura patriarcal no se desarticula por azar. Se procederá a extraerla mediante la técnica del strappo, de forma que, a pesar de extirpar la capa más superficial , se puedan ver aún restos indelebles sobre la pared. La dificultad se hace patente. Mar Arza nos interpela: ¿cuántas capas más necesitamos extraer para neutralizar sus efectos y su presencia?

https://www.museunacional.cat/sites/default/files/images/field_exibition_images/mar_arza.jpg

(Museu Nacional d’Art de Catalunya, 2 dicembre 2025)

(https://www.museunacional.cat/es/strappo-no-por-azar-cae-el-patriarcado)

da la Repubblica

Inversione dell’onere della prova? Ma figuriamoci. Affermare un concetto del genere in relazione al disegno di legge sul consenso, vuol dire non conoscere il processo penale». Teresa Manente, avvocata, esperta di violenza di genere, centinaia di processi alle spalle, a capo del team legale dell’associazione Differenza donna, spiega (e smonta) le critiche che hanno portato all’affossamento, in Senato, della modifica dell’articolo 609 bis del codice penale.

Ossia quell’unico articolo che introducendo la nozione di “consenso libero e attuale” per dimostrare se un atto sessuale è uno stupro o meno, avrebbe allineato l’Italia con quasi l’intera Europa, dove ventuno Stati hanno già approvato una identica legge.

La ministra della Famiglia Roccella, per motivare la marcia indietro della maggioranza sul disegno di legge, ha affermato che si rischia «l’inversione dell’onere della prova». È vero?

«Assolutamente no. È un errore giuridico. Esattamente come accade oggi nel processo penale in casi di stupro, ci sarà una donna che denuncia di essere stata violentata e un imputato che sostiene la consensualità dell’atto. Ma sarà sempre e comunque il pubblico ministero e non l’imputato a dover dimostrare se quel rapporto è stato o non è stato libero e volontario».

E allora qual è la differenza che l’articolo 609 bis introduce?

«La differenza è che la mancanza di consenso non dovrà più essere dimostrata attraverso la “resistenza” della donna, che magari non è fuggita, o non ha urlato, o non ha lesioni. Quante donne, lo sappiamo, durante uno stupro si immobilizzano come fossero congelate, per paura di morire, per cercare di non sentire l’orrore? È una sindrome ben nota e si chiama freezing.

D’ora in poi basterà affermare con una denuncia di aver detto no al rapporto sessuale e di non essere state rispettate, per dare avvio alle indagini. Perché il consenso appunto deve essere libero e reiterato. Anche durante l’atto la donna deve poter dire no ed essere ascoltata».

Ecco, Manente, su questo punto le critiche sono ancora più forti. E cioè che i confini del consenso o del dissenso sarebbero a volte labili e non sempre comprensibili.

«Vogliamo scherzare? Qui mi indigno davvero. Non esiste uomo o ragazzo che non sappia perfettamente se la donna o la ragazza che è con lui è consenziente o meno. Questo è davvero un retaggio maschilista: ho sentito miei colleghi dire che in certe situazioni l’uomo non si può fermare, anche se lei dice basta. Vi sembra consenso questo?».

Il ministro Salvini afferma poi che si lascerebbe «spazio a vendette personali da parte di donne e uomini» che userebbero la norma per risolvere questioni private.

«È la vecchia storia delle querele strumentali. Vorrei sapere quante sono, e se Salvini ha i numeri li tiri fuori. Questi numeri non ci sono perché si tratta di percentuali irrisorie, se esistono. Ho difeso centinaia di donne e non mi sono mai trovata di fronte a una denuncia per violenza non suffragata da fatti. Evidentemente il ministro non sa cosa vuol dire per una donna affrontare un processo per stupro. Si chiama calvario. Noi oggi siamo di fronte al dramma opposto: le vittime non denunciano per non dover affrontare il processo. E aver criminalizzato il concetto di “consenso libero” che così faticosamente avevamo cercato di far passare nelle aule dei tribunali, rischia di scoraggiare ancor di più le donne».

L’avvocata Bongiorno, leghista, presidente della commissione Giustizia del Senato, ha detto che per molti esponenti della maggioranza la norma sarebbe sbilanciata a favore della donna.

«Vorrebbe dire allora che anche la Convenzione di Istanbul, da cui questa legge discende e l’Italia ha sottoscritto, è un testo sbilanciato. Così come sbilanciate sarebbero le leggi sul consenso firmate da ben ventuno paesi europei. La verità è invece molto amara: non c’è la volontà politica di sradicare culturalmente la violenza di genere».

La pubblicazione nell’ultimo dei Quaderni di Via Dogana della conversazione integrale inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan svoltasi nel 2003 (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano 2025) ha anzitutto il pregio di farci scoprire gli aspetti meno scontati e più sorprendenti della personalità della ben nota filosofa della differenza sessuale. Sollecitata con garbata finezza da Clara Jourdan che non si limita a formulare domande ed esporre le proprie osservazioni, ma contestualizza, mette a punto, sottolinea rimandi a vita e opere, Luisa Muraro coglie e accoglie suggestioni, schizza una sorta di autoritratto enunciando i propri pensieri con audacia e nondimeno con sobrietà, si sofferma con franchezza sui tratti spinosi del proprio percorso esistenziale-politico sino ad affievolire l’alone di una certa baldanza caratteriale e a tentare di svelarne il punto cieco.

Esserci davvero si apre con il riferimento di Luisa Muraro alla madre che ogni due mesi «sentiva l’esigenza interiore di andare al Santuario di Monte Berico» edificato sui colli di Vicenza e dedicato alla Madonna: un pellegrinaggio in forma di «divertimento autorizzato delle donne»; «una specie di allungamento religioso del cristianesimo, ma, sappiamo, era la religione precristiana della grande dea», data la presenza della Madonna sotto il cui manto trovano rifugio tutti; un viaggio verso un luogo di devozione mantenuto in vita dal sentimento religioso dell’umanità femminile. Ma non c’è traccia di una rappresentazione idealizzata della madre, giacché Luisa Muraro puntualizza: «[…] l’importanza di mia madre nella mia vita e per me è anche problematica e oscura. Io non sono una donna che ha avuto un rapporto buono con sua madre, nel senso di un rapporto felice. Ho avuto un rapporto buono nel senso di un rapporto che c’era effettivamente».

Poche pagine più avanti le sue risposte acquisiscono una tonalità sempre più confidenziale: confessa che i suoi studi, in particolare nella giovinezza, sono stati orientati da qualcosa di instabile, nondimeno presente dentro di lei «in una maniera molto segreta»; invece, «per esserci concretamente in carne e ossa», dichiara di aver avuto bisogno di appoggiarsi a delle persone in una relazione, nella quale gioca «una parte non piccola di egocentrismo. Cioè, sono io che ho bisogno, e l’altro, l’altra, sono l’appoggio simbolico. Non è tanto una relazione di scambio. Certo che la relazione si stabilisce, e lo scambio si stabilisce, ma è uno scambio dispari». Così di volta in volta le è capitato di appoggiarsi «a chi ha l’aria di sapersi orientare» (Bontadini, Rosetta Infelise, Fachinelli, Lia Cigarini) e via via di sganciarsene, tranne nel caso dell’incontro con il femminismo della Cigarini, ovvero «una pratica di relazione, il partire da sé e l’efficacia che ha la modificazione di sé, della propria relazione con le cose». Grazie a questo incontro Luisa Muraro è infatti uscita dall’esserci «truccando i dadi», «facendo carte false», e ha avvertito finalmente con felicità un «esserci in prima persona in qualcosa che accade», un esserci davvero.

Il desiderio fisiologico di scrittura che caratterizza il suo itinerario esistenziale, o meglio la sua strategia esistenziale, finisce dunque con il trovare casa e dimora nella pratica politica delle donne assunta come forma simbolica che le avrebbe permesso di scrivere. È ciò che le accadde con La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe (Feltrinelli, 1976), il libro che segna un cambiamento di rotta nella rappresentazione storiografica delle donne: «Avevo un materiale, perché la caccia alle streghe mi interessava da tempo; avevo un materiale emotivo e anche contenutistico, culturale, gli ho dato la forma di una pratica politica che ha reso possibile la scrittura». È ciò che accadrà con le opere che più risolutamente aderiscono a questa strategia esistenziale, ne dà conferma la stessa autrice non senza cercare di snidare un altro suo aspetto radicato in profondità: «Certo, non è solo la scrittura, è l’avere a disposizione una domanda di scrittura – Luisa, scrivi! – che motiva e autorizza che io possa dedicarmi a questa attività che probabilmente fa dentro di me un ordine simbolico. Qualcosa che ha a che vedere con il dare forma, a me».

Dopo essere stata sviata dalla ricerca su Della Porta (Giambattista Della Porta mago e scienziato, Feltrinelli 1978) e dopo la virata sulla linguistica che le ha ispirato quel piccolo grande libro che s’intitola Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia (Feltrinelli 1981), Luisa Muraro racconta come è andata con Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista (La Tartaruga 1985), «una storia di grandezza femminile». Commuove leggere delle relazioni intrattenute con altri studiosi/e, va dritta al cuore la straordinaria    passione che ha accompagnato il suo lavoro alla Biblioteca Ambrosiana: «… ero come in perenne estasi, perché ero tutta presa da questa ricerca, proprio in una maniera che dice qualcosa di questo rapporto che ho, quando la materia della storia, o della mia vita, o della vita degli altri, si può trasformare in scrittura». Ammaliata dagli sprazzi narrativi e dai brevi inserti speculativi – un’alternanza-commistione che è la cifra della scrittura di Muraro – vengo così a conoscenza anche del prezioso lavorìo di tessitura che sta dietro la sua composizione di Non credere di avere dei diritti (Rosenberg & Sellier, 1987), una messa in parole di una pratica politica, «una narrazione libera di donne che vogliono raccontare la loro storia», quella vissuta fra il 1966 e il 1986 a Milano e non solo.

E questo vale altresì per l’impresa di Diotima, la comunità filosofica femminile nata tra il 1984 e il 1985 all’Università di Verona, e per il primo testo di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale (La Tartaruga, 1987) come per quelli successivi. E ovviamente in Esserci davvero non può mancare il riferimento all’apporto fondamentale dato da Luisa Muraro fin dal primo numero, del giugno 1991, a Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano che era stata inaugurata nel lontano 1975 e di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Una rivista di politica delle donne, vale a dire una politica che non mira alla spartizione del potere, perché quando è in gioco la libertà femminile il cambiamento «si sviluppa con la presa di coscienza e questa ha la stessa natura del fuoco, si accende, si alimenta e non diventa possesso» – come si legge sul sito https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/viadogana/.

A proposito del libro coevo alla pubblicazione del primo numero di Via Dogana, L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, 1991), che segna un taglio nella storia del pensiero, Luisa Muraro ne espone la genesi e riconosce che pur essendo autentico è per lei un libro oscuro: «l’ho scritto in condizioni che me lo rendono non uno specchio per me, e d’altra parte io sono una che non si specchia volentieri. Però le altre donne, non tutte, ma molte altre donne si sono specchiate nel libro e me lo hanno detto, diventando loro lo specchio per me. E allora ho capito. Più che nei miei prodotti io confido nelle lettrici. […] i lettori, le lettrici sono fondamentali per l’esistenza di un’opera – questo viene sempre più riconosciuto – ma possono essere fondamentali anche per la sopravvivenza degli autori».

L’ultima tappa di questa conversazione così variegata e piroettante che è Esserci davvero riguarda la decisione di Luisa Muraro di dedicarsi allo studio di Margherita Porete (si veda Lingua materna scienza divina. La filosofia mistica di Margherita Porete, D’Auria M. 1995) e la sua dedizione alla scrittura mistica di donne. Sono pagine nelle quali si percepisce l’intensità del fervore che connota la scoperta della «libertà delle donne [che] diventa proprio un’apertura d’infinito», la scoperta di una teologia in lingua materna – e il pensiero corre a Le amiche di Dio. Scritti di mistica femminile (D’Auria M. 2001) e soprattutto a Il Dio delle donne (Mondadori 2003).

La più bella intuizione che grazie a questo suo attraversamento delle mistiche mi/ci viene donata è che «tutto è storia ma la storia non è tutto. C’è qualcosa che eccede e questo qualcosa è vuoto, non è nominabile, non è dicibile, è un niente, è un niente che però io considero un passaggio all’essere». C’è altro, sostiene Muraro, ovvero c’è «il senso della incompiutezza di ogni impresa umana. Non è che vada sanata con la dimensione religiosa che per noi è perduta, ma la consapevolezza del c’è altro, il senso della incompiutezza e della fragilità, va salvaguardato, e senza cadere nel nichilismo e nella disperazione: come nella mistica, è nell’attesa che questo altro venga a noi».

Si tratta di disfare la maglia di questo mondo per fare posto ad altro: «Altro, che cosa?». Luisa Muraro ha cercato la risposta nei testi delle scrittrici beghine e delle poetesse preferite e ha trovato, «come risposta, che questo “altro” è l’impossibile: la teologia in lingua materna insegna in pratica (e, entro certi limiti, anche in teoria) a stare al mondo con la certezza che in esso ha luogo, o può trovarlo, anche l’impossibile» (Il Dio delle donne, 2003, p. 84). In tempi di apparente agonia dell’umano imposta dai potenti di turno il tesoro di Luisa Muraro si racchiude in definitiva nella potenza del c’è altro, che tradotto nella nostra quotidianità consiste per l’appunto nella salvaguardia della fragilità e dell’incompiutezza e prepara ogni singolo/a a un altro ordine di rapporti ora, qui, su questa Terra.   

Palermo, 20 giugno 2025

Siamo fiere di comunicarvi che Carol Gilligan è stata insignita del prestigioso Premio Kyoto 2025 per le Arti e la Filosofia.

Il Premio Kyoto, assegnato ogni anno dalla Fondazione Inamori, è il più importante riconoscimento del settore privato in Giappone. Viene conferito a tre personalità nei campi scientifico, tecnologico e culturale, il cui lavoro rappresenta un contributo fondamentale al progresso dell’umanità.

Gilligan è una delle più importanti e influenti pensatrici degli Stati Uniti. I suoi studi, frutto di una vita di ricerca, sono oggi più che mai indispensabili per portare alla luce e mettere in discussione le disuguaglianze di genere. L’assegnazione del premio Kyoto riconosce oggi il valore pionieristico del suo lavoro e ne celebra l’approccio rivoluzionario al crocevia tra psicologia, femminismo, filosofia e diritto.

Carol Gilligan si unisce a una lista di illustri vincitori, tra cui Jane Goodall, Akira Kurosawa, Pina Bausch e Renzo Piano.

Con voce di donna

A quarant’anni dall’uscita di Con voce di donna, il libro che diede il via a una rivoluzione, portando le voci delle donne alla ribalta e consentendo loro di essere ascoltate a pieno titolo, Gilligan ritorna sull’argomento di quel libro fondamentale riesaminandone le tesi centrali alla luce del presente e dei progressi della riflessione sul tema negli ultimi decenni. Oggi è possibile chiarire e articolare ciò che quarant’anni fa non si poteva vedere o dire: che la “voce diversa”, l’etica della cura, sebbene inizialmente percepita come una “voce femminile”, di donna, è in realtà una voce umana.

La voce da cui si differenzia è una voce patriarcale, legata al sistema binario e alle gerarchie di genere. Laddove il patriarcato è in vigore o viene imposto, la voce umana è una voce di resistenza e l’etica della cura è un’etica di liberazione.

«La voce dell’etica della cura è una voce umana e la designazione in termini di genere di una voce umana come “femminile” è un problema. Sentire la “voce differente” come voce umana significava liberarsi di una serie di ostacoli che impedivano di vedere che il sistema binario di genere – la costruzione delle capacità umane come “maschili” o “femminili” – non è solo una distorsione della realtà, ma anche una pietra miliare del patriarcato.» Un libro di psicologia alla portata di tutte/i che dice cose semplici ma importanti, che porge la mano e la voce a chiunque voglia ascoltare, donne e uomini.

La voce umana è la voce del ventunesimo secolo.

Carol Gilligan, Con voce umana, VandA edizioni 2024, € 20,00, è disponibile presso la Libreria delle donne di Milano.

(VandA.Edizioni, 27 novembre 2025)