da il manifesto
In un post su Facebook Claudio Vedovati cita gli articoli sul Sole 24 ore di domenica scritti da Gregory Alegi e Sergio Fabbrini. Senza mezzi termini il primo commenta la decisione della Corte Suprema degli Usa che limita il potere dei giudici contro le decisioni del presidente Trump: è stata «riscritta» la Costituzione americana ribaltandone un «pilastro della separazione dei poteri».
Per il secondo i bombardamenti americani in Iran sono, altrettanto chiaramente, una «violazione del diritto internazionale». E Trump «disconosce la legalità internazionale così come disconosce la legalità costituzionale». Inoltre Fabbrini critica i leader europei: «si genuflettono nei confronti di Trump come fossero i suoi vassalli. Assomigliano ai leader comunisti del Patto di Varsavia, quando si inginocchiavano al segretario generale del partito comunista sovietico».
Se tali allarmi «liberali» vengono dal quotidiano degli industriali – si chiede Claudio Vedovati – «che fine faremo?». «La linea, il punto di equilibrio oltre la quale una democrazia è destinata a soccombere è stato superato?». E «come possiamo cambiare»?
Ho trovato questo post poco fa, mentre mi apprestavo ad affrontare, qui, lo stesso tema avendo letto l’ultimo testo di Mario Tronti (Il proprio tempo appreso col pensiero. Scritto politico postumo. Il Saggiatore, 2024). E soprattutto le sue tesi sulle degenerazioni della democrazia, che dopo il ’45 ha agito generalizzando la pretesa di rappresentare, a mano armata, il «bene» contro ogni altro soggetto giudicato «asse del male».
La logica della guerra – e dell’alleanza tra movimento operaio e borghesie democratiche – che non poteva essere rifiutata contro Hitler e il nazifascismo, ha accompagnato poi la sconfitta della sinistra, il crollo del sistema sovietico, e il dominio capitalistico totale odierno. «La democrazia – disse Churchill – è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora».
Ma la degenerazione spaventosa che abbiamo di fronte non dovrebbe spingerci a pensare a qualcosa di meglio? E a capire, così come va fatto per l’esito fallimentare della costruzione del socialismo, dove si annidano gli errori che corrompono i sistemi democratici?
Claudio Vedovati, amico di lunghe ricerche, con altri, di vivere un cambiamento maschile, cita la «libertà femminile» prodotta dal femminismo – secondo Luisa Muraro il «senso libero di sé, guadagnato e riguadagnato con l’ascolto di sé e degli altri». «Questa libertà – non quella dei diritti liberali, individualistici, che vediamo oggi usata proprio contro la democrazia – è la sola che può dare ancora sostanza alla parola democrazia o meglio a qualcosa che dovremmo considerare come una nuova civiltà dei rapporti umani».
Tronti mutua dal «pensiero della differenza» italiano il recupero dell’idea di «autorità» distinta da quella di «potere». Ma, avendo negato che possa esserci una rivoluzione «di genere», cerca il recupero di autorità democratica in un complesso intreccio di allusioni alla creazione di «aristocrazie» illuminate dall’alto, e alla ripresa di consapevoli battaglie per la libertà dal basso. Il suo sguardo – arricchito da belle citazioni di Musil, Pannikar e San Paolo – resta, mi pare, troppo rivolto al “ponte di comando” di una politica intesa con sensibilità novecentesca, e maschile.
Gli accenni al cristianesimo e al femminismo non dovrebbero far riflettere sul fatto che le idee di S. Paolo hanno vinto sull’Impero romano senza combattere con le armi, e che la rivoluzione delle donne è stata finora certo non “pacifica” ma disarmata (e disarmante)? Non è questo l’“Occidente” a cui guardare?
da La Sicilia
In tante città d’Italia e di altri Paesi europei le donne scendono in strada per gridare «Fuori la guerra dalla storia». E lo fanno con l’iniziativa “10, 100, 1000 piazze per la pace” che giovedì pomeriggio si è tenuta sotto la statua di Bellini in una piazza Stesicoro [a Catania, Ndr] colorata di striscioni e bandiere, da quelle arcobaleno a quelle della Palestina. L’idea è nata circa due anni fa da tre realtà femministe, l’Udi di Palermo, il Presidio donne per la pace di Caltanissetta e le donne di Pinerolo, e poi si è diffusa ovunque inglobando anche la lotta contro il genocidio a Gaza e quella contro il riarmo. Una lotta segnata – come spiega Anna Di Salvo di La Città Felice e la Ragna-Tela – da un preciso aspetto sessuato, quello delle donne che lottano contro il patriarcato, che sta alla base delle sopraffazioni e delle guerre, e che hanno assunto su di sé il lavoro di cura, la responsabilità di altre vite e l’impegno per la giustizia.
Le persone e le associazioni che hanno aderito all’iniziativa si alternano al microfono con poesie, canzoni, musiche, interventi creando uno spazio fisico e simbolico di confronto, pensiero e azione, uno spazio politico autonomo e femminista che intreccia territori, saperi e pratiche di resistenza alla cultura della violenza, uno spazio di donne in relazione e costruzione collettiva vissuto come presupposto necessario per una trasformazione profonda volta a smilitarizzare le menti e la società e a ridare senso alla convivenza. Le donne di questa piazza invocano la pace usando le parole delle loro madri simboliche fissate in cartelli colorati: «La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri», Hannah Arendt; «La guerra non appartiene alla storia delle donne», Virginia Woolf; «La guerra è stata sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile», Carla Lonzi; «La società matrilineare non costruiva armi né fortezze. La loro era una cultura di pace», Marija Gimbutas.
I discorsi si intrecciano. Rosaria Leonardi della Cgil legge le parole di una ragazza di Gaza che racconta l’intimità e la quotidianità violata dalle bombe e dalla distruzione quando anche solo avere le mestruazioni diventa un dramma perché non ci sono assorbenti, non ci sono prodotti per l’igiene né acqua e neppure la riservatezza, costrette come sono a condividere un unico bagno con centinaia di persone. Chiara Petrelli di Rifondazione rileva come le prime vittime delle politiche militariste sono le donne, e non solo quando le guerre scoppiano, ma anche prima, quando i governi decidono, come ha appena fatto la Ue piegandosi alle pretese di Trump e della Nato, di destinare alle armi il 5% del Pil, scelta che si traduce in taglio dei servizi e del welfare state e in povertà. Renata Governali dell’Udi spiega come fare la guerra e uccidere è il suicidio di noi stessi, della nostra parte capace di comprensione. E Irene Litrico di “Pari amore” ricorda che pace vuol dire imparare ad abbracciare le differenze e che ci vuole più coraggio a stare fuori dalla guerra che a farla. La tunisina Samia, di Freedom Flotilla, annuncia che l’associazione in cui milita si sta raccordando con la March to Gaza e con la Carovana Sumud per forzare via mare via aria e via terra il blocco di Gaza in modo da portare aiuti umanitari ad una popolazione stremata e alla fame. Quello che si sta perpetrando a Gaza, gridano queste donne, è un “futuricidio”, cioè la distruzione di esseri umani e delle condizioni per vivere e immaginare un domani. Discorsi intrecciati dai canti di ragazze immigrate e da quelli del gruppo “Coro Scatenato” e delle professoresse di “Kloster – le sarte dell’antropop”.
«La pace – scandiscono queste donne – non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire insieme, qui e ora». E aggiungono. «Ad una politica fondata sul dominio, sullo sfruttamento e sull’indifferenza verso la vita umana e il pianeta opponiamo pensieri e pratiche di pace, consapevoli che la guerra non è un’eccezione, ma è un dispositivo strutturale di potere. È parte integrante di un sistema economico e politico che trae profitto dal disastro e dalla paura». Un sistema che queste donne vogliono scardinare e superare.

Foto di Clelia Pallotta

da Leggendaria
Per parlarvi dei 50 anni della Libreria delle donne di Milano comincerò a dirvi perché da oltre quaranta è per me il luogo in cui sento l’indicibile fortuna di essere donna, parafarasando il sottotitolo del libro Non è da tutti di Luisa Muraro, una delle fondatrici della Libreria.
Partirò dunque da me perché il partire da sé è una pratica sorgiva del femminismo che da sempre permette lo scambio trasformativo tra donne e con quegli uomini che sanno mettersi in gioco. La Libreria, aperta sulla strada dal 1975 in via Dogana e ora in via Pietro Calvi 29, permette a chiunque di entrare, farsi consigliare libri e comprarli, partecipare agli incontri che ogni settimana si tengono nella sala dell’annesso Circolo della rosa. Mi affascina questa composizione mobile, soprattutto di donne di età e formazione diverse, che si pone nell’orizzonte ampio della differenza sessuale, una differenza a cui dare senso giorno per giorno. Io ho potuto dire «io sono una donna» come prima mossa per lanciarmi nell’avventura della libertà femminile, una libertà ben diversa da quella individualistica proposta dalla rivoluzione francese. È una libertà che tiene conto delle relazioni in cui sono immersa e soprattutto trova misura e mediazione nella relazione con un’altra donna, che può non essere sempre la stessa: dipende dalla mia ammirazione verso di lei; una relazione senza fine, cioè non è strumentale e può durare tutta la vita.
Fare della differenza sessuale un significante a cui dare significato è tutt’altro che essenzialismo o limitarsi a ciò che il patriarcato tenta di imporre come caratterizzante il genere femminile o maschile, e neppure porsi il limite rivendicativo della parità. Dire che «la differenza delle donne c’è», darle grande importanza, coltivarla grazie alla pratica di relazione, all’attenzione alla letteratura, alla poesia, al teatro, alla filosofia, alla storia, al cinema, all’arte, alla scienza, e soprattutto alla riflessione che ciascuna fa sulla propria esperienza nel far esistere la Libreria e nell’essere intera nel lavoro, nella famiglia, nel tempo libero, mi ha permesso di scoprire la forza dei miei desideri. Una riflessione politica che eccede il dicibile, un pensare in presenza in cui è necessario esserci per viverlo che mi ha dato slancio per districarmi con forza e leggerezza nel mondo.
Per condividere le scoperte che negli anni siamo andate facendo e proponendo, ma soprattutto per fare l’esperienza di esserci, sono stati pensati diversi momenti specifici di festeggiamento dei 50 anni, in Libreria e in altri luoghi non solo di Milano, oltre agli incontri che continuano la ampia programmazione settimanale. Potrete conoscerli meglio anche consultando il sito, la cui redazione carnale si trova tutti i giovedì, o i canali social Instagram e Facebook.
Gli accenni che farò alle proposte possono permettervi di cogliere la ricchezza per tutte e tutti di quest’impresa femminile.
Comincerò segnalandovi che l’8 marzo è uscito Esserci davvero, una conversazione inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan, in cui la vita svelata si intreccia alla genesi delle sue principali opere, completata dalla vasta (ben 141 pagine) bibliografia dal 1963 al 2024. Un libro in cui la vivezza del linguaggio permette di sentirti parte dello scambio tra le due interlocutrici e di sorprenderti nello scoprire o approfondire nuovi aspetti delle pratiche e del pensiero di una filosofa che ha rivoluzionato diverse discipline. Proprio sulla originalità del pensiero di Muraro si terrà dopo l’estate un convegno con ospiti anche internazionali e successivamente ce ne sarà un altro sul pensiero di Lia Cigarini.
Ci incontreremo in quattro momenti con le editrici femministe che hanno significative relazioni con la Libreria come l’Enciclopedia delle donne, Vanda, Moretti & Vitali, Le plurali.
Proprio per dare spazio al confronto con giovani donne dialogheremo con due partecipanti dell’Accademia delle piccole Filosofe, tenuta da Luisa Muraro fino al 2020, su come farei i conti con emozioni e sentimenti che influenzano le nostre scelte di vita.
Grande rilievo avrà Via Dogana la rivista nata nel 1991 che, dopo 111 numeri cartacei, dal 2015 è diventata on line ad accesso libero.
La redazione, composta da una dozzina di donne, propone temi, cerca un paio di interlocutrici o interlocutori che inizino il dibattito in una redazione aperta che si svolge una domenica mattina e a cui si può, prenotandosi, partecipare in presenza e, dopo il Covid, anche on line non solo dall’Italia. In base agli interventi vengono richiesti gli articoli che, una volta vagliati, comporranno il nuovo numero. Per comprendere la validità di questo metodo, in cui ciascuna e ciascuno parla in prima persona e non a nome di altre o altri, si può leggere Femminismo mon amour in cui sono stati pubblicati i più significativi articoli che mettono a fuoco le pratiche femministe che abbiamo inventato e modificato nel tempo (vedi Leggendaria n.167). La novità di quest’anno è che sono già a disposizione le date e i titoli delle redazioni aperte. Si va dal 2 marzo per Le madri di tutte noi,dedicato alle genealogie femminili come riconoscimento e valorizzazione dei legami simbolici e reali tra donne, all’8 giugno per Fare impresa femminile, al 5 ottobre per Intelligenza naturale e intelligenza artificiale e infine al 14 dicembre per Il tempo è vita.
Inoltre sono proposti tre numeri speciali cartacei, a cui abbonarsi e per i quali lavora una specifica redazione che propone tre incontri di discussione. Il 22 febbraio in È ora di andare via si è aperto un confronto per rigenerare sguardo, pensiero, desiderio e aiutarci ad affrontare i tanti campi di battaglia, vicini e lontani, che corrono il rischio di bloccare la forza politica trasformativa della libertà delle donne. Seguiranno il 21 giugno Rifacciamo il femminismo e il 29 novembre Le rivoluzionarie delle arti.
Sull’arte vi saranno a maggio altri due momenti: Arte e scienza in dialogo, frutto del ciclo di incontri mensili tra scienziate/i di diverse discipline e artiste/i, svoltisi dal 2023 in Libreria, e una tavola rotonda tra curatrici e artiste su Creare non è comunicare, ma resistere.
Per il cinema, grazie alla collaborazione con l’Associazione Lucrezia Marinelli che ci ha raccontato la rivoluzione del linguaggio cinematografico portata avanti dalle registe, vedremo il film di Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme.
L’apertura alla città verrà segnata il 9 aprile in Camera del Lavoro da una riflessione per connettere le sfide del lavoro di oggi con la ricchezza del pensiero delle donne, una riflessione che ha impegnato dal 1994 il Gruppo Lavoro e ha prodotto, ad esempio, il Sottosopra Immagina che il lavoro, l’Agorà del lavoro, un’assemblea cittadina tenutasi dal 2011 al 2015, l’inserto Pausa lavoro di Via Dogana, i cui testi, raccolti nellibro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, mostrano il processo di elaborazione del punto di vista politico delle donne libere di oggi.
Anche le tre letture sceniche su tre maestre di vita e di pensiero: Margherita Porete, Simone Weil e Lina Merlin, si replicheranno, oltre che in Libreria anche al Teatro Studio Novecento e in alcune scuole.
Il 17 e il 18 maggio si terrà l’annuale convegno delle Città vicine, una rete e una proposta politica di vicinanza tra città, soprattutto italiane, attraverso le relazioni tra donne e uomini che amano la città e desiderano viverci bene. A settembre, su invito di fem! Feministische Fakultät, vi sarà a Zurigo una presentazione pubblica della Libreria e un workshop con femministe svizzere.
La riflessione sul cambiamento prodotto nelle scuole dalle pratiche della Pedagogia della differenza e dell’Autoriforma gentile e sulla loro attualità sarà tema di un incontro con insegnanti mentre con La storia sottosopra: la novità della storia vivente verrà presentata la genesi e lo sviluppo dell’invenzione simbolica di fare di sé il documento storico per svelare e liberarsi dalle costruzioni patriarcali.
Voglio terminare con la festa di compleanno, che si terrà il 18 ottobre, con reading e concerto della band Le Ardesia.
Bibliografia
– Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011. 126 pagine, 13,00 euro
– Luisa Muraro, Esserci davvero. Conversazione di Luisa Muraro con Clara Jourdan, Quaderni di Via Dogana – Libreria delle donne di Milano, 2025. 248 pagine, 15,00 euro
– Gruppo lavoro della Libreria delle donne, Giordana Masotto (a cura di), Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, Moretti & Vitali, Bergamo 2022. 360 pagine, 22,00 euro
– Redazione di Via Dogana 3 (a cura di), Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, Quaderni di Via Dogana – Libreria delle donne di Milano, 2024. 173 pagine, 12,00 euro
– Libreria delle donne di Milano, Immagina che il lavoro, “Sottosopra”, marzo 2009, Libreria delle donne di Milano: https://www.libreriadelledonne.it/
– Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme, 2019, 131’
(Leggendaria. Libri Letture Linguaggi n. 171 maggio 2025, pp.51-52)
Dal Corriere della Sera
«Dalle conversazioni con ufficiali e soldati è emerso che i comandanti hanno ordinato alle truppe di sparare contro le folle per allontanarle o disperderle, anche se era chiaro che non rappresentavano una minaccia». È la sconvolgente rivelazione di Haaretz, che ha pubblicato le testimonianze di una serie di militari israeliani in un reportage dal titolo urticante, “It’s a Killing Field”: IDF Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid, “È un killing field [campo di uccisioni]: i soldati israeliani hanno ricevuto l’ordine di sparare deliberatamente contro i gazawi disarmati in attesa di aiuti umanitari”. A queste rivelazioni si aggiungono quelle sui contractor americani, pagati per demolire le case dei palestinesi.
Le stragi quotidiane che avvengono da settimane nei luoghi di distribuzione degli aiuti sono note, ma le testimonianze raccolte dal giornale israeliano – testimonianze di importanza eccezionale, perché la presenza dei giornalisti a Gaza non è ammessa e perché si tratta di fonti militari – rivelano le dimensioni inimmaginabili di quella che un soldato definisce «la totale rottura dei codici etici delle Forze di Difesa Israeliane (l’acronimo IDF sta per Israel Defense Forces) a Gaza». La situazione è talmente degenerata che, scrive Haaretz, l’Avvocato generale militare ha incaricato la “Commissione di valutazione dei fatti dello Stato Maggiore dell’IDF” – l’organismo che esamina le potenziali violazioni – di indagare sui sospetti crimini di guerra.
Tutto è precipitato da fine maggio, quando la distribuzione degli aiuti alla popolazione è stata definitivamente sottratta alle agenzie umanitarie internazionali e affidata alla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation (GHF), un ente le cui origini e i cui finanziamenti restano opachi: «Si sa che è stata creata da Israele in coordinamento con evangelici statunitensi e appaltatori di sicurezza privati», scrive Haaretz. Questa svolta si è incrociata con quella militare e umanitaria, che negli ultimi tre mesi ha visto l’esercito israeliano emettere ogni giorno ordini di evacuazione che costringono la popolazione a spostarsi: 680mila negli ultimi tre mesi, 242mila solo nell’ultimo mese. In questa fase, l’82% per cento del territorio è off limits per i suoi abitanti, che sono ammassati nel restante 18%. Vuol dire che oltre due milioni di persone sono costrette a vivere in 65 chilometri quadrati, in condizioni che favoriscono la continua diffusione di malattie. E sono ridotte alla fame.
In questo quadro, la GHF gestisce quattro centri di distribuzione di cibo – tre nel sud della Striscia e uno nel centro – il cui personale è composto da operatori americani e palestinesi ed è protetto dall’IDF a qualche centinaio di metri di distanza. Più vicini ai centri si muovono invece i membri di Abu Shabab, la milizia legata all’Isis che gli israeliani hanno cooptato per scalzare Hamas.
Ogni giorno, migliaia o decine di migliaia di gazawi arrivano in questi centri per ricevere cibo: nonostante israeliani e americani, nel cacciare le agenzie Onu, avessero garantito che la distribuzione sarebbe stata ordinata, avviene tutto nel caos, con la folla che si accalca a ridosso dei siti, aperti in genere per un’ora al mattino ma a volte, e senza preavviso, al pomeriggio, cosa che contribuisce al disordine. Secondo le testimonianze dei militari israeliani, «l’IDF spara alle persone che arrivano prima dell’orario di apertura per impedire loro di avvicinarsi, o di nuovo dopo la chiusura dei centri, per disperderle».
È per descrivere questa situazione che un soldato ha usato l’espressione “killing field”, che ha motivato così:
«Vengono trattati come una forza ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni, solo fuoco vivo con tutto ciò che si può immaginare, mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai. Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da qualche centinaio di metri di distanza, e a volte li carichiamo da vicino. Ma non c’è alcun pericolo per le forze armate. Non sono a conoscenza di un solo caso di risposta al fuoco. Non ci sono nemici, non ci sono armi».
Le altre testimonianze raccolte da Haaretz confermano o aggravano questo quadro:
«Gaza non interessa più a nessuno. È diventato un luogo con un proprio insieme di regole. La perdita di vite umane non significa nulla. Non è nemmeno uno “sfortunato incidente”, come si diceva una volta» (un riservista che questa settimana ha completato un turno di servizio nella Striscia settentrionale).
«Lavorare con una popolazione civile quando il tuo unico mezzo di interazione è aprire il fuoco è altamente problematico, per non dire altro. Non è eticamente accettabile che le persone debbano raggiungere, o non riescano a raggiungere, una zona umanitaria sotto il fuoco di carri armati, cecchini e colpi di mortai. Una brigata da combattimento non ha gli strumenti per gestire una popolazione civile in una zona di guerra. Sparare con i mortai per tenere lontana la gente affamata non è né professionale né umano. So che tra loro ci sono agenti di Hamas, ma ci sono anche persone che vogliono semplicemente ricevere aiuti. Come Paese, abbiamo la responsabilità di garantire che ciò avvenga in modo sicuro» (un ufficiale che presta servizio di sicurezza in un centro di distribuzione).
Qui si aggiunge un dettaglio tragicamente rivelatore sull’attività degli appaltatori assunti a Gaza per aiutare le forze di occupazione, fornito da un veterano israeliano:
«Oggi, ogni contractor privato che lavora a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel (circa 1.500 dollari) per ogni casa che demolisce. Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro, e le forze armate devono assicurare il loro lavoro. Gli appaltatori demoliscono dove vogliono lungo tutto il fronte».
In questo scenario da far west, i contractor «si muovono come sceriffi». La campagna di demolizione li porta spesso vicino ai punti di distribuzione o lungo i percorsi utilizzati dai camion degli aiuti. Le sparatorie scoppiano in molti casi per proteggere queste attività e queste persone. «Queste sono aree in cui i palestinesi possono stare, siamo noi che avvicinandoci scegliamo di metterci in pericolo. Quindi, per un appaltatore che vuole abbattere una casa per guadagnare altri 5.000 shekel, si ritiene accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».
Le testimonianze convergono nell’indicare come maggiore responsabile di questa situazione un alto ufficiale, il generale di brigata Yehuda Vach, comandante della Divisione 252 dell’IDF. Haaretz ricorda di avere già riportato «come Vach abbia trasformato il corridoio di Netzarim in un percorso mortale, abbia messo in pericolo i soldati sul campo e sia stato sospettato di aver ordinato la distruzione di un ospedale a Gaza senza autorizzazione». Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere gli assembramenti di palestinesi in attesa di aiuti aprendo il fuoco: «Questa è la politica di Vach, ma molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande».
Un soldato carrista della riserva, che prestato servizio di recente nella Divisione 252, conferma come funziona questa “procedura di dissuasione” per disperdere i civili:
«Gli adolescenti che aspettano i camion si nascondono dietro i cumuli di terra e si avventano sui mezzi quando passano o si fermano nei punti di distribuzione. Di solito li vediamo da centinaia di metri di distanza; non è una situazione in cui rappresentano una minaccia per noi. In un caso, sono stato istruito a sparare una granata verso una folla radunata vicino alla costa. Tecnicamente, dovrebbe essere un fuoco di avvertimento, per far indietreggiare le persone o impedire loro di avanzare. Ma ultimamente sparare granate è diventata una pratica standard. Ogni volta che spariamo, ci sono vittime e morti, e quando qualcuno chiede perché è necessaria una granata, non c’è mai una buona risposta. A volte, il solo fatto di porre la domanda infastidisce i comandanti».
Nel suo caso, aggiunge il soldato, un gruppo ha cominciato a fuggire dopo il lancio della granata ma è stato raggiunto da altro fuoco: «Se doveva essere un colpo di avvertimento, e li vediamo correre indietro verso Gaza, perché sparare su di loro? A volte ci dicono che si stanno ancora nascondendo e che dobbiamo sparare nella loro direzione perché non se ne sono andati. Ma è ovvio che non possono andarsene, se nel momento in cui si alzano e corrono apriamo il fuoco».
Il soldato dice che questa è diventata una routine: «Sai che non è giusto. Senti che non è giusto, che i comandanti qui stanno manipolando le regole. Ma Gaza è un universo parallelo. Si va avanti velocemente. La verità è che la maggior parte non si ferma nemmeno a pensarci».
All’inizio di questa settimana, aggiunge il giornale, i soldati della Divisione 252 hanno aperto il fuoco su un incrocio dove i civili stavano aspettando i camion degli aiuti: «Un comandante sul posto ha dato l’ordine di sparare direttamente al centro dell’incrocio, causando la morte di otto civili, tra cui alcuni adolescenti. L’incidente è stato portato all’attenzione del capo del Comando Sud, il maggior generale Yaniv Asor, ma finora, a parte una revisione preliminare, non ha preso provvedimenti e non ha chiesto spiegazioni a Vach sull’alto numero di morti nel suo settore».
Un altro ufficiale della riserva che comandava le forze nell’area conferma così l’andazzo:
«Ero presente a un evento simile. Da quello che abbiamo sentito, sono state uccise più di dieci persone. Quando abbiamo chiesto perché avessero aperto il fuoco, ci è stato risposto che era un ordine dall’alto e che i civili avevano rappresentato una minaccia per le truppe. Posso dire con certezza che non erano vicini alle truppe e non le mettevano in pericolo. È stato inutile: sono stati uccisi e basta, per niente. Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. Ci è stato costantemente detto che a Gaza non ci sono non combattenti, e a quanto pare questo messaggio è stato recepito dalle truppe».
Un alto ufficiale denuncia la crescente anarchia degli alti comandanti sul campo rispetto ai vertici dello Stato Maggiore. E le sue parole tirano le somme di questa catena di incidenti, che non è casuale, che non è voluta dai civili stremati dalla fame, dalle continue deportazioni e dal sovraffollamento negli accampamenti:
«Il mio timore più grande è che gli spari e i danni ai civili a Gaza non siano il risultato di una necessità operativa o di una scarsa capacità di giudizio, ma piuttosto il prodotto di un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo».
Un’altra fonte militare racconta una recente riunione del Comando Sud, in cui è emerso che le truppe hanno iniziato a disperdere la folla usando proiettili di artiglieria:
«Parlano dell’uso dell’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a chiedersi perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno».
Ancora una testimonianza, ancora un alto ufficiale:
«Il fatto che il fuoco vivo sia diretto contro la popolazione civile – sia con l’artiglieria, i carri armati, i cecchini o i droni – va contro tutto ciò che l’esercito dovrebbe rappresentare. Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché hanno oltrepassato la linea, o perché a qualche comandante non piace? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a rischiare la vita solo per togliere un sacco di riso da un camion? Ed è a lui che spariamo con l’artiglieria?».
Haaretz racconta che i tentativi del Comando Sud dell’IDF di occultare o minimizzare le stragi
quotidiane stanno incontrando l’opposizione dell’Ufficio dell’Avvocato Generale Militare, un cui funzionario sottolinea che «l’affermazione che si tratta di casi isolati non è in linea con gli incidenti in cui le granate sono state lanciate dall’aria e i mortai e l’artiglieria sono stati usati contro i civili. Non si tratta di poche persone uccise, stiamo parlando di decine di vittime ogni giorno».
A Gaza non ci sono controlli, non ci sono osservatori internazionali, non ci sono giornalisti. Ci sono i soldati, e il loro racconti. Fuori da Gaza c’è il mondo, ci siamo noi. A parti invertite, e per fortuna, non lo consentiremmo. Così, non ci interessa e lo consentiamo.
Gli israeliani possono essere fermati solo dalle loro coscienze.
(Corriere della Sera, 27 giugno 2025, pubblicato col titolo “Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. I racconti choc dei soldati israeliani a Gaza”)
Il 5 giugno al Mudec di Milano ho partecipato alla presentazione del libro di Dijana Pavlović Irriducibili. Alterità dell’anima zingara: attrice, attivista, scrittrice e politica, Dijana è nata nel 1976 in Serbia, si è trasferita nel 1999 a Milano ed è fondatrice del Movimento Kethane, che da anni si batte per l’autodeterminazione delle comunità rom e sinti.
Il libro pubblicato quest’anno riunisce i pensieri dell’autrice, che dopo vent’anni di attivismo e politica, sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e analizzare dall’inizio tutto il percorso fatto: interviste, testimonianze, ricostruzioni passate e presenti la supportano nella sua riflessione, nella sua riconsiderazione dei motivi e delle contraddizioni portate con orgoglio, seppur dolorose e pesanti, che l’hanno portata fin qui, fino ad oggi.
Ricorda Milano all’inizio degli anni 2000 quando osservava e vigilava sugli sgomberi e i roghi dei campi rom, quando le persone la chiamavano di notte per chiederle aiuto affinché cercasse un accordo con le forze dell’ordine. Si sofferma oggi sul perché sia ancora necessario muoversi, resistere, non perdersi: il nostro paese non vede, non considera, rigetta, esclude e isola la comunità rom; imperano ovunque solidissimi pregiudizi, odio perenne, discriminazioni storiche e vera e propria violenza.
Il testo non vuole essere un’analisi o una decostruzione di tutti i cliché legati alle popolazioni rom, vuole semplicemente osservare come la società, da sempre, abbia voluto non capire queste persone: costringerle a vivere in modi per loro innaturali, ostacolarle nel loro nomadismo attraverso leggi nazionali e sovranazionali di modo da limitarle e renderle stanziali, annullare la loro riproduzione attraverso sterilizzazioni forzate, imporre la loro integrazione, inclusione, assimilazione, ignorando e deridendo la loro cultura linguistica, musicale, sportiva, teatrale.
Il tentativo della Pavlović è quello di costruire una conoscenza: si chiede come sia possibile che, nonostante una vastissima bibliografia rom, scritta soprattutto da gagè (parola con la quale i rom definiscono i non-rom), il nostro modo di vederli, di relazionarci a loro non sia ancora cambiato. Perché rom e sinti svolgono eternamente la funzione sociale di capri espiatori? C’è qualcosa dentro di noi che provoca questa reazione? si domanda Dijana.
Il sottotitolo risolve la questione: è doveroso vedere l’alterità dell’anima zingara. Si tratta di un modo di intendere il mondo e le sue relazioni da sempre deriso, massacrato e cancellato. Il potere nelle comunità rom e sinti non esiste, si vive su un livello piano, non in una piramide; la parola futuro non è pervenuta, si costruisce se stessi e la propria vita guardando indietro, al passato, conservandone la memoria; si impara a sopravvivere, a non sporcarsi, a restare spiritualmente nomadi nonostante tutto.
Conclude Dijana Pavlović: «Racconto e scrivo da vittima perché io sono una vittima» di immortali stereotipi, di mille anni di persecuzioni e di un genocidio solo apparentemente concluso.
È stato molto emozionante e devastante per me aver fatto la sua conoscenza e aver assistito alla presentazione di un libro così particolare, specifico, che a causa della sua tematica tende a selezionare, escludere, tenere lontani tutti coloro che non vogliono avere a che fare con gli “zingari”, neppure attraverso il mero e passivo ascolto. Essendo quindi il pubblico solidale alla causa, nel momento dell’evento aperto al pubblico, ho sentito la necessità di raccontare brevemente la mia storia: sono di origini rom da parte di madre, mia nonna era rom. “Necessità” non è la parola corretta: credo fosse più impellente la curiosità di sentirmi mentre mi dichiaravo rom, mentre spiegavo che, seppur non avessi mai vissuto in un campo, conoscevo quella realtà, che nonostante i miei occhi verdi e i capelli biondi sono rom; che mi diverto, mi arrabbio e provo disgusto quando le persone utilizzano quotidianamente espressioni del tipo: vestirsi da zingaro, sembrare uno zingaro, rubare come uno zingaro. Raccontavo di come ogni giorno nella metropolitana di Milano durante un tragitto di dieci minuti, almeno sette volte, siamo costretti ad ascoltare la voce automatica che raccomanda di stare attenti alle borseggiatrici e ai borseggiatori, che nel senso comune sono tendenzialmente “zingari”. In tutte queste occasioni mi ritrovo a dover reprimere il mio istinto, che vorrebbe invece urlare e gridare che anch’io sono rom, sono la persona dalla quale la voce del servizio dei trasporti urbani vi mette in guardia e che vi avverte di tenere lontano; anch’io sono la persona che secondo alcuni ruba i bambini, non segue le regole, non paga i biglietti, chiede l’elemosina per strada, è sporca, lurida, con gonne lunghe e capelli neri. Vorrei chiedere a chi comanda come mai non ci mettono in guardia dai molestatori o dagli stupratori, che ogni giorno costringono le donne, le ragazze e le bambine a adottare accortezze di ogni genere per evitare o tentare di gestire al meglio uno sguardo, un gesto o un atteggiamento sgradito, non reciproco, se non addirittura violento.
Non mi rendo sempre conto di essere rom, non ne sono sempre consapevole a livello conscio, ma ci sono aspetti dell’essere rom, dell’avere un’identità che contempla necessariamente anche questa origine, che sono sicura mi abbiano condizionata in modi che ancora non comprendo lucidamente: come gestisco le relazioni con gli altri, come interagisco con le persone, la mia attenzione nel cercare di non offendere, deridere o soltanto incupire chi mi sta intorno, un costante senso di essere nel posto sbagliato, credo derivi anche da quello che sono, dalla mia parte rom, dalla storia della comunità rom.
Ho una sorella gemella, siamo molto diverse: lei è più scura, ha capelli castani e occhi marroni. Molto spesso, anche scherzando, riflettiamo sul fatto che, se fossimo nate qualche decennio fa, ci saremmo ritrovate insieme in un campo di concentramento con nostra madre, in attesa di un medico nazista che facesse esperimenti su di noi. È un pensiero oscuro e sinistro, che però ci ricorda quello che ci avrebbe inevitabilmente atteso, il luogo che qualcuno in famiglia non ha mai lasciato, quello che alcuni oggi sperano riaccada e ci ricorda quindi tutto il male al quale eravamo destinate e che
rifiutiamo assolutamente di agire. Essere stati storicamente vittime di genocidio e di millenari pregiudizi, che ancora oggi insistono nel perpetuare un’idea della comunità rom distorta, immutabile e falsa, credo abbia, da un punto di vista generazionale, informato e educato la mia famiglia.
Devo ancora capire come imparare ad accettare pienamente questa eredità familiare, che apprezzo, ma che con intenzionalità tralascio, escludo e non dichiaro nella mia vita quotidiana. Per adesso mi limito in ogni occasione e su ogni mezzo di trasporto pubblico a sedermi vicino a persone rom o sinti: è mio il gesto di vicinanza e ribellione.
da Pangea
Sui rapporti tra la poesia occidentale e quella persiana bastano – in irragionevole sintesi – tre momenti miliari. Il primo è la composizione del Divan di Goethe, rifacimento-reinvenzione del canzoniere di Hafez, il leggendario poeta sufi. Oltre alle poesie – tra le più alte scritte da Goethe – merita il commento Per una migliore comprensione, che è poi la folle ricerca della poesia “ingenua”, di una poesia, cioè, che danzando ascende. Quanto all’importanza della traduzione delle Rubaiyat of Omar Khayyam ad opera di Edward FitzGerald – modesto poeta in proprio – ha scritto un mirabile testo Jorge Luis Borges, raccolto in Altre inquisizioni. Come si sa – a proposito di persiane voluttà letterarie – Borges riteneva Le mille e una notte alla stregua di un testo sacro: nella mitica “Biblioteca di Babele” edita da Franco Maria Ricci ne propose alcuni estratti, tratti dalla versione dell’orientalista francese Antoine Galland e da quella dell’esploratore britannico Richard Francis Burton (noto traduttore del Kamasutra, tra l’altro). Benché la Russia, per prossimità asiatica, sia un mondo a parte, vanno menzionate come emblema le “imitazioni” dal Corano di Aleksandr Puškin. Da lì in poi, dal pieno Ottocento, l’Oriente dei sogni, la Persia immaginata, l’Egitto metafisico, un esotismo da metropoli diventerà moda: da Delacroix a Jean-Léon Gérôme, da Lawrence Alma-Tadema ad Alberto Pasini, è tutto un infuriare di odalische e di Sfingi, di tigri, cammelli e muezzin, di Arabie felici e di arabeschi. Su tutto, la nudità ostentata, la danza dei sette veli, il settimo cielo della poligamia – quel connubio salace tra eleganza e sangue. Shahrazād come il solo Eden plausibile.
Ma queste sono cose che, tutto sommato, si sanno. Si conosce meno, invece, l’influenza che nel vasto impero persiano, sotto egida islamica – che significa, oltre all’attuale Iran, l’Iraq e l’Azerbaigian, l’Afghanistan e l’Uzbekistan e larghe fette di Turchia –, hanno avuto le donne. In un libro pubblicato da Penguin nel 2021, The Mirror of my Heart, Dick Davies – già traduttore di Hafez, Firdusi e Attar – ha raccolto “Mille anni di poesia persiana femminile”. La pioniera di queste poetesse, Rabe’eh, è vissuta nell’attuale Afghanistan un millennio fa; l’ultima antologizzata, Fatemeh Ekhtesari, è nata a Kashmar, in Iran, nel 1986. Di quel ciclo – a suo modo entusiasmante – ci siamo soffermati sui primi secoli di poesia persiana femminile, traducendo, a mo’ di mero esempio, alcuni frammenti lirici.
Diversamente dagli uomini, le poetesse persiane osano temi lascivi, mettono in piena luce il corpo, le voglie della carne. Il cliché della mistica islamica – il rapporto d’amore con l’Amato, che ha sublimi riscontri, nella nostra tradizione, nel Cantico dei cantici – svela i propri umori, i sentori del corpo sfatto, che muore dell’amore, senza velature d’assoluto. Il sensuale domina sul sentimentale; il dettaglio – anche lubrico – emerge sul pendaglio teologico. Il vino è davvero vino, la coppa è la coppa, le labbra sono labbra, senza roseti né roveti ardenti a foraggiare di simboli la tracotante nudità. Chi scrive, genericamente, è donna d’alti natali, la cui “fortuna” l’ha portata a essere dama o scriba presso le corti dei timuridi, dei mongoli o dei moghul. Spesso questa donna è andata in sposa a un alto funzionario: di matrimoni infelici sono costellati questi canzonieri che però – per la sottile arte del pudore, esteticamente eccelsa – non sfociano mai nella “confessione”; vi si accede attratti da uno spiraglio, da un sibilo, da una mera malignità confitta tra le fessure. Tuttavia, questa donna godeva della libertà di poter scrivere e studiare, sapeva primeggiare, per statura lirica, sui poeti dell’altro sesso – contemplava, tradiva, fuggiva da una vita vana, dalle censure della consuetudine.
Le vite di queste donne divennero, con rapidità di falco, leggenda; dal presunto libertinaggio di alcune di loro cagliarono poemi. Per certi lati, la storia, miracolosa, di queste donne è paragonabile a quella delle cortigiane giapponesi di epoca Heian: Murasaki Shikibu, Sei Shonagon e le altre, che da un mondo di paraventi hanno tratto un’intera letteratura. A differenza di queste, le poetesse persiane non subiscono la reclusione – semmai, un esilio del comprendere, le perpetue trappole del frainteso – e il loro lignaggio si attua nei secoli, costituisce un’audace discendenza. Alla vacuità delle giapponesi – a quell’irredento senso di nostalgia che pervade i loro scritti, alla taciuta ferocia – le persiane sostituiscono la pienezza d’amore, il rimorso, semmai, l’imperio dell’ira. Non è un caso che alcune donne che hanno sconvolto i salotti francesi degli ultimi secoli provengano dal Caucaso: Mademoiselle Aïssé e Banine. In queste donne, allo stesso modo, il gusto per il pettegolezzo si fonde all’arte della caccia: restano donne di deserti, di pronunciate pianure, di palazzi sulla soglia del miraggio, della calura che stenua in sfinge ogni ombra, fiere del loro essere fiera. Non attendono l’Amato con l’ansia patologica del mistico: pretendono una notte d’amore, pretendono tutto – e poi, prima di dimenticarlo, lo sorprendono spiccandogli una ciocca di capelli. Sanno che ogni notte ha il suo dio che muore – un nuovo dio, in bocciolo, sorgerà, all’alba.
***
Rabe’eh (X secolo)
Discendente di Arabi, il padre ebbe importanti uffici a Balkh, nell’attuale Afghanistan. Pioniera della poesia persiana, fu «donna superiore agli uomini in talento, di acuminata tempra, intraprendente nel gioco dell’amore», come narra una cronaca dello storico Muhammad Aufi (XIII secolo). Di lei si fece presto leggenda; la più nota – che diede avvio a poemi e romanzi – narra del suo amore per uno schiavo, Bektash. La relazione fu scoperta dal fratello di Rabe’eh, che le tagliò i polsi lasciandola, agonizzante, su una chiatta. Lo schiavo si vendicò, uccidendo il fratello di Rabe’eh per poi uccidersi a sua volta. Piuttosto, i versi d’amore di questa donna singolare sono stati letti come l’impresa di una via mistica.
Ho bevuto con il mio amore stanotte per sapere
se fosse davvero lui il mio amore. Libera dal dolore
e dal terrore, mi sono seduta al suo fianco e gli ho chiesto:
«Mio dio, almeno stanotte annienta le chiavi del mattino».
*
Il suo amore mi ha catturato ancora –
ho lottato ferocemente, invano.
(A dire il vero, mi ha insegnato
che non si può nuotare nell’infinito
oceano dell’amore. Per avere amore
devi accettare ciò che per istinto rifiuti.
L’obbrobrio sia per te magnificenza
inghiotti il veleno come fosse miele).
Ho scosso la testa per liberarmi
ma il cappio, infallibile, si stringe
sempre di più.
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Mahsati (1089 ca. -1159)
Visse nell’attuale Azerbaigian, scriba di corte al servizio del sultano selgiuchide Ahmed Sanjar. Nelle sue quartine non sono alieni i temi lascivi, le intemperanze di una impenitente libertina. Le furono ascritte innumeri e tormentate storie d’amore; il suo nome d’arte, Mahsati, significa “Signora della luna”.
C’è un mondo per chi ama le pietre preziose:
i poeti scelgono un mondo diverso per impreziosire i loro scranni.
L’uccello che inghiotte il magico grano dell’amore vive su un altro piano:
il suo nido è al di là dei mondi, ignora la ricchezza, disprezza la fama.
*
Vieni, ho preparato un’alcova dove potremo giacere:
sopra tappeti preziosi si spalanca il nostro rifugio perfetto.
Ho preparato la carne e il vino, te li voglio servire:
il vino sono i miei occhi – mangerai il mio cuore straziato.
*
L’amore addomestica il leone, lo costringe
alle sue tane – è un oceano di meraviglie rare.
A volte, le sue deliziose vie allietano la nostra anima
altre volte il vento sparge un cupo sentore di sangue.
*
Non sei molto intelligente, uomini come te non sono
usi ai consueti codici dell’amore – mio volubile
amico, sono felice che tu abbia passato la notte
con me: spero di non dimenticarti domattina presto…
**
Motrebeh (XII secolo)
Nulla si sa di questa donna se non che visse presso la corte di Nishapur. Il suo nome ne identifica la professione, significa: “donna sapiente nelle arti musicali”.
Gli ho detto: «Il mio cuore desidera un bacio».
Disse: «Un bacio ti costerà l’anima».
Il mio cuore mi ha stretto all’angolo
sussurrando: «L’offerta è ottima, accetta!».
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Fatemeh Khorsani (morta nel 1246)
La frivolezza che promana dalle poesie di Fatemeh è in contrasto con la sua biografia, tragica. Catturata durante una razzia dei Mongoli in Corasmia, diventò intima della potente regina Töregene Khatun. Alla sua morte, fu accusata dalla corte mongola di tradimento e di stregoneria e uccisa dopo lenta tortura.
Le malizie che ho in serbo per te non possono
aspettare, priva di te ogni piacere mi è negato…
Tu sei fonte di vita eterna, ma, proprio
come il sacro fiume, resti invisibile ai miei occhi.
**
Jahan Malek Khatun (XIV secolo)
È l’autrice di uno dei più poderosi divān redatti da mano femminile: le oltre 1.500 poesie del suo canzoniere costituiscono, in fondo, la lirica, sgargiante autobiografia di Jahan Malek Khatun, una testimonianza unica nel Medioevo persiano. Figlia di Masud Shah, reggente di Shiraz, ebbe educazione di principessa. Alla morte del padre, subì le scosse della successione: per alcuni anni fu esiliata, salvo rientrare a Shiraz, dove morì. La sua vita fu lacerata dalla morte della figlia, neonata, a cui dedicò un commosso ciclo di versi.
Mi chiedi come sto – come sto senza di te, amore?
All’alba gli occhi, nottambuli, arretrano nel sangue.
Mi hai abbandonato – mi hai insanguinato il cuore.
Mi hai lasciato cadere dagli occhi come lacrime.
Con noncuranza, le tue ciglia hanno ingabbiato il mio
cuore: sono prigioniera dei tuoi lunghi capelli.
Aveva statura e grazia: era bello come la prima lettera.
La sua assenza mi ha reso vedova del mio nome
una donna votata alla follia.
*
Sulla morte della figlia, neonata
Nessuna droga può placare il mio cuore
il marchio del dolore non si leverà mai.
Il mio cuore non si stancava della tua presenza
ora vive della tua continua assenza.
*
Ho giurato di non vederlo mai più:
come una Sufi, annienterò le tentazioni;
so che la mia natura può farlo:
per ora, rinuncerò alla rinuncia.
**
Mehri (XV secolo)
Dama di corte a Samarcanda, fu confidente della regina timuride Goharshad. Visse in epoca florida, munifica per i poeti. La regina – che l’amava – obbligò Mehri a sposare il chirurgo di corte, un uomo molto più anziano di lei: di qui le poesie che ostentano infelicità coniugale, il corpo che sfiorisce, la fiacca sessualità.
Una giovane donna che va in sposa a un vecchio
avrà – finché non sarà vecchia – ogni felicità negata.
Meglio una freccia piantata nel fianco
dicono, che avere un vecchio al fianco.
*
Dormiamo insieme e non mi sazi
ti parlo e i tuoi silenzi mi sfiancano.
Ho sete: dici di essere la fonte della vita –
dov’è allora, per amor di Dio, l’acqua che mi neghi?
*
Mi chiese di baciarmi le labbra: già, ma
quali labbra, quelle di sopra o quelle di sotto?
*
Non farti ingannare dalle belle parole –
le belle parole sono quelle che la balia
elargisce al bambino quando non ha più latte.
*
Nessuna notte è più breve
di quelle trascorse con te:
appena prendi a svestirmi
il sole comincia a sorgere.
**
Zaifi Samarqandi (XV secolo)
Nulla si sa di questa donna capace di esprimere in versi intrisi d’ira l’infelicità del suo amare. Nel nome è forse celata la provenienza della sua famiglia, Samarcanda.
Il mio amore è nulla per me – ormai è tardi…
vecchio flaccido sciocco sei in uno stato pietoso
e minacci di prendermi a botte?
Ma se non hai nemmeno la forza di reggerti in piedi!
*
Ofaq Jalayer (XVI secolo)
Figlia dell’alta aristocrazia timuride, Ofaq Jalayer andò in sposa al governatore di Qom. Seguì il marito nei suoi continui spostamenti – di cui ricaviamo tracce nel pur scarno canzoniere –, terminando i suoi giorni presso la corte del Gran Mogol Babur, il fondatore della dinastia Moghul.
Te l’ho promesso: non berrò più vino
mio nobile cipresso –
Tuttavia tu non hai promesso, non rinuncerai
a darmi il vino dalla tua bocca.
*
Cos’è questo chiacchierare di esilio
come fosse un incantesimo?
La tua casa è dove sei felice
in qualunque luogo essa sia.
**
Dusti (XVI secolo)
Nulla si sa di Dusti, donna che eccelle nel ferreo lamento, se non il nome del padre, Darvish Qayam Sabzevari.
La luna ha i capelli spettinati e io
mi sono innamorata dell’eresia di un infedele.
O amico, che straziante dolore l’amore –
una volta che ti ha catturato, non c’è scampo
non c’è senso né logica nell’amore
a entrambi devi rinunciare – Dusti
ha pianto lacrime come le nuvole a primavera
ora non piange più: ha pianto troppo.
da il manifesto
Torna in libreria per Casagrande Bambine, il romanzo della scrittrice di origini svizzere ora in nuova edizione. Uscito per Einaudi nel 1990, al centro due sorelle che crescono all’interno di una famiglia patriarcale
Due ragazzine crescono all’interno di un nucleo genitoriale formato da un padre e da una madre; è presente un terzo figlio che morirà presto. La cittadina disadorna ed essenziale in cui si svolgono i fatti è sconosciuta, mentre la casa in cui abitano queste creature ha mura domestiche riconoscibili: una comune famiglia in cui l’esercizio del potere patriarcale comincia con grossolane prevaricazioni per poi installarsi in precisi rituali preparatori. È un luogo specifico, politicamente situato e, per questo, inconfondibile, soprattutto perché a scriverne è Alice Ceresa. Nella storia che racconta, a essere protagoniste sono due sorelle che incontriamo dalla infanzia e che, ancor prima di essere figlie, sono corpi sessuati in germinazione. Bambine, pubblicato nel 1990 per Einaudi, quando Ceresa era ancora in vita, ritorna ora disponibile nelle edizioni Casagrande (pp. 142, euro 20) grazie alle attente cure di Tatiana Crivelli che, oltre alla postfazione, aggiunge in appendice al testo ceresiano una intervista che Francesco Guardiani ha fatto alla scrittrice (Basilea 1923-Roma 2001) per la “Review of Contemporary Fiction” nell’autunno del 1991.
Quando il romanzo di Alice Ceresa fa la sua prima comparsa editoriale, chi aveva già avuto modo di frequentare la sua scrittura, eccezionale ed eccentrica, ne riconosce subito il segno più esteso. Sarebbe sufficiente leggere la conversazione avuta con Maria Rosa Cutrufelli apparsa nella rivista “Tuttestorie” (n. 1, 1991) in cui, con la misura generosa del confronto di due femministe e scrittrici, viene esposto il passaggio attraverso cui da un capolavoro come La figlia prodiga (Einaudi, 1967) arriva, molti anni dopo, a Bambine. L’arco temporale è qui importante, non solo per segnare ciò che poi Ceresa licenzia per la pubblicazione, ma perché la categoria del tempo è fondamentale, sia in ragione della costruzione delle sue parabole che della descrizione dell’inizio di tutto (ovvero la famiglia) e della sua fine (ovvero il congedo dal patriarcato).
Esiste tuttavia un tempo incarnato anche in Bambine, come accade in La figlia prodiga (ora nuovamente disponibile grazie alla edizione critica che Laura Fortini ha curato con sapienza per La Tartaruga nel 2023) e in La morte del padre (“Nuovi Argomenti”, n. 62, 1979; poi edito da Et al. nel 2013 con una nota di Patrizia Zappa Mulas; infine per La Tartaruga nel 2022), che non ha connotazioni intimistiche bensì è la marca di ciò che per Ceresa indica la «vita» – alla voce dedicata nel suo postumo Dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo, 2007 e 2020, a cura di Crivelli): «lo spazio di tempo nel quale gli organismi deperibili svolgono le loro funzioni organiche». In altre parole, anche per le figlie, le madri al pari dei padri, i fratelli – tutte le funzioni senza nomi propri che Ceresa convoca nei suoi testi per confermare la famiglia come cellula amministrativa foriera di violenza e contraddizioni – «la vita serve pertanto per sopravvivere».
Quale sia il tempo storico per Alice Ceresa è questione altrettanto non eludibile, perché La figlia prodiga è un libro politico incardinato senza equivoci in quegli anni che in Italia, e a Roma in particolare, per Ceresa hanno rappresentato la scoperta del femminismo, dei movimenti e di tutto ciò che la scrittrice sceglie di non abbandonare mai. Le radici dell’albero dell’inuguaglianza, pervasive, difficili da svellere una volta per sempre, vanno dapprima osservate, poi esaminate e decostruite. Per finire l’impresa, ad Alice Ceresa mancava la parte relativa all’apprendimento che si acquisisce nell’infanzia. Sceglie di farlo nello specchio di due bambine che sono sorelle e che, a differenza di molte altre loro piccole simili nella letteratura, non vivono in solitudine. Se La figlia prodiga era il gesto rivoltoso – perché parlava da un «sé», e rivoluzionario – perché capace di rivolgersi a un «noi», di una donna che scopriva la complessità di una liberazione anzitutto dal dover aderire al dettato impostole, consapevole di pagarne un prezzo molto alto, in La morte del padre la fine biologica e concettuale di un patriarca non è pacificamente sovrapponibile alla perdita paterna.
In Bambine si assiste all’origine del processo che tuttavia, insieme alle due sorelline che diventeranno adulte, determina una serie di interrogazioni: sarà una “iniziazione”, o sarebbe meglio parlare di “apprendimento” o forse solo di “inventariazione”? Sono alcune parole che ritornano nei preziosi materiali preparatori della edizione del 1990 – ora nel Fondo Ceresa depositato all’Archivio svizzero di Letteratura di Berna che Tatiana Crivelli ha consultato e studiato, rintracciandone alcune traiettorie utili per comprendere al meglio l’officina gestazionale della scrittrice. Taccuini, lettere, elenchi, lacerti e parti di articoli che confermano la straordinaria ossessione verso la parola, per cui moltissimo Ceresa ha scritto e pochissimo ha concesso alla pubblicazione finale. Con la veggenza posseduta dalle grandi scrittrici, anche lei ha dei luoghi teorici in cui è possibile intravvedere una pionieristica visionarietà che tuttavia ha a che fare con la densità del suo pensiero, con la intersezione insita nel saper connettere i mondi, ecco perché rifuggiva le mode – comprese quelle letterarie. La libertà femminile per Alice Ceresa è una esperienza che non si baratta a buon mercato, è argomento scomodo, rimane tale in ogni sua riga, è taglio simbolico che determina spostamenti, fratture insanabili da cui non si torna indietro.
Sicuramente si può discutere di un certo grado di deperimento, come per tutte le forme che attengono qualcosa di vivente, e dunque di relativa rigenerazione sorgiva. Così anche capigliatura, denti, occhi, gesti minimi di riconoscimento reciproco, sono al centro di una prima corrispondenza indifferenziata con il corpo del padre e poi, più diretta, con quello della madre. La lezione di Ceresa sta anche in questo esercizio crudele, appreso in Bambine nella forma di un “addestramento”. Non importa chi diventeranno, sia pure il flusso dello scorrere sia anche qui soggetto al tempo del vivere. Certo è che «Ora – come scrive la stessa Ceresa a proposito del romanzo in uno dei suoi appunti – si capisce bene, immagino, il meccanismo».
da z3xMI – giornale online zona 3
Anche noi, come z3xMI, auguriamo una riapertura in tempi brevi della Libreria delle ragazze e dei ragazzi.
(La redazione del sito)
Il caro affitti, oltre all’aumento delle spese di gestione, ha fatto un’altra vittima. Dopo cinquantatré anni chiude la sede di via Tadino 53 della Libreria delle Ragazze e dei Ragazzi.
Fondata dal 1972 da Roberto Denti e Gianna Vitali, l’impresa, tra le più gloriose e importanti in campo librario, aveva già in passato sostenuto alcuni traslochi per approdare nell’attuale sede di via Tadino dove aveva continuato e persino incrementato tutte le sue attività per favorire la diffusione della lettura tra i più giovani (animazione del libro, gruppi di lettura, laboratori con le scuole, consulenza per le biblioteche, seminari vari).
È purtroppo toccato a Renata Gorgani, attuale responsabile della libreria, dare il triste annuncio.
Ad agosto si chiudono i battenti di un’esperienza unica per originalità, coerenza e impegno culturale, anch’essa coinvolta nella trasformazione di una città sempre più condizionata dai poteri economici, dalle speculazioni commerciali e dall’espulsione di tutto ciò e di tutti coloro che non producono lucro immediato. A chi toccherà prossimamente?
Renata Gorgani e i librai che lavorano con lei non gettano però la spugna e sono alla ricerca in città di un luogo che possa permettere di riprendere in modo sostenibile il percorso al momento interrotto.
Nell’attesa, l’appuntamento è fissato in libreria alle ore 17.30 di martedì 1° luglio quando è previsto un aperitivo per grandi e piccini per “festeggiare” (si spera) un arrivederci e non un addio.
Gli auguri sono più che meritati.
dal Corriere della Sera
Due articoli sapienti sono usciti sul Corriere sulle ragioni per cui non si fanno più bambini in Italia. Vengono citati comportamenti sociali, valori dei più giovani, quelli in età di fare figli. Individualismo, egoismo, assenza di aiuti alle coppie. C’è però da aggiungere una parola che a me sembra l’ago della bilancia di tutta la questione, il centro del problema. Non esiste la decisione di fare un figlio senza la volontà di una donna. Questa è la parola: donna. Almeno su questa questione possiamo metterla al centro? Non ci sarà nessun bambino messo al mondo senza la sua decisione e anche se un uomo glielo chiedesse in ginocchio, solo su di lei risiede la possibilità di farlo nascere. Questa mi sembra una verità fondamentale per andare alle origini della questione. La nascita non è più un destino, è una scelta, questo i due articoli lo scrivono. Questa scelta riguarda però prima di tutto la vita, le possibilità e il desiderio di una donna in età fertile, cioè al centro della sua vita attiva. In quella parte della vita in cui donne e uomini lavorano e costruiscono il loro futuro professionale. Se non si affronta questo fatto, non succederà nulla. Bisogna dire chiaramente che una giovane donna che decide di fare un figlio prima dei quaranta anni deve avere davanti a sé tre visioni. La prima, la più importante, è che fare un bambino ha un valore per la società in cui vive, che all’interno di una decisione privata, senta che tutti, in primis il compagno, ma forse ancora di più l’intera società danno alla nascita un valore moderno non arcaico, un senso nuovo, di oggi, basato su una scelta appunto, non su un destino. Non serve a nulla rispolverare la retorica laica o religiosa della santità e della bellezza dell’essere madri. Per una ragazza di oggi non significa nulla, non perché sia diventata egoista o individualista, semplicemente perché è libera e vuole quello che gli uomini hanno sempre avuto, la concentrazione su di sé, sui propri studi, sulle proprie passioni, sul proprio lavoro. Gli uomini non hanno mai dovuto scegliere tra i loro interessi e il bambino. Non sanno neanche storicamente cosa vuol dire, le donne invece lo sanno perché sono progenie di madri e di nonne, che hanno faticato per fare molti lavori insieme, il cui più importante, che non contava e non conta niente, è allevare e curare. La seconda visione che può spingere una donna a fare un bambino oggi è la certezza che non dovrà arrestarsi nella sua carriera, che non subirà pregiudizi, prevaricazioni, che non dovrà rinunciare a essere la prima se ne ha le capacità. Questo non è egoismo, è parità. La terza che ho lasciato per ultimo ma, last but not least, è la promessa sicura che l’uomo che ama sarà accanto a lei sempre in questa opera così importante, che i compiti saranno divisi egualmente, che la responsabilità del padre sarà protagonista della crescita dei figli fin dall’inizio e per sempre. E per questo gli uomini devo essere pronti a dividere i sacrifici anche professionali. Siamo in grado di fornire alle donne giovani queste tre condizioni? Non credo, anzi penso che l’Italia, paese cattolico, sia molto indietro. Allora cerchiamo di vedere, quando parliamo di denatalità, questa donna, una figlia che abbiamo educata alla libertà e che non vorremmo in nessuno modo vedere sola alle prese con una scelta che riguarda tutti. Forse vedendola riusciremo a intravedere il suo futuro trionfante anche con un bambino in braccio.
da Internazionale
Una coppia statunitense ha organizzato una festa per celebrare il momento in cui scoprirà se aspetta un maschio o una femmina. «È un maschio!», grida la coppia in un video su TikTok diventato virale. Ma la futura madre non riesce a fingere a lungo l’entusiasmo. Dopo pochi secondi abbraccia il compagno e comincia a singhiozzare. E assicura che prima o poi avranno una figlia, poi i due lasciano la stanza, troppo sconvolti per stare con gli ospiti.
A volte per il gender reveal, cioè la rivelazione del sesso di chi sta per nascere, si fanno le cose in grande: per dare la notizia alla coppia si usano lanci di coriandoli o fumogeni rosa o azzurro. Ci sono hashtag per tenere col fiato in sospeso come: #boyorgirl e #TractorsOrTiaras. Ma i festeggiamenti che si concludono con il disappunto della madre e gli invitati che cercano di consolarla sui social media hanno dato vita a un genere completamente nuovo: i video di gender disappointment, delusione di genere, alcuni dei quali attirano milioni di visualizzazioni. Moltissimi post mostrano o raccontano “la tristezza dei genitori perché non è una bambina”.
In tutto il mondo c’è sempre stata una spiccata preferenza per i figli maschi. In molte culture, i maschi ereditano tradizionalmente sia il nome della famiglia sia la ricchezza. Ci sono stati perfino periodi in cui molte coppie, se aspettavano una bambina, decidevano di abortire, lasciando intere generazioni con molti più maschi che femmine, come è successo in Cina e in India. Ma negli ultimi anni, nei paesi in via di sviluppo la situazione è drasticamente cambiata, e nel mondo ricco stanno emergendo i segni di una preferenza per le femmine. Forse per la prima volta nella lunga storia dell’umanità, in molte parti del mondo sono i figli maschi a essere considerati un peso e le femmine una manna.
Nel corso naturale delle cose, nascono circa 105 bambini ogni cento bambine, un dato che sembra essere una risposta evolutiva alla maggiore mortalità maschile. Questo rapporto oscilla un po’, per motivi che gli scienziati non hanno ancora ben compreso. Per esempio, le nascite di maschi tendono ad aumentare subito dopo le guerre. Ma fino agli anni ottanta del novecento, cioè prima che l’ecografia diventasse abbastanza economica da permettere alla maggior parte degli aspiranti genitori di scoprire il sesso di un feto, non si poteva fare molto per assecondare la preferenza per i maschi, se non fare tanti figli e coccolare quelli maschi. E dato che le famiglie tendevano a essere numerose, la maggior parte dei genitori finiva comunque per avere figli di entrambi i sessi.
Ma negli ultimi decenni, da quando in gran parte del mondo si fanno meno figli, i genitori non hanno più potuto aspettare di avere almeno un maschio. L’ecografia ha dato alle coppie la possibilità di scegliere e il risultato è stato un massacro di feti di sesso femminile. Secondo i calcoli dell’Economist, dal 1980 sono nate circa 50 milioni di bambine in meno rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato. Nell’anno peggiore, il 2000, sono nati circa 1,7 milioni di maschi in più del dovuto. Di recente, nel 2015, il numero dei nati di genere maschile in eccesso era ancora più di un milione, il che fa pensare che un numero simile di bambine deve essere stato rifiutato.
Invece quest’anno, secondo le stime dell’Economist, la cifra scenderà a circa duecentomila. Il precipitoso calo dello squilibrio tra i sessi equivale a circa sette milioni di bambine salvate dal 2001 in poi. La preferenza globale per i figli maschi è quasi scomparsa, insieme alle orde di bambine sparite.
I paesi con una maggiore preferenza per i maschi hanno visto un’inversione di tendenza verso il tasso naturale. In Corea del Sud, nel 1990 sono nati quasi 116 maschi ogni cento femmine. Lo squilibrio era ancora più pronunciato nelle famiglie più numerose. Tra i terzogeniti, c’erano più di duecento maschi ogni cento femmine. Tra i quarti figli, il rapporto si avvicinava a 250 maschi ogni cento femmine. Oggi, invece, la distribuzione è quasi uniforme.
Il desiderio di avere figli maschi è diminuito rapidamente anche in Cina e in India, anche se il rapporto tra i sessi alla nascita rimane distorto in entrambi i paesi. In Cina è sceso da un picco di 117 per la maggior parte degli anni duemila a 111 nel 2023. Nello stesso anno, in India il tasso era di 107, in calo rispetto ai 109 del 2010.
I dati dei sondaggi confermano questo cambiamento. In molti paesi in via di sviluppo, quando c’è una preferenza sul sesso dei figli, oggi sembra che sia per un mix di maschi e femmine. Le donne del Bangladesh che non hanno ancora avuto figli, per esempio, esprimono il desiderio quasi identico di figli maschi e femmine. Tra quelle che hanno uno o due figli, avere un figlio maschio aumenta il desiderio di avere figlie femmine e avere una figlia femmina aumenta il desiderio di figli maschi. I ricercatori hanno anche osservato una simile tendenza all’equilibrio nella maggior parte dell’Africa sub-sahariana.
A lungo termine, la riduzione della preferenza per i maschi dovrebbe riportare i paesi con la popolazione più squilibrata a qualcosa che si avvicina a una normale distribuzione dei sessi. Questo significa il superamento di una serie di problemi sociali legati alla carenza di donne, dall’aumento della criminalità al traffico di spose straniere, anche se ci vorranno decenni prima che questi pregiudizi del passato scompaiano del tutto.
Nel frattempo, nel mondo ricco appare evidente che la preferenza per le bambine è in crescita. Tra il 1985 e il 2003, secondo l’istituto di statistica della Corea del Sud, la percentuale di donne che ritenevano “necessario” avere un figlio maschio è crollata dal 48 al 6 per cento. Oggi quasi la metà vuole una femmina. Anche in Giappone, i sondaggi suggeriscono una chiara preferenza per le figlie. In base al Japanese national fertility survey, un sondaggio condotto ogni cinque anni, nel 1982 il 48,5 per cento delle coppie sposate che volevano un solo figlio diceva di preferire una bambina. Nel 2002, erano il 75 per cento. Una tendenza simile si nota anche tra i genitori che volevano due o tre figli.
In certe zone, le statistiche complessive sulle nascite sembrano riflettere una preferenza per le femmine rispetto ai maschi. Per esempio il rapporto tra i sessi alla nascita è leggermente inferiore alla norma in alcune parti dei Caraibi e dell’Africa sub-sahariana. Alcuni paesi di queste regioni si arriva fino a cento o 101 maschi ogni cento femmine. Nei Caraibi, più di una famiglia su tre è guidata da una donna, e la percentuale di donne che dicono di preferire le figlie femmine è maggiore di quelle che preferirebbe dei maschi. Nell’Africa sub-sahariana, l’obbligo tradizionale dell’uomo di versare una considerevole cifra alla famiglia della sposa può aver contribuito a rendere le ragazze più desiderabili.
Ma nella maggior parte dei paesi, qualsiasi preferenza per le femmine espressa nei sondaggi non è abbastanza significativa da apparire evidente nel rapporto complessivo tra i sessi alla nascita. In altre parole, la maggior parte dei futuri genitori sembra essere contraria agli aborti selettivi in base al sesso. Tuttavia, un pregiudizio a favore delle femmine è visibile nei casi in cui è possibile scegliere, come quando si cerca di adottare o si ricorre alla fecondazione artificiale. Il classico indicatore di preferenza – continuare a fare figli a seconda del sesso di quelli già nati – suggerisce un desiderio di figlie femmine.
Un tempo negli Stati Uniti le coppie che avevano solo femmine tendevano più delle altre a fare ancora figli, presumibilmente per cercare di avere un maschio. Questa è la tesi esposta in uno studio pubblicato nel 2008 da Gordon Dahl, dell’università della California a San Diego, ed Enrico Moretti, dell’università della California a Berkeley. Il loro rapporto, che analizza i dati dei censimenti dal 1960 al 2000, conclude che in negli Stati Uniti i genitori hanno sempre preferito i figli maschi.
Da allora, però, questa preferenza si è invertita. Da uno studio del 2017 condotto da Francine Blau, un’economista della Cornell University, è emerso che più di recente negli Stati Uniti avere prima una figlia è associato a tassi di fertilità più bassi. La sua ricerca, basata sui dati dal 2008 al 2013, mostra una preferenza per le femmine.
Altri paesi ricchi seguono un modello simile. Un pregiudizio a favore delle femmine è stato rilevato in tutta la Scandinavia. Nei paesi della regione, i genitori che hanno avuto un maschio e una femmina fanno meno figli; quelli con due figli maschi hanno tassi di natalità notevolmente più alti dei genitori che hanno avuto due femmine. I finlandesi che hanno avuto per prima una femmina tendono ad avere un po’ meno figli. Gli studi suggeriscono anche una preferenza per le bambine nella Repubblica Ceca, in Lituania, nei Paesi Bassi e in Portogallo.
Il trattamento della fertilità fornisce un’ulteriore prova di questo pregiudizio. Alla New York City IVF, una clinica di Midtown Manhattan, i genitori pagano fino a ventimila dollari per selezionare il sesso dei bambini concepiti attraverso la fecondazione in vitro (Ivf). Le famiglie ricche arrivano lì anche da paesi come il Regno Unito, dove la scelta è vietata. «In passato, chiedevano solo maschi», dice Alyaa Elassar, che dirige lo studio, ma oggi sempre più spesso preferiscono le bambine.
Anche chi vuole adottare tende a volere una femmina. Secondo uno studio pubblicato nel 2010, gli statunitensi erano disposti a pagare fino a 16mila dollari per assicurarsi una figlia. Nel 2009 Abbie Goldberg della Clark University aveva chiesto a più di duecento coppie statunitensi che speravano di adottare se preferivano un maschio o una femmina. Anche se molti di loro avevano detto che era irrilevante, in media gli uomini e le donne eterosessuali e le lesbiche tendevano a volere una femmina. Solo i gay preferivano adottare dei maschi. In Corea del Sud le bambine rappresentano una netta maggioranza delle adozioni. Il maggiore interesse per l’adozione di bambine non ha assolutamente alcun effetto sul rapporto tra i sessi alla nascita, ma fornisce una buona indicazione delle preferenze dei genitori.
I motivi di questa crescente preferenza per le femmine e la relativa svalutazione dei maschi non sono affatto chiari. Potrebbero esserci molti fattori che si combinano. Nello studio di Goldberg, che ha diviso i genitori in base al loro orientamento sessuale, diversi gruppi hanno fornito ragioni diverse per le loro inclinazioni. Gli uomini eterosessuali, per esempio, ritenevano che le bambine sarebbero state “più facili da crescere”, più “interessanti” e “complesse”, oltre che “meno impegnative fisicamente” dei maschi. Le lesbiche erano preoccupate di non essere in grado di stabilire un buon rapporto con i maschi e così via.
Nei paesi che mostravano un forte pregiudizio a favore dei maschi, il cambiamento può semplicemente riflettere il desiderio di evitare i problemi che derivano dai rapporti distorti tra i sessi. In Cina, dove lo squilibrio è così grande che molti uomini finiscono per rimanere “rami spogli”, cioè non sposati e senza figli, può darsi che chi i figli li ha voglia evitargli una vita solitaria. Inoltre, è più costoso avere figli maschi, perché ci si aspetta che un uomo della classe media possieda un appartamento prima di potersi sposare. I genitori dei maschi spesso si lamentano delle spese rovinose per aiutarli a comprare una casa.
Un’altra possibilità è che la preferenza per le ragazze possa non essere un segno di emancipazione, ma un riflesso dei tradizionali ruoli di genere. L’idea che le figlie saranno più premurose mentre i figli maschi si allontaneranno dai genitori è radicata anche nelle società più ugualitarie. In Danimarca, Norvegia e Svezia, dove le donne sono relativamente ben rappresentate sia nel mondo degli affari si in politica, le coppie attribuiscono comunque maggiore importanza ad avere almeno una figlia che ad avere almeno un figlio. Alcuni sociologi ipotizzano che sia perché le donne tendono molto più degli uomini a garantire assistenza ai genitori anziani che vivono da soli.
Il crescente desiderio di avere figlie femmine può anche riflettere i mali sociali che affliggono gli uomini in gran parte del mondo ricco. Questi dominano ancora gli affari e la politica e quasi ovunque guadagnano di più per fare lo stesso lavoro delle donne, ma è anche più probabile che prendano una brutta strada. In molti paesi ricchi, i maschi adolescenti hanno maggiori probabilità di essere sia autori che vittime di crimini violenti. Hanno anche maggiori probabilità di suicidarsi. I ragazzi vanno peggio delle ragazze in tutti i livelli di istruzione e vengono espulsi dalle scuole molto più spesso. Hanno meno probabilità delle donne di frequentare l’università. Il divario di genere nelle università statunitensi oggi è più grande rispetto al 1972, quando furono emanate le leggi che proibivano la discriminazione di genere nell’istruzione. Ma non sono più le donne a essere sottorappresentate.
I genitori competitivi possono pensare che le ragazze gli daranno più soddisfazioni. Dopotutto, i maschi sviluppano le capacità motorie più tardi delle femmine. Sono anche meno capaci di stare fermi. Sono tutti inconvenienti in un mondo di lezioni di musica e d’arte per i più piccoli. «Non abbiamo più mogli trofeo», dice Richard Reeves, presidente dell’American institute for boys and men, che cerca di porre rimedio ai problemi sociali maschili. «Abbiamo figli trofeo».
Il divario di genere continua nell’età adulta. Mentre le giovani donne di successo lasciano la casa di famiglia, i giovani uomini hanno meno probabilità di andarsene. Un esempio è il Giappone, con il suo numero impressionante di hikikomori, giovani che vivono in estremo isolamento sociale, la maggior parte dei quali sono maschi. Negli Stati Uniti, i giovani uomini hanno anche maggiori probabilità di rimanere a casa dei genitori rispetto alle donne: circa uno su cinque di età compresa tra i 25 e i 34 anni vive con i genitori, rispetto a poco più di una donna su dieci della stessa età.
Anche la resa dei conti culturale con la misoginia potrebbe essere un fattore importante. In un libro intitolato BoyMom. Reimagining boyhood in the age of impossible masculinity, Ruth Whippman osserva che ultimamente il mondo è stato inondato da un torrente di notizie sul cattivo comportamento maschile. Il movimento #MeToo ha rivelato l’atteggiamento predatorio maschile prima a Hollywood, e poi in una serie di altri settori e paesi. I nomi di uomini come Harvey Weinstein, Jeffrey Epstein e Andrew Tate sono diventati familiari dopo essere stati accusati di molteplici forme di abuso nei confronti di donne (e nel caso di Epstein, di ragazzine).
Più recentemente, la storia di Gisèle Pelicot, una donna francese che è stata ripetutamente drogata e violentata dal marito e da altri cinquanta uomini, ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica. Adolescence, la serie tv di Netflix su un ragazzo britannico di tredici anni che viene arrestato per omicidio, ha scatenato in tutto il mondo un dibattito sul comportamento misogino nei ragazzi. Secondo Whippman, è un momento difficile per crescere i maschi. L’elenco delle paure è lungo, scrive in Boymom: «Può diventare uno stupratore, sparare in una scuola, rimanere solo, restare bambino a vita, diventare misogino, presuntuoso, anaffettivo, emotivo o non pulire mai il bancone della cucina».
Un segno eloquente dell’allarme generale sui maschi del mondo ricco è l’interesse che i politici hanno cominciato a mostrare per l’argomento. L’anno scorso il parlamento britannico ha aperto un’indagine sugli scarsi risultati scolastici dei ragazzi. Nel 2022, la Norvegia ha fatto un ulteriore passo avanti, istituendo una commissione per l’uguaglianza degli uomini. La sua relazione finale del 2024 ha concluso che affrontare i problemi dei ragazzi e degli uomini sarà il “prossimo passo” verso l’uguaglianza di genere.
I politici statunitensi di ogni schieramento fanno discorsi simili. Il governatore dello Utah, il repubblicano Spencer Cox, ha creato una task-force sul benessere maschile. Il governatore del Maryland, il democratico Wes Moore, si è impegnato a cercare «soluzioni mirate per migliorare i nostri uomini e ragazzi»; La governatrice del Michigan, la democratica Gretchen Whitmer, vorrebbe favorire l’ingresso di più giovani uomini nei college e nei corsi professionali dello stato.
È importante mantenere in prospettiva il problema dei maschi nel mondo ricco. «Ci sono poche prove che il desiderio di avere figlie femmine si traduca in un comportamento discriminatorio nei confronti dei maschi o delle femmine», dice Lisa Eklund dell’università di Lund in Svezia. Con centomila aborti selettivi di feti femminili che avvengono ancora in Cina ogni anno, sradicare i pregiudizi contro le donne dovrebbe rimanere una priorità.
Ma la tecnologia potrebbe presto cambiare la situazione, come fecero le ecografie a prezzi abbordabili cinquant’anni fa. Avendo un modo semplice per agire in base alla loro preferenza per le femmine, i genitori del mondo ricco potrebbero cominciare a farlo in numero maggiore. Nuovi test stanno consentendo alle coppie di conoscere il sesso del nascituro molto prima. Alcuni kit possono essere acquistati online o nei negozi, richiedono solo poche gocce di sangue della madre e funzionano a partire dalla sesta settimana di gravidanza. In quel periodo amici e familiari di solito non sanno ancora della gravidanza e quindi non hanno bisogno di sapere se viene interrotta.
Anche la fecondazione in vitro e altri trattamenti per la fertilità stanno diventando più economici, più efficaci e quindi più diffusi. Negli Stati Uniti, dove la fecondazione in vitro selettiva per sesso è legale, circa un quarto di tutti i tentativi di Ivf oggi porta a nascite vive, rispetto al 14 per cento degli anni novanta. Circa il 90 per cento delle coppie che usano una tecnica chiamata smistamento degli spermatozoi per selezionare il sesso del nascituro ha dichiarato di volere un equilibrio tra figli e figlie. Nonostante questo, in pratica l’80 per cento di loro sceglie una bambina. Se lo squilibrio continuerà anche quando questi metodi saranno più diffusi, il rapporto tra i sessi negli Stati Uniti comincerà presto a essere distorto.
E anche se per il momento il rapporto alla nascita rimane al livello naturale, la preferenza per le femmine è significativa. Come gli aborti selettivi in base al sesso nei paesi in via di sviluppo sono il riflesso delle disparità e dei pregiudizi esistenti, il pregiudizio che si sta affermando a favore delle femmine nei paesi ricchi probabilmente rivela qualcosa su come funzionano le società.
dal Corriere della Sera
Mirella Serri indaga per Longanesi le fonti del pensiero meloniano
Se presero un abbaglio Gramsci e Croce liquidando il fascismo degli albori come una breve «parentesi senza fondamenti culturali e ideologici», immaginate in quali errori di interpretazione possono incorrere gli intellettuali di sinistra di oggi quando sostengono che «gli esponenti di questa destra di destra insediata a Palazzo Chigi sono solo una rozza espressione del sovranismo e del populismo». Così Mirella Serri, che in molti dei suoi libri ha scandagliato i rapporti tra fascismo e cultura, torna in libreria con un saggio sferzante nel quale sostiene che l’immagine dell’“underdog” tenuto sempre a distanza (che poi si dimostra più bravo degli altri) è solo una narrazione dietro alla quale «esiste un consistente bagaglio di ideologie e di ritualità elaborate per decenni dal movimentismo neofascista italiano». Prova allora con Nero indelebile. Le radici oscure della nuova destra italiana, Longanesi editore ad aprire gli armadi di famiglia dai quali emergono, oltre a cimeli del ventennio che fu, padri che negli anni della Repubblica hanno rielaborato in chiave «rivoluzionaria e sociale» il pensiero fascista.
Testo sacro della nuova destra sarebbe la monumentale Storia del fascismo in sei volumi, firmata da Pino Rauti e Rutilio Sermonti, dove tutto ruota intorno al «sentimento dell’onore». «Non siamo una forza conservatrice né un filone del socialismo – ammoniva Rauti –. Abbiamo una filosofia originale», che contempla sentimenti antiegualitari e antidemocratici «in nome di una visione eroica e spirituale della vita». Definirlo fascista di sinistra è però un azzardo, avendo attinto a piene mani alle dottrine di Julius Evola, teorico ultra-elitario e simpatizzante del nazismo, definito da Almirante «il nostro Marcuse».
Secondo Mirella Serri, Rauti diventa «il burattinaio del pensiero di destra più radicale» quando la sua visione del mondo si salda con quella dei «cattivi maestri» della Nouvelle Droite Française. All’epoca, Rauti lavorava a “Il Tempo” di Roma, giornale nato il giorno stesso in cui gli Alleati liberarono la capitale e quindi di forte impronta antifascista e anticomunista. Il connubio con la destra francese nacque per l’intenso rapporto con il corrispondente del giornale a Parigi, Giorgio Locchi, che pubblicamente si mostrava conservatore moderato «ma in manifestazioni semiclandestine celebrava il rito del solstizio d’inverno e una serie di altre carnevalate occultistiche». Locchi “allevò” Alain de Benoist, infondendogli la parola d’ordine: «Il mondo non sarà salvato da studiosi stanchi, ma da chi ha fatto, da sempre, leva sull’aspetto essenziale del pensiero che si fa azione».
Negli anni Ottanta, de Benoist frequentò l’Italia proponendo una «strategia metropolitana», seguendo le indicazioni di Gramsci, per la conquista dell’egemonia culturale. Insieme all’altro “cattivo maestro” francese Guillaume Faye, teorizzò la «convergenza delle due catastrofi»: da un lato la colonizzazione da parte dei popoli del Sud del mondo e dei Paesi islamici; dall’altro il declino economico a causa dell’invecchiamento della popolazione continentale e della denatalità. Unica strategia per salvarsi è sviluppare una «filosofia dell’identità», una critica radicale al multiculturalismo, al politicamente corretto, alla tendenza all’autocolpevolizzazione e alla retorica dell’alterità. Secondo Serri, quando la destra in Italia si è insediata al governo de Benoist è diventato l’astro del nuovo corso meloniano.
In anni più recenti, a Colle Oppio, fucina di elaborazione del pensiero di destra, la biblioteca si è arricchita di libri da cui attingere a piene mani citazioni a dir poco eclettiche. Così Jünger viene fatto convivere con Gramsci, il conservatore Roger Scruton con Bertolt Brecht e Pier Paolo Pasolini, Yukio Mishima con i Cantos di Pound e Saint-Exupéry con il Signore degli Anelli di Tolkien.
Infine i campi Hobbit. Fu sempre Rauti a ideare il primo, perché «la gioventù ha bisogno di idee-forza». E da lì Atreju, nome derivato dal «figlio di tutti» ne La storia infinita di Michael Ende, anche se Ende era un convinto antifascista costretto ad arruolarsi nella Gioventù hitleriana che disertò per raggiungere i gruppi di resistenza bavarese. Ma appropiarsi di personaggi che nulla hanno a che vedere con il loro progetto politico sembra lo sport prediletto delle nuove destre, sostiene Serri: Marine Le Pen si è appropriata di Olympe de Gouges, Simone de Beauvoir ed Élisabeth Badinter e Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha evocato Nilde Iotti, Tina Anselmi e Rita Levi-Montalcini.
Domenica scorsa Aldo Cazzullo ha scritto sul Corriere un articolo sulla denatalità che ci ha irritato moltissimo: innanzitutto il giornalista nega che questa sia una questione politica, perché della politica ha una visione ristretta (l’intervento dello Stato che rimuove gli ostacoli e incentiva servizi che favoriscano la natalità); afferma di star parlando solo della sfera personale, cioè di cosa significa diventare madri e padri: ma in tutto l’articolo non cita mai una donna, unicamente uomini e la loro felice scoperta della paternità.
Francesca Graziani gli ha mandato questa mail.
(La redazione del sito)
A proposito dell’articolo del 22/6/2025 “Fare i figli non è un dovere sociale (ma che cosa ci dà più gioia?)”
Eh no, caro Aldo! Qui NON stiamo parlando (solo) della nostra sfera personale: sennò i giornali non farebbero titoloni sulla denatalità che viene tirata in ballo per motivi economici (le future pensioni) o ideologici (la cosiddetta sostituzione etnica); non stiamo parlando di egoismi e narcisismi, ma di una società che permette solo a parole alle donne la doppia scelta, lavoro e figli.
È di politica che stiamo parlando: e non serve a niente tirare in ballo gli eroi dello sport (tutti maschi!) come Nadal che dopo 18 vittorie scopre com’è bella la paternità. Non li ha fatti lui i figli, a parte la sua necessaria partecipazione al concepimento che non definirei esattamente un sacrificio!
Francesca Graziani
da RivistaStudio
Sahar Delijani è nata nel 1983 a Teheran, in una delle giornate più drammatiche della storia della sua famiglia. Sua madre, prigioniera politica nel carcere di Evin, diede alla luce la figlia dopo ore di travaglio trascorse sotto interrogatorio. I suoi genitori, entrambi oppositori politici, furono incarcerati durante la repressione che seguì la rivoluzione del 1979, quando migliaia di persone vennero arrestate e rinchiuse nelle prigioni del nuovo regime. La scrittura di Delijani nasce da quella ferita collettiva e personale. Il suo romanzo più conosciuto, L’Albero dei fiori viola, intreccia le storie di figli e genitori segnati dalla prigionia, con al centro il carcere di Evin, simbolo del silenzio imposto e della resistenza. Oggi vive a Torino, dopo essere cresciuta negli Stati Uniti, ma l’Iran resta il cuore della sua narrativa.
Come sta vivendo, da iraniana in esilio, la guerra scatenata da Israele?
Stiamo tutti vivendo un momento di shock, paura e dolore. Non è mai stato così difficile essere lontani dall’Iran come adesso, guardando le immagini delle bombe che cadono sulle persone senza poter fare nulla. Ho molti amici che hanno la loro famiglia e i loro genitori ancora in Iran. Giusto ieri sera, ho sentito un’amica che pregava i suoi genitori di lasciare Teheran. Tutto questo era inimmaginabile. Gli iraniani hanno lottato instancabilmente contro la dittatura e la guerra per tanto tempo. Tutta questa lotta coraggiosa è stata spezzata.
Come riesce a conservare il legame con l’Iran? In che modo l’esilio influenza la sua scrittura?
I social media aiutano molto a mantenere il legame con l’Iran. Qui a New York ho una comunità abbastanza numerosa di iraniani che mi aiuta a conservare quel legame. Per quanto riguarda la scrittura, è sempre una grande sfida per tutti gli scrittori nati altrove che scrivono in una seconda lingua. Scrivere per lettori che, in realtà, non conoscono davvero la realtà di cui parli. Diventi subito una rappresentante, perdi la possibilità di avere una voce indipendente. Ma ciò che mi addolora ancora di più è che, scrivendo la tua realtà in un’altra lingua, è come se tradissi coloro di cui racconti le storie. Le racconti, sì – ma non per loro. Per altri. Per lettori lontani, spesso molto lontani da quella realtà. Questo tradimento letterario, per me, è la ferita più profonda.
Come descriverebbe oggi la società iraniana al di là degli stereotipi? Cosa sfugge allo sguardo occidentale quando si parla del popolo iraniano?
La società iraniana è una società come tante: complessa, vulnerabile, fiera, persistente, traumatizzata e incredibilmente coraggiosa. Ciò che lo sguardo occidentale non comprende – o meglio, non vuole comprendere o riconoscere – è che i popoli non occidentali sono oggetti attivi: hanno la volontà, la capacità e il diritto di decidere da soli il proprio futuro e costruire il proprio percorso vero la democrazia. Non sono popoli in attesa che qualcuno venga a salvarli. Sono popoli che, come quello iraniano, hanno ispirato il mondo intero con la loro lotta instancabile contro la dittatura.
Qual è stata la reazione della società civile iraniana agli attacchi israeliani finora?
Non è un segreto che gli iraniani non vogliono più il regime che li ha oppressi e perseguitati per più di quaranta anni. Ma questo non vuol dire che gli iraniani vogliono essere “liberati” da nessuno, soprattutto non con le bombe, la morte e la distruzione. Gli iraniani sono un popolo tenace e dignitoso, ma anche traumatizzato. Abbiamo già vissuto otto anni di guerra con l’Iraq. Oggi gli iraniani hanno paura, non solo per la propria vita e quella dei loro cari, ma anche per il loro Paese che hanno costruito con tanto sacrificio e dolore. Non vogliono vedere il proprio Paese andare in pezzi. Non vogliono vedere il proprio futuro rubato dagli aerei israeliani e americani.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato apertamente di “regime change” in Iran. Quali potrebbero essere le conseguenze in caso si concretizzasse questo scenario?
Condanno fortemente queste parole di Netanyahu. Solo gli iraniani sono padroni del proprio destino. Nessuno – tanto meno il governo israeliano che proprio in questo momento sta portando avanti un genocidio contro il popolo palestinese – può decidere per loro. La democrazia non arriva con le bombe. Neanche la libertà e l’uguaglianza. Lo sa benissimo anche Netanyahu. Il popolo iraniano ha lottato per la libertà e continuerà la sua lotta. Non solo la guerra non ci porterà la libertà, ma indebolirà tutti i movimenti civili che in Iran lottano per la democrazia.
L’intervento americano in Iraq fu presentato come una missione di “liberazione” e per l’esportazione della democrazia, ma ha portato distruzione e violenza. Teme un destino simile per l’Iran?
Tutti popoli del Medio Oriente condividono gli stessi dolori e le stesse lotte. Tutti aspirano a democrazia, libertà e uguaglianza. Abbiamo visto, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan e in Libia, cosa ha significato la cosiddetta “missione di liberazione” americana: non ha portato altro che morte, tortura e distruzione. È naturale temere un simile destino per l’Iran. Questo perché tutti gli esempi precedenti portano alla stessa conclusione: l’Occidente non vuole e non ha mai voluto un Medio Oriente democratico e libero. Vuole una regione debole, frammentata e impoverita. Questi sono gli interessi occidentali nella nostra regione, e faranno di tutto perché i nostri popoli non possano mai rialzarsi.
Pressoché tutti i governi occidentali si sono schierati a favore dell’intervento militare israeliano in Iran, nonostante i crimini commessi a Gaza e in Cisgiordania. Come valuta questa scelta?
I governi occidentali non hanno fatto assolutamente nulla per fermare il genocidio a Gaza, mentre i palestinesi muoiono di fame. Non mi sorprende affatto che nessuno di loro si interessi al dolore degli iraniani. Il mondo occidentale ha perso ogni credibilità morale e politica.
In un recente post su Instagram ha scritto: «Nessuno conoscerà la pace, la libertà, la dignità e la prosperità finché non la conosceranno i palestinesi». In che modo ritiene che le lotte del popolo iraniano e di quello palestinese siano collegate?
Tutte le lotte per la libertà e uguaglianza sono collegate. Il popolo iraniano ha subito più di quattro decenni di repressione sotto la Repubblica islamica e prima ancora sotto il regime dello Shah. Il popolo palestinese ha subito più di settanta anni di occupazione. Tutti i popoli vogliono vivere con dignità e prosperità. E nessuno potrà davvero raggiungerle se coloro più oppressi non conquistano la loro libertà.
In tempi di guerra e propaganda che ruolo può avere la letteratura per resistere, farsi ascoltare e toccare le coscienze?
Solo condividendo le nostre storie possiamo arrivare a una coscienza collettiva. Solo ascoltandoci, vedendoci. I popoli del Medio Oriente sono stati abbandonati da tutti, perseguitati sia dalle forze di occupazione che dalle dittature. Solo attraverso l’unità fra tutti i popoli, solo riconoscendo che tutte le nostre lotte sono collegate e che stiamo tutti lottando per gli stessi obiettivi nobili, possiamo uscire da questi inferni che i nostri governi ci hanno costretti a vivere.
da il manifesto
A cavallo tra Sei e Settecento, sullo sfondo del gusto dell’epoca per le nature morte abitate specialmente da piante, in subordine da animali, nonché di una nuova attenzione ordinatrice della storia naturale volta soprattutto alla definizione dei soggetti e al loro posizionamento in tassonomie e scale gerarchiche, si afferma un approccio trasversale che comincia a interessarsi alle interazioni tra organismi, allo specifico del loro modo di stare al mondo, ai cicli di vita, sviluppo e trasformazione.
Protagonista e interprete di questa rivoluzione dello sguardo è Maria Sibylla Merian, abile pittrice nata nel 1647 a Francoforte da una famiglia di artisti e incisori, naturalista autodidatta ma dotata di intraprendenza e grande autonomia, che, focalizzandosi su uno specifico gruppo di organismi visto nel contesto del suo ambiente, si fa studiosa capace di trasporre in una efficace sintesi figurativa le sue meticolose osservazioni, rendendo evidente la dinamica delle interazioni.
Di grande interesse sono le tappe del processo che a ciò la conduce: per cominciare, un volume di buon successo pubblicato a Norimberga nel 1675. Con 36 tavole a colori di fiori europei, talvolta in ghirlanda come modelli da ricamare, Il libro dei fiori, ancora molto convenzionale, propone immagini dal tono decorativo, probabilmente copiate da florilegi ma con l’inserimento già di vari insetti, bruchi e falene, per quanto anch’essi probabilmente copiati da lavori altrui.
Soltanto quattro anni dopo, però, dando seguito a una passione che già tredicenne la vede collezionare e studiare bachi da seta, pubblica La meravigliosa vita dei bruchi, con un centinaio di accurate tavole e testi che, quand’era opinione corrente che bruchi, crisalidi e farfalle fossero animali diversi, se non creature demoniache, mettono invece in pagina tutti gli stadi della trasformazione di falene e farfalle, complici le piante di cui si nutrono.
Separatasi dal marito e trasferitasi ad Amsterdam nel 1691 dove si guadagna da vivere vendendo dipinti, acquerelli su seta ed esemplari di insetti, avrà modo di osservare meravigliosi campioni di farfalle esotiche delle collezioni riportate dalle Indie da missionari, mercanti e altri naturalisti, di cui nel frattempo è diventata interlocutrice grazie al credito delle sue ricerche. Lamentando in esse la presenza dei soli esemplari adulti, organizzerà e finanzierà autonomamente una sua, singolare per i tempi, spedizione in Suriname, recente colonia olandese a Nord del Brasile.
Qui, per almeno due anni, dal 1699 si dedica a studiare e ritrarre il ciclo di vita degli insetti in relazione con le loro piante ospiti. Al suo ritorno, il processo di analisi che mette al centro la dinamica delle interazioni trova forma compiuta con la pubblicazione dell’imponente volume in folio con sessanta incisioni dedicato a Le metamorfosi degli insetti del Suriname (dopo La meravigliosa metamorfosi dei bruchi, Elliot propone oggi Il libro dei fiori nell’edizione del 1680, pp. 94, € 20,00).
Elementi a lungo osservati e annotati, ritratti magari in singoli schizzi, vengono ricomposti e associati tra loro, facendo risaltare nessi e correlazioni. Qualità estetica e rilievo scientifico vanno insieme. Andando ben oltre le convenzioni di raffigurazioni funzionali a un mero approccio classificatorio, il grande formato, la composizione, la particolare qualità delle immagini – Merian sviluppa tecniche che migliorano la conservazione del colore e supervisiona direttamente il processo di incisione e riproduzione –, il rilievo delle informazioni testuali invitano a prendere in conto ambiente e modi di esistenza piuttosto che il posto occupato in uno schema. Un modo di dipingere che si fa modello e, anche in ragione del grande successo nella ricezione presso un folto pubblico di collezionisti, medici e storici naturalisti, induce un modo diverso di guardare all’intrecciato universo di animali e piante.
da il manifesto
Fra le figure più rare degli ultimi due secoli per acutezza e libertà praticata, Lou Salomé non si è mai riconosciuta in ruoli prestabiliti, in particolare per una donna, né si è votata a un solo sapere, al punto da muoversi con rigore fra filosofia, letteratura e psicoanalisi senza alcuna titubanza e riverenza di consorteria, tantomeno si è immolata a una causa, neppure a quella della condizione femminile, anche se ha avuto in sorte di essere considerata un’icona femminista. La sua storia dà conto di come l’esistere possa farsi opera spirituale e il conoscere sia unione di pensiero ed esperienza, personale e relazionale. Non a caso è proprio sul piano della reciprocità creativa, di ascendenza romantica, fra vita e spirito che Lou Salomé sfida chiunque voglia occuparsi di lei.
Una sfida accolta con passione da Susanna Mati, studiosa di Nietzsche e del suo mondo, in Lou Salomé – Amare la vita (Feltrinelli “Scintille”, pp. 352, euro 25,00). Si tratta di un volume ben riuscito per ricchezza di documentazione, anche fotografica, oltreché di analisi, in grado di far capire come Lou Salomé sia stata tutt’uno con la sua esperienza della vita. Un tutto aperto all’incontro e, al tempo stesso, in sé compiuto, visto che Salomé fu fedele sempre e solo a se stessa, libera da ogni dover essere, «mai di nessuno e sempre altrove, sia intellettualmente che emotivamente» (p. 110). Cosmopolita e individualista, preoccupata della propria personale liberazione e, per dirla con Mazzino Montinari, del culto della propria personalità (introduzione a S. Freud – L. Andreas-Salomé, Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936, Bollati Boringhieri, 1983, p. VII), ebbe di certo una natura felice, priva di risentimento, anche grazie alla sua condizione privilegiata per censo e nascita, fino al punto davvero problematico, e per certi versi poco apprezzabile, di risultare incapace di pensare il politico, di considerare la collettività.
È questa personalità che Mati ricostruisce attraverso gli snodi cruciali del suo divenire, sullo sfondo oltretutto di un inquieto passaggio di secolo, cercando di sottrarsi al genere stilistico. Il suo libro, infatti, non è esattamente una biografia, anche se tiene per forza in conto molte notizie biografiche, né un romanzo e neppure un saggio accademico.
Il punto da cui muove è paradossalmente quello della fine, cioè il fatto che l’anziana Salomé, pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1937, decise come dovesse essere consegnata ai posteri la sua esperienza della vita e proprio per questo selezionò e distrusse carte e lettere. Ciò che scelse di conservare sostenne la composizione del suo Lebensrückblick (pubblicato in italiano per la prima volta nel 1975 da Guaraldi con il titolo Il mito di una donna a cura di Ota Olivieri), quasi a sottintendere che la nostra biografia è unitaria solo cronologicamente e biologicamente, al punto che è il modo di metterla in parole e di scriverla a costituirne il senso, l’unica possibile verità. Un modo fra l’altro che non legittima l’immagine di Salomé femme fatale dai famosi amanti, tanto che l’unica relazione sentimentale che decide davvero di sottolineare è quella con Rilke, anche se certo riconosce l’importanza decisiva di Nietzsche e di Freud. In più va considerato che a questa radicale forma di autocensura si sono aggiunte le censure dettate ad esempio dall’ostilità nei suoi confronti, come quelle operate da Elisabeth Nietzsche e dall’Archivio Nietzsche, oppure da un eccesso di protezione, come nel caso di quelle decise da Ernst Pfeiffer, erede del suo lascito letterario.
Per tutto questo Mati può affermare che è la stessa Lou Salomé a orchestrare e scrivere la sua vita «interpretando, esaltando, correggendo, rimuovendo, passando accuratamente sotto silenzio: insomma creando» (p. 15) e costringendo chiunque decida di occuparsi di lei a stare alle sue regole. La pulizia finale sarebbe di conseguenza segno non tanto di riservatezza e discrezione, ma di poesia (Dichtung): una vera e propria creazione, inalterabile, dettata dalla consapevolezza che la vita, se spinozianamente la si ama, è di necessità scrittura, cioè «un tracciare segni attraverso i quali la vita diventa conscia di se stessa», come affermerà nell’articolo Allo specchio del 1911, che ordina amorosamente, sottraendosi cioè alla violenza della ratio, gli episodi capaci di mostrare l’essenziale che, nel caso di Salomé, può emergere in primo luogo nell’incontro con anime sorelle, vale a dire con anime che cerchino di essere, come lei, spiriti liberi e per questo tese verso la comunione, non il possesso. A loro, infatti, si lega, senza però mai darsi totalmente, sempre salvaguardando la propria autonomia pur nel vincolo della relazione. Ed è proprio attorno agli incontri decisivi di Salomé, gli stessi che si riverberano nei suoi scritti in tutta la loro polarità di emancipazione e subordinazione, che Mati sviluppa le tre parti del suo libro. Sono tre come i saperi a cui Salomé si è dedicata, cioè filosofia, letteratura e psicoanalisi, significativamente associabili alle tre grandi figure maschili della sua vita: Nietzsche, Rilke e Freud.
La prima parte, infatti, è dominata dalla figura di Nietzsche, quindi dal progetto e dall’esperienza scandalosa della Trinità, cioè la convivenza a tre con lo stesso Nietzsche e Paul Rée, cui Salomé giunge dopo l’innamoramento adolescenziale nei confronti del pastore Hendrik Gillot. È proprio la frequentazione di quest’ultimo ad alimentare il suo sviluppo intellettuale, che muove dal fare i conti con la perdita, avvertita quale tratto caratteristico della sua vita, che certo rinvia in primo luogo alla perdita determinata dalla nascita, intesa come distacco originario sul quale sono destinate a modellarsi le angosce a venire, quindi alla perdita del padre e della fede in Dio, che lascerà in lei una inesauribile vocazione religiosa. Il rapporto con Gillot, mantenuto da Salomé su un piano ideale, come molte delle sue relazioni, verrà di fatto meno nel momento in cui Gillot chiederà di sposare «la sua figlia spirituale», cioè nel momento in cui il loro incontro sarà negato dalla volontà di possesso. Uno schema destinato a ripetersi nella vita di Salomé, tanto che pure la Trinità con Nietzsche e Rée fallirà soprattutto a causa di analoghe proposte di matrimonio.
Nonostante ciò, la triangolazione resterà il modo privilegiato da Salomé di dare forma ai suoi incontri, forse la maniera che meglio le permise di fare esperienza, a un tempo, di conoscenza, amicizia e libertà. Questo accadde anche negli anni berlinesi del suo sodalizio con Rée, aperto ad amicizie importanti come quella con Tönnies, e nonostante il misterioso matrimonio bianco con Andreas, che non fu di alcun impedimento all’amore – forse davvero il più importante della sua esistenza – con il giovane Rilke, conosciuto nel 1897. È la stessa Salomé a definire romanticamente la sua storia con Rilke come Ergriffenheit, cioè una possessione, nella quale riescono a completarsi corpo e spirito, che tuttavia non può frenare il suo bisogno di tornare a se stessa e proprio tramite il congedo dall’amante. L’abbandono amoroso di Rilke pare poi inseparabile dall’apertura di Salomé all’altra sua grande passione, la psicoanalisi, quindi all’incontro con Freud frequentato inizialmente proprio insieme a Rilke, non più amante ma sempre amico.
È questo gioco mai pago di chiusure e dischiusure, in cui sono comprese anche importanti amicizie femminili come quelle con Frida von Bülow e Anna Freud, a scandire il ritmo dell’esistenza inesauribile di vita e di pensiero di Lou Salomé e anche gli scritti che l’accompagnano, fra tutti Nietzsche in Seinen Werken (trad. it. Vita di Nietzsche, a cura di E. Donaggio e D.M. Fazio, Editori Riuniti, 1998), uno dei saggi più convincenti sul pensiero del filosofo tedesco.
da Avvenire
La filosofa femminista parla delle ipocrisie del marketing che si appella alla libertà e alla generosità delle donatrici, ma persegue solo logiche di profitto
Adriana Cavarero è una delle voci più autorevoli della filosofia italiana contemporanea e, in particolare, una delle più stimate rappresentanti del cosiddetto “femminismo della differenza”. La sua ricerca – inaugurata dal libro Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, uscito nel 1990 e subito tradotto in molte lingue – si è concentrata su due aspetti che toccano la questione della “maternità surrogata”: da un lato, la differenza sessuale di corpi concreti, maschili e femminili, di esseri viventi che si riproducono e nascono, ciascuno nella propria singolare unicità; dall’altro, la storia del patriarcato “spazzolata contropelo” – per usare una celebre espressione di Walter Benjamin –, alla luce della prospettiva femminista e una riflessione originale sui temi della nascita e della maternità. Il pensiero sul materno trova il suo esito più compiuto in uno dei suoi ultimi libri: Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi 2023).
In alcune pagine di Inclinazioni. Critica della rettitudine il corpo inclinato della madre si offre come paradigma alternativo alla geometria maschile verticale promossa dal patriarcato. Cosa significa nascere? Cos’è per te la maternità?
«Nascere significa venire al mondo come singolarità incarnata, generata da un’altra singolarità incarnata, la madre. Per ciascuno e ciascuna di noi, una madre sta all’origine, all’inizio. Come filosofa sono ovviamente molto interessata al tema dell’origine. Non però secondo i canoni della tradizione che si chiede astrattamente “perché l’essere e non piuttosto il nulla”, bensì secondo un modo di interrogare che guarda al fatto concreto del nostro essere originati, generati da donna, questa donna, sempre singolare. Dal punto di vista della nascita, viene perciò in primo piano la maternità come esperienza del generare. Ho sviluppato questo tema in Donne che allattano cuccioli di lupo. In Inclinazioni invece rifletto sulle rappresentazioni, anche pittoriche, della maternità, ossia sull’iconografia tradizionale della figura materna. Si tratta, spesso, di figurazioni stereotipiche che ritraggono la madre oblativa, piegata, inclinata sul suo bambino. Il che è ovviamente funzionale all’ordine simbolico patriarcale che loda l’inclinazione materna per confinare le donne nell’ambito domestico dove realizzerebbero la loro vera natura. Il mio scopo, oltre a prendermi gioco degli stereotipi, è delineare un’etica relazionale, basata sul primato dell’altro – come direbbe Lévinas – e sui rapporti sbilanciati che, nella condizione umana concreta, annodano le singolarità l’una all’altra».
Sollevi diverse critiche alla surrogazione. Che conseguenze ha tutto ciò sul concetto di maternità?
«La maternità, sia come esperienza sia nella sua essenza concettuale, subisce un oltraggio ontologico, ossia portato alla condizione umana stessa. La capacità generativa diventa oggetto di sfruttamento ai fini del profitto del mercato biocapitalista. Non si può chiedere al mercato di vergognarsi per questo oltraggio, per il mercato le persone sono cose: in questo caso, non tanto merci, quanto materia prima con qualità organiche funzionali al prodotto finale. Mi stupisco, però, che non provino vergogna coloro che commissionano il bambino, i clienti del business. Io, come essere umano colpito nella sua dignità ontologica, provo invece vergogna per loro. Mi colpisce soprattutto l’ipocrisia della narrazione di marketing con cui il fenomeno viene giustificato e lodato. Si dice che la madre surrogata è contenta di affittare l’utero per fare felici delle coppie sterili, perché vuol fare del bene. Oppure, appellandosi al paradigma neoliberista, si dice che affittare o meno il proprio utero dipende da una scelta libera, anzi, è una prova che le donne godono finalmente di libertà sulla propria vita e sul proprio corpo. Tutto questo è, per me, ipocrita e nauseante. Ho fatto fatica a scriverne e faccio fatica a parlarne».
Se davvero non esistesse il business, ma solo il desiderio di aiutare un’altra donna, saresti favorevole alla “maternità solidale”, al “prestito” dell’utero?
«Trovo inutile ragionare come se non ci fossero le condizioni che invece ci sono. Detto questo, viene chiamata “maternità solidale” quella di una madre surrogata che non riceve un compenso e perciò presta la sua opera gratuitamente. In verità, si tratta di nuovo di una narrazione di marketing perché la voce “compenso” viene sostituita da “rimborso spese” e la cifra, più o meno, corrisponde al compenso. Sono tutti sotterfugi per far apparire la gestazione per altri come qualcosa di bello e generoso, eticamente non solo lecito ma addirittura edificante. Il fenomeno di una madre che dà via a un’altra donna il suo bambino è, d’altra parte, noto benché raro. Nelle grandi cascine famigliari di campagna, da cui provengo, poteva succedere che una donna con molti figli decidesse di dare l’ultimo nato a una sorella sterile perché lo allevasse lei. Tutti lo sapevano, era una realtà condivisa e accettata come giusta e normale. Pare che anche nelle famiglie aristocratiche si sia a volte fatto così: se non nasceva un erede legittimo, si faceva passare per figlio un “bastardo”. Insomma può succedere ed è successo che, qualche volta, una donna “doni” o “passi” il figlio a un’altra. Ma in questo caso non ci sono agenzie specializzate che disciplinano tutta la faccenda. Come sai, nel mercato riproduttivo biocapitalistico, l’utero diventa, per contratto, proprietà dell’agenzia, la quale controlla, durante la gravidanza, se il prodotto è buono o, in caso contrario, se va abortito in quanto insoddisfacente rispetto alle aspettative dei committenti».
La maggior parte delle madri surrogate proviene da mondi poveri. Si corre anche il pericolo di favorire l’eugenetica? Quasi sempre gli ovuli selezionati appartengono a donne bianche, caucasiche, dotate di precise caratteristiche estetiche.
«C’è razzismo e classismo in questo mercato. Poiché le spese sono tante e il prodotto finale risulta molto caro, gli acquirenti sono per lo più coppie bianche ricche che commissionano un figlio che abbia caratteristiche somatiche simili a loro. Di qui l’importanza della donna che fornisce l’ovulo, al quale trasmette il suo patrimonio genetico: una donna bianca, possibilmente sana e bella, magari con gli occhi azzurri. In Europa sono predilette le giovani dei paesi dell’est, soprattutto le ucraine. La madre surrogata, detta “portatrice gestazionale” dal linguaggio delle agenzie, invece, può essere di qualsiasi colore perché non trasmette al bambino il suo patrimonio genetico. Viene perciò arruolata tendenzialmente fra le donne in difficoltà economica dei paesi poveri, che hanno bisogno di soldi e che con il compenso possono migliorare le condizioni di un’intera famiglia, comprese quelle dei figli che hanno già. Ovviamente, il fatto di far crescere nel proprio utero un embrione che ha un diverso patrimonio genetico provoca un rigetto, così come avviene per qualsiasi trapianto dell’organo di un estraneo. Tale processo deve perciò essere monitorato attraverso una pesante medicalizzazione della gestante. È bene aggiungere che le donatrici di ovulo sono talvolta giovani studentesse dei paesi ricchi che così si fanno un gruzzoletto da spendere per i loro capricci».
Molte teoriche del transfemminismo oggi giubilano addirittura al pensiero di un utero artificiale. Hanno smarrito il senso profondo della lotta femminista?
«“Il corpo è mio e me lo gestisco io” era uno slogan contro le interferenze delle istituzioni che pretendevano di gestire e regolamentare il corpo delle donne. Ora, affittare il proprio utero significa precisamente consegnare il proprio corpo a un’istituzione esterna, ossia alle agenzie del mercato procreativo. Siamo dunque di fronte a uno scenario esattamente all’opposto. Quanto all’utero artificiale, è un vecchio sogno maschile che troviamo già nel mito greco. Alcune femministe sono arrivate a sognare lo stesso sogno per liberare le donne da una funzione procreativa che le ingabbierebbe nel biologico. Io tuttavia non considero affatto il biologico come una gabbia, anzi, rivaluto l’esperienza della maternità come contatto diretto, complicità, con la natura in quanto processo rigenerativo delle molteplici forme di vita».
(Avvenire, 22 giugno 2025)
da il manifesto
A proposito del volume curato da Daniela Finocchi e Luisa Ricaldone per Iacobelli editore
In questi giorni scossi dalle tempeste dei padroni del mondo, che si fanno vanto delle guerre ai senza diritti e senza parola e impongono una nuova, scellerata corsa agli armamenti fino a parlare apertamente di scontri nucleari, è da accogliere con cura ogni gesto, ogni riflessione che si dedichi alla forza della pace contro la pace della forza, come Pagine di pace. Pensieri, scritti, pratiche di donne (Iacobelli editore, pp. 208, euro 17,50), ultimo esito della lunga collaborazione tra le femministe Luisa Ricaldone, già presidente della Società italiana delle letterate e Daniela Finocchi, ideatrice tra l’altro del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, dal cui Gruppo di studio trae origine proprio il volume, che raccoglie tredici interventi: Beate Baumann, Lorena Carbonara, Elisabetta Catamo, Adriana Chemello, Giuseppina Corrias, Daniela Finocchi, Valeria Gennero, Cristina Giudice, Claudiléia Lemes Dias, Natalia Marraffini, Rahma Nur, Elena Pineschi, Betina Lilián Prenz, Luisa Ricaldone.
È per certi aspetti paradigmatico della posizione delle letterate femministe, espressione della consapevolezza di quella cultura circa l’interconnessione dell’insieme sociale e naturale: «Uno sguardo al femminile sui conflitti – scrivono le due curatrici – sulla ferocia della guerra, sull’odio vendicatore coinvolge diverse dimensioni della vita, della società, dell’essere: dalla violenza del linguaggio alla nozione di libertà, dalla giustizia astratta alle responsabilità affettive, ai modi di salvaguardare la pace o crearne le premesse». Da qui la necessità teorica e pratica di attraversare gli specialismi: «L’importanza di interrogare le opere delle scrittrici, delle artiste, delle ribelli, delle visionarie riteniamo sia un’azione importante e necessaria, non certo per trovare risoluzioni definitive, ma per offrire spunti di riflessione altri. Ecco così che un gruppo di studiose e scrittrici italiane e (non più) straniere mettono a confronto prospettive letterarie e artistiche sull’esperienza delle donne nei conflitti e le possibili strategie per superarle. Letteratura, cinema, arte, politica, ambiente sono alcuni degli ambiti di riferimento in cui si muovono gli interventi».
Nella ricchezza dei materiali offerti dalle differenti “pagine”, almeno due sono gli elementi sorgivi che sotterraneamente li attraversano e alimentano.
Il costitutivo “partire da sé”, che in questo versante pratico-teorico è subito un sé “differente” e storicamente non sottomesso, è il nodo fondo su cui convergono i complessi e talvolta contraddittori legami privati e pubblici, individuali e collettivi, umano-sociali e naturali, i cui fili vanno risaliti, nominati, messi alla prova, rivoluzionati secondo una nuova logica antipatriarcale. L’altro motivo fondamentale è la messa a nudo di come la posizione patriarcale, non riconoscendo la differenza, ricorra costitutivamente alla forza per imporre ed espropriare e come, proprio per questo, se ne faccia motivo di vanto e di esaltazione. Maschilismo, diritto della forza, dominio dell’utile, disconoscimento dell’ambiente naturale, nazionalismo, colonialismo, militarismo, guerra sono esiti diversi di un’unica concezione. La società capitalistica si mostra ambiente ideale per lo sviluppo di tale logica.
Splendide, a tale riguardo, sono le parole scritte nel 1943 dalla non innocentemente dimenticata statunitense Pearl S. Buck, premio Nobel per la letteratura, attentamente commentate da Valeria Gennero: «Coloro che nutrono pregiudizi razziali sono portatori di germi di fascismo. Coloro che vorrebbero costruire un grande potere commerciale internazionale nelle mani di pochi a spese del popolo sono portatori di germi di fascismo. Coloro che sognano l’America come prossima grande potenza imperialista sono portatori di germi di fascismo. Tutti coloro che segretamente o apertamente disprezzano i diritti degli esseri umani sono portatori di germi di fascismo. Sono questi che dobbiamo scoprire e privare del loro potere».
L’irresistibile eco profetica che la lettura odierna dà loro è in realtà conseguenza del fatto che i padroni del mondo sono pronti a far affiorare la permanente natura profonda del capitalismo solo nelle congiunture di pericolo o, all’opposto, quando hanno vinto la loro guerra di classe.
Di grande interesse anche lo sguardo anti-antropocentrico di queste Pagine, attente al prendersi cura del vivente non umano, ricorrendo, magari, allo sguardo decentrato di civiltà periferiche, che smascherano la funzione predatoria anche di certa “buona coscienza” ecologica: «La giusta necessità di usare fonti rinnovabili diventa il pretesto per appropriarsi di luoghi considerati vuoti – osserva Cristina Giudice – per questo si sono progettati campi smisurati per l’energia eolica», ma, denuncia l’artista sami Matti Aikio, da lei commentata, sono invece luoghi di percorso delle migrazioni delle renne che così vengono disorientate con effetti spesso tragici, che si ripercuotono poi sull’intero equilibrio umano-ambientale.
da L’Altravoce Il Quotidiano
Annie Ernaux, Premio Nobel 2022, è una delle più grandi scrittrici del nostro tempo i cui libri in Italia sono stati tradotti e pubblicati solo a partire dal 2011 grazie a Lorenzo Flabbi e all’allora piccola casa editrice L’Orma. L’ultimo suo libro, “La scrittura come un coltello”, è una lunga intervista a lei dello scrittore franco-messicano Frédéric-Yves Jeannet, realizzata nel corso di un anno (2001-2002) via mail. Un dialogo a distanza sulla “pratica di scrittura”, sui libri pubblicati, sulla donna Ernaux, femminista di sinistra radicale, che non si pensa «mai come scrittrice, soltanto come qualcuno che scrive, che deve scrivere» perché ne sente la necessità e il desiderio. «Non aver fatto della scrittura il mio mestiere, non aver bisogno di pubblicare in fretta: posso prendermi il tempo di assecondare il mio desiderio». Scrivere a partire dal proprio desiderio la rende libera. «Molto presto mi sono resa conto che avrei potuto scrivere solo nella più completa libertà. Se ho potuto proseguire è perché ho conservato il mio lavoro di insegnante». L’interlocuzione con lo scrittore diventa un «esame di coscienza letteraria» che le dà la consapevolezza di «scrivere per incidere come la lama di un coltello nella realtà del mondo, per sovvertire con le parole le visioni dominanti» perché scrivere, per lei, è un’«attività politica», ossia «qualcosa che può contribuire al disvelamento e al cambiamento del mondo, oppure, al contrario, rafforzare l’ordine sociale e morale esistente». Una scrittura, la sua, tra «letteratura autobiografica, sociologia, storia» che fuoriesce dai canoni letterari della finzione e della ricerca del bello e fa della memoria «non quella ufficiale ma quella che ciascuna di noi costruisce semplicemente vivendo» un “documento storico” e delle sensazioni provate una fonte di realtà e verità. «Tutto – le persone, me stessa, le mie idee – mi appare, ed è, storia». «Il mio metodo di lavoro si basa essenzialmente sulla memoria che è “materiale”, mi riporta alla mente cose viste, udite, gesti, episodi con la massima precisione. Sono il materiale dei miei libri e le “prove” stesse della realtà. Cerco di produrre la sensazione di cui, per me, sono portatori l’episodio, il dettaglio, la frase. Questo vuol dire che la sensazione è un criterio di scrittura, un criterio di verità». Salvare dall’oblio «esseri e cose» di cui è stata «attrice, fulcro o testimone, in una società e in un tempo specifici» è la grande motivazione che la spinge a scrivere, un modo per salvare la sua stessa “esistenza”. Tutto ebbe inizio quando da bambina leggeva i romanzi a puntate sull’“Écho de la mode” e scriveva lettere a un’amica immaginaria, seduta sui gradini della scala, nella cucina stretta tra il bar e la drogheria dei suoi genitori. Il dialogo tra la scrittrice e il suo interlocutore procede immergendosi nei suoi libri pubblicati fino ad allora quali: “Gli armadi vuoti”, “Ciò che dicono o niente”, “La donna gelata”, “Il posto”, “Una donna”, “La vergogna”, “L’evento” “Non sono uscita dalla mia notte”, “Perdersi”, “Passioni semplici”, “L’occupazione”. Poi, ha continuato a scrivere e pubblicare senza essere «in rottura con i precedenti», ma esplorando «altri territori». “Gli anni” e “L’altra figlia” sono i due libri pubblicati dopo l’intervista e tradotti e pubblicati in Italia, a distanza di anni. È vero, come lei dice nell’intervista che «ci sono, e questo solo conta, libri che sconvolgono, aprono la mente, generano pensieri, sogni e desideri, ci accompagnano, e a volte fanno venire voglia di scrivere», come i suoi libri, che vanno letti e conosciuti. È questa la motivazione che mi ha spinta a decidere di riservare questa rubrica, a partire dalla prossima settimana e per tutta l’estate, ad alcuni dei suoi libri che mi/ci accompagneranno sotto l’ombrellone.
(L’Altravoce Il Quotidiano, rubrica “Io, donna”, 21 giugno 2025)
da il manifesto
Il 26 giugno saremo in ogni territorio con una mobilitazione diffusa per amplificare voci che si oppongono alla guerra, per creare spazi di confronto, pensiero e azione. Perché la pace non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire insieme – qui e ora.
Siamo donne attive in molte città italiane, da nord a sud, impegnate nei movimenti per la pace, il disarmo, la giustizia sociale e ambientale.
Da questo impegno condiviso nasce UNO SPAZIO POLITICO AUTONOMO E FEMMINISTA che intreccia territori, saperi e pratiche di resistenza alla guerra e alla cultura della violenza. Una trama plurale, in divenire, radicata nei luoghi e capace di visione, che riconosce nell’esperienza delle donne – nei corpi che si mettono in gioco, nelle parole che si sottraggono alla retorica del nemico e ai linguaggi del patriarcato – una forza di trasformazione.
Viviamo un tempo in cui la guerra viene normalizzata, giustificata, persino celebrata. La violenza bellica è tornata a essere linguaggio ufficiale delle relazioni internazionali, strumento di potere, fondamento dell’economia globale.
Ogni giorno nella Palestina sotto occupazione e assedio siamo di fronte a ciò che Stéphanie Latte Abdallah ha definito FUTURICIDIO: la distruzione sistematica di esseri umani, delle condizioni minime per vivere, immaginare un domani, tramandare memoria e speranza. Ogni giorno assistiamo alla devastazione di vite e territori in Ucraina, all’estensione della guerra in Iran, così come al protrarsi di conflitti dimenticati in Sudan, Congo, Siria, Yemen, Myanmar e in molte altre aree del mondo. Guerre diverse, ma con radici comuni: una politica fondata sul dominio, sullo sfruttamento delle risorse e sull’indifferenza verso la vita umana e del pianeta.
A questa logica opponiamo pensieri e pratiche di pace. Rifiutiamo la semplificazione binaria dell’amico/nemico, la retorica dell’intervento armato, l’idea che la pace possa essere imposta con le armi. La guerra non è un’eccezione: è un dispositivo strutturale di potere, parte integrante di un sistema economico e politico che trae profitto dal disastro e dalla paura. «La forza è ciò che fa di chiunque le sia sottomesso una cosa», scriveva Simone Weil, e questo processo di spossessamento, che colpisce i corpi e le vite lo vediamo accadere ogni giorno, in ogni area dia guerra, ma anche nelle nostre città, dove il linguaggio bellico invade la politica, l’informazione, la scuola, la cultura.
Denunciamo l’ideologia della forza, la militarizzazione delle istituzioni, l’espansione dell’industria bellica, l’asservimento della politica estera e dei media a una narrazione che semplifica, censura,
distorce. Come sosteneva María Zambrano, infatti, può dirsi veramente umana solo una politica capace di ascoltare il pianto. Una politica che non rimuove il dolore, che non sacrifica le vite in nome della patria o della sicurezza, ma che sceglie la responsabilità, la cura, la giustizia.
In questa oscurità, come SPAZIO DI DONNE IN RELAZIONE E COSTRUZIONE COLLETTIVA, cercheremo di ascoltare, interrogare, dissentire, riaprire le domande che la guerra tenta sempre di soffocare, a partire dalla convinzione che sia necessario un IMPEGNO PER UNA TRASFORMAZIONE PROFONDA per smilitarizzare la società e le menti, per ridare senso alla convivenza.
La data del 26 giugno è stata scelta per rientrare nella settimana di mobilitazione europea indetta da Stop ReArm Europe.
FUORI LA GUERRA DALLA STORIA!
*Per adesione* scrivere a:
donnecontroguerra.pinerolese@gmail.com
ADESIONI (in via di aggiornamento):
Presidio di donne per la Pace Palermo / Presidio di donne per la Pace Caltanissetta / Donne contro ogni guerra – Gruppo del Pinerolese / Associazione La Città Felice – Catania / La Ragna Tela – Catania / UDI Siracusa / UDI Reggio Calabria / Coordinamento Donne CGIL – Catania / Donne catanesi per la Pace – Catania / Associazione CRIS Centro di Ricerca e Intervento Sociale – Perugia
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da il manifesto
Il dibattito in corso sul “fine vita”, e sul suicidio assistito in particolare, sembra attraversato da un grande equivoco, come se il punto fosse quello di dirimere il contrasto fra due diritti incompatibili fra loro: il diritto alla vita, da una parte, il diritto alla morte dall’altra. Come se questo, semplicemente, dovesse fare una legge sul suicidio assistito: stabilire se a dover prevalere sia, in assoluto, l’uno o l’altro di tali diritti. Come se fossero queste, semplicemente, le domande da rivolgere alla legge, da una parte o dall’altra: esiste, e va tutelato, un diritto a morire? Oppure: esiste, e va tutelato, un diritto alla vita? E come se, infine, fossero semplicemente queste le domande alle quali ha risposto la Corte costituzionale nelle due sentenze del 2019 e del 2024, cui ora la legge dovrebbe dare seguito.
In realtà le questioni in gioco, e le domande, sono altre, molto più articolate: in gioco non è la libertà di vivere o morire, e tantomeno una libertà assoluta, senza limiti; né il punto è quello di decidere una volta per tutte, attraverso una legge, se la vita debba avere la meglio sulla morte o la morte sulla vita. In gioco, piuttosto, è il mistero tanto della vita quanto della morte, e la sua insondabilità. Solo la morte, ha scritto Tolstoj, ci rivela finalmente a noi stessi, ed è appunto questo il senso della frase: che ognuno di noi è un mistero per sé stesso, ancora prima che per gli altri. Quello che può fare la legge, allora, è riconoscere questo diritto al mistero e proteggerne l’insondabilità, piuttosto che pretendere di scardinarlo autoritativamente. Qui, proprio qui, risiede l’importanza delle due sentenze della Corte costituzionale: nell’aver fissato dei princìpi rispettosi del mistero, e dunque tanto di un diritto alla vita quanto di un diritto alla morte, della sacralità di entrambi. Senza assolutismi, senza dogmatismi; in ultima analisi, senza soprusi nei confronti del diritto di ciascuno di coltivare dentro di sé l’idea della vita e della morte che meglio corrisponda alla propria sensibilità, o alla propria visione del mondo.
Cos’ha stabilito la Corte, in quelle due sentenze? Lo sappiamo: ha stabilito che il suicidio assistito, pur vietato nel nostro ordinamento, può tuttavia essere ammesso a quattro condizioni. Vale a dire: a condizione che la persona che chiede di essere aiutata a morire sia «affetta da una patologia irreversibile» (prima condizione) che sia «fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili» (seconda condizione) e sia «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale» (terza condizione), salvo dover essere «capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (quarta condizione). E tutto si può dire, come si vede, meno che, in questo modo, la Corte abbia voluto pronunciare parole definitive. È vero il contrario: e proprio per questo, infatti, ci si può spingere a dire che le due sentenze, oltre che così importanti, sono anche bellissime. Dove la loro bellezza consiste nell’aver inscritto la fragilità della vita dentro una norma, riconoscendone la dignità d’essere anche nel momento più estremo. Naturalmente a non essere mai bello è il dolore; ma la bellezza può consistere nel riuscire ad accoglierlo, a comprenderlo, a compatirlo. A farlo anche proprio.
Ecco, questo dovrebbe fare ora la legge (come la legge dovrebbe fare sempre, del resto): essere capace, umanamente, della medesima compassione. Saper includere il limite, e saper dichiarare, di là da quel limite, anche una resa. «C’è un limite a quello che ciascuno di noi considera sopportabile e c’è una capacità di adattamento che consente talvolta di spostarlo oltre», ha osservato Giada Lonati, medica palliativista, in un libro pieno di sensibilità e delicatezza dedicato alle storie di alcune delle persone che la stessa Lonati ha accompagnato nei tratti finali delle loro vite (“L’ultima cosa bella”): «Poi per qualcuno di noi c’è una soglia superata la quale non ha più senso tollerare alcuna sofferenza. È come se il peso sulla bilancia si spostasse: fin qui era ancora accettabile, da qui in avanti non lo è più. E il confine lo stabilisce ogni essere umano per sé».