«Il linguaggio non è solo un’istituzione sociale o uno strumento di comunicazione, ma anche un elemento centrale nella costruzione delle identità, individuali e collettive. La lingua italiana è una lingua sessuata, che già dalla sua grammatica riproduce e istituisce un rigido binarismo di genere (tra nomi, pronomi e aggettivi che cambiano a seconda se maschili o femminili) e una specifica gerarchia, in cui predomina il maschile, presentato come universale e neutro. In questo Piano abbiamo scelto di svelare la non neutralità del maschile utilizzando non solo il femminile, ma anche la @ per segnalare l’irriducibilità e la molteplicità delle nostre differenze. Consapevoli che le lingue mutano e si evolvono, proviamo a rendere il nostro linguaggio inclusivo per avere nuove parole per raccontarci e per modificare i nostri immaginari.»

Con queste parole si apre il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere che abbiamo prodotto in un anno di assemblee nazionali suddivise in tavoli che prendevano in esame diversi aspetti della violenza. Un Piano costruito in lunghe discussioni collettive, in cui il linguaggio è stato uno dei temi più trasversali: quali parole utilizzare per raccontarci? Quali scegliere per le nostre proposte?

Siamo consapevoli, infatti, che il linguaggio “ci” parla, tanto quanto noi parliamo una lingua: in questo senso le parole che usiamo e le forme che scegliamo danno linfa e nutrimento ai nostri immaginari. Parliamo un linguaggio che non abbiamo scelto, che si è sedimentato in millenni di pratiche linguistiche, ma su cui possiamo intervenire, nella costante ricerca di una lingua che sappia raccontare noi e le nostre vite. Per questo ci siamo interrogate a lungo sulle parole da usare nel nostro Piano, a partire dal titolo che ricorda che siamo femministe, ma anche che la violenza è maschile, intendendo con questo termine un maschile egemonico che dà forma anche alla violenza di genere, una violenza che colpisce chiunque si discosti dalle norme binarie dei generi.

I linguaggi che usiamo, però, non sono solo le parole, ma anche le immagini (e quando si parla di violenza diventa molto evidente, ad esempio con le immagini di coppie felici dopo i femminicidi) e i nostri corpi. Non è un caso che in Consiglio comunale a Milano, mentre si discuteva della mozione di Amicone contro la 194, sia stato il silenzio delle ancelle a scatenare rabbia e reazioni scomposte. I nostri corpi, forti e autodeterminati nelle piazze e nelle strade, sono già un segno, un linguaggio che cambia e che trasforma noi e il mondo circostante.

Proprio per questo i media rappresentano un duplice problema per Non Una Di Meno: da un lato per come i media raccontano, o meglio non raccontano, il movimento transfemminista, rendendo invisibile questa trasformazione; dall’altro per come raccontano la violenza di genere, narrazione che nel Piano abbiamo definito “tossica” perché ripropone e rinforza la narrazione patriarcale della violenza (“la vittima se l’è cercata”, “è stato un raptus di follia/gelosia/ira”, “lui era una brava persona”, “lui aveva problemi economici/di dipendenza”, ecc.).

La critica alla narrazione mediatica della violenza è un punto che abbiamo ampiamente trattato nel piano femminista, quello che si può aggiungere qui è una breve analisi di quanto è accaduto dopo la pubblicazione del piano, ossia il fenomeno del #metoo in Italia e la nostra esperienza diretta come soggetto politico.

Il #metoo è stato raccontato dai media italiani come se si trattasse di un caso individuale, quello di Asia Argento, che in questo modo ha subito una pesante rivittimizzazione e colpevolizzazione. Questo tipo di racconto non ha incentivato ulteriori denunce, o comunque l’emersione in altre forme del fenomeno della violenza sui luoghi di lavoro. Il #metoo dilagato sui social, anche nella versione italiana #quellavoltache, è stato sostanzialmente ignorato. La denuncia collettiva delle attrici «Dissenso comune» è arrivata con molto ritardo e ha preso parola contro il sistema, senza fare alcun nome specifico. Caso dunque molto diverso, quello italiano, rispetto all’equivalente fenomeno americano. Accanto alla fatica delle donne di prendere parola, sembra esserci un paese talmente assuefatto allo scambio sessuo-economico da considerarlo una cosa normale e una stampa in cui ancora prevale uno sguardo e un racconto maschilista.

Non Una Di Meno ha scelto di lanciare l’hashtag #wetoogether, al posto del #metoo, proprio per inventare una nuova parola che rendesse conto della necessità di farsi forza collettiva. La presa di parola individuale è stata ed è dirompente, capace di far crollare ipocrisie e facciate con la potenza della narrazione di sé, ma allo stesso tempo abbiamo sentito il bisogno di uno spazio di reazione comune. La società neoliberista nella quale ci troviamo a vivere, infatti, costantemente riproduce individualismo, enfatizzando la prestazione e spingendo ognuna di noi a farsi imprenditrice di se stessa, in una costante competizione in cui il fallimento è sempre una responsabilità individuale. In questo processo solipsistico il neoliberismo ha sussunto anche una parte del femminismo, raccontandolo e trasformandolo nell’esaltazione di un girl power che ancora una volta riguarda le singole e la loro capacità di farsi avanti, senza nessuna analisi strutturale. Per questo, con #wetoogether, abbiamo provato a raccontare non solo le forme di violenza subite, ma anche le resistenze agite insieme, costruendo alleanze che sappiano farci più forti per percorrere la strada di cambiamenti strutturali.

Ed è anche per questo che rivendichiamo la necessità di una postura intersezionale, che sappia farci vedere le trame intricate delle oppressioni che subiamo per saperle districare meglio. Vogliamo trovare parole che sappiano raccontare la molteplicità delle nostre vite, per fare davvero delle nostre differenze una forza che ci permetta di avere strumenti di liberazione più efficaci, senza il rischio di cancellare dei pezzi di noi stesse o delle altre.

Per quanto riguarda l’esperienza diretta come movimento politico che viene raccontato dai media, possiamo dire che, nonostante il miglior trattamento che ci riservano oggi i mezzi di comunicazione rispetto all’inizio del percorso di Non Una di Meno, diversi problemi ancora permangono. La carta stampata resta una roccaforte inespugnabile: è molto difficile che i maggiori quotidiani nazionali parlino del movimento, se non relegandolo in uno spazio marginale. Inoltre sono articoli che finiscono nella sezione cronaca locale oppure “costume e società”: Non Una di Meno non viene considerata un fenomeno politico e dei contenuti che porta in piazza si parla molto poco. Situazione migliore con il giornalismo online, su cui riusciamo ad avere più spazio e che ha iniziato a parlare anche dei contenuti politici del movimento. I servizi al TG sono altalenanti: la manifestazione del 24 novembre è stata coperta da tutti i telegiornali ma il TG3, che di solito fa dei buoni servizi, ha raccontato la manifestazione senza mai nominare Non Una Di Meno, ossia chi quel corteo l’ha organizzato e fatto vivere.

La scarsa considerazione e la svalutazione riservata al movimento femminista, quando non la sua cancellazione vera e propria, hanno fatto da subito sorgere nel movimento l’esigenza di autonarrarsi. I social networks sono gli strumenti che utilizziamo per veicolare i nostri contenuti politici e le nostre immagini, perché non si tratta solo di usare le parole giuste, ma anche di scegliere immagini e video che restituiscano la ricchezza delle nostre manifestazioni e azioni politiche. I social sono anche uno dei canali attraverso cui facciamo rete e costruiamo la partecipazione alle nostre iniziative. Pur consapevoli delle sue contraddizioni, è innegabile che la rete ci abbia fornito la possibilità di comunicare in tempo reale nonostante le distanze e anche degli strumenti per lavorare in modo collettivo e condiviso fino a qualche anno fa impensabili.

Certo, molto di tutto questo è già stato fatto, ma crediamo che rifare sia parte della storia delle generazioni politiche, un processo di ricostruzione in cui le esperienze già fatte delle altre diventano preziose proprio nel momento in cui ci si trova a dover rivivere situazioni simili in contesti mutati. Non abbiamo ancora trovato le parole giuste, forse, ma il lavoro stesso di cercarle ci permette di scoprire nuovi modi di raccontarci, di tessere legami e di darci spazio, in un corpo a corpo con la lingua e con le narrazioni su di noi che diventa un abbraccio a noi stesse e alle altre.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, La parola giusta ha in sè il potere della realtà del 2 dicembre 2018

Inizio da un testo di Bia Sarasini scritto per «Alternative per il socialismo» nella primavera 2017, che pubblichiamo nell’allegato “Per Bia” nel prossimo numero di Leggendaria, Trans/Scritture. Si intitola «Se le donne si mettono in marcia. Nuova politica ed elaborazione del lutto». Scriveva Bia: «Cortei imponenti si aggirano e occupano le strade del mondo, e invece di suscitare entusiasmi e adesioni, risultano del tutto invisibili. Al meglio fraintesi, spesso osteggiati e criticati. Sarà perché all’origine si tratta di mobilitazioni femministe?».

Mi colpisce come la sua analisi sia ancora attualissima. La sua domanda essenziale, infatti, è: Perché solo alle iniziative femministe negli ultimi mesi riesce di mobilitare il popolo, di mostrare forza, con obiettivi di sinistra? Questa sarebbe la domanda da porsi, un interrogativo a cui si preferisce sfuggire, tra denigrazioni, slittamenti, sottovalutazioni.

È infatti sul terreno del racconto, della comunicazione che si esercita la lotta per l’egemonia, sulla storia che viene raccontata, su chi sono le/gli interpreti, quali le immagini e i video mostrati, quali le parole e gli obiettivi. È una lotta che si gioca tra media mainstream, come tv e carta stampata, e social dall’altra parte. La differenza la fanno le risorse disponibili, ovviamente, ma non solo.

I fatti: si parte da Black Monday, l’imponente mobilitazione in Polonia, il 3 ottobre 2016, contro la minacciata proibizione della possibilità di aborto, in un paese che ha già una legge vergognosa, un evento ignorato dalla stampa italiana, per proseguire poi con la manifestazione romana del 26 novembre del 2016 (250mila persone in corteo), che pure ottiene scarsa visibilità sui media.

La Women’s march on Washington del 21 gennaio 2017 è un evento impossibile da ignorare con 3 milioni di persone coinvolte in Usa, 2 milioni nel mondo. Allora si fa un gioco diverso: si minimizza, facendo colore sui pussy-hat (i berretti di lana rosa fatti a mano per via dell’orribile battuta di Trump “Grab her by the pussy”), sulle battute di Madonna, puntando sulle celebrities, ma ignorando contenuti, obiettivi, preparazione e discussione. Roberto Saviano, su La Repubblica del giorno dopo scriveva: «Le manifestazioni contro Trump hanno avuto un sapore antico, d’archivio […] Slogan del passato compressi nella versione tweet», mentre i titolisti hanno rincarato la dose: «Se va in piazza l’America vecchia. La protesta delle donne ha un sapore antico»…

Vediamo come questa analisi vale anche oggi. Prendiamo la manifestazione romana organizzata da NonUnadiMeno il 24 novembre scorso e vediamo due esempi di media mainstream (e non di destra): il Corriere della Sera e Repubblica. Il Corriere mette in prima pagina uomini e donne famosi (da Mara Carfagna a Salvatore Esposito) con sul viso il segno rosso di adesione alla campagna contro la violenza e nelle due pagine interne intervista Luca Barbarossa per la canzone L’amore rubato e il colonnello Fabio Federici, co-autore di Menti insolite. Radiografia di cinque femminicidi, oltre alla cugina di Maria Schneider e alla filosofa Nicla Vassallo. Sulle due facciate c’è la foto del corteo dove si vede lo striscione ma non la folla (perché non c’è ripresa dall’alto), mentre non viene mai data la parola a chi manifesta. Più aderente alla realtà La Repubblica con una piccola foto del corteo in prima pagina che lascia intravedere la quantità di manifestanti, foto ripresa all’interno con il titolo «La violenza dei padri. Sei donne su dieci colpite davanti ai figli». Anche qui manca però una riflessione sulla forza della mobilitazione: si parla dei 106 palloncini liberati nel cielo a ricordo delle vittime, si riferisce la polemica su chi abbia destinato i 33 milioni ai centri anti-violenza ma non si cita il numero impressionante delle manifestanti (150mila, sotto la pioggia), né si dà loro la parola.

Condivisibile la riflessione di SeNonOraQuando Factory che si rivolge ai direttori delle testate italiane con un appello forte: «Vi siete accorti della grandezza di quella manifestazione, della sua rilevanza politica, della sua potenza, della sua capacità di mobilitare una marea di persone, nella stragrande maggioranza donne?». E prosegue: «Siamo la voce principale del dissenso. Si parla sempre, o comunque tanto, di noi in relazione alla violenza che subiamo. Ma la cancellazione di noi nel racconto, nelle cronache è già violenza». Un’irrilevanza che incide sulla stessa autostima delle donne. Perché come scrive Alda Merini: «Dovrei chiedere scusa a me stessa per non aver creduto di essere abbastanza».

Certo, i settimanali danno più spazio alla riflessione: dall’Espresso («Quello che le donne dicono») a Venerdì Sette che descrivono con grande rilievo la “carica delle donne” nelle elezioni mid term americane del 6 novembre scorso. Ma parlare dell’America è più facile…

A proposito di differenza fra la stampa americana e quella italiana, vale la pena di esaminare il modo del tutto differente in cui si parla della rivoluzione del #Metoo. Sappiamo tutte/i che sono proprio due giornaliste del New York Times il 5 ottobre 2017 a dare il via alle accuse a Harvey Weinstein, seguite dal celebre reportage di Ronan Farrow, mentre il Time mette in copertina le 5 “Silence breakers” (Ashley Judd, Susan Fowler, Adama Iwu, Taylor Swift e Isabel Pascual) come persona dell’anno e l’Economist definisce il MeToo la forza più dirompente dai tempi delle lotte per il suffragio femminile.

A distanza di oltre un anno l’attenzione della stampa americana non accenna a diminuire e il New York Times del 23 ottobre 2018 presenta una mappa dettagliatissima con i profili di 201 uomini potenti licenziati per le accuse di abusi e molestie e sostituiti nel 43 % dei casi da donne: ecco chi sono. E non manca l’elenco di tutti i 920 uomini, attori hollywoodiani, ma anche tantissimi politici, senatori e deputati, e poi magistrati, manager, direttori editoriali, produttori cinematografici, giornalisti, sceneggiatori, architetti, ristoratori, ballerini, ecclesiastici… che sono stati coinvolti in simili accuse.

E i giornali italiani? La stampa mainstream da noi registra inevitabilmente lo scalpore del movimento #MeToo ma con modalità differenti e abbastanza peculiari. Concede cioè moltissimo spazio ai casi singoli con spreco di voci a favore o critiche, e spesso un corredo irritante di gossip, foto, interviste, apparizioni televisive, ma si sbilancia raramente in analisi approfondite. E soprattutto si chiede con insistenza se il MeToo rappresenti davvero un cambiamento radicale, arrivando talvolta a decretarne il fallimento o in ogni caso relegandolo a una bizzarria molto americana, esasperata dagli eccessi del politicamente corretto e da un puritanesimo dilagante.

E non parliamo della stampa di destra, che non perde l’occasione di dare ampio spazio alle voci critiche del movimento, da Melania Trump a Woopi Goldberg.

Naturalmente esistono delle eccezioni, ma sono sistematicamente ignorate iniziative come Dissenso Comune, la lettera-manifesto firmata da oltre 120 attrici, registe, produttrici e donne del mondo dello spettacolo contro l’attuale sistema di potere, o l’hashtag «Quella volta che», lanciato da Giulia Blasi 3 giorni prima del #MeToo americano, che ha raccolto in poco tempo migliaia di testimonianze di lavoratrici molestate (ne ha parlato tempestivamente e diffusamente solo il blog la 27esima Ora).

In cambio, ampio spazio viene dato alle polemiche, meglio se coinvolgono celebrities, da Catherine Deneuve a Brigitte Bardot e ogni volta si decreta la morte annunciata e/o il fallimento, probabilmente desiderato, del MeToo. Così il 14 ottobre 2018 Antonio Polito, editorialista e vice direttore del Corriere della Sera, ci spiega «Perché il MeToo fallisce», chiarendo che il movimento non sta davvero cambiando le relazioni tra uomini e donne (sarebbe stato un vero miracolo, dopo tremila anni di storia!). E anche se le punizioni esemplari, che hanno colpito uomini potenti, sarebbero state inimmaginabili sino a pochi anni fa, «la bufera ha riguardato quasi solo gente dello spettacolo», ma non ambiti professionali e luoghi di lavoro meno glamour. Poi, si tratterebbe di una storia troppo americana, che ha avuto grande audience ma finora pochi imitatori. Affermazioni azzardate e superficiali, che restano intrappolate in una visione densa di pregiudizi, prigioniera degli stessi gossip così amati dalla stampa italiana: che dire, ad esempio, dei ristoratori come dei volontari di Ong coinvolti negli scandali (ambienti glamour?), o del seguito mondiale del movimento, che non si è soltanto diffuso in Europa (con #BalanceTonPorc, in Francia, e #Quellavoltache in Italia) ma ha raggiunto l’India, e poi la Cina con l’hashtag WoYeShi, e persino il Pakistan con il movimento #UnbanVerna, togliete il veto su Verna, film bandito in quanto affrontava la ribellione di una donna a uno stupro. Ed è arrivato a lambire l’Islam con la campagna #MosqueMeToo, lanciata all’inizio di febbraio dalla femminista e giornalista egizio-americana Mona Eltahawy, che per prima ha denunciato la sua esperienza di molestie sessuali durante il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca. Tutto questo viene ignorato dalla stampa mainstream. Come mai? La domanda infatti è: perché in Italia dove quasi 1 milione e mezzo di donne subiscono molestie o abusi durante la loro vita lavorativa, il MeToo è stato monopolizzato dalla vicenda di Asia Argento?


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La parola giusta ha in sè il potere della realtà, del 2 dicembre 2018

Questo incontro ha un titolo impegnativo, che ci introduce a vedere, attraverso le parole di Mary Daly, tutta la politicità e la forza trasformativa che la lingua porta con sé. A tema oggi il linguaggio come questione politica: il nostro e quello dei mass-media. Come parliamo noi delle donne e della politica delle donne e come ne parlano i mass-media. Le due cose sono intrecciate.

Su questo tema abbiamo trovato vicinanze:

– con le amiche di Non una di meno, che nel loro Piano alla sezione Libere di narrarci affrontano direttamente la questione delle narrazioni tossiche e sessiste dei mass-media «che riproducono una cultura di violenza diffusa». Silvia e Carlotta operano qui a Milano in questa rete, che, come il #MeToo, ha ampiezza internazionale: dall’Argentina, infatti, si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Dell’agire politico delle femministe di Non una di meno io apprezzo la tempestività, cioè la capacità di esserci appena capita qualcosa. Cito l’ultimo episodio: pochi giorni fa (22-26 nov.) a Milano si sono presentate in consiglio Comunale vestite da ancelle e con la loro presenza hanno ottenuto da parte del consigliere di Forza Italia il ritiro della mozione cosiddetta “pro-vita”. Una vittoria netta. Apprezzo anche il loro desiderio di cambiare in profondità la società in cui viviamo, con iniziative che coinvolgono ogni campo: come si sa hanno dichiarato lo “Stato di agitazione permanente”.

– con le giornaliste dell’associazione GiULiA (acronimo per Giornaliste Unite Libere Autonome) che raccoglie più di mille giornaliste italiane, di cui nomino due pubblicazioni sul linguaggio: Donne, grammatica e media, sull’uso dei femminili nella lingua italiana e Stop violenza: le parole per dirlo. Giovanna Pezzuoli fa parte del direttivo e come giornalista e scrittrice da anni si batte per un’altra narrazione della realtà, soprattutto scrivendo per la 27esima ora.

In Via Dogana abbiamo seguito da vicino la rivoluzione del #Metoo, il nuovo credito dato a livello internazionale alla parola femminile e abbiamo già posto l’attenzione al linguaggio, concentrandoci sul Parlare bene delle donne dopo secolo e secoli d’iniqua maldicenza, per dirlo con le parole di Luisa Muraro in Dire Dio nella lingua materna. Di recente è uscito il Sottosopra in cui Lia Cigarini sostiene che «nel caso del #Metoo è stata finalmente vinta la battaglia della narrazione femminile su quella maschile, battaglia che può fare da spartiacque nella storia del femminismo».

Nell’invito abbiamo scritto che sempre più donne si accorgono che siamo immerse in una cultura misogina e che le parole di Mary Daly ci invitano a trovare di volta in volta le parole giuste capaci di far deperire le narrazioni tossiche per le donne. Io vorrei a commento portare due casi recenti in cui questo è avvenuto.

Il primo riguarda una giudice civile cinquantenne, con vent’anni di esperienza alle spalle: Paola di Nicola. Ha appena pubblicato un nuovo libro che fin dal titolo, La mia parola contro la sua, ci dice che il conflitto tra i sessi si è installato nello spazio pubblico e riguarda la parola e quale parola viene creduta.

Quasi all’inizio racconta che, volendo preparare per un convegno una relazione sulle parole usate nelle sentenze di imputati per reati di violenza contro le donne, è andata a rileggersene alcune sue di anni prima. E con costernazione si è accorta che lei stessa aveva scritto parole che esprimevano una forma di colpevolizzazione della donna che aveva denunciato il marito violento. Lo schema della narrazione misogina corrente, come ben spiega chiamandoli pregiudizi contro le donne, è proprio questo: colpevolizzazione della donna, per esempio con frasi come «se l’è cercata» – che ora torna anche per le volontarie rapite – oppure come «perché hai denunciato tardi?»; e giustificazione dell’uomo, per esempio definendo “raptus” quello che invece dagli atti processuali risulta essere un omicidio premeditato studiato fin nei dettagli.

Da quel momento Paola Di Nicola comincia il suo viaggio di riflessione, di ascolto delle donne, di analisi del linguaggio dei giornali e di tanto altro ancora. Il suo scopo è «disarticolare discorsi spesso unanimemente condivisi» e cambiare le parole con cui si scrivono le sentenze, perché è consapevole che quelle parole hanno un significato che va al di là del singolo caso, e «che conferma o smantella l’ordine simbolico di valori e di rapporti di forza.» Una sua sentenza è comparsa sui giornali di tutto il mondo: quella legata al processo delle cosiddette “baby-squillo”, definizione che la giudice rifiuta perché riveste con parole glamour un atto orrendo di abuso di uomini adulti su quasi bambine. Condanna l’imputato a due anni di carcere e a un risarcimento in libri e film sul pensiero delle donne per un valore di ventimila euro. Paola Di Nicola non vuole certo un «inammissibile indottrinamento» ma la restituzione alla quasi bambina della sua dignità umana di donna «sentendosi a pieno titolo parte di quella ricchezza culturale che le sue madri intellettuali le hanno regalato». A partire da questa sentenza Cinzia Spanò sta allestendo uno spettacolo teatrale dal titolo Tutto quello che volevo.

Di Paola Di Nicola mi preme mettere in evidenza che tutto comincia con la sua presa di coscienza (è questo il passo che non si può saltare) che la porta a trovare le parole giuste che determinano un suo agire politico conseguente.

Secondo caso: le tante voci femminili che hanno smascherato il disegno di legge Pillon sull’affido condiviso. Non sto a commentarlo ché è già molto conosciuto. Voglio solo metterne in evidenza l’aspetto linguistico: le donne non si sono fatte ingannare da “belle parole” e hanno visto la misoginia che celavano. Lo dice esplicitamente Nadia Somma (blog il Fatto quotidiano 12 sett. 2018) in uno dei primi commenti: «Dietro il bell’aspetto della bigenitorialità si cela un’anima oscura e vendicativa». Sul ddl Pillon, ricordo una delle prime trasmissioni di Radio Popolare. Il conduttore, maschio, era quasi imbarazzato perché alle sue orecchie quelle parole suonavano eque, però quando hanno parlato le avvocate che aveva invitato in trasmissione, ha subito creduto alle loro parole e si è fidato. E ben si sa tutto quello che è seguito.

La questione che voglio porre con questi due casi così differenti tra di loro è che trovare le parole giuste si configura come una pratica e come tale sta in un determinato contesto. Non c’è da affezionarsi alle parole – anche a quelle che ci sono più care – ma mettersi in una postura di apertura e decidere situazione per situazione, caso per caso. In ballo c’è una questione di giustizia nei confronti delle donne.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La parola giusta ha in sè il potere della realtà, del 2 dicembre 2018