Il mondo dei social network viaggia principalmente per immagini. Da Facebook a Tiktok, passando per Instagram, le parole scritte sono state via via sostituite sempre di più da foto e video che ci rappresentano nella vita quotidiana, diventando una sorta di biglietto da visita con cui da un lato ci presentiamo agli altri, cercando di mostrarci al meglio, dall’altro andiamo a mettere il naso nelle vite degli altri.

È per questo motivo che sempre più spesso gli spazi virtuali con queste caratteristiche sono considerati luoghi effimeri e privi di contenuti validi, spazi per svagare lo spirito più che momenti di approfondimento e opportunità di sviluppare un pensiero complesso sulle cose.

Eppure, potenzialmente si tratta di strumenti di comunicazione molto importanti perché sono usati da milioni di persone, giovani e meno giovani, e possono diventare un mezzo per far passare pensiero. Sono in pochi a credere che un altro modo per stare nei social sia possibile e anch’io a volte me lo domando. Recentemente ho trovato esempi che qualcosa di diverso può succedere, mi ha molto colpita la pagina Instagram delle Compromesse (@lecompromesse), seguita in meno di un anno da oltre 3.500 follower. Poche sono le fotografie utilizzate eppure i post pubblicati riescono a catturare l’attenzione, molti sono i like e i commenti che aprono alla discussione che si possono leggere sotto i vari post. La pagina ha una forte identità, costruita nel tempo attraverso la pratica quotidiana del gruppo: è evidente che tutto viene ragionato, dall’uso dei colori ai formati che meglio possono mettere in evidenza i differenti aspetti dei post. In questo modo è il contenuto stesso a essere parte dell’immagine, di cui diventa difficile descrivere a parole la potenza, e che cattura l’attenzione dei visitatori della pagina Instagram.

Un contenuto forte che si presenta con una veste grafica accattivante mi pare il presupposto da cui le Compromesse sono partite per il loro lavoro in Instagram. Sono riuscite a mantener viva l’attenzione nel tempo, e lo fanno grazie al loro sguardo femminista, critico e non scontato sulla realtà. Sono loro stesse a raccontare che hanno un confronto serrato tra loro e proprio grazie a questa relazione riescono a mettere a fuoco il loro sentire e trovare le parole giuste per dirlo in un luogo dove la brevitas resta fondamentale.

Anche la Libreria delle donne in questo periodo sta lavorando a creare una sua nuova immagine digitale. Si è formata una redazione di Instagram, di cui anch’io faccio parte, che ha un duplice obiettivo: far conoscere, con parole che arrivino a tante giovani donne e uomini, il ricco patrimonio di pensiero e pratiche della Libreria e accrescere il dialogo con altre realtà femministe, nel modo agile che la realtà della rete mette a disposizione oggi. Si tratta, anche in questo caso, di una pratica costante che richiede impegno e che ci sembra funzionare. La sfida mi sembra allora che non si debba considerare persa, ogni singola realtà può provare a cambiare il modo di stare in rete per richiamare l’attenzione di chi in questi spazi cerca nuove produttive relazioni.

Gli slogan «Il corpo è mio e lo gestisco io» o «L’utero è mio e lo gestisco io», che in tante gridavamo nelle manifestazioni, fu una presa di parola che cercava di esprimere un’integrità di sé. Fu un tentativo di voler dire libero ma, proprio perché iniziale, ancora approssimativo e impreciso. Fu uno sforzo per svincolarci dalla dissociazione che gli uomini cercavano di produrre in noi donne, riconoscendosi padroni del nostro corpo.

Ma, grazie al movimento delle donne, tale pretesa non fu più sostenibile.

Alcune leggi ce lo rivelano.

Nel 1956 la Corte di Cassazione decise che al marito non spettava nei confronti della moglie e dei figli lo jus corrigendi (art. 571 c.p.), il diritto di picchiarli, abolito nel 1963.

Fino al 1968 l’adulterio era reato solo per la moglie, che poteva andare in carcere.

Nel 1981 furono abolite le attenuati per il delitto d’onore per cui uccidere la moglie era giustificato, se veniva leso l’onore dell’uomo. E sempre nel 1981 non fu più in vigore il matrimonio riparatore che permetteva di stuprare una ragazza senza essere punito se la si sposava.

Anche la rivoluzione sessuale, per me iniziata nel 1970, provocò in me, come in molte mie amiche, una nuova dissociazione: mi fece credere che rendendomi disponibile al piacere maschile lo avrei trovato anch’io. Non fidandomi del mio sentire, mi sono scissa dal piacere femminile. Già nel 1972 Carla Lonzi ne segnalava il pericolo in La donna clitoridea e la donna vaginale, ma allora mi ostinavo inutilmente a cercare piacere dove era impossibile trovarlo. Solo successivamente ho scoperto, sempre con lo stesso uomo, che, come annuncia il titolo del libro di María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo o non è.

Pensiamo anche all’aborto: veniva considerato un “delitto contro la integrità e la sanità della stirpe”, invece che una conseguenza patita dalle donne per le irresponsabili pratiche sessuali maschili. Né io né nessuna altra che conosco vogliamo una sessualità che ci faccia restare incinta se non desideriamo mettere al mondo una creatura. Ma la legge 194 del 1978, permettendo l’aborto solo a certe condizioni, ancora non considera una donna come intera e capace di autodeterminazione: altri decidono cosa permetterle di fare o non fare del suo corpo gravido.

E lo stupro era reato contro la morale e solo dal 1996 diventa reato contro la persona.

Queste leggi sono frutto delle lotte delle donne per smascherare il contratto sessuale tra uomini che, immaginandoci “cose” piacevoli o utili a loro disposizione, avevano creato regole per spartirsi i corpi femminili e i loro frutti.

Però i due slogan femministi, mentre li gridavo, mi provocavano un dissidio interiore che segnalava l’esigenza di lavorare sulla lingua: mantengono infatti una dissociazione come se il corpo o una sua parte potesse essere una proprietà, non più dell’uomo di turno, ma di un io scorporato, sebbene femminile. Ora ho capito che era un modo di reagire, ma essere reattive non è buona politica. Ci spinge là dove chi ci vuole colpire prevede che siamo. Luisa Muraro suggerisce invece la schivata, ma per farla occorre stare presso di sé e in relazione almeno con un’altra per essere capaci di sentire la propria verità. Così ho potuto recuperare l’indissolubilità dell’anima corporea, come dice Antonietta Potente. Riesco a partire da me, dal corpo che io sono, e prendere parola pubblicamente, forte del mio sentire.

Una donna che sta studiando testi del pensiero della differenza, riferendosi a una sua esperienza da giovane, mi ha scritto che allora non aveva il vocabolario politico che l’avrebbe aiutata a nominare ciò che le accadeva, mentre ora sa riconoscere quello che le permette di essere libera. Segnala dunque l’importanza delle parole giuste. Credo che sia fuorviante l’attuale slogan «My body, my choice», perché perpetua la dissociazione, moltiplicata dal neoliberismo e nascosta dall’idea della libertà di mettere a profitto parti del proprio corpo, come ad esempio con l’utero in affitto o con la prostituzione, ignorando quello che tante di noi diciamo dell’esperienza trasformante della gravidanza e quello che le sopravvissute al sistema prostitutivo affermano, come scrive Rachel Moran in Stupro a pagamento.

Forse è meglio dire «Io sono intera e in vendita non sono».

Oppure «Io sono intera e non mi fate a pezzi», rifiutando la guerra che è un modo per farci letteralmente a pezzi.

Una volta sotto le parole “caduti per la patria”, “vittime civili” si nascondeva la riduzione a “cose” di esseri fino a poco prima viventi e si cercava di non farli vedere. Oggi le immagini di chi muore, di chi soffre e fugge ci vengono proposte senza pudore perché da anni è in atto una sorta di assuefazione alla violenza, indotta anche dai film di intrattenimento. E il numero spropositato di cadaveri all’inizio di questa guerra ci veniva dato come il punteggio al contrario di squadre avversarie: l’importante sembrava fosse che la squadra per cui “dovevamo tifare” ne avesse sempre meno dell’altra. Poi, per confonderci sull’enormità della carneficina, i numeri dei “nostri” ci vengono dati man mano solo a due cifre, oppure mostrando un massacro per volta solo ad opera degli “altri”. È in atto una dissociazione tra immagini-numeri e la realtà di creature nate da madre e vive solo perché continuamente sostenute nell’interdipendenza.

Con me però questa dissociazione non funziona perché non smetto di partire da me.

So cos’è stato far nascere e crescere mio figlio e mia figlia.

Ho seguito le due gravidanze di mia nuora e conosco l’attenzione rotonda di tante persone per le mie nipotine e i loro sorrisi.

Non dimentico l’amoroso impegno di mia madre perché mio padre, cieco di guerra, potesse provare una sufficiente felicità per avere desiderio di vivere.

E ricordo la tenera fermezza con cui mio marito e io abbiamo trasformato noi due, chi ci stava intorno e la nostra casa perché la coabitazione con mia madre, sempre più anziana, riconoscesse e continuasse la genealogia d’amore in cui lei ci aveva inserito.


Libri citati:
– Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta femminile, Milano 1971.
– Rachel Moran, Stupro a pagamento La verità sulla prostituzione, Round Robin editrice, Roma 2017.
– Luisa Muraro, L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011.
– Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Paoline, Milano 2017.
– María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, Edizione indipendente, Madrid e Verona 2021.

Ho preso la parola nell’incontro di Via Dogana del 6 marzo scorso spinto soprattutto da due assenze: l’assenza di corpi maschili nell’uditorio che vedevo in rete (presenze molto numerose, ma solo due nomi maschili, peraltro oscurati dalle barriere visive che è possibile alzare quando ci si riunisce on line) e l’assenza di parole sui corpi che già avevamo cominciato a vedere in tv, sui giornali e in rete, travolti dalla guerra.

Travolti in modi molto diversi, ma tutti drammatici e tragici. Corpi, per lo più maschili, costretti alla guerra o anche vogliosi di essere in guerra. Oppure in qualche caso – non li abbiamo visti ma ne abbiamo sentito parlare – intenti a disertare la guerra. E poi, soprattutto, la moltitudine di corpi femminili e infantili in fuga dalla guerra. Traudel Sattler aprendo il confronto era partita proprio da qui, ma la discussione era impostata e si è mantenuta su un altro registro.

Si è parlato molto della insopportabilità dello sguardo maschile che si rivolge ai corpi delle donne, e di quanto esso sappia insinuarsi – attraverso le logiche dei social e quelle degli interessi economici che si rivolgono ai desideri femminili – nello stesso modo delle donne di guardare a se stesse, e alle altre.

Per questo l’assenza di una possibile interlocuzione maschile mi ha creato disagio. Certo il mio sguardo sulle donne è pieno di contenuti erotici, estetici, prodotti da una cultura e starei per dire da una specie di istinto. Cerco di non farne uno strumento di disagio, o peggio, per chi guardo. Ma in fondo non sono nemmeno disposto a rinnegarlo, a censurarlo. Ilaria Sirito ha parlato in termini negativi di “immagine sessualizzata”, termine molto ripreso. Credo di capirne il senso da respingere: ma i nostri corpi possono avere un’immagine non sessualizzata?

Ho interloquito con Laura Colombo sulle colpe del mercato, certo gravi e profonde. Ma il mercato capitalistico, sempre più raffinato e potente nelle sue metodologie ricche di sapienza psicologica oltre che finanziaria e tecnologica, interviene su radici reali del desiderio alle quali dobbiamo saper risalire per reagire efficacemente.

Ho accennato al fatto che, nelle relazioni che vivo nella rete di Maschile Plurale, continuo a incontrare uomini che non sono contenti del proprio sguardo sulle donne (e quindi sul mondo) e cercano intanto una relazionalità e un linguaggio diverso tra maschi rispetto a quello che “trovano” in famiglia, in palestra, nei luoghi di lavoro, al bar. Alcuni sono giovani trentenni e meno che trentenni, o quarantenni. Qualcuno ha figli piccoli di cui vuole occuparsi. Numerosi sono anche in percorsi di analisi, di lavoro psicologico: una cosa che io e molti della mia generazione non abbiamo fatto. Insomma una voglia anche maschile di sottrarsi alle logiche maschiliste e patriarcali, per quanto forse minoritaria (ma quanto?), continua a manifestarsi.

Alla fine Beppe Pavan mi ha salutato, e io lui.

Dovremmo riflettere meglio sul perché una pratica più diffusa di scambi e di ricerca politica si è da un certo punto in poi molto bloccata. Con Laura Colombo e altre, altri, a un certo punto avevamo provato a porre la questione dell’eros nelle nostre “relazioni di differenza”. Un discorso molto difficile quando la reazione maschile alla libertà femminile tanto spesso è silenzio, incapacità di ascolto, e poi, puramente, violenza. Ora, di nuovo, la guerra (c’è sempre stata intorno a noi ma ora ce ne accorgiamo perché, stranamente, ci riguarda più da vicino e ce la raccontano e distorcono ogni santo giorno). Guerra che sembra anche una consolazione rassicurante per uomini in crisi di autorità e senso di sé. (Aggressioni infantili, ha detto giustamente il Papa. E sappiamo che disastri può combinare il bambino maleducato e sofferente.)

Volevo dire qualcosa anche dei corpi malati, della diffusa incapacità-impossibilità di curarli bene a causa di un sistema sanitario pubblico maltrattato, di una cultura del corpo per ultra-specializzazioni anatomiche. Ma ho già scritto troppo.

Dopo i traumi della pandemia e ora quelli della guerra sento con ancora maggiore urgenza il desiderio di ritrovarsi, con tutta l’attenzione che serve, per una politica in comune.

Ascoltare le riflessioni delle amiche che fanno parte del gruppo Le Compromesse è stata per me una conferma di quanto sia necessario continuare a tessere relazioni intergenerazionali, senza lasciarsi ostacolare da linguaggi e immaginari che, per motivi anagrafici, non condividiamo, non ci appartengono e forse non comprendiamo, andando dritto all’essenziale. Ripartire dal corpo è ciò che ci consente di tornare sul primo terreno di scontro con il patriarcato da cui è partito tutto il cammino di libertà femminile.

Il corpo delle donne è sempre stato il principale oggetto di controllo da parte del patriarcato e il bersaglio di contrattacchi violenti, essendo la posta in gioco più alta del contratto sessuale, che regola il dominio degli uomini sui corpi delle donne nella sfera privata (Carole Pateman, Il contratto sessuale). Ora che le donne sono uscite dalla sfera privata e sono dappertutto, ho l’impressione che l’esigenza maschile di dominio e di controllo sui nostri corpi si sia estesa anche alla sfera pubblica. Se a questo aggiungiamo gli effetti destabilizzanti della fine del patriarcato, inteso come fine del consenso e della dipendenza femminile dalla misura maschile del mondo, allora si comprende meglio il dispiegarsi di strategie molto efficaci sul piano simbolico, volte a ristabilire stereotipi funzionali a un sistema agonizzante. Oggi, in pieno capitalismo della sorveglianza (Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri), in cui siamo noi gli oggetti dai quali estrarre le materie prime, attraverso il surplus comportamentale che immettiamo sui social, si giocano due partite fondamentali e interconnesse, quella del controllo, attraverso strategie di contrattacco al femminismo e alla libertà simbolica delle donne, e quella del libero mercato che fa enormi profitti sui corpi delle donne e vuole continuare a farli, attraverso la moda, la chirurgia estetica, il mercato della pornografia, della prostituzione e della GPA.

Nel nostro tempo troviamo, però, giovani donne attive, assertive, istruite, progettuali, determinate, competenti, figlie amate e sostenute dalle loro madri. Donne che ormai possono essere dominate solo sul piano simbolico, attraverso le loro menti, perché non ci sono divieti specifici che impediscano loro di andare ovunque.

L’auto-oggettivazione, prima garantita dall’adesione totale a stereotipi di genere e a ruoli rigidamente stabiliti, ora diventa merce preziosa da ottenere ed estrarre in ogni modo, anzi direi l’investimento principale di molte imprese economiche e di qualsiasi politica conservatrice, unica forma di controllo possibile nelle democrazie paritarie occidentali, tanto quanto il linguaggio che fa fatica a modificarsi includendo la reale esperienza femminile del mondo.

Alla luce di questi elementi è più facile comprendere come sia potuto accadere ciò che segnala con grande preoccupazione Emma Ciciulla, che negli ultimi dieci anni sia diventata virale sui social una proposta che si è appropriata del nome femminismo e che incoraggia a aderire, senza esitazione, in nome dell’autodeterminazione e della libertà di sentirsi a proprio agio, a standard di femminilità che il patriarcato impone, come indossare capi sessualizzati o esplorare sessualità pornificate.

Sono d’accordo con lei nel dire che è fondamentale riconoscere e svelare questo inganno, anche se, come sostiene Zuboff, la singola non può farsi carico da sola di questa sfida. Bene quindi continuare sul terreno delle relazioni tra donne e di una rappresentazione del corpo che nasca dalla nostra esperienza, cercando di risanare la scissione tra mente, corpo e sentire profondo che il patriarcato ci ha inflitto per aderire ai suoi modelli. È importante mantenere e creare luoghi e modi per curarci, nutrirci a vicenda, per comunicare tra noi restando radicate nel desiderio e nel piacere femminile. Questo può darci la forza e la lucidità per riconoscere un immaginario alienante, scaturito dall’appiattimento dei corpi in immagini, esposte in vetrine virtuali. Addentrandoci insieme nel linguaggio e nell’immaginazione possiamo modificarli, anche attraverso forme creative. La parola giusta e il giusto immaginario hanno in sé il potere del cambiamento.

Le donne delle nuove generazioni hanno un grande lavoro da fare ma possono attingere da una ricca e viva eredità che, spaziando da La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi del 1971 arriva a Il piacere femminile è clitorideo di María Milagros Rivera Garretas del 2021 aprendoci ad un «flusso infinito di piacere proprio, piacere sessuale e piacere cognitivo» aiutandoci a non sbagliare orgasmo e a «recuperare il vincolo tra il sentire dell’anima, il desiderio e il piacere femminile».

La storia rumina, insieme a tutto il resto, anche ciò che viene al mondo come intuizione e può capitare che, quando meno te lo aspetti, te la restituisca digerita. L’intuizione di Carla Lonzi, di un piacere femminile svincolato dalla sessualità maschile, riappare oggi, con la leggerezza e la grazia di ciò che ormai non è più rivendicazione ma qualcosa di acquisito. Solo per citare alcuni esempi: nel 2016 esce il video di animazione Le clitoris della giovane canadese Lori Malépart-Traversy,sullo sfondo rosa si muove una simpaticissima clitoride che racconta per filo e per segno tutta la sua storia di unico organo del corpo umano dedicato esclusivamente al piacere; nel novembre del 2018 il festival femminista di Ginevra si apre con l’installazione di una gigantesca clitoride gonfiabile, color fuxia e con il titolo Questa sera iniziamo con il piacere (in senso ampio);nel novembre del 2020 esce il brano Clito della rapper italiana Madame, anche lei è inserita in un panorama artistico in prevalenza maschile dove il linguaggio e i cliché sessisti sono una costante. Madame, senza fare una piega, interrogandosi sul senso della vita dai suoi diciotto anni, canta: «A volte rido e non ne capisco il motivo / A volte vivo e non capisco se respiro / A volte inciampo e non capisco che cammino». Ma nel ritornello una cosa la sa di preciso: «La vita mi fa “click” sul clitó, eh. Sa che godo quando preme il dito, eh» e questo è già molto per un buon inizio, sia per lei che, eventualmente, per le sue e i suoi novecentoquarantaduemila follower che la seguono sui social.

Ho prima atteso e dopo ascoltato con curiosità l’intervento de Le Compromesse. Le parole di Daniela hanno un sapore che ho conosciuto da vicino: la Calabria, sì, ma anche l’esperienza della solitudine. È curioso come una donna che condivide l’esperienza della propria solitudine possa apparire splendidamente irriverente, penso: tanto più adesso che internet trabocca di foto di gruppo e di denti bianchi.

Ho raccolto l’invito al confronto rivolto a tutte e, in particolare, alle più giovani tra noi, perché nell’ascolto mi sono riconosciuta e, poi, perché il racconto di Daniela ha riportato il mio cuore e la mia mente al legame più risalente e prezioso dacché i miei ricordi iniziano, quello con mia sorella, di cui ho saputo fin da subito, ad esempio, che era apparsa appena due anni e mezzo dopo di me.

È servito tempo, però, sono serviti incontri e coincidenzeperché potessi prendere atto della sua inestimabilità: che noi due fossimo, siamo, una comunità coesa, infatti, non è mai stato in discussione, solo, non avevo messo bene a fuoco il ruolo attivo che lei ha svolto sulla mia formazione e sulla mia coscienza. Chiamo ora in aiuto le parole di Simone de Beauvoir nelle Memorie: «Non avevo fratelli, nessun paragone poteva rivelarmi che certe licenze mi erano vietate a causa del mio sesso; le costrizioni che mi venivano imposte le imputavo soltanto alla mia età; mi rammaricavo vivamente della mia infanzia, mai della mia femminilità».

Ri-cominciando, ancora una volta, dal corpo, mia sorella è stata, almeno per molto tempo, il corpo più prossimo, ma anche un corpo che si è modificato, alle volte con rigore, determinazione, estremismo, in un modo che rendeva impossibile ignorarne i cambiamenti. Non saprei dire in che misura quei cambiamenti possano essere ricondotti alla storia particolare del suo corpo e in quale, invece, a fattori esterni. Tuttavia, se è vero che l’avvento di internet e delle piattaforme, inclusi i social network, ha introdotto elementi inediti, l’altro dato certo è che lei li abbia recepiti sicuramente prima di me e con minore diffidenza.

A proposito di questo, io, di anni, ne ho trentuno: qualcuno in più di mia sorella e di Daniela, ma non abbastanza da poter dire di aver vissuto la maggior parte della mia esistenza nel mondo analogico. Oggi non uso social network come Facebook e Instagram in virtù di una scelta istintiva e non ideologica: l’ho fatto, in passato, privilegiando, soprattutto nell’ultimo periodo, un utilizzo passivo; un giorno, li ho solo trovati definitivamente dispersivi e noiosi. Questo modo di operare, da sola e insieme ad altri, è stato giudicato, di tanto in tanto, sintomatico di un’attitudine che nel tempo mi è valsa qualche battuta pungente – per lo più fuori contesto – e, in senso più ampio, la scoperta di certi luoghi comuni legati al mio sesso, al mio corpo; luoghi comuni che, per quanto falsi e infondati, inducono sempre domande sgradevoli e, in alcuni casi, solitudine.

L’esperienza de Le Compromesse deriva, mi pare di intendere, per alcuni aspetti significativi, da una reazione alla solitudine attraverso la solidarietà, una dinamica positiva, che dovrebbe apparire automatica e naturale. La mia percezione spontanea è però quella di una pratica affascinante e desueta e, da questa percezione, nasce la mia domanda diretta a Daniela, non originale, per la verità, ma che apre prospettive di risposta tutt’altro che scontate: se la destinazione più immediata di un corpo è l’aggregazione con altri corpi, se la storia offre molte testimonianze di corpi che hanno veicolato istanze di cambiamento, perché questi corpi e le città sono stati sostituiti in modo consistente, sebbene non totale, dalla rete?


Il tema dell’esposizione del corpo femminile sui social è ora molto presente nella vita delle donne, soprattutto giovani (ma non solo), che scelgono di rappresentarsi anche in questa modalità virtuale. Per la mia generazione cresciuta negli anni ’60/70 questa dimensione era inesistente, ma ciononostante la tematica dello sguardo dell’altro era ugualmente molto presente. Ora come allora, infatti, la domanda che ritorna è: le donne si espongono solo allo sguardo maschile oppure per loro conta anche, e molto, quello femminile?

Il primo sguardo che si è posato su di noi è stato quello materno: su questo abbiamo acquisito la nostra immagine corporea con i suoi limiti e le sue possibilità, le sue bellezze e il suo senso. Lo sguardo materno ci ha accompagnato, a volte rincorso, a volte frenato: è sicuramente stato la prima fonte di messa in valore e in giudizio del nostro corpo, del suo aspetto, del suo modo di muoversi e comportarsi. Leggo in questo accompagnamento dello sguardo la costante preoccupazione della madre che la propria creatura non venga svalorizzata o sminuita, bensì “gestita” al meglio, così come un artista può essere in ansia rispetto alla propria opera.

Nel modo in cui le donne, di ogni età, si presentano al mondo e cercano l’approvazione dell’altra donna leggo sottotraccia la ricerca antica di uno sguardo materno benevolo o, al contrario, la sua provocazione, nello svincolo da immagini femminili obsolete. Così è stato per la mia generazione, che ha indossato i pantaloni, sfidando la riprovazione delle madri.

Si tratta in ogni caso, come ricorda Milagros Rivera, di «ornare e onorare l’opera materna», conservandone, nell’esporsi al mondo, l’intento originario, creativo e sorgivo, valorizzando le potenzialità e le bellezze del nostro corpo, in qualunque fase della nostra vita e dei nostri umori, nella gioventù come in vecchiaia, nella gioia come nella depressione.

L’esposizione del proprio corpo sui social, e la misura che ne ritorna sotto forma di feedback, si riverbera a livello di vissuti interni in modo molto profondo. Al riguardo vorrei riportare il vissuto di una mia giovane paziente che ha incominciato a “postare” brevissimi filmati su Telegram/ Instagram dove lei è la protagonista.

Si tratta di un pubblico virtuale (lei stessa afferma che non vorrebbe assolutamente parenti che la vedessero), perlopiù sconosciuto, ma non per questo meno significativo. Anzi! Grandi sono la sua ansia e i suoi sbalzi d’umore in relazione ai “mi piace” e ai commenti che riceve. Si chiede sempre: andrà virale o no? E passa il tempo a guardare i profili delle altre, a competere, a invidiarne il successo. Un massimo di esibizione a fronte di un massimo di estraneità, col desiderio di un riconoscimento, mai garantito, a cui è appeso il proprio valore pubblico, in una continua oscillazione tra gratificazione e frustrazione.

Pur essendo la scena totalmente virtuale e smaterializzata, i suoi effetti sono invece molto concreti e tangibili, e la vita intima diventa una sorta di “bene comune”, di cui si vorrebbe però, contradditoriamente, avere il controllo delle modalità di uso e di giudizio.

E, passando dal corpo esposto delle nuove vetrine virtuali al corpo malato di questi nuovi scenari pandemici, vorrei fare un’ultima considerazione. Abbiamo vissuto, e non è ancora finita, una inedita percezione del nostro corpo, diventato minacciato e minaccioso, impaurito e zittito, oggettivato e patologico in quanto potenziale ricettacolo e/o trasmettitore di infezioni. Una repentina reductio ad unum della sua complessità e del nostro vissuto, quasi che queste due dimensioni (complessità e vissuto) non esistessero o, comunque, fossero da accantonare in nome della sicurezza e

dell’emergenza sanitaria.

Per me è impossibile condividere questa visione emergenziale e securitaria, che azzera un pensiero che tuttora si fonda sul partire da sé e la presa di coscienza che il corpo femminile è stato il primo terreno di scontro col Patriarcato, da cui è partito tutto il cammino della libertà femminile.

Come si approccia il tema del proprio corpo femminile, quando a raccontarlo sono sistematicamente le voci maschili?

Ritengo che avvicinarsi a una riflessione sul corpo sia difficile per tutte le donne, ma che sia ancora più complesso per le giovani femministe della mia generazione; per spiegare il mio punto di vista, vorrei partire dal mio personale percorso.

Ho cominciato per la prima volta a riflettere su come vivere il corpo secondo una prospettiva femminista durante gli anni liceali, quando ho iniziato a esplorare i movimenti delle donne, prevalentemente sui social.

Vivere il mio corpo, allora, aveva come nucleo fondativo l’auto-oggettificazione; se questo può sorprendere molto la me di adesso, la realtà è che le mie credenze erano del tutto coerenti con due input particolarmente pervasivi a cui ero esposta a quattordici anni: per primi i media misogini classici, come la televisione italiana, ma ancora più rilevante era quello stesso “femminismo” che avevo avvicinato su Facebook e su Instagram. In altre parole, è da almeno una decina di anni che è diventata popolarissima una proposta che si è appropriata del nome femminismo, avente come target le giovanissime, che le incoraggia a aderire senza esitazione a tutti quegli standard di femminilità che il patriarcato impone.

È diventata quindi la normalità vedere post di pagine femministe spingere le donne a indossare quel capo sessualizzante se le fa sentire a loro agio; a esplorare quella sessualità pornificata tanto cara agli uomini… le ragazze dovrebbero dunque fare qualsiasi cosa le faccia sentire a loro agio, anche se palesemente orientata verso standard declinati al maschile, perché è “empowering”,cioè dà potere.

In questo senso, quindi, per le giovani donne è ancora più faticoso disfarsi di quel rapporto alienato con il proprio corpo: il lavoro di riappropriazione, che riguarda tutte, va sommato allo sforzo continuo di non cedere alla tentazione di abbracciare questi nuovi orientamenti cosiddetti “femministi”, i quali altro non sono che movimenti maschilisti travestiti da progressismo.

Nel ricominciare dal corpo, quindi, per noi la sfida è duplice.

La prima consiste nel riconoscere l’inganno della sessualizzazione di sé proposta come scelta personale e liberatoria, concludendo invece che è esattamente l’opposto di entrambe.

La seconda sfida è costituita da quel passo successivo di vivere il corpo come soggetti, e questo richiede uno sforzo ancora maggiore, perché la visione di donna che ci viene proposta è unica, e la nostra forza deve risiedere proprio nella capacità di crearne una alternativa di noi stesse, cominciando ciascuna dal proprio vissuto.

Verso questa direzione mi sento di dire, come appreso insieme alle altre, che il punto di partenza potrebbe proprio trovare il suo fondamento nel costruire reti relazionali con le donne, caratterizzate da ascolto e fiducia, dove ci si senta al sicuro e per un momento libere da quell’oggettivazione persistente che grava su di noi.

Nell’incontro del 6 marzo si è discusso molto dello sguardo altrui sui nostri corpi. Lo sguardo di un pubblico solo parzialmente anonimo sui social, regolato da criteri maschili anche quando non è quello di un maschio. Addirittura quando è il proprio, scisso da sé, che guarda dall’esterno la propria immagine postata in rete e la giudica. Male gaze, “sguardo maschile”, l’hanno chiamato Ilaria Sirito e Daniela Santoro.

Tutto vero, ma non così univoco. Credo che ci sia una ricerca di sguardo femminile da parte delle donne. E che nello scambio di sguardi che intrecciamo con le nostre simili ci sia anche un modo femminile di abitare lo spazio pubblico, una mediazione femminile con il mondo: vogliamo essere importanti per le altre donne e le altre donne sono importanti per noi. E questo non è poco.

Lo dico a partire dalla mia esperienza. Dopo aver lavorato da giovane in vari piccoli e piccolissimi uffici, nel ’94, a trent’anni, sono entrata in un grande ente a contatto con tanta gente, e in breve tempo i commenti delle mie colleghe su come mi vestivo o come portavo i capelli sono diventati importanti per me. Lo sono diventati a positivo, come uno stimolo, e ho iniziato a fare attenzione a certi dettagli anticipando con piacere i loro commenti. Un modo per esistere ai loro occhi, entrare nel loro mondo, condividere qualcosa di me con loro. Non mi sono mai forzata a truccarmi e neppure a adattare la mia immagine ad aspettative che non mi corrispondessero, ma in qualche modo la loro attenzione e la loro approvazione mi davano forza. La cosa era reciproca: anch’io le guardavo in un modo che dava loro importanza e che aveva a che fare con la comune appartenenza all’umanità femminile e con i suoi modi possibili di stare nel mondo: un tra-donne che scartava gli uomini al limite dell’orizzonte.

Anche questo non è così univoco: le altre possono, noi possiamo aver interiorizzato lo sguardo maschile, e quand’è così ce lo rimandiamo. Come sottrarci a questo rischio di ambiguità?

Facendo nostra la consapevolezza di quel di più femminile che c’è. Quello che ho detto prima e tanto altro “di più”, che è emerso nell’incontro: Maria Castiglioni nel suo intervento ha citato la femminista spagnola María-Milagros Rivera Garretas, che dice che il primo sguardo che si posa su di noi e che noi cerchiamo è quello della madre, per questo quando ci adorniamo «onoriamo la madre»; Lia Cigarini ci ha ricordato che la bellezza è delle donne ed è fonte di civiltà.

È sapendo che agiamo nella scia di questa consapevolezza che noi, i nostri corpi cambiamo di segno all’andare nel mondo, mandando all’aria il tentativo di esproprio esercitato dallo sguardo maschile.

Le ragazze delle Compromesse che abbiamo incontrato in Libreria fanno parte della cosiddetta Generazione Z, generazione cresciuta con il “ciuccio digitale” come dice un ingegnere “pentito” della Silicon Valley nel docufilm “The Social Dilemma”.

Queste ragazze/i non hanno conosciuto il mondo senza web e social media, droga «che ti fa trovare amici, induce il rilascio di dopamina e crea dipendenza». L’ingegnere segnala un «enorme incremento di ansia e depressione tra gli adolescenti americani» legato alla paura di non piacere e di non incontrare «approvazione sociale a breve».

Queste ragazze e questi ragazzi, dice Shoshana Zuboff (Il Capitalismo della Sorveglianza), sono stati educati negli spazi del capitale privato e si sono rapidamente dotati di avatar assemblati sulla base delle richieste del mercato.

Il design degli avatar per ragazze è standard, nel raggio dello sguardo maschile (male gaze) che richiede attributi stereotipati ed eccessivi, adatti alla frettolosità delle voglie sessuali degli uomini.

Per quelle che vogliono sottrarsi al dominio del male gaze, il tema “bellezza” è diventato perciò rovente. Essere libere diventa sottrarsi alla bellezza.

Ma sui social il diavolo fa le pentole e anche i coperchi. Ed ecco allora l’“inclusività” della body positivity. Lo sguardo approva anche ragazze che non corrispondono ai canoni di bellezza, tratti irregolari, sovrappeso, anche disabili.

Dopo avere a lungo sfruttato – e indotto – l’anoressia, l’immaginario del mondo della moda intuisce lo spirito del tempo e promuove la body positivity per continuare a fare affari. Alessandro Michele, geniale direttore creativo di Gucci, lancia la modella Armine, clamorosamente non bella. Victoria’s Secret, la più celebre casa di lingerie del mondo, si rifà la verginità dopo alcuni brutti casi di molestie interne scegliendo una modella con sindrome di Down (e un gran bel seno).

All’incontro in Libreria, Ilaria delle Compromesse dice «Siamo cresciute negli anni Novanta delle Donne Esposte». Se non ti esponi, più o meno non esisti e vieni tagliata fuori. Loro si sono messe insieme perché non volevano esporsi e non volevano più sentirsi isolate (hashtag #nonseisola). E praticano il separatismo per sottrarsi integralmente al male gaze e ascoltarsi fino in fondo.

Ilaria nota acutamente che anche nel caso della body positivity il messaggio è: «Il tuo corpo è sempre valido, purché sia sessualizzabile» (o instagrammabile, come dice Daniela).

Per farvi un’idea, se siete abbonate a Sky date un’occhiata alla serie Euphoria, adolescenti tra eccessi sessuali, abusi, sostanze, revenge porn, sofferenza, tenerezza, malinconie romantiche, il sogno di avere una storia libera dalla violenza, fatto a quanto pare rarissimo e prezioso.

Mentre noi grandi eravamo distratte e pensavamo al lavoro, alla politica e così via, il territorio “abbandonato” del corpo veniva conquistato dal mercato. Non solo biopoliticamente parlando, anche sul fronte della sessualità e del desiderio.

La giovanissima musicista americana Billie Eilish ha deciso di rompere il silenzio raccontando che la sua vita, non solo la sua vita sessuale, è stata letteralmente devastata dal fatto di aver frequentato siti porno online fin da quando era bambina (in UK stanno legiferando per proibire l’accesso ai minori, nascono servizi psicologici per maschi dispendenti da quella roba, anche per loro è un grosso problema).

Quello che si vede in quei siti sono pratiche sessuali sadomasochistiche, violente e umilianti per le donne. Se nella vita reale non sei disponibile a quella roba – botte, penetrazioni anali, sottomissione –, se quella roba non ti piace e ti sottrai, non sei cool. Se non consenti di farti filmare mentre subisci è come se quel sesso non esistesse. Forse il sesso si fa proprio per filmarlo e “instagrammarlo”, per che cosa se no? Il revenge porn viene dopo. La questione vera è il porn, il sesso e il piacere totalmente pornografizzati.

Al mercato, che con questa roba ci fa grandi profitti, non basta un avatar virtuale. Gli serve anche il tuo avatar di carne. Tutta la questione dell’identità di genere, delle transizioni in tenera età eccetera forse non sarebbe stata nemmeno pensabile senza l’apprendistato dell’avatarizzazione sul web e sui social. Lì ti costruisci “liberamente”, puoi scegliere di essere tutto quello che vuoi. Poi puoi passare altrettanto liberamente a smontare e riassemblare il tuo corpo con ormoni, preferibilmente autoprodotti, e chirurgia: oggi lo fanno soprattutto le ragazze, 8 casi su 10.

Ti costruisci per avere successo, ma come avere successo non lo stabilisci tu, ma i capitalisti della sorveglianza, il cui scopo – spiega Shoshana Zuboff – non è tanto controllare il tuo comportamento, quanto modificarlo.

Le donne più vecchie spesso pensano che la soluzione sia disconnettersi e tornare in presenza: anche la pandemia ci ha messo del suo, virtualizzandoci del tutto.  

Non credo che sia una strada praticabile: spiega Luciano Floridi, tra i massimi esperti viventi di comunicazione, che il nuovo ambiente umano è onlife. Impossibile separare nettamente online e offline. Ogni ente, vivente e anche non vivente, è un inforg, snodo di flussi informativi ai quali partecipa aumentando o riducendo l’entropia, come in un sistema fisico complesso.

Si tratta quindi di ripensare il corpo nella scena onlife, e ripensandolo trovare nuove parole viventi: questo è il difficile compito che tocca alle Compromesse e a tutte le ragazze che non vogliono essere Donne Esposte. Possono farlo soltanto loro, e non più noi. Anche se le parole di alcune fra noi possono essere d’aiuto: che La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi giri di mano in mano tra le giovani femministe radicali è un segnale preciso.

Ida Dominijanni dice che la discontinuità tra la nostra esperienza del corpo e la loro è molto forte. Vero. Ma poi vedi queste ragazze che vanno in cerca della propria libertà e la prima cosa che incontrano è il corpo e i suoi desideri, e ti dici: il mercato non può tutto, non proprio tutto. Lo dice bene la poeta Wisława Szymborska: l’anima «sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana / a se stessa estranea, inafferrabile / mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è».

Il racconto de Le Compromesse all’incontro di VD3 mi ha riportato alla mente i ritratti delle mie giovani amiche de Le Ri-Pensanti, il mio primo gruppo femminista costituito a Catania nel 1990 dal collettivo delle studenti durante il Movimento universitario La Pantera contro la legge di riforma Ruberti.

Prima di allora conoscevo il femminismo attraverso libri, riviste, film, musica, arte che le donne della mia famiglia e le loro amiche, come le mie insegnanti a scuola, seguivano con attenzione nel loro evolversi in società.

Trovato l’avviso affisso allo stipite della porta dell’aula, ho partecipato al primo appuntamento di quel collettivo spinta dalla mia personale necessità di trovare risposte al perché sentivo ancora così vivo quel disagio del mio corpo di donna e di donne insieme che conoscevo bene, di lontana memoria che mi accompagnava da sempre, da tutta una vita, seppure affrontato sapientemente nei racconti delle femministe storiche, nei diversi luoghi politici italiani e internazionali.

Nel gruppo, alcune di noi erano figlie carnali delle femministe storiche colte di Catania e perciò ne respiravamo direttamente la discendenza. Ci nutrivamo della lettura dei testi di quelle donne, dei testi della Comunità Diotima di Verona, di “Non credere di avere diritti” della Libreria delle donne di Milano.

Abbiamo scelto di chiamarci le Ri-Pensanti, dal mio punto di vista, per via del fatto comune che il nostro pensiero e quello delle nostre coetanee faticava ancora ad essere ascoltato in pubblico, durante le assemblee, dove se femminilizzato era recepito di minore valore e se mascolinizzato nell’aspetto fisico, nei toni e negli atteggiamenti, era trasformato a convenienza al punto da non essere più riconducibile a chi lo avesse pronunciato.

Tutto ciò non era certo una novità. La storia si ripeteva, attingevamo alla lettura dei testi delle donne prima di noi per darci un orientamento che ci riconducesse al corpo reale dei nostri pensieri più autentici e originali.

Da quella esperienza ciascuna Ri-Pensante in seguito si svincolò e si condusse libera verso un proprio percorso, imboccando la propria strada senza dimenticarsi l’una dell’altra, con la ricchezza acquisita del riconoscersi in mezzo alla folla, ogni qualvolta, come in questa occasione degli ultimi accadimenti pandemici e di guerra, ancora una volta.

Siamo state e siamo tuttora corpi presenti in città, ciascuna a suo modo, nei vari passaggi che attraversano tuttora le donne nelle città diverse che oggi abitiamo. A Catania, per esempio, le Ri-Pensanti erano presenti nel passato, ciascuna a proprio nome al passaggio che le donne del Centro Se-No hanno compiuto al Centro Agave, e successivamente ad Associazione Città Felice, alle collaborazioni con Le Città Vicine e de La Ragnatela. Noi Ri-Pensanti siamo ancora, ciascuna a proprio nome, presenti a vario titolo nelle istituzioni in città e periodicamente alle manifestazioni delle donne di tutte le associazioni e dei vari comitati cittadini. Riconoscendoci nelle altre come donne pensanti e agenti, passate e presenti, siamo ancora laddove portiamo il nostro paniere di saperi e di esperienze, celebrando di volta in volta nascite e rinascite nell’infinito movimento della vita, con qualche battuta d’arresto sì, ma sempre avendo cura di restare attente e in attesa, per essere sempre pronte al momento giusto a ri-cominciare e a ri-lanciare il proprio pensiero, sempre fedeli al proprio sentire, ripartendo dal proprio corpo.

Ci riconosciamo, tra le altre, così, a vista d’occhio e a distanza di tempo, fonti inesauribili di significato. Ci incontriamo superando il difetto di autorità femminile tipico dei luoghi miserabili delle istituzioni che viviamo e in cui lavoriamo, dove per mancato rilancio si ferma il gioco vivente della società Ci restituiamo perciò ossigeno ed energia pura per ritornare a lottare forti combattenti, danzatrici di benessere oltre la sopravvivenza. Riusciamo pure a ridere con piacere di tutto ciò che ci accade attorno, quel riso fatto di gusto che solo un buon nutrimento, una buona parola può concedere nel tempo, rinnovato da un semplice saluto e con un bel sorriso ritrovato.

Oggi sarò presente ancora una volta in piazza con chi ha piacere di rivedersi, qui e ora, usando tutti i mezzi possibili a disposizione, per saltare insieme ancora una volta al di là del baratro del ricatto della morte, verso il quale vogliono spingerci ancora una volta.

Ilaria e Daniela con le loro parole ci fanno presente una forte contraddizione: mentre nel mondo reale con il femminismo abbiamo imparato a sottrarci allo sguardo maschile, in quello virtuale questa sottrazione risulta difficile. La continua esposizione sui social apre in una giovane donna una ferita proprio nel cuore dell’elemento politico primario a sua disposizione: il corpo.

L’occhio maschile – del mercato, della società, del potere – si frappone determinando uno scollamento tra l’esperienza del corpo e la sua rappresentazione, che risulta distorta perché filtrata dalla lente della sessualizzazione del corpo femminile. Loro stesse finiscono per guardarsi attraverso quello sguardo distorto.

Tutto ciò porta alla tentazione della dissociazione di cui ci hanno parlato. Così attraversate dalla contraddizione, ai loro occhi i guadagni politici connessi al radicamento nel corpo, fatti dalle generazioni femministe precedenti, sembrano frutti lontani e inaccessibili: cose su cui non possono contare.

Sull’essere corpo Chiara Zamboni in “Parole non consumate” richiama dalla Dolto l’idea che una donna non possiede il suo corpo, ma è il corpo e ha con esso un legame inconscio. Il lato inconscio del corpo «è il tessuto delle relazioni più autentiche che hanno segnato l’esistenza, di cui non sempre portiamo memoria». Ci lega agli altri e al mondo. La nostra storia singolare, dai primi legami familiari a tutti gli altri incontri ed esperienze, depositata dentro di noi, è presente, anche se non cosciente.

C’è un’intelligenza corporea inconscia che alimenta il nostro sentire e quindi il nostro pensare e agire.

Sarà per questo, oppure sarà per altro, ma sta di fatto che nel mondo reale Ilaria, Daniela e le altre Compromesse hanno fatto il gesto essenziale che rompe con questa sorta di incantamento dei social: rivolgersi all’altra che è donna, contare su uno sguardo femminile.

Sono convinta che mantenendo ben salda questa scelta nel mondo reale si potranno provocare mutamenti, forse ancora difficili da immaginare, anche in quello virtuale. L’esperienza del sito della Libreria va in questa direzione: c’è una redazione “carnale” che si riunisce tutte le settimane.

Io sento nelle parole di Ilaria e Daniela che già fanno la politica delle donne, proprio perché danno voce, con lucidità e franchezza, al disagio e alla sofferenza vissuta in prima persona e li portano alla discussione. Ma non sono consapevoli – e posso dare io questo rimando – che è proprio così che è cominciata, comincia e procede, la politica dell’essere corpo, dell’immettere il corpo nello spazio pubblico. L’abbiamo chiamata la politica del partire da sé e della relazione tra donne.

Sono loro grata perché mi hanno sollecitata a rileggere materiali del passato che non prendevo in mano da tempo. Tra questi un titolo che ho trovato nel loro blog: “Mettere al mondo il mondo”. Non ricordavo più se fosse il secondo o il terzo libro di Diotima, allora sono andata in internet e ho scoperto che è molto aumentato di prezzo perché è catalogato come “libro antico”! È il secondo, uscito nel 1990. L’anno dopo è uscito “L’ordine simbolico della madre” di Luisa Muraro. Questi due libri antichi sono stati per me i frutti più significativi di quella stagione, perché dalla consapevolezza dell’essere corpo, segnato dalla differenza, arrivano a delineare una diversa concezione del mondo.

Nel volume collettivo di Diotima, in particolare Adriana Cavarero riprende da Hannah Arendt la categoria della nascita in tutta la sua dirompenza rispetto a quella della morte su cui si regge, da Platone in poi, la filosofia occidentale: per quest’ultima il mondo corporeo del caduco e del divenire è svalutato e contrapposto all’essere che si offre immobile alla contemplazione.

Dice Cavarero: «La centralità della morte produce da un lato la scissione tra pensiero e corporeità e, d’altro lato, iscrive in questa scissione l’astrattezza di un pensiero decorporeizzato e il disprezzo per il corpo i cui segni diventano insignificanti».

La natalità è la categoria centrale «perché annuncia il radicarsi degli umani nella singolarità del cominciamento». Ne consegue che la soggettività è sempre incarnata e sessuata.

È certo che donne e uomini siamo mortali, ma è altrettanto certo che prima di morire siamo nati e nate. E da una madre. Questo, se accettato, può essere significato e apre a una diversa concezione del mondo, come argomenta Muraro nel suo libro, dando parola a un altro ordine simbolico, quello della madre, che non è un rovesciamento simmetrico e speculare di quello paterno patriarcale. È un’apertura di un orizzonte di libertà per donne, uomini, e ogni altro genere.

Cavarero conclude dicendo che una donna che si radica nel suo corpo, rimette nel mondo se stessa «e così facendo mette al mondo il mondo come esso si è messo, ossia come esso appare e si mostra alla vista di ognuna e di ognuno».

Il patriarcato è finito, ma non è finita la fallocrazia e in questi tempi mutati siamo nella necessità di pensieri e di parole nuove.

Quando abbiamo incontrato le Compromesse, abbiamo sentito di parlare la stessa lingua, pur nelle profonde differenze che ci attraversano. Ci siamo fidate le une delle altre e abbiamo deciso di percorrere questa che si può configurare come una nuova pratica di differenza.

Ricominciamo dal corpo per me vuol dire rivisitare i nuclei fondamentali del femminismo e metterli alla prova del presente a partire dai vissuti, dalle idee, dai desideri di giovani donne.

È una strada che può generare nuove idee per l’oggi? Non lo so.

Di certo è una scommessa attraente da fare insieme. Niente è dato per scontato.

Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro e soprattutto di condividere la mia personale esperienza del mio rapporto con il corpo, il mio vivere il corpo e soprattutto il mio essere corpo, ammetto ho avuto molta paura perché effettivamente non so quanto mi sento all’altezza di parlare di questo, soprattutto di parlare della mia esperienza, nella paura di non portare nulla di buono in tavola però comunque cercherò di farla più breve possibile.

Per contesto mi sembra importante iniziare partendo dalla mia nascita: io sono nata a fine millennio, nel 1999, come le teorie apocalittiche sul Millennium Bug. Sono cresciuta dunque in un’età a cavallo tra l’analogico e il digitale, non completamente analogico e non completamente digitale.

Non sono figlia unica, ho una sorella molto più grande di me: è infatti nata alla fine degli anni ’70, nel 1978 per la precisione. Siamo cresciute in due epoche e modi completamente diversi, e proprio da questo vorrei partire. Mia sorella è cresciuta in un periodo in cui per fortuna (o purtroppo, dipende dei punti di vista) non esistevano i social network, soprattutto n un momento in cui era possibile staccare gli occhi dai media, che invece adesso camminano nelle nostre tasche. Mia sorella ha vissuto la maggior parte della sua adolescenza divisa tra il mondo dello sport agonistico e quello dei concorsi di bellezza. Io l’ho passata divisa tra il mondo dello sport agonistico e lo schermo del mio computer.

Come questo abbia influenzato le nostre vite è quasi paradossale: se da un lato io non ho avuto nessun interesse nella mia vita a mostrare il mio corpo, ho comunque sviluppato dei comportamenti ossessivi e patologici nei confronti di esso; mia sorella d’altro canto nonostante vivesse quel mondo un po’ macabro dei concorsi di bellezza – tra parentesi contro il parere dei miei genitori – è come se non avesse mai sentito il peso del rapportare il suo corpo al mondo esterno.

Certo possiamo anche dire che i disturbi alimentari non sempre siano da imputare all’ambiente esterno, però come è possibile che tra tutte le donne della mia famiglia (ed è una famiglia molto numerosa) io – la più giovane – sia l’unica che abbia sofferto di disturbi alimentari? Non a caso con l’aumentare dell’utilizzo di social network c’è stata un’impennata nel mondo dei disturbi alimentari, che già avevano preso la via verso la vetta con il trend delle supermodelle negli anni 90.

Ho un ricordo vivido della me tredicenne, che cercava conforto su internet dopo che il suo allenatore di nuoto l’aveva pesata davanti a tutti: e cosa ha trovato? Che forse il mio allenatore non aveva tutti i torti. Che tutto questo fosse falso, l’ho capito solo più tardi, anche grazie all’autocoscienza con le mie sorelle. Così si era aperta una voragine, in cui mi sono volontariamente tuffata. Vivevo in una cassa di risonanza, le mie amicizie erano prevalentemente virtuali e le persone presenti fisicamente nella mia vita erano trascinate nello stesso circolo vizioso. Le vetrine di Facebook e Instagram non hanno fatto altro che amplificare la percezione alterata, in negativo, della nostra immagine. Allo stesso tempo farne a meno era impossibile, era necessario per far parte di qualcosa, di un gruppo, e tutte penso sappiamo come questo abbia effetto nell’adolescenza. Solo che quando non stai bene nel tuo corpo come fai a metterlo in mostra? È necessario metterlo in mostra ma come? Dunque si apre lo spiraglio dell’auto-oggettificazione: se piaccio agli altri, piaccio anche a me. Il problema è che questa non è una risposta: è un altro livello del problema, non porta una soluzione porta solo a scendere ancora più in basso in quella voragine. Perché comunque in quei momenti non sei realmente corpo sei solo una proiezione di esso, una proiezione che la società vuole. Vorrei soltanto averlo capito prima, ma effettivamente senza un riscontro e un confronto come quello che ho vissuto nei mesi di autocoscienza con Le Compromesse, a fatica ci sarei riuscita e ancora oggi sto combattendo.

E mentre tra terapia e autocoscienza cerco di liberarmi da questo giogo che ormai condiziona la mia vita in maniera capillare, ho iniziato a notare l’effetto distorcente anche su mia sorella. Lei che, in un periodo molto delicato della sua vita, si è messa alla berlina di giudici uomini di mezza età, senza che esso sortisse alcun effetto sulla sua psiche, adesso con l’avvento dei social network e delle influencer e di questi media insilenziabili ha iniziato a vedere il suo corpo diversamente: certo, mettiamoci i quarant’anni – che ormai sono visti da tutti come la data di scadenza di una donna –, a mio avviso però la ribalta di Instagram come social network nazionalpopolare ha aggiunto a questo un nuovo grado di demonizzazione dell’invecchiamento. I social network sono per tutti sì, ma solo giovani e belli, ovviamente sempre sessualizzabili. Ciò dunque l’ha portata negli ultimi due anni a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica e plastica più o meno invasivi, per continuare a essere instagrammabile.

Quale sia una risposta all’essere corpo non l’ho realmente trovata, certamente però la prima cosa che noi giovani donne e non dovremmo fare è allontanare lo sguardo maschile, o meglio l’effetto dello sguardo maschile attraverso il quale ormai guardiamo sempre di più noi stesse.

Iniziare o, nel caso delle donne della Libreria, ricominciare una riflessione sul corpo è stato più facile a dirsi che a farsi. Come sappiamo, dagli anni Settanta il corpo femminile, nascosto e negato tranne che nell’esperienza della maternità, ha fatto irruzione nella politica per prendersi finalmente voce e spazio.

Eppure, l’espressione essere corpo, utilizzata dalle donne della Redazione a sintetizzare il significato di quella lotta che guardiamo con tanta ammirazione, ci ha lasciate inizialmente interdette, quasi intimorite. Perché?

Siamo nate nella seconda metà degli anni Novanta, cresciute in una società in cui il corpo femminile appariva tutt’altro che tabù: lo vedevamo in programmi tv, di qualsiasi fascia oraria, in lingerie e paillettes, vendere prodotti o rimarcare la presenza di uomini in giacca e cravatta; veniva mostrato senza pietà, era perfino oggetto di battute di alcuni politici.

Non sono tardati i campanelli d’allarme, come il boom di disturbi alimentari dei primi anni Duemila, sintomo di quell’ossessione che gli uomini non hanno mai smesso di avere nei confronti del corpo delle donne: prima negandolo, poi ipersessualizzandolo.

Si è cominciato così a parlare di body positivity, il movimento nato con lo scopo di arginare i disturbi alimentari tra le ragazze più giovani proponendo rappresentazioni di corpi normopeso o sovrappeso nei media tradizionali e nei social media. Un movimento che ha finito per promuovere l’immagine sessualizzata delle donne di ogni peso e misura, né più né meno di quanto avveniva fino a poco prima esclusivamente con le donne snelle e slanciate. Sembra che il messaggio della body positivity sia: “Il tuo corpo è sempre valido, purché sia sessualizzato”.

Forse perché è diventato sempre più difficile immaginare i nostri corpi diversamente.

C’è un altro aspetto inedito nel modo in cui le ragazze della nostra generazione e quelle più giovani vivono il corpo: i social media mettono in atto uno “sdoppiamento” di chi li utilizza, che diventa al tempo stesso attore e spettatore. E così, diversamente da quanto accadeva con la tv degli anni Duemila, le donne sono al tempo stesso le veline e le spettatrici: mostrano il loro corpo e lo guardano da fuori, come lo guarderebbe un uomo.

È interessante come questa stessa dissociazione si ritrovi anche nella sessualità: citando Naomi Wolf in Il mito della bellezza, «Le donne mi dicono che sono gelose degli uomini che traggono molto piacere dal corpo femminile; che immaginano di essere dentro il corpo maschile che è dentro di loro per poter provare che cos’è il desiderio, sia pure di seconda mano».

Noi stesse siamo tentate da questa dissociazione: in fondo, se tutta l’importanza del corpo risiede nella sua bellezza, perché dovremmo riconoscerla? Se il corpo è questo, essere corpo ci spaventa. Non è più liberatorio pensare al corpo come strumento che ci permette di vivere, amare, fare ciò che ci piace?

Siamo state però molto colpite da una provocazione delle donne della Redazione durante uno dei nostri scambi: il nostro gruppo, nato come gruppo di studio di testi femministi, diventato una fonte di scambio essenziale per ognuna di noi, è volutamente separatista. Su che cosa abbiamo basato questa scelta, se non dal presupposto che ad accomunarci, nelle nostre differenze, è proprio il corpo? Da questo punto di vista, considerarlo strumento ci appare riduttivo.

Allora è da qui che vogliamo ricominciare, dalle esperienze che ci ricordano che il corpo è nostro, non di chi lo guarda, che i vissuti del nostro corpo ci permettono di riconoscerci e di costruire insieme: in questo senso, siamo corpo.

Alla luce dei mutamenti del patriarcato e delle false concessioni con le quali tenta di ingannarci, individuare altre esperienze che permettano di inventare nuovi modi di pensare al corpo è la sfida dalla quale ricominciare.


Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 “Ricominciamo dal corpo”, 6 marzo 2022.
Immagine di Giorgia Basch, BilderAtlas

In questi giorni ho avuto grandi difficoltà a concentrarmi, sempre tentata di restare attaccata alla radio o alla TV per seguire gli avvenimenti, in questo clima di paura, minaccia e senso di impotenza. Mi è venuta in soccorso Virginia Woolf, mi sono ricordata del suo testo squisitamente politico “Le tre ghinee”, scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Come sapete, è la risposta immaginaria a un suo amico avvocato pacifista che le ha chiesto di sostenere le sue iniziative per prevenire la guerra, e lei risponde – detto in estrema sintesi – che il modo migliore di aiutarlo a prevenire la guerra, che lei mette in relazione diretta con la mascolinità, non è di ripetere le parole degli uomini colti e di seguire i loro metodi, ma di trovare nuove parole e nuovi metodi. Con lucidità e ironia smonta la pretesa di universalità del pensiero maschile pur condividendo gli scopi pacifisti dell’amico, e indica una strada per difendere la pace fondata sulla libertà e l’indipendenza simbolica delle donne. Ed è esattamente quello che sta a cuore anche a noi.

L’idea di ricominciare dal corpo è nata dall’incontro con alcune giovani donne, Ilaria e Daniela che sono sedute di fianco a me, e Emma che è qui in sala. Sono state loro a cercarci dopo aver seguito l’ultimo incontro di Via Dogana su zoom. Ci hanno scritto che sono un gruppo di sette ragazze dai 22 ai 26 anni che si riuniscono ogni settimana da circa un anno per studiare insieme la letteratura e la filosofia femminista. Sotto il nome “Le Compromesse” hanno aperto un blog e una pagina Instagram: Le Compromesse – blogLe Compromesse – instagram. Andate a leggerle, scrivono dei commenti interessanti. Scrivevano anche che per loro il confronto con donne più grandi è molto importante, e che volevano cogliere l’occasione per lavorare insieme.

Come molte di voi sanno, in quel periodo eravamo in un momento di ripensamento e di “ricambio” all’interno della redazione, così abbiamo cominciato a sperimentare questa pratica di scambio tra donne più grandi e donne più giovani. Siamo ancora all’inizio. Voglio precisare che a me personalmente non interessa intavolare ciò che banalmente viene chiamato “dialogo tra generazioni”: penso che noi viviamo il presente, la contemporaneità insieme, e voglio mettermi in ascolto per leggere elementi della realtà che da sola non afferro, a partire dell’esperienza di altre che sono donne come me venute al mondo dopo di me. E direi che c’è un guadagno reciproco, se posso citare Daniela da un suo messaggio whatsapp: “…dal confronto con tutte voi sto davvero ampliando i miei orizzonti!!!”

Abbiamo detto ri-cominciare dal corpo, infatti, non è mai venuto meno un senso di continuità. Il corpo è stata la questione fondamentale del femminismo, anche a livello internazionale: ricordo solo la nostra “bibbia” degli anni ’70, scritta da un collettivo di donne di Boston, Noi e il nostro corpo – titolo originale Our bodies ourselves, (I nostri corpi noi stesse) che corrisponde di più al senso di quel testo: togliere il potere, anche di parola, sui nostri corpi agli uomini, sottrarci all’oggettivazione.

Questa ricerca è sempre stata intrecciata con un lavoro sul linguaggio, c’era il titolo di quel libro di Marie Cardinal, vi ricordate, che circolava per molto tempo quasi come slogan: Le parole per dirlo. La pratica politica è stata ed è una ricerca di parole per dirsi, per dire l’esperienza femminile a partire dal corpo e dal proprio sentire. Il piano del linguaggio si è rivelato come luogo di scontro politico: il corpo femminile è stato al centro della politica nelle questioni dell’aborto, della legge sulla violenza sessuale, sull’affido condiviso, in tutta la vita pubblica. La parola femminile, risultato di una presa di coscienza, ha cominciato a circolare nello spazio pubblico, aprendo il conflitto con il simbolico maschile. Poi, pochi anni fa, c’è stata una svolta decisiva con il movimento #Metoo; per la prima volta è successo che la parola femminile è stata creduta e ha cambiato anche lo sguardo di molti uomini sui loro simili.

La questione del corpo si può affrontare con numerosi tagli: ad alcuni di questi abbiamo già dato spazio e attenzione in Via Dogana discutendo di prostituzione, utero in affitto, esposizione del corpo alla pandemia, ostacolo del gender rispetto alla politica della differenza. Oggi vogliamo concentrarci sulle potenzialità politiche del corpo insieme alle nostre giovani interlocutrici che sono alla ricerca di una narrazione diversa da quella dei social. Con i social media, infatti, in particolare con Instagram, si apre un altro piano di lotta oltre a quello del linguaggio che ho già nominato: è quello dell’immagine, una sfida ancora tutta da affrontare.

Prima di lasciare la parola a Daniela e Ilaria, ancora un’osservazione a proposito del linguaggio. Indubbiamente in tutti questi anni di pratica della parola ci sono stati importanti guadagni teorici del femminismo, ma io mi dico: attenzione! Nelle occasioni di scambio che abbiamo avuto con le Compromesse mi è già capitato che sentissi la tentazione di volere mettere dei concetti “nostri” sui racconti della loro esperienza, cioè di fare un po’ la maestrina – spero di essermi sempre frenata in tempo.
Sfogliando le pagine virtuali di VD ho ritrovato un incontro del 2018 dal titolo “La parola giusta ha in sé il potere della realtà”, dove Vita Cosentino diceva: «trovare le parole giuste si configura come una pratica e come tale sta in un determinato contesto. Non c’è da affezionarsi alle parole – anche a quelle che ci sono più care – ma mettersi in una postura di apertura e decidere situazione per situazione, caso per caso». Mi sembra una buona indicazione per cominciare l’incontro di oggi. E ora ascoltiamo Daniela e Ilaria.


Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Ricominciamo dal corpo, del 6 marzo 2022

Domenica 6 marzo 2022, ore 10.30
Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3

Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano


Corpo politico, corpo pensante: è dall’esperienza del corpo e dal suo intreccio con le parole che il femminismo ha tratto la sua forza trasformativa. Ma la comunicazione mediatica, in particolare quella digitale, ha comportato un profondo cambiamento: i corpi femminili, ipersessualizzati, sono diventati spettacolo e sono svuotati di realtà. La questione si pone con urgenza, soprattutto per le generazioni cresciute con lo scarto tra il corpo vissuto e quello virtuale, rappresentato ed esposto. Ne discutiamo con due giovani donne del gruppo “Le Compromesse”, Ilaria Sirito e Daniela Santoro, che interrogano la propria esperienza alla ricerca di una narrazione diversa da quella imposta dai social. Introduce Traudel Sattler.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Non dimenticate green pass e mascherina FFP2.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.


Appuntamento: domenica 6 marzo ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.

La Svezia, che dopo quarant’anni di neutralità ha chiesto e ottenuto, attraverso la sua leader Magdalena Andersson, di entrare nella Nato, è anche stato il primo paese a introdurre ufficialmente, nel 2014, una “politica estera femminista”. Una contraddizione eclatante. Con un lavoro durato quattro anni è stato pure elaborato un “Manuale” che illustra metodi e esperienze di tale politica. Sono andata a leggerlo e mi sono subito accorta che porta in sé tutti i limiti del femminismo di stato.

La politica estera femminista è organizzata intorno a tre R: rights (diritti), representation (rappresentanza) e resources (risorse). In sostanza,si muove nell’orizzonte della parità dei diritti, dell’accesso delle donne nei posti decisionali, della loro partecipazione nella prevenzione dei conflitti e nelle trattative di pace e di disarmo. Principi in realtà già sanciti nella Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “Donne, pace e sicurezza” del 2000. Ma mi chiedo: con quale forza le donne possono agire, con le mediazioni date e alle procedure pensate da altri? Infatti, dal 2000 in poi i percorsi sono stati quelli prestabiliti: anche in presenza di molte donne, definite “agenti di cambiamento”, si sono infoltiti e ampliati i documenti, le commissioni, i piani di azione… E ora che c’è una guerra aperta in Europa e la politica estera dovrebbe attivarsi, molti dei principi “femministi” che già prima sembravano solo dichiarazioni d’intenti si rivelano del tutto inefficaci e tutta questa codificazione limita l’orizzonte del pensiero.
Quando mi capita di vedere in TV Annalena Baerbock, ministra degli esteri tedesca – anche lei fautrice una politica estera femminista – il dilemma lo sento lacerante: prima snocciola, a mo’ di provetto generale, una serie di nomi di carri armati, obici e sistemi di difesa sofisticatissimi da mandare in Ucraina, in una logica di netto schieramento, poi cita i miliardi di aiuti umanitari per le popolazioni martoriate in varie parti del mondo; infine nel dibattito sui giganteschi investimenti per l’esercito tedesco racconta i suoi incontri con le madri di Srebrenica che le hanno descritto le pesanti conseguenze della guerra di cui soffrono tutt’ora. Penso che contraddizioni lancinanti la attraversino: lo fa per discolparsi? per tornare al suo programma femminista? E mi domando: Come potrà ritrovare sé stessa?
Se penso alla pandemia, mi torna in mente che molte donne di governo hanno gestito quella situazione difficilissima con signoria, mostrando forza e autorità di origine femminile. Ora mi chiedo: che cosa ha scatenato la guerra in queste donne che hanno raggiunto posti di comando? È una contradizione aperta su cui bisogna continuare a riflettere.

Recentemente sono stata in Germania e ho visto un documentario bellissimo del 2021, Le Inflessibili, del giornalista e regista Torsten Körner, sulle donne in politica dagli anni ’50 fino alla riunificazione. Mi sono chiesta perché questo filmato mi ha così emozionata, come mai proprio un uomo è capace di restituire spessore a queste pioniere della politica parlamentare. Ho capito che c’è di mezzo la sua presa di coscienza. È la sua reazione di fronte a tutto il materiale documentario che lo porta a costringere sé stesso e i suoi simili a guardarsi allo specchio. È proprio il processo autocoscienziale che gli ha dato l’intelligenza per vedere il di più femminile, la radice della forza. Infatti, la forza quando c’è va anche vista! Nel documentario si vedono ricchi materiali di archivio dal parlamento tedesco e interviste fatte oggi, nelle austere sale dell’ex parlamento a Bonn, alle protagoniste di allora che raccontano la propria esperienza con un misto di ironia, amarezza e una chiara voglia di vincere. Al di fuori di qualsiasi logica partitica parlano delle loro lotte, delle offese e umiliazioni subite, in un territorio difeso dai detentori del potere con strategie che conosciamo tutt’ora, ridicolizzare, denigrare, sminuire, ignorare con ostentazione… Ma parlano anche di gesti dirompenti: memorabile il primo discorso della deputata Waltraud Schoppe che a proposito dell’aborto invita gli uomini a evitare “penetrazioni irresponsabili” e a inventare pratiche sessuali  alternative, con conseguente tumulto imbarazzato nei banchi del parlamento. Oggi le intervistate parlano da una posizione di signoria ormai acquisita, sicuramente grazie al movimento delle donne che ha dato loro la forza e le parole per mostrare la miseria simbolica e la limitatezza di quelle strutture create a misura d’uomo, e per creare una genealogia che ha aperto la strada anche a Angela Merkel.
Körner aveva già pubblicato, nel 2020, un libro sulle “Donne nella repubblica degli uomini”, ma è proprio grazie al materiale visivo dissotterrato dagli archivi che l’operazione diventa così efficace: fa vedere bene anche gli uomini. Sono i gesti, le risatacce, le pacche cameratesche sulle spalle del compagno di partito, l’incredulità e l’imbarazzo nelle facce degli onorevoli di fronte alla verità di una donna, che mostrano come quel patto sessuale di cui parla Carole Pateman è profondamente iscritto nelle strutture politiche, anche in presenza di molte donne. Prima di capirlo, l’autore, intento a scrivere una biografia familiare dell’ex cancelliere Willy Brandt, aveva ascoltato molte testimonianze di donne politiche, mogli di politici e contemporanee di Brandt, scoprendo così la ricchezza del pensiero politico femminile e il suo proprio “orizzonte storico limitato”. Nel libro dice: “Il loro concetto di politica mi sembrava più differenziato di quello degli uomini, ed essendo quelle che dovevano tenere insieme le famiglie, vedevano con maggiore chiarezza le devastazioni e le deformazioni che la vita politica può portare nelle vite”. Di conseguenza, tutta la storia della repubblica di Bonn com’era stata scritta finora, di colpo gli sembrava “una cosa estremamente riduttiva, unilaterale e monotona”. Si è reso anche conto che non si poteva rimediare con una galleria di donne da affiancare a quella degli uomini, come una “correzione cosmetica a posteriori, un ritocco di vecchie fotografie”. Vuole quindi mostrare molto di più: come mai tutt’ora molti uomini e molte donne fanno fatica a riconoscere i meriti delle donne, come mai alle donne che scelgono la politica istituzionale talvolta mancano i modelli. È come se gli uomini al potere non avessero solo lasciato voluminose autobiografie, ma anche degli “algoritmi efficaci” che riproducono il loro linguaggio corporeo come quello verbale, creando un ordine simbolico inconsapevole a molti dei suoi stessi attori. L’autore invita i suoi simili a superare questi limiti del proprio sesso, del proprio pensiero, a cogliere l’occasione per un “viaggio verso di lei, dove lui si può perdere senza subire una perdita, perché qui comincia un dialogo che comprende l’essere umano intero. Ovviamente ci sono delle barriere, ma la possibilità di tornare arricchiti da tale viaggio mi sembra maggiore del suo contrario. E se si dovesse subire una perdita, spero che sia in primis quella della propria ristrettezza mentale”.
La stessa Angela Merkel, invitata alla prima, ha augurato che non solo molte spettatrici, ma anche molti spettatori assistano alle proiezioni di questo documentario. E io sono perfettamente d’accordo con lei.


Manuale di politica estera femminista svedese: 
https://www.government.se/reports/2018/08/handbook-swedens-feminist-foreign-policy/
Torsten Körner: In der Männer-Republik. Wie Frauen die Politik eroberten. Köln, 2020
Torsten Körner: Die Unbeugsamen. Film documentario, 2021


(Via Dogana 3, 11 luglio 2022)

Mi aggiungo al dibattito su “La differenza sessuale non è un contenuto. L’ostacolo del gender”. La mia riflessione riguarda la difficoltà a capirsi tra posizioni diverse e la necessità di chiarire i concetti in gioco. Quale storia hanno i concetti di genere, gender, e differenza sessuale? Come vengono usate queste parole?

Il primo grande inciampo è un certo modo comune di intendere differenza sessuale e differenza di genere, che vengono per lo più sovrapposti e identificati con il binarismo, cioè riportati ai luoghi comuni della lingua condivisa su che cosa significhi essere donna ed essere uomo, in termini simmetrici e contrapposti. Il binarismo è sostenuto da una cultura antica, rinforzata nelle lingue romanze dai generi grammaticali del femminile e del maschile. Così in italiano la luna è femminile e il sole maschile e ciò porta con sé significati radicati in strati profondi dell’immaginario collettivo.

Abbiamo portato critiche al binarismo, perché, sappiamo, la differenza sessuale non è un contenuto. Il femminismo ha criticato i modelli femminili insiti nel binarismo dei luoghi comuni. Si è detto: donne sì, ma senza coincidere con il femminile stereotipato. Donne, piuttosto, il cui significato è tutto da trovare nel corso di una vita e confrontandosi con altre donne.

Diverso il modo di accostarsi alla questione della normatività dei generi linguistici da parte del mondo anglosassone. Negli anni Settanta e Ottanta è arrivata dal femminismo americano la proposta che, facendo riferimento alla distinzione sex gender (sesso biologico e genere come costruzione culturale), chiamava all’impegno di lottare politicamente per trasformare il piano del linguaggio stereotipato. Rompendo così con la normatività del simbolico dominante. In questo c’è stata una grande sintonia con il femminismo europeo: la stessa critica agli stereotipi e l’affidare al conflitto nel linguaggio una parte importante della trasformazione della relazione delle donne con il mondo.

Ciò che ha marcato la differenza rispetto al femminismo europeo è stata la divisione netta operata da quello anglosassone, che ha distinto tra sesso biologico (sex) e lingua (gender). Questo ha a che fare in parte ancora una volta con le forme grammaticali della lingua. Sappiamo che le lingue anglosassoni non hanno il femminile e il maschile per i sostantivi e gli aggettivi. Per cui la luna non ha sesso. Hanno sesso gli animali e dunque gli umani in quanto animali. Hanno sesso la maggior parte dei vegetali. Per cui il sesso è una questione solo biologica. Le finestre non hanno sesso.

Io credo che l’aver isolato il sesso biologico dalla lingua abbia portato a delle divaricazioni di cui sentiamo fortemente le conseguenze oggi.

Ora, invece, la sessualità è intrecciata fin dall’inizio con le parole. Per noi è più evidente quello che è vero in generale: c’è porosità tra il piano delle parole e il piano della sessualità. In altri termini c’è porosità tra natura e cultura.

Nel conflitto oggi aperto sulla questione dell’identità di genere e della differenza sessuale uno dei punti centrali è proprio questo: il poter pensare di separare sesso biologico dal piano del linguaggio.

Certo ci accomuna con i diversi movimenti, che fanno capo alla sigla LGBTQI+, la critica ai luoghi comuni binari del maschile e femminile normativi, ma ci separa questa distinzione tra sesso biologico e linguaggio. Per noi essere donna non è riducibile a biologia naturale né identità linguistica. Non abbiamo cercato identità né separato il sesso dalla sessualità e dalla ricerca di senso e da forme politiche di vita in comune. Non abbiamo mai parlato di corpo oggettivo, ma abbiamo parlato di corpo vivente inscritto di parole, aperto a un movimento trasformativo, in cui la sessualità è coinvolta, e che è via per scoperte soggettive in uno scambio con altre e altri.

Venendo al mondo, noi non partiamo da un’identità, bensì siamo accolti da una culla di parole. Mi riferisco ai pensieri, alle fantasticherie, all’immaginario di nostra madre su di noi. Il che significa che il nostro è un corpo “vestito” di parole, perché immaginato nella sua sessualità ancor prima della nostra nascita. Il sesso del corpo lo veniamo a conoscere pian piano, toccandoci e guardandoci, ma lo sperimentiamo da subito “vestito” di parole. Infatti per tutta la vita ci troviamo a fare i conti con l’immaginario di nostra madre, che ha avvolto di parole la nostra sessualità e più in generale la nostra vita di cui la sessualità è uno degli aspetti. Non a caso per tutta la vita cercheremo la nostra via desiderante, differenziandoci da quella prima culla che ci ha accolto. Ma per fortuna che l’abbiamo avuta – e di questo è bene essere grati –, perché altrimenti non potremmo scoprire il singolare desiderio che ci guida e saremmo alla deriva.

Un altro importante elemento di differenza sta nel fatto che il movimento LGBTQI+ ha posto al centro l’eterosessualità normativa, o meglio il maschio bianco, adulto, eterosessuale e tutto il resto sono differenze: la donna eterosessuale, bianca, nera, il gay, la lesbica, il trans nelle sue declinazioni, l’intersessuale. Tutte differenze intese come minoranze. Ora questo è stato un punto molto chiaro nel femminismo italiano: le donne non sono minoranza. Di conseguenza il mio invito a quelle che il movimento LGBTQI+ chiama differenze è di non ridursi a posizione di minoranza, ma di rilanciarne il valore e la forza creatrice degli stili di vita a cui stanno dando forma.

Credo che chiarire sia da parte nostra sia da parte del movimento LGBTQ+ l’uso diverso delle parole e il significato di politica come creazione di modi di vivere assieme, possa liberare energia per il formarsi di alleanze su particolari questioni che si presentano nel nostro paese. Del resto mi interessa quando vedo una loro ricerca di verità soggettiva in rapporto alla sessualità, e sento che in questo ci sono semi trasformativi potenzialmente arricchenti per tutti.

Sono convinta che il sistema capitalistico patriarcale sia spaventato dalla presa di spazio pubblico in atto da parte delle donne. Queste in molte parti del mondo contrastano le politiche economiche maschili, il dominio della finanza, del profitto e della legge del più forte. Le donne limitano la presenza simbolica dell’uomo, la devalorizzano. L’essere due: maschi e femmine a contrattare il governo del mondo si fa sempre più stringente ed è l’alternativa al dominio maschile e al sistema capitalistico.

Le donne sono “l’altro” per l’uomo e illuminano tutto ciò che ha sostanziato la vita umana senza riceverne consapevolezza e valore. Le persone ci stanno guardando e possiamo modificare la dinamica politica complessiva: quella sociale, economica e culturale.
I due corpi sessuati che la natura ci ha dato per vivere e divenire persone sono oggi interpretabili liberamente da ciascuna e ciascuno per esistere e agire in molte parti del mondo; le norme della divisione dei compiti e dei sentimenti, delle emozioni e dei desideri che il patriarcato aveva imposto hanno lasciato spazio alle nostre scelte e capacità, ora dovremmo poter comunicare e contrattare tra donne e uomini ma ancora non è facile perché gli uomini non sono abituati a farlo.
La natura ci dà limiti, e oltre al corpo ce ne sono molti altri; la realizzazione sociale di noi stessi in questi limiti ci avvantaggia perché ci permette di costruire in un contesto dimensionato che possiamo governare. Accettare i limiti personali, dimensionarci, parzializzarci e godere degli apporti degli altri che osserviamo e con cui ci relazioniamo mi dà realizzazione.
Il compito che alcune donne mi prospettano di addentrarmi nella futuribilità di piaceri sessuali immaginifici mi estenua, come tentare teorie che li governino.
Ho avuto e ho interessi che mi danno grandi piaceri erotici, come ho sentito dire a Stefano Sarfati alla Libreria delle donne tempo fa. L’erotismo si soddisfa con molte e diverse manifestazioni della vita: per me lo scambio affettivo con un uomo; l’amore estatico per l’intelligenza delle donne, le loro azioni politiche differenti da quelle dei maschi e le priorità che illustrano; i doni della natura.
Anche lo studio delle realtà, specie quella demografica e generazionale, perché su queste vorrei ci si orientasse a organizzare la società in modo responsabile: dal contenimento numerico delle gravidanze, alla valorizzazione delle esperienze delle persone anziane nel lavoro e nella politica, dando immagine che l’età sia una ricchezza relazionale.
Il confronto con i nuovi e vecchi movimenti politici che trattano di sessualità e lotta al patriarcato ha segnato per me qualche frustrazione e preoccupazione dove li ho sentiti aggressivi nei miei confronti; e nei confronti dei movimenti delle donne che sviluppano la loro cultura politica di alterità a quella degli uomini dando significato al conflitto tra due polarità.
È facile amare le differenze quando non ti intralciano, certo, ma non è detto che i progetti politici differenti si debbano per forza intralciare, possono essere ragionati.
Alcune donne, non poche nel mondo della contestazione al patriarcato, chiamano colonizzate quelle attratte sessualmente dai maschi. Esiste in effetti una competizione intorno alla norma sessuale: non è facile sostenersi da sole nella propria unicità senza desiderare di abbassare il valore di chi è diversa da noi. Allo stesso modo finiscono per monopolizzare agli occhi della popolazione l’amore per le donne, quell’amore: intellettuale, civile, politico che con tanta volontà il femminismo ha creato e reso discriminante nei rapporti sociali, viene oscurato. Riportato nel campo sessuale: della coppia, della famiglia o del libertinaggio, risulta più semplice da intendersi, conferma una tradizione di investimenti; perde rilevanza lo spostamento operato dal femminismo nelle priorità delle donne che ci ha portate a investire nella vita pubblica, cercando di restituire a questa affetto e carnalità, umanità. Lo si nota in un diffuso sospetto verso il femminismo che molte donne rilevano nelle amiche, come al contrario si rileva nelle ragazze che vivono difficoltà nel comunicare con i maschi il cogliere dal femminismo l’indicazione di rivolgersi alle donne anche sessualmente.
Il trans-femminismo ci ha rubato il nome per un movimento che è altro dal nostro: sembra rivalutare l’appetibilità della differenza dei generi di matrice maschile, proprio quelle descrizioni normate di uomini e donne che le femministe avevano intaccato e che il mondo maschile insiste però nel buttarci addosso. Vorremmo permettere alle identità di divenire più personali e libere a partire dalle esperienze del proprio corpo e dalle sue azioni, dalle peculiarità di ciascuna. Forse però noi donne e uomini non ci accorgiamo della carica sessuale che sprigioniamo spontaneamente, ma anche che carichiamo, nei e nelle trans vediamo la caricatura, ma la stessa cosa in noi ci pare legittima.
Il trans-femminismo ho pensato negasse la differenza biologica come dato reale e necessario alla vita personale per pensare, pensarsi e agirsi; nega in realtà di averne ricevuta una chiara e accettabile al suo desiderio o la sente diversa da quella che appare. La natura è complessa, i poli sessuali forse permettono molte gradazioni. Non è una condizione facile e va detta, saputa, rispettata.
Perché stupirsi però del fatto che questa problematica non investa direttamente il movimento femminista e respingere, nel voler dichiarare un sesso, la soluzione di dirsi maschi o femmina o entrambi con un riferimento al percorso biologico ed esperienziale condotto? Sentirsi diversi è un trauma che in parte ciascuna e ciascuno conosce, il femminismo ha voluto dichiararlo, renderlo la forza soggettiva di ogni donna, forse per questo da noi ci si aspetta un aiuto. È quello di indagare i propri disagi con ogni mezzo disponibile e avere la forza e sentire l’onore di dichiararsi per come ci si sente, documentare il proprio percorso e rivendicare di essere un gruppo sociale. Questo lavoro non è e non deve risultare sminuente. Al contrario, l’ampliamento di analisi della realtà e non la sua riduzione è la pratica che facciamo e riteniamo utile.
Trans-fobia, come omo-fobia sono definizioni che rimandano alla malattia mentale; ritorcere gli insulti contro chi ci ha insultato lo facciamo tutti, ma è cattiva politica, non indica una direzione di cambiamento.
Anche il tentativo di conquistare nuove norme nella lingua italiana che facciano scomparire la differenza di maschi e femmine è di matrice maschile: riappare l’umano iperpotente del patriarcato a comprendere entrambi i sessi senza che alcuna e alcuno possano dire e confrontare le loro esperienze. Appare una tavola pulita, che il “portatore d’organi” che se ne impossessa riempirà degli organi che gli servono.
Ho paura che i maschi abbiano il sopravvento ancora nel loro rimontare la leadership traballante maschile, ad esempio nel campo della maternità dove si guadagnano figli che perdono le madri perché i padri se ne disfano!
Sono le coppie sterili ad aver aperto la strada alle operazioni tecniche del prendere l’ovulo di una donna e metterlo in un’altra donna, così che finita la gravidanza il bambino venga consegnato. Ma è una ricerca scientifica dominata dal profitto ad averle sollecitate. Con la tecnologia diventa possibile che la relazione con se stessi non accetti più alcun limite e quella con gli altri non abbia per noi alcun peso? Lo sfruttamento del lavoro torna a essere senza regole e pervade di nuovo l’intero corpo? È un ritorno alla celebrazione della ragione del più forte come pratica comune?
La tecnologia indirizza il consenso verso un futuro di desideri pretesi e non guadagnati con il confronto, il ragionamento, la mediazione. È imposta dallo sviluppo capitalistico e finanziario che con questa si alimentano e vuole liberarci dal rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri, proprio dalle fatiche che ci hanno fatti e ci fanno umani!
È facile in questa confusione volare sopra il conflitto tra maschi e femmine ma il conflitto sta lì, per tutti.
Il sistema capitalistico maschile fa politica per i suoi interessi ogni minuto, confonde e manipola, contrappone e svia i movimenti dal contrastare il sistema economico, gonfia quelli che non interferiscono con l’economia o che addirittura ne favoriscono rami di interesse, esaspera richieste che mettono i cittadini in contrasto tra loro e poi se ne libera.

In questi giorni sta circolando sui social l’appello di una ragazza vittima di un molestatore che, presentandosi come ginecologo, l’ha contattata telefonicamente e le ha rivolto domande intime. Divulgando la notizia, la ragazza ha raccolto testimonianze simili: sempre più giovani donne rivelano di essere state contattate dallo stesso uomo con modalità identiche e adesso il caso è diventato nazionale.

Casi come questo sono senza dubbio singolari per le modalità, ma non certo per la dinamica di fondo: le donne sono sistematicamente oggetto di molestie sessuali da parte degli uomini. Ed è essenziale parlarne, e farlo in questi termini – donne e uomini.
È per questo che alla domanda chiave dell’incontro della Libreria del 10 ottobre scorso, se sia possibile trovare un punto di incontro tra femminismo della differenza e teorie queer, alcune voci decise rispondono un secco “no”: risulta difficile riuscire a parlare di donne, di esperienze femminili e delle ipotesi per un futuro basato su tali esperienze, che derivano da una commistione di aspetti corporei e sociali, se ci si confronta con una cultura che di donne non parla, preferendo termini alternativi come “portatrici di utero”. Ed effettivamente espressioni come questa non ci permettono di ritrovarci in un vissuto comune, fatto sì di biologia ma anche di socializzazione, nostra e degli altri nei nostri confronti. Le donne non subiscono molestie come quella che ho raccontato nei paragrafi sopra perché sono “portatrici di utero”, né perché si identificano come donne. È l’eredità di una storia che sulla nostra biologia ha costruito dei ruoli che persistono nell’influenzare i comportamenti nostri e altrui a determinare episodi come questo. E per parlarne, abbiamo bisogno di un terreno comune e di parole con le quali ri-conoscerci.
Tuttavia, come è anche stato fatto notare all’incontro in Libreria, i fenomeni che vediamo verificarsi nella cultura queer sono mossi, tra le altre cose, da un bisogno che il femminismo della differenza conosce bene: smantellare i costrutti sociali, i ruoli e le norme di genere che pongono il potere nelle mani degli uomini e che opprimono le donne. Tra i temi più importanti che circolano negli ambienti queer vi è la critica alla cis-etero-normatività intesa come la norma sessuale e comportamentale che si accompagna all’essere uomo e all’essere donna. Insomma, se i ruoli di genere diverranno obsoleti anche grazie alle teorie queer, non potremmo esserne più felici. Anzi, è proprio in questa spinta anti-tradizionalista che femminismo e teorie queer convergono.
Rimane però al femminismo della differenza l’arduo compito di parlare alle donne mentre distrugge il concetto di donna tradizionalmente inteso – un compito la cui difficoltà è intrinseca e attribuibile solo parzialmente al movimento queer. Quest’ultimo tutela le identità non binary e trans, il femminismo ha come obiettivo la libertà delle donne (comprese quelle che “donna” l’hanno rifiutata come identità e come parola) anche attraverso una critica del concetto patriarcale di donna.
Un obiettivo che, a mio parere, è possibile portare avanti anche attraverso il dialogo con chi si identifica come queer, specialmente nelle più giovani generazioni non ancora giunte alla cristallizzazione del dibattito.

Care tutte,  io sono eterosessuale. Ossignur, chissà che vuol dire. Che sono sposata con un uomo, e che ho fatto sesso con alcuni maschi.

Che cosa significa alla mia età, in cui, almeno per me, la sessualità è quasi inavvertita? Cioè il desiderio, il piacere, l’impulso, il bisogno, la fame, il vuoto, l’irrequietezza, l’erranza, l’indeterminata mancanza, fantasticare la meta e allucinare completamenti, aspirare alla pace… insomma, il sesso che guida, che spinge, che illumina il paesaggio e abbellisce i desideri.

E adesso? Rispetto a quel corpo vibrante, “elettrico” come si dice, che avverte altre intensità di campo, di persone sconosciute? Una tranquilla certezza che è stato, ed è, e sarà sempre, ma ora non più. Che cosa si è sostituito?

Ecco di cosa voglio parlare. Dell’affetto, del calore diffuso, dell’apertura, dell’accoglienza, dell’attenzione, della sollecitudine, del ritirarsi, dell’osservare con compiacimento, dell’accettazione senza sbarramenti. La finezza del giudizio, che penetra e sfoglia fino a raggiungere il nucleo che spiega. Giustificare è un altro discorso, non è comprendere.

Fino ad ora non ho trovato scrivendo la necessità di orientare il discorso verso una specificità umana che differenzi alcune o alcuni da altre o altri. Come, poi, se già Carla Lonzi non avesse parlato in positivo dell’autoerotismo.

Mi pare invece che potrei essere certa che la sessualità, che è mancanza e produzione, sia unica. Neutra? Il termine è povero, rimanda al né-né, quindi sarebbe inutilizzabile. Come inutilizzabile è l’o-o, qualunque opposizione.

Bene, io sono eterosessuale. Ossignur, chissà che importa, e che significa? Come ha scritto Vita Cosentino «l’unico terreno politico [NON] è costituito dalle pratiche sessuali».

Ciao, Cristiana Fischer