Ho sempre avuto un rapporto difficile con la gravidanza e la maternità: di fronte a una donna incinta, al pancione crescente, anche di un’amica, sentivo una incomunicabilità, un forte disagio; e di fronte al latte materno che sgorga dal capezzolo sentivo addirittura ribrezzo. Mi sembrava pura corporeità senza parola, e mi veniva come un istinto di fuga.
Effettivamente, quando da giovane vivevo in Germania, sono scappata da una situazione in cui alcune amiche femministe cominciavano a fare figli. Contemporaneamente, il mio atteggiamento trovava legittimazione in una parte anche abbastanza forte del femminismo degli anni ’70: c’era infatti una tendenza a voltare le spalle alle donne che sceglievano la maternità, noi ci sentivamo “più femministe”, più radicali.
A parte questa posizione un po’ ideologica, non mi sono mai trovata davanti al bivio diventare madre, sì o no. Il desiderio di maternità non mi si è mai presentato. Una vita con figli/e, e men che meno con un marito, per me era semplicemente inconcepibile, e avevo anche la fortuna di avere una madre che non me la chiedesse. Neppure sentivo la pressione sociale a fare figli che molte giovani donne oggi denunciano.
Poi ho avuto la fortuna di venire in Italia e di trovare il femminismo della differenza, in un luogo dove si generava libertà femminile, come recita il titolo Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne. Qui ho conosciuto la figura della madre in un senso che ha trovato subito una forte e profonda risonanza in me: colei che è venuta prima di me ed è più grande di me, la madre simbolica. Figura di scambio, figura che valorizzava e autorizzava ciò che avevo desiderato e che avevo già vissuto e praticato ma con incertezza: la preferenza per le mie simili, la ricerca di “antenate” nella storia e nella letteratura. Ho trovato una misura femminile che mi permetteva di poter dire felicemente: “sono una donna”, “scelgo consapevolmente la mia appartenenza al sesso femminile”, sapendo che non è una questione di scelta.
Riferendomi a una società femminile dove la madre è fonte di saperi e di linguaggio (madre simbolica, generare, mettere al mondo, lingua madre…), potevo mettere tra parentesi l’esperienza concreta della maternità che non era materia di scambio, e alla mia iniziale avversione nei confronti di quest’ultima è subentrata l’indifferenza. Per anni ho semplicemente ignorato ciò che le madri, soprattutto le neomamme, dicevano, scrivevano, chiedevano. Ho snobbato per esempio il Müttermanifest, il manifesto delle madri, pubblicato in Germania nel 1987, forse il primo documento che dava voce alle donne che facevano leva sulla potenza e la voglia di procreare per chiedere una trasformazione profonda delle strutture sociali. Mentre vedevo sempre più chiaramente come la nostra storia e cultura, i saperi costituiti si basano sulla forclusione della figura della madre dal simbolico, persisteva, nella mia economia personale, la forclusione delle madri in carne ed ossa. Penso che in parte sia dovuto anche al fatto che il discorso pubblico si focalizzava su asili nido, condivisione dei lavori domestici e educativi con i padri, problemi di conciliazione tra famiglia e lavoro… cosa c’entravo io?
Ho intravisto invece che l’esperienza di essere madre, può essere letta come un vero e proprio gesto di libertà femminile, per certi aspetti sovversivo rispetto all’organizzazione dei commerci sociali e del lavoro, quando il gruppo lavoro della libreria delle donne ha pubblicato, nel 2008, Lavoro e maternità – Il doppio sì. Esperienze e innovazioni. Senza però essermi confrontata in prima persona con le madri che con i loro racconti erano state la materia viva di questa ricerca, ho capito che lo sforzo di risignificare l’esperienza (p.es. l’espressione “il doppio sì” al posto di “problema della conciliazione”) era un guadagno politico per tutte, anche per me. Un superamento della divisione tra madri e non madri.
E ora mi sono trovata, in modo sempre più ravvicinato, a confrontarmi con la tematica gravidanza e maternità: la relazione di scambio con le giovani amiche delle Compromesse, in particolare Daniela Santoro, e la loro urgenza di pensare politicamente la questione che si pone loro per età anagrafica, ha sollecitato in me la voglia di sapere, attraverso le loro parole, qualcosa del presente che potrebbe sfuggirmi. Poi, sempre nella redazione di Via Dogana, l’impatto forte e diretto con Marta Equi, madre di un bambino piccolo e di nuovo incinta, relazione alla quale non potevo e non volevo più sottrarmi. Non sono scappata come avevo fatto tanti anni fa. Ho sentito il suo forte desiderio di mettere in parola quell’esperienza per me così lontana, e finalmente mi sono messa in una posizione di ascolto e di apertura. L’ho seguita nel suo “viaggio inaspettato” che racconta con parole che sento profondamente vere, frutto di un’autentica fatica. Nel suo “lavoro di racconto dell’esperienza” si è fatta accompagnare da Carla Lonzi – che mediazione felice! Questa pensatrice per me “insospettabile” per quanto riguarda il tema della maternità, ha messo me nella giusta predisposizione e ha aiutato Marta a strutturare la propria esperienza. Il disacculturarsi di Lonzi, un passaggio che Marta ha sentito come vero per sé, ha colpito anche me; con le sue parole Marta ha sviluppato e arricchito questa espressione mostrando il potenziale radicale della maternità per la vita di una donna. Ascoltandola, mi è venuta in mente qualche mia collega e madre che aveva una forza, anche una certa spregiudicatezza, e un’efficacia nell’agire che ammiravo.
Ora vedo quale forza può prodursi anche in colei che genera, mentre finora avevo attribuito la forza femminile esclusivamente all’essere ereditiere del precedente di forza creato da altre che sono venute prima di noi, cioè alla posizione di figlia in una genealogia femminile.
Negli anni ’70 abbiamo fatto un cambiamento radicale: abbiamo separato la sessualità dalla maternità. Di più: abbiamo cominciato a ragionare sulla nostra sessualità liberandola dalla gabbia della sessualità maschile. Ragionare con altre nella pratica di autocoscienza stando radicate nei corpi ci ha spalancato un mondo. Personalmente ricordo quanto sia stato per me importante darmi la possibilità di conoscere la mia sessualità tenendola ben distinta dalla maternità.
La ricerca della mia libertà passava attraverso la possibilità di tenere separati in sicurezza i due aspetti. E infatti diventava sempre più chiaro che il piacere femminile è strutturalmente non procreativo. Dunque ho fatto tutto quello che c’era da fare per vivere la sessualità senza interferenze procreative. Non credo si tratti solo di competenza in anticoncezionali, né tanto meno di programmazione della maternità o maternità consapevole. Gli intrecci sono più profondi. Qualche anno fa, ripensando a quegli anni a partire dal tema della inviolabilità, scrivevo così:
«Camminavo a notte fonda nelle vie di Milano, dopo quelle riunioni di donne, lunghe lunghe, e tornavo a casa piena di pensieri e di emozioni. Radiante. Non ci pensavo quasi mai, ma avevo la sensazione che fossimo padrone delle strade, che niente ci avrebbe colpito. Prendendo la parola con le altre donne, mi stavo riappropriando di uno spazio interno e credo fosse questo che mi/ci faceva sentire inviolabili (ricordo di altre che dicevano la stessa cosa). Solo noi potevamo dare accesso ai nostri corpi, come alle nostre menti e cuori (quanto si parlava di sessualità e di penetrazione!)».
E infatti si parlava molto anche di aborto: un fascicolo speciale di Sottosopra del 1975 dal titolo Sessualità procreazione maternità aborto rende conto dell’intreccio di tutti questi temi e della ricchezza degli scambi e dei pensieri. Così afferma l’introduzione al fascicolo:
«Il movimento delle donne da anni ha una pratica politica che investe la sessualità e quindi anche il problema dell’aborto.
Recentemente nella società è prevalsa l’idea di trovare un compromesso meno ipocrita e meno iniquo su tale problema, salvo restando che tocca e toccherà sempre alle donne assicurare la limitazione delle nascite con i vari sistemi esistenti dei quali l’aborto è quello principale.
Noi donne invece diciamo: (1) che non vogliamo più abortire; (2) che non si può parlare di aborto senza chiamare in causa la sessualità dominante e la struttura sociale.
I testi qui raccolti documentano la presa di posizione, le riflessioni e le proposte di gruppi femministi e di singole donne. In gran parte essi sono ricavati dalla registrazione di un incontro tenutosi a Milano (1-2 febbraio 1975).»
Tutto ciò chiama in causa anche gli uomini. Allora lamentavamo che la responsabilità fosse tutta nostra, mi chiedo quanto oggi sia cambiato. Quanto gli uomini si interroghino sulla propria sessualità, quanto siano ansiosi di responsabilizzarsi sugli aspetti procreativi. Le donne hanno ripensato le radici del venire al mondo e della convivenza umana (questo riguarda il lavoro, nasciamo dipendenti e moriamo dipendenti, tutto il lavoro necessario per vivere eccetera) hanno riformulato la radicalità simbolica della relazione materna: mi chiedo quanto gli uomini vogliano riposizionarsi, dal momento che spargere in giro il seme senza controllo ha attenuato la sua potenza simbolica patriarcale. Se riconosciamo la forza simbolica e non metaforica del corpo della donna, cosa ne è del rapporto sessuale penetrativo, che è poi quello generativo? Come dicevo, negli anni ’70 ne abbiamo parlato tanto e l’abbiamo messo allegramente in discussione. Forse sarebbe il momento di ribadire che con la penetrazione l’uomo non possiede e non conquista. Al contrario, si riconsegna al corpo femminile da cui ha avuto origine, e può farlo perché una donna gli dischiude questa possibilità.
Tornando alla mia esperienza di quegli anni: anche per me è poi arrivato il momento in cui mi sono chiesta se volevo essere madre. Mi sono interrogata, per un po’ ho lasciato fluire desideri e fantasie, ho immaginato… E un’immagine ha fatto chiarezza (definitiva, adesso posso dire) dentro di me: quando mi pensavo madre mi vedevo sempre madre di una bambina. Dunque questo era un maternage politico e personale, continuare nel percorso di generare libertà femminile. Per essere madre biologica avrei dovuto avere un’apertura differente.
C’è poi tutto il capitolo della relazione materna di cura. Oggi, da anziana, posso dire che non mi è sconosciuta: la vecchiaia malata riapre le porte alle cure materne. La cura delle creature piccole è un paradigma fondamentale, perché chi riceve quelle cure è in una posizione di dipendenza totale. Lì non esistono margini di contrattazione, che invece caratterizzano la reciprocità delle relazioni tra adulti. Ho sperimentato che la stessa dipendenza totale può caratterizzare la vecchiaia malata, in particolare nelle malattie neurodegenerative. Passare nelle relazioni dalla reciprocità/contrattazione alla dipendenza è un processo in direzione uguale e contraria a quello che avviene nel far crescere una creatura per avviarla alla responsabilità/reciprocità delle relazioni. Ragionare sulla relazione materna e sul lavoro del care è dunque particolarmente importante oggi perché si invecchia sempre più e perché, come ci ha insegnato la pandemia, le nostre vite sono sempre più esposte nello spazio sociale.
E questo discorso si inserisce nel grande discorso di riconcettualizzare il lavoro, un cambio di civiltà che renda possibile pensare contemporaneamente, per gli uomini e per le donne, «tutto il lavoro necessario per vivere» – come l’abbiamo chiamato nel Gruppo lavoro –, la sfera produttiva e quella riproduttiva, tenendo presente che quest’ultima riguarda in generale tutto il lavoro del care, che si amplia in una popolazione che invecchia (quest’ultimo io lo chiamo “tutto il lavoro necessario per morire”).
Cura e care, relazioni e dipendenze: su tutto questo è interessante rileggere anche i molti scambi e confronti che abbiamo avuto con Ina Praetorius. Rimando qui al capitolo finale del libro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo delGruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano (Moretti&Vitali 2022).
Il nostro gruppo di donne di Bressanone fin dall’inizio, quando nel febbraio del 2005 lo abbiamo fondato chiamandolo da subito “Baubò”, è stato incentrato sull’argomento della maternità. Infatti è nato sulla spinta dell’urgenza di uscire dall’isolamento sociale in cui alcune di noi, divenute recentemente madri, rischiavano di precipitare a causa di questa loro nuova condizione. Un gruppo comunque voluto anche da chi madre lo era già da tempo, oppure non lo era affatto, ma desiderava contribuire a dare maggiore visibilità a quelle che erano le vere esigenze di chi voleva procreare.
La procreazione infatti è una potenzialità femminile con cui comunque tutte noi prima o poi abbiamo da fare i conti, in un modo o nell’altro. Inizialmente ai nostri incontri partecipavano anche Elisabeth P. e Gertraud R., due ostetriche molto impegnate a migliorare le condizioni di assistenza alle donne che vogliono diventare madri durante tutte le fasi che portano alla maternità, dalla gravidanza al parto al puerperio.
Chi di noi era diventata o stava diventando (nuovamente) madre, certamente si trovava in questa condizione per propria scelta, ma sia io che le altre donne del gruppo che avevano scelto di diventare madri, a causa di questa condizione ci vedevamo sottoposte non solo al rischio dell’isolamento sociale, ma – sotto vari aspetti – anche a delle forme di ingerenza sociale tutt’altro che desiderate, che rischiavano di alienarci rispetto al nostro percorso di maternità e quindi rischiavano di alienarci anche rispetto alla figlia o al figlio che stavamo per mettere al mondo. Infatti, queste ingerenze miravano a trasformare il percorso di maternità di una donna in un percorso di assoggettamento a degli standard di “sicurezza” procreativa che più che altro servivano a sottoporre gravidanza, parto e puerperio a un controllo medico il più possibile pervasivo. Invece noi desideravamo vivere il nostro percorso di maternità come un percorso di dispiegamento delle nostre potenzialità materne. Così ognuna di noi, in un modo o nell’altro, ha dovuto scontrarsi con il modo in cui la sanità pubblica concepisce il percorso che una donna fa per diventare madre e lo sottopone a forme forzate di “tutela”. Già questo parla chiaro del mancato riconoscimento delle competenze femminili in fatto di gravidanza, parto e puerperio da parte della sanità pubblica, una sanità degna di una società che si ostina a non dare alcun valore simbolico al fatto che siamo tutte e tutti nati da donna.
Competenze femminili che invece noi sapevamo di possedere, non per ultimo grazie al rapporto privilegiato che ognuna di noi ha saputo instaurare con la propria ostetrica di fiducia, un rapporto che nella politica delle donne avremmo definito di “affidamento”. Una tale relazione con un’ostetrica è irrinunciabile per una donna che desidera diventare madre mettendo in campo tutte le proprie potenzialità affettive, relazionali, di capacità di giudizio come di capacità di cura, cura sia di sé stessa che del percorso da affrontare insieme alla creatura che ha il desiderio di mettere al mondo. Infatti solo da una tale relazione può venirci la misura del nostro desiderio di maternità, ma anche delle nostre paure e ambivalenze, come della nostra debolezza che si trasforma in forza – o viceversa: della nostra forza, non solo fisica, che si trasforma in debolezza. Per dirla con Ildegarda di Bingen: «Dio ha creato l’uomo forte e la donna debole, da questa debolezza è sorta tutta l’umanità».
In Baubò abbiamo presto individuato l’importanza di questo tipo di relazione di affidamento. Ma oggi io direi di più. In questa relazione privilegiata tra due donne vedo infatti lo specchio di una società femminile che si sa costituita da relazioni vincolanti tra donne, relazioni capaci di conflittualità e resilienti a qualsiasi tipo di interferenza esterna, perché capaci di andare oltre il capriccio o la passione momentanea. Nella relazione che si instaura tra donna e ostetrica forse, anche alla luce della discussione nella relazione allargata di Via Dogana 3, possiamo oggi riconoscere la fonte delle mediazioni che servono a una donna per instaurare una relazione proficua con la sua creatura di momento in momento – infatti, tra gravidanza, parto e puerperio i passaggi sono tanti – e che quindi le permettono di diventare madre.
Riconoscere questo significa individuare proprio nella relazione privilegiata tra donna e ostetrica – come in ogni altra relazione vincolante tra donne, madri o no – la fonte della maternità. La società femminile che conosciamo, a questo punto, sapendosi fonte della maternità e quindi base di qualsiasi tipo di società, si fa misura della società nel suo insieme. Misura di una società per la quale il fatto di essere tutte e tutti nati da donna non solo diviene pienamente conoscibile, ma diventa proprio innegabile.
Riferimenti di lettura:
– Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre
– Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico
– Adrienne Rich, Nato di donna
– Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della notte
Il segreto delle madri, anche quelle che non sanno o non vogliono esserlo: la capacità misteriosa di diventare un posto che accoglie tutto quello che succede nel cammino, tutto quello che viene e che c’è.
La capacità di tenere insieme quel che insieme non sta. Di ricordare daccapo, ogni volta, da dove passa la vita e perché.
(“Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto” di Concita De Gregorio)
Guardo l’Italia dal finestrino, seduta in un treno puntualissimo che arriva dal nord. Vedo le persone sulla banchina, illuminate dal sole, che chiacchierano, si salutano, sembrano cordiali, anche da qui. Intravedo scorci di natura (è tutto più verde, mamma!), e mi sembra di sentire il calore del sole pervadermi attraverso il vetro. Non so nemmeno se realmente sia più caldo qui che a Vienna. Ma mi piace pensare di sì.
Sorrido all’idea che sono dovuta andare a vivere lontano, per capire davvero cosa sia il legame che provo verso il mio paese di origine. È un dolore sordo che, ne sono convinta, accompagna tutti coloro che vivono all’estero da tanti anni. È la consapevolezza di avere un’altra vita, parallela, che ci somiglia di più, ma per casi fortuiti, per scelta o per necessità, non abbiamo vissuto.
È un sentimento che nel mio caso si è acuito, di molto, da quando sono diventata mamma e non sono più stata solo io. Ho sentito dentro di me la responsabilità di trasmettere questo legame, o quello che ne resta, a mia figlia e a mio figlio che sono nati all’estero.
Nonostante entrambi parlino perfettamente l’italiano, mi trovo spesso a lottare per far sì che non diventino pigri e continuino ad usare la lingua madre, specie quando parlano con me ma anche nelle conversazioni tra di loro, torno spesso in Italia, e cerco di trasmettere il più possibile la mia cultura attraverso il racconto e la lettura.
Confrontandomi con amiche che sono diventate mamme come me, ma in Italia, vicine ai loro affetti, mi sono resa conto che loro soffrivano molto meno la solitudine che invece è, mio malgrado, diventata parte integrante della mia vita di mamma all’estero.
Ho letto “I diari” di Sylvia Plath da adolescente. Allora, proprio non riuscivo a spiegarmi come una donna tanto intelligente, sensibile e piena di talento avesse potuto decidere di togliersi la vita, a soli trent’anni. Tra l’altro aveva due figli, e il più piccolo aveva poco più di un anno quando si è suicidata.
Qualche anno fa, mettendo a posto la libreria, mi è ricapitato tra le mani il suo libro. E ho capito, anzi ho sentito. Sylvia Plath soffriva di problemi psichici già prima, certo, però il fatto di aver avuto due figli in due anni e di vivere isolata, con un marito assente, e soprattutto con poche possibilità di lavorare…
Pensavo che diventare mamma fosse il gesto d’amore più grande in assoluto – quindi motivo di gioia e felicità. La penso ancora così, ma ora so che non è l’unica sfaccettatura della maternità. Se una persona non ha una rete solida di sostegno, immagino sia durissima. E Sylvia Plath che mette la testa nel forno di casa sua dopo aver dato da mangiare ai suoi due bambini non mi sembra più tanto inspiegabile.
Penso sia importantissimo parlarne, parlarsi tra mamme e cercare di isolarsi il meno possibile. A mio avviso però, nel mondo di oggi le mamme sono molto più sole di una volta, in particolare, se come me, vivono all’estero, e quindi i pericoli sono maggiormente insidiosi.
Chi è neomamma, e lo è all’estero per giunta, sa esattamente a cosa mi riferisco. Niente nonne/i, zii/e, amiche o amici, a cui affidare di tanto in tanto i propri bambini, o con i quali andare ai giardinetti. Fatica immane a reinserirsi nel mondo del lavoro, per lo stesso motivo di cui sopra.
Proprio per approfondire questi temi nel marzo 2012 ho aperto un blog, mammitudine, che quest’anno compie dieci anni. Scrivere il blog è stata per me una vera conquista, un esercizio quasi terapeutico. Mi ha permesso da un lato di esprimere il mio sentire, facendomi spesso anche capire meglio quello che stavo vivendo nel momento, dall’altro è diventato un luogo di incontro, anche se virtuale, dove scambiare consigli sulla maternità e condividere esperienze: il mio personale antidoto alla solitudine. Un luogo di svago e sfogo, come dicevo anche nel mio primissimo post. Alcuni post hanno raggiunto le 2.000 visualizzazioni e talvolta ho avuto fino a 40 commenti. Inoltre, condividendo su altri siti che si occupano di maternità ho allargato i miei orizzonti e ho scritto contributi per comunità virtuali di mamme all’estero come per esempio Itagirlsontheroad, Famigliaontheroad e altri.
Ho poi trovato una risorsa davvero preziosa nel gruppo delle mamme italiane a Vienna: incontrare, stavolta dal vivo, altre donne nella mia stessa situazione, costruire amicizie profonde e condividere, oltre alla maternità, anche i problemi legati all’emigrazione è stato importantissimo. Ha completato il lavoro iniziato con il blog e reso ancora più evidente che fare rete è la formula magica per essere meno sole e più consapevoli nell’incredibile viaggio della maternità.

In un panorama politico in cui si parla a proposito o a sproposito di maternità, in cui si esercita una forte pressione sociale sulle donne, è più che opportuno che siano le femministe a prendere parola per significare la loro esperienza, sia quella di essere madre che quella di non esserlo. Parlarne, anzi riparlarne, aumenta lo spazio di libertà delle donne che si trovano oggi ad affrontarla.
In questo senso, a quasi cinquant’anni di distanza, ho riconsiderato la mia esperienza. La lontananza nel tempo è una lente che filtra e fa decantare i fatti. Sì, i dolori del parto sono stati tremendi, ma subito dimenticati. Ma cosa continua a riaffiorare prepotente e vuole essere detto?
Ho provato sì la fatica, la stanchezza, le notti quasi bianche nei primi mesi di vita di mio figlio, ma riemerge soprattutto la fiducia piena e l’amore speciale che una madre riceve dalla sua creatura, soprattutto negli anni dell’infanzia. Pensando ad allora, mi accorgo che la narrazione patriarcale sulla maternità fa acqua da tutte le parti. Non mi corrisponde e sento fasulla soprattutto la retorica per cui l’amore di una madre sarebbe gratuito e lei si annullerebbe nell’altro. Non è un amore gratuito, a perdere, è un amore ricambiato. È una relazione in cui si dà molto e si riceve molto.
Quando si sente dire da una donna, che sia madre o no, «mi piacciono i bambini», in realtà si allude a quella relazione speciale che sanno creare le creature piccole non solo con la madre, non solo nella cerchia familiare. Bambine e bambini posano «uno sguardo primo» (Ortese) sul mondo: per me i primi anni di Marco sono stati anche pieni di meraviglia.
Marta Equi ha messo a disposizione delle giovani donne, che oggi vivono l’esperienza di essere madre, un’immagine potente tratta da Carla Lonzi: con la maternità «la donna si disaccultura. Vede il mondo come un prodotto estraneo alle esigenze primarie dell’esistenza che lei rivive».
L’ho trovata una idea forte, che toglie la maternità dall’essere un intrappolamento nel ruolo, ne fa una fonte di pensiero e delinea una delle possibili strade di fuoriuscita dalla cultura patriarcale.
Con il suo viaggio lei esperisce come il mondo sia retto da altre esigenze (potere? denaro?) che non sono quelle della vita. Penso, però, che questo viaggio possa essere trasformativo a condizione che lei non rimanga nel chiuso della casa, come vorrebbero alcune forze politiche del tempo presente. È essenziale che lei oltrepassi quelle mura e possa portare il suo nuovo sguardo nel mondo. Leggendo “I sogni si spiegano da soli” di Ursula Le Guin, ho capito che questo passaggio è stato ed è ancora più complicato se si tratta di una donna artista o di una scrittrice. La nota autrice di fantascienza, e madre di tre figli, ne parla a fondo nel saggio “La figlia della pescatrice” e a un certo punto richiama le parole di Alicia Ostriker che sento in grande sintonia con quelle di Carla Lonzi:
«Se un’artista è stata addestrata a credere che le attività dell’essere madre siano banali, tangenti rispetto al vero argomento della vita, irrilevanti rispetto ai grandi temi della letteratura, è arrivato il momento di disaddestrarsi. Quell’addestramento è misogino, protegge e perpetua sistemi di pensiero e di sentire che prediligono la morte e la violenza rispetto all’amore e alla nascita, ed è bugiardo». (p. 178)
Anche per lei la questione è dis-fare le costruzioni culturali in cui siamo immerse e aprire a qualcos’altro. Molto è già cambiato e una scrittrice, un’artista oggi può contare sulla grande autorizzazione che viene dall’assegnazione del Nobel per la letteratura a Annie Ernaux, che non si è mai allontanata dal racconto della propria vita e ne ha fatto un punto di vista sull’intera società.
Tornando alla mia vicenda personale, io, mentre crescevo mio figlio, insegnavo a scuola a preadolescenti. Ricordo che sono rimasta affascinata, e poi piena di curiosità scientifica, per come Marco imparava a parlare e a fare tutto il resto. In quegli anni ho misurato la distanza tra un processo di apprendimento galoppante nella prima infanzia e la lentezza, per non dire la stasi, dell’apprendimento a scuola. Consapevolmente, e anche inconsapevolmente, a quelle esperienze ho attinto per decostruire l’insegnamento tradizionale e trovare, insieme alle altre e agli altri dell’Autoriforma della scuola, modalità più vicine alla vita.
È vero, le donne sono dappertutto, ma ci può essere cambiamento solo se portano lì dove sono l’interezza della loro esperienza umana. Scrive Ursula Le Guin: «Quando le donne parlano sinceramente sono sovversive».
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Sulla maternità, domenica 2 ottobre 2022
«Curiosamente mi accorgo di voler stare dalla parte dei bambini, e da quella delle madri; […] non voglio fare parte di un movimento politico che mi porti a guardare il mio stesso corpo con sospetto e terrore. A prescindere da quello che pensiamo o temiamo del futuro della nostra civiltà, in ogni parte del mondo le donne continueranno ad avere figli, e io sono una di loro, e qualunque figlio potrò avere sarà uno dei loro.» (Sally Rooney, Dove sei mondo bello?)
Nel suo ultimo romanzo, Sally Rooney – che potremmo definire la scrittrice più affermata della mia generazione – porta tra le sue pagine il tema della maternità. Sono voluta partire da questa citazione (alla quale io aggiungerei “figlie”) perché è così che viene fuori, agli sgoccioli del romanzo e senza alcun precedente accenno, come se un riflettore improvvisamente si puntasse su questa parola, che alla romanziera (e anche a me, fino a qualche tempo fa) sembrava oscura e lontana: la madre.
La scoperta improvvisa che si percepisce dalle parole di una delle due protagoniste del romanzo, può tranquillamente rappresentare una copia carbone di come io stessa mi sono approcciata al tema della maternità. Ovviamente, essendomi avvicinata alle politiche femministe da pressoché adolescente, ha occupato una posizione defilata, anzi un po’ condizionata da quanto vedevo propagandato in rete. Ho sempre visto la maternità come l’“anti-femminismo”, come simbolo per eccellenza del patriarcato e dei ruoli di genere. Certo, bisogna anche dire che questo sentimento “anti-materno” non è nato per caso: le pagine femministe più “pop” non ne parlano e inoltre sui social network negli ultimi anni impazza una nuova forma di ironia – ben lontana dalla definizione ariostesca del termine – che vede le madri al centro di battute misogine, nascoste sotto l’egida del progressismo.
Mombie – crasi di mamma e zombie –, mamme pancine: derise, messe alla berlina per il solo motivo di essere madri, avere dei dubbi e (orrore!) confidarsi con altre mamme su Facebook. Sulla definizione di “mamme pancine” un famoso signore ha basato tutta la sua carriera (se così la vogliamo chiamare) da “personaggio pubblico” e “comico”: i suoi post con più click sono infatti condivisioni di screen presi dal gruppo Pancine, cuori e bimbi (di non ben chiara autenticità, visto che più volte è venuto fuori che si trattasse di screen creati ad hoc dal nostro signore di cui sopra) in cui queste donne vengono derise dagli avventori della pagina per il loro basso grado di istruzione e per le loro condizioni sociali di “mamme e casalinghe”. Infatti, piuttosto che indagare sul perché queste donne abbiano un basso grado di istruzione, sul perché si trovino in relazioni non spesso appaganti e perché siano abbandonate nella cura dei figli, si preferisce prenderle in giro e creare un vero e proprio circolo di bulli misogini che guardano il dito quando gli viene indicata la luna. Questi post sono il sintomo di una grande problematica, che i commentatori dell’ultimo minuto sembrano ignorare: la solitudine delle donne, la solitudine delle madri.
I gruppi, i forum per mamme sono sempre esistiti, ed è giusto che sia così, soprattutto è giusto che siano spazi sicuri per dubbi e confidenze e ora, con questo nuovo trend di misoginia, non lo sono più. Le comunità di mamme in rete sono luoghi meravigliosi, luoghi che negli ultimi anni ho avuto modo di approfondire anche in controtendenza con quanto accadeva intorno a me sui social network. Soprattutto, ritornando su un tema che è a me molto caro, ovvero quello della solitudine e dell’isolamento, tramite questi gruppi alcune mamme riescono a creare intorno a loro una vera e propria rete di ascolto e aiuto, in un momento molto delicato della loro vita in cui però sono spesso lasciate sole, da una società che si aspetta che “se la sbrighino da sole”.
Così, anch’io, osservando da lontano questi piccoli ingranaggi di supporto ho iniziato ad avvicinarmi alle madri e alle loro voci. Forse a questo fa anche capo l’abbandono dell’adolescenza e del tetto familiare, che mi ha permesso di mettermi maggiormente nei panni della prima madre con cui ho avuto a che fare: la mia. Ho visto il suo sudore nel mio, la sua fatica nella mia e ho pensato alla nostra vicinanza, che fino a poco tempo prima mi sembrava una distanza insormontabile. È come se avessi aperto davvero gli occhi su quanto la maternità sia ormai passata in sordina nel discorso politico, eccetto quando si vogliono attuare politiche di controllo sulla maternità e di conseguenza sul corpo delle donne, come aborto e GPA. E in questo contesto perde voce l’esperienza materna – che diventa solo un modo per accaparrarsi consenso politico a destra e sinistra – e le madri vengono relegate a figure di secondo piano, sole.
Da un lato abbiamo gli attacchi misogini di chi ritiene che queste donne abbiano voluto la bicicletta e dunque debbano pedalare, cito testualmente da un commento in merito: «Ovunque incrocino un altro essere umano, devono far notare che hanno il bambino, come se non fosse qualcosa che accade da quando è nato il mondo. Fare figli è naturale, ma soprattutto una scelta di vita che riguarda te e non il resto del pianeta. Eppure, queste ritengono di aver creato qualcosa di unico, mentre si tratta di un normalissimo bambino, che a dire il vero fa pure un po’ pena […] ma perché accade questo? Probabilmente queste donne, non essendo state capaci di concludere nulla nella vita e ritenendosi sistemate per aver trovato un uomo che le mantiene, si attaccano all’unica cosa che hanno creato nella vita: il figlio».I figli sono un problema loro – casualmente solo delle madri – loro li hanno voluti e loro li devono crescere. Dall’altro queste donne, come sempre, hanno trovato il modo di starsi vicine anche se lontane, anche se le tutele sono poche e le porte in faccia parecchie. E non c’è niente di più femminista di questo, a mio avviso: per me, e mi permetto di parlare a nome di tutte Le Compromesse, questa luce di sorellanza non è altro che sintomo di quella forza femminile di cui tanto abbiamo parlato in questa sede il 12 giugno. E se all’inizio del mio percorso alla scoperta del femminismo (in cui ancora ho tanta strada da fare) vedevo le madri come un qualcosa di completamente distante da me, un’alterità quasi problematica, adesso allo specchio vedo una madre, mia madre e tutte le madri del mondo, donne, perché – proprio come dice Sally Rooney – «io sono una di loro».
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Sulla maternità, domenica 2 ottobre 2022
La maternità […] è stata una nostra risorsa di pensieri e di sensazioni,
la circostanza di una iniziazione particolare.
(Carla Lonzi, 1970)[1]
Scrive così, nel 1970, Carla Lonzi, che non è di certo una pensatrice del materno e della maternità, eppure nella sua opera torna in maniera frammentata su un’esperienza di madre che lei stessa vive; leggerla in questa chiave mi ha accompagnata nel pensare per questa relazione in cui proverò a render conto di come per me maternità e gravidanza siano state anche esperienze di forza e di pensiero; trasformative non solo nei sensi più ovvi, ma anche nel senso femminista di una «trasformazione si sé che fa corpo con una possibile trasformazione sociale»[2].
Premetto che prendere parola pubblica su questo argomento è molto faticoso per me. L’esperienza della maternità costituisce ora, nel suo mistero, carne viva della mia vita – ho messo al mondo una creatura un anno e mezzo fa, e il corpo che avete di fronte porta di nuovo il segno di una gravidanza. Questo essere così addentro all’esperienza rende il lavoro del partire da sé ancora più insidioso. Sento, inoltre, necessità di cautela nel pronunciarmi su un’esperienza così abissale, che porta con sé implicazioni, doni e dolori diversi in ognuna di noi – madri e non madri.
Assumendo e accogliendo nel mio procedere questi disagi, credo però che sia importante iniziare a fare il lavoro di racconto di esperienze, che naturalmente non si esaurisce con le mie parole, ma che comincerà proprio nel dialogo comune di questo incontro, la cui posta in gioco è quella, come si legge nell’invito, di «far emergere un pensiero femminista sulla maternità fondato sull’esperienza, la parola e l’autorità delle dirette interessate: le donne, madri e no».
Non avevo mai desiderato essere madre. Come tale non mi sono mai immaginata, anzi, il presentarsi di questa immagine generava in me disagio. E poi, se la mente andava a soppesare la possibilità di avere un figlio venivo gettata nello sconforto, data la precarietà nella quale sta in equilibrio la mia vita – e le vite di tante donne della mia generazione. Eppure, durante il periodo della prima pandemia, proprio quando la precarietà e il senso di precarietà si andavano acuendo, quando l’idea di vita che ci eravamo immaginate iniziava a sbiadire, a mutare prospettive (sulla salute, sulla vita metropolitana, sulle relazioni, sull’organizzazione del lavoro…) è arrivato in me un desiderio di maternità. Improvviso, imperioso.
Manuela Fraire, nel DWF intitolato “Maternità Femministe” (2020) registra un aumento di desideri di maternità in lockdown, «come se – scrive – l’isolamento sociale provocasse per tutte quel rallentamento che ogni maternità impone»[3]. Non è stato quello nel mio caso, approfittare di un’imposta lentezza, bensì, piuttosto, un senso misterioso di voglia di resistenza e insieme di assunzione di responsabilità, apertura all’imprevisto in un momento in cui ogni strada sembrava sbarrata. «Il mondo ricomincia con ogni essere umano», – scrive Luisa Muraro nel testo Il lavoro della creatura piccola.[4]
Con questo non voglio naturalmente suggerire che le condizioni di precarietà scompaiano come per magia con il mettere al mondo una creatura, né che farlo possa costituire una risposta diretta ai problemi del presente. Piuttosto vorrei, da un lato, condividere come questo imprevisto nella mia vita mi abbia fatto inquadrare l’esperienza di maternità in un viaggio che non ha che fare con una consapevole scelta – si tratta di una parola che viene spesso usata per qualificare la maternità nell’epoca della libertà femminile ma che esprime un’idea che rimanda a qualcosa di programmato, razionale, qualcosa che ti porrebbe in controllo della vita e del suo fluire. Sono caratteristiche che non ritrovo in un’esperienza che nel suo farsi è piena di sbavature, che abita piuttosto uno stare nella vita organico, relazionale e vulnerabile. Dall’altro lato vorrei dire come l’esperienza libera del mettere al mondo abbia rappresentato per me e credo possa rappresentare per altre donne – naturalmente se così assunto e significato da colei che lo compie – un atto che scompiglia le carte date, in cerca della creazione del nuovo, come se la trasformazione del nostro corpo fosse promessa di un cambiamento anche nella società.
La gravidanza, ossia l’esperienza della centralità del mio corpo, è stata fondamentale in questo, per me. Dicevo prima di provare fastidio nel pensarmi come madre, come se, per diventarlo, avessi dovuto acquisire una specifica identità, consunta di significati già dati, caratterizzata da immagini svilenti e caricata di pressioni sociali ridicole – ne abbiamo avuto prova recentemente.
Una volta rimasta incinta, però, si è sciolta l’ansia definitoria e mi sono sentita solo io. Un corpo che era lo stesso e che si arricchiva di antri e forme per diventare due ma comunque uno. Ho capito con l’esperienza e non con il pensiero che sono corpo e che la mia identità è multipla. Il mio corpo di donna è segnato da essere stato anche un altro essere (non da averlo ospitato!). Infatti durante la gravidanza – che per me è stato un momento in cui ho provato senso di esplorazione, bellezza e giocosità; per trasmettervi meglio queste sensazioni le mie parole ci dovrebbero essere immagini, le fotografie di Paola Mattioli sulla gravidanza per esempio[5] – il mio centro sono sempre stata io, non l’essere che stavo generando. Vicino alla data del parto alcune amiche dicevano delle loro creature frasi come: «non vediamo l’ora di conoscerla», o «non vediamo l’ora di tenerla tra le braccia», e io mi sentivo estranea a questo sentire, tanto che la notte del mio travaglio è stata di commiato a me stessa in quella forma, a me stessa duale, alla mia pancia. Non c’era lui nei miei pensieri, ma sempre il mio mutevole stato. Quell’esperienza ha lasciato traccia in me come di un ricordo di potenza segreta e di possibilità di cambiamento: sono una donna, sono un essere multiforme che sa cambiare.
E in effetti cambia molto nella vita di una donna dopo il parto, almeno per i primi anni, quelli dell’accudimento di una creatura che dipende da te, tempo in cui la maternità può essere un’esperienza anche molto difficile, di solitudine e di fatica. Per me è stato così, e mi sono sentita compresa e rappresentata nelle parole di Lonzi, quando scrive, in una poesia del 1960 dei «giorni crudamente a fuoco» in cui ti senti «in stato di fermo», caratterizzati da «una lentezza inconciliabile con l’erompente ricognizione del mondo» che vive la creatura che ti sta davanti e con la quale avviene un incontro che lei definisce «un capolavoro di pazienza che mi sommerge, mentre lo solleva».[6]
Ci sarebbe molto da dire sui lati oscuri della maternità e forse alcuni interventi di oggi li metteranno in luce, non è mia intenzione soffermarmici ma piuttosto provare a dirvi come proprio il passarvi attraverso è stato, per me non privo di guadagni. Questo, lo stare nella perdita, nella fatica, nello scacco come passaggio di senso, mi viene suggerito da alcuni frammenti sulla maternità di Lonzi appunto, che accostano consapevolezza delle insidie della maternità – «una dilazione senza fine alla realizzazione di sé», la definisce in un passo del Diario[7] – ma anche del suo potenziale radicale per la vita di una donna: «La maternità – scrive – è il momento in cui, ripercorrendo le tappe iniziali della vita in simbiosi emotiva col figlio, la donna si disaccultura. Essa vede il mondo come un prodotto estraneo alle esigenze primarie dell’esistenza che lei rivive. La maternità è il suo ‘viaggio’».[8]
Questo della disacculturazione è un passaggio che sento come vero, e centrale, di cui però non so dirvi fino in fondo. Posso dire qualche elemento.
“Disacculturarsi”, per me, ha voluto dire togliere credito al lavoro come unica possibile sfera di realizzazione e di identità, non nel senso che ho capito che c’è un’altra sfera, quella domestica, di possibile realizzazione, ma piuttosto nel senso che mi ha portato a demistificare alcune pratiche lavorative di pretesa di assorbimento totale della mia vita. Mi sembra poi di aver acquisito con la maternità una postura di ironia e libertà rispetto alle piccole cattiverie del mondo del lavoro, insieme a più efficacia nel fare le cose e nell’assegnare priorità.[9] Mi ha messa di fronte alla scomoda sensazione di dover chiedere aiuto, mi ha fatta misurare con la sapienza del dire di no – non sono ancora brava a far questo, confesso. Per dire, se non fosse già ovvio, che si tratta di guadagni da riconquistare ogni giorno, ogni singola volta, mai acquisiti definitivamente.
Disacculturarsi ha poi voluto dire vivere delle esperienze di quotidianità che mi hanno mostrato qualcosa che prima non avevo mai incontrato. Confrontarmi con l’intensità che l’attenzione all’altro richiede – cosa così difficile da praticare, così brillante nel momento in cui accade – e con la gratuità dei gesti di cura, «quelli – mi appoggio ancora alle parole di Lonzi – che non diventano un prodotto, ma solo un accudire»[10] che sono assai concreti e spesso molto poco poetici. Questo confronto è stato ed è per me un’esperienza – tutt’ora enigmatica – che mi ha insegnato con più radicalità di quanto non sapessi già, teoricamente, a stare attaccata alle cose, all’imperfezione, al non finito, al macchiato.[11]
La maternità, nei suoi aspetti più concreti, è un’esperienza ambivalente, che merita attenzione e parola politica. Da un lato, per continuare a resistere al rischio sul quale dobbiamo sempre vigilare che le esperienze del quotidiano femminile oscillino tra esaltazione stereotipata e cancellazione, essendo relegate alla sfera privata, ai margini della società attiva e pensante, e dall’altro perché si stanno configurando altri luoghi e altri contesti che si stanno appropriando della narrazione della maternità consegnandola a dinamiche di estetizzazione, messa a valore e disprezzo, come ci racconta in parte la relazione di Daniela Santoro.
Per questo è importante un momento di dialogo come questo e lo è in particolare a partire da un luogo come questo che ci ospita, un luogo fondamentale per il femminismo italiano che tanto ha lavorato sul materno e per lasciare a noi nuove generazioni una libertà e una felicità possibile.
(Via Dogana 3, 4 ottobre 2022)
[1] Carla Lonzi, Sputiamo Su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1970, p. 31.
[2] Mi riferisco con questa espressione alla formula coniata a proposito della Pratica del Fare nel testo Il tempo, i mezzi e i luoghi, Sottosopra Senape, 1976.
[3] L’impresa di diventare madre. Intervista a Manuela Fraire di Patrizia Cacioli e Teresa Di Martino (2020), DWF “Emme Effe Maternità Femministe”, 2020 3-4 (127-128), p. 16.
[4] Luisa Muraro (2013) Il lavoro della creatura piccola. Continuare l’opera della madre. Mimesis, Udine 2013, p. 11.
[5] Paola Mattioli, Sara è incinta, 1977.
[6] “Maternità”, Carla Lonzi, in Scacco Ragionato, Poesie dal ’58 al ’63, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1985, p.158.
[7] Carla Lonzi, 1978, Taci Anzi Parla. Diario di Una Femminista, Milano: Scritti di Rivolta Femminile, p. 872.
[8] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1970, p. 36-37.
[9] Su questo si veda per esempio Andrea Vitullo, Riccarda Zezza (2014) Maam. La maternità è un master che rende più forti uomini e donne. BUR Rizzoli, Milano 2014.
[10] C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978, p. 767. E ancora: «La donna genera un nuovo essere, non un prodotto.», Diario, p. 714.
[11] Naturalmente il pensiero femminista ha già lavorato molto sulla quotidianità, la domesticità e le pratiche che le sorreggono, lette come possibili spazi critici. Ida Farè per esempio, per citare una donna attiva politicamente in Libreria delle donne, a fine anni novanta e nei primi duemila ha formulato l’idea di un “bricolage” di saperi che può emergere dalle esperienze quotidiane femminili, qualificandolo come “intelligenza del quotidiano”. Non si tratta – e questo è davvero importante – di essere assimilate dal domestico, ma piuttosto, come precisa Farè, di imparare a riconoscere, nominare, valorizzare «questo sapere corporeo e antico […] per portarselo appresso […] qualsiasi professione si debba svolgere al tempo della libertà femminile». Ida Farè (2009), L’intelligenza domestica, in “Intossicano gonfiano rubano strozzano… e la chiamano economia”, Via Dogana 89, giugno 2009, pp. 5-7; Ida Farè (1996), L’intelligenza della cura. Intervista a cura di Gianni Saporetti, Una Città n. 53/1996, ottobre.
Per citare invece un esempio contemporaneo, Linda Bertelli sta portando avanti un lavoro di ricerca su una possibile definizione di un’estetica femminista del quotidiano. L. Bertelli (2021), L’aria necessaria. Gesti di estetica femminista, in “Io dico Io”, a cura di C. Canziani, L. Conte, P. Ugolini, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, pp. 134-147; L. Bertelli, (2021) La quotidianità della rivolta. Alcune osservazioni per un’estetica femminista e un suo possibile uso a vantaggio dell’oggetto fotografico, in C. Casero (a cura di), “Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70: rispecchiamento, indagine critica, testimonianza”, Postmedia books, Milano, pp. 51-61.
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Sulla maternità, domenica 2 ottobre 2022
Tutto comincia con la maternità: vale per le vite di ciascuna e ciascuno di noi, ma vale anche per la Storia che, per come la conosciamo, è storia dell’invidia maschile per la potenza della maternità e storia di tutto ciò che è stato messo in atto per assoggettare e controllare questa potenza: racconta di una sistematica svalutazione delle donne come attrici sociali, in quanto destinate a essere esclusivamente madri, e della loro esaltazione come figure materne affinché aderissero al loro ruolo sostenendo così quell’ordine simbolico che abbiamo chiamato patriarcato.
Sappiamo che quell’ordine è caduto quando le donne, con il femminismo, gli hanno ritirato il credito. E sappiamo che stiamo vivendo gli effetti del suo crollo, nel male e nel bene, tra forme di potere svuotate e pericolanti che ci ha lasciato in eredità e nuove forme di libertà, femminile e non solo.
Ora, da una parte, c’è molta più libertà di vivere o non vivere la maternità, e non è più la condizione che definisce una donna. Dall’altra per chi la desidera ci sono sempre più difficoltà materiali: il lavoro o non si trova o non dà da vivere, per cui cresce sempre più l’età della prima gravidanza, che per questo diventa più spesso a rischio e viene consegnata a una crescente medicalizzazione.
Ciò nonostante le donne delle nuove generazioni continuano ad affrontare con desiderio e inventiva quella scommessa che il Gruppo lavoro della Libreria delle donne nel 2008 aveva battezzato “Il doppio sì”[1], sì al lavoro e sì alla maternità. Castellina, in un’intervista su La Stampa dell’8 luglio 2022, invita le ragazze che desiderano figli a ribellarsi alle necessità economiche e a farli finché è fisiologicamente agevole: «Fateli, fateli pure a diciassette anni, se li volete, e qualcuno poi provvederà», dice, perché è «meglio far figli che mattonelle»: questo è un riconoscimento di senso di civiltà alla maternità.
L’invidia maschile tuttavia persiste anche dopo la caduta del patriarcato e si nutre anche della sofferenza delle donne che non possono avere figli. Ha così inventato l’utero in affitto, che sul piano medico tenta di segmentare la maternità in fasi e tra donne diverse riducendo le creature piccole a prodotti, e sul piano giuridico tenta di cancellarla istituendo falsi ideologici come i certificati di “nascita da due padri” o la figura dei “genitori intenzionali” che prevalgono sulla madre effettiva. Non ne parleremo, oggi: l’abbiamo fatto e lo rifaremo. Mi preme solo mostrare che gli Stati Uniti oggi ci offrono un esempio lampante e simultaneo dei diversi aspetti dell’invida post-patriarcale per la maternità: lo stesso paese che cancella la garanzia di scelta femminile sull’aborto è uno dei pochi al mondo in cui la gravidanza per altri è legale (e paradossalmente è legale per i committenti imporre l’aborto alla gestante).
Eppure questi sono anche tempi di cambiamenti interessanti. Negli ultimi anni in paesi come l’Irlanda e l’Argentina il divieto di abortire è stato finalmente abrogato dopo decenni di lotte, e in Italia una recentissima sentenza della Corte di cassazione (27 aprile 2022) elimina l’automatismo di attribuzione del cognome paterno anche per i nati all’interno del matrimonio: è il crollo di un altro pilastro simbolico del patriarcato, di un tabù come l’ha definito il Fatto quotidiano.
Infine la maternità è stata uno dei pochi temi politici che hanno caratterizzato la campagna elettorale appena conclusa, tra giusto orgoglio, timori di vederla di nuovo imposta come destino biologico, paure per la legge 194/78 e appelli contro una denatalità immaginaria (al contrario, in quarant’anni la popolazione mondiale è passata da quattro a otto miliardi!): segno dell’urgenza di darle un senso dopo e fuori dal patriarcato.
Il femminismo ha già fatto un importante lavoro di rivalutazione della figura e della relazione materna da parte delle figlie, che ha prodotto pensiero e pratiche politiche come l’ordine simbolico della madre, l’autorità femminile e l’affidamento. Proprio il 24 settembre scorso abbiamo discusso qui in Libreria con Alessandra Bocchetti del suo “anno dell’ambiguo materno”: il 1982[2], in cui al Centro culturale Virginia Woolf si era iniziato a mettere a tema l’esperienza della maternità cercando di darle un senso politico. È un lavoro che vogliamo riprendere oggi, ripartendo proprio dalla nostra esperienza di maternità: vissuta, scelta, accolta o rifiutata, a partire dalla parola e dal desiderio di essere o no madri, e soprattutto dalla verità soggettiva di chi oggi lo diventa, per trarre dal nostro vissuto e dal nostro sentire un pensiero di cambiamento, di quel cambio di civiltà che vogliamo realizzare.
Ne parleremo con Marta Equi, della redazione del profilo Instagram della Libreria delle donne e madre da poco più di un anno, e con Daniela Santoro, del gruppo femminista Le Compromesse, anch’esse presenti su Instagram.
[1] Lavoro e maternità, il doppio sì – Esperienze e innovazioni, di AA.VV., Quaderni di Via Dogana – collana Lavoro, Milano 2008
[2] L’anno dell’ambiguo materno. Note, appunti, illuminazioni da un seminario del Centro Culturale Virginia Woolf – 1982, di Alessandra Bocchetti, ed. Somara!, Ferrara 2022.
Domenica 2 ottobre 2022, ore 10.30-13.00
Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3
Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano
Oggi la maternità non è più un destino. Grazie alle precedenti generazioni di femminismo, si colloca nell’orizzonte della libertà femminile come un desiderio e una possibilità che una donna può cogliere o no, senza esserne definita. Tuttavia in questione c’è il valore simbolico dell’essere tutte e tutti nati di donna, che non sembra ancora riconosciuto dalla società nel suo insieme.
Nel dibattito pubblico, di maternità si parla in caso di allarmi denatalità più o meno fondati, oppure per le alterne vicende dell’interruzione volontaria di gravidanza nel mondo, oggi sotto attacco in primis negli USA; o ancora a proposito di controverse tecnologie riproduttive. Parallelamente, da alcuni anni sui social sta circolando una vera e propria misoginia nei confronti delle madri, che vengono trattate con ironia e disprezzo.
Sentiamo l’urgenza di superare gli specialismi e i luoghi comuni per far emergere un pensiero femminista sulla maternità fondato sull’esperienza, la parola e l’autorità delle dirette interessate: le donne, madri e no.
Introducono Silvia Baratella, Marta Equi e Daniela Santoro
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Si consiglia la mascherina.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.
Appuntamento: domenica 2 ottobre 2022 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.
Come sostiene Giulia Valerio citata da Maria Livia Alga, sembra una regressione tornare alla sorgente viva della libertà femminile, “al corpo libero” del sentire proprio della relazione duale primaria incondizionata, quella con la madre, dove non regna l’aut aut. Nella guerra in corso in Ucraina invece domina il linguaggio dell’assoluto: o si vince o si perde. La sconfitta dell’altro è la vittoria propria. Non c’è spazio per la dimensione negoziale. È la coazione a ripetere della logica maschile?
Non è più così per tutti gli uomini. Vediamo intorno a noi agire cambiamenti concreti da parte degli uomini che conosciamo, sappiamo che anche un uomo può sottrarsi alla legge del dominio. Per tornare alla politica della negoziazione, che si basa su una mediazione necessaria, io cerco la mediazione quando sento che mi manca qualcosa per realizzare un desiderio e lo vedo in un’altra, e la mediazione funziona quando anche all’altra manca qualcosa e lo trova in me. Non è un confronto fra due identità compatte ma una ricerca in movimento. Da ciò che manca nasce una relazione che assomiglia a una danza a “corpo libero” in uno spazio vuoto. È lo spazio della libera ideazione di ciò che prima non c’era. Si tratta di non temere il vuoto, l’ignoto, la scoperta. Il desiderio e la fiducia sono la base indispensabile nella mediazione fra due forze. Le donne non hanno bisogno di ordine ma di scambio. Nel disordine possono reggere, ma se non c’è scambio di parola e ha il sopravvento la lingua del potere, cadono in depressione.
Nel presente non abbiamo dubbi sulla forza delle donne, ma non sempre sappiamo come tradurla in autorità femminile. Ne ha dato un esempio la Ministra degli Affari Esteri dell’Indonesia Retno Marsudi, che recentemente al G20 in risposta alle pressioni per prendere posizione contro la Russia ha reagito dicendo: “Ci chiedono di schierarci. Ma perché? Noi vogliamo mantenere relazioni con gli uni e con gli altri”, senza lasciarsi includere in quelle fratrie compatte che non sopportano voci discordanti. In questa voce riconosco la lingua materna, la lingua-ragione, come la chiama Lia Cigarini nel Sottosopra dal titolo Un filo di felicità uscito nel 1989.
Negli ultimi mesi ho vissuto un groviglio di sentimenti e ragionamenti confliggenti, scatenati dagli avvenimenti tragici della guerra. Ho ascoltato l’impulso di offrire la mia solidarietà a un’amica ucraina, Tatjana Isaeva, con cui sono in relazione dal 2009 quando si è rivolta alla Libreria di Milano con una richiesta di collaborazione col Museo delle donne della città di Charkiv, di cui era una delle fondatrici. Le ho scritto una mail chiedendole come potevo aiutarla e lei mi ha risposto con una richiesta di sostegno finanziario, non a lei ma all’esercito nazionale. La cosa mi ha raggelato. Dopo un mese di silenzio da entrambe le parti, mi ha scritto su facebook che la figlia Mariya Chorna, un’artista di graphic design, l’ha convinta a lasciare il paese e la città quasi in macerie e ad accettare l’invito di un’amica pittrice austriaca. Mi ha mandato le foto dell’atelier, lei e la figlia insieme con un nutrito gruppo di artiste attorniate da quadri e acquerelli. Mi ha proposto di comprarne uno. Questo è un modo per loro di continuare a vivere dignitosamente in un paese straniero e io l’ho interpretato anche come un suo desidero di non interrompere la relazione con me. Con gioia ne ho scelto uno, coloratissimo, allegro, con un pizzico di ironia e ho sentito che aveva vinto la lingua-ragione del rapporto con la figlia; Mariya era riuscita a strapparla alla pulsione mortifera che la teneva prigioniera, sotto le bombe, vincolata a una sorta di fissazione/fedeltà identitaria. Questo spostamento di Tatjana mi ha poi ispirata ad acquistare un’antologia di scrittrici ucraine, Negli occhi di lei, perché ho sentito il bisogno intimo di approfondire attraverso la lingua della letteratura il mondo reale. Fin dall’infanzia e ancora di più col femminismo delle origini ho sperimentato come la mediazione delle scrittrici mi abbia guidata e orientata come una Madonna Odigitria (la Madonna-guida della tradizione ortodossa) che ha questa funzione simbolica. Una traduzione politica di questa figura è stata per me la pratica dell’affidamento, che mi ha permesso di realizzare desideri e vivere liberamente con indipendenza di pensiero.
Intervista a Luisa Muraro
D: Cosa hai pensato quando Emma ha parlato del rapporto con sua madre (lì presente) come fonte di forza?
R: Ho pensato che c’è stato un grande cambiamento rispetto a quando io ho cominciato a fare i conti col rapporto con mia madre. Io e le altre abbiamo cominciato a tirar fuori il problema della madre, perché era un problema, un problema anche grave, c’erano i contrasti, c’era la disaffezione, c’era un tentativo di prendere le distanze. Nel gruppo che frequentavo si aveva un rapporto tra di noi che non somigliava e non prendeva niente dal legame con la madre, e quando abbiamo cominciato a parlarne era proprio perché sentivamo il problema; però lo sentivamo, dunque c’era qualcosa che non ci andava bene e ci lasciava perplesse. Cercavamo di ricostituire con la madre un rapporto che non era quello vero, quello che realmente c’era stato. Quello che realmente c’era stato, era stato di solito di difficoltà, perché noi aspiravamo soprattutto a una cosa di emancipazione, di indipendenza, dalla madre, dalla figura materna. La madre di solito era vista come la portatrice della volontà del padre, era molto questo. Lo era effettivamente, questo, e il cambiamento è venuto più dalla parte delle madri. Poi, il cambiamento che ho notato, però, è venuto da ambo le parti, perché noi stesse abbiamo cominciato, facendo i conti con questo rapporto, a vedere che c’era qualcosa che ci sfuggiva nelle madri, sì, che le madri non erano felici così, come portatrici della volontà del padre, non erano veramente felici… e che avevano qualcosa da chiederci.
D: Nel senso che vedevate che c’era qualcosa in più che non veniva compreso dal loro assoggettamento al patriarcato, insomma? Che c’era qualcosa che andava tirato fuori?
R: Che andava tirato fuori, che c’era… nel rapporto con la madre? Sì. Non lo so, erano diversi questi rapporti, erano diversi dall’una e dall’altra. Per mia madre, che mi aveva preferita tra le figlie, io sentivo un’affezione vera, lei poteva anche essere dalla parte del padre… Mio padre era una figura sbiadita per me… Da parte mia, c’era nel nostro rapporto una notevole affezione, ma che era controversa. Infatti, ancora adesso io ho come il dispiacere per non avere compiaciuto mia madre più di quello che ho fatto, perché lei aveva una vera affezione per me, mi considerava quella che le somigliava di più delle sue figlie, e soprattutto lei ha sempre incoraggiato la mia autonomia… addirittura lei si aspettava che io non mi sposassi, cioè aveva per me un sogno che assomigliava a quello che aveva per sé, una vita intellettuale, sembrava. Insomma, nel caso mio era un rapporto ambivalente, e quindi ho lavorato sinceramente per fare i conti e metterlo a posto.
Questo era… Alcune avevano dei buoni rapporti, ma di solito eravamo indifferenti. Ma è dall’indifferenza che siamo passate abbastanza presto a chiederci… e io, sì, non sono mai arrivata ad avere un’amicizia come quella di Emma, un sentimento così, mai. Sono sempre stata ambivalente, però siamo arrivate ad avere la figura materna in considerazione, a sentire che ci veniva forza da lì, che poteva venirci forza da lì, cioè a riconoscere che non era un rapporto di sudditanza al padre, che c’era come dire, sì, un desiderio di indipendenza, che c’era una profonda vena di indipendenza, rispetto al marito, che c’erano… sì, siamo arrivate a questo alla fine, a capire che era un rapporto in cui il padre poteva essere messo da parte e nasceva un rapporto autonomo, indipendente, cioè un rapporto tra donne, che lei non era… c’era sorellanza, c’era qualcosa di più. È stato questo.
Io vado lì col ricordo ogni tanto, e mi dispiace di non aver fatto capire a mia madre più fortemente che la tenevo in conto, per sé stessa, come fonte di forza.
D: Cioè, quella cosa che hai visto stava facendo Emma all’incontro di Via Dogana?
R: Sì, quella cosa lì, per esempio, non l’avevo.
D: Forse il cambiamento è proprio che adesso è possibile.
R: Sì, ci siamo portate sull’orlo di questa cosa.
D: Altra questione: gli uomini. È in corso un cambiamento epocale, ma gli uomini stentano a recepirlo. Anzi, oggi con la guerra in Ucraina sembrano maggiormente in campo le forze per contrastarlo il cambiamento con le logiche più distruttive della concezione maschile del mondo. Tu cosa pensi? A che punto siamo?
R: Io non ho legami maschili, con uomini, tranne con mio figlio e la sua discendenza, sono gli unici, sì, c’è stato Stefano… Insomma, quei pochi uomini.
D: Anche Riccardo Fanciullacci… l’hai avvicinato tu al pensiero della differenza…
R: Sì, Riccardo, con Riccardo Fanciullacci ho un rapporto, sicuramente è un rapporto. Ci sono uomini che fanno eccezione, tra i quali voglio ricordare Otto Schily, l’ex ministro degli interni tedesco, il quale denuncia il bellicismo che si è diffuso in Germania sottolineando l’urgenza di idee nuove che portino alla fine del conflitto in corso. Ma non sono gli uomini di cui tu parli nella domanda, che adesso gli uomini sono… Ridimmi un po’?
D: Insomma, con questa guerra sono riprese le peggiori logiche patriarcali che sembravano messe da parte e c’è una ripresa di centralità maschile. la Dominijanni ne parla come di una rivalsa nei confronti del virus… Cioè, c’è una situazione difficile ed è su questo che vogliamo sentirti.
R: Allora, sulla guerra quello che ho notato, che tendo a notare, è l’abdicazione delle donne dalla loro autorità, più che altro. Cioè che gli uomini siano come presi dalla logica della guerra, quelli che si notano, i dirigenti politici, gli uomini in genere che si fanno notare, non mi fa nessuna meraviglia. Non si erano spostati da lì. Sì, mostravano di tenere in conto, tendevano ad avere registrato che le donne erano diverse, insomma, sembrava di sì, anche nei paesi diciamo di tradizione più maschile, ecco, sembrava che avessero registrato che le donne, sì, bisognava trattarle diversamente, e cominciavano a trattarle diversamente. E credo che, più o meno, il cambiamento non era particolarmente forte prima della guerra, ma sembrava che fosse la direzione verso cui erano indirizzati, e non lo sono più. Ed è il fatto della guerra, sicuramente, ma questo solo i dirigenti politici. Non è che gli altri… gli uomini che… mah, non lo so. Io… non ho mai, mai avuto un grande interesse per gli uomini nel mio femminismo, ecco. Non l’ho mai avuto e non mi sembra che molto dipenda dagli uomini. Non mi sembra.
D: In che senso questo tuo disinteresse?
R: Sono le donne che sono più importanti, secondo me, ecco.
Sì, nella questione della guerra… è che le donne mi hanno delusa. Gli uomini, certo, si sono messi in quella posizione che dite voi nella domanda, e sono stata anche sorpresa di notare come siano tremendamente attaccati alla guerra. Sì, insomma, sono molto… guerrafondai. Cioè, la cosa della guerra si sente che li convince, la assumono, se avessi avuto delle aspettative sugli uomini, mi deludevano gli uomini, ma non avevo aspettative dalla loro parte. Avevo aspettative dalla parte delle donne, e sono piuttosto delusa, ma non dalle donne in generale, da quelle che hanno fatto carriera. Quelle che hanno fatto carriera sono nell’insieme passate così, dalla parte degli uomini, poi le altre sono piuttosto… Comunque, certamente la delusione mia viene dalle donne soprattutto. Per esempio, appunto, io pensavo che le donne avrebbero, che avremmo messo in discussione la NATO, invece viceversa, è la NATO che sembra suscitare più entusiasmi. Quella che più delude è la segretaria, la capa, la Von der Leyen. Quando la vedo, vedoil compiacimento di essere così brava nel confronto bellico, di essere nella posizione giusta, buona, vera, valida, quella contro la Russia, dalla parte dell’Ucraina. Io sento in lei un di più, sarà sempre la stessa, ma insomma, si è riscattata da quella volta che da Erdoğan l’hanno lasciata senza la sedia. Ursula Von der Leyen, che era stata umiliata, per lei era stata un’umiliazione, anche per noi donne, ma adesso si è riscattata. La vedo così, e più che gli uomini, per quanto sì, anche gli uomini adesso sono molto su quella lunghezza d’onda lì…
E allora sento come che le cose sono andate a ramengo, cioè, che è un modo di dire veneto che vuol dire perso… e tendo a pensare che abbiamo perso. Non tutto. Ma il confronto, questa prova della guerra ci ha visto perdenti, ci vede perdenti. Appunto, l’idea che la NATO sarebbe stata messa in difficoltà, invece è il suo contrario. La NATO risorge, risorge perché gli uomini vogliono così, ma le donne ci hanno messo del loro, ci hanno messo. Sì, è pessimista la mia conclusione sulla guerra.
Certo gli uomini che vediamo noi non sono tornati indietro, quelli, sono rimasti… cioè hanno capito qualcosa delle donne, e l’accettano, e ci stanno e si sono, diciamo, umanizzati, quindi sono usciti da quella posizione neutra, neutra-superiore. Ma quelli che dirigono gli affari pubblici, li dirigono da uomini, e adesso sono affari pubblici di guerra, e sono vecchio stile insomma, e non ci sono segni che sono cambiati e che, ripeto, per me non è tanto una cosa sorprendente, perché prima non è che mi fossi fatta l’idea che fossero chissà che cosa.
D: Durante l’incontro di Via Dogana si è molto parlato di mediazione e contrattazione. Tu a un certo punto hai esclamato: “con Putin non si contratta”. Quali sono per te i limiti della contrattazione con gli uomini?
R: Io dico non la contrattazione con gli uomini, con gli uomini fondamentalmente si tratta di autorità, non si tratta di contrattare, perché non è quello che passa tra un uomo e una donna. Tra un uomo e una donna c’è la questione che lui senta che lei ha autorità, questa è la cosa fondamentale. Che poi ci possa essere anche il momento… ma non so. No, l’uomo ha da sentire l’autorità femminile, e deve sentire che la donna, la differenza femminile lo aiuta a ritrovarsi… a essere se stesso, sennò… Questo è essenziale per me. La differenza femminile è la cosa che mette a posto in un uomo la sua maschilità, gliela fa calibrare nel modo giusto, sennò, se non sente l’autorità femminile, va fuori, va a fare l’uomo.
Allora io dicevo, se vado da Putin, non vado a contrattare, vado a fargli sentire l’autorità femminile. A proposito di mia madre, devo dire che io a un certo punto le ho riconosciuto questa autorità femminile, che la esercitava e la sapeva esercitare nel modo giusto, adesso io lo dico tardi, ma insomma, lei faceva sentire a mio padre, faceva sentire a noi ma a suo marito soprattutto, che l’autorità femminile è la cosa che mette un uomo a posto con sé stesso.
D: E questo io vedo che si aggancia molto bene al cambiamento che sento, soprattutto nella paternità. Perché se c’è un movimento della madre di lasciare spazio al padre, quando lo decide, sulla creatura, allora il padre sicuramente riconosce l’autorità femminile…
R: Sì!
D: …Perché è impossibile non riconoscerla, perché si tratta del saper fare con la creatura piccola, del sapersi comportare in un modo che si adatta di volta in volta alla relazione che cambia quando sono molto piccoli. Loro non lo sanno fare. E anche solo questo, se lasci spazio e dici “lo puoi fare anche tu”, loro si mettono a posto… è esattamente quello che hai detto tu, esattamente. È un segno che, sì, questa cosa è il riconoscimento dell’autorità femminile che fa succedere qualcosa, che fa succedere il cambiamento.
R: Sì, una mediazione, l’ho trovato scritto nel libro di Lia, a un certo punto non so più dove, «una mediazione necessaria per l’uomo», l’autorità femminile, la differenza femminile in quanto autorevole.
D: Però, se torno a Putin, in un uomo che si comporta da uomo come hai detto tu, e quindi ha la logica del potere, patriarcale, della sopraffazione, della forza, quel che vuoi tu… La potrà vedere l’autorità femminile? La può sentire?
R: Certo che può, certo che può, certo!
Ed è la cosa che bisogna riuscire a realizzare nel rapporto tra donna e uomo. Questa cosa qui.
D: Che travalichi l’ambito della genitorialità? O del rapporto amoroso-amicale?
R: Sì, sì, sì! Adesso lo si vede nell’ambito della genitorialità, si vede di più come tu lo descrivevi, quando la madre lo investe di saper fare con la creatura, come l’uomo si riprende e si ritrova in questa posizione di padre, che lo sa fare. Ecco.
Allora, è questo. Altrimenti, quello che conta sono i rapporti tra donne, che devono essere impostati nella stima reciproca, nell’amore anche…
D: Ammirazione, fiducia…
Queste cose qui, sì. Mentre con l’uomo si tratta essenzialmente che l’uomo deve sentire l’autorità di lei e saperla utilizzare come una mediazione, come… ecco. Insomma, è questo.
Laura Colombo ha parlato di contraddizioni che si sono aperte nel movimento delle donne con la guerra. Ha ragione.
La precedente situazione, infatti, era del tutto diversa: il Me-too nato negli Stati Uniti ma che ha coinvolto donne di tutto il mondo; l’Europa in mano a Merkel in Germania, con le sue due consigliere donne; Lagarde alla Banca Centrale che parlava di relazione materna e Von der Leyen alla Commissione Europea. Donne che hanno affrontato la crisi economica dovuta al Covid con saggezza, a differenza di quanto si era fatto nella precedente crisi del 2008. Oggi invece con l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, Lagarde tace, Von der Leyen fa la guerriera e la vicepresidente ucraina chiede armi e uomini per vincere la guerra.
Non solo, le prime ministre della Svezia e della Finlandia chiedono di entrare nella Nato, abbandonando la prima duecento anni di neutralità e la seconda almeno ottanta.
Dunque ci troviamo di fronte alle contraddizioni a cui faceva riferimento Laura Colombo. Niente di male. Le contraddizioni se bene analizzate spingono in avanti il pensiero.
La situazione è nota a tutte/tutti: la Russia ha invaso l’Ucraina perché questa vuole entrare nella Nato. La Russia non vuole essere circondata da basi e missili della Nato, che per di più è comandata dagli americani.
Allora perché sbagliano queste donne? Al di là addirittura del pensare e del volere degli uomini.
Secondo me stranamente per il sentire, cioè il rispondere immediatamente all’emozione, alla paura che i loro paesi potrebbero essere invasi dalla Russia. Non per ragioni di potere, quindi, ma al contrario di un sentimento di paura.
Chiara Zamboni, forse la prima a scrivere del sentire delle donne lo ha sempre abbinato alla ragione. Non si tratta però della ragione, il bene più prezioso della cultura maschile, bensì di quella che abbiamo chiamato lingua-ragione.
Nel Sottosopra “Un filo di felicità” (gennaio 1989) abbiamo scritto: «Se ora consideriamo la società con i suoi molti sistemi di scambio, vediamo che l’orizzonte della libertà femminile si allarga grazie alla mediazione dei rapporti tra donne e che questi operano come i segni di una lingua. La lingua delle donne articola il sapere e la materia, prima opaca, che era l’esperienza femminile del mondo. Ragione femminile che nasce come lingua e ne porta in sé alcuni tratti tra i quali, oltre alla disponibilità di prendere o cedere significato, c’è la capacità di farmi passare dal mio io esistenziale alla realtà oggettiva, e viceversa. Ma non una parola sulla quale potremmo agire come ci pare, al contrario. Il suo primato le viene dall’essere il senso della realtà che cambia: quello che le cose vogliono dire».
Quindi quando discutiamo della guerra in corso e delle scelte delle donne riferiamoci al primato della parola, perché forse alcune delle nostre parole sono logorate.
Nel lontano (vicino) 1928 María Zambrano preparava la sua trasformazione della filosofia europea scrivendo articoli per le donne su “El liberal”. In questi articoli si rivela essere una delle prime radicali pensatrici della differenza sessuale, e in questi stessi articoli definisce “aristocrazia” la società delle donne che, in virtù della loro forza, potranno riscrivere il futuro del lavoro, della società, della cultura. Potremmo dire che anche oggi la riscrittura di questi tre ambiti della convivenza e della nuova civiltà sono alla portata delle capacità “aristocratiche” di noi donne e del nostro amore per il mondo.
Molti e molte non riconoscono in Zambrano una pensatrice femminista perché più volte ha dichiarato «Non sono femminista, sono femminile». Nel modo che aveva a disposizione a quel tempo, con molto acume respingeva il femminismo perché allora lo si conosceva solo come vittimista e rivendicativo. Solo nel 1938 sarà pubblicato il manifesto di Virginia Woolf Le tre ghinee. La filosofa spagnola aveva la vista lunga e la sensibilità acuita dalle sue ricerche intorno all’assumersi radicalmente l’essere donna.
Aveva ragione. Gli effetti del puro emanciparsi, dell’appellarsi unicamente alla parità hanno portato alla continua puntigliosa rivendicazione di quello che io chiamo femminismo diffuso o generico: avere posti di potere in quanto donne, essere consapevoli degli abusi maschili. Ormai lo sanno anche le bambine che non basta essere biologicamente donne per essere donne “aristocratiche”, cioè pensanti nell’ordine simbolico della madre.
Infatti, giustamente, oggi ci troviamo nella necessità di interrogare di nuovo la forza delle donne.
Forse la intravvediamo con certezza, ancora una volta, nei luoghi estremi, dove c’è la guerra, le dittature, gli abusi, le violenze, i femminicidi, tutti disastri che non le fermano dall’andarsene via dai compagni crudeli. Oggi, la forza sembra ben più in difficoltà dalle nostre parti, luoghi di privilegio, luoghi dove esiste il femminismo di Stato, dove è stato infranto il noioso soffitto di cristallo, dove imperversa il gender, dove non è raro che i femminismi si dividano cocciutamente tra loro. Già sarebbe sufficiente riflettere su questo spreco di non riuscire a confliggere in modo produttivo tra posizioni all’interno del femminismo italiano, per renderci conto di quanto si sia indebolita la forza su cui ha contato felicemente il movimento politico delle donne, fin quando è esistito in Italia e fin quando si faceva nutrire dal lavoro congiunto riguardante il cambio di ordine simbolico.
Il fatto è che la forza delle donne agisce soprattutto attraverso la parola, come ha sottolineato più volte Lia Cigarini durante l’ultima redazione allargata di VD. I tagli simbolici fatti dalla politica delle donne sono stati decisivi e lo sarebbero ancora di più ora, in un momento storico in cui la parola è passata ancora una volta, inaspettatamente, a chi decide guerre e mainstream, la corrente popolar-populista che veicola (soprattutto attraverso i social) i contenuti che poi diventano leggi, decisioni ad alto livello gerarchico, cambi di passo dell’economia. Le stagioni di Via Dogana cartacea hanno avuto voce in capitolo proprio perché ogni numero operava un taglio simbolico. Ma non è mai bastata solo l’egemonia della parola, i tagli simbolici si fanno anche con un agire fatto di gesti inaspettati e dirompenti come quello di Nancy Pelosi che straccia davanti alle telecamere i fogli del discorso che stava facendo Trump. Ci si sarebbe aspettate qualcosa di simile da parte della deludente Kamala Harris.
Così le due zelanti e impaurite leader di Finlandia e Svezia, dichiaratamente femministe, fanno un taglio simbolico all’incontrario chiedendo di aderire alla Nato: fanno un vulnus al presidio pacifista che le donne di tutto il mondo tentano di tenere saldo. Ma perché questa solidità non è efficace? Secondo me, non lo è perché priva di tagli simbolici, di parole e di gesti materiali che squarcino la densa cortina del mainstream. E poi manca la costatazione che non c’è forza senza il terreno su cui nasce: il desiderio. La fonte necessaria ad alimentare qualsiasi agire in cui serve coraggio, determinazione, intelligenza del presente, mente fuoriuscita dal seduttivo paradigma binario, dicotomico. Di fronte alla potenza d’urto di questo paradigma, rinforzatosi con le solitudini regalate dalla pandemia e con la successiva occupazione dell’attenzione da parte dell’adesione di vertice alla guerrafondaia Nato, si è rivelato a occhio nudo il depotenziamento del desiderio femminile generale e dunque anche della forza femminile che serve per aprire conflitti simbolici e reali, e per condurli fino a ottenere la trasformazione desiderata. Cosa è accaduto? A me pare che abbia ragione María Zambrano quando diffida del femminismo europeo generico che, al massimo e in contingenze drammatiche, può solo ritrarsi sulla soglia della resistenza. Fondare la propria intelligenza sulla rivendicazione conduce alla fine del desiderio, alla sospensione dell’invenzione politica. Se poi rammentiamo che il desiderio e la forza si generano e si alimentano nelle relazioni, specialmente tra noi donne deboli in narcisismo, possiamo comprendere quanto sia letale l’affievolirsi o il distruggersi delle relazioni, tanto più quando i vari gruppi coltivano senza alcuna potenza generativa il proprio orticello.
Nel presente è riservata una sorte diversa a chi tra di noi basa le relazioni e il lavoro politico sull’autorità femminile, la vera e unica possibilità per agire che rimane in un mondo che corre verso l’abisso. Nel pieno del mio impegno quotidiano in molti diversi contesti di vita e di lavoro posso osservare quanto la mia forza si nutra del desiderio di dare voce e gesti, attraverso la mia voce e i miei gesti, all’autorità “aristocratica” femminile. Se io desiderassi solamente la mia personale affermazione o mi illudessi dell’efficacia della persuasione pedagogica argomentativa, e non mi facessi forza delle relazioni in cui sono immersa fiduciosamente, avrei perso forza e desiderio da molto tempo. L’autorità femminile è difficile da assumere, ci dobbiamo rendere conto di questo, perché per assumerla (se ci è riconosciuta) occorre avere la mente trasformata in modo da poter creare tagli simbolici. Perciò sono super necessari momenti di formazione e di trasformazione, altrimenti le giovani generazioni di donne sapranno forse difendersi dalle violenze maschili o da quelle delle loro simili collaborazioniste, ma non avranno la possibilità di accedere al privilegio dell’aristocratica autorità femminile.
Parlare di forza femminile per questo numero di Via Dogana 3 mi porta subito a chiarire che non mi riferisco a quella legata al protagonismo individuale, su cui ha puntato da anni il neoliberismo e che è ampiamente incentivata nella nostra società. Mi interessa analizzare la forza femminile politica, capire come scaturisce e come si alimenta quella forza trasformativa che ha sempre una radice relazionale.
L’essenziale è stato detto da Emma Ciciulla nella sua relazione introduttiva: oggi si può parlare di una forza femminile che nasce e cresce nel rapporto con la madre. Non mi dilungo su questo e rimando alla lettura del suo testo e al commento che ne fa Laura Colombo. Voglio solo sottolineare che lo si può ben considerare un frutto della politica delle donne, di decenni di lavoro teorico e di pratiche trasformative di sé, di riattivazione della madre nei rapporti tra donne, soprattutto quando, come nel mio caso, la relazione è stata molto conflittuale. Sarà importante vedere a che cosa aprirà negli anni a venire un cambiamento così profondo e di base.
Nell’agire, fermo restando che l’elemento propulsivo è il desiderio, spesso ciò che trattiene una donna è proprio il dubbio rispetto all’avere o no forza. Indugiare su questa domanda è un laccio inutile che si può sciogliere. Non esiste, infatti, la donna forte a priori. La forza nasce nel movimento, nasce nell’azione. Una donna comincia a conoscere la sua forza nel momento in cui comincia a intraprendere un’azione, a farne progetto.
Questo ho imparato da Angela Putino, molti anni fa, quando cominciammo la politica delle donne nei luoghi di lavoro e di studio. Ricordo soprattutto due suoi scritti, usciti nel 1988, davvero orientanti: “La donna guerriera” (DWF n. 7) e “Cosmo” pubblicato dalla nostra Libreria nel fascicolo “Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia”.
Angela vedeva come leva della forza “l’inaddomesticato”, cioè quella parte femminile che non si conforma. Scriveva che nella forza «si sperimenta ciò che è inaddomesticato rispetto alle opinioni e alle strutture esistenti». L’agire quindi non è sforzo o volontarismo, è stare nei contesti in cui ci si trova a vivere, ma con “indipendenza simbolica”, per usare parole di Luisa Muraro. È aprire in quei contesti delle contese simboliche e materiali.
A questo criterio mi sono attenuta fedelmente e se guardo alle mie imprese del passato, come per esempio l’autoriforma della scuola, e del presente, come Via Dogana, mi sento di individuare almeno due componenti della forza. La prima riguarda la tenuta nel tempo: la forza non scaturisce dal saltellare da un progetto all’altro, ma dal continuare a lavorare al proprio, mettendosi sempre di nuovo in gioco, perché solo così si ha una misura politica nel mondo. L’altra componente essenziale è un’azione che si fa spazio comune. A partire da una, due relazioni di fiducia coinvolgere anche altre e altri. Scaturisce più forza da un agire che non è solo per sé, ma anche con e per altre e altri. Questa è l’esperienza dell’autoriforma: è stata attrattiva anche per donne non femministe e per uomini non tossici. C’è da aggiungere che l’idea di autoriforma oltrepassa lo specifico della scuola e si può applicare a molti ambiti. Dipende esclusivamente dalle soggettività che si mettono in gioco ed entrano in relazione per trasformare e trasformarsi, senza far conto su progetti di legge o finanziamenti. È stata e può ancora essere per donne e per uomini una forma politica femminista, basata sulla politica relazionale.
Da ultimo. Mi sembra importante ciò che ha detto Emma C. sugli uomini e la vulnerabilità. Ho da poco ascoltato un’interpretazione di Ida Dominijanni riguardo alla guerra in corso in Ucraina. La leggeva come rivalsa maschile, come un riprendersi il primato della distruttività rispetto a un virus che nella sua infima piccolezza ha fatto vedere la sua potenza, mostrando con crudezza la vulnerabilità di noi umani.
Proprio in virtù di questo svelamento, la pandemia ha fatto emergere la necessità di ripensare il mondo con altre categorie. Ora quelle aperture ad altri criteri e ad altre misure sembrano polverizzate, spazzate via dalla logica più arrogante e distruttiva della strutturazione maschile del mondo: la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti.
Quella che stiamo vivendo è una guerra con le armi, con le parole e con le sanzioni economiche e porterà sempre più sofferenze in una spirale infernale a cui nessuna di noi potrà sottrarsi perché viviamo in un mondo globalizzato che mostra sempre più nettamente, nel bene e nel male, la sua interdipendenza.
Durante la pandemia si è affermato il principio «Nessuno e nessuna si salva da solo o da sola». Vale a maggior ragione oggi in cui a un virus che non demorde si somma la guerra, la siccità, la crisi climatica e quella economica.
C’è molto da pensare e da cambiare. In Italia ci sono molteplici centri di elaborazione femminista attivi e propositivi, ma troppo spesso procedono ognuno per la propria strada. Non è così che si crea la forza di cui abbiamo bisogno. È il momento di incrementare gli scambi e il confronto per dare maggiore forza a una parola femminile sul mondo.
Mediazione e vulnerabilità: messe così potrebbero sembrare due parole lanciate a caso nel vuoto, eppure durante la riunione del 12 giugno hanno echeggiato a lungo nelle mura della Libreria. Mediazione. Quattro sillabe, piana, sostantivo deverbale di “mediare”. Si potrebbe continuare nella sua analisi morfolessicale e sarebbe più semplice, infatti come possiamo parlare di mediazione nel secolo della solitudine?
Questa è una domanda che in primis pongo a me stessa e che poi voglio allargare ai miei coetanei, tra generazione zeta e millennials. In una società che ci ha sempre di più educato all’individualismo, riusciamo davvero a parlare di mediazione? Ho molte remore a rispondere affermativamente a questa domanda: con chi si può mediare in una cella di isolamento? Non c’è mediazione dove non ci sono le relazioni. E queste, in una sorta di divide et impera del ventesimo secolo, sono osteggiate sotto tutti i fronti. Il neoliberismo ci vuole soli e isolati, educati alla solitudine, disimparando il gruppo. Senza dimenticare il catalizzatore di questa reazione: i social network. Quanto si crea nell’ecosistema virtuale non è altro che una cassa di risonanza, di opinioni sempre uguali, discorsi sempre uguali, facce sempre uguali. Tutti belli, imperturbabili, perfetti, forti, senza macchia e senza paura. Alle relazioni si sostituiscono le connessioni momentanee, il dialogo si trasforma in un misero commento e siamo sempre più soli.
Riflettendo su questo nuovo paradigma sociale, ho trovato una risposta alla domanda che qualche mese fa mi era stata posta da Vita Cosentino e Laura Giordano in relazione al progetto Le Compromesse: «È possibile creare un gruppo come il vostro o è stato puramente un caso fortunato?». Sì, stato un caso fortunato ma mosso dalla necessità di trovare una risposta a questo vuoto. Da Facebook siamo riuscite ad andare oltre le singole infinitesimali interazioni e siamo riuscite a creare un gruppo, a creare delle relazioni forti, ad aprire un canale di dialogo intenso e continuo. Ma come? Ci siamo spogliate della fittizia perfezione del virtuale e ci siamo tese la mano a vicenda, ne avevamo bisogno: l’istinto primordiale del fare gruppo in un momento difficile come la pandemia ha prevalso, abbiamo messo davanti le nostre vulnerabilità e le nostre mancanze. Così, ciascuna con le proprie difficoltà è stata utile alle altre, e viceversa, in uno scambio continuo seppur virtuale. Siamo riuscite a ribaltare l’individualismo tipico dei social e a creare un gruppo di mediazione che ci ha permesso (e tutt’ora ci permette) di crescere. Abbiamo scoperto le nostre carte e riflettuto sulle nostre divergenze e differenze. Come in un grande puzzle ci siamo completate nell’autocoscienza e nel dialogo, senza paura di mostrare ogni lato di noi. Quando penso alla parola “mediazione” penso proprio a tutto questo, alla riscoperta delle relazioni e delle proprie vulnerabilità, senza le quali questa non vi sarebbe. Dunque tutte queste parole in libertà vorrei che fossero per le mie coetanee una spinta, una spinta verso la ricerca del gruppo, lasciandosi alle spalle la solitudine forzata. Le Compromesse sono state per me una luce verso l’ignoto, in un periodo di forte incertezza. Ho trovato delle mani tese, pronte ad accogliermi, e io stessa ho teso la mano: per la prima volta mi sono sentita parte di qualcosa. Qualcosa che è nato come semplice gruppo di scambio e poi, proprio grazie alla sua conformazione “collettiva”, è diventato politica contro la società e il patriarcato che vogliono le donne isolate e nemiche. Da qui è nata la community di Instagram e del Blog, che cresce sempre di più, dove cerchiamo di fare spazio ad altre donne che vogliono lasciarsi alle spalle la solitudine neoliberista ricevendo delle mani tese ad ascoltarle, accoglierle, a non farle sentire più sole. Le Compromesse sono per me una risposta all’isolamento, sono un modo per gridare, finalmente, «Non sei sola».
Insegno da quindici anni nel Liceo che ho frequentato da ragazza; per questo, e per molti altri motivi, è un luogo che abito con passione e con convinzione. È una scuola che ha un Dirigente Scolastico (DS) che non si meriterebbe affatto: un maschio prepotente e confuso, spaventato ma protervo, che cerca di coprire le proprie incapacità esercitando il potere di cui dispone in modo arbitrario, eccessivo e, quel che è peggio, stupido.
Per anni ho visto colleghe e colleghi chiedere il trasferimento, gettando la spugna dopo angherie o conflitti settoriali sulle questioni più varie. La motivazione della “resa” era più o meno sempre la stessa: qui, con questo tizio, non c’è niente da fare. Qui non si riesce a cambiare nulla. Il mondo è grande: da un’altra parte potrò finalmente fare bene il mio lavoro.
Ecco, il mondo sarà pure grande e non biasimo quelle/i che approfittano di tale grandezza; tuttavia questa scuola è il mio mondo almeno finché ci sto, quindi per me il trasferimento non è mai stata un’opzione contemplabile. Per me, semmai, se ne deve andare il DS. Anch’io negli ultimi anni ho avuto con lui vari scontri, che mi hanno dato estrema visibilità tra le colleghe/i. Mi ha vista perfino lui, che ha imparato a temermi. L’origine della sua paura è buffa nella sua semplicità: una donna ribelle è una mezza pazza, ma le pazze, si sa, sono imprevedibili, quindi meglio non pestare loro i piedi. Finora infatti me l’ero (se l’era) cavata più o meno così: mi ha tolto ogni incarico di coordinamento, non mi ha mai coinvolta in nessuna commissione o gruppo di lavoro, quando non poteva evitarlo ha accolto ogni mia proposta facendo buon viso a cattivo gioco, usando la vecchia prassi del vigile quieto vivere, quella per intenderci che vigeva nella casa dei miei genitori, dalla quale sono scappata appena ho potuto, perché appunto non funziona per chi, come me, ha imparato la politica del desiderio.
Quest’anno però qualcosa è cambiato. Una collega che stimo mi ha convinta a candidarmi al Consiglio di Istituto, dove sono stata eletta, in lista con un collega, a furor di popolo. Gli organi rappresentativi saranno ormai svuotati di potere, ma ho sperimentato che si possono riempire velocemente di autorità. Già alle prime sedute il mio collega e io abbiamo cominciato a snocciolare irregolarità contabili (ricompense ai suoi fedelissimi/e camuffate da Progetti educativi): di fronte alla componente genitori e alunni/e ha dovuto giustificare e rettificare. Abbiamo anche avanzato alcune proposte a favore di studentesse e studenti in difficoltà economica, come il comodato d’uso dei libri di testo. La nostra è una scuola ricca, ma il DS non ha mai ritenuto di dover spendere soldi pubblici per gli “utenti” poveri. Che abbia fatto carriera anche grazie a quest’idea oggi così popolare?
Gli sarebbe ancora andata bene se, a novembre, la mia alunna F. (così la chiamerò, la mia ragazzina), di diciassette anni, non si fosse improvvisamente ammalata. La diagnosi è stata terribile: a causa di una malattia genetica rara, nel giro di tre settimane è diventata quasi cieca, senza alcuna possibilità di guarigione. In casi come questi, la scuola ha la facoltà di utilizzare dei fondi appositi, interni ma anche regionali, per attivare un progetto di “istruzione domiciliare”, opportunamente regolamentato. È una procedura che abbiamo usato spesso, generalmente per ragazze con disturbi alimentari o psicologici. Stavolta però il DS ha pensato di agire diversamente. I genitori di F., entrambi extracomunitari, gli hanno comunicato subito l’accaduto, chiedendo aiuto perché volevano che la loro figlia mantenesse, in qualsiasi modo possibile, un contatto con la scuola. Lui ha menato il can per l’aia: per giorni non ha risposto alle loro mail poi, un po’ alla don Abbondio, ha comunicato che per un progetto di istruzione domiciliare occorrevano “certe carte” (senza dire quali), infine ha proposto alla ragazza di ritirarsi da scuola, per pensare esclusivamente alla sua salute. Questo avvisando solo la coordinatrice di classe (una dei suoi vassalli/e) ma non le altre docenti della classe.
A questo punto la madre di F. mi ha telefonato e mi ha raccontato tutto. Era, ovviamente, disperata. Mi ha telefonato il 2 gennaio, domenica, giustificandosi con queste parole: “È domenica, ci sono le vacanze di Natale, ma F. mi ha detto che potevo farlo”. Le ho risposto che aveva fatto bene a dare retta a sua figlia.
Io sapevo che F. era malata, perché l’avevo già contattata quando mi ero accorta che non veniva più a scuola. Ascoltando il racconto di sua madre ho sentito la mia forza trasformarsi in furia, ma in una furia lucida, una “furia con pensiero”, un tutt’uno come una palla di fuoco da cui mi sono lasciata incendiare. Riprendiamoci anche i roghi: sono nostri!
Per cui mi sono data da fare, e la lotta è iniziata. Non la chiamo “guerra”, per ovvi motivi, ma nemmeno “conflitto”, perché “lotta” rende conto del fatto che mi ci sono calata anima, ma anche corpo: per settimane ho telefonato, scritto, inseguito tutti/e quelle che mi potevano aiutare a denunciare, smascherare, fermare, correggere, costringere a cacciare i soldi e le risorse necessari per poter permettere a F. di proseguire gli studi e mantenere i legami con i suoi compagni/e. Ho braccato il DS in Consiglio di Istituto, in Consiglio di Classe, nei corridoi; ho chiamato i sindacati, le rappresentanti di classe, le colleghe, la stampa. Durante una riunione, di fronte alle minacce del DS, mi sono messa perfino ad urlare, cosa che non faccio mai. Il corpo: è indispensabile nella lotta tanto quanto il pensiero e le parole.
A proposito di parole, poi. Bisogna lottare in lingua materna, come ho imparato da combattenti eccezionali: le mie zie analfabete, le contadine del Sud d’Italia nel dopoguerra (ce ne ha parlato Luciana Viviani in “Rosso antico”) e Angela Davis. Quindi, in un contesto istituzionale, non ho avuto paura di scrivere e di dire che per me non aveva alcun senso pontificare sull’educazione civica: quella per cui mi muovevo era una giustizia così alta che se non avessi speso tutte le mie energie per sostenere il desiderio della mia studentessa di restare a scuola, non avrei più avuto il coraggio di guardarmi nello specchio la mattina. Inutile scrivere sui documenti ufficiali che la scuola è una Comunità Educante: una comunità è tale se chi vi partecipa è disposto a considerare il problema del/la singolo/a un problema di tutti/e. Altrimenti è fuffa buona per riempire fogli bianchi e teste vuote.
Così, anche nei testi che ho spedito a organi o figure istituzionali (all’Ufficio Scolastico Provinciale, ai sindacati, al DS stesso, alla coordinatrice del dipartimento Inclusione), ho infilato parole come “esistenza, ragazza, amiche, bisogno, urgenza, desiderio, sogni, fiducia, amarezza, vulnerabilità, ascolto, coraggio, sono arrabbiata ma non ostile”.
Alcune mie colleghe della classe di F. mi hanno aiutata. Nessuna di loro è femminista, nessuna di loro è particolarmente combattiva, tuttavia mi stimano e hanno sentito che mi stavo schierando contro un’ingiustizia insopportabile e inaccettabile.
La matrice della forza femminile è materna. Questo lo so bene, ma detta così non sarei forse stata capita, eppure avevo bisogno che capissero bene quale forza mi animava, in modo da poter contare su di loro senza paura che, se il gioco si fosse fatto veramente duro, si tirassero indietro proprio quando sarebbe stato necessario restare unite. Quindi ho detto loro, fin da subito: sappiate che farò per F. quello che farei per mia figlia, né di più né di meno. Tanto per essere chiara. Nessuna ha mollato.
La forza nasce dall’azione, e se ne alimenta. Il potere è statico e sfrutta il tempo a proprio vantaggio. Per cui, durante la lotta, ho temuto di non farcela, per puro logoramento fisico. Per settimane ho dormito male, e poco perché, per non togliere tempo a mia figlia, mi sono ridotta a scrivere di notte, a telefonare mentre guidavo, a fare lezione stordita dalla stanchezza. Ma le relazioni che ho intessuto nel frattempo sono state il mio alimento e la mia amaca. Nei momenti di scoraggiamento, mi ripetevo come un mantra l’insegnamento di Alessandro, un mio giovane, carissimo amico: “Chi sceglie il potere rinuncia all’amore”. Il mio premio era, e sarebbe stato, l’amore reciproco tra F. e me, l’amore per la mia scuola e per la giustizia. Tanto mi doveva bastare.
Ci sono state anche colleghe che hanno ignorato i miei appelli, anzi, si sono schierate con il DS aiutandolo a dimostrare che la soluzione di mediazione poteva semmai consistere nel creare per F. un percorso di “sparizione facilitata”: promozione eventualmente garantita, ma senza un reale percorso di apprendimento e di cura. Lavoro con troppe donne il cui desiderio è tramortito. Ho però verificato che niente è più efficace per risvegliarlo quanto mostrare con godimento la vitalità del proprio. A chi mi chiedeva se non fossi stanca, o scoraggiata, rispondevo: “Sì, ma vi ricordo che la lotta è energetica!” e nel dirlo a loro, lo ripetevo a me stessa, constatando ogni volta quanto questo fosse profondamente vero.
Nella mia lotta mi hanno sostenuta alcuni uomini. Uno è Alessandro, di cui parlavo prima, l’altro è il collega eletto con me in Consiglio di Istituto, e alcuni amici. Ho smesso da tempo di stupirmi del fatto che ci siano donne che sostengono il simbolico del potere, sessista e classista; comincio invece a notare che sempre più uomini capiscono la matrice del mio agire, la apprezzano, la condividono e la sostengono. Sono uomini che, per varie ragioni e in momenti diversi della loro vita, hanno smesso di sentirsi parte del patriarcato. Hanno constatato cioè, più o meno come è successo a moltissime donne, che per uniformarsi all’identità prescritta come accettabile in quel simbolico, avrebbero dovuto abbracciare un’esistenza miserabile da tutti quei punti di vista che contano veramente.
Mi ha sollevata fare esperienza – mentre lottavo contro un uomo – della simpatia e dell’ammirazione di un altro tipo di uomo. Con quelli del primo tipo, come il mio DS, non credo sia possibile mediare, o perlomeno io non intendo farlo. Non sentono ragione: hanno fatto la loro scelta. Come dice Alessandro: non si può chiedere a un Creonte di non essere re, perché lui vuole essere re. Con quelli del secondo tipo bisogna invece riconoscersi ed allearsi: sono uomini che hanno riconosciuto (pur tra le mille contraddizioni e lacerazioni che ben conosciamo) l’assoluta preponderanza del materno nelle loro vite. Non vogliono pertanto essere dei re: vogliono essere uomini liberi.
La forza femminile agita è immediatamente riconoscibile, anche quando viene momentaneamente sconfitta: un bersaglio per gli uomini e le donne di potere, un’ispirazione per uomini e donne che credono che quello in cui viviamo non è l’unico, né tantomeno il migliore, dei mondi possibili.
Comunque alla fine ce l’abbiamo fatta, F. e io. Lei è stata promossa in quarta, e non certo per qualche sconto pietoso, ma perché siamo riuscite tutte/i, noi compagni/e di lotta, a metterla nelle condizioni di continuare a imparare. E io posso continuare a guardarmi allo specchio la mattina, dove vedo l’immagine di una donna non addomesticata né addomesticabile, esattamente quella che mi sento e che voglio continuare ad essere.
In seguito ai numerosi racconti di donne molestate durante l’adunata degli Alpini di Rimini tra il 5 e l’8 maggio, DORA donne in Valle d’Aosta ha deciso di inviare una lettera aperta all’Associazione Regionale degli Alpini esprimendo solidarietà alle donne che hanno denunciato molestie, aggressioni verbali e comportamenti lesivi del corpo e della dignità femminile, chiedendo poi un confronto con questi uomini, per individuare forme di collaborazione e di prevenzione costruttive.
La richiesta è stata accolta insieme alla proposta di invitare al confronto anche Beppe Pavan, che da trent’anni si interroga in gruppi di autocoscienza sulla propria maschilità e fa parte di Maschile Plurale. Dopo l’incontro però Beppe era amareggiato per la posizione irremovibile degli alpini, espressa anche a livello nazionale, di mero risentimento per tutto il clamore causato dal comportamento di pochi balordi che avevano infangato l’onore del Corpo degli Alpini. Ho capito e in parte condiviso la sua frustrazione nel trovarsi di fronte all’ennesima rimozione, all’incapacità di vedere le connessioni tra questi comportamenti e gli stereotipi misogini e sessisti ancora diffusi e radicati negli uomini. Nonostante questo, ascoltando Beppe, cresceva in me lo stupore. In realtà era accaduto qualcosa di assolutamente nuovo e impensato. Già a suo tempo avevo trovato straordinario che le donne fossero finalmente riuscite a rompere il silenzio sulle molestie che da sempre gli uomini in divisa o no, in tempo di pace e di guerra, in branco o da soli, creando un’atmosfera intrisa di cameratismo maschile, pensano di poter infliggere alle giovani donne che incontrano. Le donne coinvolte a Rimini non hanno più pensato che questa fosse la normalità perché il femminismo ha cambiato profondamente gli immaginari: la goliardia del branco, i gesti osceni, le avances indesiderate (catcalling) sono diventati molestie e le palpate occasionali violenza sui corpi delle donne. Grazie al coraggio delle molte che hanno deciso di esporsi, denunciando pubblicamente ciò che è avvenuto nelle piazze, nelle strade e nei locali della città, a Rimini sono state raccolte più di cinquecento testimonianze che hanno consentito di portare quanto accaduto all’attenzione delle autorità e dei media. È stato un #metoo italiano che solo la forza delle donne poteva far emergere ed esprimere con tanta rilevanza. Una bufera che ha costretto il presidente dell’Associazione nazionale alpini Sebastiano Favero, suo malgrado, a chiedere scusa e dar conto di comportamenti che non sono più accettati dalle donne e quindi diventati inaccettabili per tutte e tutti. Oggi, quello che era un diritto implicito degli uomini lo viviamo come un attentato alla dignità umana, come un crimine, e pretendiamo che tutta questa violenza psicologica e fisica diventi impensabile anche per gli uomini.
Infatti, tornando al racconto di Beppe, l’altro aspetto che mi è parso sorprendente è che in una sede regionale dell’Associazione del Corpo degli Alpini a qualcuno fosse venuto in mente di accettare un confronto con delle femministe che mettevano in discussione fatti, comportamenti da sempre socialmente accolti con grande indulgenza, quasi con simpatia e, come se non bastasse, grazie alla loro mediazione, che fosse possibile vedere come doveroso accogliere la presenza di un uomo che fa un percorso di autocoscienza maschile, mettendo in discussione i cliché di una maschilità considerata tossica. Senza ombra di dubbio si è trattato di un fatto di grande rilevanza simbolica.
Aveva ragione Beppe a lamentare la resistenza maschile al cambiamento e la loro incapacità di mettersi in discussione. Gli uomini, con alcune importanti eccezioni, stentano a recepire questi cambiamenti epocali, concreti e visibili in ogni ambito ma, nonostante la loro riluttanza, proprio grazie alla forza circolante delle donne, non possono più fare a meno di tenerne conto.
Credo sia necessario continuare, con tenacia, a negoziare tra uomini e donne attraverso il dialogo, per arrivare a elaborare insieme nuove forme di convivenza, rispettose della libertà e dei desideri reciproci.
Marcel Gauchet, guardando le nuove generazioni, parla della discordanza del desiderio che si è venuta a creare tra uomini e donne con la fine del dominio maschile, soprattutto la discordanza del desiderio erotico e procreativo. Questo ha creato nei due sessi punti di riferimento, attitudini e prospettive esistenziali potenzialmente divergenti (Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile).
Credo sia un’intuizione su cui lavorare insieme, donne con uomini che vogliono essere uomini giusti, come afferma Ivan Jablonka (Uomini giusti dal patriarcato alle nuove maschilità). Nell’ebraismo l’uomo giusto è l’uomo normale, capace di distinguere il bene dal male, che si assume le proprie responsabilità rifiutando l’indifferenza. Questo è ciò che le donne chiedono agli uomini, in tempo di pace e di guerra, perché anche loro escano dall’inferno patriarcale.
Vorrei tornare sulla questione della mediazione. Mi sembra importante rispetto al modo in cui può esprimersi la forza delle donne. Alla mediazione io credo – ma come sempre non ho altro che le mie esperienze e la riflessione su quanto accade dentro (quel dentro che è sempre anche un fuori) di me – si può andare solo avendo una posizione precisa forte e chiara.
Perché ci sono casi in cui è possibile cambiare posizione, ma ce ne sono alcuni altri nei quali questo non si può fare. Ed è lì, io credo, che si innestano i conflitti tra donne distruttivi. Perché si va avanti pensando che è necessario trovare un punto di accordo, magari lo si accetta formalmente: ma in realtà si è sbattuto contro qualcosa che soggettivamente è irrinunciabile, non disponibile. E dopo si accumulano – senza averne neanche troppa consapevolezza, temo – rancore e sfiducia in se stesse e nelle altre. Non è facile sapere cosa è soggettivamente irrinunciabile: ci sono cose grandi e facili (ad es. una di queste per me è la guerra: la guerra non si deve fare, punto). Ma ce ne sono altre che sono molto più personali e ognuna deve trovare le sue. Io ho sperimentato che tenendo chiara la mia posizione, difendendola e articolandola, ottengo a volte risultati migliori. Perché in quei casi quello che cambia non è la mia posizione o quella dell’altra: cambia la natura della relazione. Mi viene da dire: la relazione si riassesta su un piano superiore di “realtà” e sfugge a qualunque contenuto “ideologico”. In parte mi pare sia così. Ma in parte credo che questo movimento abbia a che fare con il “sopportare il disordine”, espressione che prendo da Rosetta Stella, che la aveva usata anche come titolo di uno dei suoi bellissimi libri. Sopportare non è subire. È avere a che fare. Qualcosa che sta vicino all’opera della madre, quindi all’autorità femminile: Rosetta diceva che una donna quando mette al mondo comprime i suoi organi interni per fare spazio. Fare spazio ad altro che è ignoto. Non si sa… Non si sa nulla. Eppure si fa.
Fare spazio, credo, è grossomodo il contrario di questa orribile cosa che è tanto di moda adesso e che viene riassunta con la parola “inclusività”. Viene venduta sul mercato delle parole come il passo avanti del nostro tempo rispetto al passato, mi pare: ma ha a che fare più che altro con le fratrie. Vuol dire: se non sei accettata, se non ti sei schierata, se non fai parte di questo o quello o quell’altro ancora non hai nemmeno diritto di parola. Non esiste nulla fuori dallo schieramento. Tutto deve essere ricondotto al già esistente e semplice. Tutto quello che viene raccontato come “nuovo” deve essere soltanto una ripetizione del già saputo. Ma io so che c’è altro. C’è sempre.
Allora il lavoro che a me sembra di dover continuare a fare è esattamente fare spazio. Non ho bisogno di essere d’accordo con le altre. Ho bisogno che ci sia scambio anche nel disaccordo, cioè che non ci siano solo ordinate caselline in cui aggiustare tutto, seguo una strada, non presumo di sapere che produce una “soluzione”. Ma per questo, dovrei poter dire che credo che le donne che in questo momento scelgono di essere incluse nelle fratrie – esistono, eccome se esistono – sono sventurate. Non so come si fa a farlo bene. Ma penso che avesse ragione Ursula K. LeGuin. In uno dei suoi saggi scriveva, più o meno: non sono più ai tempi della mia miseria quando tutto quello che avevo a cui aggrapparmi era “Le tre ghinee”. Abbiamo ritrovato le nostre madri: questa volta, facciamo attenzione a non perderle.
Tutto questo, come ovvio, riporta anche alla questione maschile: Ida Dominijanni ha visto esprimersi desiderio di guerra in loro (non tutti come sempre ma molti, e in alcuni casi a me è sembrato piacere, non solo desiderio). Lo ricollega al trauma del Covid. Ai tempi, Rosetta faceva notare come la guerra a Kabul avesse un collegamento con il trauma delle torri gemelle. Forse le donne che si fanno includere nelle fratrie cercano di curare i maschi offrendo sostegno alla sofferenza e alla follia? Potrebbe essere, anche perché una delle cose che a volte mi vengono fatte notare è: non sei empatica. Non lo so. Comunque, quel tipo di cure non funziona più. Ma lo dico io. Loro, gli uomini, cosa dicono?
Post-scriptum: Non sono capace di fare nulla da sola. Quindi tutto quello che dico viene anche da altre donne: in questo caso, oltre a Rosetta Stella, desidero ringraziare Stefania Ferrando e Silvia Niccolai.
«Ora le donne sono ovunque e lavorano a fianco degli uomini, spesso portando una propria misura per modificare il contesto in cui si trovano», così si legge nell’invito del 12 giugno. Livia Alga individua, nel “corpo libero” della danza e della ginnastica, la resistenza e l’abbandono alla gravità, mentre nella radicegreca, Tla, Tlein, sopportare/osare, evidenzia la “forza di essere vittime o eroi”.
Una possibile, o forse necessaria, fluidità che riduce la contrapposizione alleato/nemico dei Poemi Omerici, dove peraltro – sottolinea Livia Alga – il potere delle dee è alternato alla vulnerabilità. Un riferimento simbolico importante per la dicotomia uomo-donna: i poemi omerici sono, infatti, l’opera “globale” che segna l’origine dell’Occidente.
Nell’arte la fluidità sopportare/osare si può tradurre in osservare/inventare, nel senso che davanti a un’opera dobbiamo autorizzarci a prendere parola partendo da chi siamo.
L’identità neutro-maschile ha usato l’invenzione come sinonimo di superamento, cioè un’altra versione di amico/nemico, pacificata dall’arte.
Oggi, però, le differenze linguistiche sessuate hanno aggiunto una lingua in più, facilitata dalla pronuncia delle donne in tutto il mondo.
Alla Biennale di Venezia ci sono più donne che uomini. Tutto a posto? No. In questa Biennale si percepisce anche una popolarizzazione della presenza delle donne, basata sulla quantità più che sulla molteplicità linguistica.
Faccio un parallelo azzardato: il patriarcato ha ceduto il campo alle “fratrie” che governano le multinazionali, anche dell’arte e i rapporti personali, «enfatizzando – come dice Lia Cigarini – il narcisismo maschile, spesso violento». Le donne introducono un linguaggio in più che non elimina la differenza, come tradizionalmente si pensa avvenga nell’arte, la aggiunge. Questo limita il narcisismo maschile perché si apre un campo gravitazionale dove gli uomini possono esercitare una dissidenza rispetto al “loro” soggetto neutro, e usare le differenze linguistiche sessuate come un’occasione e non una minaccia da affrontare con la violenza.
Era, però, necessario che le opere delle artiste fossero tante quante, o almeno non più separabili da quelle degli uomini, interferendo così con le misure abituali della forza di gravità dell’arte.
Quando una figura prende corpo, sapere chi l’ha creata è altrettanto importante dei colori perché aiuta a collegare la libertà di esprimersi all’intuizione anonima, per secoli inglobata, prima, nell’idea del divino, poi, nella rivoluzione delle avanguardie del Novecento. Le grandiose idee dell’arte sono correttamente diventate elementi di conoscenza del mondo.
Ma, come diceva Carla Lonzi, «l’intuizione è un modo di vivere, e non un mistero da chiarire attraverso un’analisi razionale» (Scritti sull’Arte). Questo è l’apporto della presenza delle donne.
Ogni invenzione ha un punto iniziale, che poi viene assorbito e copiato. Oggi le donne hanno la forza di suggerire agli uomini di imitare il loro sistema linguistico, politico, affettivo, partendo da sé. Anche questa è per me un’opera d’arte.
Quando Vita Cosentino e Laura Colombo mi hanno invitata a pensare sulla forza femminile e sulle pratiche politiche che nascono da questa forza, la accrescono, e di questa forza si nutrono, ho sentito subito una affinità nelle parole che avevano scelto per darmi il la.
Il primo riferimento cui mi hanno rimandata è stato il numero di Via Dogana Ricominiciamo dal corpo. Mi ha toccata molto il fatto che a Verona con alcune colleghe dell’università, con le amiche del centro interculturale delle donne Casa di Ramia e del Circolo della Rosa, avevamo appena proposto il ciclo di incontri A corpo libero. Tra sistemi di potere e ricerche di senso. In questa coincidenza credo possiamo leggere un segno del bisogno diffuso e comune di un richiamo a qualcosa di radicale.
Giulia Valerio a proposito di queste forme di “regressione” scrive: “di solito attribuiamo un valore negativo alla parola regressione ma non dovrebbe proprio averlo: progressione, regressione sono due movimenti della psiche, della vita. La vita è composta di sistole e diastole. Quando ci troviamo di fronte a una difficoltà che ci sembra invalicabile regrediamo verso le sorgenti, torniamo alle nostre radici profonde per ritrovare energia diversa dall’ordinario e forze rinnovate. Durante la pandemia ciascuna di noi è stata spinta a cercare e trovare dentro di sé antidoti e rimedi; a orientarsi intuitivamente lungo una via che muove verso qualcosa di essenziale.” (“Per amore del mondo” n.17, 2020)
E aggiungo: è stato necessario pensare in modo più accurato la dimensione materiale dell’esistenza (a causa della percezione accresciuta della sua vulnerabilità) ma anche il mistero che la attraversa a partire dal respiro, il soffio vitale che la anima.
A Verona sentivamo la necessità di aprire uno spazio pubblico di dialogo sul bisogno di ritrovare la capacità di situarsi in un orizzonte di libertà in cui i sistemi di potere si relativizzano e prende peso la relazione con il senso dell’esistere, il gioco della vita.
Ci sembrava, quindi, che l’espressione “a corpo libero” nominasse una via – la via incarnata – per tenere insieme da una parte le domande che mettono in questione la giustezza delle regole sociali e il senso degli sconvolgenti accadimenti storici, e dall’altra le domande assolute sull’esistenza che ci aiutano a capire chi siamo e dove.
Ragionando su questa espressione ho messo a fuoco qualcosa che prima per me non era così chiara quando pensavo le pratiche politiche delle donne e le forze, soprattutto femminili, in gioco.
Quando infatti mi sono ritrovata a scrivere il testo introduttivo di questo ciclo di incontri ero partita da una definizione classica: “a corpo libero si genera un movimento che usa il peso corporeo per fornire resistenza alla gravità”. Su questa prima frase, giustamente, sono arrivate alcune critiche e proposte. Un’amica danzatrice, Emilia Guarino, mi ha suggerito di aggiungere che alla gravità talvolta il peso si abbandona: anche il riposo e l’abbandono alla gravità sono un momento della vitale relazione tra questi elementi. Elena Migliavacca mi ha suggerito di modificare con l’idea che il corpo non solo offre resistenza, ma gioca con la gravità. Mi sono sembrate entrambe delle svolte per pensare in modo più preciso cosa significa quando ci muoviamo “a corpo libero” nello spazio sociale e di quali forze abbiamo bisogno.
A corpo libero si genera quindi un movimento in cui il peso fa gioco con la gravità, senza strumenti o legami. Un gesto che non si vincola a una struttura esterna né si potenzia con equipaggiamenti, ma si immerge in un confronto immediato tra la densità del nostro essere e le forze fisiche che governano il mondo. Il ‘corpo libero’ è la disciplina delle ginnaste dalla inaudita capacità di saltare, avvitarsi in aria, fare ruote e capovolte. Il limite del corpo singolare si incontra con la necessità fisica che ordina il mondo, distribuisce i pesi, determina le forze e gli equilibri. Che danza si crea?
Traslando in termini politici: come possiamo abitare i limiti come fossero leve, svincolarci dai discorsi che creano contrapposizioni, dalle dicotomie che influenzano il nostro movimento? Quali forze e dis/equilibri sperimentiamo cercando un posto nel mondo mentre ci confrontiamo con le violenze quotidiane, i sistemi politici-mafiosi, la rigidità delle discipline?
Se penso la mia relazione con la gravità di questo momento storico, il peso che avverto ogni giorno nel petto al sentire le notizie, è il gesto danzante del corpo libero che più si avvicina a dire la qualità della forza che mi abita e agisco. Questa immagine suggerisce che non c’è mai una contrapposizione o una reazione ma sempre una composizione di forze, anche quando si compensano o sembrano opporsi. Il gesto danzante fa apparire la bellezza di questa composizione. Fino a quando penso al mio fare politica come un movimento a corpo libero non ne posso essere schiacciata o annichilita.
Poi la guerra si è fatta sempre più presente e incalzante, ha iniziato a occupare in modo regolare e martellante le notizie quotidiane, e si è fatto sempre più buio.
Sono nata in Sicilia nell’82, sono nata in mezzo alle guerre di mafia. Vivere mentre è in corso una guerra civile di cui non si intravede esito è stata anche una parte della mia storia. La serie tv su Raiplay sulla vita della fotografa Letizia Battaglia, Solo per passione, racconta meravigliosamente quegli anni e io, rivivendoli attraverso questa ricostruzione, mi sono sentita “sua figlia”. Certo la guerra alla mafia è stata una guerra con specifiche caratteristiche da cui poi si è generata una forza femminile specifica. Su questo vi segnalo la recentissima pubblicazione di un libro curato da Gisella Modica e Alessandra Dino Che c’entriamo noi con la mafia, una raccolta di saggi e racconti scritti da donne di diverse generazioni che esprimono al meglio questa specifica forza. Metto quindi a disposizione alcuni pensieri generati da questa genealogia, per dire, a partire da me, come guadagnare un proprio posto in un mondo che è in guerra.
Per farlo riprendo una domanda che mi appassiona da molti anni, almeno da quando mi sono laureata con la supervisione di Valeria Andò all’università di Palermo con una tesi sui modi di nominare la forza e il coraggio nei poemi omerici, indagandoli a partire dalla differenza sessuale. Vi propongo un ragionamento di natura filologica che può schiudere un orizzonte di pensiero utile a pensare i tempi difficili, le divisioni, le contrapposizioni, lo stare in mezzo alla guerra.
Esiste in greco antico una radice molto speciale che è la radice tl-, uno dei modi per dire in greco antico “forza/coraggio” in modo apparentemente paradossale. Secondo gli studiosi ha generato verbi, aggettivi, nomi che hanno a che fare con il sopportare oppure con l’osare: affermano che la netta distinzione che noi poniamo tra il sopportare e l’osare non fosse in fondo essenziale nel greco, soprattutto omerico, e attribuiscono una essenziale ambiguità della radice da tradurre opportunatamente o con sopportare o con osare, come fossero due dimensioni concepite in maniera disgiunta. Tl- non indica solo la dimensione del peso dell’anima (sopportare un’emozione) ma anche delle cose più materiali. Il nome di Atlante, il gigante che tiene sulle sue spalle l’intera volta celeste, viene da questo radicale, talanta, la bilancia, anche.
La traduzione classica di tl- indica che o si ha la forza di essere vittime o si ha la forza di essere eroi/eroine. Nella guerra di mafia, ad esempio, molte donne o uomini che hanno incarnato la forza sono state dipinte e narrate attraverso questa visione dicotomica.
Non credo in una forza che ci divide così. Il radicale tl, se si va in profondità, non racconta della distinzione che gli studiosi vorrebbero tramandarci. Racconta un’altra storia sulla forza, apre un’altra possibilità. Quando ho incontrato questo verbo mi è sembrato subito una pietra preziosa, come potesse tenere insieme due opposti e generare una terza via.
Non si tratta di una forza-coraggio esclusiva dei personaggi femminili, è propria anche di alcuni guerrieri e, in guerra, indica una forza particolare. Sono altre le parole che indicano la forza del guerriero di uccidere, brandire la lancia, affondarla nella carne del nemico (per esempio andreia da aner,andros che significa non a caso uomo maschio in greco antico).
Tlenai viene usato, invece, per tutte quelle situazioni in cui si mette in gioco una forza che trasforma: si manifesta quando la gravità della situazione che si sta vivendo viene “soppesata” grazie a una sua profonda percezione e nello stesso tempo si trova dentro di sé la possibilità di una azione. Quando Luisa Muraro scrive l’agire del patire, dice “c’è un dosaggio da fare ogni volta tra l’azione possibile e la passione inevitabile”: questa è la definizione di forza che più si avvicina al senso di questa radice. L’agire nominato da tl- non è in nessun caso centrato sull’exploit individuale o sulla performance del guerriero; è sempre radicato in una relazione. È una forza che viene giocata tutte le volte in cui la relazione alleato-nemico viene modificata in una situazione non più così dicotomica, quando i personaggi cioè perdono la certezza dei loro ruoli e non sanno più se considerarsi alleati o nemici (per esempio Priamo che va nel campo di battaglia nemico a chiedere il corpo del figlio a chi lo ha ucciso); oppure quando ci si incontra tra stranieri e non ci sono ancora relazioni definite e chiare; quando il guerriero non si reca sul campo di battaglia per attaccare ma per proteggere qualcuno, un compagno ferito per esempio; quando la dea Afrodite, pur di salvare il suo protetto mortale, si lascia ferire. Le dee greche infatti non sono mortali, eppure sono vulnerabili. O ancora, esprime la forza del supplice, del mendicante, il coraggio di Telemaco di andare in cerca del padre.
Questa forza ha un suo nome in greco omerico. Non mi sembra che in italiano esista una parola che la nomini ma certo mi pare ce ne sia un grande bisogno.
Vi invito a ricercarla insieme.
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 La forza delle donne, domenica 12 giugno 2022.