Trovare le parole del piacere femminile è una sfida che attrae e spaventa nello stesso tempo, perché richiede di interrogarsi su ciò che per secoli è stato indicibile e che solo negli ultimi decenni ha cominciato ad affiorare, prima nell’ambito del pensiero femminista e poi nella società nel suo insieme.

Sono parole che devono continuamente essere affermate e mostrate perché i tentativi di omologazione al “piacere unico” si ripresentano sempre e si sono rafforzate grazie al proliferare delle immagini erotiche che invadono la vita quotidiana, soprattutto per le nuove generazioni.

È quindi necessario dire e ridire ciò che il piacere è per una donna, che dialoga con altre donne per trovare quella conoscenza “a partire da sé”, che rischia di essere cancellata dai discorsi che hanno un’apparenza di sapere universale.

Il piacere per me è una dimensione insieme fisica e mentale, l’una è connessa intimamente con l’altra, il corpo e la mente godono insieme, non c’è separazione. Quando una finestra della mente si apre in un pensiero nuovo allora è anche il corpo che freme, prova un senso di godimento e letizia.

E il piacere è per me intimamente legato al sentimento di un abbraccio, di un luogo caldo nel quale essere contenuta, avvolta in un cerchio amoroso che mi permette di essere ciò che sono, in una relazione che accoglie e non stritola.

È il piacere dell’origine, della nascita, è l’abbraccio dell’utero materno che autorizza tutti i piaceri che vengono in seguito. L’abbraccio della madre, dentro e fuori di lei è il piacere primo, che viene prima di tutto, anticipa anche il nutrimento, il pianto, la presenza e la mancanza.

Secondo uno psicanalista inglese, Wilfred Bion, allievo riconoscente di Melanie Klein, l’abbraccio della madre va oltre la dimensione del corpo, la madre avvolge e contiene nel proprio pensiero sognante il pensiero sognante della bambina/bambino, e questo sogno nel sogno permette alla piccola/piccolo di crescere e di stare nel mondo in modo pacificato, perché l’abbraccio della mente della madre (la rêverie) riesce a contenere ogni paura e a trasformarla in pensiero.

È all’abbraccio della Grande Madre che le persone si rivolgono per implorare aiuto nei momenti difficili. L’abbraccio di una madre al suo bambino (e io mi immagino anche alla sua bambina) che mostra una relazione di amore, nutrimento e pace è l’immagine più adorata nelle chiese come mostrano le candele stipate solo ai suoi piedi. Abbraccio che si sviluppa anche verso un mondo adulto come si può vedere in Santa Maria delle Grazie a Milano, dove, sopra l’altare, la Madonna apre il mantello per accogliere dentro il suo abbraccio la donna e l’uomo inginocchiati in preghiera a lei.

E dall’origine della relazione materna l’abbraccio poi si espande e si apre ad ogni altra relazione.

Per me anche il piacere erotico si fonda in un abbraccio/contenimento reciproco. È questo abbraccio del corpo e della mente che trasforma l’atto dell’unione di corpi in qualcosa di più profondo, in una relazione appagante.

E l’abbraccio è anche politica delle donne, che si riconoscono e che creano un contenitore ampio in cui il pensiero cresce in una relazione che accoglie e contiene l’altra. Senza un luogo che tenga insieme corpi, pensieri, esperienze, affetti, anche conflitti, il nuovo non può nascere. Questa per me è stata e continua ad essere l’esperienza del femminismo, un luogo che accoglie e nutre il pensiero e la pratica delle donne in una relazione feconda.

Disagio, irritazione, rabbia. Attraverso questi moti dell’anima si può far strada il piacere femminile che dice di non starci all’imperativo del godimento imposto perché sa che c’è altro. Quando questo sentire è stato messo in parole dalle giovani amiche nella redazione ristretta di Via Dogana, la mia prima reazione è stata l’identificazione.

Era come se rivivessi l’esperienza degli anni ’70 quando abbiamo detto «non ci stiamo!» davanti alle imposizioni della rivoluzione sessuale con le sue richieste di disponibilità permanente, e abbiamo fatto la rivoluzione nella rivoluzione. Subito però mi sono detta che l’identificazione non è una posizione produttiva nello scambio con l’altra o con l’altro e, soprattutto, che le giovani donne del nostro presente si trovano a vivere in uno scenario profondamente cambiato.

La scommessa politica va quindi ripensata. Grazie al femminismo, oggi le donne sono in primo piano con conquiste innegabili. La legge del padre è stata smantellata, ma il crollo di quell’ordine simbolico ci ha catapultato nel caos post-patriarcale e in una situazione molto complessa. Mentre la nostra generazione, nei gruppi di autocoscienza, si trovava davanti a un non detto sulla sessualità femminile, un vuoto di parole che stimolava creatività, voglia di invenzione e scoperta del piacere, oggi, in un mondo dominato dal mercato neoliberista, dalla rete e dai social, ci troviamo davanti a un troppo pieno, una saturazione, un’infinità di definizioni e identità da indossare a propria scelta. Per scoprire poi che nessuno di quei modelli prefabbricati ti sta bene, e c’è di nuovo un forte disagio. Come osserva Ida Dominijanni nel suo saggio illuminante “Pratica dell’inconscio, inconscio della pratica” (in La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, a cura diChiara Zamboni, Moretti & Vitali 2019, pp.13-33) le donne sono state le prime agenti del crollo del patriarcato e allo stesso tempo prede del mercato neoliberale. L’autrice sottolinea che «il presente non può essere letto solo come un effetto della sostituzione della legge paterna con il discorso del capitalista, ma porta anche l’impronta della rivoluzione femminista». È una rivoluzione che ha comportato tanti guadagni ma che apre nuovi conflitti: ci sono parecchi tentativi di riaddomesticare le donne, e «la libertà femminile diventa insieme oggetto di cattura e spina nel fianco del passaggio dall’economia nevrotica dell’uno, del limite e dell’interdetto all’economia perversa del molteplice senza limite e senza legge».

Dominijanni ci invita a reinterrogare la nostra scommessa sulla politica del desiderio e del simbolico a partire da un nuovo disagio femminile che si manifesta in sintomi come l’anoressia e la depressione. Noi in redazione non abbiamo affrontato questi sintomi, ma preso il disagio e la rabbia come indicatori che c’è altro, che esiste un piacere femminile non riconducibile a quello fallico che oggi spesso viene imposto anche alle donne. E in primis c’è stata la consapevolezza che non si tratta di problemi psicologici e privati, ma di una questione squisitamente politica. Lo sapevano le Compromesse che hanno affrontato il discorso attraverso la pratica di scambio di parola nel loro gruppo, lo sapeva Giorgia Basch che ha ripreso le parole di Luce Irigaray, come una matrice alla quale si può tornare sempre, anche in condizioni storiche completamente cambiate. Il riferimento alla stessa matrice fa da sfondo per uno scambio in redazione per me molto arricchente: mi permette di vedere le donne più giovani nella loro soggettività e di conoscere la contemporaneità che condividiamo attraverso il loro punto di vista. Politicizzare il disagio e trovare le parole per il piacere femminile eccedente, rivela di nuovo che le donne hanno una «marcia in più» (Dominijanni) per affrontare la crisi di oggi. Me ne rallegro.

Riprendere a parlare del piacere femminile significa tirare le fila, anche molto sommariamente, di un discorso che è cominciato negli anni ’70 con Carla Lonzi e Luce Irigaray. A mio modo di vedere non si è mai interrotto, ma è proseguito sotterraneo, interessando anche altri ambiti, cito per esempio la ripresa che Luisa Muraro fa di Lacan in Dire Dio in lingua materna, quando parla del «godimento extra» di cui fanno esperienza le donne.

Di recente poi è stato riportato in piena luce da María-Milagros Rivera Garretas con il suo Il piacere femminile è clitorideo. Questo per dire che si è accumulato un sapere al riguardo da rigiocare oggi.

Sia Irigaray che Lonzi e, adesso, Rivera Garretas mettono l’accento sulla particolarità del piacere femminile. Una caratteristica che tutte individuano è l’autonomia, in quanto mostrano come nella donna il piacere sessuale è separato dalla procreazione. Carla Lonzi e María-Milagros Rivera Garretas insistono sulla clitoride, Luce Irigaray parla delle grandi labbra e delle piccole labbra che si toccano in continuazione, quindi non c’è bisogno di una mediazione esterna. Secondo me una giovane donna lo deve sapere, perché così va all’incontro con l’altro o con l’altra in modo più consapevole. Nella nostra redazione sono infatti le più giovani che vogliono riprendere in mano questo discorso.

L’altra caratteristica che mettono in evidenza tutte queste teoriche ─ anche se lo dicono in modi molto differenti che forse bisognerebbe riprendere e riproporre ─ è che è un piacere diffuso, si irradia, non è fissato nell’organo come il piacere maschile. È il piacere maschile, infatti, che è fissato nell’organo sessuale, ha un apice, poi finisce, ed è quella meccanica lì che coincide con l’atto della procreazione.

Proprio il fatto che sia diffuso tiene insieme il piacere sessuale con i «piaceri dell’anima». Quando Wanda Tommasi ci ha raccontato del suo lavoro all’università, non è passata a un altro discorso: il discorso è lo stesso, è una sessualità fatta in modo diverso.

Di quella sessualità che Freud interpretava come «mancanza» ─ mancanza del pene ─ queste teoriche invece ci dicono che è altra, che quel vuoto può aprire alla possibilità di creare un altro modo di stare al mondo. Lo conferma anche Paola Francesconi quando, introducendo il volume collettivo Una per una, richiama da Lacan la donna come «non tutta», non tutta nel rapporto sessuale complementare, non tutta nei codici esistenti.

Questo insieme di riflessioni mi porta a pensare che dare oggi voce e parola al piacere femminile possa essere una leva per sottrarre la propria vita alle logiche del potere e alle richieste di prestazioni individualistiche.

La questione per me centrale è che il piacere così come si va delineando, inteso come apertura indeterminata, così lo definisce Irigaray, è intensamente relazionale. Pur nella sua autonomia, le due cose vanno insieme. La cifra è quella della relazione. Se pensiamo alla nostra Libreria delle donne, che della relazione ha fatto una politica autonoma, vediamo oggi con più chiarezza ─ io non ci avevo pensato prima ─ che è una politica che attiva il piacere femminile e ne fa una risorsa. In effetti quando ho incontrato la politica delle donne ne sono rimasta affascinata. Era quello che inconsapevolmente cercavo: una politica che coincide con la vita stessa.

Oggi sento fortemente la necessità di riparlare dell’essenziale della politica delle donne perché da quando ci sono donne nei posti apicali dei governi e delle istituzioni internazionali, sembra che lo sguardo debba volgersi lì, in una sorta di incantamento, che idee e desideri possano affermarsi solo se trovano una mediazione istituzionale, sembra che tutto debba essere agito e visto nella prospettiva del potere.

Così si rischia di perdere il piacere di fare politica per se stessa, di essere una donna nella polis, con le proprie idee e i propri progetti, di trasformarsi e trasformare, di portare avanti un agire politico in cui la soddisfazione è nell’agire stesso e non dipende da avere riconoscimenti o ottenere denaro e posti di potere.

Ora che per età anagrafica la sessualità attiva si è assopita, non per questo rinuncio a quelle forme di piacere che posso rigiocarmi per quella che sono, invalidità compresa. Per esempio per me fare Via Dogana, che significa stare in relazione vitale con le altre, leggere e pensare, confrontarmi, fidarmi di loro per azzardare temi rischiosi come questo del piacere femminile… è molto appagante.

Domenica 4 dicembre la Libreria delle Donne di Milano ha lanciato un dibattito, tra le convenute in sede e le tante collegate on-line, sul “trovare le parole del piacere femminile”. Il tema ha suscitato molto interesse, poiché davvero alta è stata la partecipazione alla discussione e anch’io ho sussultato proprio per il piacere di non perdere l’occasione di questo stimolante confronto.

Avevo dentro la notizia, riportata da quasi tutti i giornali generalisti, sullo studio del Censis che fotografava un’Italia malinconica e semmai prossima alla depressione.

Sentimenti presentati in una chiave di diffuso impoverimento umano, benché la psicanalisi annoveri la malinconia e la depressione come il preludio di una “rinascita”, se assunte e attraversate senza rimozione.

In Libreria, tra i contributi iniziali, molto vivi e aderenti alle differenti soggettività anche generazionali, mi avevano toccata le immagini con le quali aveva esordito la filosofa napoletana Stefania Tarantino. Si trattava di arazzi che rappresentavano i cinque sensi e uno rappresentava armonicamente l’insieme “dell’umano sentire”, arazzi custoditi nel Museo Nazionale del Medio Evo di Cluny a Parigi. Un incanto! Poi Tarantino aveva offerto altre immagini con le parole dell’esperienza: il suo muoversi nella natura, tra odori, brulichii, quindi del suo piacere a prendersi cura dell’appezzamento di terra dove coltiva anche le olive, partecipando con energia alle necessarie funzioni contadine.

Un racconto, il suo, che risuonava in me come una preghiera, procurandomi l’effetto di un balsamo.

In chiusura, viene detto da Tarantino che il piacere è tale per il fatto che si situa al di fuori dell’economico, ovvero nella sfera del gratuito.

Sostengo l’importanza “politico-educativa” del suo discorso a nutrire un pensiero alto per così andare oltre l’economico che imperversa e che spesso sfianca. Nello stesso tempo, ho potuto reinterrogare la mia scelta di vita, orientata a rendere praticabile un’economia non solo schiacciante e abbruttente, ma semmai fonte di ben-essere, oltre ogni economicismo, fino al piacere e all’amore a concretizzare attività, opere, servizi e lavoro che, senza eludere fatiche e preoccupazioni, si materializzano in soddisfazioni, in valore spesso collettivo, includendo il transito del denaro necessario.

Detto ciò, è come se coabitassero positivamente in me la bellezza dell’arte, che mi ha insegnato ad apprezzare Anna Di Salvo negli incontri di Città Vicine, e l’operare nel mercato senza per questo appiattirsi sul mercato.

E mentre scrivo queste note, mi si affastella la mente di situazioni in cui vedo volti femminili felici fare ciò che semplicemente sentono di essere chiamati a fare, ma non a testa bassa. Vedo Dora, cittadina bulgara, prendersi cura con vera passione di mia cugina Carla “semidemente”, tanto che il medico curante, quando la sapeva in ferie, diceva che doveva tornare al più presto per farla guarire dagli altri acciacchi, dove lui, con i suoi strumenti, non stava arrivando.

Vedo gli occhi, spesso commossi, di Paola che, rinunciando al lavoro tradizionale di architetta, con la sua associazione Quarta Luna, affidata alla Mag, si è intestardita a recuperare una villa abbandonata di proprietà comunale e, dedicandovicisi anima e corpo, tra contestuali raccolte fondi e interventi mirati al tetto, tra feste di comunità e pulizie del parco da detriti vari – sempre con guanti e stivali – ha disseminato piacere tra grandi e piccini, pronti a far rivivere nella villa le fiabe di sempre. E ora arriva anche il PNRR a completare l’opera.

L’economia del desiderio ha aperto la strada all’economia pubblica che pure vogliamo.

Così siamo tutte contente nel vedere l’evolversi di una complessa “trama”, sperata ma non scontata, senza cancellare i tanti paletti frapposti dalle burocrazie municipali.

Da ultimo, ricordo qui, lo splendido sorriso di Giovanna della cooperativa CLM che ha lavorato oltre quarant’anni tra lamiere per termosifoni e simili. Ogni venerdì organizzava la cena dei soci e delle socie della cooperativa nella taverna di casa, per ricaricarsi insieme attraverso discussioni e risate interminabili. Diceva: «la nostra è una cooperativa vera, nel marasma delle cooperative finte», perché «se volemo ben»… «fasemo tante ore, prendemo un buon stipendio, come è scritto mensilmente nel tabelon; tutto in regola, e dasemo lavoro ai giovani».

A conclusione sento che non solo non c’è inimicizia tra bellezza ed economia, ma che semmai può esserci un continuum, sempre che l’economia – in pratica – resti fedele al suo radicale significato etimologico: la cura della Casa Comune.

La bellezza, le arti ed il piacere generato possono accompagnare tale fedeltà.

Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, con alcune giovani donne incontrate ad un convegno nazionale intitolato “Da desiderio a desiderio” (Impruneta, 1987), ci siamo chieste quanto il nostro piacere fosse veramente autonomo dal simbolismo vigente, come l’intensità delle relazioni che vivevamo nell’intimità con altre donne potesse diventare forza politica spendibile nella vita di tutti i giorni.

Da lì è nato un percorso di ricerca e trasformazione in cui, scambiandoci parole che nascevano dall’esperienza diretta di ognuna, abbiamo interrogato una forma della sessualità femminile storicamente esclusa dall’ordine simbolico dominante e cercato di mettere in parole il piacere e il sapere dei nostri rapporti. Il percorso si concluse nel 1997 con un librino intitolato Il desiderio senza nome pubblicato in trecento copie e scritto per salvare il senso di una storia comune fondata sul piacere della carezza, gesto elementare che restituisce la garanzia primaria di esistere. La carezza, infatti, mostra di che stoffa è il piacere femminile, ne svela l’origine materna, ricollegando ogni donna all’amore della madre, nel momento in cui lei, toccata dall’interno per la prima volta, percepisce la sua creatura e si mette in cammino.

Nella carezza la mente scivola su qualcosa di vivo, tocca la verità di un godimento sottile, conduce il pensiero fuori dal monologo di universi paralleli e si fa dialogo. Anche i baci sono carezze. Ognuna entra lentamente nell’accarezzare, vincendo la tentazione di sparire, mentre il suo corpo acquista peso, consistenza. Opera di alchimia, le carezze sono testimoni di una trasformazione: il corpo si scioglie goccia a goccia, gli elementi si separano, poi si riuniscono; le mani raccolgono nel loro andirivieni colori, suoni, segni, immagini delle forze nascoste che ci avvolgono e ci costituiscono nel profondo. Attraverso un lavorio continuo di lettura, la carezza fa scorrere ininterrottamente acqua dalle dita, riordina la nostra vita, lettera per lettera, combina tra loro le sillabe di una lingua sconosciuta.

Ci sono due “regole” da rispettare nella pratica della carezza: non difendersi dal piacere e non avere fretta, nessuna ansia produttiva né paura di protendersi nel vuoto. Le carezze obbediscono alla promessa di non diventare gesto automatico, teso al possesso, pena la perdita del piacere insieme alla perdita di senso e di intelligenza.

L’effetto della carezza è quello dell’onda infranta dall’onda, della pioggerellina che tintinna sulle foglie, dei granelli di sabbia e di sale lasciati scivolare sulla pelle. Un pulviscolo dorato si forma intorno ai nostri corpi, restituendoli alla rotazione dell’universo che fin dall’inizio è in stretto rapporto con la rotazione dei sensi che procedono senza stacchi bruschi l’uno dall’altro, in un gioco di rimandi.

Per conoscere la capacità trasformativa delle carezze bisogna averne sperimentato in cerchi concentrici lo splendore, aver reso le mani obbedienti a un principio di natura vegetale. Ci vuole, infatti, la forza, la tenacia e la delicatezza di una pianta che si rivolge al sole per guarire dall’estraneità, dalla disabitudine al piacere, dalla mancanza di un ritmo.

Le carezze conoscono l’arte antichissima del ricamo: sulla stoffa di cui è fatto il piacere femminile, con precisione amorevole, innumerevoli fili si intrecciano e si disfano in un disegno sempre nuovo.

Passo dopo passo, le carezze ci conducono verso la perdita momentanea dei nostri contorni: esperienza di esaltazione, di uscita da sé. A volte possono dare tormento, allora c’è bisogno di riposarsi per tornare a desiderarne ancora e ancora, sempre di più.

Stupore rinnovato delle carezze, canto a più voci che ci porta a una tradizione ininterrotta di tattilità femminile. Mani a coppa non a forma di taglio. Non percussione, ma sfregamento, sfioramento, fruscio, scivolamento, lenta discesa fino a incontrare le onde sonore dei pensieri che si confondono con quelle olfattive e visive. Nella carezza la comunicazione avviene per echi, assonanze, analogie.

La carezza obbedisce al principio di individuazione per cui non c’è la donna, una donna, le donne, ma questa donna, lei, proprio lei e non un’altra. Il principio di espansione rende la carezza trasmissibile nel tempo e nello spazio. Sui volti e nelle parole di alcune donne ne riconosciamo i segni. Questa è la visibilità elementare, la prima forma di somiglianza segreta tra donne, resa possibile dalle carezze: sensualità di sguardi, cura nei gesti come fossero rituali di una cerimonia antichissima che si rinnova; dita che non si inarcano per evitare il contatto, ma si raccolgono in piccole culle di silenzio, fluidità e sensualità nei movimenti, forza di affermazione nella voce.

La carezza fa da ponte, costituisce nel difficile equilibrio tra finito e infinito un piano d’appoggio su cui innalzare il mondo secondo l’amore femminile per tutto ciò che vive, luccica, respira, canta, lotta, si trasforma, disegna spazi imprevisti di relazione.

Per fare politica occorre avere un corpo che ha acquistato spessore, intelligenza del reale, passando per un piacere che, nonostante la storia del potere patriarcale, ha attraversato i secoli ed è giunto intatto fino a noi. Grazie alla consapevolezza di questo antichissimo piacere, in tante abbiamo provato la passione della differenza, inventato pratiche politiche e ci siamo misurate con la sfida enorme di cambiare il mondo.

All’università di Verona ho lavorato per più di trent’anni, non mirando né alla carriera a tutti i costi – infatti di carriera ne ho fatta ben poca, il minimo sindacale, diciamo – né tantomeno a posti di potere: questi ultimi proprio non li avrei voluti, li ho sempre evitati come la peste. D’altro canto, nessuno me ne ha mai proposti. Meno male: si capiva che non puntavo a quello.

Ciò che contava per me, ciò che mi dava piacere era l’accendersi di una luce nello sguardo di una/o studente, di un’ascoltatrice di una mia conferenza o di una lettrice di un mio libro: quella luce era indizio di sintonia, di comprensione, di complicità, e poteva dare inizio talvolta a una relazione o a un’amicizia, che andava ben oltre i rispettivi ruoli, istituzionali o meno.

La relazione fondante, fonte sorgiva della mia politica in università, è sempre stata quella con Chiara Zamboni: una relazione politica, ma sorretta anche da un’amicizia profonda e autentica. Ricordo tuttora il piacere che ci concedevamo ogni lunedì pomeriggio, quando entrambe avevamo l’orario di ricevimento studenti: per un quarto d’ora, ci ritiravamo nel mio studio a scambiarci pareri sulle/gli studenti, a fare il punto della situazione, a cercare una misura per come muoverci in università e per contrastare la governance neoliberale che stava avanzando, per orientarci politicamente. La nostra breve conversazione era sempre accompagnata da un piccolo brindisi: bevevamo un goccio di crema al whisky, un liquore a bassa gradazione alcolica, perché poi bisognava essere lucide per le/gli studenti. Per me Chiara è stata ed è tuttora una donna, una pensatrice, una filosofa, a cui riconosco una grandissima autorità. I frutti politici della nostra relazione erano visibili da tutti e ovunque in università, nei Consigli di Dipartimento così come in qualsiasi altra riunione accademica.

Il femminismo della differenza mi ha insegnato che l’autorità bisogna attribuirla a donne degne di fiducia, le quali non sono necessariamente quelle che stanno più in alto, che ricoprono ruoli di potere. Io e Chiara, dal punto di vista della gerarchia accademica, eravamo assolutamente alla pari.

Ricordo una discussione vivace, avvenuta circa un anno fa in Diotima, sulla questione dell’autorità femminile: alcune tendevano ad attribuire autorità solamente a donne di potere in Europa, come Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Mentre la prima aveva guadagnato effettivamente autorità trasformando nel tempo la sua politica e andando a uno scambio autentico con la realtà, le altre due non apparivano altrettanto degne di fiducia. Chiara osservò che occorreva maggiore attenzione per attribuire autorità a donne prive di visibilità mass-mediatica, come le contadine del Nordest del Brasile, con le quali una giovane ricercatrice di Diotima era in contatto e che lottavano – e lottano tuttora – per creare una situazione fertile con la loro terra in una comunità, sia politica sia religiosa, ad autorità femminile. Spesso, per saper riconoscere e nutrire l’autorità femminile, non occorre guardare verso l’alto: basta guardarsi intorno.

Per me sicuramente Chiara e anche le contadine del Nordest del Brasile sono più degne di fiducia di quelle che hanno sfondato il tetto di cristallo: con queste ultime – con l’attuale premier italiana Giorgia Meloni e con la ministra Eugenia Roccella, per fare due nomi di attualità in Italia – non sento alcuna sintonia per la politica di destra a cui appartengono, benché m’interessi stare a vedere che cosa faranno, dal momento che sono pur sempre donne; quindi è in gioco la differenza sessuale che mi sta a cuore e che m’interpella. Tuttavia, là dove c’è massima esposizione pubblica nella politica istituzionale, è più difficile individuare semi di autorità in dispositivi e ruoli nati per il potere.

In ogni caso, ritengo che un buon criterio per decidere se una donna sia degna di fiducia sia il fatto che lei non si consegni tutta alla logica del potere, della carriera o dei soldi. Non tutta: se il suo centro di orientamento è altrove, nel piacere di coltivare relazioni, nella cura della vita, nel gusto della bellezza e nella gioia di aiutare a fiorire ciò che sta nascendo, si può riporre in lei la fiducia che merita.

Questo ce lo insegnano le nostre autrici mistiche. Il loro baricentro era altrove rispetto al già dato, al già pensato, rispetto al reale realizzato: era in un infinitamente piccolo sottratto alla logica del potere e della forza per Simone Weil, era in un Dio salvato dentro di sé nel mezzo della violenza della seconda guerra mondiale e della Shoah per Etty Hillesum. Pur senza giungere alle loro sublimi altezze, possiamo anche noi anteporre al potere, alla carriera o al denaro, il piacere che deriva da relazioni autentiche, politiche o di amicizia, coltivate per un guadagno d’esserci di entrambe le persone coinvolte, e possiamo contare sul fatto che queste relazioni non strumentali siano la leva per smuovere una realtà pietrificata e per far fiorire altro, di cui intravediamo le potenzialità latenti e che spetta a noi, grazie alla fecondità delle relazioni, portare verso il meglio. 

Quando si mette a tema la sessualità femminile – ad esempio nelle riunioni tra donne a cui ho partecipato – c’è una questione che tende a finire in ombra o a essere ignorata. È il legame che c’è tra piacere sessuale e procreazione.

Può sembrare anacronistico parlarne oggi, quando gli anticoncezionali ci hanno liberato (un po’) dalle maternità indesiderate e finalmente noi donne possiamo considerare la legittimità del piacere in sé, slegato dall’orizzonte procreativo. Ma, quando ci addentriamo nella sessualità come fatto relazionale, e se la relazione che prendiamo in considerazione è quella tra una donna e un uomo, le cose a mio parere si complicano.

C’è un’asimmetria o comunque una diversità di realizzazione tra il piacere femminile e quello maschile che complica le cose.

Il piacere femminile in sé non è procreativo se si considera solo la dinamica fisica-corporea che lo può produrre. Nella relazione con l’uomo una donna può trarre piena soddisfazione fisica anche senza la penetrazione. L’orgasmo clitorideo è stato “svelato” da tempo e oggi le donne, che forse hanno sempre saputo della sua esistenza, incominciano a rivendicarne l’importanza.

Il piacere maschile invece non è separato dalla procreazione: la piena soddisfazione (fisica? mentale? entrambe? non so) è raggiunta con l’eiaculazione, cioè con l’azione fecondante. Simbolicamente, nella storia, questa è diventata azione dominante: la più importante, quella che può esercitare il suo dominio sulle donne, su tutto.

Dunque mi sorge una domanda: come si concilia la “meccanica sessuale maschile” con la sessualità femminile liberata dalla costrizione alla riproduzione, se i maschi non prendono coscienza del tipo di sessualità che li ha caratterizzati e se non abbandonano l’irresponsabilità procreativa che hanno avuto finora?

I ripetuti femminicidi, che non sembrano affatto diminuire, non hanno forse qualche collegamento con queste due sessualità a confronto-scontro?

Ma mi sorge anche un’altra considerazione che coinvolge noi donne e che potrebbe confonderci. La potenzialità procreatrice che abbiamo può essere essa stessa, più o meno consapevolmente, un fatto erotico/erotizzante. È il brivido di correre un rischio, l’eccitazione della sfida o la spensieratezza. È un’energia vitale preziosa che non va dispersa. Bisogna però saperla riconoscere per capire qual è la natura del nostro desiderio. Nel contesto non è detto che sia facile.

Prima di iniziare vorrei condividere con voi alcune immagini. Si tratta di una serie di arazzi del ciclo de La Dama e l’Unicorno da poco restaurati e conservati al Museo Nazionale Cluny di Parigi. In un mio recente viaggio a Parigi sono andata a vederli perché sapevo del loro recente restauro e della loro nuova esposizione. L’emozione è stata grande e mi ha lasciato senza fiato. Non solo per l’imponente e meravigliosa opera di tessitura ma anche per ciò che raffigurano: i cinque sensi e l’interezza enigmatica del sentire, del desiderio e del piacere. L’eccedenza femminile come stato estatico e completo di corpo e mente è sganciato qui da qualsivoglia imperativo. Non c’è nulla cui rispondere o attenersi, ma il richiamo libero di un desiderio e di un piacere colti allo stato libero e puro nello spazio esteriore e interiore del proprio sé. Se l’assetto economico delle nostre società fa leva sulla scindibilità dell’essere umano, su piaceri spezzettati e rivolti a “pezzi” di corpo, qui al contrario l’interezza di ogni poro che ci costituisce e che assorbe e riflette tutte le cose è al centro della scena.

(Toulouse) Mon seul désir (La Dame à la licorne) – Musée de Cluny Paris

Il piacere l’ho sempre legato a qualcosa di musicale e di felino. Musicale perché il piacere ha qualcosa di ritmico e di melodico. Godere, con tutti i sensi, rimanda per me all’essere all’unisono con altri ritmi e con questo non mi riferisco solo a relazioni umane ma alla partitura del corpo-mondo di cui facciamo parte. Felino perché il piacere lo imparo anche dall’arte di vivere dei miei gatti, dal loro savoir faire inaddomesticato che è irrevocabilmente fedele solo a sé seppur nella capacità di amare altro da sé.

So che nel piacere femminile vive questa profondità inscindibile tra anima e corpo. Non c’è confine tra i due e neanche semplice connessione, ma intreccio, danza, pulsazione. Così mi spiego quel piacere capace di derivare anche dalla fatica. Da tutte quelle fatiche che non comportano abbruttimento ma un grande potenziamento e una capacità di intensificazione che fa sentire le cose come “vere”, “reali”. Stancare il corpo fino alla spossatezza e provare gioia: penso sia lo stato perfetto di ogni creazione ben riuscita. La leggerezza che ne deriva solleva e porta sollievo alla gravità e al peso della vita quotidiana.

Per ciò che riguarda la mia passione filosofica essa è legata al piacere che mi deriva dai pensieri femminili e dalla loro ironia. La scoperta di un’intuizione femminile che non strappa violentemente la conoscenza ma che invece si lascia attraversare dall’ispirazione per cogliere ciò che è primariamente importante in una vita pensante di donna in cui sapere e vita sono una sola cosa.

Una fonte di piacere imprescindibile è la possibilità di vivere e di sperimentare l’immaginazione in una forma assolutamente gratuita. Ciò accade quando gioco e invento mondi con le mie figlie. Con loro sono stata ovunque e sono stata tutto ciò che ho immaginato di essere. Ho capito che in un certo senso il piacere non ha veramente nulla a che fare con l’economico. Tutto qui è gratuito e pieno di offerte di sé. Il piacere è così una potenza trasformativa, ha qualcosa di alchemico e di fluidificante.

Un’altra fonte di piacere è il contatto con la natura, un contatto non solo visuale ma che riguarda l’avvolgimento di tutti i sensi. Mi sento parte di qualcosa di immenso: una foglia, una goccia del mare, una nuvola del cielo, un germoglio. Il mio tutto non si riduce più al mio io. Fonte di piacere assoluta dell’espressione in tutte le sue forme. La stessa cosa mi accade nella relazione con altre donne. Studi Femministi e altri luoghi in cui il pensiero conosce la gioia del pensare insieme e in  cui i nodi da sciogliere o già sciolti sono i frutti maturi da raccogliere per la vita.

L’insegnamento che ne traggo: capire ogni volta dove si sta nel proprio piacere nel decentramento dall’ego e nello spostamento in una realtà più vasta. Amare il simultaneo rispetto a ciò che eterno, la parola cantata e danzata rispetto a quella scritta.

If you think you can grasp me, think again:

my story flows in more than one direction

a delta springing from the riverbed

with its five fingers spread

Adrienne Rich1


La mia riflessione parte da un’immagine, un’immagine fatta di parole, quelle di Luce Irigaray. Due labbra schiuse, indice di una femminilità non riducibile al multiplo, che parla in tante lingue e tante voci. Il movimento delle labbra esprime un toccarsi che è scambio costante, «linguaggio che non ha circolarità»2, non organizzato sinteticamente, libertà di azione e movimento, flusso.

L’intuizione di Irigaray apre a una molteplicità senza fine di linguaggi e soggettività che sfuggono allo schema fallocentrico della rappresentazione e al femminile che si fa concetto.

Il piacere delle donne è plurale, diffuso, attraversa e permea tutto il corpo, ne oltrepassa i confini e quelli delle fantasie individuali, si introduce nelle relazioni, approda nelle pratiche collettive. Il piacere della condivisione, della vicinanza, del toccarsi, del fare mondo insieme. Come viverlo in una società che spinge per l’identificazione definita, che ci chiede sempre di scegliere un ruolo, una forma e che una forma la dà anche al desiderio femminile, per renderlo afferrabile tanto quanto il desiderio maschile, rigido, plasmato, visibile?

I nostri corpi sessuati sono ancora troppo spesso ridotti a superficie, che sia essa schermo, fotografia, merce.

Lo scambio delle donne fa funzionare la società patriarcale, ne servono tante, tutte, a ripetizione: il fascino della mancanza sembra dominare l’economia sessuale fallocratica, che spesso coincide con pornografica, e alimentare il desiderio e l’idea (maschile) di piacere femminile è diventato un necessario esercizio di subordinazione per poter continuare a godere e goderne. Come? Ponendo gli oggetti del desiderio in competizione per il raggiungimento di uno standard comune, quello della donna che trae piacere solo procurandolo. In questo scenario la parola delle donne scompare, i corpi si fanno immagine, «immagini ricevute, stratificate e intrecciate a percezioni dirette ma oscure», come scrive Rossana Rossanda, e si misurano col «vedersi vista»3, col vedersi godere. Nel concreto, il piacere passa dalla vista piuttosto che dal tatto, dalla seduzione online o in presenza attraverso l’assunzione di ruoli, posture, collocazioni che non possono che rimpicciolirci, sfinirci, anestetizzarci, e allontanarci dal nostro essere donne che è senza confini, senza argini stabiliti.

Lavorando con la pratica visiva come art director e fotografa mi interrogo sempre più spesso sulla questione della rappresentazione, o auto-rappresentazione, dei nostri corpi femminili, e in particolare sull’imposizione da parte della società, delle realtà per cui produciamo, degli uomini, di creare un canone, di aderire a una funzione, ogni qualvolta decidiamo di raffigurarci o raffigurare altre donne, correndo spesso il rischio di riduci più o meno inconsciamente ad oggetto appetibile. Agghindate, sottoesposte, lussuriose, castigate, disponibili, irraggiungibili: transitiamo tra categorie opposte per soddisfare ogni loro fantasia, il loro stato di equilibrio, dimentiche delle nostre eccedenze e pulsioni.

È possibile riappropriarsi del potenziale della rappresentazione, che per me come per altre donne coincide con una passione, e farne uno strumento di liberazione? Non più ruoli imposti ma incarnazioni riconoscibili del nostro sentire presente, diapositive del qui e ora, corpi vibranti, godenti, e con a disposizione una varietà pressoché infinita di configurazioni e scelte, anche contraddittorie. Ritrarci non deve per forza coincidere con una fissità come siamo portate a credere, possiamo essere tanto, tutto, tutto assieme.

Scompaginare l’ordine sociale vigente è immaginabile partendo dal piacere per come lo intuiamo noi, un piacere in cui ci riconosciamo. Il vederci con occhi nostri può aprire all’ascolto con tutti i sensi, aprire a un coinvolgimento pieno. Sensuale.

Il nostro sentire, il nostro sentirci toccate, deve restare la nostra bussola per poter navigare libere in una società in cui non troveremo, e non vogliamo, un posto così com’è. Il cambiamento passa anche attraverso la riscoperta del nostro piacere femminile espanso, dell’erotico4 che si fa eccesso non solo nel sesso, ma nella pratica comune di tutti i giorni, nel fuoco della creatività che alimenta noi e il nostro lavoro, i nostri progetti di vita, che tiene vive le nostre relazioni.

Interrogando in che misura i nostri bisogni sono effetto d’un funzionamento sociale, rimettiamo in gioco la nostra sensibilità, ritorniamo a pensare col corpo. Sottraendoci alla frammentazione e alla mercificazione delle nostre figure e desideri, alle categorie imposte, agli imperativi, pronunciano dei “no”, riprendiamo parola, e lo facciamo disturbando l’ordine del discorso. Auspicabilmente, dando vita a un discorso nuovo. Un parlare donna che non rinuncia ma rivela.


1 Adrienne Rich, “Delta”, Time’s Power: Poems 1985-1988, WW Norton & Co, 1989

2 Luce Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli Editore, 1977 p. 174

3 Rossana Rossanda, Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri, 2018, p. 75

4 Mi riferisco alla concezione di erotico di Audre Lorde in Uses of the erotic, 1978

Il 20 novembre 2022 sullo Specchio de La Stampa è comparso (con la firma di Maria Corbi) un articolo sul nuovo calendario Pirelli della fotografa Emma Summerton dal titolo “Se ti fotografa una donna sei più sexy” che a nostro avviso mostra in modo chiaro l’uso del femminismo e della libertà femminile per il piacere maschile.

La retorica del “curvy”, il movimento “body positive”, amarsi per come si è, è solo apparentemente liberatoria. Lo esplicita, non in chiave critica, Maria Luisa Agnese su la 27ora: «Tanto vale decidere di star bene nella propria pelle, perché si sa che gli uomini alla fine preferiscono proprio le rotondità». La ricerca del sexy ha come finalità il piacere degli uomini, e l’asservimento allo sguardo maschile viene spacciato per “empowerment”.

Le giovani donne che frequentano i social, ma non solo, per “poterci essere”, si trovano a doversi misurare con un linguaggio che il neocapitalismo, in modo strumentale, prende dal pensiero femminista. Ed è proprio questo linguaggio, che vuol essere libero e liberante, che invece le imbriglia, orientandole a richieste di performance e godimento che poco hanno a che fare col desiderio profondo di ciascuna. Le più attente avvertono l’inganno e sentono la necessità di svincolarsi da questa trappola e ricercano, nello scambio con altre, di trovare il proprio piacere.

Ripartiamo, allora, da Carla Lonzi, il cui pensiero è ancora nutrimento per le giovani donne. Ne abbiamo conferma in Libreria con le numerose richieste dei suoi libri. Sentiamo in questa riscoperta e nel bisogno di misurarsi con un pensiero altro il segnale di un malessere diffuso fra le più giovani.

Carla Lonzi nel 1971 con La donna clitoridea e la donna vaginale aprì alle donne la strada per riconoscere il proprio piacere autonomo, distinto da quello maschile; questa autonomia sarà ripresa in seguito da Luce Irigaray nel 1977 con Questo sesso che non è un sesso.

Con la pratica dell’autocoscienza tutte noi abbiamo cominciato a individuare quando il nostro piacere era subordinato alla performatività maschile e a trovare le “parole per dirlo”; con la politica delle relazioni con le altre donne abbiamo cominciato a ricavare energia e forza per immaginare e costruire un diverso rapporto con il reale.

Siamo libere solo se siamo in contatto con il nostro corpo.

L’interrogazione sul piacere è una costante del pensiero femminista, scorre in forme carsiche e in alcuni momenti ha l’urgenza di emergere.

La storica e pensatrice María-Milagros Rivera Garretas nel suo recente libro Il piacere femminile è clitorideo ci fa fare un passo avanti rispetto a Carla Lonzi: tutte nasciamo clitoridee. Indipendentemente dalle scelte sessuali, il piacere per le donne è clitorideo e si irradia nel sentire a tutto il corpo, non rimane circoscritto all’organo sessuale. È dunque un modo di stare nel mondo, di avvicinarsi alle cose e di conoscere. Citando Maria-Milagros, «Non c’è piacere clitorideo se non lo vivi nell’anima carnale, piacere cognitivo, perché noi donne pensiamo e amiamo senza divisioni, senza separazioni». Cogliere questo vuol dire liberarsi dalla «violenza ermeneutica» in cui molte di noi si sono formate. La violenza ermeneutica cerca di cancellare il pensiero dell’esperienza, dà valore solo a ciò che altri hanno già detto: rimanere fedeli a questo pensiero (pensiero del pensiero) distrugge il piacere del conoscere e del creare come donna. Da brave studentesse prima, poi, da buone ripetitrici, avremmo dovuto riproporre nei nostri comportamenti e modi di pensare il pensiero maschile. Per tante questo non è avvenuto: per me nella scuola, per altre nelle loro professioni; sperimentare il piacere di lavorare in relazione con altre donne, mostrare questa relazione, fare ricerca, trovare nello scambio con l’altra o l’altro la possibilità di una trasformazione di sé e del mondo è stato possibile quando abbiamo cominciato a dare voce al nostro sentire, a tenere insieme corpo e pensiero, scoprendo che questo è politica.

Prima di dare la parola a Giorgia Basch della Redazione di Via Dogana Tre e a Stefania Tarantino di Studi femministi, seguendo la lezione di María-Milagros, auspico di trovare insieme l’orgasmo della parola giusta.

Domenica 4 dicembre 2022, ore 10.30-13.00
Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3


Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano

In un tempo di imperativo al godimento indotto dal capitalismo neoliberale, ci sono segnali che le donne non ci stanno o provano un disagio che non le lascia esprimere con libertà e forza.

Per non rinunciare a stare con agio nel mondo, vogliamo reinterrogare il piacere femminile, che non è tutto compreso nell’ordine vigente. Cosa del piacere resta escluso dall’ordine vigente? L’intensità della relazione, del trovarsi con altre a scambiare parole mai usate che ti muovono dentro? L’esistenza di una sessualità femminile autonoma?

Sul piacere il pensiero femminista, inaugurato da Carla Lonzi, ha prodotto significative riflessioni e ha investito l’intero stare al mondo di una donna.

Oggi, mentre la richiesta di prestazione si fa sempre più pressante nella sfera personale e pubblica, vogliamo trovare le parole che ridicono il piacere femminile e ne fanno una bussola che ci orienta nella politica, nel lavoro e in ogni aspetto della vita.


Introducono Marina Santini, Giorgia Basch e Stefania Tarantino


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Si consiglia la mascherina.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.

È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.


Appuntamento: domenica 4 dicembre 2022 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,

Milano, tel. 02 70006265.

Nella bella introduzione all’ultimo incontro di VD3, Stefania Tarantino ha disegnato una mappa dei suoi piaceri che è risultata un invito per ciascuna ad aggiungerne di altri, di propri.

Il racconto di molte è parso concordare implicitamente con una delle riflessioni con le quali Tarantino ci ha accompagnate nel suo itinerario: la constatazione che i suoi piaceri possono darsi ed essere vissuti solo al di fuori della dimensione economica, al di là di ogni finalità di profitto che il potere è riuscito ad insinuare quasi ovunque nelle nostre vite. Laura Colombo si è chiesta allora dove collocare l’attività della Libreria delle donne di Milano. Ha notato che eravamo lì, presenti e felici per l’incontro in corso, alcune collegate in streaming, perché la Libreria riesce ad esistere nel più generale contesto economico. Mi dico che è proprio il piacere di stare tra donne il nesso che sembra mancare. Non c’è altro che possa giustificare un così grande e ininterrotto lavoro gratuito, tutto quello che è stato necessario a far vivere la Libreria per quasi cinquant’anni, se non il piacere di coltivare relazioni con le nostre simili. Che altro, se no? Relazioni che hanno originato pensiero, imprese e pratiche politiche.

Certo anche di fatica si tratta, ma simile a quella evocata nella introduzione di Tarantino, a volte estenuante ma non forzata, per la felicità di raggiungere una vetta e godere dello spazio che si apre alla visione. Per questo più d’una ha pensato al lavoro di Ina Praetorius che proprio all’economia si dedica per rivendicarne il significato delle origini. Lavoro e fatica di donne, certo, che non prescinde però dal loro piacere, che si fonda sulla cura della casa e dell’ambiente cui l’umanità appartiene, delle relazioni che vi intrattiene, in connessione con l’universo tutto. A me sembra, in conclusione, che proprio i piaceri delle donne possano essere posti alla base dell’economia, possano ispirare le relazioni di lavoro, la qualità degli scambi sociali e quel che abbiamo chiamato cambio di civiltà. Il titolo del fortunato Sottosopra, Immagina che il lavoro, è questo che chiede, che i piaceri delle donne, i desideri che li informano, regolino le relazioni di lavoro e le attività economiche. Che la ricchezza, dunque, si crei a partire dai piaceri delle donne e si distribuisca per alimentarli e sostenerli.

Mai come in questi tempi però, con donne che sulla scena pubblica sembrano replicare gli stessi desideri e destini degli uomini – dallo schierarsi per le “guerre giuste” all’ossequio per riti e costumi politici che nulla hanno a che vedere con la storia delle loro simili – è utile ricordare che tutto quanto detto sopra ha un senso solo per quelle che tengono fermo il rispetto per il loro sesso e rifiutano di essere omologate agli uomini per via di parità e uguaglianza, che si riferiscono alla relazione con le altre e al piacere che ne traggono, per elaborare pensiero e azione politica originali. Una replica dell’universo maschile, pur resa più vivace e brillante dal protagonismo delle donne, non è piacere e ricchezza per noi.

Nasci. In un attimo mi sento scivolare la vita dal mio stesso corpo. Un’altra vita, penso: chi sei? Sei l’Altro, nel tuo caso l’Altra. E questo pensiero mi resterà incollato addosso per tutte le prime settimane. Sei l’Altro, non mi fido. Sei veloce, troppo veloce. Vuoi me. Mi chiami, mi richiedi, mi brami. Sei così determinata nel tuo desiderio di me che quasi non riesco a riconoscerti come mia simile. 

Eppure, dopo i tanti tentativi di piegarti alle mie richieste – che a voler vedere bene, non erano nemmeno così mie – dopo aver provato a decidere io per te, a manipolarti come se fossi argilla fresca e morbida tra le mie mani, dopo tutta questa fatica, inizio finalmente ad ammirarti. 

Mi permetto di osservarti con profonda adorazione vedendo in te ciò che di più amo al mondo: la capacità di credere in sé stessi, di gridare al mondo: «IO VOGLIO». Tu, minuscola, desideri e desideri così ardentemente da non accettare un no, da non mollare mai, e io di questo ti ringrazio infinite volte, di non aver mai mollato con me. Urlare, scalciare, piangere fino a non avere più fiato e poi, una volta ottenuto il desiderato: la pace, la quiete, la soddisfazione che arriva dal piacere, la purezza e la libertà. 

C’è stato un momento in cui ho avuto bisogno di sentirmi validare il mio essere madre nel modo in cui mi sentivo di esserlo. Ho iniziato così, anch’io, a chiedere alle donne della mia vita; la loro risposta, «Ma dalle quello che vuole», accompagnata da un sorriso, è stato tutto ciò di cui avevo bisogno. 

Inizio così a essere la madre che sono per natura, ma non solo, inizio così a essere la donna che sono, inizio finalmente a pensare: anch’io posso esaudire i miei desideri, posso chiedere, pretendere, volere. Posso anche godere di ciò che ho voluto tanto, sentirmi in pace, felice, per il mio desiderio realizzato. Mi sento liberata da me, grazie anche a te, piccola bambina testarda, mi sono decisa a non accettare niente di meno, a soddisfare le mie richieste, a esigere il mio piacere. 

IO VOGLIO, voglio un sacco di cose, voglio poesia, voglio guardare il mare, voglio un phon costosissimo, voglio abbracciare te e annusarti la testa, voglio essere me, voglio essere madre.

Il giorno della tua nascita non sono nata anch’io, sei nata tu, ma io mi sono liberata e da quel giorno so, che, se voglio, posso avere tutto.

Questi pensieri hanno cominciato a svilupparsi durante la presentazione del libro di Alessandra Bocchetti L’anno dell’ambiguo materno, il 24 settembre scorso. Sarebbe però inesatto affermare che siano nati lì, perché già esistevano. Non ho mai avuto il desiderio di essere madre, tutto quello che veniva detto sull’esperienza della maternità mi sembrava lontano da me e, di più, percepivo quella distanza come una salvaguardia.

Nel corso di dell’incontro ha però avuto luogo un cambio di prospettiva: non ero esclusa, non lo sono. A un certo momento si è parlato infatti di come alcune donne, dopo aver messo al mondo la creatura, sentano per la prima volta di poter accedere a espedienti come la violenza, per proteggerla o farne il bene. Questa consapevolezza è per loro sgradevole e, immagino io, in parte non si riconoscono, in parte credono di trovarsi nella necessità e di esserne sopraffatte. Se questo non è esattamente ciò che è stato detto, mi è però d’aiuto nel dire ciò che intendo io: temo una trasformazione così imprevedibile di me stessa.

L’analisi di Daniela Santoro all’incontro di Via Dogana Tre del 2 ottobre, peraltro, ha messo bene in evidenza come anche le donne che nella maternità sperimentano una trasformazione positiva di sé o nuove modalità di relazione, possano essere esposte a dispendiosi investimenti di energia o a vere e proprie conseguenze negative: come a non dimenticare mai che il compito assegnato è garantire la riproduzione, non il piacere.

Partendo ora da me, tenendo conto adesso solo di me, non riesco a parlare di maternità come di “aumento” o “diminuzione”, parole che sono state usate durante la discussione che si è svolta il 24 settembre. Riesco a dire solo trasformazione, prima di tutto perché la maternità realizza la possibilità che a ogni donna è data a partire dal proprio sesso e che, quindi, di per sé esiste sempre nel suo corpo, nella sua vita, nel suo desiderio. Il rapporto a due con la creatura viene dopo e di questo non posso dire niente perché, è vero, ne sono esclusa.

Si può trasformarsi al di fuori della maternità, certo, ma quale altra trasformazione è più potente? Quale è più spaventosa? Non ci dovrebbe essere una ragione altrettanto potente per una donna che trova già il proprio piacere altrove, per decidere di accoglierla?È a me stessa, per iniziare, che ho posto questa domanda e mi sono risposta istintivamente che un grande amore sarebbe una buona ragione, dicendolo per la prima volta a voce alta in un confronto con Silvia Baratella, con lo stesso tono con cui avrei detto “un’avventura straordinaria”. Mi è parsa una risposta insufficiente. Quando Silvia mi ha invitata a riflettere su quello che intendevo, sono arrivata solo a ribadire quanto sia importante, vitale, il mio piacere[1]. Credo quindi che sia necessario continuare a parlare di maternità e a inventare nuove pratiche per la maternità come scelta politica; mi sembra però che anche gli uomini alla luce del superamento di narrazioni come quelle dei padri a cui quasi bastava lavorare duramente o, almeno, lavorare, per essere considerati dei “buoni padri”, abbiano adesso qualcosa da dirsi, da dire.

Vorrei tornare su un’altra parola che è stata utilizzata nel corso della discussione del 24 settembre. La parola è “godimento” ed è ciò che sento quando vengo invitata temporaneamente nel rapporto tra alcune amiche e le loro bambine, occupandomi di queste ultime per lasciare alle madri qualche ora per sé. Questo godimento è riconducibile, nel mio caso, non alla condivisione di alcune cose che sono appannaggio esclusivo o privilegiato delle creature piccole e al loro effetto disintossicante, ma al tempo e allo spazio che si crea per le madri: alla libertà femminile possibile, ancora, fuori dall’isolamento, nella relazione; mentre, pur nell’improvvisazione, io mi accorgo di cavarmela piuttosto bene con le piccole, anzi, sono brava. Allora: cosa si può fare perché tutta questa libertà e questo sapere femminile non siano sprecati? Ci deve essere qualcosa di più, se si vuole, che si può fare.  


[1] Dopo giorni, durante la riunione di Via Dogana 3 del 2 ottobre, ho definito un grande amore come: «il realizzarsi delle condizioni essenziali per la cura e l’accudimento senza che il proprio piacere venga meno».

Mi sembra di avere deciso molto presto, intorno ai tredici-quattordici anni, che non avrei mai voluto diventare madre. Da una parte, per quello che riguarda il corpo avevo le stesse sensazioni di Traudel, cioè una difficoltà proprio di accettare il corpo che si ingrossa, l’allattamento e, a un certo punto della gravidanza, di non poter cambiare idea. Dall’altra perché le mie eroine del passato, che più o meno avevano lottato per le donne, non avevano figli quasi tutte.

Poi mi sono messa, nel rapporto coi miei nipoti (quattro maschi), nella posizione della zia, che è ottima perché hai la crema dell’infanzia: li porti al cinema, parli con loro, eccetera e quel rapporto è stato splendido.

Sono invece molto convinta della relazione materna come simbolica. Mi ricordo che nel gruppo giuriste del Palazzo di Giustizia a un certo punto, mi sembra la giudice Laura Curcio, ha detto: «Allora per concludere i nostri discorsi si può dire che le nostre esperienze vanno a finire nella madre come fonte del diritto».  

Luisa Muraro dice sempre che quella definizione l’ha spinta a  scrivere L’ordine simbolico della madre.

Franca Chiaromonte e io abbiamo sottolineato nel numero 8 di Via Dogana cartaceo intitolato Il comunismo di cui non possiamo fare a meno, il fatto che Marx aveva detto che nel comunismo la società avrebbe dato a ciascuno secondo il suo bisogno, tuttavia i comunisti non hanno mai parlato dell’unica relazione esistente dall’inizio dell’umanità, cioè non hanno mai detto che è solo la madre che dà al bambino secondo il suo bisogno.

È impressionante questa cosa perché l’avevano sotto gli occhi tutti i giorni.

Io credo che questa cancellazione sia stata una tra altre delle ragioni della sconfitta del grande movimento marxista e operaio.

Penso sia necessario per ciascuna di noi (madri e non madri) chiedersi se questa relazione ha lasciato una traccia in noi tale da rilanciare in un contesto buio e depressivo una pratica politica capace di trasformare i rapporti di forza in rapporti liberi.

Nel femminismo che mi ha cresciuta, la maternità occupava un posto poco evidente. O meglio: quando veniva implicata, era per disconnettere sessualità da maternità. In effetti, le più vecchie tra noi ricorderanno il “più devianza, meno gravidanza” delle manifestazioni. Certo, l’essere madre poneva interrogativi ma relegati in un angolo a fronte del problema e dell’angoscia di trovare una via d’uscita nel caso, anzi, nei differenti casi in cui io, altre, non volessimo diventare madri.

In quel tempo infatti il “no” doveva pagare lo scotto di condizioni-capestro tra sofferenze, imbarazzi e silenzi intorno al modo in cui si abortiva. Non ne sono sicura ma probabilmente, anche per questo motivo la parola pubblica sulla maternità si trovò risucchiata dai discorsi intorno alle politiche di controllo e alla legge che doveva autorizzare l’aborto.

Nel frattempo, si presentavano sulla scena donne con aspirazioni diverse da quella di mettere al mondo una creatura: il femminismo non voleva più saperne della santificazione della maternità o del modello “una donna che non è madre non è una donna”.

Il lavoro politico si concentrò sull’autonomia femminile a disporre del proprio corpo e scegliere per sé. Tuttavia, simili convinzioni, se appartengono a molte di noi, non hanno mai prodotto l’unanimità.

Se negli Stati Uniti, i militanti antiabortisti iniziano a difendere già nel 1980 (la sentenza Rose vs Wade è del 1973) le loro idee con il porta-a-porta e i gruppi di pressione, adesso, la nomina di un terzo dei 9 giudici della Corte Suprema da parte di Trump ha autorizzato la Corte a realizzare il progetto di soppressione del diritto all’aborto: ogni Stato ha ormai la possibilità di rendere l’interruzione volontaria della gravidanza illegale, a seconda della propria legislazione.

In Europa, le destre conservatrici al governo in Polonia, in Ungheria, ora in Italia, si pongono minacciosamente contro  l’autonomia femminile supponendo di poter imporre nuovamente la maternità come destino biologico. Intanto,   arretrano i ragionamenti sull’irresponsabilità maschile.

La legge 194 fu un compromesso tra culture distanti; con il tempo le sue crepe si sono allargate (dai tanti medici obiettori di coscienza alla difficoltà a reperire la pillola RU-486).

 Distanti le culture e tante, diverse le motivazioni. Non si possono racchiudere in quelle tirate in ballo da Giorgia Meloni che ha parlato di “donne costrette ad abortire, per esempio perché non hanno soldi per crescere quel bambino, o perché si sentono sole”.

Il corpo femminile è un campo di battaglia nel quale confliggono volontà di controllo e domanda di autonomia, un groppo di desideri e paure, di slanci e pentimenti.

In questa altalena, interrompere la relazione appena iniziata significa forse un debole desiderio di maternità (lo racconta in “Ninjababy” la regista norvegese Flikke) che invece per la società, ogni donna dovrebbe coltivare.

Allora, più che iscriversi nell’orizzonte simbolico della libertà femminile, l’aborto mi sembra evocare un’affermazione della soggettività e contemporaneamente un rimedio, via d’uscita, compromesso di colei che non nutre il progetto di generare un’altra vita.

Quando per la prima volta ho sentito Giorgia Meloni proclamare con orgoglio l’elenco delle sue identità (italiana, cristiana…) tra le quali “sono una madre” ho provato un sobbalzo non certo di felicità. Mi risultava infatti impossibile conciliare il suo “sono una madre” con la posizione politica del partito che dirige e, direi, incarna con successo, in merito a troppe questioni: l’immigrazione, il silenzio sullo scempio  ambientale, il rifiuto di riconoscere simbolicamente scelte affettive e sessuali diverse da quelle prescritte dal patriarcato, la finta lotta alla povertà culturale ed economica di fette sempre più ampie del Paese…

Come è possibile proclamarsi “madre” e tollerare i barconi che affondano nel Mediterraneo?

Come è possibile strizzare l’occhio ai ricchi e non combattere realmente contro l’oppressione e lo sfruttamento dei poveri? Come pretendere l’invisibilità o l’insignificanza sociale dei/delle omosessuali e  trans ma contemporaneamente desiderare (credo) che tua figlia sia libera un giorno di amare chi amerà?

Dovrei sentire Giorgia Meloni mia simile perché, tecnicamente, siamo due madri?

Perché trovo repellente questa sua dichiarazione “sono una madre”, dichiarazione che potrei del resto sottoscrivere anch’io?

Anch’io sono una madre, infatti, ma soprattutto sono una figlia della prima generazione di donne che hanno fatto il femminismo, quindi di quelle donne che abbiamo imparato a chiamare “madri simboliche”. Tra i doni che hanno trasmesso a donne come me, c’è anche la libertà o meno di desiderare dei/lle figli/e. Per quanto mi riguarda, da che ho memoria di me, non li ho mai desiderati, per cui ho passato gli anni della mia prima e seconda giovinezza impegnata in sistematiche e forse anche nevrotiche pratiche contraccettive. Nel frattempo, dai miei vent’anni in poi, ho conosciuto molte coetanee che via via diventavano madri, nelle circostanze più disparate, con o senza partner, addirittura in coppia con altre donne. Ho visto la loro gioia, le fatiche, le ansie, gli entusiasmi, l’appagamento, la solitudine. Pur non negando fatica e preoccupazioni, dai loro racconti, talvolta molto diversi tra loro, mi era chiaro che stavano vivendo tutte un’esperienza fondativa e travolgente, dalla quale si esce irrimediabilmente e totalmente trasformate. Ho sempre sentito un profondo rispetto per le loro storie e le loro vite, unito a un senso di estraneità profonda: ascoltavo, sicuramente memorizzavo, ma non capivo e non mi emozionavo veramente.

Con il senno di poi, credo che più che con le creature questo mio rifiuto di far figli avesse a che fare con il mio rapporto con il maschile. Un figlio lo vedevo, nelle mie fantasie (non troppo irreali), come un legame indissolubile con un uomo, che attraverso di me sarebbe “passato” in un figlio del quale non mi sarei mai più potuta liberare e quindi, attraverso il figlio, io sarei stata per sempre vincolata al padre di lui/lei. Non ho mai pensato a una genitorialità esclusiva, non avrei mai potuto o saputo avere un figlio da sola. E comunque non lo desideravo affatto, pur facendo in quegli anni la maestra elementare, e pur vivendo con profondo coinvolgimento e piacere il rapporto con i bambini e le bambine delle mie classi.

Mia figlia è quindi nata quando ho trovato per lei un padre al quale non ho avuto paura di legarmi e che all’epoca amavo moltissimo. Ho provato a restare incinta a trentasette-trentott’anni, ed è andato tutto liscio. Sono sicura che se non fosse stato così non mi sarei certo disperata, avrei accettato la sterilità come un evento del destino, invece malgrado l’età ho avuto una gravidanza splendida, durante la quale sono sempre stata bene, in totale armonia con la mia pancia che cresceva, con la bambina che lanciava segnali di presenza sempre più distinti ed emozionanti.

Nei primi mesi dalla nascita di mia figlia, però, mi sono resa conto di aver sottovalutato il carico che l’accudimento di un neonato, e in generale di un bambino piccolo, richiede ad una donna, soprattutto se questa donna non ha al fianco altre donne e se lavora a tempo pieno. Io dovevo, ma soprattutto volevo, continuare a lavorare. Il padre si è rivelato poco utile, non avevo attorno a me legami femminili con cui condividere fatiche e dubbi. Eppure mi sono presa cura di Laura con sollecitudine ed empatia, anche se ogni gioia era annacquata dallo sfinimento, dalla mancanza di condivisione, dalla noia della routine.

Per tre anni sono uscita di casa solo per andare al lavoro, ho fatto fronte ad ogni necessità, in uno stato larvale, tuttavia vigile e reattivo, eppure, non so come, il rapporto con mia figlia si è comunque fatto solido ed intenso. Ma per tre anni ho goduto poco e male dell’averla messa al mondo. Questo scarto temporale ed esistenziale che si è creato però tra la sua nascita e il pieno godimento della sua esistenza è stato fondamentale per molti aspetti, soprattutto perché mi ha resa consapevole che, almeno per me, essere madre e generare sono due esperienze totalmente diverse. Generare, per me che ero riuscita a farlo pur in età avanzata, appariva come un’esperienza “naturale”, intesa però come banale. Avevo un utero, e aveva funzionato; avevo un uomo, e aveva funzionato pure lui: che merito c’è in questo? Il mio corpo e quello del padre di Laura erano riusciti a lavorare bene insieme, come natura comanda. Dove stava il mio contributo specifico? Cosa mi rendeva diversa dai mammiferi della specie umana?

Per me, quindi, generare non significava essere madre, ci voleva qualcos’altro. Infatti, quando ancora non avevo una figlia, non ho mai sentito di non poter essere in qualche modo madre dei miei alunni ed alunne, o madre delle mie idee, o madre delle mie amiche quando mi prendevo cura di loro. Avevo bisogno di altro, per sentirmi madre di una figlia specifica, e ho passato gli anni successivi alla ricerca di questo “altro”.

Oltre alla relazione quotidiana con mia figlia, altre esperienze mi hanno guidata.

Ad esempio il senso di estraneità che ho sempre sentito nei circoli delle “mamme” del nido, della scuola materna, del parco giochi. Le altre mi sembravano immerse nell’identità della “Madre” (vai a sapere poi se fossero sincere…) e non sembravano avere dubbi sulla perfezione della scelta di generare, sul fatto che “quelle che non hanno figli non possono capire”, che ora iniziava la vita vera. Nessuna diceva, per esempio, a quali istinti omicidi possa portarti l’assenza prolungata di sonno. Ogni tanto la buttavo lì, accolta da un silenzio di gelo. Eppure avevo bisogno di parlarne perché, pur desiderando silenziare mia figlia di notte in ogni modo possibile, poi non lo facevo, anzi, accorrevo ogni volta verso il suo lettino con un’energia amorevole e indomita che riemergeva ogni volta dentro di me, non so come, anche quando avrei giurato che sarei stramazzata al pavimento per la stanchezza e la disperazione.

Un’altra esperienza è stata quella del sentire assolutamente necessaria per me la relazione con le amiche “di prima”, quasi tutte senza figli o con figli ormai adulti, dei quali non avevano quasi più interesse a parlare. Con loro discutevo d’altro, parlavano loro cioè, il che mi ricordava che c’era ancora un mondo là fuori, di cui desideravo notizie anche se mai avrei creduto che un giorno potesse tornare ad essere anche il mio. Quando mi chiedevano di mia figlia tagliavo corto: mi era necessario mantenere il ricordo della mia vita precedente attraverso di loro, inoltre ero convinta che si sarebbero stufate sentendo i soliti scontati racconti “da mamma”. Ogni tanto qualcuna mi consigliava di trovare una baby-sitter e di affidare la bambina a lei, per prendermi un po’ di “spazio” tutto per me. Quando Laura si ammalava, e solo per le ore in cui andavo al lavoro, l’ho poi dovuto fare, ma per il resto, con lei volevo stare io. Non so perché, ma avevo la sensazione che non avrebbe avuto senso aver fatto una figlia e non tenermela vicina, anche se questo comportava delle rinunce. Le donne della generazione di mia madre chiamavano questo tipo di scelta “sacrifici”. Io la sentivo come una scelta gravosa, non come un sacrificio. La figlia era mia e il lavoro di cura toccava a me: essere e diventare madre era una porta stretta che mi ero scelta. Infatti ho cominciato a lasciare Laura ad altri/e quando paradossalmente non ne avrei più avuto il bisogno, quando cioè apprezzavo un po’ di respiro libero per le mie passioni ma non vedevo l’ora di tornare, rigenerata, da lei. Ho potuto lasciarla quando il legame con lei è stato abbastanza solido da pensare che entrambe eravamo ormai fuori dal pericolo di perderci.

Un’altra esperienza è stata la lettura dei romanzi di Elena Ferrante, cui sono molto grata. È riuscita a raccontare in modo non edificante, e tuttavia grandioso, l’esperienza che sentivo di star vivendo: l’esperienza sproporzionata dell’essere madre, il soffocamento dell’esserlo, esperienza in me compresente e senza sintesi dialettica possibile.

Ma Carla Lonzi, invitandoci a sputare su Hegel, ci ha ben avvertite che non è con la dialettica che si risolvono le contraddizioni, anzi, più esse restano aperte più ci possono offrire l’occasione di inventare qualche soluzione nuova.

Ebbene, la mia invenzione esistenziale è stata questa. Il senso e la potenza della mia maternità sono nate da questo scarto che si è creato dall’inizio della nascita di Laura all’inizio dell’amore per lei e per me stessa madre di lei. Credo insomma di essere “diventata madre” lentamente, man mano che la fatica si attenuava, l’attaccamento si approfondiva, il piacere fisico del contatto reciproco produceva non sforzo ma godimento, man mano che ho avuto di nuovo la possibilità e la capacità di simbolizzare quanto mi stava accadendo, che lo ripeto, anche nei momenti più felici a me appariva banale, in qualche modo insufficiente. Ho insomma imparato a ri-concepire me stessa e il mondo con uno sguardo che inglobasse mia figlia e me come un filtro attraverso il quale significare da capo ogni esperienza. Per me il femminismo infatti è stato soprattutto questo: la lezione del “saper approfittare”. Qualsiasi sia la condizione in cui ti trovi, la libertà femminile consiste in questa competenza simbolica del trasformare la necessità (il già dato, il già prescritto) in un’apertura all’invenzione, alla trasformazione, alla trascendenza.

Sarei stata madre, mi sarei sentita veramente madre, nella misura in cui avrei saputo trarre profitto da questa dimensione esistenziale, che ho cercato ma non meritato, per inscrivere nel mondo quello che per me era il senso di tutto questo, il mio senso originale, in fedeltà a me stessa e alle mie madri e al mio desiderio di un certo tipo di futuro, per me, per mia figlia, per il mondo. Senza questo “approfittare” non so, per me non c’è differenza qualitativa tra crescere una figlia, allevare un gatto, scrivere un libro, fare carriera. Qual è la differenza? Se il mio aver generato non cambia radicalmente il mio sguardo sul mondo, cosa lo rende eccezionale, indispensabile, irrepetibile, dal momento che il mio corpo era strutturato dall’inizio per far questo, se solo lo avessi voluto?

Quindi ho spostato anche nella relazione con mia figlia le pratiche politiche apprese dalla politica delle donne. Ho reso cioè la relazione con lei vincolante non solo in senso umano, ma anche simbolico. Ho cercato di vivere, di parlare, di lottare, di amare sentendomi addosso il suo sguardo, e, esattamente come fanno le mamme gatte con i loro gattini, ho mostrato con le azioni quanto sono riuscita ad imparare circa lo stare al mondo con signoria, affinché, osservandomi, Laura potesse imparare a sua volta, per poi poter scegliere chi essere, come essere. Agire in modo libero, fedele a me stessa, felice, efficace, è stato il mio essere madre. Non dare per assolute le misure del mondo, non sprecare tempo nelle recriminazioni, stare sempre e comunque dalla parte dei più deboli, ridere molto, non accettare supinamente, inventarsi soluzioni, schierarsi contro le ingiustizie, dire la verità… Ho sottoposto la mia vita a un vaglio sottile per mostrarle come sia questo lo stile con cui io voglio poter essere sua madre.

La maternità vissuta in questo modo mi ha potenziata, non resa diversa. Per un simile potenziamento non occorre necessariamente generare. Diciamo che a me è accaduto per questa strada, ma ho percorso anche altre strade: l’insegnamento, la relazione politica con altre donne, lo studio della letteratura femminile, il volontariato sociale, l’assunzione di responsabilità rispetto a questioni pubbliche, l’amicizia profonda… Quando penso che nel mio percorso non mi sono sentita simile ad altre madri, mentre ho avuto accanto donne senza figli/e e anche uomini con la stessa radicalità gioiosa, amorevole e intelligente, mi sono convinta che ha ragione Alessandra Bocchetti quando afferma che maternità e materno sono due dimensioni molto diverse.   

Condividevo il materno prima di Laura, perché ho approfittato del simbolico materno per un’esistenza libera, che prevede uno sguardo “altro” rispetto al simbolico patriarcale, sguardo sulle donne e sugli uomini, sul mondo in cui viviamo, sulle scelte che compiamo, sugli animali, sui bambini/e, sulle azioni buone, sul pane quotidiano, sulla giustizia…

L’esperienza del diventare e dell’essere madri è certo materiale prezioso di consapevolezza di sé, di forza e di riflessione, ma non è per me, in nessun modo, un criterio che mi impedisca di sentirmi alleata, amica e compresa da chiunque non abbia potuto o voluto fare questa esperienza.

Per questo il proclama “sono una madre” di Giorgia Meloni non mi fa, nella migliore delle ipotesi, né caldo né freddo. Fuori dal patriarcato, fuori dal già dato, fuori dalle codificazioni e dalla cultura corrente, nel vincolo di relazioni autentiche, qualsiasi esperienza umana può diventare creativa, libera, sovversiva, gioiosa, generosa, fertile. Viceversa, c’è anche un modo per rendere perfino la maternità poco significativa o addirittura insignificante: assumerla come un’identità prescritta che colloca le donne nel loro “giusto” posto, peccato che sia un posto deciso da altri e per altro, che non è certo la nostra felicità.

Ho sempre avuto un rapporto difficile con la gravidanza e la maternità: di fronte a una donna incinta, al pancione crescente, anche di un’amica, sentivo una incomunicabilità, un forte disagio; e di fronte al latte materno che sgorga dal capezzolo sentivo addirittura ribrezzo. Mi sembrava pura corporeità senza parola, e mi veniva come un istinto di fuga.

Effettivamente, quando da giovane vivevo in Germania, sono scappata da una situazione in cui alcune amiche femministe cominciavano a fare figli. Contemporaneamente, il mio atteggiamento trovava legittimazione in una parte anche abbastanza forte del femminismo degli anni ’70: c’era infatti una tendenza a voltare le spalle alle donne che sceglievano la maternità, noi ci sentivamo “più femministe”, più radicali.

A parte questa posizione un po’ ideologica, non mi sono mai trovata davanti al bivio diventare madre, sì o no. Il desiderio di maternità non mi si è mai presentato. Una vita con figli/e, e men che meno con un marito, per me era semplicemente inconcepibile, e avevo anche la fortuna di avere una madre che non me la chiedesse. Neppure sentivo la pressione sociale a fare figli che molte giovani donne oggi denunciano.

Poi ho avuto la fortuna di venire in Italia e di trovare il femminismo della differenza, in un luogo dove si generava libertà femminile, come recita il titolo Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne. Qui ho conosciuto la figura della madre in un senso che ha trovato subito una forte e profonda risonanza in me: colei che è venuta prima di me ed è più grande di me, la madre simbolica. Figura di scambio, figura che valorizzava e autorizzava ciò che avevo desiderato e che avevo già vissuto e praticato ma con incertezza: la preferenza per le mie simili, la ricerca di “antenate” nella storia e nella letteratura. Ho trovato una misura femminile che mi permetteva di poter dire felicemente: “sono una donna”, “scelgo consapevolmente la mia appartenenza al sesso femminile”, sapendo che non è una questione di scelta.

Riferendomi a una società femminile dove la madre è fonte di saperi e di linguaggio (madre simbolica, generare, mettere al mondo, lingua madre…), potevo mettere tra parentesi l’esperienza concreta della maternità che non era materia di scambio, e alla mia iniziale avversione nei confronti di quest’ultima è subentrata l’indifferenza. Per anni ho semplicemente ignorato ciò che le madri, soprattutto le neomamme, dicevano, scrivevano, chiedevano. Ho snobbato per esempio il Müttermanifest, il manifesto delle madri, pubblicato in Germania nel 1987, forse il primo documento che dava voce alle donne che facevano leva sulla potenza e la voglia di procreare per chiedere una trasformazione profonda delle strutture sociali. Mentre vedevo sempre più chiaramente come la nostra storia e cultura, i saperi costituiti si basano sulla forclusione della figura della madre dal simbolico, persisteva, nella mia economia personale, la forclusione delle madri in carne ed ossa. Penso che in parte sia dovuto anche al fatto che il discorso pubblico si focalizzava su asili nido, condivisione dei lavori domestici e educativi con i padri, problemi di conciliazione tra famiglia e lavoro… cosa c’entravo io?

Ho intravisto invece che l’esperienza di essere madre, può essere letta come un vero e proprio gesto di libertà femminile, per certi aspetti sovversivo rispetto all’organizzazione dei commerci sociali e del lavoro, quando il gruppo lavoro della libreria delle donne ha pubblicato, nel 2008, Lavoro e maternità – Il doppio sì. Esperienze e innovazioni. Senza però essermi confrontata in prima persona con le madri che con i loro racconti erano state la materia viva di questa ricerca, ho capito che lo sforzo di risignificare l’esperienza (p.es. l’espressione “il doppio sì” al posto di “problema della conciliazione”) era un guadagno politico per tutte, anche per me. Un superamento della divisione tra madri e non madri.

E ora mi sono trovata, in modo sempre più ravvicinato, a confrontarmi con la tematica gravidanza e maternità: la relazione di scambio con le giovani amiche delle Compromesse, in particolare Daniela Santoro, e la loro urgenza di pensare politicamente la questione che si pone loro per età anagrafica, ha sollecitato in me la voglia di sapere, attraverso le loro parole, qualcosa del presente che potrebbe sfuggirmi. Poi, sempre nella redazione di Via Dogana, l’impatto forte e diretto con Marta Equi, madre di un bambino piccolo e di nuovo incinta, relazione alla quale non potevo e non volevo più sottrarmi. Non sono scappata come avevo fatto tanti anni fa. Ho sentito il suo forte desiderio di mettere in parola quell’esperienza per me così lontana, e finalmente mi sono messa in una posizione di ascolto e di apertura. L’ho seguita nel suo “viaggio inaspettato” che racconta con parole che sento profondamente vere, frutto di un’autentica fatica. Nel suo “lavoro di racconto dell’esperienza” si è fatta accompagnare da Carla Lonzi – che mediazione felice! Questa pensatrice per me “insospettabile” per quanto riguarda il tema della maternità, ha messo me nella giusta predisposizione e ha aiutato Marta a strutturare la propria esperienza. Il disacculturarsi di Lonzi, un passaggio che Marta ha sentito come vero per sé, ha colpito anche me; con le sue parole Marta ha sviluppato e arricchito questa espressione mostrando il potenziale radicale della maternità per la vita di una donna. Ascoltandola, mi è venuta in mente qualche mia collega e madre che aveva una forza, anche una certa spregiudicatezza, e un’efficacia nell’agire che ammiravo.  

Ora vedo quale forza può prodursi anche in colei che genera, mentre finora avevo attribuito la forza femminile esclusivamente all’essere ereditiere del precedente di forza creato da altre che sono venute prima di noi, cioè alla posizione di figlia in una genealogia femminile.

Negli anni ’70 abbiamo fatto un cambiamento radicale: abbiamo separato la sessualità dalla maternità. Di più: abbiamo cominciato a ragionare sulla nostra sessualità liberandola dalla gabbia della sessualità maschile. Ragionare con altre nella pratica di autocoscienza stando radicate nei corpi ci ha spalancato un mondo. Personalmente ricordo quanto sia stato per me importante darmi la possibilità di conoscere la mia sessualità tenendola ben distinta dalla maternità.

La ricerca della mia libertà passava attraverso la possibilità di tenere separati in sicurezza i due aspetti. E infatti diventava sempre più chiaro che il piacere femminile è strutturalmente non procreativo. Dunque ho fatto tutto quello che c’era da fare per vivere la sessualità senza interferenze procreative. Non credo si tratti solo di competenza in anticoncezionali, né tanto meno di programmazione della maternità o maternità consapevole. Gli intrecci sono più profondi. Qualche anno fa, ripensando a quegli anni a partire dal tema della inviolabilità, scrivevo così:

«Camminavo a notte fonda nelle vie di Milano, dopo quelle riunioni di donne, lunghe lunghe, e tornavo a casa piena di pensieri e di emozioni. Radiante. Non ci pensavo quasi mai, ma avevo la sensazione che fossimo padrone delle strade, che niente ci avrebbe colpito. Prendendo la parola con le altre donne, mi stavo riappropriando di uno spazio interno e credo fosse questo che mi/ci faceva sentire inviolabili (ricordo di altre che dicevano la stessa cosa). Solo noi potevamo dare accesso ai nostri corpi, come alle nostre menti e cuori (quanto si parlava di sessualità e di penetrazione!)».

E infatti si parlava molto anche di aborto: un fascicolo speciale di Sottosopra del 1975 dal titolo Sessualità procreazione maternità aborto rende conto dell’intreccio di tutti questi temi e della ricchezza degli scambi e dei pensieri. Così afferma l’introduzione al fascicolo:

«Il movimento delle donne da anni ha una pratica politica che investe la sessualità e quindi anche il problema dell’aborto.

Recentemente nella società è prevalsa l’idea di trovare un compromesso meno ipocrita e meno iniquo su tale problema, salvo restando che tocca e toccherà sempre alle donne assicurare la limitazione delle nascite con i vari sistemi esistenti dei quali l’aborto è quello principale.

Noi donne invece diciamo: (1) che non vogliamo più abortire; (2) che non si può parlare di aborto senza chiamare in causa la sessualità dominante e la struttura sociale.

I testi qui raccolti documentano la presa di posizione, le riflessioni e le proposte di gruppi femministi e di singole donne. In gran parte essi sono ricavati dalla registrazione di un incontro tenutosi a Milano (1-2 febbraio 1975).»

Tutto ciò chiama in causa anche gli uomini. Allora lamentavamo che la responsabilità fosse tutta nostra, mi chiedo quanto oggi sia cambiato. Quanto gli uomini si interroghino sulla propria sessualità, quanto siano ansiosi di responsabilizzarsi sugli aspetti procreativi. Le donne hanno ripensato le radici del venire al mondo e della convivenza umana (questo riguarda il lavoro, nasciamo dipendenti e moriamo dipendenti, tutto il lavoro necessario per vivere eccetera) hanno riformulato la radicalità simbolica della relazione materna: mi chiedo quanto gli uomini vogliano riposizionarsi, dal momento che spargere in giro il seme senza controllo ha attenuato la sua potenza simbolica patriarcale. Se riconosciamo la forza simbolica e non metaforica del corpo della donna, cosa ne è del rapporto sessuale penetrativo, che è poi quello generativo? Come dicevo, negli anni ’70 ne abbiamo parlato tanto e l’abbiamo messo allegramente in discussione. Forse sarebbe il momento di ribadire che con la penetrazione l’uomo non possiede e non conquista. Al contrario, si riconsegna al corpo femminile da cui ha avuto origine, e può farlo perché una donna gli dischiude questa possibilità.

Tornando alla mia esperienza di quegli anni: anche per me è poi arrivato il momento in cui mi sono chiesta se volevo essere madre. Mi sono interrogata, per un po’ ho lasciato fluire desideri e fantasie, ho immaginato… E un’immagine ha fatto chiarezza (definitiva, adesso posso dire) dentro di me: quando mi pensavo madre mi vedevo sempre madre di una bambina. Dunque questo era un maternage politico e personale, continuare nel percorso di generare libertà femminile. Per essere madre biologica avrei dovuto avere un’apertura differente.

C’è poi tutto il capitolo della relazione materna di cura. Oggi, da anziana, posso dire che non mi è sconosciuta: la vecchiaia malata riapre le porte alle cure materne. La cura delle creature piccole è un paradigma fondamentale, perché chi riceve quelle cure è in una posizione di dipendenza totale. Lì non esistono margini di contrattazione, che invece caratterizzano la reciprocità delle relazioni tra adulti. Ho sperimentato che la stessa dipendenza totale può caratterizzare la vecchiaia malata, in particolare nelle malattie neurodegenerative. Passare nelle relazioni dalla reciprocità/contrattazione alla dipendenza è un processo in direzione uguale e contraria a quello che avviene nel far crescere una creatura per avviarla alla responsabilità/reciprocità delle relazioni. Ragionare sulla relazione materna e sul lavoro del care è dunque particolarmente importante oggi perché si invecchia sempre più e perché, come ci ha insegnato la pandemia, le nostre vite sono sempre più esposte nello spazio sociale.

E questo discorso si inserisce nel grande discorso di riconcettualizzare il lavoro, un cambio di civiltà che renda possibile pensare contemporaneamente, per gli uomini e per le donne, «tutto il lavoro necessario per vivere» – come l’abbiamo chiamato nel Gruppo lavoro –, la sfera produttiva e quella riproduttiva, tenendo presente che quest’ultima riguarda in generale tutto il lavoro del care, che si amplia in una popolazione che invecchia (quest’ultimo io lo chiamo “tutto il lavoro necessario per morire”).

Cura e care, relazioni e dipendenze: su tutto questo è interessante rileggere anche i molti scambi e confronti che abbiamo avuto con Ina Praetorius. Rimando qui al capitolo finale del libro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo delGruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano (Moretti&Vitali 2022).

Il nostro gruppo di donne di Bressanone fin dall’inizio, quando nel febbraio del 2005 lo abbiamo fondato chiamandolo da subito “Baubò”, è stato incentrato sull’argomento della maternità. Infatti è nato sulla spinta dell’urgenza di uscire dall’isolamento sociale in cui alcune di noi, divenute recentemente madri, rischiavano di precipitare a causa di questa loro nuova condizione. Un gruppo comunque voluto anche da chi madre lo era già da tempo, oppure non lo era affatto, ma desiderava contribuire a dare maggiore visibilità a quelle che erano le vere esigenze di chi voleva procreare.

La procreazione infatti è una potenzialità femminile con cui comunque tutte noi prima o poi abbiamo da fare i conti, in un modo o nell’altro. Inizialmente ai nostri incontri partecipavano anche Elisabeth P. e Gertraud R., due ostetriche molto impegnate a migliorare le condizioni di assistenza alle donne che vogliono diventare madri durante tutte le fasi che portano alla maternità, dalla gravidanza al parto al puerperio.

Chi di noi era diventata o stava diventando (nuovamente) madre, certamente si trovava in questa condizione per propria scelta, ma sia io che le altre donne del gruppo che avevano scelto di diventare madri, a causa di questa condizione ci vedevamo sottoposte non solo al rischio dell’isolamento sociale, ma – sotto vari aspetti – anche a delle forme di ingerenza sociale tutt’altro che desiderate, che rischiavano di alienarci rispetto al nostro percorso di maternità e quindi rischiavano di alienarci anche rispetto alla figlia o al figlio che stavamo per mettere al mondo. Infatti, queste ingerenze miravano a trasformare il percorso di maternità di una donna in un percorso di assoggettamento a degli standard di “sicurezza” procreativa che più che altro servivano a sottoporre gravidanza, parto e puerperio a un controllo medico il più possibile pervasivo. Invece noi desideravamo vivere il nostro percorso di maternità come un percorso di dispiegamento delle nostre potenzialità materne. Così ognuna di noi, in un modo o nell’altro, ha dovuto scontrarsi con il modo in cui la sanità pubblica concepisce il percorso che una donna fa per diventare madre e lo sottopone a forme forzate di “tutela”. Già questo parla chiaro del mancato riconoscimento delle competenze femminili in fatto di gravidanza, parto e puerperio da parte della sanità pubblica, una sanità degna di una società che si ostina a non dare alcun valore simbolico al fatto che siamo tutte e tutti nati da donna.

Competenze femminili che invece noi sapevamo di possedere, non per ultimo grazie al rapporto privilegiato che ognuna di noi ha saputo instaurare con la propria ostetrica di fiducia, un rapporto che nella politica delle donne avremmo definito di “affidamento”. Una tale relazione con un’ostetrica è irrinunciabile per una donna che desidera diventare madre mettendo in campo tutte le proprie potenzialità affettive, relazionali, di capacità di giudizio come di capacità di cura, cura sia di sé stessa che del percorso da affrontare insieme alla creatura che ha il desiderio di mettere al mondo. Infatti solo da una tale relazione può venirci la misura del nostro desiderio di maternità, ma anche delle nostre paure e ambivalenze, come della nostra debolezza che si trasforma in forza – o viceversa: della nostra forza, non solo fisica, che si trasforma in debolezza. Per dirla con Ildegarda di Bingen: «Dio ha creato l’uomo forte e la donna debole, da questa debolezza è sorta tutta l’umanità».

In Baubò abbiamo presto individuato l’importanza di questo tipo di relazione di affidamento. Ma oggi io direi di più. In questa relazione privilegiata tra due donne vedo infatti lo specchio di una società femminile che si sa costituita da relazioni vincolanti tra donne, relazioni capaci di conflittualità e resilienti a qualsiasi tipo di interferenza esterna, perché capaci di andare oltre il capriccio o la passione momentanea. Nella relazione che si instaura tra donna e ostetrica forse, anche alla luce della discussione nella relazione allargata di Via Dogana 3, possiamo oggi riconoscere la fonte delle mediazioni che servono a una donna per instaurare una relazione proficua con la sua creatura di momento in momento – infatti, tra gravidanza, parto e puerperio i passaggi sono tanti – e che quindi le permettono di diventare madre.

Riconoscere questo significa individuare proprio nella relazione privilegiata tra donna e ostetrica – come in ogni altra relazione vincolante tra donne, madri o no – la fonte della maternità. La società femminile che conosciamo, a questo punto, sapendosi fonte della maternità e quindi base di qualsiasi tipo di società, si fa misura della società nel suo insieme. Misura di una società per la quale il fatto di essere tutte e tutti nati da donna non solo diviene pienamente conoscibile, ma diventa proprio innegabile.


Riferimenti di lettura:
– Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre
– Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico
– Adrienne Rich, Nato di donna
– Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della notte