Pubblichiamo l’estratto audio dell’intervento di Ida Dominijanni durante l’incontro di domenica 12 marzo 2023 “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche“.


Una sfida con la quale, in realtà originariamente nostro malgrado, noi del gruppo Baubó di Bressanone ci siamo ritrovate a dover fare i conti, è stata quella con il passato nazista della provincia dove abitiamo: la provincia di Bolzano, abitata per ben tre quarti da una popolazione di madrelingua tedesca, popolazione che durante la seconda guerra mondiale ha ampiamente aderito al nazismo. Soprattutto dopo l’8 settembre 1943, l’adesione al nazismo non era più solo di tipo ideale, ma anche fattuale, con conseguente organizzazione della popolazione sudtirolese nelle varie strutture naziste, sia militari che civili. Quindi, la responsabilità storica dei sudtirolesi, cioè degli abitanti della provincia di Bolzano di lingua tedesca, è paragonabile a quella dei tedeschi della Germania e dell’Austria. Anche Elisabeth Hofer, Monika Brigo e io, che insieme componiamo il gruppo Baubó, facciamo parte del gruppo etnico tedesco e siamo particolarmente sensibili a questo tipo di responsabilità storica.

Si tratta di una sensibilità che ci rende consapevoli che l’eredità lasciata ai propri discendenti dai tedeschi che hanno aderito al nazismo non è tanto quella di una colpa per i crimini compiuti dalla Germania nazista, giacché la colpa di un crimine ricade inevitabilmente su chi questo crimine lo ha effettivamente compiuto, ma piuttosto quella dell’infamia, giacché chiunque che in un modo o nell’altro ha aderito al nazismo, ha raccolto l’infamia di questi crimini sul proprio capo. E dove non c’è una chiara presa di posizione rispetto a questi crimini, l’infamia ricade anche sulle generazioni seguenti.

Siccome io sono sensibile a questo tipo di infamia, ci tengo, dovunque se ne presenti l’occasione, a esprimere una chiara posizione di condanna nei confronti del nazismo e di tutto ciò che ha comportato per la nostra terra, ma soprattutto una chiara posizione di condanna nei confronti di tutto ciò che il nazismo ha comportato per ognuna delle innumerevoli vittime dei crimini contro l’umanità, come per ognuna delle innumerevoli vittime dei crimini di guerra oppure della repressione politica violenta. Ma nella primavera del 2014 ho cominciato a rendermi conto che riguardo ai crimini nazisti, nei discorsi comunemente accettati dalla gente, circolavano delle relativizzazioni che non potevo non considerare inaccettabili. E soprattutto mi sono resa conto di quanto sia comunque impotente qualsiasi tipo di argomentazione razionale, anche se basata su fatti storici ampiamente documentati, quando si tratta di confutare queste relativizzazioni. Infatti si tratta di relativizzazioni basate su dei discorsi già preconfezionati e ben muniti di difese, che forse proprio perché non sempre sono molto razionali – anzi! – sono impenetrabili a qualsiasi tipo di argomentazione storica, anche se ben spiegata e dimostrata, che non risulti in linea con il discorso dato per scontato.

Quindi ciclicamente, alle riunioni di Baubó, io tornavo a lamentarmi delle esperienze frustranti che facevo a riguardo. Ma discutendo con Monika ed Elisabeth di questi miei insuccessi, delle liti e degli scontri più o meno inutili avuti a riguardo, mi resi conto che non solo anche noi stesse, a Baubó, avevamo bisogno di un confronto più differenziato con tutto ciò che riguardava la storia del fascismo e del nazismo nella nostra terra, ma soprattutto che si trattava di affrontare la questione del passato nazista dei sudtirolesi sotto il punto di vista del simbolico, cioè sotto il punto di vista dei gesti da fare, delle posizioni da prendere, degli atteggiamenti da assumere per dare senso alle nostre parole. Quindi, c’era bisogno di una precisa pratica politica per riuscire a creare un contesto in cui la verità fosse non solo dicibile, ma soprattutto anche riconoscibile come tale per chi vi partecipava. La pratica che abbiamo inventato e affinato con gli anni è quella delle gite della memoria che, dal 2017, compiamo tutti gli anni in primavera (eccetto, per ovvi motivi, nel 2020), alternando, di anno in anno, una visita a Bolzano con una visita a Merano. A Bolzano visitiamo il passaggio della memoria presso l’ex campo di concentramento di Bolzano, facendoci accompagnare dall’ANPI di Bolzano, che su questo argomento è più che preparato e documentato. A Merano invece visitiamo la sinagoga della comunità ebraica di Merano con annesso un piccolo museo sulla shoah. Anche qui, si tratta di una visita guidata che prenotiamo con ampio anticipo. Per organizzare queste gite, mettiamo insieme un gruppetto di 10-15 persone e passiamo insieme tutta la giornata, incluso il pranzo. Di anno in anno, se possibile, torniamo a invitare le stesse persone, perché ci interessa che questa pratica aiuti a instaurare dei rapporti di fiducia e di stima tra chi partecipa alle gite, ma anche tra i partecipanti e noi di Baubó. Infatti, la nostra gita della memoria non è semplicemente un’offerta culturale che può essere accettata oppure no, a seconda dei gusti o degli interessi personali, ma è un invito a prendere chiaramente posizione in favore di chi ha subìto la violenza mortifera dei crimini nazisti. Per questo noi ci spostiamo nei luoghi in cui queste violenze sono accadute e sono state documentate. Si tratta di mettersi in cammino. E si tratta di farlo insieme ad altre e altri, in modo da creare un contesto in cui sia possibile discutere apertamente anche gli aspetti controversi e conflittuali della questione. Siccome un contesto costruito attraverso rapporti vincolanti permette anche di confliggere, le nostre annuali gite della memoria, che noi concepiamo espressamente come una pratica politica, rappresentano anche un’occasione privilegiata per assumersi l’autorità di esprimere dei giudizi e delle chiare prese di posizione. Chi partecipa a queste gite, questi giudizi li potrà condividere o contestare, ma non potrà sottrarsi all’autorità di un luogo e di una pratica votati alla memoria delle vittime.

Si è parlato a lungo di crisi della politica domenica 12 marzo: è un sentimento comune e intergenerazionale, quello di una rinnovata sfiducia verso le silenti istituzioni. Lia Cigarini ha però voluto sottolineare l’esistenza di “politiche altre”, realtà extraparlamentari e vive, operative, militanti.

Avere a che fare con il silenzio delle istituzioni è stato parte integrante della mia formazione politica e culturale, crescendo in quella che è una delle province più povere d’Italia e che ogni anno si piazza in fondo alla classifica della qualità della vita: Crotone. Ho visto la mia città cadere a pezzi, di anno in anno, ho ascoltato più e più volte i racconti dei miei genitori, di chi ha fatto di Crotone la sua casa negli anni ’60, – quando era ricordata come la Stalingrado del Sud, quando le ciminiere ancora fumavano, i treni ruggivano e la città sembrava volersi scrollare di dosso la povertà e il disagio – racconti di una città diversa, di una vita diversa, una vita che proprio le istituzioni corrotte e mafiose negli anni ci hanno portato via. Ora Crotone è un deserto, di treni ne passano poco più di cinque al giorno, insieme alle fabbriche hanno smesso di lavorare le persone: fuggire sembra l’unica soluzione.

Ho desiderato tanto lasciarmi tutto alle spalle, e l’ho fatto: sono andata via, lontana dalla Calabria. Ripensandoci, a malincuore. Per anni ho risposto alla domanda “di dove sei?” sommessamente, quasi con vergogna, sapendo che il mio interlocutore probabilmente non sarebbe mai riuscito a posizionare Crotone sulla mappa.

Adesso, forse, qualcuno Crotone la conoscerà di più, conoscerà Steccato di Cutro, dove da bambina a volte andavo al mare, conoscerà la sabbia bianca, dai toni caldi, e il vento che soffia sempre sul golfo, conoscerà quel mare che mi ha bagnato per anni le caviglie, l’acqua cristallina dello Ionio. Soprattutto qualcuno conoscerà i crotonesi: gente semplice, dal cuore grande; un’appartenenza che per anni ho quasi rifiutato, come una macchia di sugo su una camicia bianca fresca di bucato.

Perché i Crotonesi, davanti al silenzio del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Interno (che ancora probabilmente rientrano tra quelli che non riescono a posizionare Crotone sulla mappa), hanno dimostrato l’esistenza di una politica altra, una politica che parte dalla nostra umanità, che permea ogni compartimento sociale: presidio contro la disumanità, così recita un manifesto; i cittadini di buon mattino fanno visita alla camera ardente, in cui le vittime dei naufragio tra nomi e sigle rendono manifesta questa crisi istituzionale in cui ci troviamo. Al dolore di parenti e amici di chi cercava una vita migliore, si avvicenda il dolore di una città intera, che non riesce a capacitarsi di non aver potuto fare di più. Il recinto in ferro, a tratti arrugginito, del Palamilone si riempie di fiori, di messaggi; le scolaresche si alternano guidate da docenti che sono proprio l’araldo dell’altra politica, di quella che si fa tra i banchi di scuola per far sì che mai si perda l’umanità, che mai tragedie come questa si ripetano.

La morte, il silenzio e la politica, un biglietto con una scrittura incerta vicino un mazzo di fiori: ciao bimbi, mi dispiace.



(Via Dogana 3, 13 aprile 2023)

Il costo della realizzazione del sé è stata la mia grande sfida degli ultimi anni. Il valore la grande scoperta, che non sarebbe stata possibile senza le pratiche femministe acquisite attraverso le relazioni, gli scambi, l’amicizia alla Libreria delle donne e nel mondo.

Le pratiche non si studiano ma, come ci dice l’etimologia stessa della parola, si imparano facendo. Esercizio, conoscenza: le pratiche sono “una modalità di azione – un insieme di modi di fare o reagire per accumulare esperienza” come scrive la compositrice Pauline Oliveros in una sua riflessione a proposito del Quantum Listening.[1] Il senso delle pratiche e la loro ricchezza per me sta in questo: stare nel processo che è già trasformazione. Il rapporto con le altre e gli altri, lo scambio di affetto e di idee, la condivisione di voci e esperienze, il creare forme di vita è già realtà, è già cultura, “è già politica”[2].

Viviamo in una società in cui il senso della ricerca e della produzione artistica e culturale, come anche del fare impresa, sta solo nel risultato, nel merito e nel riconoscimento, sanciti da criteri di classificazione che non possiamo più depennare come propri del mercato, perché quel mercato ora più che mai siamo noi. Noi che nell’economia dell’autosfruttamento poniamo noi stessi assieme al nostro corpo come esito, come prodotto. Quante volte al giorno sentiamo di dover far fruttare la nostra libertà di metterci al centro, di capitalizzare sulle nostre capacità e virtù, in nome di una retribuzione emotiva prima che economica? Ed è davvero quella, la libertà? Da donna mi interrogo spesso su quali siano le mie vere volontà, se le mie scelte non siano orchestrate dai fili sottili del neoliberismo e da un patriarcato latente, e come me lo stanno facendo molte altre, insieme, nel tentativo di scindere libertà controllata e volontà profonda di autodeterminazione. La strada per la consapevolezza è un cammino comune, che può farci trovare delle risposte sono nell’ascolto delle richieste che nascono dalla contraddizione tra la società corrente e i bisogni reali.

I fatti recenti che riguardano il mondo della scuola e l’aggressione degli studenti verso sé stessi, l’impossibilità di continuare a lavorare in ambienti di lavoro che chiedono sempre di più e il conseguente quiet quitting[3], la difficoltà nel mettersi in gioco nelle relazioni sono dimostrazioni evidenti che l’individualismo e la società della prestazione volgono al tramonto, eppure in questo importante passaggio non dobbiamo farci trarre in inganno dalla pigra abitudine di dare la colpa al sistema che più direttamente sembra responsabile di tali situazioni: l’università, il lavoro, il capitale, la monogamia[4]. Il problema si nasconde nei processi, quei processi che dovremmo rivalutare per dargli nuova linfa e nuove radici.

Ribaltare il senso degli spazi e delle relazioni è possibile solo attraverso lo scambio continuo tra individui, l’ascolto delle nuove nascenti necessità, la forza dello stare assieme per creare nuove strutture o agire su quelle che non funzionano più. Dico struttura perché credo sia importante dare forma all’esistenza, l’esistenza comune, fatta di progettualità, di propositi, di intenzioni. Non lasciamoci ingannare dalla tirannia dell’assenza di struttura, del nichilismo anarchico in cui alla fine vincerà il più forte – ogni azione collettiva richiede responsabilità per non cadere nella trappola del potere, quello delle élite informali, spesso maschili e mai garanzia di reale partecipazione. Costituiamo, organizziamo, poniamo le basi. E nel farlo riconosciamo l’autorità l’una dell’altra. Non a caso, l’organizzarsi del movimento delle donne può essere letto come una specifica pratica, che attraverso la creazione di agende e lotte comuni è ora più che mai un esempio brillante di resistenza e al contempo produzione.[5]

La voglia crescente delle giovani e dei giovani di associarsi, di formare collettivi, di fare gruppo mi dà un grande senso di speranza. Non solo per lo sbocciare di interessanti progetti che si nutrono dell’interrelazione e che confermano la mia credenza che solo nella sinergia si crea il nuovo, ma anche per il passaggio dalla critica della società al cambiamento della società, con posizioni e energie che vedono le donne scommettere sulla propria forza e le proprie capacità.

In una riunione di qualche mese fa Lia Cigarini in un attimo di grande fermento ha detto “Quando le parole sono logore bisogna trovarne di nuove”. Spero che questo sia quel momento, e che le nostre parole nuove tengano in considerazione che solo con la messa in gioco radicale di sé stesse si tende verso una politica viva che si fa concreta, e che supera l’inconsistenza del vivere con l’espressione adeguata alle proprie aspettative.


[1] Oliveros, Pauline, Oakland, 1999. In Oliveros, Pauline, Quantum Listening, Ignota Books, UK, 2022. Il Quantum Listening è un apparato teorico sviluppato da Oliveros a partire dalla pratica da lei ideata del Deep Listening, la quale unisce meditazione e esercizi d’ascolto, oltre ad includere pezzi da lei composti a partire dal 1970

[2] Scritti di Rivolta Femminile, È già politica, Milano, 1977

[3] Il fenomeno a cui è stato dato un nome nel 2022 inquadra la tendenza di lavoratori e lavoratrici a fare solo lo stretto necessario nel tentativo di mantenere un equilibrio tra lavoro e vita privata. Si legga in merito Zeric, Bojan, Che cos’è il quiet quitting, Wired 23/09/22: https://www.wired.it/article/quiet-quitting-lavoro/

[4] Al pari degli altri regimi citati, la monogamia sembra incarnare nel dibattito degli ultimi anni un ostacolo alla felicità e una forma di costrizione, mentre il poliamore cerca di farsi istituzione. Credo sia il momento di prendere le distanze dalle etichette e iniziare a ragionare partendo da noi stesse e noi stessi sulle cause profonde del fallimento delle relazioni. Potremmo forse scoprire che al posto di diritti e doveri nella coppia c’è necessità di mettersi in gioco fino in fondo.

[5] A questo proposito si invita a leggere Equi Pierazzini, Marta, A Legacy without a will. Feminist Organizing as a Transformative Practice, Phd Thesis Dissertation, IMT Institute for Advanced Studies, Lucca, 2019; Equi Pierazzini, Marta, Ogni pratica cosciente di vita collettiva. Leggere le pratiche organizzative femministe tra iscrizione e trasmissione. Convegno Cinquant’anni di Rivolta. I movimenti femministi dal lungo ’68 a oggi. Società Italiana delle Storiche in collaborazione con Casa Internazionale delle donne di Roma e Archivia, 13-14 e 19 novembre 2020

Esistono pratiche politiche che hanno contiguità, corrispondenze, assonanze con quelle femministe. Eppure, l’occhio impigrito dei media, per abitudine o per opportunismo, non le guarda, anzi, le esclude dal proprio campo visivo comportandosi come i “retroscenisti” che puntano a scoprire magagne, a prevedere ribaltoni nel modesto perimetro dei partiti in crisi e in questo modo dimenticano tutto ciò che significa politica legata alla vita.

Prendiamo quanto accaduto dopo il naufragio nella notte del 26 febbraio a venti chilometri da Crotone. Il 9 marzo il Consiglio dei ministri va in trasferta e si riunisce nel municipio di Cutro. Strade blindate, schieramento di polizia, qualche orsetto di peluche scagliato contro le auto blu. Intanto i corpi – sono 71, diventeranno 90 dopo un mese – degli afghani, siriani, iraniani, iracheni giacciono in fila nelle bare al Palamilone di Crotone. Il governo riparte senza fermarsi al Palamilone.  

L’11 marzo migliaia in corteo camminano silenziosamente verso il mare di Steccato di Cutro sollevando croci fatte con le assi consumate del caicco Summer Love che si è inabissato a pochi metri dalla riva. Ascoltano il racconto di un superstite afghano; piantano fiori sulla spiaggia.

Il sesso femminile conosce la spinta a partecipare al lutto con un gesto di condivisione, la pietas che diventa ricchezza umana e politica.

Nel bel film “Gli spiriti dell’isola” di Martin Mc Donagh che gira intorno alla nascita dei conflitti, viene portata ad esempio l’amicizia tra due uomini – Colm e Padraic – troncata brutalmente. È Colm a dire a Padraic, sodale di bevute al pub e di chiacchiere sulla cacca del pony: «Non voglio più parlare con te, mi annoio. Devo comporre una musica; voglio essere ricordato quando scomparirò».  L’altro non si dà pace, insiste, tampina. La cosa scivola nell’horror mostrando il mistero terribile della brutalità delle azioni umane; l’impulso vendicativo impossibile da contenere e la spirale della lotta fratricida dalla quale si salva solo la sorella di Padraic. La quale, per difendere il proprio desiderio – leggere libri – sceglie di esiliarsi. «Me ne vado. Siete tutti pazzi». Combatte così la violenza e la guerra, sottraendosi alla sua logica. Stesso gesto di sottrazione degli obiettori di coscienza, di quanti dalla Russia sono emigrati pur di non andare a combattere, delle iraniane che si ribellano a mani nude.

Ha osservato Svetlana Aleksievič: «Vorrei scrivere di chi non spara, di chi non riesce a sparare a un altro essere umano, di qualcuno a cui l’idea stessa della guerra provoca dolore» e noi siamo chiamate a dare voce a chi compie queste scelte.

D’altronde, il coraggio non è solo fisico e non si trova in un solo sesso.

Le ucraine fuggite in Europa, in Italia con bambini, nonne e maschi troppo vecchi per essere obbligati a combattere, in Italia possono essere accostate alle migranti nel tentativo di riconfigurare altrove i propri rapporti sociali.

Però l’Italia accoglie i perseguitati dall’invasione russa e non gli afghani, iracheni o siriani bombardati dai russi e dagli americani. “Aiutiamoli a casa loro” siriani, afghani, iracheni. 

Quanto all’esodo, alla diserzione rimanda a una pratica di resistenza in relazione con il primum vivere della politica femminista: immaginiamo altre pratiche, impariamo a riconoscerle dove già esistono. Di qui l’esigenza di immaginare altre pratiche, di saperle riconoscere giacché la contaminazione dell’ordine simbolico e del reale è un lavoro di cui ci siamo fatte carico noi donne. 

Quando una donna dice la sua verità, illumina un mondo. Questo ho pensato mentre Daniela Santoro raccontava le difficoltà umane ed esistenziali attraversate nel suo tormentato percorso di presa di coscienza politica. Con lei risuonava la voce di tante altre giovani donne che, con accanto l’ombra della depressione, passano gran parte del tempo sui social.

Nelle sue parole mi ha colpito soprattutto l’immagine di «tutte le porte chiuse in faccia» a chi cercava di tenderle la mano. Rendendosi consapevole di questo atteggiamento, ha trovato poi la spinta per decidere di «farsi tirare fuori dal baratro». Questo mi pare oggi il punto spartiacque: ritrovare la fiducia nelle relazioni in carne e ossa. Cosa evidentemente difficile per una generazione nata digitale.

Non è problema solo femminile. In questo momento di grave crisi delle forme della politica maschile il passaggio alla fiducia nelle relazioni in carne e ossa non riguarda solo le giovani donne come Daniela, ma tutti i giovani. Dopo le ultime elezioni regionali, Maurizio Ferrara, in un articolo comparso sul Corriere della sera dal titolo Giovani senza partito, esamina l’alto astensionismo dei giovani sostenendo, sulla base di inchieste approfondite, che non è sinonimo di alienazione. I giovani si interessano alla politica, ma «non considerano il voto come uno strumento efficace per far sentire la propria voce». Preferiscono impegnarsi in movimenti di protesta e il canale privilegiato è internet. Sono netizen, cittadini in rete che non vanno a votare e partecipano online ogni giorno (19/02/2023).

Senza per questo demonizzare i social, mi sembra forte il rischio di chiusura in una bolla virtuale se non si partecipa al mondo anche nella realtà. C’è chi lo ha già capito e lo vuole comunicare alle altre, come le Compromesse quando scrivono: «Raccontandoci sulla nostra pagina Instagram, vogliamo trasmettere alle nostre coetanee e alle ragazze più giovani, la voglia di unirsi, di trovare piacere infrangendo la bolla dell’individualismo, alla ricerca di una libertà che nasce dallo stare insieme, e non perde mai di vista la collettività» (AP n.1/2 2023).

Quello che posso offrire io a supporto di questo passaggio indispensabile sul piano esistenziale e politico è una narrazione che viene dalla mia storia e dice: la vita è fatta di incontri e poco più. Gli incontri sono più spesso casuali che cercati e alcuni determinano svolte esistenziali potenti. Anche la politica è fatta essenzialmente di incontri e di relazioni. Io mi sono sempre regolata dando un’iniziale fiducia, pensando che dall’incontro potesse venire qualcosa di buono. Non sempre accade, ma il più delle volte sì. Per puro caso, al convegno sull’affidamento, negli anni ’80, ero seduta vicino a Giannina Longobardi, come me insegnante, a Verona. Da lì è nata un’amicizia umana e politica che ha prodotto pensiero sulla scuola e il coraggio di agire in grande con il Movimento di autoriforma gentile. Per parte mia, non mi sono mai voluta mettere in analisi, pensando che la politica fosse il modo migliore per affrontare anche i buchi personali: i miei problemi non sono solo miei e condividerli apre a trasformazioni.

Siamo in un tempo di cambiamento e, per fortuna, l’individualismo imposto sembra al tramonto, come mostra una recente ricerca pubblicata sul Domani, nella rubrica Il Cannocchiale – l’economia e la società attraverso i dati. Enzo Risso dice: «Dopo quaranta anni di sbornia liberista, di spinta a disinteressarsi della società, degli altri, e di pensare solo a se stessi, ad arricchirsi senza badare alle conseguenze, la società sembra mutare la direzione del proprio timone». Dal suo osservatorio sui dati si vedono infatti percentuali altissime (tra 70% e 80%) di chi cerca nuove forme di scambio, di “legami caldi”, nuove forme di collaborazione e condivisione (19/03/2023).

Al contempo assistiamo all’estrema crisi delle forme della politica maschile e alla crescita di un bisogno sempre più diffuso di nuove forme di convivenza. Le invenzioni politiche delle donne, il partire da sé e le pratiche di relazione sarebbero le politiche più rispondenti a questo tempo, pure, quasi per paradosso, sono come offuscate.

In Via Dogana Tre abbiamo deciso di lavorare sulle pratiche politiche e sulla loro nominazione proprio per l’esigenza di gettare nuova luce su una concezione della politica fondata sulle pratiche. È infatti da nuove pratiche che possono venire nuove idee e nuove teorie. In questo momento non circola abbastanza, soprattutto tra le persone giovani, l’idea che le pratiche sono la strada maestra per fuoriuscire da un regime simbolico e anche dalle forme politiche maschili. Le teorie infatti, anche le più avanzate sono in qualche modo debitrici del sistema simbolico in cui nascono. Quando ne abbiamo discusso nella redazione ristretta di VD3, una giovane ha detto: «Solo ora con questa discussione ho capito cos’è una pratica».

Ci sono delle ragioni per cui queste invenzioni della politica femminista sono offuscate, per non dire oscurate in questo momento. L’improvvisa comparsa di due donne in ruoli politici apicali, la presidente del consiglio dei ministri e la segretaria del maggior partito dell’opposizione, cattura lo sguardo, anche femminile, verso la scena del potere. È forte il rischio di polarizzazione e tifoseria da schieramento. Inoltre i femminismi che attirano maggiormente le nuove generazioni adottano prevalentemente le forme politiche tradizionali della sinistra come scioperi, manifestazioni, obiettivi, e non veicolano le pratiche originali pensate dal femminismo.

Nella sua relazione iniziale Lia Cigarini ha messo in evidenza un passaggio importante quando ha parlato di «allargamento della politica». È una notizia molto buona se le associazioni dicono di stare facendo “una politica sociale” e non “un lavoro nel sociale”. Fino a poco tempo fa non succedeva. Segna un cambiamento nella concezione della politica. Ricordiamoci – e mi faceva impazzire – che fino a poco tempo fa dicevano della politica delle donne che era “prepolitica” o “impolitica”.

Può venire un grande impulso dall’allargamento di ciò che si intende per politica e noi possiamo contribuire a queste nominazioni, avvistarle là dove si producono nella società, metterle in risalto, farle circolare, far sempre più nominare come politica ciò che è politica. Se cambiano le parole, cambia anche la realtà.

In occasione della giornata internazionale della donna, l’iniziativa del collegio Marianum dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano è stata quella di visitare la Libreria delle donne e avere l’onore di conoscere Luisa Muraro, filosofa e attivista nonché ex collegiale del Marianum. Quest’ultimo motivo ha aumentato in me, una delle organizzatrici insieme ai membri della direzione, il desiderio di incontrarla.


L’iniziativa è stata fortemente voluta da tutta la comunità collegiale soprattutto dopo aver letto alcuni suoi libri, presenti nella libreria del collegio, e fatto ricerca sulla sua storia e sul suo pensiero. Tutte volevano partecipare e alla fine siamo andate in una “delegazione” di quaranta studentesse.

Io all’inizio ho posto alcune domande a Luisa Muraro, principalmente riguardanti la sua concezione di femminismo della differenza e della lotta che le donne devono fare verso la libertà. Ho anche domandato se le donne sono riuscite a rompere il “soffitto di cristallo” di cui tanto si parla.

Durante l’incontro Luisa Muraro ha spiegato a noi collegiali come la parità di genere non debba essere l’obiettivo ultimo, ma solamente il punto di partenza verso la vera realizzazione di sé stesse. La nostra libertà non può essere delimitata da paletti posti dagli uomini, che ci hanno prevaricate per anni, ma ci si deve ergere con forza oltre questi limiti per poi soverchiarli, in una costante ricerca e autodeterminazione del proprio sé, della propria libertà.

Ho capito che parità di genere e uguaglianza sono due concetti molto diversi, il primo presupporrebbe l’adeguarsi a un confine già scelto da qualcuno che non siamo noi e di cui dovremmo passivamente accontentarci, la seconda presuppone invece pari diritti, pari opportunità, non in quanto uomini e donne, ma in quanto esseri umani.

Sul sito di presentazione della Libreria delle donne c’è scritto: «È un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia». Questa frase mi ha colpito molto perché secondo me in poche parole spiega che la nostra libertà, che ci caratterizza e costituisce in quanto donne, non può avere come unità di misura e metro di giudizio i risultati degli uomini, dato che noi siamo diverse ed è giusto sottolinearlo.

Un altro punto saliente di cui si è dibattuto è stato quello delle famose “quote rosa”, le quali molto spesso sviliscono l’importanza e la bravura di una donna perché, agli occhi di molti, sembra che la donna ricopra quell’incarico lì non per le sue capacità ma semplicemente per la “quota rosa”.

Durante l’incontro sono nate riflessioni spontanee da parte di molte studentesse, una di queste è stata: «Molte donne preferiscono declinare il nome della propria professione al maschile invece che al femminile, come mai si prende questa scelta? È giusto parlarne o è qualcosa di superfluo?». Si è quindi aperto un dibattito sull’importanza del linguaggio. Il modo in cui parliamo rispecchia quel che pensiamo e in senso lato anche quel che siamo. In quest’ottica si è dibattuto sulla necessità di chiamare le cose col proprio nome e, soprattutto, il proprio genere; dunque, si è parlato dell’appellativo femminile e maschile circa i nomi di mestiere. È sicuramente più importante focalizzarsi su come una donna svolga il proprio lavoro rispetto a quale appellativo di genere usi per definirne il nome. Però, il volersi sottrarre all’appellativo femminile favorendo quello maschile veicola un messaggio di inferiorità e insicurezza, come se l’appellativo femminile togliesse prestigio alla carica istituzionale e professionale solo perché svolta da donne, le quali piuttosto che chiamarsi col proprio nome (“direttrice d’orchestra”, “ministra”) preferiscono l’appellativo maschile che non ne “snaturi” l’importanza, il potere.

È stato un incontro molto interessante, mi ha dato tanti spunti di riflessione, in particolar modo sul concetto di parità di genere che io fino ad ora avevo sempre ritenuto l’atteso traguardo e mai come l’inizio di qualcosa di più grande. Mi è rimasta tanta voglia di sapere cos’è realmente il femminismo e cosa è riuscito a ottenere in questi anni di lotta, ma soprattutto di cercare di capire cosa io voglio ottenere e come, grazie alla partecipazione della nuova generazione di donne, riuscirci.

Note a margine dell’incontro di VD3 del 12 marzo 2023

di Maria Castiglioni


A proposito delle nostre pratiche Lia Cigarini ha parlato di trovare i “nessi” tra la politica rappresentativa, istituzionale e quella non professionale (la nostra, quella dei movimenti e dell’associazionismo) e anche Francesca Pasini ha ripreso questo tema dell’uscire dal “tra di noi”. Annarosa Buttarelli ha posto la questione delle “tre scelte”: Antigone che combatte il potere tirannico, Ismene, la sorella, che “non fa niente”, la terza quella di “andare via”, dai partiti, dai dibattiti televisivi, luoghi dove nessuna trasformazione è possibile.

Alla figura di Antigone è stata dedicata molta attenzione da parte di alcune filosofe, molto meno a quella di Ismene. Nel suo La tumba de Antígona Zambrano ci restituisce una Antigone che, dialogando in sogno con la sorella, ricorda che lei era quella che sempre «usciva dalle righe, le calpestava, andando e venendo sulla terra proibita». Per Irigaray (nel saggio contenuto in Essere due, da cui ho tratto il mio titolo) Antigone incarna «la singolarità concreta e i suoi legami con una collettività concreta», contrapposta a Creonte che rappresenta «il passaggio dalla singolarità ad un universale astratto» su cui si fonda il suo potere. Antigone, diremmo noi, “parte da sé”, Creonte dalla coscienza disincarnata. Simone Weil nel suo breve saggio Il racconto di Antigone e Elettra, a partire dalle omonime tragedie di Sofocle, mette a fuoco il dialogo tra Antigone e Ismene. La scelta di Antigone è quella radicale, di opposizione a un potere tirannico, a cui si contrappone quella della sorella Ismene che sceglie di obbedire alle leggi, benché si offra, per amore, di seguire la sorella nella sua terribile sorte. Antigone respinge la sua offerta: «Tu hai scelto di vivere, io di morire» le dice, e aggiunge, quasi un viatico «Fatti coraggio, vivi».

È, quello assegnato da Antigone a Ismene, un fare o un “non fare niente”?

È abbastanza scontato attribuire ad Antigone tutta la parte dell’azione e a Ismene quella dell’inazione, ad Antigone quella del coraggio, a Ismene quella della viltà: una lettura polarizzata che non ci porta molto lontano. Mentre la posizione di Ismene, il suo primum vivere, può essere un invito a pensare altre posture, a trovare altri sguardi, altre prospettive quando ci si trovi “davanti al re”.

Su questo tema ci stiamo interrogando anche nel nostro piccolo gruppo di autocoscienza, così come nell’associazione de “Le Giardiniere” di Milano che da anni lotta contro la speculazione immobiliare su una vasta area militare dismessa.

Devo registrare però che su questo specifico scenario, quello del confronto/conflitto diretto con il potere, specie nella sua versione forte, l’elaborazione femminista segna il passo ed esempi di pratiche concrete (fatta eccezione per alcune, preziose, all’interno della realtà delle Città Vicine) sono davvero rare. Perché un conto è chiedere qualcosa, altro è voler togliere. Uno spazio per svolgere attività di vario genere (flashmob, manifestazioni, eventi culturali etc.) è solitamente concesso, il contendere al potere lo stesso spazio, lo stesso oggetto del desiderio, è invece fonte di conflitto. Se su quell’area noi ci vogliamo fare un parco e gli investitori (anche pubblici) una speculazione immobiliare, è evidente che si entra in rotta di collisione.

Quale allora la pratica, le pratiche?

Abbiamo nella nostra storia femminista messo a punto pratiche fondamentali quali l’autocoscienza, l’affidamento, il partire da sé, la pratica di relazioni. Come metterle in gioco quando lo scenario è il confronto diretto col potere con cui è in atto una relazione conflittuale?

È evidente che non possiamo giocare sulla forza: occorrono allora altri movimenti, altre azioni, altre strategie che evitino il braccio di ferro, la polarizzazione (in cui, come Antigone, o anche Alfredo Cospito, si può perdere la vita).

Come Giardiniere abbiamo messo in campo innanzitutto una considerazione: il potere ha dei buchi, non va sopravvalutato, non è un monolite. Quindi va “accerchiato”, vanno aperte relazioni a 360°, senza alcun preconcetto, oltre gli schieramenti tradizionali e le generalizzazioni, senza dare nulla per scontato o già tentato (ciò che qualche tempo prima sembrava blindato, si può sempre aprire), e senza polemiche, trovando sempre, come ammoniva Ildegarda, la «parola netta, affilata come spada». È un lavoro continuo di dilatazione e di esplorazione (di reti, di relazioni, di prospettive), ma è anche un lavoro che implica un “di più di pensiero” quando dall’altra parte c’è una donna.

Situazione sempre più frequente, nelle amministrazioni locali, come in quelle nazionali o europee.

Noi l’abbiamo sperimentato varie volte, e anche adesso, con l’amministrazione comunale dove l’assessore all’Ambiente è una donna.

Come giocare la politica delle relazioni quando prevale nella donna (e deve prevalere, altrimenti non potrebbe essere in quel posto) il senso di appartenenza al sistema di potere? Come può aiutare uno sguardo che, al di là della contrapposizione, possa comprendere punti di vista radicalmente opposti? Come può un potere “ritirarsi” quando il suo mandato è quello di “occupare”, sempre e comunque?

Occorre trovare un “nome” afferma Vita Cosentino, che non cancelli il “nesso”, occorre una “parola pubblica, dice Silvia Motta, che crei un diverso rapporto tra politica istituzionale e politica non professionale. Occorre tutto ciò, aggiungo io, ma occorre anche moltiplicare le nostre pratiche politiche su questi scenari conflittuali che andranno sempre più intensificandosi, sia per l’emergenza sociale che per quella ambientale.

Da italianieuropei.it

“Donne senza uomini”, dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat, vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di Stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, «fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me». Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: «Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno».

Separarsi dalla vita precedente e dalla pretesa maschile di colonizzarla per cominciare con altre donne un’altra vita è il gesto inaugurale della presa di coscienza femminista, quello che Carla Lonzi definiva “la seconda nascita”. Si tratta, più precisamente, di prendere atto che è la società patriarcale a separare donne e uomini secondo ruoli e gerarchie di genere prestabiliti, e di praticare questa separazione in proprio, come separazione simbolica mentale dal desiderio, dallo sguardo e dai criteri maschili, rovesciandola da matrice di oppressione in fonte di libertà.

Shirin Neshat è ai miei occhi l’artista che meglio ha saputo esprimere il senso di questo atto simbolico raffigurando e reinterpretando nelle sue opere la più separatista delle società, quella Repubblica islamica che si è imposta in Iran con la rivoluzione khomeinista e che dal 1979 costringe le donne a una sorta di regime di apartheid giustificato arbitrariamente con la legge coranica. Nelle sue serie fotografiche degli anni Novanta (quando le fu concesso di tornare temporaneamente dagli Stati Uniti, dove vive, nel suo paese) la separazione obbligata fra i due sessi, catturata plasticamente nelle scene di vita quotidiana in cui donne e uomini si muovono senza mai toccarsi lungo percorsi rigidamente distinti, si trasforma nelle donne in consapevolezza di sé. Da gabbia imposta, il velo nero che le avvolge diventa schermatura dallo sguardo maschile e dalla norma sociale. E da oggetto sequestrato, il corpo femminile diventa soggetto di parola (i versi in parsi di Forough Farrokhzad incisi sulle mani e sui piedi), arma nonviolenta di libertà (il fucile impugnato fra gli occhi, come un impegno alla lotta nello sguardo sul presente e sul futuro), corpo politico.

La politicizzazione del corpo femminile, coreografata dalle pratiche performative che abbiamo visto nelle cronache di questi mesi (il taglio dei capelli, i falò accesi per bruciare i veli, i baci e i balli in pubblico, gli assorbenti igienici usati per accecare le telecamere di sorveglianza, le denunce per immagini dei corpi femminili devastati dalle pallottole di gomma della polizia), è l’elemento distintivo più dirompente del movimento di protesta contro il regime che ormai da mesi non cessa di scuotere l’Iran, scatenato dall’arresto e dalla morte di Mahsa Amini, giovane curda rea di avere indossato il velo lasciandone fuoriuscire una ciocca di capelli. Ed è anche l’elemento che colloca la rivolta delle iraniane nella genealogia del femminismo radicale novecentesco, e al contempo ne fa l’avanguardia delle rivolte anti-patriarcali che a tutte le latitudini scuotono oggi il mondo globale. Non si tratta solo di contestare l’uso obbligatorio del velo rivendicando il diritto di disporre liberamente del proprio corpo. Nella nascita della Repubblica islamica l’obbligo del velo, proclamato il 1° febbraio del 1979 e subito contestato in piazza dalle iraniane l’8 marzo successivo, segnava l’istituzione di un nuovo patto socio-sessuale, sostitutivo di quello instaurato da Reza Shah nel 1936 con lo svelamento forzato. Se quest’ultimo era stato segno del tentativo di secolarizzazione, modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran, il velo “rivoluzionario” khomeinista simbolizzava la svolta identitaria islamista, nazionalista e antioccidentale, mettendo la sessualità femminile sotto controllo ma esaltando al tempo stesso il ruolo della donna come madre della nazione, mentre il maschile veniva a sua volta ricostruito su base eroica e sacrificale. Far saltare l’obbligo del velo significa dunque far saltare il patto socio-sessuale su cui si regge l’intera impalcatura antropologico-politica del regime iraniano: restituire al corpo e alla soggettività femminile significati, desideri e poteri sequestrati dall’autorità religiosa e politica e perciò stesso restituire alla società iraniana la libertà di tutti, perché dove non c’è libertà femminile non c’è libertà di nessuno, e dove le vite femminili sono imprigionate le società muoiono. “Donna, vita, libertà” non è uno slogan “di genere”, è uno slogan universale.

Stavolta dunque non è in gioco la partecipazione femminile – che pure in passato è stata consistente e importante – alla rivendicazione dei diritti politici, come nella Rivoluzione verde del 2009 innescata dal sospetto di brogli elettorali nell’elezione di Ahmadinejad, o alla rivendicazione di diritti economici e sociali, come nel ciclo di protesta del 2017-19 innescato dagli effetti dell’inflazione su lavoratori e precari. È in gioco un nocciolo più profondo e strutturale, la soglia fra pubblico e privato e fra personale e politico su cui si collocano il corpo, la sessualità e le relazioni fra i sessi. È sempre su quella soglia che scatta, quando scatta, la potenza sovversiva della libertà femminile, che viene prima dei diritti e non chiede a nessuno il diritto di manifestarsi. Ed è sempre su quella soglia che si decide la tenuta o il cedimento della saldatura fra ordine patriarcale e regime politico, che è precisamente quella che oggi vacilla nella Repubblica islamica.

La radicalità del problema spiega dunque la radicalizzazione di un movimento che punta dritto al cuore del regime, la sua differenza dalle ondate di protesta dei decenni scorsi, la sua attrattiva sulle giovani generazioni maschili, anch’esse evidentemente insofferenti a un modello di virilità che non le rappresenta più. Non basta però a spiegare il dato davvero inedito della persistente e riconosciuta egemonia femminile, rigorosamente priva di leadership personali, su una mobilitazione che si è andata allargando di settimana in settimana ad altre istanze, delle aree urbane e rurali, delle minoranze etniche, del mondo del lavoro e di quello della cultura, della scuola e dell’università. Si è fatto ricorso da più parti giustamente, nell’interpretare questo dato, all’intersezionalità che caratterizza il femminismo transnazionale di ultima generazione, e che consiste nella capacità di intrecciare e coalizzare istanze e soggettività relative al genere, alla razza e al sesso, riuscendo così nel nostro caso a catalizzare il desiderio generale di cambiamento maturato nella complessa e stratificata società iraniana. Ma non è da escludere che sulla posizione egemonica femminile incidano anche altri fattori, come la determinazione a interrompere una volta per tutte la sequenza maschile “speranza, tradimento, terrore” (sono ancora parole tratte dal film di Shirin Neshat) prendendo le redini degli eventi. E ancora, un dato che la stessa Neshat portava alla nostra attenzione in una intervista del 2000, ammonendoci, come è tornata a fare di recente, a non giudicare con i criteri occidentali i rapporti uomo-donna nel suo paese, contestando l’immagine delle iraniane come mere vittime passive dell’oppressione islamica, e valorizzandone invece la combinazione fra autonomia simbolica e rifiuto della competizione diretta con gli uomini: una combinazione per l’appunto egemonica, dalla quale avremmo qualcosa da imparare anche qui.

È impossibile, per chi come me non ha conoscenza diretta di una realtà complessa come quella iraniana, che per tanti versi resta indecifrabile dall’esterno, prevedere gli esiti di quanto sta accadendo in quel paese. In compenso, quanto sta accadendo in quel paese ci dice qualcosa di noi spettatrici occidentali, e qualcos’altro dello stato di salute del patriarcato in tutto il mondo.

Comincio da noi, anzi da me, che giusto poco fa, citando l’invito di Shirin Neshat a non applicare i criteri occidentali ai rapporti fra i sessi nel mondo islamico, mi sono spericolatamente esposta all’accusa di relativismo culturale che è piombata sul femminismo radicale italiano da certa stampa e certa televisione non appena in Iran è scoppiata la rivolta delle donne, insieme con l’accusa congiunta di non solidarizzare abbastanza con loro. Entrambe le imputazioni fanno parte di un teorema fondato sul nulla, che implica l’assimilazione del femminismo a una non meglio identificata sinistra a sua volta accusata di antioccidentalismo, e che si è consolidato da quando nel dibattito pubblico italiano è diventata prassi corrente richiedere tesserini di allineamento allo “scontro di civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo. Dovrei dunque averci fatto l’abitudine; eppure nel caso della rivolta delle donne iraniane l’uso contundente di questo teorema mi ha lasciata particolarmente esterrefatta.

Intanto perché contrasta patentemente con una relazione a distanza che invece con le iraniane, o almeno con ciò che riusciamo a saperne, è stata sempre viva, precisamente perché la loro vicenda tocca nodi cruciali della nostra pratica, a cominciare da quella del separatismo da cui non a caso sono partita nello scrivere queste pagine. Vale ricordare che nel lontano 1979 fu proprio la comunità femminista, all’epoca nel pieno della separazione dalla politica maschile, a dubitare dell’entusiasmo con cui tante iraniane (nonché parecchie italiane, compresa una mia carissima amica) si unirono ai militanti khomeinisti per partecipare a quella che persino parti della sinistra italiana interpretarono illusoriamente come una “rivoluzione contro il Capitale” (così titolò all’epoca una memorabile e controversa pagina del settimanale del PCI “Rinascita”), e che invece proprio sulla questione del rapporto fra i sessi avrebbe presto rivelato la sua curvatura reazionaria.

L’accusa di relativismo culturale prende inoltre per connivenza con il nemico quella che è invece la critica autonoma del femminismo radicale all’universalismo occidentale e alle sue connivenze con il patriarcato. L’annosa disputa sul velo, sulla quale quell’accusa largamente si basa, ne è un esempio emblematico. Essa non divide affatto chi vede nel velo uno strumento di oppressione e chi no, bensì chi ritiene giusto sostituire l’obbligo di velarsi con l’obbligo di non velarsi (come fa ad esempio la legge francese del 2004 sull’uso dei simboli religiosi nello spazio pubblico) e chi invece lo ritiene sbagliato, in primo luogo perché l’obbligo di non velarsi risponde all’ingiunzione occidentale all’esposizione del corpo femminile che non è meno patriarcale dell’ingiunzione islamica al suo nascondimento, in secondo luogo perché antepone arbitrariamente il valore occidentale della laicità al valore – questo sì universale – della libertà delle donne di decidere del proprio corpo, ivi compresa la decisione di rifiutare o di risignificare l’uso del velo.

Al fondo di queste dispute c’è un non detto, che riguarda la possibilità o meno di immaginare forme e percorsi di libertà femminile non ricalcate necessariamente sullo schema occidentale, carico peraltro di promesse mancate, dell’emancipazione e della parità di genere: una “libertà senza emancipazione”, come titolava anni fa la rivista della Libreria delle donne di Milano “Via Dogana”. Il caso dell’Iran suggerisce che è possibile, e non gli rende merito ricondurlo, come ha fatto di default tutta l’informazione italiana mainstream, all’ennesima tappa di una marcia trionfale già scritta e prescritta delle donne iraniane verso la conquista dei diritti occidentali, che peraltro oggi in tutto l’Occidente traballano sotto i colpi di destre reazionarie e misogine.

Si può risalire da qui a un tema più generale, l’ultimo. Tutto il mondo oggi è percorso, a Ovest e a Est, da una profonda crisi del patriarcato, e più precisamente della già menzionata saldatura fra patriarcato e regimi politici, ovvero fra contratto sociale e contratto sessuale. Gli storici del futuro vedranno meglio di noi contemporanei quanto questa crisi abbia a che fare con una crisi della politica da cui tutto il mondo non riesce a tirarsi fuori, come dimostra il continuo, violento e vano ricorso alla guerra da parte dei potenti della Terra. Quello che vediamo noi è un flusso inarrestabile di lotte antipatriarcali, che spuntano come una bolla irriducibile per ogni dove, e con maggiore forza laddove più aspri sono i tentativi di ripristinare la legge del padre con la repressione e la violenza. Ho parlato fin qui del caso iraniano, ma non brilla di meno la lotta delle donne afghane contro la prevedibile reintroduzione della segregazione sessuale nel loro paese da parte dei talebani.

Diversissimi nelle loro rispettive storie, l’Iran e l’Afghanistan hanno però in comune non soltanto la morsa di due regimi fondamentalisti, ma anche l’esperienza, sia pure distante nel tempo, di due tentativi di occidentalizzazione falliti, che non sono riusciti a sradicare le strutture profonde del dominio maschile e che hanno lasciato nella memoria femminile una traccia indelebile di scetticismo nei confronti delle promesse mancate occidentali. Si può perciò continuare a usare strumentalmente le lotte femminili per alimentare la narrativa mainstream sul destino presunto di occidentalizzazione e democratizzazione del mondo che ha accompagnato l’epoca della globalizzazione trionfante, collezionando peraltro un numero ormai più che sufficiente di smentite. Oppure si può, a mio avviso si deve, vedere nelle lotte femminili il germe maturo non di uno scontro ma di un passaggio di civiltà, e di un’apertura creativa del mondo e della politica a nuove figurazioni che oggi riusciamo solo a intravedere.

Fa bene la Libreria delle donne a riprendere la riflessione intorno alle pratiche politiche, perché senza dubbio vanno ripensate alla luce delle trasformazioni in corso. Sono convinta che le pratiche radicali della politica delle donne siano l’unica vera chance sul tappeto del travaglio contemporaneo, in cui la parola “radicale” è diventata quasi una brutta parola da quando è utilizzata per indicare tutt’altro.

Per fortuna, spesso il cinema è un passo avanti: nella sale si può vedere un film, Women Talking di Sarah Polley, già molto amato e commentato dalle donne e da noi femministe. Ma tra i molti meriti, mi ha colpito la nettezza con cui il film ricapitola mirabilmente tre posizioni che le donne possono assumere in un mondo dove si rischia continuamente, anche oggi, la prevaricazione o la violenza maschile: 1) si può rimanere dove si è senza fare nulla; 2) si può rimanere dove si è, lottando fortemente; 3) si può andare via insieme alle altre. Le donne del film parlano, riflettono, discutono, litigano a lungo, fanno confliggere le tre posizioni tra loro, ma alla fine tutte quante scelgono di andare via insieme e di portare con sé via tutti e tutte, figli, figlie, parenti e amiche. Il coraggio e la forza che richiede questa posizione sono raffigurati molto bene in tutta la vicissitudine del racconto. Perché le donne del film scelgono di andare via? Perché hanno verificato che nessun affetto, nessuna cura, nessuna parola, nulla di nulla convincono i vari uomini a farla finita con la violenza, le botte, gli stupri, la pedofilia. Detto in altri termini: quando il contesto di vita e di lavoro si presenta refrattario a ogni ragione femminile, non vale la pena farsi mortificare, sperare in una conversione, perdere preziose energie, spendere inutilmente parole d’amore e di saggezza. Si deve andare via insieme alle altre che vanno via, per custodire vita, speranza, fiducia, immaginazione, parole di verità.

Mi pare un chiaro suggerimento per l’oggi, una pratica che è necessario togliere dalla eventuale polvere della storia del femminismo, se è vero, come diceva Carla Lonzi, che il femminismo è un’eterna istanza delle donne. Certamente la prima posizione, quella delle donne che accettano l’impotenza della ribellione che implode dentro di loro, quando accettano l’omologazione, non è più quella della maggior parte delle donne nel mondo, come è stato dimostrato dalla rivoluzione femminista. La seconda pratica, rimanere nel contesto lottando fortemente, la stanno perseguendo, ad esempio, le iraniane, le afghane, le curde che mettono la loro vita a disposizione della lotta anche estrema. Ma i maschi, in generale, vogliono ancora che sia versato il sangue di chi li ha messi al mondo, o vogliono che le loro istituzioni non siano modificate di un grammo, pena l’espulsione, ancora oggi. Perciò, dopo tutti i tentativi amorosamente cercati, nei secoli e negli ultimi decenni, perché avvenisse un dialogo trasformativo tra donne e uomini, sembra che la sensibilità e la capacità profetica femminile suggeriscano di riprendere la pratica di andare via. Come illustra politicamente il film, non si tratta di andare via da sole, individualmente, si tratta di un esodo da realizzare adeguato ai tempi che corrono, letteralmente corrono. Un andare via insieme alle altre, per lasciare soli gli uomini di cattiva volontà e quelli che provano piacere nel fare svariati tipi di violenza. Un esodo della mente, prima di tutto, se non di mente e corpo, come invece hanno fatto la Sturgeon e le altre auto-dimissionate al culmine della carriera. Un esodo capace di contenere propositi, vita, responsabilità, pratiche politiche, scienza e sapienza inascoltate dai seguaci del dominio. Le pratiche dell’andare via a cui alludo sono anche molto semplici ma, nei contesti politicamente corretti, anche molto coraggiose: per esempio, quella di una ex assessora del Comune di Roma che ha sempre rifiutato di sedere a tavoli dove sarebbe stata l’unica donna; o quella di rifiutarsi di partecipare a dibattiti dove le posizioni vengono azzerate da contrapposizioni inscalfibili, con la scusa del pluralismo dell’opinione; o quella di rifiutarsi di adottare la formula sciagurata del genitore1 e del genitore2, nata per far fuori le madri, ancora una volta.

C’è, ancora una volta nella storia, la necessità di far valere la differenza e l’intelligenza che stanno consentendo alle donne di tutto il mondo di partecipare pienamente a una rivoluzione riuscita e in corso di sviluppo ulteriore, una rivoluzione che ha la potenza di poter convertire le fragili sorti del mondo in cui viviamo.

Sono da più giorni seduta davanti a questo schermo, con la difficoltà di trovare le parole giuste, che un periodo convulso come questo – tra novità lavorative e relazionali – porta con sé, cercando di ritagliarmi un po’ di tempo per sedermi in silenzio e riflettere. Penso spesso all’ultima redazione aperta di Via Dogana del 4 dicembre, sono passati più di tre mesi. Penso come questo tavolo, questo spazio, questi incontri siano in sé l’essenza del piacere femminile. Un piacere che mai nella mia vita avevo incontrato prima di questo fecondo ciclo di incontri del 2022, in questa sorprendente collaborazione tra noi Compromesse e la Redazione di via Dogana. Ogni incontro è stato per me un tassello nella scalata verso la riscoperta dell’esperienza dell’essere donna, sorretta – in questo spigoloso cammino – dalle parole di tutte le donne che mi hanno circondato in questo anno. Annie Marino, proprio il 4 dicembre, parlò del piacere come «toccarsi con la parola» e questo sintagma mi frulla nella testa da giorni, in un momento in cui parole ne trovo molto poche.

Un avviso: quanto state per ascoltare sarà un piccolo momento di auto-analisi pubblica, forse un po’ autoreferenziale e me ne scuso, ma penso che il modo migliore per epigrafare i miei pensieri sia partire tirando le somme dell’anno passato, il 2022. Anzi, inizierei da qualche attimo prima (non vogliatemene): il 2017, più precisamente settembre 2017.

A diciotto anni lascio il nido materno, fuggo, scappo lontana da sicurezze e insicurezze, abbandono l’aria salmastra di una cittadina sull’orlo del declino affacciata sul Mar Ionio. Sulle mie spalle un peso più grande di quanto mai sia riuscita a sopportare; ciononostante si tira avanti, si cercano nuove amicizie, nuove compagnie, è difficile reinventarsi all’improvviso, soprattutto per me: ho sempre fatto fatica a vivere le persone. Passano i mesi, in qualche modo riesco a ritagliarmi i miei spazi tra casa nuova, aule nuove, vita nuova. Spesso sono sola, mi va bene così: accetto e accolgo il silenzio. Gli esami vanno bene, tutti tranne uno. Non ho mai accettato di sbagliare, eppure succede. Capisco di essere umana per la prima volta nella mia vita, annaspo tra la delusione e la tristezza, a testa bassa tiro avanti, in silenzio.

Sto male, sempre peggio, all’università non ci vado manco più. Rispolvero qualche arma del passato da adolescente turbolenta, poi decido di andare in terapia. In terapia però parlo di altro, come ho già detto faccio fatica con le persone: non importa che questa sia pagata per ascoltarmi o meno. Passano gli anni, piano piano le cose migliorano, riprendo in mano gli esami, studio tanto, tantissimo, trovo degli amici sinceri: siamo sempre insieme – lezioni, studio, balotte – compiamo atti di sano vandalismo, Bologna finalmente mi fa sentire a casa. Sono passati quasi tre anni, è gennaio del 2020.

Quello che non ho detto è che accanto a me si muove una figura circospetta e silenziosa, l’onnipresente del terzo millennio: la depressione.

Improvvisamente compio ventun anni. È il 21 febbraio 2020, sono a Sofia, sull’autobus verso la galleria nazionale leggo un messaggio: è arrivato coluichenondeveesserenominato. Al rientro dalla mini-vacanza, il 24 febbraio, do una piccola festa con quegli amici sinceri di cui sopra: sarà l’ultima volta in cui saremo tutti insieme.

La città si svuota, resto sola, di nuovo. Sopporto, con difficoltà, e provo ad andare avanti. Mi vesto delle migliori intenzioni, ma c’è chi ha piani diversi per me. Ritornano i vecchi vizi e le vecchie abitudini, va sempre peggio. Bologna la mal sopporto, i suoi colori caldi e l’umidità del Reno che la attraversa mi raffreddano le ossa, raffreddano ogni cosa intorno a me. Fronteggio nuovamente la mia essenza di essere umano, lo specchio mi urta, non mi ci rifletto più, mi taglio i capelli da sola, formatto il computer. Non esisto più, va bene così. Un’ombra si aggira per casa mia e mette in disordine ogni cosa, svuota le dispense, svuota le bottiglie, imbratta il bagno, taglia il mondo fuori: scoprirò con il senno di poi quell’ombra essere me. Quando l’ombra non c’è, riesco a dare qualche esame: me ne restano due. Chiudo baracca e burattini, è aprile 2021: mi trasferisco a Milano. Resta l’umidità, via le case dai colori caldi: piano piano qualcosa si riaccende, nella metropoli accetto la mia umanità. Ricordo me stessa bambina con mia sorella che mi tiene la mano in piazza Duomo, quanto mi piaceva venirla a trovare. Adesso ci sono io accanto a quella bambina e le stringo forte la mano, mentre un sorriso spezzato mi si dipinge in volto: scusami. Mi rendo conto che in fondo le devo finalmente un po’ di serenità.

Inizio a guardarmi intorno e mi accorgo di tutte le porte che ho chiuso in faccia a chi cercava di tendermi la mano: sono ancora lì ad aspettarmi, decido di farmi tirare fuori dal baratro una volta per tutte.

Vorrei dire che la serenità che adesso mi pervade è solo in qualche modo dipesa da me, ma sarebbe disonesto. Il punto è che ho passato una gran parte della mia vita a isolarmi, nella convinzione di essere circondata da persone. La mia esistenza reale cozzava con l’esistenza virtuale, dove i miei problemi, i miei pensieri non esistevano. Anche per questo forse ho iniziato a sentirmi parte di qualcosa solo quando sono arrivata qui a Milano e mi sono ricongiunta con pezzi di me, con le briciole che Pollicino aveva sparso per ritrovare la strada. Così io ho ritrovato la mia famiglia, le amiche di sempre e le sorelle che in quei mesi precedenti mi avevano aperto il loro cuore virtuale: Le Compromesse, da ennesima mia identità virtuale, erano qualcosa di realmente esistente, in carne e ossa, erano corporee e umane tanto quanto me. Quanto mi ha sollevata questo pensiero. Non solo, quanto mi ha stimolata questo pensiero. Sentire il loro calore accanto al mio, sedute a Parco Sempione, mi ha fatto capire che avevamo in mano qualcosa di speciale, che io ero parte di quella cosa speciale e soprattutto che niente e nessuno – nemmeno le mie tendenze autosabotatrici – avrebbe mai potuto ostacolare i nostri progetti. Finalmente ero parte di qualcosa di importante, ma soprattutto avevo preso coscienza di quanto quella “cosa importante” fosse reale: loro erano lì con me, non solo dietro una webcam come nei mesi precedenti in cui la nebbia perenne obnubilava la mia ragione.

Quello che era nato per gioco, in cui io mi ero trovata un po’ per caso in un momento in cui passavo più tempo ad annullarmi in un sorriso dietro uno schermo colorato che a fronteggiare la grigia realtà che mi rendeva vuota, era reale. Niente più scherzi, niente più silenzi. Come una sferzata di aria compressa, la corporeità del nostro progetto mi ha violentemente colpito in faccia. È stata una doccia fredda realizzare che oltre lo schermo vi erano delle persone, delle donne, con le loro sofferenze tanto quanto me. Tutto ha cambiato colore, l’arcobaleno si è aperto davanti ai miei occhi fino a quel momento daltonici. Ed è subito estate.

E poi, tra le luci fioche dell’inverno, si apre uno sprazzo di primavera. Finiscono gli esami, sparisce quel senso di incompiuto. Entrano nella mia vita altre donne. Alcune sono sedute accanto a me a questo tavolo, altre qui davanti ai miei occhi, altre accanto a me con il pensiero. Quel progetto che era nato per gioco diventa ancora più importante, altre porte si sono aperte, altre mani tese e per la prima volta non ho avuto paura di stringerle. La prima volta che mi sono seduta a questo tavolo era il 6 marzo dello scorso anno: una nuova speranza.

Tra le redazioni ristrette e aperte ho imparato altre donne, reali, corporee come me: la solitudine è una zavorra del passato che ha soppresso la mia voce e i miei pensieri a lungo. E ora sono felice, felice delle mie tristezze e di quei mali che a volte ancora mi stringono lo stomaco, perché mi rendono reale, felice di aver imparato a dare luce alle persone, alle cose che contano, perché se non l’avessi fatto non sarei qui, non sarei ora.

Oggi sono io, e lo sono anche per loro e per tutte voi.Sono io grazie a quelle voci di donne, quegli abbracci di donne, quei respiri di donne e soprattutto parole di donne che si sono avvicendati intorno a me nell’ultimo anno. Voci, abbracci, respiri, parole che mi hanno insegnato la comunione, che mi hanno strappata dalla solitudine, che mi hanno insegnato a essere viva tanto quanto loro erano vive.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche, 12 marzo 2023

La politica è in crisi? No. Io dico che la politica sta cambiando. I partiti nella forma conosciuta non esistono più, tuttavia non si può dire che l’Italia è un paese in cui non si fa più politica.

Vincenzo Vita sul manifesto del 2 marzo 2023 scrive: «Lo scenario desolante che ereditiamo ha devastato le coscienze e ha lasciato soli i movimenti e l’associazionismo pure ricchissimi e diffusi».

Io aggiungo soltanto che questi movimenti sono la politica. Si tratta di moltissime realtà di associazionismo, volontariato e di iniziative di vari gruppi per risolvere singoli problemi.

Non solo, c’è il movimento delle donne, che si è basato sulla non professionalità della politica e dell’organizzazione, che ha una grande presenza di luoghi aperti anche sulla strada come librerie, case delle donne, libere università, centri contro il maltrattamento alle donne ecc.

Per fare un esempio di associazionismo attivo nella politica e nella cultura c’è l’ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana), con 800mila iscritti, che apre le sue sedi alle riunioni degli studenti e di chi ne ha bisogno e non le trova, e da parte sua fa moltissime iniziative culturali e politiche. Luciana Castellina è stata per dieci anni presidente di questa associazione.

Nella trentesima giornata internazionale del volontariato, che si è celebrata il 6 dicembre 2022, il presidente Mattarella ha espresso alle volontarie e ai volontari d’Italia – un popolo di almeno 5 milioni di persone secondo l’ISTAT – «il profondo senso di gratitudine della Repubblica». Infatti è nelle migliaia di associazioni impegnate ovunque in attività necessarie che il volontariato esprime quotidianamente la sua potenza di intervento, per esempio moltissime e moltissimi giovani sono andati a Ischia a spalare dopo la frana del novembre 2022. Infine ci sono i circoli cooperativi, che è la forma giuridica adottata anche dalla Libreria delle donne di Milano.

Di recente l’associazione NEXT – Nuova economia per tutti ha indetto un forum a Roma in cui si è discusso di dare «nuove parole e scelte» di cui la politica nazionale ha un estremo bisogno. Il mondo del terzo settore, puntualizza Valeria Negrini (portavoce del Forum del Terzo Settore), non si occupa solo di sociale, ma di politica, di rigenerazione urbana, di agricoltura sociale ed è, con il mondo artistico e culturale, il più grande patrimonio che questo paese ha. Possiamo quindi parlare di una trasformazione della politica, non di crisi totale, di un allargamento della politica da parte di quelli che la fanno in carne ed ossa.

Anche secondo il sociologo Aldo Bonomi la politica nazionale ha bisogno di nuove parole, che la società civile ha già iniziato a sperimentare e a vivere sul campo (il manifesto, 29/9/2022). Ma, sostiene Bonomi, «questo pullulare di fermenti sociali e politici restano chiusi e autoreferenziali e devono invece fare carovana».

Ebbene, le nuove parole ha cominciato a dirle con forza il movimento delle donne quando ha inaugurato la pratica del partire da sé e della relazione. Sono le relazioni che mancano, nella politica degli uomini basata sul mercato e sui diritti: la povertà politica a sinistra contrasta con la ricchezza dell’esperienza sociale diffusa sul territorio, quindi attraverso questa esposizione del senso politico dell’associazionismo e del volontariato si può dire che è la politica maschile che è in crisi. E di conseguenza è in crisi la democrazia rappresentativa.

A questo punto Giordana Masotto avanza questa obiezione: «Questa crisi della democrazia rappresentativa costituisce un grave problema anche per noi, non possiamo disinteressarcene. Quindi dobbiamo trovare il nesso tra questa politica di cui tu parli e la democrazia rappresentativa»Anche a me interessa questo nesso di cui Giordana parla, non sono infatti d’accordo che la crisi della democrazia rappresentativa sia irreversibile, anche perché la destra pensa di proporre in alternativa il funesto presidenzialismo. La democrazia può essere riacciuffata e cambiata.

D’altra parte già da anni abbiamo distinto tra politica diretta, la nostra e quella dell’associazionismo e del volontariato, e politica indiretta. Al momento è sotto gli occhi di tutti che i partiti sono completamente staccati dalla realtà del paese perché non hanno più un rapporto coi cittadini, vale a dire quel rapporto previsto dalla Costituzione italiana. Quindi, il nesso che Giordana considera necessario si costituisce a partire in primis dalla politica delle donne, dell’associazionismo, del volontariato.

A questo punto per me nasce un problema che poneva già Luisa Muraro in un incontro a Milano il 15/6/1996 intitolato “Politica senza professione”. Capita «con tutte le donne che non capiscono che con il primum femminile e la relazione donna con donna si crea un garbuglio terribile quando si parla; qui non abbiamo questo problema, possiamo andare sul semplice perché qui siamo tutte d’accordo. Noi sappiamo già. Allora avendo una chiarezza pratica questo fa una grande chiarezza nel parlare». Ecco, noi stiamo troppo tra di noi, e ci capiamo senza bisogno di far la storia della pratica politica tutte le volte. Dobbiamo fare allargamenti e incontri con le altre, sennò sei messa in difficoltà, non sai come far capire la tua pratica, perché ti dicono che cos’è la libertà, se non che io posso arrivare a cariche che prima erano riservate agli uomini? A me ha colpito un’intervista pubblicata dal Manifesto a una giovane di NonUnaDiMeno: ho capito che non avrei saputo spiegare la nostra politica a questa ragazza, quindi sono d’accordo con il problema di linguaggio posto da Luisa Muraro.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche, 12 marzo 2023

Ci troviamo in un momento storico in cui la politica dei partiti e delle istituzioni appare in forte crisi. Le ultime elezioni hanno mostrato la percentuale di affluenza alle urne più bassa degli ultimi dieci anni rispetto alle elezioni politiche, europee e regionali. Diventa sempre più ampio il distacco tra i partiti e i cittadini, i primi sembrano muoversi secondo programmi politici che non partono da un vero scambio con le elettrici e gli elettori ma appaiono come imposti dall’alto, senza un dialogo, senza un confronto. 

Mi ha fatto piacere sapere della vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito democratico, mi piacerebbe vedere un cambiamento passare attraverso il lavoro di una giovane donna tenace, di sinistra. Eppure in me l’entusiasmo per la segreteria del Partito democratico è già offuscato. Elly Schlein ha una posizione favorevole alla gestazione per altri e al gender fluid: entrambe le cose, per me, sono fortemente problematiche. Questo mi fa sentire in una situazione di forte contraddizione, da un lato mi sento di sinistra in ogni millimetro del mio corpo, dall’altro questa sinistra non riesco più a sostenerla se non in virtù della scelta del male minore.

Mercoledì scorso, 8 marzo, non ho potuto partecipare alla manifestazione perché lavoravo, altrimenti probabilmente ci sarei andata, come vado a manifestare per il 25 aprile o al Pride. Sono occasioni in cui sperimento un momento di condivisione differente: c’è una sorta di eros che circola tra le persone in strada e diventa un’occasione per ritrovarsi e fare festa. Detto questo non vedo nelle manifestazioni un discorso di rappresentanza né sono per la rivendicazione dei diritti che alcune vedono come l’unica strada. Per me, come già detto da altre in questa Libreria, e mi riferisco in primis a Luisa Muraro, la politica dei diritti sta dentro la barca del potere: la politica dei diritti è dentro il sistema dei rapporti di forza, per cui una conquista a livello del diritto si può perdere, se cambia il governo e non c’è maturazione della società.

In questa situazione, in cui da una parte abbiamo la democrazia rappresentativa in forte crisi e dall’altra abbiamo la politica delle manifestazioni e delle rivendicazioni dei diritti, si ha, come dice Vita Cosentino, la forte contraddizione sociale in cui non si sa più dove mettersi avendo perso il senso che fare politica possa risolvere le cose.

Del resto la situazione attuale non ci aiuta ad essere fiduciosi perché da più punti di vista ci troviamo a vivere un’esistenza che sentiamo essere sempre di più a rischio.

Poco più di un anno fa è iniziata la guerra in Ucraina, la guerra c’è sempre in qualche parte del mondo ma in questa ci sentiamo più coinvolti con la paura di essere colpiti in prima persona vista la vicinanza dei territori. La situazione ad oggi resta problematica e pericolosa e il rischio che possa degenerare crea preoccupazione.

Il lavoro è sempre più un luogo dove è difficile trovare gratificazioni. Il messaggio imperante è che se non sei contento puoi andare altrove perché tanto qualcun altro disposto a fare quello che fai tu è già sulla porta d’ingresso. Nel suo libro intitolato La società della stanchezza, edito da Nottetempo, 2012, Byung-chul Han chiama la società attuale una società della prestazione che genera soggetti depressi e frustrati. A causare questo stato di malattia sarebbe la pressione da prestazione che porta i soggetti a lavorare fino all’autosfruttamento in un sistema in cui lo sfruttato pensa di agire liberamente. In realtà si sente in obbligo di realizzare sempre di più e non arriva mai a uno stato di gratificazione, ritrovandosi in un perenne sentimento di mancanza e di colpa.

Anche Jennifer Guerra nel suo libro intitolato Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, edito da Bompiani, 2021, parlando della società di oggi scrive: «Nonostante il carattere profondamente individualista della nostra società sappiamo che amare sé stessi è più difficile di quanto si pensi. Il disagio che molti di noi provano nei confronti di una società ultraperformativa e ultracompetitiva si trasforma in una forma di impotenza, di disillusione continua, di rassegnazione a non poter combinare nulla di davvero valido».

Questa situazione di disagio ha portato le persone a cercare altri luoghi, virtuali, dove pensano possa essere più facile ritrovare la gratificazione che gli manca, come ad esempio facebook o Instagram. I social permettono una narrazione fatta di apparenza che si sostituisce alla realtà, si creano relazioni illusorie dove un like a un post ci fa credere di avere l’apprezzamento e il sostegno delle altre.

Un’amica più giovane di me mi ha raccontato che all’inizio queste relazioni virtuali la attiravano perché le sembravano più facili. Mi ha raccontato la difficoltà di alcune sue relazioni reali, fatte di giochi alle spalle. Le relazioni in presenza, del resto, richiedono un impegno maggiore, di mettersi in ascolto del sentire e del desiderio altrui e se necessario avere la forza di sostenere scambi che possono essere anche duri quando il pensiero non è coincidente. In una società in cui non si sta bene con sé stessi si è meno disponibili nei confronti degli altri e non si ha voglia di impegnare quello che resta delle proprie energie in faticosi scontri. Ha poi aggiunto che dopo un po’ anche le relazioni virtuali le davano problema, e nel disagio che provava e che l’ha portata a chiudere i suoi profili digitali mi ci sono ritrovata anche io. I social hanno la capacità di assorbire il tempo, magari ci si collega cosi, per dare un’occhiata, e poi si finisce per passarci anche ore intere per accorgersi a un certo punto di non combinare nulla. Spesso si finisce a curiosare nei profili degli altri, si rimane ingannati dai loro racconti che ci fanno cascare nella bugia che le loro vite sono migliori delle nostre, più ricche, più piene, e questo crea tristezza. 

A queste difficoltà, dopo tre anni da quando è iniziata, si aggiungono i segni lasciati dalla pandemia, che con intensità diverse riguardano ancora molte di noi. La pandemia ha lasciato delle ferite che tuttora non si sono completamente rimarginate nel nostro corpo e hanno modificato le nostre abitudini. A volte mi capita di ripensare a quanto successo in quel periodo e faccio fatica, magari mi chiedo: ma fino a quando c’è stato il coprifuoco? Poi dopo qualche momento, decido che non ho voglia di ricordarmi. È stato un periodo molto faticoso per me ma per fortuna, già prima che iniziasse, la mia vita era arricchita da due passioni, la Libreria e lo yoga. Ed è qui che ho trovato il punto di partenza per ricominciare e allontanarmi da alcune abitudini, cattive, prese durante quei mesi. Mi sono affidata a relazioni per me importarti che mi hanno aiutato a stare meglio. Non tutti hanno avuto la fortuna di avere questi spazi da cui ripartire.

Per quanto mi riguarda però, sento ancora una profonda stanchezza legata a quel periodo, un senso di apatia con cui a volte mi ritrovo a dover fare i conti anche oggi. Questo mio sentire so essere condiviso anche da altre amiche e amici, ne parliamo e ci ritroviamo in quella che potremmo definire come una leggera depressione che non vuole passare e che ci toglie energia.

Davanti a tutto questo sentire che ci porta disorientamento, la domanda che possiamo farci potrebbe essere cosi formulata: dove troviamo la forza per continuare a credere nel potere trasformativo della politica? Come rimettere al centro una politica che parta dall’agire dei singoli, che attraverso lo scambio con altre e altri, possono avere un ruolo attivo nella trasformazione del mondo? Quali sono le pratiche su cui puntare per ritornare ad avere fiducia nella politica, vista come uno strumento a cui affidarsi per percorrere una strada che ci possa guidare verso un orizzonte di felicità?

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche, 12 marzo 2023

Domenica 12 marzo 2023, ore 10.30-13.00
Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3


Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano

La politica così com’è stata pensata dagli uomini è in una crisi irreversibile, anche nelle sue forme migliori come la democrazia rappresentativa. L’ultimo impressionante segnale è l’astensionismo alle recenti elezioni regionali. La richiesta di sempre nuovi diritti e di leggi sempre più macchinose non è la risposta.

Noi proponiamo di ricominciare dal senso della politica e dalle pratiche, rilanciando la scommessa sulla potenza trasformativa dell’autorizzarsi ad agire in prima persona con altre e altri. 

Oggi ci sono difficoltà nuove che appannano o spengono le passioni: le condizioni totalizzanti imposte dal mondo del lavoro e dalle pressanti necessità economiche; l’abitudine all’isolamento contratta durante i lockdown e l’abbaglio che la tecnologia basti a superarlo; la fatica di affrontare le relazioni, messe in scena sui social in versioni illusorie.

E però. Il desiderio di dimensione collettiva e di relazione sopravvive. Per coltivarlo, noi crediamo sia irrinunciabile mettere al centro le relazioni e le pratiche, quelle che ci vengono da decenni di femminismo, quelle che a volte già usiamo nella nostra quotidianità e che vanno nominate, e quelle ancora da inventare.


Ne parliamo con Lia Cigarini e Daniela Santoro. Introduce Laura Giordano.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Si consiglia la mascherina.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.

È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.



Appuntamento: domenica 12 marzo 2023 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,

Milano, tel. 02 70006265.

Trovare le parole del piacere femminile è una sfida che attrae e spaventa nello stesso tempo, perché richiede di interrogarsi su ciò che per secoli è stato indicibile e che solo negli ultimi decenni ha cominciato ad affiorare, prima nell’ambito del pensiero femminista e poi nella società nel suo insieme.

Sono parole che devono continuamente essere affermate e mostrate perché i tentativi di omologazione al “piacere unico” si ripresentano sempre e si sono rafforzate grazie al proliferare delle immagini erotiche che invadono la vita quotidiana, soprattutto per le nuove generazioni.

È quindi necessario dire e ridire ciò che il piacere è per una donna, che dialoga con altre donne per trovare quella conoscenza “a partire da sé”, che rischia di essere cancellata dai discorsi che hanno un’apparenza di sapere universale.

Il piacere per me è una dimensione insieme fisica e mentale, l’una è connessa intimamente con l’altra, il corpo e la mente godono insieme, non c’è separazione. Quando una finestra della mente si apre in un pensiero nuovo allora è anche il corpo che freme, prova un senso di godimento e letizia.

E il piacere è per me intimamente legato al sentimento di un abbraccio, di un luogo caldo nel quale essere contenuta, avvolta in un cerchio amoroso che mi permette di essere ciò che sono, in una relazione che accoglie e non stritola.

È il piacere dell’origine, della nascita, è l’abbraccio dell’utero materno che autorizza tutti i piaceri che vengono in seguito. L’abbraccio della madre, dentro e fuori di lei è il piacere primo, che viene prima di tutto, anticipa anche il nutrimento, il pianto, la presenza e la mancanza.

Secondo uno psicanalista inglese, Wilfred Bion, allievo riconoscente di Melanie Klein, l’abbraccio della madre va oltre la dimensione del corpo, la madre avvolge e contiene nel proprio pensiero sognante il pensiero sognante della bambina/bambino, e questo sogno nel sogno permette alla piccola/piccolo di crescere e di stare nel mondo in modo pacificato, perché l’abbraccio della mente della madre (la rêverie) riesce a contenere ogni paura e a trasformarla in pensiero.

È all’abbraccio della Grande Madre che le persone si rivolgono per implorare aiuto nei momenti difficili. L’abbraccio di una madre al suo bambino (e io mi immagino anche alla sua bambina) che mostra una relazione di amore, nutrimento e pace è l’immagine più adorata nelle chiese come mostrano le candele stipate solo ai suoi piedi. Abbraccio che si sviluppa anche verso un mondo adulto come si può vedere in Santa Maria delle Grazie a Milano, dove, sopra l’altare, la Madonna apre il mantello per accogliere dentro il suo abbraccio la donna e l’uomo inginocchiati in preghiera a lei.

E dall’origine della relazione materna l’abbraccio poi si espande e si apre ad ogni altra relazione.

Per me anche il piacere erotico si fonda in un abbraccio/contenimento reciproco. È questo abbraccio del corpo e della mente che trasforma l’atto dell’unione di corpi in qualcosa di più profondo, in una relazione appagante.

E l’abbraccio è anche politica delle donne, che si riconoscono e che creano un contenitore ampio in cui il pensiero cresce in una relazione che accoglie e contiene l’altra. Senza un luogo che tenga insieme corpi, pensieri, esperienze, affetti, anche conflitti, il nuovo non può nascere. Questa per me è stata e continua ad essere l’esperienza del femminismo, un luogo che accoglie e nutre il pensiero e la pratica delle donne in una relazione feconda.

Disagio, irritazione, rabbia. Attraverso questi moti dell’anima si può far strada il piacere femminile che dice di non starci all’imperativo del godimento imposto perché sa che c’è altro. Quando questo sentire è stato messo in parole dalle giovani amiche nella redazione ristretta di Via Dogana, la mia prima reazione è stata l’identificazione.

Era come se rivivessi l’esperienza degli anni ’70 quando abbiamo detto «non ci stiamo!» davanti alle imposizioni della rivoluzione sessuale con le sue richieste di disponibilità permanente, e abbiamo fatto la rivoluzione nella rivoluzione. Subito però mi sono detta che l’identificazione non è una posizione produttiva nello scambio con l’altra o con l’altro e, soprattutto, che le giovani donne del nostro presente si trovano a vivere in uno scenario profondamente cambiato.

La scommessa politica va quindi ripensata. Grazie al femminismo, oggi le donne sono in primo piano con conquiste innegabili. La legge del padre è stata smantellata, ma il crollo di quell’ordine simbolico ci ha catapultato nel caos post-patriarcale e in una situazione molto complessa. Mentre la nostra generazione, nei gruppi di autocoscienza, si trovava davanti a un non detto sulla sessualità femminile, un vuoto di parole che stimolava creatività, voglia di invenzione e scoperta del piacere, oggi, in un mondo dominato dal mercato neoliberista, dalla rete e dai social, ci troviamo davanti a un troppo pieno, una saturazione, un’infinità di definizioni e identità da indossare a propria scelta. Per scoprire poi che nessuno di quei modelli prefabbricati ti sta bene, e c’è di nuovo un forte disagio. Come osserva Ida Dominijanni nel suo saggio illuminante “Pratica dell’inconscio, inconscio della pratica” (in La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, a cura diChiara Zamboni, Moretti & Vitali 2019, pp.13-33) le donne sono state le prime agenti del crollo del patriarcato e allo stesso tempo prede del mercato neoliberale. L’autrice sottolinea che «il presente non può essere letto solo come un effetto della sostituzione della legge paterna con il discorso del capitalista, ma porta anche l’impronta della rivoluzione femminista». È una rivoluzione che ha comportato tanti guadagni ma che apre nuovi conflitti: ci sono parecchi tentativi di riaddomesticare le donne, e «la libertà femminile diventa insieme oggetto di cattura e spina nel fianco del passaggio dall’economia nevrotica dell’uno, del limite e dell’interdetto all’economia perversa del molteplice senza limite e senza legge».

Dominijanni ci invita a reinterrogare la nostra scommessa sulla politica del desiderio e del simbolico a partire da un nuovo disagio femminile che si manifesta in sintomi come l’anoressia e la depressione. Noi in redazione non abbiamo affrontato questi sintomi, ma preso il disagio e la rabbia come indicatori che c’è altro, che esiste un piacere femminile non riconducibile a quello fallico che oggi spesso viene imposto anche alle donne. E in primis c’è stata la consapevolezza che non si tratta di problemi psicologici e privati, ma di una questione squisitamente politica. Lo sapevano le Compromesse che hanno affrontato il discorso attraverso la pratica di scambio di parola nel loro gruppo, lo sapeva Giorgia Basch che ha ripreso le parole di Luce Irigaray, come una matrice alla quale si può tornare sempre, anche in condizioni storiche completamente cambiate. Il riferimento alla stessa matrice fa da sfondo per uno scambio in redazione per me molto arricchente: mi permette di vedere le donne più giovani nella loro soggettività e di conoscere la contemporaneità che condividiamo attraverso il loro punto di vista. Politicizzare il disagio e trovare le parole per il piacere femminile eccedente, rivela di nuovo che le donne hanno una «marcia in più» (Dominijanni) per affrontare la crisi di oggi. Me ne rallegro.

Riprendere a parlare del piacere femminile significa tirare le fila, anche molto sommariamente, di un discorso che è cominciato negli anni ’70 con Carla Lonzi e Luce Irigaray. A mio modo di vedere non si è mai interrotto, ma è proseguito sotterraneo, interessando anche altri ambiti, cito per esempio la ripresa che Luisa Muraro fa di Lacan in Dire Dio in lingua materna, quando parla del «godimento extra» di cui fanno esperienza le donne.

Di recente poi è stato riportato in piena luce da María-Milagros Rivera Garretas con il suo Il piacere femminile è clitorideo. Questo per dire che si è accumulato un sapere al riguardo da rigiocare oggi.

Sia Irigaray che Lonzi e, adesso, Rivera Garretas mettono l’accento sulla particolarità del piacere femminile. Una caratteristica che tutte individuano è l’autonomia, in quanto mostrano come nella donna il piacere sessuale è separato dalla procreazione. Carla Lonzi e María-Milagros Rivera Garretas insistono sulla clitoride, Luce Irigaray parla delle grandi labbra e delle piccole labbra che si toccano in continuazione, quindi non c’è bisogno di una mediazione esterna. Secondo me una giovane donna lo deve sapere, perché così va all’incontro con l’altro o con l’altra in modo più consapevole. Nella nostra redazione sono infatti le più giovani che vogliono riprendere in mano questo discorso.

L’altra caratteristica che mettono in evidenza tutte queste teoriche ─ anche se lo dicono in modi molto differenti che forse bisognerebbe riprendere e riproporre ─ è che è un piacere diffuso, si irradia, non è fissato nell’organo come il piacere maschile. È il piacere maschile, infatti, che è fissato nell’organo sessuale, ha un apice, poi finisce, ed è quella meccanica lì che coincide con l’atto della procreazione.

Proprio il fatto che sia diffuso tiene insieme il piacere sessuale con i «piaceri dell’anima». Quando Wanda Tommasi ci ha raccontato del suo lavoro all’università, non è passata a un altro discorso: il discorso è lo stesso, è una sessualità fatta in modo diverso.

Di quella sessualità che Freud interpretava come «mancanza» ─ mancanza del pene ─ queste teoriche invece ci dicono che è altra, che quel vuoto può aprire alla possibilità di creare un altro modo di stare al mondo. Lo conferma anche Paola Francesconi quando, introducendo il volume collettivo Una per una, richiama da Lacan la donna come «non tutta», non tutta nel rapporto sessuale complementare, non tutta nei codici esistenti.

Questo insieme di riflessioni mi porta a pensare che dare oggi voce e parola al piacere femminile possa essere una leva per sottrarre la propria vita alle logiche del potere e alle richieste di prestazioni individualistiche.

La questione per me centrale è che il piacere così come si va delineando, inteso come apertura indeterminata, così lo definisce Irigaray, è intensamente relazionale. Pur nella sua autonomia, le due cose vanno insieme. La cifra è quella della relazione. Se pensiamo alla nostra Libreria delle donne, che della relazione ha fatto una politica autonoma, vediamo oggi con più chiarezza ─ io non ci avevo pensato prima ─ che è una politica che attiva il piacere femminile e ne fa una risorsa. In effetti quando ho incontrato la politica delle donne ne sono rimasta affascinata. Era quello che inconsapevolmente cercavo: una politica che coincide con la vita stessa.

Oggi sento fortemente la necessità di riparlare dell’essenziale della politica delle donne perché da quando ci sono donne nei posti apicali dei governi e delle istituzioni internazionali, sembra che lo sguardo debba volgersi lì, in una sorta di incantamento, che idee e desideri possano affermarsi solo se trovano una mediazione istituzionale, sembra che tutto debba essere agito e visto nella prospettiva del potere.

Così si rischia di perdere il piacere di fare politica per se stessa, di essere una donna nella polis, con le proprie idee e i propri progetti, di trasformarsi e trasformare, di portare avanti un agire politico in cui la soddisfazione è nell’agire stesso e non dipende da avere riconoscimenti o ottenere denaro e posti di potere.

Ora che per età anagrafica la sessualità attiva si è assopita, non per questo rinuncio a quelle forme di piacere che posso rigiocarmi per quella che sono, invalidità compresa. Per esempio per me fare Via Dogana, che significa stare in relazione vitale con le altre, leggere e pensare, confrontarmi, fidarmi di loro per azzardare temi rischiosi come questo del piacere femminile… è molto appagante.

Domenica 4 dicembre la Libreria delle Donne di Milano ha lanciato un dibattito, tra le convenute in sede e le tante collegate on-line, sul “trovare le parole del piacere femminile”. Il tema ha suscitato molto interesse, poiché davvero alta è stata la partecipazione alla discussione e anch’io ho sussultato proprio per il piacere di non perdere l’occasione di questo stimolante confronto.

Avevo dentro la notizia, riportata da quasi tutti i giornali generalisti, sullo studio del Censis che fotografava un’Italia malinconica e semmai prossima alla depressione.

Sentimenti presentati in una chiave di diffuso impoverimento umano, benché la psicanalisi annoveri la malinconia e la depressione come il preludio di una “rinascita”, se assunte e attraversate senza rimozione.

In Libreria, tra i contributi iniziali, molto vivi e aderenti alle differenti soggettività anche generazionali, mi avevano toccata le immagini con le quali aveva esordito la filosofa napoletana Stefania Tarantino. Si trattava di arazzi che rappresentavano i cinque sensi e uno rappresentava armonicamente l’insieme “dell’umano sentire”, arazzi custoditi nel Museo Nazionale del Medio Evo di Cluny a Parigi. Un incanto! Poi Tarantino aveva offerto altre immagini con le parole dell’esperienza: il suo muoversi nella natura, tra odori, brulichii, quindi del suo piacere a prendersi cura dell’appezzamento di terra dove coltiva anche le olive, partecipando con energia alle necessarie funzioni contadine.

Un racconto, il suo, che risuonava in me come una preghiera, procurandomi l’effetto di un balsamo.

In chiusura, viene detto da Tarantino che il piacere è tale per il fatto che si situa al di fuori dell’economico, ovvero nella sfera del gratuito.

Sostengo l’importanza “politico-educativa” del suo discorso a nutrire un pensiero alto per così andare oltre l’economico che imperversa e che spesso sfianca. Nello stesso tempo, ho potuto reinterrogare la mia scelta di vita, orientata a rendere praticabile un’economia non solo schiacciante e abbruttente, ma semmai fonte di ben-essere, oltre ogni economicismo, fino al piacere e all’amore a concretizzare attività, opere, servizi e lavoro che, senza eludere fatiche e preoccupazioni, si materializzano in soddisfazioni, in valore spesso collettivo, includendo il transito del denaro necessario.

Detto ciò, è come se coabitassero positivamente in me la bellezza dell’arte, che mi ha insegnato ad apprezzare Anna Di Salvo negli incontri di Città Vicine, e l’operare nel mercato senza per questo appiattirsi sul mercato.

E mentre scrivo queste note, mi si affastella la mente di situazioni in cui vedo volti femminili felici fare ciò che semplicemente sentono di essere chiamati a fare, ma non a testa bassa. Vedo Dora, cittadina bulgara, prendersi cura con vera passione di mia cugina Carla “semidemente”, tanto che il medico curante, quando la sapeva in ferie, diceva che doveva tornare al più presto per farla guarire dagli altri acciacchi, dove lui, con i suoi strumenti, non stava arrivando.

Vedo gli occhi, spesso commossi, di Paola che, rinunciando al lavoro tradizionale di architetta, con la sua associazione Quarta Luna, affidata alla Mag, si è intestardita a recuperare una villa abbandonata di proprietà comunale e, dedicandovicisi anima e corpo, tra contestuali raccolte fondi e interventi mirati al tetto, tra feste di comunità e pulizie del parco da detriti vari – sempre con guanti e stivali – ha disseminato piacere tra grandi e piccini, pronti a far rivivere nella villa le fiabe di sempre. E ora arriva anche il PNRR a completare l’opera.

L’economia del desiderio ha aperto la strada all’economia pubblica che pure vogliamo.

Così siamo tutte contente nel vedere l’evolversi di una complessa “trama”, sperata ma non scontata, senza cancellare i tanti paletti frapposti dalle burocrazie municipali.

Da ultimo, ricordo qui, lo splendido sorriso di Giovanna della cooperativa CLM che ha lavorato oltre quarant’anni tra lamiere per termosifoni e simili. Ogni venerdì organizzava la cena dei soci e delle socie della cooperativa nella taverna di casa, per ricaricarsi insieme attraverso discussioni e risate interminabili. Diceva: «la nostra è una cooperativa vera, nel marasma delle cooperative finte», perché «se volemo ben»… «fasemo tante ore, prendemo un buon stipendio, come è scritto mensilmente nel tabelon; tutto in regola, e dasemo lavoro ai giovani».

A conclusione sento che non solo non c’è inimicizia tra bellezza ed economia, ma che semmai può esserci un continuum, sempre che l’economia – in pratica – resti fedele al suo radicale significato etimologico: la cura della Casa Comune.

La bellezza, le arti ed il piacere generato possono accompagnare tale fedeltà.

Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, con alcune giovani donne incontrate ad un convegno nazionale intitolato “Da desiderio a desiderio” (Impruneta, 1987), ci siamo chieste quanto il nostro piacere fosse veramente autonomo dal simbolismo vigente, come l’intensità delle relazioni che vivevamo nell’intimità con altre donne potesse diventare forza politica spendibile nella vita di tutti i giorni.

Da lì è nato un percorso di ricerca e trasformazione in cui, scambiandoci parole che nascevano dall’esperienza diretta di ognuna, abbiamo interrogato una forma della sessualità femminile storicamente esclusa dall’ordine simbolico dominante e cercato di mettere in parole il piacere e il sapere dei nostri rapporti. Il percorso si concluse nel 1997 con un librino intitolato Il desiderio senza nome pubblicato in trecento copie e scritto per salvare il senso di una storia comune fondata sul piacere della carezza, gesto elementare che restituisce la garanzia primaria di esistere. La carezza, infatti, mostra di che stoffa è il piacere femminile, ne svela l’origine materna, ricollegando ogni donna all’amore della madre, nel momento in cui lei, toccata dall’interno per la prima volta, percepisce la sua creatura e si mette in cammino.

Nella carezza la mente scivola su qualcosa di vivo, tocca la verità di un godimento sottile, conduce il pensiero fuori dal monologo di universi paralleli e si fa dialogo. Anche i baci sono carezze. Ognuna entra lentamente nell’accarezzare, vincendo la tentazione di sparire, mentre il suo corpo acquista peso, consistenza. Opera di alchimia, le carezze sono testimoni di una trasformazione: il corpo si scioglie goccia a goccia, gli elementi si separano, poi si riuniscono; le mani raccolgono nel loro andirivieni colori, suoni, segni, immagini delle forze nascoste che ci avvolgono e ci costituiscono nel profondo. Attraverso un lavorio continuo di lettura, la carezza fa scorrere ininterrottamente acqua dalle dita, riordina la nostra vita, lettera per lettera, combina tra loro le sillabe di una lingua sconosciuta.

Ci sono due “regole” da rispettare nella pratica della carezza: non difendersi dal piacere e non avere fretta, nessuna ansia produttiva né paura di protendersi nel vuoto. Le carezze obbediscono alla promessa di non diventare gesto automatico, teso al possesso, pena la perdita del piacere insieme alla perdita di senso e di intelligenza.

L’effetto della carezza è quello dell’onda infranta dall’onda, della pioggerellina che tintinna sulle foglie, dei granelli di sabbia e di sale lasciati scivolare sulla pelle. Un pulviscolo dorato si forma intorno ai nostri corpi, restituendoli alla rotazione dell’universo che fin dall’inizio è in stretto rapporto con la rotazione dei sensi che procedono senza stacchi bruschi l’uno dall’altro, in un gioco di rimandi.

Per conoscere la capacità trasformativa delle carezze bisogna averne sperimentato in cerchi concentrici lo splendore, aver reso le mani obbedienti a un principio di natura vegetale. Ci vuole, infatti, la forza, la tenacia e la delicatezza di una pianta che si rivolge al sole per guarire dall’estraneità, dalla disabitudine al piacere, dalla mancanza di un ritmo.

Le carezze conoscono l’arte antichissima del ricamo: sulla stoffa di cui è fatto il piacere femminile, con precisione amorevole, innumerevoli fili si intrecciano e si disfano in un disegno sempre nuovo.

Passo dopo passo, le carezze ci conducono verso la perdita momentanea dei nostri contorni: esperienza di esaltazione, di uscita da sé. A volte possono dare tormento, allora c’è bisogno di riposarsi per tornare a desiderarne ancora e ancora, sempre di più.

Stupore rinnovato delle carezze, canto a più voci che ci porta a una tradizione ininterrotta di tattilità femminile. Mani a coppa non a forma di taglio. Non percussione, ma sfregamento, sfioramento, fruscio, scivolamento, lenta discesa fino a incontrare le onde sonore dei pensieri che si confondono con quelle olfattive e visive. Nella carezza la comunicazione avviene per echi, assonanze, analogie.

La carezza obbedisce al principio di individuazione per cui non c’è la donna, una donna, le donne, ma questa donna, lei, proprio lei e non un’altra. Il principio di espansione rende la carezza trasmissibile nel tempo e nello spazio. Sui volti e nelle parole di alcune donne ne riconosciamo i segni. Questa è la visibilità elementare, la prima forma di somiglianza segreta tra donne, resa possibile dalle carezze: sensualità di sguardi, cura nei gesti come fossero rituali di una cerimonia antichissima che si rinnova; dita che non si inarcano per evitare il contatto, ma si raccolgono in piccole culle di silenzio, fluidità e sensualità nei movimenti, forza di affermazione nella voce.

La carezza fa da ponte, costituisce nel difficile equilibrio tra finito e infinito un piano d’appoggio su cui innalzare il mondo secondo l’amore femminile per tutto ciò che vive, luccica, respira, canta, lotta, si trasforma, disegna spazi imprevisti di relazione.

Per fare politica occorre avere un corpo che ha acquistato spessore, intelligenza del reale, passando per un piacere che, nonostante la storia del potere patriarcale, ha attraversato i secoli ed è giunto intatto fino a noi. Grazie alla consapevolezza di questo antichissimo piacere, in tante abbiamo provato la passione della differenza, inventato pratiche politiche e ci siamo misurate con la sfida enorme di cambiare il mondo.

All’università di Verona ho lavorato per più di trent’anni, non mirando né alla carriera a tutti i costi – infatti di carriera ne ho fatta ben poca, il minimo sindacale, diciamo – né tantomeno a posti di potere: questi ultimi proprio non li avrei voluti, li ho sempre evitati come la peste. D’altro canto, nessuno me ne ha mai proposti. Meno male: si capiva che non puntavo a quello.

Ciò che contava per me, ciò che mi dava piacere era l’accendersi di una luce nello sguardo di una/o studente, di un’ascoltatrice di una mia conferenza o di una lettrice di un mio libro: quella luce era indizio di sintonia, di comprensione, di complicità, e poteva dare inizio talvolta a una relazione o a un’amicizia, che andava ben oltre i rispettivi ruoli, istituzionali o meno.

La relazione fondante, fonte sorgiva della mia politica in università, è sempre stata quella con Chiara Zamboni: una relazione politica, ma sorretta anche da un’amicizia profonda e autentica. Ricordo tuttora il piacere che ci concedevamo ogni lunedì pomeriggio, quando entrambe avevamo l’orario di ricevimento studenti: per un quarto d’ora, ci ritiravamo nel mio studio a scambiarci pareri sulle/gli studenti, a fare il punto della situazione, a cercare una misura per come muoverci in università e per contrastare la governance neoliberale che stava avanzando, per orientarci politicamente. La nostra breve conversazione era sempre accompagnata da un piccolo brindisi: bevevamo un goccio di crema al whisky, un liquore a bassa gradazione alcolica, perché poi bisognava essere lucide per le/gli studenti. Per me Chiara è stata ed è tuttora una donna, una pensatrice, una filosofa, a cui riconosco una grandissima autorità. I frutti politici della nostra relazione erano visibili da tutti e ovunque in università, nei Consigli di Dipartimento così come in qualsiasi altra riunione accademica.

Il femminismo della differenza mi ha insegnato che l’autorità bisogna attribuirla a donne degne di fiducia, le quali non sono necessariamente quelle che stanno più in alto, che ricoprono ruoli di potere. Io e Chiara, dal punto di vista della gerarchia accademica, eravamo assolutamente alla pari.

Ricordo una discussione vivace, avvenuta circa un anno fa in Diotima, sulla questione dell’autorità femminile: alcune tendevano ad attribuire autorità solamente a donne di potere in Europa, come Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Mentre la prima aveva guadagnato effettivamente autorità trasformando nel tempo la sua politica e andando a uno scambio autentico con la realtà, le altre due non apparivano altrettanto degne di fiducia. Chiara osservò che occorreva maggiore attenzione per attribuire autorità a donne prive di visibilità mass-mediatica, come le contadine del Nordest del Brasile, con le quali una giovane ricercatrice di Diotima era in contatto e che lottavano – e lottano tuttora – per creare una situazione fertile con la loro terra in una comunità, sia politica sia religiosa, ad autorità femminile. Spesso, per saper riconoscere e nutrire l’autorità femminile, non occorre guardare verso l’alto: basta guardarsi intorno.

Per me sicuramente Chiara e anche le contadine del Nordest del Brasile sono più degne di fiducia di quelle che hanno sfondato il tetto di cristallo: con queste ultime – con l’attuale premier italiana Giorgia Meloni e con la ministra Eugenia Roccella, per fare due nomi di attualità in Italia – non sento alcuna sintonia per la politica di destra a cui appartengono, benché m’interessi stare a vedere che cosa faranno, dal momento che sono pur sempre donne; quindi è in gioco la differenza sessuale che mi sta a cuore e che m’interpella. Tuttavia, là dove c’è massima esposizione pubblica nella politica istituzionale, è più difficile individuare semi di autorità in dispositivi e ruoli nati per il potere.

In ogni caso, ritengo che un buon criterio per decidere se una donna sia degna di fiducia sia il fatto che lei non si consegni tutta alla logica del potere, della carriera o dei soldi. Non tutta: se il suo centro di orientamento è altrove, nel piacere di coltivare relazioni, nella cura della vita, nel gusto della bellezza e nella gioia di aiutare a fiorire ciò che sta nascendo, si può riporre in lei la fiducia che merita.

Questo ce lo insegnano le nostre autrici mistiche. Il loro baricentro era altrove rispetto al già dato, al già pensato, rispetto al reale realizzato: era in un infinitamente piccolo sottratto alla logica del potere e della forza per Simone Weil, era in un Dio salvato dentro di sé nel mezzo della violenza della seconda guerra mondiale e della Shoah per Etty Hillesum. Pur senza giungere alle loro sublimi altezze, possiamo anche noi anteporre al potere, alla carriera o al denaro, il piacere che deriva da relazioni autentiche, politiche o di amicizia, coltivate per un guadagno d’esserci di entrambe le persone coinvolte, e possiamo contare sul fatto che queste relazioni non strumentali siano la leva per smuovere una realtà pietrificata e per far fiorire altro, di cui intravediamo le potenzialità latenti e che spetta a noi, grazie alla fecondità delle relazioni, portare verso il meglio.