Pochi giorni prima della redazione allargata di VD3 che si è tenuta l’11 giugno avevo scritto a due amiche una piccola lettera di ringraziamento della quale riporto qui una parte:

«Quello che mi è capitato negli ultimi anni (credo sia per l’uscita dal mondo del lavoro, sia per la scomparsa di Rosetta [Rosetta Stella, NdR]) è stato il venir meno di quella parte di relazioni che stanno nella categoria del “non scelte”. Non scelte sono per definizione quelle che si danno nel lavoro. Ma non scelte sono anche – almeno da alcuni punti di vista – le relazioni che si incontrano avendo a che fare più intensamente con il desiderio di un’altra donna, che non può mai essere coincidente integralmente con il proprio. […] Grazie a voi due mi sono resa conto che per me il mix di relazioni scelte e non scelte è indispensabile se voglio continuare a “pensare”. Rimanere esclusivamente nelle relazioni scelte è un limite enorme perché mi toglie dall’ambito della necessità. Dal dovermi destreggiare, dal dover inventare continuamente nuove strade.»

Mi ha dunque emozionata, man mano che ascoltavo l’introduzione di Chiara Zamboni, avvertire – ancora una volta – l’esistenza di quella specie di corrente sotterranea che «ci porta dove stiamo andando» e che crea uno stare insieme, stare con…, anche da grande distanza.

Mi interessa la porosità dei confini tra relazioni politiche e amicizie politiche, tra scelto e non scelto, tra necessità e desiderio: mi interessa ciò che apparentemente sta “al margine”. Per parlarne guardo alla mia esperienza.

Ho avuto la fortuna di avere un lavoro al quale potevo quotidianamente cercare di dare senso, in particolare negli anni in cui sono stata nel servizio cronaca di un quotidiano. Un quotidiano è per forza di cose una struttura fortemente gerarchica e a tempo limitato, dove però c’è un margine per lo scambio. Oltre ovviamente al poter scrivere, ho amato il fatto che la cronaca locale consente, più di altri servizi, di raccontare storie, vicende umane: per raccontare bisogna far scattare una relazione che magari dura solo pochi minuti, a volte molto più a lungo. Ma ancora di più ho amato quello che non potevo cambiare se non lavorando “di fino”. I capiservizio (così come i colleghi) li sceglie il direttore, ti tocca avere a che fare con quella persona lì, proprio lei, che decide non solo cosa scriverai, ma anche lo spazio, cioè quante parole hai a disposizione. Il tempo consiste di poche ore. Non essere d’accordo è la norma, non l’eccezione. Per questo salvare il senso di quello che si fa è il vero lavoro a tempo pieno: un arco di possibilità ricchissimo, dentro uno spazio-tempo limitatissimo. «Su cosa scommetto oggi per provare a poter dire quello che più mi sta a cuore?» A questa domanda ho cercato in quegli anni di rispondere ogni giorno, a volte riuscendo e a volte fallendo. Soltanto in due occasioni su migliaia di giornate, però, mi sono trovata di fronte al prevalere dell’aspetto “accordo/disaccordo nel merito” su ogni altra cosa. La prima volta finì con la rottura irreparabile della relazione. Il capo mi disse: se per te è così, non puoi fare questo mestiere. E mi punì relegandomi a occuparmi delle cose di poco o nessun conto. Avevamo entrambi incontrato il nostro limite, e lì giocò il suo potere. La seconda volta, con un altro capo, ebbi la fortuna di una mediazione femminile che seppe accogliere il mio dolore e contemporaneamente rafforzare la fiducia che lui, il capo, aveva nei mei confronti: non mi accadde nulla di male. Penso di avere imparato così molto su me stessa e su ciò che mi lega al mondo.

Tuttavia. Quando ho sentito che – pure essendo io indubitabilmente una privilegiata – la parte di lavoro che atteneva al senso della mia vita stava diventando residuale e “banalizzata” (parola che ha usato Ida Dominijanni e che trovo molto precisa) sono venuta via in anticipo dal giornale.

Penso che quella scelta sia affine a quello che sta accadendo adesso, nelle persone che rifiutano la logica del “lavoro per la sopravvivenza” e che scelgono di “avere meno” materialmente e “di più” relazionalmente e nel loro rapporto con l’ambiente, gli animali, la bellezza. Credo che questo andrebbe sostenuto, che cioè sarebbe importante mettere a tema insieme lavoro e non lavoro.

Un’altra esperienza relazionale politica importante, dopo il lavoro, ha riguardato mia madre e mia zia: lì il desiderio che la loro rimanesse – fino all’ultimo istante possibile – vita e non sopravvivenza ha incontrato la necessità conseguente alla loro età, molto avanzata, e al non essere noi persone ricche. Così noi, tre figlie di queste due sorelle tra loro legatissime, ci siamo materialmente interposte contro la possibilità di un degrado. Questo ha avuto un prezzo, a volte anche piuttosto alto (non però nell’ordine del dovere/sacrificio), ma, ora che le nostre anziane ci hanno lasciato, siamo tutte e tre contente di averlo fatto. Mi è capitato però di chiedermi, senza avere una vera risposta, quale equilibrio tra la mia vita e la loro avrei trovato se avessi avuto davvero tanto tanto denaro a disposizione? E in che modo ha inciso l’aver vissuto (anzi fatto, perché curiosamente se guardo a ritroso la mia vita mi sembra di aver fatto molto di più di quello che mi sono accorta di stare facendo e di quello che sono stata in grado di raccontare) quel passaggio “famiglia”/“amicizie politiche” che è cominciato ad avvenire quando abbiamo spaccato il nucleo familiare tradizionale per portarci dentro le nostre relazioni, le altre donne, e con loro la felicità che vivevamo insieme?

E poi c’è la relazione materna, che, certo, è un unicum. Ma è anche una relazione politica con una ampia componente di non scelto. C’è quel sì indispensabile di una donna. Ma dopo, immediatamente dopo, quello che avviene è una relazione. Mi chiedo se provare a districarla, in quanto relazione politica, dal sentimento proprietario verso i figli potrebbe aiutare. Se c’è una cosa che Michele e Gaia, che ho messo al mondo e che amo profondamente per quanto diversamente, non sono è: “miei”.

L’ultima questione alla quale vorrei accennare è quella dell’uguaglianza. Che – a causa della impossibilità di cancellare dalla scena pubblica tutti quei corpi femminili, e a causa di alcune altre cose – sta in qualche modo raggiungendo il suo limite (quanto bisogna essere uguali per essere uguali?). Mi pare che spesso la risposta (anche per le donne che sono rimaste sul percorso della parità) sia: bisogna essere identici, potersi sovrapporre identitariamente o quantomeno poter fingere che sia così, raccontare con molta forza che è così e ottenere il riconoscimento sociale che è così, proprio così. Il riconoscimento sociale delle identità sovrapposte prende il posto del legame sociale ormai frantumato. E accosta le identità l’una all’altra in un modo che rende progressivamente sempre più difficile non solo lo scambio, ma esattamente la relazione.

C’è una frase sulla questione dell’identità ne “Il passeggero” di Cormac McCarthy che continua a danzare dentro di me. «I nomi sono importanti. Fissano i parametri per le regole d’ingaggio. L’origine del linguaggio risiede nel suono unico che designa l’altro. Prima che gli si faccia qualcosa».

«L’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa». Quando Jennifer Guerra lo ha detto all’incontro di Via Dogana 3 (Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023) mi è tornata in mente, e ho finalmente capito, una frase di Luisa Muraro che anni fa mi aveva colpito: «Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso è amare».

Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso è precisamente come io vivo la politica delle donne da quando faccio parte della Libreria, cioè da trentacinque anni. Leggere che questo è amare mi sorprese, perché avevo un’idea diversa dell’amore, più un sentimento che una pratica. Mentre avevo ben chiaro quello che mi succedeva e mi succede quando mi viene proposto o richiesto di fare qualcosa, parlare, scrivere…: non sono all’altezza. Eppure ci sto, lo faccio lo stesso (quasi sempre…). Adesso so che la mia pratica – e sicuramente di tante altre – rivela che la natura del femminismo è amore.

Chiara Zamboni, nella sua introduzione allo stesso incontro, dice forse la stessa cosa in altre parole: «il mondo è la nostra passione». Per non dimenticare che nell’amare c’è anche il patire.

Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, ho lasciato la mia stanza a Milano per andare a vivere nella campagna della Marca trevigiana, nella casa del mio fidanzato. In quell’anno, all’amatissimo tavolo in giardino, ho scritto un libro sull’amore e sul suo potenziale politico. Non parlerò molto di questo libro, ma qualche parola vale la pena spenderla: la tesi del libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente.

La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro. Le mie tesi si ispirano soprattutto ad alcune filosofe e pensatrici femministe: Aleksandra Kollontaj, Shulamith Firestone, e una su tutte bell hooks. Il libro è una dichiarazione d’amore nei confronti di mio marito, che seppure in maniera totalmente inconsapevole e involontaria, mi ha messa di fronte all’evidenza di questa relazione bidirezionale tra amore e politica.

L’amore che ci siamo reciprocamente insegnati era come se si allargasse al di fuori della nostra coppia, tanto lo sentivo forte e incontenibile. E d’altro canto, avendo noi una bella differenza d’età, per mezzo di questo amore ho conosciuto il giudizio sociale e il pregiudizio, dagli sguardi della gente, dalle reazioni quando capisce che siamo marito e moglie.

Nelle presentazioni, spesso mi veniva chiesto di fare un esempio pratico dell’amore di cui parlavo, dell’amore che dalla dimensione personale trascende verso quella politica. All’inizio ero evasiva, non sapevo bene nemmeno io cosa rispondere. Di solito dicevo che Il capitale amoroso voleva porre domande e non dare risposte, oppure che se avessi conosciuto la risposta a quel quesito, probabilmente avrei fatto cose più importanti che scrivere libri. Mi vergognavo a parlare di mio marito e comunque sentivo che quello era il punto di partenza, non di arrivo.

È proprio vero che un libro non finisce mai con l’ultima pagina. E soprattutto che è un’impresa collettiva. Portandolo in giro – in piazze grandi e piccole, festival letterari, circoli politici, centri antiviolenza, spazi femministi – il libro è continuato e forse anche io l’ho capito fino in fondo solo quando ho cominciato a parlarne in pubblico. Ho capito soprattutto che sebbene fossi partita dall’amore per Paolo, l’amore di cui parlavo era in realtà l’amore che mi aveva insegnato il femminismo. Soprattutto perché l’amore agapico è un amore incondizionato, nel senso che non mette condizioni e non si aspetta nulla in cambio. Mi sono resa conto che l’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa: prendersi cura degli altri, o meglio delle altre, in virtù di ciò che le rende diverse da noi, anche se non condividiamo le loro scelte o abbiamo diversi posizionamenti. La svolta, nella mia politica femminista, è stata proprio questa: accettare che il femminismo non è proselitismo e che spesso serve più a chi non si riconosce in questa parola che a chi la nomina ogni giorno.

Il capitale amoroso è un libro che mi ha dato grandissime soddisfazioni dal punto di vista professionale e umano e la cui scrittura è stata una delle esperienze più arricchenti e profonde, oltre che gioiose, della mia esistenza. Il 2021 è stato un anno luminoso, coronato dalla pubblicazione del libro e poi dal mio matrimonio. Vi sto raccontando tutto questo perché la giornata di oggi è dedicata alle pratiche e all’orientarsi con l’amore. E oggi vorrei parlare di una pratica femminista importantissima che si è intrecciata con questa vicenda, l’amore di sé.

Dopo l’anno stracolmo d’amore che è stato il 2021, nel 2022 sono entrata in crisi. Come spesso accade quando le cose vanno fin troppo bene, all’improvviso tutto è precipitato. Alla fine dello scorso anno sono entrata in depressione, complice anche una diagnosi di disturbo dell’attenzione che è arrivata all’improvviso e mi ha scossa nel profondo, costringendomi a rivedere in prospettiva tutto il mio passato e il mio presente. Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, o ADHD, è un disturbo del neurosviluppo che interessa quasi il 3% della popolazione, che si manifesta principalmente nell’inattenzione e nell’impulsività, oppure in entrambi i modi. Per spiegarlo meglio ci sono due metafore utili. La prima è quella dell’orchestra: nel mio cervello ci sono musicisti bravissimi, tutti virtuosi del proprio strumento. Ma se il direttore perde il ritmo, la sinfonia non può essere eseguita correttamente. La seconda è quella delle schede aperte sul browser: nel mio cervello ce ne sono tantissime e il problema è che funzionano tutte assieme nello stesso momento, rischiando di mandare in crash il sistema.

Non è stato difficile accettare questa diagnosi, anzi, ha contribuito a spiegare molte cose di me stessa. D’altronde, sono io che l’ho cercata e per certi versi desiderata. Ma allo stesso momento questa presa di consapevolezza così grande e totalizzante è stata confusionaria e dolorosa. In particolare, è stato molto difficile fare i conti con un aspetto, ovvero il posto del femminismo nella mia vita. Per me il femminismo è stato quasi sempre un’avventura letteraria, filosofica, spesso molto solitaria. Non avevo intorno a me un ambiente recettivo del femminismo, non avevo persone con cui confrontarmi o spazi in cui “fare” il femminismo. Di conseguenza, per me il femminismo è stato e sempre sarà un atto di pensiero, di creazione, di immaginazione, il contenitore in cui si svolge tutta la mia attività interiore. In quel cervello affollato di musicisti e schede di Internet, il femminismo è il teatro, è il computer.

Quando ho ricevuto la diagnosi e sono entrata in depressione, qualcosa si è spezzato. Perché il femminismo è rimasto lì, a bussarmi con la sua insistenza. Non potevo smettere di pensare al femminismo: perché il femminismo plasma il mio lavoro di giornalista e di scrittrice, in primis, ma anche perché il femminismo è la mia vita. E poi perché in quanto corpo sessuato in ogni secondo della mia esistenza, ogni volta che mi guardo allo specchio o penso al mio corpo, è come ricevere un promemoria. Ogni volta che leggo una notizia sul giornale o sui social, la leggo con le lenti femministe che ormai si sono incollate al mio naso.

Era un bel problema, perché un cervello sovrastimolato come il mio in quel momento aveva bisogno di prendersi una vacanza. Ma come si fa a prendersi una vacanza da qualcosa che ormai è così intelaiato nel tuo essere? Come si fa a prendersi una vacanza da sé stesse?

Le pratiche, dicevamo. In quel momento così difficile ho compiuto un atto d’amore nei confronti di me stessa. Mi sono fermata. Il mio percorso di femminista come dicevo pocanzi è cominciato nella solitudine, ma poi crescendo si è inevitabilmente messo in pratica nella relazione, nella presenza sul territorio, nella militanza politica. L’ho fatto nella mia nuova città, Treviso, dove ho trovato un ambiente adatto al mio carattere e alle mie energie. Difficile, non lo nego, con un maschilismo radicato e combattivo, ma anche fertile e capace di sorprendermi continuamente. A Treviso ho trovato amiche e compagne di percorso, dalle quali mi sono sentita accolta e mai giudicata, pur arrivando con una reputazione alle spalle e inserendomi in un gruppo già consolidato e avviato.

Però a un certo punto per me era diventato tutto troppo. Nei giorni in cui ci riunivamo, la mia vita era come monopolizzata dal femminismo. Magari la mattina avevo scritto un articolo su un terribile caso di femminicidio, nel pomeriggio avevo corretto le bozze del mio libro sul femminismo, poi alle sette di sera prendevo la macchina per andare a parlare di femminismo con altre persone fino alle dieci e mezza. La cosa più dolorosa è che avevo sviluppato sentimenti quasi di rancore nei confronti del femminismo. A volte lo sentivo come un invasore nella mia testa e desideravo non averlo mai conosciuto, per poter godere di una vita più spensierata. Arrivavo a invidiare quelle donne che non avevano compiuto questo passo e potevano permettersi il “lusso”, tra virgolette, di non essere femministe.

Così ho deciso di prendermi una pausa prolungata da quelle riunioni. È stata una decisione molto difficile e sofferta, perché questa pausa è arrivata proprio nel momento in cui mi sentivo di aver abbandonato definitivamente quelle resistenze che sono così tipiche del mio carattere quando si parla di relazioni interpersonali. Cosa sarebbe successo al mio ritorno? Sarebbe stato tutto come prima o avrei avuto l’impressione di essermi persa qualcosa, di dover ricominciare tutto da capo? Questa pausa è stato un coraggioso atto d’amore verso me stessa, ma anche verso le mie compagne nei confronti delle quali sentivo di non essere in grado di mettere a disposizione il meglio delle mie energie e risorse.

Con Il capitale amoroso avevo parlato d’amore fino allo sfinimento, ma mi stavo dimenticando che il primo soggetto dell’amore siamo noi stesse. Spesso si dice, quasi a mo’ di slogan, che non si possono amare le altre persone se non si ama prima se stesse. Io ci credo fino a un certo punto, nel senso che credo anche che l’amore abbia in sé una componente di slancio e di gratuità che è incondizionata e soprattutto che amarsi non sia un obbligo. Però d’altro canto l’annullamento di sé è un campanello d’allarme importante per una relazione che non funziona. Nel mio caso, non mi ero trascurata per l’amore di mio marito o di un uomo, ma per amore di un soggetto indistinto, non so nemmeno se per dire una causa o un’ideologia.

Se dovessi descrivere cosa significa per me in questo momento l’amore di sé in senso femminista userei un’espressione che ho ritrovato in Carla Lonzi: «l’esperienza di combaciare con me stessa». Sento molto vicina la Lonzi della fine degli anni Settanta, quella che ragiona retrospettivamente sulla sua vita e sul senso del femminismo. Non mi sento, ovviamente, di aver raggiunto la stessa maturità, ma in quel frangente sembra che Lonzi torni in qualche modo dentro di sé e si guardi dentro. «Mi sembra che l’amore allo stato puro, se così si può dire, cioè l’amore che si prova per qualcuno», scrive Lonzi «dovrebbe essere il manifestare a qualcuno l’amore che si prova per se stessi […]. L’amore che si ha per gli altri non è che l’espressione di questo volersi bene […]. In questo modo mi sembra spiegabile perché a me è sempre sembrato di essere incapace di amare. Perché io non amo me stessa».

Credo che ciò che dice Lonzi qui sia molto difficile da ammettere e spero per lei questo non amare sé stessa sia stato soltanto temporaneo, che non sia stato qualcosa che l’ha accompagnata tutta la vita. Oggi l’amore di sé è stato trivializzato, oltre che trasformato in un obbligo. Le pubblicità, i giornali, i social ci dicono in continuazione di amare noi stesse, amare il nostro corpo, amarci così come siamo. Mentre ci rassicurano che siano perfette così come siamo, ci sottopongono a uno standard morale altissimo, a un compito che è difficile adempiere con costanza.

L’amore di sé che ho cercato, l’amore di sé di cui parla Carla Lonzi, quel combaciare con sé stesse, credo abbia poco a che fare con questo tipo di richiesta. Perché non è un amore migliorativo, che serve alla nostra autostima. Mi sembra piuttosto un amore che si realizza nella relazione. Non credo sia un caso che Lonzi parli di amore per gli altri come manifestazione dell’amore per sé stesse e non il contrario. Non dice che l’amore di sé è un requisito o un presupposto.

Le donne hanno storicamente assimilato l’idea di sacrificio. Mariti e figli vengono sempre prima, in generale tutti gli altri vengono prima; Pasolini in una poesia scriveva che il vergognoso segreto delle donne era quello di accontentarsi dei resti della festa. Anche quando ci convinciamo di aver finalmente abbandonato l’obbligo del sacrificio, ecco che torna in modi insperati. Anche nella relazione fra donne, nel femminismo, spesso sentiamo la necessità a metterci da parte, per le altre, per un fine più nobile, per mille altre cose. Io credo che il pericolo più grande di questo sacrificare sé stesse sia in fondo quello di allontanarsi dalla nostra autenticità.

Quando ho ricevuto la mia diagnosi, la mia identità è entrata in crisi. Ho dovuto fare i conti con un modo di essere me stessa che mi era quasi estraneo. Ora che ero a conoscenza di una parte di me totalmente nuova, dovevo cercare di non smarginarmi, di non spezzarmi. Il rischio più grande che avrei potuto correre, e dal quale ancora adesso non mi sento del tutto salva, è quello di uno strappo tra la me del passato, inconsapevole, e la me attuale, che sa dare un nome alle cose di sé. In tutto questo, il femminismo rischiava di occupare un posto troppo ingombrante, perché è esattamente il ponte tra la mia identità e la relazione con il mondo.

E così ho preso una decisione d’amore per me, e di conseguenza per gli altri. Ho deciso di rinunciare per un po’ a quella parte di femminismo più difficile da praticare. Amarsi è anche essere indulgenti con sé stesse, mettere dei paletti, dei confini. È così che l’amore di sé riesce a conservare uno slancio verso l’altro senza portare all’autosabotaggio. Fermami è stato una decisione necessaria ma anche sofferta, che però ha portato maggiore chiarezza nella mia testa. Nei mesi in cui ho rallentato tutto, sono tornata a quella forma originaria di femminismo che ultimamente mi sembrava di aver perso per strada, ovvero la scrittura.

Oggi le cose vanno meglio. Sto lavorando per imparare a integrare questa nuova consapevolezza legata alla diagnosi nella mia vita, ma non ci sarei mai riuscita senza questo atto di amore verso me stessa. Penso che alla fine, anche se ho saltato qualche mese di assemblee e azioni, piazze, sarò una femminista migliore. È presto per fare valutazioni e bilanci, ma se crediamo che l’amore sia, come penso, una forza politica, politica è anche sapere quando fermarsi. Chiudo con un’immagine: quella dell’ex premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern che a gennaio si è dimessa dal suo incarico perché era stanca. Spesso di discute su cosa differenzi una politica femminile da una politica femminista. Ecco, io credo che al di là delle leggi e dei decreti, nella sua scelta di dimettersi ci sia un gesto politico profondamente femminista, che partendo dall’amore di sé si riverbera su tutta la comunità.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023

Per questo discorso ho un debito con diverse amiche con cui mi sono confrontata, tra le quali quelle di Diotima. L’idea da cui parto è che un’amicizia è politica in quanto ha a cuore il mondo. È questo che la fa diversa dalla semplice amicizia. Non si è mai soltanto in due in questo legame perché c’è un terzo. Il terzo tra noi è il mondo. Il mondo ci interessa, ci coinvolge, sentiamo la necessità di confrontarci costantemente su di esso. Allo stesso tempo è ciò che ci permette di essere in rapporto tra noi. Noi abitiamo il mondo e allo stesso tempo il mondo è la nostra passione.

L’amicizia politica è quella nella quale siamo impegnati assieme a raccontare, capire, interpretare le cose del mondo. Criticarle per orientarle. E criticarle perché lo si ama. L’amore per il mondo è ciò che ci unisce e ci fa cercare. Ci fa desiderare di trasformarlo.

Per le donne il limite tra amicizia e amicizia politica non è mai così nettamente riconoscibile, anche se è bene partire dalla loro differenza, che ho appena descritto. Si passa molto facilmente da una situazione all’altra. Sappiamo che l’amicizia ha come suo centro il fatto di confrontarsi nella vita e sul suo senso, in un arco di tempo che si percorre in comune. Ora, ragionare sul senso della vita può facilmente portare a parlare del mondo che abitiamo assieme, del suo giusto e sbagliato, e di cosa vorremmo, e così inavvertitamente il legame diventa politico in un senso ampio.

Questo va e vieni tra vita quotidiana, amicizia tra donne e relazione con il mondo è stato compreso e registrato dalla politica nel movimento delle donne. Per un preciso motivo: il femminismo è fedele alle radici della vita. Di più: pone al centro della politica il circolo tra la vita e il senso della vita. Questa è la sua forza. È una politica che con consapevolezza fa del senso della vita, guadagnato soggettivamente con altre, una scommessa che riguarda la trasformazione del mondo e la nostra relazione con esso. Dato che, nell’amicizia, c’è una ricerca di senso che riguarda la vita, facilmente può diventare politica.

So per esperienza che questo va e vieni tra vita e politica non avviene nelle amicizie con gli uomini. Parlano sì del mondo ma molto poco del loro rapporto soggettivo con l’esperienza della vita. Passano subito alle questioni del mondo. Ad eccezione dei pochi uomini che sono capaci di pensare il legame tra i loro sentimenti soggettivi e l’andamento del mondo.

Mi sembra importante sottolineare che l’amicizia politica non ha a che fare con l’essere d’accordo con l’altra. Non è questo l’importante. C’è di mezzo il mondo e cerchiamo l’altra per pensarlo – perché cerchiamo una misura – anche da posizioni che possono essere diverse.

Del resto è proprio il fatto che nell’amicizia politica si presupponga che non si sia necessariamente d’accordo, a rendere vitale il rapporto. Infatti si è di frequente su posizioni non coincidenti. Allora lo scambio conflittuale ci aiuta a pensare meglio e a scegliere una strada piuttosto che un’altra. È per questo che non si tratta di vincere o perdere. La scommessa sta nel parlare del mondo con verità, che è cosa molto più complessa che avere ragione o torto. E comunque anche diversa dall’idea di possedere la verità. La verità è cosa differente dall’aver ragione. Hannah Arendt citava questa bella frase di Kafka: «È difficile parlare di verità, perché, sebbene ve ne sia una sola, è vivente, e ha quindi un volto che cambia con la vita» (L’umanità in tempi bui, pp. 92-93). L’amicizia politica sa mantenere le differenze di visione nell’impegno per la verità che cambia con la vita. Non si irrigidisce in un’affermazione unica e conclusiva.

Le amicizie politiche sono diverse dalle relazioni politiche, di cui abbiamo visto la forza nel movimento delle donne. Anche se – lo sappiamo bene per esperienza – molte relazioni si trasformano in amicizie politiche. Anche qui i confini sono porosi. Tuttavia c’è tra loro una differenza. Le relazioni politiche sono molto più libere. Fluide. Leggere. Si possono creare relazioni politiche anche con chi sentiamo lontana o lontano quanto a piano profondo dell’esistenza. È sufficiente che si crei una comune scommessa di trasformazione del mondo e di modificazione di contesti vissuti assieme. La politica nasce dal desiderio – sentito assieme – di cambiare una situazione pubblicamente condivisa. Chi fa politica relazionale nell’ambito del proprio lavoro o nel tessuto di una città lo sa bene. E tuttavia non c’è un impegno di lungo periodo come nell’amicizia politica, né quello sguardo di elezione pur nella differenza, che radica l’amicizia, e che rende l’agire assieme un piacere.

E poi, una relazione politica si scioglie senza sofferenza, quando non ci sono le circostanze contestuali che l’alimentano. Senza strappi. Diciamo che si spegne senza ferite, quando non è più alimentata dal desiderio politico comune in cui e per cui è nata. Mentre l’amicizia politica è meno legata al contesto. E infatti, quando un conflitto non viene reso fertile all’interno dell’impegno reciproco, può finire con molto dolore. Tutte noi conosciamo diversi esempi in cui le ferite non si sono rimarginate.

Se lo stile di vita non è in discussione nelle relazioni politiche, invece è fondamentale nell’amicizia politica. È come se, essendo venuta meno la tradizione che vincolava i comportamenti di generazione in generazione attraverso la famiglia, l’amicizia politica vi si fosse sostituita. Prende il posto simbolico della famiglia, andando incontro al bisogno, che avvertiamo, di trovare le misure giuste del vivere. Consapevoli che molti nuovi costumi di vita sono suggeriti pesantemente dal biopotere e che sulla vita e sulla soggettività c’è uno scontro molto politico, sebbene non esplicitamente nominato come tale. Fare alcune scelte ad esempio sulla vita sana, sul lavoro, sul modo del viaggiare, se dare e come i soldi in più che possono servire ad alcune comunità, su come trattare gli animali, che rapporto con l’istituzione medica, sono questioni su cui si cerca una misura confrontandosi con le amiche, gli amici. L’amicizia politica sostituisce la famiglia sul piano simbolico, perché alla famiglia si chiede sostegno e sicurezza. Paradossalmente proprio in un momento in cui è divenuta così fragile.

Tengo molto a sottolineare che l’amicizia politica regge la lontananza. Creatasi per una elezione reciproca, e messa alla prova in tanti momenti e in un lungo periodo, non obbliga però ad una presenza costante. Abbiamo tanto parlato dei legami simbolici. Bene, l’amicizia politica è per me uno dei legami simbolici più importanti. Continua anche se non ci si frequenta spesso. Qual è poi il piacere e in fondo la sorpresa di ritrovarci su temi, questioni, con la stessa passione per la vita pubblica, dopo tanto tempo che non ci si vede…

Parla di amicizia nella città, nella polis, Françoise Duroux in uno scritto su Antigone(Antigone ancora. Le donne e la legge). Antigone propone che nella città le leggi debbano seguire filia, cioè amicizia, che è una forma di amore, eros, desiderio. Queste parole fanno parte della stessa area semantica. Vita Cosentino mi ha suggerito di ritornare su questo testo e credo abbia ragione. Duroux reinterpreta lo scontro con Creonte. Quello che mi interessa mettere in evidenza è che il conflitto che Antigone apre non è tanto tra filia, amicizia, come forma di eros, amore, da un lato e l’odio, dall’altro. Non si tratta dell’opposizione amore-odio, in sé molto sterile sul piano del pensiero politico. Piuttosto è il conflitto tra la logica dell’amicizia, dell’amore, contro quella della necessità. Che è tutt’altra cosa e molto più sottile, sotterranea. Creonte dice di adoperare la techne, le tecniche di governo. Sostiene di fare riferimento alla necessità fattuale della città. Si appella al bisogno di governarla con leggi tecniche, che dichiara necessarie, mentre in realtà rispecchiano una visione patriarcale velata con l’ideologia della necessità. Antigone propone invece che le leggi siano orientate da amicizia, filia, amore. Dal desiderio, piuttosto che dalla necessità.

Aggiungo, andando oltre Duroux, che l’orizzonte di filia, di amore, è sufficientemente grande da ricomprendere in sé la necessità, che allora non è né negata né rigettata, ma ripresa e riorientata nel movimento desiderante. Il che non ha niente di sentimentale, psicologico, moralistico.

Se nel testo greco questa sembra a prima vista una politica prepatriarcale, per Duroux, invece, è una politica che va oltre il patriarcato, totalmente contemporanea e aperta al futuro, di cui protagoniste sono le donne.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023

Questo incontro, come avete letto dall’invito, è incentrato sulle pratiche che possono orientare il presente e sono contenta che qui con noi ci sia Chiara Zamboni perché ha lavorato molto su questo tema. Le pratiche, nel movimento delle donne, sono un fatto politico davvero importante perché hanno permesso di aprire uno spazio di soggettivazione per le donne e anche uno spazio di libertà, innanzitutto per le donne ma anche per gli uomini.

In un incontro che qualche anno fa Chiara Zamboni ha fatto agli Archivi Riuniti delle donne del Ticino a Lugano, che ora si trova in rete in un documento dal titolo Le pratiche come modalità del simbolico, Chiara Zamboni parla diffusamente delle pratiche nel movimento politico delle donne, spiegando che sono processi che iniziano da donne in relazione tra loro, che possono subire modificazioni nel loro svolgersi, restituendo quindi un senso di libertà ma anche di precarietà. In estrema sintesi, si tratta di sperimentare in relazione, a partire dal desiderio soggettivo, e fare scoperte a partire dall’esperienza, andando al di là di quello che si pensa di sapere. Si tratta di imparare una nuova lingua per dire la propria esperienza e fare mondo, trovare parole nuove, non più irrigidite nelle forme che altri avevano pensato. In questo documento ci sono anche alcuni esempi molto esplicativi, vi consiglio di leggerlo.

Quello che mi ha sempre affascinato e attratto dei racconti sui primi gruppi femministi è che l’uscita di scena delle donne (dalla scena della politica fatta con gli uomini) per ritrovarsi, insieme, in un altrove senza una rappresentazione già data, ha liberato energie incredibili, cosa che possiamo vedere ancora oggi, che siamo in un posto venuto al mondo da quel desiderio. Più che un’uscita di scena è stata a ben vedere un mettersi al centro, e questo ha messo in moto una vera e propria rivoluzione simbolica, una trasformazione radicale della vita collettiva, che non ha distrutto cose e persone ma ha sovvertito l’ordine dei rapporti, togliendo sostanza alle istituzioni patriarcali e dando vita a nuove forme di relazione.

Siamo alla Libreria delle donne, in uno dei luoghi più importanti del femminismo italiano e non solo, un luogo che ha dato vita a molte delle pratiche che ancora oggi sono essenziali, altre che non ci sono più, un luogo dove possiamo continuare a fare ricerca. C’è un testo molto forte da leggere o rileggere, quello che viene comunemente chiamato “il non credere”, ovvero Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne (Rosenberg & Sellier) che potete trovare in Libreria. È un racconto appassionato e coinvolgente perché fa un’elaborazione a partire da un luogo collettivo di relazione tra donne e soprattutto perché srotola pensieri che restano serrati all’esperienza man mano ripercorsa e raccontata. Leggendolo, si può cogliere la potenza di quello che è successo in quegli anni, che è una scommessa ancora aperta.

Nel suo penultimo libro, Il capitale amoroso, Jennifer Guerra fa una ricerca intorno all’amore come pratica, come esercizio quotidiano. Quindi l’amore non inteso come emozione o sentimento “irrazionale e indomabile” (p. 15) ma come “amore pubblico, disinteressato, che dalla dimensione privata si riverbera su tutta la società, in grado di colpire anche chi decide di sottrarsi alla sua potenza” (p. 80).

I passaggi in cui Jennifer Guerra sviluppa il suo pensiero sull’amore come pratica che assume una dimensione pubblica mi hanno ricordato il lavoro di Françoise Duroux, filosofa francese, in particolare il libro recentemente edito che raccoglie alcuni dei suoi più importanti scritti dal titolo Il paradigma perturbante della differenza sessuale, curato da Chiara Zamboni e Stefania Tarantino. In lei troviamo il concetto di philia come amicizia, una forma di amore amicale, un legame tra esseri umani che investe la dimensione pubblica, scardinando le logiche di potere e sopraffazione.

Leggendo il libro di Jennifer Guerra ho anche ricordato una cosa che mi è successa tanti anni fa con il libro di Luisa Muraro L’ordine simbolico della madre. Ricordo perfettamente la circostanza, perché ho capito col tempo che quello è stato il fatto “fondativo” del mio femminismo. Ero sull’autobus verso Milano, diretta al mio lavoro, quando mi sono imbattuta nel concetto di amore femminile della madre che mi ha scompaginata, facendomi intravvedere un orientamento nel caos in cui mi trovavo. Mia madre non è stata femminista, anche se anagraficamente avrebbe potuto esserlo. E io mi dibattevo tra la rivendicazione di un suo sguardo amorevole e legittimante e la ricerca di questa impossibilità attraverso la ribellione, la partecipazione disordinata a vari gruppi femministi (che in provincia erano per lo più legati all’emancipazionismo e alla parità), e un rapporto ingarbugliato con gli uomini (per esempio sul lavoro: lavorando in un contesto prettamente maschile, entravo in una competizione estenuante e sempre in perdita, nonostante il mio perfezionismo), con uno struggimento e una sofferenza di cui non venivo a capo. Leggere e rileggere quel secondo capitolo del libro di Luisa Muraro è stato essenziale: non capivo e mi pareva impossibile operare lo spostamento dalla ribellione/rivendicazione all’amore per mia madre, ma intuivo la potenza di questo atto e sono rimasta nell’apertura, legandolo inizialmente alla scena più allargata, al mio desiderio di avere con le altre una misura che facesse star bene me e noi “nella nostra pelle”, per arrivare man mano a cogliere la potenza del gesto e della nominazione dell’amore femminile per la madre, ovvero la mediazione giusta per poter dire quello che mai avevo potuto dire e poter vedere quello che mai avevo potuto vedere. Che cosa? La bellezza e legittimità delle relazioni tra donne, la ricchezza di una società femminile che già c’era e che era parte di me, la possibilità di una relazione differente con gli uomini, la possibilità di un senso libero del mio essere donna, potendo pronunciare con gioia questo nome, senza cadere nell’essenzialismo di una etichetta che imprigiona in ruoli o significati precostituiti. Insomma, mi ha permesso di fare un passaggio da quello che credevo di sapere di me a quello che non conoscevo ma era lì, eccedenza per me senza voce né senso. Ha permesso un passaggio che oggi chiamerei simbolico perché mi ha portato a vedere più precisamente e vedere altro, riconoscendo la mediazione che rende possibile questo mutamento. E oggi posso dire che, al momento, mi pare una storia di trasmissione avvenuta, perché sono tutte cose che, avendo la fortuna di una figlia, ho passato a lei.
Il numero 3 della rivista Via Dogana, intitolato proprio L’amore femminile della madre ospita l’articolo di Luisa Muraro L’amore come pratica politica, che ci porta al cuore dell’incontro di oggi. A una donna che aveva posto un’obiezione profonda alla necessità di amare la madre, Luisa Muraro dà una risposta che anche oggi ci può orientare: “La risposta della pratica politica è migliore. Con la pratica io introduco una innovazione nel mio presente (per esempio tengo e rendo conto dei beni ricevuti dalle mie simili; espongo desideri e problemi, senza più difendermi col silenzio; mi vincolo al giudizio di una donna affidabile; etc.) rendendo il presente più vivo e libero, in quanto non più dipendente da quello che è stato; diventa invece vero il contrario, che il passato si presenterà mutato ai miei occhi, perché io sono mutata. Nelle parole della donna che mi ha insegnato la politica, oltre al posto dato alla pratica, tale che l’amore stesso diventa pratica, colpisce il cambiamento dello sguardo. Le parole di lei invitano a guardare la realtà come qualcosa che può mutare perché noi stesse possiamo mutare. Così, il movimento che ci ha portate a capire la necessità dell’amore femminile della madre, mostra questo amore all’opera: si mostra come opera di questo amore. E così il cerchio si chiude in un movimento circolare che ci comprende e dà forza” (p. 19).

Ho parlato di scommessa poco fa. Io credo, e insieme a me le amiche della redazione di Via Dogana 3, che ripensare a Eros e Philia in una dimensione pubblica sia molto importante per il presente che abitiamo, credo sia una scommessa che dobbiamo giocare insieme.

Lascio ora la parola a Jennifer Guerra e poi a Chiara Zamboni per i loro interventi.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 “Orientarsi con l’amore”, 11 giugno 2023.

Domenica 11 giugno 2023, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano


La posizione storica delle donne di essere allo stesso tempo partecipi ed estranee al sistema simbolico dominante ha offerto e offre a chi ha a cuore la politica e il mondo in cui viviamo la possibilità di concepire nuovi orientamenti per il vivere comune. Sono orientamenti che non nascono a tavolino, bensì scaturiscono da pratiche sperimentate, da relazioni con altre e altri e con autrici di riferimento. Si pongono in rottura con gli assi del potere proponendo al suo posto un registro legato a Eros nella vita associata.
In questo incontro poniamo all’attenzione e alla riflessione due pratiche orientanti per il presente: l’amicizia politica e l’amore come forza politica.
Introducono la discussione Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Ci sono tante cose che non capisco ancora, ce n’è una invece di cui mi sento abbastanza sicura. Ho sperimentato in questo periodo di quarantena quanto poco mi basti per essere contenta: sapere che le persone care stanno bene, godere l’aria fresca sulla pelle quando esco, sentire le amiche più vicine. L’aumentato senso di precarietà ha aumentato la capacità di provare una pazza gioia. Quanta felicità ci toglie il falso senso di sicurezza in cui viviamo!

Non cerco molte persone, per la maggior parte dei legami mi basta sapere che sono lì, pronti a riallacciarsi, perché ciò che ci siamo scambiati in questi anni era prezioso. Potremo attingervi senza ansia e senza fretta.

Questo sento io e questo mi rimandano i pochi cenni che ogni tanto ricevo.

Accanto a questo sentimento che accompagna la mia quotidianità ce n’è un altro.

Se basta così poco, se stiamo scoprendo che cosa è essenziale e cosa no, non possiamo permettere che dopo questa esperienza tutto torni come prima, a un ordine sociale ed economico che questo essenziale lo dimentica.

L’essenziale deve essere accessibile a tutti e, perché lo sia, tutto deve essere ripensato e per questo debbono avere peso e sostanza le parole e il pensiero delle donne.

Molte figure autorevoli, a cominciare dal Papa, stanno sostenendo la necessità di far emergere la voce femminile.

Ma soprattutto la centralità dell’opera femminile in tutti i campi non è mai stata più visibile.

Inoltre la dimensione di cura, dedizione, passione, attenzione all’altra/o, qualcosa in cui le donne sono maestre, è emersa con chiarezza come componente in ogni lavoro. Viene presentata come una eccezionalità del momento, ma, se leggo la mia vita di insegnante e quella delle tante persone con cui mi sono accompagnata, questa è la dimensione fondamentale del lavoro sicuramente per le donne; negli uomini questo aspetto è invece oscurato, almeno in passato, già per mio figlio non è più così.

Ed è stato grave averlo oscurato.

La cosa grave è avere organizzato in una logica massificante orario, tempi, ritmi, e spazi del lavoro, senza salvaguardare la dimensione di cura. Né quella sul luogo di lavoro, né quella sottratta dal lavoro alla propria vita, che a sua volta richiede tempo, dedizione e fatica.

Sappiamo tutti, grazie al ricordo impresso nel nostro corpo, di aver incontrato insegnanti, medici, donne e uomini, e anche altri, altre, che facevano lavori più umili, ma li facevano con passione. Abbiamo conservato gratitudine nei loro confronti, e tuttavia abbiamo permesso che il modello di professionalità fosse costruito sull’idea astratta di un agire neutro, asettico, ripetitivo, mentre il luogo degli affetti sarebbe stato altrove. Abbiamo permesso che l’esperienza fosse ignorata e tradita. È stato grave.

Il lavoro separato dalla dimensione affettiva, di cura e attenzione all’altro corre il rischio di diventare luogo di non libertà, se sostituiamo il chi siamo con l’abito professionale, se rinunciamo a cercare insieme agli altri la soluzione ai problemi, se accettiamo supinamente i limiti delle regole burocratiche, se troviamo rifugio in ogni tipo di esperto pur di non interpellare noi stessi. Invece la nostra esperienza ci racconta che cura, passione, relazione, competenze formano un tessuto unitario. Racconta quanto ci ferisce quotidianamente il tentativo di comprimere la ricchezza relazionale, umana e lavorativa che viviamo nelle strettoie dell’efficientismo, della concorrenza, della prevedibilità, della produttività.

La perdita di legame con l’esperienza è un male fondamentale della cultura di stampo maschile che abbiamo ereditato. Non a caso un grande incontro femminista di alcuni anni fa all’università Roma 3 si titolava: Il sapere dell’esperienza.

In quella occasione una delle relatrici, Vita Cosentino, parlò del movimento di autoriforma della scuola a cui per anni abbiamo dato vita per sottolineare, a fronte delle assurde riforme che stavano distruggendo la scuola pubblica, la necessità che fossimo noi, i docenti, uomini e donne, a dire cosa è la delicata relazione di insegnamento/apprendimento e di quanta cura abbia bisogno, cosa diventano le materie di studio quando diventano nutrimento per la crescita delle ragazze e dei ragazzi e risposte alle domande del mondo.

Qualsiasi cambiamento dell’ordine sociale deve ripartire da questa assunzione in prima persona della responsabilità, da questa presa di parola che non vale solo per gli e le docenti.

Si parla sempre della corruzione e degli sprechi negli ospedali. Nessuno sa meglio dei buoni medici e dei buoni infermieri, che oggi si rivelano soprattutto donne, come si dovrebbe fare per impedirli.

Come nessuno sa meglio di loro come si dovrebbe organizzare la sanità sul territorio per diminuire l’ospedalizzazione e farsi carico della persona anziana, disabile, o della puerpera, a casa propria.

Nessuno sa meglio degli operai se ciò che si produce è fatto nel migliore dei modi e se è ciò che serve all’intera società.

Perché è di questo che si tratta, dell’interesse dell’intera società, non di salvare tanti piccoli corporativismi. Questa è la situazione attuale da quando le rivendicazioni si sono ristrette all’ambito salariale o pensionistico.

Dobbiamo ripensare, facendoci guidare dall’essenzialità, tutti i luoghi di lavoro.

Si tratta di ritrovare una visione sociale di cosa debba essere la scuola, la sanità, la produzione, l’assistenza, il rapporto con l’ambiente, sacrificati fino ad ora all’unica logica di canalizzare il danaro nei giochi del potere finanziario.

La politica delle donne invece, rimettendo in gioco l’esperienza femminile, l’ha riconnessa con la vita e ha intravisto un’altra civiltà e un’altra economia.

Susanna Camusso lo ha detto recentemente con fermezza: «[la “cura” non è attitudine femminile “dovuta e scontata”, marginale e non economica, ma è, invece, tratto necessario in un mondo che è giunto ai suoi limiti e va reso sostenibile socialmente, economicamente, ambientalmente []» (https://www.huffingtonpost.it/, 8 aprile 2020).  

E aggiunge: «[non c’è quello che resta nelle mura di casa e quello che riguarda il palcoscenico pubblico [Quelle cabine di regia, quei luoghi, avranno un valore di innovazione, di progettazione di sostenibilità effettiva, se non saranno ancora una volta il luogo del pensiero della parzialità maschile, ma sapranno coinvolgere il pensiero femminista e femminile, per rappresentanza e specialità [Riconoscendo un’elaborazione e un pensiero che certo non nascono oggi». (https://www.huffingtonpost.it/, 8 aprile 2020).

Il suo intervento è reperibile sul sito della Libreria delle donne che è quella che ha dato uno dei contributi più importanti e più anticipatori al tema del lavoro con il Sottosopra «Immagina che il lavoro».

Anche l’Avvenire del 4 marzo riprende in un articolo in prima pagina il tema: «Lavorare meno, lavorare tutti. L’utopia si riaffaccia dal web

«La ripartenza è sostantivo femminile» dice la copertina dell’Espresso del 10 maggio 2020.

Scriveva Simone Weil che «la missione, la vocazione della nostra epoca è di costituire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro».

Bene. Rimettiamo al centro la spiritualità del lavoro.

Molti, e noi donne in particolare, ci stiamo assumendo questo impegno, come dimostrano il proliferare di incontri on line e i molti appelli che stanno passando dalle mani delle une alle mani delle altre.

Ci sono ormai sia le conoscenze scientifiche che la presa di coscienza, ci sono le esperienze e c’è un pensiero, in massima parte femminile, che ci permettono di ripensare, a partire dalla relazione fra la cura e il lavoro, tutta l’economia come ci insegna Ina Praetorius, tutta un’altra relazione con l’ambiente e un’altra civiltà, relazionale appunto, orientata dall’amore per la vita e non dall’ansia di accumulare danaro.


Pubblichiamo l’estratto audio dell’intervento di Ida Dominijanni durante l’incontro di domenica 12 marzo 2023 “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche“.


Si è parlato a lungo di crisi della politica domenica 12 marzo: è un sentimento comune e intergenerazionale, quello di una rinnovata sfiducia verso le silenti istituzioni. Lia Cigarini ha però voluto sottolineare l’esistenza di “politiche altre”, realtà extraparlamentari e vive, operative, militanti.

Avere a che fare con il silenzio delle istituzioni è stato parte integrante della mia formazione politica e culturale, crescendo in quella che è una delle province più povere d’Italia e che ogni anno si piazza in fondo alla classifica della qualità della vita: Crotone. Ho visto la mia città cadere a pezzi, di anno in anno, ho ascoltato più e più volte i racconti dei miei genitori, di chi ha fatto di Crotone la sua casa negli anni ’60, – quando era ricordata come la Stalingrado del Sud, quando le ciminiere ancora fumavano, i treni ruggivano e la città sembrava volersi scrollare di dosso la povertà e il disagio – racconti di una città diversa, di una vita diversa, una vita che proprio le istituzioni corrotte e mafiose negli anni ci hanno portato via. Ora Crotone è un deserto, di treni ne passano poco più di cinque al giorno, insieme alle fabbriche hanno smesso di lavorare le persone: fuggire sembra l’unica soluzione.

Ho desiderato tanto lasciarmi tutto alle spalle, e l’ho fatto: sono andata via, lontana dalla Calabria. Ripensandoci, a malincuore. Per anni ho risposto alla domanda “di dove sei?” sommessamente, quasi con vergogna, sapendo che il mio interlocutore probabilmente non sarebbe mai riuscito a posizionare Crotone sulla mappa.

Adesso, forse, qualcuno Crotone la conoscerà di più, conoscerà Steccato di Cutro, dove da bambina a volte andavo al mare, conoscerà la sabbia bianca, dai toni caldi, e il vento che soffia sempre sul golfo, conoscerà quel mare che mi ha bagnato per anni le caviglie, l’acqua cristallina dello Ionio. Soprattutto qualcuno conoscerà i crotonesi: gente semplice, dal cuore grande; un’appartenenza che per anni ho quasi rifiutato, come una macchia di sugo su una camicia bianca fresca di bucato.

Perché i Crotonesi, davanti al silenzio del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Interno (che ancora probabilmente rientrano tra quelli che non riescono a posizionare Crotone sulla mappa), hanno dimostrato l’esistenza di una politica altra, una politica che parte dalla nostra umanità, che permea ogni compartimento sociale: presidio contro la disumanità, così recita un manifesto; i cittadini di buon mattino fanno visita alla camera ardente, in cui le vittime dei naufragio tra nomi e sigle rendono manifesta questa crisi istituzionale in cui ci troviamo. Al dolore di parenti e amici di chi cercava una vita migliore, si avvicenda il dolore di una città intera, che non riesce a capacitarsi di non aver potuto fare di più. Il recinto in ferro, a tratti arrugginito, del Palamilone si riempie di fiori, di messaggi; le scolaresche si alternano guidate da docenti che sono proprio l’araldo dell’altra politica, di quella che si fa tra i banchi di scuola per far sì che mai si perda l’umanità, che mai tragedie come questa si ripetano.

La morte, il silenzio e la politica, un biglietto con una scrittura incerta vicino un mazzo di fiori: ciao bimbi, mi dispiace.



(Via Dogana 3, 13 aprile 2023)

Il costo della realizzazione del sé è stata la mia grande sfida degli ultimi anni. Il valore la grande scoperta, che non sarebbe stata possibile senza le pratiche femministe acquisite attraverso le relazioni, gli scambi, l’amicizia alla Libreria delle donne e nel mondo.

Le pratiche non si studiano ma, come ci dice l’etimologia stessa della parola, si imparano facendo. Esercizio, conoscenza: le pratiche sono “una modalità di azione – un insieme di modi di fare o reagire per accumulare esperienza” come scrive la compositrice Pauline Oliveros in una sua riflessione a proposito del Quantum Listening.[1] Il senso delle pratiche e la loro ricchezza per me sta in questo: stare nel processo che è già trasformazione. Il rapporto con le altre e gli altri, lo scambio di affetto e di idee, la condivisione di voci e esperienze, il creare forme di vita è già realtà, è già cultura, “è già politica”[2].

Viviamo in una società in cui il senso della ricerca e della produzione artistica e culturale, come anche del fare impresa, sta solo nel risultato, nel merito e nel riconoscimento, sanciti da criteri di classificazione che non possiamo più depennare come propri del mercato, perché quel mercato ora più che mai siamo noi. Noi che nell’economia dell’autosfruttamento poniamo noi stessi assieme al nostro corpo come esito, come prodotto. Quante volte al giorno sentiamo di dover far fruttare la nostra libertà di metterci al centro, di capitalizzare sulle nostre capacità e virtù, in nome di una retribuzione emotiva prima che economica? Ed è davvero quella, la libertà? Da donna mi interrogo spesso su quali siano le mie vere volontà, se le mie scelte non siano orchestrate dai fili sottili del neoliberismo e da un patriarcato latente, e come me lo stanno facendo molte altre, insieme, nel tentativo di scindere libertà controllata e volontà profonda di autodeterminazione. La strada per la consapevolezza è un cammino comune, che può farci trovare delle risposte sono nell’ascolto delle richieste che nascono dalla contraddizione tra la società corrente e i bisogni reali.

I fatti recenti che riguardano il mondo della scuola e l’aggressione degli studenti verso sé stessi, l’impossibilità di continuare a lavorare in ambienti di lavoro che chiedono sempre di più e il conseguente quiet quitting[3], la difficoltà nel mettersi in gioco nelle relazioni sono dimostrazioni evidenti che l’individualismo e la società della prestazione volgono al tramonto, eppure in questo importante passaggio non dobbiamo farci trarre in inganno dalla pigra abitudine di dare la colpa al sistema che più direttamente sembra responsabile di tali situazioni: l’università, il lavoro, il capitale, la monogamia[4]. Il problema si nasconde nei processi, quei processi che dovremmo rivalutare per dargli nuova linfa e nuove radici.

Ribaltare il senso degli spazi e delle relazioni è possibile solo attraverso lo scambio continuo tra individui, l’ascolto delle nuove nascenti necessità, la forza dello stare assieme per creare nuove strutture o agire su quelle che non funzionano più. Dico struttura perché credo sia importante dare forma all’esistenza, l’esistenza comune, fatta di progettualità, di propositi, di intenzioni. Non lasciamoci ingannare dalla tirannia dell’assenza di struttura, del nichilismo anarchico in cui alla fine vincerà il più forte – ogni azione collettiva richiede responsabilità per non cadere nella trappola del potere, quello delle élite informali, spesso maschili e mai garanzia di reale partecipazione. Costituiamo, organizziamo, poniamo le basi. E nel farlo riconosciamo l’autorità l’una dell’altra. Non a caso, l’organizzarsi del movimento delle donne può essere letto come una specifica pratica, che attraverso la creazione di agende e lotte comuni è ora più che mai un esempio brillante di resistenza e al contempo produzione.[5]

La voglia crescente delle giovani e dei giovani di associarsi, di formare collettivi, di fare gruppo mi dà un grande senso di speranza. Non solo per lo sbocciare di interessanti progetti che si nutrono dell’interrelazione e che confermano la mia credenza che solo nella sinergia si crea il nuovo, ma anche per il passaggio dalla critica della società al cambiamento della società, con posizioni e energie che vedono le donne scommettere sulla propria forza e le proprie capacità.

In una riunione di qualche mese fa Lia Cigarini in un attimo di grande fermento ha detto “Quando le parole sono logore bisogna trovarne di nuove”. Spero che questo sia quel momento, e che le nostre parole nuove tengano in considerazione che solo con la messa in gioco radicale di sé stesse si tende verso una politica viva che si fa concreta, e che supera l’inconsistenza del vivere con l’espressione adeguata alle proprie aspettative.


[1] Oliveros, Pauline, Oakland, 1999. In Oliveros, Pauline, Quantum Listening, Ignota Books, UK, 2022. Il Quantum Listening è un apparato teorico sviluppato da Oliveros a partire dalla pratica da lei ideata del Deep Listening, la quale unisce meditazione e esercizi d’ascolto, oltre ad includere pezzi da lei composti a partire dal 1970

[2] Scritti di Rivolta Femminile, È già politica, Milano, 1977

[3] Il fenomeno a cui è stato dato un nome nel 2022 inquadra la tendenza di lavoratori e lavoratrici a fare solo lo stretto necessario nel tentativo di mantenere un equilibrio tra lavoro e vita privata. Si legga in merito Zeric, Bojan, Che cos’è il quiet quitting, Wired 23/09/22: https://www.wired.it/article/quiet-quitting-lavoro/

[4] Al pari degli altri regimi citati, la monogamia sembra incarnare nel dibattito degli ultimi anni un ostacolo alla felicità e una forma di costrizione, mentre il poliamore cerca di farsi istituzione. Credo sia il momento di prendere le distanze dalle etichette e iniziare a ragionare partendo da noi stesse e noi stessi sulle cause profonde del fallimento delle relazioni. Potremmo forse scoprire che al posto di diritti e doveri nella coppia c’è necessità di mettersi in gioco fino in fondo.

[5] A questo proposito si invita a leggere Equi Pierazzini, Marta, A Legacy without a will. Feminist Organizing as a Transformative Practice, Phd Thesis Dissertation, IMT Institute for Advanced Studies, Lucca, 2019; Equi Pierazzini, Marta, Ogni pratica cosciente di vita collettiva. Leggere le pratiche organizzative femministe tra iscrizione e trasmissione. Convegno Cinquant’anni di Rivolta. I movimenti femministi dal lungo ’68 a oggi. Società Italiana delle Storiche in collaborazione con Casa Internazionale delle donne di Roma e Archivia, 13-14 e 19 novembre 2020

Esistono pratiche politiche che hanno contiguità, corrispondenze, assonanze con quelle femministe. Eppure, l’occhio impigrito dei media, per abitudine o per opportunismo, non le guarda, anzi, le esclude dal proprio campo visivo comportandosi come i “retroscenisti” che puntano a scoprire magagne, a prevedere ribaltoni nel modesto perimetro dei partiti in crisi e in questo modo dimenticano tutto ciò che significa politica legata alla vita.

Prendiamo quanto accaduto dopo il naufragio nella notte del 26 febbraio a venti chilometri da Crotone. Il 9 marzo il Consiglio dei ministri va in trasferta e si riunisce nel municipio di Cutro. Strade blindate, schieramento di polizia, qualche orsetto di peluche scagliato contro le auto blu. Intanto i corpi – sono 71, diventeranno 90 dopo un mese – degli afghani, siriani, iraniani, iracheni giacciono in fila nelle bare al Palamilone di Crotone. Il governo riparte senza fermarsi al Palamilone.  

L’11 marzo migliaia in corteo camminano silenziosamente verso il mare di Steccato di Cutro sollevando croci fatte con le assi consumate del caicco Summer Love che si è inabissato a pochi metri dalla riva. Ascoltano il racconto di un superstite afghano; piantano fiori sulla spiaggia.

Il sesso femminile conosce la spinta a partecipare al lutto con un gesto di condivisione, la pietas che diventa ricchezza umana e politica.

Nel bel film “Gli spiriti dell’isola” di Martin Mc Donagh che gira intorno alla nascita dei conflitti, viene portata ad esempio l’amicizia tra due uomini – Colm e Padraic – troncata brutalmente. È Colm a dire a Padraic, sodale di bevute al pub e di chiacchiere sulla cacca del pony: «Non voglio più parlare con te, mi annoio. Devo comporre una musica; voglio essere ricordato quando scomparirò».  L’altro non si dà pace, insiste, tampina. La cosa scivola nell’horror mostrando il mistero terribile della brutalità delle azioni umane; l’impulso vendicativo impossibile da contenere e la spirale della lotta fratricida dalla quale si salva solo la sorella di Padraic. La quale, per difendere il proprio desiderio – leggere libri – sceglie di esiliarsi. «Me ne vado. Siete tutti pazzi». Combatte così la violenza e la guerra, sottraendosi alla sua logica. Stesso gesto di sottrazione degli obiettori di coscienza, di quanti dalla Russia sono emigrati pur di non andare a combattere, delle iraniane che si ribellano a mani nude.

Ha osservato Svetlana Aleksievič: «Vorrei scrivere di chi non spara, di chi non riesce a sparare a un altro essere umano, di qualcuno a cui l’idea stessa della guerra provoca dolore» e noi siamo chiamate a dare voce a chi compie queste scelte.

D’altronde, il coraggio non è solo fisico e non si trova in un solo sesso.

Le ucraine fuggite in Europa, in Italia con bambini, nonne e maschi troppo vecchi per essere obbligati a combattere, in Italia possono essere accostate alle migranti nel tentativo di riconfigurare altrove i propri rapporti sociali.

Però l’Italia accoglie i perseguitati dall’invasione russa e non gli afghani, iracheni o siriani bombardati dai russi e dagli americani. “Aiutiamoli a casa loro” siriani, afghani, iracheni. 

Quanto all’esodo, alla diserzione rimanda a una pratica di resistenza in relazione con il primum vivere della politica femminista: immaginiamo altre pratiche, impariamo a riconoscerle dove già esistono. Di qui l’esigenza di immaginare altre pratiche, di saperle riconoscere giacché la contaminazione dell’ordine simbolico e del reale è un lavoro di cui ci siamo fatte carico noi donne. 

Quando una donna dice la sua verità, illumina un mondo. Questo ho pensato mentre Daniela Santoro raccontava le difficoltà umane ed esistenziali attraversate nel suo tormentato percorso di presa di coscienza politica. Con lei risuonava la voce di tante altre giovani donne che, con accanto l’ombra della depressione, passano gran parte del tempo sui social.

Nelle sue parole mi ha colpito soprattutto l’immagine di «tutte le porte chiuse in faccia» a chi cercava di tenderle la mano. Rendendosi consapevole di questo atteggiamento, ha trovato poi la spinta per decidere di «farsi tirare fuori dal baratro». Questo mi pare oggi il punto spartiacque: ritrovare la fiducia nelle relazioni in carne e ossa. Cosa evidentemente difficile per una generazione nata digitale.

Non è problema solo femminile. In questo momento di grave crisi delle forme della politica maschile il passaggio alla fiducia nelle relazioni in carne e ossa non riguarda solo le giovani donne come Daniela, ma tutti i giovani. Dopo le ultime elezioni regionali, Maurizio Ferrara, in un articolo comparso sul Corriere della sera dal titolo Giovani senza partito, esamina l’alto astensionismo dei giovani sostenendo, sulla base di inchieste approfondite, che non è sinonimo di alienazione. I giovani si interessano alla politica, ma «non considerano il voto come uno strumento efficace per far sentire la propria voce». Preferiscono impegnarsi in movimenti di protesta e il canale privilegiato è internet. Sono netizen, cittadini in rete che non vanno a votare e partecipano online ogni giorno (19/02/2023).

Senza per questo demonizzare i social, mi sembra forte il rischio di chiusura in una bolla virtuale se non si partecipa al mondo anche nella realtà. C’è chi lo ha già capito e lo vuole comunicare alle altre, come le Compromesse quando scrivono: «Raccontandoci sulla nostra pagina Instagram, vogliamo trasmettere alle nostre coetanee e alle ragazze più giovani, la voglia di unirsi, di trovare piacere infrangendo la bolla dell’individualismo, alla ricerca di una libertà che nasce dallo stare insieme, e non perde mai di vista la collettività» (AP n.1/2 2023).

Quello che posso offrire io a supporto di questo passaggio indispensabile sul piano esistenziale e politico è una narrazione che viene dalla mia storia e dice: la vita è fatta di incontri e poco più. Gli incontri sono più spesso casuali che cercati e alcuni determinano svolte esistenziali potenti. Anche la politica è fatta essenzialmente di incontri e di relazioni. Io mi sono sempre regolata dando un’iniziale fiducia, pensando che dall’incontro potesse venire qualcosa di buono. Non sempre accade, ma il più delle volte sì. Per puro caso, al convegno sull’affidamento, negli anni ’80, ero seduta vicino a Giannina Longobardi, come me insegnante, a Verona. Da lì è nata un’amicizia umana e politica che ha prodotto pensiero sulla scuola e il coraggio di agire in grande con il Movimento di autoriforma gentile. Per parte mia, non mi sono mai voluta mettere in analisi, pensando che la politica fosse il modo migliore per affrontare anche i buchi personali: i miei problemi non sono solo miei e condividerli apre a trasformazioni.

Siamo in un tempo di cambiamento e, per fortuna, l’individualismo imposto sembra al tramonto, come mostra una recente ricerca pubblicata sul Domani, nella rubrica Il Cannocchiale – l’economia e la società attraverso i dati. Enzo Risso dice: «Dopo quaranta anni di sbornia liberista, di spinta a disinteressarsi della società, degli altri, e di pensare solo a se stessi, ad arricchirsi senza badare alle conseguenze, la società sembra mutare la direzione del proprio timone». Dal suo osservatorio sui dati si vedono infatti percentuali altissime (tra 70% e 80%) di chi cerca nuove forme di scambio, di “legami caldi”, nuove forme di collaborazione e condivisione (19/03/2023).

Al contempo assistiamo all’estrema crisi delle forme della politica maschile e alla crescita di un bisogno sempre più diffuso di nuove forme di convivenza. Le invenzioni politiche delle donne, il partire da sé e le pratiche di relazione sarebbero le politiche più rispondenti a questo tempo, pure, quasi per paradosso, sono come offuscate.

In Via Dogana Tre abbiamo deciso di lavorare sulle pratiche politiche e sulla loro nominazione proprio per l’esigenza di gettare nuova luce su una concezione della politica fondata sulle pratiche. È infatti da nuove pratiche che possono venire nuove idee e nuove teorie. In questo momento non circola abbastanza, soprattutto tra le persone giovani, l’idea che le pratiche sono la strada maestra per fuoriuscire da un regime simbolico e anche dalle forme politiche maschili. Le teorie infatti, anche le più avanzate sono in qualche modo debitrici del sistema simbolico in cui nascono. Quando ne abbiamo discusso nella redazione ristretta di VD3, una giovane ha detto: «Solo ora con questa discussione ho capito cos’è una pratica».

Ci sono delle ragioni per cui queste invenzioni della politica femminista sono offuscate, per non dire oscurate in questo momento. L’improvvisa comparsa di due donne in ruoli politici apicali, la presidente del consiglio dei ministri e la segretaria del maggior partito dell’opposizione, cattura lo sguardo, anche femminile, verso la scena del potere. È forte il rischio di polarizzazione e tifoseria da schieramento. Inoltre i femminismi che attirano maggiormente le nuove generazioni adottano prevalentemente le forme politiche tradizionali della sinistra come scioperi, manifestazioni, obiettivi, e non veicolano le pratiche originali pensate dal femminismo.

Nella sua relazione iniziale Lia Cigarini ha messo in evidenza un passaggio importante quando ha parlato di «allargamento della politica». È una notizia molto buona se le associazioni dicono di stare facendo “una politica sociale” e non “un lavoro nel sociale”. Fino a poco tempo fa non succedeva. Segna un cambiamento nella concezione della politica. Ricordiamoci – e mi faceva impazzire – che fino a poco tempo fa dicevano della politica delle donne che era “prepolitica” o “impolitica”.

Può venire un grande impulso dall’allargamento di ciò che si intende per politica e noi possiamo contribuire a queste nominazioni, avvistarle là dove si producono nella società, metterle in risalto, farle circolare, far sempre più nominare come politica ciò che è politica. Se cambiano le parole, cambia anche la realtà.

In occasione della giornata internazionale della donna, l’iniziativa del collegio Marianum dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano è stata quella di visitare la Libreria delle donne e avere l’onore di conoscere Luisa Muraro, filosofa e attivista nonché ex collegiale del Marianum. Quest’ultimo motivo ha aumentato in me, una delle organizzatrici insieme ai membri della direzione, il desiderio di incontrarla.


L’iniziativa è stata fortemente voluta da tutta la comunità collegiale soprattutto dopo aver letto alcuni suoi libri, presenti nella libreria del collegio, e fatto ricerca sulla sua storia e sul suo pensiero. Tutte volevano partecipare e alla fine siamo andate in una “delegazione” di quaranta studentesse.

Io all’inizio ho posto alcune domande a Luisa Muraro, principalmente riguardanti la sua concezione di femminismo della differenza e della lotta che le donne devono fare verso la libertà. Ho anche domandato se le donne sono riuscite a rompere il “soffitto di cristallo” di cui tanto si parla.

Durante l’incontro Luisa Muraro ha spiegato a noi collegiali come la parità di genere non debba essere l’obiettivo ultimo, ma solamente il punto di partenza verso la vera realizzazione di sé stesse. La nostra libertà non può essere delimitata da paletti posti dagli uomini, che ci hanno prevaricate per anni, ma ci si deve ergere con forza oltre questi limiti per poi soverchiarli, in una costante ricerca e autodeterminazione del proprio sé, della propria libertà.

Ho capito che parità di genere e uguaglianza sono due concetti molto diversi, il primo presupporrebbe l’adeguarsi a un confine già scelto da qualcuno che non siamo noi e di cui dovremmo passivamente accontentarci, la seconda presuppone invece pari diritti, pari opportunità, non in quanto uomini e donne, ma in quanto esseri umani.

Sul sito di presentazione della Libreria delle donne c’è scritto: «È un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia». Questa frase mi ha colpito molto perché secondo me in poche parole spiega che la nostra libertà, che ci caratterizza e costituisce in quanto donne, non può avere come unità di misura e metro di giudizio i risultati degli uomini, dato che noi siamo diverse ed è giusto sottolinearlo.

Un altro punto saliente di cui si è dibattuto è stato quello delle famose “quote rosa”, le quali molto spesso sviliscono l’importanza e la bravura di una donna perché, agli occhi di molti, sembra che la donna ricopra quell’incarico lì non per le sue capacità ma semplicemente per la “quota rosa”.

Durante l’incontro sono nate riflessioni spontanee da parte di molte studentesse, una di queste è stata: «Molte donne preferiscono declinare il nome della propria professione al maschile invece che al femminile, come mai si prende questa scelta? È giusto parlarne o è qualcosa di superfluo?». Si è quindi aperto un dibattito sull’importanza del linguaggio. Il modo in cui parliamo rispecchia quel che pensiamo e in senso lato anche quel che siamo. In quest’ottica si è dibattuto sulla necessità di chiamare le cose col proprio nome e, soprattutto, il proprio genere; dunque, si è parlato dell’appellativo femminile e maschile circa i nomi di mestiere. È sicuramente più importante focalizzarsi su come una donna svolga il proprio lavoro rispetto a quale appellativo di genere usi per definirne il nome. Però, il volersi sottrarre all’appellativo femminile favorendo quello maschile veicola un messaggio di inferiorità e insicurezza, come se l’appellativo femminile togliesse prestigio alla carica istituzionale e professionale solo perché svolta da donne, le quali piuttosto che chiamarsi col proprio nome (“direttrice d’orchestra”, “ministra”) preferiscono l’appellativo maschile che non ne “snaturi” l’importanza, il potere.

È stato un incontro molto interessante, mi ha dato tanti spunti di riflessione, in particolar modo sul concetto di parità di genere che io fino ad ora avevo sempre ritenuto l’atteso traguardo e mai come l’inizio di qualcosa di più grande. Mi è rimasta tanta voglia di sapere cos’è realmente il femminismo e cosa è riuscito a ottenere in questi anni di lotta, ma soprattutto di cercare di capire cosa io voglio ottenere e come, grazie alla partecipazione della nuova generazione di donne, riuscirci.

Note a margine dell’incontro di VD3 del 12 marzo 2023

di Maria Castiglioni


A proposito delle nostre pratiche Lia Cigarini ha parlato di trovare i “nessi” tra la politica rappresentativa, istituzionale e quella non professionale (la nostra, quella dei movimenti e dell’associazionismo) e anche Francesca Pasini ha ripreso questo tema dell’uscire dal “tra di noi”. Annarosa Buttarelli ha posto la questione delle “tre scelte”: Antigone che combatte il potere tirannico, Ismene, la sorella, che “non fa niente”, la terza quella di “andare via”, dai partiti, dai dibattiti televisivi, luoghi dove nessuna trasformazione è possibile.

Alla figura di Antigone è stata dedicata molta attenzione da parte di alcune filosofe, molto meno a quella di Ismene. Nel suo La tumba de Antígona Zambrano ci restituisce una Antigone che, dialogando in sogno con la sorella, ricorda che lei era quella che sempre «usciva dalle righe, le calpestava, andando e venendo sulla terra proibita». Per Irigaray (nel saggio contenuto in Essere due, da cui ho tratto il mio titolo) Antigone incarna «la singolarità concreta e i suoi legami con una collettività concreta», contrapposta a Creonte che rappresenta «il passaggio dalla singolarità ad un universale astratto» su cui si fonda il suo potere. Antigone, diremmo noi, “parte da sé”, Creonte dalla coscienza disincarnata. Simone Weil nel suo breve saggio Il racconto di Antigone e Elettra, a partire dalle omonime tragedie di Sofocle, mette a fuoco il dialogo tra Antigone e Ismene. La scelta di Antigone è quella radicale, di opposizione a un potere tirannico, a cui si contrappone quella della sorella Ismene che sceglie di obbedire alle leggi, benché si offra, per amore, di seguire la sorella nella sua terribile sorte. Antigone respinge la sua offerta: «Tu hai scelto di vivere, io di morire» le dice, e aggiunge, quasi un viatico «Fatti coraggio, vivi».

È, quello assegnato da Antigone a Ismene, un fare o un “non fare niente”?

È abbastanza scontato attribuire ad Antigone tutta la parte dell’azione e a Ismene quella dell’inazione, ad Antigone quella del coraggio, a Ismene quella della viltà: una lettura polarizzata che non ci porta molto lontano. Mentre la posizione di Ismene, il suo primum vivere, può essere un invito a pensare altre posture, a trovare altri sguardi, altre prospettive quando ci si trovi “davanti al re”.

Su questo tema ci stiamo interrogando anche nel nostro piccolo gruppo di autocoscienza, così come nell’associazione de “Le Giardiniere” di Milano che da anni lotta contro la speculazione immobiliare su una vasta area militare dismessa.

Devo registrare però che su questo specifico scenario, quello del confronto/conflitto diretto con il potere, specie nella sua versione forte, l’elaborazione femminista segna il passo ed esempi di pratiche concrete (fatta eccezione per alcune, preziose, all’interno della realtà delle Città Vicine) sono davvero rare. Perché un conto è chiedere qualcosa, altro è voler togliere. Uno spazio per svolgere attività di vario genere (flashmob, manifestazioni, eventi culturali etc.) è solitamente concesso, il contendere al potere lo stesso spazio, lo stesso oggetto del desiderio, è invece fonte di conflitto. Se su quell’area noi ci vogliamo fare un parco e gli investitori (anche pubblici) una speculazione immobiliare, è evidente che si entra in rotta di collisione.

Quale allora la pratica, le pratiche?

Abbiamo nella nostra storia femminista messo a punto pratiche fondamentali quali l’autocoscienza, l’affidamento, il partire da sé, la pratica di relazioni. Come metterle in gioco quando lo scenario è il confronto diretto col potere con cui è in atto una relazione conflittuale?

È evidente che non possiamo giocare sulla forza: occorrono allora altri movimenti, altre azioni, altre strategie che evitino il braccio di ferro, la polarizzazione (in cui, come Antigone, o anche Alfredo Cospito, si può perdere la vita).

Come Giardiniere abbiamo messo in campo innanzitutto una considerazione: il potere ha dei buchi, non va sopravvalutato, non è un monolite. Quindi va “accerchiato”, vanno aperte relazioni a 360°, senza alcun preconcetto, oltre gli schieramenti tradizionali e le generalizzazioni, senza dare nulla per scontato o già tentato (ciò che qualche tempo prima sembrava blindato, si può sempre aprire), e senza polemiche, trovando sempre, come ammoniva Ildegarda, la «parola netta, affilata come spada». È un lavoro continuo di dilatazione e di esplorazione (di reti, di relazioni, di prospettive), ma è anche un lavoro che implica un “di più di pensiero” quando dall’altra parte c’è una donna.

Situazione sempre più frequente, nelle amministrazioni locali, come in quelle nazionali o europee.

Noi l’abbiamo sperimentato varie volte, e anche adesso, con l’amministrazione comunale dove l’assessore all’Ambiente è una donna.

Come giocare la politica delle relazioni quando prevale nella donna (e deve prevalere, altrimenti non potrebbe essere in quel posto) il senso di appartenenza al sistema di potere? Come può aiutare uno sguardo che, al di là della contrapposizione, possa comprendere punti di vista radicalmente opposti? Come può un potere “ritirarsi” quando il suo mandato è quello di “occupare”, sempre e comunque?

Occorre trovare un “nome” afferma Vita Cosentino, che non cancelli il “nesso”, occorre una “parola pubblica, dice Silvia Motta, che crei un diverso rapporto tra politica istituzionale e politica non professionale. Occorre tutto ciò, aggiungo io, ma occorre anche moltiplicare le nostre pratiche politiche su questi scenari conflittuali che andranno sempre più intensificandosi, sia per l’emergenza sociale che per quella ambientale.

Da italianieuropei.it

“Donne senza uomini”, dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat, vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di Stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, «fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me». Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: «Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno».

Separarsi dalla vita precedente e dalla pretesa maschile di colonizzarla per cominciare con altre donne un’altra vita è il gesto inaugurale della presa di coscienza femminista, quello che Carla Lonzi definiva “la seconda nascita”. Si tratta, più precisamente, di prendere atto che è la società patriarcale a separare donne e uomini secondo ruoli e gerarchie di genere prestabiliti, e di praticare questa separazione in proprio, come separazione simbolica mentale dal desiderio, dallo sguardo e dai criteri maschili, rovesciandola da matrice di oppressione in fonte di libertà.

Shirin Neshat è ai miei occhi l’artista che meglio ha saputo esprimere il senso di questo atto simbolico raffigurando e reinterpretando nelle sue opere la più separatista delle società, quella Repubblica islamica che si è imposta in Iran con la rivoluzione khomeinista e che dal 1979 costringe le donne a una sorta di regime di apartheid giustificato arbitrariamente con la legge coranica. Nelle sue serie fotografiche degli anni Novanta (quando le fu concesso di tornare temporaneamente dagli Stati Uniti, dove vive, nel suo paese) la separazione obbligata fra i due sessi, catturata plasticamente nelle scene di vita quotidiana in cui donne e uomini si muovono senza mai toccarsi lungo percorsi rigidamente distinti, si trasforma nelle donne in consapevolezza di sé. Da gabbia imposta, il velo nero che le avvolge diventa schermatura dallo sguardo maschile e dalla norma sociale. E da oggetto sequestrato, il corpo femminile diventa soggetto di parola (i versi in parsi di Forough Farrokhzad incisi sulle mani e sui piedi), arma nonviolenta di libertà (il fucile impugnato fra gli occhi, come un impegno alla lotta nello sguardo sul presente e sul futuro), corpo politico.

La politicizzazione del corpo femminile, coreografata dalle pratiche performative che abbiamo visto nelle cronache di questi mesi (il taglio dei capelli, i falò accesi per bruciare i veli, i baci e i balli in pubblico, gli assorbenti igienici usati per accecare le telecamere di sorveglianza, le denunce per immagini dei corpi femminili devastati dalle pallottole di gomma della polizia), è l’elemento distintivo più dirompente del movimento di protesta contro il regime che ormai da mesi non cessa di scuotere l’Iran, scatenato dall’arresto e dalla morte di Mahsa Amini, giovane curda rea di avere indossato il velo lasciandone fuoriuscire una ciocca di capelli. Ed è anche l’elemento che colloca la rivolta delle iraniane nella genealogia del femminismo radicale novecentesco, e al contempo ne fa l’avanguardia delle rivolte anti-patriarcali che a tutte le latitudini scuotono oggi il mondo globale. Non si tratta solo di contestare l’uso obbligatorio del velo rivendicando il diritto di disporre liberamente del proprio corpo. Nella nascita della Repubblica islamica l’obbligo del velo, proclamato il 1° febbraio del 1979 e subito contestato in piazza dalle iraniane l’8 marzo successivo, segnava l’istituzione di un nuovo patto socio-sessuale, sostitutivo di quello instaurato da Reza Shah nel 1936 con lo svelamento forzato. Se quest’ultimo era stato segno del tentativo di secolarizzazione, modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran, il velo “rivoluzionario” khomeinista simbolizzava la svolta identitaria islamista, nazionalista e antioccidentale, mettendo la sessualità femminile sotto controllo ma esaltando al tempo stesso il ruolo della donna come madre della nazione, mentre il maschile veniva a sua volta ricostruito su base eroica e sacrificale. Far saltare l’obbligo del velo significa dunque far saltare il patto socio-sessuale su cui si regge l’intera impalcatura antropologico-politica del regime iraniano: restituire al corpo e alla soggettività femminile significati, desideri e poteri sequestrati dall’autorità religiosa e politica e perciò stesso restituire alla società iraniana la libertà di tutti, perché dove non c’è libertà femminile non c’è libertà di nessuno, e dove le vite femminili sono imprigionate le società muoiono. “Donna, vita, libertà” non è uno slogan “di genere”, è uno slogan universale.

Stavolta dunque non è in gioco la partecipazione femminile – che pure in passato è stata consistente e importante – alla rivendicazione dei diritti politici, come nella Rivoluzione verde del 2009 innescata dal sospetto di brogli elettorali nell’elezione di Ahmadinejad, o alla rivendicazione di diritti economici e sociali, come nel ciclo di protesta del 2017-19 innescato dagli effetti dell’inflazione su lavoratori e precari. È in gioco un nocciolo più profondo e strutturale, la soglia fra pubblico e privato e fra personale e politico su cui si collocano il corpo, la sessualità e le relazioni fra i sessi. È sempre su quella soglia che scatta, quando scatta, la potenza sovversiva della libertà femminile, che viene prima dei diritti e non chiede a nessuno il diritto di manifestarsi. Ed è sempre su quella soglia che si decide la tenuta o il cedimento della saldatura fra ordine patriarcale e regime politico, che è precisamente quella che oggi vacilla nella Repubblica islamica.

La radicalità del problema spiega dunque la radicalizzazione di un movimento che punta dritto al cuore del regime, la sua differenza dalle ondate di protesta dei decenni scorsi, la sua attrattiva sulle giovani generazioni maschili, anch’esse evidentemente insofferenti a un modello di virilità che non le rappresenta più. Non basta però a spiegare il dato davvero inedito della persistente e riconosciuta egemonia femminile, rigorosamente priva di leadership personali, su una mobilitazione che si è andata allargando di settimana in settimana ad altre istanze, delle aree urbane e rurali, delle minoranze etniche, del mondo del lavoro e di quello della cultura, della scuola e dell’università. Si è fatto ricorso da più parti giustamente, nell’interpretare questo dato, all’intersezionalità che caratterizza il femminismo transnazionale di ultima generazione, e che consiste nella capacità di intrecciare e coalizzare istanze e soggettività relative al genere, alla razza e al sesso, riuscendo così nel nostro caso a catalizzare il desiderio generale di cambiamento maturato nella complessa e stratificata società iraniana. Ma non è da escludere che sulla posizione egemonica femminile incidano anche altri fattori, come la determinazione a interrompere una volta per tutte la sequenza maschile “speranza, tradimento, terrore” (sono ancora parole tratte dal film di Shirin Neshat) prendendo le redini degli eventi. E ancora, un dato che la stessa Neshat portava alla nostra attenzione in una intervista del 2000, ammonendoci, come è tornata a fare di recente, a non giudicare con i criteri occidentali i rapporti uomo-donna nel suo paese, contestando l’immagine delle iraniane come mere vittime passive dell’oppressione islamica, e valorizzandone invece la combinazione fra autonomia simbolica e rifiuto della competizione diretta con gli uomini: una combinazione per l’appunto egemonica, dalla quale avremmo qualcosa da imparare anche qui.

È impossibile, per chi come me non ha conoscenza diretta di una realtà complessa come quella iraniana, che per tanti versi resta indecifrabile dall’esterno, prevedere gli esiti di quanto sta accadendo in quel paese. In compenso, quanto sta accadendo in quel paese ci dice qualcosa di noi spettatrici occidentali, e qualcos’altro dello stato di salute del patriarcato in tutto il mondo.

Comincio da noi, anzi da me, che giusto poco fa, citando l’invito di Shirin Neshat a non applicare i criteri occidentali ai rapporti fra i sessi nel mondo islamico, mi sono spericolatamente esposta all’accusa di relativismo culturale che è piombata sul femminismo radicale italiano da certa stampa e certa televisione non appena in Iran è scoppiata la rivolta delle donne, insieme con l’accusa congiunta di non solidarizzare abbastanza con loro. Entrambe le imputazioni fanno parte di un teorema fondato sul nulla, che implica l’assimilazione del femminismo a una non meglio identificata sinistra a sua volta accusata di antioccidentalismo, e che si è consolidato da quando nel dibattito pubblico italiano è diventata prassi corrente richiedere tesserini di allineamento allo “scontro di civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo. Dovrei dunque averci fatto l’abitudine; eppure nel caso della rivolta delle donne iraniane l’uso contundente di questo teorema mi ha lasciata particolarmente esterrefatta.

Intanto perché contrasta patentemente con una relazione a distanza che invece con le iraniane, o almeno con ciò che riusciamo a saperne, è stata sempre viva, precisamente perché la loro vicenda tocca nodi cruciali della nostra pratica, a cominciare da quella del separatismo da cui non a caso sono partita nello scrivere queste pagine. Vale ricordare che nel lontano 1979 fu proprio la comunità femminista, all’epoca nel pieno della separazione dalla politica maschile, a dubitare dell’entusiasmo con cui tante iraniane (nonché parecchie italiane, compresa una mia carissima amica) si unirono ai militanti khomeinisti per partecipare a quella che persino parti della sinistra italiana interpretarono illusoriamente come una “rivoluzione contro il Capitale” (così titolò all’epoca una memorabile e controversa pagina del settimanale del PCI “Rinascita”), e che invece proprio sulla questione del rapporto fra i sessi avrebbe presto rivelato la sua curvatura reazionaria.

L’accusa di relativismo culturale prende inoltre per connivenza con il nemico quella che è invece la critica autonoma del femminismo radicale all’universalismo occidentale e alle sue connivenze con il patriarcato. L’annosa disputa sul velo, sulla quale quell’accusa largamente si basa, ne è un esempio emblematico. Essa non divide affatto chi vede nel velo uno strumento di oppressione e chi no, bensì chi ritiene giusto sostituire l’obbligo di velarsi con l’obbligo di non velarsi (come fa ad esempio la legge francese del 2004 sull’uso dei simboli religiosi nello spazio pubblico) e chi invece lo ritiene sbagliato, in primo luogo perché l’obbligo di non velarsi risponde all’ingiunzione occidentale all’esposizione del corpo femminile che non è meno patriarcale dell’ingiunzione islamica al suo nascondimento, in secondo luogo perché antepone arbitrariamente il valore occidentale della laicità al valore – questo sì universale – della libertà delle donne di decidere del proprio corpo, ivi compresa la decisione di rifiutare o di risignificare l’uso del velo.

Al fondo di queste dispute c’è un non detto, che riguarda la possibilità o meno di immaginare forme e percorsi di libertà femminile non ricalcate necessariamente sullo schema occidentale, carico peraltro di promesse mancate, dell’emancipazione e della parità di genere: una “libertà senza emancipazione”, come titolava anni fa la rivista della Libreria delle donne di Milano “Via Dogana”. Il caso dell’Iran suggerisce che è possibile, e non gli rende merito ricondurlo, come ha fatto di default tutta l’informazione italiana mainstream, all’ennesima tappa di una marcia trionfale già scritta e prescritta delle donne iraniane verso la conquista dei diritti occidentali, che peraltro oggi in tutto l’Occidente traballano sotto i colpi di destre reazionarie e misogine.

Si può risalire da qui a un tema più generale, l’ultimo. Tutto il mondo oggi è percorso, a Ovest e a Est, da una profonda crisi del patriarcato, e più precisamente della già menzionata saldatura fra patriarcato e regimi politici, ovvero fra contratto sociale e contratto sessuale. Gli storici del futuro vedranno meglio di noi contemporanei quanto questa crisi abbia a che fare con una crisi della politica da cui tutto il mondo non riesce a tirarsi fuori, come dimostra il continuo, violento e vano ricorso alla guerra da parte dei potenti della Terra. Quello che vediamo noi è un flusso inarrestabile di lotte antipatriarcali, che spuntano come una bolla irriducibile per ogni dove, e con maggiore forza laddove più aspri sono i tentativi di ripristinare la legge del padre con la repressione e la violenza. Ho parlato fin qui del caso iraniano, ma non brilla di meno la lotta delle donne afghane contro la prevedibile reintroduzione della segregazione sessuale nel loro paese da parte dei talebani.

Diversissimi nelle loro rispettive storie, l’Iran e l’Afghanistan hanno però in comune non soltanto la morsa di due regimi fondamentalisti, ma anche l’esperienza, sia pure distante nel tempo, di due tentativi di occidentalizzazione falliti, che non sono riusciti a sradicare le strutture profonde del dominio maschile e che hanno lasciato nella memoria femminile una traccia indelebile di scetticismo nei confronti delle promesse mancate occidentali. Si può perciò continuare a usare strumentalmente le lotte femminili per alimentare la narrativa mainstream sul destino presunto di occidentalizzazione e democratizzazione del mondo che ha accompagnato l’epoca della globalizzazione trionfante, collezionando peraltro un numero ormai più che sufficiente di smentite. Oppure si può, a mio avviso si deve, vedere nelle lotte femminili il germe maturo non di uno scontro ma di un passaggio di civiltà, e di un’apertura creativa del mondo e della politica a nuove figurazioni che oggi riusciamo solo a intravedere.

Fa bene la Libreria delle donne a riprendere la riflessione intorno alle pratiche politiche, perché senza dubbio vanno ripensate alla luce delle trasformazioni in corso. Sono convinta che le pratiche radicali della politica delle donne siano l’unica vera chance sul tappeto del travaglio contemporaneo, in cui la parola “radicale” è diventata quasi una brutta parola da quando è utilizzata per indicare tutt’altro.

Per fortuna, spesso il cinema è un passo avanti: nella sale si può vedere un film, Women Talking di Sarah Polley, già molto amato e commentato dalle donne e da noi femministe. Ma tra i molti meriti, mi ha colpito la nettezza con cui il film ricapitola mirabilmente tre posizioni che le donne possono assumere in un mondo dove si rischia continuamente, anche oggi, la prevaricazione o la violenza maschile: 1) si può rimanere dove si è senza fare nulla; 2) si può rimanere dove si è, lottando fortemente; 3) si può andare via insieme alle altre. Le donne del film parlano, riflettono, discutono, litigano a lungo, fanno confliggere le tre posizioni tra loro, ma alla fine tutte quante scelgono di andare via insieme e di portare con sé via tutti e tutte, figli, figlie, parenti e amiche. Il coraggio e la forza che richiede questa posizione sono raffigurati molto bene in tutta la vicissitudine del racconto. Perché le donne del film scelgono di andare via? Perché hanno verificato che nessun affetto, nessuna cura, nessuna parola, nulla di nulla convincono i vari uomini a farla finita con la violenza, le botte, gli stupri, la pedofilia. Detto in altri termini: quando il contesto di vita e di lavoro si presenta refrattario a ogni ragione femminile, non vale la pena farsi mortificare, sperare in una conversione, perdere preziose energie, spendere inutilmente parole d’amore e di saggezza. Si deve andare via insieme alle altre che vanno via, per custodire vita, speranza, fiducia, immaginazione, parole di verità.

Mi pare un chiaro suggerimento per l’oggi, una pratica che è necessario togliere dalla eventuale polvere della storia del femminismo, se è vero, come diceva Carla Lonzi, che il femminismo è un’eterna istanza delle donne. Certamente la prima posizione, quella delle donne che accettano l’impotenza della ribellione che implode dentro di loro, quando accettano l’omologazione, non è più quella della maggior parte delle donne nel mondo, come è stato dimostrato dalla rivoluzione femminista. La seconda pratica, rimanere nel contesto lottando fortemente, la stanno perseguendo, ad esempio, le iraniane, le afghane, le curde che mettono la loro vita a disposizione della lotta anche estrema. Ma i maschi, in generale, vogliono ancora che sia versato il sangue di chi li ha messi al mondo, o vogliono che le loro istituzioni non siano modificate di un grammo, pena l’espulsione, ancora oggi. Perciò, dopo tutti i tentativi amorosamente cercati, nei secoli e negli ultimi decenni, perché avvenisse un dialogo trasformativo tra donne e uomini, sembra che la sensibilità e la capacità profetica femminile suggeriscano di riprendere la pratica di andare via. Come illustra politicamente il film, non si tratta di andare via da sole, individualmente, si tratta di un esodo da realizzare adeguato ai tempi che corrono, letteralmente corrono. Un andare via insieme alle altre, per lasciare soli gli uomini di cattiva volontà e quelli che provano piacere nel fare svariati tipi di violenza. Un esodo della mente, prima di tutto, se non di mente e corpo, come invece hanno fatto la Sturgeon e le altre auto-dimissionate al culmine della carriera. Un esodo capace di contenere propositi, vita, responsabilità, pratiche politiche, scienza e sapienza inascoltate dai seguaci del dominio. Le pratiche dell’andare via a cui alludo sono anche molto semplici ma, nei contesti politicamente corretti, anche molto coraggiose: per esempio, quella di una ex assessora del Comune di Roma che ha sempre rifiutato di sedere a tavoli dove sarebbe stata l’unica donna; o quella di rifiutarsi di partecipare a dibattiti dove le posizioni vengono azzerate da contrapposizioni inscalfibili, con la scusa del pluralismo dell’opinione; o quella di rifiutarsi di adottare la formula sciagurata del genitore1 e del genitore2, nata per far fuori le madri, ancora una volta.

C’è, ancora una volta nella storia, la necessità di far valere la differenza e l’intelligenza che stanno consentendo alle donne di tutto il mondo di partecipare pienamente a una rivoluzione riuscita e in corso di sviluppo ulteriore, una rivoluzione che ha la potenza di poter convertire le fragili sorti del mondo in cui viviamo.

Sono da più giorni seduta davanti a questo schermo, con la difficoltà di trovare le parole giuste, che un periodo convulso come questo – tra novità lavorative e relazionali – porta con sé, cercando di ritagliarmi un po’ di tempo per sedermi in silenzio e riflettere. Penso spesso all’ultima redazione aperta di Via Dogana del 4 dicembre, sono passati più di tre mesi. Penso come questo tavolo, questo spazio, questi incontri siano in sé l’essenza del piacere femminile. Un piacere che mai nella mia vita avevo incontrato prima di questo fecondo ciclo di incontri del 2022, in questa sorprendente collaborazione tra noi Compromesse e la Redazione di via Dogana. Ogni incontro è stato per me un tassello nella scalata verso la riscoperta dell’esperienza dell’essere donna, sorretta – in questo spigoloso cammino – dalle parole di tutte le donne che mi hanno circondato in questo anno. Annie Marino, proprio il 4 dicembre, parlò del piacere come «toccarsi con la parola» e questo sintagma mi frulla nella testa da giorni, in un momento in cui parole ne trovo molto poche.

Un avviso: quanto state per ascoltare sarà un piccolo momento di auto-analisi pubblica, forse un po’ autoreferenziale e me ne scuso, ma penso che il modo migliore per epigrafare i miei pensieri sia partire tirando le somme dell’anno passato, il 2022. Anzi, inizierei da qualche attimo prima (non vogliatemene): il 2017, più precisamente settembre 2017.

A diciotto anni lascio il nido materno, fuggo, scappo lontana da sicurezze e insicurezze, abbandono l’aria salmastra di una cittadina sull’orlo del declino affacciata sul Mar Ionio. Sulle mie spalle un peso più grande di quanto mai sia riuscita a sopportare; ciononostante si tira avanti, si cercano nuove amicizie, nuove compagnie, è difficile reinventarsi all’improvviso, soprattutto per me: ho sempre fatto fatica a vivere le persone. Passano i mesi, in qualche modo riesco a ritagliarmi i miei spazi tra casa nuova, aule nuove, vita nuova. Spesso sono sola, mi va bene così: accetto e accolgo il silenzio. Gli esami vanno bene, tutti tranne uno. Non ho mai accettato di sbagliare, eppure succede. Capisco di essere umana per la prima volta nella mia vita, annaspo tra la delusione e la tristezza, a testa bassa tiro avanti, in silenzio.

Sto male, sempre peggio, all’università non ci vado manco più. Rispolvero qualche arma del passato da adolescente turbolenta, poi decido di andare in terapia. In terapia però parlo di altro, come ho già detto faccio fatica con le persone: non importa che questa sia pagata per ascoltarmi o meno. Passano gli anni, piano piano le cose migliorano, riprendo in mano gli esami, studio tanto, tantissimo, trovo degli amici sinceri: siamo sempre insieme – lezioni, studio, balotte – compiamo atti di sano vandalismo, Bologna finalmente mi fa sentire a casa. Sono passati quasi tre anni, è gennaio del 2020.

Quello che non ho detto è che accanto a me si muove una figura circospetta e silenziosa, l’onnipresente del terzo millennio: la depressione.

Improvvisamente compio ventun anni. È il 21 febbraio 2020, sono a Sofia, sull’autobus verso la galleria nazionale leggo un messaggio: è arrivato coluichenondeveesserenominato. Al rientro dalla mini-vacanza, il 24 febbraio, do una piccola festa con quegli amici sinceri di cui sopra: sarà l’ultima volta in cui saremo tutti insieme.

La città si svuota, resto sola, di nuovo. Sopporto, con difficoltà, e provo ad andare avanti. Mi vesto delle migliori intenzioni, ma c’è chi ha piani diversi per me. Ritornano i vecchi vizi e le vecchie abitudini, va sempre peggio. Bologna la mal sopporto, i suoi colori caldi e l’umidità del Reno che la attraversa mi raffreddano le ossa, raffreddano ogni cosa intorno a me. Fronteggio nuovamente la mia essenza di essere umano, lo specchio mi urta, non mi ci rifletto più, mi taglio i capelli da sola, formatto il computer. Non esisto più, va bene così. Un’ombra si aggira per casa mia e mette in disordine ogni cosa, svuota le dispense, svuota le bottiglie, imbratta il bagno, taglia il mondo fuori: scoprirò con il senno di poi quell’ombra essere me. Quando l’ombra non c’è, riesco a dare qualche esame: me ne restano due. Chiudo baracca e burattini, è aprile 2021: mi trasferisco a Milano. Resta l’umidità, via le case dai colori caldi: piano piano qualcosa si riaccende, nella metropoli accetto la mia umanità. Ricordo me stessa bambina con mia sorella che mi tiene la mano in piazza Duomo, quanto mi piaceva venirla a trovare. Adesso ci sono io accanto a quella bambina e le stringo forte la mano, mentre un sorriso spezzato mi si dipinge in volto: scusami. Mi rendo conto che in fondo le devo finalmente un po’ di serenità.

Inizio a guardarmi intorno e mi accorgo di tutte le porte che ho chiuso in faccia a chi cercava di tendermi la mano: sono ancora lì ad aspettarmi, decido di farmi tirare fuori dal baratro una volta per tutte.

Vorrei dire che la serenità che adesso mi pervade è solo in qualche modo dipesa da me, ma sarebbe disonesto. Il punto è che ho passato una gran parte della mia vita a isolarmi, nella convinzione di essere circondata da persone. La mia esistenza reale cozzava con l’esistenza virtuale, dove i miei problemi, i miei pensieri non esistevano. Anche per questo forse ho iniziato a sentirmi parte di qualcosa solo quando sono arrivata qui a Milano e mi sono ricongiunta con pezzi di me, con le briciole che Pollicino aveva sparso per ritrovare la strada. Così io ho ritrovato la mia famiglia, le amiche di sempre e le sorelle che in quei mesi precedenti mi avevano aperto il loro cuore virtuale: Le Compromesse, da ennesima mia identità virtuale, erano qualcosa di realmente esistente, in carne e ossa, erano corporee e umane tanto quanto me. Quanto mi ha sollevata questo pensiero. Non solo, quanto mi ha stimolata questo pensiero. Sentire il loro calore accanto al mio, sedute a Parco Sempione, mi ha fatto capire che avevamo in mano qualcosa di speciale, che io ero parte di quella cosa speciale e soprattutto che niente e nessuno – nemmeno le mie tendenze autosabotatrici – avrebbe mai potuto ostacolare i nostri progetti. Finalmente ero parte di qualcosa di importante, ma soprattutto avevo preso coscienza di quanto quella “cosa importante” fosse reale: loro erano lì con me, non solo dietro una webcam come nei mesi precedenti in cui la nebbia perenne obnubilava la mia ragione.

Quello che era nato per gioco, in cui io mi ero trovata un po’ per caso in un momento in cui passavo più tempo ad annullarmi in un sorriso dietro uno schermo colorato che a fronteggiare la grigia realtà che mi rendeva vuota, era reale. Niente più scherzi, niente più silenzi. Come una sferzata di aria compressa, la corporeità del nostro progetto mi ha violentemente colpito in faccia. È stata una doccia fredda realizzare che oltre lo schermo vi erano delle persone, delle donne, con le loro sofferenze tanto quanto me. Tutto ha cambiato colore, l’arcobaleno si è aperto davanti ai miei occhi fino a quel momento daltonici. Ed è subito estate.

E poi, tra le luci fioche dell’inverno, si apre uno sprazzo di primavera. Finiscono gli esami, sparisce quel senso di incompiuto. Entrano nella mia vita altre donne. Alcune sono sedute accanto a me a questo tavolo, altre qui davanti ai miei occhi, altre accanto a me con il pensiero. Quel progetto che era nato per gioco diventa ancora più importante, altre porte si sono aperte, altre mani tese e per la prima volta non ho avuto paura di stringerle. La prima volta che mi sono seduta a questo tavolo era il 6 marzo dello scorso anno: una nuova speranza.

Tra le redazioni ristrette e aperte ho imparato altre donne, reali, corporee come me: la solitudine è una zavorra del passato che ha soppresso la mia voce e i miei pensieri a lungo. E ora sono felice, felice delle mie tristezze e di quei mali che a volte ancora mi stringono lo stomaco, perché mi rendono reale, felice di aver imparato a dare luce alle persone, alle cose che contano, perché se non l’avessi fatto non sarei qui, non sarei ora.

Oggi sono io, e lo sono anche per loro e per tutte voi.Sono io grazie a quelle voci di donne, quegli abbracci di donne, quei respiri di donne e soprattutto parole di donne che si sono avvicendati intorno a me nell’ultimo anno. Voci, abbracci, respiri, parole che mi hanno insegnato la comunione, che mi hanno strappata dalla solitudine, che mi hanno insegnato a essere viva tanto quanto loro erano vive.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche, 12 marzo 2023

La politica è in crisi? No. Io dico che la politica sta cambiando. I partiti nella forma conosciuta non esistono più, tuttavia non si può dire che l’Italia è un paese in cui non si fa più politica.

Vincenzo Vita sul manifesto del 2 marzo 2023 scrive: «Lo scenario desolante che ereditiamo ha devastato le coscienze e ha lasciato soli i movimenti e l’associazionismo pure ricchissimi e diffusi».

Io aggiungo soltanto che questi movimenti sono la politica. Si tratta di moltissime realtà di associazionismo, volontariato e di iniziative di vari gruppi per risolvere singoli problemi.

Non solo, c’è il movimento delle donne, che si è basato sulla non professionalità della politica e dell’organizzazione, che ha una grande presenza di luoghi aperti anche sulla strada come librerie, case delle donne, libere università, centri contro il maltrattamento alle donne ecc.

Per fare un esempio di associazionismo attivo nella politica e nella cultura c’è l’ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana), con 800mila iscritti, che apre le sue sedi alle riunioni degli studenti e di chi ne ha bisogno e non le trova, e da parte sua fa moltissime iniziative culturali e politiche. Luciana Castellina è stata per dieci anni presidente di questa associazione.

Nella trentesima giornata internazionale del volontariato, che si è celebrata il 6 dicembre 2022, il presidente Mattarella ha espresso alle volontarie e ai volontari d’Italia – un popolo di almeno 5 milioni di persone secondo l’ISTAT – «il profondo senso di gratitudine della Repubblica». Infatti è nelle migliaia di associazioni impegnate ovunque in attività necessarie che il volontariato esprime quotidianamente la sua potenza di intervento, per esempio moltissime e moltissimi giovani sono andati a Ischia a spalare dopo la frana del novembre 2022. Infine ci sono i circoli cooperativi, che è la forma giuridica adottata anche dalla Libreria delle donne di Milano.

Di recente l’associazione NEXT – Nuova economia per tutti ha indetto un forum a Roma in cui si è discusso di dare «nuove parole e scelte» di cui la politica nazionale ha un estremo bisogno. Il mondo del terzo settore, puntualizza Valeria Negrini (portavoce del Forum del Terzo Settore), non si occupa solo di sociale, ma di politica, di rigenerazione urbana, di agricoltura sociale ed è, con il mondo artistico e culturale, il più grande patrimonio che questo paese ha. Possiamo quindi parlare di una trasformazione della politica, non di crisi totale, di un allargamento della politica da parte di quelli che la fanno in carne ed ossa.

Anche secondo il sociologo Aldo Bonomi la politica nazionale ha bisogno di nuove parole, che la società civile ha già iniziato a sperimentare e a vivere sul campo (il manifesto, 29/9/2022). Ma, sostiene Bonomi, «questo pullulare di fermenti sociali e politici restano chiusi e autoreferenziali e devono invece fare carovana».

Ebbene, le nuove parole ha cominciato a dirle con forza il movimento delle donne quando ha inaugurato la pratica del partire da sé e della relazione. Sono le relazioni che mancano, nella politica degli uomini basata sul mercato e sui diritti: la povertà politica a sinistra contrasta con la ricchezza dell’esperienza sociale diffusa sul territorio, quindi attraverso questa esposizione del senso politico dell’associazionismo e del volontariato si può dire che è la politica maschile che è in crisi. E di conseguenza è in crisi la democrazia rappresentativa.

A questo punto Giordana Masotto avanza questa obiezione: «Questa crisi della democrazia rappresentativa costituisce un grave problema anche per noi, non possiamo disinteressarcene. Quindi dobbiamo trovare il nesso tra questa politica di cui tu parli e la democrazia rappresentativa»Anche a me interessa questo nesso di cui Giordana parla, non sono infatti d’accordo che la crisi della democrazia rappresentativa sia irreversibile, anche perché la destra pensa di proporre in alternativa il funesto presidenzialismo. La democrazia può essere riacciuffata e cambiata.

D’altra parte già da anni abbiamo distinto tra politica diretta, la nostra e quella dell’associazionismo e del volontariato, e politica indiretta. Al momento è sotto gli occhi di tutti che i partiti sono completamente staccati dalla realtà del paese perché non hanno più un rapporto coi cittadini, vale a dire quel rapporto previsto dalla Costituzione italiana. Quindi, il nesso che Giordana considera necessario si costituisce a partire in primis dalla politica delle donne, dell’associazionismo, del volontariato.

A questo punto per me nasce un problema che poneva già Luisa Muraro in un incontro a Milano il 15/6/1996 intitolato “Politica senza professione”. Capita «con tutte le donne che non capiscono che con il primum femminile e la relazione donna con donna si crea un garbuglio terribile quando si parla; qui non abbiamo questo problema, possiamo andare sul semplice perché qui siamo tutte d’accordo. Noi sappiamo già. Allora avendo una chiarezza pratica questo fa una grande chiarezza nel parlare». Ecco, noi stiamo troppo tra di noi, e ci capiamo senza bisogno di far la storia della pratica politica tutte le volte. Dobbiamo fare allargamenti e incontri con le altre, sennò sei messa in difficoltà, non sai come far capire la tua pratica, perché ti dicono che cos’è la libertà, se non che io posso arrivare a cariche che prima erano riservate agli uomini? A me ha colpito un’intervista pubblicata dal Manifesto a una giovane di NonUnaDiMeno: ho capito che non avrei saputo spiegare la nostra politica a questa ragazza, quindi sono d’accordo con il problema di linguaggio posto da Luisa Muraro.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche, 12 marzo 2023

Ci troviamo in un momento storico in cui la politica dei partiti e delle istituzioni appare in forte crisi. Le ultime elezioni hanno mostrato la percentuale di affluenza alle urne più bassa degli ultimi dieci anni rispetto alle elezioni politiche, europee e regionali. Diventa sempre più ampio il distacco tra i partiti e i cittadini, i primi sembrano muoversi secondo programmi politici che non partono da un vero scambio con le elettrici e gli elettori ma appaiono come imposti dall’alto, senza un dialogo, senza un confronto. 

Mi ha fatto piacere sapere della vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito democratico, mi piacerebbe vedere un cambiamento passare attraverso il lavoro di una giovane donna tenace, di sinistra. Eppure in me l’entusiasmo per la segreteria del Partito democratico è già offuscato. Elly Schlein ha una posizione favorevole alla gestazione per altri e al gender fluid: entrambe le cose, per me, sono fortemente problematiche. Questo mi fa sentire in una situazione di forte contraddizione, da un lato mi sento di sinistra in ogni millimetro del mio corpo, dall’altro questa sinistra non riesco più a sostenerla se non in virtù della scelta del male minore.

Mercoledì scorso, 8 marzo, non ho potuto partecipare alla manifestazione perché lavoravo, altrimenti probabilmente ci sarei andata, come vado a manifestare per il 25 aprile o al Pride. Sono occasioni in cui sperimento un momento di condivisione differente: c’è una sorta di eros che circola tra le persone in strada e diventa un’occasione per ritrovarsi e fare festa. Detto questo non vedo nelle manifestazioni un discorso di rappresentanza né sono per la rivendicazione dei diritti che alcune vedono come l’unica strada. Per me, come già detto da altre in questa Libreria, e mi riferisco in primis a Luisa Muraro, la politica dei diritti sta dentro la barca del potere: la politica dei diritti è dentro il sistema dei rapporti di forza, per cui una conquista a livello del diritto si può perdere, se cambia il governo e non c’è maturazione della società.

In questa situazione, in cui da una parte abbiamo la democrazia rappresentativa in forte crisi e dall’altra abbiamo la politica delle manifestazioni e delle rivendicazioni dei diritti, si ha, come dice Vita Cosentino, la forte contraddizione sociale in cui non si sa più dove mettersi avendo perso il senso che fare politica possa risolvere le cose.

Del resto la situazione attuale non ci aiuta ad essere fiduciosi perché da più punti di vista ci troviamo a vivere un’esistenza che sentiamo essere sempre di più a rischio.

Poco più di un anno fa è iniziata la guerra in Ucraina, la guerra c’è sempre in qualche parte del mondo ma in questa ci sentiamo più coinvolti con la paura di essere colpiti in prima persona vista la vicinanza dei territori. La situazione ad oggi resta problematica e pericolosa e il rischio che possa degenerare crea preoccupazione.

Il lavoro è sempre più un luogo dove è difficile trovare gratificazioni. Il messaggio imperante è che se non sei contento puoi andare altrove perché tanto qualcun altro disposto a fare quello che fai tu è già sulla porta d’ingresso. Nel suo libro intitolato La società della stanchezza, edito da Nottetempo, 2012, Byung-chul Han chiama la società attuale una società della prestazione che genera soggetti depressi e frustrati. A causare questo stato di malattia sarebbe la pressione da prestazione che porta i soggetti a lavorare fino all’autosfruttamento in un sistema in cui lo sfruttato pensa di agire liberamente. In realtà si sente in obbligo di realizzare sempre di più e non arriva mai a uno stato di gratificazione, ritrovandosi in un perenne sentimento di mancanza e di colpa.

Anche Jennifer Guerra nel suo libro intitolato Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, edito da Bompiani, 2021, parlando della società di oggi scrive: «Nonostante il carattere profondamente individualista della nostra società sappiamo che amare sé stessi è più difficile di quanto si pensi. Il disagio che molti di noi provano nei confronti di una società ultraperformativa e ultracompetitiva si trasforma in una forma di impotenza, di disillusione continua, di rassegnazione a non poter combinare nulla di davvero valido».

Questa situazione di disagio ha portato le persone a cercare altri luoghi, virtuali, dove pensano possa essere più facile ritrovare la gratificazione che gli manca, come ad esempio facebook o Instagram. I social permettono una narrazione fatta di apparenza che si sostituisce alla realtà, si creano relazioni illusorie dove un like a un post ci fa credere di avere l’apprezzamento e il sostegno delle altre.

Un’amica più giovane di me mi ha raccontato che all’inizio queste relazioni virtuali la attiravano perché le sembravano più facili. Mi ha raccontato la difficoltà di alcune sue relazioni reali, fatte di giochi alle spalle. Le relazioni in presenza, del resto, richiedono un impegno maggiore, di mettersi in ascolto del sentire e del desiderio altrui e se necessario avere la forza di sostenere scambi che possono essere anche duri quando il pensiero non è coincidente. In una società in cui non si sta bene con sé stessi si è meno disponibili nei confronti degli altri e non si ha voglia di impegnare quello che resta delle proprie energie in faticosi scontri. Ha poi aggiunto che dopo un po’ anche le relazioni virtuali le davano problema, e nel disagio che provava e che l’ha portata a chiudere i suoi profili digitali mi ci sono ritrovata anche io. I social hanno la capacità di assorbire il tempo, magari ci si collega cosi, per dare un’occhiata, e poi si finisce per passarci anche ore intere per accorgersi a un certo punto di non combinare nulla. Spesso si finisce a curiosare nei profili degli altri, si rimane ingannati dai loro racconti che ci fanno cascare nella bugia che le loro vite sono migliori delle nostre, più ricche, più piene, e questo crea tristezza. 

A queste difficoltà, dopo tre anni da quando è iniziata, si aggiungono i segni lasciati dalla pandemia, che con intensità diverse riguardano ancora molte di noi. La pandemia ha lasciato delle ferite che tuttora non si sono completamente rimarginate nel nostro corpo e hanno modificato le nostre abitudini. A volte mi capita di ripensare a quanto successo in quel periodo e faccio fatica, magari mi chiedo: ma fino a quando c’è stato il coprifuoco? Poi dopo qualche momento, decido che non ho voglia di ricordarmi. È stato un periodo molto faticoso per me ma per fortuna, già prima che iniziasse, la mia vita era arricchita da due passioni, la Libreria e lo yoga. Ed è qui che ho trovato il punto di partenza per ricominciare e allontanarmi da alcune abitudini, cattive, prese durante quei mesi. Mi sono affidata a relazioni per me importarti che mi hanno aiutato a stare meglio. Non tutti hanno avuto la fortuna di avere questi spazi da cui ripartire.

Per quanto mi riguarda però, sento ancora una profonda stanchezza legata a quel periodo, un senso di apatia con cui a volte mi ritrovo a dover fare i conti anche oggi. Questo mio sentire so essere condiviso anche da altre amiche e amici, ne parliamo e ci ritroviamo in quella che potremmo definire come una leggera depressione che non vuole passare e che ci toglie energia.

Davanti a tutto questo sentire che ci porta disorientamento, la domanda che possiamo farci potrebbe essere cosi formulata: dove troviamo la forza per continuare a credere nel potere trasformativo della politica? Come rimettere al centro una politica che parta dall’agire dei singoli, che attraverso lo scambio con altre e altri, possono avere un ruolo attivo nella trasformazione del mondo? Quali sono le pratiche su cui puntare per ritornare ad avere fiducia nella politica, vista come uno strumento a cui affidarsi per percorrere una strada che ci possa guidare verso un orizzonte di felicità?

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche, 12 marzo 2023

Domenica 12 marzo 2023, ore 10.30-13.00
Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3


Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano

La politica così com’è stata pensata dagli uomini è in una crisi irreversibile, anche nelle sue forme migliori come la democrazia rappresentativa. L’ultimo impressionante segnale è l’astensionismo alle recenti elezioni regionali. La richiesta di sempre nuovi diritti e di leggi sempre più macchinose non è la risposta.

Noi proponiamo di ricominciare dal senso della politica e dalle pratiche, rilanciando la scommessa sulla potenza trasformativa dell’autorizzarsi ad agire in prima persona con altre e altri. 

Oggi ci sono difficoltà nuove che appannano o spengono le passioni: le condizioni totalizzanti imposte dal mondo del lavoro e dalle pressanti necessità economiche; l’abitudine all’isolamento contratta durante i lockdown e l’abbaglio che la tecnologia basti a superarlo; la fatica di affrontare le relazioni, messe in scena sui social in versioni illusorie.

E però. Il desiderio di dimensione collettiva e di relazione sopravvive. Per coltivarlo, noi crediamo sia irrinunciabile mettere al centro le relazioni e le pratiche, quelle che ci vengono da decenni di femminismo, quelle che a volte già usiamo nella nostra quotidianità e che vanno nominate, e quelle ancora da inventare.


Ne parliamo con Lia Cigarini e Daniela Santoro. Introduce Laura Giordano.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Si consiglia la mascherina.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.

È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.



Appuntamento: domenica 12 marzo 2023 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,

Milano, tel. 02 70006265.