Ero d’accordo con Vita Cosentino che chiedeva una discussione su come è nata l’autocoscienza come forma politica dopo che nel 1970 sono arrivati in Italia i libri e i documenti delle americane.
Io sono d’accordo se oggi si parla di Carla Lonzi perché è stata fondamentale. Ma qui si dovrebbe discutere dell’autocoscienza come forma politica delle donne. Non c’era solo Rivolta femminile. Nascevano gruppi di autocoscienza in tutta Italia. A Milano persino nelle fabbriche. Ricordo tra queste la Face Standard e la Sit Siemens che hanno scritto dei testi che abbiamo pubblicato su Sottosopra.
Bisogna dire che c’era sì il gruppo di Carla Lonzi ma ce n’erano centinaia in tutta Italia.
E quindi partirei da lì, da questa enorme diffusione che si era verificata in tutta Europa.
La parità è il contrario perché ci aggreghiamo a un simbolico maschile.
Sono inoltre d’accordo con Silvia Motta quando dice che il movimento delle donne con la sua specifica forma politica dell’autocoscienza ha avuto una grande spinta in una società che a quel tempo era favorevole in generale al cambiamento.
L’autocoscienza ha avuto un’ottima idea, molto intelligente, cioè si è sottratta ad ogni giudizio maschile: ci riunivamo nelle case e questa idea ha traumatizzato tutti i vari compagni di lotta del passato. A me uno ha detto: «Ma come, tu che sei stata segretaria provinciale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI) adesso ti riunisci nelle case in un piccolo gruppo?». E infatti vi ricordate che c’è stata una famosa prima pagina del Manifesto intitolata La femminista se ne va.
Quindi quello che ha detto Silvia Motta è giusto. Era proprio un altro tempo dove anche gli uomini studenti e operai erano in movimento.
Lo aveva già sottolineato in una riunione Luisa Muraro e ripreso da Giordana Masotto: erano altri anni, dove il cambiamento sembrava a portata di mano. Poi, dopo l’incontro con le francesi di Psychanalyse et Politique di Parigi e in particolare con gli scritti di Antoinette Fouque, molte di noi hanno fatto pratica dell’inconscio e poi l’affidamento ad un’altra donna per realizzare il proprio desiderio. Infatti, il bello della politica delle donne è quello di inventare pratiche mantenendo “il partire da sé e la pratica di relazione tra donne”.
Oggi abbiamo un problema, secondo me di comunicazione. Dobbiamo inventare il linguaggio da cercare e da usare, soprattutto con le nuove generazioni. Io penso che si dovrebbe su questi temi fare per prima cosa un Sottosopra perché quello è uno scritto che ha qualcosa di più. Quando lo si fa, incide perché è letto e discusso da molte. Oggi è un problema di linguaggio, cioè la nostra pratica politica come la metti in parola? Chi è che non parte da sé nelle riunioni della Libreria e in generale delle donne? Sempre una parte da sé.
Siccome sappiamo, e molti uomini l’hanno già capito, dopo il disastro della politica maschile (Il silenzio del noi, di Niccolò Nisivoccia), che quella del partire da sé e della relazione è una forma politica viva ed efficace, per prima cosa facciamo un Sottosopra che ne dia conto. La questione è proprio quella di trovare nuove parole e cercare di avere sempre più luoghi aperti sulla strada (c’è un nostro antico testo intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi).
L’entusiasmo generale per la circolazione rinnovata dei testi di Carla Lonzi rilancia anche l’interesse per la pratica dell’autocoscienza, ma non si tratta solo del ritorno di questa “madre di tutte noi”, perché la parola “autocoscienza” non se n’è mai andata veramente dall’ambiente femminista da quando se ne sono sentiti gli effetti politici e soggettivi, a partire dagli anni ’70 in poi.
Tuttavia, ci si chiede se si sa veramente praticare quell’autocoscienza che è diventata quasi un oggetto mitico del cammino femminista. Non so come veniva pratica dal gruppo di Boston che ha scritto Noi e il nostro corpo, ma so come è stata praticata radicalmente nella comunità in cui ho vissuto molti anni della mia vita, la Comunità Filosofica Diotima, ed è per questo che sono perplessa a sentirne parlare con una certa superficialità da alcune, da altre con il giusto tentativo di attualizzarla, da altre ancora non sapendo proprio di cosa stanno discutendo. Se c’è un atteggiamento che non si può tenere di fronte alle pratiche, a tutte le pratiche degne di essere tali, è quello dell’opinione, del “per me è così, per noi è colà”. Le pratiche di cui è intessuta la politica delle donne sono ricavate da osservazioni dell’esperienza, da sistemazioni teoriche elaborate in relazione, dalla possibilità di replicarle in contesti scelti e dalla comprovata efficacia trasformativa.
Ho già toccato il punto cruciale: le pratiche politico-filosofiche sono tali perché hanno la potenza trasformatrice desiderata nei contesti e nelle relazioni in cui si svolgono concretamente. Hanno la potenza di smuovere i blocchi, di tenere in ordine le relazioni, di accompagnare le circostanze nelle quali si mostrano adeguate. Si possono perfezionare, correggere, potenziare, ma con il discernimento necessario. L’opinione proprio non c’entra, letteralmente. Scriveva anni fa Manuela Fraire, psicoanalista, nel Lessico politico delle donne: teorie del femminismo (Fondazione Badaracco-Franco Angeli): «Con pratica dell’autocoscienza facciamo riferimento al principale strumento che il Movimento femminista si è dato in questi anni per un’analisi e un intervento nel reale […] L’esperienza dell’autocoscienza non è un processo linearmente codificabile e teorizzabile. È piuttosto un quantum di pratiche da cui possiamo osservare come la presa di coscienza passi attraverso la costruzione di una teoria (non separata da una prassi specifica), che si trasforma attraverso le fasi storiche e le diversità delle donne che si aggregano in uno spazio collettivo, e che non vuole essere perciò solo miglioramento della vita personale di ciascuna».
Questo avvicinamento alla complessità di pratiche che compongono l’autocoscienza è esattamente corrispondente alla mia particolare esperienza di “costruzione di una teoria non separata da prassi specifiche” in Diotima. E, naturalmente, dalle indicazioni di Manuela Fraire si ricava anche la vocazione politica dell’autocoscienza riguardante la capacità di leggere la realtà e agire in essa, scongiurando la riduzione a cui andrebbe incontro l’autocoscienza se servisse solamente al “miglioramento della vita personale”. Da tutto questo mi pare si ricavi chiaramente il rigore da tenere nella pratica dell’autocoscienza, e che questo rigore debba essere custodito da una donna a cui si riconosce l’autorità necessaria a orientare il lavoro, durante il quale occorre orientare anche i conflitti eventuali perché non diventino distruttivi. È quello che ha tentato di fare Carla Lonzi agli albori dell’autocoscienza in Italia, nel contesto di un gruppo di Rivolta in cui però allignava quell’atteggiamento distruttivo che lei ha nominato come auto-inferiorizzazione. A questo punto, dovrebbe essere più facile comprendere perché l’autocoscienza femminista richiede radicalità e rigore: non conduce solo alla conoscenza di sé, non indica questo l’ingannevole “auto”, ma piuttosto conduce alla trasformazione della relazione con la realtà data, fino a che anch’essa possa trasformarsi grazie alla presenza del soggetto politico imprevisto: le donne che sanno fare autocoscienza.
Collegato al discorso sull’autocoscienza c’è quello sul simbolico, come ha riferito Lia Cigarini anche nell’ultima redazione allargata di Via Dogana Tre, di più, è la strada che lei scelse di imboccare fin dall’inizio col suo gruppo.
Era la fine degli anni Sessanta, anni in cui i capelli lunghi e le gonne corte, gli hippy, i Beatles e molti altri, sono stati i portatori di un nuovo simbolico che è arrivato in modo imprevisto, era nell’aria, sgorgava e scorreva per le strade, ha travolto tutti e ha modificato la società.
Qualcuno deve aver osservato e studiato, si sa che il mercato è veloce a cogliere le novità e capire come sfruttarle al meglio. Già l’american dream degli anni Cinquanta e Sessanta del ’900 aveva costituito un dispositivo simbolico potente, che mobilitava e motivava moltitudini di lavoratori, desiderosi di dotarsi degli oggetti di status come l’automobile, la televisione eccetera. Ma il salto di qualità avviene nel 1984, quando il fabbricante americano di scarpe sportive Nike esce con una campagna pubblicitaria incentrata sul campione di basket Michael Jordan, per promuovere una nuova scarpa e… magia, tutti i giovani ragazzi di colore, gran parte dei quali non sente di avere un futuro nella società razzista americana, comprano quelle scarpe e sognano di diventare un grande campione vincente, ricco e famoso. In questo caso, si tratta di una campagna pubblicitaria studiata a tavolino che ha prodotto un simbolico strumentale alla vendita delle scarpe e ha creato una modificazione nella società.
L’importanza del valore che si dà alle cose, il senso che si dà alle azioni, l’interpretazione del mondo, insomma la sfera del simbolico, è così potente da spingere Naomi Klein a scrivere il libro No logo, pubblicato nel 2000, dove sostiene che il capitalismo non investe più nella produzione di beni (spostata dove costa meno), ma nella costruzione del brand e dei valori immateriali legati al marchio.
Torniamo a noi. Oggi è risaputo che la dimensione del simbolico è un campo di battaglia molto affollato: vi troviamo giovani youtuber che cantano rap sul loro disagio, politici come Salvini che hanno una capacità di inventare slogan che poi hanno corso, donne cooptate e messe ai vertici delle piramidi del potere per farle rientrare (le piramidi) nel paesaggio contemporaneo.
Così come è affollato il web, il mezzo oggi imprescindibile che supporta e trasporta le idee, le parole, i simboli. Affollato ma non impenetrabile e la Libreria delle donne, con la sua ricchezza di pratiche, può trovare le parole che possono farsi strada per produrre dei cambiamenti.
Dico questo a partire dalla mia esperienza: c’è un disperato bisogno di parole che sappiano significare realtà non dette (e quindi scarsamente o per nulla esistenti). Quando, in seguito alla morte della mia amica Bibi Tomasi, ho cominciato a frequentare la Libreria delle donne (alla ricerca di quello che solo lei mi dava) ero un’altra persona. Dopo ventitré anni di frequentazione e di letture (interessanti, ma più che altro utili per poter coltivare relazioni), di strettoie in cui ho capito cosa gettare e cosa mi era indispensabile, quello che mi definisce è sempre la parola “uomo”, ma solo per scarsezza di altre parole; se trovassi le quali magari riuscirei a definire la differenza tra l’essere maschile che vede nel bombardare la soluzione per risolvere un conflitto, nel picchiare una donna la soluzione per risolvere un proprio disagio e invece uno che parte proprio dalla relazione, dall’altro/l’altra da sé.
L’intento di questo numero di Via Dogana 3 è rimettere in circolo la parola autocoscienza, riprendendo dagli scritti di Carla Lonzi elementi che approfondiscano per l’oggi il suo significato e la sua pratica.
Per me uno degli stimoli più forti a ridiscutere di autocoscienza è venuto da un segnale piccolo, ma significativo, captato in una frase ricorrente di Daniela Santoro, una delle giovani della redazione. In varie occasioni Daniela, dopo interventi in cui tirava fuori da sé stessa, da tutte le vicende del suo corpo, un pensiero per l’oggi, concludeva dicendo: “scusate se sono autoreferenziale”.
Allora ho capito che non trovava nel suo vocabolario la parola che nominava quello che stava facendo: autocoscienza. Con questo non voglio dire che Daniela e le altre giovani non la conoscano, anzi hanno molta curiosità nei confronti di questa pratica delle origini del femminismo e desiderano anche farne esperienza. Il problema è che non la trovano come una parola a disposizione per nominare una loro pratica del presente, già in atto.
Rivisitare il pensiero di Carla Lonzi, come hanno fatto Marta Equi e Linda Bertelli nell’introduzione, permette sia di vedere cos’è l’essenziale di questa pratica sia di fare un’apertura di maggiore libertà rispetto alle sue modalità di attuazione.
Io stessa mi sono messa a rileggere gli scritti di Lonzi sull’autocoscienza e mi ha colpito il fatto che per lei il suo senso più profondo consista nel farne “un metodo di pensiero” e così autorizzare ogni donna a rivolgersi al proprio vissuto, per trarne pensiero e una scrittura politica che illumina il mondo.
Per lei è una pratica del pensiero che chiede relazione e non individualismo. Lonzi usa la parola rispondenza. Dice: “non esiste una coscienza di sé senza un’altra coscienza di sé e questo si verifica nella rispondenza” (Il mito della proposta culturale p.141). Quindi è la relazione con un’altra donna il centro dell’autocoscienza. Come scrivono Marta e Linda “è parola su di sé alla prova della relazione con l’altra”. Sottolineano anche che mentre la pratica di autocoscienza è spesso conosciuta come una pratica orale, come parola detta e ascoltata, Lonzi propone soprattutto lo scrivere come “modo della comprensione autocoscienziale” e come “tessuto di verifica del processo trasformativo dell’autocoscienza.”. Con una bella sintesi dicono: “l’andare di pari passo di esistenza, comprensione e produzione simbolica”. Se torniamo all’esempio di partenza, Daniela non può non riconoscersi in queste parole che delineano la pratica che sta facendo assieme al suo gruppo, Le Compromesse, e con la redazione di VD3, basta andare a rileggere la sua introduzione al numero dal titolo Ricominciamo dal corpo.
Seguendo ancora Carla Lonzi si può mettere in discussione l’indispensabilità del piccolo gruppo come modalità unica che ha caratterizzato l’autocoscienza negli anni 70.
Dai suoi scritti l’idea del gruppo risulta più libera. Il gruppo è sì “lo spazio primo” perché ci sia autonomia dal maschile, ma non è un tutto omogeneo, è costituito e intessuto di relazioni nel segno della rispondenza. Il gruppo può anche non esserci. Il gruppo in quanto tale è “disgregabile” e questo non comporta la fine delle relazioni che lo costituiscono. Il gruppo può anche intendersi senso lato, per esempio Rivolta Femminile per Lonzi, oppure per quanto mi riguarda la Libreria delle donne di Milano. In un suo scritto definisce lo stesso femminismo “un gruppo allargato”.
Daniela per questo numero ha interpellato altre giovani e dalla sua indagine emerge la grande difficoltà a costituire un gruppo, quando ciò che contraddistingue questo momento storico è la loro sofferenza per la solitudine e l’isolamento. A queste ragazze direi piuttosto di cominciare a cercare la rispondenza con un’altra donna, di cominciare da una relazione con un’altra donna per prendere la parola.
Già è stato detto da altre che c’era in quegli anni una situazione favorevole che ha permesso il moltiplicarsi e il fiorire di gruppi di autocoscienza in ogni dove. Anche io penso che quella situazione non è ripetibile negli stessi termini. Io ho fatto parte di quella stagione. Quando sono arrivata a Milano nel 1975 mi sono subito avvicinata al movimento delle donne che era molto vivace in città con collettivi, gruppi di autocoscienza, presenza sui giornali, iniziative pubbliche e nascita di luoghi come la Libreria e il Cicip.
Ho visto di persona, attraverso la mia esperienza, come dopo alcuni anni i gruppi di autocoscienza si siano esauriti. Questo per la stessa logica interna dei movimenti, che fanno una fiammata e poi si spengono, e non si può imputare a un gruppo o a una libreria la loro scomparsa. Si attribuirebbe loro un potere spropositato se capace di decretare la fine di un’esperienza che ha interessato tutto il mondo occidentale.
Quella stagione è finita ma l’autocoscienza non è andata distrutta. Linda e Marta ci hanno detto che per Carla Lonzi c’è una parentela molto stretta tra autocoscienza e il partire da sé e questo per me è un punto centrale. Dicono esattamente che “l’autocoscienza è la radice di una cosa preziosissima: la sperimentazione e l’invenzione della pratica del partire da sé. Quindi una specifica modalità del pensiero inaugurato dal femminismo”. Della stessa idea è Luisa Boccia quando scrive che “il valore dell’autocoscienza sta nella nell’aver fatto penetrare in profondità nella realtà sociale femminile l’idea e l’esperienza del partire da sé, ovvero la possibilità di elaborare la soggettività e il pensiero femminile, a partire dal concreto vissuto e dall’io di ogni donna” (L’io in rivolta, p.195).
Quelle stesse donne che avevano a un certo punto abbandonato l’autocoscienza ed erano passate a sperimentare altre pratiche relazionali, si portavano dentro questa modificazione che cambia l’approccio al linguaggio e al mondo.
Parlando di questo numero con Luisa Muraro lei ha così commentato: “Ah sì, come la facevamo allora aveva un che di ritualistico e di stereotipato, ma poi è rimasta nello spirito essenziale, nel linguaggio, nel partire da sé, nel guardarsi dentro, nel non oggettivare le cose, ma essere sempre implicate. Per me si è trasformata ed è nel mio modo di fare”. Posso testimoniare di persona quanto sia vero che ne è rimasto lo stile in Libreria. Quando vi sono approdata, nell’ormai lontano 1983, la frase ricorrente che si sentiva in ogni tipo di riunione era “Parla per te”. Ciascuna era continuamente rimandata a se stessa perché trovasse parole sue per portare un contributo alla discussione.
Le generazioni di femministe che sono venute dopo quella stagione, non hanno mai frequentato gruppi di autocoscienza. Tuttavia se penso a pensatrici come Chiara Zamboni e Wanda Tommasi della comunità di Diotima, io oggi vedo che non sono estranee a questa pratica ma ne sono fortemente influenzate e ne fanno vivere alcuni aspetti essenziali. Basta vedere, per esempio, tutta la produzione di Wanda Tommasi che ha messo a tema nei suoi libri una riflessione filosofica e politica a partire da situazioni anche dolorose della sua vita, come può essere la depressione. Su questo Luisa Muraro mi ha fatto notare un passaggio importante dicendo: “In Diotima c’è un linguaggio che incamera l’autocoscienza e il partire da sé ma allora non la chiamavamo autocoscienza. In Diotima facevamo un’altra pratica. Solo adesso possiamo vedere che ci sono gli elementi dell’autocoscienza. A suo tempo la discontinuità c’è stata per molte, non per tutte. Adesso vediamo la continuità. Adesso vediamo più in grande. Cioè più in grande e più dall’alto”.
In conclusione, mi sento, quindi, di dire che l’autocoscienza è viva, è continuata in altre forme e si esprime in modi che si possono cominciare a nominare.
Quando in redazione si è iniziato a parlare di un possibile incontro sull’autocoscienza io, in quanto “Compromessa” e avendo più volte in questa sede parlato della mia pratica di autocoscienza – come ho imparato, successivamente, a chiamarla e a riconoscerla – e dei suoi effetti sulla mia quotidianità e sulla mia vita politica femminista, non ho potuto che accogliere questa proposta con un sorriso a trentadue denti (direi trentuno, visto che me ne manca uno).
Abbiamo dunque pensato potesse essere interessante indagare sul mondo virtuale, usando nello specifico le followers della pagina Instagram @lecompromesse come cartina tornasole, cosa le giovani donne di oggi definiscono autocoscienza, se la praticano o meno e soprattutto i motivi dietro l’una o l’altra scelta. Così, ho lanciato un piccolo questionario sulle storie di Instagram, chiedendo se le donne tra i nostri seguaci praticassero o meno autocoscienza, in che modo si sentissero vicine alla pratica e qualora non la praticassero, i motivi.
Le risposte non sono tardate ad arrivare, accumulandosi fino a una cinquantina. Sebbene ciascuna seguace sia apparsa consapevole del termine e della pratica stessa, quasi nessuna ha risposto affermativamente, eccetto un gruppetto di amiche che si incontrano mensilmente e che si possono contare sulle dita di una mano.
Alla domanda «Se non praticate autocoscienza, vorreste praticarla?» le ragazze hanno tutte risposto di sì, con però alcune remore. Ho riscontrato infatti una parola ricorrente, paura, accostata a un’altra parola – che possiamo ritrovare nelle introduzioni di Linda e Marta – fiducia. È come se si delineasse una sorta di paura verso una fiducia mancata, che diventa un deterrente di fronte alla pratica dell’autocoscienza.
«Sì, vorrei ma ho paura, sono un po’ diffidente», «Vorrei, ma non so cosa aspettarmi, non saprei neppure da dove partire», «Vorrei, ma al momento è come se non avessi trovato un gruppo che faccia al caso mio, di cui fidarmi»: c’è un bisogno forte nelle giovani donne come me di ripartire dal primato della parola e della propria personale esperienza che si fa parola e di conseguenza pratica politica.
In un mondo ormai puramente visivo, sentiamo la necessità di riconnetterci alla parola. Eppure, ne abbiamo paura. A mio avviso, il timore scaturisce dalla consapevolezza della nostra difficoltà di ascolto, anzi di una vera e propria incapacità di ascolto a cui la nostra generazione è stata educata.
Questa mancanza di ascolto – che è in primis una sordità verso noi stesse, verso il nostro corpo, verso le nostre emozioni – ci conduce a un’impasse: come possiamo dunque accettare noi stesse[1]? Così in questa non-accettazione c’è insita una dis-conoscenza del proprio essere, del proprio corpo, della quale un senso generale di sfiducia è una naturale conseguenza. Non avendo fiducia in sé stesse, è infatti possibile riuscire a fidarsi degli altri? Soprattutto: nel mio procedere quotidiano, a testa bassa e con i tappi nelle orecchie, come posso ascoltare gli altri? Senza ascolto non c’è parola, senza parola rimaniamo immagini passive al di fuori delle logiche relazionali. Logiche sulle quali l’autocoscienza si fonda. Logiche che sono – fuori dai denti – spaventose: come il conflitto, che diventa inevitabile in uno scambio denso tra ascolto e parola, dal quale, sopraffatte dalle nostre insicurezze, fuggiamo continuamente.
Siamo sole, bombardate da immagini e suoni che viviamo passivamente e che, involontariamente, ci plasmano e ci condizionano secondo logiche che non ci appartengono, logiche del mercato, capitalistiche e maschili. Viviamo senza un punto focale che sia nostro. È come se tutti i nostri sensi fossero perennemente ovattati e non fossimo mai presenti, con noi stesse, con i nostri rapporti, con il presente che ci circonda. Byung-Chul Han nel suo saggio La società della stanchezza, parla di “violenza neuronale” nel luogo di disturbi come la depressione e l’ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività) e li associa alla “positivizzazione del mondo”, in quel passaggio da società disciplinare a società della prestazione. Siamo diventate animal laborans, vittime e noi stesse carnefici, incapaci di accedere a quella vita contemplativa che pratiche come l’autocoscienza ci richiedono, poiché quelle stesse dinamiche continuano a spingerci verso una vita automatica e disumanamente stimolata.
Il timore dell’autocoscienza è quindi paura dell’ignoto emotivo e incapacità relazionale allo stesso tempo, figlie entrambe di questa perpetua solitudine iper-stimolata. Eppure, in un momento come questo, praticare autocoscienza sembra ai miei occhi essere l’unica soluzione per sfuggire al logorio della vita moderna, partendo dal primato della parola ed esercitandoci all’ascolto, alla fiducia e alla condivisione delle esperienze per superare le barriere della solitudine tardocapitalista che ci stanno trasformando, donne e uomini, in umani-cyborg.
[1] Per dissipare ogni dubbio: quando parlo di “accettazione” la individuo in senso costruttivo, e non faccio riferimento a un’accettazione passiva – ormai frequentemente sponsorizzata – che ha invece effetti distruttivi sul piano personale e politico.
Io non ho fatto l’esperienza dell’autocoscienza e però ne ho raccolto molti frutti perché ho potuto entrare in un mondo già parzialmente trasformato. Ero circondata da saperi maschili, modelli maschili, però vedevo e sapevo che c’era un cambiamento possibile, che c’erano le femministe, e questo mi ha permesso di cercarle, trovarle e raggiungerle.
Non ho fatto autocoscienza in parte perché ero un po’ più giovane e i gruppi iniziavano a essere meno facilmente reperibili, ma anche perché non ho sentito l’esigenza di farla. Sul motivo credo che mi abbia un po’ illuminata Traudel Sattler nell’introduzione, ricordando che nelle assemblee dei movimenti che volevano cambiare il mondo le donne o ripetevano i discorsi maschili o erano mute. Ecco, io non ero muta. Per questo non avvertivo la contraddizione. Naturalmente anch’io usavo tutti gli schemi e gli argomenti maschili, ma siccome parlavo solo per dire qualcosa che non era stato detto da altri (a differenza dei maschi, ognuno dei quali voleva far vedere che conosceva tutta la lezione, con infinite e tediose ripetizioni), avevo la sensazione di portare quel di più che era mio, e mi sentivo a mio agio. Prima di arrivare ad avvertire il disagio ci ho messo decenni… e poi finalmente sono arrivata in Libreria.Tra i passaggi che mi hanno portato in Libreria ci sono stati, per me, gli scritti di Carla Lonzi: dopo averli letti non ho più potuto vedere il mondo come prima. Per questo penso che l’autocoscienza dia dei frutti che vanno oltre il momento e le persone che la praticano. Io non ho l’autocoscienza di Carla Lonzi, perché non c’ero con lei a farla. Però ho i suoi scritti che mi hanno trasformata, pur non avendo agito quella pratica. E come gli scritti ieri, credo che oggi i frutti possano essere anche un podcast come A day in a female life – Racconti di ordinaria violenza di Angelica Pirro e Silvia Protino, che Angelica ci ha descritto nell’incontro di Via Dogana. Infatti, pur essendo uno strumento rivolto al pubblico, a monte della pubblicazione si sente che c’è l’autocoscienza. E ci è stato raccontato come l’autocoscienza la facciano prima le autrici tra di loro, e in seguito la fanno con loro le ragazze di cui pubblicano le storie. La fanno, come l’autocoscienza storica, nelle case, in una dimensione di intimità. E poiché pubblicano soltanto le parti che ciascuna vuole e lasciano la facoltà di non pubblicare, quell’intimità resta salvaguardata e permette di lavorare in profondità. Quindi abbiamo un lavoro a monte, e un frutto di quel lavoro che viene pubblicato. E che è prezioso e utilissimo per quante possono così arrivare a coglierlo.
Sono arrivata alla storia delle donne tramite la storia degli uomini, non posso negarlo, perché io sono una donna e questa è la storia di come sono tornata a me stessa.
Quando alla facoltà di Filosofia – dopo tanto parlare di Platone, Cartesio ed Hegel – arrivai finalmente al corpo, mi accorsi che del mio corpo non c’era traccia! Così, dopo aver scoperto che ogni re era sempre stato nudo, trovai le filosofe. De Beauvoir, Irigaray, Butler, Brownmiller, Young, Martin Alcoff e le altre mi aprirono le “porte della percezione”, quelle che mi portarono a chiedermi – fuori dal fatto solo mentale, ancorché morale – chi fossi. Come una donna che per la prima volta si scopre del patriarcato mi chiedevo: chi sono io se non quel (poco e male) che hanno detto e dicono loro? Ma la risposta non è mai stata lì pronta per me (anche se lo avrei tanto voluto e talvolta, probabilmente, lo vorrei ancora). Ogni passo che facevo presentava timori ed esitamenti. Ad esempio, per tanto tempo mi era bastato leggere dei gruppi di Autocoscienza (Cavarero, Le filosofie femministe) senza indagare oltre, verosimilmente perché ciò mi consegnava a un approccio politico a me noto (quello maschile, dei compagni e delle lotte appassionate!), tenendomi contemporaneamente lì, dov’ero, sulla sedia di un’aula universitaria, in un luogo certo non rischioso. Così decisi di spingermi oltre e finalmente, sotto impulso di una donna concreta, Rita, mi decisi a formare un collettivo. La mia intenzione ufficiale e nobile (!) era quella di recuperare insieme ad altre donne la storia delle donne per combattere le storture del presente. Tuttavia il movente personale, quella pulsione corporea che mi invischiava nel rapporto con le donne, era capire perché in fondo non sentissi di avere con loro un rapporto concreto, solido e reale. D’altra parte, più stavo con loro per loro (le donne) più sentivo di non potermene staccare neanche un momento, che di me non sarebbe rimasto più nulla. Chi sarei stata altrimenti? Se non fossi stata quella che si prendeva cura delle donne e del mondo, sarei stata ancora? Stavo per scoprire che i miei strumenti prima intellettuali e poi morali erano per me una bella arma di difesa: donandomi alle donne mi sarei permessa di rimanere integra emotivamente. E anche se la mia soggettività sarebbe stata al cieco giogo della dipendenza da loro, mi sarei sempre potuta dire che dovevo fidarmi delle donne! Realisticamente nessuna/o – mi confortavo – potrà mettere in pericolo questo mio cantuccio morale. Poi è arrivata Daniela Pellegrini con la sua Autocoscienza e io me ne innamorai: risuonava forte in me ciò che aveva scritto e che diceva. E pensavo: «Sono in contatto diretto con più di mezzo secolo di storia del femminismo italiano; mi porterà in dono il suo bagaglio». Sarebbe stato perfetto per me se fosse semplicemente stato così. Lei sarebbe stata distante da me, nelle sfere celesti della sua storia così piena di materiale, e io in posizione di ascolto, libera di – o, come direbbe Cecilia, piuttosto “abbandonata” ad – agire le mie elaborazioni mentali senza toccare me stessa. L’incontro fu invece per me uno scandalo (!): l’aspettativa di senso alla base della mia intera esistenza di donna era stata disattesa. Daniela non si rivolgeva a me come ad una madre-bambina: né come Crista, la bambina che salverà il mondo e rappresentante di una fantomatica nuova generazione che avrebbe soddisfatto dei bisogni (i suoi?); né come risorsa-oggetto che, convenientemente ridotta alla postura naïf di bambina, le avrebbe concesso di riaffermare i propri convincimenti da capo, ancora e ancora. Non mi arrivò nulla di tutto questo: né sovradeterminazione, né alienazione, né affidamento. Ero libera di esser-ci e questo mi faceva anche un po’ paura (talvolta forse persino rabbia o frustrazione). Era forse questo essere “solo” una donna? Iniziai ad andare all’Autocoscienza con lei e con Valentina, Annamaria, Irene, Tommasina, Antonella, Erica e le altre. Con loro, non senza difficoltà, ho scoperto anzitutto che il rapporto con mia madre che avevo sempre amato, il conflitto con le sorelle che avevo sempre sofferto, l’ambiguità nel rapporto con le amiche che avevo sempre evitato erano il senso stesso del movimento politico che ora toccava anche me. Fuori dalle definizioni date in terza persona, infatti, anche la “(as)senza (di) azione” – di cui scrive Antonella Ortelli – smise di essere il significato opposto di movimento e riprese a vivere la lunghezza del suo significato nella mia prima persona: attraverso il corpo vivo che sono, come una sapiente cassa di risonanza, prassi (politica) e sentimento di me stessa cominciarono ad agi(ta)re un jazz intricato di note e silenzi. Tuttavia, tornava come un mantra una domanda: una (o ogni) volta che avessi ritrovato questa politica me stessa, cosa me ne sarei fatta? Epilogo: quando torni a respirare, non fai che ricercare ossigeno Dopo circa un anno con quel primo Gruppo di Autocoscienza ne desiderai anche un altro e venne fuori molto presto “Autocoscienza 2.0”. In cosa differisse dal primo o perché farne un altro non furono mai domande che mi feci o che mi fecero. Imparai infatti che questo era il senso del separatismo, di quel luogo senza direzioni puntuali o assertive, quandanche spazialmente disponibili e significativamente corpose: non solo lo spazio delle donne (me compresa) non era limitato, non era neppure limitante. Al momento, quindi, so che non c’è una risposta a quella domanda, di me non voglio farmene nulla! E proprio questo è nella mia esperienza il famoso “luogo terzo” di cui dice e scrive Daniela: essere indipendente insieme alle altre, in uno spazio differenziale che non stringe mai le vie del senso e della sensatezza, per il solo fatto che ognuna è sé stessa e nessun’altra, mentre ogni altra risuona facendo spazio a sé stessa. Questo è quanto sperimento ogni settimana, con Claudia, Valentina, Alessandra, Francesca, Brenda, Maria, Tommasina, Silvia, Daniela e tutte le donne che fanno autocoscienza con me. Questo è quello che mi porto anche fuori dal Gruppo dell’Autocoscienza: nell’incontro con le donne che di teoria non sanno proprio nulla e con quelle che invece percorrono strade parallele. Ci si chiede se l’Autocoscienza sia morta e in quale forma possa rivivere, ma nella mia esperienza questa domanda è priva di senso! Suona come “Dio è morto, viva Dio!” L’Autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia. Parliamo, purché siamo, perché la nostra esistenza non consiste in un atto mentale e non è neanche chiusa in una crisalide di senso, come una bella teoria! Il fatto è che esserci, in questo sì Cartesio c’ha azzeccato, richiede la stessa fatica che nascere. Un ultimo appunto vorrei sottolineare prima di dover chiudere questo testo: se la storia delle donne è pur sempre una genealogia del dolore che consiste nella profonda discrepanza tra l’esserci e il fare, tra una politica autocoscienziale e una politica della coscienza collettiva, a maggior ragione credo che sia necessario rimetterci a rischio. Ci sarà sempre un “fantasma che si aggira per la politica delle donne” finché ci aspettiamo di essere tutte una sola parte.
Ho scelto come titolo di questa breve riflessione due passaggi del secondo manifesto di Rivolta Femminile, li ho ricombinati fra loro perché questo rimescolare discorsivo restituisce quello che l’autocoscienza è diventato per me nell’arco di tre anni. È per me un’impresa rischiosa parlare dell’autocoscienza, provo il senso della vertigine, perché essa è una pratica connessa al nostro essere donne-persone-soggetto nel nostro divenire consapevole e proprio per questo mi sfuggono sempre i termini del discorso, i confini, le forme.
Tutto è iniziato nel 2018, alle soglie dei miei trentacinque anni, quando l’idea della pratica dell’autocoscienza è diventata qualcosa di ricorrente nel panorama dei miei pensieri e allora, pur non avendo minimamente idea di che cosa aspettarmi, ne coltivai da sola il desiderio; poi, fra il 2019 e il 2020, quando il mio essere donna-madre-moglie era diventato una dimensione di solitudine e alienazione si imposero le parole di mia madre «Sii più femminista nella tua vita personale e non solo livello politico»: per la prima volta nella mia vita le avevo sentito pronunciare delle parole che avevano al centro me e che mi richiamavano a farmi soggetto pensato di me stessa. Quelle sono state le ultime parole di amore che le ho sentito pronunciare: non c’era rimprovero nella sua voce né giudizio, erano le parole di una donna verso un’altra donna; lei donna clitoridea, io donna vaginale. L’autocoscienza è iniziata in quello scambio.
Nei mesi che seguirono iniziai una guerra, per usare un’espressione cara ad Angela Putino, con me stessa e per mesi volteggiarono nella mia mente le parole del filosofo Seneca «Vindica te tibi» (affrancati, liberati), un’espressione che con stupore incontrai poi alle soglie del 2021 fra le parole di Carla Lonzi che mi invitavano, come aveva fatto per tre anni la mia amata professoressa di filosofia del liceo – suor Clotilde Milinci – a fronteggiare i meccanismi di autodifesa in cui ci crogioliamo per permanere cullate dalla nostra falsa coscienza; oggi probabilmente qualcuna direbbe che suor Clotilde ci invitava ad essere out of the comfort zone, lei la chiamava “vita autentica”, “essere persone e non individue”. Se per una parte considerevole della vita la mia coscienza era sempre stata punzecchiata e richiamata da donne più grandi di me alle quali ero legata da una relazione gerarchica affettuosa, mi sentivo finalmente pronta a fare lo stesso in relazioni simmetriche e prive di gerarchia.
Oggi l’autocoscienza, oltre che pratica di incontro, è diventata postura, matrice. Durante l’incontro di Via Dogana sono risuonate, quasi che fosse la mia bocca a pronunciarle, le parole di tre donne: Maria Castiglioni, che ha parlato del suo gruppo di autocoscienza, Roberta Cordaro, che è legata ai luoghi terzidi una delle madri dell’autocoscienza italiana, Daniela Pellegrini, e Claudia M., una delle donne con cui la pratico settimanalmente; mi è sembrato, nell’ascoltarle, che ricorresse un termine a me caro: domande. Se l’autocoscienza è iniziata in un dialogo da donna a donna fra me e mia madre, essa è continuata nelle altre donne, prima fra tutte Alessandra Lanivi, per me amatissima, alla quale devo le domande più difficili, quelle che hanno ipotizzato e svelato le mie contraddizioni. Le domande dall’altra che ti ascolta in autocoscienza sono una mano tesa, un appiglio e al tempo stesso l’epicentro di scuotimento, l’epicentro di quel terremoto che fa emergere trasformativamente questa me incarnata; l’autocoscienza è l’altra, appunto, e questa soggetta che ti è simile e divergente al tempo stesso è spinta, sostegno, scialle che ti avvolge, energia che ti contiene in un legame simmetrico di rispondenze. Sebbene ritenga che questa pratica sia possibile in una prospettiva di relazione duale fra donne, penso che la dimensione del “piccolo gruppo”, del luogo terzo – come giustamente lo definisce Daniela Pellegrini – variamente ma stabilmente abitato, sia quella ottimale, poiché il fatto che le donne si facciano presenza e coscienza costante delle altre rende possibile il cogliere delle contraddizioni: ciascuna donna in autocoscienza è soggetto che si pensa narrandosi e al tempo stesso soggetto contraddicente, uno specchio vivente e pensante, che non riflette in modo deformato ma che richiama a uno sguardo più attento quando l’altra si adagia nelle autodifese. È proprio da una pratica separatista stabilmente abitata e vissuta che è possibile rendere politico ciò che emerge nel farsi dell’autocoscienza; è la stabilità dello scegliersi come soggette pensanti a rendere possibile, poi, la resa scritta, poiché la scrittura è per me la foce naturale di questa pratica e fa aderire il pensato al vissuto una volta che le contraddizioni hanno trovato una risoluzione discorsiva e con essa la politica. L’autocoscienza è l’altra, ma la mia avventura sono io. Non posso che concludere questa brevissima riflessione con un pensiero per le amiche divergenti con le quali condivido e/o ho condiviso questa pratica: Alessandra, Angelica, Anita, Caterina, Claudia, Daniela P, Donatella, Elisa, Francesca M, Francesca S, Letizia, Maria, Roberta, Susanna, Valeria B., Valeria Q.
Per questo numero, la redazione di Via Dogana 3 voleva mettere in luce come l’autocoscienza, pratica sorgiva del femminismo radicale, ha continuato ad agire e dare frutti, prendendo talvolta forme lontane da quella delle origini pur mantenendone il punto cardine: la creazione di uno spazio di libera parola, uno spazio trasformativo e politico.
Mentre discutevamo di questo, io ho subito pensato al fenomeno sempre in crescita della produzione di podcast, ovvero la creazione di un audio (assimilabile a una trasmissione radio), distribuito attraverso Internet e fruibile attraverso uno smartphone o un computer. A mio avviso, ed è un azzardo, è una delle forme che ha preso la pratica dell’autocoscienza nel presente, attraverso l’uso delle tecnologie.
Durante la redazione allargata di domenica 1° ottobre, Linda Bertelli ha parlato dell’autocoscienza come creazione di uno spazio tracciato da due lembi, quello che una donna è e quello che pensa di essere, due estremità delimitanti uno spazio frutto della scommessa politica del femminismo, che ha permesso a ciascuna donna di trovare parole non estraniate per dire di sé. Come? Levando, nello scambio con le altre, strati di aspettative, presupposti, sottintesi scontati, false credenze e tabù, opinioni invalse, e via osteggiando pregiudizi, per arrivare a un’accettazione di sé per quello che si è.
Io sono un’ascoltatrice di podcast, amo particolarmente quelli in cui si crea uno spazio di parola libera e veritiera. Per esempio, il podcast How to fail di Elizabeth Day, dove la giornalista e scrittrice inglese accoglie le sue ospiti e le intervista, lei stessa è partita dal suo frustrato desiderio di maternità, che definiva come un fallimento, ed è visibile, nel farsi delle puntate, la trasformazione e l’accettazione di sé attraverso la parola scambiata, la modificazione del suo fallimento in una figura dello scambio, dispositivo simbolico in cui altre si possono riconoscere. Voglio citare anche il podcast The Adam Buxton podcast, dove l’attore e scrittore inglese si mette in gioco a partire da sé, in un setting dialogico, raccontando gli effetti del mondo dello spettacolo e dei social sulla vita, il rapporto col padre, la morte dei genitori, la famiglia, i figli, il lavoro, l’amore. È straordinario come, anche in questo caso, ci sia la restituzione di parole politiche per tutte e tutti.
Qui pubblichiamo la testimonianza di due giovani donne che producono un podcast femminista, Angelica Pirro e Silvia Protino. Il loro podcast, A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenza, poggia sulla parola scambiata, alla ricerca di un’aderenza della parola all’esperienza femminile. In questo sta l’azzardo, nel vedere il perdurare dell’autocoscienza in nuove forme di presa di parola, anche attraverso la tecnologia.
(Laura Colombo – Redazione #VD3)
Silvia e io abbiamo avuto il piacere di partecipare alla redazione aperta di VD3 del primo ottobre 2023. Qui di seguito il nostro intervento riguardo le nuove forme di autocoscienza. All’inizio del 2022, abbiamo creato un podcast che raccoglie testimonianze di donne che hanno subìto molestie sessuali.
In poche parole, un podcast è una radio che però non viene trasmessa in diretta, ma in differita. Un podcast solitamente è diviso in episodi che vengono pubblicati e che possono essere poi ascoltati liberamente e archiviati sul computer o sul cellulare. Mentre esistono podcast che forniscono anche un supporto visivo alle puntate, il formato originale è strettamente audio (come il nostro).
Silvia e io, al momento di scegliere quale medium usare per dare voce al nostro progetto, abbiamo prima di tutto stabilito che sarebbe stato uno spazio creato da noi. A quel punto abbiamo deciso di usare lo strumento del podcast perché è l’unico che ci permetteva di mettere al centro la nostra voce, e non solo la mia e quella di Silvia, ma quella di qualunque ragazza che avrebbe voluto prendervi parte. Sentivamo il forte bisogno di far risuonare la nostra voce collettiva. E poi ci piaceva l’idea di creare una raccolta di testimonianze orali, un vero e proprio archivio che però non fa riferimento al passato, ma al presente, che non è archiviato, impolverato, ma è vivo in ognuna di noi, nelle nostre singole voci che ne compongono una sola, che non è formalizzato e istituzionalizzato, di Stato, ma è libero, vitale, trasformativo, generativo. Un archivio che possa servire anche, magari per fini “scientifici”, di ricerca, attraverso il quale si possa indagare il fenomeno sociale delle molestie sessuali. In più, il podcast è bilingue, ascoltabile sia in italiano sia in inglese, ma cosa ancora più interessante, è registrato in due paesi differenti: Italia e Irlanda. Sarebbe interessante adottare una prospettiva critica, per analizzare quali sono le differenze e le somiglianze tra i racconti italiani e quelli irlandesi. Ecco, questo secondo noi è un primo elemento della pratica dell’autocoscienza: riconoscere che ciò che io vivo all’interno dei confini del mio paese, lo sta vivendo anche una ragazza a centinaia o migliaia di chilometri di distanza da me e che quindi ci fa vedere chiaramente come il nostro essere donne ci accomuna.
In più, il podcast ci permette di dare voce al silenzio che vige sul problema sociale e culturale delle molestie sessuali. Gli uomini, a parte essere coloro che mettono in atto le molestie, non sono consapevoli, o se lo sono, non lo sono pienamente, dell’esistenza di questa forma di violenza e di quanto sia capillare e pervasiva. Ci è capitato più volte di raccontare le nostre esperienze del podcast ad alcuni dei nostri amici maschi, che ovviamente stimiamo altrimenti non sarebbero nostri amici, ma che comunque sono rimasti sorpresi nel venire a conoscenza dell’esistenza e della normalità delle molestie sessuali. Eppure, è strano: è un fenomeno talmente diffuso che (quasi) tutti gli uomini hanno molestato una ragazza almeno una volta nella vita, o comunque ne sono stati complici, o indifferenti. Quindi come fanno a non saperlo? Loro sanno come si comportano i maschi in gruppo, di cosa sono capaci, eppure si ritrovano (e li ritrovi) stupiti. Forse non si rendono conto di ciò che significa per noi subire molestie quotidiane fino a quando non glielo comunichiamo in modo esplicito? Non lo sappiamo ancora.
In ogni caso, il podcast ci consente di far emergere dal silenzio tutti i racconti e le storie, che costituiscono un sommerso, un insieme di voci inespresse, che non si sentono, ma che comunque esistono. Se il discorso delle molestie sessuali ci permette di entrare in contatto con ragazze lontane da noi, sia a livello geografico sia di pensiero, e a noi sconosciute prima dell’incontro, allora anche altre, che ancora non conosciamo e di cui ancora non abbiamo sentito la voce, potrebbero raccontare una storia simile. Il nostro punto di partenza è credere a ogni donna che denuncia una qualsiasi forma di violenza, senza sentire il bisogno di constatare quella violenza, di provare, di dimostrare il fatto che sta denunciando, perché crediamo in lei, alla sua voce che risuona dentro di noi come se fosse la nostra.
Ecco, tutto questo scambio, condivisione, amicizia, amore, sorellanza, che sono svincolate da spazi e tempi predefiniti trovano forma in una raccolta di testimonianze orali, in un archivio dell’esperienza femminile che oggi chiamiamo podcast.
Spiegato il mezzo, ora torno indietro a raccontarvi l’antefatto e l’origine del nostro podcast “A day in a Female Life – racconti di ordinaria violenza”. A quei tempi vivevo a Dublino, ma ero tornata a Milano per le vacanze di Natale. Come facevo spesso, ho preso i pattini e sono andata a pattinare nella zona che circonda lo stadio Meazza, San Siro. Ho messo i miei conetti per terra e con le cuffie nelle orecchie, mi stavo facendo i fatti miei. Speravo che i fatti suoi se li facessero anche le persone attorno a me, invece purtroppo così non è stato. Prima si avvicina un ragazzo e tra me e me penso, sarà solo curioso e vorrà vedermi fare qualche esercizio. Solo che questo ragazzo è rimasto lì, a braccia conserte, fissandomi senza farsi alcuno scrupolo. Non mi ha detto nulla, ma quello sguardo fisso, pesante, non richiesto, mi ha fermato sui miei passi. Mi sono bloccata e ho smesso di pattinare finché non si è allontanato.
Pochi minuti dopo arrivano due ragazzi che mentre sono girata iniziano a calciare i conetti che avevo messo per terra, per poi allontanarsi senza alcun rimorso.
Come prima cosa, ho provato paura. Mi sono resa conto che non mi sentivo al sicuro in quel luogo. Ho interrotto il mio passatempo preferito e ho iniziato a pensare che se fossi stata un uomo, forse quei ragazzi non si sarebbero permessi né di avvicinarsi e fissarmi, né di danneggiare la mia attrezzatura. E questo perché un altro uomo lo rispettano; la donna invece è passibile di qualsiasi capriccio che passi per la testa ad un ragazzo.
Ho fatto delle storie su Instagram, raccontando quello che era successo con tanta rabbia e frustrazione. Dall’altra parte dello schermo ci sono state molte ragazze che hanno ascoltato e condiviso il mio dolore, offrendomi parole di conforto e di solidarietà. Ovviamente c’erano anche altri pareri, da parte di uomini, che invalidavano la mia esperienza dicendomi cose come “in zona San Siro cosa ti aspetti”.
Silvia ha subito colto il mio richiamo e in una conversazione che ormai è storica, in qualche secondo abbiamo entrambe sentito la necessità di creare qualcosa di più grande, che rimanesse per tutte. Siamo partite dalla constatazione che tutte le donne, nessuna esclusa, hanno vissuto almeno un episodio di molestia sessuale per strada o in luoghi pubblici.
Nonostante questo dato fortemente preoccupante, non è comune che questi avvenimenti vengano menzionati e diventino argomenti di conversazione. Sono come dei dati di fatto. Questo comporta che quando poi una ragazza subisce una molestia sessuale: o non la considera tale tanto è normalizzata nella società patriarcale, oppure pensa di essere l’unica a cui succede e non lo condivide con nessuno. Il podcast avrebbe fornito una piccola soluzione a questo problema.
Anche il titolo è stato deciso con facilità: A day in a female life, un giorno in una vita di donna. Assieme al sottotitolo “storie di ordinaria violenza” volevamo trasmettere l’estrema ordinarietà delle esperienze raccolte nel podcast (le molestie sessuali nei confronti delle donne non sono degli eventi rari, che capitano alcune volte l’anno, sono giornaliere).
Il primo episodio l’abbiamo registrato io e Silvia, con strumenti rudimentali ma una voglia dirompente di far sentire le nostre voci. Prima di far condividere le proprie esperienze ad altre donne, volevamo raccontare le nostre.
Da quel momento, anche attraverso un invito all’azione su Instagram, abbiamo ricevuto una serie di email e messaggi sia di supporto, che di disponibilità a registrare una puntata del podcast.
Per noi era imprescindibile che lo spazio offerto alle ragazze sul podcast fosse sicuro e libero. Le puntate sarebbero state registrate con me, oppure con Silvia (in base alla collocazione geografica della ragazza) in luoghi familiari, accoglienti. Quando è stato possibile infatti abbiamo registrato le puntate nelle nostre case, sul divano, con una tazza di tè e biscotti. Prima di accendere il microfono, ci assicuriamo che ci sia già una certa confidenza con la ragazza, che spesso è a noi sconosciuta. Questo passaggio è essenziale per creare un’atmosfera in cui la ragazza si senta al sicuro nel condividere le sue esperienze che potrebbero essere traumatiche e difficili da verbalizzare.
Una volta acceso il microfono la conversazione scorre come aveva fatto a microfono spento, senza domande preparate o limiti di tempo. La ragazza racconta tanto quanto decide sia abbastanza e l’interlocutrice, Silvia o io, ascoltiamo, offriamo conforto e poniamo domande se ne sentiamo la necessità. In molte puntate abbiamo anche avvertito la necessità di dare reciprocità alla conversazione, quando a me e a Silvia veniva naturale di raccontare delle esperienze personali che la storia della ragazza aveva fatto risvegliare in noi.
La libertà sta nel fatto che una volta registrata la puntata, la ragazza che ha partecipato può decidere di non pubblicare l’episodio, di tagliarne alcune parti o di usare un nome fittizio per proteggersi. Per noi, il fatto che la ragazza abbia condiviso la sua storia con noi e abbia ricevuto in cambio un ascolto sincero e non giudicante, è già abbastanza.
Le puntate che poi sono state pubblicate spaziano su diversi argomenti, ma colpisce la comunanza dell’evento della molestia. Le circostanze cambiano, ma l’intento dell’uomo è sempre lo stesso, denigrare la donna e farla sentire impotente.
Nonostante l’intento iniziale fosse solo quello di raccogliere testimonianze di molestie sessuali in luoghi pubblici, alcuni episodi sono fluiti naturalmente verso altri tipi di violenza maschile, tra cui quella domestica.
Il riscontro del podcast è stato rincuorante. La maggior parte delle donne che ci contattano dicono di sentirsi riconosciute e legittimate nelle loro esperienze di molestia. Molte di loro si sono rese conto che esperienze che consideravano normali o di poca importanza, erano invece gravi e degne dell’appellativo di molestie sessuali. Perché succeda questo è necessario da parte nostra considerare ogni molestia sessuale che ci viene riportata come importante e degna, e porre l’accento sul dolore comune, invece che sui dettagli che necessariamente saranno diversi per ogni storia.
Carla Lonzi parla di uno “scatto a soggetto” delle donne che si “ri-conoscono come esseri completi non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo”.
La nostra idea iniziale non era quella di praticare l’autocoscienza. Cioè, non ci siamo messe a un tavolo e abbiamo detto “ok, ora facciamo l’autocoscienza”. Abbiamo detto: creiamo un podcast. Solo in un secondo momento, ci siamo accorte che il nostro podcast è una pratica di autocoscienza perché si costituisce dell’incontro con l’Altra, dove ogni donna può ritrovare sé stessa nelle parole delle altre. Questo dimostra la potenza, la forza di questa pratica: esiste ancora prima di saperla, pensarla, teorizzarla. Perché è una pratica dettata dalla necessità, dal desiderio, dal bisogno di riconoscersi nelle altre, di uscire dalla solitudine, ma anche di trasformare il dolore e la rabbia personali in resistenza collettiva.
Mai come oggi ho sentito il bisogno di trovare le parole giuste. Sul conflitto israelo-palestinese in passato ho scritto argomentando le verità storiche, evidenziando le contraddizioni di chi difende Israele senza se e senza ma, o di chi non vede che non è uno scontro di culture ma banale e cinica politica di forza delle potenze in campo. Ho ripetuto come un disco rotto le stesse cose per anni finché, dopo l’operazione Piombo Fuso di dicembre 2008 (in cui a Gaza morirono non meno di 1200 persone), sono diventato afono sull’argomento.
Quindici anni dopo, con quello che è appena successo, non trovo le parole e faccio fatica a pensare, un senso di lutto pervade ogni cosa. Lutto per le vittime israeliane, tra cui molti giovani, donne e bambini. Lutto per le vittime di Gaza rinchiuse nella loro striscia di terra senza una via d’uscita e sotto una pioggia di bombe indiscriminate che distruggono vite e palazzi, ennesima violenza su un popolo che è sotto occupazione dal 1948 (prima egiziana e poi, dal 1967, israeliana).
Lutto per la perdita del senso di umanità. Vittorio Arrigoni terminava le sue corrispondenze da Gaza per il Manifesto con: «restiamo umani», a indicare la vera posta in gioco.
Senso di lutto per un linguaggio e per parole che qualcuno non fa alcuna fatica a trovare, parole sbagliate, in malafede, commenti urlati a notizie prive di documentazione.
Lutto perché quello che è appena successo è uno specchio che ci dice che razza di girone infernale è il luogo da cui provengono le persone che hanno fatto quello che hanno fatto. La sorpresa che ha generato in tutti questo attacco mi ha ricordato il «perché ci odiano tanto?» dell’11 settembre 2001. I governi israeliani che si sono succeduti, e in particolare Netanyahu, hanno fatto di tutto per soffocare i palestinesi e contemporaneamente nascondere e far dimenticare al mondo l’occupazione. Ma chi la subisce non la può scordare e ritorna prepotentemente alla ribalta non più nella veste di vittima della storia, ha imparato il linguaggio globale della politica di forza, oggi molto in voga in questa guerra mondiale a pezzi, come l’ha definita papa Francesco. Cinicamente parlando, l’attacco ha un senso politico, far ricordare al mondo che, contrariamente a quanto Netanyahu vuol far credere, mostrando la mappa di Israele che va dal Mediterraneo al Giordano, i palestinesi ci sono e adesso dimenticateli se ci riuscite.
Mentre le donne occidentali forse dicono il doppio sì, alla carriera e alla famiglia, o forse ne dicono uno solo come testimonia l’invecchiamento dei paesi occidentali, le donne della Striscia di Gaza sembrano avere uno scopo principale, imposto o volontario che sia: fare figli per garantire continuità alla resistenza di un territorio molto povero ma sovrappopolato e con un’età media molto giovane.
Mai come oggi ho bisogno di trovare parole e figure simboliche da far dilagare nel mondo e quella che mi parla più di tutte è Donna Vita Libertà. Intanto perché le due parole del binomio donna-vita sono intrinsecamente legate e opposte a quelle di soldato-guerra che dominano la scena della guerra mondiale a pezzi; poi la parola libertà fa capire che la strada non è obbligata, si può cambiare, ci si può ribellare, si può sovvertire l’ordine mondiale.
I.
Questo intervento vuole mettere in luce che cosa è stata l’autocoscienza nella pratica politica e nel pensiero di Carla Lonzi e di Rivolta Femminile. Nominiamo Rivolta Femminile come gruppo per entrare subito nella questione, cioè per segnare la natura relazionale e non personalista o intimista dell’autocoscienza. In un momento di grande e felice riscoperta del pensiero lonziano bisogna ricordare e ricordarci che Lonzi è stata fondatrice e animatrice di un progetto comune e collettivo, fatto da tante altre donne, e con loro da tanti altri pensieri, esperienze, desideri e obiettivi politici. In altre parole, Lonzi ha pensato e vissuto in un contesto.
L’autocoscienza femminista, inoltre, non nasce e non si esaurisce, neppure negli anni in cui Rivolta Femminile esiste, con Rivolta Femminile. Non si tratta di cercare un primato (che comunque non sarebbe di Rivolta), ma si tratta di aver cura di non costruire cristallizzazioni e icone, concentrando la nostra attenzione su una singola esperienza, e rendendo minori, o addirittura invisibili, altre, anche molto diverse che pure si sono riconosciute nella pratica dell’autocoscienza femminista. Per questo contributo parleremo esclusivamente dell’autocoscienza femminista per Rivolta, ma, mentre facciamo ciò, ci interessa tenere ben presente che c’è una storia e ci sono voci dentro e fuori Rivolta, incluse quelle con cui Lonzi è stata in profondo disaccordo.
Questo è un testo pensato e scritto in due, e ha il sapore di una felice chiusura di un cerchio. Era il 2017 quando prendemmo per la prima volta parola pubblica insieme su Lonzi, a Livorno, al convegno della Società Italiana delle Letterate e dell’associazione Evelina de Magistris. Fu un momento seminale per il nostro lavoro e per la nostra relazione – significativamente le amiche della Libreria delle donne erano lì con noi. Un momento seminale, di apertura: da quel momento abbiamo lavorato ininterrottamente sul pensiero di Carla; oggi siamo qui avendo finalmente terminato un lungo percorso di ricerca e scrittura su Carla appunto – anche se quel su ci fa sempre problema, perché non ci identifichiamo come specialiste di Lonzi, noi il soggetto lei l’oggetto dell’indagine. Meglio allora dire un percorso con Carla Lonzi, come ha scritto Maria Luisa Boccia qualche anno fa1 1. Con Carla appunto, perché quel lavoro ha attraversato la nostra vita e da lei è stato attraversato. Ci siamo arrese alla lentezza che questo lasciar attraversare ha necessariamente comportato. Questo è stato alla fine un atto di comprensione dell’insegnamento di Lonzi, che tutta la vita porta avanti l’idea che mettere carne al fuoco nelle pagine che si scrivono – l’espressione è sua – non sia questione di stile ma questione politica. «Il giorno in cui capisco qualcosa di me o di te agisco in conseguenza», dice Carla al compagno Pietro Consagra. «Se capisco una cosa e poi ne faccio un’altra mi sento proprio massacrata da me stessa»2. Questo, ossia l’andare di pari passo di esistenza, comprensione e produzione simbolica è una delle cose più preziose che l’autocoscienza lonziana ci lascia. Se praticata, l’autocoscienza inevitabilmente porta tanto alla caduta delle definizioni di sé quanto al fallimento relativo alle ingiunzioni di successo, velocità e facilità di comprensione di pensieri complessi a cui siamo tutte sottoposte.
Prima di addentrarci oltre nei significati e nelle implicazioni dell’autocoscienza in Lonzi vorremmo dire sinteticamente come si è data la pratica dell’autocoscienza nel movimento femminista. Diversi testi degli anni del decennio Settanta ci trasmettono, con la vivezza delle parole delle donne che li stavano sperimentando, resoconti sull’importanza di quei momenti – la stessa vivezza che si ritrova nelle parole dell’introduzione di Traudel Sattler. Questo è ad esempio un passo del Sottosopra 4, del 1976: «ogni esperienza prima di divenire acquisizione del gruppo è, per chi ne parla un fatto privato… finché è negata o censurata dal silenzio non può che restare tale, ma nel momento in cui è detta o analizzata criticamente o generalizzata, il legame con la situazione personale si attenua mentre diventa più evidente il suo contenuto politico… ripensare collettivamente la propria storia è di fatto e non solo simbolicamente, un atto di nascita. L’attenzione di altre donne che giudicano e generalizzano è la garanzia che ciò che nasce come modi di esistenza personale non resti tale». 3
L’autocoscienza è, dunque, una pratica politica. Si è sempre svolta, per Rivolta, in gruppi di sole donne, più spesso piccoli gruppi, fino a svolgersi nel rapporto a due – spesso gli incontri erano registrati, per Lonzi e per Rivolta era pratica comune registrare anche le conversazioni a due, o le conversazioni telefoniche. Questo rivoluziona l’idea di che cosa è possibile chiamare politica, fino dentro alle sue componenti materiali, ovvero gli spazi e i tempi nei quali essa si svolge e il chi se ne fa carico.
La prima presa di coscienza che troviamo negli scritti di Rivolta e di Lonzi è l’imprevisto immesso dal piacere femminile, dalla sessualità clitoridea. A proposito dei soggetti della politica, l’autocoscienza è una pratica politica che rende evidente e che si basa sul carattere necessario del nesso tra corpi e pensiero. Come scrive Boccia: «Carla Lonzi vide bene che non vi può essere un pensiero libero e autonomo di donna, se il corpo femminile resta luogo muto e consenziente del piacere maschile né d’altra parte basterà nominare la presa di distanza dall’uomo, o dotarsi di spazi propri e distinti nei quali pensarsi libere». 4.
Questa pratica ha nei suoi modi, tempi e forme una necessità e un tempo storico: legata a una primissima fase iniziale del movimento ha lasciato poi spazio ad altre modalità analitiche e politiche.
Tuttavia, se la guardiamo attraverso la lente dell’operato del gruppo di Rivolta e di Carla Lonzi che ne ha fatto il centro vivo della propria politica è possibile immaginarla anche slegata da quelle forme che la tratteggiano come evenienza storica conclusa.
Se la pensiamo così, autocoscienza non è più solo una pratica delle origini, codificata e conclusasi come fenomeno storico ma contesto simbolico politico dove hanno le radici almeno due cose preziosissime. La prima, l’emergere di un processo di identificazione e di un rispecchiamento tra donne che si riconoscono come soggetti. Quindi è il modo attraverso cui si è conquista e si pone la coscienza della donna indipendentemente da quella dell’uomo, non come individuo maschio ma come individuo protagonista e detentore della cultura e delle sue manifestazioni. La seconda, la sperimentazione e l’invenzione della pratica del partire da sé. Quindi una specifica modalità del pensiero inaugurata dal femminismo.
II.
Per questo breve testo, abbiamo deciso di entrare nello specifico dell’autocoscienza per Lonzi e per Rivolta Femminile individuandone tre punti. Abbiamo lavorato su questi perché sono gli aspetti che non hanno esaurito la loro carica sul presente non nel senso di un aggiornamento automatico dell’autocoscienza per la contemporaneità, ma in quanto elementi che ritroviamo nel nostro essere nel mondo in modalità più o meno implicite, e anche più o meno fantasmatiche. Ci piacerebbe poter approfondire ancora di più quelle state considerate resurrezioni spettrali dei gruppi di autocoscienza, ovvero, ad esempio, le esperienze di alcuni gruppi di supporto e di aiuto per le donne nell’attuale mondo del lavoro che, di chiara matrice neoliberista, sfruttano, nell’ottica di mercato, il discorso sulla particolare oppressione che ancora oggi le donne sperimentano in quei contesti specifici così come la narrazione ed elaborazione dei loro vissuti rispetto a questo. 5. A queste dinamiche faremo qua soltanto degli accenni molto limitati.
Il primo punto che ci piacerebbe discutere è la capacità che la pratica dell’autocoscienza ha avuto, storicamente, di fare spazio, di aprire due lembi che sembravano aderire l’un l’altro. Questi due lembi sono formati da ciò che una donna, ogni singola donna, è (che corrisponde a ciò che può essere compreso attraverso l’autocoscienza) e ciò che ‘pensa di essere’. Questo ‘pensare di essere’ certamente ha a che fare con la casella 6 che era supposto che occupassimo (e ovviamente questa casella si modifica storicamente, a seconda delle aspettative sociali) ma questo posto preparato per noi è soprattutto interiorizzato (appunto ci pensiamo come donne realizzate oppure ci pensiamo come madri o ci pensiamo come quelle che sostengono, che curano ecc. Ci pensiamo libere, anche. È una forma riflessiva, tutta chiusa in noi, e in ultima istanza individualizzata). E l’aspetto dell’ingiunzione esterna – cioè di qualcuno che ci impone esplicitamente di conformarci a qualcosa – non è certamente l’unica componente, e, in questa parte di mondo che è la parte di mondo di cui Lonzi unicamente parla, non sembra essere neppure quella dominante. Per Lonzi, per il momento in cui lei scrive, questo ‘pensare di essere’ prendeva la forma della donna emancipata. Rivolta femminile la spiega come la donna complementare all’uomo e soprattutto che trova nell’uomo e nella sua cultura (che è la cultura) il fondamento e il modello della sua stessa realizzazione. L’uomo accoglie e celebra la donna in questa sua realizzazione fintantoché questa si conformi a quel modello, modello che non fa che confermare l’uomo e la sua cultura e che non fa che escluderla in quanto soggetto: «L’investitura indetta dall’uomo per riscattarci – sono parole di un testo del 1972 di Rivolta femminile – è una farsa del potere maschile, una farsa tragica come e più di ogni altra colonizzazione. È qui che i gruppi femministi di autocoscienza acquistano la loro vera fisionomia di nuclei che trasformano la spiritualità dell’epoca patriarcale: essi operano per lo scatto a soggetto delle donne che l’una con l’altra si ri-conoscono come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo» 7. Il riconoscimento di e a un’altra donna (l’aspetto della sessuazione del rapporto di riconoscimento è chiaramente imprescindibile) è la condizione dell’autocoscienza, la relazione è ciò attraverso cui l’autocoscienza è pensabile e agibile. Il diario inizia, a conferma di ciò, con questa scena: «Un’altra donna, clitoridea, mi ha riconosciuta come donna, clitoridea, intanto che io la riconoscevo negli stessi termini. Questo è accaduto nella primavera del 1972. Adesso so chi sono e posso essere coscientemente me stessa […] il riconoscimento, da cui nasce il soggetto, intanto che esprime un altro soggetto in grado di essere riconosciuto a sua volta, è stata l’operazione che ha portato il mio processo al traguardo dell’autocoscienza» 8.
L’autocoscienza ha quindi distinto questi due lembi prima indistinguibili e, così facendo, attraverso questa crepa ha reso possibile la scoperta della donna come soggetto. Li ha separati ma per farli combaciare a un livello più alto. Scrive infatti Lonzi: «E questo chiamo autocoscienza: fare in modo che chi parla prenda coscienza che trovare se stesso è riconoscersi nell’espressione di sé […]. Certo non è facile, spesso è disperante, ma chi ha detto che sarebbe stato facile e non disperante?» 9. Più avanti torneremo su questa difficoltà che talvolta fa disperare. Qui restiamo sull’idea che trovare se stesso significa potersi riconoscere nell’espressione di sé. Trovare se stesso significa, cioè, riuscire a formulare parole per raccontare la propria storia dalle quali non ci sentiamo estranee o estraniate. Per l’oggi, in questo si misura anche la distanza dalla costante autopromozione di se stessi, che, pur basandosi sulla narrazione del nostro vissuto, non fa che produrre parole alienate e alienanti.
«Adesso mi rendo conto – scrive Lonzi nel diario – che senza autocoscienza non si può affermare niente, neppure la propria storia» 10. È piuttosto chiaro che l’autocoscienza è parola su di sé alla prova della relazione con l’altra, come già accennavamo all’inizio, e come scrive anche Traudel nella sua introduzione. Se la pratica dell’autocoscienza è stata spesso identificata con la parola detta e ascoltata, Lonzi propone soprattutto lo scrivere come modo della comprensione autocoscienziale. La comprensione di sé generata in questo scrivere si trasforma in un orientamento che sfocia tanto nella vita quanto di nuovo nella scrittura stessa. La scrittura è quindi un tessuto di verifica del processo trasformativo dell’autocoscienza. Da questa prova con la scrittura, può irradiarsi in tutte le opere, siano esse di parola o di altro tipo, per esempio imprese. Nella nostra ricerca sosteniamo per esempio come la casa editrice Scritti di rivolta femminile possa essere letta come un esempio del processo autocoscienziale all’opera, in quanto azione volta a testimoniare il lavoro del gruppo, a dar spazio agli scritti delle donne che ne fanno parte (e non a scritti di donne in senso ampio).
Secondo punto. L’autocoscienza è, nella sua genesi, ripartire da zero avendo smaltito tutte le proposte culturali e i loro miti, è, come accennavamo prima, ‘partire da sé’. Lo dice chiaramente Lonzi nel diario: «Mi accorgo […] che io non posso svolgere la mia autocoscienza se non facendo partire da me tutti i motivi all’origine di essa, non potrei mai accettare di essere la prosecuzione di qualcosa affermato da altre» 11. Partire da sé nel significato lonziano, in quanto si tratta primariamente di un pensiero in pratica, assume diverse forme e modi di essere detto nel diario. Possiamo tuttavia riconoscere due significati fondamentali, sui quali Lonzi tende ricorsivamente a tornare. Il primo è già in qualche modo stato esplicitato, e cioè che partire da sé significa esprimersi, prendere parola, in un rapporto con il mondo che non cancelli la presenza dei corpi, l’essere corpo di chi parla e di chi ascolta. Il secondo è che partire da sé significa accettazione di sé per come si è, e questo esistere per quello che si è, è, per Lonzi, ancora un passo di natura politica. Oggi questa accettazione dovrebbe essere analizzata nelle dinamiche profondamente differenti in cui può avvenire, alcune delle quali, se individualizzate e cristallizzate a livello identitario, risultano già ampiamente catturate dai processi di mercato (in particolare massmediatico), finalizzate a un ampliamento della coorte dei consumatori.
Al contrario, per il passo di natura politica inteso da Lonzi, questa accettazione non si identifica in alcun modo con una passività, al contrario significa aver chiaro che non si può che scegliere la strada difficile per stare nel mondo, quella sulla quale Lonzi si dibatte e si ossessiona in molte pagine del diario: esistere cercando di fornire una presa all’accettazione di sé per quello che si è, affinché questo modo sia in grado di agire nel mondo, di costruire pezzi di mondo in comune. Secondo quella triade di esistenza, comprensione e produzione simbolica che menzionavamo già prima.
Un ultimo punto, il terzo, secondo noi significativo che si trova nelle pagine di Lonzi e di Rivolta è il carattere instabile dell’autocoscienza, senza che questo rappresenti un depotenziamento di questa pratica. Vi sono piani diversi sui quali è possibile misurare questa instabilità.
In primo luogo – lo abbiamo già visto – l’autocoscienza appare come una strada difficile, a tratti che fa disperare soprattutto perché, come osserva Lonzi, si ha spesso la verifica che sia una strada che non interessa quasi a nessuno, che è spesso rifiutata e talvolta ridicolizzata. E questo non solo dall’esterno. Questa strada è difficile e non scontata anche nel gruppo che ha scelto di praticarla. Perché – scrive Lonzi – non si instaura da sola. Più di una volta, ancora nel diario, sono espressi i timori che non tutte, nel gruppo, ce la faranno, inclusa soprattutto lei: «Non è per tutte, qualcuna non si sveglia» 12, e poi ancora, riferito a se stessa: «Certo devo farcela, ma è difficile non provare sconforto quando non so se potrò farcela» 13.
In secondo luogo, l’autocoscienza come pratica non mette in salvo dai conflitti all’interno del gruppo che la pratica. Anche in questo senso, dunque, non è un riparo, non è una forma di irenismo, non è stabilità: «Cos’è sbagliato in quello che facciamo? Perché l’autocoscienza non ci salva dalle rotture?» 14, si chiede Lonzi in un momento di grande conflitto con una delle compagne di Rivolta. Infine, un elemento di instabilità di pensiero, che ha anche a che fare con noi oggi, qui, che stiamo parlando dell’autocoscienza: l’autocoscienza come pratica senz’altro produce una mediazione del nostro vissuto, non è qualcosa che deve essere compresa come una forma di immediatezza e di adesione all’esperienza. Tuttavia, appena ci pare di trovare, attraverso l’autocoscienza, un punto fermo teorico, questo dovrebbe anche creare in noi il sospetto che sia una forma di camuffamento, che rende inautentico il processo.
III.
Lonzi non abbandona mai la pratica dell’autocoscienza, la comprende come essenziale per il femminismo, arriva a trasformarla integrandola nella pratica dello scrivere e in quella del far nascere e vivere la casa editrice.
Autocoscienza oggi, allora, alla luce di quanto ci lascia in eredità Lonzi, non significa certamente narrazione intimistica e monologante sul proprio vissuto, tanto più quando questa narrazione diventa merce, come accade in diversi contesti. Nell’autorizzarsi a immaginarla e praticarla ancora, autocoscienza significa rimanere ancorate all’essenziale: la non sostituibilità del lavoro fatto in prima persona, la relazione con le altre che su quel lavoro vigilano, la presenza dei nostri corpi. Ancorate all’essenziale e vigili sul processo che può custodirlo, non disfacendosi mai della difficoltà, ma anzi assumendola come amica e garante in questo percorso. Come effetto di questo essenziale, restano orientanti le parole di Carla: avere la possibilità di esprimere se stessi con parole e gesti che ci fanno riconoscere in quanto andiamo dicendo e facendo – la «piccola verità» di cui parla nel diario.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Autocoscienza ancora, 1° ottobre 2023.
- M. L. Boccia, Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, Ediesse, Roma 2014 ↩︎
- M. L. Boccia, Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, Ediesse, Roma 2014
- C. Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1980, p. 47.
- Esistono dei traumi piacevoli? Sottosopra n, 4, 1976, p 63. Su questo testo in relazione all’autocoscienza si veda M. Fraire (a cura di), Lessico Politico delle donne. Milano: Gulliver edizioni, 1978, p 127-128.
- M.L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano, 1990, pp. 9-10.
- Su questo aspetto, cfr. C. Rottenberg, The rise of neoliberal feminism, Oxford University Press, Oxford, 2018, trad.it. di F. Martellino, L’ascesa del femminismo neoliberista, ombre corte, Verona, 2020, in particolare pp. 85 e ss.
- Cfr. L. Muraro, «Partire da sé e non farsi trovare», in Diotima, La sapienza di partire de sé, Liguori, Napoli, 1996.
- Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi (1972), in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1974, p. 144.
- C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1978, p. 5.
- C. Lonzi, Mito della proposta culturale, in La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1978, p. 147.
- C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, cit., p. 212.
- Ivi, p. 55.
- Ivi, p. 213.
- Ivi, p. 124.
- Ivi, p. 720.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Autocoscienza ancora, 1° ottobre 2023
Autocoscienza ancora – sì, ancora! Questa pratica congeniale alle donne che da sempre hanno la consuetudine di trovarsi tra di loro per parlare di esperienze anche intime, alla fine degli anni ’60 è diventata una pratica politica e in questo senso è un’invenzione originaria del femminismo. La modalità che ne sta alla base è il riferirsi a sé e al proprio vissuto, cioè la singola trova in sé quello da cui partire, anche senza sapere in quale direzione andrà, e la presa di parola viene potenziata dalla presenza di altre.
Grazie al movimento delle donne questa modalità ha continuato a lavorare nella società, talvolta in modo carsico, per insorgere in modo sorprendente e in forme inaspettate, come ad esempio il #Metoo scoppiato nel 2017. Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare anche una cosa banale o comunque da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e di abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione, la rete. L’altra novità, di portata storica perché ha cambiato il senso comune, è stata l’efficacia dell’azione: si è rotta la complicità anche tra uomini, e il potere finora indiscusso di un produttore cinematografico e di molti altri dopo di lui è crollato. Il terzo elemento nuovo è stata la portata di questa presa di parola: il #Metoo è stato come una valanga a livello globale, attraversando continenti, lingue e culture diverse.
Ultimo caso a Milano nel mondo della pubblicità pochi mesi fa: a partire da una segnalazione di un pubblicitario e da una pagina Instagram molte donne che lavorano in questo settore hanno scritto nei social dei soprusi subiti e hanno preso coscienza che non si trattava di episodi isolati ma di un abuso di potere sistemico. Inoltre ci sono gruppi di autocoscienza nati in anni recenti, e da tempo esistono quelli costituiti da soli uomini. Abbiamo anche visto che qualche giovane attivista fa esplicito riferimento a questa pratica come una possibilità per affrontare questioni del nostro tempo come l’eco-ansia legata alla crisi climatica o come l’intensificarsi della violenza maschile contro le donne. C’è una nuova curiosità nei confronti di questa pratica e qualcuna ci chiede: raccontami quell’esperienza…
Ora, non si tratta certo di proporre un modello o una tecnica, ma piuttosto di vedere l’autocoscienza come “un’inesauribile ricerca di senso, come un motore di ricerca che non ha fatto il suo tempo”, come dice Manuela Fraire con una formula che mi piace.
In Italia è stata chiamata autocoscienza, ma la pratica si è diffusa più o meno nello stesso periodo in quasi tutti i paesi industrializzati, diventando un elemento costitutivo della politica delle donne. Verso la fine degli anni ’60, il movimento antiautoritario sembrava anche per le donne un buon contesto per la ricerca della propria libertà. Ed era anche il momento storico in cui le nostre costituzioni avevano promesso l’uguaglianza tra uomini e donne e non c’erano ostacoli formali all’accesso delle donne all’istruzione e al mercato del lavoro. Eppure in quel movimento antiautoritario per molte donne c’era qualcosa che non andava, c’era un disagio diffuso in quelle assemblee e manifestazioni, in quelle aule universitarie, nei rapporti intimi con i maschi… Io sono venuta un po’ dopo, ma anch’io sentivo quel disagio: nelle assemblee, sempre affollatissime e infinite, le donne parlavano pochissimo. O scimmiottavi il discorso dei compagni o restavi muta come me. Negli esami universitari facevi la recita del sapere neutromaschile, e se non ci stavi alle imposizioni della cosiddetta rivoluzione sessuale tutta su misura della sessualità maschile eri frigida o inibita e comunque da mandare in psicoterapia. Questo senso di frustrazione per una libertà promessa che si era rivelata fasulla ha portato molte donne a compiere gesti dirompenti come disertare le assemblee miste nelle università per trovarsi in gruppi separati e mettere in parola la propria esperienza. Un gesto con un forte impatto simbolico e pratico che ha aperto la strada per noi di pochi anni più giovani. Ispirate dai gruppi che si erano costituiti negli USA sotto il nome di consciousness raising, anche in Europa le donne cominciavano a trovarsi in piccoli gruppi con modalità diverse tra di loro che comunque avevano un punto comune, la presa di coscienza a partire dal proprio vissuto. Per molti gruppi, anche per il mio, significava partire dalla propria sessualità, dall’esperienza del corpo, e la presa di parola era accompagnata dall’esplorazione del nostro corpo, usando, oltre lo speculum, anche il libro Noi e il nostro corpo di un collettivo di donne di Boston, un testo che è stato tradotto in tante lingue. Il nostro intento era sottrarci al potere dei medici, e in generale a ogni interpretazione precostituita della differenza femminile. È stata un’esperienza inebriante, sentivo quella specie di vertigine che ti capita quando lasci il terreno conosciuto e non hai neanche le parole per dirlo. E subito mi venne in soccorso qualcosa che per me è stato ed è sempre un ingrediente irrinunciabile della politica delle donne: la fiducia. Non so da dove mi venisse, penso che sia quella fiducia originaria che hai nei confronti della madre quando ti insegna a parlare. E questo mi ha dato la forza per sottrarmi alle dinamiche del potere maschile compresa l’eterosessualità obbligatoria.
Quindi non erano le contraddizioni della società che mi avevano spinta a cercare libertà e giustizia, ma contraddizioni e sentimenti che venivano dal profondo creando una vera e propria urgenza di parole da dire e da ascoltare. Dappertutto fiorivano gruppi di autocoscienza, è stata una pratica liberatoria, in Germania dove stavo io come in Italia. E qui vorrei sottolineare che per me il femminismo italiano ha decisamente un di più per quanto riguarda l’elaborazione dell’autocoscienza: questa pratica, per sua natura orale, è stata approfondita e messa a punto in forma scritta da Carla Lonzi. È proprio da lei che vogliamo ripartire, dopo ne parleranno Marta Equi e Linda Bertelli che sono qui di fianco a me.
Certo, rispetto al femminismo delle origini ci troviamo in un mondo profondamente cambiato e pieno di nuove contraddizioni: attraverso i social network ogni angolo della vita personale viene esternalizzato, l’intimità sembra messa in vetrina, ma parlare veramente di sé crea imbarazzo. Quando si dice trasformazione di sé viene inteso come ottimizzazione di sé… Oggi la differenza femminile viene sempre di più neutralizzata in nome della parità e dell’inclusione, a partire dal linguaggio, e così rischia di perdere la sua forza creativa. Le nostre emozioni vengono scippate dal capitalismo neoliberista ancora prima di essere messe in parola; il farsi della soggettività, essenziale per l’autocoscienza, può essere bloccato dall’offerta di una vasta panoramica di identità possibili.
E ora c’è da indagare. Quali forme può assumere l’autocoscienza di fronte a queste sfide? Una cosa mi sembra certa: la scommessa originaria di questa pratica, il dire la propria esperienza risignificandola in una relazione di fiducia non si esaurisce ed è una potenzialità che ciascuna e ciascuno porta in sé. Dà un orientamento, il resto è da inventare. È vero, è una pratica rischiosa a livello personale, avventurosa direi, perché abbandoni le strade battute e le parole dette da altri ma promette un pensiero più originale e più vero.
È possibile oggi, ancora, riproporre e praticare l’autocoscienza, cioè quella potente invenzione politica che come una formula magica è stata alla base della miriade di gruppi che con la loro esistenza hanno dato vita al movimento femminista degli anni ’70?
Questa domanda, in maniera diretta o implicita, ha attraversato tutta la discussione che si è svolta nell’incontro della redazione aperta diVia Dogana 3 il primo di ottobre.
Mentre ascoltavo gli interventi continuavo a fare dentro di me il confronto tra “allora” e “oggi” e a cercare di capire perché in quegli anni l’autocoscienza si è imposta con tanta velocità e facilità, mentre oggi, pur riconoscendone l’importanza e il valore, se ne constata anche la difficoltà.
Le giovani chiedono a noi più anziane: come si fa a fare l’autocoscienza? In questa domanda c’è secondo me la grande differenza tra la situazione degli anni ’70 e quella di adesso.
Allora godevamo di un contesto molto favorevole: c’era/c’era stato il ’68.
Gli studenti e le studentesse del ’68, da pochissimo presenti in massa nelle università, si sono trovate/i nella condizione di poter esprimere tutto il loro disagio e la loro avversità verso un mondo dove la famiglia e la società erano un concentrato di autoritarismo e di divieti. Per le studentesse in particolare questo ha significato, insieme alla presa di coscienza rispetto alle disuguaglianze sociali, l’avvio di un processo di consapevolezza su di sé in quanto donne.
Questo “in quanto donne”è stata la chiave che ha aperto alla nascita del movimento. Mettere al centro il proprio essere donne è stato un gesto di profonda rottura rispetto al millenario oscuramento ed emarginazione che avevamo ereditato e noi stesse interiorizzato. Si è concretizzato nel riunirsi solo tra donne, cosa che oggi può apparire un po’ scontata perché le donne si sono fatte più spazio nella società e nel mondo. Allora invece suscitavamo riprovazione, sospetto, incomprensione o ilarità.
Per i “compagni” dell’Università di Sociologia di Trento dove allora ero andata a studiare, l’allontanamento di quasi tutte le donne dalla politica del movimento studentesco è stato un trauma, una cosa incomprensibile perché le relazioni erano amichevoli, piacevoli, improntate prevalentemente al rispetto e alla stima. Ma noi ragazze, senza ripensamenti, avevamo bisogno di “una stanza tutta per noi”.
La forza di questo gesto di separazione ha reso spontaneo/privo di artificiosità quello che avveniva nel gruppo di autocoscienza e il metodo degli incontri. Chi voleva si metteva in gioco parlando di un problema legato all’essere studentessa – cioè di sesso femminile – e questo apriva lo scambio e il confronto fra tutte per rielaborare, oltre le proprie percezioni e proiezioni la specificità di una condizione di sottomissione che ci accomunava e che volevamo smantellare. A questo proposito, i documenti delle donne americane e quelli di gruppi di donne italiane preesistenti al movimento delle studentesse (DEMAU, Rivolta Femminile) ci hanno fornito contenuti fondamentali.
Questo ha avviato un processo di cambiamento che ha avuto grandi conseguenze sul piano personale e sociale.
Oggi non è più così.Tante, troppe cose sono cambiate perché si possa riprodurre tout-court questa onda spontanea e gioiosa che portava a riunirsi, aggregarsi, prendere la parola, agire. E produrre vistosi cambiamenti nella società.
Il contesto adesso, per un insieme di ragioni, è molto più complesso. Non c’è più quel clima sociale favorevole, quell’energia che ha caratterizzato gli anni ’70, che ha funzionato da motore del cambiamento, favorendo così “il nuovo” e anche la nascita di quel movimento di donne.
Inoltre, non c’è più la necessità e l’urgenza che sentivamo allora e che ci aveva così motivato,proprio perché le conquiste fatte hanno aperto spazi (o sprazzi) di libertà femminile prima inesistenti. D’altra partequelle che per noi “vecchie” sono state grandi conquiste, per chi allora non era neppure nata sono qualcosa di “naturale”, scontato. È il mondo (migliore) che hanno trovato.
Questo non vuol dire che non ci sia più presenza attiva, visibile e politica delle donne nella società. Basti pensare al Metoo, dove la presa di coscienza delle donne che hanno denunciato e la dinamica di contagio mondiale che ne è derivata ricorda moltissimo quel che è avvenuto negli anni ’70. E ancora, la denuncia e la lotta contro la violenza dei maschi (molestie e femminicidi) è una bandiera intorno alla quale si riempiono le piazze in tutto il mondo. È di pochi giorni fa l’ondata di riprovazione che ha suscitato, non solo in Spagna, il “bacio rubato” alla calciatrice della Nazionale femminile dal presidente della Federcalcio.
Purtroppo queste azioni tendono a risolversi in leggi contingenti, deboli, spesso inutili e fatte male da maschi e anche da donne che non amano riconoscersi come donne. Sono leggi incapaci, per loro natura, di operare a una reale modificazione della cultura e dei comportamenti diffusi. Anzi, il panorama attuale ci restituisce una situazione davvero critica dove addirittura si tenta di portare indietro le cose e smantellare le preziosissime conquiste fatte dal movimento delle donne.
Se quanto detto può mettere a fuoco alcuni aspetti delle difficoltà soggettive che complicano oggi il “risorgere” dei gruppi di autocoscienza nella forma esatta di com’era agli esordi del femminismo degli anni ’70, che dire del fatto che questo dovrebbe realizzarsi in una società grandemente diversa da quella di cinquant’anni fa? Una società dove la rivoluzione tecnologica – questa sì – ha cambiato modalità di comunicazione, di relazione, di lavoro e di organizzazione? Un mondo dove altri problemi che in quegli anni poco ci sfioravano, come il cambiamento climatico e lo spostamento di grandi masse di persone sul pianeta, oggi si impongono come una realtà quotidiana e urgente?
Quindi, in questo contesto cosa può voler dire riproporre o continuare a fare l’autocoscienza?
Quello che ho capito con la discussione avvenuta nella riunione del Via Dogana 3 si sintetizza per me in questi punti:
– l’autocoscienza, cioè il partire da sé per andare oltre sé come metodo e forma di pensiero, è ciò che intendiamo/continuiamo a intendere come base del “fare politica”, tutta la politica, non solo quella che riguarda le donne;
– oggi gli strumenti a disposizione per fare politica si sono moltiplicati, per tutti e anche per noi donne. Questa è una meravigliosa opportunità e un vantaggio, ma anche un possibile ostacolo. È un vantaggio perché ci permette una capillarità prima sconosciuta di realizzare forme nuove di organizzazione e di scambio attraverso i social, i siti, le reti, le piattaforme, le riunioni a distanza. Ne parlavano le più giovani nell’incontro, che infatti hanno realizzato dei podcast, hanno aperto siti e sono attive sui social. È invece un ostacolo se l’incontro in presenza, in carne e ossa, viene relativizzato o del tutto scavalcato.
Parliamone ancora per andare avanti.
Domenica 1 ottobre 2023, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano
Consapevoli che l’autocoscienza è stata ed è un elemento costitutivo del femminismo, vogliamo tornare a discuterne insieme, a partire dal pensiero di Carla Lonzi. Non si tratta di celebrare una pratica del passato da riproporre nelle stesse modalità e forme. Si tratta di vedere come in tutti questi anni ha lavorato nel profondo, continuando a produrre insorgenze e riprese trasformative, mantenendo la sua qualità di fonte di pensiero che illumina il mondo. Quali forme e modi ha assunto e può assumere ancora oggi?
Introducono Marta Equi, Linda Bertelli e Traudel Sattler. Porteranno una testimonianza Silvia Protino e Angelica Pirro.
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.
Ho letto con grande interesse “Il capitale amoroso” di Jennifer Guerra e sono felice della nostra collaborazione nel realizzare questo numero di Via Dogana 3 dedicato alla forza politica dell’amore e all’amicizia politica.
Dell’autrice ho apprezzato subito il coraggio di essersi impadronita di un tema così spinoso, come è quello dell’amore, e di insistere nel proporlo come una forza politica, come una pratica politica da esercitare nella quotidianità.
Ci accomuna la scommessa di pensare che il femminismo sia una forza trasformativa in grado di cambiare questo mondo alla radice: anche lei, infatti, parte dalla consapevolezza che la questione non è essere incluse in un mondo che non ci prevede.
Naturalmente l’interrogazione sul come farlo è sempre aperta.
La strada di orientarsi con l’amore, proposta in questo numero, delinea il terreno di una vicinanza di idee in grado di alimentarsi a vicenda.
Jennifer Guerra nella sua introduzione dice: «la tesi di questo libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente. La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro».
Al Capitale amoroso di Jennifer Guerra fa eco un filone di pensiero e di esperienze presente da decenni nel femminismo della differenza, per impulso soprattutto di Luisa Muraro. È un filone che ha interessato alcune (tra cui mi metto anche io) e non altre e non si è mosso in modo lineare, ma carsico, con insorgenze e momenti sotterranei, rimanendo però costante, a mo’ di segnale, la circolazione di gioia e di erotismo che si avvertiva nei momenti di incontro.
Sulla nostra rivista questo tema è presente fin dagli inizi: come già ricordava Laura Colombo, nel terzo numero, Luisa Muraro scrive un articolo intitolato L’amore come pratica politica (dicembre ’91). Dieci anni dopo la stessa autrice, in Far essere, passaggi per la politica del simbolico, riprende da Heidegger “il potere del voler bene” e scrive: «Il possibile vero e proprio, che non si oppone alla realtà e che può far essere, il potere che vuole bene, dotato di una tacita forza che si manifesta con l’accadimento del nuovo, che cos’è infatti se non la potenza del simbolico materno?» (VD 54, marzo 2001).
Si deve ancora a lei la ripresa dalla tradizione mistica della formula “dell’intelligenza dell’amore». Nel volume collettivo Duemilaeuna, donne che cambiano l’Italia (Pratiche editrice, 2000), scrive che quella formula può nominare qualcosa che ha scoperto con il femminismo: «Passando dalle rivolte del Sessantotto al movimento delle donne, ho scoperto che l’esporsi agli incontri e ai rapporti diventa fonte di esistenza libera non per quello che con gli altri e degli altri si può fare, ma per quello che di sé cambia in quella esposizione. E ho capito che, fuori dalla violenza, aperta o occulta, del potere sugli altri, non c’è altro modo di cambiare le cose che essere disposti al cambiamento di sé, il paradigma perenne di questa disponibilità essendo l’innamoramento». Secondo Muraro mentre i filosofi da Platone a Marx a Nietzsche, hanno tentato di oltrepassare i limiti della condizione umana mirando alla autosufficienza del singolo, «il passaggio diretto lo apre l’intelligenza dell’amore, l’amore che vuole essere all’altezza ma non teme di essere trovato mancante, e converte il piombo di una insopportabile dipendenza nell’oro di una mancanza accettata che apre la porta ad altro» (pag. 155).
Nella redazione aperta di Via Dogana 3 Jennifer Guerra, a partire da una dolorosa esperienza personale, ha messo fortemente l’accento sull’amore di sé, sentendosi vicina a Carla Lonzi quando ne parla come «esperienza di combaciare con sé stessa». Io sono pienamente d’accordo con lei. Il per sé è imprescindibile in una politica che proprio dal sé muove e si alimenta di quell’irrinunciabile che ciascuna si porta dentro assieme a desideri e bisogni.
La porta stretta sembra essere, dunque, come tenere insieme l’amore di sé con l’amore per gli altri.
Se l’amore di sé è imprescindibile, è tuttavia esposto al rischio di trasformarsi in puro egoismo sulle difensive, in ricerca di successo individuale così consono ai tempi neoliberisti in cui viviamo; mentre la seconda polarità, l’amore per gli altri, è sì apertura al mondo, ma apre anche al rischio di reintrodurre quella logica del sacrificio tipicamente femminile che il femminismo ha combattuto in tutte le sue forme oppure quella logica della politica come dover essere, come sforzo della buona volontà.
L’amore di sé e l’amore per gli altri non sono tuttavia componenti che si possono dosare con il bilancino, si nutrono invece di invenzione simbolica e creatività politica.
Nel libro di Jennifer Guerra mancano esempi, per cui può essere inteso come uno slancio teorico e utopistico destinato a rimanere tale. Io so, invece, che pratiche in tal senso ci sono state, ci sono e potranno esserci ancora. Vorrei, quindi, arricchire la proposta politica di orientarsi con l’amore richiamando due esperienze: una geograficamente lontana, che ha avuto significativi scambi con la nostra libreria, l’altra vicinissima a me in quanto vi ho partecipato intensamente.
Le Madres de Plaza de Mayo rappresentano un esempio mirabile che tiene insieme il per sé e per gli altri attraverso invenzioni simboliche e politiche. Erano per la maggior parte semplici casalinghe quando sono state colpite dall’immane tragedia della scomparsa di figli e figlie ad opera della dittatura militare in Argentina, dopo il golpe del 1976. La loro storia è nota in tutto il mondo e rimando al bel libro di Daniela Padoan, Le pazze (Bompiani 2005).
Pazze. Da sole si definiscono tali: «pazze d’amore, pazze del desiderio di ritrovare i figli», rovesciando l’insulto che veniva loro rivolto per andare in Piazza ed essere arrestate tutti i giovedì. La loro invenzione è stata la “socializzazione della maternità”: madri non solo dei singoli figli e figlie ma di tutti i trentamila desaparecidos e poi di tutti e tutte quelle che patiscono un’ingiustizia e soffrono. Scrive Daniela Padoan: «le Madri hanno reso politico il “lavoro dell’amore” attraverso una legittimazione che si sono date l’un l’altra, riconoscendosi l’autorevolezza e la necessità della parola detta in pubblico» (pag.408). Si dicono sempre “incinte” dei loro figli e di questa maternità sempre in fieri fanno un luogo di creatività politica che orienta in altro modo il contesto in cui vivono. Durante la crisi economica argentina, le Madres partecipano al trueque e portano al mercato del baratto tutto: dalle scarpe usate, ma risuolate, ai dolci fatti in casa da loro stesse, agli strumenti per la scuola, ma si muovono nel mercato con un senso del collettivo diverso per cui non chiamano la polizia se qualcuno ruba o fa incetta. Intervengono in modo relazionale perché «con tuo figlio o tua figlia non scambi scarpe bucate, non chiami la Polizia se vogliono più torte di quelle che hai». (Gianna Mazzini, Scarsità e abbondanza, VD 64, marzo 2003).
L’altro esempio che mi coinvolge di persona, insieme a tante altre insegnanti, riguarda la scommessa di politicizzare la scuola, di farne un luogo di politica delle donne.
La relazione come forma politica contiene già in sé potenzialmente un diverso orientamento di fondo e per me introdurla nella quotidianità dell’insegnamento, sia nel rapporto con le colleghe che con studenti e studentesse, ha significato scoprire che «il motore di questa scuola, per cui continuo ad appassionarmi a ciò che faccio, con gioia, con sofferenza, a volte con irritazione, ha una radice di amore. Per quanto ne so dalla mia esperienza, l’amore è molteplice: è per il proprio lavoro, e stimola a continuare a imparare per farlo bene; è per il sapere, e lascia vivere la curiosità e il gusto; è quel sentire interno che muove al rispetto di bambini e bambine, di chi per età, per cultura, per posizione nella struttura scolastica, è in una situazione di dipendenza» (Buone notizie dalla scuola, pag. 69, Pratiche Editrice, 1998). La relazione a scuola non ha niente a che fare con lo psicologismo pietistico che intende un atteggiamento sempre accogliente che procede distaccato dall’insegnamento. Significa invece trasformare in profondità le pratiche: la relazione in presenza fa rientrare in modo dirompente i corpi con il loro sesso, la loro storia e la vita concreta, introduce l’implicazione soggettiva, compresa quella dell’insegnante, sposta inevitabilmente dal ruolo di trasmissione di un sapere prodotto altrove, aprendo a qualcos’altro in cui può accadere l’imprevisto. Con la relazione sono soprattutto le procedure di controllo a perdere di senso e infatti nell’Autoriforma gentile molto abbiamo lavorato per dismettere le misurazioni oggettive come i voti e i test e praticare forme più amichevoli e colloquiali, che possano dare continuità alla relazione stessa attraverso il parlarsi e la rinnovata possibilità di fare delle mediazioni nel linguaggio.
Le pratiche di relazione orientate dall’amore per la comunità, che sia una scuola come nel mio passato lavorativo o la redazione di una rivista come nel mio presente, contengono un elemento che trascende l’egoismo, va oltre l’io perché c’è qualcosa di più grande di cui si è parte, c’è una dimensione collettiva in carne ed ossa da cui non si prescinde nel pensare e nell’agire. In questa logica, un successo è sì personale, ma non solo personale, sia perché è stato sostenuto da una rete di relazioni sottostante sia perché a sua volta la sostiene. Molto lavoro di tessitura fatto dall’una o dall’altra, di scambio, di messa a punto, di attenzione al dettaglio, ha contribuito a quel successo. La consapevolezza di ciò diventa alimento per le une e per le altre e trasmette forza sia alla singola che all’impresa in comune.
Una delle prime urgenze che io e le mie compagne, le Compromesse, abbiamo portato sulla tavola virtuale dei nostri incontri settimanali su Meet, in piena pandemia, è stata quella di costruire rapporti profondi con le altre donne. Tutte quante volevamo ricominciare una relazione lasciata in sospeso, quella con l’altra, relazione messa alla prova dalle invidie e dalle competizioni che la socializzazione femminile innesca in adolescenza, per farla evolvere in una dimensione che partisse sì da noi, ma coinvolgesse il mondo intero.
Ci siamo riuscite: Le Compromesse sono le mie prime amicizie politiche. Le parole di Chiara Zamboni nel descrivere questo tipo di amicizia hanno risuonato molto in me e non ho potuto fare a meno di pensare a questo bellissimo gruppo di donne che ho la fortuna di frequentare.
Anche il racconto di Jennifer Guerra, intensamente personale, ha toccato alcune corde che proprio adesso sono più importanti che mai. Jennifer ha trovato nel femminismo una forma di amore, un amore come pratica politica quindi, a cui si dedica da diversi anni. Ha parlato di letture, manifestazioni, impegno nei centri antiviolenza. Tutto questo però ha subito una piccola frenata in seguito a un momento di crisi personale, nel quale però ha riscoperto un altro amore, quello per sé stessa, che non significa abbandonare gli altri amori e passioni, ma soltanto ascoltarsi e adeguare il proprio ritmo. Questa è la nota del racconto di Jennifer che più ha risuonato in me. Anche io ho attraversato un periodo di crisi, terminato poi con la fine di una storia d’amore molto importante, nel quale mi sono ritrovata – senza esplicitamente esprimerne il desiderio o nemmeno rendermi conto che lo desideravo – ad assecondarmi come mai nella mia vita da adulta avevo fatto: vivendo giorno per giorno, dedicandomi più ai piaceri piccoli ma quotidiani che a progetti dilatati nel tempo, anche a costo di rimandarli un po’; un assecondarmi che mi ha portata a finire la mia relazione senza strappi bruschi, ma che mi ha anche allontanata momentaneamente dall’impegno politico. Tuttavia è stato un periodo ugualmente fervido e pieno. Guardandolo in retrospettiva mi sono accorta che, anche mettendo in pausa certi elementi della mia vita, questi non sono affatto scomparsi, anzi. Le amicizie che ho coltivato – con molta più cura rispetto a periodi più “impegnati” – e che hanno composto gran parte dei “piccoli piaceri quotidiani” che mi sono concessa, sono state quasi tutte amicizie a tre: io, te e il mondo. Sono sicura che il mio coinvolgimento nel femminismo ormai non possa non coinvolgere a sua volta le persone a cui voglio bene; domenica all’incontro di Via Dogana ho portato una mia amica, che non era mai stata in Libreria prima. La sera prima mi aveva detto che, conoscendo il “femminismo mainstream” e neoliberista del sex work, si vergognava di definirsi femminista. Era un’affermazione che denotava sfiducia, ma in cui ho intravisto un desiderio di essere smentita. Così d’istinto le ho risposto proponendole di partecipare alla redazione aperta; dopo l’incontro mi ha detto che aveva capito perché lo avevo fatto e ne era grata. È bastato così poco! Eppure credo che quel semplice scambio abbia portato qualcosa di molto rilevante per me e per lei, sia dal punto di vista affettivo che dal punto di vista politico.
Nel suo racconto, Jennifer menzionava centri antiviolenza, manifestazioni, piazze e letture messe in pausa. Io credo che la politica come amore non possa essere messa in pausa. Le parole stesse di Jennifer lo fanno trasparire, e nel mio piccolo lo osservo anche nella mia esperienza: dal piccolo gruppo di studio o dalla piazza, si trasferisce inevitabilmente nel rapporto con l’altro – che in fondo è politica.
La relazione introduttiva di Chiara Zamboni in occasione della redazione della rivista Via Dogana Tre dell’11 giugno scorso è stata per me particolarmente preziosa. Orientarsi con l’amore, diceva l’invito, indicando un tema fondativo, e variamente declinato, del pensiero politico delle donne per come oggi lo conosciamo e pratichiamo.
Voglio ricordarne almeno due forme memorabili per molte della mia generazione: l’amore della figlia per la madre, come si legge nella relazione di Laura Colombo con riferimento al pensiero di Luisa Muraro ne L’ordine simbolico della madre del 1991, e l’amore che le donne hanno rivolto alle loro simili, secondo la pratica proposta da Antoinette Fouque nel gruppo Psychanalyse et Politique nei primi anni ’70, ripresa e rielaborata nel pensiero di Lia Cigarini (vd. introduzione a I sessi sono due di Antoinette Fouque, 1999). Queste invenzioni simboliche ci permisero allora di vedere quella corrente viva di relazioni che aveva da sempre percorso il mondo delle donne. La scelta di Chiara Zamboni di partire dall’amicizia tra donne come fatto originario è un ulteriore passo simbolico che ci rafforza e rallegra. Siamo amiche, lei parte da lì, semplicemente, e l’amicizia, secondo le sue parole, «ha come suo centro il fatto di confrontarsi nella vita e sul suo senso», e aggiunge che «una ricerca di senso che riguarda la vita, facilmente può diventare politica». Con tratti essenziali e felici Zamboni ci dice che l’amicizia «è politica in quanto ha a cuore il mondo. L’amore per il mondo è ciò che ci unisce e ci fa cercare. Ci fa desiderare di trasformarlo». Segnala poi la differenza che intercorre tra l’amicizia politica e la semplice relazione politica tra donne. Se la prima ci fa cercare «l’altra per pensarlo [il mondo] – perché cerchiamo una misura – anche da posizioni che possono essere diverse […] le relazioni politiche sono molto più libere. Fluide. Leggere. Si possono creare relazioni politiche anche con chi sentiamo lontana o lontano quanto a piano profondo dell’esistenza. È sufficiente che si crei una comune scommessa di trasformazione del mondo e di modificazione di contesti vissuti assieme.[…] una relazione politica si scioglie senza sofferenza, quando non ci sono le circostanze che l’alimentano».
Non posso qui riassumere, come è ovvio, la ricchezza del contributo che è possibile leggere nella sua interezza in questo numero online di Via Dogana. Ho solo riportato alcuni dei tratti con cui Chiara Zamboni caratterizza tre forme di relazione tra donne che, utilizzando un’espressione ricorrente nel pensiero di Lia Cigarini, chiamo “figure dello scambio”: quei modi, quelle forme, cioè, con cui scambiamo, tra donne, sapere, autorità, senso della vita, amore per il mondo e gli esseri che lo abitano e perciò anche desiderio di cambiarlo.
Ho subito provato un senso di sollievo, ascoltando la relazione, come accade quando una impasse del sentire e del pensiero, si libera in una nominazione adeguata. Di recente mi è capitato di confrontarmi con donne molto impegnate nel contrasto alla cosiddetta maternità surrogata, al sex work e alle altre nuove forme di mercificazione dei corpi – in particolare di donne e bambini – che tuttavia trovano giusta e adeguata la risposta bellica che l’Ucraina, la Nato e l’Europa tutta, hanno deciso di opporre a Putin. Mi sono detta, ma che mi importa se lei combatte per la dignità di donne e bambini quando si tratta di “utero in affitto”, ma poi non riconosce il nonsenso e l’orrore della guerra, quale che sia? Ero convinta che non si trattasse di un buon pensiero, di un buon pensiero politico, intendo, e quindi sono rimasta in mezzo al guado senza sapere come nominare o come sciogliere il nodo. La formulazione di Chiara Zamboni mi ha subito sollevata. Ho capito che rimanevo incastrata in una “figura dello scambio” incongrua, inadatta a definire quella relazione. Non di amicizia politica si trattava, bensì di più semplice relazione politica, di quelle dalle quali ti accommiati se il contesto non è più convincente o nelle quali puoi rimanere per condividere un disegno comune ma definito. Mi chiedo, però, perché rimanessi così impigliata nel disagio, quasi nella sofferenza. Mi rispondo – e ne parlo solo perché penso che anche ad altre possa succedere – che troppo spesso mi incaponisco a volere amicizia politica. È come una pretesa d’amore che si rivela, oltre che inutile, controproducente. Restringe il mio mondo invece di allargarlo. Le figure dello scambio che Chiara Zamboni ci propone fanno proprio il contrario, ci mettono in relazione differenziata e duttile con le altre. Quanto più la rete delle relazioni può allargarsi senza che vi restiamo impigliate, tanto più la nostra scommessa sul mondo può risultare vincente.
Ho partecipato volentieri e con curiosità, alla discussione della redazione VD3 “Orientarsi con l’amore”, in modalità online. Godo di questo mezzo per essere presente alle conversazioni in Libreria alle quali, altrimenti, non potrei partecipare con la stessa frequenza, visto che vivo lontana.
L’essenza dell’amore è l’essenza del femminismo, è stato detto a un certo punto, nell’ordine femminile della madre, e occorre perciò, a mio avviso, darsi misura, altrimenti si rischia il ritorno in nuove forme subdole del sacrificio di sé in nome dell’amore, della passione per il mondo.
Il patire nell’amare è sentire un disagio fisico o spirituale. Dove c’è patimento, io ho imparato da femminista a prendere le misure, cioè le distanze di sicurezza per la mia incolumità e l’andamento del vivente: cioè dove sento che c’è, esso non porta niente di buono, e se non si trova come rimediare, allora meglio desistere e lasciare lo spazio al silenzio, in attesa di tempi e momenti migliori per riproporre, per riproporsi.
L’amore femminile della madre non ammette sacrifici, ma cura di sé e delle altre e degli altri in relazioni necessarie e irrinunciabili, molto spesso inaspettate, ma soprattutto non a tutti i costi, altrimenti c’è chi approfitta dell’occasione e chiude il cerchio in una morsa che già conosciamo dell’amore come merce oppure risorsa vivente e infinita da sfruttare.
Ecco la mia ricerca di libertà da femminista di questo secolo, consiste in questa misurazione continua e infinita, senza stanchezza e senza segni di insofferenza, senza ripensamenti ma alleggerendo la portata, la consistenza all’essenziale, affinché scorra in libertà il pensiero e l’azione.
Questa è una scienza, basata sull’esperienza di sé e delle altre, riproponibile e che si può ereditare, attraverso testimonianze scritte oppure vissute e raccontate in presenza oppure online.
L’importante è rendersi conto e rendere conto in coscienza, in modo autentico, con chi si vuole oppure ovunque si presenti la possibilità di esserci.
Nell’ultimo incontro di Via Dogana si è parlato di amore e amicizia politica. Prima di scrivere del significato che l’amore ha per me in questo contesto mi è necessario fare una premessa: l’idea di amicizia politica non potrebbe esistere per quanto mi riguarda senza l’incontro col femminismo. E dal femminismo non si torna indietro. Il femminismo, e le mie amicizie, che reputo tutte intrinsecamente politiche, sono una lente attraverso cui guardare il mondo, esplorarlo, cambiarlo.
Con gli occhiali del femminismo l’amicizia ha assunto nuove forme. Enormi, alcune, ingombranti. Rassicuranti. Altre costantemente presenti. Colorate, che riempiono la stanza di energia. Salde, nonostante il tempo, nonostante la distanza. Risonanti come una risata. Leali. Le amicizie che sento tali nel profondo sono tutte politiche a modo loro, perché hanno una cosa in comune: si fa assieme, con l’idea di una realizzazione condivisa. È forse questa per me l’anima della politica, la prospettiva di inclusione dell’altro di cui parla Hannah Arendt in Che cos’è la politica. Per citarla, «la politica non raggiunge mai la stessa profondità. La mancanza di profondità altro non è infatti che scarsa sensibilità per la profondità su cui poggia la politica». Solo nell’unione delle nostre sensibilità può avere luogo la politica, nella relazione, e solo con lo scambio, abitando l’intra, ci è possibile discendere a profondità maggiori, dove possiamo sentire di più. In questo sentire, sentire forte che ancora nessuna lingua per me dice meglio dell’italiano, politica e amore si incontrano. È un sentimento viscerale che, come avevo già scritto qualche tempo fa parlando del tema del piacere, ha qualcosa di erotico. Lo vivo nella mia esperienza quotidiana in cui ciò che mi muove e mi spinge a fare, a dire, è la possibilità di questa seduzione creatrice che si instaura nei legami di amicizia e di amore. Più il confine tra i due sfuma più si fa intensa e interessante la collaborazione: le idee scorrono, si pianifica il futuro, le utopie sono intriganti tanto più quando sono possibilità concrete da materializzare assieme. La relazione politica per me è immaginare con occhi uguali e diversi mondi nuovi. L’eros è una risorsa per una comprensione intima, una forza che come scrive Lorde «non può essere di seconda mano». La sua potenza è brillante, generativa, autentica nel momento stesso in cui viene riconosciuta da qualcun altro. In quel riconoscimento ci vedo tutta la bellezza del femminismo e dell’amore che sento come vero.
In questo momento storico in cui è difficile discernere verità e finzione – e per verità intendo quello che sentiamo come vero per noi – in cui l’eros sradicato e applicato solo al visibile tanto rafforza le posizioni maschiliste e maschiocentriche che non abbiamo ancora scalfito del tutto, far nascere e coltivare relazioni politiche è un’impresa complessa e dispendiosa di tempo, tempo che molti e molte scelgono di non impiegare perché catturati dalla macchina del neoliberismo. Ho perso amicizie che non hanno retto al contraccolpo erotico della condivisione profonda. Altre non sono diventate abbastanza forti. Altre ancora hanno prodotto scontri che ci hanno separate per qualche tempo. In quelle con gli uomini, spesso amorose e in cui il gioco erotico ha una doppia anima – unione di intesa mentale e fisica –, la questione è ancora più sfaccettata: da un lato la resistenza tutt’ora da parte degli uomini ad abbandonarsi a un sentire che non divide testa e cuore, dall’altra l’incapacità e spesso la non volontà di trovarsi di fronte a un erotico molto diverso da quello che hanno inteso loro. Un eros-amore che crea uno spostamento reale, che si manifesta nelle cose di tutti i giorni e non solo in un letto o un collant, un sentimento che “fa per due”, che cambia gli equilibri interni ed esterni e che ci fa sentire coinvolti e al tempo stesso custodi responsabili di una passione preziosa.
Nel nutrire e riconoscere nuove relazioni politiche quel che mi aiuta è ricordare che non c’è posto per l’individualismo in un progetto politico nato dall’amore, né per una visione parziale e unilaterale delle cose. C’è conferma, forza, futuro.
Nei tempi che attraversiamo, grande è il rischio di ritrovarsi senza parole, ammutolite dalle guerre, dai massacri, soprattutto dall’indifferenza per le vite umane, inghiottite al largo di Pylos oppure davanti a Cutro.
Per questo, invece, perché può produrre lingua e relazioni, voglio ragionare di “amicizia politica, come pratica orientata per il presente” che ponete alla riflessione nell’invito alla redazione aperta di #VD3.
Secondo me l’amicizia politica non presuppone l’essere in sintonia. In effetti, mi convince Chiara Zamboni quando dice che «l’amicizia politica non ha a che fare con l’essere d’accordo con l’altra».
È una posizione che non costringe a stare di qua o di là, in uno o nell’altro schieramento, dalla parte di chi vince o di chi perde. Piuttosto si tratta di uno “scambio conflittuale”, una possibilità di trasformazione in grado di modificare i soggetti dello scambio e costringere ad abbandonare la corazza dell’identità.
Badate che alla corazza dell’identità molti e molte si avvinghiano quasi fosse la loro ancora di salvezza. Basta leggere le interviste più intime rovesciate sulle pagine dei giornali, basta ascoltare le esibizioni senza filtri alle quali assistiamo sulla scena televisiva.
All’opposto, lo “scambio conflittuale” aggira la pretesa di ottenere riconoscimento, la sicurezza di avere ragione e colloca in una posizione di ascolto delle altre. D’altronde, l’amicizia politica attraverso un «va e vieni tra vita quotidiana e amicizia tra donne» (sempre Chiara Zamboni) mette in rapporto con il mondo, con le contraddizioni squadernate quando ci si immischia nelle cose del mondo.
Così, i nodi aggrovigliati (come la gestazione per altri) che esistono tra noi, tra me e voi della Libreria e che certo è utile tentare di sbrogliare, non diventano dei macigni e non escludono che possiamo lavorare insieme interrogandoci sugli uomini e sulle donne e sul nostro stare insieme. In fondo, è l’amicizia politica con le sue parole che aiuta a schivare i fantasmi dell’incompatibilità radicale.