Ho scelto come titolo di questa breve riflessione due passaggi del secondo manifesto di Rivolta Femminile, li ho ricombinati fra loro perché questo rimescolare discorsivo restituisce quello che l’autocoscienza è diventato per me nell’arco di tre anni. È per me un’impresa rischiosa parlare dell’autocoscienza, provo il senso della vertigine, perché essa è una pratica connessa al nostro essere donne-persone-soggetto nel nostro divenire consapevole e proprio per questo mi sfuggono sempre i termini del discorso, i confini, le forme.

Tutto è iniziato nel 2018, alle soglie dei miei trentacinque anni, quando l’idea della pratica dell’autocoscienza è diventata qualcosa di ricorrente nel panorama dei miei pensieri e allora, pur non avendo minimamente idea di che cosa aspettarmi, ne coltivai da sola il desiderio; poi, fra il 2019 e il 2020, quando il mio essere donna-madre-moglie era diventato una dimensione di solitudine e alienazione si imposero le parole di mia madre «Sii più femminista nella tua vita personale e non solo livello politico»: per la prima volta nella mia vita le avevo sentito pronunciare delle parole che avevano al centro me e che mi richiamavano a farmi soggetto pensato di me stessa. Quelle sono state le ultime parole di amore che le ho sentito pronunciare: non c’era rimprovero nella sua voce né giudizio, erano le parole di una donna verso un’altra donna; lei donna clitoridea, io donna vaginale. L’autocoscienza è iniziata in quello scambio.

Nei mesi che seguirono iniziai una guerra, per usare un’espressione cara ad Angela Putino, con me stessa e per mesi volteggiarono nella mia mente le parole del filosofo Seneca «Vindica te tibi» (affrancati, liberati), un’espressione che con stupore incontrai poi alle soglie del 2021 fra le parole di Carla Lonzi che mi invitavano, come aveva fatto per tre anni la mia amata professoressa di filosofia del liceo – suor Clotilde Milinci – a fronteggiare i meccanismi di autodifesa in cui ci crogioliamo per permanere cullate dalla nostra falsa coscienza; oggi probabilmente qualcuna direbbe che suor Clotilde ci invitava ad essere out of the comfort zone, lei la chiamava “vita autentica”, “essere persone e non individue”. Se per una parte considerevole della vita la mia coscienza era sempre stata punzecchiata e richiamata da donne più grandi di me alle quali ero legata da una relazione gerarchica affettuosa, mi sentivo finalmente pronta a fare lo stesso in relazioni simmetriche e prive di gerarchia.

Oggi l’autocoscienza, oltre che pratica di incontro, è diventata postura, matrice. Durante l’incontro di Via Dogana sono risuonate, quasi che fosse la mia bocca a pronunciarle, le parole di tre donne: Maria Castiglioni, che ha parlato del suo gruppo di autocoscienza, Roberta Cordaro, che è legata ai luoghi terzidi una delle madri dell’autocoscienza italiana, Daniela Pellegrini, e Claudia M., una delle donne con cui la pratico settimanalmente; mi è sembrato, nell’ascoltarle, che ricorresse un termine a me caro: domande. Se l’autocoscienza è iniziata in un dialogo da donna a donna fra me e mia madre, essa è continuata nelle altre donne, prima fra tutte Alessandra Lanivi, per me amatissima, alla quale devo le domande più difficili, quelle che hanno ipotizzato e svelato le mie contraddizioni. Le domande dall’altra che ti ascolta in autocoscienza sono una mano tesa, un appiglio e al tempo stesso l’epicentro di scuotimento, l’epicentro di quel terremoto che fa emergere trasformativamente questa me incarnata; l’autocoscienza è l’altra, appunto, e questa soggetta che ti è simile e divergente al tempo stesso è spinta, sostegno, scialle che ti avvolge, energia che ti contiene in un legame simmetrico di rispondenze. Sebbene ritenga che questa pratica sia possibile in una prospettiva di relazione duale fra donne, penso che la dimensione del “piccolo gruppo”, del luogo terzo – come giustamente lo definisce Daniela Pellegrini – variamente ma stabilmente abitato, sia quella ottimale, poiché il fatto che le donne si facciano presenza e coscienza costante delle altre rende possibile il cogliere delle contraddizioni: ciascuna donna in autocoscienza è soggetto che si pensa narrandosi e al tempo stesso soggetto contraddicente, uno specchio vivente e pensante, che non riflette in modo deformato ma che richiama a uno sguardo più attento quando l’altra si adagia nelle autodifese. È proprio da una pratica separatista stabilmente abitata e vissuta che è possibile rendere politico ciò che emerge nel farsi dell’autocoscienza; è la stabilità dello scegliersi come soggette pensanti a rendere possibile, poi, la resa scritta, poiché la scrittura è per me la foce naturale di questa pratica e fa aderire il pensato al vissuto una volta che le contraddizioni hanno trovato una risoluzione discorsiva e con essa la politica. L’autocoscienza è l’altra, ma la mia avventura sono io. Non posso che concludere questa brevissima riflessione con un pensiero per le amiche divergenti con le quali condivido e/o ho condiviso questa pratica: Alessandra, Angelica, Anita, Caterina, Claudia, Daniela P, Donatella, Elisa, Francesca M, Francesca S, Letizia, Maria, Roberta, Susanna, Valeria B., Valeria Q.


Per questo numero, la redazione di Via Dogana 3 voleva mettere in luce come l’autocoscienza, pratica sorgiva del femminismo radicale, ha continuato ad agire e dare frutti, prendendo talvolta forme lontane da quella delle origini pur mantenendone il punto cardine: la creazione di uno spazio di libera parola, uno spazio trasformativo e politico.

Mentre discutevamo di questo, io ho subito pensato al fenomeno sempre in crescita della produzione di podcast, ovvero la creazione di un audio (assimilabile a una trasmissione radio), distribuito attraverso Internet e fruibile attraverso uno smartphone o un computer. A mio avviso, ed è un azzardo, è una delle forme che ha preso la pratica dell’autocoscienza nel presente, attraverso l’uso delle tecnologie.

Durante la redazione allargata di domenica 1° ottobre, Linda Bertelli ha parlato dell’autocoscienza come creazione di uno spazio tracciato da due lembi, quello che una donna è e quello che pensa di essere, due estremità delimitanti uno spazio frutto della scommessa politica del femminismo, che ha permesso a ciascuna donna di trovare parole non estraniate per dire di sé. Come? Levando, nello scambio con le altre, strati di aspettative, presupposti, sottintesi scontati, false credenze e tabù, opinioni invalse, e via osteggiando pregiudizi, per arrivare a un’accettazione di sé per quello che si è.

Io sono un’ascoltatrice di podcast, amo particolarmente quelli in cui si crea uno spazio di parola libera e veritiera. Per esempio, il podcast How to fail di Elizabeth Day, dove la giornalista e scrittrice inglese accoglie le sue ospiti e le intervista, lei stessa è partita dal suo frustrato desiderio di maternità, che definiva come un fallimento, ed è visibile, nel farsi delle puntate, la trasformazione e l’accettazione di sé attraverso la parola scambiata, la modificazione del suo fallimento in una figura dello scambio, dispositivo simbolico in cui altre si possono riconoscere. Voglio citare anche il podcast The Adam Buxton podcast, dove l’attore e scrittore inglese si mette in gioco a partire da sé, in un setting dialogico, raccontando gli effetti del mondo dello spettacolo e dei social sulla vita, il rapporto col padre, la morte dei genitori, la famiglia, i figli, il lavoro, l’amore. È straordinario come, anche in questo caso, ci sia la restituzione di parole politiche per tutte e tutti.

Qui pubblichiamo la testimonianza di due giovani donne che producono un podcast femminista, Angelica Pirro e Silvia Protino. Il loro podcast, A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenzapoggia sulla parola scambiata, alla ricerca di un’aderenza della parola all’esperienza femminile. In questo sta l’azzardo, nel vedere il perdurare dell’autocoscienza in nuove forme di presa di parola, anche attraverso la tecnologia.
(Laura Colombo – Redazione #VD3)

Silvia e io abbiamo avuto il piacere di partecipare alla redazione aperta di VD3 del primo ottobre 2023. Qui di seguito il nostro intervento riguardo le nuove forme di autocoscienza. All’inizio del 2022, abbiamo creato un podcast che raccoglie testimonianze di donne che hanno subìto molestie sessuali.

In poche parole, un podcast è una radio che però non viene trasmessa in diretta, ma in differita. Un podcast solitamente è diviso in episodi che vengono pubblicati e che possono essere poi ascoltati liberamente e archiviati sul computer o sul cellulare. Mentre esistono podcast che forniscono anche un supporto visivo alle puntate, il formato originale è strettamente audio (come il nostro).

Silvia e io, al momento di scegliere quale medium usare per dare voce al nostro progetto, abbiamo prima di tutto stabilito che sarebbe stato uno spazio creato da noi. A quel punto abbiamo deciso di usare lo strumento del podcast perché è l’unico che ci permetteva di mettere al centro la nostra voce, e non solo la mia e quella di Silvia, ma quella di qualunque ragazza che avrebbe voluto prendervi parte. Sentivamo il forte bisogno di far risuonare la nostra voce collettiva. E poi ci piaceva l’idea di creare una raccolta di testimonianze orali, un vero e proprio archivio che però non fa riferimento al passato, ma al presente, che non è archiviato, impolverato, ma è vivo in ognuna di noi, nelle nostre singole voci che ne compongono una sola, che non è formalizzato e istituzionalizzato, di Stato, ma è libero, vitale, trasformativo, generativo. Un archivio che possa servire anche, magari per fini “scientifici”, di ricerca, attraverso il quale si possa indagare il fenomeno sociale delle molestie sessuali. In più, il podcast è bilingue, ascoltabile sia in italiano sia in inglese, ma cosa ancora più interessante, è registrato in due paesi differenti: Italia e Irlanda. Sarebbe interessante adottare una prospettiva critica, per analizzare quali sono le differenze e le somiglianze tra i racconti italiani e quelli irlandesi. Ecco, questo secondo noi è un primo elemento della pratica dell’autocoscienza: riconoscere che ciò che io vivo all’interno dei confini del mio paese, lo sta vivendo anche una ragazza a centinaia o migliaia di chilometri di distanza da me e che quindi ci fa vedere chiaramente come il nostro essere donne ci accomuna.

In più, il podcast ci permette di dare voce al silenzio che vige sul problema sociale e culturale delle molestie sessuali. Gli uomini, a parte essere coloro che mettono in atto le molestie, non sono consapevoli, o se lo sono, non lo sono pienamente, dell’esistenza di questa forma di violenza e di quanto sia capillare e pervasiva. Ci è capitato più volte di raccontare le nostre esperienze del podcast ad alcuni dei nostri amici maschi, che ovviamente stimiamo altrimenti non sarebbero nostri amici, ma che comunque sono rimasti sorpresi nel venire a conoscenza dell’esistenza e della normalità delle molestie sessuali. Eppure, è strano: è un fenomeno talmente diffuso che (quasi) tutti gli uomini hanno molestato una ragazza almeno una volta nella vita, o comunque ne sono stati complici, o indifferenti. Quindi come fanno a non saperlo? Loro sanno come si comportano i maschi in gruppo, di cosa sono capaci, eppure si ritrovano (e li ritrovi) stupiti. Forse non si rendono conto di ciò che significa per noi subire molestie quotidiane fino a quando non glielo comunichiamo in modo esplicito? Non lo sappiamo ancora.

In ogni caso, il podcast ci consente di far emergere dal silenzio tutti i racconti e le storie, che costituiscono un sommerso, un insieme di voci inespresse, che non si sentono, ma che comunque esistono. Se il discorso delle molestie sessuali ci permette di entrare in contatto con ragazze lontane da noi, sia a livello geografico sia di pensiero, e a noi sconosciute prima dell’incontro, allora anche altre, che ancora non conosciamo e di cui ancora non abbiamo sentito la voce, potrebbero raccontare una storia simile. Il nostro punto di partenza è credere a ogni donna che denuncia una qualsiasi forma di violenza, senza sentire il bisogno di constatare quella violenza, di provare, di dimostrare il fatto che sta denunciando, perché crediamo in lei, alla sua voce che risuona dentro di noi come se fosse la nostra.

Ecco, tutto questo scambio, condivisione, amicizia, amore, sorellanza, che sono svincolate da spazi e tempi predefiniti trovano forma in una raccolta di testimonianze orali, in un archivio dell’esperienza femminile che oggi chiamiamo podcast. 

Spiegato il mezzo, ora torno indietro a raccontarvi l’antefatto e l’origine del nostro podcast “A day in a Female Life – racconti di ordinaria violenza”. A quei tempi vivevo a Dublino, ma ero tornata a Milano per le vacanze di Natale. Come facevo spesso, ho preso i pattini e sono andata a pattinare nella zona che circonda lo stadio Meazza, San Siro. Ho messo i miei conetti per terra e con le cuffie nelle orecchie, mi stavo facendo i fatti miei. Speravo che i fatti suoi se li facessero anche le persone attorno a me, invece purtroppo così non è stato. Prima si avvicina un ragazzo e tra me e me penso, sarà solo curioso e vorrà vedermi fare qualche esercizio. Solo che questo ragazzo è rimasto lì, a braccia conserte, fissandomi senza farsi alcuno scrupolo. Non mi ha detto nulla, ma quello sguardo fisso, pesante, non richiesto, mi ha fermato sui miei passi. Mi sono bloccata e ho smesso di pattinare finché non si è allontanato.

Pochi minuti dopo arrivano due ragazzi che mentre sono girata iniziano a calciare i conetti che avevo messo per terra, per poi allontanarsi senza alcun rimorso. 

Come prima cosa, ho provato paura. Mi sono resa conto che non mi sentivo al sicuro in quel luogo. Ho interrotto il mio passatempo preferito e ho iniziato a pensare che se fossi stata un uomo, forse quei ragazzi non si sarebbero permessi né di avvicinarsi e fissarmi, né di danneggiare la mia attrezzatura. E questo perché un altro uomo lo rispettano; la donna invece è passibile di qualsiasi capriccio che passi per la testa ad un ragazzo.

Ho fatto delle storie su Instagram, raccontando quello che era successo con tanta rabbia e frustrazione. Dall’altra parte dello schermo ci sono state molte ragazze che hanno ascoltato e condiviso il mio dolore, offrendomi parole di conforto e di solidarietà. Ovviamente c’erano anche altri pareri, da parte di uomini, che invalidavano la mia esperienza dicendomi cose come “in zona San Siro cosa ti aspetti”.

Silvia ha subito colto il mio richiamo e in una conversazione che ormai è storica, in qualche secondo abbiamo entrambe sentito la necessità di creare qualcosa di più grande, che rimanesse per tutte. Siamo partite dalla constatazione che tutte le donne, nessuna esclusa, hanno vissuto almeno un episodio di molestia sessuale per strada o in luoghi pubblici. 

Nonostante questo dato fortemente preoccupante, non è comune che questi avvenimenti vengano menzionati e diventino argomenti di conversazione. Sono come dei dati di fatto. Questo comporta che quando poi una ragazza subisce una molestia sessuale: o non la considera tale tanto è normalizzata nella società patriarcale, oppure pensa di essere l’unica a cui succede e non lo condivide con nessuno. Il podcast avrebbe fornito una piccola soluzione a questo problema.

Anche il titolo è stato deciso con facilità: A day in a female life, un giorno in una vita di donna. Assieme al sottotitolo “storie di ordinaria violenza” volevamo trasmettere l’estrema ordinarietà delle esperienze raccolte nel podcast (le molestie sessuali nei confronti delle donne non sono degli eventi rari, che capitano alcune volte l’anno, sono giornaliere).

Il primo episodio l’abbiamo registrato io e Silvia, con strumenti rudimentali ma una voglia dirompente di far sentire le nostre voci. Prima di far condividere le proprie esperienze ad altre donne, volevamo raccontare le nostre.

Da quel momento, anche attraverso un invito all’azione su Instagram, abbiamo ricevuto una serie di email e messaggi sia di supporto, che di disponibilità a registrare una puntata del podcast. 

Per noi era imprescindibile che lo spazio offerto alle ragazze sul podcast fosse sicuro e libero. Le puntate sarebbero state registrate con me, oppure con Silvia (in base alla collocazione geografica della ragazza) in luoghi familiari, accoglienti. Quando è stato possibile infatti abbiamo registrato le puntate nelle nostre case, sul divano, con una tazza di tè e biscotti. Prima di accendere il microfono, ci assicuriamo che ci sia già una certa confidenza con la ragazza, che spesso è a noi sconosciuta. Questo passaggio è essenziale per creare un’atmosfera in cui la ragazza si senta al sicuro nel condividere le sue esperienze che potrebbero essere traumatiche e difficili da verbalizzare.

Una volta acceso il microfono la conversazione scorre come aveva fatto a microfono spento, senza domande preparate o limiti di tempo. La ragazza racconta tanto quanto decide sia abbastanza e l’interlocutrice, Silvia o io, ascoltiamo, offriamo conforto e poniamo domande se ne sentiamo la necessità. In molte puntate abbiamo anche avvertito la necessità di dare reciprocità alla conversazione, quando a me e a Silvia veniva naturale di raccontare delle esperienze personali che la storia della ragazza aveva fatto risvegliare in noi.

La libertà sta nel fatto che una volta registrata la puntata, la ragazza che ha partecipato può decidere di non pubblicare l’episodio, di tagliarne alcune parti o di usare un nome fittizio per proteggersi. Per noi, il fatto che la ragazza abbia condiviso la sua storia con noi e abbia ricevuto in cambio un ascolto sincero e non giudicante, è già abbastanza.

Le puntate che poi sono state pubblicate spaziano su diversi argomenti, ma colpisce la comunanza dell’evento della molestia. Le circostanze cambiano, ma l’intento dell’uomo è sempre lo stesso, denigrare la donna e farla sentire impotente. 

Nonostante l’intento iniziale fosse solo quello di raccogliere testimonianze di molestie sessuali in luoghi pubblici, alcuni episodi sono fluiti naturalmente verso altri tipi di violenza maschile, tra cui quella domestica.

Il riscontro del podcast è stato rincuorante. La maggior parte delle donne che ci contattano dicono di sentirsi riconosciute e legittimate nelle loro esperienze di molestia. Molte di loro si sono rese conto che esperienze che consideravano normali o di poca importanza, erano invece gravi e degne dell’appellativo di molestie sessuali. Perché succeda questo è necessario da parte nostra considerare ogni molestia sessuale che ci viene riportata come importante e degna, e porre l’accento sul dolore comune, invece che sui dettagli che necessariamente saranno diversi per ogni storia.

Carla Lonzi parla di uno “scatto a soggetto” delle donne che si “ri-conoscono come esseri completi non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo”.

La nostra idea iniziale non era quella di praticare l’autocoscienza. Cioè, non ci siamo messe a un tavolo e abbiamo detto “ok, ora facciamo l’autocoscienza”. Abbiamo detto: creiamo un podcast. Solo in un secondo momento, ci siamo accorte che il nostro podcast è una pratica di autocoscienza perché si costituisce dell’incontro con l’Altra, dove ogni donna può ritrovare sé stessa nelle parole delle altre. Questo dimostra la potenza, la forza di questa pratica: esiste ancora prima di saperla, pensarla, teorizzarla. Perché è una pratica dettata dalla necessità, dal desiderio, dal bisogno di riconoscersi nelle altre, di uscire dalla solitudine, ma anche di trasformare il dolore e la rabbia personali in resistenza collettiva. 

Mai come oggi ho sentito il bisogno di trovare le parole giuste. Sul conflitto israelo-palestinese in passato ho scritto argomentando le verità storiche, evidenziando le contraddizioni di chi difende Israele senza se e senza ma, o di chi non vede che non è uno scontro di culture ma banale e cinica politica di forza delle potenze in campo. Ho ripetuto come un disco rotto le stesse cose per anni finché, dopo l’operazione Piombo Fuso di dicembre 2008 (in cui a Gaza morirono non meno di 1200 persone), sono diventato afono sull’argomento.

Quindici anni dopo, con quello che è appena successo, non trovo le parole e faccio fatica a pensare, un senso di lutto pervade ogni cosa. Lutto per le vittime israeliane, tra cui molti giovani, donne e bambini. Lutto per le vittime di Gaza rinchiuse nella loro striscia di terra senza una via d’uscita e sotto una pioggia di bombe indiscriminate che distruggono vite e palazzi, ennesima violenza su un popolo che è sotto occupazione dal 1948 (prima egiziana e poi, dal 1967, israeliana).

Lutto per la perdita del senso di umanità. Vittorio Arrigoni terminava le sue corrispondenze da Gaza per il Manifesto con: «restiamo umani», a indicare la vera posta in gioco.

Senso di lutto per un linguaggio e per parole che qualcuno non fa alcuna fatica a trovare, parole sbagliate, in malafede, commenti urlati a notizie prive di documentazione.

Lutto perché quello che è appena successo è uno specchio che ci dice che razza di girone infernale è il luogo da cui provengono le persone che hanno fatto quello che hanno fatto. La sorpresa che ha generato in tutti questo attacco mi ha ricordato il «perché ci odiano tanto?» dell’11 settembre 2001. I governi israeliani che si sono succeduti, e in particolare Netanyahu, hanno fatto di tutto per soffocare i palestinesi e contemporaneamente nascondere e far dimenticare al mondo l’occupazione. Ma chi la subisce non la può scordare e ritorna prepotentemente alla ribalta non più nella veste di vittima della storia, ha imparato il linguaggio globale della politica di forza, oggi molto in voga in questa guerra mondiale a pezzi, come l’ha definita papa Francesco. Cinicamente parlando, l’attacco ha un senso politico, far ricordare al mondo che, contrariamente a quanto Netanyahu vuol far credere, mostrando la mappa di Israele che va dal Mediterraneo al Giordano, i palestinesi ci sono e adesso dimenticateli se ci riuscite.

Mentre le donne occidentali forse dicono il doppio sì, alla carriera e alla famiglia, o forse ne dicono uno solo come testimonia l’invecchiamento dei paesi occidentali, le donne della Striscia di Gaza sembrano avere uno scopo principale, imposto o volontario che sia: fare figli per garantire continuità alla resistenza di un territorio molto povero ma sovrappopolato e con un’età media molto giovane.

Mai come oggi ho bisogno di trovare parole e figure simboliche da far dilagare nel mondo e quella che mi parla più di tutte è Donna Vita Libertà. Intanto perché le due parole del binomio donna-vita sono intrinsecamente legate e opposte a quelle di soldato-guerra che dominano la scena della guerra mondiale a pezzi; poi la parola libertà fa capire che la strada non è obbligata, si può cambiare, ci si può ribellare, si può sovvertire l’ordine mondiale.


I.

Questo intervento vuole mettere in luce che cosa è stata l’autocoscienza nella pratica politica e nel pensiero di Carla Lonzi e di Rivolta Femminile. Nominiamo Rivolta Femminile come gruppo per entrare subito nella questione, cioè per segnare la natura relazionale e non personalista o intimista dell’autocoscienza. In un momento di grande e felice riscoperta del pensiero lonziano bisogna ricordare e ricordarci che Lonzi è stata fondatrice e animatrice di un progetto comune e collettivo, fatto da tante altre donne, e con loro da tanti altri pensieri, esperienze, desideri e obiettivi politici. In altre parole, Lonzi ha pensato e vissuto in un contesto.

L’autocoscienza femminista, inoltre, non nasce e non si esaurisce, neppure negli anni in cui Rivolta Femminile esiste, con Rivolta Femminile. Non si tratta di cercare un primato (che comunque non sarebbe di Rivolta), ma si tratta di aver cura di non costruire cristallizzazioni e icone, concentrando la nostra attenzione su una singola esperienza, e rendendo minori, o addirittura invisibili, altre, anche molto diverse che pure si sono riconosciute nella pratica dell’autocoscienza femminista. Per questo contributo parleremo esclusivamente dell’autocoscienza femminista per Rivolta, ma, mentre facciamo ciò, ci interessa tenere ben presente che c’è una storia e ci sono voci dentro e fuori Rivolta, incluse quelle con cui Lonzi è stata in profondo disaccordo.

Questo è un testo pensato e scritto in due, e ha il sapore di una felice chiusura di un cerchio. Era il 2017 quando prendemmo per la prima volta parola pubblica insieme su Lonzi, a Livorno, al convegno della Società Italiana delle Letterate e dell’associazione Evelina de Magistris. Fu un momento seminale per il nostro lavoro e per la nostra relazione – significativamente le amiche della Libreria delle donne erano lì con noi. Un momento seminale, di apertura: da quel momento abbiamo lavorato ininterrottamente sul pensiero di Carla; oggi siamo qui avendo finalmente terminato un lungo percorso di ricerca e scrittura su Carla appunto – anche se quel su ci fa sempre problema, perché non ci identifichiamo come specialiste di Lonzi, noi il soggetto lei l’oggetto dell’indagine. Meglio allora dire un percorso con Carla Lonzi, come ha scritto Maria Luisa Boccia qualche anno fa1 1. Con Carla appunto, perché quel lavoro ha attraversato la nostra vita e da lei è stato attraversato. Ci siamo arrese alla lentezza che questo lasciar attraversare ha necessariamente comportato. Questo è stato alla fine un atto di comprensione dell’insegnamento di Lonzi, che tutta la vita porta avanti l’idea che mettere carne al fuoco nelle pagine che si scrivono – l’espressione è sua – non sia questione di stile ma questione politica. «Il giorno in cui capisco qualcosa di me o di te agisco in conseguenza», dice Carla al compagno Pietro Consagra. «Se capisco una cosa e poi ne faccio un’altra mi sento proprio massacrata da me stessa»2. Questo, ossia l’andare di pari passo di esistenza, comprensione e produzione simbolica è una delle cose più preziose che l’autocoscienza lonziana ci lascia. Se praticata, l’autocoscienza inevitabilmente porta tanto alla caduta delle definizioni di sé quanto al fallimento relativo alle ingiunzioni di successo, velocità e facilità di comprensione di pensieri complessi a cui siamo tutte sottoposte.

Prima di addentrarci oltre nei significati e nelle implicazioni dell’autocoscienza in Lonzi vorremmo dire sinteticamente come si è data la pratica dell’autocoscienza nel movimento femminista. Diversi testi degli anni del decennio Settanta ci trasmettono, con la vivezza delle parole delle donne che li stavano sperimentando, resoconti sull’importanza di quei momenti – la stessa vivezza che si ritrova nelle parole dell’introduzione di Traudel Sattler. Questo è ad esempio un passo del Sottosopra 4, del 1976: «ogni esperienza prima di divenire acquisizione del gruppo è, per chi ne parla un fatto privato… finché è negata o censurata dal silenzio non può che restare tale, ma nel momento in cui è detta o analizzata criticamente o generalizzata, il legame con la situazione personale si attenua mentre diventa più evidente il suo contenuto politico… ripensare collettivamente la propria storia è di fatto e non solo simbolicamente, un atto di nascita. L’attenzione di altre donne che giudicano e generalizzano è la garanzia che ciò che nasce come modi di esistenza personale non resti tale». 3

L’autocoscienza è, dunque, una pratica politica. Si è sempre svolta, per Rivolta, in gruppi di sole donne, più spesso piccoli gruppi, fino a svolgersi nel rapporto a due – spesso gli incontri erano registrati, per Lonzi e per Rivolta era pratica comune registrare anche le conversazioni a due, o le conversazioni telefoniche. Questo rivoluziona l’idea di che cosa è possibile chiamare politica, fino dentro alle sue componenti materiali, ovvero gli spazi e i tempi nei quali essa si svolge e il chi se ne fa carico.

La prima presa di coscienza che troviamo negli scritti di Rivolta e di Lonzi è l’imprevisto immesso dal piacere femminile, dalla sessualità clitoridea. A proposito dei soggetti della politica, l’autocoscienza è una pratica politica che rende evidente e che si basa sul carattere necessario del nesso tra corpi e pensiero. Come scrive Boccia: «Carla Lonzi vide bene che non vi può essere un pensiero libero e autonomo di donna, se il corpo femminile resta luogo muto e consenziente del piacere maschile né d’altra parte basterà nominare la presa di distanza dall’uomo, o dotarsi di spazi propri e distinti nei quali pensarsi libere». 4.

Questa pratica ha nei suoi modi, tempi e forme una necessità e un tempo storico: legata a una primissima fase iniziale del movimento ha lasciato poi spazio ad altre modalità analitiche e politiche.

Tuttavia, se la guardiamo attraverso la lente dell’operato del gruppo di Rivolta e di Carla Lonzi che ne ha fatto il centro vivo della propria politica è possibile immaginarla anche slegata da quelle forme che la tratteggiano come evenienza storica conclusa.

Se la pensiamo così, autocoscienza non è più solo una pratica delle origini, codificata e conclusasi come fenomeno storico ma contesto simbolico politico dove hanno le radici almeno due cose preziosissime. La prima, l’emergere di un processo di identificazione e di un rispecchiamento tra donne che si riconoscono come soggetti. Quindi è il modo attraverso cui si è conquista e si pone la coscienza della donna indipendentemente da quella dell’uomo, non come individuo maschio ma come individuo protagonista e detentore della cultura e delle sue manifestazioni. La seconda, la sperimentazione e l’invenzione della pratica del partire da sé. Quindi una specifica modalità del pensiero inaugurata dal femminismo.

II.

Per questo breve testo, abbiamo deciso di entrare nello specifico dell’autocoscienza per Lonzi e per Rivolta Femminile individuandone tre punti. Abbiamo lavorato su questi perché sono gli aspetti che non hanno esaurito la loro carica sul presente non nel senso di un aggiornamento automatico dell’autocoscienza per la contemporaneità, ma in quanto elementi che ritroviamo nel nostro essere nel mondo in modalità più o meno implicite, e anche più o meno fantasmatiche. Ci piacerebbe poter approfondire ancora di più quelle state considerate resurrezioni spettrali dei gruppi di autocoscienza, ovvero, ad esempio, le esperienze di alcuni gruppi di supporto e di aiuto per le donne nell’attuale mondo del lavoro che, di chiara matrice neoliberista, sfruttano, nell’ottica di mercato, il discorso sulla particolare oppressione che ancora oggi le donne sperimentano in quei contesti specifici così come la narrazione ed elaborazione dei loro vissuti rispetto a questo. 5. A queste dinamiche faremo qua soltanto degli accenni molto limitati.

Il primo punto che ci piacerebbe discutere è la capacità che la pratica dell’autocoscienza ha avuto, storicamente, di fare spazio, di aprire due lembi che sembravano aderire l’un l’altro. Questi due lembi sono formati da ciò che una donna, ogni singola donna, è (che corrisponde a ciò che può essere compreso attraverso l’autocoscienza) e ciò che ‘pensa di essere’. Questo ‘pensare di essere’ certamente ha a che fare con la casella 6 che era supposto che occupassimo (e ovviamente questa casella si modifica storicamente, a seconda delle aspettative sociali) ma questo posto preparato per noi è soprattutto interiorizzato (appunto ci pensiamo come donne realizzate oppure ci pensiamo come madri o ci pensiamo come quelle che sostengono, che curano ecc. Ci pensiamo libere, anche. È una forma riflessiva, tutta chiusa in noi, e in ultima istanza individualizzata). E l’aspetto dell’ingiunzione esterna – cioè di qualcuno che ci impone esplicitamente di conformarci a qualcosa – non è certamente l’unica componente, e, in questa parte di mondo che è la parte di mondo di cui Lonzi unicamente parla, non sembra essere neppure quella dominante. Per Lonzi, per il momento in cui lei scrive, questo ‘pensare di essere’ prendeva la forma della donna emancipata. Rivolta femminile la spiega come la donna complementare all’uomo e soprattutto che trova nell’uomo e nella sua cultura (che è la cultura) il fondamento e il modello della sua stessa realizzazione. L’uomo accoglie e celebra la donna in questa sua realizzazione fintantoché questa si conformi a quel modello, modello che non fa che confermare l’uomo e la sua cultura e che non fa che escluderla in quanto soggetto: «L’investitura indetta dall’uomo per riscattarci – sono parole di un testo del 1972 di Rivolta femminile – è una farsa del potere maschile, una farsa tragica come e più di ogni altra colonizzazione. È qui che i gruppi femministi di autocoscienza acquistano la loro vera fisionomia di nuclei che trasformano la spiritualità dell’epoca patriarcale: essi operano per lo scatto a soggetto delle donne che l’una con l’altra si ri-conoscono come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo» 7. Il riconoscimento di e a un’altra donna (l’aspetto della sessuazione del rapporto di riconoscimento è chiaramente imprescindibile) è la condizione dell’autocoscienza, la relazione è ciò attraverso cui l’autocoscienza è pensabile e agibile. Il diario inizia, a conferma di ciò, con questa scena: «Un’altra donna, clitoridea, mi ha riconosciuta come donna, clitoridea, intanto che io la riconoscevo negli stessi termini. Questo è accaduto nella primavera del 1972. Adesso so chi sono e posso essere coscientemente me stessa […] il riconoscimento, da cui nasce il soggetto, intanto che esprime un altro soggetto in grado di essere riconosciuto a sua volta, è stata l’operazione che ha portato il mio processo al traguardo dell’autocoscienza» 8.

L’autocoscienza ha quindi distinto questi due lembi prima indistinguibili e, così facendo, attraverso questa crepa ha reso possibile la scoperta della donna come soggetto. Li ha separati ma per farli combaciare a un livello più alto. Scrive infatti Lonzi: «E questo chiamo autocoscienza: fare in modo che chi parla prenda coscienza che trovare se stesso è riconoscersi nell’espressione di sé […]. Certo non è facile, spesso è disperante, ma chi ha detto che sarebbe stato facile e non disperante?» 9. Più avanti torneremo su questa difficoltà che talvolta fa disperare. Qui restiamo sull’idea che trovare se stesso significa potersi riconoscere nell’espressione di sé. Trovare se stesso significa, cioè, riuscire a formulare parole per raccontare la propria storia dalle quali non ci sentiamo estranee o estraniate. Per l’oggi, in questo si misura anche la distanza dalla costante autopromozione di se stessi, che, pur basandosi sulla narrazione del nostro vissuto, non fa che produrre parole alienate e alienanti.

«Adesso mi rendo conto – scrive Lonzi nel diario – che senza autocoscienza non si può affermare niente, neppure la propria storia» 10. È piuttosto chiaro che l’autocoscienza è parola su di sé alla prova della relazione con l’altra, come già accennavamo all’inizio, e come scrive anche Traudel nella sua introduzione. Se la pratica dell’autocoscienza è stata spesso identificata con la parola detta e ascoltata, Lonzi propone soprattutto lo scrivere come modo della comprensione autocoscienziale. La comprensione di sé generata in questo scrivere si trasforma in un orientamento che sfocia tanto nella vita quanto di nuovo nella scrittura stessa. La scrittura è quindi un tessuto di verifica del processo trasformativo dell’autocoscienza. Da questa prova con la scrittura, può irradiarsi in tutte le opere, siano esse di parola o di altro tipo, per esempio imprese. Nella nostra ricerca sosteniamo per esempio come la casa editrice Scritti di rivolta femminile possa essere letta come un esempio del processo autocoscienziale all’opera, in quanto azione volta a testimoniare il lavoro del gruppo, a dar spazio agli scritti delle donne che ne fanno parte (e non a scritti di donne in senso ampio).

Secondo punto. L’autocoscienza è, nella sua genesi, ripartire da zero avendo smaltito tutte le proposte culturali e i loro miti, è, come accennavamo prima, ‘partire da sé’. Lo dice chiaramente Lonzi nel diario: «Mi accorgo […] che io non posso svolgere la mia autocoscienza se non facendo partire da me tutti i motivi all’origine di essa, non potrei mai accettare di essere la prosecuzione di qualcosa affermato da altre» 11. Partire da sé nel significato lonziano, in quanto si tratta primariamente di un pensiero in pratica, assume diverse forme e modi di essere detto nel diario. Possiamo tuttavia riconoscere due significati fondamentali, sui quali Lonzi tende ricorsivamente a tornare. Il primo è già in qualche modo stato esplicitato, e cioè che partire da sé significa esprimersi, prendere parola, in un rapporto con il mondo che non cancelli la presenza dei corpi, l’essere corpo di chi parla e di chi ascolta. Il secondo è che partire da sé significa accettazione di sé per come si è, e questo esistere per quello che si è, è, per Lonzi, ancora un passo di natura politica. Oggi questa accettazione dovrebbe essere analizzata nelle dinamiche profondamente differenti in cui può avvenire, alcune delle quali, se individualizzate e cristallizzate a livello identitario, risultano già ampiamente catturate dai processi di mercato (in particolare massmediatico), finalizzate a un ampliamento della coorte dei consumatori.

Al contrario, per il passo di natura politica inteso da Lonzi, questa accettazione non si identifica in alcun modo con una passività, al contrario significa aver chiaro che non si può che scegliere la strada difficile per stare nel mondo, quella sulla quale Lonzi si dibatte e si ossessiona in molte pagine del diario: esistere cercando di fornire una presa all’accettazione di sé per quello che si è, affinché questo modo sia in grado di agire nel mondo, di costruire pezzi di mondo in comune. Secondo quella triade di esistenza, comprensione e produzione simbolica che menzionavamo già prima.

Un ultimo punto, il terzo, secondo noi significativo che si trova nelle pagine di Lonzi e di Rivolta è il carattere instabile dell’autocoscienza, senza che questo rappresenti un depotenziamento di questa pratica. Vi sono piani diversi sui quali è possibile misurare questa instabilità.

In primo luogo – lo abbiamo già visto – l’autocoscienza appare come una strada difficile, a tratti che fa disperare soprattutto perché, come osserva Lonzi, si ha spesso la verifica che sia una strada che non interessa quasi a nessuno, che è spesso rifiutata e talvolta ridicolizzata. E questo non solo dall’esterno. Questa strada è difficile e non scontata anche nel gruppo che ha scelto di praticarla. Perché – scrive Lonzi – non si instaura da sola. Più di una volta, ancora nel diario, sono espressi i timori che non tutte, nel gruppo, ce la faranno, inclusa soprattutto lei: «Non è per tutte, qualcuna non si sveglia» 12, e poi ancora, riferito a se stessa: «Certo devo farcela, ma è difficile non provare sconforto quando non so se potrò farcela» 13.

In secondo luogo, l’autocoscienza come pratica non mette in salvo dai conflitti all’interno del gruppo che la pratica. Anche in questo senso, dunque, non è un riparo, non è una forma di irenismo, non è stabilità: «Cos’è sbagliato in quello che facciamo? Perché l’autocoscienza non ci salva dalle rotture?» 14, si chiede Lonzi in un momento di grande conflitto con una delle compagne di Rivolta. Infine, un elemento di instabilità di pensiero, che ha anche a che fare con noi oggi, qui, che stiamo parlando dell’autocoscienza: l’autocoscienza come pratica senz’altro produce una mediazione del nostro vissuto, non è qualcosa che deve essere compresa come una forma di immediatezza e di adesione all’esperienza. Tuttavia, appena ci pare di trovare, attraverso l’autocoscienza, un punto fermo teorico, questo dovrebbe anche creare in noi il sospetto che sia una forma di camuffamento, che rende inautentico il processo.

III.

Lonzi non abbandona mai la pratica dell’autocoscienza, la comprende come essenziale per il femminismo, arriva a trasformarla integrandola nella pratica dello scrivere e in quella del far nascere e vivere la casa editrice.

Autocoscienza oggi, allora, alla luce di quanto ci lascia in eredità Lonzi, non significa certamente narrazione intimistica e monologante sul proprio vissuto, tanto più quando questa narrazione diventa merce, come accade in diversi contesti. Nell’autorizzarsi a immaginarla e praticarla ancora, autocoscienza significa rimanere ancorate all’essenziale: la non sostituibilità del lavoro fatto in prima persona, la relazione con le altre che su quel lavoro vigilano, la presenza dei nostri corpi. Ancorate all’essenziale e vigili sul processo che può custodirlo, non disfacendosi mai della difficoltà, ma anzi assumendola come amica e garante in questo percorso. Come effetto di questo essenziale, restano orientanti le parole di Carla: avere la possibilità di esprimere se stessi con parole e gesti che ci fanno riconoscere in quanto andiamo dicendo e facendo – la «piccola verità» di cui parla nel diario.



Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Autocoscienza ancora, 1° ottobre 2023.

  1. M. L. Boccia, Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, Ediesse, Roma 2014 ↩︎
  1. M. L. Boccia, Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, Ediesse, Roma 2014
  2. C. Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1980, p. 47.
  3. Esistono dei traumi piacevoli? Sottosopra n, 4, 1976, p 63. Su questo testo in relazione all’autocoscienza si veda M. Fraire (a cura di), Lessico Politico delle donne. Milano: Gulliver edizioni, 1978, p 127-128.
  4. M.L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano, 1990, pp. 9-10.
  5. Su questo aspetto, cfr. C. Rottenberg, The rise of neoliberal feminism, Oxford University Press, Oxford, 2018, trad.it. di F. Martellino, L’ascesa del femminismo neoliberista, ombre corte, Verona, 2020, in particolare pp. 85 e ss.
  6. Cfr. L. Muraro, «Partire da sé e non farsi trovare», in Diotima, La sapienza di partire de sé, Liguori, Napoli, 1996.
  7. Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi (1972), in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1974, p. 144.
  8. C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1978, p. 5.
  9. C. Lonzi, Mito della proposta culturale, in La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1978, p. 147.
  10. C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, cit., p. 212.
  11. Ivi, p. 55.
  12. Ivi, p. 213.
  13. Ivi, p. 124.
  14. Ivi, p. 720.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Autocoscienza ancora, 1° ottobre 2023


Autocoscienza ancora – sì, ancora! Questa pratica congeniale alle donne che da sempre hanno la consuetudine di trovarsi tra di loro per parlare di esperienze anche intime, alla fine degli anni ’60 è diventata una pratica politica e in questo senso è un’invenzione originaria del femminismo. La modalità che ne sta alla base è il riferirsi a sé e al proprio vissuto, cioè la singola trova in sé quello da cui partire, anche senza sapere in quale direzione andrà, e la presa di parola viene potenziata dalla presenza di altre.

Grazie al movimento delle donne questa modalità ha continuato a lavorare nella società, talvolta in modo carsico, per insorgere in modo sorprendente e in forme inaspettate, come ad esempio il #Metoo scoppiato nel 2017. Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare anche una cosa banale o comunque da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e di abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione, la rete. L’altra novità, di portata storica perché ha cambiato il senso comune, è stata l’efficacia dell’azione: si è rotta la complicità anche tra uomini, e il potere finora indiscusso di un produttore cinematografico e di molti altri dopo di lui è crollato. Il terzo elemento nuovo è stata la portata di questa presa di parola: il #Metoo è stato come una valanga a livello globale, attraversando continenti, lingue e culture diverse.

Ultimo caso a Milano nel mondo della pubblicità pochi mesi fa: a partire da una segnalazione di un pubblicitario e da una pagina Instagram molte donne che lavorano in questo settore hanno scritto nei social dei soprusi subiti e hanno preso coscienza che non si trattava di episodi isolati ma di un abuso di potere sistemico. Inoltre ci sono gruppi di autocoscienza nati in anni recenti, e da tempo esistono quelli costituiti da soli uomini. Abbiamo anche visto che qualche giovane attivista fa esplicito riferimento a questa pratica come una possibilità per affrontare questioni del nostro tempo come l’eco-ansia legata alla crisi climatica o come l’intensificarsi della violenza maschile contro le donne. C’è una nuova curiosità nei confronti di questa pratica e qualcuna ci chiede: raccontami quell’esperienza…

Ora, non si tratta certo di proporre un modello o una tecnica, ma piuttosto di vedere l’autocoscienza come “un’inesauribile ricerca di senso, come un motore di ricerca che non ha fatto il suo tempo”, come dice Manuela Fraire con una formula che mi piace.

In Italia è stata chiamata autocoscienza, ma la pratica si è diffusa più o meno nello stesso periodo in quasi tutti i paesi industrializzati, diventando un elemento costitutivo della politica delle donne. Verso la fine degli anni ’60, il movimento antiautoritario sembrava anche per le donne un buon contesto per la ricerca della propria libertà. Ed era anche il momento storico in cui le nostre costituzioni avevano promesso l’uguaglianza tra uomini e donne e non c’erano ostacoli formali all’accesso delle donne all’istruzione e al mercato del lavoro. Eppure in quel movimento antiautoritario per molte donne c’era qualcosa che non andava, c’era un disagio diffuso in quelle assemblee e manifestazioni, in quelle aule universitarie, nei rapporti intimi con i maschi… Io sono venuta un po’ dopo, ma anch’io sentivo quel disagio: nelle assemblee, sempre affollatissime e infinite, le donne parlavano pochissimo. O scimmiottavi il discorso dei compagni o restavi muta come me. Negli esami universitari facevi la recita del sapere neutromaschile, e se non ci stavi alle imposizioni della cosiddetta rivoluzione sessuale tutta su misura della sessualità maschile eri frigida o inibita e comunque da mandare in psicoterapia. Questo senso di frustrazione per una libertà promessa che si era rivelata fasulla ha portato molte donne a compiere gesti dirompenti come disertare le assemblee miste nelle università per trovarsi in gruppi separati e mettere in parola la propria esperienza. Un gesto con un forte impatto simbolico e pratico che ha aperto la strada per noi di pochi anni più giovani. Ispirate dai gruppi che si erano costituiti negli USA sotto il nome di consciousness raising, anche in Europa le donne cominciavano a trovarsi in piccoli gruppi con modalità diverse tra di loro che comunque avevano un punto comune, la presa di coscienza a partire dal proprio vissuto. Per molti gruppi, anche per il mio, significava partire dalla propria sessualità, dall’esperienza del corpo, e la presa di parola era accompagnata dall’esplorazione del nostro corpo, usando, oltre lo speculum, anche il libro Noi e il nostro corpo di un collettivo di donne di Boston, un testo che è stato tradotto in tante lingue. Il nostro intento era sottrarci al potere dei medici, e in generale a ogni interpretazione precostituita della differenza femminile. È stata un’esperienza inebriante, sentivo quella specie di vertigine che ti capita quando lasci il terreno conosciuto e non hai neanche le parole per dirlo. E subito mi venne in soccorso qualcosa che per me è stato ed è sempre un ingrediente irrinunciabile della politica delle donne: la fiducia. Non so da dove mi venisse, penso che sia quella fiducia originaria che hai nei confronti della madre quando ti insegna a parlare. E questo mi ha dato la forza per sottrarmi alle dinamiche del potere maschile compresa l’eterosessualità obbligatoria. 

Quindi non erano le contraddizioni della società che mi avevano spinta a cercare libertà e giustizia, ma contraddizioni e sentimenti che venivano dal profondo creando una vera e propria urgenza di parole da dire e da ascoltare. Dappertutto fiorivano gruppi di autocoscienza, è stata una pratica liberatoria, in Germania dove stavo io come in Italia. E qui vorrei sottolineare che per me il femminismo italiano ha decisamente un di più per quanto riguarda l’elaborazione dell’autocoscienza: questa pratica, per sua natura orale, è stata approfondita e messa a punto in forma scritta da Carla Lonzi. È proprio da lei che vogliamo ripartire, dopo ne parleranno Marta Equi e Linda Bertelli che sono qui di fianco a me.

Certo, rispetto al femminismo delle origini ci troviamo in un mondo profondamente cambiato e pieno di nuove contraddizioni: attraverso i social network ogni angolo della vita personale viene esternalizzato, l’intimità sembra messa in vetrina, ma parlare veramente di sé crea imbarazzo. Quando si dice trasformazione di sé viene inteso come ottimizzazione di sé… Oggi la differenza femminile viene sempre di più neutralizzata in nome della parità e dell’inclusione, a partire dal linguaggio, e così rischia di perdere la sua forza creativa. Le nostre emozioni vengono scippate dal capitalismo neoliberista ancora prima di essere messe in parola; il farsi della soggettività, essenziale per l’autocoscienza, può essere bloccato dall’offerta di una vasta panoramica di identità possibili.

E ora c’è da indagare. Quali forme può assumere l’autocoscienza di fronte a queste sfide? Una cosa mi sembra certa: la scommessa originaria di questa pratica, il dire la propria esperienza risignificandola in una relazione di fiducia non si esaurisce ed è una potenzialità che ciascuna e ciascuno porta in sé. Dà un orientamento, il resto è da inventare. È vero, è una pratica rischiosa a livello personale, avventurosa direi, perché abbandoni le strade battute e le parole dette da altri ma promette un pensiero più originale e più vero.

È possibile oggi, ancora, riproporre e praticare l’autocoscienza, cioè quella potente invenzione politica che come una formula magica è stata alla base della miriade di gruppi che con la loro esistenza hanno dato vita al movimento femminista degli anni ’70?

Questa domanda, in maniera diretta o implicita, ha attraversato tutta la discussione che si è svolta nell’incontro della redazione aperta diVia Dogana 3 il primo di ottobre.

Mentre ascoltavo gli interventi continuavo a fare dentro di me il confronto tra “allora” e “oggi” e a cercare di capire perché in quegli anni l’autocoscienza si è imposta con tanta velocità e facilità, mentre oggi, pur riconoscendone l’importanza e il valore, se ne constata anche la difficoltà.

Le giovani chiedono a noi più anziane: come si fa a fare l’autocoscienza? In questa domanda c’è secondo me la grande differenza tra la situazione degli anni ’70 e quella di adesso.

Allora godevamo di un contesto molto favorevole: c’era/c’era stato il ’68.

Gli studenti e le studentesse del ’68, da pochissimo presenti in massa nelle università, si sono trovate/i nella condizione di poter esprimere tutto il loro disagio e la loro avversità verso un mondo dove la famiglia e la società erano un concentrato di autoritarismo e di divieti. Per le studentesse in particolare questo ha significato, insieme alla presa di coscienza rispetto alle disuguaglianze sociali, l’avvio di un processo di consapevolezza su di sé in quanto donne.

Questo “in quanto donne”è stata la chiave che ha aperto alla nascita del movimento. Mettere al centro il proprio essere donne è stato un gesto di profonda rottura rispetto al millenario oscuramento ed emarginazione che avevamo ereditato e noi stesse interiorizzato. Si è concretizzato nel riunirsi solo tra donne, cosa che oggi può apparire un po’ scontata perché le donne si sono fatte più spazio nella società e nel mondo. Allora invece suscitavamo riprovazione, sospetto, incomprensione o ilarità.

Per i “compagni” dell’Università di Sociologia di Trento dove allora ero andata a studiare, l’allontanamento di quasi tutte le donne dalla politica del movimento studentesco è stato un trauma, una cosa incomprensibile perché le relazioni erano amichevoli, piacevoli, improntate prevalentemente al rispetto e alla stima. Ma noi ragazze, senza ripensamenti, avevamo bisogno di “una stanza tutta per noi”.

La forza di questo gesto di separazione ha reso spontaneo/privo di artificiosità quello che avveniva nel gruppo di autocoscienza e il metodo degli incontri. Chi voleva si metteva in gioco parlando di un problema legato all’essere studentessa – cioè di sesso femminile – e questo apriva lo scambio e il confronto fra tutte per rielaborare, oltre le proprie percezioni e proiezioni la specificità di una condizione di sottomissione che ci accomunava e che volevamo smantellare. A questo proposito, i documenti delle donne americane e quelli di gruppi di donne italiane preesistenti al movimento delle studentesse (DEMAU, Rivolta Femminile) ci hanno fornito contenuti fondamentali.

Questo ha avviato un processo di cambiamento che ha avuto grandi conseguenze sul piano personale e sociale.

Oggi non è più così.Tante, troppe cose sono cambiate perché si possa riprodurre tout-court questa onda spontanea e gioiosa che portava a riunirsi, aggregarsi, prendere la parola, agire. E produrre vistosi cambiamenti nella società.

Il contesto adesso, per un insieme di ragioni, è molto più complesso. Non c’è più quel clima sociale favorevole, quell’energia che ha caratterizzato gli anni ’70, che ha funzionato da motore del cambiamento, favorendo così “il nuovo” e anche la nascita di quel movimento di donne.

Inoltre, non c’è più la necessità e l’urgenza che sentivamo allora e che ci aveva così motivato,proprio perché le conquiste fatte hanno aperto spazi (o sprazzi) di libertà femminile prima inesistenti. D’altra partequelle che per noi “vecchie” sono state grandi conquiste, per chi allora non era neppure nata sono qualcosa di “naturale”, scontato. È il mondo (migliore) che hanno trovato.

Questo non vuol dire che non ci sia più presenza attiva, visibile e politica delle donne nella società. Basti pensare al Metoo, dove la presa di coscienza delle donne che hanno denunciato e la dinamica di contagio mondiale che ne è derivata ricorda moltissimo quel che è avvenuto negli anni ’70. E ancora, la denuncia e la lotta contro la violenza dei maschi (molestie e femminicidi) è una bandiera intorno alla quale si riempiono le piazze in tutto il mondo. È di pochi giorni fa l’ondata di riprovazione che ha suscitato, non solo in Spagna, il “bacio rubato” alla calciatrice della Nazionale femminile dal presidente della Federcalcio.

Purtroppo queste azioni tendono a risolversi in leggi contingenti, deboli, spesso inutili e fatte male da maschi e anche da donne che non amano riconoscersi come donne. Sono leggi incapaci, per loro natura, di operare a una reale modificazione della cultura e dei comportamenti diffusi. Anzi, il panorama attuale ci restituisce una situazione davvero critica dove addirittura si tenta di portare indietro le cose e smantellare le preziosissime conquiste fatte dal movimento delle donne.

Se quanto detto può mettere a fuoco alcuni aspetti delle difficoltà soggettive che complicano oggi il “risorgere” dei gruppi di autocoscienza nella forma esatta di com’era agli esordi del femminismo degli anni ’70, che dire del fatto che questo dovrebbe realizzarsi in una società grandemente diversa da quella di cinquant’anni fa? Una società dove la rivoluzione tecnologica – questa sì – ha cambiato modalità di comunicazione, di relazione, di lavoro e di organizzazione? Un mondo dove altri problemi che in quegli anni poco ci sfioravano, come il cambiamento climatico e lo spostamento di grandi masse di persone sul pianeta, oggi si impongono come una realtà quotidiana e urgente?

Quindi, in questo contesto cosa può voler dire riproporre o continuare a fare l’autocoscienza?

Quello che ho capito con la discussione avvenuta nella riunione del Via Dogana 3 si sintetizza per me in questi punti:

– l’autocoscienza, cioè il partire da sé per andare oltre sé come metodo e forma di pensiero, è ciò che intendiamo/continuiamo a intendere come base del “fare politica”, tutta la politica, non solo quella che riguarda le donne;

– oggi gli strumenti a disposizione per fare politica si sono moltiplicati, per tutti e anche per noi donne. Questa è una meravigliosa opportunità e un vantaggio, ma anche un possibile ostacolo. È un vantaggio perché ci permette una capillarità prima sconosciuta di realizzare forme nuove di organizzazione e di scambio attraverso i social, i siti, le reti, le piattaforme, le riunioni a distanza. Ne parlavano le più giovani nell’incontro, che infatti hanno realizzato dei podcast, hanno aperto siti e sono attive sui social. È invece un ostacolo se l’incontro in presenza, in carne e ossa, viene relativizzato o del tutto scavalcato.

Parliamone ancora per andare avanti.

Domenica 1 ottobre 2023, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano


Consapevoli che l’autocoscienza è stata ed è un elemento costitutivo del femminismo, vogliamo tornare a discuterne insieme, a partire dal pensiero di Carla Lonzi. Non si tratta di celebrare una pratica del passato da riproporre nelle stesse modalità e forme. Si tratta di vedere come in tutti questi anni ha lavorato nel profondo, continuando a produrre insorgenze e riprese trasformative, mantenendo la sua qualità di fonte di pensiero che illumina il mondo. Quali forme e modi ha assunto e può assumere ancora oggi?
Introducono Marta Equi, Linda Bertelli e Traudel Sattler. Porteranno una testimonianza Silvia Protino e Angelica Pirro.
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Ho letto con grande interesse “Il capitale amoroso” di Jennifer Guerra e sono felice della nostra collaborazione nel realizzare questo numero di Via Dogana 3 dedicato alla forza politica dell’amore e all’amicizia politica.

Dell’autrice ho apprezzato subito il coraggio di essersi impadronita di un tema così spinoso, come è quello dell’amore, e di insistere nel proporlo come una forza politica, come una pratica politica da esercitare nella quotidianità. 

Ci accomuna la scommessa di pensare che il femminismo sia una forza trasformativa in grado di cambiare questo mondo alla radice: anche lei, infatti, parte dalla consapevolezza che la questione non è essere incluse in un mondo che non ci prevede.

Naturalmente l’interrogazione sul come farlo è sempre aperta.

La strada di orientarsi con l’amore, proposta in questo numero, delinea il terreno di una vicinanza di idee in grado di alimentarsi a vicenda.

Jennifer Guerra nella sua introduzione dice: «la tesi di questo libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente. La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro».

Al Capitale amoroso di Jennifer Guerra fa eco un filone di pensiero e di esperienze presente da decenni nel femminismo della differenza, per impulso soprattutto di Luisa Muraro. È un filone che ha interessato alcune (tra cui mi metto anche io) e non altre e non si è mosso in modo lineare, ma carsico, con insorgenze e momenti sotterranei, rimanendo però costante, a mo’ di segnale, la circolazione di gioia e di erotismo che si avvertiva nei momenti di incontro.

Sulla nostra rivista questo tema è presente fin dagli inizi: come già ricordava Laura Colombo, nel terzo numero, Luisa Muraro scrive un articolo intitolato L’amore come pratica politica (dicembre ’91). Dieci anni dopo la stessa autrice, in Far esserepassaggi per la politica del simbolico, riprende da Heidegger “il potere del voler bene” e scrive: «Il possibile vero e proprio, che non si oppone alla realtà e che può far essere, il potere che vuole bene, dotato di una tacita forza che si manifesta con l’accadimento del nuovo, che cos’è infatti se non la potenza del simbolico materno?» (VD 54, marzo 2001).

Si deve ancora a lei la ripresa dalla tradizione mistica della formula “dell’intelligenza dell’amore». Nel volume collettivo Duemilaeuna, donne che cambiano l’Italia (Pratiche editrice, 2000), scrive che quella formula può nominare qualcosa che ha scoperto con il femminismo: «Passando dalle rivolte del Sessantotto al movimento delle donne, ho scoperto che l’esporsi agli incontri e ai rapporti diventa fonte di esistenza libera non per quello che con gli altri e degli altri si può fare, ma per quello che di sé cambia in quella esposizione. E ho capito che, fuori dalla violenza, aperta o occulta, del potere sugli altri, non c’è altro modo di cambiare le cose che essere disposti al cambiamento di sé, il paradigma perenne di questa disponibilità essendo l’innamoramento». Secondo Muraro mentre i filosofi da Platone a Marx a Nietzsche, hanno tentato di oltrepassare i limiti della condizione umana mirando alla autosufficienza del singolo, «il passaggio diretto lo apre l’intelligenza dell’amore, l’amore che vuole essere all’altezza ma non teme di essere trovato mancante, e converte il piombo di una insopportabile dipendenza nell’oro di una mancanza accettata che apre la porta ad altro» (pag. 155).

Nella redazione aperta di Via Dogana 3 Jennifer Guerra, a partire da una dolorosa esperienza personale, ha messo fortemente l’accento sull’amore di sé, sentendosi vicina a Carla Lonzi quando ne parla come «esperienza di combaciare con sé stessa». Io sono pienamente d’accordo con lei. Il per sé è imprescindibile in una politica che proprio dal sé muove e si alimenta di quell’irrinunciabile che ciascuna si porta dentro assieme a desideri e bisogni.

La porta stretta sembra essere, dunque, come tenere insieme l’amore di sé con l’amore per gli altri.

Se l’amore di sé è imprescindibile, è tuttavia esposto al rischio di trasformarsi in puro egoismo sulle difensive, in ricerca di successo individuale così consono ai tempi neoliberisti in cui viviamo; mentre la seconda polarità, l’amore per gli altri, è sì apertura al mondo, ma apre anche al rischio di reintrodurre quella logica del sacrificio tipicamente femminile che il femminismo ha combattuto in tutte le sue forme oppure quella logica della politica come dover essere, come sforzo della buona volontà.

L’amore di sé e l’amore per gli altri non sono tuttavia componenti che si possono dosare con il bilancino, si nutrono invece di invenzione simbolica e creatività politica.

Nel libro di Jennifer Guerra mancano esempi, per cui può essere inteso come uno slancio teorico e utopistico destinato a rimanere tale. Io so, invece, che pratiche in tal senso ci sono state, ci sono e potranno esserci ancora. Vorrei, quindi, arricchire la proposta politica di orientarsi con l’amore richiamando due esperienze: una geograficamente lontana, che ha avuto significativi scambi con la nostra libreria, l’altra vicinissima a me in quanto vi ho partecipato intensamente.

Le Madres de Plaza de Mayo rappresentano un esempio mirabile che tiene insieme il per sé e per gli altri attraverso invenzioni simboliche e politiche. Erano per la maggior parte semplici casalinghe quando sono state colpite dall’immane tragedia della scomparsa di figli e figlie ad opera della dittatura militare in Argentina, dopo il golpe del 1976. La loro storia è nota in tutto il mondo e rimando al bel libro di Daniela Padoan, Le pazze (Bompiani 2005).

Pazze. Da sole si definiscono tali: «pazze d’amore, pazze del desiderio di ritrovare i figli», rovesciando l’insulto che veniva loro rivolto per andare in Piazza ed essere arrestate tutti i giovedì. La loro invenzione è stata la “socializzazione della maternità”: madri non solo dei singoli figli e figlie ma di tutti i trentamila desaparecidos e poi di tutti e tutte quelle che patiscono un’ingiustizia e soffrono. Scrive Daniela Padoan: «le Madri hanno reso politico il “lavoro dell’amore” attraverso una legittimazione che si sono date l’un l’altra, riconoscendosi l’autorevolezza e la necessità della parola detta in pubblico» (pag.408). Si dicono sempre “incinte” dei loro figli e di questa maternità sempre in fieri fanno un luogo di creatività politica che orienta in altro modo il contesto in cui vivono. Durante la crisi economica argentina, le Madres partecipano al trueque e portano al mercato del baratto tutto: dalle scarpe usate, ma risuolate, ai dolci fatti in casa da loro stesse, agli strumenti per la scuola, ma si muovono nel mercato con un senso del collettivo diverso per cui non chiamano la polizia se qualcuno ruba o fa incetta. Intervengono in modo relazionale perché «con tuo figlio o tua figlia non scambi scarpe bucate, non chiami la Polizia se vogliono più torte di quelle che hai». (Gianna Mazzini, Scarsità e abbondanza, VD 64, marzo 2003).

L’altro esempio che mi coinvolge di persona, insieme a tante altre insegnanti, riguarda la scommessa di politicizzare la scuola, di farne un luogo di politica delle donne.

La relazione come forma politica contiene già in sé potenzialmente un diverso orientamento di fondo e per me introdurla nella quotidianità dell’insegnamento, sia nel rapporto con le colleghe che con studenti e studentesse, ha significato scoprire che «il motore di questa scuola, per cui continuo ad appassionarmi a ciò che faccio, con gioia, con sofferenza, a volte con irritazione, ha una radice di amore. Per quanto ne so dalla mia esperienza, l’amore è molteplice: è per il proprio lavoro, e stimola a continuare a imparare per farlo bene; è per il sapere, e lascia vivere la curiosità e il gusto; è quel sentire interno che muove al rispetto di bambini e bambine, di chi per età, per cultura, per posizione nella struttura scolastica, è in una situazione di dipendenza» (Buone notizie dalla scuola, pag. 69, Pratiche Editrice, 1998). La relazione a scuola non ha niente a che fare con lo psicologismo pietistico che intende un atteggiamento sempre accogliente che procede distaccato dall’insegnamento. Significa invece trasformare in profondità le pratiche: la relazione in presenza fa rientrare in modo dirompente i corpi con il loro sesso, la loro storia e la vita concreta, introduce l’implicazione soggettiva, compresa quella dell’insegnante, sposta inevitabilmente dal ruolo di trasmissione di un sapere prodotto altrove, aprendo a qualcos’altro in cui può accadere l’imprevisto. Con la relazione sono soprattutto le procedure di controllo a perdere di senso e infatti nell’Autoriforma gentile molto abbiamo lavorato per dismettere le misurazioni oggettive come i voti e i test e praticare forme più amichevoli e colloquiali, che possano dare continuità alla relazione stessa attraverso il parlarsi e la rinnovata possibilità di fare delle mediazioni nel linguaggio.

Le pratiche di relazione orientate dall’amore per la comunità, che sia una scuola come nel mio passato lavorativo o la redazione di una rivista come nel mio presente, contengono un elemento che trascende l’egoismo, va oltre l’io perché c’è qualcosa di più grande di cui si è parte, c’è una dimensione collettiva in carne ed ossa da cui non si prescinde nel pensare e nell’agire. In questa logica, un successo è sì personale, ma non solo personale, sia perché è stato sostenuto da una rete di relazioni sottostante sia perché a sua volta la sostiene. Molto lavoro di tessitura fatto dall’una o dall’altra, di scambio, di messa a punto, di attenzione al dettaglio, ha contribuito a quel successo. La consapevolezza di ciò diventa alimento per le une e per le altre e trasmette forza sia alla singola che all’impresa in comune.

Una delle prime urgenze che io e le mie compagne, le Compromesse, abbiamo portato sulla tavola virtuale dei nostri incontri settimanali su Meet, in piena pandemia, è stata quella di costruire rapporti profondi con le altre donne. Tutte quante volevamo ricominciare una relazione lasciata in sospeso, quella con l’altra, relazione messa alla prova dalle invidie e dalle competizioni che la socializzazione femminile innesca in adolescenza, per farla evolvere in una dimensione che partisse sì da noi, ma coinvolgesse il mondo intero.

Ci siamo riuscite: Le Compromesse sono le mie prime amicizie politiche. Le parole di Chiara Zamboni nel descrivere questo tipo di amicizia hanno risuonato molto in me e non ho potuto fare a meno di pensare a questo bellissimo gruppo di donne che ho la fortuna di frequentare.

Anche il racconto di Jennifer Guerra, intensamente personale, ha toccato alcune corde che proprio adesso sono più importanti che mai. Jennifer ha trovato nel femminismo una forma di amore, un amore come pratica politica quindi, a cui si dedica da diversi anni. Ha parlato di letture, manifestazioni, impegno nei centri antiviolenza. Tutto questo però ha subito una piccola frenata in seguito a un momento di crisi personale, nel quale però ha riscoperto un altro amore, quello per sé stessa, che non significa abbandonare gli altri amori e passioni, ma soltanto ascoltarsi e adeguare il proprio ritmo. Questa è la nota del racconto di Jennifer che più ha risuonato in me. Anche io ho attraversato un periodo di crisi, terminato poi con la fine di una storia d’amore molto importante, nel quale mi sono ritrovata – senza esplicitamente esprimerne il desiderio o nemmeno rendermi conto che lo desideravo – ad assecondarmi come mai nella mia vita da adulta avevo fatto: vivendo giorno per giorno, dedicandomi più ai piaceri piccoli ma quotidiani che a progetti dilatati nel tempo, anche a costo di rimandarli un po’; un assecondarmi che mi ha portata a finire la mia relazione senza strappi bruschi, ma che mi ha anche allontanata momentaneamente dall’impegno politico. Tuttavia è stato un periodo ugualmente fervido e pieno. Guardandolo in retrospettiva mi sono accorta che, anche mettendo in pausa certi elementi della mia vita, questi non sono affatto scomparsi, anzi. Le amicizie che ho coltivato – con molta più cura rispetto a periodi più “impegnati” – e che hanno composto gran parte dei “piccoli piaceri quotidiani” che mi sono concessa, sono state quasi tutte amicizie a tre: io, te e il mondo. Sono sicura che il mio coinvolgimento nel femminismo ormai non possa non coinvolgere a sua volta le persone a cui voglio bene; domenica all’incontro di Via Dogana ho portato una mia amica, che non era mai stata in Libreria prima. La sera prima mi aveva detto che, conoscendo il “femminismo mainstream” e neoliberista del sex work, si vergognava di definirsi femminista. Era un’affermazione che denotava sfiducia, ma in cui ho intravisto un desiderio di essere smentita. Così d’istinto le ho risposto proponendole di partecipare alla redazione aperta; dopo l’incontro mi ha detto che aveva capito perché lo avevo fatto e ne era grata. È bastato così poco! Eppure credo che quel semplice scambio abbia portato qualcosa di molto rilevante per me e per lei, sia dal punto di vista affettivo che dal punto di vista politico.

Nel suo racconto, Jennifer menzionava centri antiviolenza, manifestazioni, piazze e letture messe in pausa. Io credo che la politica come amore non possa essere messa in pausa. Le parole stesse di Jennifer lo fanno trasparire, e nel mio piccolo lo osservo anche nella mia esperienza: dal piccolo gruppo di studio o dalla piazza, si trasferisce inevitabilmente nel rapporto con l’altro – che in fondo è politica.

La relazione introduttiva di Chiara Zamboni in occasione della redazione della rivista Via Dogana Tre dell’11 giugno scorso è stata per me particolarmente preziosa. Orientarsi con l’amore, diceva l’invito, indicando un tema fondativo, e variamente declinato, del pensiero politico delle donne per come oggi lo conosciamo e pratichiamo.

Voglio ricordarne almeno due forme memorabili per molte della mia generazione: l’amore della figlia per la madre, come si legge nella relazione di Laura Colombo con riferimento al pensiero di Luisa Muraro ne L’ordine simbolico della madre del 1991, e l’amore che le donne hanno rivolto alle loro simili, secondo la pratica proposta da Antoinette Fouque nel gruppo Psychanalyse et Politique nei primi anni ’70, ripresa e rielaborata nel pensiero di Lia Cigarini (vd. introduzione a I sessi sono due di Antoinette Fouque, 1999). Queste invenzioni simboliche ci permisero allora di vedere quella corrente viva di relazioni che aveva da sempre percorso il mondo delle donne. La scelta di Chiara Zamboni di partire dall’amicizia tra donne come fatto originario è un ulteriore passo simbolico che ci rafforza e rallegra. Siamo amiche, lei parte da lì, semplicemente, e l’amicizia, secondo le sue parole, «ha come suo centro il fatto di confrontarsi nella vita e sul suo senso», e aggiunge che «una ricerca di senso che riguarda la vita, facilmente può diventare politica». Con tratti essenziali e felici Zamboni ci dice che l’amicizia «è politica in quanto ha a cuore il mondo. L’amore per il mondo è ciò che ci unisce e ci fa cercare. Ci fa desiderare di trasformarlo»Segnala poi la differenza che intercorre tra l’amicizia politica e la semplice relazione politica tra donne. Se la prima ci fa cercare «l’altra per pensarlo [il mondo] – perché cerchiamo una misura – anche da posizioni che possono essere diverse […] le relazioni politiche sono molto più libere. Fluide. Leggere. Si possono creare relazioni politiche anche con chi sentiamo lontana o lontano quanto a piano profondo dell’esistenza. È sufficiente che si crei una comune scommessa di trasformazione del mondo e di modificazione di contesti vissuti assieme.[…] una relazione politica si scioglie senza sofferenza, quando non ci sono le circostanze che l’alimentano».

Non posso qui riassumere, come è ovvio, la ricchezza del contributo che è possibile leggere nella sua interezza in questo numero online di Via Dogana. Ho solo riportato alcuni dei tratti con cui Chiara Zamboni caratterizza tre forme di relazione tra donne che, utilizzando un’espressione ricorrente nel pensiero di Lia Cigarini, chiamo “figure dello scambio”: quei modi, quelle forme, cioè, con cui scambiamo, tra donne, sapere, autorità, senso della vita, amore per il mondo e gli esseri che lo abitano e perciò anche desiderio di cambiarlo.

Ho subito provato un senso di sollievo, ascoltando la relazione, come accade quando una impasse del sentire e del pensiero, si libera in una nominazione adeguata. Di recente mi è capitato di confrontarmi con donne molto impegnate nel contrasto alla cosiddetta maternità surrogata, al sex work e alle altre nuove forme di mercificazione dei corpi – in particolare di donne e bambini – che tuttavia trovano giusta e adeguata la risposta bellica che l’Ucraina, la Nato e l’Europa tutta, hanno deciso di opporre a Putin. Mi sono detta, ma che mi importa se lei combatte per la dignità di donne e bambini quando si tratta di “utero in affitto”, ma poi non riconosce il nonsenso e l’orrore della guerra, quale che sia? Ero convinta che non si trattasse di un buon pensiero, di un buon pensiero politico, intendo, e quindi sono rimasta in mezzo al guado senza sapere come nominare o come sciogliere il nodo. La formulazione di Chiara Zamboni mi ha subito sollevata. Ho capito che rimanevo incastrata in una “figura dello scambio” incongrua, inadatta a definire quella relazione. Non di amicizia politica si trattava, bensì di più semplice relazione politica, di quelle dalle quali ti accommiati se il contesto non è più convincente o nelle quali puoi rimanere per condividere un disegno comune ma definito. Mi chiedo, però, perché rimanessi così impigliata nel disagio, quasi nella sofferenza. Mi rispondo – e ne parlo solo perché penso che anche ad altre possa succedere – che troppo spesso mi incaponisco a volere amicizia politica. È come una pretesa d’amore che si rivela, oltre che inutile, controproducente. Restringe il mio mondo invece di allargarlo. Le figure dello scambio che Chiara Zamboni ci propone fanno proprio il contrario, ci mettono in relazione differenziata e duttile con le altre. Quanto più la rete delle relazioni può allargarsi senza che vi restiamo impigliate, tanto più la nostra scommessa sul mondo può risultare vincente.

Ho partecipato volentieri e con curiosità, alla discussione della redazione VD3 “Orientarsi con l’amore”, in modalità online. Godo di questo mezzo per essere presente alle conversazioni in Libreria alle quali, altrimenti, non potrei partecipare con la stessa frequenza, visto che vivo lontana.

L’essenza dell’amore è l’essenza del femminismo, è stato detto a un certo punto, nell’ordine femminile della madre, e occorre perciò, a mio avviso, darsi misura, altrimenti si rischia il ritorno in nuove forme subdole del sacrificio di sé in nome dell’amore, della passione per il mondo.

Il patire nell’amare è sentire un disagio fisico o spirituale. Dove c’è patimento, io ho imparato da femminista a prendere le misure, cioè le distanze di sicurezza per la mia incolumità e l’andamento del vivente: cioè dove sento che c’è, esso non porta niente di buono, e se non si trova come rimediare, allora meglio desistere e lasciare lo spazio al silenzio, in attesa di tempi e momenti migliori per riproporre, per riproporsi.

L’amore femminile della madre non ammette sacrifici, ma cura di sé e delle altre e degli altri in relazioni necessarie e irrinunciabili, molto spesso inaspettate, ma soprattutto non a tutti i costi, altrimenti c’è chi approfitta dell’occasione e chiude il cerchio in una morsa che già conosciamo dell’amore come merce oppure risorsa vivente e infinita da sfruttare.

Ecco la mia ricerca di libertà da femminista di questo secolo, consiste in questa misurazione continua e infinita, senza stanchezza e senza segni di insofferenza, senza ripensamenti ma alleggerendo la portata, la consistenza all’essenziale, affinché scorra in libertà il pensiero e l’azione.

Questa è una scienza, basata sull’esperienza di sé e delle altre, riproponibile e che si può ereditare, attraverso testimonianze scritte oppure vissute e raccontate in presenza oppure online.

L’importante è rendersi conto e rendere conto in coscienza, in modo autentico, con chi si vuole oppure ovunque si presenti la possibilità di esserci.

Nell’ultimo incontro di Via Dogana si è parlato di amore e amicizia politica. Prima di scrivere del significato che l’amore ha per me in questo contesto mi è necessario fare una premessa: l’idea di amicizia politica non potrebbe esistere per quanto mi riguarda senza l’incontro col femminismo. E dal femminismo non si torna indietro. Il femminismo, e le mie amicizie, che reputo tutte intrinsecamente politiche, sono una lente attraverso cui guardare il mondo, esplorarlo, cambiarlo.

Con gli occhiali del femminismo l’amicizia ha assunto nuove forme. Enormi, alcune, ingombranti. Rassicuranti. Altre costantemente presenti. Colorate, che riempiono la stanza di energia. Salde, nonostante il tempo, nonostante la distanza. Risonanti come una risata. Leali. Le amicizie che sento tali nel profondo sono tutte politiche a modo loro, perché hanno una cosa in comune: si fa assieme, con l’idea di una realizzazione condivisa. È forse questa per me l’anima della politica, la prospettiva di inclusione dell’altro di cui parla Hannah Arendt in Che cos’è la politica. Per citarla, «la politica non raggiunge mai la stessa profondità. La mancanza di profondità altro non è infatti che scarsa sensibilità per la profondità su cui poggia la politica». Solo nell’unione delle nostre sensibilità può avere luogo la politica, nella relazione, e solo con lo scambio, abitando l’intra, ci è possibile discendere a profondità maggiori, dove possiamo sentire di più. In questo sentire, sentire forte che ancora nessuna lingua per me dice meglio dell’italiano, politica e amore si incontrano. È un sentimento viscerale che, come avevo già scritto qualche tempo fa parlando del tema del piacere, ha qualcosa di erotico. Lo vivo nella mia esperienza quotidiana in cui ciò che mi muove e mi spinge a fare, a dire, è la possibilità di questa seduzione creatrice che si instaura nei legami di amicizia e di amore. Più il confine tra i due sfuma più si fa intensa e interessante la collaborazione: le idee scorrono, si pianifica il futuro, le utopie sono intriganti tanto più quando sono possibilità concrete da materializzare assieme. La relazione politica per me è immaginare con occhi uguali e diversi mondi nuovi. L’eros è una risorsa per una comprensione intima, una forza che come scrive Lorde «non può essere di seconda mano». La sua potenza è brillante, generativa, autentica nel momento stesso in cui viene riconosciuta da qualcun altro. In quel riconoscimento ci vedo tutta la bellezza del femminismo e dell’amore che sento come vero. 

In questo momento storico in cui è difficile discernere verità e finzione – e per verità intendo quello che sentiamo come vero per noi – in cui l’eros sradicato e applicato solo al visibile tanto rafforza le posizioni maschiliste e maschiocentriche che non abbiamo ancora scalfito del tutto, far nascere e coltivare relazioni politiche è un’impresa complessa e dispendiosa di tempo, tempo che molti e molte scelgono di non impiegare perché catturati dalla macchina del neoliberismo. Ho perso amicizie che non hanno retto al contraccolpo erotico della condivisione profonda. Altre non sono diventate abbastanza forti. Altre ancora hanno prodotto scontri che ci hanno separate per qualche tempo. In quelle con gli uomini, spesso amorose e in cui il gioco erotico ha una doppia anima – unione di intesa mentale e fisica –, la questione è ancora più sfaccettata: da un lato la resistenza tutt’ora da parte degli uomini ad abbandonarsi a un sentire che non divide testa e cuore, dall’altra l’incapacità e spesso la non volontà di trovarsi di fronte a un erotico molto diverso da quello che hanno inteso loro. Un eros-amore che crea uno spostamento reale, che si manifesta nelle cose di tutti i giorni e non solo in un letto o un collant, un sentimento che “fa per due”, che cambia gli equilibri interni ed esterni e che ci fa sentire coinvolti e al tempo stesso custodi responsabili di una passione preziosa.

Nel nutrire e riconoscere nuove relazioni politiche quel che mi aiuta è ricordare che non c’è posto per l’individualismo in un progetto politico nato dall’amore, né per una visione parziale e unilaterale delle cose. C’è conferma, forza, futuro.

Nei tempi che attraversiamo, grande è il rischio di ritrovarsi senza parole, ammutolite dalle guerre, dai massacri, soprattutto dall’indifferenza per le vite umane, inghiottite al largo di Pylos oppure davanti a Cutro.

Per questo, invece, perché può produrre lingua e relazioni, voglio ragionare di “amicizia politica, come pratica orientata per il presente” che ponete alla riflessione nell’invito alla redazione aperta di #VD3.

Secondo me l’amicizia politica non presuppone l’essere in sintonia. In effetti, mi convince Chiara Zamboni quando dice che «l’amicizia politica non ha a che fare con l’essere d’accordo con l’altra».

È una posizione che non costringe a stare di qua o di là, in uno o nell’altro schieramento, dalla parte di chi vince o di chi perde. Piuttosto si tratta di uno “scambio conflittuale”, una possibilità di trasformazione in grado di modificare i soggetti dello scambio e costringere ad abbandonare la corazza dell’identità.

Badate che alla corazza dell’identità molti e molte si avvinghiano quasi fosse la loro ancora di salvezza. Basta leggere le interviste più intime rovesciate sulle pagine dei giornali, basta ascoltare le esibizioni senza filtri alle quali assistiamo sulla scena televisiva.

All’opposto, lo “scambio conflittuale” aggira la pretesa di ottenere riconoscimento, la sicurezza di avere ragione e colloca in una posizione di ascolto delle altre. D’altronde, l’amicizia politica attraverso un «va e vieni tra vita quotidiana e amicizia tra donne» (sempre Chiara Zamboni) mette in rapporto con il mondo, con le contraddizioni squadernate quando ci si immischia nelle cose del mondo.

Così, i nodi aggrovigliati (come la gestazione per altri) che esistono tra noi, tra me e voi della Libreria e che certo è utile tentare di sbrogliare, non diventano dei macigni e non escludono che possiamo lavorare insieme interrogandoci sugli uomini e sulle donne e sul nostro stare insieme. In fondo, è l’amicizia politica con le sue parole che aiuta a schivare i fantasmi dell’incompatibilità radicale.

Pochi giorni prima della redazione allargata di VD3 che si è tenuta l’11 giugno avevo scritto a due amiche una piccola lettera di ringraziamento della quale riporto qui una parte:

«Quello che mi è capitato negli ultimi anni (credo sia per l’uscita dal mondo del lavoro, sia per la scomparsa di Rosetta [Rosetta Stella, NdR]) è stato il venir meno di quella parte di relazioni che stanno nella categoria del “non scelte”. Non scelte sono per definizione quelle che si danno nel lavoro. Ma non scelte sono anche – almeno da alcuni punti di vista – le relazioni che si incontrano avendo a che fare più intensamente con il desiderio di un’altra donna, che non può mai essere coincidente integralmente con il proprio. […] Grazie a voi due mi sono resa conto che per me il mix di relazioni scelte e non scelte è indispensabile se voglio continuare a “pensare”. Rimanere esclusivamente nelle relazioni scelte è un limite enorme perché mi toglie dall’ambito della necessità. Dal dovermi destreggiare, dal dover inventare continuamente nuove strade.»

Mi ha dunque emozionata, man mano che ascoltavo l’introduzione di Chiara Zamboni, avvertire – ancora una volta – l’esistenza di quella specie di corrente sotterranea che «ci porta dove stiamo andando» e che crea uno stare insieme, stare con…, anche da grande distanza.

Mi interessa la porosità dei confini tra relazioni politiche e amicizie politiche, tra scelto e non scelto, tra necessità e desiderio: mi interessa ciò che apparentemente sta “al margine”. Per parlarne guardo alla mia esperienza.

Ho avuto la fortuna di avere un lavoro al quale potevo quotidianamente cercare di dare senso, in particolare negli anni in cui sono stata nel servizio cronaca di un quotidiano. Un quotidiano è per forza di cose una struttura fortemente gerarchica e a tempo limitato, dove però c’è un margine per lo scambio. Oltre ovviamente al poter scrivere, ho amato il fatto che la cronaca locale consente, più di altri servizi, di raccontare storie, vicende umane: per raccontare bisogna far scattare una relazione che magari dura solo pochi minuti, a volte molto più a lungo. Ma ancora di più ho amato quello che non potevo cambiare se non lavorando “di fino”. I capiservizio (così come i colleghi) li sceglie il direttore, ti tocca avere a che fare con quella persona lì, proprio lei, che decide non solo cosa scriverai, ma anche lo spazio, cioè quante parole hai a disposizione. Il tempo consiste di poche ore. Non essere d’accordo è la norma, non l’eccezione. Per questo salvare il senso di quello che si fa è il vero lavoro a tempo pieno: un arco di possibilità ricchissimo, dentro uno spazio-tempo limitatissimo. «Su cosa scommetto oggi per provare a poter dire quello che più mi sta a cuore?» A questa domanda ho cercato in quegli anni di rispondere ogni giorno, a volte riuscendo e a volte fallendo. Soltanto in due occasioni su migliaia di giornate, però, mi sono trovata di fronte al prevalere dell’aspetto “accordo/disaccordo nel merito” su ogni altra cosa. La prima volta finì con la rottura irreparabile della relazione. Il capo mi disse: se per te è così, non puoi fare questo mestiere. E mi punì relegandomi a occuparmi delle cose di poco o nessun conto. Avevamo entrambi incontrato il nostro limite, e lì giocò il suo potere. La seconda volta, con un altro capo, ebbi la fortuna di una mediazione femminile che seppe accogliere il mio dolore e contemporaneamente rafforzare la fiducia che lui, il capo, aveva nei mei confronti: non mi accadde nulla di male. Penso di avere imparato così molto su me stessa e su ciò che mi lega al mondo.

Tuttavia. Quando ho sentito che – pure essendo io indubitabilmente una privilegiata – la parte di lavoro che atteneva al senso della mia vita stava diventando residuale e “banalizzata” (parola che ha usato Ida Dominijanni e che trovo molto precisa) sono venuta via in anticipo dal giornale.

Penso che quella scelta sia affine a quello che sta accadendo adesso, nelle persone che rifiutano la logica del “lavoro per la sopravvivenza” e che scelgono di “avere meno” materialmente e “di più” relazionalmente e nel loro rapporto con l’ambiente, gli animali, la bellezza. Credo che questo andrebbe sostenuto, che cioè sarebbe importante mettere a tema insieme lavoro e non lavoro.

Un’altra esperienza relazionale politica importante, dopo il lavoro, ha riguardato mia madre e mia zia: lì il desiderio che la loro rimanesse – fino all’ultimo istante possibile – vita e non sopravvivenza ha incontrato la necessità conseguente alla loro età, molto avanzata, e al non essere noi persone ricche. Così noi, tre figlie di queste due sorelle tra loro legatissime, ci siamo materialmente interposte contro la possibilità di un degrado. Questo ha avuto un prezzo, a volte anche piuttosto alto (non però nell’ordine del dovere/sacrificio), ma, ora che le nostre anziane ci hanno lasciato, siamo tutte e tre contente di averlo fatto. Mi è capitato però di chiedermi, senza avere una vera risposta, quale equilibrio tra la mia vita e la loro avrei trovato se avessi avuto davvero tanto tanto denaro a disposizione? E in che modo ha inciso l’aver vissuto (anzi fatto, perché curiosamente se guardo a ritroso la mia vita mi sembra di aver fatto molto di più di quello che mi sono accorta di stare facendo e di quello che sono stata in grado di raccontare) quel passaggio “famiglia”/“amicizie politiche” che è cominciato ad avvenire quando abbiamo spaccato il nucleo familiare tradizionale per portarci dentro le nostre relazioni, le altre donne, e con loro la felicità che vivevamo insieme?

E poi c’è la relazione materna, che, certo, è un unicum. Ma è anche una relazione politica con una ampia componente di non scelto. C’è quel sì indispensabile di una donna. Ma dopo, immediatamente dopo, quello che avviene è una relazione. Mi chiedo se provare a districarla, in quanto relazione politica, dal sentimento proprietario verso i figli potrebbe aiutare. Se c’è una cosa che Michele e Gaia, che ho messo al mondo e che amo profondamente per quanto diversamente, non sono è: “miei”.

L’ultima questione alla quale vorrei accennare è quella dell’uguaglianza. Che – a causa della impossibilità di cancellare dalla scena pubblica tutti quei corpi femminili, e a causa di alcune altre cose – sta in qualche modo raggiungendo il suo limite (quanto bisogna essere uguali per essere uguali?). Mi pare che spesso la risposta (anche per le donne che sono rimaste sul percorso della parità) sia: bisogna essere identici, potersi sovrapporre identitariamente o quantomeno poter fingere che sia così, raccontare con molta forza che è così e ottenere il riconoscimento sociale che è così, proprio così. Il riconoscimento sociale delle identità sovrapposte prende il posto del legame sociale ormai frantumato. E accosta le identità l’una all’altra in un modo che rende progressivamente sempre più difficile non solo lo scambio, ma esattamente la relazione.

C’è una frase sulla questione dell’identità ne “Il passeggero” di Cormac McCarthy che continua a danzare dentro di me. «I nomi sono importanti. Fissano i parametri per le regole d’ingaggio. L’origine del linguaggio risiede nel suono unico che designa l’altro. Prima che gli si faccia qualcosa».

«L’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa». Quando Jennifer Guerra lo ha detto all’incontro di Via Dogana 3 (Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023) mi è tornata in mente, e ho finalmente capito, una frase di Luisa Muraro che anni fa mi aveva colpito: «Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso è amare».

Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso è precisamente come io vivo la politica delle donne da quando faccio parte della Libreria, cioè da trentacinque anni. Leggere che questo è amare mi sorprese, perché avevo un’idea diversa dell’amore, più un sentimento che una pratica. Mentre avevo ben chiaro quello che mi succedeva e mi succede quando mi viene proposto o richiesto di fare qualcosa, parlare, scrivere…: non sono all’altezza. Eppure ci sto, lo faccio lo stesso (quasi sempre…). Adesso so che la mia pratica – e sicuramente di tante altre – rivela che la natura del femminismo è amore.

Chiara Zamboni, nella sua introduzione allo stesso incontro, dice forse la stessa cosa in altre parole: «il mondo è la nostra passione». Per non dimenticare che nell’amare c’è anche il patire.

Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, ho lasciato la mia stanza a Milano per andare a vivere nella campagna della Marca trevigiana, nella casa del mio fidanzato. In quell’anno, all’amatissimo tavolo in giardino, ho scritto un libro sull’amore e sul suo potenziale politico. Non parlerò molto di questo libro, ma qualche parola vale la pena spenderla: la tesi del libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente.

La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro. Le mie tesi si ispirano soprattutto ad alcune filosofe e pensatrici femministe: Aleksandra Kollontaj, Shulamith Firestone, e una su tutte bell hooks. Il libro è una dichiarazione d’amore nei confronti di mio marito, che seppure in maniera totalmente inconsapevole e involontaria, mi ha messa di fronte all’evidenza di questa relazione bidirezionale tra amore e politica.

L’amore che ci siamo reciprocamente insegnati era come se si allargasse al di fuori della nostra coppia, tanto lo sentivo forte e incontenibile. E d’altro canto, avendo noi una bella differenza d’età, per mezzo di questo amore ho conosciuto il giudizio sociale e il pregiudizio, dagli sguardi della gente, dalle reazioni quando capisce che siamo marito e moglie.

Nelle presentazioni, spesso mi veniva chiesto di fare un esempio pratico dell’amore di cui parlavo, dell’amore che dalla dimensione personale trascende verso quella politica. All’inizio ero evasiva, non sapevo bene nemmeno io cosa rispondere. Di solito dicevo che Il capitale amoroso voleva porre domande e non dare risposte, oppure che se avessi conosciuto la risposta a quel quesito, probabilmente avrei fatto cose più importanti che scrivere libri. Mi vergognavo a parlare di mio marito e comunque sentivo che quello era il punto di partenza, non di arrivo.

È proprio vero che un libro non finisce mai con l’ultima pagina. E soprattutto che è un’impresa collettiva. Portandolo in giro – in piazze grandi e piccole, festival letterari, circoli politici, centri antiviolenza, spazi femministi – il libro è continuato e forse anche io l’ho capito fino in fondo solo quando ho cominciato a parlarne in pubblico. Ho capito soprattutto che sebbene fossi partita dall’amore per Paolo, l’amore di cui parlavo era in realtà l’amore che mi aveva insegnato il femminismo. Soprattutto perché l’amore agapico è un amore incondizionato, nel senso che non mette condizioni e non si aspetta nulla in cambio. Mi sono resa conto che l’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa: prendersi cura degli altri, o meglio delle altre, in virtù di ciò che le rende diverse da noi, anche se non condividiamo le loro scelte o abbiamo diversi posizionamenti. La svolta, nella mia politica femminista, è stata proprio questa: accettare che il femminismo non è proselitismo e che spesso serve più a chi non si riconosce in questa parola che a chi la nomina ogni giorno.

Il capitale amoroso è un libro che mi ha dato grandissime soddisfazioni dal punto di vista professionale e umano e la cui scrittura è stata una delle esperienze più arricchenti e profonde, oltre che gioiose, della mia esistenza. Il 2021 è stato un anno luminoso, coronato dalla pubblicazione del libro e poi dal mio matrimonio. Vi sto raccontando tutto questo perché la giornata di oggi è dedicata alle pratiche e all’orientarsi con l’amore. E oggi vorrei parlare di una pratica femminista importantissima che si è intrecciata con questa vicenda, l’amore di sé.

Dopo l’anno stracolmo d’amore che è stato il 2021, nel 2022 sono entrata in crisi. Come spesso accade quando le cose vanno fin troppo bene, all’improvviso tutto è precipitato. Alla fine dello scorso anno sono entrata in depressione, complice anche una diagnosi di disturbo dell’attenzione che è arrivata all’improvviso e mi ha scossa nel profondo, costringendomi a rivedere in prospettiva tutto il mio passato e il mio presente. Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, o ADHD, è un disturbo del neurosviluppo che interessa quasi il 3% della popolazione, che si manifesta principalmente nell’inattenzione e nell’impulsività, oppure in entrambi i modi. Per spiegarlo meglio ci sono due metafore utili. La prima è quella dell’orchestra: nel mio cervello ci sono musicisti bravissimi, tutti virtuosi del proprio strumento. Ma se il direttore perde il ritmo, la sinfonia non può essere eseguita correttamente. La seconda è quella delle schede aperte sul browser: nel mio cervello ce ne sono tantissime e il problema è che funzionano tutte assieme nello stesso momento, rischiando di mandare in crash il sistema.

Non è stato difficile accettare questa diagnosi, anzi, ha contribuito a spiegare molte cose di me stessa. D’altronde, sono io che l’ho cercata e per certi versi desiderata. Ma allo stesso momento questa presa di consapevolezza così grande e totalizzante è stata confusionaria e dolorosa. In particolare, è stato molto difficile fare i conti con un aspetto, ovvero il posto del femminismo nella mia vita. Per me il femminismo è stato quasi sempre un’avventura letteraria, filosofica, spesso molto solitaria. Non avevo intorno a me un ambiente recettivo del femminismo, non avevo persone con cui confrontarmi o spazi in cui “fare” il femminismo. Di conseguenza, per me il femminismo è stato e sempre sarà un atto di pensiero, di creazione, di immaginazione, il contenitore in cui si svolge tutta la mia attività interiore. In quel cervello affollato di musicisti e schede di Internet, il femminismo è il teatro, è il computer.

Quando ho ricevuto la diagnosi e sono entrata in depressione, qualcosa si è spezzato. Perché il femminismo è rimasto lì, a bussarmi con la sua insistenza. Non potevo smettere di pensare al femminismo: perché il femminismo plasma il mio lavoro di giornalista e di scrittrice, in primis, ma anche perché il femminismo è la mia vita. E poi perché in quanto corpo sessuato in ogni secondo della mia esistenza, ogni volta che mi guardo allo specchio o penso al mio corpo, è come ricevere un promemoria. Ogni volta che leggo una notizia sul giornale o sui social, la leggo con le lenti femministe che ormai si sono incollate al mio naso.

Era un bel problema, perché un cervello sovrastimolato come il mio in quel momento aveva bisogno di prendersi una vacanza. Ma come si fa a prendersi una vacanza da qualcosa che ormai è così intelaiato nel tuo essere? Come si fa a prendersi una vacanza da sé stesse?

Le pratiche, dicevamo. In quel momento così difficile ho compiuto un atto d’amore nei confronti di me stessa. Mi sono fermata. Il mio percorso di femminista come dicevo pocanzi è cominciato nella solitudine, ma poi crescendo si è inevitabilmente messo in pratica nella relazione, nella presenza sul territorio, nella militanza politica. L’ho fatto nella mia nuova città, Treviso, dove ho trovato un ambiente adatto al mio carattere e alle mie energie. Difficile, non lo nego, con un maschilismo radicato e combattivo, ma anche fertile e capace di sorprendermi continuamente. A Treviso ho trovato amiche e compagne di percorso, dalle quali mi sono sentita accolta e mai giudicata, pur arrivando con una reputazione alle spalle e inserendomi in un gruppo già consolidato e avviato.

Però a un certo punto per me era diventato tutto troppo. Nei giorni in cui ci riunivamo, la mia vita era come monopolizzata dal femminismo. Magari la mattina avevo scritto un articolo su un terribile caso di femminicidio, nel pomeriggio avevo corretto le bozze del mio libro sul femminismo, poi alle sette di sera prendevo la macchina per andare a parlare di femminismo con altre persone fino alle dieci e mezza. La cosa più dolorosa è che avevo sviluppato sentimenti quasi di rancore nei confronti del femminismo. A volte lo sentivo come un invasore nella mia testa e desideravo non averlo mai conosciuto, per poter godere di una vita più spensierata. Arrivavo a invidiare quelle donne che non avevano compiuto questo passo e potevano permettersi il “lusso”, tra virgolette, di non essere femministe.

Così ho deciso di prendermi una pausa prolungata da quelle riunioni. È stata una decisione molto difficile e sofferta, perché questa pausa è arrivata proprio nel momento in cui mi sentivo di aver abbandonato definitivamente quelle resistenze che sono così tipiche del mio carattere quando si parla di relazioni interpersonali. Cosa sarebbe successo al mio ritorno? Sarebbe stato tutto come prima o avrei avuto l’impressione di essermi persa qualcosa, di dover ricominciare tutto da capo? Questa pausa è stato un coraggioso atto d’amore verso me stessa, ma anche verso le mie compagne nei confronti delle quali sentivo di non essere in grado di mettere a disposizione il meglio delle mie energie e risorse.

Con Il capitale amoroso avevo parlato d’amore fino allo sfinimento, ma mi stavo dimenticando che il primo soggetto dell’amore siamo noi stesse. Spesso si dice, quasi a mo’ di slogan, che non si possono amare le altre persone se non si ama prima se stesse. Io ci credo fino a un certo punto, nel senso che credo anche che l’amore abbia in sé una componente di slancio e di gratuità che è incondizionata e soprattutto che amarsi non sia un obbligo. Però d’altro canto l’annullamento di sé è un campanello d’allarme importante per una relazione che non funziona. Nel mio caso, non mi ero trascurata per l’amore di mio marito o di un uomo, ma per amore di un soggetto indistinto, non so nemmeno se per dire una causa o un’ideologia.

Se dovessi descrivere cosa significa per me in questo momento l’amore di sé in senso femminista userei un’espressione che ho ritrovato in Carla Lonzi: «l’esperienza di combaciare con me stessa». Sento molto vicina la Lonzi della fine degli anni Settanta, quella che ragiona retrospettivamente sulla sua vita e sul senso del femminismo. Non mi sento, ovviamente, di aver raggiunto la stessa maturità, ma in quel frangente sembra che Lonzi torni in qualche modo dentro di sé e si guardi dentro. «Mi sembra che l’amore allo stato puro, se così si può dire, cioè l’amore che si prova per qualcuno», scrive Lonzi «dovrebbe essere il manifestare a qualcuno l’amore che si prova per se stessi […]. L’amore che si ha per gli altri non è che l’espressione di questo volersi bene […]. In questo modo mi sembra spiegabile perché a me è sempre sembrato di essere incapace di amare. Perché io non amo me stessa».

Credo che ciò che dice Lonzi qui sia molto difficile da ammettere e spero per lei questo non amare sé stessa sia stato soltanto temporaneo, che non sia stato qualcosa che l’ha accompagnata tutta la vita. Oggi l’amore di sé è stato trivializzato, oltre che trasformato in un obbligo. Le pubblicità, i giornali, i social ci dicono in continuazione di amare noi stesse, amare il nostro corpo, amarci così come siamo. Mentre ci rassicurano che siano perfette così come siamo, ci sottopongono a uno standard morale altissimo, a un compito che è difficile adempiere con costanza.

L’amore di sé che ho cercato, l’amore di sé di cui parla Carla Lonzi, quel combaciare con sé stesse, credo abbia poco a che fare con questo tipo di richiesta. Perché non è un amore migliorativo, che serve alla nostra autostima. Mi sembra piuttosto un amore che si realizza nella relazione. Non credo sia un caso che Lonzi parli di amore per gli altri come manifestazione dell’amore per sé stesse e non il contrario. Non dice che l’amore di sé è un requisito o un presupposto.

Le donne hanno storicamente assimilato l’idea di sacrificio. Mariti e figli vengono sempre prima, in generale tutti gli altri vengono prima; Pasolini in una poesia scriveva che il vergognoso segreto delle donne era quello di accontentarsi dei resti della festa. Anche quando ci convinciamo di aver finalmente abbandonato l’obbligo del sacrificio, ecco che torna in modi insperati. Anche nella relazione fra donne, nel femminismo, spesso sentiamo la necessità a metterci da parte, per le altre, per un fine più nobile, per mille altre cose. Io credo che il pericolo più grande di questo sacrificare sé stesse sia in fondo quello di allontanarsi dalla nostra autenticità.

Quando ho ricevuto la mia diagnosi, la mia identità è entrata in crisi. Ho dovuto fare i conti con un modo di essere me stessa che mi era quasi estraneo. Ora che ero a conoscenza di una parte di me totalmente nuova, dovevo cercare di non smarginarmi, di non spezzarmi. Il rischio più grande che avrei potuto correre, e dal quale ancora adesso non mi sento del tutto salva, è quello di uno strappo tra la me del passato, inconsapevole, e la me attuale, che sa dare un nome alle cose di sé. In tutto questo, il femminismo rischiava di occupare un posto troppo ingombrante, perché è esattamente il ponte tra la mia identità e la relazione con il mondo.

E così ho preso una decisione d’amore per me, e di conseguenza per gli altri. Ho deciso di rinunciare per un po’ a quella parte di femminismo più difficile da praticare. Amarsi è anche essere indulgenti con sé stesse, mettere dei paletti, dei confini. È così che l’amore di sé riesce a conservare uno slancio verso l’altro senza portare all’autosabotaggio. Fermami è stato una decisione necessaria ma anche sofferta, che però ha portato maggiore chiarezza nella mia testa. Nei mesi in cui ho rallentato tutto, sono tornata a quella forma originaria di femminismo che ultimamente mi sembrava di aver perso per strada, ovvero la scrittura.

Oggi le cose vanno meglio. Sto lavorando per imparare a integrare questa nuova consapevolezza legata alla diagnosi nella mia vita, ma non ci sarei mai riuscita senza questo atto di amore verso me stessa. Penso che alla fine, anche se ho saltato qualche mese di assemblee e azioni, piazze, sarò una femminista migliore. È presto per fare valutazioni e bilanci, ma se crediamo che l’amore sia, come penso, una forza politica, politica è anche sapere quando fermarsi. Chiudo con un’immagine: quella dell’ex premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern che a gennaio si è dimessa dal suo incarico perché era stanca. Spesso di discute su cosa differenzi una politica femminile da una politica femminista. Ecco, io credo che al di là delle leggi e dei decreti, nella sua scelta di dimettersi ci sia un gesto politico profondamente femminista, che partendo dall’amore di sé si riverbera su tutta la comunità.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023

Per questo discorso ho un debito con diverse amiche con cui mi sono confrontata, tra le quali quelle di Diotima. L’idea da cui parto è che un’amicizia è politica in quanto ha a cuore il mondo. È questo che la fa diversa dalla semplice amicizia. Non si è mai soltanto in due in questo legame perché c’è un terzo. Il terzo tra noi è il mondo. Il mondo ci interessa, ci coinvolge, sentiamo la necessità di confrontarci costantemente su di esso. Allo stesso tempo è ciò che ci permette di essere in rapporto tra noi. Noi abitiamo il mondo e allo stesso tempo il mondo è la nostra passione.

L’amicizia politica è quella nella quale siamo impegnati assieme a raccontare, capire, interpretare le cose del mondo. Criticarle per orientarle. E criticarle perché lo si ama. L’amore per il mondo è ciò che ci unisce e ci fa cercare. Ci fa desiderare di trasformarlo.

Per le donne il limite tra amicizia e amicizia politica non è mai così nettamente riconoscibile, anche se è bene partire dalla loro differenza, che ho appena descritto. Si passa molto facilmente da una situazione all’altra. Sappiamo che l’amicizia ha come suo centro il fatto di confrontarsi nella vita e sul suo senso, in un arco di tempo che si percorre in comune. Ora, ragionare sul senso della vita può facilmente portare a parlare del mondo che abitiamo assieme, del suo giusto e sbagliato, e di cosa vorremmo, e così inavvertitamente il legame diventa politico in un senso ampio.

Questo va e vieni tra vita quotidiana, amicizia tra donne e relazione con il mondo è stato compreso e registrato dalla politica nel movimento delle donne. Per un preciso motivo: il femminismo è fedele alle radici della vita. Di più: pone al centro della politica il circolo tra la vita e il senso della vita. Questa è la sua forza. È una politica che con consapevolezza fa del senso della vita, guadagnato soggettivamente con altre, una scommessa che riguarda la trasformazione del mondo e la nostra relazione con esso. Dato che, nell’amicizia, c’è una ricerca di senso che riguarda la vita, facilmente può diventare politica.

So per esperienza che questo va e vieni tra vita e politica non avviene nelle amicizie con gli uomini. Parlano sì del mondo ma molto poco del loro rapporto soggettivo con l’esperienza della vita. Passano subito alle questioni del mondo. Ad eccezione dei pochi uomini che sono capaci di pensare il legame tra i loro sentimenti soggettivi e l’andamento del mondo.

Mi sembra importante sottolineare che l’amicizia politica non ha a che fare con l’essere d’accordo con l’altra. Non è questo l’importante. C’è di mezzo il mondo e cerchiamo l’altra per pensarlo – perché cerchiamo una misura – anche da posizioni che possono essere diverse.

Del resto è proprio il fatto che nell’amicizia politica si presupponga che non si sia necessariamente d’accordo, a rendere vitale il rapporto. Infatti si è di frequente su posizioni non coincidenti. Allora lo scambio conflittuale ci aiuta a pensare meglio e a scegliere una strada piuttosto che un’altra. È per questo che non si tratta di vincere o perdere. La scommessa sta nel parlare del mondo con verità, che è cosa molto più complessa che avere ragione o torto. E comunque anche diversa dall’idea di possedere la verità. La verità è cosa differente dall’aver ragione. Hannah Arendt citava questa bella frase di Kafka: «È difficile parlare di verità, perché, sebbene ve ne sia una sola, è vivente, e ha quindi un volto che cambia con la vita» (L’umanità in tempi bui, pp. 92-93). L’amicizia politica sa mantenere le differenze di visione nell’impegno per la verità che cambia con la vita. Non si irrigidisce in un’affermazione unica e conclusiva.

Le amicizie politiche sono diverse dalle relazioni politiche, di cui abbiamo visto la forza nel movimento delle donne. Anche se – lo sappiamo bene per esperienza – molte relazioni si trasformano in amicizie politiche. Anche qui i confini sono porosi. Tuttavia c’è tra loro una differenza. Le relazioni politiche sono molto più libere. Fluide. Leggere. Si possono creare relazioni politiche anche con chi sentiamo lontana o lontano quanto a piano profondo dell’esistenza. È sufficiente che si crei una comune scommessa di trasformazione del mondo e di modificazione di contesti vissuti assieme. La politica nasce dal desiderio – sentito assieme – di cambiare una situazione pubblicamente condivisa. Chi fa politica relazionale nell’ambito del proprio lavoro o nel tessuto di una città lo sa bene. E tuttavia non c’è un impegno di lungo periodo come nell’amicizia politica, né quello sguardo di elezione pur nella differenza, che radica l’amicizia, e che rende l’agire assieme un piacere.

E poi, una relazione politica si scioglie senza sofferenza, quando non ci sono le circostanze contestuali che l’alimentano. Senza strappi. Diciamo che si spegne senza ferite, quando non è più alimentata dal desiderio politico comune in cui e per cui è nata. Mentre l’amicizia politica è meno legata al contesto. E infatti, quando un conflitto non viene reso fertile all’interno dell’impegno reciproco, può finire con molto dolore. Tutte noi conosciamo diversi esempi in cui le ferite non si sono rimarginate.

Se lo stile di vita non è in discussione nelle relazioni politiche, invece è fondamentale nell’amicizia politica. È come se, essendo venuta meno la tradizione che vincolava i comportamenti di generazione in generazione attraverso la famiglia, l’amicizia politica vi si fosse sostituita. Prende il posto simbolico della famiglia, andando incontro al bisogno, che avvertiamo, di trovare le misure giuste del vivere. Consapevoli che molti nuovi costumi di vita sono suggeriti pesantemente dal biopotere e che sulla vita e sulla soggettività c’è uno scontro molto politico, sebbene non esplicitamente nominato come tale. Fare alcune scelte ad esempio sulla vita sana, sul lavoro, sul modo del viaggiare, se dare e come i soldi in più che possono servire ad alcune comunità, su come trattare gli animali, che rapporto con l’istituzione medica, sono questioni su cui si cerca una misura confrontandosi con le amiche, gli amici. L’amicizia politica sostituisce la famiglia sul piano simbolico, perché alla famiglia si chiede sostegno e sicurezza. Paradossalmente proprio in un momento in cui è divenuta così fragile.

Tengo molto a sottolineare che l’amicizia politica regge la lontananza. Creatasi per una elezione reciproca, e messa alla prova in tanti momenti e in un lungo periodo, non obbliga però ad una presenza costante. Abbiamo tanto parlato dei legami simbolici. Bene, l’amicizia politica è per me uno dei legami simbolici più importanti. Continua anche se non ci si frequenta spesso. Qual è poi il piacere e in fondo la sorpresa di ritrovarci su temi, questioni, con la stessa passione per la vita pubblica, dopo tanto tempo che non ci si vede…

Parla di amicizia nella città, nella polis, Françoise Duroux in uno scritto su Antigone(Antigone ancora. Le donne e la legge). Antigone propone che nella città le leggi debbano seguire filia, cioè amicizia, che è una forma di amore, eros, desiderio. Queste parole fanno parte della stessa area semantica. Vita Cosentino mi ha suggerito di ritornare su questo testo e credo abbia ragione. Duroux reinterpreta lo scontro con Creonte. Quello che mi interessa mettere in evidenza è che il conflitto che Antigone apre non è tanto tra filia, amicizia, come forma di eros, amore, da un lato e l’odio, dall’altro. Non si tratta dell’opposizione amore-odio, in sé molto sterile sul piano del pensiero politico. Piuttosto è il conflitto tra la logica dell’amicizia, dell’amore, contro quella della necessità. Che è tutt’altra cosa e molto più sottile, sotterranea. Creonte dice di adoperare la techne, le tecniche di governo. Sostiene di fare riferimento alla necessità fattuale della città. Si appella al bisogno di governarla con leggi tecniche, che dichiara necessarie, mentre in realtà rispecchiano una visione patriarcale velata con l’ideologia della necessità. Antigone propone invece che le leggi siano orientate da amicizia, filia, amore. Dal desiderio, piuttosto che dalla necessità.

Aggiungo, andando oltre Duroux, che l’orizzonte di filia, di amore, è sufficientemente grande da ricomprendere in sé la necessità, che allora non è né negata né rigettata, ma ripresa e riorientata nel movimento desiderante. Il che non ha niente di sentimentale, psicologico, moralistico.

Se nel testo greco questa sembra a prima vista una politica prepatriarcale, per Duroux, invece, è una politica che va oltre il patriarcato, totalmente contemporanea e aperta al futuro, di cui protagoniste sono le donne.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023

Questo incontro, come avete letto dall’invito, è incentrato sulle pratiche che possono orientare il presente e sono contenta che qui con noi ci sia Chiara Zamboni perché ha lavorato molto su questo tema. Le pratiche, nel movimento delle donne, sono un fatto politico davvero importante perché hanno permesso di aprire uno spazio di soggettivazione per le donne e anche uno spazio di libertà, innanzitutto per le donne ma anche per gli uomini.

In un incontro che qualche anno fa Chiara Zamboni ha fatto agli Archivi Riuniti delle donne del Ticino a Lugano, che ora si trova in rete in un documento dal titolo Le pratiche come modalità del simbolico, Chiara Zamboni parla diffusamente delle pratiche nel movimento politico delle donne, spiegando che sono processi che iniziano da donne in relazione tra loro, che possono subire modificazioni nel loro svolgersi, restituendo quindi un senso di libertà ma anche di precarietà. In estrema sintesi, si tratta di sperimentare in relazione, a partire dal desiderio soggettivo, e fare scoperte a partire dall’esperienza, andando al di là di quello che si pensa di sapere. Si tratta di imparare una nuova lingua per dire la propria esperienza e fare mondo, trovare parole nuove, non più irrigidite nelle forme che altri avevano pensato. In questo documento ci sono anche alcuni esempi molto esplicativi, vi consiglio di leggerlo.

Quello che mi ha sempre affascinato e attratto dei racconti sui primi gruppi femministi è che l’uscita di scena delle donne (dalla scena della politica fatta con gli uomini) per ritrovarsi, insieme, in un altrove senza una rappresentazione già data, ha liberato energie incredibili, cosa che possiamo vedere ancora oggi, che siamo in un posto venuto al mondo da quel desiderio. Più che un’uscita di scena è stata a ben vedere un mettersi al centro, e questo ha messo in moto una vera e propria rivoluzione simbolica, una trasformazione radicale della vita collettiva, che non ha distrutto cose e persone ma ha sovvertito l’ordine dei rapporti, togliendo sostanza alle istituzioni patriarcali e dando vita a nuove forme di relazione.

Siamo alla Libreria delle donne, in uno dei luoghi più importanti del femminismo italiano e non solo, un luogo che ha dato vita a molte delle pratiche che ancora oggi sono essenziali, altre che non ci sono più, un luogo dove possiamo continuare a fare ricerca. C’è un testo molto forte da leggere o rileggere, quello che viene comunemente chiamato “il non credere”, ovvero Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne (Rosenberg & Sellier) che potete trovare in Libreria. È un racconto appassionato e coinvolgente perché fa un’elaborazione a partire da un luogo collettivo di relazione tra donne e soprattutto perché srotola pensieri che restano serrati all’esperienza man mano ripercorsa e raccontata. Leggendolo, si può cogliere la potenza di quello che è successo in quegli anni, che è una scommessa ancora aperta.

Nel suo penultimo libro, Il capitale amoroso, Jennifer Guerra fa una ricerca intorno all’amore come pratica, come esercizio quotidiano. Quindi l’amore non inteso come emozione o sentimento “irrazionale e indomabile” (p. 15) ma come “amore pubblico, disinteressato, che dalla dimensione privata si riverbera su tutta la società, in grado di colpire anche chi decide di sottrarsi alla sua potenza” (p. 80).

I passaggi in cui Jennifer Guerra sviluppa il suo pensiero sull’amore come pratica che assume una dimensione pubblica mi hanno ricordato il lavoro di Françoise Duroux, filosofa francese, in particolare il libro recentemente edito che raccoglie alcuni dei suoi più importanti scritti dal titolo Il paradigma perturbante della differenza sessuale, curato da Chiara Zamboni e Stefania Tarantino. In lei troviamo il concetto di philia come amicizia, una forma di amore amicale, un legame tra esseri umani che investe la dimensione pubblica, scardinando le logiche di potere e sopraffazione.

Leggendo il libro di Jennifer Guerra ho anche ricordato una cosa che mi è successa tanti anni fa con il libro di Luisa Muraro L’ordine simbolico della madre. Ricordo perfettamente la circostanza, perché ho capito col tempo che quello è stato il fatto “fondativo” del mio femminismo. Ero sull’autobus verso Milano, diretta al mio lavoro, quando mi sono imbattuta nel concetto di amore femminile della madre che mi ha scompaginata, facendomi intravvedere un orientamento nel caos in cui mi trovavo. Mia madre non è stata femminista, anche se anagraficamente avrebbe potuto esserlo. E io mi dibattevo tra la rivendicazione di un suo sguardo amorevole e legittimante e la ricerca di questa impossibilità attraverso la ribellione, la partecipazione disordinata a vari gruppi femministi (che in provincia erano per lo più legati all’emancipazionismo e alla parità), e un rapporto ingarbugliato con gli uomini (per esempio sul lavoro: lavorando in un contesto prettamente maschile, entravo in una competizione estenuante e sempre in perdita, nonostante il mio perfezionismo), con uno struggimento e una sofferenza di cui non venivo a capo. Leggere e rileggere quel secondo capitolo del libro di Luisa Muraro è stato essenziale: non capivo e mi pareva impossibile operare lo spostamento dalla ribellione/rivendicazione all’amore per mia madre, ma intuivo la potenza di questo atto e sono rimasta nell’apertura, legandolo inizialmente alla scena più allargata, al mio desiderio di avere con le altre una misura che facesse star bene me e noi “nella nostra pelle”, per arrivare man mano a cogliere la potenza del gesto e della nominazione dell’amore femminile per la madre, ovvero la mediazione giusta per poter dire quello che mai avevo potuto dire e poter vedere quello che mai avevo potuto vedere. Che cosa? La bellezza e legittimità delle relazioni tra donne, la ricchezza di una società femminile che già c’era e che era parte di me, la possibilità di una relazione differente con gli uomini, la possibilità di un senso libero del mio essere donna, potendo pronunciare con gioia questo nome, senza cadere nell’essenzialismo di una etichetta che imprigiona in ruoli o significati precostituiti. Insomma, mi ha permesso di fare un passaggio da quello che credevo di sapere di me a quello che non conoscevo ma era lì, eccedenza per me senza voce né senso. Ha permesso un passaggio che oggi chiamerei simbolico perché mi ha portato a vedere più precisamente e vedere altro, riconoscendo la mediazione che rende possibile questo mutamento. E oggi posso dire che, al momento, mi pare una storia di trasmissione avvenuta, perché sono tutte cose che, avendo la fortuna di una figlia, ho passato a lei.
Il numero 3 della rivista Via Dogana, intitolato proprio L’amore femminile della madre ospita l’articolo di Luisa Muraro L’amore come pratica politica, che ci porta al cuore dell’incontro di oggi. A una donna che aveva posto un’obiezione profonda alla necessità di amare la madre, Luisa Muraro dà una risposta che anche oggi ci può orientare: “La risposta della pratica politica è migliore. Con la pratica io introduco una innovazione nel mio presente (per esempio tengo e rendo conto dei beni ricevuti dalle mie simili; espongo desideri e problemi, senza più difendermi col silenzio; mi vincolo al giudizio di una donna affidabile; etc.) rendendo il presente più vivo e libero, in quanto non più dipendente da quello che è stato; diventa invece vero il contrario, che il passato si presenterà mutato ai miei occhi, perché io sono mutata. Nelle parole della donna che mi ha insegnato la politica, oltre al posto dato alla pratica, tale che l’amore stesso diventa pratica, colpisce il cambiamento dello sguardo. Le parole di lei invitano a guardare la realtà come qualcosa che può mutare perché noi stesse possiamo mutare. Così, il movimento che ci ha portate a capire la necessità dell’amore femminile della madre, mostra questo amore all’opera: si mostra come opera di questo amore. E così il cerchio si chiude in un movimento circolare che ci comprende e dà forza” (p. 19).

Ho parlato di scommessa poco fa. Io credo, e insieme a me le amiche della redazione di Via Dogana 3, che ripensare a Eros e Philia in una dimensione pubblica sia molto importante per il presente che abitiamo, credo sia una scommessa che dobbiamo giocare insieme.

Lascio ora la parola a Jennifer Guerra e poi a Chiara Zamboni per i loro interventi.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 “Orientarsi con l’amore”, 11 giugno 2023.

Domenica 11 giugno 2023, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano


La posizione storica delle donne di essere allo stesso tempo partecipi ed estranee al sistema simbolico dominante ha offerto e offre a chi ha a cuore la politica e il mondo in cui viviamo la possibilità di concepire nuovi orientamenti per il vivere comune. Sono orientamenti che non nascono a tavolino, bensì scaturiscono da pratiche sperimentate, da relazioni con altre e altri e con autrici di riferimento. Si pongono in rottura con gli assi del potere proponendo al suo posto un registro legato a Eros nella vita associata.
In questo incontro poniamo all’attenzione e alla riflessione due pratiche orientanti per il presente: l’amicizia politica e l’amore come forza politica.
Introducono la discussione Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Ci sono tante cose che non capisco ancora, ce n’è una invece di cui mi sento abbastanza sicura. Ho sperimentato in questo periodo di quarantena quanto poco mi basti per essere contenta: sapere che le persone care stanno bene, godere l’aria fresca sulla pelle quando esco, sentire le amiche più vicine. L’aumentato senso di precarietà ha aumentato la capacità di provare una pazza gioia. Quanta felicità ci toglie il falso senso di sicurezza in cui viviamo!

Non cerco molte persone, per la maggior parte dei legami mi basta sapere che sono lì, pronti a riallacciarsi, perché ciò che ci siamo scambiati in questi anni era prezioso. Potremo attingervi senza ansia e senza fretta.

Questo sento io e questo mi rimandano i pochi cenni che ogni tanto ricevo.

Accanto a questo sentimento che accompagna la mia quotidianità ce n’è un altro.

Se basta così poco, se stiamo scoprendo che cosa è essenziale e cosa no, non possiamo permettere che dopo questa esperienza tutto torni come prima, a un ordine sociale ed economico che questo essenziale lo dimentica.

L’essenziale deve essere accessibile a tutti e, perché lo sia, tutto deve essere ripensato e per questo debbono avere peso e sostanza le parole e il pensiero delle donne.

Molte figure autorevoli, a cominciare dal Papa, stanno sostenendo la necessità di far emergere la voce femminile.

Ma soprattutto la centralità dell’opera femminile in tutti i campi non è mai stata più visibile.

Inoltre la dimensione di cura, dedizione, passione, attenzione all’altra/o, qualcosa in cui le donne sono maestre, è emersa con chiarezza come componente in ogni lavoro. Viene presentata come una eccezionalità del momento, ma, se leggo la mia vita di insegnante e quella delle tante persone con cui mi sono accompagnata, questa è la dimensione fondamentale del lavoro sicuramente per le donne; negli uomini questo aspetto è invece oscurato, almeno in passato, già per mio figlio non è più così.

Ed è stato grave averlo oscurato.

La cosa grave è avere organizzato in una logica massificante orario, tempi, ritmi, e spazi del lavoro, senza salvaguardare la dimensione di cura. Né quella sul luogo di lavoro, né quella sottratta dal lavoro alla propria vita, che a sua volta richiede tempo, dedizione e fatica.

Sappiamo tutti, grazie al ricordo impresso nel nostro corpo, di aver incontrato insegnanti, medici, donne e uomini, e anche altri, altre, che facevano lavori più umili, ma li facevano con passione. Abbiamo conservato gratitudine nei loro confronti, e tuttavia abbiamo permesso che il modello di professionalità fosse costruito sull’idea astratta di un agire neutro, asettico, ripetitivo, mentre il luogo degli affetti sarebbe stato altrove. Abbiamo permesso che l’esperienza fosse ignorata e tradita. È stato grave.

Il lavoro separato dalla dimensione affettiva, di cura e attenzione all’altro corre il rischio di diventare luogo di non libertà, se sostituiamo il chi siamo con l’abito professionale, se rinunciamo a cercare insieme agli altri la soluzione ai problemi, se accettiamo supinamente i limiti delle regole burocratiche, se troviamo rifugio in ogni tipo di esperto pur di non interpellare noi stessi. Invece la nostra esperienza ci racconta che cura, passione, relazione, competenze formano un tessuto unitario. Racconta quanto ci ferisce quotidianamente il tentativo di comprimere la ricchezza relazionale, umana e lavorativa che viviamo nelle strettoie dell’efficientismo, della concorrenza, della prevedibilità, della produttività.

La perdita di legame con l’esperienza è un male fondamentale della cultura di stampo maschile che abbiamo ereditato. Non a caso un grande incontro femminista di alcuni anni fa all’università Roma 3 si titolava: Il sapere dell’esperienza.

In quella occasione una delle relatrici, Vita Cosentino, parlò del movimento di autoriforma della scuola a cui per anni abbiamo dato vita per sottolineare, a fronte delle assurde riforme che stavano distruggendo la scuola pubblica, la necessità che fossimo noi, i docenti, uomini e donne, a dire cosa è la delicata relazione di insegnamento/apprendimento e di quanta cura abbia bisogno, cosa diventano le materie di studio quando diventano nutrimento per la crescita delle ragazze e dei ragazzi e risposte alle domande del mondo.

Qualsiasi cambiamento dell’ordine sociale deve ripartire da questa assunzione in prima persona della responsabilità, da questa presa di parola che non vale solo per gli e le docenti.

Si parla sempre della corruzione e degli sprechi negli ospedali. Nessuno sa meglio dei buoni medici e dei buoni infermieri, che oggi si rivelano soprattutto donne, come si dovrebbe fare per impedirli.

Come nessuno sa meglio di loro come si dovrebbe organizzare la sanità sul territorio per diminuire l’ospedalizzazione e farsi carico della persona anziana, disabile, o della puerpera, a casa propria.

Nessuno sa meglio degli operai se ciò che si produce è fatto nel migliore dei modi e se è ciò che serve all’intera società.

Perché è di questo che si tratta, dell’interesse dell’intera società, non di salvare tanti piccoli corporativismi. Questa è la situazione attuale da quando le rivendicazioni si sono ristrette all’ambito salariale o pensionistico.

Dobbiamo ripensare, facendoci guidare dall’essenzialità, tutti i luoghi di lavoro.

Si tratta di ritrovare una visione sociale di cosa debba essere la scuola, la sanità, la produzione, l’assistenza, il rapporto con l’ambiente, sacrificati fino ad ora all’unica logica di canalizzare il danaro nei giochi del potere finanziario.

La politica delle donne invece, rimettendo in gioco l’esperienza femminile, l’ha riconnessa con la vita e ha intravisto un’altra civiltà e un’altra economia.

Susanna Camusso lo ha detto recentemente con fermezza: «[la “cura” non è attitudine femminile “dovuta e scontata”, marginale e non economica, ma è, invece, tratto necessario in un mondo che è giunto ai suoi limiti e va reso sostenibile socialmente, economicamente, ambientalmente []» (https://www.huffingtonpost.it/, 8 aprile 2020).  

E aggiunge: «[non c’è quello che resta nelle mura di casa e quello che riguarda il palcoscenico pubblico [Quelle cabine di regia, quei luoghi, avranno un valore di innovazione, di progettazione di sostenibilità effettiva, se non saranno ancora una volta il luogo del pensiero della parzialità maschile, ma sapranno coinvolgere il pensiero femminista e femminile, per rappresentanza e specialità [Riconoscendo un’elaborazione e un pensiero che certo non nascono oggi». (https://www.huffingtonpost.it/, 8 aprile 2020).

Il suo intervento è reperibile sul sito della Libreria delle donne che è quella che ha dato uno dei contributi più importanti e più anticipatori al tema del lavoro con il Sottosopra «Immagina che il lavoro».

Anche l’Avvenire del 4 marzo riprende in un articolo in prima pagina il tema: «Lavorare meno, lavorare tutti. L’utopia si riaffaccia dal web

«La ripartenza è sostantivo femminile» dice la copertina dell’Espresso del 10 maggio 2020.

Scriveva Simone Weil che «la missione, la vocazione della nostra epoca è di costituire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro».

Bene. Rimettiamo al centro la spiritualità del lavoro.

Molti, e noi donne in particolare, ci stiamo assumendo questo impegno, come dimostrano il proliferare di incontri on line e i molti appelli che stanno passando dalle mani delle une alle mani delle altre.

Ci sono ormai sia le conoscenze scientifiche che la presa di coscienza, ci sono le esperienze e c’è un pensiero, in massima parte femminile, che ci permettono di ripensare, a partire dalla relazione fra la cura e il lavoro, tutta l’economia come ci insegna Ina Praetorius, tutta un’altra relazione con l’ambiente e un’altra civiltà, relazionale appunto, orientata dall’amore per la vita e non dall’ansia di accumulare danaro.