Osservatori, think thank, progetti partecipativi e non solo… Ecco i luoghi più interessanti da conoscere sul tema del femminismo oggi: sono reali e virtuali, istituzionali oppure di frontiera, storici o nati da poco

Il femminismo oggi non è solo parità di genere. È un’economia che guarda ai divari da una prospettiva di genere, osservatori che mettono i dati al servizio delle persone, think tank intergenerazionali e reti tessute per affermare le competenze femminili o per affermare le tante nuove forme d’amore. Luoghi dove sperimentare progetti partecipativi e luoghi dove proteggere dalla violenza di genere, spazi digitali dove combattere tutti i razzismi e spazi fisici dove immaginare un’umanità “libera, allegra e consapevole”. Qui alcuni dei tanti luoghi – fisici e non, istituzionali e di frontiera, storici o sbocciati da poco – che può essere interessante conoscere per capire da vicino come evolve la galassia femminista.

L’economia di genere è qui 

Un sito di divulgazione, Ladynomics.it, che parla di economia e politica dalla prospettiva delle donne e che mira dritto ad affermare una visione di genere che trasformi il Paese. «Millenni a prenderci cura delle persone non possono essere passati invano», scrivono nel manifesto le due fondatrici, le economiste e ricercatrici Giovanna Badalassi e Federica Gentile. «È ora che questo sentire si traduca in presa di coscienza pubblica, per un’economia al servizio delle persone e non al loro comando». Da seguire se si hanno cuore da pasionaria e sguardo acceso e si cerca una lettura facilitata delle grandi questioni che coinvolgono la metà del pianeta.

La voce di tutte 

Una startup sociale dal respiro internazionale, un media civico impetuoso contro le discriminazioni di genere, un progetto partecipativo di attivismo ed elaborazione di contenuti a opera di firme prestigiose: tutto questo è Le Contemporanee (lecontemporanee.it), una voce autorevole e pragmatica che sa farsi ascoltare nei luoghi che contano, come quando le sue attiviste si sono battute perché il PNRR riconoscesse la crucialità degli asili nidi – che sono numericamente una miseria – per favorire l’occupazione femminile, modesta anch’essa. Delle donne Contemporanee piace la capacità di attraversare tutti i femminismi e connettere le generazioni.

Fuori dagli stereotipi 

Qui pulsa un femminismo intersezionale molto vitale, grazie al team di scriventi Millennial e GenZ che più vorticoso ed eterogeneo di così non si potrebbe: è bossy.it, nato quasi dieci anni fa dalla passione di una ragazza visionaria, Irene Facheris. Sorellanza, diritti LGBTQ+, erotismo, razzismi, politica e tutte le forme della violenza di genere: ogni tema è buono per accendere una storia fuori dagli stereotipi e dagli schemi. Sono banditi i maschili sovraestesi, benvenute le schwa.

Contro la violenza

D.i.Re – Donne in rete contro la violenza è la rete italiana di Centri Antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne. 106 i centri antiviolenza, 62 le case rifugio per le donne e i figli minorenni, più di 20mila le donne ascoltate in un anno. Le parole chiave: auto-aiuto, autodeterminazione, empowerment, segretezza e antidiscriminazione, gratuità.

Luoghi simbolo/Milano 

La Libreria delle donne (nella foto in alto, da Facebook), dal 1975 luogo storico di elaborazione teorica del femminismo della differenza, con sede prima in via Dogana 2 e ora in via Pietro Calvi 29, e la Casa delle Donne, altra istituzione del femminismo della seconda ondata, convivono con i luoghi abitati dalle ragazze e i ragazzi del femminismo intersezionale più di frontiera: questi ultimi si incontrano oggi al Csoa Lambretta, allo Zam e al PianoTerra del quartiere Isola. 

Luoghi simbolo/Roma 

La Casa internazionale delle donne è centro congressi, foresteria, ristorante e mette al centro l’autodeterminazione e le scelte libere sulla salute riproduttiva, il sostegno alle donne vittime di violenza, il contrasto al sessismo. TUBA è, invece, libreria, bar e bazar ed è costruita quotidianamente da un gruppo di femministe e lesbiche che, dicono, «credono in una società libera, allegra e consapevole e lottano contro le discriminazione di genere, orientamento sessuale, classe, colore della pelle, provenienza geografica». 

Più competenze, meno pregiudizi 

Per togliere ogni alibi a chi organizza panel con solo uomini o scrive articoli senza mai citare una donna esperta (“perché di donne esperte in questo campo non se ne trovano”, dice lo stereotipo) nasce 100esperte.it, che propone profili, competenze e cv di professioniste della scienza e della tecnologia, dell’economia e della finanza, della politica internazionale, della storia e della filosofia (grazie all’Osservatorio di Pavia e all’associazione Gi.U.Li.A). L’ultima sezione nata è quella dedicata alle donne esperte di sport. Perché femminismo è oggi più che mai anche lotta agli stereotipi e ai pregiudizi. 

La politica si fa con i dati 

Period è il think tank femminista intersezionale (thinktankperiod.org) che usa i dati per monitorare le azioni della politica. Da seguire gli Osservatori femministi che ha costituito sul territorio per fare il punto sull’andamento dei progetti del PNRR e valutare l’impatto che hanno sulle donne e i giovani.

Mobilitazione permanente 

Non Una Di Meno è un grande movimento femminista e transfemminista, un intreccio di reti, un flusso di assemblee e sit-in, una mobilitazione permanente contro le tante forme che assume il patriarcato. Il prossimo 25 novembre, giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lancia i cortei nazionali a Roma e Messina Transfemministǝ ingovernabili contro la violenza patriarcale.

Un concentrato di approfondimenti 

«L’economia ha bisogno di essere riletta con uno sguardo che assuma la differenza tra i sessi e denunci le disuguaglianze»: è il manifesto del documentatissimo webmagazine ingenere.it, forziere di dati, studi, analisi e approfondimenti a opera di economiste, docenti universitarie, studiose delle scienze sociali, giornaliste che tengono il punto sul panorama nazionale e internazionale. 

Più vie dedicate alle donne 

Il 40% delle vie e delle piazze del nostro Paese sono intestate a uomini, appena il 3% a donne, sostanzialmente martiri e sante. Toponomastica femminile (toponomasticafemminile.com) è un’associazione che punta a svegliare le amministrazioni affinché mettano in luce il valore delle tante donne che hanno contribuito a costruire il Paese e leggano la storia non dal solito punto di vista.

Nella foto: Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo alla Libreria delle donne di Milano, durante l’incontro dal titolo “Orientarsi con l’amore” organizzato dalla rivista Via Dogana Tre l’11 giugno 2023.

ro un’adolescente quando vivevo a Gaza vent’anni fa. Ricordo che un giorno avevo un ciclo pesante. Ero alla fermata dell’autobus al valico di Rafah, che aveva sedili di plastica bianca. Ho traboccato e ho macchiato il sedile. Una donna anziana mi ha chiamato e mi ha indicato il sangue. Sono una femminista e sono cresciuta bene con mia madre femminista. Indossavo addirittura un assorbente e avevo preso tutte le precauzioni. Eppure, ricordo quanto fu stigmatizzante per me quel momento.

Oggi, seduta a Brooklyn, negli Stati Uniti, guardando la mia città ridotta in macerie, continuo a pensare a quel giorno alla fermata dell’autobus e mi chiedo cosa stiano attraversando le donne mestruate in questo momento a Gaza, che è sotto assedio israeliano da quasi tre mesi. Posso sentire la vergogna e l’umiliazione che devono provare. Molte di queste ragazze e donne portavano con sé solo uno zaino quando se ne andavano. Cosa potrebbero portare in quello zaino? Non sorprende sentire che a Gaza la richiesta di pillole per bloccare le mestruazioni e contraccettivi è aumentata dopo questa invasione. Le donne non vogliono avere le mestruazioni perché non c’è acqua.

Mi chiamo Farah Barqawi. Attualmente sto terminando un MFA [Master of Fine Arts, cioè in belle arti, Ndt] in scrittura creativa saggistica e sono una poeta. Scrivo di Gaza, del confine, di mia madre e dell’ULFA [University of Lethbridge Faculty Association]. È tutto sconvolgente perché mia madre Zainab al Ghonaimy, settant’anni, ora è a Gaza City. Attivista femminista e difensora dei diritti umani, è stata lì fin dall’inizio, sopravvivendo all’artiglieria israeliana, alle bombe e al fosforo bianco. Ha co-fondato un rifugio per donne sopravvissute a violenza domestica e abusi. Nonostante gli immani bombardamenti è rimasta nel suo appartamento a Gaza City. Nel bel mezzo del conflitto, deve sopravvivere da sola e anche gestire il rifugio. Non so quando e se potrò rivederla.

Da queste parti, la guerra ha un impatto sulle donne a molti livelli. Naturalmente stiamo perdendo un gran numero di uomini, giovani, ragazzi e anziani, e questo è devastante. Ma in queste guerre, le donne che sopravvivono si trovano arretrate di decenni nelle condizioni di vita. Le donne devono diventare le principali fonti di sostentamento per i loro figli e dovranno prendersi cura per tutta la vita dei loro familiari maschi mutilati o invalidi. Bisogna anche ricordare che, nonostante l’enorme autonomia delle donne palestinesi, la nostra è una società alquanto conservatrice e la maggior parte delle donne non si sente a proprio agio nel cambiarsi, fare il bagno o anche fare pipì negli spazi pubblici.

Ora pensate a tutte le migliaia di donne sfollate a causa di questa guerra che attualmente trovano rifugio in appartamenti o stanze anguste che condividono con altri rifugiati, uomini e donne. E si tratta pur sempre di donne della classe media o medio-alta. I poveri vivono in tende di plastica o in baracche improvvisate. Non c’è acqua, essenziale per mantenere l’igiene genitale. Ristrette in questi spazi o rimaste orfane o sfollate a causa dei bombardamenti, molte giovani donne sono anche a rischio di abusi sessuali. Ci sono così tante donne incinte e così pochi servizi di emergenza ancora sopravvissuti.

Intenzionalmente o no, l’esercito di occupazione israeliano ha preso di mira gli ospedali. L’ospedale arabo Al Ahli, che disponeva delle migliori strutture di maternità e parto di Gaza, è stato uno dei primi a essere bombardato. Molti dei miei cugini erano nati lì. Tante donne incinte hanno avuto aborti dolorosi a Gaza a causa della mancanza di strutture per il parto e di medicinali.

Alcune delle mie compagne di scuola sfollate dalla zona di Al-Remal a Gaza sono madri giovani o di mezza età con tre-quattro figli ciascuna. Le loro case sono state completamente demolite. Mi dicono che la situazione nei rifugi di fortuna e nei campi degli sfollati è orribile. Si mettono in fila per l’acqua e per l’uso del bagno e poiché non c’è acqua potabile, molti vengono umiliati e trattati come animali e costretti a bere l’acqua non potabile del bagno.

Questo è il motivo per cui mia madre si è rifiutata di lasciare la sua casa a Gaza City. Ha detto che è vecchia e che le fanno male le ginocchia, e che preferirebbe morire a casa piuttosto che vivere una vita di umiliazione come sfollata abusiva, per sempre in fuga. Mi preoccupo per lei. Tutti mi dicono di portare via mia madre da Gaza. Ma lei è forte e la sua forza dà forza anche a me.

L’organizzazione di mia madre rappresenta e difende le donne che divorziano, vengono private dell’eredità e combattono per l’affidamento dei figli. Nei giorni normali ha un team di avvocate che lavora con lei. Per tutta la vita ha lavorato duramente per creare spazi umani in cui le donne potessero interagire tra loro e con i loro figli, in particolare le donne divorziate in causa per l’affidamento.

Tutto questo lavoro ora è stato interrotto. Il rifugio è ancora in funzione, ma è un rifugio antiaereo. Non sappiamo quando potrebbe essere bombardato.

Io stessa ho seguito un corso per formatrici della CEDAW [Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, Ndt], un’iniziativa delle Nazioni Unite in base alla quale le organizzazioni per i diritti delle donne si trovano a marzo di ogni anno e discutono di protezione delle donne. Ma qual è il punto adesso? Chi formerò? A Gaza sono stati violati tutti gli accordi per i diritti minimi indispensabili delle donne.

Di tutti i servizi che Gaza ha sviluppato nel corso degli anni, come l’assistenza sanitaria, l’emancipazione delle donne, l’istruzione e la sensibilizzazione sui diritti, il cambiamento di uomini e donne – tutte le generazioni che sono cambiate o che ci stavano lavorando – metà degli operatori e operatrici sono morte o non sono più lì. Chi penserà ai diritti adesso? Al femminismo? È un passo indietro in tutti i sensi per il movimento femminista. Eppure le donne – le femministe – di tutto il mondo stanno ancora decidendo da che parte stare. Ciò che sta accadendo a Gaza è una punizione collettiva e le donne sono quelle che la subiscono.

Mentre sto scrivendo, mia madre è a Gaza e così la sua famiglia: due delle mie zie, tutti i miei cugini e le mie cugine da parte di madre sono a Gaza, solo un paio di noi è all’estero. Non sappiamo cosa ne sarà di loro, ma finora mi è stata risparmiata la tragedia di perdere una persona cara. Per questa volta. Ma due anni fa, nella guerra di maggio a Gaza, ho perso mia cugina, suo marito e due figli. Il suo unico figlio sopravvissuto ora ha dodici anni.

Continuo a pensare a cosa deve passare oggi quel dodicenne. Quali immagini gli passano per la testa? È sopravvissuto una volta. È sopravvissuto sotto le macerie come tante persone adesso a Gaza. Le donne forti di Gaza tengono duro e continuano a combattere. Ma per quanto tempo? Rivedrò mai mia madre? Per ora non ho risposte.

(Traduzione nostra, qui l’originale)

C’è chi parla di radere al suolo la striscia di Gaza. Chi chiede di non avere nessuna pietà “per i crudeli”. Chi invoca l’uso della bomba nucleare. È l’escalation verbale che si sta verificando nel discorso pubblico in Israele, escalation che accompagna quella delle violenze e dei bombardamenti nella striscia di Gaza. Un gruppo di personaggi pubblici israeliani ha inviato una lettera per prendere posizione contro questo incitamento “esteso e palese” al genocidio e alla pulizia etnica e chiedere al procuratore generale e ai procuratori statali di intervenire per fermare la normalizzazione di un linguaggio che viola la legge israeliana e internazionale. Tra i firmatari ci sono scienziati, accademici, ex diplomatici, ex parlamentari, giornalisti e attivisti.

«Per la prima volta da quando abbiamo memoria, gli appelli espliciti a commettere crimini atroci contro milioni di civili sono diventati una parte legittima e ordinaria del discorso israeliano», scrivono. «Oggi, appelli di questo tipo sono quotidiani in Israele».

La lettera, lunga undici pagine, contiene numerosi esempi del «discorso di annientamento, espulsione e vendetta». L’elenco di israeliani che hanno incitato ai crimini di guerra include ministri del governo e membri del parlamento israeliano, ex alti ufficiali militari, accademici, personaggi famosi e influencer. Tra i commenti citati nella lettera c’è quello del parlamentare Yitzhak Kroizer, che ha dichiarato in un’intervista radiofonica: «La Striscia di Gaza dovrebbe essere rasa al suolo, e per tutti loro c’è solo una sentenza, ed è la morte».

Tally Gotliv, del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha chiesto al primo ministro di usare una bomba nucleare su Gaza come «deterrente strategico», si legge nella lettera, «prima di considerare l’inserimento di truppe di terra, arma del giorno del giudizio». Un altro deputato del Likud, Boaz Bismuth, ha evocato il massacro biblico di Amalek, nemica dell’antico Israele. «È vietato avere pietà dei crudeli, non c’è posto per alcun gesto umanitario», ha detto riferendosi a Gaza, aggiungendo poi il riferimento alla Bibbia: «La memoria di Amalek deve essere cancellata».

Non sono solo i politici a portare avanti il discorso d’odio: il giornalista Zvi Yehezkeli ha dichiarato in televisione: «Avremmo dovuto uccidere 20mila persone molte volte, [avremmo dovuto] iniziare con una botta da 100mila».

La lettera è stata presentata dall’avvocato per i diritti umani, Michael Sfard, che si è detto stupito dalla velocità con cui l’incitamento al genocidio e altri discorsi estremisti sono stati normalizzati in Israele. «Non avrei mai immaginato di dover scrivere una lettera del genere», ha dichiarato.

«Il fatto che questo tipo di discorso sia entrato nel mainstream in modo così massiccio per me è incomprensibile. Il primo pericolo è che le persone agiscano in accordo con questo tipo di discorso, e poi mi chiedo che tipo di società saremo dal momento che questo è il discorso che regola il nostro trattamento dei palestinesi. Ci sono 2,3 milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali è minorenne». Anche nella lettera si sottolinea come «il linguaggio del genocidio rischia di influenzare il modo in cui Israele conduce la guerra. Un discorso normalizzato che invoca l’annientamento, la cancellazione, la devastazione può influenzare il modo in cui i soldati si comportano».

Se, da un lato, è mancata un’azione giudiziaria anche sui casi più gravi e pericolosi di incitamento all’odio contro gli abitanti di Gaza, dall’altro si sta verificando un’intensa campagna da parte della magistratura nei confronti di chi, nei suoi discorsi, avrebbe mostrato sostegno ad Hamas, prosegue la lettera. Alla fine di novembre, erano state aperte 269 indagini e 86 incriminazioni. «È sorprendente il numero di indagini penali, quando si tratta di cittadini palestinesi che vivono in Israele», ha detto Sfard, che ha sottolineato come nella maggior parte dei casi si tratti di persone comuni che non hanno alcun seguito nel discorso pubblico. «Il divario tra questo trattamento e la libertà e l’impunità per coloro che sostengono ogni genere di cose – pulizia etnica, uccisioni di civili, bombardamenti di aree civili e persino genocidio – non quadra. Le autorità devono spiegare».

La lettera è stata inviata poco prima che il Sudafrica si rivolgesse alla Corte internazionale di giustizia per aprire una causa contro Israele, accusando il paese di genocidio. «Abbiamo inviato questa lettera la settimana scorsa, prima che il Sudafrica presentasse la sua denuncia e senza sapere che l’avrebbe fatto», ha detto Sfard. Le accuse di istigazione mosse dal Sudafrica includono il linguaggio citato nella lettera e sottolineano l’incapacità delle autorità di intraprendere un’azione giudiziaria in risposta. Adesso sarà il procuratore generale a doversi esporre e prendere posizione: «Vogliamo dare alle autorità l’opportunità di fare qualcosa», ha concluso Sfard.

«Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono?». Cosa potremmo fare? In verità, quando la virilità distruttiva è la guerra, ci dissociamo, tanto da aver dato vita a un movimento capace di grandi mobilitazioni, un movimento divenuto soggetto politico: il pacifismo.

Invece, quando la virilità distruttiva è la violenza maschile sulle donne, siamo capaci di fare poco e nulla, ad eccezione di alcune valorose piccole minoranze di volenterosi. Gli stessi uomini che si reputano «rispettosi» evitano di assumersi una responsabilità, rimangono indifferenti o, peggio, difendono il proprio sesso di appartenenza («Non tutti gli uomini…»; «Anche le donne…»), se si sentono chiamati in causa. Solo molto di recente, alcuni opinionisti della grande stampa hanno iniziato a inquadrare la violenza sulle donne come questione maschile, ottenendo perlopiù il consenso femminile. In particolare, è successo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a novembre dal suo ex, Filippo Turetta, il quale rifiutava la separazione. Perché la maggioranza degli uomini sembra rimanere indifferente?

Viene in mente come prima risposta che femminicidi, stupri, maltrattamenti, siano ancora percepiti dalla maggioranza degli uomini solo come questione penale, per cui vale la responsabilità individuale. Casi di cronaca nera mista a cronaca rosa. Riguardanti unicamente lui, un matto squilibrato, lei, una che ha sbagliato a sceglierlo o a non mollarlo per tempo. Perciò, è una cosa buona l’irrompere del concetto di patriarcato nel dibattito pubblico sui femminicidi. Perché oppone alla lettura psicologica, individualistica, di cronaca, una lettura politica, che vede nella violenza l’espressione di un sistema di potere, sociale e culturale, a dominanza maschile. Che questo sistema di potere sia in grave crisi non è in contraddizione con l’essere così tanto evocato. La crisi di un ordine sociale e simbolico fa sì che non sia più percepito come ordine naturale, permette che sia svelato e riconosciuto nella sua parzialità, quindi che sia nominato e denunciato, nei suoi retaggi e nelle sue rigenerazioni. Bujar Fandaj, l’assassino femminicida di Vanessa Ballan, prima del delitto ha scritto su TikTok: «Mia madre mi ha cresciuto come la persona più gentile e dolce che tu abbia mai incontrato, ma se mi manchi di rispetto scoprirai perché porto il cognome di mio padre». Non somiglia a una consapevole rivendicazione patriarcale?

Il concetto di patriarcato lo ha rilanciato Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera del 19 novembre, riprendendo un antico slogan femminista, proprio per affermare l’esistenza di una responsabilità collettiva: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». La lettera ha suscitato insistite resistenze. Per settimane, i talk-show di Mediaset si sono chiesti se il patriarcato c’entra con i femminicidi. Per rispondersi sempre di no, senza però mai riuscire a liberarsi da quella domanda.

Secondo la visione delle femministe americane degli anni ’70, la violenza maschile è una funzione della società maschilista. Fa gioco a tutti gli uomini, violenti e non violenti, perché intimidisce e stressa tutte le donne a vantaggio di tutti gli uomini. Sia nelle relazioni private, sia nelle relazioni pubbliche. Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. Nelle relazioni pubbliche, spesso relazioni competitive, lei, quando vittima di violenza, deve gestire lo stress del maltrattamento, sottraendo tempo ed energia alla gestione dello stress del lavoro e della carriera, con relativo beneficio dei competitori maschili. Allora, può essere che la maggioranza maschile intuisca che, in fondo, la violenza sulle donne, più che una deviazione, sia una misura d’ordine favorevole agli uomini. Che, peraltro, se uomini buoni, permette loro di proporsi come protettori, tutori, controllori. O di ottenere un premio di fiducia per il solo fatto di non nuocere.

D’altra parte, noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? C’è chi ha proposto un #metoo alla rovescia. Se tante donne, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza, altrettanti uomini, almeno una volta nella vita, hanno inflitto violenza. Per parte mia, credo di aver reagito in modo abbastanza corretto ai rifiuti, perché in genere corrispondenti alle mie aspettative. Non posso sempre dire altrettanto della gestione delle relazioni e, in particolare, degli abbandoni, perché questi contrastavano con le mie aspettative. Specie, in un paio di situazioni, tipo quelle descritte da Dora Casadio, nelle quali durante l’amicizia tra un uomo e una donna, è l’uomo a innamorarsi della donna, perché lui scambia per reciprocità la disposizione di lei allo scambio intimo; per lui è un fatto eccezionale, mentre per lei è naturale. Perciò, ad alcune mie amiche, compagne, ho inflitto scene di gelosia quando mi sembrava fossero troppo amiche di altri uomini, o conversazioni coercitive, con toni insultanti, sarcastici, sminuenti, quando mi pareva che le loro opinioni divergessero dalle mie e, peggio, convergessero con quelle dei miei avversari. Così come ho vincolato più del tollerabile donne che non volevano avere più a che fare con me. Nulla di estremo, ma comportamenti conformi con lo schema di pensiero del potenziale femminicida.

Mi era oscura la mia interiorità? Non sapevo gestire le mie emozioni? Ero incapace di elaborare i miei sentimenti? Può darsi. Così mi presentavo quando era il momento di scusarmi. Una persona confusa che genera confusione nell’altra persona. Il dottor Jekyll che non sa spiegarsi il mister Hyde. Una forma di inganno e autoinganno. Perché, quando (forse) non sai gestire le tue emozioni negative, gelosia, rabbia, delusione, senso di abbandono, una cosa la scopri subito e impari a gestirla presto. L’espressione delle emozioni negative ha un potere manipolatorio. Lei, finché non arriva al punto di rottura, si mette sulla difensiva, si scervella per capirti, e accetta limitazioni. Questo, in una relazione nella quale ti senti inadeguato rispetto al dovuto, ti dà una sensazione dopante di potere a cui preferisci non rinunciare, fino a sondare il limite cui puoi arrivare.

Per un uomo, dissociarsi dalla violenza maschile può avere un effetto proiettivo, che gli permette di chiamarsi fuori nel breve termine. Ma, se la dissociazione è seria, riflessiva, duratura, l’effetto ti trasforma anche se non persegui l’obiettivo della trasformazione. Perché è difficile sfuggire di continuo al riconoscere parti di sé negli uomini che dici di voler isolare. Questo effetto specchio, con relativo senso di colpa, può essere l’ostacolo interiore alla dissociazione dalla violenza. Come il vantaggio sociale che deriva agli uomini dalla violenza è l’ostacolo esteriore.



Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, ho cominciato a curiosare nel diario di Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Cercavo, nelle pagine di questa donna che ha iniziato il femminismo italiano scrivendo un libro formidabile – Sputiamo su Hegel – un riferimento al massacro del Circeo, il più tremendo dei femminicidi del suo tempo. Protagonisti tre ragazzi della borghesia romana. Rapirono due adolescenti, le picchiarono e le violentarono per 36 ore e poi le uccisero (anzi credettero di averle uccise entrambe, invece una si salvò). Ancora oggi si parla di quel delitto. Ma all’epoca la discussione fu enorme. Chissà cosa ne aveva pensato, mi chiedevo, Lonzi. Pubblicamente, è noto, niente. Ma sono stato sorpreso di scoprire che nemmeno nelle pagine del suo diario ne fa cenno. Sorpresa moltiplicata dal fatto che, mentre sfoglio, deluso, le pagine di quell’autunno del 1975, mi accorgo che un altro episodio di cronaca irrompe nel diario e lo occupa per giorni. L’assassinio di Pier Paolo Pasolini.

Scrive: “Adesso che sei stato ucciso fratello mio, anima mia, ti piango”. Sono le prime parole che le vengono in mente appena appresa la notizia al telegiornale delle 13.30 che lo scrittore era morto nella notte tra l’1 e il 2 novembre. I sostantivi che usa sono eclatanti. “Fratello”, lo chiama: una donna che aveva scritto nel luglio del 1970 il manifesto di Rivolta femminile, la cui ultima frase, gelidamente, recitava: “Comunichiamo solo con donne”. Un riconoscimento mai concesso a nessun altro. E poi, “anima mia”: detto da una lettrice di Carl Gustar Jung, secondo cui “l’anima” è la componente femminile della psiche di ogni uomo. È un rispecchiamento piuttosto significativo: la più importante delle critiche del patriarcato che si identifica con un maschio. Ancora più rilevante se si considera che Pasolini, in gran parte, aveva ignorato il femminismo, e anzi si era convinto che la componente femminile della rivolta degli anni Settanta fosse l’elemento più negativo della rivolta stessa. E che inoltre aveva fantasticato – in una delle sue tarde poesie, La Couvade – il parto maschile. Un mondo che si rigenera senza donne. Fatto solo di maschi. 
Teoricamente, avrebbe dovuto sputargli in un occhio. Almeno quanto a Hegel. Invece si sente sua sorella. Lo percepisce come parte di sé (“anima mia”). Ma perché? Da dove viene questa attrazione? È noto che il 21 gennaio del 1975 spedisce a Pasolini una lettera. Lui aveva scritto un articolo che il Corriere della Sera sintetizza con questo titolo: Sono contro l’aborto. Ma Pasolini aveva parlato anche, e soprattutto, di ciò che viene prima: cioè, il coito. Da omosessuale temeva che l’aborto avrebbe sacralizzato la sessualità della maggioranza, la cosiddetta normalità, escludendo tutto ciò che “è sessualmente diverso”. Com’era lui, per esempio: omosessuale. Su questo Lonzi è d’accordo. La legalizzazione dell’aborto, pensa, avrebbe lasciato intatto il rapporto sessuale basato sul piacere maschile. Lei stessa aveva abortito due volte: in entrambi i casi, nel rapporto sessuale non aveva raggiunto l’orgasmo. Perciò, interpreta la legalizzazione come “una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere”. E a Pasolini dice: “Il tuo articolo l’ho letto con partecipazione, come se senti la voce di un fratello, e con l’amarezza di constatare che il fratello continua a arrivare prima della sorella a farsi ascoltare. Non ti dico questo per vittimismo ma perché non voglio lasciare incompleto il gesto di fiducia che faccio a mandarti questa lettera”. 
Da tempo Lonzi desiderava instaurare un rapporto con Pasolini. Un desiderio talmente profondo che affiora anche nei sogni, e ben due volte, prima che si decida a spedire quella lettera. Il primo sogno lo annota nel diario il 29 dicembre del 1974. “Sono con Pasolini, so che è omosessuale, mi appare timido. Ma io trovo degli argomenti che lo sciolgono a poco a poco”. Lei nel sogno appare cosi: “Faccio la calza e sono molto calma”. E certo bisogna esercitare la fantasia al massimo per immaginarsi Lonzi placida, con i ferretti in mano. “A un certo punto mi aiuta a passare un gomitolo tra dei fili di lana, cosa che mi sembra un gesto d’intesa fra me e lui. Dopo di che diventa addirittura euforico, parla e parla”. Poi, prima del risveglio, la sensazione finale: “Provo un estremo bisogno di conquistarlo e sono certa di riuscirci”. Il secondo sogno è del 11 gennaio del 1975, dieci giorni prima della lettera. “Pasolini su una povera strada di campagna”. Lei continua a percepire la difficoltà di entrare in contatto con lui. “Intuisco di dover condurre gli approcci in modo molto delicato”. Pian piano però si apre un varco. “Ogni tanto dico qualcosa che lo colpisce, faccio centro”. Finché Pasolini diventa “sempre più allegro, più loquace”. E il gioco è fatto. “Non vedo l’ora di dire a Lucia della mia amicizia con Pasolini”.

Il giorno dopo l’invio della lettera, Lonzi si libera di colpo di ogni dilemma su cui si era arrovellata in precedenza: scrivergli, non scrivergli, cosa penserà, risulterò “ingenua”, oppure “machiavellica”. “E una gran sensazione”, essersi lasciata i dubbi alle spalle. Pensa al rapporto fratello-sorella, a San Francesco e Santa Chiara. È convinta: “Un incontro si prepara”. Ma mentre passano i giorni, e lui non risponde, è assalita dall’incertezza: “Cosa può avere capito da quella lettera?”. Ma subito la respinge. “Per me è, in assoluto, la cosa più importante. Non posso non essere attratta, non cercare un contatto con chi mi si mostri in quella veste”. La delusione si abbatte su di lei il 30 gennaio. Pasolini risponde sul Corriere della Sera. Ma non a lei. Bensì ad Alberto Moravia. Il “patriarca” delle lettere italiane. Confessa che vorrebbe dargli del “fascista”. Respinge, sdegnato, l’accusa di essere un “cattolico”. M agli dice anche che, in parte, sono “affratellati”. 
La stessa vicinanza offerta a lui da Lonzi. Che ne deduce: “Non dà spazio per me e per quelle come me”. Se “il migliore di loro, non capisce, non vede, non è toccato”. Ne ricava una regola generale: “Viene dato spazio alla donna quando è già portavoce di un’esigenza in comune con l’uomo”. E descrivendo una dinamica che considera tipica: la donna promuove la battaglia, come quella sull’aborto, “ma poi, al momento opportuno, come sempre, l’uomo la impugna, la gestisce, la con-trolla”.

Pasolini non risponderà mai alla lettera di Lonzi. In tutto il suo corpus letterario, composto da dieci volumi di meridiani Mondadori, più un grande tomo di lettere, non c’è un riferimento a Lonzi. Per Pasolini, Lonzi, semplicemente, non esiste. Non è mai esistita. Lei, invece, continuerà a sentirsi ferita ogni volta che lo legge, a ridimensionarlo, ad accusarlo di sentirsi al centro delle ingiustizie del mondo, mentre, per cecità calpesta chi sta più in basso di lui, come le donne, come lei. Si convince che lui sia in cerca del riconoscimento dei fratelli, e che le sorelle non lo interessino, La disillusione giunge al culmine 18 ottobre, quando scrive: “Cosa ho da spartire con Pasolini?”. È una domanda a cui vorrebbe rispondere: “Nulla”. Ma sa che non è così. Tornando un po’ indietro nel tempo, nelle pagine del diario, si trova un’altra lettera a Pasolini. Ancora più lunga. Ma pochissimo nota. È dell’agosto del 1974. E non risulta essere stata mai spedita. 
Dopo aver visto il suo film, Il fiore della mille e una notte, Lonzi gli scrive che la sua mitizzazione del sottoproletariato è destinata a fallire. La comprende benissimo, sia chiaro: l’ha vissuta anche lei. L’ha cercata “nei santi, negli artisti, nei poeti, nei popoli primitivi, infine nelle donne”. Ma ha capito che non funziona: è solo nostalgia di un paradiso terrestre. E il paradiso è irrimediabilmente perso. C’è poco da fare. “Adesso che conosco il mio diritto all’infelicità e perciò alla coscienza”, gli scrive, “ho finalmente imboccato la strada della felicità”. Colpisce, in questa lettera, il fatto che Lonzi anticipi un fallimento che nella vita di Pasolini avrà conseguenze catastrofiche: il crollo del mito dei sottoproletari, che gli aprirà le porte di una disperazione feroce. Ma non è solo questo, ci sono altri due elementi notevoli. Il primo è che in pochi ebbero la lucidità di avvertirlo in diretta. Mentre tutto ciò avveniva. Il secondo è che dei pochi che glielo fecero notare (per esempio, Franco Fortini) nessuno si era posto, come Lonzi, al suo stesso livello: senza guardarlo dall’alto in basso, trincerato nella sicurezza ideologica, dicendogli piuttosto: “Guarda che anche io ho provato la stessa cosa”. È una delle testimonianze delle qualità intellettuali di Carla Lonzi (disgraziatamente ancora non accolta nell’esclusivo mondo dei pensatori italiani del Novecento).

Ed è anche una testimonianza del suo metodo. Che parte innanzitutto da sé. E dice: ti critico, sì. Ma mettendo in gioco anche me stessa. Non puntando il dito. Non in astratto. Non solo in teoria.

Quando Pasolini viene ucciso, alcune femministe prendono le parti del ragazzo che lo aveva assassinato. Si mettono nei panni del borgataro che aveva dovuto offrirsi sessualmente al maschio con più potere di lui e pensano: in fondo se l’è meritato, quella del ragazzo è una ribellione comprensibile. Carla Lonzi si arrabbia. “Donne del Padre”, scrive, “mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie”. Osserva che nessuna di loro conosceva il ragazzo che lo aveva assassinato. Ignoravano perché lo avesse fatto. Cos’era scattato in lui.

Si schieravano, cioè, in maniera dottrinaria. 
Come Moravia: che non garantiva di “sentire” in termini femministi, ma garantiva di “pensare” in termini femministi. Proprio ciò su cui lei sputava: l’astrattezza teorica, anziché il vissuto. In questo, la voce di Pasolini era diversa, e lei l’aveva sentita come quella di un fratello. Perché “ci aveva parlato di sé”, scrive, per questo “possiamo avere delle relazioni personali”. 
Mi spiega Annarosa Buttarelli, tra le maggiori studiose di Lonzi, filosofia e curatrice della riedizione delle opere lonziane per La Tartaruga della Nave di Teseo, che questo punto è centrale per comprendere cosa sia, nell’universo lonziano, la battaglia contro il patriarcato. “Significa anche disobbedire alle regole imposte da un ruolo, agli imperativi sociali, alle parole dette da altri. Per trovare, invece, la propria lingua. Parlarla. Dire, appunto, di sé”. Ho chiuso il diario di Carla Lonzi mentre era diventato impossibile non discutere della morte di Giulia Cecchettin con gli amici a cena, con la propria compagna, con le colleghe al lavoro, con gli sconosciuti in metro. La novità è che parecchi uomini hanno parlato di una responsabilità della cultura maschile. Mentre altri l’hanno respinta, credendo che la colpa sia solo e soltanto di quel ragazzo che ha ucciso Giulia, Filippo Tu-retta. Personalmente mi sento più vicino ai primi che ai secondi. Ma ho imparato un criterio che distingue i maschi che ne parlano veramente dai maschi che ne parlano retoricamente. Questi ultimi tendenzialmente prendono la parola a nome della categoria: “Noi uomini”, eccetera. Gli altri invece raccontano cosa sin la cultura maschile nella loro vita – come la esercitano, come ne sono ricattati – usando la prima persona singolare. Il sé, avrebbe detto Carla Lonzi. 

Le relazioni introduttive all’ultima redazione allargata di Via Dogana 3 coltivano qualche speranza che l’omicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex-fidanzato segni una svolta nel comportamento di molti uomini. Contano che lo scambio con le donne, come è già stato per alcuni, si approfondisca e diventi per i più elemento di ispirazione per un radicale ripensamento dei comportamenti maschili violenti. Tento anch’io di dare un contributo in questa direzione.

Mi ha molto colpita che l’assassino, Filippo Turetta, abbia sofferto particolarmente del fatto che la ragazza si sarebbe laureata prima di lui. Il traguardo raggiunto avrebbe potuto portarla lontano e sancire la separazione sentimentale che da mesi Giulia perseguiva.

Dunque, un giovane uomo, di fronte al rifiuto di una donna e all’ipotesi di un allontanamento che la sottrarrebbe definitivamente a lui, alimenta possessività e frustrazione al punto da arrivare all’estremo crimine. Ma se agli inizi del loro rapporto avesse provato ammirazione e gioia nello stare vicino a una giovane brillante più di lui negli studi, se si fosse detto, magari con ingenua beatitudine giovanile, «Ha scelto proprio me!», sarebbe per questo cambiato l’epilogo della loro storia affettiva? Non lo sappiamo, ma lui avrebbe posto le basi per accettare forse con sofferenza, ma certo anche con rispetto il rifiuto di lei.

Viene ripetuto giustamente che i cosiddetti femminicidi sono determinati dall’impossibilità per alcuni uomini di accettare la libertà che le donne agiscono. E moltissimi, sempre di più, diventano consapevoli che la violenza estrema è la spia di un disagio vissuto forse da tutti gli uomini per una manchevole elaborazione del mutato rapporto tra i sessi.

Noto che tra le conseguenze più evidenti della libertà delle donne vi è certamente il loro eccellere negli studi e sempre più spesso nelle professioni.

Mi concentro su questo unico aspetto della realtà per chiedermi se, tra le cause dell’infelice rapporto che gli uomini intrattengono con le donne, non sia centrale proprio il modo in cui vivono e (non) elaborano l’eccellenza femminile.

Le donne hanno dato ampia testimonianza dei sentimenti e dei comportamenti che le hanno legate a uomini eminenti e geniali, ne sono piene la storia dell’arte, della letteratura, delle scienze. Sono diventate allieve riconoscenti, collaboratrici fattive ed orgogliose, purtroppo anche spesso misconosciute dagli stessi uomini che hanno goduto del loro appoggio, ma qui conta solo la testimonianza dell’elaborazione vitale che le donne hanno dato della grandezza di un uomo.

E gli uomini? Certo non manca qualche esempio di riconoscimento da parte di alcuni, ma sembra non bastare.

Come i più attenti sanno, anche per le donne è stato difficile sia elaborare il modo di rapportarsi alla grandezza di un’altra, sia accettare che comunque l’altra mantiene integra la libertà di sottrarsi alla relazione. L’impegno politico e il lavoro del pensiero femminile hanno trovato parole per dire che vi è da guadagnare coltivando sentimenti di ammirazione e di riconoscimento per l’intelligenza e le capacità di una propria simile, superando così invidia e indifferenza. Ma anche per affermare che è possibile accettarne il diniego, per via della felicità che viene dal mettersi in gioco con la forza del proprio desiderio, qualunque sia l’esito della contrattazione. “Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio” di Luisa Muraro è uno dei testi fondamentali che ha mostrato come stare proficuamente al mondo, misurandosi con il desiderio dell’altra o dell’altro, che può corrispondere o non corrispondere.

E gli uomini? Possono approfittare anche loro di questo percorso esemplare? Imparando a riconoscere, per esempio, i guadagni possibili nella loro vita grazie all’accettazione piena dell’eccellenza delle donne? E così imparando anche a rispettarne le scelte?

Si potrebbe cominciare con la constatazione che quando lei si muove libera è molto probabile che eccella, perché millenni di ricerca dei modi per sopravvivere all’oppressione o di uscirne addirittura vincenti, da parte delle sue simili, sono per lei un pozzo senza fondo di conoscenza, di connessione profonda con la realtà, che la proiettano su un piano di maggiore intelligenza del mondo e alimentano il desiderio, la forza e il coraggio necessari per cambiarlo.

Il disconoscimento delle grandi e diffuse capacità femminili rischia di rendere la maggior parte degli uomini cieca e sorda nei riguardi di metà del genere umano.

Come insegnare, dunque, a un giovane uomo la felicità di trovarsi vicino alla grandezza di una donna?

Infatti proprio della sua felicità si tratta, sempre che lui non si accontenti dei piaceri promessi dal potere e dalla sopraffazione.

Leggendo i numerosi articoli riguardanti la recente morte di Toni Negri, mi è tornato alla memoria un breve saggio che Ida Dominijanni, in un post apparso su Facebook, ha definito «quel piccolo capolavoro che è La differenza italiana (nottetempo, 2005) dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale».

Non ho frequentato i testi del teorico dell’operaismo, ma mi sembra che per ricordare la sua attività filosofica questo breve saggio abbia un’importanza legata anche al giudizio che in quella sede ha dedicato al pensiero della differenza sessuale.

Secondo Negri la filosofia è l’analisi critica che consente di comprendere l’epoca in cui si vive, di orientarsi in essa, di contribuire alla costruzione di un destino condiviso e di testimoniarne la realtà con questo obiettivo: a questa definizione segue il giudizio che di filosofia, dopo Gentile e in parte Croce, nel XX secolo non ve ne sia stata (almeno in Italia).

Questo netto giudizio ha tre importanti eccezioni: Gramsci che ha «reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune», Mario Tronti, e «quasi nascosto eppure profondissimamente agente […] il pensiero femminista della differenza sviluppato da Luisa Muraro».

Il pensiero filosofico può emergere solamente quando ci si sofferma sul tema biopolitico della riproduzione e quando si creano, in questo ambito, soggettività nuove come dallo scontro operaio contro il lavoro salariato e «nell’insorgere femminile contro il dominio patriarcale».

Negri ritiene che il pensiero delle due eccezioni che individua nella seconda metà del ’900 abbiano in comune sia la «lotta contro la dialettica» (in particolare quella hegeliana, citando Carla Lonzi), cioè contro il processo dialettico che nega, supera un momento, una categoria e, al tempo stesso, lo eleva e conserva, sia «l’imponente fenomenologia della differenza che interpretano».

In entrambe, l’azione sovversiva nei confronti della condizione umana attuale si orienta verso l’adesione, in prima istanza, al separatismo: della classe operaia per Tronti e delle «donne in rivolta contro le istituzioni borghesi del dominio patriarcale: così si organizza polemica la prima presa di coscienza femminile della differenza».

La pratica di distacco, enfatizzando le differenze, condurrà a una fase successiva più profonda: un cambiamento ontologico che coinvolge entrambe queste posizioni. Si tratta di una separazione creativa che «spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione […]. In Italia in brevissimo tempo si dà il passaggio dall’affermazione separatista della differenza a un’affermazione costituente della medesima. […] qui non c’era più semplicemente teoria, ma pratica trasformatrice».

I movimenti delle donne vanno oltre la mera critica dell’esistente e lo sostituiscono con l’idea di metamorfosi, modificazione e trasformazione che riguardano sia il piano individuale che collettivo.

Per Negri «la differenza è resistenza […] una resistenza che rompe l’orizzonte del dominio [in questo caso patriarcale] non dai margini ma dal centro, meglio, ricostruendo un centro, un punto su cui far leva per trasformare la realtà, là, davvero nel cuore del sistema».

Un riconoscimento teorico e politico del pensiero della differenza sessuale, un pensiero che modifica l’orizzonte filosofico ed è «reale produzione del legame sociale».

Senza, infine, dimenticare una sua produzione di discendenze «che operano su più grandi scene [… e che escono] dai seminari e dai laboratori» e che sono attive nei movimenti e nella società: la differenza sessuale «ha finito di essere separazione, è diventata creativa e comincia a produrre avvenire».

L’uccisione di Giulia Cecchettin, a due giorni dalla laurea, ha suscitato una tale ondata di attenzione e di partecipazione da farne un importante momento di svolta nella consapevolezza politica. Di quello che è seguito vorrei mettere in evidenza un fatto significativo per una politica come la nostra, che si fonda sul linguaggio: questa volta c’è stata una inedita e generalizzata presa di parola.

In primis ha parlato la sorella Elena che dal suo dolore ha tratto una lucida analisi, poi su questa ennesima uccisione hanno parlato non solo le femministe, ma intellettuali, artisti, donne e uomini comuni. Mi ha commosso un bambino di undici anni che ha appeso davanti alla casa di Giulia un biglietto con su scritto: «prometto che da grande non diventerò mai come lui». In quei giorni perfino la mia parrucchiera parlava di patriarcato.

Considero positivo che la parola patriarcato sia uscita dagli ambiti femministi e sia diventata una parola corrente. Detto questo sono pienamente d’accordo con Laura Colombo quando nella sua introduzione dice che la parola giusta per definire il tempo che stiamo vivendo è post-patriarcato. Il patriarcato, infatti, ha perso sia la sua base nella società che il suo sistema di norme rappresentato dalla legge del padre ed è proprio il post, cioè la distanza, che permette di individuare a colpo d’occhio i comportamenti che si rifanno a quel modello del passato. Se fossimo ancora immersi in quella cornice culturale non ce ne renderemmo conto.

Di post-patriarcato parlano da tempo pensatrici femministe come Ida Dominijanni e Ina Praetorius, e nel 2014 Irene Strazzeri ha pubblicato il suo libro Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Ma è una parola che circola ancora poco ed è bene riprenderla e rilanciarla, perché fa chiarezza. Ha ragione Ida Dominijanni a ricordare nel suo bell’articolo su Internazionale che oggi la legge del padre è stata soppiantata dal “discorso del capitalista”, dal godimento immediato e dalla non sopportazione della frustrazione e della mancanza. Filippo Turetta, con la sua impossibilità ad accettare di essere lasciato e di vedere Giulia laurearsi prima di lui, è figura dell’oggi e non residuo del passato. Ma in quel passato trova il privilegio di essere uomo e ha a disposizione tutto l’armamentario prepotente e violento di quella cultura. Come ha detto Elena Cecchettin, «nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».

Ora la questione è se quell’ondata è una fiammata che si esaurisce in grandi manifestazioni o se ci sarà un seguito di cambiamento e trasformazione. In questi giorni i femminicidi continuano inesorabili ma vediamo anche che non si sta arrestando il desiderio di cambiamento.

Sappiamo bene che la politica essenziale è che ognuno, ognuna parta da sé nel suo vivere quotidiano per trasformare la qualità delle relazioni in cui è inserito e inserita: quelle di coppia, quelle con i figli e le figlie, quelle con amici e amiche, quelle nel posto di lavoro. Inoltre diventa sempre più importante porre maggiore attenzione attorno a sé e non sorvolare sul commento sessista, sulla battuta misogina, sul paternalismo, sul minimizzare, sullo sminuire le donne.

Io penso anche però che il tempo sia maturo per un gesto simbolicamente forte. Nell’invito a questo incontro è citato il Manifesto di Rivolta Femminile che già nel ’70 diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Con le orribili guerre in corso, la militarizzazione del modello di comportamento maschile si è ulteriormente intensificata, per questo penso che ci voglia un gesto di rottura plateale. Ho in mente quello che ha rappresentato per le donne il Me Too, la cui forza è stata in grado di percorrere il mondo. Capisco che per gli uomini la cosa è più complicata perché c’è un doppio passaggio nella presa di coscienza. Il primo passo è senz’altro “mi riguarda” e mi azzardo a dire che la presa di parola di queste settimane ha posto le basi di questo primo passaggio. Il secondo passo è “non ci sto più” e questo va detto a voce alta per aprire a qualcos’altro.

Durante il funerale di Giulia, Gino Cecchettin, il padre, si è esposto con parole significative quando ha detto: «Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi sfidando la cultura che minimizza la violenza da parte di uomini apparentemente normali, non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione cruciale è creare una cultura di responsabilità e di supporto».

Ecco, è il momento per gli uomini di rispondere alla sua chiamata.

L’invito aperto alla Redazione di Via Dogana 3 ci interroga sulla «continuità tra tempo di guerra e tempo di pace», allora io provo a rispondere utilizzando le modalità che ho incontrato nei gruppi della rete Maschile Plurale; provo cioè a osservare da vicino le mie relazioni di intimità e l’esperienza di insegnante di Scuola dell’Infanzia.

Parto da un’osservazione di Marco Deriu che nel suo libro: “Dizionario Critico sulle Nuove Guerre”sottolinea come «la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario», ed è qui che troviamo continuità tra la dimensione bellica e la violenza che è uno degli aspetti caratterizzanti il dominio sulle altre soggettività che noi uomini siamo chiamati ad agire. In queste settimane in cui la “chiamata alle armi” degli eserciti risuona prepotente insieme ai richiami alla forza, mi è capitato di incontrare gruppi e associazioni che ci interrogano intorno al fenomeno della violenza degli uomini sulle donne, anche oggi ribadisco di non parlare a nome di nessuno se non mio. In uno di questi incontri un ragazzo ci sollecitava sul dovere di protezione delle donne a lui vicine, che quella “chiamata alla forza” esige da lui in quanto uomo; l’unica risposta che ho trovato, e porto anche a voi qui, è la possibilità di rintracciare nelle mie relazioni intime questa chiamata. In particolare nella mia esperienza di padre, dove si manifesta nella paura che mia figlia sia più debole e fragile di suo fratello; la sua supposta e non reale fragilità mi spinge e autorizza a esercitare quel diritto/dovere di protezione che in realtà nasconde lo squilibrio di potere e di ruoli nella relazione tra i sessi e i generi; squilibrio che muove dal principio per cui io e mio figlio, in quanto maschi, occupiamo un luogo simbolico che parla di una gerarchia di valori. Io però posso evitare di rispondere a questa chiamata riconoscendo quanta forza è necessario evocare nella relazione di cura con mia figlia, una forza diversa da quella che vuole noi maschi duri e incrollabili. Ora posso riconoscere le mie fragilità e vulnerabilità che nascono nell’intimità di quella relazione, e che sono fonte di ricchezza e autenticità. Insieme a questa nuova forza e ricchezza trovo anche nuove fatiche e responsabilità, che sono inevitabilmente intrecciate al desiderio che mi spinge fuori dalla posizione di dominio. Posso scegliere questa cura intima che la posizione di padre tradizionale non vorrebbe mi spettasse. Nei giorni successivi all’uccisione di Giulia Cecchettin molto si è detto e scritto, da destra risuona con arroganza il richiamo al maschio forte nell’idea che Filippo Turetta sia in realtà un uomo debole, un “maschio femminilizzato” che non sa controllarsi e che per questo diviene pericoloso; di nuovo l’idea che il femminile sia degradante, la chiamata alle armi del maschio tutto di un pezzo, la voglia di mettere distanza tra sé e “l’altro”, questa volta non più il mostro instabile ma un nuovo maschio, fragile e quindi non correttamente funzionante. Mi viene chiesto come io abbia riconosciuto in me questa chiamata e di conseguenza come provare a rifiutarla. Forse mi è possibile perché avendo scelto un mestiere tradizionalmente considerato “da femmine” ho incontrato nel mio percorso molte donne autorevoli, che sono state mie maestre e colleghe nel mestiere di insegnante e queste relazioni mi hanno permesso di disinnescare la presunzione di superiorità del mio genere, potendo così scegliere una dimensione lavorativa finalmente non performativa o competitiva. Così come nelle relazioni con amiche e compagne di vita posso imparare cosa non desidero essere e insieme coltivare legami intimi che mi vedono libero di esplorare desideri ed emozioni, libero da gabbie e stereotipi. In tempi recenti l’incontro con gli uomini dei gruppi di Maschile Plurale mi ha mostrato un modo prezioso e trasformativo del prendere parola tra maschi, diverso dalle modalità che avevo appreso in quelle zone oscure dove vengono insegnate le regole delle relazioni: la costante tensione alla performance e alla sopraffazione dell’altro, la distanza del corpo dall’esperienza e dei corpi tra loro, il divieto all’intimità prima di tutto con se stessi e poi con gli altri, la fragilità e la vulnerabilità da evitare a tutti i costi. Infine l’incontro con il femminismo e le sue pratiche mi ha regalato strumenti del tutto nuovi per esercitare il desiderio di rileggere la mia identità e il modo in cui abito le relazioni. Voglio citare anche io l’articolo di Dominijanni su Internazionale2, in particolare il passaggio in cui ci dice che: «Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme». Lo cito per dire che riconosco appieno la mia origine di figlio disciplinato da un sistema simbolico dal quale desidero emanciparmi, e che anche nel mestiere di Maestro sento intorno a me la chiamata (di nuovo da respingere) a «disciplinare e conformare» bambini e bambine, con voce grossa e paternalistico autoritarismo. Soprattutto sento che questa chiamata alla disciplina mi arriva in quanto uomo, ovvero corpo estraneo, imprevisto, in una istituzione scolastica da sempre abitata per lo più da insegnanti donne. Quella stessa istituzione scolastica in cui, in contrasto con cento anni di esperienze e pensiero sulla scuola davvero troppo poco diffusi, ancora trova spazio uno sguardo degli adulti che vuole che i bambini maschi ripetano ossessivamente il “gioco eccitante”3 della performance, della violenza e della guerra.



1 Deriu M. (con la collaborazione di Tosolini A., Barbieri D.), Dizionario Critico delle Nuove Guerre, 2005, EMI, Bologna

2 https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2023/11/23/femminicidio-cecchettin-patriarcato-vacillante

3 Qui un testo collettivo su maschile e guerra: https://maschileplurale.it/maschi-e-guerra/



Questo testo nasce dall’intervento alla redazione aperta di #VD3 del 3 dicembre 2023 “È ora di cambiare”, presso la Libreria delle donne di Milano.


In tante natività che fino a non molto tempo fa tenevamo appese sopra i letti e nelle aule di scuola si vede bene lo sguardo estatico del bambino verso la madre. Nel suo bellissimo saggio “La mente estatica” Elvio Fachinelli sorprendentemente parla dell’estasi non come luogo di beatitudine ma come zona di pericolo, di minacce e di ambiguità: «Uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un’area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un io personale, ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile».

Il pericolo per il bambino in estasi – che a lungo si sentirà tutt’uno con la madre – è che la madre distolga lo sguardo da lui, che non gli offra più il seno, che rompa la simbiosi e lo lasci morire. Anche la vita di lei è in pericolo, l’odio del bambino è cordialmente ricambiato, ma chi rischia di più è la creatura.

«Nel lattante amore e odio sono intensi» dice Donald Winnicott. Il bambino odia proprio perché percepisce fino a che punto la madre potrebbe odiarlo. Nell’incanto apparente di quello sguardo c’è l’inferno.

Più o meno fino ai tre anni, fintanto che non si “individuerà”, il bambino vedrà nella madre la sua dea onnipotente e minacciosa, oggetto di adorazione e di terrore. Chi ha messo al mondo un maschio lo sa. Conservo ancora un disegno infantile di mio figlio: ci sono io, donnona enorme in mezzo ad altre persone minuscole, e nella pancia ho un bambino. Titolo dell’opera “Mamma Gigante” – mi ha chiesto di guidargli la mano per scriverlo: per quello mi ha disegnata di quelle dimensioni, sono così grossa che potrei uccidere tutti. Ecco una buona rappresentazione della scena madre.

Poi capita qualcosa, in genere al tempo della scuola materna. Nel nostro caso il rito iniziatico è stato uno “scambio di sangue” – un taglietto sul suo braccio e uno su quello del compagno del cuore, messi poi a contatto – a sancire una seconda nascita. Sangue vivo per lavare via quello immondo del parto. Uomini messi al mondo da uomini e tra uomini: una formale dichiarazione di indipendenza. Alla detronizzazione della dea, faccenda ben rappresentata anche nella narrazione cristiana, si accompagna l’obbligo di disprezzo per le “femmine”. Tutto comincia e ricomincia ogni volta così.

Quando assistiamo alla furia femminicida di fronte alla libertà di una donna e al suo possibile abbandono dobbiamo ritornare lì: la scena del delitto è la scena madre. Il maschio violento è in preda al terrore. Ha paura di morire se lei se ne va. L’assassinio fantasticato nella fase simbiotico-estatica stavolta viene agito, lui non è più inerme e ha la forza per farlo, un neonato furioso di ottanta chili. La dichiarazione di indipendenza era stata solo una parata, l’individuazione non è riuscita. Lui non ha mai smesso di sentirsi tutt’uno con lei, uccide sperando di sopravviverle ma tante volte capisce che non ce la farà e uccide anche sé stesso.

Lia Cigarini dice che sulla relazione madre-figlia c’è stato molto pensiero delle donne, mentre sul rapporto madre-figlio abbiamo ancora tanto da capire. Forse non riusciremo a ridurre/disinnescare la violenza maschile finché non ci avremo ragionato a fondo.

È qui che si profila anche una scena-padre.

Intervistando Marco Deriu (Il problema degli uomini è che sono incapaci di parlare del proprio vissuto. Parla il sociologo Deriu, Il Foglio, 23 novembre 2023) riservo l’ultima domanda proprio a questo: «Se è vero» gli chiedo «che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?».

«Quella con la madre onnipotente» risponde Deriu «è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».

L’assenza (forclusione del nome del padre, la chiama Lacan) è il tratto più comune nei padri post-patriarcali. L’obbligo della paternità non esiste più, il sistema che dava le regole, essere padri e come esserlo, si è dissolto. Quelli che diventano padri giocano da soli, devono inventarsi passo passo, spesso fanno confusione tra sé e la compagna – “ragazzi-madre”, per rubare il titolo a una canzone di Achille Lauro – o caracollano tra fuga e lotta rabbiosa, fight or flight. Restano figli, fratelli tra loro e dei loro figli.

A partire da qui, dalla scena padre, e approdando a ritroso alla scena madre si può forse immaginare un lavoro davvero efficace contro la violenza, lavoro che va fatto dagli uomini in prima persona: gli schemi della psicoanalisi, da Freud a Lacan, vanno riempiti del vivo dell’esperienza autocosciente. Gli uomini devono parlare fra loro a partire da sé, tenendoci noi disponibili all’ascolto e al dialogo per dare una mano a capire come ricostruirsi maschi e padri nella pace, liberi dall’obbligo del dominio, dalla paura, dalla rabbia, capaci di gratitudine per la donna che li ha messi al mondo e per quelle che li rimettono al mondo ogni giorno.

In certi momenti mi è impossibile restare in silenzio. Ogni minima parte di me mi costringe a parlare.  Vinta la paura d’aprirmi, ho parlato. Non è semplice farlo per la prima volta davanti a un pubblico, e ora non è semplice scriverlo.

Ciò che mi ha indotto a dare voce alle mie riflessioni è una fortissima necessità di cambiamento, una necessità che ha radici nelle mie esperienze personali e si è intensificata grazie ai momenti di condivisione e ai confronti costruttivi. Ho capito che le mie esperienze individuali hanno una portata universale, così ho deciso di raccontarle.

Ci tengo a sottolineare che non sono un’eccezione, bensì la regola. Non sono un caso speciale, non mi sento diversa da migliaia di altre donne, mi sento solo una di tante. Ingiustamente una di tante. Ingiustamente perché tante sono le vittime di violenza, e una sono io.

Più volte nella mia vita mi sono ritrovata in una situazione tale da poter denunciare un uomo che su di me aveva esercitato una violenza. Non l’ho mai fatto, in nessuna delle occasioni. Ogni volta mi son ripromessa che, se mi fosse riaccaduto, l’avrei denunciato, ma effettivamente non l’ho mai fatto.

Il senso di colpa è opprimente. Soprattutto perché mi son sempre detta di avere le risorse per affrontare un processo in tribunale: quelle economiche, perché i lunghi e lenti tempi della giustizia in Italia costano caro, ma soprattutto quelle psicologiche, bisogna essere forti per affrontare una causa in cui si viene costantemente messe alla gogna. Le modalità che hanno per farlo sono fra le peggiori, non contemplano la delicatezza della situazione e la profondità delle ferite che gli episodi del genere lasciano.

Evidentemente queste risorse non le avevo. Solo oggi lo comprendo veramente e solo oggi mi ritrovo a confessarlo; quasi a sputarlo, a vomitarlo fuori. Perché a questa necessità non mi posso più sottrarre, esternare il mio vissuto è diventata urgenza. Non per me, ma per le altre donne che questa urgenza ancora non la sentono, perché non hanno i mezzi, non riescono a distinguere quale sia un comportamento violento o no, cosa sia una relazione tossica o meno, o forse perché hanno giustamente paura, paura anche di non essere credute. Per prime, tante volte, noi stesse non abbiamo gli strumenti per riconoscere queste situazioni, o se li abbiamo, temiamo le ripercussioni. Men che meno li hanno gli uomini, vittime anche loro di questa società maschilista. Questo è il punto: è necessario che si sviluppi una nuova coscienza collettiva che includa entrambi i sessi in un rapporto di totale equità, per un beneficio comune.

Alle elementari mi chiamavano “l’avvocato delle cause perse”, perché su di me gravava ogni ingiustizia. Son cresciuta così, a difendere i miei diritti e quelli degli altri. Nonostante questi fossero i miei valori, non ho saputo tutelarmi dagli episodi di violenza, episodi simili a quelli che quotidianamente tante donne vivono. Non parlo solo di violenza fisica, che è la più riconoscibile, ma anche quella verbale, psicologica ed economica; a volte anche il silenzio è violenza.

Una volta un buttafuori in discoteca, un’altra un medico o un professore, magari un passante per strada… tanti sono gli esempi che ognuna di noi potrebbe fare.

L’esperienza più traumatica della mia vita è stata il mio primo amore.

Non auguro a nessuno che queste due cose, un uomo violento e l’amore, si trovino insieme, ma sono sicura che capiti spesso. Quando li incontri per la prima volta il binomio è logorante. Non hai l’esperienza dalla tua parte, solo una vaga conoscenza teorica che nulla può contro le emozioni. Ancora prima di rendermene conto, mi sono ritrovata in un vortice di brutalità che mi ha travolta. Ho perso tutto ciò che credevo definisse la mia identità. Non mi riconoscevo più in quella persona. Vivevo il dolore che provavo, sì, ma lo vivevo lontano, perché quel corpo era solo un contenitore dell’anima che andava man mano svanendo. Terribile era il senso di impotenza e angoscia, terribile quello di estraniamento. Nella mia mente ho immaginato più volte l’ennesimo titolo di giornale che parlava di femminicidio, con il mio nome. Ma il dolore più grande è stato pensare alle persone a cui voglio bene e al male che ho causato loro quando hanno saputo in che situazione ero. La donna emancipata che credevo di essere, non lo ero più e forse non lo ero mai stata. Rimane solo un sentimento d’intensa vergogna. Quella che si prova davanti a una sconfitta enorme, quella che ti fa pensare che il problema sia tu, e non il tuo carnefice.

Ho avuto la fortuna di riuscire a uscirne. È importante in questi momenti saper chiedere aiuto, e adesso, nonostante siano passati anni, non posso più tacere. Sento il fortissimo bisogno di parlare. Che la mia esperienza orribile diventi utile. Che il mio dolore eviti altro dolore e diventi forza per le donne là fuori che non riescono a svincolarsi da queste situazioni paralizzanti. Perché là fuori, davanti alle ingiustizie, il mondo non si scandalizza e spesso tace. Si sente meno il peso della colpa quando i crimini li legittima la società in cui si vive.

Io non ci sto più. Voglio che si sviluppi una nuova consapevolezza. Non posso pensare che tutto questo male non porti a niente. Deve alimentare il fervore delle nostre battaglie. Dobbiamo metterci al servizio di questa causa, ora più che mai. Troppe vite sono state strappate inutilmente. Troppe donne vivono ancora nella paura. Farò di tutto per piantare semi, agire, produrre cambiamenti. Cercherò di far capire agli uomini che quella donna che viene maltrattata, strumentalizzata, umiliata e mortificata, potrebbe essere loro figlia, madre, sorella, moglie, compagna o amica, e farò di tutto per far capire che nessuna lo merita.  

Amica non sei sola, parla, racconta, denuncia anche tu. Liberati e liberiamoci.

Dicono che ora sia il kairos. Ora è il kairos.

È il momento giusto per la nascita di un nuovo femminismo, un femminismo che includa anche gli uomini.


Riesco a sopportare meglio il mio dolore per i femminicidi e gli stupri con un sogno: sogno che venga creata un’associazione, a livello nazionale, delle famiglie e delle donne offese e oltraggiate.

Questa associazione, legalmente riconosciuta, potrebbe costituirsi parte civile esercitando una pretesa civilistica all’interno del processo penale.

Questa “costituzione di parte civile” potrebbe avvalersi di avvocate e/o avvocati anche grazie alle donazioni che sicuramente riceverebbe in quantità, la mia compresa.

In un recente articolo, Donne e lavoro, l’Italia resta indietro. Senza indipendenza non c’è libertà, (La Stampa, 27 novembre 2023) Elsa Fornero afferma giustamente l’importanza dell’indipendenza per essere libere. Di quale indipendenza parla? «La libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro», il lavoro retribuito intende. Ma qui si pone un problema, anzi due. Collegare la libertà al lavoro retribuito è vero fino a un certo punto, lo smentisce la vita di quelle donne che dovendo sommare il lavoro retribuito a quello domestico non hanno più tempo e forze per nient’altro. Alla faccia della libertà conquistata. Allora per capire la realtà bisogna smettere di chiamare lavoro solo quello retribuito. Lavoro è “tutto il lavoro necessario per vivere”, come è stato scritto (Immagina che il lavoro, Sottosopra 2009). Tutto il lavoro necessario per vivere è quello che fanno gran parte delle donne, e considerarlo tale dà senso a un modo femminile di intendere e praticare il lavoro, un modo prezioso e indispensabile per mantenere in vita l’umanità e che potrebbe diventare un insegnamento per tutti, specialmente in tempi in cui la guerra mostra i terribili limiti delle concezioni maschili della realtà. Un grande lavoro quello femminile, sì, ma la libertà? Veniamo al secondo problema. Per una libertà non ricalcata sui modi storicamente maschili occorre scostarsi dall’idea di indipendenza solo come indipendenza economica. È un fatto che ieri come oggi anche donne che hanno un lavoro retribuito o un altro reddito proprio continuano a dipendere da uomini, non solo mariti affettuosi o maltrattanti, ma datori di lavoro, compagni di partito ecc. Prima che l’indipendenza economica, dunque, per la libertà delle donne è necessaria l’indipendenza simbolica. In molte l’hanno sperimentata nel femminismo, tutte facendo conto sulle relazioni con altre donne. Cosa vuol dire concretamente indipendenza simbolica? Innanzitutto, non svalorizzare quello che desiderano e fanno le donne se diverso da quello che desiderano e fanno gli uomini, come invece leggo più avanti nell’articolo: «la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi». Ho insegnato per tanti anni in un istituto tecnico turistico e linguistico, frequentato per il 95% da ragazze. Ragazze sottilmente consigliate? Eppure studiavano con interesse e piacere le lingue, la storia dell’arte, la filosofia… Forse il pregiudizio è in chi disprezza le scelte femminili quando non coincidono con quelle maschili. E riguardo alla scienza, ormai studiata e praticata da innumerevoli donne, viene anche il sospetto che l’esigenza di una totale parità di impegno scientifico femminile sia in funzione dell’attuale sistema economico («l’Italia resta indietro»), più che della libertà delle donne.

Non dubito che quello che Fornero scrive venga dalla sua esperienza personale di pregiudizi, discriminazioni, umiliazioni… La capisco e so che queste cose fanno parte della nostra storia. Ma partire da sé non vuol dire assolutizzare la propria esperienza, fermarsi lì nell’interpretazione del mondo per tutte. C’è sempre altro. Per esempio, io che sono della stessa generazione dell’ex ministra ho avuto anch’io un consiglio “sbagliato” ma di segno opposto: il mio professore di matematica mi consigliò ingegneria, non scienze politiche come volevo e ho fatto. E sono diventata femminista per un desiderio di libertà femminile, non di parità con gli uomini. Come moltissime altre non ho «reclamato l’uguaglianza», anche se questa è stata la risposta formale delle istituzioni politiche.

Non mi dilungo, ciò che dico è stato detto e scritto molte volte e da molte donne negli ultimi sessant’anni. Ma l’interpretazione corrente resta quella stereotipata espressa dall’articolo di Fornero: parità, parità, parità! Mi domando se non sia un modo, forse inconsapevole, per rassicurare gli uomini che restano al centro dei nostri pensieri, per fargli credere che quello che vogliamo si misura con i loro traguardi economici e politici, per dirgli che non hanno nulla da temere dalla libertà delle donne. Affinché smettano di ucciderci? Finora non è servito.

In questi ultimi tempi le forme più distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità hanno riempito la cronaca e l’immaginario collettivo. Dapprima la brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, e la conseguente guerra di posizione che ha già causato oltre 200.000 morti. Poi il brutale attacco dei miliziani di Hamas a città, villaggi, installazioni militari e un festival di musica nel sud di Israele che ha prodotto circa 1.400 morti con torture, mutilazioni, abusi e stupri sistematici nei confronti delle donne, oltre al rapimento di circa 240 persone. Per arrivare infine al criminale bombardamento e all’invasione israeliana di Gaza che non ha risparmiato palazzi civili, ospedali, campi di rifugiati, infrastrutture fondamentali per l’accesso a cibo, acqua, elettricità, che ha causato nel giro di due/tre mesi il massacro da 20.000 morti, tra cui 8.000 minori e 6.200 donne.

D’altra parte, per restare più vicino a noi, in mezzo a questi orrori organizzati, registriamo il lungo elenco delle vittime delle violenze “ordinarie” quotidiane e dei femminicidi (circa 109 le donne uccise nel 2023).

Riguardando la lunga lista di femminicidi di quest’anno saltano agli occhi diversi aspetti, tra cui l’età molto variabile dei soggetti, le tante nazionalità coinvolte sia da parte degli autori che delle vittime, il gran numero di regioni interessate, la diversità di mezzi utilizzati per compiere il crimine, i motivi o le occasioni disparate, il fatto che queste violenze colpiscano e coinvolgano donne incinte, figli, parenti, o che implichino talvolta anche suicidi o tentati suicidi.

Cosa hanno in comune tutte queste violenze? Molte donne (e alcuni uomini) hanno chiamato in causa il Patriarcato e la sua cultura, suscitando l’immediata reazione di altri uomini che invece vorrebbero riportare questi fatti criminali a motivazioni psicologiche, alla fragilità o alla debolezza delle persone.

Non c’è dubbio che dentro ai codici del possesso, della gelosia, all’incapacità di accettare la libertà e l’autodeterminazione femminile, al ricorso all’uso della forza e delle armi sia inevitabile ritrovare elementi di una cultura patriarcale che ancora abitua gli uomini a pensare alle donne se non come “oggetti”, quantomeno come “soggetti a disposizione” che sono “amate” e “apprezzate” solo nella misura in cui rispondono al desiderio, ai bisogni e alle aspettative maschili.

Tuttavia, non dobbiamo fare l’errore di accontentarci di uno slogan ma dobbiamo sforzarci di andare più a fondo per capire cosa possiamo comprendere di quello che sta accadendo e quanto le tradizionali spiegazioni siano adeguate al caso. 

Soffermiamoci sul caso di Filippo Turetta e dell’omicidio di Giulia Cecchettin che ha destato un’ondata emotiva particolarmente forte. Complice il fatto che si trattava di giovani, universitari, dalle facce pulite, di famiglie come tante altre nelle quali era più facile riconoscersi e immedesimarsi. Certamente ha giocato anche la dinamica dell’evento. La sparizione, la ricerca, gli appelli dei parenti, la speranza di un lieto fine e invece la prevedibile tragica fine che ha confermato i sospetti più ovvi. Sono state particolarmente importanti in questo caso anche le voci e le parole dei famigliari dell’uno e dell’altra protagonista, a partire da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia che ha puntualizzato: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è». Per lei questi personaggi sono figli del patriarcato che si sentono autorizzati alla possessività e al controllo.

La sorella, dunque, ha invitato a guardare anche oltre i singoli protagonisti, a guardare quanto certi gesti si iscrivano in un ordine di possibilità e di significati che rendono plausibili o quantomeno pensabili certe azioni.

Nel comportamento di Turetta, dunque, possiamo rinvenire pensieri e gesti patriarcali, ma in un contesto sociale e anche culturale che è cambiato e che ci ripresenta motivi antichi in forme più intime e personali.

Le famiglie e i contesti dei due protagonisti non ricalcano le strutture delle famiglie patriarcali, non sembrano riflettere le gerarchie, i modelli tradizionali. Non è la stessa cosa di un clan patriarcale in cui la violenza è espressione di un modello famigliare e sociale rigorosamente definito. Per intenderci non è la stessa cosa del delitto di Saman Abbas in cui la violenza è ordinata e perpetrata da gran parte del nucleo famigliare. Qui il contesto è completamente diverso, non solo la famiglia della vittima, ma anche la famiglia dell’autore è distrutta. Non solo non si riconosce nel gesto ma fatica a comprendere da dove viene.

Val la pena per comprendere la peculiarità del contesto sottolineare le tre voci maschili che per le due famiglie hanno preso parola in quei giorni.

La prima è quella di Nicola Turetta, il padre di Filippo che intervistato dai cronisti ha dichiarato:«È pur sempre mio figlio. Non lo giustifico in niente, per quello che ha fatto. E per questo deve essere giudicato, dovrà assumersi la responsabilità. E penso al papà di Giulia, al quale ci sentiamo vicini. Anche noi siamo pieni di dolore». «Giulia l’abbiamo conosciuta bene. Veniva qua con Filippo, ci vedevamo. Sembrava una coppia perfetta, nessuno riporterà più Giulia. Siamo molto vicini a questa famiglia, e non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto». «Io da padre – ha proseguito ancora Turetta – ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola, né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Con il fratello più piccolo neanche una baruffa. E ora trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile, ci dev’essere qualcosa che è entrata in lui».

Come si nota il padre ha empatizzato con la vittima e la sua famiglia e non ha difeso per nulla il figlio, non ha minimamente accennato alcuna sorta di giustificazione o di scusante. In un’intervista riportata da fanpage.it ha addirittura lasciato intendere che avrebbe quasi preferito «che la cosa fosse finita in un altro modo».

Una seconda voce maschile è quella di Andrea, lo zio della giovane studentessa, che alla fiaccolata per Giulia a Vigonovo si è sentito di abbracciare Nicola, il padre di Filippo Turetta, che partecipava all’evento per ricordare la ventiduenne uccisa a coltellate.

«Ho abbracciato il papà di Filippo, un gesto che lui ha voluto fare lontano dalle telecamere. Lo avevo invitato per farci sentire uniti in questo dolore: noi per la perdita di Giulia, loro nella sofferenza di un figlio che ha provocato una perdita grande. La famiglia non c’entra, non è colpa dei genitori, questo è quello che penso io […] Sono due persone provate con un dolore enorme, forse con un dolore più grande del nostro, ma non sono loro che hanno fatto male a Giulia. Adesso il perdono per Filippo non lo sento, sento pietas per la famiglia perché sono anche loro vittime del figlio».

Infine, c’è stata la voce di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che in seguito al delitto ha raccontato di non aver percepito dei segnali premonitori del pericolo: «Non ci sono riuscito e purtroppo ne ho fatto le spese. Da papà è inevitabile farsi delle domande: potevo fare qualcosa per lei? I primi a colpevolizzarci siamo noi genitori. Ho sempre cercato di preservare la privacy di Giulia, anche perché è sempre stata una ragazza coscienziosa, responsabile, e mi sono sempre affidato al suo giudizio».

Poi ci sono le parole del discorso che ha fatto durante il funerale della figlia, in cui si è rivolto direttamente agli uomini con parole nuove: «Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto».

Come si nota, in questo caso, le figure maschili e paterne coinvolte nella vicenda hanno saputo trovare delle parole diverse dal linguaggio stereotipato e sessista tipico della cultura patriarcale. Non va sottovalutata questa novità.  

Dunque, se il tema è la cultura e l’educazione patriarcale, in questo contesto essa va ricercata a un livello differente più personale e individualizzato che produce una violenza più disorganica, imprevedibile, di risentimento. Nell’autore della violenza, qualcosa è penetrato e ha lavorato in profondità, in forma più sottile e insidiosa, a strutturare un certo tipo di mentalità, a costruire un certo senso di sé e dell’altro, a definire delle aspettative e dei modelli relazionali. Il risultato è qualcosa di vecchio e di nuovo allo stesso tempo, che val la pena provare a evidenziare.

Intanto rispetto al senso di sé emerge una profonda fragilità maschile, il forte bisogno della partner, della donna, l’esatto contrario del mito dell’uomo indipendente. Io credo che questa dipendenza maschile dalle donne, dalla madre, dalla fidanzata, dalla moglie e perfino dalla collega di lavoro, ci sia sempre stata ma finché si era dentro una struttura sociale e famigliare patriarcale solida questa dipendenza non poteva emergere, era protetta dalle sicurezze dei ruoli e delle regole prestabilite. Emerge invece oggi di fronte alla libertà femminile e a percorsi di individuazione e di costruzione di senso più forti e più a fuoco da parte delle donne. Si evidenzia quindi il chiaro bisogno della partner per la propria stabilità, ma una partner, tuttavia non riconosciuta nella sua alterità.

Rispetto al senso dell’alterità, occorre insistere sul fatto che la donna, la partner non è affatto percepita come inferiore, come minore, come qualcosa da educare, sviluppare o proteggere. Al contrario Giulia Cecchettin appare come più autonoma, più matura, più brava negli studi, e persino più felice. Quindi non c’è un senso maschile di superiorità, ma semmai l’opposto, il senso di inferiorità o quantomeno di inadeguatezza maschile. È il maschio che non si sente all’altezza che chiede a lei di rallentare, di aspettarlo, di attendere a laurearsi.

Quindi rispetto al senso della relazione, è chiaro che il contesto non è quello di una relazione patriarcale tradizionale, ma quello di una relazione “democratica”, “paritaria”. La cultura è quella, il modello sociale delle nuove generazioni è quello. Eppure, il maschio non ci sta dentro.

Molti uomini sono abituati a provare affetto e sentimenti dentro a relazioni che controllano, che dominano, che dirigono, ma non in una relazione senza reti. Una relazione libera dove puoi sentire il taglio dell’alterità. Il punto è che senza questa esperienza, questa ferita e la sua accettazione – l’accettazione che l’altra è altra anche quando sta con te – non c’è possibilità di un amore sano.

La questione, dunque, non è solo la dimensione ideologica del patriarcato (che comunque persiste in una parte del mondo maschile), ma piuttosto la dimensione esperienziale e relazionale, l’incapacità di misurarsi fino in fondo con una soggettività altra in quella che Lia Cigarini ha chiamato “relazione di differenza”.

La cultura – almeno in parte – si è evoluta, la società si è andata trasformando, anche se non abbastanza a fondo. Anche se il patriarcato ha perso gran parte del suo riconoscimento e del suo appoggio c’è ancora molta strada da fare per congedarsi veramente dal sessismo e dalla violenza. Il fatto è che non basta cambiare le leggi, occorre lavorare sulle mentalità, sulle aspettative sociali, sui modelli di relazione.

“La libertà delle donne è libertà per tutti” recita l’invito a questa discussione. Questa è stata in effetti anche la mia esperienza, nelle esperienze di gioia e condivisione tanto quanto in quelle di delusione o di separazione. Ma questa libertà non è semplicemente un valore, un principio, ma è un’esperienza, una pratica, una scuola.

Che significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne? Che significa non sentirsi diminuiti, o minacciati, ma fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento – anche quando è conflittuale o dolorosa – un terreno di maturazione per il proprio modo di amare, di sentire e di stare al mondo?

È urgente cominciare a parlarne insieme.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024

Il numero di Via Dogana 3 “È ora di cambiare” è quanto mai opportuno in questo momento storico, la mia vuole essere una breve introduzione che dà alcuni spunti di riflessione a partire dai recenti efferati casi di cronaca e dalla conseguente risonanza mediatica.

Per ragioni contingenti e personali, mi sono ritrovata in quest’ultima settimana a vedere alcuni dei cosiddetti talk show televisivi incentrati sul caso di femminicidio di Giulia Cecchettin, e la parola più diffusamente utilizzata e controversa era patriarcato. Sono rimasta molto colpita dall’approssimazione e superficialità di quello che veniva narrato, e trovo che la stessa cosa succeda sui social e alla radio: vengono espresse posizioni che man mano si radicalizzano per contrapposizione, ma sono per lo più inaccurate. Invece ho trovato molto lucido e prezioso il contributo di Ida Dominijanni su Internazionale, dal titolo “Il campo di battaglia del patriarcato vacillante”[1], che tutte e tutti dovrebbero leggere, come pure un’intervista, sempre a Ida Dominijanni, pubblicata sull’Unità, e intitolata “Il patriarcato è ferito, per questo è più feroce”[2]. In estrema sintesi, il punto che voglio sottolineare è che si tratta di saper nominare quello che sta capitando per far ordine, e la parola giusta per il nostro imbrogliato presente è post-patriarcato.

Il n° 23 della rivista cartacea Via Dogana aveva come titolo “La fine del patriarcato”, è uscita a settembre del 1995, e Luisa Muraro nell’articolo “Salti di gioia” scrive: “questi sono i tempi della fine del patriarcato, dopo quattromila anni di storia e chissà quanti di preistoria. È finita! È finita! È finita!”. Ma cosa precisamente è finito? È stato interrotto il secolare destino prescritto per le donne, la legge e il desiderio maschile hanno smesso di essere riferimento e misura per le donne. In altri termini, le vite femminili sono diventate ricerca di senso in prima persona, le relazioni tra donne sono diventate visibili nello spazio pubblico. È chiaro quindi che bisogna parlare di post-patriarcato, perché, se non è finito il potere maschile e la sua ricerca da parte degli uomini, è cessato l’assoggettamento delle donne, è terminato il credito che le donne davano al sistema socio-simbolico rappresentato dal patriarcato. Ida Dominijanni efficacemente dice che nel patriarcato le “donne non c’era neanche bisogno di ammazzarle, perché erano addomesticate”. E continua dicendo “Adesso abbiamo un patriarcato ferito, ferito dalla libertà femminile guadagnata, che quindi reagisce a questa libertà in modo efferato”.

Se poi pensiamo alle guerre in corso, il quadro della mascolinità si tinge ancor più di fosco. Sui social spopolano i modelli più violenti e machisti, gli stupri e le violazioni dei corpi femminili sono armi trasversali di una guerra generalizzata.

Torno al femminicidio di Giulia Cecchettin, perché ritengo sia paradigmatico di elementi retrivi e fatti del tutto nuovi. Nella narrazione piena di sproloqui sul patriarcato, una certa vulgata di destra lo rubrica a fatto legato alla criminalità, a un malessere individuale, un raptus e un gesto di follia. Elena Cecchettin, la sorella della vittima, ha creato una cesura nella narrazione della violenza sulle donne[3], mostrando chiaramente il problema sociale e politico dei femminicidi, ovvero il problema di un maschile che non sa stare alla misura della libertà femminile, che non può sopportare l’indipendenza delle donne da desideri e imposizioni di un lui debole e in affanno, e ciò vale a tutte le latitudini e in tutti i sistemi sociali, quelli dove le donne non hanno diritti e quelli dove le donne sono più emancipate. Il punto nodale non è quindi il patriarcato, inteso come sistema socio-simbolico di dominio dell’uomo sulla donna. La vera questione è la cultura patriarcale, alimentata da guerra e violenza, che fissa l’identità maschile in una tradizione anacronistica.

Il movimento #MeToo ha fatto un lavoro importante mostrando in quale misura l’atteggiamento maschile che avanza soverchianti pretese, incurante del desiderio di lei, permei la nostra cultura. Ma questo non basta: smascherare, svelare, denunciare non è abbastanza per attuare una modificazione del sistema. Pensiamo alla frase agghiacciante pronunciata dall’assassino durante l’interrogatorio, così come la riportano i media: “Non accettavo che non fosse più mia”, la quintessenza di una cultura del possesso e del dominio. E qui si innesta anche il discorso del neoliberismo, inteso come quella forma specifica di biopolitica dove la dimensione sociale, politica ed economica implodono in un sistema che è tutt’altro che repressivo, al contrario, è un sistema che produce, incrementa e risignifica la libertà degli esseri umani secondo il codice del mercato. Se per le donne la questione cruciale è l’assimilazione della libertà femminile da parte del neoliberismo, e per approfondire questo accenno rimando al libro curato da Stefania Tarantino e Tristana Dini Femminismo e neoliberismo[4], per gli uomini il punto critico è l’evaporazione del padre e della sua Legge, ovvero la sparizione dell’interdizione a favore dell’ingiunzione al godimento, del godimento immediato dell’altra ridotta a oggetto. A questo proposito, scrive Ida Dominijanni: “Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego così insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme: “i nostri bravi ragazzi”, insospettabili fino a un attimo prima di estrarre un coltello dallo zaino”.

In questo quadro, tuttavia, abbiamo visto sorgere un grande desiderio di politica delle giovani donne, non solo nelle manifestazioni del 25 novembre, ma anche in un fiorire di iniziative di collettivi e gruppi di giovanissime, in cui si mette in parola l’esperienza, si fanno circolare idee, si condividono gesti di discontinuità. Ne voglio citare una, il lavoro fatto da ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, la rivista mensile del Liceo classico Manzoni di Milano. In occasione del 25 novembre, hanno lavorato al progetto Morgana, producendo un podcast con le testimonianze raccolte tra le ragazze della scuola[5] e realizzando interviste ai professori della scuola, sulla scorta della discontinuità che il caso di Giulia Cecchettin sta evidenziando. Martina Ghanbari, che frequenta il secondo anno, ha svolto le interviste con altre ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, redatte poi in un fascicolo che è stato distribuito a tutti gli e le studenti della scuola. Riporto due passaggi significativi:


“Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai propri studenti?

Professor Sivelli: […] Se sono maschio, docente o studente che sia, e mi conosco sia dal punto di vista morale sia nei rapporti col genere femminile, mi ritengo di conseguenza esonerato da questo discorso perché tanto “io non sono così, lo so”. Non dovremmo mai considerarci immuni. Solo se siamo costantemente minacciati, solo se pensiamo che può accadere anche a noi, solo se facciamo tutti un continuo lavoro di introspezione, si può pensare a un cambiamento. Non lasciate che gli eventi vi vengano messi davanti agli occhi, sentiteli come problemi vostri, che incombono anche sulla vostra identità di maschio”.

È notevole il passaggio dalla ferma certezza del proprio fondamento morale, che dispensa da qualsiasi implicazione e mette l’uomo nella consueta posizione giudicante, a una inedita vulnerabilità, che domanda la presa di coscienza in prima persona, per tutti e ciascuno.

“Hai mai assistito a episodi di violenza? Come hai reagito?

Professor Morelli: […] Quello di cui mi sono stupito è che persone che io reputavo civili, educate, rispettose delle regole del prossimo, dei rapporti, tendenzialmente anche abbastanza consapevoli dal punto di vista sociale[6], hanno poi manifestato atteggiamenti inaspettati e inesplicabili nei confronti della propria compagna o della propria partner: di non accettazione, di rifiuto e di incapacità di accettare l’esito di una relazione amorosa che non mi sarei mai aspettato da loro. Stiamo parlando di violenza verbale e, nella peggiore delle ipotesi, di stalking, che sono manifestazioni odiose del proprio modo di essere. Tutto è concentrato in quel sottobosco di relazioni tossiche che rendono ancora più grave il problema di cui parliamo. Parliamo della normalità, non stiamo parlando di un ragazzo che uccide una ragazza”.


Lo stupore iniziale lascia il posto alla consapevolezza che si tratta di una violenza endemica e strutturale alla “normalità” dei rapporti tra i sessi.

C’è un filo di speranza, se la percezione che sia ora di cambiare diventa moneta corrente tra gli uomini e se questo dolore collettivo riesce a essere un efficace agente di cambiamento.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024

Nei giorni scorsi, durante le manifestazioni che si sono tenute nelle piazze d’Italia contro la violenza sulle donne, una frase è spiccata su tutte: “Siamo marea”. Marea sono state le oltre 500.000 persone che hanno partecipato a Roma il 25 novembre, e migliaia di altre in diversi luoghi pubblici del Paese, come qui a Milano, dove si sono riunite 30.000 persone. Marea sono le tantissime voci che si sono sollevate con rabbia nelle strade, ma anche sui media tradizionali e nelle fitte comunità virtuali sui social.

Ma andiamo alla radice di questa parola che sta identificando un fenomeno che mai come in questo momento ho sentito così potente, quello che chiamiamo cambio di civiltà. Marea è il movimento delle acque del mare che periodicamente due volte nelle ventiquattro ore del giorno gonfiano, montano e si espandono sulle rive. Dunque marea implica un moto, sempre destinato a ritornare.

Quando si parla di femminismo all’interno della storia, si parla di ondate. La suddivisione cronologica della storiografia femminista in termini di ondate non ha trovato un riscontro unanime, ma come scrive la storica francese Christine Bard, “Un’ondata può essere ricoperta da un’altra senza scomparire”.[1] Pur con le differenze e le frammentazioni all’interno del movimento che conosciamo, le giovani femministe che abbiamo visto nelle piazze in questi giorni mai come in questo momento sembrano unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando pienamente l’eredità delle “storiche” e prolungando, o forse dovremmo dire ridando vita da un nuovo punto di vista alle lotte condotte negli anni ’70.

I fatti recenti smentiscono l’idea del post-femminismo che circolava tra noi giovani donne solo qualche anno fa, nella convinzione che la libertà è stata raggiunta una volta per tutte. In queste settimane si è detto anche che il patriarcato è ancora qui, è stato chiamato a gran voce da donne arrabbiate, donne ferite, donne che ne hanno abbastanza. È un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che si nasconde nelle relazioni personali e nei luoghi di lavoro, un patriarcato che, marea dopo marea, ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. L’uomo che non sa più come prenderci. L’uomo che si sente in competizione con le donne. L’uomo che collabora fintanto che a farla da padrone è lui. Dall’ego-soggettivismo superomista alla prigione a cielo aperto della “città delle donne”. Dal furore alla disfatta. Povero uomo.
Come ci dicono le piazze recenti, tutti gli uomini sono responsabili. Io penso sia importante ribadire che tutti gli uomini sono responsabili delle azioni e dei comportamenti che condurranno da questo momento in avanti, singolarmente e collettivamente, perché qualcosa ora è davvero cambiato e bisogna guardare avanti per costruire un disegno comune. La dimensione collettiva sembra darci una prospettiva futura in questo momento, in cui la dimensione soggettiva è spesso associata a quella individuale nel senso di individualista, di solitaria, egoriferita, come la dimensione digitale dei nostri profili, come la solitudine che ognuna di noi sente quando si tratta di affrontare i problemi veri, solitudine che forse sentono anche gli uomini, frutto di un’impotenza generazionale. 

Eppure credo che è proprio nella dimensione soggettiva, intima e personale che il cambiamento potrà avvenire. Certo cosa significa “personale”, che sentiamo nello slogan femminista “il personale è politico”, nell’epoca in cui la dimensione pubblica e privata si articola attraverso degli account? Forse bisognerebbe partire proprio da qui, cosa è personale per noi? Quell’io singolare proprio mio di Patrizia Cavalli, titolo di una sua raccolta del ’92, in cui riaffiora ora la poesia “Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo”.

Personale è forse partire da sé, come abbiamo imparato a fare qui in Libreria, per scoprirsi sole e incomplete senza il sé dell’altra e dell’altro, personale è vuoto senza lo sguardo di chi ci guarda fuori da noi. Noi donne questo lo sappiamo, e il nuovo bisogno di ricreare comunità reali e virtuali che siano uno spazio di parola alternativo ci racconta proprio questo. In queste settimane anche qui a Milano sono nati nuovi spazi di condivisione anche in luoghi che non sono deputati a incontri femministi. Questi momenti di autocoscienza in alcuni casi hanno scosso molte ragazze, hanno preso coscienza della violenza subita da parte degli uomini negli ultimi anni, violenza fisica, verbale, emotiva, economica. Questo ha generato anche atteggiamenti di chiusura verso gli uomini, di inevitabile diffidenza, perché il nemico potrebbe essere tra noi, a casa, al bar o in ufficio. Al netto della positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze, questa chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale.

Le relazioni di potere contro cui combattiamo ogni giorno sono la radice di molti dei problemi che viviamo in prima persona. Sono relazioni, non corpi astratti a cui diamo il nome di “società”, come se in qualche modo fosse compito sempre di altri. Queste relazioni si basano sull’idea patriarcale di controllo, controllo dell’uomo rispetto al margine di azione di una donna, ma a volte anche di donne rispetto ad altre donne. Controllo viene dalla parola francese contrôle ovvero contro registro, il che ci riporta alla vigilanza, a un occhio burocratico, ciò che appunta lo sguardo. Dello sguardo molto ci ha detto Irigaray, e del potere maschile di guardare, del male gaze, sentiamo il peso in ogni momento. Lo sguardo maschile appunta ciò che facciamo quando ci vestiamo in un certo modo, quando ci mostriamo sui social, quando esprimiamo la nostra sessualità, mentre lavoriamo. Lo sguardo maschile ruba. Lo sguardo quantifica il nostro potere di scambio in quanto merce-corpo pensante e brillante nell’economia liberista.

È interessante in questo senso quanto ha detto nella conferenza del progetto Elles a Paris Photo lo scorso novembre la curatrice Nathalie Herschdorfer: che forse non dovremmo più parlare di female gaze in opposizione e in risposta allo sguardo maschile, ma che abbiamo bisogno di altre parole. Di parole nuove per dire di noi, e per parlare con gli uomini. Fintanto che le nostre parole non saranno diverse per raccontare cosa vogliamo e come lo vogliamo non assisteremo alla svolta che intravediamo.

Mi piacerebbe che la nostra sacrosanta rabbia, che in questi giorni ha usato anche parole bellicose, si facesse innanzitutto produttiva, produttiva di un cambiamento che è qui nelle nostre mani e che dobbiamo cercare di attualizzare mostrando agli uomini che un dialogo è possibile. Che si può imparare con noi, ora. Che il mansplaining manifesto o meno è finito. Che il nostro approccio alle emozioni può rendere le loro e le nostre relazioni migliori. Che nuove pratiche nel mondo del lavoro e del fare arte sono a beneficio di tutti. Che anche per gli uomini è arrivato il momento di partire da sé e di chiedersi con noi: quando ci sentiamo davvero libere e liberi?

Anch’io come tutte le donne ho avuto a che fare con atteggiamenti violenti da parte di uomini, nelle relazioni e nel lavoro. Si è trattata di violenza psicologica e a volte economica. Ma non voglio dire che l’ho subita, perché non è stato così: ho capito, ho reagito, ho lottato. Ho creato uno spazio mio di lavoro e di vita in cui i vecchi metodi basati sulla sopraffazione non valgono più. Ancora oggi mi devo interfacciare con uomini che cercano di sminuirmi, che fingono di non vedermi anche se guardano, che cercano di togliere valore alle mie idee perché tutto si basa sul principio che vali solo se dai, se produci, e se ti tolgono quello non vali più nulla neanche tu. E invece prima ancora di dare, ci sono. Esserci basta. Starci. Riversarsi nel mondo come marea, senza contenersi. Il nostro pensiero e il nostro sentire non sono disgiunti da noi e hanno valore nello scambio, non nella valutazione. Agli uomini dico, questa sono io, e non ci sarà nessun diritto, nessuna legge, nessuna simmetria a farmi sentire amata. Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024

Domenica 3 dicembre 2023, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano

Le guerre in corso, che possono diventare feroci nei confronti di donne e bambini, e l’aumento di stupri di gruppo e di violenze contro le ragazze e le donne anche nel nostro paese, ci mostrano una continuità tra tempo di guerra e tempo di pace. Già nel 1970 il manifesto di Rivolta Femminile diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Oggi questo è più che mai evidente, soprattutto tra giovani, dove il rapporto tra i sessi è attraversato da paura, sfiducia, vendetta.

Ma sempre oggi, lo slogan Donna, vita, libertà, gridato in Iran da giovani donne e giovani uomini insieme, testimonia che la libertà delle donne è libertà per tutti. Come dare seguito, allora, al cambiamento che questa presa di coscienza richiede? Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono da una modificazione che sentiamo urgente? Quali responsabilità si assume ciascuno di loro nei rapporti concreti con i propri simili e con le donne? Vorremmo interloquire con uomini, soprattutto giovani, su questi punti non più rinviabili, per avviare un necessario cambio di civiltà.
Introducono la discussione Laura Colombo, Giorgia Basch e Marco Deriu.

Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Sono stata alla manifestazione di Milano il 25 novembre contro la violenza sulle donne con un cartello che diceva l’opposto di ciò che molte dicono e scrivono, e alcune sostengono anche in ambiente universitario: che il movimento LGBTQ+ ci rappresenta tutte e tutti. Insinuando così un potere di rappresentanza che mi è odioso perché pensiero del tutto maschile. È una violenza per me insopportabile, ora che ho imparato a riconoscere la violenza che non è Legge da imparare. Ho impiegato cinquant’anni a riconoscere la violenza che da bambina mi sembrava la Legge familiare o sociale che dava il giusto apprendimento. La devo additare e combattere!

Mi preoccupa grandemente che si manchi di elaborazione riflessiva nella protesta e che la si dia in mano al maschilismo mediatico, il maschilismo sempre vincente nella politica rappresentativa, che sia nei parlamenti o nelle strade. C’è invece una disponibilità piacevolissima nelle persone meno giovani e meno organizzate a considerare la violenza della politica, quella dell’economia.

La piazza di Milano il 25 novembre era immensa e molto pacifica, molto riflessiva nella disposizione a considerare la violenza contro le donne; la stessa disposizione che in questi anni considera la violenza della guerra in tutti i luoghi dove i conflitti economici e politici non sono analizzati e gestiti da pratiche di contrattazione verbale e diventano distruzione e morte. Era una piazza piena di giovani padri e madri con bambini. Quella popolazione che fa lo sforzo della comunicazione tra differenti e ci fa progredire, quella su cui investire.

Lì mi erano tutti amici, il mio cartello era il loro, per questa ragione dico che c’è un potenziale di capacità di dirsi ed essere solidali enorme, non buttiamolo nel fosso della contestazione non sapiente. Nel fosso di quell’esasperare l’inimicizia verso la scienza e la politica, solo perché l’economia le influenza e investe la sua potenza nel far sì che si prendano gioco di noi; dobbiamo distinguere tra la scienza e la politica asserviti al guadagno illimitato e quelle con le quali possiamo comunicare e che ci giovano.

Il mio cartello diceva:

«La più grande violenza contro le donne e i bambini è usare corpi di donne per diventare padri di figli a cui si nega la madre. È violenza patriarcale. 

Gli uomini devono riconoscere l’altro da sé: le donne.

Con la storia di silenzio e censura che abbiamo noi donne, privarci della desinenza in -a, che da pochi anni ci dava visibilità, è un crimine politico. Chiunque voglia dare visibilità ad altre censure usi la stelletta o altro, ma in aggiunta alla -a, non in sostituzione, così dimostrando di non voler cancellare le donne.

Noi donne non siamo a disposizione degli uomini, non usate il nostro nome: il femminismo è interesse a valorizzare le donne. Non ci lasciamo cancellare.»

Da anni facciamo parte di una Comunità di storia vivente, prima quella di Milano e dal 2019 di quella di SAMI (Savona-Milano). La storia vivente è un’invenzione simbolica di Marirì Martinengo la cui pratica prende avvio nel 2006 dopo la pubblicazione del suo libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta»[1] e il riconoscimento da parte di María-Milagros Rivera Garretas del suo portato innovativo per la storia.

La pratica della storia vivente mantiene elementi dell’autocoscienza che alcune di noi negli anni Settanta hanno praticato.

Come allora si svolge in un piccolo gruppo di donne che si incontra periodicamente e che mette al centro il partire da sé per l’espressione dell’esperienza di ciascuna. C’è il desiderio di interrogarsi a fondo, in relazione con le altre che ascoltano e pongono domande perché sentono risuonare in sé le tue parole. Sono le altre, in una circolarità di fiducia, che ti danno misura, aiutano a far emergere il tuo vissuto e a trovare le parole per raccontarlo. Con la pratica della storia vivente cresce la coscienza dell’energia che le relazioni duali portano nel gruppo. Quello che si indaga sono i nodi personali che ciascuna si porta dentro e di cui non ha mai parlato, che l’hanno imbrigliata perché l’interpretazione corrente era patriarcale, falsa e non corrispondente alla propria esperienza.

Per trovare un simbolico che la rappresenti cerchiamo di individuare nel nostro vissuto una “immagine guida”, cioè la visione di una situazione concreta in cui si è creato il groviglio. E ritornandoci in «un percorso a spirale, creiamo un doppio movimento: un’immersione profonda in sé che faccia affiorare una verità soggettiva e la offra alle altre che, riconoscendola e aiutando a illuminarla, permettono di renderla pubblica»[2].

È l’atto trasformativo che libera la singola e fa nascere una nuova storia. Se come si dice «tutta la storia è storia contemporanea» perché fa storia ciò che interessa al presente, la storia vivente non pone più al centro il potere e le dinamiche sociali, ma come scrive María-Milagros Rivera Garretas «fa la rivoluzione di dire e mostrare che ciò che interessa al presente, a ogni presente, è il sentire dei vissuti di donne e uomini che viviamo nel mondo e sono vissuti costitutivi dell’essere»[3]. Da quando i nostri vissuti non sono più deformati o annullati da interpretazioni ideologiche, camminiamo più leggere e incisive nel mondo.


[1] Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta, ECIG, Genova 2005

[2] Comunità di storia vivente diMilano (a curadi), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, p.126

[3] https://www.libreriadelledonne.it/approfondimenti/storia_vivente/storia_vivente_contributi/la-storia-vivente-lautocoscienza-e-laltra/


Noi abbiamo puntato su questo lavoro che è lungo e dura – come dice Lia – quello che deve durare. (Margherita Tosi)

Oltre vent’anni di gruppo di autocoscienza: da dove è nato? Perché ancora? E come lavora? Facendo cosa?

Piccolo gruppo significa dalle cinque alle dieci-dodici persone: così i gruppi originari, così anche il nostro. Avvicendamenti nel corso del tempo: uscite, nuovi ingressi e anche morti. Incontro una volta al mese a rotazione nelle nostre case (ma per tanti anni, fino alla sua chiusura, ospiti del Circolo Cicip e Ciciap), i rapporti tra noi sono amicali, ma con diversi gradi di intensità, non c’è chi guida, il tema o emerge spontaneamente perché ha fatto irruzione nella vita di qualcuna, o segue il filo della lettura di un libro o di un discorso di attualità che ci coinvolge.

Perché ancora l’autocoscienza? Tutte noi, seppure con diversa intensità, siamo in relazione politica con la Libreria delle Donne di Milano. In Libreria si produce pensiero e molte cose vengono in mente dopo l’incontro («In Libreria mi abbevero, ma non mi metto in gioco in prima persona»). Il gruppo di autocoscienza permette più libertà, ed è quel momento in cui si attua quell’attività di ruminatio che, nella tradizione cristiana, segue l’ascolto della parola evangelica e precede la meditatio.

Questa ruminazione non può essere individuale, necessita della presenza delle altre.

L’autocoscienza è per noi una pratica di “pensare in presenza”, come spiega bene Chiara Zamboni nel suo libro. La presenza delle altre che ascoltano, accolgono, “ruminano” il nostro pensiero, lo confrontano con il proprio, lo restituiscono modificato (anche attraverso la discussione e il conflitto) ci aiuta ad ancorarci alla realtà, ad evitare il pensiero solipsistico, autoreferenziale.

Questa è per noi l’attualità, il valore intramontabile della pratica di autocoscienza.

Nessun tema in questi anni ci è stato estraneo: rapporti tra di noi, con le donne, con gli uomini (il loro simbolico, la democrazia, la guerra), il rapporto con la madre, le/i figlie/i e i/le nipoti; libertà/emancipazione; il desiderio femminile; il lavoro; la politica seconda; il pensiero della differenza nelle diverse pratiche politiche di ognuna; il silenzio, l’autorità, la parola pubblica in relazione con la propria esperienza; il rapporto con la cura, il corpo, la depressione, la malattia, il covid, la morte, elaborare il lutto di chi non c’era più, il rapporto col divino…

Non abbiamo mai dato un nome preciso al gruppo: lo definiamo gruppo di “autocoscienza alta”, perché ci riferiamo sempre al pensiero di altre donne (qualche volta anche uomini) che hanno scritto o detto. Nel corso degli anni abbiamo letto scritti di Diotima (Muraro, Zamboni, Cosentino, Tommasi, Sartori, Faccincani, Buttarelli…), Lonzi, Butler, Cigarini, Lispector, Ivana Ceresa e la Sororità di Mantova, Danielle Quinodoz, Dominijanni, il mito di Didone, gli scritti del gruppo Vanda, Irigaray, De Cesare, Elena Ferrante (a cui abbiamo anche scritto, senza risposta). La lettura è sempre finalizzata a capire meglio noi stesse attraverso il pensiero delle altre: partire da sé per andare verso le altre, partire dalle altre per tornare a sé. Questo il movimento ondulatorio dell’autocoscienza.

Per me il gruppo è anche stato poter essere fragili, deboli, incapaci, non performanti, non essere giudicate e non sentirsi fuori posto. Nel gruppo possiamo essere così come siamo e a partire da lì andare avanti insieme, non per cambiarci ma per avere altri punti di vista: anche i fallimenti e le schivate possono andare bene.

Per me il gruppo è una necessità, non un di più. Confrontarmi con le altre mi costringe ad essere meno generica e mi aiuta a mettere a nudo il mio vero desiderio, a riconoscerlo e a prendermelo sulle spalle. E poi c’è il piacere dello stare insieme, del ritrovarsi a condividere le esperienze di vita con tutte le loro gioie e tristezze.

Il desiderio di trasformazione è ciò che mi ha stimolato nell’iniziare un percorso nei gruppi di autocoscienza negli anni settanta. Allora c’era anche la determinazione di voler cambiare il nostro mondo di relazioni (tutte le relazioni!) e questo moltiplicava per mille il coinvolgimento, anche emotivo… Oggi il meccanismo per cui funziona ancora è legato ad una visuale più ampia, ma partendo sempre dalle nostre esperienze diversificate e più mature.

Quello che per me ha funzionato molto bene in tutti questi anni è stata la capacità di passare con scioltezza dalla lettura e discussione di testi scelti al problema personale “urgente”. Il rapporto con le figlie è stato messo a tema molte volte, con dolore, preoccupazione, scambio, sostegno e molta confidenza.

L’esperienza del gruppo di autocoscienza mi ha progressivamente allenata a riflettere sull’uso delle parole, nell’esprimermi il più possibile vicino ai sentimenti, ai vissuti, alle emozioni che emergono in presenza delle altre. Parole sdoganate dal linguaggio corrente, distratto o condizionato dai contesti più disparati che sentiamo estranei. Un allenamento per me importantissimo.

Concludiamo con le parole di Margherita Tosi, che è sempre con noi anche se ci ha lasciato qualche anno fa:

Questo gruppo è un prodotto dei rapporti politici tra donne. Non mi sento pronta a essere lasciata sola; questo gruppo è piccolo, ma importante. Noi non siamo sul fare: articoli, viaggi, progetti. Vuol dire che c’è qualcos’altro… Il desiderio individuale è già politico? Sì, se è un vero desiderio.

Maria Castiglioni, Lina Cattabeni, Paola Mattioli, Raffaella Molena, Cristina Rossi