L’uccisione di Giulia Cecchettin, a due giorni dalla laurea, ha suscitato una tale ondata di attenzione e di partecipazione da farne un importante momento di svolta nella consapevolezza politica. Di quello che è seguito vorrei mettere in evidenza un fatto significativo per una politica come la nostra, che si fonda sul linguaggio: questa volta c’è stata una inedita e generalizzata presa di parola.

In primis ha parlato la sorella Elena che dal suo dolore ha tratto una lucida analisi, poi su questa ennesima uccisione hanno parlato non solo le femministe, ma intellettuali, artisti, donne e uomini comuni. Mi ha commosso un bambino di undici anni che ha appeso davanti alla casa di Giulia un biglietto con su scritto: «prometto che da grande non diventerò mai come lui». In quei giorni perfino la mia parrucchiera parlava di patriarcato.

Considero positivo che la parola patriarcato sia uscita dagli ambiti femministi e sia diventata una parola corrente. Detto questo sono pienamente d’accordo con Laura Colombo quando nella sua introduzione dice che la parola giusta per definire il tempo che stiamo vivendo è post-patriarcato. Il patriarcato, infatti, ha perso sia la sua base nella società che il suo sistema di norme rappresentato dalla legge del padre ed è proprio il post, cioè la distanza, che permette di individuare a colpo d’occhio i comportamenti che si rifanno a quel modello del passato. Se fossimo ancora immersi in quella cornice culturale non ce ne renderemmo conto.

Di post-patriarcato parlano da tempo pensatrici femministe come Ida Dominijanni e Ina Praetorius, e nel 2014 Irene Strazzeri ha pubblicato il suo libro Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Ma è una parola che circola ancora poco ed è bene riprenderla e rilanciarla, perché fa chiarezza. Ha ragione Ida Dominijanni a ricordare nel suo bell’articolo su Internazionale che oggi la legge del padre è stata soppiantata dal “discorso del capitalista”, dal godimento immediato e dalla non sopportazione della frustrazione e della mancanza. Filippo Turetta, con la sua impossibilità ad accettare di essere lasciato e di vedere Giulia laurearsi prima di lui, è figura dell’oggi e non residuo del passato. Ma in quel passato trova il privilegio di essere uomo e ha a disposizione tutto l’armamentario prepotente e violento di quella cultura. Come ha detto Elena Cecchettin, «nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».

Ora la questione è se quell’ondata è una fiammata che si esaurisce in grandi manifestazioni o se ci sarà un seguito di cambiamento e trasformazione. In questi giorni i femminicidi continuano inesorabili ma vediamo anche che non si sta arrestando il desiderio di cambiamento.

Sappiamo bene che la politica essenziale è che ognuno, ognuna parta da sé nel suo vivere quotidiano per trasformare la qualità delle relazioni in cui è inserito e inserita: quelle di coppia, quelle con i figli e le figlie, quelle con amici e amiche, quelle nel posto di lavoro. Inoltre diventa sempre più importante porre maggiore attenzione attorno a sé e non sorvolare sul commento sessista, sulla battuta misogina, sul paternalismo, sul minimizzare, sullo sminuire le donne.

Io penso anche però che il tempo sia maturo per un gesto simbolicamente forte. Nell’invito a questo incontro è citato il Manifesto di Rivolta Femminile che già nel ’70 diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Con le orribili guerre in corso, la militarizzazione del modello di comportamento maschile si è ulteriormente intensificata, per questo penso che ci voglia un gesto di rottura plateale. Ho in mente quello che ha rappresentato per le donne il Me Too, la cui forza è stata in grado di percorrere il mondo. Capisco che per gli uomini la cosa è più complicata perché c’è un doppio passaggio nella presa di coscienza. Il primo passo è senz’altro “mi riguarda” e mi azzardo a dire che la presa di parola di queste settimane ha posto le basi di questo primo passaggio. Il secondo passo è “non ci sto più” e questo va detto a voce alta per aprire a qualcos’altro.

Durante il funerale di Giulia, Gino Cecchettin, il padre, si è esposto con parole significative quando ha detto: «Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi sfidando la cultura che minimizza la violenza da parte di uomini apparentemente normali, non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione cruciale è creare una cultura di responsabilità e di supporto».

Ecco, è il momento per gli uomini di rispondere alla sua chiamata.

L’invito aperto alla Redazione di Via Dogana 3 ci interroga sulla «continuità tra tempo di guerra e tempo di pace», allora io provo a rispondere utilizzando le modalità che ho incontrato nei gruppi della rete Maschile Plurale; provo cioè a osservare da vicino le mie relazioni di intimità e l’esperienza di insegnante di Scuola dell’Infanzia.

Parto da un’osservazione di Marco Deriu che nel suo libro: “Dizionario Critico sulle Nuove Guerre”sottolinea come «la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario», ed è qui che troviamo continuità tra la dimensione bellica e la violenza che è uno degli aspetti caratterizzanti il dominio sulle altre soggettività che noi uomini siamo chiamati ad agire. In queste settimane in cui la “chiamata alle armi” degli eserciti risuona prepotente insieme ai richiami alla forza, mi è capitato di incontrare gruppi e associazioni che ci interrogano intorno al fenomeno della violenza degli uomini sulle donne, anche oggi ribadisco di non parlare a nome di nessuno se non mio. In uno di questi incontri un ragazzo ci sollecitava sul dovere di protezione delle donne a lui vicine, che quella “chiamata alla forza” esige da lui in quanto uomo; l’unica risposta che ho trovato, e porto anche a voi qui, è la possibilità di rintracciare nelle mie relazioni intime questa chiamata. In particolare nella mia esperienza di padre, dove si manifesta nella paura che mia figlia sia più debole e fragile di suo fratello; la sua supposta e non reale fragilità mi spinge e autorizza a esercitare quel diritto/dovere di protezione che in realtà nasconde lo squilibrio di potere e di ruoli nella relazione tra i sessi e i generi; squilibrio che muove dal principio per cui io e mio figlio, in quanto maschi, occupiamo un luogo simbolico che parla di una gerarchia di valori. Io però posso evitare di rispondere a questa chiamata riconoscendo quanta forza è necessario evocare nella relazione di cura con mia figlia, una forza diversa da quella che vuole noi maschi duri e incrollabili. Ora posso riconoscere le mie fragilità e vulnerabilità che nascono nell’intimità di quella relazione, e che sono fonte di ricchezza e autenticità. Insieme a questa nuova forza e ricchezza trovo anche nuove fatiche e responsabilità, che sono inevitabilmente intrecciate al desiderio che mi spinge fuori dalla posizione di dominio. Posso scegliere questa cura intima che la posizione di padre tradizionale non vorrebbe mi spettasse. Nei giorni successivi all’uccisione di Giulia Cecchettin molto si è detto e scritto, da destra risuona con arroganza il richiamo al maschio forte nell’idea che Filippo Turetta sia in realtà un uomo debole, un “maschio femminilizzato” che non sa controllarsi e che per questo diviene pericoloso; di nuovo l’idea che il femminile sia degradante, la chiamata alle armi del maschio tutto di un pezzo, la voglia di mettere distanza tra sé e “l’altro”, questa volta non più il mostro instabile ma un nuovo maschio, fragile e quindi non correttamente funzionante. Mi viene chiesto come io abbia riconosciuto in me questa chiamata e di conseguenza come provare a rifiutarla. Forse mi è possibile perché avendo scelto un mestiere tradizionalmente considerato “da femmine” ho incontrato nel mio percorso molte donne autorevoli, che sono state mie maestre e colleghe nel mestiere di insegnante e queste relazioni mi hanno permesso di disinnescare la presunzione di superiorità del mio genere, potendo così scegliere una dimensione lavorativa finalmente non performativa o competitiva. Così come nelle relazioni con amiche e compagne di vita posso imparare cosa non desidero essere e insieme coltivare legami intimi che mi vedono libero di esplorare desideri ed emozioni, libero da gabbie e stereotipi. In tempi recenti l’incontro con gli uomini dei gruppi di Maschile Plurale mi ha mostrato un modo prezioso e trasformativo del prendere parola tra maschi, diverso dalle modalità che avevo appreso in quelle zone oscure dove vengono insegnate le regole delle relazioni: la costante tensione alla performance e alla sopraffazione dell’altro, la distanza del corpo dall’esperienza e dei corpi tra loro, il divieto all’intimità prima di tutto con se stessi e poi con gli altri, la fragilità e la vulnerabilità da evitare a tutti i costi. Infine l’incontro con il femminismo e le sue pratiche mi ha regalato strumenti del tutto nuovi per esercitare il desiderio di rileggere la mia identità e il modo in cui abito le relazioni. Voglio citare anche io l’articolo di Dominijanni su Internazionale2, in particolare il passaggio in cui ci dice che: «Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme». Lo cito per dire che riconosco appieno la mia origine di figlio disciplinato da un sistema simbolico dal quale desidero emanciparmi, e che anche nel mestiere di Maestro sento intorno a me la chiamata (di nuovo da respingere) a «disciplinare e conformare» bambini e bambine, con voce grossa e paternalistico autoritarismo. Soprattutto sento che questa chiamata alla disciplina mi arriva in quanto uomo, ovvero corpo estraneo, imprevisto, in una istituzione scolastica da sempre abitata per lo più da insegnanti donne. Quella stessa istituzione scolastica in cui, in contrasto con cento anni di esperienze e pensiero sulla scuola davvero troppo poco diffusi, ancora trova spazio uno sguardo degli adulti che vuole che i bambini maschi ripetano ossessivamente il “gioco eccitante”3 della performance, della violenza e della guerra.



1 Deriu M. (con la collaborazione di Tosolini A., Barbieri D.), Dizionario Critico delle Nuove Guerre, 2005, EMI, Bologna

2 https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2023/11/23/femminicidio-cecchettin-patriarcato-vacillante

3 Qui un testo collettivo su maschile e guerra: https://maschileplurale.it/maschi-e-guerra/



Questo testo nasce dall’intervento alla redazione aperta di #VD3 del 3 dicembre 2023 “È ora di cambiare”, presso la Libreria delle donne di Milano.


In tante natività che fino a non molto tempo fa tenevamo appese sopra i letti e nelle aule di scuola si vede bene lo sguardo estatico del bambino verso la madre. Nel suo bellissimo saggio “La mente estatica” Elvio Fachinelli sorprendentemente parla dell’estasi non come luogo di beatitudine ma come zona di pericolo, di minacce e di ambiguità: «Uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un’area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un io personale, ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile».

Il pericolo per il bambino in estasi – che a lungo si sentirà tutt’uno con la madre – è che la madre distolga lo sguardo da lui, che non gli offra più il seno, che rompa la simbiosi e lo lasci morire. Anche la vita di lei è in pericolo, l’odio del bambino è cordialmente ricambiato, ma chi rischia di più è la creatura.

«Nel lattante amore e odio sono intensi» dice Donald Winnicott. Il bambino odia proprio perché percepisce fino a che punto la madre potrebbe odiarlo. Nell’incanto apparente di quello sguardo c’è l’inferno.

Più o meno fino ai tre anni, fintanto che non si “individuerà”, il bambino vedrà nella madre la sua dea onnipotente e minacciosa, oggetto di adorazione e di terrore. Chi ha messo al mondo un maschio lo sa. Conservo ancora un disegno infantile di mio figlio: ci sono io, donnona enorme in mezzo ad altre persone minuscole, e nella pancia ho un bambino. Titolo dell’opera “Mamma Gigante” – mi ha chiesto di guidargli la mano per scriverlo: per quello mi ha disegnata di quelle dimensioni, sono così grossa che potrei uccidere tutti. Ecco una buona rappresentazione della scena madre.

Poi capita qualcosa, in genere al tempo della scuola materna. Nel nostro caso il rito iniziatico è stato uno “scambio di sangue” – un taglietto sul suo braccio e uno su quello del compagno del cuore, messi poi a contatto – a sancire una seconda nascita. Sangue vivo per lavare via quello immondo del parto. Uomini messi al mondo da uomini e tra uomini: una formale dichiarazione di indipendenza. Alla detronizzazione della dea, faccenda ben rappresentata anche nella narrazione cristiana, si accompagna l’obbligo di disprezzo per le “femmine”. Tutto comincia e ricomincia ogni volta così.

Quando assistiamo alla furia femminicida di fronte alla libertà di una donna e al suo possibile abbandono dobbiamo ritornare lì: la scena del delitto è la scena madre. Il maschio violento è in preda al terrore. Ha paura di morire se lei se ne va. L’assassinio fantasticato nella fase simbiotico-estatica stavolta viene agito, lui non è più inerme e ha la forza per farlo, un neonato furioso di ottanta chili. La dichiarazione di indipendenza era stata solo una parata, l’individuazione non è riuscita. Lui non ha mai smesso di sentirsi tutt’uno con lei, uccide sperando di sopravviverle ma tante volte capisce che non ce la farà e uccide anche sé stesso.

Lia Cigarini dice che sulla relazione madre-figlia c’è stato molto pensiero delle donne, mentre sul rapporto madre-figlio abbiamo ancora tanto da capire. Forse non riusciremo a ridurre/disinnescare la violenza maschile finché non ci avremo ragionato a fondo.

È qui che si profila anche una scena-padre.

Intervistando Marco Deriu (Il problema degli uomini è che sono incapaci di parlare del proprio vissuto. Parla il sociologo Deriu, Il Foglio, 23 novembre 2023) riservo l’ultima domanda proprio a questo: «Se è vero» gli chiedo «che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?».

«Quella con la madre onnipotente» risponde Deriu «è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».

L’assenza (forclusione del nome del padre, la chiama Lacan) è il tratto più comune nei padri post-patriarcali. L’obbligo della paternità non esiste più, il sistema che dava le regole, essere padri e come esserlo, si è dissolto. Quelli che diventano padri giocano da soli, devono inventarsi passo passo, spesso fanno confusione tra sé e la compagna – “ragazzi-madre”, per rubare il titolo a una canzone di Achille Lauro – o caracollano tra fuga e lotta rabbiosa, fight or flight. Restano figli, fratelli tra loro e dei loro figli.

A partire da qui, dalla scena padre, e approdando a ritroso alla scena madre si può forse immaginare un lavoro davvero efficace contro la violenza, lavoro che va fatto dagli uomini in prima persona: gli schemi della psicoanalisi, da Freud a Lacan, vanno riempiti del vivo dell’esperienza autocosciente. Gli uomini devono parlare fra loro a partire da sé, tenendoci noi disponibili all’ascolto e al dialogo per dare una mano a capire come ricostruirsi maschi e padri nella pace, liberi dall’obbligo del dominio, dalla paura, dalla rabbia, capaci di gratitudine per la donna che li ha messi al mondo e per quelle che li rimettono al mondo ogni giorno.

In certi momenti mi è impossibile restare in silenzio. Ogni minima parte di me mi costringe a parlare.  Vinta la paura d’aprirmi, ho parlato. Non è semplice farlo per la prima volta davanti a un pubblico, e ora non è semplice scriverlo.

Ciò che mi ha indotto a dare voce alle mie riflessioni è una fortissima necessità di cambiamento, una necessità che ha radici nelle mie esperienze personali e si è intensificata grazie ai momenti di condivisione e ai confronti costruttivi. Ho capito che le mie esperienze individuali hanno una portata universale, così ho deciso di raccontarle.

Ci tengo a sottolineare che non sono un’eccezione, bensì la regola. Non sono un caso speciale, non mi sento diversa da migliaia di altre donne, mi sento solo una di tante. Ingiustamente una di tante. Ingiustamente perché tante sono le vittime di violenza, e una sono io.

Più volte nella mia vita mi sono ritrovata in una situazione tale da poter denunciare un uomo che su di me aveva esercitato una violenza. Non l’ho mai fatto, in nessuna delle occasioni. Ogni volta mi son ripromessa che, se mi fosse riaccaduto, l’avrei denunciato, ma effettivamente non l’ho mai fatto.

Il senso di colpa è opprimente. Soprattutto perché mi son sempre detta di avere le risorse per affrontare un processo in tribunale: quelle economiche, perché i lunghi e lenti tempi della giustizia in Italia costano caro, ma soprattutto quelle psicologiche, bisogna essere forti per affrontare una causa in cui si viene costantemente messe alla gogna. Le modalità che hanno per farlo sono fra le peggiori, non contemplano la delicatezza della situazione e la profondità delle ferite che gli episodi del genere lasciano.

Evidentemente queste risorse non le avevo. Solo oggi lo comprendo veramente e solo oggi mi ritrovo a confessarlo; quasi a sputarlo, a vomitarlo fuori. Perché a questa necessità non mi posso più sottrarre, esternare il mio vissuto è diventata urgenza. Non per me, ma per le altre donne che questa urgenza ancora non la sentono, perché non hanno i mezzi, non riescono a distinguere quale sia un comportamento violento o no, cosa sia una relazione tossica o meno, o forse perché hanno giustamente paura, paura anche di non essere credute. Per prime, tante volte, noi stesse non abbiamo gli strumenti per riconoscere queste situazioni, o se li abbiamo, temiamo le ripercussioni. Men che meno li hanno gli uomini, vittime anche loro di questa società maschilista. Questo è il punto: è necessario che si sviluppi una nuova coscienza collettiva che includa entrambi i sessi in un rapporto di totale equità, per un beneficio comune.

Alle elementari mi chiamavano “l’avvocato delle cause perse”, perché su di me gravava ogni ingiustizia. Son cresciuta così, a difendere i miei diritti e quelli degli altri. Nonostante questi fossero i miei valori, non ho saputo tutelarmi dagli episodi di violenza, episodi simili a quelli che quotidianamente tante donne vivono. Non parlo solo di violenza fisica, che è la più riconoscibile, ma anche quella verbale, psicologica ed economica; a volte anche il silenzio è violenza.

Una volta un buttafuori in discoteca, un’altra un medico o un professore, magari un passante per strada… tanti sono gli esempi che ognuna di noi potrebbe fare.

L’esperienza più traumatica della mia vita è stata il mio primo amore.

Non auguro a nessuno che queste due cose, un uomo violento e l’amore, si trovino insieme, ma sono sicura che capiti spesso. Quando li incontri per la prima volta il binomio è logorante. Non hai l’esperienza dalla tua parte, solo una vaga conoscenza teorica che nulla può contro le emozioni. Ancora prima di rendermene conto, mi sono ritrovata in un vortice di brutalità che mi ha travolta. Ho perso tutto ciò che credevo definisse la mia identità. Non mi riconoscevo più in quella persona. Vivevo il dolore che provavo, sì, ma lo vivevo lontano, perché quel corpo era solo un contenitore dell’anima che andava man mano svanendo. Terribile era il senso di impotenza e angoscia, terribile quello di estraniamento. Nella mia mente ho immaginato più volte l’ennesimo titolo di giornale che parlava di femminicidio, con il mio nome. Ma il dolore più grande è stato pensare alle persone a cui voglio bene e al male che ho causato loro quando hanno saputo in che situazione ero. La donna emancipata che credevo di essere, non lo ero più e forse non lo ero mai stata. Rimane solo un sentimento d’intensa vergogna. Quella che si prova davanti a una sconfitta enorme, quella che ti fa pensare che il problema sia tu, e non il tuo carnefice.

Ho avuto la fortuna di riuscire a uscirne. È importante in questi momenti saper chiedere aiuto, e adesso, nonostante siano passati anni, non posso più tacere. Sento il fortissimo bisogno di parlare. Che la mia esperienza orribile diventi utile. Che il mio dolore eviti altro dolore e diventi forza per le donne là fuori che non riescono a svincolarsi da queste situazioni paralizzanti. Perché là fuori, davanti alle ingiustizie, il mondo non si scandalizza e spesso tace. Si sente meno il peso della colpa quando i crimini li legittima la società in cui si vive.

Io non ci sto più. Voglio che si sviluppi una nuova consapevolezza. Non posso pensare che tutto questo male non porti a niente. Deve alimentare il fervore delle nostre battaglie. Dobbiamo metterci al servizio di questa causa, ora più che mai. Troppe vite sono state strappate inutilmente. Troppe donne vivono ancora nella paura. Farò di tutto per piantare semi, agire, produrre cambiamenti. Cercherò di far capire agli uomini che quella donna che viene maltrattata, strumentalizzata, umiliata e mortificata, potrebbe essere loro figlia, madre, sorella, moglie, compagna o amica, e farò di tutto per far capire che nessuna lo merita.  

Amica non sei sola, parla, racconta, denuncia anche tu. Liberati e liberiamoci.

Dicono che ora sia il kairos. Ora è il kairos.

È il momento giusto per la nascita di un nuovo femminismo, un femminismo che includa anche gli uomini.


Riesco a sopportare meglio il mio dolore per i femminicidi e gli stupri con un sogno: sogno che venga creata un’associazione, a livello nazionale, delle famiglie e delle donne offese e oltraggiate.

Questa associazione, legalmente riconosciuta, potrebbe costituirsi parte civile esercitando una pretesa civilistica all’interno del processo penale.

Questa “costituzione di parte civile” potrebbe avvalersi di avvocate e/o avvocati anche grazie alle donazioni che sicuramente riceverebbe in quantità, la mia compresa.

In un recente articolo, Donne e lavoro, l’Italia resta indietro. Senza indipendenza non c’è libertà, (La Stampa, 27 novembre 2023) Elsa Fornero afferma giustamente l’importanza dell’indipendenza per essere libere. Di quale indipendenza parla? «La libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro», il lavoro retribuito intende. Ma qui si pone un problema, anzi due. Collegare la libertà al lavoro retribuito è vero fino a un certo punto, lo smentisce la vita di quelle donne che dovendo sommare il lavoro retribuito a quello domestico non hanno più tempo e forze per nient’altro. Alla faccia della libertà conquistata. Allora per capire la realtà bisogna smettere di chiamare lavoro solo quello retribuito. Lavoro è “tutto il lavoro necessario per vivere”, come è stato scritto (Immagina che il lavoro, Sottosopra 2009). Tutto il lavoro necessario per vivere è quello che fanno gran parte delle donne, e considerarlo tale dà senso a un modo femminile di intendere e praticare il lavoro, un modo prezioso e indispensabile per mantenere in vita l’umanità e che potrebbe diventare un insegnamento per tutti, specialmente in tempi in cui la guerra mostra i terribili limiti delle concezioni maschili della realtà. Un grande lavoro quello femminile, sì, ma la libertà? Veniamo al secondo problema. Per una libertà non ricalcata sui modi storicamente maschili occorre scostarsi dall’idea di indipendenza solo come indipendenza economica. È un fatto che ieri come oggi anche donne che hanno un lavoro retribuito o un altro reddito proprio continuano a dipendere da uomini, non solo mariti affettuosi o maltrattanti, ma datori di lavoro, compagni di partito ecc. Prima che l’indipendenza economica, dunque, per la libertà delle donne è necessaria l’indipendenza simbolica. In molte l’hanno sperimentata nel femminismo, tutte facendo conto sulle relazioni con altre donne. Cosa vuol dire concretamente indipendenza simbolica? Innanzitutto, non svalorizzare quello che desiderano e fanno le donne se diverso da quello che desiderano e fanno gli uomini, come invece leggo più avanti nell’articolo: «la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi». Ho insegnato per tanti anni in un istituto tecnico turistico e linguistico, frequentato per il 95% da ragazze. Ragazze sottilmente consigliate? Eppure studiavano con interesse e piacere le lingue, la storia dell’arte, la filosofia… Forse il pregiudizio è in chi disprezza le scelte femminili quando non coincidono con quelle maschili. E riguardo alla scienza, ormai studiata e praticata da innumerevoli donne, viene anche il sospetto che l’esigenza di una totale parità di impegno scientifico femminile sia in funzione dell’attuale sistema economico («l’Italia resta indietro»), più che della libertà delle donne.

Non dubito che quello che Fornero scrive venga dalla sua esperienza personale di pregiudizi, discriminazioni, umiliazioni… La capisco e so che queste cose fanno parte della nostra storia. Ma partire da sé non vuol dire assolutizzare la propria esperienza, fermarsi lì nell’interpretazione del mondo per tutte. C’è sempre altro. Per esempio, io che sono della stessa generazione dell’ex ministra ho avuto anch’io un consiglio “sbagliato” ma di segno opposto: il mio professore di matematica mi consigliò ingegneria, non scienze politiche come volevo e ho fatto. E sono diventata femminista per un desiderio di libertà femminile, non di parità con gli uomini. Come moltissime altre non ho «reclamato l’uguaglianza», anche se questa è stata la risposta formale delle istituzioni politiche.

Non mi dilungo, ciò che dico è stato detto e scritto molte volte e da molte donne negli ultimi sessant’anni. Ma l’interpretazione corrente resta quella stereotipata espressa dall’articolo di Fornero: parità, parità, parità! Mi domando se non sia un modo, forse inconsapevole, per rassicurare gli uomini che restano al centro dei nostri pensieri, per fargli credere che quello che vogliamo si misura con i loro traguardi economici e politici, per dirgli che non hanno nulla da temere dalla libertà delle donne. Affinché smettano di ucciderci? Finora non è servito.

In questi ultimi tempi le forme più distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità hanno riempito la cronaca e l’immaginario collettivo. Dapprima la brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, e la conseguente guerra di posizione che ha già causato oltre 200.000 morti. Poi il brutale attacco dei miliziani di Hamas a città, villaggi, installazioni militari e un festival di musica nel sud di Israele che ha prodotto circa 1.400 morti con torture, mutilazioni, abusi e stupri sistematici nei confronti delle donne, oltre al rapimento di circa 240 persone. Per arrivare infine al criminale bombardamento e all’invasione israeliana di Gaza che non ha risparmiato palazzi civili, ospedali, campi di rifugiati, infrastrutture fondamentali per l’accesso a cibo, acqua, elettricità, che ha causato nel giro di due/tre mesi il massacro da 20.000 morti, tra cui 8.000 minori e 6.200 donne.

D’altra parte, per restare più vicino a noi, in mezzo a questi orrori organizzati, registriamo il lungo elenco delle vittime delle violenze “ordinarie” quotidiane e dei femminicidi (circa 109 le donne uccise nel 2023).

Riguardando la lunga lista di femminicidi di quest’anno saltano agli occhi diversi aspetti, tra cui l’età molto variabile dei soggetti, le tante nazionalità coinvolte sia da parte degli autori che delle vittime, il gran numero di regioni interessate, la diversità di mezzi utilizzati per compiere il crimine, i motivi o le occasioni disparate, il fatto che queste violenze colpiscano e coinvolgano donne incinte, figli, parenti, o che implichino talvolta anche suicidi o tentati suicidi.

Cosa hanno in comune tutte queste violenze? Molte donne (e alcuni uomini) hanno chiamato in causa il Patriarcato e la sua cultura, suscitando l’immediata reazione di altri uomini che invece vorrebbero riportare questi fatti criminali a motivazioni psicologiche, alla fragilità o alla debolezza delle persone.

Non c’è dubbio che dentro ai codici del possesso, della gelosia, all’incapacità di accettare la libertà e l’autodeterminazione femminile, al ricorso all’uso della forza e delle armi sia inevitabile ritrovare elementi di una cultura patriarcale che ancora abitua gli uomini a pensare alle donne se non come “oggetti”, quantomeno come “soggetti a disposizione” che sono “amate” e “apprezzate” solo nella misura in cui rispondono al desiderio, ai bisogni e alle aspettative maschili.

Tuttavia, non dobbiamo fare l’errore di accontentarci di uno slogan ma dobbiamo sforzarci di andare più a fondo per capire cosa possiamo comprendere di quello che sta accadendo e quanto le tradizionali spiegazioni siano adeguate al caso. 

Soffermiamoci sul caso di Filippo Turetta e dell’omicidio di Giulia Cecchettin che ha destato un’ondata emotiva particolarmente forte. Complice il fatto che si trattava di giovani, universitari, dalle facce pulite, di famiglie come tante altre nelle quali era più facile riconoscersi e immedesimarsi. Certamente ha giocato anche la dinamica dell’evento. La sparizione, la ricerca, gli appelli dei parenti, la speranza di un lieto fine e invece la prevedibile tragica fine che ha confermato i sospetti più ovvi. Sono state particolarmente importanti in questo caso anche le voci e le parole dei famigliari dell’uno e dell’altra protagonista, a partire da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia che ha puntualizzato: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è». Per lei questi personaggi sono figli del patriarcato che si sentono autorizzati alla possessività e al controllo.

La sorella, dunque, ha invitato a guardare anche oltre i singoli protagonisti, a guardare quanto certi gesti si iscrivano in un ordine di possibilità e di significati che rendono plausibili o quantomeno pensabili certe azioni.

Nel comportamento di Turetta, dunque, possiamo rinvenire pensieri e gesti patriarcali, ma in un contesto sociale e anche culturale che è cambiato e che ci ripresenta motivi antichi in forme più intime e personali.

Le famiglie e i contesti dei due protagonisti non ricalcano le strutture delle famiglie patriarcali, non sembrano riflettere le gerarchie, i modelli tradizionali. Non è la stessa cosa di un clan patriarcale in cui la violenza è espressione di un modello famigliare e sociale rigorosamente definito. Per intenderci non è la stessa cosa del delitto di Saman Abbas in cui la violenza è ordinata e perpetrata da gran parte del nucleo famigliare. Qui il contesto è completamente diverso, non solo la famiglia della vittima, ma anche la famiglia dell’autore è distrutta. Non solo non si riconosce nel gesto ma fatica a comprendere da dove viene.

Val la pena per comprendere la peculiarità del contesto sottolineare le tre voci maschili che per le due famiglie hanno preso parola in quei giorni.

La prima è quella di Nicola Turetta, il padre di Filippo che intervistato dai cronisti ha dichiarato:«È pur sempre mio figlio. Non lo giustifico in niente, per quello che ha fatto. E per questo deve essere giudicato, dovrà assumersi la responsabilità. E penso al papà di Giulia, al quale ci sentiamo vicini. Anche noi siamo pieni di dolore». «Giulia l’abbiamo conosciuta bene. Veniva qua con Filippo, ci vedevamo. Sembrava una coppia perfetta, nessuno riporterà più Giulia. Siamo molto vicini a questa famiglia, e non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto». «Io da padre – ha proseguito ancora Turetta – ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola, né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Con il fratello più piccolo neanche una baruffa. E ora trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile, ci dev’essere qualcosa che è entrata in lui».

Come si nota il padre ha empatizzato con la vittima e la sua famiglia e non ha difeso per nulla il figlio, non ha minimamente accennato alcuna sorta di giustificazione o di scusante. In un’intervista riportata da fanpage.it ha addirittura lasciato intendere che avrebbe quasi preferito «che la cosa fosse finita in un altro modo».

Una seconda voce maschile è quella di Andrea, lo zio della giovane studentessa, che alla fiaccolata per Giulia a Vigonovo si è sentito di abbracciare Nicola, il padre di Filippo Turetta, che partecipava all’evento per ricordare la ventiduenne uccisa a coltellate.

«Ho abbracciato il papà di Filippo, un gesto che lui ha voluto fare lontano dalle telecamere. Lo avevo invitato per farci sentire uniti in questo dolore: noi per la perdita di Giulia, loro nella sofferenza di un figlio che ha provocato una perdita grande. La famiglia non c’entra, non è colpa dei genitori, questo è quello che penso io […] Sono due persone provate con un dolore enorme, forse con un dolore più grande del nostro, ma non sono loro che hanno fatto male a Giulia. Adesso il perdono per Filippo non lo sento, sento pietas per la famiglia perché sono anche loro vittime del figlio».

Infine, c’è stata la voce di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che in seguito al delitto ha raccontato di non aver percepito dei segnali premonitori del pericolo: «Non ci sono riuscito e purtroppo ne ho fatto le spese. Da papà è inevitabile farsi delle domande: potevo fare qualcosa per lei? I primi a colpevolizzarci siamo noi genitori. Ho sempre cercato di preservare la privacy di Giulia, anche perché è sempre stata una ragazza coscienziosa, responsabile, e mi sono sempre affidato al suo giudizio».

Poi ci sono le parole del discorso che ha fatto durante il funerale della figlia, in cui si è rivolto direttamente agli uomini con parole nuove: «Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto».

Come si nota, in questo caso, le figure maschili e paterne coinvolte nella vicenda hanno saputo trovare delle parole diverse dal linguaggio stereotipato e sessista tipico della cultura patriarcale. Non va sottovalutata questa novità.  

Dunque, se il tema è la cultura e l’educazione patriarcale, in questo contesto essa va ricercata a un livello differente più personale e individualizzato che produce una violenza più disorganica, imprevedibile, di risentimento. Nell’autore della violenza, qualcosa è penetrato e ha lavorato in profondità, in forma più sottile e insidiosa, a strutturare un certo tipo di mentalità, a costruire un certo senso di sé e dell’altro, a definire delle aspettative e dei modelli relazionali. Il risultato è qualcosa di vecchio e di nuovo allo stesso tempo, che val la pena provare a evidenziare.

Intanto rispetto al senso di sé emerge una profonda fragilità maschile, il forte bisogno della partner, della donna, l’esatto contrario del mito dell’uomo indipendente. Io credo che questa dipendenza maschile dalle donne, dalla madre, dalla fidanzata, dalla moglie e perfino dalla collega di lavoro, ci sia sempre stata ma finché si era dentro una struttura sociale e famigliare patriarcale solida questa dipendenza non poteva emergere, era protetta dalle sicurezze dei ruoli e delle regole prestabilite. Emerge invece oggi di fronte alla libertà femminile e a percorsi di individuazione e di costruzione di senso più forti e più a fuoco da parte delle donne. Si evidenzia quindi il chiaro bisogno della partner per la propria stabilità, ma una partner, tuttavia non riconosciuta nella sua alterità.

Rispetto al senso dell’alterità, occorre insistere sul fatto che la donna, la partner non è affatto percepita come inferiore, come minore, come qualcosa da educare, sviluppare o proteggere. Al contrario Giulia Cecchettin appare come più autonoma, più matura, più brava negli studi, e persino più felice. Quindi non c’è un senso maschile di superiorità, ma semmai l’opposto, il senso di inferiorità o quantomeno di inadeguatezza maschile. È il maschio che non si sente all’altezza che chiede a lei di rallentare, di aspettarlo, di attendere a laurearsi.

Quindi rispetto al senso della relazione, è chiaro che il contesto non è quello di una relazione patriarcale tradizionale, ma quello di una relazione “democratica”, “paritaria”. La cultura è quella, il modello sociale delle nuove generazioni è quello. Eppure, il maschio non ci sta dentro.

Molti uomini sono abituati a provare affetto e sentimenti dentro a relazioni che controllano, che dominano, che dirigono, ma non in una relazione senza reti. Una relazione libera dove puoi sentire il taglio dell’alterità. Il punto è che senza questa esperienza, questa ferita e la sua accettazione – l’accettazione che l’altra è altra anche quando sta con te – non c’è possibilità di un amore sano.

La questione, dunque, non è solo la dimensione ideologica del patriarcato (che comunque persiste in una parte del mondo maschile), ma piuttosto la dimensione esperienziale e relazionale, l’incapacità di misurarsi fino in fondo con una soggettività altra in quella che Lia Cigarini ha chiamato “relazione di differenza”.

La cultura – almeno in parte – si è evoluta, la società si è andata trasformando, anche se non abbastanza a fondo. Anche se il patriarcato ha perso gran parte del suo riconoscimento e del suo appoggio c’è ancora molta strada da fare per congedarsi veramente dal sessismo e dalla violenza. Il fatto è che non basta cambiare le leggi, occorre lavorare sulle mentalità, sulle aspettative sociali, sui modelli di relazione.

“La libertà delle donne è libertà per tutti” recita l’invito a questa discussione. Questa è stata in effetti anche la mia esperienza, nelle esperienze di gioia e condivisione tanto quanto in quelle di delusione o di separazione. Ma questa libertà non è semplicemente un valore, un principio, ma è un’esperienza, una pratica, una scuola.

Che significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne? Che significa non sentirsi diminuiti, o minacciati, ma fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento – anche quando è conflittuale o dolorosa – un terreno di maturazione per il proprio modo di amare, di sentire e di stare al mondo?

È urgente cominciare a parlarne insieme.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024

Il numero di Via Dogana 3 “È ora di cambiare” è quanto mai opportuno in questo momento storico, la mia vuole essere una breve introduzione che dà alcuni spunti di riflessione a partire dai recenti efferati casi di cronaca e dalla conseguente risonanza mediatica.

Per ragioni contingenti e personali, mi sono ritrovata in quest’ultima settimana a vedere alcuni dei cosiddetti talk show televisivi incentrati sul caso di femminicidio di Giulia Cecchettin, e la parola più diffusamente utilizzata e controversa era patriarcato. Sono rimasta molto colpita dall’approssimazione e superficialità di quello che veniva narrato, e trovo che la stessa cosa succeda sui social e alla radio: vengono espresse posizioni che man mano si radicalizzano per contrapposizione, ma sono per lo più inaccurate. Invece ho trovato molto lucido e prezioso il contributo di Ida Dominijanni su Internazionale, dal titolo “Il campo di battaglia del patriarcato vacillante”[1], che tutte e tutti dovrebbero leggere, come pure un’intervista, sempre a Ida Dominijanni, pubblicata sull’Unità, e intitolata “Il patriarcato è ferito, per questo è più feroce”[2]. In estrema sintesi, il punto che voglio sottolineare è che si tratta di saper nominare quello che sta capitando per far ordine, e la parola giusta per il nostro imbrogliato presente è post-patriarcato.

Il n° 23 della rivista cartacea Via Dogana aveva come titolo “La fine del patriarcato”, è uscita a settembre del 1995, e Luisa Muraro nell’articolo “Salti di gioia” scrive: “questi sono i tempi della fine del patriarcato, dopo quattromila anni di storia e chissà quanti di preistoria. È finita! È finita! È finita!”. Ma cosa precisamente è finito? È stato interrotto il secolare destino prescritto per le donne, la legge e il desiderio maschile hanno smesso di essere riferimento e misura per le donne. In altri termini, le vite femminili sono diventate ricerca di senso in prima persona, le relazioni tra donne sono diventate visibili nello spazio pubblico. È chiaro quindi che bisogna parlare di post-patriarcato, perché, se non è finito il potere maschile e la sua ricerca da parte degli uomini, è cessato l’assoggettamento delle donne, è terminato il credito che le donne davano al sistema socio-simbolico rappresentato dal patriarcato. Ida Dominijanni efficacemente dice che nel patriarcato le “donne non c’era neanche bisogno di ammazzarle, perché erano addomesticate”. E continua dicendo “Adesso abbiamo un patriarcato ferito, ferito dalla libertà femminile guadagnata, che quindi reagisce a questa libertà in modo efferato”.

Se poi pensiamo alle guerre in corso, il quadro della mascolinità si tinge ancor più di fosco. Sui social spopolano i modelli più violenti e machisti, gli stupri e le violazioni dei corpi femminili sono armi trasversali di una guerra generalizzata.

Torno al femminicidio di Giulia Cecchettin, perché ritengo sia paradigmatico di elementi retrivi e fatti del tutto nuovi. Nella narrazione piena di sproloqui sul patriarcato, una certa vulgata di destra lo rubrica a fatto legato alla criminalità, a un malessere individuale, un raptus e un gesto di follia. Elena Cecchettin, la sorella della vittima, ha creato una cesura nella narrazione della violenza sulle donne[3], mostrando chiaramente il problema sociale e politico dei femminicidi, ovvero il problema di un maschile che non sa stare alla misura della libertà femminile, che non può sopportare l’indipendenza delle donne da desideri e imposizioni di un lui debole e in affanno, e ciò vale a tutte le latitudini e in tutti i sistemi sociali, quelli dove le donne non hanno diritti e quelli dove le donne sono più emancipate. Il punto nodale non è quindi il patriarcato, inteso come sistema socio-simbolico di dominio dell’uomo sulla donna. La vera questione è la cultura patriarcale, alimentata da guerra e violenza, che fissa l’identità maschile in una tradizione anacronistica.

Il movimento #MeToo ha fatto un lavoro importante mostrando in quale misura l’atteggiamento maschile che avanza soverchianti pretese, incurante del desiderio di lei, permei la nostra cultura. Ma questo non basta: smascherare, svelare, denunciare non è abbastanza per attuare una modificazione del sistema. Pensiamo alla frase agghiacciante pronunciata dall’assassino durante l’interrogatorio, così come la riportano i media: “Non accettavo che non fosse più mia”, la quintessenza di una cultura del possesso e del dominio. E qui si innesta anche il discorso del neoliberismo, inteso come quella forma specifica di biopolitica dove la dimensione sociale, politica ed economica implodono in un sistema che è tutt’altro che repressivo, al contrario, è un sistema che produce, incrementa e risignifica la libertà degli esseri umani secondo il codice del mercato. Se per le donne la questione cruciale è l’assimilazione della libertà femminile da parte del neoliberismo, e per approfondire questo accenno rimando al libro curato da Stefania Tarantino e Tristana Dini Femminismo e neoliberismo[4], per gli uomini il punto critico è l’evaporazione del padre e della sua Legge, ovvero la sparizione dell’interdizione a favore dell’ingiunzione al godimento, del godimento immediato dell’altra ridotta a oggetto. A questo proposito, scrive Ida Dominijanni: “Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego così insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme: “i nostri bravi ragazzi”, insospettabili fino a un attimo prima di estrarre un coltello dallo zaino”.

In questo quadro, tuttavia, abbiamo visto sorgere un grande desiderio di politica delle giovani donne, non solo nelle manifestazioni del 25 novembre, ma anche in un fiorire di iniziative di collettivi e gruppi di giovanissime, in cui si mette in parola l’esperienza, si fanno circolare idee, si condividono gesti di discontinuità. Ne voglio citare una, il lavoro fatto da ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, la rivista mensile del Liceo classico Manzoni di Milano. In occasione del 25 novembre, hanno lavorato al progetto Morgana, producendo un podcast con le testimonianze raccolte tra le ragazze della scuola[5] e realizzando interviste ai professori della scuola, sulla scorta della discontinuità che il caso di Giulia Cecchettin sta evidenziando. Martina Ghanbari, che frequenta il secondo anno, ha svolto le interviste con altre ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, redatte poi in un fascicolo che è stato distribuito a tutti gli e le studenti della scuola. Riporto due passaggi significativi:


“Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai propri studenti?

Professor Sivelli: […] Se sono maschio, docente o studente che sia, e mi conosco sia dal punto di vista morale sia nei rapporti col genere femminile, mi ritengo di conseguenza esonerato da questo discorso perché tanto “io non sono così, lo so”. Non dovremmo mai considerarci immuni. Solo se siamo costantemente minacciati, solo se pensiamo che può accadere anche a noi, solo se facciamo tutti un continuo lavoro di introspezione, si può pensare a un cambiamento. Non lasciate che gli eventi vi vengano messi davanti agli occhi, sentiteli come problemi vostri, che incombono anche sulla vostra identità di maschio”.

È notevole il passaggio dalla ferma certezza del proprio fondamento morale, che dispensa da qualsiasi implicazione e mette l’uomo nella consueta posizione giudicante, a una inedita vulnerabilità, che domanda la presa di coscienza in prima persona, per tutti e ciascuno.

“Hai mai assistito a episodi di violenza? Come hai reagito?

Professor Morelli: […] Quello di cui mi sono stupito è che persone che io reputavo civili, educate, rispettose delle regole del prossimo, dei rapporti, tendenzialmente anche abbastanza consapevoli dal punto di vista sociale[6], hanno poi manifestato atteggiamenti inaspettati e inesplicabili nei confronti della propria compagna o della propria partner: di non accettazione, di rifiuto e di incapacità di accettare l’esito di una relazione amorosa che non mi sarei mai aspettato da loro. Stiamo parlando di violenza verbale e, nella peggiore delle ipotesi, di stalking, che sono manifestazioni odiose del proprio modo di essere. Tutto è concentrato in quel sottobosco di relazioni tossiche che rendono ancora più grave il problema di cui parliamo. Parliamo della normalità, non stiamo parlando di un ragazzo che uccide una ragazza”.


Lo stupore iniziale lascia il posto alla consapevolezza che si tratta di una violenza endemica e strutturale alla “normalità” dei rapporti tra i sessi.

C’è un filo di speranza, se la percezione che sia ora di cambiare diventa moneta corrente tra gli uomini e se questo dolore collettivo riesce a essere un efficace agente di cambiamento.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024

Nei giorni scorsi, durante le manifestazioni che si sono tenute nelle piazze d’Italia contro la violenza sulle donne, una frase è spiccata su tutte: “Siamo marea”. Marea sono state le oltre 500.000 persone che hanno partecipato a Roma il 25 novembre, e migliaia di altre in diversi luoghi pubblici del Paese, come qui a Milano, dove si sono riunite 30.000 persone. Marea sono le tantissime voci che si sono sollevate con rabbia nelle strade, ma anche sui media tradizionali e nelle fitte comunità virtuali sui social.

Ma andiamo alla radice di questa parola che sta identificando un fenomeno che mai come in questo momento ho sentito così potente, quello che chiamiamo cambio di civiltà. Marea è il movimento delle acque del mare che periodicamente due volte nelle ventiquattro ore del giorno gonfiano, montano e si espandono sulle rive. Dunque marea implica un moto, sempre destinato a ritornare.

Quando si parla di femminismo all’interno della storia, si parla di ondate. La suddivisione cronologica della storiografia femminista in termini di ondate non ha trovato un riscontro unanime, ma come scrive la storica francese Christine Bard, “Un’ondata può essere ricoperta da un’altra senza scomparire”.[1] Pur con le differenze e le frammentazioni all’interno del movimento che conosciamo, le giovani femministe che abbiamo visto nelle piazze in questi giorni mai come in questo momento sembrano unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando pienamente l’eredità delle “storiche” e prolungando, o forse dovremmo dire ridando vita da un nuovo punto di vista alle lotte condotte negli anni ’70.

I fatti recenti smentiscono l’idea del post-femminismo che circolava tra noi giovani donne solo qualche anno fa, nella convinzione che la libertà è stata raggiunta una volta per tutte. In queste settimane si è detto anche che il patriarcato è ancora qui, è stato chiamato a gran voce da donne arrabbiate, donne ferite, donne che ne hanno abbastanza. È un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che si nasconde nelle relazioni personali e nei luoghi di lavoro, un patriarcato che, marea dopo marea, ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. L’uomo che non sa più come prenderci. L’uomo che si sente in competizione con le donne. L’uomo che collabora fintanto che a farla da padrone è lui. Dall’ego-soggettivismo superomista alla prigione a cielo aperto della “città delle donne”. Dal furore alla disfatta. Povero uomo.
Come ci dicono le piazze recenti, tutti gli uomini sono responsabili. Io penso sia importante ribadire che tutti gli uomini sono responsabili delle azioni e dei comportamenti che condurranno da questo momento in avanti, singolarmente e collettivamente, perché qualcosa ora è davvero cambiato e bisogna guardare avanti per costruire un disegno comune. La dimensione collettiva sembra darci una prospettiva futura in questo momento, in cui la dimensione soggettiva è spesso associata a quella individuale nel senso di individualista, di solitaria, egoriferita, come la dimensione digitale dei nostri profili, come la solitudine che ognuna di noi sente quando si tratta di affrontare i problemi veri, solitudine che forse sentono anche gli uomini, frutto di un’impotenza generazionale. 

Eppure credo che è proprio nella dimensione soggettiva, intima e personale che il cambiamento potrà avvenire. Certo cosa significa “personale”, che sentiamo nello slogan femminista “il personale è politico”, nell’epoca in cui la dimensione pubblica e privata si articola attraverso degli account? Forse bisognerebbe partire proprio da qui, cosa è personale per noi? Quell’io singolare proprio mio di Patrizia Cavalli, titolo di una sua raccolta del ’92, in cui riaffiora ora la poesia “Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo”.

Personale è forse partire da sé, come abbiamo imparato a fare qui in Libreria, per scoprirsi sole e incomplete senza il sé dell’altra e dell’altro, personale è vuoto senza lo sguardo di chi ci guarda fuori da noi. Noi donne questo lo sappiamo, e il nuovo bisogno di ricreare comunità reali e virtuali che siano uno spazio di parola alternativo ci racconta proprio questo. In queste settimane anche qui a Milano sono nati nuovi spazi di condivisione anche in luoghi che non sono deputati a incontri femministi. Questi momenti di autocoscienza in alcuni casi hanno scosso molte ragazze, hanno preso coscienza della violenza subita da parte degli uomini negli ultimi anni, violenza fisica, verbale, emotiva, economica. Questo ha generato anche atteggiamenti di chiusura verso gli uomini, di inevitabile diffidenza, perché il nemico potrebbe essere tra noi, a casa, al bar o in ufficio. Al netto della positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze, questa chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale.

Le relazioni di potere contro cui combattiamo ogni giorno sono la radice di molti dei problemi che viviamo in prima persona. Sono relazioni, non corpi astratti a cui diamo il nome di “società”, come se in qualche modo fosse compito sempre di altri. Queste relazioni si basano sull’idea patriarcale di controllo, controllo dell’uomo rispetto al margine di azione di una donna, ma a volte anche di donne rispetto ad altre donne. Controllo viene dalla parola francese contrôle ovvero contro registro, il che ci riporta alla vigilanza, a un occhio burocratico, ciò che appunta lo sguardo. Dello sguardo molto ci ha detto Irigaray, e del potere maschile di guardare, del male gaze, sentiamo il peso in ogni momento. Lo sguardo maschile appunta ciò che facciamo quando ci vestiamo in un certo modo, quando ci mostriamo sui social, quando esprimiamo la nostra sessualità, mentre lavoriamo. Lo sguardo maschile ruba. Lo sguardo quantifica il nostro potere di scambio in quanto merce-corpo pensante e brillante nell’economia liberista.

È interessante in questo senso quanto ha detto nella conferenza del progetto Elles a Paris Photo lo scorso novembre la curatrice Nathalie Herschdorfer: che forse non dovremmo più parlare di female gaze in opposizione e in risposta allo sguardo maschile, ma che abbiamo bisogno di altre parole. Di parole nuove per dire di noi, e per parlare con gli uomini. Fintanto che le nostre parole non saranno diverse per raccontare cosa vogliamo e come lo vogliamo non assisteremo alla svolta che intravediamo.

Mi piacerebbe che la nostra sacrosanta rabbia, che in questi giorni ha usato anche parole bellicose, si facesse innanzitutto produttiva, produttiva di un cambiamento che è qui nelle nostre mani e che dobbiamo cercare di attualizzare mostrando agli uomini che un dialogo è possibile. Che si può imparare con noi, ora. Che il mansplaining manifesto o meno è finito. Che il nostro approccio alle emozioni può rendere le loro e le nostre relazioni migliori. Che nuove pratiche nel mondo del lavoro e del fare arte sono a beneficio di tutti. Che anche per gli uomini è arrivato il momento di partire da sé e di chiedersi con noi: quando ci sentiamo davvero libere e liberi?

Anch’io come tutte le donne ho avuto a che fare con atteggiamenti violenti da parte di uomini, nelle relazioni e nel lavoro. Si è trattata di violenza psicologica e a volte economica. Ma non voglio dire che l’ho subita, perché non è stato così: ho capito, ho reagito, ho lottato. Ho creato uno spazio mio di lavoro e di vita in cui i vecchi metodi basati sulla sopraffazione non valgono più. Ancora oggi mi devo interfacciare con uomini che cercano di sminuirmi, che fingono di non vedermi anche se guardano, che cercano di togliere valore alle mie idee perché tutto si basa sul principio che vali solo se dai, se produci, e se ti tolgono quello non vali più nulla neanche tu. E invece prima ancora di dare, ci sono. Esserci basta. Starci. Riversarsi nel mondo come marea, senza contenersi. Il nostro pensiero e il nostro sentire non sono disgiunti da noi e hanno valore nello scambio, non nella valutazione. Agli uomini dico, questa sono io, e non ci sarà nessun diritto, nessuna legge, nessuna simmetria a farmi sentire amata. Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024

Domenica 3 dicembre 2023, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano

Le guerre in corso, che possono diventare feroci nei confronti di donne e bambini, e l’aumento di stupri di gruppo e di violenze contro le ragazze e le donne anche nel nostro paese, ci mostrano una continuità tra tempo di guerra e tempo di pace. Già nel 1970 il manifesto di Rivolta Femminile diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Oggi questo è più che mai evidente, soprattutto tra giovani, dove il rapporto tra i sessi è attraversato da paura, sfiducia, vendetta.

Ma sempre oggi, lo slogan Donna, vita, libertà, gridato in Iran da giovani donne e giovani uomini insieme, testimonia che la libertà delle donne è libertà per tutti. Come dare seguito, allora, al cambiamento che questa presa di coscienza richiede? Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono da una modificazione che sentiamo urgente? Quali responsabilità si assume ciascuno di loro nei rapporti concreti con i propri simili e con le donne? Vorremmo interloquire con uomini, soprattutto giovani, su questi punti non più rinviabili, per avviare un necessario cambio di civiltà.
Introducono la discussione Laura Colombo, Giorgia Basch e Marco Deriu.

Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Sono stata alla manifestazione di Milano il 25 novembre contro la violenza sulle donne con un cartello che diceva l’opposto di ciò che molte dicono e scrivono, e alcune sostengono anche in ambiente universitario: che il movimento LGBTQ+ ci rappresenta tutte e tutti. Insinuando così un potere di rappresentanza che mi è odioso perché pensiero del tutto maschile. È una violenza per me insopportabile, ora che ho imparato a riconoscere la violenza che non è Legge da imparare. Ho impiegato cinquant’anni a riconoscere la violenza che da bambina mi sembrava la Legge familiare o sociale che dava il giusto apprendimento. La devo additare e combattere!

Mi preoccupa grandemente che si manchi di elaborazione riflessiva nella protesta e che la si dia in mano al maschilismo mediatico, il maschilismo sempre vincente nella politica rappresentativa, che sia nei parlamenti o nelle strade. C’è invece una disponibilità piacevolissima nelle persone meno giovani e meno organizzate a considerare la violenza della politica, quella dell’economia.

La piazza di Milano il 25 novembre era immensa e molto pacifica, molto riflessiva nella disposizione a considerare la violenza contro le donne; la stessa disposizione che in questi anni considera la violenza della guerra in tutti i luoghi dove i conflitti economici e politici non sono analizzati e gestiti da pratiche di contrattazione verbale e diventano distruzione e morte. Era una piazza piena di giovani padri e madri con bambini. Quella popolazione che fa lo sforzo della comunicazione tra differenti e ci fa progredire, quella su cui investire.

Lì mi erano tutti amici, il mio cartello era il loro, per questa ragione dico che c’è un potenziale di capacità di dirsi ed essere solidali enorme, non buttiamolo nel fosso della contestazione non sapiente. Nel fosso di quell’esasperare l’inimicizia verso la scienza e la politica, solo perché l’economia le influenza e investe la sua potenza nel far sì che si prendano gioco di noi; dobbiamo distinguere tra la scienza e la politica asserviti al guadagno illimitato e quelle con le quali possiamo comunicare e che ci giovano.

Il mio cartello diceva:

«La più grande violenza contro le donne e i bambini è usare corpi di donne per diventare padri di figli a cui si nega la madre. È violenza patriarcale. 

Gli uomini devono riconoscere l’altro da sé: le donne.

Con la storia di silenzio e censura che abbiamo noi donne, privarci della desinenza in -a, che da pochi anni ci dava visibilità, è un crimine politico. Chiunque voglia dare visibilità ad altre censure usi la stelletta o altro, ma in aggiunta alla -a, non in sostituzione, così dimostrando di non voler cancellare le donne.

Noi donne non siamo a disposizione degli uomini, non usate il nostro nome: il femminismo è interesse a valorizzare le donne. Non ci lasciamo cancellare.»

Da anni facciamo parte di una Comunità di storia vivente, prima quella di Milano e dal 2019 di quella di SAMI (Savona-Milano). La storia vivente è un’invenzione simbolica di Marirì Martinengo la cui pratica prende avvio nel 2006 dopo la pubblicazione del suo libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta»[1] e il riconoscimento da parte di María-Milagros Rivera Garretas del suo portato innovativo per la storia.

La pratica della storia vivente mantiene elementi dell’autocoscienza che alcune di noi negli anni Settanta hanno praticato.

Come allora si svolge in un piccolo gruppo di donne che si incontra periodicamente e che mette al centro il partire da sé per l’espressione dell’esperienza di ciascuna. C’è il desiderio di interrogarsi a fondo, in relazione con le altre che ascoltano e pongono domande perché sentono risuonare in sé le tue parole. Sono le altre, in una circolarità di fiducia, che ti danno misura, aiutano a far emergere il tuo vissuto e a trovare le parole per raccontarlo. Con la pratica della storia vivente cresce la coscienza dell’energia che le relazioni duali portano nel gruppo. Quello che si indaga sono i nodi personali che ciascuna si porta dentro e di cui non ha mai parlato, che l’hanno imbrigliata perché l’interpretazione corrente era patriarcale, falsa e non corrispondente alla propria esperienza.

Per trovare un simbolico che la rappresenti cerchiamo di individuare nel nostro vissuto una “immagine guida”, cioè la visione di una situazione concreta in cui si è creato il groviglio. E ritornandoci in «un percorso a spirale, creiamo un doppio movimento: un’immersione profonda in sé che faccia affiorare una verità soggettiva e la offra alle altre che, riconoscendola e aiutando a illuminarla, permettono di renderla pubblica»[2].

È l’atto trasformativo che libera la singola e fa nascere una nuova storia. Se come si dice «tutta la storia è storia contemporanea» perché fa storia ciò che interessa al presente, la storia vivente non pone più al centro il potere e le dinamiche sociali, ma come scrive María-Milagros Rivera Garretas «fa la rivoluzione di dire e mostrare che ciò che interessa al presente, a ogni presente, è il sentire dei vissuti di donne e uomini che viviamo nel mondo e sono vissuti costitutivi dell’essere»[3]. Da quando i nostri vissuti non sono più deformati o annullati da interpretazioni ideologiche, camminiamo più leggere e incisive nel mondo.


[1] Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta, ECIG, Genova 2005

[2] Comunità di storia vivente diMilano (a curadi), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, p.126

[3] https://www.libreriadelledonne.it/approfondimenti/storia_vivente/storia_vivente_contributi/la-storia-vivente-lautocoscienza-e-laltra/


Noi abbiamo puntato su questo lavoro che è lungo e dura – come dice Lia – quello che deve durare. (Margherita Tosi)

Oltre vent’anni di gruppo di autocoscienza: da dove è nato? Perché ancora? E come lavora? Facendo cosa?

Piccolo gruppo significa dalle cinque alle dieci-dodici persone: così i gruppi originari, così anche il nostro. Avvicendamenti nel corso del tempo: uscite, nuovi ingressi e anche morti. Incontro una volta al mese a rotazione nelle nostre case (ma per tanti anni, fino alla sua chiusura, ospiti del Circolo Cicip e Ciciap), i rapporti tra noi sono amicali, ma con diversi gradi di intensità, non c’è chi guida, il tema o emerge spontaneamente perché ha fatto irruzione nella vita di qualcuna, o segue il filo della lettura di un libro o di un discorso di attualità che ci coinvolge.

Perché ancora l’autocoscienza? Tutte noi, seppure con diversa intensità, siamo in relazione politica con la Libreria delle Donne di Milano. In Libreria si produce pensiero e molte cose vengono in mente dopo l’incontro («In Libreria mi abbevero, ma non mi metto in gioco in prima persona»). Il gruppo di autocoscienza permette più libertà, ed è quel momento in cui si attua quell’attività di ruminatio che, nella tradizione cristiana, segue l’ascolto della parola evangelica e precede la meditatio.

Questa ruminazione non può essere individuale, necessita della presenza delle altre.

L’autocoscienza è per noi una pratica di “pensare in presenza”, come spiega bene Chiara Zamboni nel suo libro. La presenza delle altre che ascoltano, accolgono, “ruminano” il nostro pensiero, lo confrontano con il proprio, lo restituiscono modificato (anche attraverso la discussione e il conflitto) ci aiuta ad ancorarci alla realtà, ad evitare il pensiero solipsistico, autoreferenziale.

Questa è per noi l’attualità, il valore intramontabile della pratica di autocoscienza.

Nessun tema in questi anni ci è stato estraneo: rapporti tra di noi, con le donne, con gli uomini (il loro simbolico, la democrazia, la guerra), il rapporto con la madre, le/i figlie/i e i/le nipoti; libertà/emancipazione; il desiderio femminile; il lavoro; la politica seconda; il pensiero della differenza nelle diverse pratiche politiche di ognuna; il silenzio, l’autorità, la parola pubblica in relazione con la propria esperienza; il rapporto con la cura, il corpo, la depressione, la malattia, il covid, la morte, elaborare il lutto di chi non c’era più, il rapporto col divino…

Non abbiamo mai dato un nome preciso al gruppo: lo definiamo gruppo di “autocoscienza alta”, perché ci riferiamo sempre al pensiero di altre donne (qualche volta anche uomini) che hanno scritto o detto. Nel corso degli anni abbiamo letto scritti di Diotima (Muraro, Zamboni, Cosentino, Tommasi, Sartori, Faccincani, Buttarelli…), Lonzi, Butler, Cigarini, Lispector, Ivana Ceresa e la Sororità di Mantova, Danielle Quinodoz, Dominijanni, il mito di Didone, gli scritti del gruppo Vanda, Irigaray, De Cesare, Elena Ferrante (a cui abbiamo anche scritto, senza risposta). La lettura è sempre finalizzata a capire meglio noi stesse attraverso il pensiero delle altre: partire da sé per andare verso le altre, partire dalle altre per tornare a sé. Questo il movimento ondulatorio dell’autocoscienza.

Per me il gruppo è anche stato poter essere fragili, deboli, incapaci, non performanti, non essere giudicate e non sentirsi fuori posto. Nel gruppo possiamo essere così come siamo e a partire da lì andare avanti insieme, non per cambiarci ma per avere altri punti di vista: anche i fallimenti e le schivate possono andare bene.

Per me il gruppo è una necessità, non un di più. Confrontarmi con le altre mi costringe ad essere meno generica e mi aiuta a mettere a nudo il mio vero desiderio, a riconoscerlo e a prendermelo sulle spalle. E poi c’è il piacere dello stare insieme, del ritrovarsi a condividere le esperienze di vita con tutte le loro gioie e tristezze.

Il desiderio di trasformazione è ciò che mi ha stimolato nell’iniziare un percorso nei gruppi di autocoscienza negli anni settanta. Allora c’era anche la determinazione di voler cambiare il nostro mondo di relazioni (tutte le relazioni!) e questo moltiplicava per mille il coinvolgimento, anche emotivo… Oggi il meccanismo per cui funziona ancora è legato ad una visuale più ampia, ma partendo sempre dalle nostre esperienze diversificate e più mature.

Quello che per me ha funzionato molto bene in tutti questi anni è stata la capacità di passare con scioltezza dalla lettura e discussione di testi scelti al problema personale “urgente”. Il rapporto con le figlie è stato messo a tema molte volte, con dolore, preoccupazione, scambio, sostegno e molta confidenza.

L’esperienza del gruppo di autocoscienza mi ha progressivamente allenata a riflettere sull’uso delle parole, nell’esprimermi il più possibile vicino ai sentimenti, ai vissuti, alle emozioni che emergono in presenza delle altre. Parole sdoganate dal linguaggio corrente, distratto o condizionato dai contesti più disparati che sentiamo estranei. Un allenamento per me importantissimo.

Concludiamo con le parole di Margherita Tosi, che è sempre con noi anche se ci ha lasciato qualche anno fa:

Questo gruppo è un prodotto dei rapporti politici tra donne. Non mi sento pronta a essere lasciata sola; questo gruppo è piccolo, ma importante. Noi non siamo sul fare: articoli, viaggi, progetti. Vuol dire che c’è qualcos’altro… Il desiderio individuale è già politico? Sì, se è un vero desiderio.

Maria Castiglioni, Lina Cattabeni, Paola Mattioli, Raffaella Molena, Cristina Rossi

Ero d’accordo con Vita Cosentino che chiedeva una discussione su come è nata l’autocoscienza come forma politica dopo che nel 1970 sono arrivati in Italia i libri e i documenti delle americane.

Io sono d’accordo se oggi si parla di Carla Lonzi perché è stata fondamentale. Ma qui si dovrebbe discutere dell’autocoscienza come forma politica delle donne. Non c’era solo Rivolta femminile. Nascevano gruppi di autocoscienza in tutta Italia. A Milano persino nelle fabbriche. Ricordo tra queste la Face Standard e la Sit Siemens che hanno scritto dei testi che abbiamo pubblicato su Sottosopra.

Bisogna dire che c’era sì il gruppo di Carla Lonzi ma ce n’erano centinaia in tutta Italia.

E quindi partirei da lì, da questa enorme diffusione che si era verificata in tutta Europa.

La parità è il contrario perché ci aggreghiamo a un simbolico maschile.

Sono inoltre d’accordo con Silvia Motta quando dice che il movimento delle donne con la sua specifica forma politica dell’autocoscienza ha avuto una grande spinta in una società che a quel tempo era favorevole in generale al cambiamento.

L’autocoscienza ha avuto un’ottima idea, molto intelligente, cioè si è sottratta ad ogni giudizio maschile: ci riunivamo nelle case e questa idea ha traumatizzato tutti i vari compagni di lotta del passato. A me uno ha detto: «Ma come, tu che sei stata segretaria provinciale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI) adesso ti riunisci nelle case in un piccolo gruppo?». E infatti vi ricordate che c’è stata una famosa prima pagina del Manifesto intitolata La femminista se ne va.

Quindi quello che ha detto Silvia Motta è giusto. Era proprio un altro tempo dove anche gli uomini studenti e operai erano in movimento.

Lo aveva già sottolineato in una riunione Luisa Muraro e ripreso da Giordana Masotto: erano altri anni, dove il cambiamento sembrava a portata di mano. Poi, dopo l’incontro con le francesi di Psychanalyse et Politique di Parigi e in particolare con gli scritti di Antoinette Fouque, molte di noi hanno fatto pratica dell’inconscio e poi l’affidamento ad un’altra donna per realizzare il proprio desiderio. Infatti, il bello della politica delle donne è quello di inventare pratiche mantenendo “il partire da sé e la pratica di relazione tra donne”.

Oggi abbiamo un problema, secondo me di comunicazione. Dobbiamo inventare il linguaggio da cercare e da usare, soprattutto con le nuove generazioni. Io penso che si dovrebbe su questi temi fare per prima cosa un Sottosopra perché quello è uno scritto che ha qualcosa di più. Quando lo si fa, incide perché è letto e discusso da molte. Oggi è un problema di linguaggio, cioè la nostra pratica politica come la metti in parola? Chi è che non parte da sé nelle riunioni della Libreria e in generale delle donne? Sempre una parte da sé.

Siccome sappiamo, e molti uomini l’hanno già capito, dopo il disastro della politica maschile (Il silenzio del noi, di Niccolò Nisivoccia), che quella del partire da sé e della relazione è una forma politica viva ed efficace, per prima cosa facciamo un Sottosopra che ne dia conto. La questione è proprio quella di trovare nuove parole e cercare di avere sempre più luoghi aperti sulla strada (c’è un nostro antico testo intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi).

L’entusiasmo generale per la circolazione rinnovata dei testi di Carla Lonzi rilancia anche l’interesse per la pratica dell’autocoscienza, ma non si tratta solo del ritorno di questa “madre di tutte noi”, perché la parola “autocoscienza” non se n’è mai andata veramente dall’ambiente femminista da quando se ne sono sentiti gli effetti politici e soggettivi, a partire dagli anni ’70 in poi.

Tuttavia, ci si chiede se si sa veramente praticare quell’autocoscienza che è diventata quasi un oggetto mitico del cammino femminista. Non so come veniva pratica dal gruppo di Boston che ha scritto Noi e il nostro corpo, ma so come è stata praticata radicalmente nella comunità in cui ho vissuto molti anni della mia vita, la Comunità Filosofica Diotima, ed è per questo che sono perplessa a sentirne parlare con una certa superficialità da alcune, da altre con il giusto tentativo di attualizzarla, da altre ancora non sapendo proprio di cosa stanno discutendo. Se c’è un atteggiamento che non si può tenere di fronte alle pratiche, a tutte le pratiche degne di essere tali, è quello dell’opinione, del “per me è così, per noi è colà”. Le pratiche di cui è intessuta la politica delle donne sono ricavate da osservazioni dell’esperienza, da sistemazioni teoriche elaborate in relazione, dalla possibilità di replicarle in contesti scelti e dalla comprovata efficacia trasformativa.

Ho già toccato il punto cruciale: le pratiche politico-filosofiche sono tali perché hanno la potenza trasformatrice desiderata nei contesti e nelle relazioni in cui si svolgono concretamente. Hanno la potenza di smuovere i blocchi, di tenere in ordine le relazioni, di accompagnare le circostanze nelle quali si mostrano adeguate. Si possono perfezionare, correggere, potenziare, ma con il discernimento necessario. L’opinione proprio non c’entra, letteralmente. Scriveva anni fa Manuela Fraire, psicoanalista, nel Lessico politico delle donne: teorie del femminismo (Fondazione Badaracco-Franco Angeli): «Con pratica dell’autocoscienza facciamo riferimento al principale strumento che il Movimento femminista si è dato in questi anni per un’analisi e un intervento nel reale […] L’esperienza dell’autocoscienza non è un processo linearmente codificabile e teorizzabile. È piuttosto un quantum di pratiche da cui possiamo osservare come la presa di coscienza passi attraverso la costruzione di una teoria (non separata da una prassi specifica), che si trasforma attraverso le fasi storiche e le diversità delle donne che si aggregano in uno spazio collettivo, e che non vuole essere perciò solo miglioramento della vita personale di ciascuna».

Questo avvicinamento alla complessità di pratiche che compongono l’autocoscienza è esattamente corrispondente alla mia particolare esperienza di “costruzione di una teoria non separata da prassi specifiche” in Diotima. E, naturalmente, dalle indicazioni di Manuela Fraire si ricava anche la vocazione politica dell’autocoscienza riguardante la capacità di leggere la realtà e agire in essa, scongiurando la riduzione a cui andrebbe incontro l’autocoscienza se servisse solamente al “miglioramento della vita personale”. Da tutto questo mi pare si ricavi chiaramente il rigore da tenere nella pratica dell’autocoscienza, e che questo rigore debba essere custodito da una donna a cui si riconosce l’autorità necessaria a orientare il lavoro, durante il quale occorre orientare anche i conflitti eventuali perché non diventino distruttivi. È quello che ha tentato di fare Carla Lonzi agli albori dell’autocoscienza in Italia, nel contesto di un gruppo di Rivolta in cui però allignava quell’atteggiamento distruttivo che lei ha nominato come auto-inferiorizzazione. A questo punto, dovrebbe essere più facile comprendere perché l’autocoscienza femminista richiede radicalità e rigore: non conduce solo alla conoscenza di sé, non indica questo l’ingannevole “auto”, ma piuttosto conduce alla trasformazione della relazione con la realtà data, fino a che anch’essa possa trasformarsi grazie alla presenza del soggetto politico imprevisto: le donne che sanno fare autocoscienza.

Collegato al discorso sull’autocoscienza c’è quello sul simbolico, come ha riferito Lia Cigarini anche nell’ultima redazione allargata di Via Dogana Tre, di più, è la strada che lei scelse di imboccare fin dall’inizio col suo gruppo.

Era la fine degli anni Sessanta, anni in cui i capelli lunghi e le gonne corte, gli hippy, i Beatles e molti altri, sono stati i portatori di un nuovo simbolico che è arrivato in modo imprevisto, era nell’aria, sgorgava e scorreva per le strade, ha travolto tutti e ha modificato la società.

Qualcuno deve aver osservato e studiato, si sa che il mercato è veloce a cogliere le novità e capire come sfruttarle al meglio. Già l’american dream degli anni Cinquanta e Sessanta del ’900 aveva costituito un dispositivo simbolico potente, che mobilitava e motivava moltitudini di lavoratori, desiderosi di dotarsi degli oggetti di status come l’automobile, la televisione eccetera. Ma il salto di qualità avviene nel 1984, quando il fabbricante americano di scarpe sportive Nike esce con una campagna pubblicitaria incentrata sul campione di basket Michael Jordan, per promuovere una nuova scarpa e… magia, tutti i giovani ragazzi di colore, gran parte dei quali non sente di avere un futuro nella società razzista americana, comprano quelle scarpe e sognano di diventare un grande campione vincente, ricco e famoso. In questo caso, si tratta di una campagna pubblicitaria studiata a tavolino che ha prodotto un simbolico strumentale alla vendita delle scarpe e ha creato una modificazione nella società.

L’importanza del valore che si dà alle cose, il senso che si dà alle azioni, l’interpretazione del mondo, insomma la sfera del simbolico, è così potente da spingere Naomi Klein a scrivere il libro No logo, pubblicato nel 2000, dove sostiene che il capitalismo non investe più nella produzione di beni (spostata dove costa meno), ma nella costruzione del brand e dei valori immateriali legati al marchio.

Torniamo a noi. Oggi è risaputo che la dimensione del simbolico è un campo di battaglia molto affollato: vi troviamo giovani youtuber che cantano rap sul loro disagio, politici come Salvini che hanno una capacità di inventare slogan che poi hanno corso, donne cooptate e messe ai vertici delle piramidi del potere per farle rientrare (le piramidi) nel paesaggio contemporaneo.

Così come è affollato il web, il mezzo oggi imprescindibile che supporta e trasporta le idee, le parole, i simboli. Affollato ma non impenetrabile e la Libreria delle donne, con la sua ricchezza di pratiche, può trovare le parole che possono farsi strada per produrre dei cambiamenti.

Dico questo a partire dalla mia esperienza: c’è un disperato bisogno di parole che sappiano significare realtà non dette (e quindi scarsamente o per nulla esistenti). Quando, in seguito alla morte della mia amica Bibi Tomasi, ho cominciato a frequentare la Libreria delle donne (alla ricerca di quello che solo lei mi dava) ero un’altra persona. Dopo ventitré anni di frequentazione e di letture (interessanti, ma più che altro utili per poter coltivare relazioni), di strettoie in cui ho capito cosa gettare e cosa mi era indispensabile, quello che mi definisce è sempre la parola “uomo”, ma solo per scarsezza di altre parole; se trovassi le quali magari riuscirei a definire la differenza tra l’essere maschile che vede nel bombardare la soluzione per risolvere un conflitto, nel picchiare una donna la soluzione per risolvere un proprio disagio e invece uno che parte proprio dalla relazione, dall’altro/l’altra da sé.

L’intento di questo numero di Via Dogana 3 è rimettere in circolo la parola autocoscienza, riprendendo dagli scritti di Carla Lonzi elementi che approfondiscano per l’oggi il suo significato e la sua pratica.

Per me uno degli stimoli più forti a ridiscutere di autocoscienza è venuto da un segnale piccolo, ma significativo, captato in una frase ricorrente di Daniela Santoro, una delle giovani della redazione. In varie occasioni Daniela, dopo interventi in cui tirava fuori da sé stessa, da tutte le vicende del suo corpo, un pensiero per l’oggi, concludeva dicendo: “scusate se sono autoreferenziale”.

Allora ho capito che non trovava nel suo vocabolario la parola che nominava quello che stava facendo: autocoscienza. Con questo non voglio dire che Daniela e le altre giovani non la conoscano, anzi hanno molta curiosità nei confronti di questa pratica delle origini del femminismo e desiderano anche farne esperienza. Il problema è che non la trovano come una parola a disposizione per nominare una loro pratica del presente, già in atto.

Rivisitare il pensiero di Carla Lonzi, come hanno fatto Marta Equi e Linda Bertelli nell’introduzione, permette sia di vedere cos’è l’essenziale di questa pratica sia di fare un’apertura di maggiore libertà rispetto alle sue modalità di attuazione.

Io stessa mi sono messa a rileggere gli scritti di Lonzi sull’autocoscienza e mi ha colpito il fatto che per lei il suo senso più profondo consista nel farne “un metodo di pensiero” e così autorizzare ogni donna a rivolgersi al proprio vissuto, per trarne pensiero e una scrittura politica che illumina il mondo.

Per lei è una pratica del pensiero che chiede relazione e non individualismo. Lonzi usa la parola rispondenza. Dice: “non esiste una coscienza di sé senza un’altra coscienza di sé e questo si verifica nella rispondenza” (Il mito della proposta culturale p.141). Quindi è la relazione con un’altra donna il centro dell’autocoscienza. Come scrivono Marta e Linda “è parola su di sé alla prova della relazione con l’altra”. Sottolineano anche che mentre la pratica di autocoscienza è spesso conosciuta come una pratica orale, come parola detta e ascoltata, Lonzi propone soprattutto lo scrivere come “modo della comprensione autocoscienziale” e come “tessuto di verifica del processo trasformativo dell’autocoscienza.”. Con una bella sintesi dicono: “l’andare di pari passo di esistenza, comprensione e produzione simbolica”. Se torniamo all’esempio di partenza, Daniela non può non riconoscersi in queste parole che delineano la pratica che sta facendo assieme al suo gruppo, Le Compromesse, e con la redazione di VD3, basta andare a rileggere la sua introduzione al numero dal titolo Ricominciamo dal corpo.

Seguendo ancora Carla Lonzi si può mettere in discussione l’indispensabilità del piccolo gruppo come modalità unica che ha caratterizzato l’autocoscienza negli anni 70.

Dai suoi scritti l’idea del gruppo risulta più libera. Il gruppo è sì “lo spazio primo” perché ci sia autonomia dal maschile, ma non è un tutto omogeneo, è costituito e intessuto di relazioni nel segno della rispondenza. Il gruppo può anche non esserci. Il gruppo in quanto tale è “disgregabile” e questo non comporta la fine delle relazioni che lo costituiscono. Il gruppo può anche intendersi senso lato, per esempio Rivolta Femminile per Lonzi, oppure per quanto mi riguarda la Libreria delle donne di Milano. In un suo scritto definisce lo stesso femminismo “un gruppo allargato”.

Daniela per questo numero ha interpellato altre giovani e dalla sua indagine emerge la grande difficoltà a costituire un gruppo, quando ciò che contraddistingue questo momento storico è la loro sofferenza per la solitudine e l’isolamento. A queste ragazze direi piuttosto di cominciare a cercare la rispondenza con un’altra donna, di cominciare da una relazione con un’altra donna per prendere la parola.

Già è stato detto da altre che c’era in quegli anni una situazione favorevole che ha permesso il moltiplicarsi e il fiorire di gruppi di autocoscienza in ogni dove. Anche io penso che quella situazione non è ripetibile negli stessi termini. Io ho fatto parte di quella stagione. Quando sono arrivata a Milano nel 1975 mi sono subito avvicinata al movimento delle donne che era molto vivace in città con collettivi, gruppi di autocoscienza, presenza sui giornali, iniziative pubbliche e nascita di luoghi come la Libreria e il Cicip.

Ho visto di persona, attraverso la mia esperienza, come dopo alcuni anni i gruppi di autocoscienza si siano esauriti. Questo per la stessa logica interna dei movimenti, che fanno una fiammata e poi si spengono, e non si può imputare a un gruppo o a una libreria la loro scomparsa. Si attribuirebbe loro un potere spropositato se capace di decretare la fine di un’esperienza che ha interessato tutto il mondo occidentale.

Quella stagione è finita ma l’autocoscienza non è andata distrutta. Linda e Marta ci hanno detto che per Carla Lonzi c’è una parentela molto stretta tra autocoscienza e il partire da sé e questo per me è un punto centrale. Dicono esattamente che “l’autocoscienza è la radice di una cosa preziosissima: la sperimentazione e l’invenzione della pratica del partire da sé. Quindi una specifica modalità del pensiero inaugurato dal femminismo”. Della stessa idea è Luisa Boccia quando scrive che “il valore dell’autocoscienza sta nella nell’aver fatto penetrare in profondità nella realtà sociale femminile l’idea e l’esperienza del partire da sé, ovvero la possibilità di elaborare la soggettività e il pensiero femminile, a partire dal concreto vissuto e dall’io di ogni donna” (L’io in rivolta, p.195).

Quelle stesse donne che avevano a un certo punto abbandonato l’autocoscienza ed erano passate a sperimentare altre pratiche relazionali, si portavano dentro questa modificazione che cambia l’approccio al linguaggio e al mondo.

Parlando di questo numero con Luisa Muraro lei ha così commentato: “Ah sì, come la facevamo allora aveva un che di ritualistico e di stereotipato, ma poi è rimasta nello spirito essenziale, nel linguaggio, nel partire da sé, nel guardarsi dentro, nel non oggettivare le cose, ma essere sempre implicate. Per me si è trasformata ed è nel mio modo di fare”. Posso testimoniare di persona quanto sia vero che ne è rimasto lo stile in Libreria. Quando vi sono approdata, nell’ormai lontano 1983, la frase ricorrente che si sentiva in ogni tipo di riunione era “Parla per te”. Ciascuna era continuamente rimandata a se stessa perché trovasse parole sue per portare un contributo alla discussione.

Le generazioni di femministe che sono venute dopo quella stagione, non hanno mai frequentato gruppi di autocoscienza. Tuttavia se penso a pensatrici come Chiara Zamboni e Wanda Tommasi della comunità di Diotima, io oggi vedo che non sono estranee a questa pratica ma ne sono fortemente influenzate e ne fanno vivere alcuni aspetti essenziali. Basta vedere, per esempio, tutta la produzione di Wanda Tommasi che ha messo a tema nei suoi libri una riflessione filosofica e politica a partire da situazioni anche dolorose della sua vita, come può essere la depressione. Su questo Luisa Muraro mi ha fatto notare un passaggio importante dicendo: “In Diotima c’è un linguaggio che incamera l’autocoscienza e il partire da sé ma allora non la chiamavamo autocoscienza. In Diotima facevamo un’altra pratica. Solo adesso possiamo vedere che ci sono gli elementi dell’autocoscienza. A suo tempo la discontinuità c’è stata per molte, non per tutte. Adesso vediamo la continuità. Adesso vediamo più in grande. Cioè più in grande e più dall’alto”.

In conclusione, mi sento, quindi, di dire che l’autocoscienza è viva, è continuata in altre forme e si esprime in modi che si possono cominciare a nominare.

Quando in redazione si è iniziato a parlare di un possibile incontro sull’autocoscienza io, in quanto “Compromessa” e avendo più volte in questa sede parlato della mia pratica di autocoscienza – come ho imparato, successivamente, a chiamarla e a riconoscerla – e dei suoi effetti sulla mia quotidianità e sulla mia vita politica femminista, non ho potuto che accogliere questa proposta con un sorriso a trentadue denti (direi trentuno, visto che me ne manca uno).

Abbiamo dunque pensato potesse essere interessante indagare sul mondo virtuale, usando nello specifico le followers della pagina Instagram @lecompromesse come cartina tornasole, cosa le giovani donne di oggi definiscono autocoscienza, se la praticano o meno e soprattutto i motivi dietro l’una o l’altra scelta. Così, ho lanciato un piccolo questionario sulle storie di Instagram, chiedendo se le donne tra i nostri seguaci praticassero o meno autocoscienza, in che modo si sentissero vicine alla pratica e qualora non la praticassero, i motivi.

Le risposte non sono tardate ad arrivare, accumulandosi fino a una cinquantina. Sebbene ciascuna seguace sia apparsa consapevole del termine e della pratica stessa, quasi nessuna ha risposto affermativamente, eccetto un gruppetto di amiche che si incontrano mensilmente e che si possono contare sulle dita di una mano.

Alla domanda «Se non praticate autocoscienza, vorreste praticarla?» le ragazze hanno tutte risposto di sì, con però alcune remore. Ho riscontrato infatti una parola ricorrente, paura, accostata a un’altra parola – che possiamo ritrovare nelle introduzioni di Linda e Marta – fiducia. È come se si delineasse una sorta di paura verso una fiducia mancata, che diventa un deterrente di fronte alla pratica dell’autocoscienza.

«Sì, vorrei ma ho paura, sono un po’ diffidente», «Vorrei, ma non so cosa aspettarmi, non saprei neppure da dove partire», «Vorrei, ma al momento è come se non avessi trovato un gruppo che faccia al caso mio, di cui fidarmi»: c’è un bisogno forte nelle giovani donne come me di ripartire dal primato della parola e della propria personale esperienza che si fa parola e di conseguenza pratica politica.

In un mondo ormai puramente visivo, sentiamo la necessità di riconnetterci alla parola. Eppure, ne abbiamo paura. A mio avviso, il timore scaturisce dalla consapevolezza della nostra difficoltà di ascolto, anzi di una vera e propria incapacità di ascolto a cui la nostra generazione è stata educata.

Questa mancanza di ascolto – che è in primis una sordità verso noi stesse, verso il nostro corpo, verso le nostre emozioni – ci conduce a un’impasse: come possiamo dunque accettare noi stesse[1]? Così in questa non-accettazione c’è insita una dis-conoscenza del proprio essere, del proprio corpo, della quale un senso generale di sfiducia è una naturale conseguenza. Non avendo fiducia in sé stesse, è infatti possibile riuscire a fidarsi degli altri? Soprattutto: nel mio procedere quotidiano, a testa bassa e con i tappi nelle orecchie, come posso ascoltare gli altri? Senza ascolto non c’è parola, senza parola rimaniamo immagini passive al di fuori delle logiche relazionali. Logiche sulle quali l’autocoscienza si fonda. Logiche che sono – fuori dai denti – spaventose: come il conflitto, che diventa inevitabile in uno scambio denso tra ascolto e parola, dal quale, sopraffatte dalle nostre insicurezze, fuggiamo continuamente.

Siamo sole, bombardate da immagini e suoni che viviamo passivamente e che, involontariamente, ci plasmano e ci condizionano secondo logiche che non ci appartengono, logiche del mercato, capitalistiche e maschili. Viviamo senza un punto focale che sia nostro. È come se tutti i nostri sensi fossero perennemente ovattati e non fossimo mai presenti, con noi stesse, con i nostri rapporti, con il presente che ci circonda. Byung-Chul Han nel suo saggio La società della stanchezza, parla di “violenza neuronale” nel luogo di disturbi come la depressione e l’ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività) e li associa alla “positivizzazione del mondo”, in quel passaggio da società disciplinare a società della prestazione. Siamo diventate animal laborans, vittime e noi stesse carnefici, incapaci di accedere a quella vita contemplativa che pratiche come l’autocoscienza ci richiedono, poiché quelle stesse dinamiche continuano a spingerci verso una vita automatica e disumanamente stimolata.

Il timore dell’autocoscienza è quindi paura dell’ignoto emotivo e incapacità relazionale allo stesso tempo, figlie entrambe di questa perpetua solitudine iper-stimolata. Eppure, in un momento come questo, praticare autocoscienza sembra ai miei occhi essere l’unica soluzione per sfuggire al logorio della vita moderna, partendo dal primato della parola ed esercitandoci all’ascolto, alla fiducia e alla condivisione delle esperienze per superare le barriere della solitudine tardocapitalista che ci stanno trasformando, donne e uomini, in umani-cyborg.

[1] Per dissipare ogni dubbio: quando parlo di “accettazione” la individuo in senso costruttivo, e non faccio riferimento a un’accettazione passiva – ormai frequentemente sponsorizzata – che ha invece effetti distruttivi sul piano personale e politico.

Io non ho fatto l’esperienza dell’autocoscienza e però ne ho raccolto molti frutti perché ho potuto entrare in un mondo già parzialmente trasformato. Ero circondata da saperi maschili, modelli maschili, però vedevo e sapevo che c’era un cambiamento possibile, che c’erano le femministe, e questo mi ha permesso di cercarle, trovarle e raggiungerle.

Non ho fatto autocoscienza in parte perché ero un po’ più giovane e i gruppi iniziavano a essere meno facilmente reperibili, ma anche perché non ho sentito l’esigenza di farla. Sul motivo credo che mi abbia un po’ illuminata Traudel Sattler nell’introduzione, ricordando che nelle assemblee dei movimenti che volevano cambiare il mondo le donne o ripetevano i discorsi maschili o erano mute. Ecco, io non ero muta. Per questo non avvertivo la contraddizione. Naturalmente anch’io usavo tutti gli schemi e gli argomenti maschili, ma siccome parlavo solo per dire qualcosa che non era stato detto da altri (a differenza dei maschi, ognuno dei quali voleva far vedere che conosceva tutta la lezione, con infinite e tediose ripetizioni), avevo la sensazione di portare quel di più che era mio, e mi sentivo a mio agio. Prima di arrivare ad avvertire il disagio ci ho messo decenni… e poi finalmente sono arrivata in Libreria.Tra i passaggi che mi hanno portato in Libreria ci sono stati, per me, gli scritti di Carla Lonzi: dopo averli letti non ho più potuto vedere il mondo come prima. Per questo penso che l’autocoscienza dia dei frutti che vanno oltre il momento e le persone che la praticano. Io non ho l’autocoscienza di Carla Lonzi, perché non c’ero con lei a farla. Però ho i suoi scritti che mi hanno trasformata, pur non avendo agito quella pratica. E come gli scritti ieri, credo che oggi i frutti possano essere anche un podcast come A day in a female life – Racconti di ordinaria violenza di Angelica Pirro e Silvia Protino, che Angelica ci ha descritto nell’incontro di Via Dogana. Infatti, pur essendo uno strumento rivolto al pubblico, a monte della pubblicazione si sente che c’è l’autocoscienza. E ci è stato raccontato come l’autocoscienza la facciano prima le autrici tra di loro, e in seguito la fanno con loro le ragazze di cui pubblicano le storie. La fanno, come l’autocoscienza storica, nelle case, in una dimensione di intimità. E poiché pubblicano soltanto le parti che ciascuna vuole e lasciano la facoltà di non pubblicare, quell’intimità resta salvaguardata e permette di lavorare in profondità. Quindi abbiamo un lavoro a monte, e un frutto di quel lavoro che viene pubblicato. E che è prezioso e utilissimo per quante possono così arrivare a coglierlo.

Sono arrivata alla storia delle donne tramite la storia degli uomini, non posso negarlo, perché io sono una donna e questa è la storia di come sono tornata a me stessa.

Quando alla facoltà di Filosofia – dopo tanto parlare di Platone, Cartesio ed Hegel – arrivai finalmente al corpo, mi accorsi che del mio corpo non c’era traccia! Così, dopo aver scoperto che ogni re era sempre stato nudo, trovai le filosofe. De Beauvoir, Irigaray, Butler, Brownmiller, Young, Martin Alcoff e le altre mi aprirono le “porte della percezione”, quelle che mi portarono a chiedermi – fuori dal fatto solo mentale, ancorché morale – chi fossi. Come una donna che per la prima volta si scopre del patriarcato mi chiedevo: chi sono io se non quel (poco e male) che hanno detto e dicono loro? Ma la risposta non è mai stata lì pronta per me (anche se lo avrei tanto voluto e talvolta, probabilmente, lo vorrei ancora). Ogni passo che facevo presentava timori ed esitamenti. Ad esempio, per tanto tempo mi era bastato leggere dei gruppi di Autocoscienza (Cavarero, Le filosofie femministe) senza indagare oltre, verosimilmente perché ciò mi consegnava a un approccio politico a me noto (quello maschile, dei compagni e delle lotte appassionate!), tenendomi contemporaneamente lì, dov’ero, sulla sedia di un’aula universitaria, in un luogo certo non rischioso. Così decisi di spingermi oltre e finalmente, sotto impulso di una donna concreta, Rita, mi decisi a formare un collettivo. La mia intenzione ufficiale e nobile (!) era quella di recuperare insieme ad altre donne la storia delle donne per combattere le storture del presente. Tuttavia il movente personale, quella pulsione corporea che mi invischiava nel rapporto con le donne, era capire perché in fondo non sentissi di avere con loro un rapporto concreto, solido e reale. D’altra parte, più stavo con loro per loro (le donne) più sentivo di non potermene staccare neanche un momento, che di me non sarebbe rimasto più nulla. Chi sarei stata altrimenti? Se non fossi stata quella che si prendeva cura delle donne e del mondo, sarei stata ancora? Stavo per scoprire che i miei strumenti prima intellettuali e poi morali erano per me una bella arma di difesa: donandomi alle donne mi sarei permessa di rimanere integra emotivamente. E anche se la mia soggettività sarebbe stata al cieco giogo della dipendenza da loro, mi sarei sempre potuta dire che dovevo fidarmi delle donne! Realisticamente nessuna/o – mi confortavo – potrà mettere in pericolo questo mio cantuccio morale. Poi è arrivata Daniela Pellegrini con la sua Autocoscienza e io me ne innamorai: risuonava forte in me ciò che aveva scritto e che diceva. E pensavo: «Sono in contatto diretto con più di mezzo secolo di storia del femminismo italiano; mi porterà in dono il suo bagaglio». Sarebbe stato perfetto per me se fosse semplicemente stato così. Lei sarebbe stata distante da me, nelle sfere celesti della sua storia così piena di materiale, e io in posizione di ascolto, libera di – o, come direbbe Cecilia, piuttosto “abbandonata” ad – agire le mie elaborazioni mentali senza toccare me stessa. L’incontro fu invece per me uno scandalo (!): l’aspettativa di senso alla base della mia intera esistenza di donna era stata disattesa. Daniela non si rivolgeva a me come ad una madre-bambina: né come Crista, la bambina che salverà il mondo e rappresentante di una fantomatica nuova generazione che avrebbe soddisfatto dei bisogni (i suoi?); né come risorsa-oggetto che, convenientemente ridotta alla postura naïf di bambina, le avrebbe concesso di riaffermare i propri convincimenti da capo, ancora e ancora. Non mi arrivò nulla di tutto questo: né sovradeterminazione, né alienazione, né affidamento. Ero libera di esser-ci e questo mi faceva anche un po’ paura (talvolta forse persino rabbia o frustrazione). Era forse questo essere “solo” una donna? Iniziai ad andare all’Autocoscienza con lei e con Valentina, Annamaria, Irene, Tommasina, Antonella, Erica e le altre. Con loro, non senza difficoltà, ho scoperto anzitutto che il rapporto con mia madre che avevo sempre amato, il conflitto con le sorelle che avevo sempre sofferto, l’ambiguità nel rapporto con le amiche che avevo sempre evitato erano il senso stesso del movimento politico che ora toccava anche me. Fuori dalle definizioni date in terza persona, infatti, anche la “(as)senza (di) azione” – di cui scrive Antonella Ortelli – smise di essere il significato opposto di movimento e riprese a vivere la lunghezza del suo significato nella mia prima persona: attraverso il corpo vivo che sono, come una sapiente cassa di risonanza, prassi (politica) e sentimento di me stessa cominciarono ad agi(ta)re un jazz intricato di note e silenzi. Tuttavia, tornava come un mantra una domanda: una (o ogni) volta che avessi ritrovato questa politica me stessa, cosa me ne sarei fatta? Epilogo: quando torni a respirare, non fai che ricercare ossigeno Dopo circa un anno con quel primo Gruppo di Autocoscienza ne desiderai anche un altro e venne fuori molto presto “Autocoscienza 2.0”. In cosa differisse dal primo o perché farne un altro non furono mai domande che mi feci o che mi fecero. Imparai infatti che questo era il senso del separatismo, di quel luogo senza direzioni puntuali o assertive, quandanche spazialmente disponibili e significativamente corpose: non solo lo spazio delle donne (me compresa) non era limitato, non era neppure limitante. Al momento, quindi, so che non c’è una risposta a quella domanda, di me non voglio farmene nulla! E proprio questo è nella mia esperienza il famoso “luogo terzo” di cui dice e scrive Daniela: essere indipendente insieme alle altre, in uno spazio differenziale che non stringe mai le vie del senso e della sensatezza, per il solo fatto che ognuna è sé stessa e nessun’altra, mentre ogni altra risuona facendo spazio a sé stessa. Questo è quanto sperimento ogni settimana, con Claudia, Valentina, Alessandra, Francesca, Brenda, Maria, Tommasina, Silvia, Daniela e tutte le donne che fanno autocoscienza con me. Questo è quello che mi porto anche fuori dal Gruppo dell’Autocoscienza: nell’incontro con le donne che di teoria non sanno proprio nulla e con quelle che invece percorrono strade parallele. Ci si chiede se l’Autocoscienza sia morta e in quale forma possa rivivere, ma nella mia esperienza questa domanda è priva di senso! Suona come “Dio è morto, viva Dio!” L’Autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia. Parliamo, purché siamo, perché la nostra esistenza non consiste in un atto mentale e non è neanche chiusa in una crisalide di senso, come una bella teoria! Il fatto è che esserci, in questo sì Cartesio c’ha azzeccato, richiede la stessa fatica che nascere. Un ultimo appunto vorrei sottolineare prima di dover chiudere questo testo: se la storia delle donne è pur sempre una genealogia del dolore che consiste nella profonda discrepanza tra l’esserci e il fare, tra una politica autocoscienziale e una politica della coscienza collettiva, a maggior ragione credo che sia necessario rimetterci a rischio. Ci sarà sempre un “fantasma che si aggira per la politica delle donne” finché ci aspettiamo di essere tutte una sola parte.