La vigilia del terzo incontro di VD 3, riceviamo una e-mail da Wanda Tommasi (Diotima), che dice nella prima parte:
Carissime amiche di via Dogana,
vi scrivo questa mail perché non potrò essere presente all’incontro di domenica 13 settembre.
Al tempo stesso, sento il bisogno di segnalare un tema che mi sta a cuore e che è di scottante attualità: la presa di posizione di Angela Merkel sulla questione dei rifugiati. Per me questa presa di posizione ha finalmente conferito alla Merkel – una donna – la statura di leader europea che fino a quel momento non aveva, almeno ai miei occhi. E ha permesso di dare voce a un sentimento inespresso che giaceva in fondo al cuore della gente – sono proprio questi sentimenti inespressi quelli a cui la politica deve dare voce, scrive Simone Weil ne La prima radice: solidarietà? empatia? compassione? Il nome non è tanto importante, ma è importante che per la prima volta da anni circoli qualcosa di ben diverso dalla paura-avversione-odio per chi viene da altre parti del mondo, più povere e più sfortunate.
Non era tra gli argomenti proposti da Luisa Mur. e Laura Gio., ma l’idea inviata da Wanda Tommasi è diventato un tema molto discusso durante l’incontro del 13 settembre.
Dopo il primissimo intervento, poi ripreso da altre (“come immagine per la copertina io porto l’abbraccio delle tenniste italiane”), una dice:
– Sono d’accordo con Wanda.
Dopo di che, è tutto un inseguirsi di posizioni e argomenti, che riassumo seguendo gli appunti e sacrificando le sfumature (che sarebbero così importanti!).
– Io no, perché Angela Merkel (AM) ha fatto una scelta: i siriani, più acculturati, sì; gli africani invece no. – È un’abile mediatrice, una politica intelligente. – In realtà, è l’opinione pubblica tedesca che è cambiata, ci sono associazioni impegnate a favorire l’accoglienza, con manifestazioni molto partecipate. AM è andata dietro, contagiata.
– No, lei ha autorizzato il cambiamento.
Su quest’ultimo punto (il cambiamento è frutto di lei? o della mobilitazione pubblica?) ci sono contrasti: parlare per contrapposizione in effetti è più facile, la consapevolezza che i cambiamenti storici siano il risultato di più fattori interagenti, resta un po’ sullo sfondo.
– Ricordiamo che i Siriani sono dei rifugiati e hanno diritto all’asilo; in Germania hanno tolto il tappo burocratico e ora gli verrà riconosciuto in tempi brevi.
– AM è più che un’abile politica, è una statista che asseconda la svolta che sta vivendo ora l’Europa, prossima a farsi popolo.
– Lasciando da parte AM, ricordiamo che in passato l’Europa ha sfruttato i popoli extraeuropei, ora è venuto il tempo di aiutare; ma anch’io penso, come L., che calcando la mano sull’accoglienza incondizionata si corre il rischio di un’involuzione fascista dell’Europa.
– Mio figlio vive a Berlino, è una città civilissima con molta presenza di Turchi; quanto alla cancelliera, l’AM. che a me piace è quella che ho visto al mercato a fare la spesa.
– In lei io vedo una femminista, non c’è dubbio. Che abbia scelto fra gli immigrati secondo le sue convenienze, questo è spregevole.
Verso la fine, un intervento parlerà esplicitamente in favore di accostamenti come quello fatto in quest’ultimo intervento: saper tenere insieme cose contrastanti. Qualcuna però protesta per questo gran parlare di AM, comincia a trovarlo noioso. Riporterò ancora due interventi e confido in chi legge per integrare personalmente e approfondire.
– A proposito di autorità, ecco che noi ce la diamo nell’atto di valutare la cancelliera tedesca con criteri e parole nostre.
– Non guardiamoli come puri bisognosi, i migranti ci danno forza. E di noi non diciamo che non abbiamo scelta, è un pensiero deprimente.
Per finire, riporto il seguito della lettera di Wanda Tommasi.
Con Diana Sartori, in un viaggio durante le vacanze di Natale 2010-2011, ho visitato la Siria per l’ultima volta prima che diventasse impossibile andarci.
Ho passato la notte di Capodanno nel convento di Mar Mousa, sui monti della Siria, in un convento cristiano antichissimo ristrutturato poveramente da padre Dall’Oglio.
Non dimenticherò mai quel capodanno, con la meditazione in chiesa e la messa prima della cena in comune, seduti per terra come nelle moschee.
Con padre dall’Oglio, dopo il mio ritorno, ci siamo anche scambiati delle mail, non capendoci molto fra noi in verità, perché lui chiedeva la posizione di Diotima sulla situazione internazionale, in particolare sulla Siria, e io non sapevo cosa rispondere (oltretutto Diotima non esiste, è un nome comune di relazioni). Poi più nulla. Padre Dall’Oglio, sicuramente un uomo di pace, è morto nella carneficina della Siria, una paese letteralmente crocifisso prima dal dittatore Assad e ora anche dall’Isis.
Non so se questo tema possa interessare alla vostra discussione, ma volevo offrirvi questa piccola riflessione.
Cara Via Dogana 3,
come mi succede quasi sempre, la discussione di “Via Dogana 3” mi serve per pensare, a volte per precisare meglio il mio pensiero.
Ieri, 13 settembre 2015, avevo in mente l’argomento di cui volevo dire, ma poi tutto quel gran discorrere su Angela Merkel me ne ha distolto.
Lo dico ora per iscritto.
Dunque “farsi forza”, invito che interpreto in duplice modo, cioè “diventare una forza”, vale a dire energia generatrice di nuova energia per altri e altre, e “infondersi coraggio” rivolto a se stessa.
Per me vanno bene ambedue .
Far sentire parola femminile nata dall’esperienza.
Da alcuni anni vivo in una situazione quotidiana di disagio: coabito con un marito in precarie condizioni di salute, ridotto in modo permanente su una sedia a rotelle, e un badante a tempo pieno.
Quando ne parlo, mi sento rispondere: «Di cosa ti lamenti? Hai un bravo badante!»
Non mi lamento, constato: vivo costantemente divisa tra due sentimenti contrastanti; rabbia e pietà: rabbia perché in questi pochi anni che mi restano da vivere non sono libera, sono legata da orari tirannici, devo sempre tornare a casa a una certa ora, sono richiesta di servizi umilianti, ho un estraneo in una casa di cui non sono più padrona, in una casa rivoluzionata da esigenze di coabitazione, casa non grande ingombra di orribili strumenti ortopedici; sono gravata di costi economici quasi insostenibili; provo pietà e struggimento verso una persona amata, una volta gagliarda, irriconoscibile ora, segnata dal male.
Mi faccio forza sostanzialmente in due modi: potenziando la mia attività politica, soprattutto in questo ultimo anno sono stata presente e protagonista in situazioni pubbliche che hanno richiamato alla memoria passati impegni come la pedagogia della differenza, le Trovatore, esperienze di affidamento, e soprattutto la storia vivente; il secondo modo è quello di valorizzare le piccole gioie, come per esempio il sedermi dinanzi a un pranzo pronto, il riuscire a riaddormentarmi quando mi sveglio alle tre di notte… Mangio abitualmente dei confetti.
La rabbia di cui parlavo prima è motivata non solo dalla mia situazione personale, ma anche dalla amara consapevolezza che l’innaturale prolungamento della nostra vita giova all’imponente apparato sanitario pubblico e privato, all’industria farmaceutica, alle badanti e ai badanti stranieri che si insediano qui, mentre a molte di noi donne anche anziane tocca la pesante organizzazione assistenziale e i suoi costi, alle meno fortunate senza aiuti.
Meglio sarebbe rimanere in vita – far durare la vita – solo finché le proprie energie assicurano l’autonomia.
Articoli collegati:
Una forza misteriosa ed esagerata di Mira Furlani https://puntodivista.libreriadelledonne.it/una-forza-misteriosa-ed-esagerata/
Una domanda per domenica 13 settembre 2015 a quelle che facevano la Via Dogana cartacea, e a quelle e quelli che la leggevano: che parola e che immagine metteresti in copertina? Portatele in Libreria, via Pietro Calvi, 28, MI, domenica prossima, ore 10, al terzo incontro di VD 3.
La politica ha bisogno, e noi per prime, di parola pubblica femminile.
Laura Giordano e Luisa Muraro anticipano qui sotto quello che diranno in apertura, l’incontro proseguirà su questi temi o altri. Si potrà discutere per approfondire. Oppure, semplicemente, alzarsi e far conoscere un’idea, un sentimento.
Luisa:
– A proposito di unioni civili. Omosessualità femminile, omosessualità maschile: facciamo la differenza. Ci sono differenze di vissuti, d’interessi, di situazioni… metterle in parole restituisce alle donne la loro verità soggettiva e farà luce nel dibattito pubblico. Altrimenti, finirà per prevalere ancora e sempre un punto di vista neutro-maschile.
– Di ritorno dalla Scuola estiva della differenza di Lecce.
Laura:
Sapere e dire di una fatica di vivere che ci riguarda da vicino può essere un guadagno per tutti. Ma capire come farne una risorsa senza farsi travolgere non è banale. Cambiare il proprio sguardo dando valore prima di tutto alla relazione con altre donne è stata la mia risorsa. All’inizio mi sembrava fosse un guadagno solo mio, ma poi ho capito che non era così e ho deciso di raccontarlo.
Per dare nome ‘depressione’ alla propria sofferenza non basta la diagnosi di uno specialista, anzi quando questi pronuncia la parola ti viene da pensare che esagera, in fin dei conti si tratta di un disturbo dovuto al brutto periodo, alla stanchezza o a un eccesso di stress, che presto passerà; ti riconosci depressa quando, magari inconsapevolmente, hai già deciso di reagire a quella sofferenza che comunque intuisci non sia riconducibile ad una comune malattia ma piuttosto a uno stato d’allarme del tuo corpo e della tua mente per qualcosa che non va, dentro ma anche intorno a te.
L’allarme parte infatti quando il fuori non ti corrisponde e anzi ti diviene ostile, ma non capisci perché e ti pare che la sorte, o qualche entità oscura, si diverta a frapporre ostacoli sulla tua strada, oppure quando dentro di te si spezza qualcosa, si interrompe il normale flusso delle emozioni e non ti senti in grado di dare risposte appropriate agli stimoli che arrivano dall’ambiente. Succede così che giorno dopo giorno si forma un diaframma sempre più resistente tra il tuo mondo e quello esterno; tutte le cose che prima facevi naturalmente richiedono sempre maggiore energia e concentrazione, ma le tue forze diminuiscono per cui finisci per economizzare i gesti e restare sempre più spesso inerte, magari a fissare il soffitto o il vuoto; il fuori d’altronde ti fa paura per cui riduci progressivamente i movimenti, smetti prima di andare oltre il quartiere, poi di attraversare la strada e infine di oltrepassare la porta di casa. Perdere padronanza su di te e il controllo sulle cose ti fa sentire avvolta in una spirale che non puoi percorrere se non in discesa, ma se ti resta un po’ di attaccamento alla vita arriva il momento in cui accetti la diagnosi, ammetti di essere proprio depressa, imbocchi la strada della cura ricorrendo alle ‘medicine’ che ti consigliano e speri siano in grado di generare l’energia che ti serve per risalire la china. Se la cura è efficace ti ritrovi a fare la stessa vita di prima convinta di aver capito e di aver anche guadagnato l’immunità da una malattia tanto strana e indefinibile che è meglio chiudere la parentesi e non parlarne nemmeno. Però appena un fatto viene nuovamente ad alterare l’equilibrio che credevi di aver ricostituito, ecco che ricompaiono i sintomi, ormai li riconosci e sai come curarli, ma di solito la cosa si ripete nuovamente anche più volte fino a che devi arrenderti all’evidenza che ti eri illusa circa l’immunità.
A quel punto, se trovi la forza di riprendere in mano la tua vita ti rendi conto che hai due strade: sopravvivere cercando di tenere la depressione sotto controllo o provare a vivere guardando in faccia la ‘malattia’ per interpretare i segnali che attraverso il corpo essa ti manda. Se scegli come chi scrive la seconda via, dopo che avrai riavvolto più volte il film degli avvenimenti (scacchi, diritti negati, una nascita o un cambiamento imprevisto, ecc.) concomitanti con le manifestazioni più acute della malattia, ti nascerà il dubbio che la depressione pur scatenandosi nel tuo corpo non venga proprio generata da esso e ti chiederai se non sia legittimo ipotizzare che prenda invece origine fuori di te, o per lo meno nelle dinamiche tuo rapporto col mondo esterno, e rappresenti una sorta di lingua attraverso la quale il reale nei momenti critici muove verso di te e ti parla. I sintomi che ben conosci, infatti, mentre ti costringono a ‘resettare’ la tua vita da abitudini, ripetizioni e false certezze, segnalano che qualcosa deve cambiare dentro e fuori di te ed è come se ti invitassero ad approfittare del vuoto aperto dalla crisi per far posto ad altro.
La nuova conquista non ti farà cantar vittoria, perché sarà accompagnata dalla consapevolezza che anche qualora riesca a rivoluzionare la tua vita, non guadagnerai ugualmente la via della salvezza se contemporaneamente il contesto non avrà preso a cambiare insieme a te. Se ti guardi intorno d’altronde e constati la diffusione virale della malattia non tardi a realizzare che il messaggio, di cui la depressione si fa portatrice, non è certo rivolto solamente a te ma riguarda tutte le donne e gli uomini e forse segnala che la civiltà, la nostra vita in comune, è giunta ad un punto di criticità tale, che potrà essere superato solo mettendo in campo misure straordinarie, l’intelligenza di capire che cosa va cambiato e tutta la forza di cui siamo capaci. La depressione come ben sai fiacca le forze, ma proprio per questo a volte insegna a guardare all’essenziale, alle ragioni primarie della vita e consente di prendere coscienza di ciò che fa ostacolo e impedisce la libera espressione di sé, la propria realizzazione nel contesto sociale. Difficilmente riuscirai però con i tuoi soli mezzi a rimuovere gli ostacoli, sarà invece necessario che la tua presa di coscienza ‘parli’al di là di te, divenga guadagno anche per altre/i, entri in una dimensione pubblica perché possa compiersi l’alchimia che soltanto la politica è in grado di fare, la mutazione di un malessere individuale e collettivo in forza di trasformazione dell’esistente. C’è da inventare molto ma non devi partire da zero. Devi prendere atto che la politica delle donne ha già dimostrato che partendo da sé si possono costruire relazioni capaci di trasformare la tua vita e insieme il contesto, che mettendo in comune il desiderio di ciascuna con quello delle altre si può mettere al mondo ciò che prima risultava impossibile e quello che prima ti appariva un ineluttabile destino può divenire l’occasione per aprire nuovi orizzonti. Non avrai conquistato l’immunità dalla malattia, ma saprai dare senso oltre che nome alla sofferenza quando arriva.
Un filo sottile d’infelicità, un’incrinatura leggera quasi invisibile, la percezione di un vuoto, di una mancanza sembrano percorrere la vita di Lucia, la protagonista del secondo lungometraggio di Giorgia Cecere, interpretata in punta di piedi da Isabella Ragonese. Una vita fin troppo regolata che scorre apparentemente lungo i binari della tranquillità operosa e serena in una piccola cittadina della provincia piemontese con un figlio, un tenero adolescente acutamente percettivo e sensibile, un marito, a cui forse affida troppo della propria vita, e un lavoro autonomo soddisfacente.
Le prime inquadrature puntano immediatamente sui tre personaggi e illuminano le loro ormai consolidate dinamiche, come pure i loro caratteri e le reazioni messe in evidenza nel particolare della primissima scena della disavventura del furto dei pantaloni sulla riva del fiume, da cui prenderà avvio la narrazione.
Un film dalla tessitura della trama volutamente lasca che lascia a chi guarda il compito, a volte arduo, di intuire e di ricostruire eventi precedentemente importanti nella vita di Lucia e che motivano quel suo senso di assenza, di distacco, e che fa di due suoi incontri il punto di svolta, di rottura nella regolata traiettoria della sua esistenza quotidiana.
L’incontro casuale – a lungo evitato – con l’anziana madre dell’amica tragicamente scomparsa le risveglia ricordi, dolori volutamente sepolti, irragionevoli sensi di colpa che esigono l’urgenza di un segno di riconciliazione e di pace.
L’altro incontro, altrettanto casuale, avviene con il presunto ladro dei pantaloni, l’“extracomunitario”, l’immigrato sempre evitato e reso invisibile ormai storicamente in quel microcosmo di perbenismo provinciale. Lucia, al contrario e stranamente per il suo carattere schivo, lo cerca con pertinacia, lo insegue e con lui, Feysal, eccezionalmente, avvia un contatto, gli rivolge attenzione, uno sguardo fuori dalle paure e dai comuni pregiudizi circolanti.
È il segno di un cambiamento insieme a una graduale consapevolezza dei propri desideri e del mondo che la circonda; è la ricerca di un percorso, in un viaggio di ritorno verso il suo vero sé, alle sue radici e verso quel posto bellissimo che il titolo del film vuole vagheggiare, un luogo a cui tutte e tutti noi vorremmo tendere, aspirare per nuovi rapporti e nuovi modi di essere.
In questi giorni dove la tragedia delle morti nel Mediterraneo insieme a quella di migliaia di rifugiati in cerca di un luogo in cui vivere dignitosamente, lontano da guerre e da miserie, urla tutto il suo orrore, in questi giorni in cui finalmente l’Europa sembra voltare pagina ed è alla ricerca di forme di accoglienza, un film che pone la centralità di uno sguardo e di un rapporto diversi con lo ‘straniero’ diventa di estrema attualità e sensibilità.
Un film di atmosfere, dalla recitazione e dai dialoghi volutamente sottotono ed essenziali, quasi pudichi nel rivelare sentimenti e pensieri personali con ritmi dove la storia di Lucia ha modo di dipanarsi, mostrando che quel suo spostamento di consapevolezza diventa un percorso di libertà anche dai pregiudizi e da strutture mentali dominanti. Che ciò stia avvenendo lo testimoniano il sogno in cui Lucia dopo una lunga e affannosa rincorsa riesce a raggiungere l’amica e a riabbracciarla stringendosi a lei in un momento di grande felicità e il ritrovato rapporto con la madre dell’amica.
La regista Giorgia Cecere ha esordito nel 2011 con il lungometraggio Il primo incarico, presentato alla 67a Mostra del Cinema di Venezia e ben accolto da pubblico e critica, con Isabella Ragonese nel ruolo della protagonista.
In un posto bellissimo, un film di Giorgia Cecere – Italia 2015, 105’
Via Dogana 3, 2° incontro, 12 luglio 2015, In vacanza per sempre
Luisa Muraro:
Viviamo in “un mondo in disordine”, per usare le parole di un tale che parlava del suo tempo, mille anni fa. Ci incontriamo per scambiare idee e farci forza. Il mio invito è di cercare sempre la verità soggettiva. Non è facile trovarla.
Come al primo incontro, Laura Ming e io ci alterneremo con due argomenti ciascuna.
Laura Minguzzi:
Prima questione da porre alla discussione: vorrei riprendere un punto discusso nell’incontro del 17 maggio scorso, e cioè la questione della qualità delle relazioni e dell’autorità femminile. Mi interessa il tema perché include differenti questioni irrisolte. Una di queste è il rischio di idealizzare non solo i progetti ma anche le singole donne con sofferenze, rotture, cadute del desiderio e messa in forse dei progetti stessi. L’idealizzazione blocca l’immaginazione, la realtà viene come offuscata e invece di figure dello scambio si creano figure illusorie o false aspettative. Se è vero che le buone relazioni fanno vivere i progetti, ne sono la linfa vitale, allora non esiste più un progetto a sé stante, al di fuori di noi, che dobbiamo tenere in vita a qualsiasi costo. Queste considerazioni mi portano a riflettere su un evento recente: il convegno di Mestre del 20 giugno, intitolato Un passo avanti d’autorità, promosso da amiche delle Vicine di casa, Sandra De Perini e Desirée Urizio e da alcune fondatrici dell’Associazione per l’autorità femminile nella politica per sostenere il libro Sovrane di Annarosa Buttarelli e il suo progetto politico. Il libro è stato presentato in varie città d’Italia creando molte aspettative, così mi ha riferito Sandra, che si è sentita chiamata a non deluderle. Io ho deciso di non partecipare al Convegno. Una decisione sofferta. Sandra mi aveva mandato il volantino d’invito via mail e leggendolo avevo provato un senso di disagio e di sconcerto. Percepivo un non detto e non mi era chiara la finalità dell’incontro. Invece di telefonarle subito ed esprimerle le mie obiezioni ho aspettato, incerta sul da farsi… Avevo intuito che l’invito arrivato via mail con la scheda di iscrizione (a cose fatte quindi), era un segnale del suo timore che a voce potessi criticarla. Infatti avrei voluto dirle che non capivo il senso della ripetizione del titolo del Convegno della Rete delle Città vicine dell’anno scorso, in cui si era discusso lo stessa tema, e che non mi sentivo coinvolta in un tipo di pratica politica che mi sembrava più ispirata da un libro che da una pratica concreta di relazioni, pur se conflittuali. Così ho preferito l’attesa. Sandra insospettita dal mio silenzio mi ha chiamata e ho potuto così esprimerle tutte le mie perplessità. Le ho comunque suggerito che sarebbe stato meglio non tacere sul percorso conflittuale che l’ha portata ad allontanarsi dalla Rete delle città vicine, mentre da parte mia ho pensato che dovrò affrontare questo nodo irrisolto nella prossima tappa, in una città ancora da definire, della Comunità pensante che si è costituita a Mestre.
Luisa Muraro:
Il nome del co-pilota? Dicono che sia Depressione.
L’allarme è stato dato a un convegno dell’Ass. italiana di psichiatria: il rischio che le donne corrono di cadere in depressione è perlomeno doppio di quello maschile. Fonte: Il nostro stare al mondo del Centro studi e documentazione del pensiero femminile di Torino, un contributo di Ferdinanda Vigliani, E se non la chiamassimo depressione?, che sul tema segnala Anna Salvo, Depressione e sentimenti, Mondadori.
Le donne sono in prima linea, ma non è come per l’isteria; il problema della depressione è della nostra civiltà. Notizia di questi giorni: una giovane donna di 24 anni, in Belgio, ha chiesto l’eutanasia (ammessa dalla legge in quel paese) per le sofferenze della depressione, con tre pareri medici favorevoli.
Conoscete il film dei fratelli Dardenne, Due giorni, una notte ,e sicuramente ricordate che la protagonista, in lotta per il suo posto di lavoro, soffre ancora per i postumi di una grave depressione. Sandra Burchi così commenta il film dei Dardenne: lo sfondo è un’Europa impoverita, incattivita, smemorata, in preda agli effetti di trasformazioni non gestite.
Dal film viene una risposta: la protagonista, aiutata da una compagna e dal marito, fa appello a tutte le sue forze, combatte e vince la battaglia più importante.
Seguendo l’esempio di Antoinette Fouque, di Cixous… in tema di isteria, di Francesca Avanzini (Ha ballato una sola estate), del gruppo Demau, tanti anni fa, in tema di anoressia, io propongo che diamo compimento simbolico al voler dire della depressione, che di suo è come un’opera a metà, incastrata fra patologia e infelicità…
Laura Minguzzi:
Alla maturità di quest’anno due temi della prima prova d’italiano riguardavano la resistenza. Mi ha fatto piacere perché amo la storia. Ma secondo le statistiche riportate dai media quest’argomento è stato scelto da una percentuale bassissima di candidate/i. La storia come sappiamo non è molto amata a scuola. Questo fatto mi rattrista, consapevole, grazie al mio lavoro di riflessione con la Comunità di pratica della Storia vivente, che senza consapevolezza e memoria del proprio passato non c’è futuro di libertà e non c’è felicità. Memoria non neutra ma reinterpretata a partire dall’esperienza femminile. La cosa mi ha fatto pensare all’attualità, cioè alle donne curde combattenti di Rojava. Io, quando leggo della loro lotta, le sento parlare nelle interviste, sento che stanno dicendo qualcosa che è differente dalla lotta armata partigiana cui le donne in Italia hanno partecipato. Affermano di combattere per la loro libertà, oltre che per creare un Kurdistan libero. Non credono ai due tempi perché sanno che in passato le donne sono state ingannate da questo schema emancipatorio. Ma poi fanno anche riferimento al partito di Öcalan, il PKK. Vedo una contraddizione, ma anche una grande capacità di stare nella contraddizione e di aprire a nuove possibilità nel contesto caotico di disordine simbolico post-patriarcale in cui si trovano l’Irak, la Siria e la Turchia.
Luisa Muraro:
Che cosa possiamo leggere nella crisi euro-greca alla luce del primum vivere?
Mi riferisco al primo capitoletto dell’ultimo Sottosopra, un vero e proprio manifesto sul lavoro intitolato Immagina che il lavoro, ottobre 2009. Sottolineo il “leggere”, diversamente dalla tendenza a giudicare e a schierarsi, che non condivido. In me sento di aver avuto troppa voglia di avere ragione e ora preferisco fare lo sforzo di capire quello che accade.
Sicuramente molte affermazioni del capitoletto, titolo Primum vivere. Anche in tempo di crisi, ne escono confermate.
Si prova un senso di schiacciamento. La soggettività di chi vive le cose giorno per giorno è annullata. Oppure, aggiungo io, rimodellata dal trovarsi con un debito che non riesce a pagare, ritrovarsi sempre inadeguata. Gli stati, dice il Sottosopra (ma nel caso della Grecia è l’Europa), hanno dato soldi e soldi alle banche e non a chi lavora (non al popolo, ha detto Tsipras). “Popolo”: parola demagogica? La troviamo anche in Sovrane di Annarosa Buttarelli, in coppia con “donna”.
Non c’è demagogia nel manifesto Immagina che il lavoro, che ha uno stile quasi colloquiale, antiretorico. Invece nella crisi euro-greca il rischio c’è, da più parti (dei Greci, degli antieuropeisti…).
Nel manifesto si polemizza con la scienza economica in nome di un’economia messa su nuove basi. In queste settimane della crisi euro-greca abbiamo ascoltato delle critiche agli errori dell’economia ma un inizio di ripensamento radicale non è emerso: forse c’è e deve ancora affiorare? C’è la sua premessa? Ci sono spiragli di una concezione alternativa?
L’unico valore non monetario emerso nelle trattative: la giustizia sociale, che però non si riesce ad assicurare. Troppa evasione, troppo disordine fiscale, da una parte. Troppa preoccupazione per l’assetto finanziario, dall’altra.
È un valore anche l’orgoglio della risposta No al referendum del 5 luglio, indubbiamente.
Nel manifesto del primum vivere si parla di considerare l’esperienza e il sapere della quotidianità come una leva per cambiare il lavoro e l’economia. Qualcosa sta accadendo che va in questo senso? O sono utopie, cioè cose giuste ma destinate a una realtà troppo distante dal nostro presente?
A me interessa stare al presente con buon senso per quel che riguarda le vie da prendere in pratica ma con prospettive audaci, senza buon senso mentale e verbale. Mi interrogo anche su Angela Merkel che non parla tanto come gli altri, non parla quasi…
Commento di Luisa Muraro all’incontro di VD 3, 2° incontro, scritto l’indomani, 13 luglio.
Oggi c’è l’accordo dell’Europa perché la Grecia rimanga in Europa e nella zona euro. A quali prezzi, per i Greci e per tutti noi europei, non so. Ma lo sapremo.
Nell’incontro di domenica si è parlato molto della crisi euro-greca, il secondo dei due argomenti da me proposti. La tendenza di alcune era di parlarne come veniva, c’era lo schieramento esultante per la vittoria dei No al referendum greco del 5 luglio («Ce l’abbiamo fatta», «Vittoria entusiasmante»…), l’innamoramento per Tsipras, come già in passata per Vendola («uomo nuovo», «sta imparando»…), le accuse per i dirigenti dell’Europa, Merkel e Draghi compresi, tutti cattivi…
Sentivo risuonare in me il commento, innocente e misogino, del mio nipotino di sei anni: ah, le femmine!
Dalle rivolte del No alla rivoluzione dell’economia il passo è lungo… Alt! I No possono avere il loro significato e valore ma non sono il primo passo verso il cambiamento, ci vogliono dei sì. Abbiamo qualcosa da dire alla luce del primum vivere?
Sì. Su alcuni blog greci è apparso l’invito che viene da economisti, a stare all’essenziale, a innamorarsi di quello che veramente vale, con una critica dei consumi fatti senza criterio. I consumi! Che bello liberarsi del superfluo: in Grecia hanno inventato delle botteghe dove uno porta il superfluo in cambio di quello che gli è necessario: una bella trovata! «Non parlate male del superfluo: quando ho potuto comprarmi qualcosa in più, io mi sono sentita felice», obietta una. Il punto è questo, un’economia della felicità: ridefinire la crescita, parlare del lavoro, tutto il lavoro necessario alla vita… Come ha detto Ida Dominjanni, finalmente ricomincia la politica.
Sì, durante la crisi si sono aperti spiragli verso un’economia alternativa. Su tutto questo ci sono racconti e inchieste. Vorremmo conoscerle.
Quello che sta capitando non è leggibile in chiave esclusivamente economica. E nelle trattative che vanno avanti da mesi, non ci sono soltanto rapporti di potere. Ci sono correnti di fiducia, alleanze taciute, attese…
Il Sottosopra dice chiaramente che un cambiamento radicale di prospettiva, nel senso del primum vivere, verrà a condizione di portare uomini a vivere la vita quotidiana, alcuni cominciano a starci, ma la loro non è ancora esperienza parlante.
Gli interventi sulla crisi euro-greca si sono intrecciati e qualche volta mescolati con l’altro argomento, quello della depressione. Su questo tema è emersa subito una notevole competenza, in parte di origine scientifica o professionale, in maggior parte ricavata dall’esperienza personale e da letture libere. Nessuna difficoltà, su questo tema, a mettersi sulla strada per cogliere il punto di vista proposto nell’introduzione del tema: che ci sia lettura e trasformazione di questa sofferenza così diffusa tra noi e spesso dentro a noi.
Si è discusso del ricorso agli psicofarmaci: sì, no, ma solo per arrivare al punto. La depressione è una grande opportunità, dice una. Quale depressione? C’è una forma diffusa e c’è una forma grave… Ma quando parlano i vissuti, la dualità si attenua, e da un fondo cieco sale comunque la minaccia di uno squinternamento di sé.
La sofferenza più sensibile è data dalla perdita del desiderio (ma una dice: «mi fa perdere la ragione»), da cui un senso d’impotenza verso l’esterno. La risposta è ritrovare una certa padronanza. Ma come? Non isolarsi, non restare sole.
I dati del confronto fra i sessi vengono contestati: oggi gli uomini sono generalmente alquanto depressi. Le donne sembrano molto più esposte degli uomini a questa sofferenza perché chiedono aiuto più spesso e più chiaramente degli uomini. Questi ricorrono al suicidio quattro volte più delle donne… dove? In Europa… Oppure, prendono iniziative politiche, si aggregano velocemente e lanciano progetti senza pensarci tanto, tanto per reagire: al fondo di questo comportamento, la difficoltà che hanno a riconoscere la loro dipendenza.
Qualcuna respinge l’etichetta di “patologia” per la depressione. Era anche l’invito della Vigliani: e se non la chiamassimo depressione? Seguendo un filo di ricerca su cui sto lavorando, ho proposto di vedere in certe sofferenze che non hanno cause oggettive ma sono reali e s’impadroniscono della persona, vederci il farsi di un’opera d’arte che non ha trovato ancora compimento.
Alla fine dell’incontro (nel quale si è molto parlato anche di relazioni tra donne e con gli uomini, tema proposto da Laura Ming), sono tornata sulla verità soggettiva: oltre alle relazioni con altri, conta molto anche la relazione tra sé e sé. Come in una tenaglia, qui spesso resta presa la verità soggettiva, per cui quello che di fatto mettiamo a disposizione di altre, altri, spesso è una mezza finzione… un’opera d’arte malamente rifinita.
Commento per VD3 di Laura Minguzzi.
«E se non la chiamassimo depressione?» dice Ferdinanda Vigliani del Centro studi e documentazione del pensiero femminile di Torino. «Dare compimento simbolico al voler dire della depressione» dice Luisa Muraro.
Luisa chiude l’incontro di VD3 di domenica 12 luglio invitandoci a cercare ancora per trovare più verità soggettiva. Ci proverò. A me parla di più la parola “crisi” e sarei propensa anch’io a non chiamarla depressione perché in realtà si tratta di una crisi che taglia la propria vita in due, un prima e un dopo. Un taglio profondo che mette in discussione tutto. Come ha detto Silvia Motta «fa crollare le proprie sovrastrutture personali». Coinvolge il corpo prima di tutto ma è l’anima che si ammala per prima. Ci si avvolge su se stesse/i come un gomitolo. La caduta a precipizio del desiderio di vivere a certe condizioni provoca lo scatenamento dell’evento. Per questo si riallaccia assolutamente in linea diretta con il manifesto del Primum vivere.
Mi ricordavo di avere letto durante i miei studi un testo di Balzac in cui sosteneva che a trent’anni la vita di una donna subisce un giro di boa, cambia completamente. Poi avevo sentito dire che la depressione colpisce le donne in menopausa perché rifiutano di invecchiare. Questa spiegazione mi era stata data da uno psichiatra quando mia madre si ammalò e le prescrisse l’elettrochoc. Il sapere maschile sulle donne non può competere con l’ampia conoscenza che le stesse hanno per esperienza personale. Avevo trent’anni e un cambiamento s’imponeva allora in conseguenza delle mie scelte di libertà, ma non avevo la forza necessaria per andare fino in fondo. Stavo in mezzo al guado. Mi guardavo indietro e recriminavo su ciò che mi sarei lasciata alle spalle. Non volevo abbandonare quello che avevo costruito, le relazioni, cambiare città, allontanarmi dagli affetti per proseguire la mia strada. Ecco che si poneva l’aut aut, o questo o quello…
Una società fondata su tali presupposti che ponevano certe condizioni per potere realizzare un desiderio e quelle condizioni io le rifiutavo. Oggi penso, a ragione, che una simile società deve cambiare. Il mondo deve cambiare perché il mio desiderio non porti sofferenze e provochi malattia.
Pensare occupava tutto il mio tempo, non avevo tempo per altro. Sono persuasa che il rifiuto di vivere contiene tanta rabbia e la comprensione profonda di quello che dovrebbe modificarsi perché si possa vivere con agio. Sono stata tirata su dal sottosuolo da una donna che non ha avuto paura delle accuse di maternage che le erano rivolte mentre si prendeva cura di me. Mi sorvegliava, una guardiana della vita, della mia vita. Anche lei stava attraversando un passaggio faticoso di grande cambiamento e forse per questo poteva capire e sopportare il mio stato di morte apparente. Uno stato che si può paragonare ai semi nel terreno ricoperto di neve che si trasformeranno nei germogli di grano in primavera. Bisogna crederci in questa metamorfosi.
Invito a incontrarsi
alla Libreria delle donne di Milano
la mattina della domenica 12 luglio 2015, ore 10
per un nuovo incontro di Via Dogana 3
In vacanza per sempre è il titolo che diamo a questo invito. È un invito ad alimentare le risorse della felicità scoperte con il femminismo. Pensiamo alle presenze amicali. Pensiamo all’intelligenza (intus legere, leggere dentro) di quello che accade in oscure caverne e alla luce del sole. Pensiamo alla magia di ri-trovarsi con (o: in) altre e altri per uscire da muri troppo stretti, o per attraversarli, se non hanno passaggi.
Noi due, Laura Ming e Luisa Mur, cercheremo di darvi il buon esempio con la nostra introduzione di quattro argomenti. In tutto, venti minuti, dopo di che verrà lo scambio allargato con idee liberamente affioranti e poi, intorno alle 13.30, lo spuntino sul posto, un luogo che quasi tutte/i conoscete, fresco al naturale (non: forced air).
È prevedibile che rispunterà qualche filone dell’incontro precedente, il 17 maggio, di cui trovate nello spazio di VD 3 SITO un resoconto fatto da Laura Minguzzi e Silvia Baratella. Non escludete, però, tuffi in acque diverse.
Il criterio cui restiamo fedeli: partire da sé lasciandoci occupare da altro.
Siamo in via Pietro Calvi 29 (vicino a Piazza Cinque Giornate), MI, 0270006265 telefonate o meglio scrivete (info@libreriadelledonne.it) per informazioni circa questo incontro e Via Dogana.
Dopo la positiva affermazione di Tomboy (2011) Céline Sciamma torna al tema a lei caro dell’adolescenza e in particolare al momento in cui essa sta per finire. Protagoniste quattro ragazze che cercano di trovare la loro strada per vivere liberamente le loro vite. Ciò che alla regista preme mettere in scena, come nei film precedenti, è «l’agitazione del desiderio, la forza della femminilità e la necessità di sfuggire a un destino prestabilito», in un pressante bisogno di ricerca di identità.
Prestabilito sembra esserlo il destino di Marieme, Fily, Adiatou e Lady, sedicenni francesi, figlie di immigrati africani, nella banlieue di Bagnolet o di Bobigny vicino a Parigi, dove la fatica di crescere, di per sé già difficile e dolorosa, in questo contesto si misura con la miseria materiale, culturale e di relazioni. Relazioni che nel quartiere sono prevalentemente di potere: i ragazzi sulle ragazze, gli uomini sulle donne tutte – e sopra loro i boss della malavita; in famiglia il controllo violento rdei padri e, in loro assenza, quello dei figli e dei fratelli su madri, sorelle e fidanzate.
Le reazioni di Marieme alla notizia dei suoi scadenti risultati scolastici, che preludono a un immediato futuro di miserabili lavori che ben conosce, e l’incontro con le altre tre ragazze sono la molla del suo cambiamento. Lei che inizialmente appare docile, mansueta, sottomessa diventa nella banda Vic, diminutivo di Victory, e il cambiamento non è solo negli atteggiamenti e nell’abbigliamento, è anche fisico, del suo corpo.
Il film mostra le varie fasi in cui matura la consapevolezza di quello che la nuova Vic vuole per sé.
Le scorribande nei centri commerciali, in metropolitana, le provocazioni verbali con altre giovani, la notte in una stanza d’albergo passata a sognare e a cantare Diamonds di Rihanna sono per le quattro ragazze la loro forma di ribellione, di affermazione e di separatezza dal presente quotidiano. Esaltanti, di fatto piccole e ambigue trasgressioni. Per Marieme-Vic diventano le occasioni e i momenti del suo percorso di trasformazione verso l’età adulta. Un passaggio incerto – come incerta ancora è la ricerca di sé, di ciò che ritiene importante –, che vuole comunque percorrere e costruire in autonomia e in libertà. Via dalle regole malavitose del quartiere e del fratello, via anche dall’innamorato Ismaele, gentile, non violento, con cui vivrebbe comunque situazioni e un futuro da cui vuole fuggire.
Girato con un bel ritmo, sostenuto da una vivace colonna sonora, il film trasmette energia e speranza. Ottimamente recitato da un cast non professionista, ha una fotografia ricercata dove la predominanza dei toni dell’azzurro contrasta scenograficamente con i corpi delle ragazze.
Un buon film sull’adolescenza – non giudicante – da accostare ad altri: 17 Ragazze di Delphine e Muriel Coulin (2011) e Foxfire (2012) di Laurent Cantet dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates.
Diamante nero – Bande de filles, regia di Céline Sciamma, Francia, 2014, 112’
Domenica 17 maggio 2015, mattinata calda e soleggiata, un anticipo d’estate. La sala del Circolo della rosa è piena di persone e di voglia di stare e pensare insieme. È il primo incontro di Via Dogana 3, il progetto che nasce dopo la chiusura della seconda serie della rivista Via Dogana. Ci sono donne – e alcuni uomini – venute da ogni parte d’Italia e due anche dalla Spagna. Alla fine della riunione ci attende un buffet.
Apre l’incontro Luisa Muraro:
«Quello che capita qui è qualcosa di potenziale. È una proposta di input problematici. Questo luogo può diventare un momento di riflessione di politica delle donne e di uomini che rispondono a certe proposte del femminismo, sempre tenendo aperti gli elementi conflittuali. Abbiamo risposto a un desiderio di momenti di riflessione teorica. Ogni due mesi ci ritroveremo a discutere.
Perché mi sono associata a Laura Minguzzi che non fa parte della redazione ristretta? Per le sue qualità, perché è legata a noi, perché è presidente del Circolo della rosa e perché molto legata all’impresa della pratica della storia vivente.
Qual era il difetto di Via Dogana seconda serie, arrivata al numero 111? Era un buon prodotto, non lo nego, e alcune si adoperavano per farlo esistere al meglio, ma non bisogna restare mai imprigionate nella propria impresa. Era come se facessimo apparire più di quello che c’era. Ora abbiamo un prodotto più precario. Esisterà quello che faremo esistere, ciascuna e ciascuno di noi, facendo apparire quello che effettivamente c’è in questa doppia veste. Sono convinta che l’agire politico, per l’essenziale, – richiamo Hannah Arendt – sia esporsi in prima persona là dove si è, nel momento in cui le cose lo domandano. Prendere l’iniziativa. Solo dopo vengono la tenacia e la fedeltà». E conclude: «Con Laura Minguzzi mi sono accordata per proporre alla discussione due temi ciascuna che ci stanno a cuore».
Primo tema proposto da Laura Minguzzi: la guerra in Ucraina oggi. Dopo la pacifica “rivoluzione arancione” del 2004, c’è stata la proposta di adesione all’Unione Europea, il colpo di stato del 2014 e lo scoppio del nazionalismo.
Laura era in relazione con Tatjana, sua figlia Olga e altre che animano il sito di Storia delle donne in Ucraina. Dopo tutte queste vicende, nella relazione si è prodotta un’impasse. Tatjana non vuole definire “guerra civile” ciò che accade, sostiene che il suo paese è in guerra con la Russia di Putin che vuole impedirgli di entrare nell’Unione Europea, di cui lei vuole far parte. Laura si chiede come stia insieme la libertà femminile con il loro sostegno indiretto all’attuale governo, e non riesce a riportare il discorso fuori dallo schieramento nazionalista.
Primo tema di Luisa Muraro: parte dal racconto di Lucia Bertell di Verona sulla sua esperienza alla manifestazione del primo maggio a Milano (http://www.libreriadelledonne.it/sui-fatti-del-primo-maggio-a-milano/). Una manifestazione gioiosa, ricca e articolata, a cui lei ha voluto partecipare a partire dalla sua esperienza del FuoriExpo, precipita negli scontri e nella violenza. Lucia si è sentita vittima di un’ingiustizia, defraudata. Ma nel suo racconto, dice Luisa, ingloba un giudizio complessivo tipico della sinistra antagonista, critica anche Vandana Shiva per la sua partecipazione a Expo: crea uno schieramento. Un paradosso che si collega a quello che diceva Laura.
Secondo input di Laura: l’economia della restituzione simbolica. Le Donne in nero hanno istituito un “tribunale delle donne” a Sarajevo in cui, attraverso la presa di parola e la narrazione della loro storia, in presenza di donne a cui è stata riconosciuta autorità, le vittime degli stupri durante la resistenza e le guerre balcaniche ricevono, come prima forma di giustizia, rilevanza simbolica. Si infrange così il silenzio dei governi e dei tribunali sulle violenze contro le donne e diventa possibile parlarne come di un fatto politico. È un inizio.
Secondo input di Luisa: gli scenari di violenza in Medio Oriente e l’estremismo religioso. Le donne c’entrano, ma come? Come bersaglio della violenza che fa notizia, cioè quella su di loro, sui cristiani e sulle opere d’arte; come adepte che fanno propaganda, esibite per mascherare il fatto che siamo in presenza di un “fra uomini”. Anche l’Occidente usa le donne in questo senso. Prese in questa contraddizione, ci ritroviamo fuori gioco. Forse l’essenziale della questione ci è invisibile. Com’è accaduto a Laura con Tatjana, anche il suo scambio con la studiosa marocchina Aïcha El Hajjami si è interrotto da quando c’è di mezzo l’Isis.
«Qual è il senso di questo incontro», conclude Luisa, «non essendoci la meta (cioè la rivista da far uscire) che dà la misura? In prima battuta, il senso è quello di una palestra di parola, di scambio fra noi, stare insieme senza pensare alla scrittura. In seconda battuta, c’è la scrittura». Il progetto è di fare incontri periodici, liberi, fucina di scambi intensi che permettano alle singole di pensare e scrivere testi per il sito. La questione primaria è esserci in prima persona e prendere iniziative. Gli stimoli sono importanti anche per elaborare la nostra pratica in città. Per esempio: a Milano, alcune che hanno un progetto di riqualificazione di un’area urbana dismessa (la Piazza d’Armi di Baggio), stanno cercando di capire come farlo approvare usando l’autorità femminile, cercando una relazione con donne di qualità nell’amministrazione milanese, anziché impantanarsi in percorsi faticosi, burocratici o rivendicativi.
C’è bisogno di parola e di scrittura su casi come questi, per leggere l’esperienza. È necessario il confronto fuori dagli schieramenti e dalle mediazioni, per capire se si fa un passo avanti o un passo indietro.
Queste le introduzioni. Ora gli interventi. Cercheremo di rendere i fili conduttori del dibattito e gli spunti che più ci hanno interessato, senza citare tutto quello che è stato detto, né tutte quelle che hanno parlato.
Anche Milagros Rivera ha fatto esperienza del nazionalismo e delle impasses che può produrre nelle relazioni tra donne, tanto che ha lasciato la sua Barcellona per trasferirsi a Madrid. Dalle donne del nazionalismo catalano le era diventato ormai impossibile farsi ascoltare, le veniva richiesto solo di dichiarare uno schieramento. Milagros voleva tenere viva la sua lingua, il castigliano, e non schierarsi, e la situazione era diventata insostenibile. Adesso un’amica di Duoda l’ha capita, e il suo pensiero non è più indicibile. Ha ricevuto una restituzione simbolica, che le ha permesso di continuare i rapporti con Duoda, il centro di ricerca che aveva fondato con altre anni fa. Anche se preoccupazioni per le possibili evoluzioni della crisi catalana restano, c’è stato un passo avanti.
Vita Cosentino, più tardi, dirà che questo imperversare di violenza fra uomini ha ammutolito scambi importanti, e che per superare l’impasse occorre intensificare gli scambi. «Sì, però nel qualitativo, nella qualità delle relazioni!» precisa Luisa.
Scambi con donne forti, spiega Vita, con esperienze diverse dalle nostre ma con pratiche comuni. «Ieri sera Vandana Shiva era qui e ha riconosciuto la Libreria come un “luogo di vera democrazia”, un luogo in cui c’è qualcosa di un ordine differente». Un’altra restituzione simbolica.
Un intervento ha attaccato scienza e tecnologia, un’altra ha reagito per difendere il valore della scienza. Le voci si sono alzate, una terza si è inserita: «Ma tu la usi la lavatrice?», ci siamo interrotte a vicenda. Luisa Muraro ha tolto la parola a tutte: discuterne così porta solo a una rissa. L’argomento per ora è in quarantena.
Altro abbozzo di polemica, stavolta su cultura islamica e cultura occidentale.
Marina Terragni a Luisa Muraro: «Ammetti che in Occidente si vive meglio che nel mondo musulmano!»
Luisa Muraro: «Posto in questi termini, rifiuto di rispondere e te l’ho già detto!».
Lia Cigarini ha ripreso la vicenda narrata da Lucia Bertell. Partecipando in prima persona con pratiche di autorità femminile all’elaborazione di gruppo sui temi di FuoriExpo, Lucia pensava di potersi inserire tranquillamente in una manifestazione che rispecchiava altre pratiche (la tradizionale Mayday Parade del primo maggio, che quest’anno aveva la parola d’ordine No-Expo). Credeva che la sua pratica fosse parlante ovunque. Invece il confronto tra pratiche politiche e tra pratiche e contesti dev’essere studiato come strategia.
La stessa esperienza l’ha fatta il gruppo dell’Agorà del lavoro. «È stata un’esperienza positiva, ma non completamente. C’era infatti la convinzione che intorno alla pratica del partire da sé si sarebbero raccolti automaticamente tutti e tutte quelle che hanno un pensiero altro sul lavoro. Quella pratica ha invece allontanato dall’Agorà uomini che al principio erano interessati». Bisogna affrontare il passaggio tra la tua pratica e il contesto, le forze in campo. Per esempio, Lucia Bertell ha sottovalutato che in campo c’erano i black block. La manifestazione del 1° maggio è stata distrutta dai black block, il 2 maggio la cittadinanza è scesa in strada per cancellare le tracce della violenza: in entrambi i momenti non sono emersi i temi della manifestazione.
Loredana Aldegheri parla di insufficienza della politica prima, quella del partire da sé: «Riesce sì a creare frutti fecondi dal basso, ma non riesce a generare universali, nuovi paradigmi, ordine simbolico. I poteri forti continuano a rigenerarsi e i giochi di potere non arretrano».
Lia critica l’espressione di Loredana: «Finché si sta “in basso” non si ottiene niente. Si resta in posizione inferiore. Per fare il lavoro simbolico non si deve stare in basso». Per fare il lavoro del simbolico, si deve fare una scelta e «dare priorità a quelle donne in cui tu pensi ci sia un di più», dice citando Marirì Martinengo.
Anche Vita Cosentino riprende la storia di Lucia, ma registra un dato positivo: «Da No-Expo a FuoriExpo si è realizzato un grande spostamento». Fa un’analogia con il Fuori Salone nato a Milano dal Salone del Mobile e diventato ora più importante della manifestazione ufficiale: «Chi si inventa qualcosa, abbandonando la pratica della sinistra di opporsi e basta, produce cambiamento. Il cambiamento allora non passa per il ribaltamento, per la rivoluzione come diceva il marxismo, ma per la metamorfosi».
«Il Fuori Salone del mobile ha dato un’immagine di città», aggiunge Sandra Bonfiglioli, «un processo che ha acceso altri processi di visibilità. Occorre fare attenzione a questi processi radicati in luoghi: è la città stessa che nella sua molteplicità si fa vedere. È una pratica milanese. Anche noi possiamo innestarci nella città con la nostra presenza e cambiare le cose».
Annarosa Buttarelli pensa che la politica prima non possa più essere proposta come abbiamo fatto finora. «Non abbiamo abbastanza pratiche pubbliche. Occorre registrare il fatto che la differenza femminile si articola. Non può essere riportata alla formula unitaria “le donne sono ovunque”.» La sua formula è quella della sovranità, che si sta articolando in modi ancora da scoprire.
«Non amiamo abbastanza le altre donne» replica Luisa. «Lo spostamento di amore sulle altre ha portato grandi cose. In quella dimensione di sovranità non c’è abbastanza amore di donna verso donna. Il rifiuto della femminilità è il rifiuto del contatto con il corpo materno. L’amore è un’entità inesauribile. Se il circolo è virtuoso si produce nuovo amore. Non è uno spostamento solo di quantità, ma di importanza e di valore. È importante mettere in ordine attraverso la scrittura il pensiero che si è guadagnato insieme: Milagros ha parlato di “restituzione simbolica” dopo uno scontro tra donne, è una definizione precisissima».
Più tardi Luisa dirà anche: «Se c’è qualcosa di positivo nella relazione con una donna che occupa una posizione di potere, allora lì c’è anche la politica. Non c’è una separazione tra i buoni rapporti da una parte e la politica dall’altra. Il mettere insieme la politica e l’amore fa esplodere le due cose… Si cambia non solo concezione della politica, ma soprattutto concezione dell’amore».
Sul conflitto, Chiara Zamboni parla di quello in atto fra paradigmi: da un lato, un’organizzazione della società aggressiva e dominatrice e dall’altro, come ha detto la sera prima Vandana Shiva, l’erba calpestata che rialza sempre la testa. «Noi donne – dice – abbiamo la tendenza a mettere d’accordo tutti, il nostro elemento di forza sono le relazioni. Ma è il conflitto che porta alla consapevolezza. Il conflitto non si può evitare».
Ana Mañeru, l’altra amica spagnola, racconta l’esperienza di un conflitto lacerante fra donne a Madrid. Scrivendo a Luisa ha fatto ordine nel suo pensiero e ha capito che il conflitto era in lei. Aveva idealizzato la politica delle donne e metteva il progetto al di sopra delle relazioni. Quando ha smesso di pensare a come realizzare al meglio il progetto e si è dedicata a curare al meglio le relazioni, il conflitto si è risolto.
«Portate delle esperienze di agire politico per arrivare a costruire figure di scambio, e siate precise nell’indicare quali sono i conflitti e quali le scelte», invita di nuovo Lia. «Il punto debole che può generare conflitti fra donne è la questione dell’autorità femminile, messa sull’altare e poi sempre stracciata. Affrontiamola.»
Per esempio, riguardo all’Expo lei si è sentita spinta a fare qualcosa in più di un banchetto di libri alla Cascina Triulza quando ha visto che Vandana Shiva ha accettato di andarci come ambasciatrice.
«Vandana Shiva, che è impegnata dal 1975 nella sua lotta, per me è un riferimento di autorità su temi di cui, personalmente, so ben poco. Mi sono affidata alle ragioni che sicuramente Shiva avrà meditato per decidere di esserci». È la mancanza di autorità che crea conflitti. Nel rapporto col mondo, non si tratta di schierarsi di qui o di là solo perché le donne “c’entrano”, ma di passare attraverso una relazione, a volte di prossimità, in altri casi come con Vandana Shiva, di competenza, dove non si hanno conoscenze dirette.
«C’è molto in quanto ci siamo dette, ci sono questioni di grande importanza per una politica che consiste nell’esporsi in prima persona dove ci si trova a vivere – conclude Luisa – Abbiamo lavorato bene; il seguito è affidato a singole, gruppi, circostanze, occasioni. Quello che non avete detto e che avete pensato qui dentro è di enorme importanza, è quasi più prezioso di quello che è stato detto.»
… È il momento di passare alla “seconda battuta”, alla scrittura: scrivete, allora, e mandate i vostri preziosi pensieri, inespressi o già palesati, o i racconti delle vostre pratiche e delle vostre esperienze, con oggetto “Via Dogana 3”, all’indirizzo del sito della Libreria delle donne: info@libreriadelledonne.it
Abbiamo già ricevuto un contributo di Vita Cosentino, in cui approfondisce il tema dello spostamento simbolico dato dal FuoriExpo: http://www.libreriadelledonne.it/dal-fuori-salone-al-fuori-expo/ e due dalla Spagna: uno di Milagros Rivera, su nazionalismo, donne politiche e prostituzione, e uno di Ana Mañeru, sul conflitto tra donne, che trovate qui, nella sezione #ViaDogana3 del sito.
Aspettiamo anche i vostri!
Quando parliamo (io, per esempio) di “conflitto tra donne”, ciò di cui stiamo parlando davvero è di “conflitto tra due donne”, una delle quali di solito è quella che introduce l’argomento, cioè quella che è preoccupata per qualcosa ma non riesce a nominarla in prima persona (o lo teme) e la lascia velata in un plurale che diventa una generalizzazione e che è un’inquietudine per tutte (lei per prima): crescono i sospetti, le supposizioni, il timore che il problema sia più grande di quello che è… Cioè questo plurale, che in apparenza si potrebbe pensare che si usa per ammorbidire le tensioni, per non “personalizzare” e fare meno male, in realtà risulta molto distruttivo, dato che inoltre favorisce il parlare di nascosto, il fare schieramenti, o porta a credere che la potenza delle relazioni tra donne non esista.
“Conflitto tra due donne” è qualcosa alla nostra portata, però al plurale diventa straripante. “Conflitto tra donne” è un’astrazione che rende difficile capire, specialmente a chi la dice, di che cosa si stia parlando e pertanto rende difficile risolverlo in qualche modo: modificando se stessa, lasciando cadere quella relazione, combattendo per ciò che lei pensa debba essere, cercando una mediazione vera invece che partigiane, lasciando in sospeso… ma non lasciando che passi a ingrossare quel sacco indefinito de “i problemi di relazione tra donne”, che pesa come la pietra e non porta a niente di buono.
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)
——–
de Ana Mañeru
Cuando hablamos (yo, por ejemplo) de “Conflicto entre mujeres”, de lo que estamos hablando realmente es de “Conflicto entre dos mujeres”, una de las cuales suele ser la que introduce el tema, es decir a la que le preocupa algo pero no acierta (o teme) nombrarlo en primera persona, y lo deja velado en un plural, que se convierte en una generalización y que es una inquietud para todas (para ella la primera): crecen las sospechas, las suposiciones, el temor a que el problema sea mayor de lo que es…, es decir, ese plural, que en apariencia se podría pensar que se usa para suavizar las tensiones, para no “personalizar” y dañar menos, en realidad resulta muy destructivo, pues además favorece hablar por lo bajo, hacer bandos, o lleva a creer que no existe la potencia de las relaciones entre mujeres.
“Conflicto entre dos mujeres” es algo abarcable, pero en plural se desborda. “Conflicto entre mujeres”, es una abstracción que dificulta entender, especialmente a la que lo dice, de qué se está hablando y por tanto resolver de algún modo: transformándose una misma, dejando caer esa relación, peleando por lo que ella piensa que debería ser, buscando mediación verdadera en lugar de partidarias, dejándolo en suspenso… pero no dejando que pase a engrosar ese saco indefinido de “los problemas de relación entre las mujeres”, que pesa como las piedras y no lleva a nada bueno.
Al termine del bell’incontro di Via Dogana 3, lo scorso 17 maggio a Milano, Luisa Muraro ci chiese di scrivere, e di farlo specialmente su ciò che nell’incontro era rimasto non detto. A volte, ciò che resta non detto lo si scopre più tardi, suscitato da quanto successo nella riunione stessa. Da parte mia, sul filo di una proposta di Laura Minguzzi, ero intervenuta per raccontare un’esperienza di indizi di simbolico tra donne del nazionalismo catalano con cui sono in relazione. Benché il nazionalismo sia una questione incandescente in varie culture europee odierne, non si parlò quasi più della cosa nel corso dell’incontro, come se non interpellasse noi che eravamo lì.
In realtà, pochi giorni dopo essere tornata a Barcellona ci furono in Spagna elezioni comunali e in molte regioni anche elezioni autonomiche (dei parlamenti regionali, ndr.). La spinta di un partito ideologicamente non nuovo ma con facce e alleanze nuove, Podemos, scompigliò gli equilibri delle forze contrapposte da decenni intorno al nazionalismo, togliendogli protagonismo. E molte donne, vissute in positivo come potere debole, erano a capo di varie tra le liste più votate, soprattutto nelle elezioni comunali, che attraversavano le linee divisorie tra territori e tra destra, centro e sinistra. Le univa un senso femminile della giustizia sociale (un no deciso al restare senza casa, cioè un no agli sfratti) e il rifiuto della corruzione, che qui è principalmente traffico di influenze, traffico che porta illegalmente molto denaro pubblico in mani private, impoverendoci. Qualche giorno dopo, il 4 giugno, nel processo di negoziazione di patti per potersi tenere il municipio di Barcellona, ci fu la notizia che Ada Colau (probabile sindaca) aveva rifiutato il patto proposto da Esquerra [Sinistra] Republicana de Catalunya di formare un fronte per la sovranità, intesa come sovranità nazionale, non come sovranità spirituale di ciascuna creatura umana per il fatto di essere nata. Prima, lei aveva fatto parte di questo fronte.
Si tratta di un passo involontario che permetterà che acceda alla coscienza e si esprima politicamente il principale problema politico che ci circonda e interpella da anni (e che mi ha fatto decidere di votare socialista), problema che non è il nazionalismo bensì la prostituzione? Ada Colau, che non scende a patti in questo momento con il soberanismo nazionale, ha accettato, invece, di regolare la prostituzione, che equivale a legalizzarla, legalizzando un tipo di schiavitù e normalizzando la violenza contro le donne. Non ha voluto o non ha saputo vedere che questa decisione (diffusa in un modo che molte che l’hanno votata non hanno colto) non solo va contro lei stessa come donna ma anche contro le sue possibilità di conservare il potere per il quale ha lottato, dato che, essendo il potere innanzitutto potere sui corpi, e tra i corpi specialmente su quello femminile, che li concepisce, li tiene in gestazione e insegna loro la competenza di andare avanti qui nel mondo, difficilmente conserverà il potere raggiunto se cede qualcosa di tanto essenziale come la signoria simbolica del suo corpo a uomini che loro sì sanno dove custodiscono la leva del proprio potere.
Pur senza essere mai stata una donna di partito, ho riconosciuto con il mio voto il talento politico e il valore umano del gruppo di donne socialiste (non tutte) che da anni fanno sì che il loro partito rifiuti sia la legalizzazione sia la regolazione della prostituzione. Dopo le elezioni e in modo personale, Cristina Cifuentes, la candidata del Partido Popular alla presidenza della Comunidad de Madrid, ha dichiarato spontaneamente che non legalizzerà mai la prostituzione. Manuela Carmena, ex comunista e probabile sindaca di Madrid, ha cercato di uscire dalla stretta dichiarando che «bisogna prima sentire tutte le parti», come se ce ne fossero. Ce n’erano nelle società schiaviste?
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)
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de María-Milagros Rivera Garretas
Al terminar el precioso encuentro en Milán de Via Dogana 3 el pasado 17 de mayo, Luisa Muraro pidió que escribiéramos, y que lo hiciéramos, en especial, de lo que en el encuentro se había quedado sin decir. A veces, lo que se queda sin decir se descubre más tarde, suscitado por lo sucedido en la propia reunión. Por mi parte, al hilo de una propuesta de Laura Minguzzi, intervine para contar una experiencia de indicios de simbólico entre mujeres del nacionalismo catalán con las que estoy en relación. Aunque el nacionalismo es una cuestión candente en varias culturas europeas de hoy, la cosa no dio mucho más que hablar a lo largo del encuentro, como si no interpelara a las que estábamos allí.
Efectivamente, días después de volver a Barcelona hubo en España elecciones municipales y, en muchas regiones, autonómicas. El impulso de un partido de ideología no nueva pero de caras y alianzas nuevas, Podemos, desbarató los equilibrios de las fuerzas contrapuestas durante décadas en torno al nacionalismo, quitándole protagonismo. Y muchas mujeres, vividas en positivo como poder débil, encabezaban varias de las listas más votadas, sobre todo en las elecciones municipales, atravesando divisorias entre territorios y entre derecha, centro e izquierda. Las unía un sentido femenino de la justicia social (un no rotundo al quedarse sin casa, o sea, un no a los deshaucios) y el rechazo de la corrupción, que aquí es principalmente tráfico de influencias, tráfico que lleva ilegalmente mucho dinero público a manos privadas, empobreciéndonos. Unos días después, el 4 de junio, en el proceso de negociación de pactos para poder quedarse con la alcaldía de Barcelona, fue noticia que Ada Colau (probable alcaldesa) había rechazado el pacto propuesto por Esquerra Republicana de Catalunya para formar un frente soberanista, entendido como soberanía nacional, no como soberanía espiritual de cada criatura humana por el hecho de haber nacido. Antes, había formado parte de este frente.
¿Se trata de un paso involuntario que dejará que acceda a la conciencia y se exprese políticamente el principal problema político que nos ronda e interpela desde hace años (y que a mí me ha decidido a votar socialista), problema que no es el nacionalismo sino la prostitución? Ada Colau, que no pacta en este momento con el soberanismo nacional, ha aceptado, en cambio, regular la prostitución, que es lo mismo que legalizarla, legalizando un tipo de esclavitud y normalizando la violencia contra las mujeres. No ha querido o no ha sabido ver que esta decisión (difundida de un modo que no se enteraron muchas que la han votado) no solo va contra ella misma como mujer sino también contra sus posibilidades de conservar el poder por el que ha luchado, ya que, siendo el poder, ante todo, poder sobre los cuerpos y, entre los cuerpos, especialmente sobre el femenino, que los concibe, gesta y enseña la competencia de seguir aquí en el mundo, difícilmente conservará el poder alcanzado cediendo algo tan esencial como el señorío simbólico de su cuerpo a hombres que sí saben dónde guardan ellos la palanca de su poder.
Sin haber sido nunca una mujer de partido, he reconocido con mi voto el talento político y el valor humano del grupo de mujeres socialistas (no todas) que desde hace años hacen que su partido rechace tanto la legalización como la regulación de la prostitución. Después de las elecciones y de un modo personal, Cristina Cifuentes, la candidata del Partido Popular a la presidencia de la Comunidad de Madrid, ha declarado espontáneamente que nunca legalizará la prostitución. Manuela Carmena, excomunista y probable alcaldesa de Madrid, ha intentado salir del aprieto declarando que “hay que oír primero a todas las partes”, como si las hubiera. ¿Las había en las sociedades esclavistas?
Se l’amore materno, quell’amore generativo, primariamente creativo e trasformativo ha ricevuto ampiamente le sue rappresentazioni nel cinema, l’amore di una figlia, non solo quello dato nelle forme di restituzione e riconoscenza, ma il sentimento capace di essere anch’esso generativo e trasformativo, ha avuto, sempre cinematograficamente parlando, rari esempi di narrazione.
Ricordo film come Castellana Bandiera di Emma Dante, Il Canto di Paloma di Claudia Llosa, Tra cinque minuti in scena di Laura Chiossone e sopra tutti Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi.
Accade ora nel bel film della regista brasiliana Anna Muylaert che, nelle forme lievi e apparentemente briose della commedia, pone al centro una relazione madre-figlia capace di produrre cambiamenti radicali, materiali e di ruolo, in entrambe.
Ambientato in una borghese villa di S. Paolo, dove Val è domestica con funzioni di vice-madre del figlio della ricca e indifferente coppia dei suoi padroni, il film in poche e rapide scene inquadra immediatamente il sistema di rapporti di lavoro e la rigida divisione di classe e sessista vigente ancora oggi in Brasile.
L’arrivo di Jessica, figlia di Val, vissuta con i parenti nel lontano nordest e giunta in città per sostenere l’esame di ammissione all’università, mette in moto una serie di dinamiche che producono incisive incrinature sulla presunta, ordinata, stabilità della vita quotidiana della famiglia e dei suoi rapporti con la domestica.
Madre e figlia, dopo anni di lontananza, fra momenti di forti conflitti e di sincere rivelazioni, riprendono in mano una relazione da entrambe riconosciuta vitale e generatrice di scambi vantaggiosi.
Nella madre parla la forza dell’esperienza, ma anche quella della rassegnazione e dell’accettazione, mentre nella figlia a prevalere è il desiderio potente di affermazione di sé, di una vita e un futuro liberamente creati, perché per la sua generazione la libertà femminile ormai c’è, è in giro, gira per il mondo – e gira anche in Brasile – respirata insieme all’aria, acquisita come si acquisiscono le belle cose a lungo desiderate.
Per Val, il reciproco scambio di esempi di libertà conquistate ha il senso di produrre una rivoluzione nei comportamenti e nei ruoli fino ad allora accettati e anche nel suo sguardo sulla figlia – non più una sua appendice, anche nei modelli di comportamento da riprodurre –, ma una giovane donna di valore con cui intrattenere una relazione portatrice di novità e di reciproci guadagni. Per Jessica ha il significato di accettare l’amore materno, da cui lungamente è stata separata, che con tutti i suoi ingombri è comunque in grado di evolvere in forme dalle generose prospettive.
Per madre e figlia ha il senso di un ritrovarsi, un riconoscersi: due donne fuori dai tradizionali ruoli di dipendenza, per scambiarsi forme di libertà.
È arrivata mia figlia, regia di Anna Muylaert – Brasile, 2015, 114’
Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese
Siamo felici di segnalare l’uscita dell’antologia poetica La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster e Anna Maria Robustelli (La Vita Felice, Milano 2015). Sono sessanta poesie di autrici di lingua inglese di varia nazionalità dell’ultimo quarantennio, in una raccolta di grande interesse letterario, antropologico, politico. Dal difficile equilibrio tra fusionalità e necessità di separazione alla rinegoziazione postuma del rapporto fino alla genealogia nel linguaggio, questi testi molto belli e coinvolgenti illuminano con verità aspetti inediti, in positivo e in negativo, della relazione madre-figlia. Per Via Dogana, Anna Maria Robustelli aveva scritto su Eavan Boland, una delle più significative poete irlandesi contemporanee (VD n.93, 2010), e insieme a Fiorenza Mormile sul mito di Demetra e Persefone nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese (VD n.95, 2010), un aspetto della ricerca che ha portato a questo libro.(C.J.)
La notizia dell’Irlanda che ha detto sì al matrimonio omosessuale con un referendum popolare (62,1% dei voti) ha riacceso le speranze di chi vuole introdurre in Italia, paese anch’esso cattolico e tradizionalista, la regolarizzazione giuridica delle coppie dello stesso sesso che lo desiderino. Per sostenerne la necessità, vengono però diffuse informazioni false e controproducenti sulla normativa in vigore, in particolare riguardo al destino dei figli della coppia. Per esempio, ho sentito spesso dire (anche alla radio) che in caso di morte della madre o del padre “ufficiale”, la creatura verrà portata via all’altro genitore e dichiarata adottabile. Non è ciò che stabilisce la legge sul Diritto del minore a una famiglia (l. 184/1983): i minori possono essere adottati anche da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre, e in questi casi l’adozione è consentita anche a chi non è coniugato (art. 44). Questo non vuol dire che non possano insorgere problemi, per esempio un conflitto tra i nonni e la compagna della madre “ufficiale”, in caso di morte di questa madre, ma certo non che la creatura venga dichiarata in stato di adottabilità se c’è chi ha con lei un preesistente legame come l’altra madre o l’altro padre. Quindi vorrei che si facesse più attenzione nel dare le informazioni, quelle sbagliate possono provocare ansie e inutili sofferenze in una situazione ancora abbastanza nuova.
Detto questo, si pone un altro problema, in termini più sostanziali, dato dall’enorme squilibrio giuridico tra i due genitori dello stesso sesso (viventi): uno dei due addirittura non esiste per la legge e dunque per l’ordine simbolico e sociale che essa esprime. Eppure le situazioni di fatto esistono: conosco una coppia di donne che hanno una figlia ma solo una delle due madri lo è ufficialmente, e so di una coppia di uomini che vivono con il figlio di uno di loro ma si considerano padri entrambi. Sono situazioni non vietate, e questa è la cosa più importante perché permette di agire il cambiamento nella pratica e sul piano culturale, che è la cosa più efficace come sappiamo grazie al femminismo. Tuttavia mi domando se l’assoluto squilibrio giuridico non influisca negativamente in un ambito delicato come questo delle relazioni genitoriali, «dove gli angeli esitano».
Non sono mai stata una sostenitrice dell’introduzione del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Da cinquant’anni nel movimento delle donne lavoriamo a creare relazioni libere tra donne (e tra donne e uomini), legami non previsti dall’ordine patriarcale e non inquadrabili giuridicamente, forme che non hanno bisogno di essere istituzionalizzate. Io sono sempre in questa ricerca, che diminuisce l’importanza simbolica e materiale del matrimonio e della famiglia, per una socialità più libera, governata più dall’autorità che dalla legge. Ma mi rendo conto che quando in tali legami liberi nascono o entrano creature piccole, il rapporto delle persone adulte con queste creature viene inevitabilmente iscritto nelle forme giuridiche previste dall’ordinamento. Così, mentre in una coppia donna-uomo non sposata entrambi sono genitori dei loro figli a tutti gli effetti, ormai, in una coppia dello stesso sesso no, e si crea una situazione magari ben saldata dall’affetto ma certamente difficile da vivere, sottoposta a continue prove, perché il rapporto tra genitori e figli minori è sempre più pervasivamente controllato dalle istituzioni.
Se la legge è ferma, qualcosa però si sta muovendo in ambito giurisdizionale: con un decreto datato 29 ottobre 2014 e depositato ai primi di gennaio 1, la Sezione famiglia della Corte d’appello di Torino (presidente Renata Silva, consigliera Federica Lanza, estensora Daniela Giannone) per la prima volta in Italia ha accolto la richiesta di due donne (indicate come «madre A» e «madre B»), di trascrivere l’atto di nascita del figlio concepito con l’inseminazione e registrato nel Comune di Barcellona. Le due donne, una di nazionalità italiana, sposatesi in Spagna nel 2009 hanno divorziato nel 2014, pur mantenendo la condivisione della responsabilità genitoriale (www.ilsole24ore.com, 8 gennaio 2015). Non so se l’ufficiale di stato civile di Torino ha poi trascritto l’atto, perché il prefetto ne ha chiesto la sospensione in attesa di un parere del ministero dell’Interno, e non ho più trovato notizie al riguardo. Comunque la scelta delle giudici della Corte (che ha ribaltato l’iniziale “no” del Tribunale dell’ottobre 2013) è un fatto e un segno che va nella direzione giusta, secondo me: di dare sicurezza anche giuridica al legame della creatura con entrambi i genitori nelle coppie omosessuali, perché entrambi possano sentirsi tranquilli come genitori, al di là delle vicissitudini di coppia, per dare il meglio di sé come madri o padri.
- Per il testo del decreto, vai a http://www.siallafamiglia.it/corte-di-appello-di-torino-decreto-sulla-trascrizione-nel-registro-dello-stato-civile-italiano-di-un-bambino-come-figlio-di-due-madri/ ↩︎
Care tutte, cari tutti,
ogni due mesi ci incontriamo in carne e ossa per discutere. Gli incontri di Via Dogana 3 sono sei all’anno, alle 10 di ogni seconda domenica di ogni mese alterno, da Gennaio a Novembre.
Ecco il calendario del 2015:
– 12 luglio
– 13 settembre
– 8 novembre
Vi aspettiamo in via Pietro Calvi 29, tel. 02 70006265.
Alle abbonate/i, ai lettori e alle lettrici di Via Dogana, e a tutte le loro amiche&amici,
C’è una bella notizia. Dopo la chiusura della rivista con il n. 111, la Redazione di Via Dogana ha ricevuto da parte vostra un inaspettato numero di lettere riconoscenti, incoraggianti e illuminanti, di singole e di gruppi, scritte di slancio o lungamente discusse. Il numero e la qualità di queste lettere ci hanno dato voglia di riprendere la strada dell’informazione, della ricerca e della discussione.
Ci sarà dunque un seguito di Via Dogana, secondo un nuovo progetto.
Il nuovo progetto ha due filoni, uno in rete e uno d’incontri in carne e ossa. Molte ci hanno scritto: ci vuole anche il cartaceo, e dicono bene, ma per ora non ci sarà.
– Il lavoro in rete, coordinato da Laura Milani, sarà raccolto in questa sezione.
– Luisa Muraro e Laura Minguzzi coordineranno gli incontri in carne e ossa.
Possiamo chiamarli Incontri di Via Dogana 3, saranno sei l’anno. Il primo appuntamento è stato il 17 maggio. Il secondo sarà il 12 luglio 2015, alla mattina dalle 10, in via Pietro Calvi 29, tel. 02 70006265.
Gli incontri sono fatti per parlare insieme di quello che accade, aiutarci a capire e trovare idee da far circolare in rete o in altri modi.
Saluti dalla Redazione di VD.
Occupazione: Imporre l’ospitalità a chi non la desidera o a chi non si sente di offrirla, equivale a un atto di violenza. Legami: La donna è divisa fra corpo e anima, che possono armonizzarsi solamente quando la gravidanza è un atto d’amore che si perpetua
Chi può decidere, se non la donna stessa, se sia in grado o meno di ospitare un altro dentro di sé? Imporre l’ospitalità a chi non la desidera, o a chi non si sente di offrirla, equivale a fare violenza. Chiamiamo questa violenza “occupazione” quando siamo costretti a tollerare nel nostro paese, nella nostra città, perfino nella nostra casa persone che non sono state invitate a venire ad abitare con noi. Fino a ora, non avevamo immaginato una parola che designasse ciò che prova una donna che scopre di avere in sé un ospite che non ha invitato, per di più un ospite con cui deve condividere non solo uno spazio esterno, ma il proprio corpo, il proprio sangue.
La cosa è così sovrumana che ci lascia muti, senza parole, costretti a implorare l’aiuto sia della natura sia di Dio per lavarci le mani della situazione in cui si trova la donna. Pensiamo che si tratti qui dell’opera della natura o di Dio, senza fermarci a riflettere sull’opera della donna stessa. Tanto più difficile che l’ospite non è soltanto uno, ma due: è fatto da due. Nel suo corpo, la donna non ospita solo un futuro individuo con un proprio corpo e una propria anima, ma l’unione di due corpi e due anime: i suoi e quelli dell’uomo che ha concepito insieme con lei.
Se la gravidanza risulta da un atto d’amore, non c’è dubbio che il desiderio della donna sarà di perpetuare in sé l’unione amorosa. Certo, ospitare l’altro in sé durante nove mesi non è una cosa solo agevole e gradita in ogni momento. Ma per amore, per l’amore, le donne sono capaci di oltrepassare i limiti della solita umanità.
Sfortunatamente, succede troppo spesso che la gravidanza non sia il frutto di un’unione amorosa di corpi e di anime. E che l’ospite non sia la perpetuazione di un atto d’amore. In questo caso è piuttosto uno straniero che abita il corpo della donna, uno straniero che, in parte, è anche lei. Accogliere in sé stessa un simile ospite non è una cosa facile! La donna è lacerata fra sé stessa e un corpo estraneo che l’assedia dall’interno. Non può sfuggire a questo assedio interiore di una presenza che è e non è lei stessa. E anche se il corpo prosegue il suo lavoro, l’anima non riesce ad accompagnarlo. La donna è dunque divisa fra corpo e anima, che si possono armonizzare solamente quando la gravidanza è un atto d’amore che si perpetua.
Gran parte della nostra tradizione è basata sulla separazione tra corpo e anima. Ciò spiega sia l’arroganza – compresa quella nei confronti della donna incinta – sia l’infelicità della nostra umanità. L’interpretazione più positiva della “Buona novella” del Cristianesimo consisterebbe nella riconciliazione fra corpo e anima. Il Cristo ne sarebbe il primo frutto se lo consideriamo come l’avvento o il ritorno del divino nella carne. Ma se ciò viene inteso come la messa a disposizione del corpo della donna per un logos maschile, allora non è una novità rispetto alla cultura precedente. In tal caso, il Cristo non testimonia una buona novella: il possibile incamminarsi dell’umanità verso il suo compimento grazie alla redenzione della carne per l’amore.
Diventa invece tutt’altro se l’avvento del Verbo fatto carne viene inteso come il superamento in Maria della scissione fra corpo e anima, unite nella carne andando oltre l’attrazione istintiva e l’arroganza mentale, grazie all’amore. Questo passo in più nello sbocciare dell’umano è stato possibile perché il Signore ha condiviso con Maria un soffio divino prima di metterla incinta “naturalmente”. Questo ci insegna l’evento dell’Annunciazione in cui l’angelo del Signore chiede a Maria se vuole essere la madre del Salvatore del mondo.
Tutto questo sembra un po’ magico ed esigere da noi una fede cieca, a meno che cerchiamo di sentire che cosa succede quando una donna è incinta, e come un semplice processo naturale può giungere a una dimensione spirituale, che consente all’umanità di accedere a un ulteriore livello del suo compimento.
Sfortunatamente, si dimentica troppo spesso che Maria, grazie all’unione fra natura umana e natura divina nella sua carne, è il luogo fondatore del Cristianesimo. Maria si è trovata incinta non solo a causa di sperma umano, ma per un respiro divino che lei ha ricevuto e accettato di condividere per il tramite dell’angelo del Signore, che ne simbolizza il soffio. Sembra ovvio, per i cristiani che devono tentare di imitare Gesù; eppure il più delle volte dimenticano come il suo avvento è stato possibile e che cosa significa. Da anni, anche in occasione del Natale, non sento allusioni a Maria nelle prediche. E le stesse donne ormai pretendono di imitare Gesù invece di divinizzare la propria natura femminile. Ma chi insegna loro in modo positivo e non privativo, che esse sono il luogo dove è nato, e può rinascere, il Cristianesimo? Quale uomo si cura di perpetuare un simile avvento mandando alla donna che ama il proprio angelo – cioè un supplemento di respiro o di anima – per chiederle se vuole concepire un figlio, in modo non solo naturale ma divino?
L’accento posto sull’aborto naturale non risulterebbe da una cecità rispetto a un aborto spirituale all’opera nella storia del Cristianesimo? Per mancanza di attenzione e fedeltà all’unione del corpo e dell’anima che può compiere l’amore? La morale non c’entra granché, in questo mistero. La sua preminenza avviene per la nostra incapacità ad amare. Certo, un diritto civile positivo deve tutelare la possibilità per la donna di assumere in modo responsabile la sua identità di donna. Il resto è un affare d’amore per cui difettiamo tuttora di un insegnamento adeguato, sia laico sia religioso.
E se rileggo i Vangeli portatori della “Buona novella”, è di amore che sento parlare e non di morale, un amore che passa anche attraverso i corpi, che si toccano e diventano così capaci di compiere miracoli. La condanna morale la trovo veramente di rado, salvo che nei confronti dei farisei, degli ipocriti e egoisti, dei ladri e mentitori, di quelli che gettano sassi alla donna che avrebbe peccato, senza considerare le proprie colpe né la capacità d’amore della donna. Una donna per cui, è vero, l’amore troppo spesso rimane una follia incapace di calcolare e sprovvista di sapienza. Lo ribadisco: ci manca ancora una cultura dell’amore e del desiderio all’altezza della nostra tradizione.
Da la Repubblica
Immagine di Giorgia Basch, BilderAtlas
In mezzo a tante domande e polemiche circa le sue origini, quello che sappiamo per certo è che, per venire a questo mondo, deve passare da una donna.
È bene che ci poniamo anche noi, comuni mortali, gli interrogativi che vengono da una ricerca scientifica che avanza a modo suo (umanamente limitato, oltre che squilibrato dagli enormi interessi economici che ci sono di mezzo) sui confini della vita. Bene anche che si voglia ascoltare quello che hanno da dire “le femministe”, alle quali si chiede, con un’impazienza insolita, di prendere posizione. Purchè si ascolti davvero, mi limito ad aggiungere.
Io prendo la parola per dire una cosa soltanto, che si riferisce al pensiero femminista che ha accompagnato il dibattito intorno alla legge istitutiva e al referendum abrogativo dell’aborto, negli anni Settanta. Sembra a qualcuna che fu un pensiero rozzo, giudicato alla luce della nostra odierna sensibilità, s’intende. Altre sono intervenute a precisare che non è vero e che l’unica rozzezza, semmai, è in una certa ricostruzione del passato. Sono d’accordo con queste ultime, accettando però la sfida di un confronto sul tema di fondo, che è la cultura della vita, ieri e oggi.
Su questo tema il pensiero femminista ha dato un contributo che, a mio giudizio, resta valido anche oggi e che può estendersi, con le necessarie mediazioni, anche ai temi più recenti della procreazione assistita e della ricerca scientifica sulle cellule staminali. Non si tratta di una risposta, ma di un criterio, che però nelle cose umane, sempre relative e sempre in tensione fra gli estremi assoluti, ha il valore di un principio. Dirò “noi” facendo riferimento a quelle con cui ero in contatto, che vuol dire – nel movimento in espansione del pensiero attraverso una rete vastissima di rapporti – migliaia di donne e più ancora, molte più ancora, fuori dal numerabile.
Noi dunque, in quegli anni ci siamo regolate, in primo luogo facendo tacere le ideologie e ascoltando le donne (noi stesse, in primis) in carne ed ossa, comportamenti, sentimenti, paure, desideri, vergogne, aspirazioni… Da questa pratica siamo arrivate alla conclusione che la cosa migliore sia regolarsi in tutto seguendo un semplice criterio e cioè che la vita umana, vita di un essere senziente ma anche parlante, desiderante ma anche capace di regolarsi, ecc., questa vita arriva a questo mondo passando necessariamente attraverso l’accettazione di una donna che la accoglie, la coltiva per consegnarla al resto dell’umanità, rappresentata di solito da un gruppo sociale, e in primo luogo, se in questa vicenda lei ha avuto un compagno, a lui che, nelle nostre culture, è di solito il padre della nuova creatura. Non siamo ancora nella sfera dei diritti-doveri, che viene dopo, tant’è che noi, diversamente dai radicali, non abbiamo parlato di un diritto all’aborto e che, in campo legislativo, quello che abbiamo chiesto è stata la sua depenalizzazione.
Il passaggio della libera accettazione di una donna, noi lo abbiamo sentito come un criterio regolatore che esonera da domande del tipo oggi corrente e così fuorvianti, come “ma l’embrione è vita umana?”. Ma attenzione che questo criterio vale come un principio, perché più a monte c’è altro, sì, ma non si può andare ad indagare saltando quel passaggio, pena la caduta in quella mostruosità che la cultura medico-scientifica, lasciata da sola, ha conosciuto e può tornare a conoscere, non dimentichiamolo.
Vuol dire che, stando a questo criterio, si eviteranno sbagli, disordini e sofferenze ingiuste? Oh no, ci saranno abusi, ci sono stati, non faccio l’elenco perché li conosciamo, ma due cose vorrei aggiungere: primo, che finora, da parte femminile questi abusi non sono stati molti né gravi; secondo, che i criteri umani non sono mai automatici e proprio nella loro fragilità ci invitano a prendere la strada più sicura, che non è una legislazione capillare ma una buona, sobria legislazione integrata da usi e costumi civili e da relazioni sociali non strumentali, insomma da quella che molte abbiamo imparato a chiamare politica prima. In ogni caso, la lotta contro gli abusi in questo campo, secondo me comincerà a dare risultati nel momento in cui quel criterio che è più di un criterio, quel principio che non è un principio, sarà entrato nella nostra civiltà, definitivamente. Siamo ancora molto lontani da ciò, non c’è dubbio che molta scienza resta opera di uomini che sono in concorrenza rivale con le prerogative femminili nel campo della vita.
Immagine di Bibi Tomasi, Archivio Libreria delle donne di Milano
Da il manifesto – Dedico questo scritto ad Alma Sabatini, autrice delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana e, coadiuvata da altre, di Il sessismo nella lingua italiana. Ho cercato di scrivere come le avevo anticipato ormai quasi un anno fa. Ho alcune critiche da farti, le dissi, ma sono fondamentalmente d’accordo con la tua impresa. Lei mi rispose: grazie per l’accordo e grazie per le critiche.
Nel nostro paese la questione della lingua è sempre stata una questione politica. Oggi viene posta soprattutto da donne e questo corrisponde al fatto che oggi la politica più viva è delle donne.
Al centro del lavoro di Alma Sabatini c’è, precisamente, la questione del rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali. Le Raccomandazioni, il cui scopo è essenzialmente pratico, vogliono che la rappresentazione linguistica della differenza sessuale non sia di pregiudizio al sesso femminile. Ma, in contrasto con la soluzione di chi, per eliminare la discriminazione, propone l’invisibilità linguistica della differenza sessuale, le Raccomandazioni sono per la sua rappresentazione nelle forme proprie della lingua.
La natura politica della questione viene in luce solo se teniamo presente lo scopo delle Raccomandazioni nella sua interezza. Mi spiegherò alla buona. Normalmente Margaret Thatcher (le chiedo venia, tiriamo fuori sempre lei) è un primo ministro, ma può diventare una maledetta troia nel linguaggio dell’opposizione. Il rispetto della sua carica si esprime prescindendo dalla sua identità sessuale, identità che le viene pittorescamente restituita dalla rabbia di un avversario, sicuramente maschio e probabilmente indignato con lei per qualche buona ragione.
Non si tratta di privare le opposizioni del loro gergo, se gli serve a fare il loro mestiere. Ma non si può nemmeno mutilare una lingua della sua potenza espressiva. La lingua italiana, per esempio, è capace di significare in una sola parola l’occupazione sociale e il sesso di una persona: operaia, operaio, pescivendola, pescivendolo… Perché allora non diciamo ministra, ministro? La risposta si presenta piuttosto facile: per ragioni extralinguistiche, come la secolare esclusione delle donne dalle cariche pubbliche e la perdurante ostilità di molti verso quelle che accedono a tali cariche. Nel nostro sistema simbolico-sociale, è ammesso pacificamente che una donna lavori in fabbrica o che venda pesci, ma non altrettanto che governi sugli uomini.
Questa risposta è sostanzialmente giusta, salvo che le ragioni indicate non sono veramente extralinguistiche, a causa che il linguaggio verbale (che è, fra i linguaggi, quello più istituito, più storico, più umano) assorbe le ragioni di una cultura, le fa sue, principalmente attraverso l’uso e in forza della competenza linguistica. Che, come ci insegna Saussure, appartiene in prima istanza ai comuni parlanti.
Ma, naturalmente, quella stessa lingua che attraverso l’uso e la competenza dei comuni parlanti ha fatto sue le pieghe mentali di una società sessista, in forza degli stessi principi è disposta a fare suoi gli atteggiamenti, nuovi o antichi, di chi combatte il sessismo. Questo è, in breve, il nodo di problemi in cui Alma Sabatini ha messo i piedi con le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana.
Lo scrittore androgino
Dopo alcuni mesi dall’uscita delle Raccomandazioni, due insegnanti (che poi interverranno sul Manifesto del 23-4-1986: Graziani e Lazzerini, Il marito del Signor Preside), mi segnalarono alcuni interventi vivamente ostili alle proposte avanzate da Alma Sabatini. Li esaminerò insieme a voi, mi pare il modo più semplice di rendere l’idea del nodo problematico che dicevo prima. Esaminerò, in ordine, gli interventi di Giulia Borgese e Pietro Citati sul Corriere della sera, di Beniamino Placido intervenuto due volte su La Repubblica, e di Umberto Eco su L’Espresso.
Giulia Borgese, Il nuovissimo vocabolario della Donna sapiens, respinge orripilata le Raccomandazioni ma simpatizza con la loro autrice e scherza da cima a fondo. Fa bene, perché l’unico argomento linguistico da lei portato vale ben poco. Per respingere il femminile di finanziere: finanziera, la Borgese oppone che questa parola ha già un suo significato. E cita lo Zingarelli, «il più scolastico dei vocabolari, che le nuove puriste della lingua italiana non hanno neanche consultato». Sbaglia. Lo Zingarelli, infatti, conia per donne anche nomi come chimica o fisica, senza badare al fatto che queste parole hanno già un altro significato. ?Basterà leggersi la Nota sul femminile a pag. 381 del Nuovo Zingarelli minore, undicesima edizione. Il fatto è che, mentre lo Zingarelli si sforza di stare vicino alle tendenze proprie della lingua italiana, Giulia Borgese è vicina a quelle donne la cui ambizione è un titolo professionale messo al maschile. Scrive infatti: «Quanto ci hanno messo le donne a farsi chiamare, quando se lo meritano, avvocato, magistrato, medico o architetto?» Quando se lo meritano… Avremmo insomma una specie di nostra carriera per cui le più brave passano al maschile e le altre restano con un titolo al femminile.
Per Pietro Citati le Raccomandazioni sono un libro tutto da ridere, un vero capolavoro comico. A parte questo giudizio (ricordo, per parte mia, d’aver trovato comicissimo un titolo apparso sui giornali dieci anni fa: Moro rapito dalle Br), l’argomento più strettamente linguistico di Citati sarebbe che nomi come uomo e scrittore «non sono maschili: sono androgini». Che cosa vuol dire? Escluso che egli ignori la teoria corrente dei generi grammaticali, in italiano, ed escluso anche che voglia cambiarla, ho pensato che si tratti di una sua idea sul rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali, un’idea dettata dalla sua familiarità con la scrittura letteraria.
Mi spiego. La letteratura è come una continua ricerca di superamento della convenzionalità che sembra caratterizzare i segni del linguaggio verbale. La letteratura, specialmente la poesia, cerca di fare che ci sia rispondenza fra il significante e il significato, quasi aspirando a trovare una rispondenza fra il segno e la cosa. Così, davanti al maschile non marcato usato per indicare individui di sesso maschile o femminile, Citati vuole pensare che il maschile non marcato non sia veramente tale, ma che sia compenetrato, nel suo stesso significato, di sesso maschile e di sesso femminile. Androgino, appunto.
Se questa mia interpretazione non è tutta sbagliata, allora la mia critica al suo pezzo sul Corriere è fondamentalmente una sola, il suo non aver capito o non aver detto che Alma Sabatini, da lui presa in ridere, è molto vicina non dico alle sue posizioni ma certamente alla sua preoccupazione, che si sente in tutto il suo articolo, di salvare la differenza femminile dalla omologazione al maschile.
All’opposto di Citati, Beniamino Placido e ancor più Umberto Eco, nelle loro critiche alle Raccomandazioni, enfatizzano la convenzionalità del rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali. C’è da dire che né l’uno né l’altro sembra, sottolineo il sembra, rendersi conto che in gioco è la significazione della differenza sessuale. Essi pensano che lo scopo di Alma Sabatini e compagne sia di raggiungere la «parità linguistica». L’espressione è di Placido e traduce semplicisticamente quello che Alma Sabatini chiama simmetria nella rappresentazione linguistica dell’essere donna/uomo.
Il convenzionalismo non basta
Del duplice scopo delle Raccomandazioni, Placido e Eco hanno dunque presente soltanto una parte, eliminare i pregiudizi antifemminili dalla lingua come tale. Se si trattasse solo di questo, il convenzionalismo sarebbe una risposta utile. Ma non si tratta solo di questo.
Non mi soffermo sul primo dei due interventi di Placido, Questori e Questrici, perché è già stato commentato a suo tempo su questo giornale dalle amiche Graziani e Lazzerini, in termini che io condivido pienamente. Al loro commento aggiungo soltanto che la logica economica messa in campo da Placido («la lingua obbedisce anche e sopratutto a una logica economica. Dire il più possibile con il minor numero di parole»), non solo non esiste ma, se esistesse, darebbe più ragione alle avversarie di Placido che a Placido. Anch’io trovo brutto “questrice” ma certo dice di più di questore (sarà uomo o sarà donna?) ed è più… economico di “questore donna”.
Nel suo secondo intervento, Donne in battaglia, egli non menziona più la presunta logica economica della lingua. Ma, invece di avanzare una piccola quanto dovuta autocritica in proposito, il suo tono si fa solo più aspro. Al tempo dei proverbi avrebbero commentato: ha la coda di paglia. Così, dopo aver divagato qua e là, egli prorompe: «Dovete lasciarvelo dire allora: che la vostra concezione della lingua è terribilmente rudimentale». Continua l’infuriato Placido: «La lingua riflette la realtà, voi dite, quindi cambiamo la lingua ecc. Ma chi ve l’ha detto? Ma dove l’avete letto? La lingua serve a riflettere la realtà, qualche volta; ma anche – e più spesso – ad anticiparla; ma anche – e più spesso – a compensarla».
Logica e giustizia gridano vendetta. Se qualcuno gli dicesse che i ciliegi fioriscono, Placido insorgerebbe: ma chi te l’ha detto? ma dove l’hai letto? Solo perché i ciliegi, oltre a fiorire, sfioriscono, fanno foglie, frutti ecc. La sua illogica sparata non fa che coprire una scorrettezza più grave, relativamente al contesto. Le Raccomandazioni non si basano sulla tesi che la lingua riflette la realtà, ma su una tesi ben diversa, più sfumata, e chiaramente esposta nelle prime righe dell’Introduzione. Basterà citarle: «La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l’immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale».
È sulla base di questa tesi che può prender senso il fare raccomandazioni sull’uso della lingua. Simili raccomandazioni, se la lingua non fosse che il riflesso della realtà, non avrebbero senso alcuno. Ma la logica non dev’essere il forte di Beniamino Placido.
Viene per ultimo Umberto Eco con un pezzo sull’Espresso, intitolato La sentinella con i baffi.
Prima di esaminarlo, vediamo quello che dice, in fatto di sentinelle, La Grammatica storica del Rohlfs.
Nomi femminili come la sentinella, la spia, la guardia, in origine astratti (spia viene da spiare, sentinella da sentire, più o meno come la posa da posare), poi riferiti a persone di sesso maschile, sono rari e fanno problema, tanto che in certi casi l’uso ha finito per portarli al maschile: il podestà, il camerata, il guardiamarina. Fin qui il Rohlfs.
Va detto che le tendenze che hanno agito in passato non comandano pari pari gli sviluppi futuri di una lingua. Oggi, riguardo alla differenza sessuale, è dato osservare, accanto alle forme tradizionali della sua cancellazione linguistica (per esempio, il maschile non marcato), una certa tendenza alla sua neutralizzazione, che ha cause disparate: imitazione della lingua inglese, emancipazionismo femminile, invasione dell’immaginario tecnologico.
Le Raccomandazioni cercano di contrastare questa tendenza perché nega visibilità al sesso femminile perpetuando in forme ammodernate l’antica cancellazione delle donne. Umberto Eco, invece, le è favorevole e questa è, a mio giudizio, la vera ragione per cui egli si oppone al progetto linguistico di Alma Sabatini e compagne. Vediamo con quali argomenti.
La moglie del papa
Il primo capoverso della Sentinella con i baffi è gioco retorico. Per screditare le femministe che intervengono in questioni linguistiche, Eco pretende che il neolgismo herstory (her=di lei, story=storia) coniato dalle femministe americane, sarebbe nato da una loro (ovviamente errata) etimologia di history (storia). Stante però che certe innovazioni avvengono proprio sulla base di etimologie sbagliate, egli spiega quale avrebbe potuto essere la corretta base linguistica di herstory: le femministe americane, scrive, avrebbero potuto dire che, etimologia o no, history può far pensare istintivamente a una storia di lui (his). Dov’è il gioco? Eco si sdoppia: da una parte c’è il professore di etimologia che dimostra l’ignoranza delle femministe, dall’altra c’è il linguista saussuriano che corregge le vedute troppo rigide del professore e soccorre le ignoranti femministe. In realtà le americane hanno coniato herstory non «perché non sapevano di etimologia» ma perché a loro non interessava l’etimologia ma altro, e dell’argomento etimologico si sono servite spregiudicatamente, così come può fare qualsiasi parlante e come Eco sa che qualsiasi parlante può fare.
Passiamo agli argomenti veri e propri di Eco che sono, schematicamente, tre.
Primo argomento. «In molte lingue il genere grammaticale non coincide necessariamente con il genere sessuale.» Gli esempi sono presi del mondo inanimato (dove non ci sono generi sessuali) e poi dalle solite guardie e sentinelle. Siamo di nuovo vicini al gioco retorico. La tesi, grazie a quel “non necessariamente” è innegabile, ma è altrettanto innegabile che in italiano, quando si parla di esseri umani, la tendenza prevalente è di far coincidere il genere grammaticale con quello sessuale.
Secondo argomento. In italiano, come in altre lingue, mettendo al femminile il nome di una funzione, scrive Eco, «non si suggerisce che il ruolo sia ricoperto da una donna, ma che quella donna sia la moglie di chi ricopre quel ruolo». Qui il “non necessariamente” gli è rimasto nella penna (o nel computer). La regola vale (per quello che vale) per le funzioni riservate esclusivamente a uomini. Nessuno oggi pensa che la professoressa sarebbe la moglie del professore. Del resto, nessuno, esclusi i bambini, ha mai pensato che la papessa sarebbe la moglie del papa. Anche i convenzionalisti devono ammettere che la realtà, nella misura in cui è nota ai parlanti, agisce sull’interprestazione dei segni.
Il terzo argomento di Eco è che «le tradizioni linguistiche non si correggono con decisioni al vertice». Con questo argomento io consento dal profondo del cuore. Ma devo aggiungere che, così formulato, esso non dice nulla su una contraddizione da me riscontrata e mai risolta quando insegnavo nella scuola dell’obbligo. Per dirla immaginosamente: se nell’alto Medioevo fosse esistito l’obbligo scolastico come ai nostri giorni, le lingue volgari si sarebbero mai formate? Per anni ho insegnato la nostra bella lingua ai semibarbari delle periferie urbane. Da loro, dai tanti periferici come loro, poteva nascere un nuovo volgare? Voglio dire che, accanto agli interventi per innovare, le nostre lingue conoscono anche, e in maniera ben più massiccia, quelli per conservare e che a questo tipo di interventi non è quasi possibile opporre la forza di un’autentica tradizione.
Sregolatezza regolata
L’errore che troppo spesso facciamo è di non considerare che la vita di una lingua è internamente animata da tendenze e da tradizioni fra loro contrastanti e non sempre accordabili. E di pretendere che la tendenza giusta sarebbe una e una sola. Non è nemmeno necessario che sia una per le esigenze della comunicazione, come alcuni sostengono. L’uniformità viene più dal bisogno di conformità che dalla ricerca di comunicare.
I rapporti delle donne fra loro, con gli uomini e con il mondo stanno cambiando profondamente, e questo fa sì che la significazione della differenza sessuale nella lingua che parliamo, sia diventata una specie di campo di battaglia e un possibile terreno di sperimentazione per tendenze contrastanti. Alla realtà che cambia convengono e sono anzi necessarie sperimentazione e sregolatezza. Penso a un regime di sregolatezza regolata, per dire: di soluzioni linguisticamente accettabili ma fra loro difformi e anche concorrenti. Considero accettabile tutto quello che serve a mettere in parole ciò che altrimenti non avrebbe parola.
La polemica più appariscente è a livello lessicale, dove è più facile pensare di operare interventi, innovativi o conservati. Il lessico, infatti, è l’aspetto più convenzionale della lingua e quello più presente, più consapevolmente presente, ai parlanti. Ma la significazione della differenza sessuale passa anche attraverso i livelli più strutturali della lingua, la morfologia e la sintassi. È a questi livelli che si esercita maggiormente la forza costringente della lingua sul nostro pensiero e, al tempo stesso, si moltiplicano gli errori, i famosi errori di grammatica. Si moltiplicano, cioè, i tentativi spontanei di innovazione linguistica che restano senza sbocco o per difetto di significatività interna o per mancanza di consenso nella comunità dei parlanti.
La polemica sul rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali, di cui abbiamo visto insieme un episodio, ci presenta alternative secondo me troppo rigide. Fra la realtà che cambia e la lingua con la sua plasticità, è possibile uno scambio molto più ricco. La sperimentazione linguistica, la sregolatezza regolata che suggerisco (basandomi non sulle nostre capacità ma sulle capacità di quella grande acrobata che è la lingua), non avrebbe solo il vantaggio di valorizzare e quindi coltivare la competenza dei, delle comuni parlanti, togliendo spazio agli autoritarismi di ogni provenienza e dando coraggio alle maestre di scuola. Insieme a questo, verrebbe in luce la posta in gioco e quindi il senso vero della polemica, così che ciascuno, ciascuna possa prendere posizione, com’è giusto che sia possibile trattandosi della lingua che parliamo, che è bene comune, forse il bene che abbiamo più comune.
Nella vita della lingua
Ci agita e ci divide la rappresentazione della differenza sessuale. Che si tratti di questo, lo possiamo ricavare anche da ciò che Eco scrive in conclusione al suo intervento. Come portando un quarto argomento ma per inciso, egli scrive: «Oltretutto, voler femminilizzare i nomi dei ruoli a seconda del sesso, sembra un modo per sottolineare una differenza che non deve riguardare la funzione». Non: sembra, ma è. Alma Sabatini, io e alcune altre, infatti, vogliamo proprio dire che la differenza sessuale non solo viene prima della funzione sociale e coesiste con tale funzione (come lo stesso Eco sa bene, sebbene non voglia dirlo), ma anche che può diventare principio di valore, autentico valore umano, per la funzione stessa, relativizzata in senso non mortifero dalla dualità originaria di essere donna/uomo.
Senza prospettarsi questa posizione ma come intuendola e avversandola, Eco conclude il suo pezzo sull’Espresso in maniera piuttosto strana, con una battuta da uomo messo in minoranza, fatta non per colpire la posizione avversaria ma il senso comune. Giudicate voi. Scrive: «Il vigile non ha sesso, come non ce l’hanno né ‘il’ semaforo né ‘la’ striscia». Naturalmente qui tutti insorgono, dal filosofo al vigile passando per il linguista e lasciando Eco solo a far l’amore con la striscia o con il semaforo.
Eco in realtà sta facendo l’amore con la sua teoria e non è solo. La battuta finale, com’è evidente, rispecchia scherzosamente la sua concezione del rapporto fra genere grammaticale e genere sessuale. Ho già detto che è una concezione convenzionalistica e che non la condivido, senza poter argomentare per ragioni di spazio. Rimando all’ultimo numero della rivista Inchiesta, intitolato “Sessi e generi linguistici”, a cura di Luce Irigaray, e specialmente a quello che vi scrive Patrizia Violi.
Di mio aggiungo che una concezione convenzionalistica del linguaggio verbale non è mai interamente né definitivamente confutabile, per la semplice ragione che il linguaggio verbale non è mai interamente né definitivamente confutabile, per la semplice ragione che il linguaggio verbale è inclinato al convenzionalismo. Ma non vi si riduce mai. Mai. C’è qualcosa, nella vita stessa della lingua, che ci supera. Che ci intriga, ci agita, ci divide.
Il contrasto, dunque, è immanente alla lingua, alla sua vita, e i protagonisti di questa polemica sono e devono restare coloro che della lingua hanno bisogno per capirsi e capire il mondo. Così sono tornata al punto di partenza. La questione della lingua è politica e ne sono protagoniste le donne.
La Libreria delle donne esiste dal 1975. Dalla sede storica di via Dogana 2, si è spostata in via Pietro Calvi 29, a Milano. La Libreria delle donne è una realtà politica composita e in movimento: è autrice di pubblicazioni in proprio e di una riviste online, Via Dogana, organizza riunioni, discussioni politiche, proiezione di film, possiede un fondo di testi esauriti e introvabili, ed è centro di incontro di moltissime donne e anche uomini. Naturalmente vende libri, anche per posta. L’organizzazione è leggerissima, ridotta al minimo. Le cose più importanti si inventano, si decidono e si cambiano mediante i rapporti diretti, non con il voto. E’ un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia. La Libreria è un luogo di discussione, o meglio è essenzialmente un luogo politico, per come noi abbiamo inteso la politica. Niente a che vedere con istituzioni, partiti o gruppi omogenei. La chiamiamo politica del partire da sé; nasce dalla riflessione sull’esperienza che ciascuna fa, dallo stare insieme in un’impresa di donne ma anche nel mondo e si basa sulla relazione. Ma in quello che siamo c’è qualcosa che non si può scrivere da nessuna parte, qualcosa che non è riducibile a ciò che si può esprimere in parole, perché bisogna esserci per viverlo.