Il corpo femminile fecondo sul quale l’umanità maschile ha cercato di mettere le mani con tutti i mezzi, legge, scienza e filosofia comprese, è tornato in primo piano con la fine del patriarcato. Spicca la pratica della procreazione per interposta persona (una femmina sana più materiale genetico di varia provenienza).

I modi e le circostanze dell’appropriazione sono in parte gli stessi di sempre (violenza, complicità tra uomini, contratto sessuale, il bene del minore…) e in parte sono nuovi, come questa nuova pratica, che ha tanti nomi. Tra i fattori che l’hanno resa possibile, ci sono le tecnologie procreative e il mercato globale. L’accordo che alcune donne non desiderose di maternità per sé ma semplicemente liberali, può essere visto come un fattore nuovo. O, viceversa, come il corrispondente di una spontanea, antica rispondenza ai desideri altrui.

L’indisponibile del titolo segnala l’esigenza di una nuova coscienza evolutiva che ci renda più consapevoli che la vita stessa e la ricerca della nostra felicità pongono delle barriere simboliche all’esercizio della padronanza sulle cose, sui corpi e sulle persone, compresa la propria. Questo processo è già cominciato; si tratta di svilupparlo mettendo risolutamente fine alla discontinuità traumatica tra natura e cultura in cui viviamo. In ciò l’umanità femminile ha un ruolo maggiore che la chiama ad assumere un’autorità anche pubblica e non soltanto famigliare.

L’indisponibile è primariamente il corpo femminile fecondo con il suo frutto. In tempi recenti alcune giuriste hanno proposto che l’inviolabilità del corpo femminile sia tra i principi costituzionali. Il matrimonio patriarcale altera quello che doveva essere il rito con cui la madre consentiva, a un uomo, di avere accesso a una sua figlia.

Consideriamo le conseguenze di ciò nel caso dell’interruzione volontaria della gravidanza. Nel linguaggio corrente se ne parla come di un diritto, ma non è esatto: il diritto riguarda semmai la salute della donna, non altro. La fine traumatica di una gravidanza indesiderata, è la conseguenza di una sessualità umana non libera. L’aborto di suo sarebbe nella sfera del non disponibile. Tuttavia molte di noi hanno difeso che la donna possa farlo e abbia diritto all’assistenza medica. Lo abbiamo fatto per ristabilire un principio di libertà: non si può obbligare una donna a diventare madre, e di maternità si può parlare a partire dal consenso libero della donna.

Ma non è questa la ragione della legge italiana in materia. In un’intervista a Una città n.227, il giurista Stefano Canestrari (autore di Principi di biodiritto penale, Il Mulino 2015) loda la 194 che basa su un principio diverso. Si tratta della tutela prioritaria della salute psicofisica della donna rispetto al concepito. In questa concezione, la donna resta quindi sotto tutela di un’autorità patriarcale che separa e confronta lei e il nascituro, e si dà il compito di giudicare sullo stato della sua salute. Di fatto sappiamo che non va più così, per cui il principio invocato finisce per essere una finzione legale. Segno che c’è una forzatura.

Fra noi molte pensano che la forzatura colpisca l’ordine simbolico della madre e segnalano il permanere di una morta autorità patriarcale in un ordinamento che non prevede la presenza di autorità femminile nemmeno in questo ambito di competenza squisitamente femminile.

Il non dell’indisponibile non è dunque il proibito e neanche il non negoziabile del diritto. Appartiene alla qualificazione delle possibilità concretamente presenti, e disegna nelle civiltà storiche una linea dinamica. Si tratta di seguire l’accrescimento delle possibilità avendo come criterio che non s’impoverisca l’essere di ogni cosa che è. Nel caso dell’essere umano, che non si perda di vista la sua destinazione libera alla felicità.


Introduzione all’incontro della redazione allargata Con l’universalismo è lei che ci perde, del 13 marzo 2016

Poco prima dell’incontro del 13 marzo 2016 lessi l’articolo di Silvia Niccolai Con l’universalismo è lei che ci perde (“Il manifesto”, 17/02/2016). Mi parve decisiva la sua valutazione del rischio che comporta l’universalismo (dei diritti, dell’uguaglianza, dell’istruzione, dalla sanità, del mercato…) per la libertà femminile. Ma mi rimase un’inquietudine che si è rafforzata durante il suo intervento all’incontro. Ho sentito che la cornice dell’universalismo mi metteva in un vicolo cieco, come mi succede quando si critica una ideologia senza vagliarla esplicitamente con il pensiero e le pratiche femminili libere.

Al parlare di Silvia Niccolai di universalismo, mi è mancato il contesto dell’idea di Luce Irigaray dell’universale come mediazione1. Perché? Perché amo gli universali: amo il riconoscimento e il lavoro di ciò che è comune a donne e uomini nella politica sessuale e nel resto della politica. Luce Irigaray ha mostrato che il compito della filosofia è il lavoro dell’universale, che il proprio dell’universale è di essere mediatore, e che l’universale maschile (il neutro suppostamente universale denunciato dal femminismo) non è un universale perché non è mediatore. Non è mediatore perché è stato costruito e viene sostenuto senza tener conto dell’altro sesso. Cioè, l’universale come mediazione è veramente politico, l’universalismo no. Le beghine, per esempio, sono un universale mediatore femminile perché ci furono begardi che fecero propria questa invenzione femminile. La libertà femminile trascinò quella maschile senza smettere di essere femminile. Seppe essere lei e ciò che lei non era; seppe essere le due cose insieme ed esserlo arricchendosi della relazione con l’altro, non in lotta dialettica. Come l’euritmia include in sé l’inarmonico, o la differenza include nel suo seno l’uguaglianza senza farle diventare un’antinomia del pensiero.

Durante l’incontro, mi sono chiesta se la preziosa idea/proposta esposta da Luisa Muraro dell’“indisponibile”, riferita al corpo femminile in generale e nel contesto de “Il corpo femminile fecondo” che motivava la riunione, non sia un universale come mediazione. Perché il corpo femminile (io vivo così il mio) è un indisponibile che senza smettere di esserlo è aperto e disponibile. Lei sa. Mi vengono in mente le murate medievali che muravano il loro corpo in una muraglia o un ponte, luoghi eminentemente mediatori, mostrando al mondo la loro indisponibilità al patriarcato e allo stesso tempo la loro disponibilità allo scambio con chi andasse a visitarle, specialmente la visitazione dell’amore divino. Giuliana di Norwich fu un grande esempio molto tempo fa. Oggigiorno, le alunne e gli alunni capiscono in un lampo questo paradosso che alcuni anni fa non si percepiva, dato che allora scandalizzava l’estrema eccentricità del gesto delle murate, un gesto che poteva durare e di solito durava tutto il resto della vita.

L’“indisponibile” è un’invenzione simbolica che mi connette con l’inviolabilità del corpo femminile, del mio corpo. Mi porta a ciò che disse Lia Cigarini nel medesimo incontro, sulla necessità di una espressione radicale che arresti la violenza contro le donne che il diritto non è riuscito a fermare.


(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)

1Luce Irigaray, L’universel comme médiation (1986), in Ead., Sexes et parentés, París, Les Éditions de Minuit, 1987, 139-164; p. 162 (Sessi e genealogie, trad. di Luisa Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989).


De la crítica al universalismo a lo indisponible

María-Milagros Rivera Garretas

Poco antes de la reunión del 13/03/16, leí el artículo de Silvia Niccolai Con l’universalismo è lei che ci perde (Il manifesto 17/02/2016). Me pareció decisiva su apreciación del riesgo que supone el universalismo (de los derechos, de la igualdad, de la educación, de la sanidad, del mercado…) para la libertad femenina. Pero me quedó una inquietud que se afianzó después durante su intervención en el encuentro. Sentí que el marco del universalismo me metía en un callejón sin salida, como me pasa cuando se critica una ideología sin contrastarla explícitamente con el pensamiento y las prácticas femeninas libres.

Al hablar Silvia Niccolai de universalismo, me faltó el contexto de la idea de Luce Irigaray de lo universal como mediación2. ¿Por qué? Porque amo los universales: amo el reconocimiento y el trabajo de lo que es común a mujeres y hombres en la política sexual y en el resto de la política. Luce Irigaray mostró que la tarea de la filosofía es el trabajo de lo universal, que lo propio de lo universal es el ser mediador, y que lo universal masculino (el neutro pretendidamente universal que denunció el feminismo) no es un universal porque no es mediador. No es mediador porque ha sido construido y es sostenido sin tener en cuenta al otro sexo. Es decir, lo universal como mediación es verdaderamente político, el universalismo no. Las beguinas, por ejemplo, son un universal mediador femenino porque hubo beguinos que hicieron suya esa invención femenina. La libertad femenina arrastró a la masculina sin dejar de ser femenina. Supo ser ella y lo que ella no era; supo ser las dos cosas a la vez y serlo enriqueciéndose de la relación con lo otro, no en lucha dialéctica. Como la eurritmia incluye en sí lo inarmónico, o la diferencia incluye en su seno la igualdad sin convertirlas en una antinomia del pensamiento.

Durante el encuentro, me pregunté si la idea/propuesta preciosa que expuso Luisa Muraro de “lo indisponible”, refiriéndose al cuerpo femenino en general y en el contexto de “Il corpo femminile fecondo” motivo de la reunión, no será un universal como mediación. Porque el cuerpo femenino (yo vivo así el mío) es un indisponible que, sin dejar de serlo, está abierto y disponible. Ella sabe. Me vienen a la memoria las muradas medievales que tapiaban su cuerpo en una muralla o un puente, lugares eminentemente mediadores, mostrando al mundo su indisponibilidad al patriarcado y, al mismo tiempo, su disponibilidad al intercambio con quien fuera a visitarlas, especialmente la visitación del amor divino. Juliana de Norwich fue un gran ejemplo hace mucho. Hoy día, las alumnas y alumnos entienden en un destello esta paradoja que unos años atrás no se percibía, escandalizando entonces la excentricidad extrema del gesto de las muradas, un gesto que podía y solía durar todo el resto de la propia vida.

“Lo indisponible” es una invención simbólica que me conecta con la inviolabilidad del cuerpo femenino, de mi cuerpo. Me lleva a lo que dijo Lia Cigarini en el mismo encuentro sobre la necesidad de una expresión radical que detenga la violencia contra las mujeres que el derecho no ha conseguido parar.

  1. Luce Irigaray, L’universel comme médiation (1986), en Ead., Sexes et parentés, París, Les Éditions de Minuit, 1987, 139-164; p. 162. (Sessi e genealogie, trad. di Luisa Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989). ↩︎
  2. Luce Irigaray, L’universel comme médiation (1986), en Ead., Sexes et parentés, París, Les Éditions de Minuit, 1987, 139-164; p. 162. (Sessi e genealogie, trad. di Luisa Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989). ↩︎

Luisa Muraro, alla riunione di VD3 (13 marzo 2016), disse che la maternità appartiene all’indisponibile del corpo femminile. Queste parole giuste mi sgombrano da mente dalla insopportabile casistica che circonda la maternità surrogata, il fiume di parole che copre interessi socioeconomici e di potere, e l’ipocrisia e violenza di tanti uomini contro il corpo femminile, ancora violato, che è inviolabile, sacro e indisponibile.

Quando una donna accetta di essere madre è lei che si rende disponibile alla sua creatura. Si rende disponibile alla creazione e all’amore, non alle leggi, ai contratti, al denaro o alle tecniche: questo è commercio. E lei è la madre sopra leggi, contratti, denaro, tecnica e ingannevoli buone volontà.

Durante la riunione, improvvisamente ricordai il giudizio di re Salomone (Re 3,16-28), un racconto patriarcale che non è riuscito a schiacciare l’antica libertà e sapienza femminile in tutto ciò che significa essere madre. Le leggi e gli affari che si stanno mettendo su adesso intorno alla maternità surrogata in nome del diritto, dell’uguaglianza, della neutralità e dell’universalismo, si riallacciano a questo racconto biblico.

A quanto risulta, quel re aveva settecento donne con il rango di principesse e trecento concubine, cosa che non lo rende adatto a giudicare sulla maternità né certo per nient’altro di sensato. Di fronte a lui compaiono in giudizio due donne prostituite che sono appena diventate madri, vivono insieme e discutono perché una ha soffocato la sua creatura e reclama quella dell’altra come sua. Il re chiede una spada e dice che taglino in due la creatura, un modo di giustizia sommaria di cui forse si sentì orgoglioso pensando che fosse equo, perché così toccava la stessa quantità a entrambe.

Dopo questa sentenza sanguinaria, che per fortuna non si esegue per il buon criterio della madre e non per la sapienza del re, l’unica cosa chiara lì è che solo la madre sa chi è la madre e tutto il resto è di troppo. È di troppo che ci dicano che il re era molto sapiente, invece di riconoscerlo come un violento. È di troppo dire che una madre è buona e l’altra cattiva. È di troppo accettare tranquillamente che un prostitutore come il re sia in grado di giudicare sulla loro maternità due donne che sono state madri.

La madre sa quello che Salomone ignora, cioè che come madre non è disponibile per il suo giudizio, le sue tecniche, i suoi affari e le ingannevoli buone volontà.

(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan, Via Dogana 3, 21 marzo 2016)

Via Dogana 3, 21 marzo 2016


La madre sabe lo que Salomón ignora

de Ana Mañeru Méndez

Luisa Muraro dijo en la reunión de VD3 (13/3/16) que la maternidad pertenece a lo indisponible del cuerpo femenino. Estas palabras justas me despejan la casuística insoportable que rodea a la maternidad subrogada, la palabrería que encubre intereses socio-económicos y de poder, y la hipocresía y violencia de tantos hombres contra el cuerpo femenino, aun violado, inviolable, sagrado e indisponible.

Cuando una mujer acepta ser madre es ella quien se hace disponible a su criatura. Se hace disponible a la creación y al amor, no a las leyes, los contratos, el dinero o las técnicas: esto es negocio. Y ella es la madre por encima de leyes, contratos, dinero, técnica y engañosas buenas voluntades.

En la reunión, de pronto recordé el juicio del rey Salomón (Reyes: 3, 16-28), un relato patriarcal que no ha logrado aplastar la libertad y la sabiduría femeninas antiguas en todo lo que significa ser madre. Las leyes y negocios que se están montando ahora en torno a la maternidad subrogada en nombre del derecho, la igualdad, la neutralidad y el universalismo, enlazan con este relato bíblico.

Resulta que ese rey tenía setecientas mujeres con rango de princesas y trescientas concubinas, lo cual no le cualifica para juzgar sobre la maternidad ni seguramente para nada sensato. Ante él comparecen para que las juzgue dos mujeres prostituidas que acaban de ser madres, viven juntas y discuten porque una ha asfixiado a su criatura y reclama la de la otra como suya. El rey pide una espada y dice que la partan por la mitad, un modo de justicia sumaria de la que quizás se sintió orgulloso pensando que era equitativo, porque así les tocaba la misma cantidad a las dos.

Después de esta sentencia sanguinaria, que afortunadamente no se cumple por el buen criterio de la madre y no por la sabiduría del rey, lo único claro allí es que solo la madre sabe quién es la madre y todo lo demás sobra. Sobra que nos digan que el rey era muy sabio, en vez de reconocerle como un violento. Sobra decir que una madre era buena y la otra mala. Sobra aceptar con naturalidad que un prostituidor como el rey sea adecuado para juzgar sobre su maternidad a dos mujeres que han sido madres.

La madre sabe lo que Salomón ignora, o sea que como madre no está disponible para su juicio, sus leyes, sus técnicas, sus negocios y las engañosas buenas voluntades.

Domenica 13 marzo 2016, 2° anno 2° incontro della

Redazione allargata di Via Dogana


Prima era la reclusione domestica, adesso è il mercato, prima erano le leggi, adesso sono i soldi, prima era competizione fra i maschi, adesso è mentalità aperta delle femmine… cambia la strada per arrivarci, cambia anche il risultato?

Dedichiamo la redazione allargata di Via Dogana 3, a quest’antica questione nei termini che sta prendendo oggi. Il femminismo è un campo di battaglia, abbiamo detto, e ne abbiamo oggi una conferma. Che sia anche un’occasione per entrare nei cambiamenti in corso con nuove idee.

Silvia Niccolai, costituzionalista, e Luisa Muraro, della redazione di VD 3, introducono l’incontro dedicandosi brevemente a due argomenti:

Incontro alle ore 10 della prossima domenica 13 marzo 2016, al Circolo della rosa presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265. Fino alle 13.30 circa, seguirà buffet.

Da il manifesto – Quasi mai, quando se ne parla, si distingue tra lesbiche e gay. Farlo però sarebbe utile, specialmente alle lesbiche in molti casi, e proprio sul tema, oggi sul tappeto, della cosiddetta omogenitorialità.

A forza di venir nominate in termini universalistici, quali titolari di «diritti umani», le persone omosessuali sono diventate una specie di soggetto neutro, né maschio né femmina. Quasi mai, quando se ne parla, si distingue tra lesbiche e gay. Farlo però sarebbe utile, specialmente alle lesbiche in molti casi, e proprio sul tema, oggi sul tappeto, della cosiddetta omogenitorialità.

Le lesbiche condividono con le altre donne il privilegio materno, possono partorire i loro figli. Di qui in alcuni paesi del mondo la tendenza ad applicare alla compagna la presunzione di paternità o anche, dove si riconosce il matrimonio omosessuale, a fare ex lege di ciascuna la co-madre dei figli dell’altra. Queste esperienze potrebbero spingere a puntare in alto: per esempio, a rileggere in chiave femminile le istituzioni del passato, e a riformularle nel principio per cui la madre rende genitore dei suoi figli la donna o l’uomo con cui sceglie di stare in relazione. Le decisioni giudiziarie emesse in Italia a favore dell’adozione da parte del partner omosessuale, dopotutto, sono state pronunciate con riguardo a coppie di donne, e senza unioni civili o step-child adoption. Prestando attenzione a questi dati si scorgerebbe che certamente la differenza sessuale accorda un favor alle donne, che non tutto ciò che è tradizione, storia o cultura è sempre da buttar via e che certe esigenze delle madri lesbiche possono trovare risposte anche senza riforme legislative.

Ci sarebbe dunque molto lavoro, sul piano teorico e politico, a ragionare di lesbiche e gay (e cioè di donne e uomini) anziché di «persone omosessuali»; ma non lo si fa, e si preferiscono le rivendicazioni universali e neutre: lo stesso modello di coppia e di famiglia per le «persone omosessuali», anche se questo modello uguale serve più ai gay che alle lesbiche.

Se i calcoli politici condurranno all’affido rinforzato o allo stralcio delle adozioni dal progetto Cirinnà le lesbiche saranno, domani, più in difficoltà di oggi nell’adottare i figli della compagna, mentre i maschi otterranno comunque il risultato: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha già stabilito, con riferimento alle coppie etero, che il divieto italiano di maternità surrogata non impedisce che il bambino rimanga dei committenti. E siccome questo è stato pronunciato in nome dell’interesse del child (un altro neutro) e non in relazione al modello familiare, varrà presumibilmente presto anche per le coppie gay in unione civile.

In materia di famiglia non vi ha dubbio che gli uomini più delle donne si giovano di un tipico corollario delle rivendicazioni universaliste: il loro alto quoziente ingegneristico e riformistico. L’universalismo sempre mostra i muscoli contro le tradizioni e la storia, per definizione oscurantiste. Sventolato oggi, il suo vessillo tende a far dimenticare che la storia che abbiamo alle spalle include molta libertà femminile, che ha imparato anche ad approfittare del passato. Il vituperato «stereotipo materno» si presta, in nuovi scenari, a tornar utile alle donne, di certo più che agli uomini. Loro invece, per diventare una cosa che non sono mai stati (e cioè mamme) è chiaro che hanno bisogno di voltar pagina e costruirsi qualche apposito congegno tecnico-giuridico nuovo di zecca.

Le donne potrebbero guardare con molta meno palpitazione degli uomini alla sorte del progetto Cirinnà, che dà loro nulla più di ciò che basta agli uomini; ma le donne universaliste sono legioni, tutti siamo universalisti, tutti vogliamo i diritti uguali per tutti.

Si sa, col suo messaggio illuminista l’universalismo fa scattare un riflesso automatico: quando Egalité emette il suo richiamo, smettiamo di pensare, aderiamo, e basta, senza chiederci tanto perché, e con quali costi. Chi si sente debole vi trova l’illusione della forza, e tutti quanti nel suo cono ci sentiamo giusti e in lotta per il progresso. Sotto il suo imperio ci educhiamo, anche, a pensare che se invece partiamo da noi e dai nostri interessi, dalla nostra situazione, affinché abbiano il loro giusto peso, siamo deprecabilmente ingiusti e scorretti.

È così che l’universalismo insegna l’auto-moderazione. Sarà questo il motivo per cui viene tanto assecondato dal potere in questi nostri tempi, così poco amici della libertà? Invero, nessuno è più universalista dell’Unione europea, che pure è tanto cattiva con certe sue politiche finanziarie o coi migranti: sarà un caso? Ed è così che l’universalismo riesce a confondere le idee, e a far in modo che alcuni (e molto più spesso: alcune) si facciano alfiere di battaglie che altri, nel nome di «tutti», conduce più che altro nel suo solo interesse.

Le lesbiche spesso supportano i gay nella questione della maternità surrogata, quanto meno stendendo il classico pietoso velo: se no, poverini, loro come fanno? E se non vanno avanti i diritti dei gay, come potrebbero andare avanti quelli delle lesbiche? E dopotutto, diciamocelo: quando mai le donne oserebbero mettere in difficoltà gli uomini, o lasciarli soli? Al massimo, convenendo che è bruttino che essi paghino, e che tutto il complesso sa parecchio di neoliberismo sfrenato, che lo possano aver gratis questo bambino, così non ci fanno la figura degli sfruttatori e tutto si risolve in un bel dono.

Se questo, per esempio, fosse il risultato delle annunciate nuove grandi leggi contro la maternità surrogata saremmo davanti a un ennesimo esempio di amore universale, che è generalmente amore malinteso della donna per l’uomo; certo non saremmo davanti a un esempio di amore della donna per se stessa e le sue simili. Questo, siccome non è universale, non fa.

Dire che per venire incontro al desiderio di paternità dei gay, senza mettere a repentaglio la libertà e il corpo delle donne, occorrerebbe renderli in grado di adottare, questo non si può. Si vede che sottolinea troppo, scorrettamente, che non possono partorire. E allora, lo vedi? Per il loro diritto umano universale alla genitorialità gira e rigira ci vuole, questa maternità surrogata, hanno ragione, sennò non siamo pari.

Le rivendicazioni universalistiche e neutre ci sono care perché ci giustificano immancabilmente quando manchiamo di coraggio. Spesso alle donne manca il coraggio di amarsi per se stesse e di occuparsi di sé sole; agli uomini quello di ammettere i loro limiti e di riconoscere che non per forza quel che preme a loro deve premere a tutti; e a ognuno di noi spesso manca il coraggio di parlare in prima persona. Così quando lei ha un di più rispetto a lui non lo vediamo; così dimentichiamo che non tutte le differenze tra lei e lui sono uno svantaggio cui si può porre rimedio solo rimettendoli in pari. Dove in realtà è lei che ci perde.

La causa del voto alle donne, in Inghilterra, era dibattuta da quasi quarant’anni e il movimento per il suffragio femminile, organizzato da donne e uomini, era diffuso e vivace nelle grandi città industriali come nei piccoli centri – manifestazioni, petizioni, sostegno a progetti di legge – quando Emmeline Pankhurst, le figlie Christabel e Sylvia e altre militanti fuoriuscirono dal Partito Laburista e dal Women’s Suffrage Society e fondarono il 10 Ottobre 1903 la Women’s Social and Political Union.

Il loro fu un gesto politico di ribellione «per rivendicare l’immediata emancipazione, non con i soliti metodi da missionarie, ormai superati, ma attraverso l’azione politica» (*)ein opposizione ai metodi dilatori con cui i partiti politici e di governo portavano avanti il voto alle donne.

Le fondatrici nell’atto costitutivo deliberarono di restringere l’iscrizione alle sole donne e di mantenersi totalmente indipendenti da ogni formazione partitica. Il loro motto era «Fatti e non parole».

A questo motto tennero fede per tutti gli anni di esistenza dell’associazione. Indomite, determinate, coraggiose, fiere, mai piegate o succubi, per dieci anni combatterono le loro battaglie anche a costo di grandi sofferenze fisiche e psichiche. Derise, picchiate, sottoposte al carcere duro, all’isolamento e all’alimentazione forzata, mostrarono a una società perbenista, sessista e patriarcale come un desiderio e un progetto di libertà e di giustizia politica e sociale potessero mettere in moto migliaia di donne di ogni classe sociale.

La loro pratica, che andava dai cortei e dalle manifestazioni in cui innalzavano gli immancabili cartelli Votes for Women, agli interventi e alle interruzioni di pubblici dibattiti dei partiti di governo e di opposizione; dal disturbo programmato delle sedute parlamentari e di quelle del Consiglio dei Ministri, alle marce su Westminster, Downing Street e Buckingham Palace violentemente bloccate dalla polizia, si radicalizzò a partire da 1912. Non che negli anni precedenti le loro azioni, per tenere alta l’attenzione sul suffragio femminile e mantenere la pressione sul governo, partiti politici e sulla stampa, fossero venute meno. Già nel 1908 erano iniziate, anche se sporadicamente, le distruzioni di finestre di edifici pubblici, ma solo nel 1912 divennero una pratica di protesta diffusa insieme all’incendio di cassette postali, al danneggiamento dei campi da golf frequentati dai politici liberali e di alcune proprietà di ministri.

È proprio dagli eventi del 1912 che prende l’avvio il film Suffragette di Sarah Gavron e sceneggiatura di Abi Morgan (The Iron Lady su Margaret Thatcher, ShameBrick Lane).

Il film, un bell’incastro fra Storia e finzione, ha come personaggio guida Maud (splendidamente interpretata da Carey Mulligan) che concentra in sé le caratteristiche di una donna operaia degli inizi del Novecento. Orfana, dall’età di sette anni lavora in una lavanderia; ha subìto da adolescente, come molte altre, gli abusi del direttore; è sposata e madre di un bimbo che ama teneramente e che cura al meglio. Incrocia per caso il movimento della W.S.P.U. di Emmeline Pankhurst e aderisce attivamente alle loro idee vivendole come unica possibilità per realizzare un futuro di dignità e di giustizia per sé e per le altre donne; subirà insieme alle altre militanti l’esperienza traumatica della repressione poliziesca e del carcere.

La costruzione di una figura di donna proletaria che faccia da mediazione con le altre protagoniste storiche – Emmeline Punkhurst (una breve, ma splendida apparizione di Meryl Streep), Emily Wilding Davison (Natalie Press), Barbara Ayrton Gould (Helena Bonham-Carter) e Violet Miller, amica di Maud, ispirata alla vita di Hannah Mitchell – risulta interessante e convincente nel far convivere storia e finzione, senza eccessive manipolazioni, quando il film passa dalla vita privata a quella pubblica, dalle emozioni personali alla passione politica e anche per testimoniare per la prima volta – come evidenzia Emmeline Punkhurst nella sua autobiografia Suffragette. La mia storia – la forte presenza di donne proletarie e operaie nel movimento come la leader Anne Kenney.

La valenza del film, che si giova di un’ottima ambientazione storica e di una precisa e accurata ricostruzione sociale nonché di un cast stellare, è di porre in scena l’essere politico del corpo delle donne come testimoniarono nelle loro azioni le militanti della W.S.P.U. Corpi di donne considerati fragili, spogliati dai loro decorosi abiti e gettati in sudice e gelide prigioni, umiliati nelle divise sporche dei criminali comuni, oltraggiati dalla violenza dell’alimentazione forzata quando decidevano di digiunare per i maltrattamenti e le ingiustizie delle sentenze; corpi resistenti quando venivano aggrediti e picchiati ferocemente dalla polizia, su ordine di capi di governo e di ministri misogini, impauriti dalla volontà delle donne di essere dei soggetti politici.

La potenza empatica delle immagini, esaltate dall’uso della macchina da presa a spalla, si fa determinante nel superare la distanza di oltre un secolo fra la storia del movimento delle suffragette negli anni roventi del 1912-1913 e la nostra, quella del movimento delle donne di oggi.

Il film si chiude sulle drammatiche riprese di archivio dei funerali di Emily Wilding Davison, simbolicamente a mostrare che un’epoca finiva mentre voci di guerra risuonavano per l’Europa. Nel silenzio del muto scorrono in bianco e nero le scene di migliaia di donne che accompagnano la bara, fra ali di una folla attonita. Erano state precedute dalle sequenze al rallentatore dell’impatto con il cavallo e lo stendardo viola, verde e bianco per il suffragio sul terreno a fianco del corpo della giovane.

Suffragette uscirà in Italia l’8 marzo 2016.

Solo un altro film racconta il movimento delle suffragette americane ed è Angeli di acciaio di Katja von Garnier, del 2004.

(*)Emmeline Pankhurst, Suffragette. La mia storia, Castelvecchi, 2015, pag. 32.

Anno 2 di Via Dogana 3

Anno 1394 dell’Egira (calendario persiano)

Anno 1437 dell’Egira (calendario islamico)


Ci incontriamo domenica 10 gennaio 2016 alle ore 10

in via Pietro Calvi 29, Milano

titolo:

se è politica c’è mediazione


Ci ritroviamo per la redazione aperta di Via Dogana 3, Libreria delle donne (tel. 02 70006265), info@libreriadelledonne.it


riprendiamo il tema dell’odio politico, introducono:

Marisa Guarneri, Se si chiama “politico” c’è mediazione,

Luisa Muraro, Elogio del femminismo mediatore di libertà femminile.


Insieme fino alle ore tredici e passa, per ascoltare e parlare, fino alle ore quattordici e passa, per mangiare e parlare.

Arrivederci! la Redazione ristretta.

Sono arrivata alla riunione di Via Dogana  del 10 novembre “l’odio politico esiste, così come esiste la passione politica. Esiste anche tra donne?” attirata di più dalla parola “passione”. Era su quello che volevo sentire parlare in un momento in cui la mia passione politica inciampa di continuo nel potere disseminato nelle istituzioni dove sono impegnata.

Avevo da un po’ di tempo voglia di sentire parole della “Libreria”, sentivo un bisogno quasi fisico, che esprimevo con la frase “tornare alla casa della madre” con le mie amiche  e con Vita Cosentino che mi ha invitato a partecipare alla riunione. Poi la discussione si è focalizzata sull’odio e io, nella mia presunzione, mi sono detta “non mi interessa io non odio mai”. Ma man mano che ascoltavo le parole di altre/i mi è tornato in mente un episodio di molti mesi fa.

Sono consigliera comunale a Sesto San Giovanni e, finita una riunione della Commissione di cui sono presidente, sul piazzale del palazzetto comunale, mi sono trovata intrappolata in una violenta discussione con altre consigliere e consiglieri di maggioranza. Era appena uscito un articolo sul Giorno relativo al fatto che in una piscina comunale della nostra città,  una società sportiva aveva organizzato un corso per sole donne mussulmane, in un orario in cui solitamente la struttura è chiusa al pubblico. Era  esclusa la presenza di uomini. Lo scambio si è fatto molto animato soprattutto quando io ho affermato che mi sembrava una buona cosa e che quello creato era uno spazio di possibile libertà femminile.

Tutte le donne presenti parlavano di situazione sbagliata, di arretramento culturale, di pericolo per le libertà conquistate da noi donne occidentali, del fatto che noi dovevamo insegnare loro a stare con tutti e spingerle alla ribellione, non appiattirsi sulle loro usanze. Nell’ascoltare quelle argomentazioni urlate con veemenza ho immaginato  donne occidentali che strappavano con violenza il velo alle donne mussulmane e ho provato un sentimento d’odio, unito a un altro, quasi di spavento. Con che donne stavo facendo questa esperienza di politica amministrativa, da che donne ero circondata, cosa c’entravano con me?

Non mi interessava la ridicola posizione di alcuni maschi presenti che si sentivano discriminati perché non potevano entrare in piscina in un orario che non era mai stato aperto al pubblico e che non era interessato loro fino a quel giorno. Era l’atteggiamento e i ragionamenti delle donne presenti, che li supportavano e si sentivano a loro volta minacciate, che mi lasciava sconcertata e senza più parole.  Mi sembrava di dover ricominciare il discorso sulla libertà femminile, sull’emancipazione e la differenza, dall’inizio. Sono andata via, senza salutare, arrabbiata, disgustata e depressa. Con il sentimento di estraneità che faceva a pugni con la mia voglia di esserci nella cosa pubblica: perché il mondo è anche mio, non solo loro.

Il giorno dopo mi sono trovata con le donne della mia  associazione “Le Malandre” con cui faccio volontariato organizzando un centro di aggregazione  giovanile sotto l’egida del Comune. Ho raccontato loro quanto accaduto, anche con una certa ansia, chiedendo cosa ne pensassero. Con parole calme e atteggiamento rilassato mi hanno detto di essere favorevoli all’esperimento del corso e hanno cominciato ad argomentare e a raccontare come le loro nonne e madri avevano trovato spazi di libertà e solidarietà in incontri, magari in parrocchia, di sole donne. Abbiamo parlato a lungo anche della paura che portava alcune mie colleghe consigliere  ad assumere atteggiamenti di chiusura. Lo scambio con le mie socie mi ha  ridato le parole che avevo perso e soprattutto ha fatto scomparire quel sentimento d’odio che mi ammutoliva facendomi sentire impotente e incapace di argomentare con calma le mie posizioni. Ho sentito di avere una comunità, ho capito che non ero sola e da quella comunità sono uscita in grado di partecipare al dibattito cittadino con argomenti comprensibili e senza quel senso di solitudine che avevo provato.

Senso di solitudine – e odio?- sentito anche quando in maniera tutt’altro che mascherata il potere si prende il posto della politica. Siccome il mondo è anche mio, con rinnovata forza cerco parole per smascherarlo pubblicamente e questo mi dà piacere e ultimamente mi fa trovare accanto anche donne che nella vicenda che ho raccontato mi erano contro.

Non condivido l’opinione di Adriana Sbrogiò sul fatto che era meglio non parlare di odio. Di odio si parla nella Bibbia, Caino e Abele ne rappresentano il simbolico più emblematico. Ne parla Dante quando giunge nel nono cerchio, il luogo ghiacciato dominio di Lucifero, ecc.

Sul problema specifico dell’odio femminile tra donne sento di dover ringraziare Sandra De Perini per il coraggio che ha avuto nell’affrontare l’argomento partendo da sé. Non ha presentato l’odio come fonte metafisica del dolore nel mondo, e nemmeno assumendo l’amore come fede in un dio necessario per la costruzione del bene sulla terra. Lei si è calata nell’esperienza sua, maturata come femminista degli anni ’70, di cui è stata protagonista in prima persona, come molte di noi, io compresa che, a differenza di lei, sono una femminista cristiana, credente senza chiesa. Di ciò va tenuto conto, o meglio, parlando a mia volta di odio voglio tenerne conto, non tanto per evocarne la forza distruttiva, quanto quella redentrice.

Credenti o non credenti tutte/i conosciamo l’odio le cui radici sono legate al potere del male, quello che conduce alle guerre fratricide e alla distruzione del nostro pianeta. Come l’amore esso fa parte di quello spazio del mistero proprio della condizione umana. La tentazione dell’odio affligge anche me in quanto partecipe di tale condizione.

Grazie al pensiero della differenza sessuale il femminismo ha messo al mondo autorità e libertà femminile.

Oggi siamo di fronte a dei poteri capaci di sottrarre quella poca o tanta autorità femminile che circola nel mondo. Ci sono poteri che si richiamano perfino a qualche dio in cielo. Che fare? Secondo Marisa Milesi occorre riconoscere il valore di sé e il senso del proprio lavoro quotidiano per difendersi da quest’odio subito e provato e fare uso del pensiero della differenza e della forza che ne deriva per salvaguardarci. Fosse vero! Purtroppo stiamo assistendo, ogni giorno sempre più impotenti, ad una continua sottrazione di autorità femminile. Questa è la verità.

Io credo che nel mistero della vita di ciascuna/o vi sia una componente soprannaturale in cui giocano con tragica forza i sentimenti dell’odio e dell’amore. Simone Weil lo descrive bene attraverso la figura di Jaffier in Venezia salva (a cura di Cristina Campo, Adelphi, 1987). È la storia di un gruppo di congiurati spagnoli che nel 1618 volevano impadronirsi di Venezia e distruggerla: “una città bellissima, perfetta, che sta per essere piombata nel sogno orrendo della forza; un uomo attento che, all’improvviso, la vede e la salva”. In questo “teatro immobile” il perno è Jaffier, il congiurato che tradisce i compagni e salva la città. In lui si rinnova la figura del giusto che blocca la corsa dell’odio.

C’è un altro testo in cui S. Weil affronta il tema della forza capace di contrastare l’odio distruttivo. Si tratta di Attesa di Dio (a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, 2008). Leggiamo insieme alcune perle del suo pensiero: Amiamo la patria terrena. Essa è reale e resiste all’amore. È lei che Dio ci ha dato di amare; e ha voluto che ciò fosse difficile, ma possibileAd un certo punto, riferendosi alla morale laica delle istituzioni, continua così: Finché nella vita sociale ci sarà la sventura, finché l’elemosina legale o privata e il castigo saranno inevitabili, la separazione fra istituzioni civili e vita religiosa sarà un delitto. L’idea laica, in sé … può essere giustificabile solo come reazione contro una religione totalitaria … La religione per poter essere presente dappertutto, non solo non deve essere totalitaria ma deve mantenersi rigorosamente sul piano dell’amore soprannaturale, l’unico che le si addice. Se così fosse penetrerebbe dappertutto … Il concetto di morale laica è un’assurdità appunto perché la volontà è impotente a produrre salvezza. Ciò che si chiama morale, infatti, fa appello solo alla volontàE proprio a ciò che essa ha, per così dire, di più muscolare.

Quando la religione cessa di essere totalitaria può accadere quello che abbiamo visto durante i funerali per Valeria Solesin, una delle vittime delle stragi del 13 novembre a Parigi. In una gremita Piazza San Marco si sono svolti i funerali laici ai quali hanno preso parte rappresentanti delle religioni cattolica, ebraica e musulmana in forma congiunta. La Comunità islamica di Venezia nel corso della cerimonia ha detto: “Valeria, la nostra comunità vuole dirti che non in nome del nostro Dio, non in nome della nostra religione, che è una religione di pace, e certamente non nel nostro nome, ti hanno assassinato”; e l’imam di Venezia Hamad Al Mohamad ha così pregato: “Chiediamo ad Allah che abbia Valeria e tutte le vittime nella sua gloria e di aiutare la sua famiglia e di proteggere l’Europa, l’Italia e questa città dal male e di pacificare le nostre anime”. E i rappresentanti dell’Unione delle comunità islamiche: “Valeria, i tuoi assassini hanno fallito perché non sono riusciti a instillare l’odio in noi e oggi siamo tutti qui per te. Il terrorismo va sconfitto, e per primi devono farlo i mussulmani che ne sono le prime vittime”.

A questo punto io do ragione a Adriana Sbrogiò: lei è una mistica dell’amore, soprattutto per il suo desiderio profondo di rompere la catena dell’odio.

Lo è anche papa Francesco. Egli infatti sta suscitando nel mondo grandi speranze di pace con la sua coraggiosa pastorale fondata non su una morale religiosa nella quale dominano le virtù terrene, ma sull’amore evangelico puro e semplice. La morale è come la trippa, diceva mia madre, la tiri come ti piace. Vedi la strumentalizzazione fatta dalla lega nord sui canti di Natale proibiti nella scuola primaria di Rozzano.

E noi donne femministe? Di autorità e libertà femminile nel mondo ne esiste ancora molta. Il mio invito è quello di riconoscerla, proteggerla, potenziarla per non farcela sottrarre, a cominciare da quelle grandi mistiche che sono, appunto, Simone Weil, Teresa d’Avila, Margherita Porete, e tante, tante altre Amiche di Dio.

Casimira Furlani (detta Mira), Firenze

Cara Sandra, ne odi troppe! Non è che l’indifferenza invece ti, ci, potrebbe proteggere da sentimenti invidiosi e meschini? L’odio dice del tuo nostro coinvolgimento amoroso, che in odio si rivolge. Io ho preferito, da tempo, l’allontanamento, l’indifferenza. Certo, capisco che l’odio mantiene il legame: anche se l’odiata lo respinge? Lo svuota? Io, da lontano, non odio nessuna. Lontana ma legata e fedele. Allora odiare solo le traditrici? Chi sono?

Ma davvero c’era gioia (o noia?) nei rapporti festosi degli anni ’70? davvero andare avanti, fuori dall’albero ha voluto dire tradirli? davvero collegarsi a un progetto politico è stato un tradimento dei legami precedenti? sarebbe terribile se fosse davvero così, e l’odio, che registra la divisione, parrebbe quasi naturale e necessario.

“Irriducibile, disgusto e fantasmi” – mein Gott meine Gottin – “Trasforma i sentimenti malefici, le paure, i profondi contrasti tra donne in orsi feroci, lupi in agguato, corvi minacciosi che volano in cerchio, pronti a scendere in picchiata”: paranoia? accidenti, Sandra, ti senti così circondata? ma da chi, da altre donne?

Certo, da come lo descrivi, lo conosci bene, l’odio: chi odia chi?

La “libertà aspra e brutale”, la conosco anch’io. Una solitudine che però non chiede parti in cui riparare.

Quelle donne lì, del disamore, del profondo disprezzo, del desiderio di vendetta, le ho viste all’opera quando ero bambina. Verso gli uomini e le altre donne loro alleate. Vecchie storie, nazismo, fascismo e tradimenti con gli uomini, nel mondo degli uomini. È ancora questo il caso? Siamo donne ancora così, fascinose affascinate e traditrici? Ma dài!

Non è necessario volersi bene tra noi, Sandra. Io ti voglio bene ma non sei tra i miei affetti diretti e principali, se ti reincontro sono affettuosa con te e riconoscente per come mi hai ospitata una volta a Mestre, un rapporto più intenso potrebbe nascere se vivessimo insieme qualche intenzione.

“L’odio politico è un’azione personale e allo stesso tempo impersonale”, questo è un bel passaggio, un passaggio vero: come impersonale quell’odio può cessare, come personale può colpirti, ma tu sai già che è anche impersonale, in fondo, e che tu sei oltre.

Però “scompiglia le truppe dei buoni sentimenti” è giusto, mai crogiolarsi in quelli altrimenti è vera quella “ambiguità di un desiderio di potere che ha intrappolato un progetto di libertà”. Ma allora società femminile, riconoscimento delle eccellenze, e libertà.


A Paola. L’odio una volta era intergenerazionale, scrivi, credo per via delle alleanze più frequenti di madri e di figlie con i padri. Davvero oggi riguarda solo orizzontalmente le figlie? O meglio, le riguarda? dato che, come scrivevo a Sandra, non mi risulta consistente un odio orizzontale, tra donne della generazione femminista. (Però di questo odio tra le figlie non saprei niente: non almeno tra le alcune amate giovani che conosco.)

“Mancanza di sufficiente amore, che chiamerei mancanza di pensiero”: che bella espressione, credo di poterla sottoscrivere e la collegherei a quanto scriveva Sandra sulla intima comunanza, sulla confortante condivisione che, interrotta, ha suscitato l’odio delle abbandonate. Non era amore pensante.

Però, Paola, quell’odio di cui tu parli, motore attivo, da conservare per le occasioni, mi pare poco odio, non vero odio, ma piuttosto disprezzo e lontananza. L’odio vero (lo ho provato solo una volta, per un uomo) è voglia di distruzione, annichilimento. Non ce n’è tanto sul mercato. Tenersi al caldo quel rancore freddo di cui tu parli? Bah, meglio liberarsene, forgive and forget, perché avvelena chi lo porta.

Cara Luisa,

spero di aver capito quello che mi chiedi. Forse era meglio che il consiglio mi fosse stato chiesto prima dell’8 di novembre e così ti avrei detto che era meglio non parlare dell’odio politico o personale che sia.

Penso che l’odio politico, quello che si manifesta a parole e che diventa poi una pratica politica tanto mortifera fino a tagliare le teste, sia quello, in questi tempi, che esercitano gli uomini che aderiscono all’isis o a qualche altro pazzo gruppo di potere. Ne esiste sempre qualcuno a questo mondo.

Anche l’odio personale è velenoso, e spesso fatale. Lo vediamo attivare da tanti uomini sulle donne che hanno amore per la libertà femminile, lo vediamo nell’infelicità che trasmettono quei soggetti che vengono essi stessi devastati interiormente prima ancora che gli effetti di quel sentimento diventino insopportabili o letali per altri.

Adesso, il consiglio che mi viene è quello di rendersi conto che non vale la pena, non sia utile continuare la riflessione sul tema dell’odio. Perché mi pare che, nell’incontro di VD 3, molti interventi fossero piuttosto artefatti, quasi che ognuna si desse da fare per poter dire qualcosa sul tema, andando a cercare nella propria vita esperienze che potessero presentarsi come odio. E, di conseguenza, si è sentito dire: eh sì, io ho odiato questa… io odio e ho odiato quest’altro… e via di seguito. Ho visto, però, anche qualche volto sconcertato, ho sentito tante incertezze e domande, forse non ben chiarite, del perché si sia scelto un argomento del genere.

Ricordo che dentro di me mi sono detta: e no, non posso lasciarmi trascinare da questi discorsi, il sentimento più forte per me è stato ed è sempre l’amore. Checché ne dicano tutti/e gli altri e le altre. Sono andata nel profondo del mio desiderio d’amore per trovare il coraggio di dire la realtà che mi ha fatto male, quella per cui avrei potuto odiare, e anche il come ne sono uscita. Questo è stato il senso del mio intervento. E tu mi hai detto anche grazie, mentre ti riprendevi il microfono.

Per questo ti consiglio di lasciar perdere, di non rilanciare quel tema. Guardando il sito, vedo che quella strada si sta bloccando da sola. Per mancanza di riscontri.

Ho visto sul sito tanti interventi buoni e belli tra i quali i tuoi, molto chiari ed efficaci e dove, secondo me, trovo amore per le donne e per la giustizia di tutti.

Le parole d’amore che ho trovato nei tuoi scritti, fin da allora, 25 anni fa, mi hanno fatto tanto bene perché ci ho creduto. E continuo a crederci.

Cara Luisa, ripeto, ti voglio bene e mi aspetto il bene. Saluti cari da Marco, anche lui in tutti questi anni ti ha sentita amica.

Se durante le feste pensi di andare da qualche parte (un tempo andavate a Venezia), siamo ben contenti se vieni/venite anche da noi.

Un abbraccio

Adriana

Domenica 8 novembre in Libreria c’è stato l’appuntamento di Via Dogana 3. La proposta del tema in discussione mi ha colta di sorpresa, con curiosità e con una certa apprensione, come spesso mi succede quando sentimenti opposti e confusi tra loro si agitano in me, ho deciso di esserci.

Gli interventi si sono susseguiti incalzanti, affrontando a viso aperto un tema che appare controverso. Per molte tra le presenti la parola odio è evocativa, rimanda a sé, alla propria storia, dove ognuna ritorna per ritrovare esperienze e ricordi anche molto lontani, fino ad un’infanzia con la guerra. E’ una parola forte, c’è chi la associa alla forza, chi dice “si odia quando si è deboli”. Si cerca di aggirare il disagio che odio ci suscita e altre parole vengono chiamate in causa, parole come rabbia e conflitto, più intessute alla trama dell’esperienza di noi donne.

Lì mi ritrovo, come già altre volte negli incontri in Libreria trovo una forte corrispondenza tra il mio vissuto e l’argomento di cui si parla. Questa volta è il sentimento della rabbia che ha una forte risonanza in me e mi fa essere lì.

Ho attraversato in questo ultimo anno un lungo periodo di depressione connesso essenzialmente alla perdita quasi contemporanea di due persone importanti: mio padre ed un’amica con cui a diciassette anni, negli anni 70, sono arrivata a Milano

La depressione mi ha sottratto forza, capacità di combattere, proprio in un periodo della mia vita in cui mi sentivo vicina ad un passo avanti: nella mia esperienza lavorativa mi riconoscevo un potenziale di forza e riuscivo ad utilizzarla per me e per altre, guadagnandone in autorità.

Dai vissuti abbandonici, sollecitati dalla perdita di affetti significativi e che a volte invadono ogni ambito della mia vita, sto provando a riemergere, e ciò che mi sta aiutando è proprio l’aver dato spazio e legittimità ad un sentimento di rabbia.

Così la rabbia mi aiuta a stare meglio perché mi sottrae alla passività che mi induce a subire e spegne la parte più vitale di me.

A volte però, la rabbia tracima e più acquisisco consapevolezza di me anche attraverso il pensiero della differenza, più mi è difficile contenerla: sento che nella sua forza, nella sua capacità dirompente si fa quasi simile all’odio poiché forse ancora non ha trovato possibilità di trasformarsi in altro, utile per me e per altre/i, così come io desidero.

Tuttavia nell’incontro di via Dogana 3 si pone con forza la questione dell’odio come sentimento politico poiché il contributo di Sandra De Perini pone in discussione l’esistenza dell’odio politico tra donne di cui lei, che molto ha messo in gioco di sé nella politica delle donne, ha fatto esperienza.

Dell’odio di cui ha scritto io trovo eco nella mia esperienza lavorativa dentro l’istituzione, in essa è circolato e circola odio con la sua portata di annientamento e distruzione.

E’ un odio connesso al potere e al suo riconoscimento tra donne; nell’ istituzione in cui lavoro le donne ricoprono ruoli di responsabilità intermedi rispetto ad altri superiori nella scala gerarchica e gestiti quasi esclusivamente da uomini.

De Perini afferma che forse potrebbe non avere più senso parlare dell’odio oggi che l’autorità femminile c’è, ma io sperimento che questa autorità non è presente nel mio contesto lavorativo. Proprio in un contesto di lavoro a rilevante presenza femminile nel quale si gioca la possibilità di dare risposte adeguate a bisogni sociali emergenti non ci riconosciamo autorità e ci adeguiamo a modelli maschili di potere.

C’è un legittimo desiderio di esserci e contare nel proprio ambito lavorativo ma anche una ricerca di potere, che ci rende inconsapevoli strumenti di un sistema maschile dominante al quale ci si adegua perché percepito come unico modello possibile per acquisire riconoscimento e visibilità.

In questo contesto può nascere un odio tra donne che definirei politico perché strettamente intrecciato con l’esercizio del potere.

Se si riconosce il valore di sé e il senso del proprio lavoro quotidiano ci si può difendere da quest’odio subito e provato e fare uso del pensiero della differenza e della forza che ne deriva per salvaguardare, per quel che è possibile dentro l’istituzione, la coerenza a sé e al senso che si vuole dare al proprio lavoro.

Forse l’ultima, in ordine di tempo, ad esserne permeata è la poetessa Anna Maria Farabbi, la quale conclude la sua guida letteraria di Perugia conducendo i suoi lettori al cimitero nuovo, alla tomba di Capitini (Perugia, Unicopli, 2014). Fra le altre cose, Anna Maria ha rilasciato un’intervista dal titolo Il mio sguardo su Capitini il 22 aprile 2014 alla rivista online “Risonanze” in cui evidenzia “la sua quotidiana creatività nel tessere modalità democratiche per accendere e scuotere la coscienza degli altri, portando frutti all’intera comunità. Consapevoli delle differenze e delle possibili condivisioni”.

E prima di lei l’ha incontrato Adriana Croci, che lavorò insieme a lui presso la cattedra di Pedagogia di Perugia per due anni, gli ultimi della vita del filosofo perugino: “NESSUNO SI ESAURISCE NEI LIMITI CHE HA è una delle sue espressioni che utilizzo di più. Non è una frase ad effetto: è un programma e una prospettiva di vita”. Parimenti all’esercizio della nonmenzogna, che “di fatto significa: impegnati con la nonviolenza a lottare per la realtà liberata”.

Luisa Schippa nel 1992 con infaticabile cura ha dato alle stampe un’edizione dei suoi scritti sulla nonviolenza; Patrizia Sargentini all’inizio degli anni 2000 si è dedicata alla ricerca del Capitini poeta, e ha pubblicato un libro su questo.

Emma Thomas, una educatrice quacchera inglese, si trasferì a Perugia nel 1944 all’età di 72 anni per lavorare con Capitini, condividendone l’orientamento libero religioso e la scelta vegetariana. Ora Emma Thomas è sepolta nella tomba rettangolare di pietra grigia, posata a terra, insieme ad Aldo Capitini, a Luigia Vera Piva e a Riccardo Tenerini. Senza essere parenti, sono insieme, nel legame.

Sarebbe però sbagliato immaginare di trovare nell’opera di Aldo Capitini una meditazione diffusamente articolata sulle donne e sul femminismo, italiano e/o internazionale. Poche sono infatti le pagine in cui il filosofo riflette su questo argomento, e anche i titoli dei suoi scritti sul tema appaiono scopertamente basati su un approccio piuttosto tradizionale: La donna nel suo posto socialeL’educazione della donna in ItaliaLe donne per la pace.

Nato nel 1899 e morto nel 1968, Capitini indirizzò i suoi interessi e il proprio impegno totale alla noncollaborazione col regime fascista, all’organizzazione reticolare dell’opposizione politica durante il ventennio, all’approfondimento teorico-pratico della nonviolenza, alla lotta per l’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia, alla costruzione di una spiritualità libero-religiosa. E a molte altre cose ancora, come la messa a fuoco della definizione di omnicrazia (il potere di tutti) e del concetto di compresenza dei morti e dei viventi.

Nelle brevi tracce del suo pensare le donne, il punto maggiormente ribadito è la necessità che non si guardi al femminile solo come dimensione privata (madri e persone amate) ma che alla sfera familiare si aggiunga “la donna sentita come amica, collaboratrice di opere, compagna sociale, essere umano autonomo” (La donna nel suo posto sociale, in Aggiunta religiosa all’opposizione, 1958). La disparità nella responsabilità pubblica “deve essere superata dagli uomini nel considerare le donne, ed essi potranno fare questo tanto più, quanto più le donne stesse lo faranno dentro di loro e nel vario loro operare”.

Un paragrafo in Le donne per la pace ricorda gli anni successivi alla Liberazione, anni in cui “la freschezza e la dedizione con cui ho visto agire le donne dell’UDI, per esempio di Perugia, la modestia e la costanza con cui hanno partecipato alla vasta opera di assistenza, di controllo amministrativo, di propaganda, è uno dei più bei ricordi di questo periodo di luci e ombre”.

Nel primo volume di Educazione aperta (1967) recensisce un libro di Enzo Santarelli dal titolo La rivoluzione femminile, scrivendo fra l’altro: “tutta la letteratura e la polemica sul problema della donna […] confluiscono oggi con la maturazione, attraverso le varie emancipazioni e assunzioni di responsabilità (questo è libertà), di una nuova umanità”.

Io ho incontrato Capitini fra il 2010 e il 2011. Avevo letto da poco Petrolio di Pasolini e quella lettura dentro di me era stata uno sparo, un’epifania. La verità riguardo il mio Paese mi era stata rivelata in modo allegorico, e io l’avevo vista. C’era stata in me una vita prima di quel libro, ci sarebbe stata una vita dopo quella lettura. A partire da lì, maturai una decisione politica, in mezzo a un’acuta sofferenza: scelsi di sottrarmi, in famiglia, a legami profondissimi, divenuti irrespirabili per me. Rinunciavo, dopo averci riflettuto con grande prudenza, alle persone più care che avevo. Davanti a me c’era il deserto. Sola, poco dopo trovai il solitario Capitini, prima nelle testimonianze dei suoi amici e amiche rimasti in vita, poi nei suoi scritti (Religione apertaLe tecniche della nonviolenza). Grazie a Capitini provo a diventare amica della nonviolenza e mi sforzo di impostare la vita ispirandomi alla nonmenzogna, all’esercizio del parlare e dell’ascoltare nella vita quotidiana e nelle relazioni. Sono sinceramente interessata alla trasformazione dei rapporti, piuttosto che alla sconfitta delle persone che mi sono di ostacolo. Mi impegno nel recupero faticosissimo del respiro, della respirabilità degli affetti, della politica.

Un anno più tardi, incontrai Carla Lonzi. Ne avevo sentito parlare da due amiche, una mantovana e l’altra umbra. Una sua pagina mi era capitata fra le mani. Tuttavia è stato nel 2012 che mi sono immersa nelle sue opere, sbalordita dalla tempra di pensatrice che riesce a dire, a parlare di una vita in autonomia e fatta di relazioni non subìte, ma scelte. Scorreva davanti a me un’esistenza di donna che si scopre nel suo farsi, e osa dire di sé e delle altre. Qualcosa di inaudito e di inedito per me. Uscivo con sollievo dal monopolio maschile del pensiero, e dalla mia ignoranza.

Con queste persone a guidarmi, nella mia mente è sorta un’urgenza: sollecitare la necessità del superamento dell’economia basata sul petrolio, informare sulla necessità dell’esercizio della nonviolenza, far aprire gli occhi sulla necessità del riconoscimento del pensiero e dell’azione femminile. Così mi sono messa nell’impresa.

Nel 2013 ho scritto un articolo sulla relazione mancata e assente fra Carla Lonzi e Pier Paolo Pasolini, articolo che Luisa Muraro ha molto valorizzato, sorprendendomi. Poi l’8 novembre 2015 ho partecipato alla giornata sull’odio politico fra donne. Giornata che mi ha colpito e sono stata felice di aver ascoltato tante voci. In quell’occasione, come ora in queste righe, mi sono inoltrata per capire se nonviolenza e pensiero femminile avessero qualche chance di conoscersi e riconoscersi. Può darsi che questa ricerca interessi solo me. Oppure forse persone vive come Aldo Capitini e Alexander Langer (da me solo nominato l’8 novembre, e che andrebbe approfondito) entreranno nell’orizzonte di alcune/i di noi, che tesseranno nel presente una relazione, senza mancarla.

L’odio si accompagna a debolezza. Questo ho messo a fuoco durante l’incontro appassionato e partecipato di VD3. Durante, non prima, come se prima il tema non mi avesse riguardato o meglio lo avessi non dico rimosso ma di certo trascurato. Mentre le altre intervenivano alcune immagini, molto personali quasi intime, mi si sono aperte. Lo stesso mi è sembrato di sentire nelle parole di alcune: l’odio politico restava sullo sfondo, ma molto c’era comunque da dire.

Non mi dilungo su quelle immagini che essenzialmente riguardavano il primo conflitto, quello con la madre e la sua odiosa autorità e la debolezza che mi generava l’incapacità di vederla nella sua grandezza e nel vantaggio per me. Ma anche l’odio d’amore quando sei vinta, debole, non sai che fare e non obbedisci ad una sconfitta che sola può ridarti la realtà e la forza.

Ma ormai la macchina è avviata e rumoreggia. Il politico che è rimasto sullo sfondo crea nuove immagini. Non ho una particolare avversione per i cattivi sentimenti e mi è persino difficile elencarli e dividerli dai buoni. Mi piace la competizione, le antipatie mi orientano e la rabbia spesso mi fa decidere. Ad esempio.

Ma dall’odio politico col suo portato di debolezza rifuggo perché non mi fa capire niente di quello che mi sta intorno e non vedo in esso altro esito possibile che la guerra. E forse proprio l’odio, in compagnia di grandi interessi dal petrolio alle guerre di conquista, ha una bella parte nell’impedire alla politica di «inventare nuove parole e nuovi metodi» (Virginia Woolf). Cerco quindi di combatterlo al mio interno, prima che mi metta nelle condizioni di distruggere o di essere distrutta, nelle relazioni personali come nel mio rapporto con la politica.

Il caso ha voluto che in tutto questo rumoreggiare di pensieri, avviato da VD3 del 9 novembre, si sia levato dopo pochi giorni, 13 novembre, un fragore ben più alto: gli spari, le esplosioni degli attentati Isis a Parigi e le morti conseguenti.

Odio e debolezza scorrevano sullo schermo televisivo. Ho visto Hollande senza forze dichiarare lo stato di guerra e ho sentito oggi (22 novembre) Obama dichiarare «Distruggeremo l’Isis sul campo di battaglia ma non rinunceremo ai nostri valori». Ho visto allora tutta la loro debolezza. Non sanno cosa fare e affidano la loro debolezza a una forza, non loro, ma delle armi.

Domenica 8 novembre 2015 c’è stata, presso il Circolo della rosa di Milano, la redazione allargata di Via Dogana 3, che proponeva alla discussione questo tema: «L’odio politico esiste così come esiste la passione politica. Esiste anche fra donne?»

Dopo l’introduzione di Luisa Muraro e di Sandra De Perini, la discussione si è fatta subito animata e ad essa ho partecipato anch’io, con un breve intervento, dicendo che fin da giovane e anche da molto giovane, avevo provato rabbia e insofferenza nei confronti delle costrizioni e limitazioni nelle quali era blindata la mia vita di donna. Questa intolleranza, intrisa di ribellione, si traduceva in astio e rancore nei confronti non tanto delle persone preposte alla mia custodia, ma piuttosto nei riguardi di una società strutturata in modo da opprimere le donne ed escluderle da ogni umano interesse vitale.

Ho agito la mia profonda avversione freddamente, in maniera calcolata, trasformandola nel tempo in attività politica di azione, di pensiero, di parola, di scrittura; essa è stata l’energia che ha alimentato una passione durata tutta la vita.

Elogio quindi dell’acrimonia misurata, che mi ha dato slancio e vigore!

Qualche osservazione sull’incontro di Via Dogana 3, di domenica 8 novembre 2015, durante il quale ci siamo interrogate sull’esistenza dell’odio politico tra donne.

Grazie anche alla bella e intrigante relazione introduttiva di Alessandra De Perini, la parola odio ha mostrato tutta la sua potenza, è parsa guizzare veloce nella sala della riunione, gli interventi sono stati continui, con pochissimi momenti di pausa.

Come ha notato in conclusione Luisa Muraro, si è trattato di un dibattito anche faticoso, per la novità del confronto sul punto, ma riccamente declinato. Pareva non esserci chi non fosse stata colpita dal sentimento dell’odio e non avesse dovuto farvi i conti. Solo qualcuna non voleva neppure sentirne parlare, e pur avendo avuto la cortesia di accettare l’invito ad essere presente, come è stato notato, non ha detto, non abbiamo saputo, se non vi abbia mai avuto a che fare.

Per stare al gioco, invece, occorreva districarsi nel variegato flusso di osservazioni, riconoscere affinità, possibili sviluppi del proprio pensiero, mentre intorno, veloci, partivano e arrivavano indicazioni da e per le più svariate direzioni.

Ne riporto alcune tra le tante:

E via continuando.

Ripercorro qui solo alcuni dei nessi che la parola odio ha attivato in me, quelli che ho deciso di guardare più da vicino. Ricostruisco un filo tra i tanti possibili, attraverso le consonanze e le indicazioni che da interventi di altre ho ricavato.

L’esperienza più profonda di odio che ho vissuto è stata certamente quella che mi ha legata per molti anni a mia madre, risoltasi proficuamente per me solo quando ho saputo riconoscere il mio guadagno nell’accettazione del mio amore per lei. Solo quell’amore rimasto impensabile fino ad allora, e guadagnato attraverso parole di donne che mi avevano preceduta, è stato capace di liberarmi dall’odio che mi teneva inchiodata. Per questo ho sentito significativo per me l’intervento di Adriana Sbrogiò che indicava nell’amore l’unico rimedio per superare l’odio, e poi quello di Stefania Giannotti che individuava nella debolezza l’origine di tale sentimento.

Ho ripercorso allora il filo teso tra le profondità del rapporto con mia madre e le vicende della mia vita pubblica, la mia vita di lavoro. La dimensione in cui più avrei voluto praticare con forza la politica delle donne, ma in cui non sono riuscita a lasciare un segno particolarmente significativo della mia presenza insieme ad altre. Eppure il mio sentimento interno mi dice che è ciò che ho fatto, ciò che ho sempre tentato di fare, con una tensione ininterrotta a cercare varchi, opportunità sensate per me. Credo siano moltissime le ragioni che spiegano l’insuccesso, non ultima una probabile, limitata capacità personale, ma fra le tante ritrovo certamente anche l’inimicizia, l’indifferenza, l’odio tra donne. Penso di esserne stata spesso oggetto privilegiato, di aver dovuto patire questa particolare forma di attenzione. Il più delle volte ho risposto ricambiando cordialmente, come usa dire, l’invincibile avversione: per mancanza di sufficiente amore, che nel contesto della mia vita pubblica chiamerei mancanza di pensiero.

Di un pensiero capace di liberarmi dall’angolo a cui l’odio mi riduceva, come era infine avvenuto nel rapporto con mia madre.

Io so, io lo so che da qualunque cosa posso ricavare un bene, un vantaggio, un successo, una felicità, anche da quel piccolo e insignificante o grande e divorante odio. Ma devo saper vedere la via, il modo e il motivo per cui dover passare proprio attraverso quell’orribile imbroglio, quel nodo doloroso o così repellente che chiamiamo odio. Per esempio, in alcune situazioni, quell’odio potrebbe essere stato l’unico elemento dinamico a disposizione per volgere la realtà a mio favore. Se ne avessi visto questa caratteristica a tempo debito, con adeguata tempestività, forse ne avrei ricavato un pensiero, una guida utile all’azione, all’impostazione di un conflitto onorevole.

È quanto ha reso plasticamente chiaro il racconto di Vita Cosentino che riferiva di una insegnante che per una serie di orribili caratteristiche personali, aveva portato a una tale esasperazione i genitori da spingerli a minacciare di ritirare i figli dalla scuola. Vita ha affermato di aver superato l’avversione, la ripugnanza che la collega pure le scatenava, per riuscire a correre ai ripari.

Il racconto è stato veramente rapido, ma conoscendo la passione e l’attività politica di Vita, posso completare con l’immaginazione ciò che lei nello scambio diretto della riunione ha lasciato implicito. Evidentemente teneva tanto al buon nome della sua scuola, guadagnato con il lavoro e l’impegno suo e di altre, aveva tanto a cuore il giudizio e la relazione con i genitori, eccetera eccetera… che questi interessi più alti, questo guadagno più grande non l’hanno inchiodata all’immobilità o a semplici manovre di aggressione cui il puro odio l’avrebbe confinata e quindi… (a noi immaginare un fine abbastanza lieto).

È questo, credo, ciò che deve necessariamente accadere al nostro odio, perché si trasformi in altro, in qualche cosa di più utile, più sano, più vitale. Altrimenti, dico, teniamolo in caldo quest’odio, teniamolo da conto, è un’energia potenziale, una riserva per il futuro. Al meglio, si dovrebbe sperare forse di smaltirlo subito, nel presente, lì, dove e quando si configura, usato come propellente per un’azione immediatamente diversiva. Nel meraviglioso mondo di aspirinalarivista.it vedo raffinate strategie volpine, splendidi voli spiazzanti e grandiosi scenari di guerra contro la nemica, infuriano litigi mondiali, esplodono raffiche di urla, nessuna si fa male e tutte ne cavano qualcosa.

Nel nostro mondo penso sia saggio conservarlo con cura e lucidità, l’odio, per essere pronte a intercettare una seconda occasione in cui quel pensiero, quell’interesse, quel guadagno, quell’amore che non abbiamo saputo vedere una prima volta, possa ritornare a noi in forma e materia inattesa.

Come ha suggerito Muraro alla fine della riunione, è bene avere delle lettrici mentre si scrive. Le mie lettrici sono: Gabriella Attuati, arcangela, con spada di fuoco, Milena Mammani, tenace mastina napoletana.

Dopo trent’anni di impegno nella politica della differenza, sulla base della mia esperienza, penso che le donne conoscano ancora molto poco l’odio “politico”, mentre sono esperte di cattivi sentimenti che, però, difficilmente ammettono di provare e tendono a vivere unicamente sul piano privato.

Io ho un’idea nobile dell’odio: odiare qualcuna vuol dire riconoscerle su di me una presa potente, attribuirle un valore straordinario. Quella donna, infatti, mi mette in contatto con il male di origine femminile e mi chiede di guardarlo, di tradurlo in parole. Il mio odio non è cieco: se provo odio per una donna, non semplicemente fastidio e antipatia, prendo atto di essere ancora in relazione. L’odio è l’ultima porta che si apre, prima dell’indifferenza e del definitivo distacco, quando tutte le altre si sono chiuse alle nostre spalle. Offre un’ultima possibilità di azione, di rilancio, apre un imprevisto campo di battaglia.

Quella dell’odio politico è la lezione più difficile da imparare. Comporta la consapevolezza di essere in grave pericolo, insieme a un mondo di scambi, di relazioni, di contatti, di saperi e di pratiche e la necessità di trovare mediazioni.

Pensando alle ragioni che una donna può avere per provare questo sentimento forte e negativo nei confronti delle proprie simili, oggi che l’autorità femminile c’è, mi viene in mente un lungo elenco di comportamenti che minano la politica delle donne.

Per questo motivo dico “odio” le eterne piagnucolose, le meschine, le miserabili, le donne perfide che sanno come fare del male alle proprie simili, quelle che provano piacere ad umiliare, a ferire con le parole o anche solo con uno sguardo l’altra, con cui sono in rivalità e forte competizione. Odio le avare, quelle che fanno cadere sistematicamente nel vuoto i desideri, lesinando il nutrimento necessario perché l’azione comune prenda slancio, le indecise che, con le loro infinite paure e continue insoddisfazioni, mettono le mani avanti e minacciano il lavoro comune. E poi ancora: odio le vigliacche che, al riparo della parola pubblica, mettono in cattiva luce i progetti di altre, le false che dicono di venire in pace, disarmate, ma nascondono un complotto, quelle che dichiarano la propria fedeltà e poi sono pronte a schierarsi, rinnegando il debito della relazione; quelle che nei conflitti si credono automaticamente dalla parte del giusto e del vero, quelle che pensano di essere autorevoli, solo per la posizione che occupano, ma in realtà non sanno che cosa significhi quella parola in termini di fatica, generosità, coraggio di fare tagli; quelle a cui non bastano mai i riconoscimenti e ne vogliono ancora e sempre di più; quelle che si infuriano, quando ricevono critiche e indicazioni, indisponibili ad una modifica profonda di sé e del proprio orientamento. L’elenco sarebbe ancora lungo. Mi fermo qui.

È necessario trasformare l’odio in un sentimento politico, in una forza costringente, per cui non ci sono colpe da espiare, ma errori da riconoscere, comportamenti da abbandonare o modificare, gesti pubblici da inventare. Con il tempo si impara ad apprendere quella che Angela Putino chiamava “l’arte di polemizzare tra donne”, di farsi la guerra con onore (Sottosopra blu, 1987). C’è una pratica del conflitto che mette al bivio tra l’andare avanti, fingendo che tutto vada bene, o risvegliarsi e combattere perché ci sia verità nei rapporti tra donne.

La libertà di una donna comincia quando cessa la pretesa di essere amata: questa affermazione sta all’inizio della mia presa di coscienza e del mio impegno politico nella differenza. Erano gli anni Ottanta, mi trovavo immersa nel grande mare dei rapporti “tra” donne, scelte come uniche e privilegiate interlocutrici della mia vita, in un continuum che non aveva alcuna finalità se non il piacere e la gioia che potevano dare le relazioni, le feste, le vacanze, le cene insieme, le notti passate a ridere o a raccontare di sé. Mi avvicinavo ogni volta all’altra disarmata e disarmante, curiosa, con il desiderio di conferme d’amore, di comprensione e alleanza. Furono, invece, contrasti, schieramenti, rotture, malintesi, maldicenze. Non c’era ancora nella mia vita una ricerca condivisa di senso, non mi sentivo responsabile della libertà dell’altra, volevo solo goderne e quando, per desiderio mio e di poche altre, quella ricerca incominciò, era il 1984, il mondo si divise in due: da una parte noi, percepite come traditrici di quella prima forma di comunità, costruita con tanta fatica, dall’altra quelle che, non vedendo la necessità di un percorso politico, decisero di rimanere in quel cerchio magico di relazioni che, all’inizio, era sembrato a tutte un “mondo” grandissimo, ma che, di fatto, era una piccola casa sull’albero, un fortino, un recinto, in cui ognuna poteva avere accesso, pronunciando determinate parole d’ordine e da cui usciva, lasciando invisibile la parte più vera di sé, in cambio di credito sociale. Risalgono a quegli anni le mie prime esperienze di odio provato e ricevuto da altre donne sotto forma di attacchi, duri colpi, tentativi di eliminazione. Da lì un lungo cammino, più di trent’anni di “nuovi inizi”, di progetti, di scacchi, di conflitti vissuti con onore e disonore, intenta a intrecciare legami, a dipanare nodi, a costruire una “lingua comune delle donne”.

E adesso sono qui a dire che l’odio c’è. Rimosso, cacciato indietro, bandito dai rapporti tra donne, ma c’è. E fa paura. Non è solo un sentimento, è una forza, di cui bisogna tenere conto, per realismo. Può scorrere per anni silenzioso, sotterraneo e poi balzare fuori all’improvviso, incrostato di invidia e di risentimento. Può manifestarsi imprevisto e distruggere in poco tempo un lavoro politico di anni.

Al suo passaggio cadono ponti, si spezzano reti, si squarciano scenari per lasciare posto alla nuda realtà di un sentimento irriducibile. La corrente dell’odio fa vibrare i corpi di disgusto, riempie le bocche di accuse e di parole taglienti e le menti di fantasmi.

Non c’è riparo dall’odio. Si subisce e si prova. Ci vuole coraggio per guardarlo in faccia, per riconoscerlo riflesso nel proprio sguardo, senza provarne vergogna: l’odio pietrifica, scava buche profonde nell’anima, fa dimenticare la pietà e la compassione, trasforma i sentimenti malefici, le paure, i profondi contrasti tra donne in orsi feroci, lupi in agguato, corvi minacciosi che volano in cerchio, pronti a scendere in picchiata.

Che cosa placa l’odio? Non la “medicina” dell’amore. Ci vuole altro, ben di più, perché l’odio è un sentimento assoluto e l’amore non è il suo contrario. È necessario un gesto sottratto alla catena dell’azione – reazione, attraverso cui l’errore sia pubblicamente riconosciuto e si renda di nuovo possibile, se non la gioia dell’incontro, forse perduta per sempre, almeno un confronto politico tra avversarie eccellenti. Occorre “espiazione”, come nel Medioevo, sofferenza trasformatrice. Allora sì che l’odio si placa, trova una misura e ritorna nel mondo infero da cui proviene.

Ogni tentativo di mediazione, di fronte all’odio, si rivela spesso un assestamento fragile, inconsistente. Perché l’odio ha fame, non conosce misura né compromessi, non teme le voragini che si aprono sotto i piedi, si lancia nel vuoto, prendendo fuoco in velocità. Agisce sprezzante e colpisce senza esitare le parti più fragili e tenere dell’essere. Il suo prezzo è la bruttezza, lo schiacciamento nel qui e ora. Il guadagno è un’intelligenza sottile, attentissima alle trappole e agli inganni, una strana libertà, aspra e brutale, un sapersi muovere nel buio, senza cadere nella tentazione del perdono né cedere all’illusione che basti un semplice atto di volontà per cancellare il male fatto o ricevuto.

Bisogna averlo provato l’odio, almeno una volta, per riconoscerlo. Occorre aver attraversato l’inferno dei rapporti tra donne, il disordine delle passioni viscerali, essersi trovate immerse in laghi di cattiveria e infedeltà femminile, aver incontrato sguardi che feriscono e tagliano in due il contesto, per toccarlo con mano e coglierne il suo frutto velenoso: il disamore, il profondo disprezzo, il desiderio di vendetta.

La donna che odia è forte, determinata a vincere sull’altra, pronta a battersi, disposta a “cedere il regno per un piatto di ceci”, a perdere tutto, anche a sparire per sempre, in cambio della gioia selvaggia di un solo momento di riscatto.

L’odio assume forma politica quando smaschera la falsità del “volersi bene” tra donne che, come una viscida patina, avvolge i rapporti, rendendoli deboli e insipidi, riducendoli ad un misto di ricatti, differenze caratteriali, richieste di consolazione, astute seduzioni per soddisfare reciprocamente il bisogno di continue conferme.

Allora l’odio si presenta, indomabile come un cavallo selvaggio. A quel punto, conviene assecondarlo, non fare resistenza né illudersi di riuscire a governarlo, ma seguirne i movimenti e, un attimo prima che inizi a lanciarsi nella sua veloce corsa, avere la presenza di spirito di saltargli in groppa “con la spada in mano” (direbbe Luisa Muraro)

L’odio politico è un’azione personale e allo stesso tempo impersonale: con uno schiaffo irriverente e ironia beffarda, ponendosi a grandissima distanza, scompiglia le truppe dei buoni sentimenti, mettendo a soqquadro patti ed equilibri durati troppo a lungo, riconciliazioni illusorie. Costringe a dire la verità del proprio scacco, ad ammettere l’ambiguità di un desiderio di potere che ha intrappolato un progetto di libertà, per cui tante si erano spese, il fallimento di un desiderio di grandezza femminile, smentito clamorosamente dalla miseria che è rispuntata in contesto, invitata da quelle che hanno avuto paura della propria forza.

Quando odiamo o siamo odiate, non possiamo contare su una madre accogliente che ci consola e ci giustifica: siamo poste tutte di fronte alla potenza del “negativo di origine femminile” (Sottosopra oro, 1989). È segno di responsabilità politica non diffondere quel male: di qui, a volte, la scelta di fare silenzio, di porsi al di sopra degli scontri, di non rispondere alle provocazioni con un’azione allo stesso livello.

Poi, però, bisogna pur capire come andare avanti in positivo, perché la politica delle donne non è una valle di lacrime, scommette sulla felicità. Allora entra in campo la mediazione femminile che non cerca compromessi e facili assestamenti, ma crea un contesto dove si possa mettere in scena una “battaglia” per trarre dal conflitto, nominato in termini politici, un guadagno di senso per tutte e un nuovo orientamento.

In un paesino della Turchia, poche case fra montagne e mare, vivono cinque sorelle, Sonay, Selma, Ece, Nur, Lale. Sono belle, giovani e spensierate come vuole la loro età, pienamente felici e libere di studiare, giocare e amoreggiare con i loro compagni di scuola.

Inizia così il bel film di esordio della regista franco-turca Deniz Gamze Erguven. Splendide immagini di ragazze e ragazzi che giocano fra loro, primissimi piani sull’esuberante forza e vitalità dei loro giovani corpi e sullo sbocciare delle prime tensioni d’amore e sessuali; scene che esprimono gioia, energia, voglia di vivere sottolineate dalla voce narrante di Lale, la più piccola e indipendente fra le sorelle.

Ma un brutto giorno sulle loro vite luminose si abbatte, improcrastinabile come il fato e per mano della nonna e dell’orribile zio – strega crudele l’una e orco cattivo l’altro – la dura realtà del loro essere donne in una società patriarcale, e la loro innocente sessualità è messa sotto accusa e demonizzata.

Tutto improvvisamente cambia. Le loro vite vengono imprigionate, bloccate: non possono più studiare né leggere né comunicare con altri; la loro casa diventa la gabbia in cui una schiera di solerti zie e vicine si mette a disposizione per addestrarle a una serena sottomissione in vista di un felice futuro di brave e docili mogli di mariti imposti, mentre i loro giovani corpi vengono mortificati da tonache informi e incolori.

Utilizzando una narrazione fra favola e metafora – il titolo che richiama i cavalli liberi e selvaggi delle praterie dalle lunghe criniere ne è un esempio – la regista racconta la chiusura e l’oppressione sulle donne attualmente in atto in molti ambienti della società turca nell’era Erdoǧan e il desiderio, la sete di libertà femminile che comunque circola ed è insopprimibile, non controllabile, si respira nell’aria e contamina tutto, città e remoti paesini turchi.

Ed è a questo proposito che, nel dar corpo e voce ai caratteri delle cinque sorelle, ben delineati e differenziati, vuole mostrare, come nell’aprirsi di un ventaglio, le molteplici sfumature dei sentimenti e dei desideri che animano nella realtà le giovani donne e le loro scelte conseguenti: dalla supina e inerte accettazione dei matrimoni combinati fino alla ribellione estrema. E qui la narrazione dalla partenza leggera e solare con i toni della commedia vira decisamente verso atmosfere dolorose e drammatiche.

Ho visto Mustang in una sala gremita di giovani donne partecipi e coinvolte. Il film effettivamente ha un buon ritmo, riesce a creare una tensione crescente per culminare in un finale quasi liberatorio. La regista è brava a giocare con la macchina da presa e, grazie a un’ottima fotografia, ad accentuare i contrasti tra ambienti interni e quelli esterni, tra la chiusura buia delle stanze e la luminosità fuori del paesaggio ricco di una natura vitale e pulsante.

Le ingenuità ci sono nella sceneggiatura, che è della stessa regista in collaborazione con la coetanea regista Alice Winocour, sia nella messa a punto di alcune scene sia nella narrazione della voce fuori campo, ma la vibrante vitalità che il film esprime porta dalla sua la mia simpatia e quella del pubblico delle giovani donne. Forse questo spiega, dopo la selezione a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs e il premio al 21° Festival di Sarajevo, la sua candidatura agli Oscar per la Francia, nella sezione Miglior Film Straniero.

È arrivata la seconda domenica di novembre e Via Dogana 3 invita a un nuovo incontro della redazione allargata, aperto a donne e uomini, per leggere, a partire da sé, quello che accade nel mondo

dove: alla Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29

quando: l’8 novembre 2015, dalle 10 alle ore 13.30 (circa)

seguirà un pranzo leggero (offerto a chi viene da fuori) in compagnia.


Diversamente dagli incontri precedenti, ci sarà un unico tema, introdotto brevemente da Luisa Muraro e più lungamente da Sandra De Perini:

l’odio politico

esiste, così come esiste la passione politica.

Esiste anche tra donne?


V’invitiamo a uno scambio pacifico e affettuoso di pensieri ed esperienze. In vista dell’incontro, suggeriamo di fare mente locale, come dicono a Milano, su accadimenti ai quali si può associare quella parola.

La redazione ristretta di VD 3.

Vite in transito: non lo sono, di fatto, le nostre? Tutte. Così ho pensato davanti alle opere di Adrian Paci, artista albanese, due anni fa in mostra al Pac. Così mi sono trovata a ripensare in questi mesi.

I commenti agli arrivi dei profughi – «Sono centinaia, sono migliaia, non possiamo riceverli tutti, dobbiamo mettere paletti, rivedere i criteri, definire nuove regole» – li ho ascoltati inerme prima, imbarazzata poi. A un certo punto, e improvvisamente, ho immaginato che l’Europa (ma esiste?), dicesse altro. Questo: «Venite pure, vi accogliamo tutti». Ho percepito lo spazio che si apriva in me e tra noi, a dirlo. «Venite pure, abbiamo i nostri problemi e non di poco conto, ma con il vostro aiuto possiamo farcela».  Intanto nella mia mente un ritornello aveva preso a risuonare: «Non possiamo dire altro, non possiamo fare altro. Se facciamo dell’accoglienza la traiettoria, ne verrà solo bene. Tutto cambierebbe». Ma non sta comunque cambiando? Solo che sarebbe accompagnato da un di più di respiro, di abbraccio. Queste immagini e queste voci mi aiutavano – mi aiutano tuttora – a non cadere nella paura, a non contrarmi.

C’è un presupposto, mi dicevo: accettare che tanto si trasformi, del nostro mondo, pieno di case, cose, inganni politici e industriali, illusioni, inconsapevolezze molto diffuse, radicate e ben mimetizzate. Un’amica mi ha detto: «Chi viene ha deciso che non poteva più rimanere là dov’era. Nessuno può discutere la sua scelta. La terra è di tutti. E se saremo troppi a un certo punto qua, ci sposteremo, ci ridistribuiremo». Io la penso come lei.

Certo è un pensiero che è guida e al contempo richiama un pericolo: la messa in subbuglio di un ordine, di un benessere – il nostro. Questa mescolanza di genti che si va creando sotto i nostri occhi, di giorno in giorno, potrebbe essere occasione per rimettere mano a questo e a quello. Che proprio ordine e benessere raggiunti e maturi non sono. Io sento che ci è richiesto coraggio e invenzione.

Ci sono tante situazioni che domandano la risposta dell’accoglienza. Per me che insegno vale ricordarmi sempre, rinnovando l’idea e la pratica, che l’accoglienza è inizio di una storia, inizio di una relazione. A volte viene in un secondo tempo, e allora bisogna mettersi di impegno a sciogliere i guasti che si sono frapposti fra noi a l’altro. È specchio di quali orizzonti stanno prendendo piede dentro di noi, ognuno di noi, e nel nostro insieme. Nelle scuole italiane, che accolgono migliaia di creature in crescita e di adulti che le accompagnano, è messa alla prova da una crescente burocratizzazione e da una invadente proliferazione di impegni che rimandano ad altri piani (programmatici, organizzativi). La buona tradizione, ancora viva in varie città e paesi, di incontrare madri e padri di bambine e bambini nei giorni immediatamente precedenti l’apertura del loro primo anno scolastico, per conoscersi, parlarsi, dirsi ciò di cui si ha bisogno e ciò che si intende fare, non viene più praticata ovunque. Persino il momento iniziale – organizzato di solito intorno a una drammatizzazione o a gesti simbolici che accompagnano con un rito collettivo l’inizio di un nuovo percorso – viene schiacciato tra un atto ufficiale e l’altro: in classe ci sono molte formalità da sbrigare, i documenti da distribuire (molti e articolati), la lista del materiale da consegnare. Burocrazia al posto di apertura e invenzione. Un incipit che implode. Alle insegnanti viene consigliato, proprio da chi dirige le scuole, di non avere contatti telefonici con le famiglie. Di non superare certi confini. Al posto di alleanze e legami si tratteggia la strada del sospetto, del giudizio. Dell’inimicizia.

Dal mio osservatorio rilevo che i messaggi sono ambigui e bisogna tener saldo lo sguardo verso ciò che di positivo continua ad accadere, facciamo accadere. Le scelte individuali e collettive in questo scenario fanno la differenza: ciò che agiamo, con fatti e parole, ci dà o ci toglie possibilità. La nuova scuola in cui mi sono traferita da quest’anno ha scelto di creare un legame di accoglienza tra le classi quinte e le prime. Noi maestre, insieme, abbiamo deciso che fare. I grandi hanno letto una storia, l’hanno animata (e sono stati bravissimi), si sono affiancati alle piccole e ai piccoli perché realizzassero un collage, ne hanno anche creato uno loro, grande e colorato, e ce lo hanno regalato. Fatto sta che si è creato un bel filo di conoscenza e riconoscenza tra le classi e tra colleghe. E negli intervalli in cortile bambine e bambini da subito hanno preso a giocare insieme, con quella disparità appariscente di corpi e forze che però non genera incidenti, anzi molta allegria. Non mi è mai capitato di vedere bambine e bambini di 6 e 10 anni stare in una tale vicinanza quotidiana e giocosa.

Nella mia prima il mio inizio d’anno l’ho fatto con un gomitolo di lana, facendo passare il filo tra madri, padri, bambine, bambine, nonne, zii. Ci univa da subito ed era magico, ho detto. Al rito tutti ci sono stati, eravamo di sei o sette nazionalità. Abbiamo attraversato il cortile e siamo saliti fino alla classe, tutti tenendoci a quel filo. E lì, in cerchio, abbiamo ascoltato i nostri nomi, di adulti e di piccoli. Filo o nastro, gesto simbolico che mette in moto e sposta aprendo spazi impensabili prima: mi sento di avere agito nella scia di Maria Lai, artista sarda che legò il suo paese a una montagna coinvolgendo tutti, in una grande opera di insieme, facendo passare un nastro azzurro tra tutte le case del paese in cui era nata e cresciuta, unendo i vicini che erano amici e anche quelli che non lo erano (e tra le case dove c’era amicizia c’era un nodo, dove tra le famiglie c’era amore un pane decorato come un pizzo).

Leggendo in un contributo per VD3 (Accoglienza, 22/9/2015) che nella nostra città la cacofonia dei suoni delle lingue diverse sta creando una barriera, cancellando i suoni della lingua italiana, mi sono venute alla mente due cose. La prima: suoni diversi io li ascolto da vicino nelle voci delle bambine e dei bambini che ho in classe e in quelle delle donne e degli uomini loro madri e loro padri. Quelle lingue sono l’infanzia, storie di vite umane ai loro inizi (di oggi e di ieri) e più o meno tribolate. Quelle lingue sono la Storia che si muove lungo linee che partono lontano da noi e arrivano a noi. Ciò che provo ad ascoltare lingue così diverse dalla mia è un desiderio: saperle anch’io.

La seconda: c’è una nuova lingua che si sta parlando nelle scuole e che io temo. È l’italiano informatizzato, all’apparenza moderno e innocuo, nato dal mondo virtuale dei computer. «Ho bisogno di una persona che si occupi della dematerializzazione della scuola» dicono da qualche tempo coloro che dirigono i nostri istituti pubblici. Cercano insegnanti che si occupino del passaggio delle comunicazioni alla rete web, il fine essendo la “distruzione della materialità” dei documenti cartacei. E dato che noi rispondiamo – nell’anima, nel profondo – alle parole, è già capitato che a giugno alcune scuole primarie dell’Emilia Romagna abbiamo smesso di incontrare madri e padri per i colloqui di fine anno. «Tanto i voti e i giudizi li possono leggere sul registro elettronico, on-line». E così hanno fatto un passo verso la dematerializzazione delle relazioni.

Accogliere è fare spazio per chi arriva, è mettersi in ascolto e rinnovare la disponibilità a trovare nuove mediazioni.  Cose né banali, né scontate. È pensiero e gesto, perché prima di tutto tra noi si tratta di incontro – materiale e immateriale – di anime, di vite. È fatica, anche per me che sono maestra, per la pazienza che richiede, perché i miei tempi non sono i loro tempi, di bambine e bambini. I miei bisogni non sono i loro bisogni. A volte vorrei andare in un senso e loro mi spingono in un altro. Trovo molto impegnativo rimanere centrata, non confondermi, scegliere, arretrare. Sulla soglia, quando arriva un ospite, bisogna farsi di lato ma esserci. È una disciplina interiore quella di cui ho bisogno. Che tengo legata ad un filo di senso, quello che continuiamo a chiamare politico: negli incontri che facciamo ne va di noi, del nostro essere umani, del nostro essere capaci di creare legami. Nelle scuole continuiamo a parlarne, a pensarci e ad agire. Vista la posta in gioco, dico che si tratta di un gran lavorio prezioso che tiene insieme molto più di ciò che appare. Va rilanciato e allacciato ai lavori in corso di altre, altri – associazioni, gruppi – che stanno agendo con lo scopo di intrecciare destini e esistenze. Sempre e tutti in viaggio, su questa terra che è un corpo celeste, come scriveva Anna Maria Ortese. Per fortuna davvero lo è.