Mi sembra molto importante l’aver puntato l’attenzione sugli algoritmi, domandandosi se siano o no amici delle donne, come emerge dai contributi che stanno affluendo a questo numero di Via Dogana tre.
Alice Peverata nel suo testo mette in evidenza che le caratteristiche degli algoritmi sono “quanto di più lontano ci sia dal rapporto alla cui base troviamo sempre un’interazione, uno scambio e allo stesso tempo un’apertura sia tra chi lo intrattiene che con il mondo circostante”; e Luisa Muraro sottolinea “la rigidità meccanica” come “il problema che pongono gli algoritmi utili a governare la massa sterminata dei dati”. E aggiunge che “i droni uccidono terroristi non giudicati ma calcolati come tali con un margine di errore non umano ma statistico”.
Quello che mi preoccupa – e si evince anche dall’esempio terribile portato da Luisa Muraro – è che l’uso degli algoritmi è entrato in modo pervasivo nella società in tutti i suoi aspetti, come nei luoghi di lavoro, quando si deve trattare una massa di dati. Porterò come esempio la scuola, che è il mio campo. Chiediamoci: cosa capita a scuola se a governare è l’algoritmo?
Leggendo sui giornali le continue storie di insegnanti che per avere una cattedra devono per esempio lasciare marito e figli/e a Palermo, dove pure esistono cattedre scoperte e trasferirsi a Milano, dove pure esistono insegnanti che quel posto potrebbero occupare, cosicché questo inizio di anno scolastico comincia nel massimo della disorganizzazione, mi sono chiesta più volte perché si agisse in modo così insensato. Poi, sempre dai giornali, ho saputo che il Ministero dell’istruzione per collocare le/i docenti ha usato un algoritmo per il trattamento dei dati e si è affidato ciecamente alla sua applicazione. La “Buona scuola” del governo Renzi pensava di essere moderna ed efficiente scartando il fattore umano, i rapporti con i sindacati, le storie individuali e collettive e ha prodotto solo caos e un malessere profondo che riscontro in ogni insegnante con cui mi capita di parlare, che abbia o non abbia il posto di lavoro. Ora, al ministero, stanno ammettendo qualche errore, ma questo non basta. C’è una forma mentis da smantellare.
Ogni insegnante sa per esperienza che non può esistere un programma di computer che sia in grado di formulare da solo un orario scolastico soddisfacente per tutti – e qui i dati da trattare non sono neppure sterminati! Ci vuole di mettersi a tavolino, ascoltare le esigenze e mediare, aggiustare, con la consapevolezza che le misure dell’efficienza sono altre quando di mezzo c’è l’umano. Se l’insegnante sta male a soffrirne saranno gli studenti e le studentesse.
Ma veniamo al punto più dolente. La pretesa di governare la scuola tramite algoritmi si sta rivolgendo allo stesso mestiere di insegnare. E uso volontariamente la parola mestiere per sottolineare l’aspetto artigianale di questo lavoro. Prima, con la programmazione, l’ispirazione proveniva dalla fabbrica fordista. Era del tutto impropria, ma la gestione rimaneva nelle mani dell’insegnante. Era più facile sottrarsi, per esempio ricopiando anno dopo anno le stesse programmazioni per adempiere agli obblighi burocratici, e poi passare alle “cose serie”: il lavoro di relazione con studenti e studentesse che è la via principale perché si riesca a insegnare qualcosa.
Siamo state proprio noi insegnanti femministe a mettere in crisi il paradigma della programmazione e affermare la centralità della soggettività e della relazione a scuola. Fin dagli anni ’80. Poi sono seguiti i percorsi di autoriforma condivisi anche con uomini ad alimentare una pratica e una cultura che oramai circola comunemente nelle scuole ed è orientata in modo ben diverso dalla “rigidità meccanica” della scuola-azienda.
Con l’algoritmo si fa un passo molto più in là. La grande massa di dati non può essere trattata dall’insegnante. La gestione sfugge dalle sue mani. Le prove a test vengono da fuori, così come la loro soluzione, vedi le prove Invalsi predisposte uguali per tutte le scuole in Italia. Le multinazionali hanno capito che per le merci il mercato è quasi saturo mentre se ne apre una bella fetta nei servizi, scuole e ospedali per esempio. Hanno cominciato a sfornare test e altri marchingegni che stanno invadendo sempre di più le scuole. Ci sono innumerevoli competenze da “testare”!
In questa concezione quale diventa allora il lavoro dell’insegnante?
Heinz von Foerster è l’inventore della cibernetica di secondo livello e non può essere certo annoverato tra i detrattori delle nuove tecnologie. Pure lui sosteneva già molti anni fa che i test misurano “il livello di banalizzazione a cui è giunto un essere umano”. Ed è questo il punto. Quello che si mira a far fuori è proprio la soggettività di chi insegna e di chi impara. Prima dell’estate al momento delle prove Invalsi si è creato un movimento di opposizione e di rifiuto a sottoporsi ai test. È ora di esprimere più a fondo e meglio le ragioni della soggettività di chi ogni giorno abita la scuola.
Conclude Luisa Muraro il suo testo Ragazze e algoritmi, una spiegazione del 23 settembre: «ma il cambiamento non rispecchia visibilmente l’opera di una crescente libertà femminile, che pure esiste … E questo è diventato per me un punto di partenza. Spero che lo sia anche per altre».
Punto di partenza per una discussione collettiva, ma non nella situazione stessa, direi. Questa è la situazione esposta da Luisa, la ridico: la nostra cultura di scambi smisurati è regolata secondo la rigidità meccanica fornita dagli algoritmi. Ma questa situazione è già avanzata, allora il punto di partenza riguarderà la discussione, e parta dalla libertà femminile che già c’è.
Libertà che ha anche messo le ragazze nelle forze armate e potrebbe mettere una ricca avvocata e politica guerrafondaia a capo del più importante apparato politico-militare del mondo. Dove è andata questa libertà? Non è più “parità” da tempo, e anche il “tetto di cristallo” è sfondato. Però l’edificio – forse aperto verso l’alto, chissà – è anche diventato comune, lo abitano donne e uomini in libere relazioni… per un unico fine, almeno in occidente, per la comune cultura e civiltà… da migliorare beninteso. In questo punto preciso, io mi sento in una impasse. Ad esempio non riesco a parteggiare per Hillary, nemmeno per essere contro Trump, come vedo fare da Ida Dominijanni. Non so, non mi oriento, rimpiango un po’ l’“estraneità”.
Da tempo alla Libreria delle donne di Milano ragioniamo su come donne e uomini stanno in luoghi molto segnati da una cultura tradizionalmente maschile, come quelli scientifici e/o tecnologici. La rete è uno di questi. Luisa Muraro in Ragazze e Algoritmi: una spiegazione, per Via Dogana 3, scrive che la rigidità meccanica degli algoritmi, utili a governare la massa sterminata di dati, non “rispecchia visibilmente l’opera di una crescente libertà femminile, che pure esiste”. E mette in guardia dalla statistica (io sono una biostatistica) ricordando che «i droni uccidono terroristi calcolati come tali con un margine di errore non umano ma statistico».
In Gli algoritmi non sono amici delle donne, sempre per Via Dogana 3, Alice Peverata, giovane ingegnera, scrive che la ricchezza femminile non si confà ad un meccanismo sequenziale ed inequivocabile come quelle degli algoritmi.
In passato io e Laura Colombo (web-mater del sito della Libreria delle donne di Milano) abbiamo ragionato e scritto in diverse occasioni su cosa vuol dire fare politica delle donne sul web, e il rischio di far fuori la differenza sessuale e perdere le potenzialità dello scambio in presenza, se si rinuncia al sapere che viene dall’incontro di “corpi”, che permette di pensare, confliggere e reinventare le relazioni, tenendo conto anche di ciò che non passa per il linguaggio scritto.
Tutto questo è lì, dobbiamo tenerlo presente e raccontarlo, per non farci giocare dalle magiche sorti progressive della scienza, della tecnologia, del web.
Ma allo stesso tempo devo ammettere che ho esultato quando su Facebook ho letto l’ultima intervista della regina del pop eclettico, Björk, cantautrice, compositrice e produttrice discografica. Una donna coraggiosa, impegnativa, difficile, eclettica, che ama sperimentare e creare una musica che richiede tempo per essere compresa e non si preoccupa di rendersi piacevole e commerciale. Nonostante questo nel 2003 ha venduto in tutto il mondo 40 milioni di dischi, ha vinto innumerevoli premi internazionali, per l’originalità delle sue canzoni, le innovazioni tecnologiche dei suoi video e persino la Palma d’Oro e il premio per Miglior Attrice al Festival di Cannes nel 2001. Persino il MoMA di New York le ha dedicato retrospettiva, in onore della sua carriera di artista.
Nell’articolo del 24 settembre pubblicato su Repubblica.it e intitolato Björk: La tecnologia libera le donne dai giochi di potere la cantautrice presenta una app (“Biophilia” la prima app che entra al MoMA) che rende l’ascolto della musica un’esperienza non più esclusivamente passiva: l’app «permette di trasformare ogni traccia in un gioco e contiene programmi con cui lavorare sui testi delle canzoni e fare musica. L’applicazione è stata utilizzata addirittura in molte scuole islandesi e della penisola scandinava per insegnare musica ai bambini.» Conclude l’intervista, che ha rilasciato in occasione di una mostra interattiva rivoluzionaria a Londra sulla realtà virtuale, affermando che la tecnologia «svincola le donne da sistemi di patriarcato e giochi di potere» e grazie ad essa crea la sua arte. Con le nuove tecnologie si possono realizzare video digitali anche senza grandi mezzi economici, e si è meno soggetti al potere delle case produttrici. In un’altra intervista sul Guardian1 spiega che con i video digitali di questa epoca storica si sperimenta un’enorme libertà, specialmente per le donne, come ai tempi delle video-artiste degli anni ’70.
Ecco, leggendo Björk ho esultato perché lei e un bell’esempio di quella grandezza femminile che osservo sempre più nel mondo. La storia del femminismo ha mostrato che le donne ovunque decidano di andare, anche nei luoghi più patriarcali, nei luoghi di potere della politica istituzionale, nell’ambito della ricerca scientifica e della tecnologia, sanno fare invenzioni per portare la loro soggettività.
Un altro bell’esempio che ho vissuto più da vicino riguarda l’ultimo congresso internazionale di una società scientifica di ricercatori di base a cui ho partecipato come organizzatrice e relatrice. Si trattava di un congresso con scienziati che venivano da tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, e come ogni congresso scientifico gli interventi preordinati avevano una struttura molto simile, il linguaggio è molto tecnico, chiuso agli addetti ai lavori, le presentazioni in power point sono costruite in modo standard, e di spazi di libertà e di esprimere la propria soggettività se ne vedono molto pochi. Ma questa volta, insieme ad una spagnola, una francese e un paio di amiche ricercatrici italiane, abbiamo deciso di inserire una tavola rotonda per ragionare a modo nostro sulle donne nella scienza, facendo incontrare scienza e filosofia, discutendo in modo libero, circolare, partendo dalla nostre esperienze, per capire in che ambiti le scienziate scelgono di essere e perché, come lavorano, come raccontano il loro lavoro, come affrontano le difficoltà nel gestire maternità e professione… Durante la tavola rotonda emergeva con chiarezza quanto fosse diffusa la consapevolezza che non ha senso parlare in termini di uguaglianza, tra ricercatori e ricercatrici, e che quella scienza che ha la presunzione di essere universale e valida per tutti ci perde anche in termini di sapere scientifico se non ragiona sulla differenza sessuale, sia dal punto di vista del modo di indagare il reale, quindi del metodo scientifico, che dell’oggetto di studio (dalla cellula all’umano). E così la biostatistica nelle mie mani diventa uno strumento potente e flessibile, che mi aiuta a indagare e rappresentare la variabilità del reale, prima di tutto il modo in cui uomini e donne affrontano le malattie e la cura.
Concludo sottolineando che se guardiamo alla storia e a quello che è successo con la rivoluzione femminista, sappiamo che l’opera della crescente libertà femminile esiste se sappiamo raccontarla, se ci assumiamo la responsabilità di guardare con la lente della differenza sessuale anche, e soprattutto, negli ambienti che sembrano più neutri, come possono essere quelli tecnologici e scientifici: sono tante le donne che non rinunciano più a essere sé stesse e a portare la loro soggettività là dove sono, dipende anche da noi metterle al centro della scena.
Perché se è vero che la ricchezza femminile si manifesta nella sua pienezza nell’ambito letterario e nelle cosiddette materie umanistiche, sabato all’incontro alla Libreria delle donne di Milano, alla discussione partendo dal libro di Vita Cosentino Scuola, sembra ieri, è già domani di Moretti & Vitali, una professoressa di liceo ha ribadito che la matematica che lei insegna ai ragazzi è anch’essa un’occasione di libertà per studentesse e studenti, per scoprire come il mondo può trasformarsi nelle loro mani, partendo dai loro desideri.
Per questo continuo a insistere che il problema non è la rete, la tecnologia e la scienza, che nelle mani delle donne possono trasformarsi in possibilità di libertà e di illuminare in modo diverso il mondo.
Il segreto è non rinunciare ad esserci con coraggio e inventiva svincolandosi «dai sistemi di patriarcato e i giochi di potere», anche grazie alla tecnologia e alla scienza, perché anche Björk ne è convinta: una terza o quarta ondata di femminismo è nell’aria2[2].
- «I really feel now those headsets are like a private theatre of anarchy. I have an enormous freedom, I can set up anywhere. And I’m noticing more and more that it is especially liberating for women since we don’t have to deal with the history of patriarchy or play any power games», she says, comparing the process to the work of female video artists in the 1970s. «It is an open field, it’s wide open». https://www.theguardian.com/music/2016/sep/02/bjork-digital-vulnicura-vespertine ↩︎
- http://pitchfork.com/features/interview/9582-the-invisible-woman-a-conversation-with-bjork/ ↩︎
Lo strano titolo della Redazione allargata VD3, 11 sett. 2016, ha un significato che si è chiarito con l’incontro dell’undici, in parte. In parte resta da chiarire, mi sono resa conto, anche da parte mia che l’ho ideato. Preciso che l’ho ideato come una situazione più che come un tema. Mi pare che l’incontro sia andato bene, ha fatto affiorare temi e problemi.
Racconto l’inizio. Un anno fa ho incontrato una giovane anzi giovanissima donna dal carattere combattivo, di nome Luisa C.B. Ha cominciato a venire alla Libreria delle donne di Milano, via Pietro Calvi 29, e un giorno mi ha detto: “con voi della Libreria non dico che sono femminista, non me la sento, ma con le mie amiche e amici lo dico, perché è oggettivamente così”.
Ha aggiunto altre cose, fra cui che la parola “oggettivamente” le piace. Ha accettato volentieri la mia proposta d’introdurre con me la redazione allargata di VD 3.
In effetti, lei è veramente femminista, lo è nel senso oggi più condiviso: l’uguaglianza tra donne e uomini non è ancora raggiunta. Va detto però che questo senso di una giustizia ancora negata alle donne, non è accettato da alcuni della sua età, maschi un po’ sbruffoni o forse veramente antifemministi. (Il che si nota anche a livello mondiale.) Quando nascono conflitti, ci ha raccontato, lei rivendica il suo femminismo, ma nota con disappunto la riserva in cui si tengono pubblicamente amici e amiche. A questo proposito ha parlato di una comfort zone, concetto per me nuovo. Fa capire qualcosa della reticenza giovanile e femminile, nonostante la libertà di parola che c’è grazie alla rete. Ma in presenza e in pubblico…
Perché, con noi della Libreria, Luisa C.B., pubblicamente combattiva, esita a dichiararsi femminista?
Anche questa sarebbe reticenza? No. Secondo me, essendo lei una tipa intelligente, ha avvertito che per noi c’è dell’altro oltre alla questione dell’uguaglianza non raggiunta tra donne e uomini. Lo sente ma non sa che cos’è.
Che cos’è, in effetti? Noi crediamo di saperlo compiutamente ma la nostra è una mezza presunzione. Sappiamo dirlo, sì. Si tratta di far venire al mondo il senso libero della differenza sessuale, dentro di sé, nei rapporti con gli altri e nella cultura vissuta a quei livelli per cui diventa creativa.
Ben detto ma anni di frequentazione, letture, scritture, convegni, citazioni, ci fanno credere di avere messo al sicuro l’essenziale, ossia quello che è stato il movente effettivo della rivolta delle donne. Una Carla Lonzi mirava alla libertà, non all’emancipazione.
Stiamo parlando di un’impresa non solo del femminismo, ma dell’intera civiltà umana, oggi. Impresa di cui è difficile comunicare il movente, che è un desiderio soggettivo, e la misura, data dalla libertà personale. Doppiamente difficile in una cultura dove gli scambi crescono a dismisura, e corre per ciò stesso il rischio di perdere la sua plasticità.
La rigidità meccanica, ecco il problema che pongono gli algoritmi utili a governare la massa sterminata dei dati, i famosi big data forniti dagli utenti della rete e disponibili a pochissimi. Sapete che i droni uccidono (effetti collaterali a parte) terroristi non giudicati ma calcolati come tali con un margine di errore non umano ma statistico?
A suo tempo, come qualcuna ricorderà, abbiamo parlato di un cambio di civiltà, anche sulla rivista Via Dogana: pensavamo alla libertà femminile che avrebbe trasformato donne e uomini nel modo di essere e di relazionarsi. Allora era più facile vederlo. Un cambio di civiltà è in corso, le donne c’entrano non poco, ma il cambiamento non rispecchia visibilmente l’opera di una crescente libertà femminile, che pure esiste. Luisa C.B., nell’incontro di VD 3, ha testimoniato l’una e l’altra cosa.
E questo è diventato per me un punto di partenza. Spero che lo sia anche per altre.
Care amiche di Via Dogana 3, ho partecipato alla riunione domenica 11 settembre e ho letto con molto interesse l’articolo di Alice Peverata Gli algoritmi non sono amici delle donne (16 settembre 2016).
Vi scrivo perché mi sono imbattuta in una notizia che dà spunti di riflessione proprio su donne e algoritmi.
Il 31 agosto 2016 Matt Day, giornalista esperto di tecnologia del Seattle Times, ha pubblicato un articolo in cui mette in luce come l’algoritmo di ricerca di LinkedIn, il social network dei professionisti in rete tra loro, non sia immune da pregiudizi di genere (How LinkedIn’s search engine may reflect a gender bias). Nel momento in cui si cercava il nome di una donna, “Stephanie Williams” è l’esempio di Matt, il sistema proponeva l’alternativa maschile “Stephen Williams”. Non era così se l’oggetto della ricerca era un nome maschile. Parlo al passato perché in pochissimi giorni LinkedIn ha cambiato l’algoritmo, proprio in seguito al report del Seattle Times: ora se si cerca il nome di una donna, non c’è alcun avviso ai naviganti per una possibile alternativa maschile (LinkedIn changes search algorithm to remove female-to-male name prompts, 8 settembre 2016).
In questi articoli, il giornalista sottolinea che ricercatori e ingegneri del software sanno che gli algoritmi di intelligenza artificiale alla base dei motori di ricerca sono soggetti agli umani pregiudizi. Nel caso riportato sembrerebbero ricondurre a uno schema neo patriarcale, passato dal subconscio dell’architetto software al codice attivato nel motore di ricerca. Il rimedio sembra essere la rimozione della differenza sessuale, entrata dalla finestra (come misoginia) con l’algoritmo di ricerca, dal momento che LinkedIn non chiede di dichiarare il proprio genere quando ci si registra. È una posizione in linea con l’altro paradigma alla base (anche) della rete, cioè il superamento della distinzione binaria maschio / femmina. Forse sta qui, tra patriarcato di ritorno e liquidazione della differenza, la lotta per un senso diverso da dare alla rete?
L’incontro di Via Dogana 3 Ragazze e Algoritmi ha dato il via in maniera spontanea a una riflessione circa il significato che le parole “ragazze” e “algoritmi” hanno per me e soprattutto il loro accostamento. Gli algoritmi non sono amici delle donne.
Che cosa è un algoritmo? È, come da definizione, una sequenza precisa di operazioni comprensibili e perciò eseguibili da uno strumento automatico. Il mio interesse è colto da due termini che identificano la parola: “sequenza” e “operazioni comprensibili”. Procediamo con ordine: l’algoritmo è sequenziale. Questa sua caratteristica lo rende quanto di più lontano ci sia dal rapporto alla cui base troviamo sempre un’interazione, uno scambio e allo stesso tempo un’apertura sia tra chi lo intrattiene che con il mondo circostante. L’algoritmo è invece incanalante: si segue sempre l’assioma euclideo del cammino più corto, più veloce e non c’è possibilità di cambiamento perché il meccanismo è lo stesso. Con quest’osservazione non voglio sminuire l’importanza pratica di operazioni meccaniche che noi tutti conosciamo, tenevo a rilevarne la differenza.
L’algoritmo è anche, per quanto leggiamo, privo di ambiguità. Qui si gioca un’altra importante caratteristica: ogni azione svolta deve essere univocamente interpretabile dall’esecutore e pertanto se qualcosa non ha i criteri per essere processato non entra nella logica dell’algoritmo.
Ora la parola “ragazze”. Non appena vidi il titolo dell’incontro mi sembrò che dall’accostamento tra le due nascesse un ossimoro. Perché questo? Per molto tempo le ragazze sono rimaste fuori da quella logica, non avendo forse, fortunatamente, i criteri per essere “processate”.
La ricchezza e la totalità femminile di cui scrittrici e scrittori oggi e nella storia hanno parlato non si confanno ad un meccanismo sequenziale ed inequivocabile. Questo non perché una donna sia per natura incomprensibile, ma la sua capacità di “raccogliere da ogni cosa soltanto ciò che la alimenta, che la vivifica” le fornisce mille sfumature che un algoritmo non può comprendere.
Io sono una ragazza e studio ingegneria. Questo argomento è vicino alla mia sensibilità: mi piacerebbe non dover rinunciare alla mia femminilità in alcuni momenti e luoghi della mia vita.
Qualcosa può cambiare. Potrebbe esistere un nuovo tipo di algoritmo? Un algoritmo flessibile?
domenica 11 sett. 2016, ore 10
in via Pietro Calvi, 29 – Milano
Che cosa sono gli algoritmi?
La parola viene dall’arabo (segno di riconoscimento: al-), in origine era il nome di un matematico arabo. Oggi indica le regole per fare operazioni meccaniche e sicure. Sono diventati molto importanti con la rivoluzione digitale, in quanto ottimi dispositivi di calcolo per chi vuole operare in maniera sicura e veloce sui grandi numeri che la Rete mette a disposizione.
Che cosa…, no: chi sono le ragazze? Sono donne (e uomini) nate e cresciute con la globalizzazione, e formate ai tempi della crisi-che-non passa; la precarietà gli appartiene in proprio, non se ne lamentano quasi, devono lottare per esserci e farsi (ri)conoscere.
Che rapporto fra quelli e queste? E che rapporto abbiamo con loro, le ragazze e gli algoritmi, noi fedeli alla rivoluzione femminista?
Non si tratta di fare della sociologia ma di ritrovarci in quello che si presenta come un cambio di civiltà.
Lo scambio sarà liberamente aperto alle persone e alle questioni. Sarà introdotto da due comunicazioni:
-Luisa Muraro, socia fondatrice della Libreria delle donne, Da Berlusconi a Trump, dalla televisione a internet;
-Luisa Carnevale Baraglia, maturità superata nel 2016, Noi e il femminismo.
Cara Via Dogana 3,
in questa estate che sembrava decollare con fatica, leggo sul sito della Libreria che l’incontro di via Dogana 3 del mese di luglio non ci sarà. Mi dispiace e attendo con curiosità l’incontro di settembre. Con il caldo in arrivo il bisogno di vacanza comincia a farsi impellente. Ma il sito resta aperto e quindi, mi dico, perché non restituire qualche eco che la partecipazione agli incontri ha avuto per me? Ripercorro alcune suggestioni.
Non casualmente, tra gli incontri a cui ho partecipato, quello che più ha avuto risonanza in me è stato l’incontro del 13 settembre Farsi forza.
Il sentimento della mancanza, del non saper riconoscere la propria forza ma anzi sminuirla e disperderla, è un vissuto con cui combatto sempre, non mi risparmia mai, nemmeno sotto la canicola estiva. Certo, mi dico, anni e anni di patriarcato, di storia scritta al maschile, qualche danno nel profondo l’avranno pur fatto!
Ho delle amiche molto care, splendide donne intelligenti e resistenti, che mi fa piacere incontrare perché mi riscaldano il cuore. Eppure, eccole là, per difendersi dagli inevitabili vissuti di solitudine e dai travagli della vita, ognuna a cercar risposte altrove: terapeuti per analisi interminabili, uomini rincorsi per storie improbabili, frenetiche attività con cui riempire il poco tempo sottratto al lavoro e alla famiglia per poi lamentarsi di non avere mai tempo. Insomma, ragazze! Come dire, tutte a rifugiarsi in un individualismo un po’ narcisista che non aiuta, che isola ed amplifica i vissuti di solitudine. Tutto questo spesso nell’inconsapevolezza della propria capacità e forza che, condivise con altre, potrebbero far nascere energie nuove da usare per sé e per il mondo.
Io non sono diversa da loro, ed è anche per questo che mi sono così care e vicine. Tuttavia come ha scritto Luisa Muraro nel suo Non è da tutti. L’indicibile fortunadi nascere donna – «il senso della mancanza tiene la porta aperta (…) ed è proprio la mancanza che dall’interiorità indica il cammino»; cosìpasso dopo passo sono arrivata alla Libreria delle donne di Milano, ho letto la mitica rivista Via Dogana, ho partecipato, anche se sempre rigorosamente in silenzio, a Via Dogana 3, e aspetto settembre in una pausa di ozio meditativo e in compagnia di buoni libri, preferibilmente di autrici.
Insomma, avvicinarmi ai luoghi del pensiero femminista e nello specifico al pensiero della differenza ritrovandovi genealogie femminili mi aiuta a farmi forza.
L’esperienza della Scuola di scrittura pensante che ho frequentato alla Libreria mi ha orientato a comprendere come tale scelta sia stata per me un atto politico, una scelta di schieramento, spontanea e ragionata al tempo stesso. Spontanea perché attinge ad una corrispondenza tra il mio sentire, la pratica del partire da sé e il desiderio di presenza al mondo. Ragionata perché ho scelto di vedere il mondo e le cose che accadono, dalle vicine alle lontane, con una lente nuova per me; ciò mi ha consentito un guadagno di forza da spendere nella vita di tutti i giorni.
Così che voglio impegnarmi a far sì che il femminismo continui a propagarsi come un virus, perché si interrompa questo sentimento nocivo di subordinazione al maschile da parte delle donne e si faccia spazio a un di più femminile: abbiamo più risorse di quelle che crediamo di avere e che mettiamo in campo.
A mio avviso l’ha ben testimoniato Laura Giordano, che nella sua relazione per l’incontro Farsi forza ha raccontato della forza guadagnata attraverso la possibilità di sperimentare una relazione politica con altre donne. Con una consapevolezza che definisco politica, politica nel senso della politica delle donne che è il partire da sé e far nascere qualcosa di nuovo che riguardi le nostre vite ma vada anche oltre le nostre singolarità, poiché apre strade nuove anche per altre ed altri.
Un’ultima suggestione da via Dogana 3: nella sintesi del primo incontro del 13 maggio Silvia Baratella ha riportato un pensiero di Luisa Muraro che, con un richiamo ad Hannah Arendt, dice: sono convinta che l’agire politico, per l’essenziale, sia l’esporsi in prima persona là dove si è, nel momento in cui le cose lo domandano. Prendere l’iniziativa. Solo dopo vengono la tenacia e la fedeltà.
Un auspicio, quasi come un augurio e anche un’esortazione, farsi forza, per prendere l’iniziativa e prendere parola, una presa di parola pubblica che rimanda alla dimensione politica dell’agire (…) ed ha a che fare con la cura e la responsabilità nei confronti della realtà sia con il desiderio di una sua trasformazione1.
- Sensibili guerriere. Sulla forza femminile. A cura di Federica Giardini, Iacobelli Edizioni, 2011 ↩︎
Le sue sono figure femminili complesse e anticonvenzionali alle prese con relazioni difficili. Sono donne e ragazze che tentano di agire le loro vite nel miglior modo possibile, seguendo una specie di etica personale, che nel tumulto delle passioni e dei desideri arrivano comunque ad una sorta di equilibrio nella concretezza di cambiamenti e di realizzazioni personali: accade nelle loro esistenze, nei momenti più confusi, di agganciare qualcosa, un pensiero, un fatto che permette loro di vedere più chiaramente in se stesse e nei loro desideri.
Per Il piano di Maggie la Miller ha scelto il registro della commedia, come ambientazione il quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, nuovo epicentro dei creativi, e per personaggi degli intellettuali: scrittori e docenti universitari colti nelle turbolenti e caotiche dinamiche familiari e relazionali create dalle nuove famiglie allargate. Insistono gli elementi autobiografici – Rebecca Miller è figlia della fotografa Inge Morath e del drammaturgo Arthur Miller – in tracce ormai rarefatte, alleggerite dal tempo e dalla memoria.
Maggie è una giovane donna single molto razionale che sa di poter contare solo su se stessa. Forte è il suo desiderio di maternità ma non sente la mancanza di legami sentimentali, anzi vuole evitarne le complicazioni. Il suo piano è semplice e attuabile: avere un figlio con la donazione di sperma sapendo già chi potrebbe essere il donatore. Un piano che la lascerebbe nella tranquillità della sua ben organizzata esistenza, con buon lavoro e buoni amici su cui contare. Ma niente è più facile nella vita che vedere i propri progetti improvvisamente scombinati da nuovi accadimenti.
È così che l’amore entra nella sua vita e sconvolge la sua razionalità quando incontra John, un professore incaricato nello stesso college in cui lavora. L’uomo, docente di antropologia in totale carenza di autostima, la cui moglie riveste nell’università cariche di maggior prestigio della sua, vede in Maggie, bella, più giovane e più attenta ai suoi bisogni e alle sue ambizioni di scrittore, la donna con cui realizzare la vita a cui aspira. Fra i due scoppia la scintilla. John dice: «In una relazione qualcuno fa il giardiniere e qualcun altro la rosa». Quando incontra Maggie sente che finalmente capita a lui di essere la rosa.
Fin qui la trama svolge un tema classico: l’intellettuale di mezza età, sensibile e in crisi, che si innamora ed è ricambiato da una donna più giovane e più attenta della moglie in carriera.
Miller però non svolge il tema sentimentale. Con un salto temporale di tre anni troviamo infatti Maggie, realizzata nel suo desiderio di maternità con una figlia deliziosa, Lily, sobbarcarsi da sola il carico di un ménage familiare che include i due figli di John e Georgette e il conseguente carico economico, mentre John continua a scrivere il suo eternamente incompiuto romanzo.
Il nuovo piano di Maggie è ora quello di uscire dalla situazione in cui volontariamente e con tutte le buone intenzioni si è cacciata. E poiché la sua natura è gentile, incapace di ferire, volendo far stare bene tutti, oltre che se stessa, il suo piano sarà oltremodo originale.
«Ognuno ha il suo momento» dice un personaggio di Personal Velocity, primo film di Miller visto in Italia, e questa sembra essere la guida su cui si sviluppano ed evolvono le storie dei suoi protagonisti, sia nei racconti e nei romanzi che nei suoi film. Un momento, un pensiero illuminante sul che fare della propria vita. E poi procedere verso il cambiamento, anche se in maniera confusa e incerta.
La Maggie di Miller ha molto della Emma Woodhouse di Jane Austen, che vuole far andare le cose del mondo e le relazioni fra le persone, manipolandole anche, secondo i propri desideri e progetti, in un intento non privo di generosità di rendere il mondo migliore. Ma anche simile alla propria volontà.
Il film è una commedia brillante e sofisticata e si avvale dell’eccezionale recitazione di Greta Gerwig (Maggie), Julianne Moore (Georgette), Ethan Hawke (John).
Rebecca Miller ha scritto e diretto altri quattro film: Angela (1995), vincitore di premi al Sundance Film Festival; Personal Velocity (2002), vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e del premio John Cassavetes Award agli Independent Spirit; La storia di Jack e Rose (2005); The Private Lives of Pippa Lee (2009).
La Miller è anche la sceneggiatrice del film Proof – La Prova(2005), tratto dall’omonima opera teatrale. È autrice della raccolta di racconti dal titolo Personal Velocity (2001- ed. Fandango) e dei romanzi Le vite private di Pippa Lee (2009, ed. Fandango) e Jacob’s Folly (2013).
Con dispiacere. Le cose di cui parlare non mancano e neanche la voglia di ritrovarci, ci pare perfino di avere qualche buona idea… Motivi di forza maggiore. Ma il sito resta aperto – info@libreriadelledonne.it – alla collaborazione: critiche, proposte, testi.
A fine agosto riceverete l’invito per l’incontro di Via Dogana 3 la domenica 11 settembre. Il programma sarà pubblicato.
Vi auguriamo vacanze buone,
la redazione ristretta di Via Dogana 3
Da tempo lavoro in un’associazione fondata da due donne, diverse da me, che stimo e sulle quali ho una scommessa ancora molto aperta. È un’associazione che lavora con ragazzi e ragazze (più ragazze che ragazzi) che manifestano bisogno sia di scolarizzazione sia di socializzazione. Le due cose vanno insieme, intricate in modi complicati, non essendo separate nella testa e nella vita di bambini e adolescenti, come si tende a dimenticare in un certo modello di scuola d’oggi, meritocratico e asservito all’economico. Si parte dunque dal “fare i compiti” e, curando un rapporto che metta in primo piano la relazione con loro e tra di loro, si arriva oltre, offrendo al desiderio dei giovani modalità non codificate di fare e stare insieme: questo grazie all’indubbia autorità positiva esercitata sui ragazzi dalle due fondatrici, e alla creatività degli operatori, soprattutto giovani che spesso danno respiro e freschezza alla serietà di noi, donne e uomini di una certa età, che siamo lo zoccolo talvolta veramente un po’ duro dell’attività di doposcuola.
Mi convince l’impostazione data nell’associazione al rapporto educativo come relazione di cura e di rispetto dell’altro, seppur piccolo, impostazione che talvolta riesce sorprendentemente a smuovere incrostazioni personali, e che nella piccola realtà di provincia rappresenta un esperimento guardato con interesse da una parte dei cittadini e delle istituzioni: una pratica fuori dagli schemi che, qua e là, riesce ad assumere, secondo me, valore politico di trasformazione, aprendo la benestante e conservatrice cittadina alle problematicità di poveri e immigrati. E quando vorrei gettare la spugna, per le mille difficoltà interne ed esterne, mi ri-convince il beneficio che ricevo nella relazione con scolari, studenti, giovani operatori.
Come si può ben capire, questa attività coinvolge in gran parte figli e figlie di immigrati, in piccola parte figli e figlie di famiglie italiane problematiche e/o sfasciate. Inutile dire che la relazione instaurata con l’associazione è mantenuta più salda nel tempo dalle ragazze, mentre i maschi in genere dopo la prima adolescenza se ne vanno per i fatti loro: in nome di una presunta libertà indiscussa, forti, parrebbe, di fratrie in parte ereditate e in parte confermate da certi aspetti perduranti nella mascolinità nostrana. Quando li vedo circolare spavaldi penso che, nei lenti cambiamenti in atto nel mondo degli immigrati maghrebini, quella che cambia meno non è la vita delle ragazze, ma piuttosto la radice storica dell’esclusione femminile, cioè l’educazione patriarcale dei giovani maschi, che perdura nei suoi effetti anche perché di grande vantaggio per la loro baldanzosità giovanile. Eppure quando si gratta sotto quella loro spavalderia….
Le giovani e giovanissime restano legate all’associazione anche dopo la scuola, e vi partecipano in posizione attiva, io credo perché alla fin fine la riconoscono come il luogo della loro cosiddetta integrazione. Non tanto la scuola, dove spesso si creano gruppetti separati dalla nazionalità pur nell’apparente rispetto reciproco, ma l’associazione, dove quel fare insieme, ad esempio teatro, aiuta a mediare rapporti diretti, spesso troppo difficili, mischiando le provenienze, grazie anche a persone adulte che danno fiducia a tutti.
Con queste ragazze emerge naturalmente la questione dell’essere donne, e qualcuna di noi cura di metterla a tema in alcune occasioni che l’adolescenza crea naturalmente, badando a non sovrapporsi ai loro ritmi. La femminilità si presenta loro non senza contraddizioni e in varie forme: come è vissuta dentro l’associazione da donne di tutte le età, come si manifesta nelle loro coetanee italiane, come è normata in famiglia, nel complicato rapporto con i coetanei maschi.
Le ragazze nate nel Maghreb, legate alla loro cultura d’origine, vivono a contatto con modelli di femminilità occidentali, che le attirano, e che spesso sono in contrasto con la loro formazione culturale e religiosa, ma non mi pare che facciano passi indietro, anzi. Se c’è un rischio è quello che indulgano nel volersi sentire pari alle ragazze italiane: e allora ecco trovati i modi, persino teatrali, per essere come tutte le altre, moderne, curate, telefonino sempre acceso, etc.
Questa posizione dentro/fuori il modo di vivere occidentale permette loro di sperimentare: essere bacchettate dai padri, essere difese e sotto sotto anche autorizzate dalle madri, prendersi anche delle belle scottature, tutte strade che le portano alla ricerca di un’idea di femminilità non poi così corrente. Per tanti versi mi ricordano noi, ragazze della fine degli anni cinquanta, strette tra legami familiari, sociali, simbolici (penso all’educazione cattolica) forti fino a strangolare, e il nostro pressante desiderio del nuovo, di cui si fiutava il profumo tra le pieghe di piccole e grandi ribellioni.
A differenza delle ragazze degli anni sessanta, loro un presunto nuovo lo hanno davanti agli occhi, nell’emancipazione da cui sono indubbiamente attirate nella loro ricerca di libertà. Ma vedo che le più accorte, dopo una prima fase di adesione agli stereotipi correnti, restano perplesse.
Non è la libertà in sé che fa loro paura, visto che ne fanno un buon esercizio nei conflitti con il padre.
C’è qualcosa che non le convince in certa femminilità pubblica, e non è facile per noi spiegare loro che non tutta la scena pubblica delle donne è libertà femminile, senza mettere in crisi il loro desiderio di libertà; che la libertà femminile è qualcosa di più profondo che l’acquisizione di diritti, cui sono molto protese, innanzitutto quello di cittadinanza italiana; che la parità con i maschi è un concetto insidioso, senza ferire le loro forti pulsioni dell’età, che alimentano il desiderio di cimentarsi con l’altro sesso.
Nella loro voglia di protagonismo, capita che scoprano, non so dire se più facilmente di quanto capitasse a noi, quella che noi chiamiamo autorità femminile dentro l’associazione. Bisogna solo cogliere l’occasione giusta per aiutarle a riconoscerla come relazione vantaggiosa per loro. Ecco perché sostengo che non è la scuola, non sono le istituzioni della cittadinanza che fanno di per sé la loro “integrazione”. Con loro si gioca una vicinanza non fatta di semplice adesione ai nostri modelli (assimilazione che chiede di rinunciare a qualcosa di sé), ma qualcosa che scatta tra “lei” e “lei”, una relazione che fa autorità, una fiducia che le fa sentire “dentro” .
Non è l’essere straniere, per certi versi escluse, che fa la differenza nel loro presente, neanche l’essere musulmane.
È piuttosto vero che noi con loro siamo impegnate a districare pubblicamente e non senza difficoltà i fili del garbuglio creato dall’emancipazionismo e dai suoi equivoci simbolici, in primis l’uniformità e la neutralità dei modelli con cui la globalizzazione investe ogni parte del mondo in nome di una libertà senza differenze. È quell’emancipazionismo che molte ragazze immigrate non accettano, rischiando di ritrovare rifugio nella conferma di un destino femminile dettato, secondo la discutibile vulgata corrente, dal Corano, storicamente sostenuto da istituzioni che vanno dalla famiglia patriarcale allo stato islamico.
Ma qual è il giudizio che di primo acchito verrebbe da dare su queste loro incertezze? Non sono ancora libere, non si sono liberate dal fardello dei precetti religiosi. Fermarsi a questo giudizio – ed è il primo pensiero che può venire, viene a tutte di primo acchito – è non essere disposte o preparate ad ascoltare la differenza dell’altra. È misconoscere l’altra, non darle fiducia, rischiando di perdere la relazione, facendo di culture e religioni diverse una barriera tra donna e donna.
Come sull’esplosione del fenomeno ISIS: le ragazze erano quasi offese che si chiedesse conto proprio a loro di un problema col quale c’entra non poco anche l’Occidente. Non è questione di religione, sostengono, e riguarda noi quanto voi.
O sulla questione della cura. Presentata in una iniziativa pubblica come esperienza femminile buona per tutti, uomini e donne, piegata però dal neoliberismo a “supplemento d’anima” che mette le pezze al disordine, all’insensatezza, alle falle dell’organizzazione economica, ha suscitato in una giovane maghrebina il seguente contributo: anche qui sento che la donna diventa uno strumento; in altri mondi viene sfruttata. E non è libera. Le difficoltà sono sempre le stesse: non esiste primo, terzo mondo. Oltretutto il modello occidentale rischia di essere assunto anche in altri mondi, distruggendo aspetti positivi della cura, propri di alcune società non occidentali.
Nel percorso di questa giovane perplessa, tocco con mano il lavoro che c’è da fare, nelle singole situazioni e a livello simbolico, per dare concretezza alle parole di quelle che da anni dicono: il mondo cambia se cambia il destino delle donne.
Allora, quando si fa fatica a confrontarsi con le ragazze velate, penso sempre a come già dalla prima guerra del Golfo, venticinque anni fa, l’operazione di polizia internazionale presentava l’Occidente come il salvatore delle donne musulmane oppresse, e quelle che da noi e soprattutto nel femminismo anglosassone ci sono state, ci sono state in nome dei diritti universali e dell’emancipazione femminile. Certo dimenticavano che militarismo, imperialismo, oggi aggiungerei globalizzazione e risorgenti nazionalismi, trafficano tutti con il corpo delle donne. Ma più che di ingenuità nel giudizio politico, mi pare che il problema stia più a fondo, nel voler riportare le differenze delle altre sempre alla tua indiscussa identità. Sono anche convinta che, se è urgente che si apra veramente il dialogo tra civiltà e culture diverse, il femminismo ha gli strumenti per farlo: la differenza che ci portiamo dentro, l’essere vicine alla vita, lo stare legate all’esperienza.
“Sentono il foraggio” – dice Armisd, e pensa – “Ecco come è la donna. Sempre la prima a dare addosso a un’altra donna, a fregare una sua sorella donna, ma pronta a passeggiare sotto gli occhi di tutti senza vergogna perché sa che gli uomini la proteggeranno. E alle altre donne non ci bada, non ci pensa. Mica è stata una donna che l’ha messo in quello che neanche lei chiama imbarazzo. Sì, mio caro. Appena una prende marito, o si trova in imbarazzo senza essere maritata, subito la vedete che si apparta dal suo genere e passa il resto della sua vita a cercar di entrare nella razza degli uomini. Ed è per questo che pigliano tabacco e fumano e vogliono il voto”.
Faulkner, Luce d’agosto, 1932, trad. it. Vittorini, 1939.
“Una idea davvero nuova di famiglia potrebbe cominciare con la premessa che la unità familiare di base consiste della madre e del bambino.
Questa unità di base, sebbene sperimentata da molte donne e bambini nella nostra società, non è mai stata accettata come una alternativa positiva sul piano ideologico o retorico alla famiglia sessuale, che caratterizza le famiglie intorno alla relazione tra i suoi membri adulti, maschio femmina o dello stesso sesso. Una donna e il suo bambino ‘soli’ sono considerati una unità incompleta e pertanto deviante. Sono identificati come una fonte di patologia, i generatori di problemi come povertà e crimine.”
Martha L. Fineman, The Neutered Mother, 1992.
Nel suo libro recente sull’utero in affitto Muraro riflette sul perché, ai tempi della legge sulla procreazione assistita, nel 2004, ‘non siamo riuscite a modificare l’impostazione del dibattito’, che era imperniato sulla sorte giuridico-scientifica dell’embrione (ovuli e sperma) secondo un punto di vista maschile, facendo parlare, invece, l’esperienza dell’aver figli da un punto di vista femminile. Perché non ci siamo riuscite? «Abbiamo parlato – rispondo – dal luogo di una autorità femminile che non risuona nella vita pubblica».
Il diritto è senza dubbio un fenomeno molto poroso a ciò che ‘risuona nella vita pubblica’. I giuristi e le giuriste ricevono nelle università per il 90% un sapere accreditato, conforme a quello che per brevità chiamerò il punto di vista dominante, cioè quello che si accorda col potere effettivo vigente. Le istituzioni giuridiche, a cominciare dalla Corte costituzionale, si incaricano spesso di fabbricare le concezioni adattate ai tempi, cioè alle compatibilità e esigenze del sistema cui appartengono. Dopo che per decenni una cosa simile era sembrata impensabile, due anni fa la Corte costituzionale ha fatto una sentenza che in sostanza rende obbligatoria la legge elettorale maggioritaria, la quale è adatta allo spirito dei tempi, che idolatra i capi e ama le semplificazioni demagogiche.
Per la sua adattabilità a ciò che domina nella vita pubblica il diritto, che un tempo postulavamo falsamente neutro perché ispirato a valori e concezioni maschili, oggi si intona a un altro grande neutro, la parità tra i sessi, che, esattamente come l’universalismo a base maschile del passato, nega l’esperienza femminile e ogni differenza. Nelle loro scuole di formazione e fin dagli anni di università, i futuri magistrati e le future magistrate, funzionari pubblici che di mestiere eseguono la legge, ricevono dosi cospicue di parità, non certo di pensiero della differenza; aggiornandosi sul diritto europeo, ‘internazionalizzandosi’, essi imparano a considerare che le differenze sono un male, solo ingiusti privilegi o ingiusti svantaggi. I giuristi odierni vengono tutti educati a diffidare della differenza, a ricercare la parità. Si capisce perché: nella parità le istituzioni governanti hanno riconosciuto il perfetto equivalente funzionale del patriarcato, questo fa della parità la nuova Legge di Natura, Vera e Giusta e che, siccome assicura il Progresso, deve essere amata dai Tolleranti e dagli Illuminati.
La parità consiste nel chiamare le donne a fare la parte un tempo riservata agli uomini affinché il meccanismo di fondo del capitalismo occidentale, lo sfruttamento dell’opera della madre, si riproduca indisturbato. Lavorerai come un uomo e delegherai alla badante il lavoro di cura, sottopagandolo; conquisterai più potere d’acquisto per consumare un po’ di più il pianeta; metterai il tuo ovuletto nel corpo di un’altra e aspetterai che ti faccia un bambino in cambio di un po’ di quattrini (è di Daniela Danna questa idea del padre-femmina, e anche l’attenzione sul come mangiarsi l’opera della madre significhi, tra le altre cose, distruggere il pianeta). Sotto l’imperio della parità scompaiono materno e paterno, si dilata la ‘genitorialità’. Molte energie sono spese affinché l’ordine simbolico della madre che è l’ordine del voler bene, della cura e della fiducia dove corre ‘un’autorità che non è potere’, resti servente e non detto sotto l’ordine del denaro e sotto gli imperativi dell’unico potere – la legge del più forte – che riesce a farsi riconoscere e pregiare come tale ‘nella vita pubblica’.
E però, oltre all’ammasso di pensieri dominanti di un dato tempo, sedimentati in leggi e disposizioni che dirigono e disciplinano l’esperienza umana, il diritto contiene un altro patrimonio, che non rappresenta potere, ma cultura e civiltà. Oltre alle leggi, prima di esse, a fare il diritto sono i principi generali, tramandati dalla tradizione, originati dalla pratica giuridica del corso dei secoli. Questi principi prescrivono di interpretare i contratti, o le leggi, secondo buona fede (un criterio che può portare a dare torto alla parte più potente!), di impedire che dall’abuso del diritto possa nascere un arricchimento (un criterio che può mettere in difficoltà chi è in posizione dominante!), di ascoltare sempre l’altra parte (ti può proporre una lettura alternativa del problema!). Hanno sempre avuto, i giuristi, una loro idea di eguaglianza, diversa da quella, di matrice politica, per cui l’eguaglianza è l’eguale soggezione alla stessa legge, o la parità di trattamento. Quest’altra idea comincia in Aristotele, passa ai giuristi romani, arriva sino ai manuali di diritto costituzionale odierni, e alla pratica del diritto attuale, dove la chiamiamo ‘ragionevolezza’. Conosciuta anche come equità classica, ammonisce che l’eguaglianza non consiste nel trattare tutti allo stesso modo, ma nel trattare in modo eguale ciò che è eguale e in modo diverso ciò che è diverso. È un’uguaglianza che nasce dalle differenze, e insegna che negarle è ingiusto.
Alla luce di questo criterio, come io l’ho imparato, e come lo insegno, la discriminazione è l’ingiusta differenza di trattamento o l’ingiusta parificazione di trattamento, non consiste, cioè, nel semplice trattamento diverso, ma nel trattamento diverso, o uguale, che non risponde a una esigenza della cosa, alla sua ‘natura’. L’obiettivo dell’eguale secondo la natura della cose non è la parificazione tra le esperienze, ma il trattamento adeguato a come sono. È difficile, certo! Ci ingaggia tutti in una discussione, e trasforma la giustizia in una ricerca, altro che una verità prestabilita!
Quando si ricerca il modo per ‘dare a ciascuno il suo’ tenendo conto della sua situazione, delle sue caratteristiche, della sua natura, lo status quo può venire rovesciato, le convenienze del potere attaccate, le tradizioni ingiuste abbattute, in nome della natura della cosa la cui percezione, il cui valore, senso e importanza cambia tramite coloro che ne parlano e dicono cosa ne pensano; l’assurdità di una legge, l’arbitrio del potere, il carattere vecchio e sorpassato di un istituto della vita civile sono messi a fuoco tramite la parola e il sentimento di chi ne fa esperienza.
Consolidare il potere, ma anche metterlo in discussione; negare l’esperienza vivente, trarne invece origine; prediligere dogmatismi astratti, falsificanti e unilaterali, oppure ragionare in concreto tenendo conto della complessità delle cose e dei molteplici aspetti di un problema: queste due anime sono sempre compresenti nel diritto, che è scienza impura, mescola criteri nati in tempi e luoghi diversi, e, se si riduce a una logica sola, vuol dire che vi hanno preso sopravvento semplificazioni autoritarie. Quella stessa Corte costituzionale che, siccome oggi fa al potere comodo che sia così, s’inventa che la legge elettorale non può che essere maggioritaria, ha pur giudicato dell’eguaglianza una legge che imponeva per motivi di risparmio pubblico di dare a tutti gli alunni disabili uno stesso numero (esiguo) di ore di sostegno. Non lo sappiamo tutti, non è nella natura della cosa che un disabile può essere più o meno grave di un altro, e richiedere pertanto diverse ore di sostegno? Così ragionò quella volta la Corte, e questo è lo spirito dell’equità classica, del giusto naturale mutevole, che rende possibile problematizzare la norma, il dettato del potere, per la sua irragionevolezza rispetto alla natura delle cose. E guardando alla natura della cosa, ben prima della parità europea, sono stati ritenuti incostituzionali i limiti di altezza per entrare nel servizio pubblico, dato che con la natura della cosa di fare il vigile urbano la statura non c’entra.
Il diritto è braccio del potere, una tecnica al suo servizio, ma anche scienza pratica che per affrontare i problemi della convivenza si è data criteri per affrontare l’opinabile e il controverso, sono questi i principi generali, che nessun legislatore ha dettato ma che sono nati nell’esperienza. Se qualche volta consideriamo il diritto, anche, un fenomeno di civiltà è perché tutti, non solo i giuristi, sappiamo o almeno intuiamo che esso contiene questi antichi principi generali, li diamo per scontati e li pregiamo. Per esempio una come Luisa, che non mette certamente il diritto tra i suoi grandi amori, proprio nel suo libro sulla surrogazione a un certo punto concede che esistano ‘proibizioni di legge che sono principi di civiltà’ come il divieto di commercializzare il corpo umano e i suoi prodotti. Più che proibizioni di legge, lo ripeto, sono forme storiche di principi generali: non guadagnerai da un abuso, come è inevitabilmente approfittare della miseria – materiale o morale – che, sola, può spingere uno a vendere un proprio organo.
I principi generali del diritto sono i valori elementari della convivenza civile: vivi onestamente, non far danno ad altri, arricchisciti del guadagno lecito, non abusare dei tuoi diritti, ascolta il punto di vista altrui, fonda le tue pretese su prove e su argomenti che abbiano senso comune e reggano a obiezioni plausibili. E non far finta che le differenze non esistano, perché ci sono, ci sono differenze di reddito e di condizioni materiali, per quanto comodo faccia al borghese negarlo; ci sono differenze di sesso, per quanto comodo possa fare ai maschi o all’economia di mercato o alla tecno-scienza negarlo, per passar sopra alla relazione materna e vendere i bambini come oggetti.
Affinché una società abbia diritto non importa quante leggi abbia, deve avere questa logica del contraddittorio e della parità delle armi nello scambio, veridico, cioè sincero, di diversi punti di vista intorno alle cose, a come sono, al loro senso, al loro valore. È quando questa logica cede che sentiamo che non c’è più diritto, ma solo potere.
Da sempre c’è una lotta tra il diritto-potere, il diritto dettato dalla legge e insegnato come verità ai suoi burocratici esecutori, e il diritto-civiltà, che sottopone a revisione continua le verità stabilite in nome di nuove verità soggettive. La lotta tra il principio di parità di trattamento, nemico delle differenze, e l’eguaglianza in senso classico, che dalla differenza trae stimolo alla ricerca della giustizia, è l’emblema odierno di questo scontro. L’‘eccesso di differenziazione’ cui conduce l’equità classica è il motivo per cui è contrastata dai contemporanei macchinari del potere, per il cui efficiente rendimento sono più comode le soluzioni uniformi (è Luhmann che lo ha apertamente teorizzato).
Il diritto-potere e il diritto civiltà usano dunque diversamente il concetto di natura. Per il primo è un ordine prestabilito, una verità certa, un bene auto-evidente, che passa agevolmente dalla Legge di Dio a quella di Ragione a quella del Denaro; sempre un Vero preteso auto-evidente è in gioco quando il diritto funziona come potere. Per il diritto-civiltà la natura è la natura delle cose per come la vedono e la sentono, in un dato tempo, in un dato luogo, coloro che le vivono.
Oggi il concetto di natura ritorna con una certa frequenza quando si parla di maternità surrogata. Lo usa nel suo libro Daniela Danna, lo usa nel suo Luisa Muraro. Si sente che nel richiamo alla natura ci può essere qualcosa di utile per la libertà femminile, ma ci si chiede come resistere alla diffusa convinzione che natura sia invece, sempre e solo, un concetto oppressivo nemico della libertà, una convinzione che fa ostacolo a ogni richiamo alla natura, specialmente nelle cose che riguardano le donne. Il bivio è se rifarsi alla Legge di Natura, autoritaria, o alla natura della cosa, criterio del possibile.
Io penso che sia questo secondo criterio di cui sentiamo il bisogno, e che, parlando di natura, stiamo chiamando in causa un’idea di diritto, che è quella che ho definito il diritto-civiltà: lo spazio del controverso entrando nel quale una può far valere il modo in cui sente la natura di una cosa e considera giusto regolarla. È lo spazio che intuiva Lia Cigarini quando immaginò il rapporto avvocata-cliente come fonte di un nuovo diritto: il criterio dell’equità classica, la natura della cosa, è un invito a prendere la parola, a far parlare quella che, per ciascuna di noi, è la natura di qualcosa, la sua essenza, il suo pregio, il motivo per cui ce ne importa, o il male che ci fa. Che oggi alla ‘natura della cosa’ venga negata esistenza, autonomia, che oggi sembra che esista solo il concetto di Natura come verità ontologica (si presenta anche nella versione di Natura Oppressiva), non è una novità, è accaduto e riaccadrà. Sempre al ragionamento probabilista e possibilista del diritto-civiltà vengono negate le basi, che stanno appunto nell’idea anti-autoritaria, dal basso e controversiale della natura della cosa: che essa fa paura e non conviene al potere. Il vivente non deve parlare, non deve sapere di sapere, di avere una competenza su quel che vive ed esperisce, dice la Legge di Natura di ogni tempo, che ci suppone subalterni. Pensare che gli esseri umani possano ragionare a partire da sé della natura delle cose suppone un’idea troppo alta delle donne e degli uomini, per piacere al potere di ogni tempo.
Oggi sull’esempio di Lia ci sono avvocate che fanno il loro mestiere non calandosi in una dimensione neutra ma scegliendo di portare il punto di vista proprio e della donna che rappresentano, per esempio le avvocate dei centri antiviolenza di cui parla il libro di Ilaria Boiano: cercano di far venire fuori la natura della cosa per come la vedono e la esperiscono. E ce ne sono anche tantissime altre, donne giudice, donne avvocate, donne cliente, cioè parti del processo, che si fanno invece portatrici del neutro, della parità, del linguaggio del potere che hanno appreso e interiorizzato: sono gli eterni alfieri del Giusto e del Vero assoluti, sono loro i veri replicanti del Diritto di natura in senso ontologico, quello che dà sempre ragione ai potenti di turno, sancisce come eterno e indiscutibile l’ordine costituito, e per premio ti dà di far razza con esso.
Se è vero, come penso sia vero, che le donne oggi possono entrare e giocare a pieno titolo nel mondo del diritto (Ilaria Boiano), sta alla scelta delle donne se appellarsi al diritto potere, rafforzandolo (come se ne avesse bisogno!), o se pregiare il diritto-civiltà.
Nel caso delle ormai famose sentenze sulla cosiddetta adozione gay è stata seguita la prima strada: due donne ricorrono al tribunale dei minori affinché la compagna dell’una possa adottare i figli dell’altra, ed esce una sentenza che senza dar conto alcuno che si tratta di due donne, di cui una ha partorito i propri figli, è pronta per essere replicata, e lo è stata, per due gay, di cui uno il bambino lo ha comprato. Non è un caso che la sentenza sia così. Le due ‘attrici’ non hanno fatto alcuno sforzo perché la sentenza tenesse conto che erano due donne, a cominciare dall’aver dichiarato di amarsi come persone, e non, per l’appunto, come donne. È l’invito a nozze, per una giudice ferreamente educata al diritto-potere, imperniare la sua sentenza sui concetti neutri di ‘genitorialità’ e ‘nuove famiglie’, e a tradurre le scelte di vita di due donne a un inno ai valori di una Legge Naturale di Parità che produce ‘Progresso’. Come perdere una occasione di aggredire l’autonomia e la competenza su di sé degli esseri umani, tanto ghiotta come quella offerta dalle due donne, che chiedono che il ‘legame inscindibile’ che già lega le bambine alla compagna della made, sia coronato dal diritto, ma non spiegano che cosa in tal modo il diritto aggiunge alla loro felicità, e affermano allora che è appunto l’essere nel diritto, avere l’approvazione del potere, la massima aspirazione dell’essere umano? La sentenza cola brodo di giuggiole approvando la rimessione che queste donne fanno delle loro scelte più private e più intime agli esperti e agli psicologi, che le hanno assistite nel loro ‘percorso di genitorialità’ e che consiglieranno loro le parole con cui spiegare alle figlie come sono nate. Freme di gioia davanti a chi le chiede si affermare l’imprescindibilità della Legge: benché insegnanti, maestre d’asilo, amici e altri genitori si dimostrino capacissimi di accogliere la realtà vissuta da queste bambine, cioè diano dimostrazione di buon senso e capacità di assunzione di responsabilità, due cose molto buone per la salute della società, la decidente può dire a gran voce, sapendo di andare incontro a quel che le chiedono le ricorrenti: tutto questo non basta! Grazie all’azione delle due mamme, una lezione ci è stata impartita, l’ennesima, per cui la ‘buona società’ non esiste, non si dà, se non in un ordine artificiale governato dall’alto da buoni giudici, da giudici legislatori che sappiano ‘tenere una porta aperta sui cambiamenti della società’, ma evidentemente non sanno o non vogliono porsi il problema, elementare, che non ogni cambiamento è buono e che, soprattutto, che tutto dipende da come si leggono e si interpretano le cose, e lo si può fare in molti modi.
Non è certo l’attenzione alla natura della cosa, o l’impiego di principi generali, ad avere orientato questa decisione. Eppure si poteva, si poteva guardare alla natura della cosa, e appellarsi agli antichi principi del diritto, e precisamente al principio mater semper certa, facendo notare che quel principio ha sempre reso genitore di un bambino il compagno della madre, senza che importasse che ne fosse il padre ‘biologico’. Perché lo stesso non deve valere anche per la compagna, se la madre dà il consenso, specialmente considerando che, in caso di coppie etero non sposate, è sufficiente che l’uomo riconosca il figlio come proprio, e non deve dimostrare di essere anche il padre naturale, sol che la madre non si opponga? Nel tipico modo ibridante, impreciso e eclettico che costruisce il ragionamento del giurista (un pizzico di passato, un pizzico di presente) si poteva utilizzare un tema di non discriminazione (non negherai a una donna, la compagna della madre, quello che hai dato un uomo, il compagno della madre) per ottenere una sentenza sessuata al femminile: il consenso della madre, che c’era, basta per riconoscere che è nell’interesse del bambino l’adozione da parte della compagna.
Certo, sentenze così formulate, tenendo cioè conto della natura della cosa (di due donne si parla, non di due maschi o due neutri) e dei principi generali (che, come quello mater semper certa, giocano a favore delle donne in questo caso, e io credo anche in numerosi altri) richiedono un forte impegno argomentativo, un certo studio, e la speranza di ottenere ragione. Ma non credo che siano state la pigrizia o il timore della sconfitta a far ignorare vie alternative, in cui il ragionamento giuridico non sarebbe stato costretto a far come se non esistesse la differenza sessuale e il conflitto tra i sessi. Quelle vie argomentative sono state evitate, silenziate apposta, perché non avrebbero condotto al prodotto desiderato, una sentenza fotocopiabile per i padri gay.
Eppure, e appunto: non è nella natura delle cose che la loro posizione rispetto all’aver figli è diversa da quella delle donne? Non lo sappiamo da secoli, da millenni, che non è giusto trattare in modo eguale due cose diverse? Ma ecco, la Parità detta la sentenza: onde risalti che il bene del bambino è sempre avere due genitori, e che avere una madre che provvede felicemente a te non basta mai, che è molto importante la genitorialità, nulla conta la maternità e la relazione materna. Altrimenti come si prepara il nido per la coppia di committenti gay che si compra il figlio di una donna?
Così mi spiego che siano state evitate accuratamente le vie argomentative che potevano far vincere queste due donne insieme alle altre donne, per esempio alle madri etero che hanno figli senza esser sposate, e non contro di esse; le vie che le potevano far vincere dando valore alla relazione materna, la cui svalutazione è invece così utile all’affermazione della maternità surrogata.
Come scrive giustamente Boiano, oggi le donne possono essere protagoniste della vita del diritto, ma, aggiungo io, dipende da come lo usano.
Quando riprendo in mano le riflessioni di Lia sulla relazione tra donne come fonte di un nuovo diritto c’è una cosa che mi colpisce: la prudenza (tipica risorsa del buon giurista, e della buona giurista). Lia diceva che il diritto può registrare il cambiamento, un senso nuovo dei rapporti tra donne, e in ogni caso essere permeabile a argomentazioni difformi da quelle maggioritarie a fotocopia, ma non ti dice mai ecco prendete la carta bollata e fate cause a ripetizione perché è così che cambierete il matrimonio, la filiazione, il lavoro. Diceva sappiate che potete trovare nel diritto degli appigli: nell’argomentazione, nella dialettica processuale, nei principi, per trovare una strada attraverso cui il vostro desiderio si afferma: ma è questo che dovete avere chiaro, a che cosa puntate per voi come donne. L’uso politico del diritto che lei individuava era un entrare e muoversi nel diritto ricordandosi di e a partire da la propria esperienza, non per piegare il processo a una farsa che serve a far trionfare un’ideologia. Lia sapeva benissimo, io credo, che perseguire un programma politico attraverso il diritto significa scegliere il diritto-potere, quello che registra e consolida i venti dell’opinione dominante, e diventarne inevitabilmente l’oggetto, lo strumento passivo. Solo saper usare accortamente il diritto civiltà può far emergere il cambiamento, proprio per come lo vede o lo sente chi ragiona alla luce di una autorità femminile ‘che non risuona nella vita pubblica’. Ma bisogna che risuoni, quella autorità, nella vita tua e nelle interlocutrici, negli interlocutori che ti scegli, nel modo come parli, in cui prospetti le questioni, mostri le cose e ne discuti la natura.
Oggi i processi con fine politico fatti per affermare i diritti delle nuove famiglie, che tanto nuove non sono, in quanto replicano la famiglia eterosessuale, sono guidati da associazioni e dai loro avvocati, che hanno studiato il linguaggio neutro che i giudici sono stati educati a recepire, e nuotano nel mondo perfetto che sempre il diritto-potere costruisce, un mondo autoreferenziale in cui si pretende che si parli una sola lingua e tutti dicano le stesse cose.
Si fa presto a dire che finalmente sono state riconosciute le nuove famiglie! Il costo delle sentenze che sto ricordando è ribadire la morale ben nota, per cui per un bambino è sempre meglio avere due genitori, e il peggio possibile è avere la sua sola madre.
La libertà delle donne di avere figli fuori dal matrimonio? Denigrata. Il ruolo della madre di nascita nella maternità surrogata? Da cancellare per definizione.
Usare il diritto per far passare una morale nemica delle donne non è un obbligo, e non è neppure inevitabile. Se due donne aprono un processo, e una lo decide, per far scattare i dogmi del potere, anziché per metterli in discussione in nome della loro esperienza e dei loro desideri, queste tre donne non sono vittime del diritto, ma attrici che, del diritto, hanno scelto un volto.
Rinunciando alle risorse del giudicare prudentemente tenendo conto dell’eguale e del diverso inevitabilmente si corroborano le pretese di un potere da sempre interessato più di tutto a dividere le donne tra loro per spossessarle della loro capacità procreativa, e negare la relazione materna.
Tra i costi della libertà femminile, ci metterei oggi la responsabilità sulle scelte che si fanno per usarla, tra cui quelle su quale idea di diritto giocare nel vivere insieme.
Nota. Ringrazio Daniela Danna per avermi fatto conoscere il lavoro di Fineman citato in esergo, che spero tradurremo presto insieme in italiano. Cito Ilaria Boiano, Femminismo e processo penale, Ediesse, 2015; Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche Ed.1993; Daniela Danna, Contract Children, Ibidem, 2015; Luisa Muraro, L’anima del corpo, La Scuola, 2016.
Il tema del nostro incontro, prezzo e prezzi della libertà femminile non mira tanto alla denuncia, quanto alla consapevolezza e alla valutazione. Mira cioè ad affinare la nostra attenzione sulla presente condizione umana, dal punto di vista di chi ha a cuore che ci sia, a questo mondo, libertà femminile.
La libertà sostanziale (non quella liberista) consiste nelle possibilità riconosciute o non riconosciute ma effettive, di autorealizzazione personale: poter esistere in rispondenza positiva con quello che siamo in prima persona. Tra le condizioni di possibilità, la pratica femminista, che condivido, fa un posto importante alle relazioni. La concezione liberista considera che si tratti di un affare individuale. La libertà sostanziale riguarda la persona singola anche per me, ma per me il singolo o la singola è inconcepibile separatamente da altre o altri suoi simili.
Ci sono tante possibili descrizioni e mezze-definizioni di libertà (dubito che si possano dare definizioni vere e proprie), tra le quali richiamo quella di Lia C.: la libertà è esperienza. Vuol dire, tra l’altro, che io posso ipotizzare ma non posso sostenere, di un’altra, che non è libera, se questa invece sostiene di esserlo: si tratta della sua esperienza.
Partirò da un fatto accaduto, che è lo s-legame della relazione materna sancito nel 2014 dall’Europa. Il 26 giugno 2014 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo impone alla Francia di riconoscere come valido il certificato di nascita di un bambino nato in paese straniero con la surrogata, certificato che non indicava il nome della madre. Era accaduto, in precedenza, che una coppia che tornava in Francia con un neonato frutto di maternità surrogata avesse dichiarato falsamente che la donna era la madre, incorrendo in un preciso reato. Da qui, l’idea del certificato con la sola indicazione della paternità – non accettabile secondo l’ordinamento francese (e di tanti altri paesi). Ricorso della coppia e sentenza della Corte Europea: per il bene del bambino, va iscritto nell’anagrafe francese. Una questione simile si è posta anche in Italia.
Il bene del bambino, dunque, sarebbe qualcosa che può autorizzare l’eclissi della madre. (Riconoscete qui il titolo del libro di M.L. Boccia e G. Zuffa, 1998.)
In queste condizioni il diritto di adottare il figlio del partner, da parte di omosessuali uomini, vorrebbe dire il diritto di socializzare una creatura senza madre.
Vi sono coppie maschili che spontaneamente ripugnano a questo esito e si comportano di conseguenza, come risulta dalla testimonianza di Tommaso Giartosio (v. Una città n.229/marzo 2016), ma non si oppongono alla surrogazione, come se il loro comportamento eccezionale fosse la regola. Una strada alternativa potrebbe essere di ripensare l’istituto dell’adozione. Ma, come mi avverte l’avv. M.G. Sangalli, la modifica della legge, che anch’io auspico, non è in vista.
Vi sono giudici che tentano di anticipare il legislatore. Tra questi spicca il nome di una giudice, già presidente di un Tribunale di minori, autrice di molte sentenze che concedono l’adozione a coppie omosessuali, una delle quali maschile (e “surrogata” all’estero) con queste parole: “Di fronte al bene supremo di un minore di avere due genitori, non possono esistere discriminazioni di sesso” (la Repubblica del 3.5.2016, p. 17). È piuttosto evidente che la giudice, se queste sono veramente le sue parole, ha perso il buon senso, ma come e perché l’ha perso?
Il bene del bambino, come forse sapete, in un passato non remoto, ha autorizzato il Tribunale dei minori a mettere in adozione bambini di donne che si prostituivano o di donne che non parlavano in italiano con i figli… Allora, per il bene del bambino, ci voleva la coppia etero, colta e benestante. Trionfo del perbenismo. Adesso, quello che ci vuole assolutamente, secondo la giudice del bene supremo, è che il bambino sia legalmente di due individui, né più né meno. E guai a parlare di sesso, sarebbe discriminazione, il sesso non c’entra: i bambini li porta la surrogata.
Il perbenismo di una volta (anche quello era un prezzo in termini di libertà femminile) è superato, ma c’è sempre un prezzo da pagare. Adesso, da parte della società più avanzata e progressista in cui vuole collocarsi quella giudice, il prezzo a me sembra molto alto, troppo. Si tratta cioè di cancellare il debito con la donna che ci mette al mondo. Siamo disposte/i a pagarlo? E se non lo siamo, con quali argomenti?
Ci sono grandi personalità femminili che non diventano famose, come la meravigliosa pittrice Séraphine de Senlis: poche e pochi in Italia ne avevano sentito parlare prima che uscisse libro di Katia Ricci Séraphine de Senlis. Artista senza rivali (Luciana Tufani Ed., 2015). Nate e cresciute in condizioni difficili, si orientano con una viva interiorità e fanno cose importanti. Per noi Lina Scalzo (che vive e lavora a Catanzaro) è una di loro e vogliamo che si sappia.
Nella Calabria di molti anni fa, Lina diventa più consapevole delle sue qualità quando incontra la pratica femminista grazie a Franca Fortunato, che ora raccoglie la sua storia in questo piccolo libro-intervista con cui inauguriamo gli e-Quaderni di Via Dogana: Sai chi è Lina Scalzo?
Nella Scuola di scrittura pensante che si tiene presso la Libreria delle donne di Milano abbiamo osservato che c’è desiderio di ascoltare racconti di vissuti umani segnati dal femminismo. E dato che la Rete è diventato un luogo privilegiato per far circolare e discutere testi politici, abbiamo pensato a una collana di agili Quaderni elettronici, dopo che nel gennaio 2015 avevamo pubblicato in e-book il libro introvabile Guglielma e Maifreda. Storia di una eresia femminista. Come questo, anche gli e-Quaderni di Via Dogana sono in duplice formato, e-pub e pdf stampabile, e scaricabili gratuitamente, perché non ci siano limiti di soldi e tecnologia alla fama delle grandi donne.
Sai chi è Lina Scalzo? di Franca Fortunato, e-Quaderni di Via Dogana, 2016
www.libreriadelledonne.it/categorie_ebook/ebook
Avevi dei nomi splendenti, Rosetta! Ma perché si deve usare il tempo al passato? Tu sei andata di là e noi siamo rimaste di qua, è vero, ma tu ci sei. Dove e come non lo sappiamo, per ora sei ancora viva dentro di noi, troppo impreparate alla tua partenza, poi sarai ricordo e racconto. Tanti. Alcune hanno sentito parlare di te, altre ti hanno voluto bene, qualcuna ti ha amata, tutte abbiamo i tuoi scritti e ti teniamo presente.
Come le altre femministe, Rosetta è vissuta prestando attenzione alle sue simili e ha desiderato di vederle più libere. Ma aveva un di più, una qualità tutta sua: era imprevedibile. In sua compagnia sono sicura che nessuna e nessuno si è mai annoiato. Questo, del resto, detto da lei stessa, era il suo lavoro per vivere: dama di compagnia. L’ha detto seriamente, lei che seria non voleva essere né sembrare.
Imprevedibile fino all’ultimo, Rosa Lucia Stella è morta in perfetto stile Rosetta.
Che dolore. Prendo l’impegno, lo chiedo anche alle altre della Libreria delle donne di Milano, di renderla viva e presente così come possiamo. Comincio ricordando che lei è all’origine della rivista Via Dogana, seconda serie (cartacea), con il dono di un bel po’ di lire, nel 1990.
Buon viaggio e grazie, amata Rosetta, da Luisa e dalle altre della redazione ristretta di Via Dogana 3.
Per mantenere al centro del dibattito in corso sulla maternità surrogata la relazione materna, come è emerso anche dall’incontro della redazione allargata di Via Dogana 3, è utile operare semanticamente in modo chiaro e netto e distinguere tra relazione materna e funzione materna, utilizzando questo dispositivo linguistico per argomentare a sostegno della centralità della relazione materna.
Intendiamo, dunque, con FUNZIONE MATERNA quell’insieme di protezione, cure, affetto, accompagnamento nella crescita delle creature umane che, in assenza della madre, può essere esercitata da qualunque persona adulta responsabile e disponibile, come il padre e altre figure parentali o amicali. È quello che avviene nell’adozione e nell’affido.
Di frequente, nel dibattito attuale, viene affermato che per essere genitori non è importante il sesso biologico e l’orientamento sessuale, ma l’amore per la creatura di cui ci si assume la responsabilità. Questa argomentazione attiene, appunto, alla funzione materna, che è nell’ordine della sostituibilità.
La RELAZIONE MATERNA, invece, nel suo essere intima unità di biologia e cultura, corpo e parola, necessità e sogno, è insostituibile e, implicando la genealogia femminile madre-figlia, rende evidente la differenza sessuale e la sua origine nel diverso rapporto con il corpo materno della figlia e del figlio.
Mentre adozioni e affido entrano in gioco come SUPPLENTI di fronte a una interruzione della genealogia femminile già avvenuta per cause accidentali, con la maternità surrogata l’interruzione, addirittura doppia quando ci sono una donatrice di ovuli e una portatrice di embrione, è programmaticamente decisa. Lo strappo simbolico è grave e ci espone contemporaneamente alla appropriazione della maternità da parte della tecnoscienza e del mercato e alla cancellazione della madre.
Con la distinzione tra relazione materna e funzione materna si può tener conto dei desideri emersi da chi sostiene e ricerca la maternità surrogata, estendendo la possibilità di esercitare la funzione materna attraverso l’adozione, prescindendo dall’orientamento sessuale o dallo stato di single, così come in Italia già avviene con l’istituto dell’affido.
omologazione, integrazione, recitazione, difesa dei valori dell’Occidente…
Pensiamo a fatti recenti e antichi come i fatti di Colonia, ottenere giustizia a quali condizioni, le condizioni di lavoro, il ricatto dei mezzi di comunicazione, “perché le femministe non parlano?”, donne al lavoro del sesso e della maternità. (Ma la lista non finisce qui, recentissima Letizia Paolozzi sul come le femmine sono tenute a vestirsi… dove? in Olanda). Con la partecipazione di Silvia Niccolai e Luisa Muraro, introduce Laura Giordano.
Tunisi. Estate 2010. Farah ha diciotto anni, ama la musica e ama cantare. Ama esibirsi insieme agli altri musicisti della sua rock band nei locali frequentati dai giovani e affidare alle canzoni la sua voglia di ribellione e di libertà.
«Appena apro gli occhi, vedo persone che si stanno spegnendo impregnate del loro sudore, le loro lacrime sono salate, il loro sangue è stato rubato ed i loro sogni sono sbiaditi». Lei invece vuole vivere intensamente, senza ostacoli, senza quei muri e quelle porte chiuse di cui canta: «Quando vedo questo mondo di porte chiuse chiudo gli occhi e ogni volta mi appare una ragazza…»
I suoi abiti sono un’esplosione di colori e il suo viso è illuminato da un sorriso indimenticabile.
Vuole vivere la notte senza paure e frequentare gli stessi luoghi dei suoi amici maschi, senza subire divieti e umiliazioni, e respirarne la stessa euforia di libertà. È coraggiosa e temeraria, anche incosciente nella sua giovanile sicurezza, forse ancora poco consapevole di sé, dell’essere donna che con il suo corpo sta violando lo spazio pubblico maschile.
Ha idee chiare sul suo futuro: dopo la brillante maturità vuole dedicarsi alla musica e non ai “più sicuri e accettabili” studi di medicina, come vorrebbero la mamma e la nonna.
Non si pone limiti e ama rischiare anche quando il gruppo viene avvertito di possibili ritorsioni a causa dei testi delle sue canzoni, canzoni politiche che attirano le attenzioni della polizia.
La stessa passione la vive nell’amore e nelle prime esperienze sessuali: nessun pudore o false timidezze nel guardare il corpo nudo del suo innamorato Borhène, il chitarrista autore dei testi delle canzoni. Tutto in lei è vitale, pulsante, vibrante di energia e simpatia.
Non vuole sottomettersi alle paure, ai compromessi, ai silenzi e ai segreti del mondo degli adulti che costantemente cercano di metterla in guardia – la madre prima fra tutti – sui pericoli che la circondano.
Attraverso gli occhi di Farah la regista tunisina Leyla Bouzid, nel suo bel film di esordio, ci immerge nei sentimenti, negli umori e nei desideri di cambiamento diffusi fra la gioventù tunisina nell’estate che precede le rivolte di piazza che portarono alla fuga del dittatore Ben Ali. Come pure ben racconta il clima di oppressione e di paura generato dalla dittatura che si reggeva sugli apparati della polizia segreta, sugli infiltrati, le spie, le delazioni e la corruzione, mentre privava i giovani di speranze per il futuro.
Un film di formazione, di passaggio: nella giovane Farah il coraggio di una generazione che non vuole arrendersi e che con dolore e sofferenza impara a conoscere i limiti dei propri desideri insieme alla sua presa di consapevolezza come donna; nella figura più complessa della madre la forza di resistenza di chi si è vista portare via i propri sogni e che si fa conforto, sostegno dell’amatissima figlia affinché lei possa continuare a portarli avanti. Sarà lei, la madre a ridarle voce, voglia di vivere e di non arrendersi in una delle scene più drammatiche. Un rapporto, quello fra Farah e la madre, a tratti doloroso e sofferto, ma in trasformazione: dalle iniziali forme di ribellione e scontro tipicamente adolescenziali a una profonda e reciproca comprensione e alleanza.
Un film di emozioni forti dove i sentimenti sono costantemente osservati e analizzati attraverso un abile uso dei primi piani: splendida la fotografia dei volti, dei corpi o di loro parti in movimento o ripresi in una staticità che appare un’attesa. Come importanti sono le riprese di luoghi pubblici visti con occhi di donna: i bar frequentati da soli uomini, i loro sguardi concupiscenti; la stazione degli autobus, il treno, le strade di notte, luoghi dove i corpi delle donne sembrano un sovrappiù.
Il finale aperto è d’obbligo.
Leyla Bouzid è nata a Tunisi nel 1984. È laureata in Letteratura Francese alla Sorbona e successivamente si è diplomata in regia. Ha diretto, a partire dal 2006, cortometraggi e documentari selezionati e premiati in vari festival. Collabora attivamente con l’Associazione dei giovani registi tunisini.
Appena apro gli occhi – A peine j’ouvre les yeux – è il suo primo lungometraggio di cui ha scritto anche la sceneggiatura. La musica, che nel film riveste un ruolo centrale, è del compositore iracheno Khyam Allami, un misto di rock e musica tradizionale tunisina; le canzoni sono state scritte dal poeta tunisino Ghassen Amani in collaborazione con la stessa regista.
Il ruolo della madre è interpretato da Ghalia Benali, una famosa cantante e attrice di origini tunisine, mentre il ruolo di Farah è affidato a Baya Medhaffer, una giovane cantante e attrice al suo esordio.
Presentato al Festival di Venezia nel 2015 nelle Giornate degli Autori, ha ricevuto il Premio del Pubblico e il Premio Europa Cinema.
Il 13 gennaio 2016, alla vigilia della ricorrenza dei cinque anni dai giorni della Rivoluzione dei Gelsomini, il film è uscito in Tunisia in 24 regioni del paese utilizzando le Case della Cultura e le Case dei Giovani.
Lettera-invito alla redazione allargata di VD 3
domenica 8 maggio 2016 ore 10
alla Libreria delle donne di Milano, via Pietro Calvi 29
sul tema già annunciato nel programma*
Libertà femminile: prezzi pagati e da pagare
L’incontro di sabato 30 aprile al Circolo della rosa, sulla cosiddetta maternità surrogata, ha confermato che questo è un momento intenso e importante per le donne (che vuol dire anche per gli uomini) e in particolare per le femministe, comprese le donne impegnate nei movimenti omo- e trans-sessuali.
La gente, ormai distante dalla politica ufficiale, s’interessa però ai temi della vita sessuale e relazionale, della famiglia che cambia, dei desideri e dei diritti che c’erano forse da sempre, forse invece no, ma che comunque affiorano con le nuove possibilità offerte dal mercato globale e dalla tecnoscienza. Questo fermento è importante perché testimonia di una volontà di capire e di esserci senza farsi mettere fuori gioco dalla prepotenza delle cose che vanno avanti di suo (come la tecnoscienza e il mercato globalizzato).
A me, che ho avuto la faccia tosta di scrivere un libro sulla gestazione per altri (GPA), L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto (La Scuola 2016), l’incontro di sabato con Lia Cigarini e tante, tanti altri, ha dato molto: qualche conferma, delle aperture e nuove domande.
Riassumo lo stato attuale della questione (nella mia testa, s’intende).
– Mi sono resa conto che nessuno ha le risposte in mano, bisogna trovarle insieme. Le questioni che ci poniamo (tra poche settimane il parlamento discuterà la legge sulle adozioni) segnalano un processo molto positivo di presa di coscienza diffusa: non vogliamo restare indietro a mercato e tecnoscienza, cerchiamo invece di accompagnare e orientare (per quanto possibile) i cambiamenti, con quella consapevolezza che ci fa umani.
(Inserisco un invito alle e agli specialisti: nella ricerca scientifica sulla procreazione non delegate al potere altrui la parte di responsabilità che è vostra!)
– Un tema profondo e urgente riguarda il rapporto tra la gestazione e la cura delle nuove creature. La maternità abbraccia entrambe le cose, ma nella realtà accade che siano perfino separate, sicuramente sono distinte. Forse lo sono anche nel desiderio femminile? è cosa da indagare, non però con la facile retorica di chi ha già preso posizione, è da indagare con il metro di misura della libertà femminile. Misura che va presa anche per la disponibilità materna di colei che diventa madre: che non sia assoluta, può essere parziale e tocca a lei prenderla. Ma che non si riduca, se possibile a zero: la creatura ne soffre.
– Altro tema, la concezione della differenza sessuale. Al regime di eterosessualità imposta dal patriarcato, la politica femminista si oppone con il senso libero della differenza sessuale. Purchè capiamo che questa non è stabilita tra due entità in forza di leggi, usi e costumi, ma si costituisce in, ossia nella singola creatura come diversa distanza dal corpo materno, con la sessuazione. Gli usi e costumi non fanno che interpretare questo evento evolutivo. Oggi si avverte da più parti l’esigenza che l’interpretazione sia libera.
– La differenza sessuale, se correttamente intesa, consente di distinguere la relazione paterna da quella materna.
– Sta emergendo un’importante indicazione: avvicinare il tema della surrogata al tema dell’adozione, si tratta quindi d’impedire che quella entri in competizione con la seconda e fare in modo che l’adozione recepisca esigenze di donne e uomini emerse con la surrogazione.
Inserisco qui un’istanza verso il parlamento chiamato prossimamente a cambiare in meglio la legge sulle adozioni: s’inserisca esplicitamente la relazione materna nel bene del bambino.
Le cose che premono sono molte ma credo che non serva allungare il testo per rendere convincente l’invito.
Che ci siano prezzi da pagare per la libertà femminile, a volte è veramente scandaloso ma non deve scandalizzarci perché la libertà è fondamentalmente una conquista e, come tale: libertà guadagnata in prima persona, diventa un bene che s’incrementa da sé.
Luisa Muraro, 2 maggio 2016.
*Libertà femminile: prezzi pagati e da pagare
omologazione, integrazione, recitazione, difesa dei valori dell’Occidente…
Pensiamo a fatti recenti e antichi come i fatti di Colonia, ottenere giustizia a quali condizioni, le condizioni di lavoro, il ricatto dei mezzi di comunicazione, “perché le femministe non parlano?”, donne al lavoro del sesso e della maternità. (Ma la lista non finisce qui, recentissima Letizia Paolozzi su Alfabeta sul come le femmine sono tenute a vestirsi… dove? in Olanda).
con la partecipazione di Silvia Niccolai e Luisa Muraro
introduce Laura Giordano
Da Il passaggio in altro, in Bianca R. Gelli (a cura di), Voci di donne. Discorsi sul genere, P. Manni, Lecce 2002, pp. 41-46, brano finale, pp. 45-46
[…]
Partire dall’esperienza femminile può essere un modo per capire donne e uomini. Proprio perché le donne hanno più presente l’altro, mentre gli uomini prima si chiudono nella loro compiutezza e poi si relazionano con l’altro. Per le donne l’altro è già acquisito. Quando dico l’altro, non voglio dire solo l’altro sesso, ma l’altro che è anche in me. Può essere il mondo, Dio, ecc. Ma come è possibile, partendo solo dalla mia esperienza di donna, capire qualcosa che riguarda donne e uomini?
Nell’universale Aristotele ha ideato un qualcosa che si guadagna per astrazione, astraendo da tutto quello che è concreto ed empirico. L’uomo ad esempio diventa un animale che ragiona, con tutte le caratteristiche della vita animale e del ragionare: questo è l’universale astratto. Un altro universale, molto più vicino a noi, è l’universale come mediazione, l’atto di abbracciare il tutto trovando le mediazioni. La dialettica di Hegel sta proprio nel trovare universali attraverso mediazioni. La formula è stata coniata da Luce Irigaray. L’universale del “taglio“, invece, lo possiamo chiamare l’universale del passaggio in altro, che si guadagna con la pratica della relazione e che rivela che l’essere consiste nel passaggio ad altro. Nell’innamoramento si fa l’esperienza dell’essere che passa in altro, questa formula del passaggio in è il tipo di movimento del pensiero che ci permette di fare dell’esperienza femminile un’esperienza umana perché l’altro in quanto altro era già presente. Questa mia idea, non ancora approfondita, ha delle applicazioni per esempio nella critica della psicopedagogia, e in tutto quello che è puericultura pedagogica, discipline o ambiti organizzati secondo una concezione scientifica astratta. Ogni venti o trenta anni si affacciano nuove teorie, perché sono scienze che tentano di codificare in un universale astratto situazioni che sono tra le più vicine al cuore dell’essere che è quello della generazione, della messa al mondo di una nuova vita. E tentano d’imbrigliarle così. Questo sapere del passaggio in altro di preferenza è stato praticato da donne. Comunemente le donne hanno praticato questa forma di conoscenza e di esperienza che però non ha mai trovato uno schermo che lo intercettasse e ne facesse un sapere riconoscibile. In questo momento si può tentare, forse perché la differenza femminile comincia a impressionare la società intera. Sarebbe un guaio che questo di più femminile, inteso come originalità del pensiero femminile, fosse apprezzato unicamente dal mercato del lavoro, dall’economia, dal capitalismo. Bisogna farne intelligenza libera, perché altrimenti resta lo spreco dell’invisibilità di questo sapere, col rischio di mascolinizzarci per trovare riconoscimenti dalla società. Proprio perché siamo donne che vogliono fare delle nostre vite qualcosa che conta. Proprio per questo il rischio è quello di adottare forme simboliche del maschile, un modo cioè di tipo fallico. Una ricerca delle forme originali del sapere femminile può aiutarci a salvare la nostra originalità.