Qualche osservazione sull’incontro di Via Dogana 3, di domenica 8 novembre 2015, durante il quale ci siamo interrogate sull’esistenza dell’odio politico tra donne.

Grazie anche alla bella e intrigante relazione introduttiva di Alessandra De Perini, la parola odio ha mostrato tutta la sua potenza, è parsa guizzare veloce nella sala della riunione, gli interventi sono stati continui, con pochissimi momenti di pausa.

Come ha notato in conclusione Luisa Muraro, si è trattato di un dibattito anche faticoso, per la novità del confronto sul punto, ma riccamente declinato. Pareva non esserci chi non fosse stata colpita dal sentimento dell’odio e non avesse dovuto farvi i conti. Solo qualcuna non voleva neppure sentirne parlare, e pur avendo avuto la cortesia di accettare l’invito ad essere presente, come è stato notato, non ha detto, non abbiamo saputo, se non vi abbia mai avuto a che fare.

Per stare al gioco, invece, occorreva districarsi nel variegato flusso di osservazioni, riconoscere affinità, possibili sviluppi del proprio pensiero, mentre intorno, veloci, partivano e arrivavano indicazioni da e per le più svariate direzioni.

Ne riporto alcune tra le tante:

E via continuando.

Ripercorro qui solo alcuni dei nessi che la parola odio ha attivato in me, quelli che ho deciso di guardare più da vicino. Ricostruisco un filo tra i tanti possibili, attraverso le consonanze e le indicazioni che da interventi di altre ho ricavato.

L’esperienza più profonda di odio che ho vissuto è stata certamente quella che mi ha legata per molti anni a mia madre, risoltasi proficuamente per me solo quando ho saputo riconoscere il mio guadagno nell’accettazione del mio amore per lei. Solo quell’amore rimasto impensabile fino ad allora, e guadagnato attraverso parole di donne che mi avevano preceduta, è stato capace di liberarmi dall’odio che mi teneva inchiodata. Per questo ho sentito significativo per me l’intervento di Adriana Sbrogiò che indicava nell’amore l’unico rimedio per superare l’odio, e poi quello di Stefania Giannotti che individuava nella debolezza l’origine di tale sentimento.

Ho ripercorso allora il filo teso tra le profondità del rapporto con mia madre e le vicende della mia vita pubblica, la mia vita di lavoro. La dimensione in cui più avrei voluto praticare con forza la politica delle donne, ma in cui non sono riuscita a lasciare un segno particolarmente significativo della mia presenza insieme ad altre. Eppure il mio sentimento interno mi dice che è ciò che ho fatto, ciò che ho sempre tentato di fare, con una tensione ininterrotta a cercare varchi, opportunità sensate per me. Credo siano moltissime le ragioni che spiegano l’insuccesso, non ultima una probabile, limitata capacità personale, ma fra le tante ritrovo certamente anche l’inimicizia, l’indifferenza, l’odio tra donne. Penso di esserne stata spesso oggetto privilegiato, di aver dovuto patire questa particolare forma di attenzione. Il più delle volte ho risposto ricambiando cordialmente, come usa dire, l’invincibile avversione: per mancanza di sufficiente amore, che nel contesto della mia vita pubblica chiamerei mancanza di pensiero.

Di un pensiero capace di liberarmi dall’angolo a cui l’odio mi riduceva, come era infine avvenuto nel rapporto con mia madre.

Io so, io lo so che da qualunque cosa posso ricavare un bene, un vantaggio, un successo, una felicità, anche da quel piccolo e insignificante o grande e divorante odio. Ma devo saper vedere la via, il modo e il motivo per cui dover passare proprio attraverso quell’orribile imbroglio, quel nodo doloroso o così repellente che chiamiamo odio. Per esempio, in alcune situazioni, quell’odio potrebbe essere stato l’unico elemento dinamico a disposizione per volgere la realtà a mio favore. Se ne avessi visto questa caratteristica a tempo debito, con adeguata tempestività, forse ne avrei ricavato un pensiero, una guida utile all’azione, all’impostazione di un conflitto onorevole.

È quanto ha reso plasticamente chiaro il racconto di Vita Cosentino che riferiva di una insegnante che per una serie di orribili caratteristiche personali, aveva portato a una tale esasperazione i genitori da spingerli a minacciare di ritirare i figli dalla scuola. Vita ha affermato di aver superato l’avversione, la ripugnanza che la collega pure le scatenava, per riuscire a correre ai ripari.

Il racconto è stato veramente rapido, ma conoscendo la passione e l’attività politica di Vita, posso completare con l’immaginazione ciò che lei nello scambio diretto della riunione ha lasciato implicito. Evidentemente teneva tanto al buon nome della sua scuola, guadagnato con il lavoro e l’impegno suo e di altre, aveva tanto a cuore il giudizio e la relazione con i genitori, eccetera eccetera… che questi interessi più alti, questo guadagno più grande non l’hanno inchiodata all’immobilità o a semplici manovre di aggressione cui il puro odio l’avrebbe confinata e quindi… (a noi immaginare un fine abbastanza lieto).

È questo, credo, ciò che deve necessariamente accadere al nostro odio, perché si trasformi in altro, in qualche cosa di più utile, più sano, più vitale. Altrimenti, dico, teniamolo in caldo quest’odio, teniamolo da conto, è un’energia potenziale, una riserva per il futuro. Al meglio, si dovrebbe sperare forse di smaltirlo subito, nel presente, lì, dove e quando si configura, usato come propellente per un’azione immediatamente diversiva. Nel meraviglioso mondo di aspirinalarivista.it vedo raffinate strategie volpine, splendidi voli spiazzanti e grandiosi scenari di guerra contro la nemica, infuriano litigi mondiali, esplodono raffiche di urla, nessuna si fa male e tutte ne cavano qualcosa.

Nel nostro mondo penso sia saggio conservarlo con cura e lucidità, l’odio, per essere pronte a intercettare una seconda occasione in cui quel pensiero, quell’interesse, quel guadagno, quell’amore che non abbiamo saputo vedere una prima volta, possa ritornare a noi in forma e materia inattesa.

Come ha suggerito Muraro alla fine della riunione, è bene avere delle lettrici mentre si scrive. Le mie lettrici sono: Gabriella Attuati, arcangela, con spada di fuoco, Milena Mammani, tenace mastina napoletana.

Dopo trent’anni di impegno nella politica della differenza, sulla base della mia esperienza, penso che le donne conoscano ancora molto poco l’odio “politico”, mentre sono esperte di cattivi sentimenti che, però, difficilmente ammettono di provare e tendono a vivere unicamente sul piano privato.

Io ho un’idea nobile dell’odio: odiare qualcuna vuol dire riconoscerle su di me una presa potente, attribuirle un valore straordinario. Quella donna, infatti, mi mette in contatto con il male di origine femminile e mi chiede di guardarlo, di tradurlo in parole. Il mio odio non è cieco: se provo odio per una donna, non semplicemente fastidio e antipatia, prendo atto di essere ancora in relazione. L’odio è l’ultima porta che si apre, prima dell’indifferenza e del definitivo distacco, quando tutte le altre si sono chiuse alle nostre spalle. Offre un’ultima possibilità di azione, di rilancio, apre un imprevisto campo di battaglia.

Quella dell’odio politico è la lezione più difficile da imparare. Comporta la consapevolezza di essere in grave pericolo, insieme a un mondo di scambi, di relazioni, di contatti, di saperi e di pratiche e la necessità di trovare mediazioni.

Pensando alle ragioni che una donna può avere per provare questo sentimento forte e negativo nei confronti delle proprie simili, oggi che l’autorità femminile c’è, mi viene in mente un lungo elenco di comportamenti che minano la politica delle donne.

Per questo motivo dico “odio” le eterne piagnucolose, le meschine, le miserabili, le donne perfide che sanno come fare del male alle proprie simili, quelle che provano piacere ad umiliare, a ferire con le parole o anche solo con uno sguardo l’altra, con cui sono in rivalità e forte competizione. Odio le avare, quelle che fanno cadere sistematicamente nel vuoto i desideri, lesinando il nutrimento necessario perché l’azione comune prenda slancio, le indecise che, con le loro infinite paure e continue insoddisfazioni, mettono le mani avanti e minacciano il lavoro comune. E poi ancora: odio le vigliacche che, al riparo della parola pubblica, mettono in cattiva luce i progetti di altre, le false che dicono di venire in pace, disarmate, ma nascondono un complotto, quelle che dichiarano la propria fedeltà e poi sono pronte a schierarsi, rinnegando il debito della relazione; quelle che nei conflitti si credono automaticamente dalla parte del giusto e del vero, quelle che pensano di essere autorevoli, solo per la posizione che occupano, ma in realtà non sanno che cosa significhi quella parola in termini di fatica, generosità, coraggio di fare tagli; quelle a cui non bastano mai i riconoscimenti e ne vogliono ancora e sempre di più; quelle che si infuriano, quando ricevono critiche e indicazioni, indisponibili ad una modifica profonda di sé e del proprio orientamento. L’elenco sarebbe ancora lungo. Mi fermo qui.

È necessario trasformare l’odio in un sentimento politico, in una forza costringente, per cui non ci sono colpe da espiare, ma errori da riconoscere, comportamenti da abbandonare o modificare, gesti pubblici da inventare. Con il tempo si impara ad apprendere quella che Angela Putino chiamava “l’arte di polemizzare tra donne”, di farsi la guerra con onore (Sottosopra blu, 1987). C’è una pratica del conflitto che mette al bivio tra l’andare avanti, fingendo che tutto vada bene, o risvegliarsi e combattere perché ci sia verità nei rapporti tra donne.

La libertà di una donna comincia quando cessa la pretesa di essere amata: questa affermazione sta all’inizio della mia presa di coscienza e del mio impegno politico nella differenza. Erano gli anni Ottanta, mi trovavo immersa nel grande mare dei rapporti “tra” donne, scelte come uniche e privilegiate interlocutrici della mia vita, in un continuum che non aveva alcuna finalità se non il piacere e la gioia che potevano dare le relazioni, le feste, le vacanze, le cene insieme, le notti passate a ridere o a raccontare di sé. Mi avvicinavo ogni volta all’altra disarmata e disarmante, curiosa, con il desiderio di conferme d’amore, di comprensione e alleanza. Furono, invece, contrasti, schieramenti, rotture, malintesi, maldicenze. Non c’era ancora nella mia vita una ricerca condivisa di senso, non mi sentivo responsabile della libertà dell’altra, volevo solo goderne e quando, per desiderio mio e di poche altre, quella ricerca incominciò, era il 1984, il mondo si divise in due: da una parte noi, percepite come traditrici di quella prima forma di comunità, costruita con tanta fatica, dall’altra quelle che, non vedendo la necessità di un percorso politico, decisero di rimanere in quel cerchio magico di relazioni che, all’inizio, era sembrato a tutte un “mondo” grandissimo, ma che, di fatto, era una piccola casa sull’albero, un fortino, un recinto, in cui ognuna poteva avere accesso, pronunciando determinate parole d’ordine e da cui usciva, lasciando invisibile la parte più vera di sé, in cambio di credito sociale. Risalgono a quegli anni le mie prime esperienze di odio provato e ricevuto da altre donne sotto forma di attacchi, duri colpi, tentativi di eliminazione. Da lì un lungo cammino, più di trent’anni di “nuovi inizi”, di progetti, di scacchi, di conflitti vissuti con onore e disonore, intenta a intrecciare legami, a dipanare nodi, a costruire una “lingua comune delle donne”.

E adesso sono qui a dire che l’odio c’è. Rimosso, cacciato indietro, bandito dai rapporti tra donne, ma c’è. E fa paura. Non è solo un sentimento, è una forza, di cui bisogna tenere conto, per realismo. Può scorrere per anni silenzioso, sotterraneo e poi balzare fuori all’improvviso, incrostato di invidia e di risentimento. Può manifestarsi imprevisto e distruggere in poco tempo un lavoro politico di anni.

Al suo passaggio cadono ponti, si spezzano reti, si squarciano scenari per lasciare posto alla nuda realtà di un sentimento irriducibile. La corrente dell’odio fa vibrare i corpi di disgusto, riempie le bocche di accuse e di parole taglienti e le menti di fantasmi.

Non c’è riparo dall’odio. Si subisce e si prova. Ci vuole coraggio per guardarlo in faccia, per riconoscerlo riflesso nel proprio sguardo, senza provarne vergogna: l’odio pietrifica, scava buche profonde nell’anima, fa dimenticare la pietà e la compassione, trasforma i sentimenti malefici, le paure, i profondi contrasti tra donne in orsi feroci, lupi in agguato, corvi minacciosi che volano in cerchio, pronti a scendere in picchiata.

Che cosa placa l’odio? Non la “medicina” dell’amore. Ci vuole altro, ben di più, perché l’odio è un sentimento assoluto e l’amore non è il suo contrario. È necessario un gesto sottratto alla catena dell’azione – reazione, attraverso cui l’errore sia pubblicamente riconosciuto e si renda di nuovo possibile, se non la gioia dell’incontro, forse perduta per sempre, almeno un confronto politico tra avversarie eccellenti. Occorre “espiazione”, come nel Medioevo, sofferenza trasformatrice. Allora sì che l’odio si placa, trova una misura e ritorna nel mondo infero da cui proviene.

Ogni tentativo di mediazione, di fronte all’odio, si rivela spesso un assestamento fragile, inconsistente. Perché l’odio ha fame, non conosce misura né compromessi, non teme le voragini che si aprono sotto i piedi, si lancia nel vuoto, prendendo fuoco in velocità. Agisce sprezzante e colpisce senza esitare le parti più fragili e tenere dell’essere. Il suo prezzo è la bruttezza, lo schiacciamento nel qui e ora. Il guadagno è un’intelligenza sottile, attentissima alle trappole e agli inganni, una strana libertà, aspra e brutale, un sapersi muovere nel buio, senza cadere nella tentazione del perdono né cedere all’illusione che basti un semplice atto di volontà per cancellare il male fatto o ricevuto.

Bisogna averlo provato l’odio, almeno una volta, per riconoscerlo. Occorre aver attraversato l’inferno dei rapporti tra donne, il disordine delle passioni viscerali, essersi trovate immerse in laghi di cattiveria e infedeltà femminile, aver incontrato sguardi che feriscono e tagliano in due il contesto, per toccarlo con mano e coglierne il suo frutto velenoso: il disamore, il profondo disprezzo, il desiderio di vendetta.

La donna che odia è forte, determinata a vincere sull’altra, pronta a battersi, disposta a “cedere il regno per un piatto di ceci”, a perdere tutto, anche a sparire per sempre, in cambio della gioia selvaggia di un solo momento di riscatto.

L’odio assume forma politica quando smaschera la falsità del “volersi bene” tra donne che, come una viscida patina, avvolge i rapporti, rendendoli deboli e insipidi, riducendoli ad un misto di ricatti, differenze caratteriali, richieste di consolazione, astute seduzioni per soddisfare reciprocamente il bisogno di continue conferme.

Allora l’odio si presenta, indomabile come un cavallo selvaggio. A quel punto, conviene assecondarlo, non fare resistenza né illudersi di riuscire a governarlo, ma seguirne i movimenti e, un attimo prima che inizi a lanciarsi nella sua veloce corsa, avere la presenza di spirito di saltargli in groppa “con la spada in mano” (direbbe Luisa Muraro)

L’odio politico è un’azione personale e allo stesso tempo impersonale: con uno schiaffo irriverente e ironia beffarda, ponendosi a grandissima distanza, scompiglia le truppe dei buoni sentimenti, mettendo a soqquadro patti ed equilibri durati troppo a lungo, riconciliazioni illusorie. Costringe a dire la verità del proprio scacco, ad ammettere l’ambiguità di un desiderio di potere che ha intrappolato un progetto di libertà, per cui tante si erano spese, il fallimento di un desiderio di grandezza femminile, smentito clamorosamente dalla miseria che è rispuntata in contesto, invitata da quelle che hanno avuto paura della propria forza.

Quando odiamo o siamo odiate, non possiamo contare su una madre accogliente che ci consola e ci giustifica: siamo poste tutte di fronte alla potenza del “negativo di origine femminile” (Sottosopra oro, 1989). È segno di responsabilità politica non diffondere quel male: di qui, a volte, la scelta di fare silenzio, di porsi al di sopra degli scontri, di non rispondere alle provocazioni con un’azione allo stesso livello.

Poi, però, bisogna pur capire come andare avanti in positivo, perché la politica delle donne non è una valle di lacrime, scommette sulla felicità. Allora entra in campo la mediazione femminile che non cerca compromessi e facili assestamenti, ma crea un contesto dove si possa mettere in scena una “battaglia” per trarre dal conflitto, nominato in termini politici, un guadagno di senso per tutte e un nuovo orientamento.

In un paesino della Turchia, poche case fra montagne e mare, vivono cinque sorelle, Sonay, Selma, Ece, Nur, Lale. Sono belle, giovani e spensierate come vuole la loro età, pienamente felici e libere di studiare, giocare e amoreggiare con i loro compagni di scuola.

Inizia così il bel film di esordio della regista franco-turca Deniz Gamze Erguven. Splendide immagini di ragazze e ragazzi che giocano fra loro, primissimi piani sull’esuberante forza e vitalità dei loro giovani corpi e sullo sbocciare delle prime tensioni d’amore e sessuali; scene che esprimono gioia, energia, voglia di vivere sottolineate dalla voce narrante di Lale, la più piccola e indipendente fra le sorelle.

Ma un brutto giorno sulle loro vite luminose si abbatte, improcrastinabile come il fato e per mano della nonna e dell’orribile zio – strega crudele l’una e orco cattivo l’altro – la dura realtà del loro essere donne in una società patriarcale, e la loro innocente sessualità è messa sotto accusa e demonizzata.

Tutto improvvisamente cambia. Le loro vite vengono imprigionate, bloccate: non possono più studiare né leggere né comunicare con altri; la loro casa diventa la gabbia in cui una schiera di solerti zie e vicine si mette a disposizione per addestrarle a una serena sottomissione in vista di un felice futuro di brave e docili mogli di mariti imposti, mentre i loro giovani corpi vengono mortificati da tonache informi e incolori.

Utilizzando una narrazione fra favola e metafora – il titolo che richiama i cavalli liberi e selvaggi delle praterie dalle lunghe criniere ne è un esempio – la regista racconta la chiusura e l’oppressione sulle donne attualmente in atto in molti ambienti della società turca nell’era Erdoǧan e il desiderio, la sete di libertà femminile che comunque circola ed è insopprimibile, non controllabile, si respira nell’aria e contamina tutto, città e remoti paesini turchi.

Ed è a questo proposito che, nel dar corpo e voce ai caratteri delle cinque sorelle, ben delineati e differenziati, vuole mostrare, come nell’aprirsi di un ventaglio, le molteplici sfumature dei sentimenti e dei desideri che animano nella realtà le giovani donne e le loro scelte conseguenti: dalla supina e inerte accettazione dei matrimoni combinati fino alla ribellione estrema. E qui la narrazione dalla partenza leggera e solare con i toni della commedia vira decisamente verso atmosfere dolorose e drammatiche.

Ho visto Mustang in una sala gremita di giovani donne partecipi e coinvolte. Il film effettivamente ha un buon ritmo, riesce a creare una tensione crescente per culminare in un finale quasi liberatorio. La regista è brava a giocare con la macchina da presa e, grazie a un’ottima fotografia, ad accentuare i contrasti tra ambienti interni e quelli esterni, tra la chiusura buia delle stanze e la luminosità fuori del paesaggio ricco di una natura vitale e pulsante.

Le ingenuità ci sono nella sceneggiatura, che è della stessa regista in collaborazione con la coetanea regista Alice Winocour, sia nella messa a punto di alcune scene sia nella narrazione della voce fuori campo, ma la vibrante vitalità che il film esprime porta dalla sua la mia simpatia e quella del pubblico delle giovani donne. Forse questo spiega, dopo la selezione a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs e il premio al 21° Festival di Sarajevo, la sua candidatura agli Oscar per la Francia, nella sezione Miglior Film Straniero.

È arrivata la seconda domenica di novembre e Via Dogana 3 invita a un nuovo incontro della redazione allargata, aperto a donne e uomini, per leggere, a partire da sé, quello che accade nel mondo

dove: alla Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29

quando: l’8 novembre 2015, dalle 10 alle ore 13.30 (circa)

seguirà un pranzo leggero (offerto a chi viene da fuori) in compagnia.


Diversamente dagli incontri precedenti, ci sarà un unico tema, introdotto brevemente da Luisa Muraro e più lungamente da Sandra De Perini:

l’odio politico

esiste, così come esiste la passione politica.

Esiste anche tra donne?


V’invitiamo a uno scambio pacifico e affettuoso di pensieri ed esperienze. In vista dell’incontro, suggeriamo di fare mente locale, come dicono a Milano, su accadimenti ai quali si può associare quella parola.

La redazione ristretta di VD 3.

Vite in transito: non lo sono, di fatto, le nostre? Tutte. Così ho pensato davanti alle opere di Adrian Paci, artista albanese, due anni fa in mostra al Pac. Così mi sono trovata a ripensare in questi mesi.

I commenti agli arrivi dei profughi – «Sono centinaia, sono migliaia, non possiamo riceverli tutti, dobbiamo mettere paletti, rivedere i criteri, definire nuove regole» – li ho ascoltati inerme prima, imbarazzata poi. A un certo punto, e improvvisamente, ho immaginato che l’Europa (ma esiste?), dicesse altro. Questo: «Venite pure, vi accogliamo tutti». Ho percepito lo spazio che si apriva in me e tra noi, a dirlo. «Venite pure, abbiamo i nostri problemi e non di poco conto, ma con il vostro aiuto possiamo farcela».  Intanto nella mia mente un ritornello aveva preso a risuonare: «Non possiamo dire altro, non possiamo fare altro. Se facciamo dell’accoglienza la traiettoria, ne verrà solo bene. Tutto cambierebbe». Ma non sta comunque cambiando? Solo che sarebbe accompagnato da un di più di respiro, di abbraccio. Queste immagini e queste voci mi aiutavano – mi aiutano tuttora – a non cadere nella paura, a non contrarmi.

C’è un presupposto, mi dicevo: accettare che tanto si trasformi, del nostro mondo, pieno di case, cose, inganni politici e industriali, illusioni, inconsapevolezze molto diffuse, radicate e ben mimetizzate. Un’amica mi ha detto: «Chi viene ha deciso che non poteva più rimanere là dov’era. Nessuno può discutere la sua scelta. La terra è di tutti. E se saremo troppi a un certo punto qua, ci sposteremo, ci ridistribuiremo». Io la penso come lei.

Certo è un pensiero che è guida e al contempo richiama un pericolo: la messa in subbuglio di un ordine, di un benessere – il nostro. Questa mescolanza di genti che si va creando sotto i nostri occhi, di giorno in giorno, potrebbe essere occasione per rimettere mano a questo e a quello. Che proprio ordine e benessere raggiunti e maturi non sono. Io sento che ci è richiesto coraggio e invenzione.

Ci sono tante situazioni che domandano la risposta dell’accoglienza. Per me che insegno vale ricordarmi sempre, rinnovando l’idea e la pratica, che l’accoglienza è inizio di una storia, inizio di una relazione. A volte viene in un secondo tempo, e allora bisogna mettersi di impegno a sciogliere i guasti che si sono frapposti fra noi a l’altro. È specchio di quali orizzonti stanno prendendo piede dentro di noi, ognuno di noi, e nel nostro insieme. Nelle scuole italiane, che accolgono migliaia di creature in crescita e di adulti che le accompagnano, è messa alla prova da una crescente burocratizzazione e da una invadente proliferazione di impegni che rimandano ad altri piani (programmatici, organizzativi). La buona tradizione, ancora viva in varie città e paesi, di incontrare madri e padri di bambine e bambini nei giorni immediatamente precedenti l’apertura del loro primo anno scolastico, per conoscersi, parlarsi, dirsi ciò di cui si ha bisogno e ciò che si intende fare, non viene più praticata ovunque. Persino il momento iniziale – organizzato di solito intorno a una drammatizzazione o a gesti simbolici che accompagnano con un rito collettivo l’inizio di un nuovo percorso – viene schiacciato tra un atto ufficiale e l’altro: in classe ci sono molte formalità da sbrigare, i documenti da distribuire (molti e articolati), la lista del materiale da consegnare. Burocrazia al posto di apertura e invenzione. Un incipit che implode. Alle insegnanti viene consigliato, proprio da chi dirige le scuole, di non avere contatti telefonici con le famiglie. Di non superare certi confini. Al posto di alleanze e legami si tratteggia la strada del sospetto, del giudizio. Dell’inimicizia.

Dal mio osservatorio rilevo che i messaggi sono ambigui e bisogna tener saldo lo sguardo verso ciò che di positivo continua ad accadere, facciamo accadere. Le scelte individuali e collettive in questo scenario fanno la differenza: ciò che agiamo, con fatti e parole, ci dà o ci toglie possibilità. La nuova scuola in cui mi sono traferita da quest’anno ha scelto di creare un legame di accoglienza tra le classi quinte e le prime. Noi maestre, insieme, abbiamo deciso che fare. I grandi hanno letto una storia, l’hanno animata (e sono stati bravissimi), si sono affiancati alle piccole e ai piccoli perché realizzassero un collage, ne hanno anche creato uno loro, grande e colorato, e ce lo hanno regalato. Fatto sta che si è creato un bel filo di conoscenza e riconoscenza tra le classi e tra colleghe. E negli intervalli in cortile bambine e bambini da subito hanno preso a giocare insieme, con quella disparità appariscente di corpi e forze che però non genera incidenti, anzi molta allegria. Non mi è mai capitato di vedere bambine e bambini di 6 e 10 anni stare in una tale vicinanza quotidiana e giocosa.

Nella mia prima il mio inizio d’anno l’ho fatto con un gomitolo di lana, facendo passare il filo tra madri, padri, bambine, bambine, nonne, zii. Ci univa da subito ed era magico, ho detto. Al rito tutti ci sono stati, eravamo di sei o sette nazionalità. Abbiamo attraversato il cortile e siamo saliti fino alla classe, tutti tenendoci a quel filo. E lì, in cerchio, abbiamo ascoltato i nostri nomi, di adulti e di piccoli. Filo o nastro, gesto simbolico che mette in moto e sposta aprendo spazi impensabili prima: mi sento di avere agito nella scia di Maria Lai, artista sarda che legò il suo paese a una montagna coinvolgendo tutti, in una grande opera di insieme, facendo passare un nastro azzurro tra tutte le case del paese in cui era nata e cresciuta, unendo i vicini che erano amici e anche quelli che non lo erano (e tra le case dove c’era amicizia c’era un nodo, dove tra le famiglie c’era amore un pane decorato come un pizzo).

Leggendo in un contributo per VD3 (Accoglienza, 22/9/2015) che nella nostra città la cacofonia dei suoni delle lingue diverse sta creando una barriera, cancellando i suoni della lingua italiana, mi sono venute alla mente due cose. La prima: suoni diversi io li ascolto da vicino nelle voci delle bambine e dei bambini che ho in classe e in quelle delle donne e degli uomini loro madri e loro padri. Quelle lingue sono l’infanzia, storie di vite umane ai loro inizi (di oggi e di ieri) e più o meno tribolate. Quelle lingue sono la Storia che si muove lungo linee che partono lontano da noi e arrivano a noi. Ciò che provo ad ascoltare lingue così diverse dalla mia è un desiderio: saperle anch’io.

La seconda: c’è una nuova lingua che si sta parlando nelle scuole e che io temo. È l’italiano informatizzato, all’apparenza moderno e innocuo, nato dal mondo virtuale dei computer. «Ho bisogno di una persona che si occupi della dematerializzazione della scuola» dicono da qualche tempo coloro che dirigono i nostri istituti pubblici. Cercano insegnanti che si occupino del passaggio delle comunicazioni alla rete web, il fine essendo la “distruzione della materialità” dei documenti cartacei. E dato che noi rispondiamo – nell’anima, nel profondo – alle parole, è già capitato che a giugno alcune scuole primarie dell’Emilia Romagna abbiamo smesso di incontrare madri e padri per i colloqui di fine anno. «Tanto i voti e i giudizi li possono leggere sul registro elettronico, on-line». E così hanno fatto un passo verso la dematerializzazione delle relazioni.

Accogliere è fare spazio per chi arriva, è mettersi in ascolto e rinnovare la disponibilità a trovare nuove mediazioni.  Cose né banali, né scontate. È pensiero e gesto, perché prima di tutto tra noi si tratta di incontro – materiale e immateriale – di anime, di vite. È fatica, anche per me che sono maestra, per la pazienza che richiede, perché i miei tempi non sono i loro tempi, di bambine e bambini. I miei bisogni non sono i loro bisogni. A volte vorrei andare in un senso e loro mi spingono in un altro. Trovo molto impegnativo rimanere centrata, non confondermi, scegliere, arretrare. Sulla soglia, quando arriva un ospite, bisogna farsi di lato ma esserci. È una disciplina interiore quella di cui ho bisogno. Che tengo legata ad un filo di senso, quello che continuiamo a chiamare politico: negli incontri che facciamo ne va di noi, del nostro essere umani, del nostro essere capaci di creare legami. Nelle scuole continuiamo a parlarne, a pensarci e ad agire. Vista la posta in gioco, dico che si tratta di un gran lavorio prezioso che tiene insieme molto più di ciò che appare. Va rilanciato e allacciato ai lavori in corso di altre, altri – associazioni, gruppi – che stanno agendo con lo scopo di intrecciare destini e esistenze. Sempre e tutti in viaggio, su questa terra che è un corpo celeste, come scriveva Anna Maria Ortese. Per fortuna davvero lo è.

Scrivo brevemente alcune note sul film Censored Voices della regista Mor Loushy. Mi auguro che il documentario riesca ad avere una distribuzione in Italia e possa essere di conseguenza visto anche fuori dai ristretti circuiti festivalieri. La mia è anche una richiesta, a nome dell’Associazione Lucrezia Marinelli, rivolta a chi avesse notizie o indicazioni in merito alla possibilità di poterlo acquisire e farlo circolare.

Il documentario Censored Voices della regista israeliana Mor Loushy si basa sulla registrazione di interviste a soldati israeliani tornati dal fronte dopo la Guerra dei Sei Giorni del ’67 che, con la conquista di Gaza, la penisola del Sinai, parte delle alture del Golan e Gerusalemme Est, cambiò geograficamente e politicamente l’assetto mediorientale.

Le interviste furono realizzate una settimana dopo la fine del conflitto dallo scrittore Amos Oz e dall’editore Avraham Shapira e solo per una minima parte di esse fu autorizzata la pubblicazione, il resto fu censurato dall’esercito. Il libro uscì, nell’edizione inglese, con il titolo The Seventh Day.

Il film, presentato al Sundance Festival, alla Berlinale 2015 e al Milano Film Festival del settembre scorso, mostra integralmente e per la prima volta quelle voci censurate alternandole a filmati di repertorio ed è il frutto di un lungo e difficile lavoro di ricerca durato tre anni su materiali d’archivio e su reportage dell’epoca.

Quando la regista, da studentessa, facendo una ricerca di storia, si imbatté nel libro fu immediatamente colpita dal tono differente dei racconti dei soldati rispetto alla retorica eroica dei vincitori riportata nei testi scolastici. Le “voci censurate” raccontavano una realtà differente da quella tradizionalmente propagandata da governo e politici sui temi della protezione delle frontiere e sulla difesa dello Stato di Israele.

Nel filmato sono mostrati gli uomini che allora furono soldati mentre ascoltano in silenzio le loro voci. Una scelta simbolica a significare il silenzio che dal ’67 cadde sulle loro testimonianze che parlano di massacri, di evacuazione di interi villaggi, di uccisioni di civili inermi. Alcuni rimarcano che si identificavano con il nemico, altri paragonano se stessi ai nazisti, altri ancora, ampliando il paragone alla Seconda Guerra Mondiale, si vedono come gli aggressori.

Una voce dice: “Erano civili. Ma io non pensavo a quello. Pensavo solamente: uccidili, uccidi ognuno che vedi”.

Un’altra: “Nessuno di noi era un assassino, nella guerra lo diventammo tutti”.

Negli ultimi minuti solo alcuni commentano e uno dice: “Sono diventato meno sionista, meno patriottico, meno credente”. Un altro ancora: “Ero convinto che la pace fosse in arrivo dopo la guerra. Ero molto ingenuo”.

Ciò che ha spinto la regista alla realizzazione del documentario, pur nella consapevolezza che temi così esplosivi nel suo paese avrebbero incontrato innumerevoli ostacoli e una feroce opposizione, fino alle accuse di tradimento, è stata la convinzione, che condivide con Amos Oz, sulla necessità di mostrare la verità della guerra insieme al forte desiderio di un futuro diverso: “Credo che mio figlio di due anni e mezzo, abbia bisogno di un altro futuro in Israele. Sto lottando per un futuro diverso, per un futuro migliore – di pace e di due stati fianco a fianco o per qualsiasi altra soluzione. Non voglio continuare a essere in questo cerchio di sangue. Credo che gli Stati democratici dovrebbero essere trasparenti nella loro storia. Se questo film è una parte di questo, allora io sono orgogliosa di far parte di questo”.

Dopo il grande seminario di Diotima del 23 ottobre 2015, tenuto da Alessandra Allegrini, Vita senza esseri umani, avendo io fatto un intervento sulla cosiddetta teoria del genere, ho ricevuto questa lettera di Monica Benedetti che pubblichiamo con il suo consenso per la parte che interessa VD 3 (Luisa Mur.)

A proposito della presa della teoria del gender, tu rilevavi che ha avuto così tanta risonanza perché parla di qualcosa di cui la teoria della differenza non si è fatta carico, ma che chiedeva significazione.

Credo che questo qualcosa abbia a che fare con le pratiche sessuali lesbiche, gay e varianti varie, ma soprattutto con l’omosessualità, che il femminismo della differenza è stato per anni reticente nel nominare, o l’ha nominato lasciando la sessualità ai margini (es. omosessualità politica, affidamento, ecc.), sfumata o alludendo al fatto che fosse inessenziale. Questo è stato enormemente patito, lo so perché ad Agape mi sono trovata spesso di fronte ad obiezioni e accuse in questo senso da parte delle lesbiche impegnate nella politica della visibilità, che ha prodotto del resto moltissimo sapere, secondo me, e alla quale ho sempre riconosciuto tantissimo. Questa reticenza è stata inevitabile, perché l’urgenza politica era altra. Oggi che il pensiero della differenza ha spianato il campo fornendo a tutte/i un implicito riconoscimento simbolico e le parole per nominarsi in ogni modo possibile, sta emergendo anche questo aspetto, a lungo taciuto, anche se rischia di essere un’arma nelle mano di coloro che premono per una normalizzazione (lo vedo a scuola: nessuno sa nulla di certo sulla teoria del gender, ma identificandola con un’istigazione al sesso selvaggio, la usano come uno spauracchio per dimostrare la necessità di una controriforma). Che poi a me disturbi l’esibizionismo, il narcisismo, l’ostentazione di alcuni/e soprattutto del movimento queer, questo è un discorso a parte. Credo siano rivendicazioni senza intelligenza politica e senza una grande forza simbolica, anche se umanamente comprensibili e sacrosante. Per esempio fissandosi sulla parola “matrimonio” il movimento gay rischia di perdere l’interesse primario, legato al riconoscimento di alcuni diritti che ritengo utilissimi (gli stessi peraltro per i quali ho firmato il mio contratto civile di matrimonio). Credo che occorra mettersi all’ascolto di quanto questi movimenti stanno elaborando, perché sono prodotti della libertà generata dal femminismo, anche se non lo riconoscono. Tanto abbiamo imparato che finché sarà così necessario specificare le proprie preferenze/pratiche/tendenze/ossessioni sessuali, difficilmente si potrà parlare di libertà. 

Da Donne Chiesa Mondo

Suor Eugenia Bonetti è un fiume in piena. Parla della sua missione, dei suoi incontri con «le donne della strada e della notte» con la passione di chi a questa ha dedicato una vita e ne dedicherebbe anche un’altra, se fosse possibile. Nella sede dell’Usmi, dove coordina le suore di diverse congregazioni che lottano contro la tratta e la schiavitù, racconta iniziative e progetti con la freschezza e l’entusiasmo di una giovane donna. Eppure ha alle spalle decenni di lavoro, fatica e missione.

Da vent’anni si occupa della tratta delle donne, di quella che Francesco ha definito la schiavitù del ventunesimo secolo. Perché?

Non è una mia scelta, qualcuno l’ha fatta per me. Ho lavorato per molti anni in Africa e le donne sono state le mie maestre. Da loro ho imparato l’accoglienza, la gioia, la condivisione. Le donne africane nella loro povertà materiale sono straordinarie. Quando sono tornata in Italia, sono caduta in crisi. Mi sembrava di aver tradito la mia vocazione. Volevo tornare in Africa finché alla Caritas di Torino, dove lavoravo, ho fatto un incontro. Lo ricordo bene: era il 2 novembre 1993 e ho conosciuto Maria, una donna nigeriana, una prostituta malata con tre bambini, senza documenti. Lei ha capovolto la mia realtà missionaria, il modo di vivere la mia vocazione. Me l’ha mandata il Signore per farmi capire che la missione non era una questione geografica. Maria mi ha aiutato a entrare nel mondo della notte e della strada. Dopo ho conosciuto molte donne come lei: schiave, distrutte, oggetti disprezzati, usa e getta. Sfruttate dai miei connazionali che si dicono al novanta per cento cattolici. Ho capito che dovevo star loro vicina. E loro, come Maria, attraverso di noi suore hanno capito la diversità fra chi le sfruttava e chi le aiutava senza pretendere niente in cambio.

È stato quindi l’incontro con una donna che ha dato inizio alla sua missione?

Si è aperto un mondo nuovo. A contatto con queste donne ho cominciato a capire che non avevamo a che fare con la prostituzione, ma con una nuova schiavitù. In quegli anni neppure la polizia sapeva della esistenza della tratta. Solo noi, alcune religiose, abbiamo capito. C’erano in quegli anni a Torino tremila donne sulle strade che “servivano” cinque regioni diverse. Ci siamo avvicinate e abbiamo fatto proposte concrete: lo studio della lingua, l’assistenza sanitaria, il lavoro. Ho fatto da collegamento fra il nostro mondo e il loro, la conoscenza della loro lingua e dei loro Paesi mi ha facilitato.

Quale era in quegli anni il vostro problema più grande?

Potevamo aiutarle, ma non potevamo dare loro una legalità. I passaporti erano in mano ai trafficanti. Loro si erano sottoposte ai riti vudù ed erano convinte che quello che facevano era voluto dalle divinità, era per il bene delle loro famiglie. Se non lo avessero fatto il loro spirito sarebbe volato via. Dovevano pagare il loro debito ai trafficanti e alle “madame”. Allora erano decine di milioni. Oggi sessanta o settantamila euro. Intanto si distruggevano nel corpo e nell’anima.

Sono passati venti anni. Oggi lei lavora con 250 persone di 80 diverse congregazioni. Il lavoro contro la tratta ha fatto passi avanti.

Sì. Abbiamo fatto richiesta al governo di riconoscere l’esistenza della schiavitù, abbiamo fatto conoscere la realtà alle donne parlamentari, abbiamo ottenuto nel 1998 una legge che interviene sulla tratta. La legge ha aperto una grande porta. Una volta riconosciuta la tratta abbiamo potuto aprire case di accoglienza per le donne che tentavano di liberarsi dalla schiavitù. Nel 2000 mi sono trasferita a Roma per coordinare il lavoro delle congregazioni religiose che aprivano le case di accoglienza. Era l’anno del giubileo, volevamo lasciare un segno positivo, volevamo rompere davvero le catene, liberare le schiave. E farlo subito proprio quell’anno. Per questo 13 congregazioni hanno aperto le porte dei loro conventi a queste donne. E 250 religiose hanno cominciato il loro lavoro nelle case famiglia, nei centri ascolto, nelle unità di strada. Abbiamo capito che dovevamo unire le nostre forze. Tutti dovevano fare la loro parte: il governo, la Chiesa, le scuole, le famiglie, i mass media.

Quello della prostituzione e della tratta è un mondo duro da scalfire: molti sforzi e scarsi risultati. È stato così anche per voi?

Nel 2000 abbiamo dato alle congregazioni la possibilità di vivere l’anno santo in modo concreto, abbiamo aperto i nostri conventi. Da allora sono state salvate più di seimila donne. Accolte e aiutate psicologicamente e socialmente. Abbiamo fatto ottenere loro documenti, permessi di soggiorno, passaporti.

Qual è oggi la situazione della tratta? Rispetto al 2000 sono stati fatti passi avanti o c’è stato un arretramento?

C’è un dato negativo: la crisi economica ha pesato sulle donne che sono riuscite a tirarsi fuori dalla schiavitù. Sono le prime a perdere il lavoro. Ed ecco che è entrata in funzione la fantasia della carità. Per venire incontro a chi non ce la fa e non riesce più a vivere in Italia abbiamo fatto un progetto di rimpatrio assistito e finanziato. Abbiamo preso contatto con le suore del Paese di origine. Abbiamo chiamato le sorelle nigeriane, abbiamo fatto conoscere la situazione, i pericoli che le donne correvano. Dal 2013 abbiamo chiesto alla Caritas fondi per un progetto. Alle ragazze nigeriane che tornano a casa, si pagano il viaggio, l’affitto della casa per due anni, si dà loro qualche risorsa per aprire un’attività. Cerchiamo di resistere; il governo ha pochi fondi, molte onlus hanno chiuso, ma le nostre congregazioni con poco riescono a fare tanto. Ormai c’è una rete Talita Kum che coordina le suore dei Paesi di origine, di transito e di destinazione delle donne per sottrarle alla schiavitù.

Siete state sostenute nella vostra missione? Per esempio siete riuscite a coinvolgere le congregazioni religiose maschili?

Per ora proprio no. Facciamo un’enorme fatica a far loro capire. Le persone sensibili sono davvero poche. Eppure sarebbe importante: se non riusciamo a farle lavorare con noi, non cambia la cultura di fondo. E nelle parrocchie, nelle prediche dei sacerdoti non c’è mai un accenno alla realtà che noi cerchiamo di combattere. Dicono che è un affare di donne. No, rispondo, è un affare di uomini. Se ci sono nove milioni di richieste di prostituzione ogni mese è una questione di uomini. E, visto che siamo in Italia, di uomini cattolici. Il nostro lavoro futuro è diretto a coinvolgere le parrocchie, le diocesi, le conferenze episcopali. Ci auguriamo che l’8 febbraio, nella seconda giornata mondiale contro la tratta, intervenga la concretezza di Papa Francesco.

Dal 2013 vi recate al centro di accoglienza di Ponte Galeria, a Roma: cosa riuscite a fare per queste donne?

Vi andiamo tutti i sabati: lì incontriamo la disperazione assoluta. Queste donne non hanno niente, solo il letto nel quale dormono, e non fanno niente dal mattino alla sera. Non hanno neppure una stanza in cui stare insieme. Non sanno nulla del loro futuro. Facciamo quello che possiamo: le mettiamo in contatto con i Paesi d’origine, cerchiamo di accoglierle nelle nostre case. A volte ci sembra di non combinare niente. Qualcuno ce lo ha anche detto. Che andate a fare lì? Sa che cosa ha risposto una sorella? «Facciamo quello che la Madonna ha fatto sotto la croce». Non è riuscita a cambiare niente ma è morta con suo figlio.

Di fronte al grande esodo di chi fugge da guerra e fame, in molti oggi parlano della necessità di accoglienza: per lei che cosa è?

Per me accogliere significa dare il futuro a una donna, dirle che non è sola, farle capire che nella sua vita possono esserci amore e gioia.

Quale è il rapporto con la fede delle donne che incontrate sulla strada?

Le nigeriane, in particolare, ci chiedono subito il rosario e la Bibbia. Si nutrono della parola di Dio, sono più religiose di noi. Vivono una terribile dicotomia. Maria mi diceva: ogni mattina prima di lasciare il marciapiede chiedevo perdono al Signore. Sapevo che quel che facevo era male ma sapevo anche che la sera sarei tornata.

Tolstoj una volta ha detto: la prostituzione c’era prima di Mosè e c’è stata dopo. Ci sarà sempre. Non si può non constatare la verità delle due prime affermazioni: che cosa risponde alla terza? Davvero ci sarà sempre la prostituzione?

C’è la prostituzione volontaria e quella forzata. Sono due cose diverse. Nella prima la donna usa il proprio corpo, ma la seconda è schiavitù. Una donna nelle mani dei trafficanti arriva a quattromila prestazioni per pagare il suo debito. Alla fine non è più lei. L’Africa non può permettersi di distruggere una generazione di donne. Se lo fa, muore un intero continente.

Sta per suonare la campanella del primo giorno di scuola della prima elementare. Li vedete? Bambine e bambini riempiono il cortile di urla e risate. In un ambiente nuovo, ritrovano qualcuno che conoscono e, dopo un attimo di sospensione ed esitazione, rotolano in un’allegria nuova, si stringono e si allontanano per farsi coraggio e rendere vero, ancora per un po’, che l’amica del cuore sarà di certo la compagna di banco.

Dietro ci sono i genitori, probabilmente intimoriti dal primo impatto con una pesante “istituzione”, sicuramente attraversati dai ricordi di quella curiosità e quella paura che leggono negli occhi dei figli.

E se i genitori sono due mamme? Probabilmente sono partite molto tempo fa a informarsi sulle scuole “giuste”, quelle con dirigenti e maestre aperte al reale che cambia e non troppo intimorite dalle difficoltà che i cambiamenti pongono a ciascuno. Forse si guardano intorno con più circospezione, domandandosi se le maestre “lo sanno”, studiando gli occhi e le movenze delle altre mamme e papà, alla ricerca di un segno di apertura: questo spazio comune è praticabile per tutte e tutti, magari con un filo di felicità.

Poi la burocrazia sommerge tutto: assicurazione, anticipo dei soldi per le attività extrascolastiche (perché nomi così brutti? Perché non ci sono più le “gite”?), deleghe per il ritiro dei bambini da parte di tate, nonni, zie, amici. Eccolo il panico arrivare. E se oggi lei non può ritirare il figlio perché non c’è ancora la delega? Lei “non è nessuno” dal punto di vista della legge, di fatto è la mamma per il bambino. Questa è la vertigine che ti prende quando irrompe nella tua vita il controllo dell’istituzione, quel potere fatto di regole già scritte che sanciscono in astratto cosa deve essere, tutto il resto essendo fuori norma e quindi un problema. Ricordo ancora la prima volta che ho preso un aereo con mia figlia, che aveva poco più di un anno. Da sconsiderata, non avevo portato alcun documento della piccola. La ragazza del check-in non voleva farci passare, non potendo provare che la bambina fosse mia figlia, nonostante l’evidenza di una creatura aggrappata a me con fiducia, mentre misurava con gli occhi lo spazio enorme che la circondava. Abbiamo parlato e ha prevalso il buon senso. Ecco, buona parte del necessario per trovare mediazioni creative è già lì, a portata di mano: una relazione fiduciosa con le maestre, il porsi quotidiano nella propria realtà di famiglia, l’attenzione per il bambino e le sue relazioni amicali. Ma davvero conosciamo queste possibilità?

L’ansia che prende di fronte ai muri della burocrazia può venire quando ci si sente sole/i contro tutti e prive/i di forza in una realtà che si percepisce ostile. Tuttavia un’alternativa esiste, ed è quella che ho suggerito a un’amica in questa situazione: fai leva su quello che c’è, non su quello che manca; punta sulla relazione con le maestre e sulla fiducia nelle capacità inventive tue e altrui. È la politica delle relazioni, che scommette sulla presa di coscienza a partire dalle domande più semplici: chi è l’altra, l’altro? Che cosa posso fare io per condividere con maestre e genitori un’idea grande di scuola? Posso esserci in prima persona, farmi carico del desiderio di avere una scuola all’altezza del mondo che cambia e dire pubblicamente la verità, sdrammatizzare le paure, puntando su relazioni che restituiscano senso e valore alla comune esperienza.

Resta la contraddizione aperta di essere “inesistente” rispetto a quanto stabilito dalla legge, che è il punto controverso ogni volta che abbiamo a che fare con la materia dell’esistenza e della libertà umana, per lo più femminile: amore, vita, morte, maternità, sessualità, desiderio, libere relazioni. Clara Jourdan, in un pezzo scritto per il sito della Libreria (Due donne (o due uomini) e le loro creature, 4/6/2015), afferma che se nei legami omosessuali «nascono o entrano creature piccole, il rapporto delle persone adulte con queste creature viene inevitabilmente iscritto nelle forme giuridiche previste dall’ordinamento. Così, mentre in una coppia donna-uomo non sposata entrambi sono genitori dei loro figli a tutti gli effetti, ormai, in una coppia dello stesso sesso no, e si crea una situazione magari ben saldata dall’affetto ma certamente difficile da vivere, sottoposta a continue prove, perché il rapporto tra genitori e figli minori è sempre più pervasivamente controllato dalle istituzioni». Sono d’accordo con lei e auspico che il disegno di legge sulle unioni civili e l’adozione, in questi giorni al Senato, vada in porto. È importante che la realtà sia vista e vengano registrate le trasformazioni avvenute nella ricerca libera della maternità o paternità, pur sapendo che non dipende da una legge la qualità dei legami sociali.

Suor Eugenia Bonetti, in una recente intervista a proposito del suo lavoro con le prostitute ridotte in schiavitù, ha sciolto con semplicità la contraddizione necessità/inessenzialità dei diritti raccontando di aver ottenuto una legge che «ha aperto una grande porta. Una volta riconosciuta la tratta abbiamo potuto aprire case di accoglienza per le donne che tentavano di liberarsi dalla schiavitù.» (Le suore, per esempio…, da Donne Chiesa Mondo, 1/10/2015). Da anni lavorava con le vittime della tratta con altre suore, e il suo impegno è nato dall’incontro con una donna nigeriana che l’ha coinvolta così tanto da cambiarle la vita. Suor Eugenia non ha aspettato la legge, ma ha lottato perché questa potesse aiutarla a farsi ascoltare dove c’era più sordità. Le leggi e le politiche istituzionali, quando ci sono e funzionano, possono aiutare a risolvere problemi concreti e offrono risorse per un lavoro tutto da fare. I veri cambiamenti restano certamente nelle mani di donne e uomini in carne e ossa, chiamati a dare senso all’esistenza quotidiana a partire dalla libera e mutevole espressione di sé.

Mentre il 3 ottobre a Catania, all’interno della Palestra Lupo, scorrevano le immagini del film di Antonino Maggiore Lampedusa 2013, i giorni della tragedia sul naufragio di oltre 364 donne, bambini e uomini eritrei annegati il 3 ottobre 2013 a Lampedusa, nel cortile esterno della Palestra venivano rifocillati parecchi uomini e una donna, Aisote, provenienti da paesi del Corno d’Africa, prelevati insieme ad altri e altre nel mare antistante le coste libiche da una nave della missione Triton e sbarcati al porto di Catania, città che da poco tempo si è assunta il triste incarico di ospitare una delle maggiori sedi europee di Frontex.

Sulla stessa nave e su una banchina del porto erano avvenuti i riconoscimenti e date le recenti disposizioni i 30 uomini e Aisote non sono stati accettati come “richiedenti asilo” ma dichiarati “migranti economici” e per questo espulsi dall’Italia e diffidati a lasciare il Paese entro 8 giorni…

Ora un team di avvocate/i delle associazioni cittadine Rete antirazzista Catanese, La Città Felice, Borderline Sicilia e altre che hanno a cuore la permanenza in città di donne e uomini migranti, che sia di breve durata o che inciampi in tempi più lunghi… (questo per i migranti che vengono segregati al CARA di Mineo o negli “hot-spot” siciliani), si sta preoccupando di formulare i ricorsi legali per evitare l’espulsione di quegli uomini e dell’unica donna. Nel frattempo si sta provvedendo, così come avvenuto altre volte, a una raccolta di fondi, di indumenti e generi di prima necessità per gli uomini, ospitati per il momento dalla Moschea cittadina, mentre Aisote, partita dalla Sierra Leone e provata dalle violenze subite nell’arrivare sin qui, è stata accolta dalla “Locanda del passeggero”, un ostello protetto gestito dalla Caritas.

Da questa esperienza, vissuta alla luce di quella che non può più essere considerata un’emergenza, bensì una questione contingente, penso che per inoltrarsi nella questione dell’accoglienza e elaborarla al di là di pregiudizi e percezioni indotte, sia possibile l’esercizio e l’impiego di nuovi sensi e nuovi sguardi per rivolgerci alle genti venute da lontano. Uno slancio che io sento in me consiste nel provare a inquadrare donne e uomini migranti in una “cornice di bellezza”, disponendomi interiormente a volerli/le incontrare in carne e ossa, ascoltare storie dalle loro voci, ammirarli nei giovani volti e nel modo di abbigliarsi, apprezzare la volontà d’imparare le lingue degli altri e interagire con abitudini diverse…

Può essere questa la postura buona per non patire i rimpianti di “un tempo che fu”, affrontare il cambio di civiltà nel quale siamo immerse e recepire nel profondo le ragioni di popoli obbligati ad abbandonare paesi e case per andare incontro a rischi, incognite e imprevisti.

Catania è città accogliente non certo per i provvedimenti mai presi dall’amministrazione comunale, dalla prefettura ecc., come ad esempio installare i bagni chimici alla stazione… Lo è per l’operato di alcuni e alcune che tengono aperti 24 ore luoghi dove è consentito ai migranti lavarsi, cambiarsi d’abito e nutrirsi, di coloro che stazionano alle partenze dei treni e dei bus per dare sostegno e riferimenti sicuri a chi continua a spostarsi e deve affrontare altre tappe prima di arrivare a destinazione. Noi facciamo che Catania sia accogliente anche andando all’esterno del CARA di Mineo a stringere mani, condividere abbracci, dare consigli e informazioni in varie lingue agli uomini e alle donne che incontriamo quando escono a passeggiare fuori dai cancelli del famigerato “Villaggio degli aranci”.

Non è facile raccontare l’amore tra due donne, mettere in scena la quotidianità fra impegni di lavoro e momenti di intimità, mostrarne la ripetitività nei gesti, nelle abitudini, nelle piccole ossessioni maniacali, nella necessità di spazi e tempi personali come nella condivisione del piacere dato dalla reciproca compagnia. Perché se si fa eccezione dal circuito molto esclusivo del cinema indipendente gay e lesbico che, a partire dalla metà degli anni settanta ha portato i suoi pregevoli contributi – ne cito uno per tutti, Go fish, il film cult di Rose Troche (1994) – non ne esistono molte altre rappresentazioni.

Ero consapevole di ciò mentre scorrevano le scene di Io e lei, l’ultimo lungometraggio di Maria Sole Tognazzi, di cui è anche sceneggiatrice insieme a Francesca Marciano e Ivan Cotroneo.

Ancora oggi parlare nel cinema di sessualità femminile nell’espressione della sua soggettività libera trova molte reticenze. È del 2010 il film di Lisa Cholodenko I ragazzi stanno bene – premiato ai Golden Globe e con quattro candidature agli Oscar – che raccontava di una relazione stabile fra due donne, ognuna delle quali con un figlio avuto con la fecondazione artificiale; era ambientato nei quartieri agiati di Los Angeles fra la borghesia liberal dove l’esistenza di queste nuove famiglie non costituiva un’eccezione, assorbita com’era in una consolidata coesistenza.

Per queste ragioni mi pareva interessante portare qualche riflessione sul nuovo lavoro della regista, su come il soggetto del film abbia trovato la giusta ambientazione in uno scenario tradizionale, quello della media borghesia romana di professionisti affermati, non particolarmente sensibile ai nuovi rapporti di convivenza che stanno venendo allo scoperto e lontano dal mondo della trasgressione o della intellettualità di sinistra. Evitando stereotipi di ruolo ha mostrato come, all’interno di case borghesi ben arredate, non si muovono più le vite di famiglie tradizionali; in un contesto sociale in grande trasformazione inscena il cambiamento nei rapporti familiari e di coppia e lo vuole mostrare come un processo in atto per cui la relazione fra due donne è visibile, di fronte a tutti e accettata.

Al centro del film stanno le difficoltà, i conflitti e le stanchezze della coppia Federica e Marina, contraddizioni che assumono particolare evidenza nel personaggio di Federica, donna nevrotica e insicura, le cui reticenze, dubbi e ritrosie spiegano la sua confusione e la poca chiarezza sui propri desideri sessuali, lei che nella coppia si considera l’eterosessuale.

La costruzione di questo personaggio controverso permette alla regista di mostrare una storia d’amore tra due donne che trascende le rigide gabbie delle cosiddette predisposizioni sessuali, una positività in più del film e una vittoria del femminismo che ci ha trasmesso il senso dell’amore fra donne come una scelta libera.

Se al film di Maria Sole Tognazzi si riconoscono questi meriti le critiche, che sono d’obbligo e importanti, diventano meno distruttive. Ad esempio la recitazione molto trattenuta, soprattutto di Margherita Buy rispetto a Sabrina Ferilli, pare mostrare una qualche difficoltà dell’attrice di immergersi completamente nella parte, quasi spaventata nel dare voce e corpo alla sessualità fra le due donne. Poi ancora: la conclusione del film pare poco meditata proprio nelle ultime scene che sono quelle risolutive; come totalmente trascurata appare la narrazione delle premesse della loro la storia d’amore, quell’attrazione, quell’innamoramento che spiegherebbero una convivenza di cinque anni, mentre tutto si concentra sulla crisi del loro rapporto, scelta registica anche comprensibile per far meglio emergere nel conflitto le differenze dei due caratteri.

Per finire: ho trovato di particolare efficacia simbolica la scena in cui Federica, madre di un figlio ventenne, cerca un rifugio momentaneo nella casa che il ragazzo condivide con altri studenti, e quelle scene che mostrando le sue riflessioni, in flashback e attraverso opposizioni di immagini, confrontano le sue relazioni con gli uomini e quella con Marina: determinanti per sciogliere i suoi dubbi.

Scrivo sull’onda dell’irritazione provocata dal contributo Accoglienza? (pensieri dopo l’incontro VD3 del 13/9/2015) di Unachec’è , un’irritazione che col tempo, discutendo con le amiche, si trasforma in rabbia: perché la redazione di Via Dogana 3 sceglie di pubblicare articoli di questo tipo?

E così mi decido a scrivere, per rendere politica la mia rabbia. Si tratta un testo che esprime un punto di vista scomodo, ma la ragione della mia irritazione nasce dal fatto che mostra una posizione d’impotenza, di chiusura difensiva e allo stesso tempo aggressiva, che non permette trasformazione, e di cui ho subito le conseguenze nella mia esperienza personale. So infatti cosa vuol dire vivere un anno in un paese straniero e sentirmi fastidiosa, perché estremamente bisognosa.

Dopo l’università ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio in Inghilterra che mi avrebbe rimborsato le spese di un master. Ma non avevo soldi da anticipare per pagare le tasse universitarie né per pagare la stanza dello studentato. Sono partita da sola, non capivo assolutamente nulla quando le persone mi parlavano (ho studiato francese a scuola) e il master era complicatissimo ma fondamentale per trovare lavoro.

Sapevo di avere anche delle risorse interiori, probabilmente come gli immigrati che arrivano qui. Tanti hanno una laurea, molti vengono da famiglie benestanti, ma quando arrivano da noi non conoscono la lingua, non hanno soldi e cercano un lavoro. Proprio come me.

Non conoscere la lingua è un’esperienza terribile, specialmente se non sei nel tuo paese e non conosci nessuno. Ricordo ancora il senso di disperazione quando un giorno mi sono persa tra le migliaia di spettatori alla gara di cavalli di Ascot, lontano dalla cittadina dove studiavo. Ero andata a fare la cameriera un fine settimana e ho perso l’orientamento tra le migliaia di cappelli colorati. Ero sola e non sapevo come chiedere aiuto, ero nel panico. Ho vagato per ore piangendo senza che nessuno nella folla festante si accorgesse di me.

Una chiave magica mi ha aiutato, come i personaggi delle favole di cui parla Marta Equi in Farsi forza stanca. Avevo con me la voce di mia madre che mi diceva che ero intelligente, forte, che ce l’avrei fatta. Ero così forte da trovare il coraggio di mostrare anche la mia fragilità, la mia fatica, lottando con il senso di vergogna.

E così un giorno ho incontrato un ragazzo del Qatar, di quelli ricchissimi che sposano tante mogli e faticano a parlare con le donne. Uno che ha saputo spiazzare la femminista che c’è in me: ha capito la mia situazione e mi ha prestato tanti soldi, chiedendomi solo di non dirlo a nessuno perché, come diceva lui, le persone possono pensare male.

E poi una ragazza africana mi ha portato nel ristorante dove lavorava lei. Nonostante sapesse l’inglese meglio di me, doveva lavare i piatti come tutti quelli di colore, con una paga molto bassa, mentre noi bianchi potevamo servire ai tavoli. Io faticavo ad accettare questa ingiustizia ma lei diceva che aveva problemi più grandi. La sua preoccupazione era la nostalgia per suo figlio, rimasto al suo paese con la nonna perché il padre del bambino non aveva abbastanza soldi per garantire il loro matrimonio. Finita l’urgenza del natale hanno lasciato a casa me: bianca sì, ma saper parlare conta.

Una perfetta sconosciuta, che conosceva quello che stavo passando io, mi ha poi accompagnata in banca per poter aprire un conto. Era italiana e l’ho incontrata solo in quell’occasione, ma è stata fondamentale per affrontare il mio panico. Non capivo una parola di quello che diceva l’impiegato e dovevo firmare mille carte. La sua presenza fugace mi ha salvato.

Più difficile è stato con i compagni di corso, quasi tutti inglesi. Erano tra l’altro più giovani di me e faticavano a collaborare con una donna più grande, straniera, e pure piagnucolona. Faticavano a capire cosa stessi passando. Ma anche la mia compagna tedesca era irritata dal mio pianto quotidiano, durato mesi. Anche lei era straniera ma non piangeva come me! Le mie lacrime scendevano anche a lezione, senza il mio permesso. Eppure in Italia ero considerata una donna solare, ottimista, vivace…

Fortunatamente al master un’irlandese cattolica praticante ha spiazzato l’anticlericale che c’è in me. Nonostante il mio professarmi atea, mi ha accolto portandomi a ballare le danze irlandesi, parlandomi della sua chiesa e aiutandomi con il programma di genetica del nostro corso.

E così non ho mollato. Ho messo tutta me stessa, senza nascondere la mia miseria. E questo mi ha regalato la possibilità di far emergere anche la Sara migliore dall’indistinto degli stranieri che invadono i campus universitari e creano in modo difensivo comunità tra loro.

Questa avventura mi ha regalato sicurezza interiore, che ora mi gioco ovunque, e che nasce dalla consapevolezza che se mi do la possibilità di mostrare le mie fragilità, e di stare in ascolto di quelle altrui, mi arriva forza.

Un’amica che stimo mi obietta che la situazione degli studenti stranieri nei campus universitari non è confrontabile a quello che sta avvenendo ora in Europa, con milioni di persone che fuggono da guerre e povertà. Si tratta di una giusta obiezione. Tuttavia penso che partire dal mio vissuto mi faccia intuire verità che potrebbero illuminare anche discorsi più ampi. Io so cosa vuol dire sentirsi sola e impotente. Le discussioni sull’immigrazione raccontano di milioni di disperati che arrivano nel nostro paese. Guardano l’insieme, ma penso che sia fondamentale non perdere lo sguardo che vede le singole vite, partendo da sé. Quando incontro queste persone sul mio cammino mi si riattiva la memoria di quel periodo, che mi permette di fare quella mediazione necessaria a cambiare postura nei loro confronti, a superare la fatica data dall’incontro con persone molto bisognose. Per riuscire a farlo bisogna superare il disagio nei confronti di un’alterità che ci spinge con forza verso un cambiamento radicale, di cui gli immigrati stessi sono testimoni, e che spaventa. Affrontare quella fatica regala la possibilità di incontri che possono spiazzare, perché gli incontri non sono mai con le masse indistinte, ma con singolarità che spesso hanno vissuti intensi e affascinanti.

Gli stranieri che “invadono” il nostro mondo ci pongono questa sfida: riuscire a fare spazio per l’altro, anche quando è irritante, per diventare noi stessi altro. Si tratta di una postura trasformativa, che viene dall’ordine simbolico della madre. Questo è quello che mi rende orgogliosa di potermi definire femminista, il “mio valore assoluto”.

E scrivendo mi rendo conto che ora desidero ringraziare la redazione di Via Dogana 3 che ha avuto il coraggio di pubblicare un testo così irritante, perché abbiamo bisogno di poter mettere in parole la nostra rabbia.

Il 13 settembre 2015 sono stata invitata a parlare a Via Dogana3 e ho accettato.

Nell’ultimo incontro di luglio avevo raccontato la mia depressione, quella che mi fa perdere la capacità di ragionare e quella che opacizza il mio slancio vitale lasciandomi una sorta d’infelicità costante. È la mia fatica di vivere con cui combatto ogni giorno e che mi fa sentire minacciata dalla sofferenza, soprattutto degli altri. Tenerla a bada non è facile, anzi è un bel po’ faticoso, bisogna puntare sulle proprie risorse, riconoscerle e nutrirsi.

Io trovo la mia principale risorsa nelle relazioni con altre donne che in questi anni, soprattutto in Libreria, ho imparato a costruire. Sento che mi aiutano a guadagnare spessore: imparo a portare avanti il mio sentire e la mia verità, imparo a dargli valore.

All’inizio era un guadagno solo per me ma poi ho capito che posso farne di più e non devo lasciarlo muto e ho deciso di cominciare a raccontarlo. Qui come altrove, nel lavoro per esempio, dove un paio d’anni fa, per mancanza di spazio, l’ufficio del personale dell’istituto ospedaliero dove lavoro ha deciso di ricollocare la mia scrivania in un open space. Ho trascorso delle giornate pesanti, amareggiata. Sentivo una forte svalutazione del mio lavoro e ho deciso di parlarne con la referente del personale. All’inizio mi rispondeva che non c’erano altre possibilità, che non si poteva fare nulla, invitandomi ad avere pazienza. Ma io non ho rinunciato: sono tornata a parlarle tempo dopo, spiegandole che non riuscivo a fare bene il mio lavoro e che questo per me era mortificante, che mi faceva perdere passione e che il rischio di errore era alto e questo era un problema, anche se non direttamente, anche per i pazienti dell’ospedale. Ho preso il coraggio di dare voce a questo mio sentire confidando che si capisse dalle mie parole il valore che aveva per me e alla fine non ho ottenuto una scrivania migliore ma ho ottenuto qualcosa di più. Ho ottenuto un riconoscimento di fiducia che si è tradotto nella libertà di poter lavorare fuori istituto se ne ho la necessità, per potermi concentrare adeguatamente o collaborare con altri. E questa libertà è diventata una possibilità anche per la mia collega. E in modo simile altri colleghi di un altro Istituto hanno pensato che anche per loro, in condizioni di spazio inadeguate come le mie, questa potesse essere una possibilità da cercare.

Anche durante l’incontro di Via Dogana 3 del 13 settembre, mettendomi alla prova, ho trovato un modo per farmi forza e l’ho trovato nell’assumermi la responsabilità di parola, pubblica, con le donne e gli uomini che erano presenti lì.

Le relazioni fra donne, il femminismo, mi hanno aiutato, ma la fatica di vivere rimane. Dobbiamo sapere che non si può pretendere di trovare la soluzione definitiva che ci permetta di uscire dal senso d’impotenza una volta per tutte, ma potersi affidare a relazioni che rendano più sopportabile la mancanza non è poco. Marta Equi nel suo testo intitolato Farsi forza stanca e pubblicato in Via Dogana 3, il 23 settembre 2015 scrive: «Farsi forza è un atto solitario, ma a volte c’è bisogno anche di un aiuto, di un segnale dal mondo per non desistere». La depressione toglie energia e ci fa chiudere in noi stessi, ci fa vedere principalmente le nostre mancanze. Ma anche riconoscere una mancanza può essere un punto di partenza: parto da dove manco io e mi affido a qualcun altro perché magari insieme riusciamo a vedere altro, possiamo darci forza.

La crisi fa parte della vita perché implica trasformazione e questo non ci deve spaventare, sostiene Claudio Vedovati durante l’incontro. Riprendendo il tema degli immigrati, Claudio ha evidenziato come la loro scelta di emigrare sia una scelta verso la vita e le nostre preoccupazioni nei confronti degli immigrati provengano dalla nostra paura del cambiamento. La scommessa è vedere l’opportunità che ci stanno dando e il primo passo è cambiare lo sguardo su di loro. Non è vero che non hanno scelta, questa è la visione depressiva nostra che attribuiamo a loro. Ed è la stessa che ci porta a dire che non possiamo accogliere gli immigrati perché non abbiamo abbastanza ricchezze, lavoro, spazio… Il sentirci senza possibilità di scelta nasce dal fatto che rappresentiamo le nostre difficoltà materiali come miseria simbolica. Questo secondo me è un bell’esempio di quello che dicevamo la volta scorsa: la verità soggettiva è ciò che muove, sentirsi ricchi o poveri, sentire la possibilità di dare o di chiudersi in una posizione difensiva, dipende tutto dallo sguardo, mettendo a tacere per un po’ il proprio senso di impotenza e dando valore all’incontro con l’altro (con l’altra nel mio caso).

Mentre in questi ultimi mesi assistevo angosciata alla quotidiana conta dei morti e dei sopravvissuti al naufragio dei barconi, spesso mi tornava alla mente il bel libro della storica Anna Bravo La conta dei salvati. E mi chiedevo: poteva oggi l’Europa combattere la politica di sangue versato dell’ISIS con una politica di sangue risparmiato? Avrei voluto scriverne su Via Dogana ma l’obiezione di un’amica (“L’accoglienza indiscriminata non farebbe che favorire populismi e fascismi”) mi bloccava nella scrittura. Ero un’ingenua? Era buonismo? Dentro di me mi rifiutavo di nominarlo in questo modo.

Pensavo con rabbia che immersi in questo presente narcisista e smemorato – considero l’ignoranza della storia nel nostro Paese una vera e propria emergenza sociale – molti non si rendono conto di ciò che sta accadendo: non diventa una menzogna il Giorno della Memoria se tornano recinzioni e campi?

Intanto la situazione ai confini orientali precipitava: migliaia di profughi erano in fuga dalle guerre sulla rotta balcanica e – nonostante Schengen – si cominciavano a costruire nuovi muri.

Dove vai Europa? Mi chiedevo di fronte al disastro.

Poi – per molti una sorpresa – la Germania decide di aprire le frontiere: quando vedo le immagini dei profughi che a Monaco scendono dai treni gridando “Germany! Germany!” accolti dalla gente che canta “l’Inno alla Gioia” – l’inno dell’Unione europea – l’impatto su di me è molto forte: è come se assistessi a un rovesciamento della storia, perché vi si sovrappongono immediatamente le immagini di altri treni che settant’anni fa partivano dalle stazioni verso i campi di sterminio, quando gli inneggiamenti alla Germania avevano tutt’altro segno.

Due/tre generazioni di tedeschi – possiamo dire altrettanto degli italiani o dei francesi per la parte che li riguarda? – hanno fatto i conti col peso di questa storia: due delle mie più intime amiche sono tedesche e me ne sono fatta un’idea.

Merkel ne era ben consapevole quando ha preso la sua decisione.

Non mi nascondo che gli anni a venire “non saranno un pranzo di gala”: ma non tutto si può ridurre a scelte di economia (a questo proposito è necessario anche demolire alcuni luoghi comuni sugli effetti negativi dell’immigrazione: lo fa Danilo Taino su “La lettura” del 20/9, “Il migrante conviene. Meglio se istruito”); e credo sia necessario dare risposte concrete alle paure della gente.

Intanto però centinaia di migliaia di persone scelgono l’Europa, non il sedicente Califfato: questo è un bel colpo per la sanguinaria politica dell’Isis, che infatti si è affrettato ad accusare di apostasia i fuggitivi. Ma inutilmente.

P.S. http://video.repubblica.it/dossier/immigrati-2015/monaco-l-applauso-della-gente-ai-migranti-il-video-della-bbc-trionfa-sui-social/210919/210067

Sull’intervento «Ma dove trovo io la forza?» vorrei rispondere che capisco la rabbia e la pietà di Marirì Martinengo. La capisco anche quando scrive meglio sarebbe rimanere in vita – far durare la
vita – solo finché le proprie energie assicurano l’autonomia. Con queste parole lei termina il suo breve scritto. Sembra terminare, ma non è così, e lo si capisce. A questo punto occorrerebbe parlare di libertà di scelta che sulla vita nostra e su quella degli altri non abbiamo. Non l’abbiamo per fede religiosa o per non incorrere nei divieti che pongono la società e le leggi vigenti. Spesso anch’io vorrei farla finita con le mie sofferenze; per ben due volte, di fronte a diagnosi infauste di malattie incurabili e dei conseguenti interventi chirurgici incerti, sono stata vicina alla morte: ero pronta ad incontrarla al punto da desiderarla. Ma non è successo.
Dopo, in qualche modo, arriva la forza per continuare a vivere, arriva misteriosamente proprio quando ci si arrende e dalla vita non ci aspettiamo più niente. Sono passaggi reali, in cui si viene come lanciate in un altrove, in una dimensione altra, libera anche se fatta di lotta e di pazienza. Si tratta di una dimensione dove può capitare l’impensato, quello di ricevere una forza misteriosa ed esagerata, come l’amor che move il sol e l’altre stelle (Dante); oppure come quello che insegna la mistica Hadewijch d’Anversa: si può vivere lottando fino all’esaurimento delle forze solo per la vittoria di essere sconfitte. Questo è il punto in cui la nostra libertà è completa, troviamo la vera misericordia e la vera pietà, se non altro verso noi stesse/i. Sì, facciamoci forza!

La risposta alla domanda posta in preparazione della riunione di Via Dogana 3, del 13 settembre 2015, mi è arrivata immediata la sera prima dell’incontro, davanti alla TV: avrei scelto un’istantanea del lungo abbraccio tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci a conclusione della partita finale degli US open, e sotto vi avrei scritto “omosessualità”. Due donne giovani, della bellezza comune a milioni di altre, abbracciate strette, sorridenti e felici. Per la loro straordinaria vicenda, una vita di amicizia e di gioco in comune, arrivate a misurarsi l’una di fronte all’altra nella finale della gara più importante del mondo, la vittoria di entrambe. E avrei affiancato a questa, un’altra istantanea, quella della vincitrice dell’incontro, Flavia Pennetta, mentre in un angolo del campo si tende verso la balaustra che limita lo spazio riservato al pubblico, per scambiare un bacio con il fidanzato che si sporge verso di lei. Sotto vi avrei scritto “eterosessualità”.

Mi sembrano due immagini capaci di trasmettere una verità elementare che pure può sfuggire: che l’omosessualità è fatto di donne che provano affetto, amore, stima l’una per l’altra, e che l’eterosessualità è legame simile che una donna coltiva con un uomo. Che l’omosessualità femminile è lì, alla portata di tutte, un di più per ogni donna che voglia cominciare a vederla, a percepirla, a coltivarla.

So che questa visione dell’omosessualità femminile non ha quella particolare coloritura, quella tensione, a volte dolorosa, che si avverte nei racconti e nelle vicende di donne che si definiscono lesbiche e che ascolto con attenzione e rispetto. Ma quella tonalità non mi corrisponde. Nella mia storia passata ho rischiato, al contrario, di vivere legami di intensa amicizia, sentimenti amorosi, attrazione nei riguardi di donne, senza dare loro un particolare significato. A vent’anni, agli inizi degli anni settanta, l’ombrello della liberazione sessuale pareva più che sufficiente a spiegare e nominare quanto mi accadeva. Adesso direi che quell’ombrello era sufficiente a disinnescarne il valore, ad offuscarne il significato. Solo con la scoperta e la comprensione del pensiero che circolava intorno alla Libreria delle donne, quei legami hanno assunto per me un significato fino ad allora inimmaginabile, sono diventati dei segni, fra i tanti disseminati nella mia vita, che imparavo a riconoscere, a connettere in una lettura che avesse un senso proprio. Questa è storia nota, ben raccontata da tante donne. Ed è storia diventata vincente, che ha già cambiato la vita di moltissime che si muovono in un mondo ricco di relazioni femminili significative. Ne sono pieni la cronaca, i giornali. È la visione che i luoghi pubblici o i luoghi di lavoro ci offrono tutti i giorni: donne insieme, che si parlano fitto, che si abbracciano strette, che discutono animatamente a due, a tre, a quattro. Insomma, aperta omosessualità femminile. Un sesso che si riconosce nella propria differenza e che a partire da tale riconoscimento intesse relazioni che coprono l’infinita varietà delle attività umane, dei sentimenti, degli interessi, dei giochi che la vita propone.

Per questo l’immagine di due donne abbracciate, felici per una vittoria che sembrano sentire comune, davanti a un grande pubblico ammirato, mi pare oggi adeguata a rappresentare l’omosessualità femminile. Certo è un processo che non arriva ancora a incidere in molti ambiti della vita pubblica, ma è in atto.

E infine, per riderci un po’ su (e forse non tanto): fu vero sesso? Ma di fronte a quelle due che si stringevano per un tempo che credo sia parso a tutti lunghissimo, che si parlavano all’orecchio, si accarezzavano davanti agli occhi del mondo, a chi importerebbe sapere se ve ne fu? chi oserebbe pretendere che non ve ne sia?

La mancanza di Tutto, mi impedì

Di sentire la mancanza delle cose minori.

Fosse stato lo scardinarsi di un mondo

o l’estinguersi del sole, nulla era cosi importante

Da farmi alzare il capo,

Dal lavoro,

Per curiosità

Emily Dickinson


Mentre ascoltavo la discussione di Via Dogana di domenica 13, pensavo che tutto era interessante, ma la proposta di parlare di depressione, quella, era la cosa essenziale.

Ringrazio Laura per averlo fatto.

Parlerò di male di vivere, che è qualcosa che sta nella sfera della depressione, non è la stessa cosa, ma può avere conseguenze simili.

Sul male di vivere mi interrogo da tanto e sono felice di poterne parlare a proposito adesso. A volerla dire tutta, lo vivo da quando mi ricordo di pensare.

Avevo 7 anni e scoprii il significato di una parola, inquietudine, che mi parla non di infelicità, depressione, angoscia, connotazioni troppo negative, ma nemmeno di malinconia, troppo poetica. Inquietudine è per me tutto questo insieme. Allora me ne andavo in giro dicendo “ho l’inquietudine.”

Il messaggio che ora sento arrivare dalla Libreria, è appunto il farsi forza, trovare la forza, essere forza.

Quello che vorrei dire è che farsi forza, stanca. Farsi forza è un atto solitario, ma a volte c’è bisogno anche di un aiuto, di un segnale dal mondo per non desistere. Come nelle favole, va bene essere buone, avere sale in zucca e lavorare sodo, va bene superare le prove… ma a un certo punto c’è sempre una fata o un animaletto che ti fa forza.

L’altro giorno ero in cucina a lavorare su qualcosa di cui ho perso memoria, affaticata dal non senso che spesso percepisco intorno, e ho sentito una melodia molto gradevole. Continuo a fare, scrivere al computer probabilmente. La melodia continua, mi alzo e automaticamente vado dritta in terrazzo.

Un uccello magnifico, verde smeraldo chiaro, con la crestina e la coda di media lunghezza mi ha letteralmente guardata, ha cinguettato ancora, ed è volato via.

Io ho pianto. Perché ho sentito tutta la tessitura del mondo che mi veniva a far forza, che mi indicava qualcosa. Il mondo è bello. È doloroso, ma è primariamente bello.

Peraltro, non è la prima volta che mi capita: una merla (sì, le merle sono ben diverse dai merli) in chinatown, uno scoiattolo rosso davanti al Carrefour di via vigevano, una piccolissima rana lucente in 24 maggio.

Il mondo è bello e dobbiamo dargli e darci la possibilità di credere a questo lato bizzarro e poetico che in effetti esiste ed è a disposizione.

La seconda cosa che vorrei dire è che c’è un doppio livello nel male di vivere, uno è contestuale, ed è quello che può essere toccato da atti di volontà come il farsi forza, come il cercare e costruire relazioni, come il dire la verità.

Un secondo livello è esistenziale, di fronte al quale il progettare svanisce. È qui che il male di vivere si avvicina alla depressione.

C’è qualcosa di irrisolvibile nel fatto stesso di essere vive e saperlo, nella stessa commistione tra amore e vita e morte, che il fondo della mia anima non è mai completamente limpido. Mi succede anche con la gioia più profonda. Questo sentire, che pure è doloroso, non può e io credo non debba essere eliminato, “curato”. Per convivere con questa percezione posso pregare intensamente e affidarmi, ossia galleggiare. Non mi aiuta il pensiero e la comprensione si deve arrestare. Per cui, si sta così.

La terza cosa che vorrei dire, quella più spaventosa, è che mi capita, sentendo profondamente il mondo, e la gioia anche, di sentire contestualmente l’inutilità di tutto il resto, delle azioni, dei progetti. Non ho detto correttamente, non l’inutilità ma la scambiabilità. Ossia, detto come mi viene: a un certo punto di profondità, una cosa vale l’altra. Oltre all’essenziale non c’è il non essenziale ma sono tentata di pensare che non ci sia niente. Quindi questa sensazione di amore per il mondo profondo, questa comprensione che arriva rapida e se ne va subito, invece di darmi forza nel fare è come se mi stesse dicendo di non fare, di non incedere e non tagliare il mondo. Ogni cosa, ogni fatto, ogni evento della contemporaneità in prospettiva si diluisce, non riesce ad interessarmi.

Ma qui mi fermo perché meglio di cosi non riesco a metterlo in parole.


Ma l’amore ci lancia verso il futuro obbligandoci a trascendere tutto quello che concede. La sua promessa indecifrabile squalifica ogni risultato, ogni realizzazione. L’amore è un enorme agente di distruzione perché scoprendo l’inanità del suo oggetto, lascia libero un vuoto, un niente terrificante all’inizio della percezione. È l’abisso in cui affonda non solo la cosa amata, bensì la propria via, la realtà stessa di chi ama. L’amore è ciò che scopre la realtà e l’inanità delle cose, ciò che scopre il non-essere e il niente. Il Dio creativo creò il mondo dal niente per amore. E chiunque porta in sé un filamento di questo amore scopre ogni giorno il vuoto delle e nelle cose, perché ogni cosa e ogni essere che conosciamo aspira oltre ciò che realmente è. [Maria Zambrano, Frammenti sull’amore]


Per dire con più precisione le cose che ho provato a spiegare sopra, vorrei usare dei versi. Non intendo dire che sono esplicativi o didascalici, ma che non saprei farlo meglio di cosi.


***

Male oscuro.

Silenzio.

È già notte,

Di nuovo notte.

Solitudine:

Sei santa anche nel dolore.

Le mie madri tacciono.

Strade: nessuna strada.

Rumori bianchi di fondo: solo chiacchiere.

Tutto è da fare: è un’impresa.

Silenzio.

Nella notte,

La mia sorte e quella del mondo sono pezzi filamenti della stessa carne.


***

Quiete:

Mi appiglio a te come un tronco sull’acqua

Solido abbastanza da non annegare

Eppure non stabile mai.

Galleggiare. Questo è un lavoro.

Nominarti è un incantesimo per averti vicina,

Per trovarti negli sguardi di coloro che credono

che io e te siamo amiche.


***

Il mondo mi sembra

Infinito,

Troppo.

Amori aria imprese amicizie sere mare poesie musiche

Dolori non decifrabili.

E poi mi accorgo

che questo troppo è la giusta misura

per la mia anima che cresce insieme alla vita

per la mia tuttezza che si espande con il mondo

***

Cara VD 3, in riferimento all’ultimo incontro mi chiedete di arricchire il mio intervento sulla mia amica ungherese che dà ragione al suo paese. L’Ungheria, sappiamo, ha deciso di chiudere le frontiere all’immigrazione, anche quella di passaggio.

Io ho visitato Budapest negli anni ’70 in un viaggio organizzato dalla CGIL e il ricordo che ho ancora oggi è di una città aperta, ricca di bistrot, piazze, parchi. Non molto popolata. Era ancora sotto l’Unione sovietica ma, mentre Lipsia (l’altra città visitata) mi apparve cupa e molto triste, Budapest mi fece una bella impressione. Ovviamente sentivo un clima spesso non leggero ma (cosa provata in Cina nel 1982) vedere, sapere che tutti andavano a scuola, che avevano la casa, un lavoro … tutto ciò attenuava le mie perplessità.

La mia amica ungherese non parla tanto facilmente, mi ricorda con fare duro che il suo paese è uscito dalla stretta sovietica solo nel 1989 e gli anni successivi sono stati molto duri perché ovviamente la confusione regnava sovrana (le ingerenze dirette e indirette dell’URSS erano fortissime). Orban dice che è un buon presidente, benvoluto dagli ungheresi che lo hanno votato per il 40%, certo lui ha dovuto fare delle alleanze anche con le destre, ma sta governando bene. L’Ungheria è uno stato piccolo e non può assorbire la marea di immigrati quindi ha fatto bene Orban a dare il fermo, che guarda caso mi dice, sta facendo anche la Croazia. Del resto la Merkel fa la sua politica prendendosi il meglio, il resto lo scarica sugli altri paesi. Le notizie che vengono diffuse dai giornali sono poco vere se non tendenziose, per questo motivo che non vuole parlare di questa storia.

Certamente la mia amica non è una qualunquista, ma la sua preoccupazione la rende più rigida ancor più da quando suo figlio ha deciso di ritornare a Budapest con moglie e figli.

Io stessa mi sento inquieta, spaventata e inadeguata per questi tempi di donne e uomini in movimento. Mi sembra di non riuscire a tenere il passo, di non essere in grado di capire e vivere questi giorni.

È da molto tempo che osservo l’omosessualità e il lesbismo. Ho avuto il primo incontro a 14 anni ed ora ne ho 66, anni framezzati di un lungo rapporto etero, ed altri, molto brevi lesbici. Ho due figli abituati a relazionarsi sin da piccoli con persone lesbiche e omosessuali che facevano parte delle relazioni amicali della nostra famiglia, con loro hanno condiviso cene, viaggi e piaceri o dispiaceri, ma mai hanno fatto percepire una differenza di comportamento con la maggior parte delle, e non poche, frequentazioni etero che avevamo: zie e zii, nonni e nonne, amiche e amici.

Parto da qui per la mia riflessione perché in questi anni ho maturato la convinzione che i rapporti d’amore o d’amicizia sono essenzialmente scambi culturali, di gioco o di dolore, tutto quello che poi diventa relazione, e che la preferenza sessuale è secondaria rispetto al fatto di essere gestita con sincerità, senza preconcetti o ideologie esagerate.

Sono sempre più convinta ora, dopo aver acquisito più esperienze e amicizie lesbiche/omosessuali, che è l’intelligenza consapevole e non la rivendicazione a volte un po’ esagerata della differenza sessuale, che fa di una lesbica una persona felice. Mi aspettavo dalle lesbiche più un’arte nuova, un’invenzione del vivere i rapporti d’amore, che una conoscenza scientifica della sessualità. Un modo d’amare che non ricalchi comportamenti di ruolo, che purtroppo continuo a cogliere anche se agiti quasi involontariamente; riconosciuti esplicitati discussi anche fra loro ma che paiono impossibili da evitare. È vero, esiste l’esigenza dei diritti ancora a loro negati, ma penso a quanti diritti sono negati oggi a tante altre persone, penso ai conflitti che fanno vittime e morti nei mari e poco importa se fra loro ci siano lesbiche o omosessuali o etero, sono solo “non più persone”. Penso a quelle che non hanno di cui vivere, c’è sempre più povertà al mondo, più fatiche, meno voglia di divertirsi se si pensa a loro, e qui mi riallaccio alla depressione sociale di cui ho parlato alla riunione.

Mi viene quasi da dire: che fortuna, sono solo lesbica!

Una che c’era (così si è firmata) ha risposto al mio invito: siamo per l’accoglienza? vogliamo aiutare quelle e quelli che chiedono di entrare in Italia e in Europa? Allora, cerchiamo di capire anche i sentimenti e gli argomenti degli altri, i “respingenti”.

Aggiungo quello che ho pensato tra me: ci chiamiamo femministe perché, tra noi, abbiamo un solo valore assoluto: che a questo mondo ci sia libertà femminile, tutto il resto siamo disposte a discuterlo. (Luisa Mur.)


Vado dritta al punto. È un punto dolente ma lo devo tirar fuori. Io non mi sento più accolta. Mi capita ogni giorno quando prendo il tram che prendo da una vita e non sento più neppure una parola comprensibile. (Non parlo dei turisti di Expo ovviamente, quelli li distinguo.) Sì, afferro qualcosa dello spagnolo dei sudamericani, ma per il resto è una cacofonia orientale, araba, slava e chissà che altro. Il brusio che fa da sfondo ai miei movimenti è diventato una barriera quasi solida. Il suono meraviglioso delle altre lingue che ho sempre cercato con passione e curiosità in giro per il mondo, qui subisce una specie di mutazione. Credo di aver capito cosa succede: mi respinge perché cancella i miei suoni.

E poi gli odori. Nella mia strada, nel mio palazzo, nell’ascensore, sul pianerottolo, quel sentore forte che non so che cosa sia. Ma quell’odoraccio che immagino di intrugli fritti di pesce e chissà che altro, che ti afferra anche alla mattina presto, ti cambia la giornata. Perché non mi dà scelta. È violento e mi costringe a tenere chiusi i vetri di casa mia, mi rovina il piacere di uscire e rientrare. È come per le lingue: si sovrappone e cancella le mie curiosità culinarie, la mia disponibilità a mangiare di tutto.

E poi naturalmente i negozi che cambiano faccia alle strade. Non uno, non qualcuno, ma proprio tutti. E i visi e i gesti. Son cose dette e ridette, anche se non fa piacere sentirle.

E allora, che ne è dell’accoglienza se adesso io mi sento respinta nei miei luoghi domestici, familiari. Quelli di cui tutte e tutti abbiamo bisogno. Se mi si tagliano le radici, vengo privata anche della mia capacità di crescere, incontrare, cercare. Adesso che il mondo mi ha invaso, dove trovo più la voglia e il piacere di cercare il mondo?

A questo punto qualcuno mi risponderà che non devo farmi catturare dalle paure. Che questa è la scommessa epocale del multietnico. L’idea del multietnico mi è sempre piaciuta. Ma: non vorrei che fossero solo dolori e perdite che si incontrano.

Se qualcuna o qualcuno ha le idee più chiare delle mie mi risponda per favore.