Sottolineo qui che le sindache sono importanti prima di tutto perché il voto che ricevono è dato alla persona, poi perché indicano un cambiamento dell’opinione pubblica che dimostra di avere fiducia nella capacità delle donne di amministrare anche grandissime comunità. Un di più femminile riconosciuto?
Ci sono, poi, nella politica sempre più donne. Cito solo quelle al massimo del potere, ma ce ne sono tantissime altre anche in Italia: Angela Merkel, Teresa May, Janet Yellen e Christine Lagarde (rispettivamente: la prima, presidente della Banca Centrale Americana FED, la seconda Presidente del Fondo Monetario Mondiale). Aggiungo poi Hilary Clinton che ha perso la sfida ultima con Trump ma avendo più voti popolari. Questo è importante per me poiché la mia attenzione, oggi, è volta ai cambiamenti dell’opinione popolare.
Infine sottolineo che in Italia sono la maggioranza nella sanità, nella giustizia, nella scuola, nell’apparato dirigente dello Stato, anche in cariche apicali.
Le donne (e dico le donne e non le femministe) sono in movimento da cinquant’anni (e non solo nel mondo occidentale) con una consapevolezza comune, di tutte, mi viene da dire, che il dominio maschile non è più sopportabile, sia esso quello del padre, o del marito, o del compagno o dell’universalismo maschile.
Penso quindi che sia urgente interrogarsi sul significato e il senso di questo enorme cambiamento degli ultimi anni e le nuove contraddizioni che fa emergere. Per me questo è un modo di stare agli accadimenti del presente così come si è fatto nell’incontro precedente di VD3, “Ragazze e algoritmi”.
Un altro fatto è che sempre più donne si dichiarano femministe: scrittrici, artiste, registe, attrici, giornaliste, ecc.; tra loro non poche privilegiano nei loro scritti e nelle loro opere la relazione materna e la genealogia femminile; ad esempio la più ascoltata opinionista della televisione inglese ha dichiarato che la maternità è un’icona del femminismo.
Tutto ciò, mi sembra c’entri molto col pensiero della differenza. Oppure no, vi chiedo?
Tutte voi ricordate un recente passato nel quale i media riferivano che le giovani donne dichiaravano che il femminismo aveva avuto molti meriti, ad esempio il nuovo diritto di famiglia, la legge dell’aborto, del divorzio e le varie leggi di pari opportunità, ma che, oggi, a loro, non aveva più niente da dire. E sembrava dimenticato il femminismo delle origini, quello del partire da sé e della relazione tra donne. Invece oggi accade che sia tradotto negli Stati Uniti «L’Ordine simbolico della madre» e in Francia «Non credere di avere dei diritti» e a Londra una riunione di cinquanta giovani donne ha discusso del femminismo italiano, ritenendolo, appunto, più fedele alla rivolta dell’inizio degli anni settanta.
Tutto questo mi sembra sia da indagare perché una pratica di parola (simbolico) come quella della differenza trova il suo terreno nella cultura vivente diffusa, creando segni della differenza altrimenti muti, altri modificandoli e altri inventandoli.
In sostanza e per concludere sul punto, penso che la soggettività femminile sia in gioco in tutti i campi. Si tratta in fondo di essere riuscite in parte a realizzare i nostri desideri non senza sofferenza e contraddizione.
Ma questo, chiedo, non è avere più libertà? E ci invita a riflettere sul legame tra differenza e libertà. La differenza costituisce il termine transitivo, cioè cosa che non si compie in sé, è un divenire della coscienza e della relazione con le altre, gli altri e il mondo. La libertà è ugualmente relazionale ma sicuramente è un sostantivo.
Va messo in conto il possibile rischio di obliterazione, di cancellazione. In questi anni lo si è visto all’opera costantemente da parte di intellettuali, politici maschi e donne al loro seguito.
Non c’è dubbio però che l’attuale contesto di presenza pubblica femminile dia molte opportunità al nostro pensiero e alla nostra pratica politica. Perché nel cambiamento in corso c’è tutta una rinegoziazione dei rapporti tra i sessi da cui affiora la differenza sessuale. Si tratta di risignificarla. In almeno tre direzioni.
- Lo sguardo dell’opinione pubblica vede bene che le donne in ruoli pubblici non si travestono più da uomini, nascondendo la propria femminilità, anzi le nomina così “le donne”, mentre nel patriarcato esse erano prese una ad una. Dalle donne ci si aspetta qualcosa di differente, dimostrando una certa maggior fiducia verso di loro nonostante la situazione politica di caos e confusione. Peggio degli uomini, si pensa, non potranno mai fare. Il bassissimo tasso di narcisismo femminile poi, in tempi di capipopolo, costituisce una garanzia in più.
- In secondo luogo, mi sembra che il protagonismo personale delle donne (al quale non sono mai stata contraria perché è una forma dinamica di rapporto tra il gruppo di donne e le pratiche sociali) – con il segno che ho indicato sopra – spinge ai margini le militanti politiche che insistono sulla discriminazione e la rivendicazione di uguaglianza con l’universo maschile. Per tutte nel contesto che ho delineato prima è più difficile riconoscersi come vittime.
È come se quel granitico baricentro maschile che le leggi di tutela e parità e le quote non facevano che confermare, si sia notevolmente sbilanciato.
Oggi ci sono uomini che considerano indispensabile una presa di coscienza maschile per capire qualcosa di sé e del mondo o che sentono il bisogno di ascoltare e di leggere quello che le donne hanno scritto o che credono in un ruolo salvifico delle donne per salvare la terra. Questo spostamento maschile penso sia dovuto al pensiero e alla pratica della differenza.
- Infine, una considerazione importante che riguarda la pratica di relazione: molte donne cosiddette di potere fanno un riferimento esplicito ad altre donne come consigliere e collaboratrici. Angela Merkel ne ha due e Le Monde di recente, raccontando la sua biografia in tre puntate, intitolava «La Germania è governata da un triumvirato femminile». Lo stesso vale per Janet Yellen: due consigliere e, titolo del Corriere della Sera, «Un triumvirato femminile a capo della F.E.D.».
È consuetudine infine l’associarsi nell’attività lavorativa tra donne, soprattutto le professioniste e le lavoratrici autonome.
Non siamo tutte partite da lì? Vale a dire voltarsi dalla parte delle donne per trovare forza, cercare la collaborazione e la persona di cui aver fiducia.
Come conseguenza di quello che ho raccontato fino ad ora, io mi arrischio a dire che il conflitto tra donne e uomini è, oggi, uno di quelli centrali: della politica, dell’economia, del lavoro, della demografia e della cultura in generale.
Nel margine (separazione che ha voluto dire staccarsi anche dalla rivoluzione del 1968, gruppi di sole donne) abbiamo guadagnato agio e libertà (F. Collin). Ma oggi possiamo ancora ribadire il valore di quel margine? Io credo di no. Credo ci sia il rischio di diventare marginali, nella calma interna che si è guadagnata nella propria vita, ma che manda via ogni inquietudine e desiderio di conflitto.
Ricordate la sintesi di quella rottura iniziale? Altrove e altrimenti, cioè una diversa pratica politica e luoghi non convenzionali dove svolgerla.
Io personalmente intendo, e l’ho già detto e scritto, tenere fermo l’altrimenti ma non l’altrove.
E allora, che cosa vuol dire oggi mettere in discussione l’altrove?
Vorrei che su questo si aprisse un confronto.
«Sono le storie a spingermi a fare cinema. Poterle raccontare con il cinema. Le storie mi investono, mi riempiono, mi danno urgenza». Così dice Anne Fontaine a proposito del suo ultimo lavoro, Agnus Dei.
Alcune frasi di un diario scritto nel ’45 dalla dottoressa Madeleine Pauliac della Croce Rossa francese, su episodi di violenza sessuale accaduti in un convento in Polonia, sono sufficienti a convincerla ad approfondire i fatti, a risalire alle fonti e ad elaborare la sceneggiatura.
Nel diario non sono riportati i dettagli, solo l’incontro delle suore con la dottoressa.
La storia nel film assumerà unicità di tempo e luogo, ma di fatto le fonti provengono da tante storie di violenza perpetrate dai soldati sovietici in luoghi diversi e in tempi diversi in Polonia durante l’occupazione e nell’immediato dopoguerra.
Madeleine Pauliac, che nel film diventerà Mathilde Beaulieu, fu partigiana nella Resistenza francese e dall’aprile 1945 prestò servizio come medica della Croce Rossa a Varsavia con il compito di coordinare la cura e il rimpatrio dei soldati francesi feriti rimasti nei territori russi e polacchi. Fu in quella veste che incontrò e curò le suore di un convento benedettino di clausura, venendo a conoscenza degli orrori accaduti nei reparti maternità degli ospedali e nei conventi.
Nel film la violenza è già accaduta. La riflessione della regista è sul dopo, sulle conseguenze.
E queste riguardano la fede e la salvezza; la colpa e il peccato; la vergogna e lo scandalo; la maternità – la sua accettazione e il rifiuto; e il dolore incancellabile dei ricordi. Una miscela complessa da saper tenere in equilibrio per far risultare il racconto convincente e coinvolgente.
Più che sulle parole e sui dialoghi, il film si sofferma e indaga le emozioni. Dai volti e dai corpi violati delle suore legge la sofferenza, la vergogna; mostra il pudore, il desiderio di ritrarsi, di non rivelarsi; il rifiuto di essere toccate e curate; il bisogno di mantenere una distanza, di nascondere e nascondersi. La camera si avvicina ai volti, li inquadra come a volerne carpire i sentimenti fino quasi a entrare sotto la pelle.
L’ingresso di Mathilde Beaulieu nel convento sarà il nodo su cui il film si svilupperà, a partire dal forte scontro fra due concezioni della vita e dello spirito: quella laica e solidale della dottoressa che fa della cura degli esseri umani il centro del suo credo e quella religiosa che nella fede in Dio e nella sua Provvidenza vede le sole vie per la propria salvezza eterna. Il canto dell’Agnus Dei – «Agnello di Dio che togli i peccati dal mondo abbi pietà di noi. Agnello di Dio che togli i peccati del mondo dona a noi la pace» – indica dove le religiose ripongono sommamente la speranza di una nuova vita.
Ma se è vero che la pace tanto invocata seguirà le vie misteriose della misericordia divina, quella terrena forse sarà un traguardo raggiungibile solo dopo un lungo percorso di guarigione e di cambiamento. Il rapporto di fiducia e di affetto nato fra Mathilde e suor Maria, che a cascata coinvolge le altre sorelle, è un buon auspicio per quanto sappiamo della capacità generativa e terapeutica che le relazioni fra donne mettono in atto.
Diretto magistralmente, il film che ha un buon ritmo tiene viva la tensione, fra colpi di scena e atmosfere misteriose, grazie ad un montaggio che privilegia cambi veloci.
Indimenticabile la fotografia di Caroline Champetier: splendida nelle tonalità del bianco invernale, del grigio del paesaggio e del convento, del nero delle vesti monacali e del seppia che illude su una distanza da un passato che tanto lontano non è. Anzi.
Anne Fontaine si interessa di cinema dagli anni ottanta, prima come attrice e poi come regista. È famosa per l’originalità dei suoi soggetti. È autrice, fra gli altri, di Coco avant Chanel, Il mio miglior incubo con una straordinaria Isabelle Huppert, Two mothers, tratto dal racconto di Doris Lessing e di Gemma Bovery.
La Redazione ristretta della rivista Via Dogana vi invita a partecipare attivamente
(o passivamente, perché no?)
alla
Redazione allargata cioè aperta alle persone curiose o interessate o appassionate, di
politica
la domenica 13 novembre 2016 ore 10-13 circa presso la Libreria delle donne
in via Pietro Calvi 29 Milano,
con seguito di spuntino, come una Colazione sull’erba senza erba.
Quando ci troveremo, sapremo com’è finita tra Hillary Clinton e Donald Trump. Chi scrive questo invito, non lo sa. Dicono che vincerà lei, è probabile. Noi, donne e uomini impegnati da molti anni e consapevolmente nel cambiamento del mondo per quel che riguarda i fondamentali rapporti donna-uomo, che cosa vediamo e come giudichiamo lo stato delle cose? che “stato” non è, perché la realtà si muove con una rapidità pari a quella dello scongelamento del Polo nord. Come ci regoliamo? Ci sono scommesse vinte, altre non ancora vinte, da tenere ferme o da abbandonare? Ci sono previsioni da cambiare, aspettative da definire, misure da prendere e le più importanti, forse, sono quelle soggettive, perché riguardano il nostro sentire, onde capire quello che avviene… I mutamenti più appariscenti riguardano la ridistribuzione del potere politico tra donne e uomini. Ma va detto subito che c’è dell’altro da vedere e valutare…
L’incontro di VD 3 sarà introdotto da uno scambio tra due che, alla domanda “che ne è delle donne dopo quarant’anni di movimento femminista?” non rispondono uguale: Lia Cigarini e Giordana Masotto, le quali arrivano al reciproco confronto con domande che vogliono rivolgere anche a noi del pubblico.
Moderatrice, Luisa Muraro.
Si prega di venire senza prenotare
Quando alcuni anni fa mi sono adoperata perché Eredibibliotecadonne facesse ingresso nel web, inesperta com’ero del mezzo, pensavo che il blog più che un diario potesse rappresentare una specie di vetrina atta a mostrare certamente pratiche e pensieri attuali ma a rendere anche visibile il background della comunità, il bagaglio di esperienze, di competenze e relazioni, il ‘patrimonio’ comune; non nascondo neppure che il desiderio mio e delle altre contenesse anche l’intento pedagogico di trasmettere la storia e il senso del nostro agire politico. Ho però dovuto poco dopo ammettere che l’attenzione di visitatrici e visitatori si concentrava prevalentemente sulle ultime pubblicazioni e neppure qualora vi fosse un esplicito riferimento o il lettore venisse indirizzato a post precedenti con appositi link, si verificava un accesso significativo a questi ultimi; dai commenti raccolti di qualcuno/a dei pochi che si erano applicati ad un lettura completa del blog, ho ricavato l’impressione che il contenuto dei post venisse di norma percepito come contemporaneo a prescindere dalla data di pubblicazione e dai riferimenti a precedenti richiamati per documentare i passaggi più significativi della storia della comunità.
Anche nei social media il meccanismo di schiacciamento del tempo al presente agisce con inesorabilità e semmai con maggiore celerità: accogliamo l’ultima notizia, ci piaccia o meno il contenuto, come attuale, interessante e vera semplicemente perché nuova, per rimuoverla appena compare la news successiva che diviene a sua volta quella attuale, interessante e vera per definizione; anche qualora compare un post che ripropone un contenuto non nuovo, perché già pubblicato o perché evoca un accadimento passato, il messaggio viene ugualmente percepito come attuale, suscita emozioni e genera gli schieramenti pro o contro come fosse appena successo.
Pur non essendomi sottratta alla meraviglia di fronte alla potenza di un mezzo che ti tiene costantemente connessa in una rete che avvolge la terra e ti può mettere al centro di un flusso di comunicazione che arriva ovunque, non ho potuto evitare la delusione nello scoprire che il web essendo governato da regole che obbediscono a una logica degli opposti (vero/non vero, nuovo/non nuovo, piace/non piace, ecc.) è un ambiente adatto a suscitare reazioni, alternarsi di emozioni e sentimenti ma inadatto a significare il perché, il come e il dove quegli stati d’animo prendono origine, eccezionalmente efficace nella divulgazione dei fatti ma inefficace nel rappresentare lo sviluppo delle vicende e dei pensieri dai quali sono originati; per quanto si abbia cura di rendere intellegibile negli interventi lo spessore storico di un accadimento attraverso la concatenazione di eventi che l’hanno reso possibile, l’attenzione di chi legge si concentrerà sui singoli eventi piuttosto che sulla concatenazione, dimodoché il racconto verrà percepito come una sequenza di fatti piuttosto che una storia.
La rete, pur straordinariamente favorevole alla diffusione di messaggi, qualora venga utilizzata come spazio pubblico per riflessioni e approfondimenti e comunque per ragionamenti che vadano al di là del qui ed ora, rivela invece il suo limite strutturale: non è in grado di mostrare ciò che avviene vivendo. Possiamo anche impegnarci a interagire col pubblico attraverso forum e gruppi di discussione, ma non per questo riusciremo a riprodurre l’autenticità e la consistenza che si ricava dalle riflessioni scambiate in presenza; possiamo pensare di ricorrere al mezzo più frequentato da ragazzi e ragazze per mettere a disposizione delle nuove generazioni elaborazioni, pensieri e testimonianze, ma i nostri tentativi andranno incontro a frustrazione di fronte all’evidenza che il web non può sostituire l’insegnamento, il racconto e la trasmissione della memoria dal vivo e neppure l’apprendimento fecondo che si ottiene faticando sui libri. L’ambiente si presenta perciò impermeabile a quanto dell’esperienza femminile avviene nella concretezza del legame con i corpi e non si rivela idoneo a rappresentare quegli aspetti che costituiscono i punti di forza della politica delle donne: la centralità delle relazioni, il costruire pensiero come fare storia in presenza, il passare memoria dal vivo attraverso il racconto a partire da sé.
Non mi convince almeno per il momento la visione di una rete trasformata attraverso pratiche politiche mirate a cambiarne le regole di funzionamento e magari a introdurre algoritmi ‘sensibili’ alla differenza sessuale e non ostili alle donne. Se anche avvenisse una rivoluzione dell’informatica tale da rendere possibile rappresentare quel territorio di mezzo che sta nei passaggi da uno stato all’altro (dal vero al falso, dal nuovo al vecchio, ecc.), internet rimarrebbe comunque uno scenario altro rispetto a quello dove si sviluppano le vicende umane con i loro chiaroscuri e ambiguità e dove la storia nasce dall’esperienza e incarnandosi nella vita orienta le generazioni al futuro. Penso sia invece nell’ordine delle cose possibili che le donne si facciano promotrici di un dibattito finalizzato a individuare e definire misure e comportamenti nel rapporto con la rete tali che, in considerazione delle opportunità e dei limiti del mezzo, consentano di ricavare da essa il massimo guadagno evitando i rischi di depotenziamento e banalizzazione cui vanno facilmente incontro le proposte politiche entrando nel mondo virtuale.
Alla luce dell’esperienza di Eredibibliotecadonne mi sento di concludere che la rete, data la sua potenza nel diffondere annunci e informazioni come nel sollecitare interesse ed emozioni, può favorire l’azione politica nella dimensione attuale e contingente, a patto che gli interventi risultino legati a pratiche in essere e compaiano il più possibile in tempo reale; per quanto riguarda invece i progetti a lungo termine o le pratiche destinate a produrre effetti nel tempo, il mezzo non appare adeguato, non dico a rimpiazzare, ma anche solo a supportare il paziente lavoro di costruzione di relazioni e di sedimentazione di esperienze che svolgiamo nei luoghi dove viviamo e ci incontriamo e neppure la trasmissione di sapere e di memoria, che sarà bene continuare ad affidare alla carta degli archivi e delle biblioteche
La rete offusca la differenza sessuale. Anche quando sappiamo il sesso dell’altro, ne abbiamo una percezione molto più debole, perché né lo vediamo né lo sentiamo. Nei primi forum ci si presentava anonimi. Nei social media di oggi ci si presenta svelati; quel che sfugge all’evidenza si perde. Questo favorisce un pensiero neutro. Così come il continuo procedere per operazioni induce al pensiero semplificato e l’ausilio tecnologico all’idea di aver sempre meno bisogno degli altri.
Nei forum si alternavano discussioni soddisfacenti con talenti sconosciuti ad altre assurde con personaggi indegni e strampalati, comunque accettati dal gruppo. Per me, era un esercizio dialettico, migliore delle riunioni di partito, che infatti abbandonai, pur conservando l’appartenenza. Su Facebook, persi anche l’appartenenza e divenni un militante autosufficiente. In rete, i miei leader mi apparivano più modesti; tanti documenti si trovavano a portata di mouse; pubblicarsi era ormai molto semplice. Pure sul piano psicologico. Scrivere e postare mi dà molto meno disagio che prendere la parola di persona. Inoltre, è più facile condividere interessi tra le moltitudini virtuali che tra le proprie ristrette cerchie reali.
Luisa Muraro dice che Facebook è più di uno strumento, è un ambiente. In effetti, diversamente dai forum che, fuori della pubblicistica autorevole, formavano comunità isolate, su server gestiti da piccole imprese, a cui ci si connetteva da postazioni fisse per un tempo limitato, Facebook, una multinazionale che raccoglie e vende i nostri dati, è un integratore orizzontale senza un centro, a cui siamo sempre connessi da dispositivi mobili, in condizione di rapportarci con chiunque.
Oltre a essere un territorio virtuale, è una forma mentale influente su tutta la realtà. Pensiamo agli argomenti a favore delle riforme elettorali e costituzionali: conoscere subito il vincitore la sera delle elezioni, stabile per cinque anni, alla guida di un procedimento legislativo rapido, non sembra un modello di democrazia algoritmica? Un modello persuasivo per chi passa il tempo a compiere operazioni dall’esito immediato, senza perdere tempo a pensare, discutere, mediare. Vita Cosentino racconta come gli algoritmi siano ormai usati nel governo della scuola, per assegnare le cattedre e generare l’orario scolastico.
I social media comunque sono apprezzabili per le opportunità inclusive ed espressive che offrono. Qualcuno emerge come autore e si propone al pubblico, senza il filtro di editori, produttori, direttori. Tuttavia, questa possibilità, che libera dalle relazioni di potere, libera da tutte le relazioni. Gli stessi editori fanno a meno di molti autori o li pagano in visibilità. Le amicizie si rivelano spesso deludenti; negli scambi il possibile vantaggio della risposta differita è sprecato da risposte reattive, compulsive, ripetitive; talvolta pericolose, come mostra il cyberbullismo.
Tuttavia, un vantaggio è certo. La rete trasforma telespettatori passivi, già sottratti alla lettura e alla socialità, in naviganti interattivi. E navigatrici. Facebook è esploso in Italia al tempo della parola ‘femminicidio’ e delle proteste contro la rappresentazione berlusconiana della donna. Questo ha orientato il femminismo sul web, divenuto presto più visibile di quanto fosse su TV e giornali. Per converso, è divenuto visibile anche l’antifemminismo.
Luisa C. B. a Via Dogana 3 ha testimoniato uno stato d’animo comune a molte giovani femministe in quotidiano conflitto con l’antifemminismo: ragazze combattive e determinate, ma incerte sulla direzione del mondo. Negli anni ’80, si percepiva un mondo avviato all’emancipazione e si vedeva lo spazio per affermare la differenza oltre l’uguaglianza. Oggi, i temi prevalenti sono il femminicidio, la violenza, la prostituzione, la sindrome d’alienazione parentale inventata contro le madri, le discriminazioni, il sessismo. La differenza può sembrare un lusso, un’insidia, o soltanto la si ignora. In rete, il negativo prevale sul positivo.
Inoltre, nella multimedialità, il visivo prevale sugli altri sensi. Il pensiero complesso e strutturato di un saggio non può competere con il bombardamento di messaggi emozionali. Esistono siti culturali che coinvolgono nicchie e minoranze più estese di un tempo, ma di minor peso specifico a fronte di un pubblico produttore di un sovrastante rumore di fondo. Negli anni ’80, l’esperimento dei telefoni aperti di Radio Radicale diede voce ad una violenza e un razzismo che, finché sommersi, non sembravano inquinanti. La tecnologia liberatoria, libera anche loro.
La speranza in una evoluzione è contraddetta dal fatto che la tecnologia libera pure dall’uso delle facoltà mentali: calcolare, ricordare, selezionare, riflettere. Lo sviluppo degli algoritmi fa credere che sia sempre più sufficiente immettere dati e lasciarli elaborare in automatico. Analisti preoccupati ci avvertono di questi pericoli e vanno considerati. Insieme, va tenuto conto che la critica alle nuove tecnologie è spesso orientata da studiosi legati ai vecchi media accessibili a pochi in concorrenza con i nuovi media aperti a tutti.
In passato, il movimento operaio ha dato vita a riviste teoriche, organizzazioni, scuole di partito; le femministe sono diventate scrittrici, filosofe, hanno creato scuole di pensiero e di scrittura. A qualcosa del genere vorrei prendere parte oggi, per fare della presenza in rete una pratica e una teoria collettiva, oltre una presenza casuale e dilettante, per lo più individuale.
Molto ancora dipende da ciò che viene prima della rete, ma oggi in essa continua e si amplifica. Il neoliberismo è fallito, ma sopravvive in assenza di alternative. Un suo punto di forza è la declinazione libertaria e individualista della libertà che, per esempio, imposta e limita i dibattiti sulla maternità surrogata, la prostituzione, la pornografia. La malintesa liberazione sessuale della pornografia, attraverso cui fantastica il revanscismo maschile, plasma tanta parte dell’immaginario e del linguaggio fin dall’adolescenza. Il disordine postpatriarcale sfuma lo stesso metro di misura maschile. Il pensiero della differenza rifiuta l’emancipazione come adattamento della donna all’uomo, ma il parametro a cui non adattarsi è sempre più confuso. Molti uomini, e io tra loro, per rifiutare la mascolinità, o nel reagire in modo passivo-aggressivo al femminismo, evitano o rifiutano di assumere responsabilità, iniziativa, decisioni. Così, invece che maschile universalizzato, il neutro diventa indifferenziato.
Mi sembra molto importante l’aver puntato l’attenzione sugli algoritmi, domandandosi se siano o no amici delle donne, come emerge dai contributi che stanno affluendo a questo numero di Via Dogana tre.
Alice Peverata nel suo testo mette in evidenza che le caratteristiche degli algoritmi sono “quanto di più lontano ci sia dal rapporto alla cui base troviamo sempre un’interazione, uno scambio e allo stesso tempo un’apertura sia tra chi lo intrattiene che con il mondo circostante”; e Luisa Muraro sottolinea “la rigidità meccanica” come “il problema che pongono gli algoritmi utili a governare la massa sterminata dei dati”. E aggiunge che “i droni uccidono terroristi non giudicati ma calcolati come tali con un margine di errore non umano ma statistico”.
Quello che mi preoccupa – e si evince anche dall’esempio terribile portato da Luisa Muraro – è che l’uso degli algoritmi è entrato in modo pervasivo nella società in tutti i suoi aspetti, come nei luoghi di lavoro, quando si deve trattare una massa di dati. Porterò come esempio la scuola, che è il mio campo. Chiediamoci: cosa capita a scuola se a governare è l’algoritmo?
Leggendo sui giornali le continue storie di insegnanti che per avere una cattedra devono per esempio lasciare marito e figli/e a Palermo, dove pure esistono cattedre scoperte e trasferirsi a Milano, dove pure esistono insegnanti che quel posto potrebbero occupare, cosicché questo inizio di anno scolastico comincia nel massimo della disorganizzazione, mi sono chiesta più volte perché si agisse in modo così insensato. Poi, sempre dai giornali, ho saputo che il Ministero dell’istruzione per collocare le/i docenti ha usato un algoritmo per il trattamento dei dati e si è affidato ciecamente alla sua applicazione. La “Buona scuola” del governo Renzi pensava di essere moderna ed efficiente scartando il fattore umano, i rapporti con i sindacati, le storie individuali e collettive e ha prodotto solo caos e un malessere profondo che riscontro in ogni insegnante con cui mi capita di parlare, che abbia o non abbia il posto di lavoro. Ora, al ministero, stanno ammettendo qualche errore, ma questo non basta. C’è una forma mentis da smantellare.
Ogni insegnante sa per esperienza che non può esistere un programma di computer che sia in grado di formulare da solo un orario scolastico soddisfacente per tutti – e qui i dati da trattare non sono neppure sterminati! Ci vuole di mettersi a tavolino, ascoltare le esigenze e mediare, aggiustare, con la consapevolezza che le misure dell’efficienza sono altre quando di mezzo c’è l’umano. Se l’insegnante sta male a soffrirne saranno gli studenti e le studentesse.
Ma veniamo al punto più dolente. La pretesa di governare la scuola tramite algoritmi si sta rivolgendo allo stesso mestiere di insegnare. E uso volontariamente la parola mestiere per sottolineare l’aspetto artigianale di questo lavoro. Prima, con la programmazione, l’ispirazione proveniva dalla fabbrica fordista. Era del tutto impropria, ma la gestione rimaneva nelle mani dell’insegnante. Era più facile sottrarsi, per esempio ricopiando anno dopo anno le stesse programmazioni per adempiere agli obblighi burocratici, e poi passare alle “cose serie”: il lavoro di relazione con studenti e studentesse che è la via principale perché si riesca a insegnare qualcosa.
Siamo state proprio noi insegnanti femministe a mettere in crisi il paradigma della programmazione e affermare la centralità della soggettività e della relazione a scuola. Fin dagli anni ’80. Poi sono seguiti i percorsi di autoriforma condivisi anche con uomini ad alimentare una pratica e una cultura che oramai circola comunemente nelle scuole ed è orientata in modo ben diverso dalla “rigidità meccanica” della scuola-azienda.
Con l’algoritmo si fa un passo molto più in là. La grande massa di dati non può essere trattata dall’insegnante. La gestione sfugge dalle sue mani. Le prove a test vengono da fuori, così come la loro soluzione, vedi le prove Invalsi predisposte uguali per tutte le scuole in Italia. Le multinazionali hanno capito che per le merci il mercato è quasi saturo mentre se ne apre una bella fetta nei servizi, scuole e ospedali per esempio. Hanno cominciato a sfornare test e altri marchingegni che stanno invadendo sempre di più le scuole. Ci sono innumerevoli competenze da “testare”!
In questa concezione quale diventa allora il lavoro dell’insegnante?
Heinz von Foerster è l’inventore della cibernetica di secondo livello e non può essere certo annoverato tra i detrattori delle nuove tecnologie. Pure lui sosteneva già molti anni fa che i test misurano “il livello di banalizzazione a cui è giunto un essere umano”. Ed è questo il punto. Quello che si mira a far fuori è proprio la soggettività di chi insegna e di chi impara. Prima dell’estate al momento delle prove Invalsi si è creato un movimento di opposizione e di rifiuto a sottoporsi ai test. È ora di esprimere più a fondo e meglio le ragioni della soggettività di chi ogni giorno abita la scuola.
Conclude Luisa Muraro il suo testo Ragazze e algoritmi, una spiegazione del 23 settembre: «ma il cambiamento non rispecchia visibilmente l’opera di una crescente libertà femminile, che pure esiste … E questo è diventato per me un punto di partenza. Spero che lo sia anche per altre».
Punto di partenza per una discussione collettiva, ma non nella situazione stessa, direi. Questa è la situazione esposta da Luisa, la ridico: la nostra cultura di scambi smisurati è regolata secondo la rigidità meccanica fornita dagli algoritmi. Ma questa situazione è già avanzata, allora il punto di partenza riguarderà la discussione, e parta dalla libertà femminile che già c’è.
Libertà che ha anche messo le ragazze nelle forze armate e potrebbe mettere una ricca avvocata e politica guerrafondaia a capo del più importante apparato politico-militare del mondo. Dove è andata questa libertà? Non è più “parità” da tempo, e anche il “tetto di cristallo” è sfondato. Però l’edificio – forse aperto verso l’alto, chissà – è anche diventato comune, lo abitano donne e uomini in libere relazioni… per un unico fine, almeno in occidente, per la comune cultura e civiltà… da migliorare beninteso. In questo punto preciso, io mi sento in una impasse. Ad esempio non riesco a parteggiare per Hillary, nemmeno per essere contro Trump, come vedo fare da Ida Dominijanni. Non so, non mi oriento, rimpiango un po’ l’“estraneità”.
Da tempo alla Libreria delle donne di Milano ragioniamo su come donne e uomini stanno in luoghi molto segnati da una cultura tradizionalmente maschile, come quelli scientifici e/o tecnologici. La rete è uno di questi. Luisa Muraro in Ragazze e Algoritmi: una spiegazione, per Via Dogana 3, scrive che la rigidità meccanica degli algoritmi, utili a governare la massa sterminata di dati, non “rispecchia visibilmente l’opera di una crescente libertà femminile, che pure esiste”. E mette in guardia dalla statistica (io sono una biostatistica) ricordando che «i droni uccidono terroristi calcolati come tali con un margine di errore non umano ma statistico».
In Gli algoritmi non sono amici delle donne, sempre per Via Dogana 3, Alice Peverata, giovane ingegnera, scrive che la ricchezza femminile non si confà ad un meccanismo sequenziale ed inequivocabile come quelle degli algoritmi.
In passato io e Laura Colombo (web-mater del sito della Libreria delle donne di Milano) abbiamo ragionato e scritto in diverse occasioni su cosa vuol dire fare politica delle donne sul web, e il rischio di far fuori la differenza sessuale e perdere le potenzialità dello scambio in presenza, se si rinuncia al sapere che viene dall’incontro di “corpi”, che permette di pensare, confliggere e reinventare le relazioni, tenendo conto anche di ciò che non passa per il linguaggio scritto.
Tutto questo è lì, dobbiamo tenerlo presente e raccontarlo, per non farci giocare dalle magiche sorti progressive della scienza, della tecnologia, del web.
Ma allo stesso tempo devo ammettere che ho esultato quando su Facebook ho letto l’ultima intervista della regina del pop eclettico, Björk, cantautrice, compositrice e produttrice discografica. Una donna coraggiosa, impegnativa, difficile, eclettica, che ama sperimentare e creare una musica che richiede tempo per essere compresa e non si preoccupa di rendersi piacevole e commerciale. Nonostante questo nel 2003 ha venduto in tutto il mondo 40 milioni di dischi, ha vinto innumerevoli premi internazionali, per l’originalità delle sue canzoni, le innovazioni tecnologiche dei suoi video e persino la Palma d’Oro e il premio per Miglior Attrice al Festival di Cannes nel 2001. Persino il MoMA di New York le ha dedicato retrospettiva, in onore della sua carriera di artista.
Nell’articolo del 24 settembre pubblicato su Repubblica.it e intitolato Björk: La tecnologia libera le donne dai giochi di potere la cantautrice presenta una app (“Biophilia” la prima app che entra al MoMA) che rende l’ascolto della musica un’esperienza non più esclusivamente passiva: l’app «permette di trasformare ogni traccia in un gioco e contiene programmi con cui lavorare sui testi delle canzoni e fare musica. L’applicazione è stata utilizzata addirittura in molte scuole islandesi e della penisola scandinava per insegnare musica ai bambini.» Conclude l’intervista, che ha rilasciato in occasione di una mostra interattiva rivoluzionaria a Londra sulla realtà virtuale, affermando che la tecnologia «svincola le donne da sistemi di patriarcato e giochi di potere» e grazie ad essa crea la sua arte. Con le nuove tecnologie si possono realizzare video digitali anche senza grandi mezzi economici, e si è meno soggetti al potere delle case produttrici. In un’altra intervista sul Guardian1 spiega che con i video digitali di questa epoca storica si sperimenta un’enorme libertà, specialmente per le donne, come ai tempi delle video-artiste degli anni ’70.
Ecco, leggendo Björk ho esultato perché lei e un bell’esempio di quella grandezza femminile che osservo sempre più nel mondo. La storia del femminismo ha mostrato che le donne ovunque decidano di andare, anche nei luoghi più patriarcali, nei luoghi di potere della politica istituzionale, nell’ambito della ricerca scientifica e della tecnologia, sanno fare invenzioni per portare la loro soggettività.
Un altro bell’esempio che ho vissuto più da vicino riguarda l’ultimo congresso internazionale di una società scientifica di ricercatori di base a cui ho partecipato come organizzatrice e relatrice. Si trattava di un congresso con scienziati che venivano da tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, e come ogni congresso scientifico gli interventi preordinati avevano una struttura molto simile, il linguaggio è molto tecnico, chiuso agli addetti ai lavori, le presentazioni in power point sono costruite in modo standard, e di spazi di libertà e di esprimere la propria soggettività se ne vedono molto pochi. Ma questa volta, insieme ad una spagnola, una francese e un paio di amiche ricercatrici italiane, abbiamo deciso di inserire una tavola rotonda per ragionare a modo nostro sulle donne nella scienza, facendo incontrare scienza e filosofia, discutendo in modo libero, circolare, partendo dalla nostre esperienze, per capire in che ambiti le scienziate scelgono di essere e perché, come lavorano, come raccontano il loro lavoro, come affrontano le difficoltà nel gestire maternità e professione… Durante la tavola rotonda emergeva con chiarezza quanto fosse diffusa la consapevolezza che non ha senso parlare in termini di uguaglianza, tra ricercatori e ricercatrici, e che quella scienza che ha la presunzione di essere universale e valida per tutti ci perde anche in termini di sapere scientifico se non ragiona sulla differenza sessuale, sia dal punto di vista del modo di indagare il reale, quindi del metodo scientifico, che dell’oggetto di studio (dalla cellula all’umano). E così la biostatistica nelle mie mani diventa uno strumento potente e flessibile, che mi aiuta a indagare e rappresentare la variabilità del reale, prima di tutto il modo in cui uomini e donne affrontano le malattie e la cura.
Concludo sottolineando che se guardiamo alla storia e a quello che è successo con la rivoluzione femminista, sappiamo che l’opera della crescente libertà femminile esiste se sappiamo raccontarla, se ci assumiamo la responsabilità di guardare con la lente della differenza sessuale anche, e soprattutto, negli ambienti che sembrano più neutri, come possono essere quelli tecnologici e scientifici: sono tante le donne che non rinunciano più a essere sé stesse e a portare la loro soggettività là dove sono, dipende anche da noi metterle al centro della scena.
Perché se è vero che la ricchezza femminile si manifesta nella sua pienezza nell’ambito letterario e nelle cosiddette materie umanistiche, sabato all’incontro alla Libreria delle donne di Milano, alla discussione partendo dal libro di Vita Cosentino Scuola, sembra ieri, è già domani di Moretti & Vitali, una professoressa di liceo ha ribadito che la matematica che lei insegna ai ragazzi è anch’essa un’occasione di libertà per studentesse e studenti, per scoprire come il mondo può trasformarsi nelle loro mani, partendo dai loro desideri.
Per questo continuo a insistere che il problema non è la rete, la tecnologia e la scienza, che nelle mani delle donne possono trasformarsi in possibilità di libertà e di illuminare in modo diverso il mondo.
Il segreto è non rinunciare ad esserci con coraggio e inventiva svincolandosi «dai sistemi di patriarcato e i giochi di potere», anche grazie alla tecnologia e alla scienza, perché anche Björk ne è convinta: una terza o quarta ondata di femminismo è nell’aria2[2].
- «I really feel now those headsets are like a private theatre of anarchy. I have an enormous freedom, I can set up anywhere. And I’m noticing more and more that it is especially liberating for women since we don’t have to deal with the history of patriarchy or play any power games», she says, comparing the process to the work of female video artists in the 1970s. «It is an open field, it’s wide open». https://www.theguardian.com/music/2016/sep/02/bjork-digital-vulnicura-vespertine ↩︎
- http://pitchfork.com/features/interview/9582-the-invisible-woman-a-conversation-with-bjork/ ↩︎
Lo strano titolo della Redazione allargata VD3, 11 sett. 2016, ha un significato che si è chiarito con l’incontro dell’undici, in parte. In parte resta da chiarire, mi sono resa conto, anche da parte mia che l’ho ideato. Preciso che l’ho ideato come una situazione più che come un tema. Mi pare che l’incontro sia andato bene, ha fatto affiorare temi e problemi.
Racconto l’inizio. Un anno fa ho incontrato una giovane anzi giovanissima donna dal carattere combattivo, di nome Luisa C.B. Ha cominciato a venire alla Libreria delle donne di Milano, via Pietro Calvi 29, e un giorno mi ha detto: “con voi della Libreria non dico che sono femminista, non me la sento, ma con le mie amiche e amici lo dico, perché è oggettivamente così”.
Ha aggiunto altre cose, fra cui che la parola “oggettivamente” le piace. Ha accettato volentieri la mia proposta d’introdurre con me la redazione allargata di VD 3.
In effetti, lei è veramente femminista, lo è nel senso oggi più condiviso: l’uguaglianza tra donne e uomini non è ancora raggiunta. Va detto però che questo senso di una giustizia ancora negata alle donne, non è accettato da alcuni della sua età, maschi un po’ sbruffoni o forse veramente antifemministi. (Il che si nota anche a livello mondiale.) Quando nascono conflitti, ci ha raccontato, lei rivendica il suo femminismo, ma nota con disappunto la riserva in cui si tengono pubblicamente amici e amiche. A questo proposito ha parlato di una comfort zone, concetto per me nuovo. Fa capire qualcosa della reticenza giovanile e femminile, nonostante la libertà di parola che c’è grazie alla rete. Ma in presenza e in pubblico…
Perché, con noi della Libreria, Luisa C.B., pubblicamente combattiva, esita a dichiararsi femminista?
Anche questa sarebbe reticenza? No. Secondo me, essendo lei una tipa intelligente, ha avvertito che per noi c’è dell’altro oltre alla questione dell’uguaglianza non raggiunta tra donne e uomini. Lo sente ma non sa che cos’è.
Che cos’è, in effetti? Noi crediamo di saperlo compiutamente ma la nostra è una mezza presunzione. Sappiamo dirlo, sì. Si tratta di far venire al mondo il senso libero della differenza sessuale, dentro di sé, nei rapporti con gli altri e nella cultura vissuta a quei livelli per cui diventa creativa.
Ben detto ma anni di frequentazione, letture, scritture, convegni, citazioni, ci fanno credere di avere messo al sicuro l’essenziale, ossia quello che è stato il movente effettivo della rivolta delle donne. Una Carla Lonzi mirava alla libertà, non all’emancipazione.
Stiamo parlando di un’impresa non solo del femminismo, ma dell’intera civiltà umana, oggi. Impresa di cui è difficile comunicare il movente, che è un desiderio soggettivo, e la misura, data dalla libertà personale. Doppiamente difficile in una cultura dove gli scambi crescono a dismisura, e corre per ciò stesso il rischio di perdere la sua plasticità.
La rigidità meccanica, ecco il problema che pongono gli algoritmi utili a governare la massa sterminata dei dati, i famosi big data forniti dagli utenti della rete e disponibili a pochissimi. Sapete che i droni uccidono (effetti collaterali a parte) terroristi non giudicati ma calcolati come tali con un margine di errore non umano ma statistico?
A suo tempo, come qualcuna ricorderà, abbiamo parlato di un cambio di civiltà, anche sulla rivista Via Dogana: pensavamo alla libertà femminile che avrebbe trasformato donne e uomini nel modo di essere e di relazionarsi. Allora era più facile vederlo. Un cambio di civiltà è in corso, le donne c’entrano non poco, ma il cambiamento non rispecchia visibilmente l’opera di una crescente libertà femminile, che pure esiste. Luisa C.B., nell’incontro di VD 3, ha testimoniato l’una e l’altra cosa.
E questo è diventato per me un punto di partenza. Spero che lo sia anche per altre.
Care amiche di Via Dogana 3, ho partecipato alla riunione domenica 11 settembre e ho letto con molto interesse l’articolo di Alice Peverata Gli algoritmi non sono amici delle donne (16 settembre 2016).
Vi scrivo perché mi sono imbattuta in una notizia che dà spunti di riflessione proprio su donne e algoritmi.
Il 31 agosto 2016 Matt Day, giornalista esperto di tecnologia del Seattle Times, ha pubblicato un articolo in cui mette in luce come l’algoritmo di ricerca di LinkedIn, il social network dei professionisti in rete tra loro, non sia immune da pregiudizi di genere (How LinkedIn’s search engine may reflect a gender bias). Nel momento in cui si cercava il nome di una donna, “Stephanie Williams” è l’esempio di Matt, il sistema proponeva l’alternativa maschile “Stephen Williams”. Non era così se l’oggetto della ricerca era un nome maschile. Parlo al passato perché in pochissimi giorni LinkedIn ha cambiato l’algoritmo, proprio in seguito al report del Seattle Times: ora se si cerca il nome di una donna, non c’è alcun avviso ai naviganti per una possibile alternativa maschile (LinkedIn changes search algorithm to remove female-to-male name prompts, 8 settembre 2016).
In questi articoli, il giornalista sottolinea che ricercatori e ingegneri del software sanno che gli algoritmi di intelligenza artificiale alla base dei motori di ricerca sono soggetti agli umani pregiudizi. Nel caso riportato sembrerebbero ricondurre a uno schema neo patriarcale, passato dal subconscio dell’architetto software al codice attivato nel motore di ricerca. Il rimedio sembra essere la rimozione della differenza sessuale, entrata dalla finestra (come misoginia) con l’algoritmo di ricerca, dal momento che LinkedIn non chiede di dichiarare il proprio genere quando ci si registra. È una posizione in linea con l’altro paradigma alla base (anche) della rete, cioè il superamento della distinzione binaria maschio / femmina. Forse sta qui, tra patriarcato di ritorno e liquidazione della differenza, la lotta per un senso diverso da dare alla rete?
L’incontro di Via Dogana 3 Ragazze e Algoritmi ha dato il via in maniera spontanea a una riflessione circa il significato che le parole “ragazze” e “algoritmi” hanno per me e soprattutto il loro accostamento. Gli algoritmi non sono amici delle donne.
Che cosa è un algoritmo? È, come da definizione, una sequenza precisa di operazioni comprensibili e perciò eseguibili da uno strumento automatico. Il mio interesse è colto da due termini che identificano la parola: “sequenza” e “operazioni comprensibili”. Procediamo con ordine: l’algoritmo è sequenziale. Questa sua caratteristica lo rende quanto di più lontano ci sia dal rapporto alla cui base troviamo sempre un’interazione, uno scambio e allo stesso tempo un’apertura sia tra chi lo intrattiene che con il mondo circostante. L’algoritmo è invece incanalante: si segue sempre l’assioma euclideo del cammino più corto, più veloce e non c’è possibilità di cambiamento perché il meccanismo è lo stesso. Con quest’osservazione non voglio sminuire l’importanza pratica di operazioni meccaniche che noi tutti conosciamo, tenevo a rilevarne la differenza.
L’algoritmo è anche, per quanto leggiamo, privo di ambiguità. Qui si gioca un’altra importante caratteristica: ogni azione svolta deve essere univocamente interpretabile dall’esecutore e pertanto se qualcosa non ha i criteri per essere processato non entra nella logica dell’algoritmo.
Ora la parola “ragazze”. Non appena vidi il titolo dell’incontro mi sembrò che dall’accostamento tra le due nascesse un ossimoro. Perché questo? Per molto tempo le ragazze sono rimaste fuori da quella logica, non avendo forse, fortunatamente, i criteri per essere “processate”.
La ricchezza e la totalità femminile di cui scrittrici e scrittori oggi e nella storia hanno parlato non si confanno ad un meccanismo sequenziale ed inequivocabile. Questo non perché una donna sia per natura incomprensibile, ma la sua capacità di “raccogliere da ogni cosa soltanto ciò che la alimenta, che la vivifica” le fornisce mille sfumature che un algoritmo non può comprendere.
Io sono una ragazza e studio ingegneria. Questo argomento è vicino alla mia sensibilità: mi piacerebbe non dover rinunciare alla mia femminilità in alcuni momenti e luoghi della mia vita.
Qualcosa può cambiare. Potrebbe esistere un nuovo tipo di algoritmo? Un algoritmo flessibile?
domenica 11 sett. 2016, ore 10
in via Pietro Calvi, 29 – Milano
Che cosa sono gli algoritmi?
La parola viene dall’arabo (segno di riconoscimento: al-), in origine era il nome di un matematico arabo. Oggi indica le regole per fare operazioni meccaniche e sicure. Sono diventati molto importanti con la rivoluzione digitale, in quanto ottimi dispositivi di calcolo per chi vuole operare in maniera sicura e veloce sui grandi numeri che la Rete mette a disposizione.
Che cosa…, no: chi sono le ragazze? Sono donne (e uomini) nate e cresciute con la globalizzazione, e formate ai tempi della crisi-che-non passa; la precarietà gli appartiene in proprio, non se ne lamentano quasi, devono lottare per esserci e farsi (ri)conoscere.
Che rapporto fra quelli e queste? E che rapporto abbiamo con loro, le ragazze e gli algoritmi, noi fedeli alla rivoluzione femminista?
Non si tratta di fare della sociologia ma di ritrovarci in quello che si presenta come un cambio di civiltà.
Lo scambio sarà liberamente aperto alle persone e alle questioni. Sarà introdotto da due comunicazioni:
-Luisa Muraro, socia fondatrice della Libreria delle donne, Da Berlusconi a Trump, dalla televisione a internet;
-Luisa Carnevale Baraglia, maturità superata nel 2016, Noi e il femminismo.
Cara Via Dogana 3,
in questa estate che sembrava decollare con fatica, leggo sul sito della Libreria che l’incontro di via Dogana 3 del mese di luglio non ci sarà. Mi dispiace e attendo con curiosità l’incontro di settembre. Con il caldo in arrivo il bisogno di vacanza comincia a farsi impellente. Ma il sito resta aperto e quindi, mi dico, perché non restituire qualche eco che la partecipazione agli incontri ha avuto per me? Ripercorro alcune suggestioni.
Non casualmente, tra gli incontri a cui ho partecipato, quello che più ha avuto risonanza in me è stato l’incontro del 13 settembre Farsi forza.
Il sentimento della mancanza, del non saper riconoscere la propria forza ma anzi sminuirla e disperderla, è un vissuto con cui combatto sempre, non mi risparmia mai, nemmeno sotto la canicola estiva. Certo, mi dico, anni e anni di patriarcato, di storia scritta al maschile, qualche danno nel profondo l’avranno pur fatto!
Ho delle amiche molto care, splendide donne intelligenti e resistenti, che mi fa piacere incontrare perché mi riscaldano il cuore. Eppure, eccole là, per difendersi dagli inevitabili vissuti di solitudine e dai travagli della vita, ognuna a cercar risposte altrove: terapeuti per analisi interminabili, uomini rincorsi per storie improbabili, frenetiche attività con cui riempire il poco tempo sottratto al lavoro e alla famiglia per poi lamentarsi di non avere mai tempo. Insomma, ragazze! Come dire, tutte a rifugiarsi in un individualismo un po’ narcisista che non aiuta, che isola ed amplifica i vissuti di solitudine. Tutto questo spesso nell’inconsapevolezza della propria capacità e forza che, condivise con altre, potrebbero far nascere energie nuove da usare per sé e per il mondo.
Io non sono diversa da loro, ed è anche per questo che mi sono così care e vicine. Tuttavia come ha scritto Luisa Muraro nel suo Non è da tutti. L’indicibile fortunadi nascere donna – «il senso della mancanza tiene la porta aperta (…) ed è proprio la mancanza che dall’interiorità indica il cammino»; cosìpasso dopo passo sono arrivata alla Libreria delle donne di Milano, ho letto la mitica rivista Via Dogana, ho partecipato, anche se sempre rigorosamente in silenzio, a Via Dogana 3, e aspetto settembre in una pausa di ozio meditativo e in compagnia di buoni libri, preferibilmente di autrici.
Insomma, avvicinarmi ai luoghi del pensiero femminista e nello specifico al pensiero della differenza ritrovandovi genealogie femminili mi aiuta a farmi forza.
L’esperienza della Scuola di scrittura pensante che ho frequentato alla Libreria mi ha orientato a comprendere come tale scelta sia stata per me un atto politico, una scelta di schieramento, spontanea e ragionata al tempo stesso. Spontanea perché attinge ad una corrispondenza tra il mio sentire, la pratica del partire da sé e il desiderio di presenza al mondo. Ragionata perché ho scelto di vedere il mondo e le cose che accadono, dalle vicine alle lontane, con una lente nuova per me; ciò mi ha consentito un guadagno di forza da spendere nella vita di tutti i giorni.
Così che voglio impegnarmi a far sì che il femminismo continui a propagarsi come un virus, perché si interrompa questo sentimento nocivo di subordinazione al maschile da parte delle donne e si faccia spazio a un di più femminile: abbiamo più risorse di quelle che crediamo di avere e che mettiamo in campo.
A mio avviso l’ha ben testimoniato Laura Giordano, che nella sua relazione per l’incontro Farsi forza ha raccontato della forza guadagnata attraverso la possibilità di sperimentare una relazione politica con altre donne. Con una consapevolezza che definisco politica, politica nel senso della politica delle donne che è il partire da sé e far nascere qualcosa di nuovo che riguardi le nostre vite ma vada anche oltre le nostre singolarità, poiché apre strade nuove anche per altre ed altri.
Un’ultima suggestione da via Dogana 3: nella sintesi del primo incontro del 13 maggio Silvia Baratella ha riportato un pensiero di Luisa Muraro che, con un richiamo ad Hannah Arendt, dice: sono convinta che l’agire politico, per l’essenziale, sia l’esporsi in prima persona là dove si è, nel momento in cui le cose lo domandano. Prendere l’iniziativa. Solo dopo vengono la tenacia e la fedeltà.
Un auspicio, quasi come un augurio e anche un’esortazione, farsi forza, per prendere l’iniziativa e prendere parola, una presa di parola pubblica che rimanda alla dimensione politica dell’agire (…) ed ha a che fare con la cura e la responsabilità nei confronti della realtà sia con il desiderio di una sua trasformazione1.
- Sensibili guerriere. Sulla forza femminile. A cura di Federica Giardini, Iacobelli Edizioni, 2011 ↩︎
Le sue sono figure femminili complesse e anticonvenzionali alle prese con relazioni difficili. Sono donne e ragazze che tentano di agire le loro vite nel miglior modo possibile, seguendo una specie di etica personale, che nel tumulto delle passioni e dei desideri arrivano comunque ad una sorta di equilibrio nella concretezza di cambiamenti e di realizzazioni personali: accade nelle loro esistenze, nei momenti più confusi, di agganciare qualcosa, un pensiero, un fatto che permette loro di vedere più chiaramente in se stesse e nei loro desideri.
Per Il piano di Maggie la Miller ha scelto il registro della commedia, come ambientazione il quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, nuovo epicentro dei creativi, e per personaggi degli intellettuali: scrittori e docenti universitari colti nelle turbolenti e caotiche dinamiche familiari e relazionali create dalle nuove famiglie allargate. Insistono gli elementi autobiografici – Rebecca Miller è figlia della fotografa Inge Morath e del drammaturgo Arthur Miller – in tracce ormai rarefatte, alleggerite dal tempo e dalla memoria.
Maggie è una giovane donna single molto razionale che sa di poter contare solo su se stessa. Forte è il suo desiderio di maternità ma non sente la mancanza di legami sentimentali, anzi vuole evitarne le complicazioni. Il suo piano è semplice e attuabile: avere un figlio con la donazione di sperma sapendo già chi potrebbe essere il donatore. Un piano che la lascerebbe nella tranquillità della sua ben organizzata esistenza, con buon lavoro e buoni amici su cui contare. Ma niente è più facile nella vita che vedere i propri progetti improvvisamente scombinati da nuovi accadimenti.
È così che l’amore entra nella sua vita e sconvolge la sua razionalità quando incontra John, un professore incaricato nello stesso college in cui lavora. L’uomo, docente di antropologia in totale carenza di autostima, la cui moglie riveste nell’università cariche di maggior prestigio della sua, vede in Maggie, bella, più giovane e più attenta ai suoi bisogni e alle sue ambizioni di scrittore, la donna con cui realizzare la vita a cui aspira. Fra i due scoppia la scintilla. John dice: «In una relazione qualcuno fa il giardiniere e qualcun altro la rosa». Quando incontra Maggie sente che finalmente capita a lui di essere la rosa.
Fin qui la trama svolge un tema classico: l’intellettuale di mezza età, sensibile e in crisi, che si innamora ed è ricambiato da una donna più giovane e più attenta della moglie in carriera.
Miller però non svolge il tema sentimentale. Con un salto temporale di tre anni troviamo infatti Maggie, realizzata nel suo desiderio di maternità con una figlia deliziosa, Lily, sobbarcarsi da sola il carico di un ménage familiare che include i due figli di John e Georgette e il conseguente carico economico, mentre John continua a scrivere il suo eternamente incompiuto romanzo.
Il nuovo piano di Maggie è ora quello di uscire dalla situazione in cui volontariamente e con tutte le buone intenzioni si è cacciata. E poiché la sua natura è gentile, incapace di ferire, volendo far stare bene tutti, oltre che se stessa, il suo piano sarà oltremodo originale.
«Ognuno ha il suo momento» dice un personaggio di Personal Velocity, primo film di Miller visto in Italia, e questa sembra essere la guida su cui si sviluppano ed evolvono le storie dei suoi protagonisti, sia nei racconti e nei romanzi che nei suoi film. Un momento, un pensiero illuminante sul che fare della propria vita. E poi procedere verso il cambiamento, anche se in maniera confusa e incerta.
La Maggie di Miller ha molto della Emma Woodhouse di Jane Austen, che vuole far andare le cose del mondo e le relazioni fra le persone, manipolandole anche, secondo i propri desideri e progetti, in un intento non privo di generosità di rendere il mondo migliore. Ma anche simile alla propria volontà.
Il film è una commedia brillante e sofisticata e si avvale dell’eccezionale recitazione di Greta Gerwig (Maggie), Julianne Moore (Georgette), Ethan Hawke (John).
Rebecca Miller ha scritto e diretto altri quattro film: Angela (1995), vincitore di premi al Sundance Film Festival; Personal Velocity (2002), vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e del premio John Cassavetes Award agli Independent Spirit; La storia di Jack e Rose (2005); The Private Lives of Pippa Lee (2009).
La Miller è anche la sceneggiatrice del film Proof – La Prova(2005), tratto dall’omonima opera teatrale. È autrice della raccolta di racconti dal titolo Personal Velocity (2001- ed. Fandango) e dei romanzi Le vite private di Pippa Lee (2009, ed. Fandango) e Jacob’s Folly (2013).
Con dispiacere. Le cose di cui parlare non mancano e neanche la voglia di ritrovarci, ci pare perfino di avere qualche buona idea… Motivi di forza maggiore. Ma il sito resta aperto – info@libreriadelledonne.it – alla collaborazione: critiche, proposte, testi.
A fine agosto riceverete l’invito per l’incontro di Via Dogana 3 la domenica 11 settembre. Il programma sarà pubblicato.
Vi auguriamo vacanze buone,
la redazione ristretta di Via Dogana 3
Da tempo lavoro in un’associazione fondata da due donne, diverse da me, che stimo e sulle quali ho una scommessa ancora molto aperta. È un’associazione che lavora con ragazzi e ragazze (più ragazze che ragazzi) che manifestano bisogno sia di scolarizzazione sia di socializzazione. Le due cose vanno insieme, intricate in modi complicati, non essendo separate nella testa e nella vita di bambini e adolescenti, come si tende a dimenticare in un certo modello di scuola d’oggi, meritocratico e asservito all’economico. Si parte dunque dal “fare i compiti” e, curando un rapporto che metta in primo piano la relazione con loro e tra di loro, si arriva oltre, offrendo al desiderio dei giovani modalità non codificate di fare e stare insieme: questo grazie all’indubbia autorità positiva esercitata sui ragazzi dalle due fondatrici, e alla creatività degli operatori, soprattutto giovani che spesso danno respiro e freschezza alla serietà di noi, donne e uomini di una certa età, che siamo lo zoccolo talvolta veramente un po’ duro dell’attività di doposcuola.
Mi convince l’impostazione data nell’associazione al rapporto educativo come relazione di cura e di rispetto dell’altro, seppur piccolo, impostazione che talvolta riesce sorprendentemente a smuovere incrostazioni personali, e che nella piccola realtà di provincia rappresenta un esperimento guardato con interesse da una parte dei cittadini e delle istituzioni: una pratica fuori dagli schemi che, qua e là, riesce ad assumere, secondo me, valore politico di trasformazione, aprendo la benestante e conservatrice cittadina alle problematicità di poveri e immigrati. E quando vorrei gettare la spugna, per le mille difficoltà interne ed esterne, mi ri-convince il beneficio che ricevo nella relazione con scolari, studenti, giovani operatori.
Come si può ben capire, questa attività coinvolge in gran parte figli e figlie di immigrati, in piccola parte figli e figlie di famiglie italiane problematiche e/o sfasciate. Inutile dire che la relazione instaurata con l’associazione è mantenuta più salda nel tempo dalle ragazze, mentre i maschi in genere dopo la prima adolescenza se ne vanno per i fatti loro: in nome di una presunta libertà indiscussa, forti, parrebbe, di fratrie in parte ereditate e in parte confermate da certi aspetti perduranti nella mascolinità nostrana. Quando li vedo circolare spavaldi penso che, nei lenti cambiamenti in atto nel mondo degli immigrati maghrebini, quella che cambia meno non è la vita delle ragazze, ma piuttosto la radice storica dell’esclusione femminile, cioè l’educazione patriarcale dei giovani maschi, che perdura nei suoi effetti anche perché di grande vantaggio per la loro baldanzosità giovanile. Eppure quando si gratta sotto quella loro spavalderia….
Le giovani e giovanissime restano legate all’associazione anche dopo la scuola, e vi partecipano in posizione attiva, io credo perché alla fin fine la riconoscono come il luogo della loro cosiddetta integrazione. Non tanto la scuola, dove spesso si creano gruppetti separati dalla nazionalità pur nell’apparente rispetto reciproco, ma l’associazione, dove quel fare insieme, ad esempio teatro, aiuta a mediare rapporti diretti, spesso troppo difficili, mischiando le provenienze, grazie anche a persone adulte che danno fiducia a tutti.
Con queste ragazze emerge naturalmente la questione dell’essere donne, e qualcuna di noi cura di metterla a tema in alcune occasioni che l’adolescenza crea naturalmente, badando a non sovrapporsi ai loro ritmi. La femminilità si presenta loro non senza contraddizioni e in varie forme: come è vissuta dentro l’associazione da donne di tutte le età, come si manifesta nelle loro coetanee italiane, come è normata in famiglia, nel complicato rapporto con i coetanei maschi.
Le ragazze nate nel Maghreb, legate alla loro cultura d’origine, vivono a contatto con modelli di femminilità occidentali, che le attirano, e che spesso sono in contrasto con la loro formazione culturale e religiosa, ma non mi pare che facciano passi indietro, anzi. Se c’è un rischio è quello che indulgano nel volersi sentire pari alle ragazze italiane: e allora ecco trovati i modi, persino teatrali, per essere come tutte le altre, moderne, curate, telefonino sempre acceso, etc.
Questa posizione dentro/fuori il modo di vivere occidentale permette loro di sperimentare: essere bacchettate dai padri, essere difese e sotto sotto anche autorizzate dalle madri, prendersi anche delle belle scottature, tutte strade che le portano alla ricerca di un’idea di femminilità non poi così corrente. Per tanti versi mi ricordano noi, ragazze della fine degli anni cinquanta, strette tra legami familiari, sociali, simbolici (penso all’educazione cattolica) forti fino a strangolare, e il nostro pressante desiderio del nuovo, di cui si fiutava il profumo tra le pieghe di piccole e grandi ribellioni.
A differenza delle ragazze degli anni sessanta, loro un presunto nuovo lo hanno davanti agli occhi, nell’emancipazione da cui sono indubbiamente attirate nella loro ricerca di libertà. Ma vedo che le più accorte, dopo una prima fase di adesione agli stereotipi correnti, restano perplesse.
Non è la libertà in sé che fa loro paura, visto che ne fanno un buon esercizio nei conflitti con il padre.
C’è qualcosa che non le convince in certa femminilità pubblica, e non è facile per noi spiegare loro che non tutta la scena pubblica delle donne è libertà femminile, senza mettere in crisi il loro desiderio di libertà; che la libertà femminile è qualcosa di più profondo che l’acquisizione di diritti, cui sono molto protese, innanzitutto quello di cittadinanza italiana; che la parità con i maschi è un concetto insidioso, senza ferire le loro forti pulsioni dell’età, che alimentano il desiderio di cimentarsi con l’altro sesso.
Nella loro voglia di protagonismo, capita che scoprano, non so dire se più facilmente di quanto capitasse a noi, quella che noi chiamiamo autorità femminile dentro l’associazione. Bisogna solo cogliere l’occasione giusta per aiutarle a riconoscerla come relazione vantaggiosa per loro. Ecco perché sostengo che non è la scuola, non sono le istituzioni della cittadinanza che fanno di per sé la loro “integrazione”. Con loro si gioca una vicinanza non fatta di semplice adesione ai nostri modelli (assimilazione che chiede di rinunciare a qualcosa di sé), ma qualcosa che scatta tra “lei” e “lei”, una relazione che fa autorità, una fiducia che le fa sentire “dentro” .
Non è l’essere straniere, per certi versi escluse, che fa la differenza nel loro presente, neanche l’essere musulmane.
È piuttosto vero che noi con loro siamo impegnate a districare pubblicamente e non senza difficoltà i fili del garbuglio creato dall’emancipazionismo e dai suoi equivoci simbolici, in primis l’uniformità e la neutralità dei modelli con cui la globalizzazione investe ogni parte del mondo in nome di una libertà senza differenze. È quell’emancipazionismo che molte ragazze immigrate non accettano, rischiando di ritrovare rifugio nella conferma di un destino femminile dettato, secondo la discutibile vulgata corrente, dal Corano, storicamente sostenuto da istituzioni che vanno dalla famiglia patriarcale allo stato islamico.
Ma qual è il giudizio che di primo acchito verrebbe da dare su queste loro incertezze? Non sono ancora libere, non si sono liberate dal fardello dei precetti religiosi. Fermarsi a questo giudizio – ed è il primo pensiero che può venire, viene a tutte di primo acchito – è non essere disposte o preparate ad ascoltare la differenza dell’altra. È misconoscere l’altra, non darle fiducia, rischiando di perdere la relazione, facendo di culture e religioni diverse una barriera tra donna e donna.
Come sull’esplosione del fenomeno ISIS: le ragazze erano quasi offese che si chiedesse conto proprio a loro di un problema col quale c’entra non poco anche l’Occidente. Non è questione di religione, sostengono, e riguarda noi quanto voi.
O sulla questione della cura. Presentata in una iniziativa pubblica come esperienza femminile buona per tutti, uomini e donne, piegata però dal neoliberismo a “supplemento d’anima” che mette le pezze al disordine, all’insensatezza, alle falle dell’organizzazione economica, ha suscitato in una giovane maghrebina il seguente contributo: anche qui sento che la donna diventa uno strumento; in altri mondi viene sfruttata. E non è libera. Le difficoltà sono sempre le stesse: non esiste primo, terzo mondo. Oltretutto il modello occidentale rischia di essere assunto anche in altri mondi, distruggendo aspetti positivi della cura, propri di alcune società non occidentali.
Nel percorso di questa giovane perplessa, tocco con mano il lavoro che c’è da fare, nelle singole situazioni e a livello simbolico, per dare concretezza alle parole di quelle che da anni dicono: il mondo cambia se cambia il destino delle donne.
Allora, quando si fa fatica a confrontarsi con le ragazze velate, penso sempre a come già dalla prima guerra del Golfo, venticinque anni fa, l’operazione di polizia internazionale presentava l’Occidente come il salvatore delle donne musulmane oppresse, e quelle che da noi e soprattutto nel femminismo anglosassone ci sono state, ci sono state in nome dei diritti universali e dell’emancipazione femminile. Certo dimenticavano che militarismo, imperialismo, oggi aggiungerei globalizzazione e risorgenti nazionalismi, trafficano tutti con il corpo delle donne. Ma più che di ingenuità nel giudizio politico, mi pare che il problema stia più a fondo, nel voler riportare le differenze delle altre sempre alla tua indiscussa identità. Sono anche convinta che, se è urgente che si apra veramente il dialogo tra civiltà e culture diverse, il femminismo ha gli strumenti per farlo: la differenza che ci portiamo dentro, l’essere vicine alla vita, lo stare legate all’esperienza.
“Sentono il foraggio” – dice Armisd, e pensa – “Ecco come è la donna. Sempre la prima a dare addosso a un’altra donna, a fregare una sua sorella donna, ma pronta a passeggiare sotto gli occhi di tutti senza vergogna perché sa che gli uomini la proteggeranno. E alle altre donne non ci bada, non ci pensa. Mica è stata una donna che l’ha messo in quello che neanche lei chiama imbarazzo. Sì, mio caro. Appena una prende marito, o si trova in imbarazzo senza essere maritata, subito la vedete che si apparta dal suo genere e passa il resto della sua vita a cercar di entrare nella razza degli uomini. Ed è per questo che pigliano tabacco e fumano e vogliono il voto”.
Faulkner, Luce d’agosto, 1932, trad. it. Vittorini, 1939.
“Una idea davvero nuova di famiglia potrebbe cominciare con la premessa che la unità familiare di base consiste della madre e del bambino.
Questa unità di base, sebbene sperimentata da molte donne e bambini nella nostra società, non è mai stata accettata come una alternativa positiva sul piano ideologico o retorico alla famiglia sessuale, che caratterizza le famiglie intorno alla relazione tra i suoi membri adulti, maschio femmina o dello stesso sesso. Una donna e il suo bambino ‘soli’ sono considerati una unità incompleta e pertanto deviante. Sono identificati come una fonte di patologia, i generatori di problemi come povertà e crimine.”
Martha L. Fineman, The Neutered Mother, 1992.
Nel suo libro recente sull’utero in affitto Muraro riflette sul perché, ai tempi della legge sulla procreazione assistita, nel 2004, ‘non siamo riuscite a modificare l’impostazione del dibattito’, che era imperniato sulla sorte giuridico-scientifica dell’embrione (ovuli e sperma) secondo un punto di vista maschile, facendo parlare, invece, l’esperienza dell’aver figli da un punto di vista femminile. Perché non ci siamo riuscite? «Abbiamo parlato – rispondo – dal luogo di una autorità femminile che non risuona nella vita pubblica».
Il diritto è senza dubbio un fenomeno molto poroso a ciò che ‘risuona nella vita pubblica’. I giuristi e le giuriste ricevono nelle università per il 90% un sapere accreditato, conforme a quello che per brevità chiamerò il punto di vista dominante, cioè quello che si accorda col potere effettivo vigente. Le istituzioni giuridiche, a cominciare dalla Corte costituzionale, si incaricano spesso di fabbricare le concezioni adattate ai tempi, cioè alle compatibilità e esigenze del sistema cui appartengono. Dopo che per decenni una cosa simile era sembrata impensabile, due anni fa la Corte costituzionale ha fatto una sentenza che in sostanza rende obbligatoria la legge elettorale maggioritaria, la quale è adatta allo spirito dei tempi, che idolatra i capi e ama le semplificazioni demagogiche.
Per la sua adattabilità a ciò che domina nella vita pubblica il diritto, che un tempo postulavamo falsamente neutro perché ispirato a valori e concezioni maschili, oggi si intona a un altro grande neutro, la parità tra i sessi, che, esattamente come l’universalismo a base maschile del passato, nega l’esperienza femminile e ogni differenza. Nelle loro scuole di formazione e fin dagli anni di università, i futuri magistrati e le future magistrate, funzionari pubblici che di mestiere eseguono la legge, ricevono dosi cospicue di parità, non certo di pensiero della differenza; aggiornandosi sul diritto europeo, ‘internazionalizzandosi’, essi imparano a considerare che le differenze sono un male, solo ingiusti privilegi o ingiusti svantaggi. I giuristi odierni vengono tutti educati a diffidare della differenza, a ricercare la parità. Si capisce perché: nella parità le istituzioni governanti hanno riconosciuto il perfetto equivalente funzionale del patriarcato, questo fa della parità la nuova Legge di Natura, Vera e Giusta e che, siccome assicura il Progresso, deve essere amata dai Tolleranti e dagli Illuminati.
La parità consiste nel chiamare le donne a fare la parte un tempo riservata agli uomini affinché il meccanismo di fondo del capitalismo occidentale, lo sfruttamento dell’opera della madre, si riproduca indisturbato. Lavorerai come un uomo e delegherai alla badante il lavoro di cura, sottopagandolo; conquisterai più potere d’acquisto per consumare un po’ di più il pianeta; metterai il tuo ovuletto nel corpo di un’altra e aspetterai che ti faccia un bambino in cambio di un po’ di quattrini (è di Daniela Danna questa idea del padre-femmina, e anche l’attenzione sul come mangiarsi l’opera della madre significhi, tra le altre cose, distruggere il pianeta). Sotto l’imperio della parità scompaiono materno e paterno, si dilata la ‘genitorialità’. Molte energie sono spese affinché l’ordine simbolico della madre che è l’ordine del voler bene, della cura e della fiducia dove corre ‘un’autorità che non è potere’, resti servente e non detto sotto l’ordine del denaro e sotto gli imperativi dell’unico potere – la legge del più forte – che riesce a farsi riconoscere e pregiare come tale ‘nella vita pubblica’.
E però, oltre all’ammasso di pensieri dominanti di un dato tempo, sedimentati in leggi e disposizioni che dirigono e disciplinano l’esperienza umana, il diritto contiene un altro patrimonio, che non rappresenta potere, ma cultura e civiltà. Oltre alle leggi, prima di esse, a fare il diritto sono i principi generali, tramandati dalla tradizione, originati dalla pratica giuridica del corso dei secoli. Questi principi prescrivono di interpretare i contratti, o le leggi, secondo buona fede (un criterio che può portare a dare torto alla parte più potente!), di impedire che dall’abuso del diritto possa nascere un arricchimento (un criterio che può mettere in difficoltà chi è in posizione dominante!), di ascoltare sempre l’altra parte (ti può proporre una lettura alternativa del problema!). Hanno sempre avuto, i giuristi, una loro idea di eguaglianza, diversa da quella, di matrice politica, per cui l’eguaglianza è l’eguale soggezione alla stessa legge, o la parità di trattamento. Quest’altra idea comincia in Aristotele, passa ai giuristi romani, arriva sino ai manuali di diritto costituzionale odierni, e alla pratica del diritto attuale, dove la chiamiamo ‘ragionevolezza’. Conosciuta anche come equità classica, ammonisce che l’eguaglianza non consiste nel trattare tutti allo stesso modo, ma nel trattare in modo eguale ciò che è eguale e in modo diverso ciò che è diverso. È un’uguaglianza che nasce dalle differenze, e insegna che negarle è ingiusto.
Alla luce di questo criterio, come io l’ho imparato, e come lo insegno, la discriminazione è l’ingiusta differenza di trattamento o l’ingiusta parificazione di trattamento, non consiste, cioè, nel semplice trattamento diverso, ma nel trattamento diverso, o uguale, che non risponde a una esigenza della cosa, alla sua ‘natura’. L’obiettivo dell’eguale secondo la natura della cose non è la parificazione tra le esperienze, ma il trattamento adeguato a come sono. È difficile, certo! Ci ingaggia tutti in una discussione, e trasforma la giustizia in una ricerca, altro che una verità prestabilita!
Quando si ricerca il modo per ‘dare a ciascuno il suo’ tenendo conto della sua situazione, delle sue caratteristiche, della sua natura, lo status quo può venire rovesciato, le convenienze del potere attaccate, le tradizioni ingiuste abbattute, in nome della natura della cosa la cui percezione, il cui valore, senso e importanza cambia tramite coloro che ne parlano e dicono cosa ne pensano; l’assurdità di una legge, l’arbitrio del potere, il carattere vecchio e sorpassato di un istituto della vita civile sono messi a fuoco tramite la parola e il sentimento di chi ne fa esperienza.
Consolidare il potere, ma anche metterlo in discussione; negare l’esperienza vivente, trarne invece origine; prediligere dogmatismi astratti, falsificanti e unilaterali, oppure ragionare in concreto tenendo conto della complessità delle cose e dei molteplici aspetti di un problema: queste due anime sono sempre compresenti nel diritto, che è scienza impura, mescola criteri nati in tempi e luoghi diversi, e, se si riduce a una logica sola, vuol dire che vi hanno preso sopravvento semplificazioni autoritarie. Quella stessa Corte costituzionale che, siccome oggi fa al potere comodo che sia così, s’inventa che la legge elettorale non può che essere maggioritaria, ha pur giudicato dell’eguaglianza una legge che imponeva per motivi di risparmio pubblico di dare a tutti gli alunni disabili uno stesso numero (esiguo) di ore di sostegno. Non lo sappiamo tutti, non è nella natura della cosa che un disabile può essere più o meno grave di un altro, e richiedere pertanto diverse ore di sostegno? Così ragionò quella volta la Corte, e questo è lo spirito dell’equità classica, del giusto naturale mutevole, che rende possibile problematizzare la norma, il dettato del potere, per la sua irragionevolezza rispetto alla natura delle cose. E guardando alla natura della cosa, ben prima della parità europea, sono stati ritenuti incostituzionali i limiti di altezza per entrare nel servizio pubblico, dato che con la natura della cosa di fare il vigile urbano la statura non c’entra.
Il diritto è braccio del potere, una tecnica al suo servizio, ma anche scienza pratica che per affrontare i problemi della convivenza si è data criteri per affrontare l’opinabile e il controverso, sono questi i principi generali, che nessun legislatore ha dettato ma che sono nati nell’esperienza. Se qualche volta consideriamo il diritto, anche, un fenomeno di civiltà è perché tutti, non solo i giuristi, sappiamo o almeno intuiamo che esso contiene questi antichi principi generali, li diamo per scontati e li pregiamo. Per esempio una come Luisa, che non mette certamente il diritto tra i suoi grandi amori, proprio nel suo libro sulla surrogazione a un certo punto concede che esistano ‘proibizioni di legge che sono principi di civiltà’ come il divieto di commercializzare il corpo umano e i suoi prodotti. Più che proibizioni di legge, lo ripeto, sono forme storiche di principi generali: non guadagnerai da un abuso, come è inevitabilmente approfittare della miseria – materiale o morale – che, sola, può spingere uno a vendere un proprio organo.
I principi generali del diritto sono i valori elementari della convivenza civile: vivi onestamente, non far danno ad altri, arricchisciti del guadagno lecito, non abusare dei tuoi diritti, ascolta il punto di vista altrui, fonda le tue pretese su prove e su argomenti che abbiano senso comune e reggano a obiezioni plausibili. E non far finta che le differenze non esistano, perché ci sono, ci sono differenze di reddito e di condizioni materiali, per quanto comodo faccia al borghese negarlo; ci sono differenze di sesso, per quanto comodo possa fare ai maschi o all’economia di mercato o alla tecno-scienza negarlo, per passar sopra alla relazione materna e vendere i bambini come oggetti.
Affinché una società abbia diritto non importa quante leggi abbia, deve avere questa logica del contraddittorio e della parità delle armi nello scambio, veridico, cioè sincero, di diversi punti di vista intorno alle cose, a come sono, al loro senso, al loro valore. È quando questa logica cede che sentiamo che non c’è più diritto, ma solo potere.
Da sempre c’è una lotta tra il diritto-potere, il diritto dettato dalla legge e insegnato come verità ai suoi burocratici esecutori, e il diritto-civiltà, che sottopone a revisione continua le verità stabilite in nome di nuove verità soggettive. La lotta tra il principio di parità di trattamento, nemico delle differenze, e l’eguaglianza in senso classico, che dalla differenza trae stimolo alla ricerca della giustizia, è l’emblema odierno di questo scontro. L’‘eccesso di differenziazione’ cui conduce l’equità classica è il motivo per cui è contrastata dai contemporanei macchinari del potere, per il cui efficiente rendimento sono più comode le soluzioni uniformi (è Luhmann che lo ha apertamente teorizzato).
Il diritto-potere e il diritto civiltà usano dunque diversamente il concetto di natura. Per il primo è un ordine prestabilito, una verità certa, un bene auto-evidente, che passa agevolmente dalla Legge di Dio a quella di Ragione a quella del Denaro; sempre un Vero preteso auto-evidente è in gioco quando il diritto funziona come potere. Per il diritto-civiltà la natura è la natura delle cose per come la vedono e la sentono, in un dato tempo, in un dato luogo, coloro che le vivono.
Oggi il concetto di natura ritorna con una certa frequenza quando si parla di maternità surrogata. Lo usa nel suo libro Daniela Danna, lo usa nel suo Luisa Muraro. Si sente che nel richiamo alla natura ci può essere qualcosa di utile per la libertà femminile, ma ci si chiede come resistere alla diffusa convinzione che natura sia invece, sempre e solo, un concetto oppressivo nemico della libertà, una convinzione che fa ostacolo a ogni richiamo alla natura, specialmente nelle cose che riguardano le donne. Il bivio è se rifarsi alla Legge di Natura, autoritaria, o alla natura della cosa, criterio del possibile.
Io penso che sia questo secondo criterio di cui sentiamo il bisogno, e che, parlando di natura, stiamo chiamando in causa un’idea di diritto, che è quella che ho definito il diritto-civiltà: lo spazio del controverso entrando nel quale una può far valere il modo in cui sente la natura di una cosa e considera giusto regolarla. È lo spazio che intuiva Lia Cigarini quando immaginò il rapporto avvocata-cliente come fonte di un nuovo diritto: il criterio dell’equità classica, la natura della cosa, è un invito a prendere la parola, a far parlare quella che, per ciascuna di noi, è la natura di qualcosa, la sua essenza, il suo pregio, il motivo per cui ce ne importa, o il male che ci fa. Che oggi alla ‘natura della cosa’ venga negata esistenza, autonomia, che oggi sembra che esista solo il concetto di Natura come verità ontologica (si presenta anche nella versione di Natura Oppressiva), non è una novità, è accaduto e riaccadrà. Sempre al ragionamento probabilista e possibilista del diritto-civiltà vengono negate le basi, che stanno appunto nell’idea anti-autoritaria, dal basso e controversiale della natura della cosa: che essa fa paura e non conviene al potere. Il vivente non deve parlare, non deve sapere di sapere, di avere una competenza su quel che vive ed esperisce, dice la Legge di Natura di ogni tempo, che ci suppone subalterni. Pensare che gli esseri umani possano ragionare a partire da sé della natura delle cose suppone un’idea troppo alta delle donne e degli uomini, per piacere al potere di ogni tempo.
Oggi sull’esempio di Lia ci sono avvocate che fanno il loro mestiere non calandosi in una dimensione neutra ma scegliendo di portare il punto di vista proprio e della donna che rappresentano, per esempio le avvocate dei centri antiviolenza di cui parla il libro di Ilaria Boiano: cercano di far venire fuori la natura della cosa per come la vedono e la esperiscono. E ce ne sono anche tantissime altre, donne giudice, donne avvocate, donne cliente, cioè parti del processo, che si fanno invece portatrici del neutro, della parità, del linguaggio del potere che hanno appreso e interiorizzato: sono gli eterni alfieri del Giusto e del Vero assoluti, sono loro i veri replicanti del Diritto di natura in senso ontologico, quello che dà sempre ragione ai potenti di turno, sancisce come eterno e indiscutibile l’ordine costituito, e per premio ti dà di far razza con esso.
Se è vero, come penso sia vero, che le donne oggi possono entrare e giocare a pieno titolo nel mondo del diritto (Ilaria Boiano), sta alla scelta delle donne se appellarsi al diritto potere, rafforzandolo (come se ne avesse bisogno!), o se pregiare il diritto-civiltà.
Nel caso delle ormai famose sentenze sulla cosiddetta adozione gay è stata seguita la prima strada: due donne ricorrono al tribunale dei minori affinché la compagna dell’una possa adottare i figli dell’altra, ed esce una sentenza che senza dar conto alcuno che si tratta di due donne, di cui una ha partorito i propri figli, è pronta per essere replicata, e lo è stata, per due gay, di cui uno il bambino lo ha comprato. Non è un caso che la sentenza sia così. Le due ‘attrici’ non hanno fatto alcuno sforzo perché la sentenza tenesse conto che erano due donne, a cominciare dall’aver dichiarato di amarsi come persone, e non, per l’appunto, come donne. È l’invito a nozze, per una giudice ferreamente educata al diritto-potere, imperniare la sua sentenza sui concetti neutri di ‘genitorialità’ e ‘nuove famiglie’, e a tradurre le scelte di vita di due donne a un inno ai valori di una Legge Naturale di Parità che produce ‘Progresso’. Come perdere una occasione di aggredire l’autonomia e la competenza su di sé degli esseri umani, tanto ghiotta come quella offerta dalle due donne, che chiedono che il ‘legame inscindibile’ che già lega le bambine alla compagna della made, sia coronato dal diritto, ma non spiegano che cosa in tal modo il diritto aggiunge alla loro felicità, e affermano allora che è appunto l’essere nel diritto, avere l’approvazione del potere, la massima aspirazione dell’essere umano? La sentenza cola brodo di giuggiole approvando la rimessione che queste donne fanno delle loro scelte più private e più intime agli esperti e agli psicologi, che le hanno assistite nel loro ‘percorso di genitorialità’ e che consiglieranno loro le parole con cui spiegare alle figlie come sono nate. Freme di gioia davanti a chi le chiede si affermare l’imprescindibilità della Legge: benché insegnanti, maestre d’asilo, amici e altri genitori si dimostrino capacissimi di accogliere la realtà vissuta da queste bambine, cioè diano dimostrazione di buon senso e capacità di assunzione di responsabilità, due cose molto buone per la salute della società, la decidente può dire a gran voce, sapendo di andare incontro a quel che le chiedono le ricorrenti: tutto questo non basta! Grazie all’azione delle due mamme, una lezione ci è stata impartita, l’ennesima, per cui la ‘buona società’ non esiste, non si dà, se non in un ordine artificiale governato dall’alto da buoni giudici, da giudici legislatori che sappiano ‘tenere una porta aperta sui cambiamenti della società’, ma evidentemente non sanno o non vogliono porsi il problema, elementare, che non ogni cambiamento è buono e che, soprattutto, che tutto dipende da come si leggono e si interpretano le cose, e lo si può fare in molti modi.
Non è certo l’attenzione alla natura della cosa, o l’impiego di principi generali, ad avere orientato questa decisione. Eppure si poteva, si poteva guardare alla natura della cosa, e appellarsi agli antichi principi del diritto, e precisamente al principio mater semper certa, facendo notare che quel principio ha sempre reso genitore di un bambino il compagno della madre, senza che importasse che ne fosse il padre ‘biologico’. Perché lo stesso non deve valere anche per la compagna, se la madre dà il consenso, specialmente considerando che, in caso di coppie etero non sposate, è sufficiente che l’uomo riconosca il figlio come proprio, e non deve dimostrare di essere anche il padre naturale, sol che la madre non si opponga? Nel tipico modo ibridante, impreciso e eclettico che costruisce il ragionamento del giurista (un pizzico di passato, un pizzico di presente) si poteva utilizzare un tema di non discriminazione (non negherai a una donna, la compagna della madre, quello che hai dato un uomo, il compagno della madre) per ottenere una sentenza sessuata al femminile: il consenso della madre, che c’era, basta per riconoscere che è nell’interesse del bambino l’adozione da parte della compagna.
Certo, sentenze così formulate, tenendo cioè conto della natura della cosa (di due donne si parla, non di due maschi o due neutri) e dei principi generali (che, come quello mater semper certa, giocano a favore delle donne in questo caso, e io credo anche in numerosi altri) richiedono un forte impegno argomentativo, un certo studio, e la speranza di ottenere ragione. Ma non credo che siano state la pigrizia o il timore della sconfitta a far ignorare vie alternative, in cui il ragionamento giuridico non sarebbe stato costretto a far come se non esistesse la differenza sessuale e il conflitto tra i sessi. Quelle vie argomentative sono state evitate, silenziate apposta, perché non avrebbero condotto al prodotto desiderato, una sentenza fotocopiabile per i padri gay.
Eppure, e appunto: non è nella natura delle cose che la loro posizione rispetto all’aver figli è diversa da quella delle donne? Non lo sappiamo da secoli, da millenni, che non è giusto trattare in modo eguale due cose diverse? Ma ecco, la Parità detta la sentenza: onde risalti che il bene del bambino è sempre avere due genitori, e che avere una madre che provvede felicemente a te non basta mai, che è molto importante la genitorialità, nulla conta la maternità e la relazione materna. Altrimenti come si prepara il nido per la coppia di committenti gay che si compra il figlio di una donna?
Così mi spiego che siano state evitate accuratamente le vie argomentative che potevano far vincere queste due donne insieme alle altre donne, per esempio alle madri etero che hanno figli senza esser sposate, e non contro di esse; le vie che le potevano far vincere dando valore alla relazione materna, la cui svalutazione è invece così utile all’affermazione della maternità surrogata.
Come scrive giustamente Boiano, oggi le donne possono essere protagoniste della vita del diritto, ma, aggiungo io, dipende da come lo usano.
Quando riprendo in mano le riflessioni di Lia sulla relazione tra donne come fonte di un nuovo diritto c’è una cosa che mi colpisce: la prudenza (tipica risorsa del buon giurista, e della buona giurista). Lia diceva che il diritto può registrare il cambiamento, un senso nuovo dei rapporti tra donne, e in ogni caso essere permeabile a argomentazioni difformi da quelle maggioritarie a fotocopia, ma non ti dice mai ecco prendete la carta bollata e fate cause a ripetizione perché è così che cambierete il matrimonio, la filiazione, il lavoro. Diceva sappiate che potete trovare nel diritto degli appigli: nell’argomentazione, nella dialettica processuale, nei principi, per trovare una strada attraverso cui il vostro desiderio si afferma: ma è questo che dovete avere chiaro, a che cosa puntate per voi come donne. L’uso politico del diritto che lei individuava era un entrare e muoversi nel diritto ricordandosi di e a partire da la propria esperienza, non per piegare il processo a una farsa che serve a far trionfare un’ideologia. Lia sapeva benissimo, io credo, che perseguire un programma politico attraverso il diritto significa scegliere il diritto-potere, quello che registra e consolida i venti dell’opinione dominante, e diventarne inevitabilmente l’oggetto, lo strumento passivo. Solo saper usare accortamente il diritto civiltà può far emergere il cambiamento, proprio per come lo vede o lo sente chi ragiona alla luce di una autorità femminile ‘che non risuona nella vita pubblica’. Ma bisogna che risuoni, quella autorità, nella vita tua e nelle interlocutrici, negli interlocutori che ti scegli, nel modo come parli, in cui prospetti le questioni, mostri le cose e ne discuti la natura.
Oggi i processi con fine politico fatti per affermare i diritti delle nuove famiglie, che tanto nuove non sono, in quanto replicano la famiglia eterosessuale, sono guidati da associazioni e dai loro avvocati, che hanno studiato il linguaggio neutro che i giudici sono stati educati a recepire, e nuotano nel mondo perfetto che sempre il diritto-potere costruisce, un mondo autoreferenziale in cui si pretende che si parli una sola lingua e tutti dicano le stesse cose.
Si fa presto a dire che finalmente sono state riconosciute le nuove famiglie! Il costo delle sentenze che sto ricordando è ribadire la morale ben nota, per cui per un bambino è sempre meglio avere due genitori, e il peggio possibile è avere la sua sola madre.
La libertà delle donne di avere figli fuori dal matrimonio? Denigrata. Il ruolo della madre di nascita nella maternità surrogata? Da cancellare per definizione.
Usare il diritto per far passare una morale nemica delle donne non è un obbligo, e non è neppure inevitabile. Se due donne aprono un processo, e una lo decide, per far scattare i dogmi del potere, anziché per metterli in discussione in nome della loro esperienza e dei loro desideri, queste tre donne non sono vittime del diritto, ma attrici che, del diritto, hanno scelto un volto.
Rinunciando alle risorse del giudicare prudentemente tenendo conto dell’eguale e del diverso inevitabilmente si corroborano le pretese di un potere da sempre interessato più di tutto a dividere le donne tra loro per spossessarle della loro capacità procreativa, e negare la relazione materna.
Tra i costi della libertà femminile, ci metterei oggi la responsabilità sulle scelte che si fanno per usarla, tra cui quelle su quale idea di diritto giocare nel vivere insieme.
Nota. Ringrazio Daniela Danna per avermi fatto conoscere il lavoro di Fineman citato in esergo, che spero tradurremo presto insieme in italiano. Cito Ilaria Boiano, Femminismo e processo penale, Ediesse, 2015; Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche Ed.1993; Daniela Danna, Contract Children, Ibidem, 2015; Luisa Muraro, L’anima del corpo, La Scuola, 2016.
Il tema del nostro incontro, prezzo e prezzi della libertà femminile non mira tanto alla denuncia, quanto alla consapevolezza e alla valutazione. Mira cioè ad affinare la nostra attenzione sulla presente condizione umana, dal punto di vista di chi ha a cuore che ci sia, a questo mondo, libertà femminile.
La libertà sostanziale (non quella liberista) consiste nelle possibilità riconosciute o non riconosciute ma effettive, di autorealizzazione personale: poter esistere in rispondenza positiva con quello che siamo in prima persona. Tra le condizioni di possibilità, la pratica femminista, che condivido, fa un posto importante alle relazioni. La concezione liberista considera che si tratti di un affare individuale. La libertà sostanziale riguarda la persona singola anche per me, ma per me il singolo o la singola è inconcepibile separatamente da altre o altri suoi simili.
Ci sono tante possibili descrizioni e mezze-definizioni di libertà (dubito che si possano dare definizioni vere e proprie), tra le quali richiamo quella di Lia C.: la libertà è esperienza. Vuol dire, tra l’altro, che io posso ipotizzare ma non posso sostenere, di un’altra, che non è libera, se questa invece sostiene di esserlo: si tratta della sua esperienza.
Partirò da un fatto accaduto, che è lo s-legame della relazione materna sancito nel 2014 dall’Europa. Il 26 giugno 2014 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo impone alla Francia di riconoscere come valido il certificato di nascita di un bambino nato in paese straniero con la surrogata, certificato che non indicava il nome della madre. Era accaduto, in precedenza, che una coppia che tornava in Francia con un neonato frutto di maternità surrogata avesse dichiarato falsamente che la donna era la madre, incorrendo in un preciso reato. Da qui, l’idea del certificato con la sola indicazione della paternità – non accettabile secondo l’ordinamento francese (e di tanti altri paesi). Ricorso della coppia e sentenza della Corte Europea: per il bene del bambino, va iscritto nell’anagrafe francese. Una questione simile si è posta anche in Italia.
Il bene del bambino, dunque, sarebbe qualcosa che può autorizzare l’eclissi della madre. (Riconoscete qui il titolo del libro di M.L. Boccia e G. Zuffa, 1998.)
In queste condizioni il diritto di adottare il figlio del partner, da parte di omosessuali uomini, vorrebbe dire il diritto di socializzare una creatura senza madre.
Vi sono coppie maschili che spontaneamente ripugnano a questo esito e si comportano di conseguenza, come risulta dalla testimonianza di Tommaso Giartosio (v. Una città n.229/marzo 2016), ma non si oppongono alla surrogazione, come se il loro comportamento eccezionale fosse la regola. Una strada alternativa potrebbe essere di ripensare l’istituto dell’adozione. Ma, come mi avverte l’avv. M.G. Sangalli, la modifica della legge, che anch’io auspico, non è in vista.
Vi sono giudici che tentano di anticipare il legislatore. Tra questi spicca il nome di una giudice, già presidente di un Tribunale di minori, autrice di molte sentenze che concedono l’adozione a coppie omosessuali, una delle quali maschile (e “surrogata” all’estero) con queste parole: “Di fronte al bene supremo di un minore di avere due genitori, non possono esistere discriminazioni di sesso” (la Repubblica del 3.5.2016, p. 17). È piuttosto evidente che la giudice, se queste sono veramente le sue parole, ha perso il buon senso, ma come e perché l’ha perso?
Il bene del bambino, come forse sapete, in un passato non remoto, ha autorizzato il Tribunale dei minori a mettere in adozione bambini di donne che si prostituivano o di donne che non parlavano in italiano con i figli… Allora, per il bene del bambino, ci voleva la coppia etero, colta e benestante. Trionfo del perbenismo. Adesso, quello che ci vuole assolutamente, secondo la giudice del bene supremo, è che il bambino sia legalmente di due individui, né più né meno. E guai a parlare di sesso, sarebbe discriminazione, il sesso non c’entra: i bambini li porta la surrogata.
Il perbenismo di una volta (anche quello era un prezzo in termini di libertà femminile) è superato, ma c’è sempre un prezzo da pagare. Adesso, da parte della società più avanzata e progressista in cui vuole collocarsi quella giudice, il prezzo a me sembra molto alto, troppo. Si tratta cioè di cancellare il debito con la donna che ci mette al mondo. Siamo disposte/i a pagarlo? E se non lo siamo, con quali argomenti?
Ci sono grandi personalità femminili che non diventano famose, come la meravigliosa pittrice Séraphine de Senlis: poche e pochi in Italia ne avevano sentito parlare prima che uscisse libro di Katia Ricci Séraphine de Senlis. Artista senza rivali (Luciana Tufani Ed., 2015). Nate e cresciute in condizioni difficili, si orientano con una viva interiorità e fanno cose importanti. Per noi Lina Scalzo (che vive e lavora a Catanzaro) è una di loro e vogliamo che si sappia.
Nella Calabria di molti anni fa, Lina diventa più consapevole delle sue qualità quando incontra la pratica femminista grazie a Franca Fortunato, che ora raccoglie la sua storia in questo piccolo libro-intervista con cui inauguriamo gli e-Quaderni di Via Dogana: Sai chi è Lina Scalzo?
Nella Scuola di scrittura pensante che si tiene presso la Libreria delle donne di Milano abbiamo osservato che c’è desiderio di ascoltare racconti di vissuti umani segnati dal femminismo. E dato che la Rete è diventato un luogo privilegiato per far circolare e discutere testi politici, abbiamo pensato a una collana di agili Quaderni elettronici, dopo che nel gennaio 2015 avevamo pubblicato in e-book il libro introvabile Guglielma e Maifreda. Storia di una eresia femminista. Come questo, anche gli e-Quaderni di Via Dogana sono in duplice formato, e-pub e pdf stampabile, e scaricabili gratuitamente, perché non ci siano limiti di soldi e tecnologia alla fama delle grandi donne.
Sai chi è Lina Scalzo? di Franca Fortunato, e-Quaderni di Via Dogana, 2016
www.libreriadelledonne.it/categorie_ebook/ebook
Avevi dei nomi splendenti, Rosetta! Ma perché si deve usare il tempo al passato? Tu sei andata di là e noi siamo rimaste di qua, è vero, ma tu ci sei. Dove e come non lo sappiamo, per ora sei ancora viva dentro di noi, troppo impreparate alla tua partenza, poi sarai ricordo e racconto. Tanti. Alcune hanno sentito parlare di te, altre ti hanno voluto bene, qualcuna ti ha amata, tutte abbiamo i tuoi scritti e ti teniamo presente.
Come le altre femministe, Rosetta è vissuta prestando attenzione alle sue simili e ha desiderato di vederle più libere. Ma aveva un di più, una qualità tutta sua: era imprevedibile. In sua compagnia sono sicura che nessuna e nessuno si è mai annoiato. Questo, del resto, detto da lei stessa, era il suo lavoro per vivere: dama di compagnia. L’ha detto seriamente, lei che seria non voleva essere né sembrare.
Imprevedibile fino all’ultimo, Rosa Lucia Stella è morta in perfetto stile Rosetta.
Che dolore. Prendo l’impegno, lo chiedo anche alle altre della Libreria delle donne di Milano, di renderla viva e presente così come possiamo. Comincio ricordando che lei è all’origine della rivista Via Dogana, seconda serie (cartacea), con il dono di un bel po’ di lire, nel 1990.
Buon viaggio e grazie, amata Rosetta, da Luisa e dalle altre della redazione ristretta di Via Dogana 3.