C’è un linguaggio della differenza maschile per se stessa, indipendente dai linguaggi della complicità e della rivalità tra uomini? un linguaggio che la fa parlare senza l’armatura dell’universale-neutro-astratto-oggettivo, e rende dicibile la verità soggettiva, e questo, non solo in poesia, anche nella prosa della vita ordinaria?

Comincia a esserci. Ma per ora, lo sfondo resta neutro-maschile, e su questo spicca una differenza femminile che fa, tanto per cambiare, la parte dell’Altro.

Il problema che poniamo non è tanto l’ingiustizia della condizione umana femminile, ma la qualità del discorso. Intendiamo, con ciò, l’ordine simbolico per una civiltà terremotata dalla fine del patriarcato, dove si moltiplicano le questioni che hanno a che fare con la vita sessuale. Che le domande almeno siano ben poste.

Gli strumenti simbolici a disposizione sono limitati e sostanzialmente neutro-maschili. Non aiutano nessuno. Per verificarlo, ricordiamo la vicenda della legge sulla procreazione assistita, la 40 del 2004, esempio di cacofonia del simbolico maschile. Sconfitti tutti con inevitabile ma non benefico ricorso alla magistratura.

Dove va a parare il discorso con cui vi invitiamo alla redazione allargata?

Senza esagerare ma dando corda all’immaginazione, pensiamo alla possibilità di far fruttare la differenza sessuale sul piano soggettivo e relazionale, pensiamo cioè a un esito di tipo etico che potrà eventualmente svilupparsi in diverse direzioni, dal diritto alla scuola, dalla religione all’arte. (Redazione ristretta di Via Dogana)


Intervento di Massimo Lizzi

La domanda che compare nell’invito (se esiste un linguaggio della differenza maschile che renda dicibile la sua verità soggettiva) è una domanda aperta, che resterà aperta, perché io non posso osare una risposta. Quello che posso tentare, è dare un senso al linguaggio che parlo io.

Di norma, parlo un linguaggio neutro-oggettivo. Di tanto in tanto mi scappa qualche affermazione strana, che qui mi dicono essere un’espressione della mia verità soggettiva, ma io non mi rendo ben conto di come scelgo di parlare e perché, anzi quando qui sono sollecitato a parlare in forma soggettiva, mi sento in difficoltà e sento pure un moto di irritazione, come se mi venisse posta una regola alla quale fatico ad adattarmi.

Frequento questo luogo da tre anni, ma provengo dalla cultura politica della sinistra, quella che ha come suo valore centrale l’uguaglianza, l’articolo 3 della Costituzione e che vede nella differenza un ostacolo da rimuovere. Per comprendere il pensiero della differenza, ho trovato un appiglio nel pensiero socialista, che dal lato del rapporto tra i sessi era emancipazionista, ma per le ragioni sue aveva il senso della critica al concetto astratto di individuo e di cittadino: per i marxisti dietro quel concetto c’era il borghese e così facevano valere la differenza sociale; per le femministe c’è il maschio e così fanno valere la differenza sessuale. Queste due operazioni di svelamento sono, per me, somiglianti e questo mi ha permesso di introdurmi al pensiero della differenza.

Parlo il linguaggio tradizionale e mi sono formato l’idea che esprimersi nel linguaggio della verità soggettiva richiede una libertà che non sento di avere. Nemmeno in una situazione come questa: io dico cose a cui do un significato; voi le ascoltate e potete dargliene un altro, o disapprovare; possono sorgere fraintendimenti, tensioni, contrasti. Può finire male, quindi devo stare bene attento a quello che dico. Come? Facendo il più possibile riferimento a verità condivise, dunque alla verità oggettiva. Questo è un ambiente, per me, relativamente amichevole e posso non preoccuparmi, ma in un’assemblea sindacale, in una riunione di partito, in un congresso, dovrei di certo preoccuparmi di più, se non per l’aspetto che in quei contesti avrei le idee più chiare su quali sono le verità condivise, mentre qui concetti e linguaggi talvolta mi sono oscuri e sfuggenti. Per esempio, al concetto di differenza, nella mia cultura, corrisponde un oggetto da definire, un significato, mentre qui, se capisco bene, lo si intende come un soggetto che definisce, un significante.

Come succede che, ogni tanto, io dica qualcosa che qui è percepito come verità soggettiva? Credo succeda così: il linguaggio neutro-oggettivo ci educa a cercare il fondamento delle cose che diciamo in fonti d’autorità a noi esterne: sistemi di valori che presiedono lo stato, la chiesa, l’azienda, la comunità scientifica, il partito, il movimento, etc. Questo ci mette in una posizione alienata. Se la mia soggettività, la mia esperienza, non sono fondative del mio pensiero, perdono di importanza e non è, quindi, per me, necessario ascoltarle, osservalrle, conoscerle. Può capitare – ammettiamo che ne abbia la competenza – che io faccia un discorso sulla procreazione assistita e mi pronunci contro l’interruzione programmata della relazione materna con argomenti medico-scientifici. Con questo discorso, farei valere una fonte d’autorità scientifica, che mira alla verità oggettiva, mi sentirei in sintonia e non avvertirei alienazione.

Vi sono però situazioni nelle quali si sostiene razionalmente un discorso, senza sentirsi realmente in sintonia, situazioni nelle quali la corda dell’alienazione dalla propria soggettività si tende troppo. Una macchietta, in un vecchio programma di Renzo Arbore, diceva spesso: «non capisco, ma mi adeguo». Mi è successo di agire così, pensando che poi l’adeguamento sarebbe venuto: sono io quello impreparato, gli altri del mio gruppo ne sanno di più, poi capirò, intanto li seguo, sperando in una prossima riconciliazione tra il mio sentire e il loro pensare. Questo talvolta riesce, talvolta no. Quando non riesce, mi ribello alla pressione conformistica e mi esprimo in atti liberatori. Credo mi capiti così di riuscire a mettere in parole, anche con frasi strane, la mia verità soggettiva.

Qualcosa del genere mi capitò molti anni fa, con lo scioglimento del PCI. In una prima fase provai a sostenere razionalmente la svolta, perché il mio ambiente nel partito la sosteneva, era la linea del segretario, della maggioranza e il mondo andava in quella direzione. Ma quella posizione non la sentivo mia; la riconciliazione con la mia soggettività non avvenne e alla fine ribaltai la mia collocazione fino a rompere tutti i miei rapporti. Più di recente, mi è capitato nella vicenda di Maschile plurale, che mi ha portato qui. In una fase iniziale, a partire dall’incontro con voi, ho seguito l’orientamento che pratica il conflitto nella relazione, con il sottotesto che ad essere prioritaria è la preservazione della relazione, quindi il conflitto passa, la relazione resta. Un orientamento che non ho mai sentito mio, perché, secondo me, se un conflitto importante su questioni dirimenti si risolve in modo insoddisfacente o non si risolve, ad essere messa in discussione è la stessa relazione. Così, alla fine, forse in modo non troppo composto, mi sono riappropriato della posizione che sentivo mia.

La domanda sul linguaggio della differenza maschile che dica la sua verità soggettiva, chiede (o presume) che sia un linguaggio diverso da quello della complicità o della rivalità tra maschi. Tuttavia, credo, qualsiasi comportamento e linguaggio maschile, anche il più genuino, si espone al rischio di cadere in uno di questi due coni d’ombra: la complicità e la rivalità. O perché sono motivazioni comunque almeno parzialmente presenti nel comportamento maschile; o perché sono due stereotipi che permettono di interpretare un comportamento che non si capisce o che non si ha voglia di mettersi a capirlo; o perché sono due interpretazioni manipolatorie: si attribuisce e si accusa rivalità, per indurre alla comprensione, oppure si attribuisce e si accusa complicità, per indurre alla critica.

Se non c’è separazione tra il modo in cui siamo e il modo in cui siamo visti e ci comportiamo, per essere riconosciuti secondo forme già definite, l’espressione della soggettività maschile sta in rapporto con le inclinazioni ritenute maschili. Nel libro Differenza di genere e differenza sessuale. Un problema di etica di frontiera (Orthotes, 2017), il curatore Carmelo Vigna ha scritto un saggio in cui descrive le inclinazioni dei due sessi, pur precisando che si tratta di ciò che avviene mediamente di più tra gli uomini e tra le donne e che ciascuno di un sesso può ben imparare l’inclinazione dell’altro sesso. Tra queste, dice, l’uomo è portato al compito e per il compito è disposto a sacrificare il legame; la donna è portata al legame e per il legame è disposta a sacrificare il compito e, talvolta, la sua stessa vita. In questa inclinazione femminile è stata vista una grandezza femminile, che io, in verità, non riesco a vedere, non sono capace di ammirare le donne che danno la priorità ai legami, eppure è strano, perché io soffro molto quando una donna rompe il legame con me, dovrebbe dunque convenirmi e dovrei saper apprezzare l’inclinazione femminile che privilegia il legame. E poiché mi riconosco nella priorità del compito, l’espressione della mia soggettività sarà fedele a questa inclinazione.

Noi uomini femministi abbiamo una propensione, più che all’autocoscienza, all’autocritica, come quella che si facevano i comunisti: elencavano tutti i loro errori e alla fine non riuscivano a salvare più niente della loro storia. Quando diciamo che un certo modo di (pensare, dire, agire) è tipicamente maschile, stiamo dicendo che non va bene e che sarebbe meglio cambiarlo. Io stesso penso così, tendo a credere che della maschilità non si salvi nulla e, però, capisco che è un problema, perché con questa idea divento una tabula rasa che si consegna alle femministe affinché ci scrivano sopra quello che vogliono. Cosa che, in effetti, le femministe tendono a fare. Credo che il modo di essere della maschilità dobbiamo riconoscerlo come parzialità e differenza, in quanto non possiamo pretendere che le donne vi si adattino, nell’adesione alla finzione della neutralità. Il nostro modo di essere vale solo per noi, ma dovrebbe valere, mentre nel movimento delle donne accade spesso solo un ribaltamento: la maschilità è messa radicalmente in discussione, noi ci adattiamo alla differenza femminile e accettiamo il rifiuto di qualsiasi faccia del maschile, perché è sempre una faccia della stessa medaglia.

Mi è piaciuto molto, perciò, nell’introduzione, il riferimento che ha fatto Luisa Muraro allo spirito cavalleresco. Qualcosa che, paradossalmente, è disprezzato dalla cultura progressista e da una parte del femminismo. Cito un episodio. In preparazione della giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, un gruppo di uomini in Sicilia ha organizzato una sua manifestazione. Per pubblicizzare l’iniziativa ha concepito una immagine nella quale si vede una donna aggredita rannicchiata sulle gambe, un uomo in piedi che le offre un fiore e con l’altra mano tiene a distanza l’aggressore. Questa immagine è stata tempestata di critiche, perché rappresenta lo stereotipo della donna vittima, dell’uomo che salva la donna, etc. Una critica che ha il suo fondamento. Tuttavia, penso questo: un gruppo di uomini, non educato, istruito da una consuetudine di relazioni con il femminismo, che vuole iniziare ad impegnarsi contro la violenza, dove trova le risorse nella cultura e nella storia del suo sesso, per esprimere questa volontà di impegno? Io la vedo nello spirito cavalleresco. L’immagine dell’uomo che difende la donna è la prima che viene in mente. Se è la faccia della stessa medaglia, è la faccia che può evolvere.
Se l’espressione della verità soggettiva maschile richiede libertà, un po’ più di libertà ce la potete concedere. E d’altra parte credo anche che ci faccia bene pensare che non siamo i primi uomini, solo emulatori del femminismo. Tra le cose tipicamente maschili da superare, c’è questa volontà di essere i primi, gli iniziatori, i capostipiti. Invece, nella storia, sono esistiti, prima di noi, altri uomini che si sono sottratti in tutto o in parte al patriarcato ed hanno trovato un rapporto di migliore e più civile convivenza con le donne. Così come le donne femministe hanno riscoperto le proprie genealogie, anche gli uomini femministi, anziché disprezzarle, possono provare a riscoprire le loro.

14 maggio 2017


C’è un linguaggio della differenza maschile per se stessa, indipendente dai linguaggi della complicità e della rivalità tra uomini? un linguaggio che la fa parlare senza l’armatura dell’universale-neutro-astratto-oggettivo, e rende dicibile la verità soggettiva, e questo, non solo in poesia, anche nella prosa della vita ordinaria?

Comincia a esserci. Ma per ora, lo sfondo resta neutro-maschile, e su questo spicca una differenza femminile che fa, tanto per cambiare, la parte dell’Altro.

Il problema che poniamo non è tanto l’ingiustizia della condizione umana femminile, ma la qualità del discorso. Intendiamo, con ciò, l’ordine simbolico per una civiltà terremotata dalla fine del patriarcato, dove si moltiplicano le questioni che hanno a che fare con la vita sessuale. Che le domande almeno siano ben poste.

Gli strumenti simbolici a disposizione sono limitati e sostanzialmente neutro-maschili. Non aiutano nessuno. Per verificarlo, ricordiamo la vicenda della legge sulla procreazione assistita, la 40 del 2004, esempio di cacofonia del simbolico maschile. Sconfitti tutti con inevitabile ma non benefico ricorso alla magistratura.

Dove va a parare il discorso con cui vi invitiamo alla redazione allargata?

Senza esagerare ma dando corda all’immaginazione, pensiamo alla possibilità di far fruttare la differenza sessuale sul piano soggettivo e relazionale, pensiamo cioè a un esito di tipo etico che potrà eventualmente svilupparsi in diverse direzioni, dal diritto alla scuola, dalla religione all’arte. (Redazione ristretta di Via Dogana)


Programma

dalle 10 del mattino alle 13.30, seguito da un pranzo leggero

Luisa Muraro    introduce il tema

Massimo Lizzi   lo commenta

Discussione pubblica

Più passano i minuti più le rughe di Shirley MacLaine si prendono beatamente lo schermo. Sono la forma ultima di un desiderio di esserci che non ha mai accettato limiti. Insieme al caschetto di capelli impeccabili, alla borsa, ai pigiami di seta, ai ciglioni e allo sguardo vivissimo, alla parola imperiosa, alla solitudine confortevole.

È vero, lo vediamo anche tra di noi: a volte la determinazione a non tradire se stesse ha qualcosa di feroce, la competenza si irrigidisce nel perfezionismo, a volte la forza, invecchiando, distilla un po’ di antipatia, ma dai, possiamo sopportarlo.

Se siete curiose di vedere come ciò che noi chiamiamo autorità e genealogia femminile possano lievitare nella ricetta della commedia hollywoodiana classica, questo film è perfetto: vi alleggerisce e vi emoziona. Vedrete come si intrecciano le vite dell’anziana giunta al termine di tutto, della giovane donna che corre il rischio di non osare i propri talenti, della bambina creativa teppistella. Le donne sono il centro e la forza può trasmettersi. E allora ben venga la professionalità di Hollywood quando riesce a mettere insieme e trasfigurare i molti femminismi, di moda e non, del panorama statunitense, il protagonismo e l’autonomia delle donne. Con un paio di chicche divertenti: contro la medicalizzazione della vita (si può essere perfezioniste senza essere per questo affette da “sindrome ossessivo-compulsiva”) e contro il senso di colpa materno. Da gustare in leggerezza: anche questo è Hollywood bellezza!

Care tutte, ho apprezzato lo scritto di Luciana Tavernini che valorizza i rapporti di femministe degli anni ’70 con il movimento LOTTO MARZO, e vede all’opera nel linguaggio e nelle relazioni del movimento pratiche della differenza. Ho apprezzato anche lo sguardo periferico di Betti Briano, non troppo sicura che l’eredità sia stata trasmessa, “in politica ciò non può avvenire con scorciatoie o in virtù di semplice atto testamentario ma solo come esito di un processo che veda noi stesse e le/gli eredi impegnate/i quotidianamente e a lungo nell’opera di trasmissione del ‘bene’”.

Da una lontananza psicologica e non mentale che mi è propria, vi lancio un interrogativo che mi pongo da un po’ a proposito di NonUnaDiMeno: a chi rispondono.

Nessuna di loro risponde a domanda padronale, va da sé. E tantissime partecipano per iniziativa propria vitale e ragionata.

Mi ha colpito però l’intenzione espressa in modo esplicito (sono iscritta alla mail list) di unire, e respingere ai margini se non fuori, temi conflittuali. Se l’obiettivo generale è autocentrato, perché mai escludere tematiche laterali?

L’unità mi sembra per NUDM lo scopo fondamentale, ma “l’unità” non esiste!

È un obiettivo tradizionale della politica, e ora anche -pare- di “tutte”. Ma chi sono queste tutte? Tutte le donne, tutte che subiscono violenza, tutte sessualmente discriminate. Unità!

Ma leggo anche che nel piano antiviolenza femminista “siano esplicitate le violenze same-sex, transfobiche e lesbofobiche”, tutte-le-donne come contenitore dei diritti.

Se questa è la faccia che si vuole presentare, la forza suscitata va a implodere chissà dove.

Ciao

Cristiana

Vivendo in una città decentrata non ho avuto modo di partecipare ai dibattiti preparatori delle manifestazioni all’insegna dello slogan ‘LOTTO MARZO’ e alle attività della rete NONUNADIMENO e trovandomi pertanto un po’ spiazzata rispetto alla discussione che si è tenuta nell’ultimo incontro di #ViaDogana 3 non avevo intenzione di intervenire; mi sono alfine decisa perché nel dibattito che si è in seguito sviluppato non ha trovato rispecchiamento il sentimento, magari generato solo dallo sguardo ‘periferico’, ma chiaro e potente, che mi ha tenuta lontana dalle manifestazioni andate in scena l’8 marzo u.s. nelle altre città facendomi preferire l’intervento in un liceo volto a far conoscere a ragazze e ragazzi le vicende legate al femminismo nato alla fine anni ’60, come del resto in ogni altro periodo dell’anno qualora se ne presenti l’opportunità.

Nei primi decenni della mia vita pubblica ho partecipato ad una quantità e varietà di manifestazioni tale da poter affermare con una certa competenza che non basta mettere insieme una moltitudine di corpi per fare un soggetto politico e che, con buona pace di Judith Butler, lo spazio intercorrente tra i corpi che calcano lo scenario della lotta non è affatto scontato venga riempito di legami e relazioni con efficacia trasformatrice della realtà che si vuole combattere. Non sfuggendomi però che il corpo femminile possa in certi frangenti storici irrompere nella scena pubblica con grande efficacia simbolica, come successo con le Madres de Plaza de Mayo come anche se vogliamo con gli scioperi del sesso che, senza risalire a Lisistrata, non molto tempo fa in Liberia e nelle Filippine pare abbiano determinato la fine di guerre fratricide, dietro la parola d’ordine dello sciopero globale mi era parso di intendere l’idea di dar vita alla rappresentazione di una generale (per quanto improbabile) pratica di sottrazione del corpo femminile dal mercato al fine di rendere evidente l’entità e il valore dei lavori svolti dalle donne. La proposta, per di più se sviluppata nell’attuale contesto di attenzione e sensibilità nei confronti della violenza contro le donne, con un ampio dibattito, con performances ed interventi nei luoghi di lavoro come sul territorio e con un sapiente uso dei media, avrebbe potuto avere una sua efficacia simbolica; mi è però apparsa grossolanamente depotenziata nel momento in cui si è voluto ridurre la complessità delle questioni in campo alla prosa di una piattaforma da affidare alla piazza o a parole d’ordine da veicolare nei cortei, ricalcando né più né meno il classico modello delle pratiche rivendicative maschili.

Pur in assenza dei presupposti di originalità che avrei desiderato registrare, non ho certo mancato di guardare con interesse all’ondata montante di un movimento che in Italia come in altri paesi ritenevo esprimesse comunque, seppure in modo sintomatico, il disagio di stare al mondo di una nuova generazione di donne che vede ristretti e attaccati i propri spazi di libertà e di realizzazione, ma devo in tutta onestà ammettere che non mi sono sentita personalmente coinvolta e spinta a partecipare a causa di un ineludibile senso di estraneità e incomprensione derivante suppongo dalla distanza generazionale e dalle differenti esperienze politiche e di vita. Aggiungo che di conseguenza mi sono suonate stonate le voci di femministe storiche che dall’interno dei cortei ho sentito rivendicare la continuità tra il nuovo movimento e quello degli anni ’70 di cui erano state protagoniste; l’ho trovato un tentativo maldestro e semplificatorio di ‘classificare’, se non di intestarsi in qualche modo, un movimento di cui è ancora difficile intendere radicamento, carattere e potenzialità. La voglia di trascendenza andando in là con gli anni tende certo a prevalere sugli altri sentimenti, ma sta di fatto che un’eredità si trasmette solo se accettata e l’esperienza mi ha insegnato che in politica ciò non può avvenire con scorciatoie o in virtù di semplice atto testamentario ma solo come esito di un processo che veda noi stesse e le/gli eredi impegnate/i quotidianamente e a lungo nell’opera di trasmissione del ‘bene’.

Scrivendo la recensione del film mi piace più pensarlo con il suo titolo originale inglese, In Between (nel mezzo) o con quello arabo, Bar Bahar (fra mare e terra) che con quello ammiccante della distribuzione italiana.

Perché in quel ‘nel mezzo’ si trovano Laila, Salma e Nour, le tre giovani protagoniste del film di esordio di Maysaloun Hamoud, regista e sceneggiatrice di origine palestinese: fra una società patriarcale e misogina e il grande e vitale desiderio di essere pienamente loro stesse; fra il passato della tradizione a cui le loro famiglie, musulmane e cristiane, si affidano e un futuro tutto loro da creare; ‘in mezzo’, come donne palestinesi, in una società israeliana, fra uomini, a parole, moderni ed emancipati, che si trasformano, di fronte alla libertà delle donne, in paladini delle regole del buon comportamento e della tradizione o nelle loro versioni violente. Quel ‘in mezzo’ in cui si trova la stessa regista che vuole raccontare la sua generazione di trentenni palestinesi, cresciuta dopo la Seconda Intifada e partecipe delle Primavere Arabe, di cui poco si parla e si conosce. Donne e uomini schierati contro la guerra e il terrorismo che condividono con donne e uomini israeliani, oltre gli spazi e i luoghi, il desiderio di pace e di convivenza, in una città, Tel Aviv, dinamica, tollerante, ricca di opportunità di lavoro, di studio e di divertimento, meta dei giovani da tutte le parti del paese.

Significative le scelte dei luoghi: l’appartamento, condiviso da Laila, Salma e Nour, è nel quartiere yemenita di Manshiyya, a due passi dalla Moschea di Hassan Beck, uno dei luoghi caldi della Seconda Intifada; i locali delle feste, balli bevute e altro, sono i ritrovi più frequentati dalla gioventù etero e gay e lesbica arabo-israeliana. Lo stesso per i luoghi di provenienza delle tre giovani: Nour viene da Umm-al Fahm, un villaggio palestinese di musulmani ortodossi, Laila da Nazareth e Salma da Tarshiha, da una famiglia cristiana. Le musiche della colonna sonora, altrettanto importanti – e come non potrebbero esserlo visto che il sogno di Salma è di diventare una DJ di grandi rave – sono dei Dam, una band palestinese che suona in Israele e Haziza è la canzone hit della star libanese Yasmine Hamdan.

Anche Salma, Laila e Nour, compagne di appartamento, hanno scelto Tel Aviv per ritagliarsi un loro spazio di libertà dopo essersi allontanate dalle loro famiglie e dai loro villaggi, rompendo con il passato.

Laila è avvocata, uno spirito libero, trasgressivo, vuole esprimere se stessa senza compromessi né mezze misure, senza scusarsi per quello che è. Disincantata, resta comunque un’irriducibile romantica che desidera l’amore, nonostante gli uomini continuino a deluderla.

Salma è lesbica, si mantiene facendo la barista mentre si prepara a diventare una grande DJ. Ha rotto con i suoi che la volevano sposa felice in un matrimonio combinato o pazza e chiusa in un manicomio, alla notizia delle sue preferenze sessuali.

Nour sta per laurearsi in informatica, è musulmana osservante, fidanzata con un rigido integralista ipocrita, però sotto il copricapo i suoi occhi brillano di curiosità, carichi di desideri e di voglia di vivere. Il carattere, fra le tre, apparentemente più docile, rivelerà la forza della sua determinazione.

Fra la scena iniziale – una vecchia recita alla neosposa i consigli per compiacere il marito – e quella finale con camera fissa sulle tre amiche, entrambe immagini di grande efficacia, il film racconta il loro difficile percorso per essere loro stesse, senza compromessi e finzioni e la nascita di un’amicizia profonda, preziosa e solidale.

Un bell’esordio, premiato ai festival internazionali di Toronto, S. Sebastian e Haifa, vibrante di vitalità e di energia esaltate da una fotografia che sa fare buon uso dei colori; una storia inusuale, fuori dalle abituali rappresentazioni della realtà palestinese e dell’immaginario costruito su di essa.

di VD3

17 marzo 2017

Judith Butler e la sua urgenza di scrivere

di Luisa Muraro

Speriamo che, grazie al suo ultimo libro, L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017), Judith Butler non sia più causa di confusione nella mente di tanti: persone che volevano vedersi riconosciute anche politicamente nella loro differenza.


16 marzo 2017
L’insostenibile leggerezza del separatismo

Umberto Varischio

Forse speravamo che l’8 marzo di quest’anno passasse come al solito tra riti, elogi all’indispensabilità e alla grande forza morale delle donne e dichiarazioni del Presidente della Repubblica, per poi tornare alle nostre pratiche quotidiane. Purtroppo per noi (uomini) non è stato così: ancora una volta le donne ci hanno spiazzato.


2 marzo 2017
Lo sciopero delle donne, i fantasmi del patriarcato

di Umberto Varischio

Sin dai tempi di Aristofane i fantasmi evocati da uno sciopero delle donne turbano profondamente l’universo maschile.
La proclamazione, da parte di donne di tutto il mondo, di uno sciopero della produzione e della cura per il prossimo 8 marzo (cui, a differenza di quello evocato dal commediografo ateniese, si possono aggiungere gli uomini), sembra aver risvegliato questi fantasmi.

Tre donne autorevoli

Ho partecipato alla manifestazione Lotto marzo la sera a Milano perché avevo letto l’articolo di Donatella Franchi Sull’incontro nazionale a Bologna del 4-5 febbraio convocato dal coordinamento “Non una di meno” in cui esprime la «sorpresa felice», la «sensazione di contentezza, per la passione, l’entusiasmo e l’energia vitale che le giovani organizzatrici avevano comunicato nei loro resoconti a tutte le donne presenti, e penso anche, forse, ai diversi uomini che, con discrezione, avevano partecipato ai lavori». Il suo resoconto era puntuale ma mi ha convinto soprattutto la parte finale. «Per me, femminista dagli anni Settanta, è stato vivificante sentire le giovani, che riportavano in assemblea con intelligenza e competenza i temi discussi in gruppo, affermare con orgoglio di essere femministe, e dichiarare il loro desiderio di mettere a frutto la ricchezza dell’elaborazione femminista che le aveva precedute. Comunicavano la consapevolezza di avere una genealogia alle spalle, ci stavano restituendo parte del nostro investimento di energie e di vita.

Voglio accogliere con fiducia la loro scommessa». Io mi fido di ciò che dice Donatella.

La conferenza stampa per lo sciopero a Milano è stata fatta alla Casa di accoglienza delle donne maltrattate con la partecipazione di Marisa Guarneri a cui riconosco acutezza politica, capacità di fondare e far vivere progetti capaci di adattarsi ai cambiamenti sapendo preservare l’indispensabile e vedendo l’indisponibile. Io mi fido delle relazioni che Marisa costruisce.

Renata Conti, la mia amica dai tempi del gruppo di autocoscienza con cui continuiamo a incontrarci tre o quattro volte all’anno in modo sincero e pieno di attenzione reciproca, mi ha parlato del suo coinvolgimento con le ragazze di Rho per lo sciopero e di come dimostrassero piacere nel confronto. Renata è una creativa appassionata e io mi fido delle sue intuizioni.

Insomma ho dato autorità a tre donne diversissime tra loro.

Linguaggio: il cambiamento simbolico si produce insieme.

Partecipando poi alla manifestazione mi ha convinto lo slogan Le strade libere le fanno le donne che le attraversano. Venticinque anni fa, alle 11 di sera, sono stata aggredita con un coltello da un giovane che voleva violentarmi e, pur non ritenendolo handicappato, gli ho parlato in modo calmo, come facevo col ragazzino handicappato a scuola, e sono riuscita a fargli mettere via il coltello e a farmi sporcare una gamba (insomma gli ho impedito di ridurmi a cosa anche se non è stato semplice risentirmi felice). Subito ho continuato a uscire la sera e la notte con i mezzi pubblici. E sul tram o sul filobus che mi portano a casa vedo sempre più ragazze che, incrociando il mio sguardo, sono rassicurate dalla mia presenza e io dalla loro. Dunque anche uno slogan lo faccio passare dal vaglio della mia esperienza.

Ho letto il materiale condiviso e prodotto all’interno dei tavoli tematici dopo la manifestazione di Roma del 26 novembre e a Bologna in febbraio. Sul linguaggio di molti report ho diverse perplessità ma mi ha convinto Percorsi di fuoriuscita dalla violenza e autonomia 1, dove l’esperienza delle donne che hanno inventato e portato avanti per decenni i centri antiviolenza è diventato “sapere dell’esperienza”, simbolico comunicabile e fatto proprio.

Che sia necessario trovare modi per comunicare il sapere che in anni di femminismo abbiamo creato è il mio impegno felice, portato avanti soprattutto con Marina Santini.

Voglio fare due esempi.

Quando al liceo dove insegna Marina è stata organizzata la cogestione, lei non ha proposto la presentazione del libro scritto e curato da noi due, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015), anche se andiamo a parlarne nelle scuole dove veniamo invitate. Le sarebbe sembrato di proporre un’altra lezione, come se il femminismo fosse un argomento e non una trasformazione.

Invece Francesca Callà e Eleonora Rossi, due studentesse di una quinta non sua, hanno organizzato un collettivo Abbiamo ancora bisogno di femminismo? invitando due ragazze, Serena Bramante e Serena Vitucci, e un ragazzo, Camilo Villagran, del Circolo Lato B di via Pasubio 14 per parlarne. La vicepreside ha incaricato Marina, conosciuta come femminista, di essere presente.

All’inizio sono stati proiettati spezzoni di Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini per far partire la discussione, subito attenta e vivace, in cui poi si è inserita Marina, parlando del punto di vista di Carla Lonzi sulla sessualità, della lettera che lei aveva scritto a lui, vedendo una possibile convergenza. Marina ha chiarito la differenza tra ‘liberazione sessuale’, che vi sia un unico modo di intendere il piacere sessuale a cui le donne, per non essere considerate inibite, devono sottomettersi, e ‘libertà sessuale’, una ricerca libera e condivisa di cosa produce piacere a partire dall’ascolto di sé in rapporto al proprio corpo (e non solo) e a quello altrui.

Al termine di questo incontro le ragazze che lo avevano organizzato le hanno chiesto se avrebbe potuto fermarsi per quello successivo e lei ci è tornata volentieri.

Non vi è mai ripetizione rituale quando si apre un dialogo libero: bastano domande apparentemente semplici come «Quale donna o donne ammiri?» e si aprono nuovi scenari. Se alcune hanno parlato di Lady Gaga, di Michelle Obama, di attrici come Paola Cortellesi, di donne coraggiose come Lucia Annibali, molte hanno ricordato la propria madre o la propria nonna, mentre Francesca ha nominato Serena, dicendo grosso modo «Lei mi ha aperto gli occhi su un mondo e io ho fortemente voluto che lei venisse qui».

Marina ha avuto buon gioco a parlare di genealogia, di ordine simbolico materno e infine di affidamento. Quando ha nominato il riconoscimento del ‘di più dell’altra’ che spinge a darsi autorità per mostrare la propria gratitudine pubblicamente, facendo circolare ‘autorità femminile’, le due si sono commosse e abbracciate. Alla fine ha mostrato alcuni libri, da Sputiamo su Hegel a La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi, da Non credere di avere dei diritti al nostro. Il ragazzo lo ha riconosciuto dicendo che sua madre glielo aveva regalato.

Credo sia importante saper cogliere le occasioni aprendo un cammino senza pretendere di controllarlo, ma vedendo e nominando il nuovo che c’è già, anche se si presenta con un linguaggio che lo occulta.

Il secondo esempio riguarda l’invito di Nadia Negri alla Libreria delle donne per parlare a una serata di studio per il 3 marzo a Borgo Ticino, in provincia di Novara.

Ci ha invitate a nome di una rete collegata con l’A.N.P.I., che ha fatto celebrare «processi anche di tipo civile» sulle stragi nazifasciste di Borgo Ticino e di Meina, dopo aver già «ottenuto giusta sentenza di ergastolo per il regista della strage con processo penale celebrato nel 2012 a Verona».

Ricordava che nelle commemorazioni sempre è stato dato spazio alla memoria delle donne come Maria Gavinelli, la levatrice trucidata per non aver rispettato il coprifuoco per far partorire una donna; la bambina morta d’infarto per aver assistito alla fucilazione; le donne che cercarono con il loro pochi gioielli «di barattare con i gerarchi la vita dei loro figli, mariti, fidanzati…» Dunque Nadia era una donna in relazione con altre e altri che teneva alla giustizia, ma noi cosa avremmo potuto dire?

Quello che ci ha convinto, oltre all’entusiasmo con cui ci telefonava e scriveva, è stata la frase: «Ora vorremmo dedicare una serata di studio alle problematiche e alle aspirazioni che interessano la nostra società tutta, in questi tempi così complessi, e ci domandiamo se un membro del vostro gruppo di lavoro non desideri darci una preziosa mano, e portare un contributo alla comprensione di quanto sta accadendo, e descriverci come il genere femminile si incarichi di sognare un domani declinato diversamente». Terminava con «Ma senza gli esperti siamo incompleti, e pertanto, vi chiediamo aiuto per questa iniziativa». Marina e io sappiamo che non ha senso parlare di “esperti” o esperte di femminismo, perché il femminismo è una “rivoluzione che continua”. Tante espressioni da lei usate non erano le nostre ma il voler guardare il presente con una centralità femminile e femminista per noi bastava. Il titolo della serata, Il teorema donna tra costruzione identitaria e sogno libertario, già deciso e in parte provocatorio, lo abbiamo considerato uno stimolo per fare chiarezza. Infatti sappiamo che non esiste “la” donna, se non nell’immaginario maschile, ma le singole donne e le relazioni tra loro, che non è utile costruire nuove identità, e infine che la libertà non è un sogno ma si può vivere giorno per giorno e soprattutto che è una ‘libertà relazionale’, non quella individualistica di vendere e comprare tutto del neoliberismo.

Nel nostro intervento abbiamo cercato di mostrare il cambiamento del mondo che il protagonismo di diverse donne ha reso possibile, riportando le loro parole e mettendo in luce le loro pratiche. Le nostre interlocutrici hanno avuto la possibilità di riconoscere le loro, come la relazione duale di disparità tra Nadia e Michela Facchetti, l’intelligente e generosa ospite che come una Preziosa del Seicento offre la casa di famiglia, l’Antica Casa Balsari, e un’accurata accoglienza a queste serate. Entrambe mettono nella costruzione del progetto qualità diverse che, riconosciute tra loro e pubblicamente, possono farle crescere.

Che cosa voglio dire con questi due esempi? Che il lavoro politico sul simbolico si fa in relazione, non pretendendo a priori che l’altra conosca già e usi le parole che in tanti anni ho trovato, inventate anche da altre, per illuminare la mia esperienza, scoprendo che, se riesco a trasmettergliele facendole aderire al contesto che lei mi descrive, sarà gioia per lei e per me.

Questa è la scommessa con le giovani, non solo in relazioni duali ma anche in contesti pubblici.


** Anche questa volta, come spesso è accaduto, la prima lettrice dei miei testi è stata Marina Santini che ringrazio. 

  1. Report tavolo tematico “Percorsi di fuoriuscita dalla violenza e autonomia” Bologna 4-5 febbraio 2017 https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/02/12/report-tavolo-percorsi-di-fuoriuscita-dalla-violenza-e-autonomia-bologna-4-5-febbraio/ ↩︎

All’incontro di Via Dogana 3 “Manifestare: che cosa, perché, come?” (12 marzo 2017) si è parlato molto delle modalità e dei linguaggi con cui lo sciopero di Nonunadimeno è stato costruito. Molte hanno trovato il linguaggio, soprattutto il documento degli 8 punti, rigido ed esclusivamente rivendicativo, e hanno lamentato una cancellazione del femminismo della differenza da parte delle organizzatrici.

Ma se vogliamo essere conosciute, riconosciute e nominate, siamo noi che dobbiamo esserci e portare il nostro senso, come hanno fatto alcune leggendo Carla Lonzi in piazza.

È quello che ho provato a fare anch’io partecipando all’assemblea sindacale sul mio posto di lavoro, dove ho parlato, ma non per criticare le organizzatrici, giovani e piene d’un entusiasmo che non meritava di essere affossato. Ho detto che non potevamo aspettarci da quella giornata di ottenere di punto in bianco i cambiamenti richiesti nel documento degli 8 punti. Ho detto che il vero cambiamento, la vera trasformazione consisteva nel far accadere quell’iniziativa grande, in relazione con donne di tutto il mondo.

Insomma, ho cercato di trasferire il discorso sul piano del simbolico, cogliendo e dando valore a quel che c’era di positivo nello sciopero.

Inoltre non penso che i linguaggi fossero così esclusivi, sono d’accordo con Sara Gandini nel trovare aspetti ambivalenti. Per esempio, lo striscione sul camion che apriva il corteo a Milano portava scritto «Le strade libere le fanno le donne che le attraversano», un’idea che richiama molto più la nostra pratica che non quella rivendicativa.

Anche la scelta del mezzo dello sciopero, per quanto azzardata, non credo sia stata un errore, e ha prodotto effetti interessanti: chiedendo ai sindacati «mettetevi al nostro servizio e proclamate lo sciopero», Nonunadimeno ha creato non poco imbarazzo. L’abbiamo visto sulla stampa nazionale, con i bollettini quotidiani delle “adesioni” e delle “non adesioni” dei sindacati e delle loro strutture di categoria.

Dal mio posto di lavoro ho avuto modo di osservare l’agitazione che si è prodotta. I sindacati di base si sono precipitati a proclamare lo sciopero generale, tutti contenti di poter dimostrare la loro maggior radicalità e solidarietà alle donne di tutto il mondo. Va bene, ma è stato così buffo vederli improvvisamente riconvertiti tutti in femministi…

I confederali dal canto loro non hanno voluto “mettersi al servizio” e proclamare lo sciopero. Alcuni con delle contraddizioni: una categoria sì e altre no, fra quelle “no” qualcuna l’ha proclamato lo stesso in qualche posto di lavoro e così via.

Quelli che non l’hanno proclamato hanno avuto il problema di spiegare perché no. Ho sentito un delegato rispondere alle domande incalzanti di una lavoratrice che il suo sindacato non proclamava lo sciopero perché “non è uno strumento tradizionale del movimento delle donne”. Ah, e tocca al sindacato dirlo? L’altra tattica è stata “Se non hai argomenti, distraile”. Di norma l’8 marzo ci arriva da ogni sindacato una e-mail di auguri illustrata con mimose, e morta lì. Quest’anno, invece, giù con le assemblee, con le rappresentazioni teatrali sulle donne morte ammazzate (che ricordano tanto il “Premio Livido” di cui parla Pat Carra su Aspirina), con le e-mail sindacali piene di disquisizioni sulla storia dell’8 marzo, se è nato dopo l’incendio alla Cotton o se è nato in Russia durante la rivoluzione del 1905, di storia della mimosa scelta da Rita Montagnana per festeggiare la giornata, tutte cose mai viste prima.

La menzione d’onore va a quel sindacato che ha scritto, tra l’altro, «Questa giornata dell’8 marzo deve accentuare ancora di più i tanti problemi a cui moltissime donne devono fronte […]» (sic!), quasi quasi per premio lo nomino, così si assume la brutta figura: è stata la UIL.

Insomma, da quando Nonunadimeno li ha interpellati fino a sciopero avvenuto, tutti i sindacati non hanno fatto che ballare intorno alla questione, costretti a confrontarsi con la nostra differenza. Visto il loro abituale immobilismo, averli fatti ballare è già un bel risultato.


Domenica 12 marzo la riunione allargata di Via Dogana 3 ha affrontato con Alessandra Pigliaru e Luisa Muraro il grande tema del manifestare, a partire dall’ultimo libro di Judith Butler L’alleanza dei corpi (Nottetempo, 2017). Sullo sfondo la giornata dell’otto marzo contro la violenza sessista, svoltasi sotto la sigla “Non Una Di Meno”, con la grande mobilitazione composita ed eterogenea, uno sciopero che ha raccolto manifestazioni, performance, modi creativi di stare in piazza. L’8 marzo di quest’anno è stato particolarmente importante perché connesso con altre manifestazioni in Italia e nel mondo, che mostrano il femminismo come un movimento globale, come ben racconta Ida Dominijanni su Internazionale (il 3 ottobre 2016 in Polonia, il 17 ottobre in Argentina, il 26 novembre a Roma, il 21 gennaio negli USA e in tutto il mondo, e infine l’8 marzo).

L’8 marzo di quest’anno, in Italia, è stato particolarmente importante perché le pratiche del femminismo radicale, quelle dei centri antiviolenza (a Milano la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate) sono state accolte dal movimento e rilanciate, e si è sentita la forza nella prossimità dei corpi e il desiderio di andare al di là delle rivendicazioni, come diceva Alessandra Pigliaru. Di più, nell’utilizzare uno strumento fortemente connotato come lo sciopero, levando tuttavia qualsiasi pretesa “concreta” (e suscitando in questo modo l’irritazione di alcune parti del sindacato) si è sperimentata la potenza della politica tra donne, come diceva Marisa Guarneri.

Non sono mancate critiche ai documenti ufficiali e alle parole d’ordine, anche da parte di alcune presenti all’incontro di Via Dogana 3, che hanno parlato di “cancellazione della politica delle donne”. Si riferivano solo al linguaggio usato, ma anche così intesa a noi sembra un’espressione esagerata, anzi sbagliata. La mancata coincidenza delle parole con l’esperienza narrata da molte, dice della difficoltà di pensare ed elaborare a partire da sé, ma non deve oscurare la nostra capacità di leggere un presente segnato dal protagonismo femminile. Il femminismo deve vedere e interpretare il protagonismo femminile e qui sta il punto: in ciò che si sceglie o meno di vedere, in ciò che si decide di interpretare, in ciò che si stabilisce o meno di narrare. Vogliamo guardare solo al numero di donne presenti nei CDA e ai vertici delle istituzioni o chiederci anche se e come cambia la realtà grazie a questa presenza?

Su Internazionale dell’8 marzo 2017 Costanza Rizzacasa d’Orsogna intervista Jessa Crispin, autrice di Why I Am Not a Feminist: A Feminist Manifesto (Paperback, 2017), che mette in guardia rispetto al movimento che nasce dal femminismo americano, dove le donne si battono per avere più potere e sembra sia in gioco principalmente la competizione con gli uomini per ottenere soldi e posizione, per “declinare al femminile il capitalismo maschile”. Cosa cambia con un femminismo così? E rincara: “Dietro l’ipocrisia del self-empowerment c’è solo la domanda: dov’è la mia metà dei profitti?”. Anche per noi il neocapitalismo, che si appropria della vita e dei pensieri di donne e uomini colonizzando intelligenza e desideri, rimane la contraddizione più significativa del nostro presente. In particolare le donne sono state e sono l’oggetto privilegiato della rivoluzione neoliberale. L’egemonia neoliberale traduce la libertà femminile guadagnata col femminismo in autoimprenditorialità, che si spinge fino alla libertà di vendere il proprio corpo, anzi i propri organi genitali, al servizio della sessualità maschile o della procreazione per altri. Questioni che non emergono tra i famosi otto punti con cui “Non Una Di Meno” ha promosso l’evento in Italia. Il linguaggio usato nel documento mostra il tentativo di mettere d’accordo le diverse anime del movimento delle donne, per rimanere unite e non lacerarsi in conflitti che avrebbero disperso le forze. Comprensibile ma rischioso, perché si rischia di perdere di vista il campo di battaglia.

Per fortuna la giornata dell’otto marzo ha mostrato contraddizioni interessanti. Da una parte a Milano, dal palco delle istituzioni in piazza Duomo, le oratrici parlavano della lotta per i diritti delle donne insieme ai diritti dei cani e dei gatti (perché il genere finisce per diventare una delle tante differenze e la violenza sulle donne una delle tante violenze). Nello stesso tempo, il tappeto bianco di fronte al palco è stato riempito da studentesse e studenti della manifestazione del mattino con scritte colorate e vivaci, che nominavano la violenza come violenza maschile (non come violenza di genere) e parlavano della fierezza di essere donne, della forza data dalle relazioni tra donne, delle genealogie femminili, con un linguaggio che mostra un cambiamento di sguardo profondo. Lo stesso cambiamento è visibile anche nel linguaggio usato da Chloé Barreau, la giovane autrice dei video-inviti alla manifestazione dell’8 marzo. Intervistata sul Manifesto il 3 marzo 2017 da Alessandra Pigliaru, dice: “Al risentimento senza fine preferiamo una rabbia gioiosa” e ancora: “Al pianto di una narrazione da vittime ho preferito piantarla, cioè finirla lì, mostrare quindi l’azione consapevole di andarsene”, scioperare nel senso di “non farsi trovare” spiega Alessandra Pigliaru. E quella folla enorme e gioiosa era proprio bella da vedere, bella come possono esserlo solo le donne.

“È la donna che fa l’attrice” ha detto Monica Bellucci, e io traduco: è la donna che fa la femminista. Ragionando con altre su L’alleanza dei corpi di Judith Butler ho capito meglio perché Lia Cigarini, recentemente, ha sottolineato che a volte, invece di dire femministe o femminismo, è meglio, anzi si deve dire: ”donne” e “movimento delle donne”.

Questa variazione del linguaggio non sarebbe una novità, spesso si fa spontaneamente. La novità sta nel fatto che Lia la considera una cosa che bisogna fare, non necessariamente sempre, ma necessaria come prospettiva da non perdere di vista mai.

In effetti, che cosa vien fuori da certi passi del libro di Butler? L’importanza di combattere la politica identitaria e la mentalità che le corrisponde. Penso, per esempio, al famoso “noi della Libreria” che, in certi casi è giusto dire e spesso risulta quasi inevitabile, d’accordo, ma che più spesso ancora è comodo, troppo comodo da dire. Il “noi” apre la porta a una mentalità settaria, ecc. Non mi dilungo, sono cose di cui abbiamo ragionato e continueremo a farlo.

Ma l’avvertimento di Lia ha un significato politico che va oltre il settarismo. Lei vuol dire, per quello che ho capito io, che il femminismo ci fa interpreti delle esperienze, degli interessi e dei desideri delle donne in generale, ma che ci sono dei limiti alla pretesa di essere interpreti.

Non parlo della possibilità di sbagliarsi: questo càpita e la possibilità che ricapiti va messa in conto, ma non è un limite, è un rischio che bisogna affrontare. Altrimenti una non parla più, come una volta. Oppure ripiega sul comodo pluralismo per cui tutte la pensano così o colà da irresponsabili. La possibilità di sbagliare non si contrasta con il silenzio o con il pluralismo. Si contrasta con il confronto e il conflitto aperti, in un contesto di responsabilità personale accettata.

Non cadete nella trappola di alcuni che accusano le femministe di prevaricare sulle altre quando esprimono una posizione critica, per esempio, sulla prostituzione o sulla maternità surrogata. Questi alcuni cercano di spingervi al silenzio o al pluralismo irresponsabile.

Il limite intrinseco del mio, tuo essere femminista è un altro, a suo tempo qualcuna lo ha espresso con queste parole: più donne che femministe. È un modo di dire, ma dice abbastanza chiaramente che l’orizzonte di valore del femminismo sono le donne, è l’umanità femminile. Da lì la forza, da lì la misura, da lì il senso.

Ma come devo regolarmi con il linguaggio per dire ora “sono una donna”, ora “sono una femminista”? Secondo me, non ci sono regole come quelle della grammatica, ma c’è il contesto a guidarci, insieme a un certo orecchio politico, quello di Lia Cigarini è sicuramente buono.

Mi pare tuttavia d’aver trovato una mezza regola: quando ti viene da dire “io”, prova a pensare “noi” e quando ti viene da dire “noi”, pensa che “c’è altro”.

Sì, manifestare!

La mia prima volta fu a Milano contro la strage di Piazza Fontana alla Banca dell’Agricoltura. Quel giorno, ottenni mezza giornata di ferie per correre alla manifestazione. A nessun altro venne in mente di farlo. Avevo 18 anni e lavoravo in un’azienda di fronte all’Accademia di Brera. So per certo che se anche non mi avessero concesso di farlo, sarei fuggita assumendomi la responsabilità fin’anche di perdere il posto di lavoro. Tanto a quel tempo ce n’era.

La manifestazione fu oceanica e lì ebbi l’impressione di lambire qualcosa di immensamente più grande di me. Comunque io c’ero e quel mescolarmi nel dramma e nel disperato lutto collettivo, la paura di altri attentati, anche lì mentre noi stavamo marciando e piangendo insieme, alimentò in me, a partire da quel momento, la necessità di scrivere, testimoniare, raccontare. Perché? Per sentirmi parte, tenendomi la folla nel cuore – come un’amica in questi giorni mi ha ricordato, ha scritto Emily Dickinson. – Tenerla, anche oltre l’attimo, oltre me stessa, unita a tanti altri come me e diversi da me. La mia folla nel cuore, riaffiora ogni volta che mi trovo da sola o insieme ad altri di fronte alle ingiustizie che nel nostro paese, invece che spingerci all’indignazione pubblica, spingono i più a ripiegarsi su se stessi e ad accettare l’inaccettabile.

Noi della Libreria, come tante altre sappiamo molto di ciò che non funziona nel nostro paese, delle ingiustizie che ci piovono addosso e non parliamo dello scempio che viene fatto delle risorse umane e naturali. Manifestare CONTRO e manifestare PER! Non solo un paio di volte l’anno in date comandate, ormai svuotate di significato come il 1° maggio, il 25 aprile, anche l’8 marzo, la famigerata giornata della donna. Dovremmo farlo continuamente, manifestare come le madri di Buenos Aires, quando d’improvviso, trovarono nel loro cuore una folla di morti viventi, i loro figli e le loro figlie.

Non si arresero, demolite dall’indignazione e dallo sgomento, lottarono, manifestando, inventando l’arte e l’etica della manifestazione pubblica e collettiva attirando cerchio dopo cerchio nella Plaza de Mayo di Buenos Aires, l’attenzione di tutto il mondo e poi i cambiamenti desiderati.

La situazione in Italia è grave, gravissima e dovremmo gridarlo nelle strade, anche noi – come negli anni tremendi dei desaparecidos – anche noi con attaccate alle camicie e agli scialli le fotografie di pezzi di vita che non ci è dato vivere, non ci è dato dare vita: figli che non possiamo mettere al mondo, spazi di civiltà e giustizia sociale, diritto al lavoro remunerato. Il sistema italiano si sta facendo sempre più violento e ingiusto e purtroppo troppi, donne e uomini stanno addormentati o storditi, impauriti, chiusi nelle proprie case, dietro piccoli smart phone o schermi televisivi che più o meno ci istupidiscono tutti quanti. Manifestare vuol dire incuriosire, contagiare, risvegliare rispetto a giustizie e ideali rinnegati: “Non credere di avere dei diritti”, non vuol dire, rinuncia a lottare per averne! ANZI.

Molti sostengono che manifestare sia tempo perso e che non serva a nulla, se fosse così non sarebbe tanto difficile ottenerne permessi dai comuni. Piuttosto, il sistema per impedirle è pronto a muovere le forze di pubblica sicurezza, finanche l’Esercito per impedirle, finanche agevolare infiltrazioni da parte di facinorosi vandali e picchiatori.

A metà gennaio abbiamo cominciato a parlare di Non una di meno nella redazione di Aspirina rivista acetilsatirica, incerte se intervenire con un numero speciale sulla violenza o fare silenzio, se sostenere o criticare. Come è successo a molte femministe, eravamo scoraggiate e irritate dal tono dei documenti, ma continuavamo a girarci intorno, mosse dall’insistenza di alcune.

Passavamo in rassegna le rivendicazioni scritte o declamate nelle assemblee, così lontane dalla presa di coscienza di “non credere di avere dei
diritti”. Leggevamo le analisi su violenza maschile e violenza del capitale, ci sembravano veteromarxiste e confuse. Dall’altra parte, l’inno all’altrui giovinezza suonava come una retorica maternalistica sulle generazioni.
Nonostante tutte le ambivalenze, eravamo coinvolte. Non riuscivamo a prescinderne per due ragioni. La prima è che al centro c’erano Cadmi, Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano e D.i.Re, a cui andava tutta la nostra fiducia. In Italia Non una di meno è nata dal nesso tra le donne dei centri antiviolenza creati dal femminismo e quelle dei gruppi antagonisti di matrice marxista. Le attiviste perlopiù giovani, donne di una generazione oppressa dal neoliberismo, sono state attratte proprio dalle pratiche di quei
centri antiviolenza, da una sapienza politica che lotta sul campo da oltre trent’anni.
La seconda ragione è che si tratta di un movimento, o meglio sommovimento di donne globale e che, a differenza di altri apparsi negli ultimi anni, non è ostile al femminismo delle origini.
Da subito il nostro interesse si è rivolto al dietro la scena, non alla manifestazione come obiettivo. Abbiamo cominciato a parlarne con Marisa Guarneri del Cadmi, di cui conosciamo l’intuito politico. Era certa che nonostante tutti gli svarioni e le scritture disastrose, stesse succedendo qualcosa di forte. Confermava che era sbocciato un riconoscimento di autorità, e che si era aperto un ascolto.
Aspirina ha scelto di dire la sua con un countdown di vignette e testi satirici sulla violenza maschile, dal titolo Non uno di più, per sostenere “tutte le amiche di Cadmi e D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, non una di meno”.

Vai a Non uno di più e Otto marzo 2017

Questo io vedo ed ho visto nell’assemblea nazionale di NONUNADIMENO a Bologna. Ho riconosciuto negli atteggiamenti e nelle parole delle donne dei Centri Antiviolenza di DIRE il desiderio di raccontare non solo la propria esperienza, ma anche la crescita di consapevolezza e di identità che il nostro rapporto con le donne ha fatto crescere. Chiarire i presupposti del nostro intervenire contro la violenza maschile, i punti che sono vincoli invalicabili, come garantire la segretezza e l’anonimato e la libera scelta alle donne che si rivolgono a noi.

Mi sono fidata delle relazioni che ho dentro la casa delle donne maltrattate di Milano e, anche se con qualche dubbio, sono andata a Bologna (a Roma non c’ero) e alle numerose riunioni di preparazione dell’8 marzo, alcune si sono svolte nella sede di CADMI. La nostra sede si è riempita di giovani donne dei collettivi, delle scuole e delle università ed anche di donne che conosco da una vita e che mi ha fatto molto piacere ritrovare. Donne con cui, in passato, ho vissuto eventi significativi per la mia vita.

Sono state riunioni abbastanza ordinate ed organizzate in cui si è trovato modo di parlare e di dissentire quando necessario. Ho sentito rispetto e riconoscimento per il nostro percorso contro la violenza. Ma a Milano, come a Bologna, quello che mi ha colpito di più è l’aria che si respira in questi incontri. Parlare di energia e forza è riduttivo, ed anche dire che i corpi delle donne parlano e rappresentano desideri e voglia di libertà.

L’ho visto accadere, per fortuna, moltissime volte. C’è di più e certamente i linguaggi usati nei documenti che hanno convocato l’8 marzo non erano all’altezza della gioia e determinazione che ho sentito. Uno scarto certamente esiste ed è anche molto evidente fra il desiderio e la scrittura, come se le parole non fossero sufficienti ad esprimere il desiderio di giustizia e di cambiamento presenti nel cuore di ognuna di noi. Ascoltare, capire anche imparare è ciò che mi preme. Siamo di fronte ad eventi epocali che hanno ribadito il protagonismo femminile e la capacità di produrre eventi in tutto il mondo. Penso che davvero le donne sono ovunque e che cominciano a riconoscersi come fattore di cambiamento ineludibile. Certo molto c’è da discutere e confrontarsi sugli obiettivi e le forme in cui ci rappresentiamo.

Mi piace pensare a noi, donne in lotta, come il risultato di tanti anni di pratica della relazione e penso a Paestum 2. Un piano femminista contro la violenza maschile, e aggiungiamo pure e tutte le forme di violenza, è il terreno su cui dobbiamo muoverci con rigore e senza nascondere nulla.

Sono nata negli anni Settanta e, seppure mi riconosca figlia della forza sorgiva del movimento delle donne che in quegli anni solcava le piazze, non posso restituire l’intero di una esperienza che mi è stata raccontata attraverso le narrazioni di chi era lì. Quello di cui posso disporre allora, oggi, accogliendo l’invito di Luisa Muraro e della redazione ristretta di Via Dogana 3 sul tema delle manifestazioni è ciò che mi è successo il 26 di novembre 2016, quando la rete italiana di Non Una Di Meno ha organizzato la grande manifestazione che, come è noto, ha portato centinaia di migliaia di donne (e non solo) a Roma.

Per ciò che è stata la mia esperienza, il 26 non vi è stata rivendicazione ma un mostrare il sapere di sé che per più di 40 anni le donne hanno agito e agiscono, nei centri antiviolenza (che sono luoghi di libertà e di relazione, così sono stati giustamente nominati), nei luoghi pubblici e privati (tutti e senza distinzioni), nei movimenti (anche misti) che ha reso quella giornata memorabile. Di forza e gratitudine, la stessa che riconosco a chi ha fatto il percorso lungo che ha interpellato anche me per esserci. È stato un percorso di pratiche diverse che hanno trovato un punto di contatto su cui desidero continuare a intrattenermi perché mi ha insegnato cose importanti.

La potenza di ciò che è accaduto ha elementi di novità e di invenzione (anche nel maneggiare una forma “satura” come lo sciopero e riappropriarsene da un altro verso): deriva  (come ha ricordato Marisa Guarneri) da una novità rispetto all’apparizione del lavoro lungo (e centrato sul femminismo) dei centri antiviolenza, insieme al fatto che gli otto tavoli tematici successivi (prima a Roma il 27 novembre e poi a Bologna il 4 e 5 febbraio 2017), la costante contrattazione tra le pratiche politiche può trovare un giusto precedente in quanto accaduto negli ultimi due incontri di Paestum. Questo legame, tutto ancora da scrivere, segna una particolarità che allontana da altro genere di raduni, manifestazioni e rivolte. È infatti un modo di intrattenersi intorno al desiderio di politica tra donne.

C’è però qualcosa di più. Nella prossimità dei corpi e nella rappresentazione di una differenza femminile che ha attraversato la piazza del 26, è accaduto qualcosa di inedito e inaggirabile. Basta leggere il comunicato stampa di Non Una Di Meno (in preparazione allo sciopero dell’8 marzo) dove viene segnalata l’espressione lonziana di una nuova irruzione del “soggetto imprevisto della storia”, d’altro canto Ida Dominijanni l’ha ribadito nel suo articolo uscito per Internazionale (Il colpo d’ala dell’8 marzo) indicando quell’attimo di “modificazione totale della vita” che già il 26, nel mio essere lì, ho sentito palpabile. È infatti proprio grazie all’aver tenuto tra le mani un “sapere della vita” che l’esperienza di Non Una Di Meno si è liberata dal fantasma dell’azzeramento per quanto fino a lì guadagnato in questi 40 anni e che, alla discussione sulle pratiche politiche più o meno efficaci, ha preferito la forza. Quei corpi raccontavano proprio come si possa stare sulla propria forza.

Alle sottoscrizioni di appelli rivolti alle donne – fino a qualche anno fa – affinché si assumessero il carico etico di “sistemare” le cose, rispondendo a schieramenti partitici, per mettere in mora un governo o per domandare ascolto, quello che ho avvertito il 26 – ma che è circolato anche l’8 marzo – è stata la potenza di una “soggettività politica”, senza bandiere di partito, senza parole d’ordine che fossero riconducibili a uno scontro per conto di terzi, bensì una lotta, libera e gioiosa.

I corpi presenti non erano lì per caso, nonostante fossero privi di “missioni”, non stavano in attesa di qualcosa o qualcuno che li avrebbe sussunti ad altre “cause”. La radicalità della collocazione femminista è stata, e resta, centrale in questa esperienza – tra l’altro presente in più di 50 stati nell’occasione dello sciopero delle donne dell’8 marzo (una festa del “non farsi trovare” nei luoghi preposti). E non si tratta di radicalità per l’insistenza dei mesi di lavoro comune, nei singoli territori, nelle 60 assemblee cittadine e regionali (l’unico esperimento rimane in tal senso quello sardo) che si sono formate per pensare insieme. La collocazione femminista è stata, e resta, centrale – oltreché decisiva – perché chi ha attraversato quella piazza, le donne in particolare che erano presenti, lo ha fatto come ha sempre attraversato il mondo. A incedere è stata una enunciazione di sé e delle proprie pratiche, più che una rivendicazione o richiesta di autorizzazione. Le femministe non si sono proposte di fare da “guida”, bensì hanno accolto il contributo di una serie di altre istanze. Da una parte allora vi è il taglio della differenza e dall’altra il contributo – per certi versi notevole – di altri soggetti politici.

La ritrosia e il giudizio con cui spesso tutto questo complesso processo è stato letto e considerato ha prodotto molte frizioni che hanno preceduto l’incontro in piazza (entrambi a dire il vero, quello del 26 novembre e quello dell’8 marzo). Lascerei da parte chi ha creduto possibile ignorarlo definitivamente, mi soffermerei invece – per esempio – su questioni più interne: quella del separatismo e l’altra dell’aver interpellato i sindacati. In tutti e due i casi, al netto delle polemiche, ha resistito l’esorbitanza di ciò che stava accadendo e che non poteva essere fermato in nessun modo. Ci sono state esperienze diverse, così come diverse forme di manifestazione (penso ancora a ciò che è accaduto in Sardegna e che ha portato a due momenti, uno a Cagliari e l’altro – dichiaratamente separatista a Nuoro. Non si sapeva come sarebbero andate a finire entrambe le manifestazioni eppure hanno colloquiato tutto il tempo e anche adesso i diversi gruppi si incontreranno di nuovo).

Quello che mi risulta è allora che esiste un linguaggio dei corpi, nella loro vicinanza e insieme, che in qualche modo precede quello discorsivo. Con la successiva lettura del libro di Judith Butler (L’alleanza dei corpi) ho capito meglio: andava dunque definita quell’ostinazione dell’essere insieme attraverso i corpi.

Ciò che sta andando in scena – a livello mondiale – è uno spazio di relazione (Butler lo spiega bene) riconoscibile “tra” i corpi e nel momento in cui accade. Del performativo Butler tiene il “movimento” del fare e disfare. Si configura quindi una relazione che, spiegata in questo modo, ci è familiare, ci è prossima e può essere raccontata come un punto di esperienza poiché abbandona sovrastrutture teoriche e  linguaggi inconsistenti per cercare punti di verità; per toccare qualcosa fino a quel momento sconosciuto; per rappresentare una grammatica precisa che ci dia la possibilità (come ha detto Laura Colombo) di leggere il presente. Questa grammatica non va tradotta per essere portata a una ortodossia unica del femminismo, la differenza sessuale non ne ha bisogno perché rimane un significante, è la precondizione – per me – perché tutto questo accada; è dunque una grammatica che va conosciuta, ascoltata, nel fermo desiderio che da essa si possa apprendere nel momento in cui si sta creando. Anche nelle imprecisioni di tiro, nelle vulnerabilità che indicano la molteplicità di quei corpi sessuati.

Se ci spostiamo nell’orizzonte fecondo di una perdita di indispensabilità (intesa come “solo ciò che passa per me e per le mie pratiche va bene”) e ci poniamo invece in una posizione di ascolto, possiamo comprendere come dall’esperienza di Non Una Di Meno ci sia molto da imparare. Succede spesso, quando ci si ostina nella forza femminile.

Speriamo che, grazie al suo ultimo libro, L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017), Judith Butler non sia più causa di confusione nella mente di tanti: persone che volevano vedersi riconosciute anche politicamente nella loro differenza. E che nei libri di Butler hanno trovato una risposta, ma non sempre hanno capito il suo pensiero. I motivi di ciò sono più di uno, tra cui che la sua scrittura non è mai stata quel che si dice facile e, ancor più, che lei fa un uso molto esteso, secondo alcuni arbitrario, di una nozione specialistica, il performativo.

In questo libro continua a usarla, spiegando e rispiegando il suo significato della parola in questione. Secondo me, fa bene perché non vedo ancora tante alternative a questa astrusa parola, performatività, per quello che è in gioco. È in gioco che ci rendiamo conto come, da certe situazioni, da certe combinazioni di cose e parole, può sprigionarsi una forza simbolica che trasforma il reale, direttamente. Il che storicamente ha luogo; difetta però la consapevolezza di questa possibilità, che Butler chiama anche il potenziale performativo. Si tratta, in altre parole, di capire quella che io, noi, chiamiamo politica del simbolico (altra formula non facile).

Dobbiamo il titolo, L’alleanza dei corpi, al traduttore italiano, validissimo, Federico Zappino, che lo ricava fedelmente dal linguaggio dell’autrice, ma lo sostituisce al titolo del libro originale, retrocesso, con opportuna mossa, a sottotitolo: Note per una teoria performativa dell’azione collettiva.

Questo libro è, nell’insieme, più “facile” degli altri. Si sente che chi l’ha scritto vuole farsi capire eliminando certi equivoci e confusioni passate. Si sente anche che cerca nuovi destinatari. A un certo punto Butler dice: “sento l’urgenza di scrivere per un pubblico più ampio” (p. 196).

Chi erano i destinatari di prima? Nel sostenere che il genere fosse performativo, risponde lei stessa, ho voluto “contribuire a rendere le vite delle minoranze sessuali e di genere più possibili e vivibili, perché i corpi non conformi alle norme di genere , al pari di quelli fin troppo conformi (e ad alto prezzo), siano in grado di respirare e di muoversi liberamente” (p. 56).

Teniamo presente che l’attenzione verso le minoranze può essere un modo per parlare all’umanità di tutti. Si guarda verso quelli che non sono tenuti in conto per arrivare a fare luce su quello che c’è sotto e che agisce nell’operazione, tipica del potere vincente nei paesi a regime democratico, di istituire una maggioranza a spese di una o più minoranze. Fare che una minoranza diventi fonte di luce per tutti, è la sconfitta del potere. E Butler questo ha voluto fare. Ma qualcosa potrebbe non essere andato per il suo verso, che la porta a cercare nuovi destinatari. Secondo me, è stata la conquista dei diritti da parte di alcune minoranze, cosa buona in sé, che però ha svoltato verso una politica identitaria. La politica identitaria ha stoppato lo sviluppo del potenziale innovatore.

Ma il libro ha anche un importante movente positivo. Alla sua origine, infatti, c’è un’intuizione nuova, suggerita dalle inattese manifestazioni pubbliche di protesta che si susseguono nel decennio in corso. Quando i corpi si raggruppano nelle strade, nelle piazze o in altre forme di spazio pubblico, incarnano e prefigurano un agire politico che è ancora da pensare, e che va pensato, se vogliamo sottrarci alle condizioni imposte dai sempre più squilibrati rapporti di forza, e combattere contro la precarietà che ne consegue per molti, se vogliamo cioè concorrere alle condizioni di una vita degna (vivibile e buona) per noi e gli altri.

Con l’intuizione, che ho cercato qui di riassumere, siamo oltre l’obiettivo della conquista dei diritti. “Questi corpi, insieme, esercitano il potere performativo di rivendicare la sfera pubblica in un modo che non è ancora stato codificato giuridicamente e che forse non potrà mai esserlo appieno” (p. 122). Nella prossimità dei corpi, nel tra che li avvicina ma non li confonde, prende forma un nuovo agire politico. Il tra è il luogo della relazione, che può svilupparsi in rispondenza con il fatto che lo stato di dipendenza in cui nasciamo, ci costituisce dagli inizi come creature relazionali.

Sarebbe sbagliato leggere L’alleanza dei corpi come se fosse un voltare pagina rispetto alla passata produzione. Tutto il primo, lungo, capitolo mira a collegare il nuovo argomento agli scritti di “molti anni fa”, dedicati alla teoria secondo cui il genere sessuale è performativo. La preoccupazione principale, come ho già accennato, è di riscattare il concetto di performativo che è stato inteso male. Ha prodotto, nota in particolare l’autrice, “due interpretazioni contrastanti: per la prima, ciascuno si sceglie il proprio genere; per la seconda siamo tutti completamente determinati dalle norme di genere” (p. 101). È capitato anche qui in Italia.

Dalle ultime pagine di questo primo capitolo, non capisco come Butler giudichi i risultati dei suoi sforzi. C’è però un indizio significativo, ed è il suo invito alla “consapevolezza che i diritti hanno senso solo all’interno di una più ampia lotta per la giustizia sociale” (p. 115). Io la penso come lei, e cioè che, senza quella più ampia lotta, i diritti perdono il loro senso e diventano privilegi, in un batter d’occhio. (Tant’è che, a suo tempo, Simone Weil ci invitò a considerarli e chiamarli non diritti ma obblighi verso l’essere umano.)

Comunque la vediamo, questo interessante primo capitolo fa un’operazione poco appariscente ma preziosa, che è di farci intendere come non ci sia politica che non sia anche politica sessuale; Sexual Politics è il titolo di un libro inaugurale del movimento delle donne, apparso alla fine degli anni Sessanta.

Facendo l’operazione di congiungimento tra la sua passata ricerca sul genere sessuale e quella nuova sul comprendere il potenziale politico di azioni collettive, Butler si trova a ripercorrere vie battute dal movimento femminista. Del resto, lei stessa ha dichiarato anni fa: io sono femminista, né più né meno.

Il suo maggiore riferimento teorico esplicito, in questo libro, è Hannah Arendt e la sua dottrina secondo cui l’apparire sulla scena pubblica costituisce l’atto politico per eccellenza. Dottrina che Judith Butler riprende e critica al tempo stesso. All’importanza del riferimento corrisponde l’importanza della critica. “Divergo dal pensiero di Hannah Arendt, anche se attingo alle sue risorse per chiarire la mia posizione”. E continua: la prospettiva arendtiana è invalidata da una distinzione tra privato e pubblico che assegna la vita politica agli uomini e il lavoro riproduttivo alle donne. Nella sfera pubblica l’uomo appare come corpo maschile non dipendente da altri, “libero di creare ma non creato esso stesso, mentre il corpo della sfera privata è femminile, o vecchio, o straniero, o infantile” (p. 123).

Il movimento delle donne ha rivoluzionato questa sistemazione degli spazi e dei corpi con una radicalità che Butler riscopre (citando alcune pensatrici femministe, tra cui Adriana Cavarero) e rende attuale.

Penso alle prime riunioni di autocoscienza fra donne, in locali fortunosamente adattati: atto sovversivo allo stato puro, che ha cambiato dei significanti millenari e creato le condizioni della nostra, di donne, esperienza libera, senza fracassi di morte e distruzioni. Ecco uno squisito esempio di come agisce il performativo! Forse, Butler non ha conoscenza personale di quell’evento. In compenso, sa evocarlo: “La correlazione tra la performatività e la precarietà può essere riassunta da queste domande essenziali: in che modo chi non ha voce parla e rivendica le proprie istanze? Quale tipo di frattura crea questa rivendicazione nel campo del potere?” (p. 94). Per me, una frattura di quelle da cui non si torna indietro e che non si finisce di approfondire.

Le rispondenze che anche altre, come Rosaria Guacci e Alessandra Pigliaru, hanno avvertito tra questo libro e il movimento delle donne, nascono, io credo, non tanto dai fatti biografici, quanto dalla coincidente ricerca di forme nuove della politica. Ne ho avuto la certezza in quelle pagine che cominciano con queste parole: “È importante prendere in considerazione le forme di assembramento politico che non hanno luogo per strada o in piazza” e riguardano “l’efficacia performativa della creazione di uno spazio politico a partire dalle condizioni infrastrutturali esistenti” (pp. 199-201). A leggerle, di colpo ho riconosciuto la storia e il senso della Libreria delle donne di Milano, apertasi nel lontano 1975. Le situazioni che l’autrice evoca in queste pagine sono apparentemente distanti e diverse, ma il significato no: si tratta infatti di un agire politico che non calpesta i corpi, né il proprio né l’altrui, che non ignora la reciproca bisognosità, che non strumentalizza le relazioni né la dipendenza altrui, ma realizza, man mano che ciò sia possibile, le sue promesse per tutti e ciascuno.

Chi questo lo sa per esperienza, senta l’urgenza di scrivere, segua l’esempio di Judith Butler.


Forse speravamo che l’8 marzo di quest’anno passasse come al solito tra riti, elogi all’indispensabilità e alla grande forza morale delle donne e dichiarazioni del Presidente della Repubblica, per poi tornare alle nostre pratiche quotidiane. Purtroppo per noi (uomini) non è stato così: ancora una volta le donne ci hanno spiazzato.

Ammettiamolo pure, uno sciopero indetto e promosso dalle donne e per le donne ci provoca sconcerto e un’insopportabile irritazione. E non lo dico da testimone esterno: fino a qualche anno fa questa scelta ‘separatista’ mi avrebbe causato un impeto di rabbia a malapena reprimibile.

Il breve articolo scritto da Dario Di Vico per le pagine online della 27esimaora del Corriere della sera, intitolato Otto marzo. Perché lo sciopero «per le donne» è stato un errore e pubblicato di gran fretta nella stessa serata dell’8 marzo, rappresenta bene questo stato d’animo.

Intendiamoci, il pezzo è tutt’altro che gridato, usa ragionamenti pacati e ben formulati ammiccamenti alla difesa dei più deboli, identificati immediatamente con le donne.

Certo, gli obiettivi dello scritto sono più di uno: lo sciopero come strumento serio ma un po’ “spuntato” e in fondo minoritario, il facile populismo giornalistico sui disagi per i servizi ecc. ma qui non importa dare un giudizio su questi aspetti. A un certo punto il perno dell’articolo appare in tutta la sua pregnanza: «ha senso oggi coltivare ancora la separatezza delle donne?» e non usare la loro autorevolezza ben altrimenti, per salvare noi e il mondo dai disastri che abbiamo fatto e continuiamo a compiere? Questa dovrebbe essere la loro principale incombenza!

Ha ragione Di Vico: togliamoci subito il dente (e per un anno non ne parliamo più). Anche se il dolore rimane. Diciamocelo: quello che ci dà più fastidio è la lievità, la leggerezza pensante con cui le donne scelgono altro da noi. Ci dà fastidio che scelgano prima di tutto se stesse e le altre.

Il movimento femminista, in Italia ma non soltanto, riesce ad essere uno e tanti. Vediamo infatti che cambia restando fedele a qualcosa che c’era fin dagli inizi. Che cosa sia non è scritto su tavole di pietra, e nessuna, singola o gruppo, ne ha l’esclusiva. Pensiamo alla pratica della separazione, che segnò la rottura decisiva: per molte, oggi, comprende anche una considerazione positiva della differenza maschile, agli inizi non ci si pensava e alcune non ci pensano neanche adesso.

Però ne parliamo, ogni volta che occorre. Siamo d’accordo, infatti, che di mezzo c’è sempre quello che siamo e facciamo in pratica.

Adesso occorre che parliamo della pratica delle manifestazioni pubbliche e VD 3 ci invita a farlo con l’aiuto di Alessandra Pigliaru.

Agli inizi del femminismo la pratica delle manifestazioni pubbliche di strada fu ignorata, o criticata e respinta da molte, adottata da altrettante, come mostrano volentieri i documentari… Naturalmente, non ci siamo contate e forse, finora, sul significato delle manifestazioni per noi, non abbiamo ragionato abbastanza. Per esempio, un’assemblea come quelle di Paestum o, recentemente, di Bologna, sono manifestazioni pubbliche? Da una manifestazione pubblica di strada si può sensatamente escludere gli uomini? Le risposte non sono pacifiche perché c’è di mezzo la lotta contro la dicotomia tra pubblico e privato e per altro ancora, tra cui la significanza di corpi femminili sulla strada, in piazza. Ieri, oggi.

Ecco un argomento per la storia delle donne, da indagare: la storia delle manifestazioni femministe dai tempi di quella rivolta nella rivolta che segnò gli inizi del nostro movimento, fra gli anni Sessanta e Settanta, fino alla manifestazione di Non una di meno. E oltre.

Un padre e una figlia cercano di capire il senso della vita o meglio tentano di dare un senso alle loro vite.

In 162 minuti il film di Maren Ade svolge il tema con una costruzione narrativa spiazzante e un tono grottesco facendo emergere l’assurdità e le contraddizioni dei rapporti sociali e di potere prodotti dal neoliberalismo e mostrando la possibilità della diversità, del non allineamento, dello starne fuori mettendone a nudo i meccanismi. La regista stupisce e disorienta, sfida le possibili resistenze del suo pubblico, vuole che la sua opera sia vissuta come un’esperienza.

Lei, Ines, la figlia trentenne, è una manager di una multinazionale tedesca con sede a Bucarest ed incarna alla perfezione il modello della donna in carriera: alto senso del dovere e dedizione ai capi, puntualità e precisione, presenza costante e affidabilità, durezza e tenacia nelle sfide e nelle scelte. In una parola identificazione. Donna ambiziosa, in un ambiente di uomini, aspira al loro potere, ma è il lavoro a dominarla e il tempo della sua vita è il tempo del lavoro: nessun confine o limite nella sfera privata.

Lui, il padre, Winfried, insegnante di musica in pensione, è un burlone. E’ scherzoso, ironico, ha la battuta pronta, la presa in giro garbata e ama travestirsi, presentandosi sotto altre identità. Lo fa forse per rompere la routine della sua solitaria quotidianità. Di fatto il suo modo di essere anticonvenzionale e provocatorio spariglia la rigidità delle consuetudini e l’assuefazione nelle relazioni. E’ gentile e pronto a scusarsi e a spiegarsi se lo scherzo non è capito. La figlia lo ritiene, con disprezzo, un incapace, un superficiale, un uomo privo di ambizioni.

La svolta nel film avviene con il loro incontro: il padre la va a trovare a Bucarest, forse per un risvegliato amore paterno o per solitudine. Non si sa, come non si sa nulla dei loro passati rapporti.

Qui Winfried diventa Toni Erdmann, una folta parrucca nera e una sporgente dentiera che rende il suo sorriso imbarazzante: si presenta così alla figlia, al suo capo, ai suoi colleghi e alle due sue amiche.

E il film decolla. Mentre le domande del padre si fanno pressanti – Sei felice? Hai una vita? Che senso ha la vita che fai? Sei un essere umano? -, e le sue intrusioni nella vita di Ines sempre più farsesche e surreali, qualcosa dell’armatura di lei si incrina. C’è un momento dove lei intuisce la sua vera natura, un attimo per riconoscere e riprendere l’essenza del suo essere e fermare un istante di verità fra lei e il padre.

In competizione a Cannes 2016, Vi presento Toni Erdmann ha vinto cinque European Film Awards per miglior film, migliore regia, sceneggiatura, attore e attrice ed è stato candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero per la Germania. La regista Maren Ade (1976), anche sceneggiatrice del film e al suo secondo lungometraggio, dopo Alle Anderen, Orso d’Argento alla Berlinale nel 2009, è considerata “una dei rari cineasti che si sta adoperando per reinventare le strutture narrative, lavorando nel campo del cinema di finzione d’autore rivoluzionandolo dall’interno”. (Daniela Persico, Filmidee n°18, 2016).

I richiami al film di Marina Spada Il mio domani  (2011) sono molteplici.

Judith Butler – «L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva», traduzione di Federico Zappino, 2017, nottetempo edizioni


«L’alleanza dei corpi», pubblicato in Italia in questo febbraio 2017, è stato scritto nel 2015, cioè un anno prima della nomina presidenziale di Donald Trump: le imponenti manifestazioni di dissenso dal suo programma messe in atto da migliaia di donne a Washington e da altrettanti obiettori del Muslim Ban negli aeroporti americani dicono della grande attualità del testo. Ma a mio parere non è questa attualità il suo vero pregio quanto piuttosto la riflessione di Butler, più ricca e puntuale delle sue precedenti, sulla politica dei corpi sulla scena pubblica.

A fronte delle crisi delle democrazie e della predatorietà crescente del neoliberalismo e delle politiche delle multinazionali, Butler, nell’introduzione del saggio, analizza il processo di precarizzazione delle condizioni dell’inclusività, cioè la crescente “dispensabilità” dei singoli, di cui sono costituiti i popoli di Stati e nazioni, dalla collettività.

Ma, si chiede Butler, cos’è dispensabilità, cos’è popolo ed esiste un concetto unitario che possa definirlo o non si dovrebbe invece parlare di due popoli, quello degli inclusi e quello degli esclusi da condizioni minime di vivibilità? Torna qui il concetto di “buona vita” da lei posto, sulla scia di Adorno, in «Vite precarie» del 2013. In questione, in «L’alleanza dei corpi», non è più solo la buona vita ma la vita tout-court. Butler qui riprende e sostiene ancor più energicamente l’assunto che si possa e si debba vivere una vita giusta pur in un mondo eticamente ingiusto. In dettaglio: il liberalismo promuove retoricamente l’autonomia economica del singolo ma non la rende effettiva con alcun provvedimento economico. Il destino di chi è incapace di resistere all’urto di un’economia organizzata per lasciarlo deperire può quindi essere una precarietà che diventa estrema fino alla morte. A poter offrire speranza e soluzioni è la politica di corpi in relazioni attive e incarnate: con queste nuove reti di sostegno simboliche e materiali il corpo, in un contesto plurale, torna al centro della politica.
Gli attori sociali così stretti in contesto sono, per Butler, i soggetti genderizzati, razzializzati, esclusi. Donne, omosessuali transgender, stranieri, lavoratori precarizzati, apolidi, malati, disabili, nuovi poveri. I “dispensabili”, gli estromessi dalla visibilità e dall’accesso sulla scena pubblica illuminata. Dispensabili perché sollevati dalla “responsabilità” che è predicata dal Sistema-Stato come necessaria ai singoli cittadini per sopravvivere ma che in realtà non è sostenibile individualmente: ne sono esempio la pretesa di un’autonoma presa in carico delle cure mediche e di un alloggio – assunzioni che richiedono entrambe infrastrutture di sostegno che proprio esso Stato non garantisce. La scommessa è che i soggetti più vulnerabili e dispensabili conquistino il diritto di apparizione – il concetto è arendtiano ma sviluppato in un senso autonomo da Butler – nello spazio pubblico. Viene da domandarsi, e nel corso del testo se lo domanda la stessa Butler: il gender, la forma di femminismo a cui la filosofa ha legato le sue analisi, rimane l’agente primario di promozione del contesto solidale in cui i vari soggetti si legano in relazione, o in questa nuova teorizzazione le donne e i corpi genderizzati diventano uno dei vari agenti da collocare nel gruppo più generale dei “dispensati”? Sì, il femminismo resta il catalizzatore di ogni alleanza, lei scrive. Ed è suo compito diventare inclusivo rivolgendosi a chi è altro da sé, cioè a nuovi soggetti. La finalità è combattere la categorizzazione e la definizione con cui il maschile tenta di manipolare e modellare i soggetti – e quindi i corpi – più vulnerabili. Processo fallibile, come comincia a vedersi oggi con la fine del patriarcato. È importante il piano su cui si muove Butler; quello di un’idea di politica che mette in gioco i corpi. Mi soccorre qui l’analisi puntuale di cosa sia una pratica di relazione fatta da Federica Castelli durante la presentazione di «L’alleanza dei corpi», il 13 febbraio, al Tuba Bazar di Roma. Secondo lei la politica delle relazioni, perché incarnata, mette in atto trasformazioni che escono dall’a-priori e dal piano di diritti rivendicati in astratto. Ancora – ed è molto interessante che Butler lo dica – questo tipo di relazione non si fa semplicemente nelle piazze, che comunque ne mostrano con massima evidenza la modalità corporea. In questo contesto, la politica dei corpi diventa una nuova politica che situa fuori da quella cosiddetta dei diritti: non si scende in piazza per un diritto astratto; i diritti non si chiedono: si creano le condizioni per ottenerli e in questo modo si spostano dal piano tradizionale della politica. Le regole vengono fatte nel concreto, lavorando nel contatto, nello stare insieme ma anche nello spostare l’immaginario a partire da relazioni incarnate. Queste pratiche di relazione – e qui torno alle parole di Butler – non mirano alla costruzione di un’identità collettiva, di un “Noi” nel vecchio senso della tradizione liberale inclusiva (ed escludente) di cui ho già detto. Butler ora si misura, ed è innovativa rispetto a sue formulazioni precedenti, con una nuova idea di popolo e di populismo. Non negativo se inteso in questa radicalità: la questione, la passione sta nel dare un senso fino a ora inedito al mondo a cui di necessità apparteniamo producendo attenzione all’altro e cura; mettendo in essere responsabilità collettive e senso di appartenenza. Entrando ancor più dentro le problematiche del testo, in «L’alleanza dei corpi», Butler racconta il suo percorso dalle prime riflessioni circa i diritti delle minoranze sessuali all’analisi di che cosa sia un’alleanza e del come la si possa costruire. Se in «Questioni di genere», scritto nel 1990, lei ipotizzava la potenzialità di sovversione di determinati atti individuali, con tutto il loro potenziale non solo distruttivo ma anche creativo, rispetto alle norme di genere, ora sposta il focus dell’indagine. Se già nelle riflessioni di allora il gender segnalava, nominava, indicava la vulnerabilità della nostra condizione umana, il nostro essere esposti, sempre dipendenti da relazioni e ordini discorsivi che ci precedono e ci eccedono, ora l’indagine allarga sempre più il concetto di precarietà. «Termine intermedio che è anche, in qualche modo, un termine di mediazione» essa, per Butler, può in determinate condizioni costituirsi come luogo di alleanza tra varie minoranze o parti di popolazione più vulnerabile; tra quei gruppi di persone, talvolta perfino diffidenti gli uni degli altri se non antagonisti, che hanno poco in comune tra loro al di là di una possibile relazione. Butler resta convinta che le politiche identitarie non esauriscano la questione di cosa significhi vivere insieme nonostante e attraverso le differenze, in una prossimità «non scelta deliberatamente ma vista come l’unica istanza etica possibile». E con quella libertà che «non presuppone né produce un’identità collettiva, quanto, piuttosto, un insieme di possibilità e di relazioni dinamiche che includono forme di supporto reciproco, conflitto, rotture, gioia, solidarietà». In conclusione, dal movimento Occupy alle proteste di Atene, dalle cosiddette “primavere arabe” al Parco Gezi di Istanbul, alle rivolte di Ferguson, dalle mobilitazioni queer a quelle degli immigrati, la tesi di Butler è che negli ultimi anni, dal 2011 in poi, all’interno di lotte democratiche, questi raduni possano esprimere forme di resistenza e solidarietà radicali da cui emerge una nuova idea di “popolo”. Non omogeneo, non unitario, non includibile in un falso universalismo ma portatore di differenze incarnate e di una finalità d’intenti. Un popolo di diversi in alleanza che interroga cosa sia l’etica che sottende il patto sociale.