Molti studiosi e studiose di varia provenienza convergono nel sostenere che tra le caratteristiche eminenti del nostro tempo ci sarebbe un’espansione del narcisismo. A questa tesi, alcune obiettano che si tratta di una diagnosi parziale dal momento che non tiene in dovuta considerazione il fatto che il narcisismo riguarderebbe innanzitutto gli uomini e molto meno le donne. Questa obiezione comunque non convince molto uomini e, in vero, neppure tutte le donne.

Di solito, la tesi sull’attuale espansione del narcisismo è interpretata come se riguardasse la psiche dei diversi individui. La si potrebbe insomma parafrasare così: la maggior parte degli individui oggi presenta quella complessione psichica che è denominata “narcisismo”. Al che l’obiezione risponde: nel perlopiù delle donne qualcosa resiste.

Questa impostazione del discorso induce a porsi domande come le seguenti: che cosa c’è negli uomini che li espone al narcisismo? Che cosa c’è nelle donne che le rende più resistenti o meglio difese? Che cosa c’è nel nostro tempo che favorisce la diffusione di questa sorta di male psichico?

Vorrei che lasciassimo da parte questa impostazione psicologica e tornassimo a collocarci sul piano dell’ordine simbolico e delle forme dell’agire. Qui non ha più senso interrogarsi sul narcisismo come una specie di sindrome. Appare invece chiaro che il narcisismo è una certa modalità di rapportarsi a sé, agli altri e alle cose della vita: è una forma di mediazione e di affrontamento di tutti questi rapporti. E a questo punto si fanno innanzi delle domande molto più interessanti. Ne elenco tre:

Così, invece di contare quante donne sono narcisiste o quanti uomini riescono a sfuggire a questo destino, possiamo concentrarci su quel che è più importante: quali caratteristiche hanno i contesti relazionali che generano narcisismo e quali caratteristiche hanno le pratiche che invece portano verso un altro ordine di relazioni. Nel rispondere a queste domande, l’autorità femminile potrà (continuare a) manifestarsi in maniera concreta. E anche gli uomini potranno provare a portare qualcosa di nuovo.

Riprendo da La pratica dell’inconscio, di Chiara Zamboni, nella dispensa gialla, due punti di riflessione: uno è la differenza fra il femminismo della differenza e i movimenti sociali; l’altro è il collegamento fra pratica dell’inconscio e politica del desiderio, laddove si intrecciano simbolico e relazioni. Li riprendo a partire dalla grande esperienza che è stata per me, e per molte/molti altri, l’esperienza dell’autoriforma della scuola, ma anche, come suggerisce l’ultimo libro di Vita Cosentino, riconoscendo nell’autoriforma una postura che trasforma la vita pubblica. In qualche modo voglio mostrare a Giordana Masotto che non si tratta di un aut aut, anzi di riconoscere connessioni che ci aiutano perché a me sembra che spesso siamo bloccate da domande a cui non abbiamo ancora trovato risposta.

Se penso all’autoriforma vedo la sua profonda differenza dai movimenti sociali. Questi ultimi hanno delle caratteristiche di massa anche quando non sono molto estesi, o sono estesi a livello locale: c’è un obiettivo comune da raggiungere, le modalità di lotta sono concordate, attraverso un’organizzazione che vincola i partecipanti, insomma bisogna vincere; penso alla Rete della conoscenza o ai No Tav, per fare degli esempi.

L’autoriforma della scuola e dell’università, dove è nata, non è una organizzazione. Potrei dire che i soggetti sono delle singolarità in movimento che intrecciano relazioni e si danno uno spazio di incontro a cui partecipare continuando a lavorare ciascuna/o nel modo che sente più congeniale con l’aiuto delle relazioni vicine, ma col desiderio di sottrarre all’invisibilità ciò che di prezioso si mette in gioco nel proprio lavoro. Non c’è un obiettivo esterno da raggiungere, come nei movimenti sociali, il collante è il bisogno di significare la ricchezza della pratica quotidiana. Non è importante il consenso, ma il rimando di forza simbolica, e questa è una forza che non cancella il dubbio, accetta l’incertezza, si nutre delle intuizioni che accompagnano l’opera.

La scuola non è luogo di ripetizione meccanica o di esecuzione. Ci sono spazi di creatività diversissimi – tra le varie zone del paese e le varie scuole – che noi abbiamo voluto dire in incontri locali e nazionali, non per omologarci ma per farne sgorgare il senso, perché attraverso quel lavoro di scavo noi per prime/i capivamo la scuola che volevamo. E anche ciò che dentro o fuori di noi la ostacolava. Ciò che avevamo in comune era la consapevolezza che stavamo aprendo conflitti simbolici nati dallo scarto fra ciò che noi mettevamo nel nostro lavoro e il modo in cui era visto e nominato nella società. Nel nostro modo di sentire e di agire c’era un’eccedenza che indicava un altro ordine di senso e quello volevamo salvare.

Uno dei motivi per cui è nato il circolo La merlettaia a Foggia è stato proprio il desiderio di coinvolgere la città in questo percorso. Che cosa vogliono salvare oggi tante insegnanti?

Nel conflitto simbolico l’interlocutore fondamentale non è il potere, piuttosto invece le colleghe/i, che spesso coinvolgevamo nelle nostre iniziative, gli studenti e le studentesse con cui ci relazionavamo, i e le presidi. Con tutti si trattava di toglierci da una posizione pregiudiziale e mettere in gioco quello che Chiara Zamboni chiamò con espressione felice l’aspetto inconscio della relazione. Come facevo per esempio a far nascere la passione per la storia in studenti e studentesse che partivano chiedendo a cosa servisse la Storia e supponendo che fosse una cosa inutile? Eppure suscitare quella passione era la mia misura, per poterla ritrovare io stessa. E per arrivare dove?

Questa è una differenza fondamentale con i movimenti sociali che invece si pongono in modo frontale contro il potere e gli contendono il terreno decisionale. Non voglio sottovalutare ogni scontro con il potere, anzi nell’autoriforma c’è sempre stato su questo un dibattito molto acceso. Ma moltissime di noi hanno la consapevolezza che c’è un prima, c’è un dopo e c’è un altrove, cioè c’è altro che sfugge al potere, e questo altro ha a che fare con sogni, speranze, paure, desideri che si manifestano spesso in forme indirette, che ci sono oscuri o ci diciamo in modo distorto.

È il lavoro di relazione che trasforma il vissuto soggettivo in esperienza e in simbolico indicatore di un ordine.

È questa un’altra grande differenza con i movimenti di massa che vedono solo se il singolo ha sposato o no l’obiettivo, ma sottovalutano il simbolico e ignorano il conflitto tra sé e sé, le radici profonde del nostro agire, l’aspetto inconscio.

Una differenza di fondo è che nei movimenti sociali essere uomini o donne viene considerato indifferente. L’agire femminile viene diluito nell’universale neutro, o non viene ascoltato o addirittura viene ostacolato se apre ad altre logiche rispetto al previsto.

Nell’autoriforma invece le singolarità in movimento si incontrano proprio a partire dalla curiosità per ciò che l’essere donne e uomini fa comparire sulla scena simbolica, c’è disponibilità verso l’imprevisto e l’invisibile. E questo invisibile si trova sottraendoci alle regole o al sistema di aspettative dato dall’istituzione e dai saperi costituiti, non accontentandosi di quanto fino ad ora già simbolizzato, anche dal femminismo.

E quando si apre lo spazio del simbolico non si può parlare in termini di sconfitte o vittorie, piuttosto in termini di visibilità/invisibilità, dicibilità/indicibilità.

Per questo parlarne e raccontare diventa fondamentale.

E diventa fondamentale riconoscere la postura che caratterizza l’autoriforma anche quando non se ne usa il nome come a me sembra di vedere in alcune donne che operano nella mia città.

Una bella occasione questa di poter vedere al lavoro la differenza sessuale e di poter confrontare su un medesimo soggetto quello che pensano e mettono in scena un uomo e una donna.

Mi sto riferendo all’ultimo lavoro di Sofia Coppola, L’inganno, premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes 2017, e al film di Don Siegel, La notte brava del soldato Jonathan del 1971, tratti entrambi dal romanzo The beguiled (1966) dello scrittore americano Thomas P. Cullinan.

La trama dei due film è identica e le variazioni di sceneggiatura non ne modificano la sostanza.

Virginia, 1864, piena Guerra di Secessione, un soldato nordista ferito, trovato nei pressi di un collegio femminile, è soccorso e curato dalle giovani donne che lì vivono protette, anche se i cannoni rombano a breve distanza. La sua presenza modifica le dinamiche delle relazioni fra le sette donne – la direttrice, l’insegnante e cinque giovani ospiti dai dodici ai diciassette anni –, rompe la loro quotidianità fino a mettere quasi a rischio la loro stessa esistenza.

Don Siegel, nel suo film, che tra l’altro nella versione inglese porta lo stesso titolo del romanzo, pone al centro il caporale Jonathan McBurney, bugiardo e manipolatore, pronto a giocare nella partita per la sopravvivenza e la fuga tutte le sue cartucce: un esercizio di fascino, seduzione e inganno per provocare gelosie e invidie, mettere le donne le une contro le altre togliendo loro autorità e potere. Dall’atmosfera, molto gotica, carica di erotismo, nevrosi e di pericolo il regista fa emergere un immaginario di donna potente, demoniaca e castrante. Al film, comunque, non va tolto il merito di un’ottima regia e di un cast di tutto rispetto ad altissima recitazione e tensione, Geraldine Page e Clint Eastwood fra gli altri.

Sofia Coppola pone al centro la comunità delle sette donne, un piccolo gruppo autosufficiente, dopo la fuga e l’allontanamento di molte, che resiste con il proprio lavoro nel mezzo di una guerra che dura da molti anni. Allevano animali, coltivano l’orto, dal bosco raccolgono funghi e legna, cucinano e cuciono. Una serenità conquistata in cui ognuna svolge i propri compiti in una ritualità rassicurante divisa fra lavoro, lezioni e preghiere. La direttrice, l’autorevole Miss Martha, sente, così facendo, di preservare e proteggere le sue allieve dagli orrori e dai pericoli della guerra che le circonda.

L’imprevisto si presenta nel corpo ferito del soldato nordista.

Tutte loro lo accolgono, decidono di curarlo, di nasconderlo, correndo anche dei rischi. Giocano con lui i riti della seduzione nella sensualità dei loro giovani corpi, mosse da sentimenti ed emozioni che forse poco conoscono e delle cui conseguenze sono poco consapevoli. E lui, il soldato, sentendosi quasi in un paradiso, muove le sue pedine con bugie e inganni.

In una forma essenziale e minimalista il film di Sofia Coppola è interessato a mostrare le relazioni fra quelle donne, le loro complicità e le tensioni anche sessuali che la presenza di un uomo fra loro provoca. McBurney è un uomo che non capisce la complessità delle donne, né i loro desideri, né lo spirito dei loro legami: gioca il tutto per tutto per soggiogarle ai suoi fini. È una questione di potere. Dall’altra parte, le donne, dalla più grande alla più giovane, si fanno consapevoli di non voler diventare né suoi oggetti del desiderio né le sue vittime e in un conflitto a tensione crescente troveranno le opportune soluzioni.

Cast stellare con le sue attrici preferite Kirsten Dunst e Ellen Fanning, più una splendida Nicole Kidman e un Colin Farrell, non totalmente a suo agio nel ruolo di McBurney. Ambientazione ricercata e costumi raffinati; colori della fotografia in sintonia con le variazioni di atmosfera del film.

Non credo che l’inconscio possa, oggi, essere una risorsa efficace su cui fare leva per dare forza a una pratica politica che voglia smarcarsi sia dalla emancipazione/parità sia dalla neutralizzazione/obliterazione. A meno che non vogliamo arrenderci e convenire sull’ipotesi che il femminismo non possa che fare un lavoro fondamentalmente culturale agendo solo sulle individualità. Lavoro importantissimo certo, imprescindibile, ma non compiutamente politico. Cerco di articolare queste affermazioni un po’ drastiche.

Nell’incontro VD3 del 10 settembre – non ho potuto esserci, ma ho letto i testi pubblicati e ascoltato una registrazione – i molti interventi si sono focalizzati sulle relazioni duali tra donne che attraversano il nostro stare nello spazio pubblico. Luci e ombre, limiti e bellezze. Parole e racconti che sgorgavano con l’intensità di un’esperienza che tocca tutte. Il la è venuto dall’intervento di Lia Cigarini che ha detto: la forza sovversiva dell’inconscio – che ha caratterizzato gli anni ’70 e in particolare una parte del femminismo – ha generato la pratica dell’affidamento, intesa come «relazione duale che ci ha permesso di tenere stretto il nesso tra singolarità e collettività».

In sostanza si afferma: l’inconscio, scippato dalla biopolitica, ha sì perso la sua carica sovversiva, ma il femminismo della differenza ne ha distillato una pratica duale tra donne che è politica perché crea nuovi nessi tra singolarità e collettività. Io qui però metterei un bel punto di domanda. Abbiamo davvero creato nuovi nessi tra singolarità e collettività? È successo? Se ascoltiamo le esperienze non tanto. Di certo non va in automatico: la famosa contaminazione è una intuizione suggestiva ma non risolve quel nesso. E inoltre altri interrogativi politici sollevati in apertura da Vita Cosentino e Lia Cigarini, che pure avrebbero potuto aiutare a dirimere la questione, non sono stati raccolti.

Eppure il desiderio c’è e in alcuni interventi si sentiva forte: desiderio di imparare a confliggere per incrinare i dispositivi del potere, desiderio di non accontentarsi di stare con più agio ma modificare i luoghi del potere, di calare i rapporti duali nel gruppo, farli interagire, metterli alla prova reciprocamente. Ma non facciamo l’errore di dare per scontato quel desiderio. Non è obbligatorio. Se però c’è, prendiamolo sul serio e dotiamoci di strumenti adeguati.

Una piccola digressione. Durante l’incontro Luisa Muraro ha osservato che ci sono sì relazioni di affidamento, ma che difetta il consultarsi. La relazione di affidamento è fonte di autorizzazione primaria (quindi, ne deduco, crea le condizioni per il riconoscimento del nostro desiderio). La consultazione, osservava Muraro, è un passo di natura diversa. Come ha anche scritto: «è una forma relazionale che, nell’agire politico, dev’essere di tipo allargato». Questa distinzione (che non so se ho ben inteso) mi suggerisce un’ipotesi: la consultazione potrebbe andare nella direzione politica detta prima, cioè riguardare i nessi tra singolarità e collettività. Infatti consultarsi vuol dire in ultima analisi interrogarsi sulla ricaduta pubblica delle nostre azioni che è qualcosa di diverso dal sentirci autorizzate e forti a sufficienza per esprimerci.

In conclusione. Io credo che più che far leva sull’inconscio, oggi dobbiamo esplicitamente puntare alla affermazione di un simbolico femminile in tutti i luoghi pubblici in cui ci troviamo ad agire. In secondo luogo: se vogliamo far politica, i nuovi nessi tra singolarità e collettività dobbiamo cercarli non solo lasciarli accadere, se accadono. Le relazioni sindacali e politiche, anche collettive, possono essere modificate.

Lia Cigarini ha detto che la consultazione tra noi difetta e io sono piuttosto d’accordo, questa capacità difetta ma, secondo me, la pratica della consultazione dovrebbe avere una considerazione sua propria, perché può essere indipendente dalla relazione di affidamento. La capacità del sapersi consultare non è interna alla relazione di affidamento.

Nella mia esperienza l’affidamento è la fonte prima di autorizzazione e la consultazione con colei o coloro con cui si ha una relazione privilegiata duale è la più autorizzante. Per inciso: ho trovato importante il discorso di Lia sull’autorità, così come trovo importante la relazione privilegiata, quella capace di darmi autorità. La relazione privilegiata ha le sue radici nell’infanzia, nella relazione primaria, con la madre.

Però la consultazione è una forma relazionale che, nell’agire politico, dev’essere di tipo allargato. Aggiungo: invece di far riferimento al gruppo, come si usa, meglio secondo me che ci sia riferimento a qualcuna in modo preciso e specifico.

A questo proposito devo dire che sono stupita dal fatto che mi venga riconosciuta tanta autorità e che ci sia così poca consultazione sulle cose di cui mi occupo e mi sono occupata. Mi si chiede aiuto, per questo e per quello, ma è una cosa diversa. Io sono andata avanti in certi campi consultandomi con questa e con quello, per esempio nello studio di Margherita Porete, penso al gesuita Verdeyen e soprattutto a Romana Guarnieri.

Non voglio esagerare, incrocio lo sguardo di Vita C., noi ci consultiamo lei mi consulta è una donna che ha sempre saputo muoversi. E lo stesso dovrei dire di altre, come Chiara Z.

Arrivo al secondo punto che volevo dare come contributo. Quando mi consulto con colei da cui deriva la mia autorizzazione, per una cosa che devo decidere, io non mi sento vincolata da quello che lei dice. La sua posizione è corroborante, spesso mi fa cambiare strada ma non è vincolante in assoluto. Voglio dire che, dopo la consultazione, la responsabilità di quello che si decide di fare, resta nelle mani di chi si è consultata. Io lo dico esplicitamente: “io la penso così, ti consiglio così, ma la decisione resta tua”. Tante, ho osservato, sotto pretesto di consultarsi o di affidarsi, fanno un’operazione ben diversa, che è di delegare la decisione alla donna cui è riconosciuta autorità da tante… autorità? Sta già diventando un potere. A volte la fonte di autorità è vincolante, sia chiaro però che non si tratta di una consultazione ma di un comando. Mi è piaciuto quello che ha detto Marisa G.: adesso, quando sento che c’è dissonanza non svicolo, vado a vedere cos’è, vado a confliggere prima che sia troppo tardi. Mi sembra un’indicazione importante.

Altrimenti, riassumendo l’insieme di quello che ho detto, non si arriva a quello che ha proposto Lia, che è di sostituire i dispositivi del potere con la pratica di relazione.

Delle tre domande poste da Vita Cosentino cerco di rispondere, brevemente, a quella che lei formula così: il femminismo della differenza ha elaborato pratiche per stare in rapporto con l’inconscio; quale pratica politica oggi?

Nella riunione del 15 luglio scorso ho sottolineato come la pratica psicanalitica sia un nocciolo originario, cioè all’origine del femminismo della differenza. Antoinette Fouque e Luce Irigary giustificano ampiamente questa mia affermazione.

Preciso però che per quello che riguarda il femminismo della differenza italiano fondamentale è stato il lavoro nella lingua: parola, scrittura, segni. E qui appare evidente il grande contributo di Luisa Muraro, che conosceva bene la rivoluzione simbolica di Saussure.

Tuttavia, per ragioni di brevità, la volta scorsa non ho detto quale pratica politica abbiamo messo in campo a Milano fin dal tempo dei primissimi incontri con Antoinette Fouque.

Si è costituito un gruppo Analisi che seguiva alla lettera la pratica delle francesi, vale a dire: analisi individuali con analista e analizzante che facevano parte dello stesso gruppo. Così che il gruppo veniva investito dei sintomi, gesti mancati, silenzi, rimozioni ecc. passati al vaglio della relazione analitica. Un secondo gruppo, quello dell’inconscio, messo in piedi da Lea Melandri, prevedeva invece il lavoro analitico di gruppo.

I due o tre anni di questa pratica sono stati intensi e nel testo prodotto dal gruppo Analisi, Pratica dell’inconscio, risaltano le parole dense che ci hanno orientato e spinte ad agire fino a oggi; parole come disparità, autorità, relazione ecc. sono nate lì.

Ho già detto le ragioni che hanno spinto ad abbandonare quella complessa pratica. Tuttavia il dado era tratto e la consapevolezza acquisita. Si era capito che l’inconscio era sovversivo. Ho dei dubbi che lo sia così tanto oggi, scippato appunto dal neoliberalismo e dalla biopolitica, oltre che dai media.

In quegli anni ’70 la possibilità di cambiare, direi più precisamente trasformare sé e le altre/i, era nell’aria. Alcuni analisti e analiste erano considerati personaggi politici da ascoltare. Tanto che Luce Irigaray, per merito del femminismo della differenza che ha tradotto velocemente i suoi testi e organizzato incontri in tutta Italia, è stata ascoltata anche da dirigenti del PCI, quelli più in sintonia coi tempi.

Voglio dire: l’idea che la trasformabilità del sé fosse essenziale per la vita collettiva, ha avuto allora una risonanza politica non piccola.

È indubbio che quella pratica, come ha sottolineato Chiara Zamboni, è continuata sotto altro nome, e cioè la politica del desiderio o del simbolico. E, io aggiungo, non è un caso se alcune del gruppo Analisi sono state tra le fondatrici della Libreria e nel Gruppo n. 4, quello che ha scritto il Sottosopra Più donne che uomini.

Quello che più m’interessa dire è che, dal lavoro politico del gruppo Analisi, è nata la pratica dell’affidamento, cioè della relazione duale che ci ha permesso di tenere stretto il nesso tra singolarità e collettività.

Mi conforta in questo il pensiero della storica americana Joan Scott così come viene commentato con grande intelligenza da Stefania Ferrando nel libro Differenza di genere differenza sessuale.

Dice Ferrando: “il femminismo nella grande varietà di forme e di espressioni che lo caratterizzano, è considerato come quel movimento politico che ponendo la questione della differenza sessuale, ha riconosciuto le potenzialità critiche del vissuto e del desiderio singolare rispetto all’ordine costituito e ne ha fatto un problema politico, in cui ne va del senso della nostra vita collettiva. Il contributo del movimento femminista alla storicità delle nostre società passa quindi per un lavoro politico e simbolico sui nessi tra singolarità e vita collettiva”.

D’altra parte il femminismo della differenza ha sempre puntato sulla presa di coscienza di ogni singola donna. Le femministe sono state sempre una minoranza ma hanno contaminato con la parola e il confronto moltissime altre, magari restie a entrare nei vari gruppi femministi.

A questo punto mi potete obiettare: tu parli di singolarità ma proponi una relazione duale. Rispondo: nel rapporto duale di affidamento oltre al rafforzare il tuo desiderio, a nutrirlo, tu sperimenti l’irriducibilità dell’altra/o, dell’altra/o che pure è uguale a te. E questo ti dà un senso del limite, di realtà. Per inciso, preciso che il modello di questo tipo di relazione duale ci è stato suggerito dal setting analitico.

Riprendo il filo. Nel rapporto di affidamento, l’orientamento che si ha dal costante confrontarsi e consultarsi con quella nella quale hai fiducia, ti da maggior capacità di contrattazione tra te e te, tra te e le varie controparti che incontri nella vita.

A proposito di controparti: nel gruppo Lavoro abbiamo definito le donne come soggetti complessi a causa del loro corpo, della loro sessualità e della maternità. Di conseguenza, abbiamo sottolineato, è impossibile scindere il lavoro produttivo dal lavoro riproduttivo e di manutenzione della vita umana.

La posta in gioco dunque è che tale complessità rimanga nelle relazioni sindacali e politiche. E quindi che prevalgano forme di contrattazione sindacali e politiche non solo collettive ma anche duali o di piccoli gruppi.  

Per spiegarmi meglio faccio un ulteriore esempio, quello della Libreria delle donne di Milano che sicuramente funziona da 42 anni sulle relazioni duali e attraverso queste si prendono le decisioni. Siamo una cooperativa che per essere iscritta al Registro delle Società ha dovuto stendere uno Statuto che prevedeva la nomina di un Amministratore, di un Consiglio di Amministrazione, di una assemblea che decidesse a maggioranza. Noi abbiamo messo da parte lo Statuto e abbiamo concordato invece che decidesse quella/e che si trova in Libreria in quel momento. Quella (o quelle) che, per la più parte dei casi, interpella(no) le donne con le quali sono in una relazione di fiducia. Questo non ha chiuso in sé la Libreria. Al contrario, donne che se ne erano andate per ragioni personali e politiche sono ritornate proprio perché il dissenso politico, o altro motivo di allontanamento, non aveva rotto negli anni le relazioni duali di fiducia con quelle rimaste.

Per concludere sul punto, prima che la parola passi a voi presenti, sottolineo  come in questo modello relazionale che chiamiamo affidamento, sia possibile trovare un vero baluardo e alternativa alla necessità del potere.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 L’inconscio, ingrediente segreto, del 10 settembre 2017

Dico subito che io non c’ero ai tempi della pratica dell’inconscio, sono venuta dopo e non ho competenze psicoanalitiche. Ho passione politica e per questo, dopo l’incontro voluto a luglio da Lia Cigarini Chi vince tra desiderio e potere? Attualità della pratica politica dell’inconscio, mi sono messa a leggere e pensare per non lasciar cadere la sua proposta e farne un numero di VD 3.

Ho preso spunto principalmente da:

La dispensa gialla (in vendita in Libreria)

Non credere di avere dei diritti (Libreria delle donne, Rosenberg & Sellier)

La materiale vita (Tristana Dini, Mimesis edizioni)

L’inconscio può pensare? (Chiara Zamboni, Moretti & Vitali) in particolare il suo saggio su Lou Salomé, che ho saccheggiato per disporre di uno sguardo femminile sugli aspetti psicoanalitici.


Alcune, nella redazione ristretta, hanno espresso preoccupazioni per la complessità del tema. Per questo, per prima cosa, brevemente definisco il termine inconscio, così come lo intende Lou Salomé, perché la sua posizione mi ha aiutata nel mio ragionare. Per lei ha una doppia valenza: è sì fissazione alla propria storia infantile come rimozione e regressione, causa quindi di nevrosi, ma è anche la potenzialità creatrice dell’infanzia, nel senso “di un divenire sempre primordialmente originario”. Le due cose sono legate. Le fissazioni sono tali perché “rimangono aggrappate da qualche parte” prima di aver raggiunto “la patria di nuove possibilità creative” (pp. 103-104).

Sostengo che l’inconscio è l’ingrediente segreto perché, rileggendo soprattutto Non credere, mi sono accorta che, sebbene venga detto esplicitamente che la pratica dell’inconscio si è diffusa poco – proprio perché ritenuta troppo difficile – in realtà essa ha continuato a lavorare sotterraneamente in tutti questi anni. L’inconscio è stato la risorsa principale per tutte le invenzione politiche, dalla madre simbolica all’omosessualità politica, all’affidamento, alla disparità, all’autorità e via e via.

Vi porto ad esempio un passo dal capitolo Le madri simboliche che fa vedere fin nel linguaggio, fin nel modo di raccontare, come questo ingrediente sia presente: “E poi perché nell’esistenza di ogni donna c’è stato un tempo, anche se remoto e sepolto, in cui ha guardato verso l’una o l’altra delle sue simili come alle depositarie del sapere per lei più importante. Quel tempo è lo stesso in cui una donna ha ingenuamente pensato, era una bambina, che il mondo stava aspettandola e aveva bisogno di lei” (p. 142).

Per parlare di me, ricordo che quando il Sottosopra verde propose di sessualizzare i rapporti sociali e io cominciai le pratiche a scuola, la cosa fu accompagnata da sogni in cui ero nuda in mezzo a persone tutte vestite. Lì si stava muovendo qualcosa di profondo e io neppure sapevo che cosa fosse. Le pratiche politiche, a loro volta, rimettono in gioco l’inconscio.

L’ingrediente è segreto, ma è anche riconoscibile. Mi ha molto sorpreso trovare nella Materiale vita di Tristana Dini, una femminista di seconda generazione, l’esplicita registrazione del fatto che l’intreccio tra politica e psicanalisi sia l’elemento di fondo del femminismo della differenza. Infatti lei scrive: “In alcuni settori del femminismo italiano, vengono proposte dinamiche di ‘affidamento’ e ‘disparità’ che aprono la strada, sulla base di un sempre maggiore impatto del femminismo con la psicoanalisi, a quella politica del simbolico che porrà al centro il tema della figura materna” (pp. 121-123). Riconoscibile non vuol dire che sia accettato o condiviso. Apre però un terreno preciso di confronto.

In riferimento a questo primo punto, vorrei porre due questioni a tutte e tutti noi qui presenti, ma in particolare a Lia Cigarini che di questa storia è stata una delle protagoniste (assieme a lei voglio qui nominare almeno Lea Melandri).

La prima è suscitata dal fatto che nel suo libro Tristana Dini estende il riferimento all’inconscio anche all’autocoscienza. So bene che ai tempi, e anche in Non credere, le pratiche, come l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, erano nettamente distinte se non in parziale contraddizione, ma oggi è ancora politicamente produttivo mantenere queste distinzioni? o è meglio valorizzare l’idea che per una donna è comunque l’inconscio l’ingrediente segreto di una politica che non sia di uguaglianza con gli uomini?

La seconda questione riguarda il fatto che Chiara Zamboni nella dispensa dà molto peso al concetto di “omosessualità politica e simbolica”, derivato dalla Fouque, e ritiene importante oggi riprendere questa posizione che ha a che fare con un inconscio legato al corpo materno e al corpo delle altre. Tutte le donne, sia che siano omosessuali sia che siano eterosessuali, “hanno un legame sensuale e affettivo tra loro dato che le accomuna il primo legame con il corpo della madre”.

Negli anni ’80 e ’90 l’omosessualità politica era un’idea che circolava molto, che nominava un tessuto di relazioni strette che si creavano in molti luoghi, che avvalorava la fiducia con cui ci si poteva rivolgere a un’altra donna. Poi è caduta un po’ nel dimenticatoio. E oggi le donne giovani non ne sanno nulla.

È politicamente importante rimetterla in circolazione oggi? Può essere effettivamente quell’elemento che, come sostiene Zamboni, permette di contrastare il fatto che il movimento Lgbt irrigidisce in identità fisse, mentre esiste un movimento fluido delle donne tra loro?


Narcisismo e neoliberalismo

Lia conclude il suo intervento ammirando la preveggenza di A. Fouque quando ha scritto: “Nel ’68 siamo entrati in una organizzazione libidinale introdotta da Freud cinquant’anni prima con la qualifica di narcisismo. Oggi è il tempo dell’auto, degli esseri che si auto-fabbricano, si auto-esibiscono, si auto-promuovono, come auto-merce”.

Questo mi è sembrato subito un punto politicamente molto denso e attuale. Di auto-merce, di auto-promozione, negli ultimi tempi abbiamo discusso più volte qui in Libreria, invitando Tristana Dini e Stefania Tarantino, autrici di Femminismo e neoliberalismo e La Materiale vita. Esse sostengono che viviamo in una società biocapitalistica, in cui il soggetto non è più il soggetto di diritti ma è “soggetto di interesse” che “partendo dal desiderio presenta una dinamica egoista e immediatamente moltiplicatrice” (La materiale vita, p. 102).

Quelle discussioni mi hanno confermato che nel nostro tempo è proprio il desiderio il motore dell’agire. Per noi femministe il desiderio muove dal partire da sé, vive in una dimensione relazionale, fuori dal potere, dà vita a quella “politica del desiderio” di cui la forza politica “non sta nel desiderare qualcosa di oggettivo, ma nelle trasformazioni che esso opera in noi e nel nostro rapporto con il mondo” (Muraro). Nella logica neoliberalista, invece, il desiderio guida “l’impresa del sé” e “produce identificazioni mobili, multiple, in divenire, ma che si compattano intorno a un unico oggetto: la valorizzazione, la produzione, la prestazione, il “funzionamento” del sé” (Dini).

Gli esiti sono molto diversi ma c’è contiguità tra soggettività femminile e auto-imprenditorialità.

Le parole della Fouque mi hanno come spalancato una porta, perché per la prima volta ho visto una connessione tra neoliberalismo e narcisismo. Danno una chiave di accesso differente, un punto di vista che parte dalla vita psichica per leggere un quadro biopolitico che spesso appare come una situazione senza via di uscita. Il neoliberalismo punta a quello che Freud ha definito narcisismo secondario, cioè dell’età adulta, per implementare “l’Impresa del sé”.

La mia è poco più di un’intuizione che propongo alla discussione per le domande e le questioni che apre:

qual è la leva per la trasformazione soggettiva quando prevale l’auto-affermazione, l’auto-realizzazione individualistica?

Il femminismo della differenza ha elaborato pratiche per stare in rapporto con l’inconscio. Quale pratica politica oggi?

Se il narcisismo maschile è debordante e inquietante, che cosa si può cominciare a dire sul narcisismo femminile, oltre al fatto che circola poco?

Su quest’ultima questione, dico – per inciso – che Lou Salomé, soprattutto nel suo libro Il tipo donna, parla esplicitamente di narcisismo femminile e gli dà un valore positivo. Lo ritiene più prossimo al narcisismo primario, che per lei è il nostro radicamento nello stato originario, come una pianta nella terra, e, proprio perché l’io non è costituito, si configura come un’esperienza che porta con sé tutto il mondo.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 L’inconscio, ingrediente segreto, del 10 settembre 2017

Les Bienheureux di Sofia Djama è il film di esordio alla regia del lungometraggio di questa giovane regista algerina, presentato alla 74° Mostra del Cinema di Venezia per la sezione Orizzonti.

È un film che racconta la realtà algerina del 2008, alla fine di vent’anni di guerra civile: di morti sgozzati, donne stuprate, carneficine. Ancora rimane nell’aria, la paura, il segno del passato, la sfida al fanatismo.
Una bella personaggia è Feriel, la giovane che vive con il padre e il fratello, decisa, incurante di quello che pensano di lei, ha un’amarezza d’approccio agli altri ironica e sprezzante, unita alla voglia di ridere. Solo alla fine del film sappiamo che sua madre è stata costretta al suicidio per tutto quello che ha subito. Feriel ha una gigantesca cicatrice sul collo che nasconde con un foulard, ma non sappiamo che cosa le sia successo.
Molti sono i non detti di questo film ma molte sono le scene dove gli scontri fra le persone, le situazioni che accadono, le parole dette indicano l’oppressione incombente. Tutto all’improvviso può cambiare e l’ago della bilancia spostarsi verso il terrore se un poliziotto più osservante degli altri decide che una donna sola in auto di notte può essere messa in galera per guida in stato di ebbrezza.
Feriel è una giovane donna che afferma la sua libertà, passando attraverso il dolore. La sua ferita è quella del lutto subìto, di una giovinezza che è già stata offesa ma che continua a affermare la sua vitalità, una libertà di vivere che è una sfida alle pretese degli uomini di mettere le donne al loro posto e azzittirle.
Un bel film che ha avuto ottime recensioni, che fa entrare dentro a una realtà socio politica difficile, in una città ampiamente ripresa, Algeri, di cui non riusciamo a vedere niente di bello, se non l’amore con cui i suoi abitanti ci vivono e ci restano e resistono perché andarsene vuol dire essere considerati dei vigliacchi.
Les Bienheurex ha vinto il Premio Lina Mangiacapre e l’attrice protagonista di Feriel, Lyna Khoudri, ha ricevuto meritatamente il premio per la migliore interpretazione femminile per la sezione Orizzonti.


domenica 10 settembre 2017 ore 10.00-13.30


Qual è la leva per la trasformazione soggettiva quando prevale l’auto-affermazione, l’auto-realizzazione individualistica?
Il femminismo della differenza ha elaborato pratiche per stare in rapporto con l’inconscio. Quale pratica politica oggi?
Se il narcisismo maschile è debordante e inquietante, che cosa si può cominciare a dire sul narcisismo femminile, oltre al fatto che circola poco?


Riprendiamo a discutere ispirate dall’incontro del 15 luglio “Chi vince tra desiderio e potere? Attualità della pratica politica dell’inconscio” (di cui è disponibile una dispensa in Libreria). Introducono Vita Cosentino e Lia Cigarini.


Appuntamento: domenica 10 settembre 2017 alle ore 10 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265; la conclusione è prevista verso le 13.30 e sarà seguita da un pranzetto, come d’abitudine.

La generazione che avviene tra i due sessi è il dato mentale più fondamentale per ognuno di noi dato che siamo in vita. E poi che ne siamo consapevoli, andiamo a cercare tra animali e piante tutti gli esempi che riproducono questo due differente che è all’origine. Non penso che il “due originario” sia la diade donna che genera e creatura generata, come ha scritto Giordana Masotto (Perché accontentarsi di metafore?, VD3 17 luglio 2017). Occorre la differenza perché emerga qualcosa di nuovo, nuovo sarà allora quello che ancora non c’era.

La GPA cancella il due originario sessuato, e gli sostituisce – la nostra tradizione ha aperto un’autostrada in proposito – quello tra corpo e soggetto: il corpo gestante e la madre maschile. Il corpo è pura materia al lavoro, che produce un corpicino materiale, neutro+neutro, cui la madre maschile darà soggettività di figlio.

Vengono in mente tante cose. Il dogma dell’Assunzione è l’idea che contrasta questa perversione dell’immaginazione (e mi pare di vedere un senso anche nel fatto che il figlio sia maschio).

Tutto il campo del dono, della generosità, così come la storia di Sara (disse ad Abramo suo marito: vai dalla serva Agar, forse IO -SARA- POTRÒ AVERE FIGLI DA LEI), occupa rapporti orizzontali femminili entro un quadro patriarcale, si intuisce anche un altro tipo di separatismo.

Ma oggi non è così, le donne sono messe al lavoro della gestazione da maschi nella sfera della circolazione del denaro, e il quadro ideologico di riferimento è quello dell’uguaglianza e del neutro: i sessi non contano (tanto che si immaginano moltiplicarsi), e la madre è femminile come maschile.

Quindi Giordana fa bene a concludere che insistere sulla radicalità simbolica della relazione materna, che fa venire al mondo ed è il lavoro di rendere possibile la convivenza umana, può portare lo stesso sesso maschile a “riposizionarsi”, e non pensare più a spargere il seme per il mondo a destra e a manca.

Ciao, Cristiana

La prima cosa che mi interessa sottolineare è la differenza che passa tra la parola ‘divieto’ e la parola ‘condanna’. Sono contraria al divieto per legge della Gpa perché penso che il proibizionismo non sia efficace, nemmeno in questo caso, e che anzi possa rivelarsi dannoso, perché può costituire nella posizione di “vittime” gli uomini e le donne che la considerano un diritto o un’occasione di libertà da rivendicare.

E veniamo ora alla condanna: mi è stato fatto notare che questa parola nel linguaggio comune è associata con punizione. Non voglio punire nessuno: sono stata punita nei primi anni della mia vita abbastanza da farmi passare la voglia di avere a che fare con qualunque forma di questa idea.

Uso quindi la parola ‘condanna’ per dire che non può esserci da parte mia né approvazione né accettazione di questa pratica. Tanti argomenti in questo senso sono già stati portati. Aggiungo che vedo un eccesso dell’io nella spinta irrinunciabile a trasmettere il proprio patrimonio genetico. Una mancanza di coscienza del limite. Un’idea cieca di progresso. E ci vedo anche da parte di alcuni uomini un desiderio di rivalsa nei confronti della “ingiustizia” costituita dall’impossibilità di portare nel proprio corpo e partorire nuove creature.

Nutro una specie di compassione – nel senso etimologico del termine – per questo aspetto della condizione maschile, che immagino possa essere – quantomeno a livello inconscio – dolorosa.

La mia speranza è che ci possa essere una discussione che non si trasformi in un muro contro muro, che mi permetta di ascoltare e di essere ascoltata.

Sono convinta che la cosa più importante nella vicenda della Gpa sia il significato simbolico; forse il conflitto ci aiuterà a discutere di molte cose finite sotto traccia.

So che la scienza ha una sua forza interna che non può essere fermata, ma mi colpisce che dopo millenni di storia segnati dall’oppressione e dallo spossessamento della capacità riproduttiva del corpo femminile, oggi che le donne hanno la possibilità di pensarsi e di dirsi da sé, emerga qualcosa che le spinge a dispossessarsi da sé, almeno apparentemente.

Per questo la discussione sulla Gpa non dovrebbe discostarsi da quella sulla maternità e la non-maternità, e anche – rispetto al potere del mercato – dalla necessità di separare la questione del lavoro al diritto alla sopravvivenza. Cosa in parte già avvenuta, ma solo in senso negativo.

C’è ancora molto da indagare sulla maternità.

Un esempio personale: ho messo al mondo un figlio e una figlia. Senza prove “scientifiche” so che ciò che è intercorso tra me e mio figlio è diverso da ciò che è intercorso – in parte indipendentemente da chi sono io e da chi è lei – tra me e mia figlia. Come lavora l’inconscio nelle generazioni femminili che vanno indietro fino all’inizio del tempo, quella linea ininterrotta che Luisa Muraro chiama “continuum materno”?

Ho trovato riflessioni molto interessanti in alcuni testi di Diotima e nel libro «L’inconscio può pensare?», curato da Chiara Zamboni. Vorrei saperne di più.

L’ultima cosa: temo che la perdita di potere sulla vita che stiamo conoscendo possa essere in qualche modo coperta con l’illusione di una presa di potere sull’esistenza, o meglio su quelle parti dell’esistenza che sono la sessualità e la riproduzione. In questo senso, tra l’altro, non mi va bene essere definita dal di fuori come una eterosessuale, non fosse altro perché quando penso a me stessa mi penso bisessuale, e a volte qualcos’altro ancora. Ho paura delle definizioni.

L’invito di Luisa Muraro mi ha molto sorpreso. L’ho accettato per la lunga relazione che mi lega a lei e a questo luogo. E anche perché condivido la posizione, da Luisa riaffermata qui all’ultimo incontro di Via Dogana 3, per una più convinta ricerca di scambio tra donne e uomini e per una pratica politica comune. Ho pensato: «Non sono madre. Non sono gay. Che ci faccio qui?»

Ma la questione della gestazione per altri (Gpa) interpella noi uomini, e noi eterosessuali: un soggetto rimosso in questo dibattito su scelte che coinvolgono in realtà una maggioranza di coppie etero. E un soggetto troppo silente.

L’impossibilità di generare direttamente dal nostro corpo ci accomuna tutti. Lo ha detto bene Stefano Ciccone in dialogo con Federico Zappino e Cirus Rinaldi (inserto “Ciao maschi” sul n. 113 di Leggendaria, 2015): «Fare i conti con questo limite e attraversare le diverse sue elaborazioni è un esercizio ineludibile». Per riconoscere sempre meglio il proprio desiderio e quello dell’altra – o dell’altro a me in questo simile.

Non essere madre rimanda poi alla poco investigata relazione con la propria madre, oltre che con l’altra che può essere o è madre dei nostri figli. Finora – anche mediaticamente – l’essere maschio e padre, più o meno “in crisi”, resta declinato simbolicamente soprattutto in relazione al proprio padre e al figlio (e spesso si intende proprio il figlio maschio). Così si rimuove una relazione fondamentale.

Altri problemi apre l’affermazione “non sono gay”. Posso essere frainteso: “per carità, mica sono gay!”. Oppure c’è il rischio di alludere a una “comunità” che in realtà è fatta da persone diverse l’una dall’altra, e che si è data anche espressioni politiche e culturali distinte e plurali.

Parlo soprattutto dall’esperienza di due anni del gruppo romano “Maschile in gioco”, nel quale c’è un confronto con numerosi amici gay interessati come me e altri a riflettere sul proprio comune essere maschi.

Ancora prima, anni fa, altri scambi di questo tipo nella rete di Maschile plurale.

Una delle prime volte l’argomento Gpa fu affrontato da un amico gay, assai polemico sulla pratica: l’ho risentito e mi ha ricordato che in quella discussione aveva citato anche il caso di due lesbiche, una delle quali madre grazie allo sperma di un amico. Quando, diversamente dai “patti”, questo amico aveva manifestato il desiderio di avere una relazione col figlio, la reazione delle due donne era stata di rigida chiusura.

La differenza del contributo fisico alla procreazione giustifica la facile rimozione di un desiderio e di una presenza paterni?

Alcuni scambi più recenti, nel gruppo romano. Discussioni nel momento in cui c’è la polemica politica sulla legge per le unioni civili. Incontriamo una coppia di gay (fanno anche parte di un gruppo ebreo): non hanno alcuna intenzione di procreare o di prendersi cura di bambini. Sono però molto arrabbiati per l’uso strumentale che si fa dell’“utero in affitto” da parte delle destre, cattoliche e no, contro l’intera legge e contro l’ipotesi che legittimi anche le adozioni. Ne fanno una questione di dignità ferita.

L’uscita del documento di Snoq-libere, firmato anche da alcuni politici maschi, mentre si discuteva ancora della legge, mi sembrò – e mi sembra – una iniziativa strumentale.

Nel gruppo conosco superficialmente un uomo completamente preso dall’attesa che in America una donna metta al mondo la sua bambina. Non ha dubbi che si tratti di un fatto di civiltà. Ci fa conoscere la neonata, che tiene in braccio amorevolmente, poi scompare dal gruppo.

Guardarlo, ascoltarlo, mi provoca reazioni contradditorie. È bella la sua tenerezza paterna-materna. Ci vedo però anche un eccesso.

Capisco che molte donne leggano in questa figura maschile il pericolo di una appropriazione indebita della funzione materna. Che si metta in gioco un “indisponibile” nelle relazioni tra i sessi. Sono però convinto che in questa inclinazione maschile verso la piccola creatura sia leggibile anche un effetto prodotto proprio dalla rivoluzione femminile. Uno scostamento radicale dai tradizionali modelli patriarcali, verso il corpo e la cura. Qualcosa, comunque, da guardare e da interrogare.

Dell’intervista a Nichi Vendola di Letizia Paolozzi (nell’inserto “Mamma/non mamma”, sull’ultimo numero di Leggendaria) vorrei che si leggessero anche le parti in cui dice di sé che avrebbe voluto adottare, delle relazioni con le due donne che hanno reso possibile la nascita e con il figlio, e là dove afferma che il suo essere gay non lo svincola dai suoi “debiti di genere” («Il femminismo – dice – per molti di noi è stato un paradigma e un nuovo vocabolario. Lo dico senza camuffarmi da femminista e so bene che l’omosessualità non mi svincola dai debiti di genere che, in quanto maschio, ho contratto. Sono consapevole di essere maschio e so che ai maschi compete un lungo lavoro di genealogia del proprio genere per liberarsi dalle proprie coazioni al comando. Occorre un lavoro quotidiano di svuotamento della propria attitudine al potere, una sorta di auto-spossessamento di quella che è una stratificazione ideologica che agisce nel profondo e che ci fa appartenere a una etnia speciale, speciale perché addestrata a percepirsi come proprietaria privata delle donne e dei bambini»).

Direi che se si vuole discutere con i gay – con le loro associazioni, ma soprattutto con ogni singolo – bisognerebbe affermare in modo più forte che si è favorevoli all’adozione, da parte di single e di coppie. Come per tutti gli altri e altre (naturalmente si può anche essere contrari, ma in questo caso bisognerebbe motivarlo).

L’altro punto che sollevo è quello del linguaggio. Nell’epoca dei social se si confrontano due posizioni eticamente e linguisticamente chiuse (“fate una cosa abominevole” – “soffocate libertà, vita e amore”) le possibilità di uno scambio spariscono e si alimenta uno schieramento simbolicamente mortifero.

Credo di aver imparato da alcune donne, che sono qui, che “il metodo è sostanza”, e il linguaggio è la cosa più determinante. Sono poi preoccupato che il pensiero e la pratica politica della differenza sessuale possano essere viste, soprattutto da giovani persone che, forse anche non del tutto consapevolmente, ne hanno assimilato il valore radicale di libertà, ma cercano altro, come una proposta che si carica di significati normativi negativi.

Luisa ha ripetuto recentemente che la differenza è in noi, più che tra noi e altri. E mi verrebbe da dire che le vie per raggiungere un senso libero della differenza, se non sono infinite, sono comunque molteplici. Al limite sono tante quante siamo ognuno.

Da questo punto di vista conta non solo come, ma anche con chi si discute con l’obbiettivo di uno scambio. Sono del tutto d’accordo a discutere con il mondo cattolico, che sempre di più si volge al pensiero della differenza. O con quelle posizioni laiche che vedono il nesso tra differenza e una nuova idea della libertà e del limite oltre le ipoteche patriarcali.

Credo che questo scambio vada esteso al mondo che si usa riassumere nella sigla GLBTQI ecc. Riferirsi a questo mondo come a un tutto omogeneo e orientato alla neutralizzazione di segno maschile mi sembra un errore. Per certe posizioni forse è vero che uno come Mario Mieli si rivolterebbe nella tomba. Ma altre ricerche e pratiche si richiamano proprio alle sue posizioni, e alle successive elaborazioni che indagano non in modo banale sui nessi tra natura, cultura, potere, soggettivazione (un esempio: il dialogo sul “futuro del soggetto queer” tra Federico Zappino e Lorenzo Bernini in appendice al testo di Butler «La vita psichica del potere», Mimesis 2013)

Infine, non voglio sottrarmi al punto della legge. Non solo per quanto riguarda le massime che più o meno consapevolmente seguiamo nelle scelte etiche. Ma anche proprio per le norme di cui si discute. L’idea del divieto universale non mi convince. Come non mi piace una contrattualistica determinata dal mercato. Per un uomo è molto difficile, forse impossibile (sbagliato?) pronunciarsi su qualcosa che investe il corpo e la libertà femminile. Lo osserva Claudio Vedovati (nel citato volumetto “Mamma/non mamma”) riferendosi anche alla nozione di “diritto leggero”, nelle parole di Maria Grazia Giammarinaro.

Mi sono chiesto se l’asserzione formulata per l’autodeterminazione sulla procreazione e sull’aborto – a lei spetta, sul destino proprio e della propria creatura, la prima parola e l’ultima – non possa essere fatta valere anche nel caso della donna che scelga di procreare per altri e altre.

Perché accontentarsi di metafore quando abbiamo a disposizione un simbolico potente? Questo ho pensato ascoltando le molte voci che si intrecciavano nell’incontro VD3 del 9 luglio. L’ispirazione mi viene, ovviamente, dal libro di Luisa Muraro L’anima del corpo. Il punto mi pare importante per orientarsi nei conflitti e nei confronti nati a partire da GPA e dintorni. L’affermazione di un simbolico non metaforico, che lei delinea in un apposito capitoletto, a ben guardare, è già chiaramente evocata nel titolo del libro perché, come lei spiega, quel simbolico è tale perché è radicato nel corpo.

E infatti quella affermazione, secondo me, dà corpo e radice a un punto di vista che fa chiarezza – perché non è eliminabile e non è confondibile – su tanti obiettivi che sono oggi portati in campo. Su tante confusioni.

L’idea di un simbolico non metaforico è, nel libro di Muraro, ancorata al corpo della madre, alla differenza che la donna può mettere in atto con la sua capacità di fare la gestazione, di portare alla nascita. E poi di dare materialità simbolica, non metaforica, anche alla gestione della creatura appena nata fino al momento in cui prende corpo una soggettività autonoma.

Il lavoro della madre, se noi andiamo davvero a vederne l’essenza simbolica, ci fornisce alcune discriminanti politiche molto forti e che vanno riaffermate con chiarezza, perché la posta in gioco è alta. Ciascuna/o può portare il dibattito laddove lo reputi necessario e laddove ci siano le condizioni per avere un confronto, ma è chiaro che portare delle discriminanti e ribadirle significa anche mostrare come la maternità nel suo fondamento politico simbolico sia un elemento chiave della libertà delle donne. Ed è per questo che c’è tanto casino nel mondo del femminismo. Perché secondo me fa chiarezza sia contro la parità sia contro il considerare le donne solo una categoria oppressa che liberandosi si neutralizza, consegnandosi a quella versione on demand degli esseri umani che oggi sembra prendere il sopravvento.

Abbiamo detto basta da tempo all’essere considerate oggetti del discorso. Ma non siamo stanche di essere percepite come aggettivi, o addirittura come avverbi? Non è arrivato il momento di prendersi lo spazio per vivere da sostantivi? Le donne non fanno le (stesse) cose meglio (sì lo so, le fanno anche meglio, ma non facciamoci confondere). Le donne sono diventate un soggetto inedito nella storia dell’umanità.

Il femminismo degli anni ’70 ha dato una svolta definitiva alla presenza delle donne nel mondo perché è partito dai corpi, dal sesso e lì deve restare radicato.

Per esempio, quel famoso slogan “L’utero è mio e lo gestisco io”, che non mi è mai piaciuto, non ha forza simbolica. Nasce dall’esigenza di ribadire che non siamo contenitori a disposizione, e va bene. Ma non riesce ad affermare in libertà la differenza di un corpo che può diventare due e da cui tutti e tutte nasciamo (almeno finché non ci sarà l’utero artificiale). Al contrario sembra volersi sottrarre a quella potenza simbolica, accontentandosi di reiterare a piacere il gesto procreativo. Un diritto individuale: l’utero è mio e lo gestisco io, per abortire nei ’70 e adesso per generare.

E così la libertà delle donne, invece di sovvertire un mondo a una dimensione, ritorna nel privato globalizzato, consumerizzato. Naturalmente questo non mette in discussione che è la donna che decide, né tanto meno vuole inchiodare la donna al destino materno (io stessa ho scelto di non percorrere quella strada e sono insofferente verso la stucchevole secolare metafora) o non vederne rischi e deviazioni. Oggi possiamo restare vicine al corpo materno senza paura di essere fagocitate. Penelope prende (anche) il largo e inventa nuove rotte (e Ina Praetorius sarebbe d’accordo).

Ma se io parto da qui, tante cose di cui si discute di questi tempi, diventano più chiare. Mi sembra che una barra me la dia.

Per esempio, cosa ha a che fare con una libertà delle donne che voglia cambiare il mondo, l’aspirazione, oggi di moda, a fare tutti famiglia, a essere riconosciuti come famiglia con tutti i suoi portati giuridici e sociali? Non mi ci ritrovo: io ho scelto di fare spazio nella mia vita a una relazione amorosa (con un uomo) e però mi sono sempre rifiutata di sposarmi perché sono di quella generazione – come diceva anche Luisa – che vuole una “unione libera riconosciuta dalla legge”. Adesso per avere una serie di garanzie potrei fare l’unione civile, che non è solo per omosessuali e lesbiche, ma non ci sto, perché sarebbe come “abbassarsi” al livello di voler essere famiglia. Io non ho mai voluto essere famiglia. Allora mi chiedo: se noi ripartiamo dalla potenza politico-simbolica della differenza materna, in questo senso ampio, non sarebbe possibile ripartire anche sul piano del diritto? La diade che fa da paradigma alle relazioni di dipendenza degli esseri umani non è forse quella formata da una donna che genera e dalla creatura che è generata? Cosa cambia se noi mettiamo così in discussione la base patriarcale del diritto? Ne parla Daniela Danna nel suo Contract Children citando il lavoro di Martha Fineman; ha ragionato in questa direzione anche il gruppo delle giuriste di Milano negli anni ’70/80. Varrebbe la pena di andare avanti.

E quindi, da questo punto di vista, che cosa vuol dire che il seme maschile va libero per il mondo? Sono d’accordo quando si dice che quel seme non crea un diritto di paternità, ma quello che sta accadendo è che forse anche gli uomini non pensano più di volerlo spargere in giro a destra e a manca. Perché, se io vado a ripensare le radici del venire al mondo e della convivenza umana, (questo riguarda il lavoro, nasciamo dipendenti e moriamo dipendenti, tutto il lavoro necessario per vivere, ecc) se riformulo la radicalità simbolica di quella relazione, allora magari anche gli uomini vogliono riposizionarsi e spargere in giro il seme senza controllo attenua la sua potenza simbolica patriarcale.

E infine, se riconosciamo la forza simbolica e non metaforica del corpo della donna, cosa ne è del rapporto sessuale penetrativo, che è poi quello generativo? Negli anni ’70 ne abbiamo parlato tanto e l’abbiamo messo allegramente in discussione, sperimentando altre forme di incontro sessuale. Forse sarebbe il momento di ribadire che con la penetrazione l’uomo non possiede e non conquista. Al contrario, si riconsegna al corpo femminile da cui ha avuto origine, e può farlo perché una donna gli dischiude questa possibilità.

Ecco le mie impressioni sull’incontro della redazione allargata di Via Dogana, del 9 luglio 2017 al Circolo della rosa. Subito vi dico che credo di aver capito molto bene alcune cose, altre rimangono oscure.

La questione dibattuta è stata innescata dallo “sbrego”, come l’ha definito Luisa, che si è aperto tra la comunità gay e quella lesbica, sulla legittimità della maternità surrogata, detta GPA, o Gravidanza per Altri. Io volgarmente definivo questa pratica “Utero in Affitto”. Ci scrissi sopra un articolo, su un giornaletto locale, anni e anni fa, che titolai appunto “Utero in Affitto, Garage Annesso”. Sembrava, volutamente, un annuncio immobiliare.

Il tono della discussione è stato molto alto, però ci sono state delle affermazioni che mi hanno toccata, nonostante non sia madre e non abbia mai avuto una gravidanza. Mi ha colpita l’intervista in differita con Cristina Gramolini, perché ha usato la parola famiglia, il diritto di potersi prendere cura dell’altro, dell’altra nel bisogno e per l’assistenza… Io lì ho capito bene tutto. Ed ero, sono d’accordo su tutta la linea. Poi c’è stata una provocazione forte contro gli uomini che chiederebbero l’approvazione delle donne. La provocazione non è stata raccolta.

Ho preso qualche appunto disordinatamente, ma quando Alberto Leiss ha parlato mi sono un po’ persa. Ho registrato che ha detto, forse riferendosi allo sperma, che è “un pezzo del corpo maschile”.

Ho capito e condiviso il discorso sulla genitorialità per tutti.

Mi sono emozionata quando, credo Patrizia, a proposito della gravidanza, ha tirato in ballo non solo l’esperienza uterina e l’intero corpo della donna, ma anche la sua immaginazione e la fantasia.

Luisa ha parlato dell’eugenetica, della china pericolosa di questa società di m., temibile, e ha fatto un’altra affermazione forte sull’asimmetria che esiste tra uomo e donna: se donare lo sperma non rende padri, accettare la gravidanza e partorire rende madri.

Poi un altro momento di buio, per me, quando sono state citate la sigla LGTBQ+ e le parole cisgender e transgender. Io lì non ho capito. Volevo attaccarci anche una C, per Chissenefrega, ma mi è sembrato blasfemo, Chissenefrega perché, per me, non ha senso appiopparsi un’etichetta e barricarcisi dentro. Ma questo è un problema mio.

Poi ha preso la parola Marina e lì, vai, mi sono proprio sentita interpellata. Io che vengo da un retroterra culturale non povero, anzi ricchissimo, ma gretto e materialista, e però sono radicalmente contro la mercificazione dell’essere umano, sia L. che G. che T. che B. che Q. che + che bambino, che deficiente, che inerme, e metteteci quello che volete, mi sono sentita d’accordo su tutta la linea. Ha parlato di libertà e di sfruttamento e di radicalità del no. Nessuna sfumatura: nessuna concessione all’altruismo che spalancherebbe le porte, come un cavallo di Troia, alla pratica dell’utero in affitto.

Si è parlato di non vietare: nulla si vieta tranne la pena di morte (badate bene che sto andando giù di falcetto). Qui sono saltata sulla sedia.

E ho fatto il mio intervento fantozziano. Tutto al contrario.

Il senso era che nel trecento sarei stata arsa, che negli anni quaranta sarei stata gasata. Ne sono consapevole. Alla fine l’ho scampata bella. Ho avuto la fortuna di nascere ai giorni nostri, ma una psicanalisi cieca, o che ci vede benissimo (come la sfiga!), mi ha impedito di fare figli. Poi ho citato il mio articolo di anni e anni fa di cui sopra e ho concluso parafrasando appunto Fantozzi. LA GPA è una cagata pazzesca. Nonostante mi sia impapinata e la mia caduta di stile, vi ho sentite solidali.

Il problema è che questa è una barzelletta che non fa ridere e me ne sono resa conto quando sono uscita e un’amica della libreria, alla cassa, mi ha parlato della mafia e del traffico degli organi dei bambini, e delle gravidanze pagate alle madri surrogate sottomesse a mariti magnaccia. In quel momento mi si è accapponata la pelle.

Più che il significato delle sigle, m’interessa, come ha detto Luisa, che esploda questa questione, esca dai salotti e dai cenacoli: bisogna parlarne, perché non è una questione che riguardi solo gay e/o lesbiche e/o tutte le altre sigle citate (e da chiarire per me). Io sono contenta di aver potuto partecipare. Ora mi chiedo quale potrà essere la prossima mossa per sfidare un silenzio che imploderebbe dentro di noi, affossando ancora di più i nostri mala tempora.

Scusate se sono stata così poco politically correct.

I conflitti fanno paura ma sono occasioni. Parliamo della GPA o gravidanza per altri, detta anche surrogacy, una forma di gravidanza mercenaria o alienata, accettata in certi paesi, non in Italia. Il giudizio etico e politico su questa pratica sta lacerando il movimento che si è formato con l’alleanza tra lesbiche e gay, oltre a dividere il femminismo internazionale.

La questione riguarda strettamente Via Dogana 3, poiché si tratta, in definitiva, dei rapporti tra donne e donne, tra donne e uomini nel mondo di oggi, mondo che non serve descrivere, perché domani sarà già cambiato, ma serve conoscerlo.

L’aperto conflitto tra persone a noi vicine è un’occasione per mettere fine a tanti evitamenti di comodo e per porci domande che, in parte, erano già in fila per avere la nostra attenzione. Per esempio, detto alla rinfusa: che cosa c’è dietro alle troppo insistenti accuse di omofobia? forse un bisogno di approvazione femminile? Come hanno risposto le simpatizzanti di Vendola al suo disinvolto ricorso alla GPA? Perché i gay aspirano a traguardi che fanno rivoltare nella tomba i loro antenati più illustri, come Mario Mieli? Perché il mondo lesbico non è in un rapporto di continuità con quello femminista? Quanto pesa l’attaccamento identitario al proprio gruppo? Che cosa pensano, che cosa sanno, della loro eterosessualità le femministe che la praticano come cosa ovvia?


Cristina Gramolini risponde a #VD3

Domanda: Noi abbiamo ereditato dal patriarcato il matrimonio, che nel corso dei secoli ha conosciuto qualche miglioria, ma che continua a portarsi dietro una storia di sofferenze (e di insofferenze). D’altra parte, le creature piccole hanno bisogno di una famiglia per venire al mondo e imparare a starci. In questa direzione, la formula “unione libera riconosciuta dalla legge” mi pareva un buon punto di avvistamento (come sottolinea la nostra amica Bonnet). Perché dunque il movimento omosessuale – o meglio: una parte di esso, quella che sembra più rappresentativa – si è orientato verso il matrimonio?

Risposta: Nel movimento di oggi c’è una volontà irresistibile di essere riconosciuti dalla legge come uguali agli eterosessuali, nessun pensiero di critica culturale circola agevolmente se ostacola l’aspirazione alla parità, è un bisogno di normalità come risposta alla sofferenza vissuta perché diversi/e ma è anche un’ubriacatura figlia del tempo senza speranza di un mondo diverso: lo slancio è di partecipare alle opportunità competitive. Osservo che nelle polemiche sulla gpa vengono ingaggiate discussioni senza traccia dell’ironia che caratterizzava e rendeva riconoscibile il discorso politico gay (gaio): anche nello stile ha prevalso l’uguaglianza con la virilità etero.


D. Ammettiamo che il matrimonio, in mancanza di meglio, abbia ancora qualche buona ragione di essere. Una ragione del vincolo matrimoniale eterosessuale, ai nostri giorni, sarebbe di far incontrare l’altro che ci portiamo dentro, di farcelo incontrare incarnato da un individuo dell’altro sesso, in una specie di esteriore e duratura intimità. Secondo te, che senso ha un matrimonio tra persone dello stesso sesso?

R. Alcune persone incontrano l’altro incarnato in una persona dello stesso sesso, questa è la ragione dell’amore e non del matrimonio, penso che l’amore si basi sulla differenza ma non necessariamente quella del sesso anatomico, la differenza può essere emotiva, intellettuale, fisica, energetica, culturale. Il matrimonio invece ha la finalità di stabilire parentela legittima, asse ereditario e materie legate ai rapporti con lo stato, come la fiscalità. Ricordo che Rosanna Fiocchetto, una lesbica femminista che è stata importante per la mia presa di coscienza, benché del tutto contraria all’omologazione della politica dei diritti, alcuni anni fa disse che creare un asse ereditario di donne sconvolge la trasmissione patrilineare della ricchezza, fondamento della società a dominio maschile, e ovviamente il matrimonio tra uomini non lo fa. A parte questa osservazione, al matrimonio civile io preferisco un istituto equivalente con un nome differente perché si riferisce a contraenti differenti dalla coppia uomo-donna; l’istituto in questione può servire per disporre dei propri beni e per accordare la precedenza a una persona non consanguinea nel caso di impossibilità a prendere decisioni.


D. Per motivi sui quali sorvolo, la modernità spinge le donne, entro certi limiti, a imitare gli uomini. Imitare, che non vuol dire travestirsi per essere se stesse, ma tradire qualcosa di sé per rendersi accettabili. Ci sono psicanaliste che parlano in questo senso di un vero e proprio imitazionismo. Si manifesta questa tendenza nella comunità lesbica?

R. Certamente si manifesta, come persistente bisogno della loro approvazione nonostante non siano idealizzati come potenziali partner amorosi; è il fallimento dell’indipendenza dagli uomini, un crollo dopo che il più è stato fatto e per me il più è violare la proibizione di amare una donna, è saper assegnare un senso a sé nonostante la minaccia di esserne spogliate. Ebbene dopo aver saputo sostenere una scelta che ha richiesto forza d’animo, ci si aspetta di essere capaci di non imitare gli uomini invece, come esauste per la troppa fatica fatta, li imitiamo nella logica, stabiliamo con loro equivalenze inesistenti, forse per essere meno sole, per sentirci meno fragili o sbagliate. A meno di avere riferimenti femminili che permettono di dismettere le imitazioni.


D. Le lesbiche che desiderano diventare madri e chiedono la pma (procreazione medicalmente assistita) si rendono conto che la solidarietà con i gay favorevoli alla maternità (o gestazione) surrogata, non è nei loro interessi, anzi? Esistono, a tua conoscenza, lesbiche che, per diventare madri, alla pma preferiscono stabilire un rapporto eterosessuale?

R. Le lesbiche vogliono figli/e ma non vogliono il padre, pur di avere questo accettano che i gay abbiano figli/e senza avere la madre, e si mettono a posto la coscienza pensando che le donne che daranno figli/e ai gay lo faranno volontariamente. Alcune si sentono in colpa per avere più facilità dei gay a generare, si dispiacciono di avere un vantaggio e sono pronte a elargire la parità ai gay, purché a coronare la parità siano altre donne s’intende, di chissà dove. È un modo distorto di rifiutare i privilegi, memori di quanto è brutto essere discriminate, senza capire che la maternità non è un privilegio ma una differenza, in nome della quale siamo state schiavizzate e che ora si vuole mettere sul mercato perché gli uomini non siano penalizzati. Non conosco lesbiche che per diventare madri abbiano scelto un rapporto eterosessuale, ne conosco invece che lo sono diventate con l’autoinseminazione con un amico che poi è stato presente nella vita del figlio e della figlia.


D. Tra gli/le omosessuali (così come tra le femministe, uomini compresi) la pratica di separare gestazione e maternità, pratica in molti paesi vietata, in altri paesi consentita, in altri in bilico tra accettazioni e rigetto, ha suscitato dei conflitti. Tu sei tra persone che si sono più vivamente coinvolte. Hai qualcosa da ridire sul tuo comportamento? Ci sono stati conflitti più o meno gravi di questo (che è grave) tra voi? A tuo giudizio, in questo o in altri hai visto entrare in gioco qualcosa come la differenza sessuale?

R. Il mio comportamento è stato improntato alla prudenza e all’attesa finché la gpa non è entrata nella lista degli obiettivi del movimento lgbt. In ogni modo nel periodo della prudenza e dell’attesa, gli interlocutori e le interlocutrici favorevoli alla gpa non hanno operato per il confronto da noi richiesto, anzi hanno progressivamente agito per escludere le critiche alla gpa. Ora dicono da più parti che quanto in passato era considerato abominio, la gpa, pian piano sta entrando nel campo di possibilità di tante persone e che ci sarà un cambio culturale. È proprio così, un abominio sta diventando normale. Spero che si riesca ad evitare.

In passato ho vissuto altri conflitti legati alla differenza sessuale, ad esempio per la mancata accettazione di un’organizzazione indipendente delle lesbiche: i gay che guidano il movimento lgbt hanno rispettato maggiormente l’autorganizzazione delle persone trans, e poi di altre soggettività come le persone intersessuali o asessuali, ma hanno sempre mal sopportato che le lesbiche si autorappresentassero. Ora che lo facciamo in contrasto con le aspettative genitoriali degli uomini la polemica è diventata virulenta.

domenica 9 luglio 2017 ore 10.00-13.30


I conflitti fanno paura ma sono occasioni. Parliamo della GPA o gravidanza per altri, detta anche surrogacy, una forma di gravidanza mercenaria o alienata, accettata in certi paesi, non in Italia. Il giudizio etico e politico su questa pratica sta lacerando il movimento che si è formato con l’alleanza tra lesbiche e gay, oltre a dividere il femminismo internazionale.

La questione riguarda strettamente Via Dogana 3, poiché si tratta, in definitiva, dei rapporti tra donne e donne, tra donne e uomini nel mondo di oggi, mondo che non serve descrivere, perché domani sarà già cambiato, ma serve conoscerlo.

L’aperto conflitto tra persone a noi vicine è un’occasione per mettere fine a tanti evitamenti di comodo e per porci domande che, in parte, erano già in fila per avere la nostra attenzione. Per esempio, detto alla rinfusa: che cosa c’è dietro alle troppo insistenti accuse di omofobia? forse un bisogno di approvazione femminile? Come hanno risposto le simpatizzanti di Vendola al suo disinvolto ricorso alla GPA? Perché i gay aspirano a traguardi che fanno rivoltare nella tomba i loro antenati più illustri, come Mario Mieli? Perché il mondo lesbico non è in un rapporto di continuità con quello femminista? Quanto pesa l’attaccamento identitario al proprio gruppo? Che cosa pensano, che cosa sanno, della loro eterosessualità le femministe che la praticano come cosa ovvia?

Per avviare il dibattito, che è la parte privilegiata negli incontri di VD 3, ascolteremo un contributo di Alberto Leiss, preceduto da Cristina Gramolini: quest’ultima parlerà attraverso un’intervista scritta per VD 3, trovandosi lei quella stessa mattina in un’assemblea dell’Arcilesbica a Bologna proprio sui temi qui sollevati.


Appuntamento: domenica 9 luglio 2017 alle ore 10 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265; la conclusione è prevista verso le 13.30 e sarà seguita da un pranzetto, come d’abitudine.

Forse ci ho messo troppo tempo… All’inizio il paradosso di un uomo che si definisce “femminista separatista” mi è sembrato l’ostacolo. E altrettanto vedere molte donne rivolgersi a un uomo quasi come se fosse un infante (per capirci: alcune lo coccolavano, altre lo sgrida vano… almeno così mi è sembrato).

La figura che prediligo pensare in una genealogia maschile è quella di Giuseppe: si assume le sue responsabilità e protegge senza essere possessivo. È un uomo. In ogni caso, se parlo con un uomo non presumo una sua minorità.

Ma le mie difficoltà purtroppo non erano tutte lì. Infatti avevo buttato giù appunti per un testo di circa ottanta pagine…

Ve le risparmio e salvo il problema principale: c’è stata una coincidenza tra il parlare una prima volta dell’esigenza di uno scambio con gli uomini e il momento in cui è esploso il conflitto tra donne più difficile e doloroso nella mia esperienza. Mi riferisco a una data precisa, il 1996. Quando uscì il sottosopra È accaduto non per caso, e ci fu la manifestazione a Roma La prima parola e l’ultima. Non ebbi dubbi sulle ragioni e sui torti in quel conflitto, ma la rottura delle relazioni con tante donne con le quali agivo una pratica politica molto stretta e intensa ha fissato in me questa domanda: ci si può impegnare in “relazioni di differenza” senza essere capaci di gestire con esiti non distruttivi il conflitto tra donne?

Io in quel momento non ci sono riuscita. Sono passati vent’anni e il problema resta. È  solo mio? Mi sembra però che in questo tempo anche il proposito di costruire relazioni tra uomini  e donne non abbia fatto molti passi avanti. Il nodo che vedo: che cosa significa per un uomo riconoscere autorità femminile? Per me, donna, è il modo di fare libertà per me stessa e per altre. Per lui può essere lo stesso? O che altro? Ho provato a chiederlo a Massimo Lizzi. Ma non ho sentito, o forse non ho capito, la risposta.

Luisa Muraro intuisce la necessità di fare posto nel proprio paesaggio interiore alla differenza maschile. Invitando Massimo Lizzi ad introdurre la riflessione su questo tema, mi sembra che Muraro faccia un ulteriore passo avanti: chiedere la collaborazione di un uomo per far risuonare dentro di sé la differenza maschile. Interpreto questo invito come un tentativo di esplorare quella distanza incommensurabile che è la differenza “tra”, e cercare una relazione di scambio con gli uomini per generare nuova consapevolezza. Eppure c’è una parola, ripetuta due volte alla fine del testo, che mi insospettisce: affari.

“Affari loro, non c’è dubbio”. Affari degli uomini, ho inteso, se rimangono invischiati nelle loro logiche di potere e violenza. Eppure se gli uomini non si emancipano da quelle logiche, l’interlocuzione fra uomini e donne resta muta, non si genera nuovo pensiero, e chi ci rimette sono sia gli uomini che le donne. Perché allora mostrare disinteresse nei confronti delle sorti degli uomini? Subito dopo leggo: “Ma la politica della libertà femminile che a me interessa, deve saper fare affari con gli uomini”. La politica della libertà femminile è una politica calcolatrice? In parte sì: anche il saper fare i calcoli e gli stratagemmi servono a cambiare il mondo. Quello che però ho imparato dal pensiero femminista della differenza è che la libertà femminile nasce soprattutto dai conflitti fra donne e si nutre dell’eros che si muove nelle relazioni fra donne. Allora credo che anche le relazioni fra uomini e donne, per poter essere fruttuose, debbano nutrirsi di conflitti ed eros. Gli affari non bastano.

Io sono un uomo che vuole riconoscere l’autorità femminile, che si fa portatore di un sapere maschile e che desidera contribuire allo scambio politico fra uomini e donne, ma solo se ciò avviene in un’ottica non strumentale. Non mi interessa stare in uno scambio dove non c’è desiderio reciproco di relazione. La frequentazione della Libreria delle donne di Milano, di gruppi di soli uomini e gruppi misti, mi ha portato alla convinzione che le relazioni fra donne, fra uomini, e fra donne e uomini siano fertili solo in presenza della possibilità di uno scambio d’amore.

Cara Via Dogana 3,

domenica 14 maggio 2017, durante la discussione della redazione allargata di Via Dogana 3, collegandomi alle parole del relatore Massimo Lizzi, sono intervenuta a proposito della civiltà cortese affermando che all’epoca, XII e XIII secolo, in Occitania, gli uomini tenevano in grande considerazione le donne, ritenendole maestre nella relazione, signore dei rapporti amorosi, autorità cui ricorrere come guide al proprio comportamento; ne sono testimonianza molte poesie – canzoni e tenzoni – delle Trovatore. Nel corso della discussione che è seguita, sempre riguardo al porsi degli uomini nei confronti delle donne, è stato riconosciuto che l’estetica espressa dalla civiltà cortese può costituire un principio fondante la genealogia maschile, un momento radiante, come lo definirebbe Chiara Zamboni, di quelli che illuminano e guidano le successive generazioni.

Trovandomi d’accordo, ho pensato di riportare una tenzone molto significativa al riguardo, dibattuta fra Guillelma di Rosers, vissuta nel XIII secolo, e Lanfranco Cigala, un legale genovese, suo innamorato.

La tenzone si trova in Marirì Martinengo, Le Trovatore. Poetesse dell’amor cortese, a cura di Clara Jourdan, traduzione italiana di Pia Silvestri, prefazione di Michela Pereira, Libreria delle donne, Quaderni di Via Dogana, 1996, pp. 92-95.


Donna Guillelma, molti cavalieri girovagando
di notte, persa la strada per il maltempo,
cercavano, lamentandosi nella loro lingua, un rifugio;
li udirono due che, per ragioni d’amore,
se ne andavano in fretta verso le loro dame;
uno tornò indietro per aiutare quella gente,
e l’altro si diresse correndo verso la propria dama;
quale dei due fece meglio ciò che si conveniva?


Amico Lanfranco, meglio compì il suo viaggio,
a mio parere, quello che proseguì verso l’amica;
l’altro fece bene, tuttavia la sua signora
non può conoscere il suo nobile cuore altrettanto bene
come quella che vide presente davanti ai suoi occhi
il suo cavaliere di cui ha atteso l’arrivo;
e vale molto più colui che fa ciò che ha promesso
di colui che muta il suo proposito.


Se permettete, signora, tutto quanto fece di cortese,
il cavaliere che, grazie al suo coraggio
salvò gli altri dalla morte e dalle sofferenze,
gli fu suggerito da amore; ché nessuno possiede
affatto cortesia, se non gli proviene dall’amore:
per la qual cosa deve piacere cento volte alla sua dama
,poiché, per amor suo, liberò dai tormenti
tanti cavalieri, più che se avesse incontrato lei.


Lanfranco, non avete mai trovato ragioni tanto pazze
come a proposito di colui che agì in tal modo,
poiché, sappiatelo bene, egli commise un grave oltraggio:
dal momento che il gentile servizio gli nasceva dal cuore,
perché non servì innanzitutto la sua dama?
Ne avrebbe avuto grazie da lei e da loro stessi;
poi, per amor suo, avrebbe potuto servire
molte degne persone, e non avrebbe errato.


Vi chiedo perdono, signora, se dico una pazzia:
ché ormai vedo ciò che non avrei mai creduto:
non vi piace che gli amanti compiano
altro pellegrinaggio che quello che porta da voi;
però chi vuole che il cavallo marci bene,
deve guidarlo con misura e giudizio,
e poiché avvilite tanto malamente gli amanti,
la forza gli manca, per cui la rabbia vi sommerge.


Ancora vi dico che le cattive abitudini
dovrebbe abbandonare in quel medesimo giorno
il cavaliere, dacché una dama d’alto lignaggio
bella e virtuosa deve averlo in suo potere;
ché nel suo castello avrebbero servito con generosità
anche in sua assenza; ciascuno vuole la sua parte,
poiché egli è tanto debole
che al momento del maggior bisogno, le forze gli mancherebbero.


Donna, io possiedo forza e ardimento,
ma non contro di voi, che vincerei giacendo,
perché fui folle quando mi misi in tenzone con voi,
ma voglio che mi vinciate, come che sia.


Lanfranco, vi giurai e assicurai
che mi sento tanto coraggio e ardimento,
che con la stessa sottigliezza con cui la donna si difende
mi difenderei contro il più ardito che ci sia.

Aveva ragione Luce Irigaray quando anni fa disse: ogni epoca ha una questione da pensare, la nostra ha da pensare la differenza sessuale.

E io, come tante altre, mi sono messa a farlo ma ho avuto troppa fiducia nella efficacia dei conflitti, quelli tra donne e quelli uomo-donna. Per esempio, quando ho detto: la differenza non è tra, è in (mi ricordo ancora dove, al primo Book Pride di Milano), era giusto ma mancava il seguito del discorso, e cioè il significato del tra. Il tra è una distanza, un intervallo per istituire una incommensurabilità.

Nell’ottimo libro di Thomas Laqueur, La fabbrica del sesso, che va dagli antichi Greci a Freud, un libro vecchio di venticinque e passa anni, c’è un capitolo che s’intitola La scoperta dei sessi e si trova non all’inizio, ma a metà giusta, da pag. 170 (e il libro ha 346 pagine). Prima, spiega l’autore, nella cultura di base c’erano due generi sessuali, uomini e donne, ma c’era un sesso unico, nel senso che esisteva un solo modello di corpo sessuato. Questo modello unico trovava la sua realizzazione nel maschio “ben formato”; nelle donne e negli individui non ben formati (scusate il riassunto senza sfumature) era imperfetto. E questo è andato avanti dai Greci fino al Settecento, quando la scienza maschile (la scienza scritta e ufficiale) s’impadronì della riproduzione, che prima era lasciata alle donne. Allora gli uomini della classe dominante si resero conto che le cose stavano come sappiamo: una donna è una donna, non è un uomo imperfetto, i sessi sono due.

Ma l’ordine sociale e quello simbolico erano costruiti da secoli, da millenni, sullo schema del “fare Uno”… Cominciarono allora discorsi arzigogolati e riforme parziali per dare una collocazione sensata alle donne. Cominciò anche il femminismo, che tra l’Ottocento e il Novecento, passo passo, ottenne una progressiva emancipazione delle donne, fino alla parità dei diritti con gli uomini.

Ma poi si alzò una seconda ondata. Ci fu quella che io chiamo la rivolta nella rivolta: la Rivolta femminile dall’interno del Sessantotto. Noi veniamo da lì. Ci troviamo tra le rovine del patriarcato, che è finito senza aver realizzato un cambio di civiltà. Che pure urgeva e urge: tutto il secolo ventesimo è costellato di tentativi per realizzarlo. Sono falliti tranne uno: il movimento femminista, quel femminismo della seconda ondata, anticipato da Virginia Woolf con Le tre ghinee (1938). Infatti, continua a rampollare di qua e di là con una pluralità di voci e di linguaggi che può sembrare un caos se non si percepisce il collegamento con l’inizio degli inizi, ossia la scoperta che i sessi sono due.

Ma non siamo state capite; i più e anche una parte delle donne, confondono il movimento delle donne con una volontà di emancipazione e di parità, che era l’offerta già fatta alle donne dalla cultura borghese e da quella socialista. Noi cerchiamo il senso libero della differenza sessuale. Come farci capire?

La mia proposta è di tenere ben ferma l’ispirazione degli inizi e di fare uno spostamento che dovrebbe (ma è tutto da pensare meglio) consistere nel fare posto, nel nostro paesaggio interiore come nel nostro linguaggio e nella pratica, alla differenza maschile, offrirle un’interlocuzione perché si esprima per se stessa, fuori dalla logica del potere e dal desiderio di prevalere.

Non esiste? Sì che esiste, non potete negare che parla nella grande poesia maschile. Simone Weil ha percepito la sua voce nell’Iliade di Omero. Parla nella civiltà cortese.  Non parla invece nella prosa della politica. Ho pensato: una differenza non ascoltata è fatalmente muta, noi lo sappiamo bene. Oppure parla in maniera paradossale, come quella volta in cui Massimo Lizzi si dichiarò “maschio femminista separatista”. Oppure parla con i gesti e, troppo spesso, nella società maschile, con gesti sbagliati, aggressivi. Affari loro, non c’è dubbio. Ma la politica della libertà femminile che a me interessa, deve saper fare affari con gli uomini.

Perciò, ricordando la formula paradossale di Massimo, gli ho chiesto di partecipare all’incontro con un contributo che introduca la riflessione comune.