Speriamo che, grazie al suo ultimo libro, L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017), Judith Butler non sia più causa di confusione nella mente di tanti: persone che volevano vedersi riconosciute anche politicamente nella loro differenza. E che nei libri di Butler hanno trovato una risposta, ma non sempre hanno capito il suo pensiero. I motivi di ciò sono più di uno, tra cui che la sua scrittura non è mai stata quel che si dice facile e, ancor più, che lei fa un uso molto esteso, secondo alcuni arbitrario, di una nozione specialistica, il performativo.

In questo libro continua a usarla, spiegando e rispiegando il suo significato della parola in questione. Secondo me, fa bene perché non vedo ancora tante alternative a questa astrusa parola, performatività, per quello che è in gioco. È in gioco che ci rendiamo conto come, da certe situazioni, da certe combinazioni di cose e parole, può sprigionarsi una forza simbolica che trasforma il reale, direttamente. Il che storicamente ha luogo; difetta però la consapevolezza di questa possibilità, che Butler chiama anche il potenziale performativo. Si tratta, in altre parole, di capire quella che io, noi, chiamiamo politica del simbolico (altra formula non facile).

Dobbiamo il titolo, L’alleanza dei corpi, al traduttore italiano, validissimo, Federico Zappino, che lo ricava fedelmente dal linguaggio dell’autrice, ma lo sostituisce al titolo del libro originale, retrocesso, con opportuna mossa, a sottotitolo: Note per una teoria performativa dell’azione collettiva.

Questo libro è, nell’insieme, più “facile” degli altri. Si sente che chi l’ha scritto vuole farsi capire eliminando certi equivoci e confusioni passate. Si sente anche che cerca nuovi destinatari. A un certo punto Butler dice: “sento l’urgenza di scrivere per un pubblico più ampio” (p. 196).

Chi erano i destinatari di prima? Nel sostenere che il genere fosse performativo, risponde lei stessa, ho voluto “contribuire a rendere le vite delle minoranze sessuali e di genere più possibili e vivibili, perché i corpi non conformi alle norme di genere , al pari di quelli fin troppo conformi (e ad alto prezzo), siano in grado di respirare e di muoversi liberamente” (p. 56).

Teniamo presente che l’attenzione verso le minoranze può essere un modo per parlare all’umanità di tutti. Si guarda verso quelli che non sono tenuti in conto per arrivare a fare luce su quello che c’è sotto e che agisce nell’operazione, tipica del potere vincente nei paesi a regime democratico, di istituire una maggioranza a spese di una o più minoranze. Fare che una minoranza diventi fonte di luce per tutti, è la sconfitta del potere. E Butler questo ha voluto fare. Ma qualcosa potrebbe non essere andato per il suo verso, che la porta a cercare nuovi destinatari. Secondo me, è stata la conquista dei diritti da parte di alcune minoranze, cosa buona in sé, che però ha svoltato verso una politica identitaria. La politica identitaria ha stoppato lo sviluppo del potenziale innovatore.

Ma il libro ha anche un importante movente positivo. Alla sua origine, infatti, c’è un’intuizione nuova, suggerita dalle inattese manifestazioni pubbliche di protesta che si susseguono nel decennio in corso. Quando i corpi si raggruppano nelle strade, nelle piazze o in altre forme di spazio pubblico, incarnano e prefigurano un agire politico che è ancora da pensare, e che va pensato, se vogliamo sottrarci alle condizioni imposte dai sempre più squilibrati rapporti di forza, e combattere contro la precarietà che ne consegue per molti, se vogliamo cioè concorrere alle condizioni di una vita degna (vivibile e buona) per noi e gli altri.

Con l’intuizione, che ho cercato qui di riassumere, siamo oltre l’obiettivo della conquista dei diritti. “Questi corpi, insieme, esercitano il potere performativo di rivendicare la sfera pubblica in un modo che non è ancora stato codificato giuridicamente e che forse non potrà mai esserlo appieno” (p. 122). Nella prossimità dei corpi, nel tra che li avvicina ma non li confonde, prende forma un nuovo agire politico. Il tra è il luogo della relazione, che può svilupparsi in rispondenza con il fatto che lo stato di dipendenza in cui nasciamo, ci costituisce dagli inizi come creature relazionali.

Sarebbe sbagliato leggere L’alleanza dei corpi come se fosse un voltare pagina rispetto alla passata produzione. Tutto il primo, lungo, capitolo mira a collegare il nuovo argomento agli scritti di “molti anni fa”, dedicati alla teoria secondo cui il genere sessuale è performativo. La preoccupazione principale, come ho già accennato, è di riscattare il concetto di performativo che è stato inteso male. Ha prodotto, nota in particolare l’autrice, “due interpretazioni contrastanti: per la prima, ciascuno si sceglie il proprio genere; per la seconda siamo tutti completamente determinati dalle norme di genere” (p. 101). È capitato anche qui in Italia.

Dalle ultime pagine di questo primo capitolo, non capisco come Butler giudichi i risultati dei suoi sforzi. C’è però un indizio significativo, ed è il suo invito alla “consapevolezza che i diritti hanno senso solo all’interno di una più ampia lotta per la giustizia sociale” (p. 115). Io la penso come lei, e cioè che, senza quella più ampia lotta, i diritti perdono il loro senso e diventano privilegi, in un batter d’occhio. (Tant’è che, a suo tempo, Simone Weil ci invitò a considerarli e chiamarli non diritti ma obblighi verso l’essere umano.)

Comunque la vediamo, questo interessante primo capitolo fa un’operazione poco appariscente ma preziosa, che è di farci intendere come non ci sia politica che non sia anche politica sessuale; Sexual Politics è il titolo di un libro inaugurale del movimento delle donne, apparso alla fine degli anni Sessanta.

Facendo l’operazione di congiungimento tra la sua passata ricerca sul genere sessuale e quella nuova sul comprendere il potenziale politico di azioni collettive, Butler si trova a ripercorrere vie battute dal movimento femminista. Del resto, lei stessa ha dichiarato anni fa: io sono femminista, né più né meno.

Il suo maggiore riferimento teorico esplicito, in questo libro, è Hannah Arendt e la sua dottrina secondo cui l’apparire sulla scena pubblica costituisce l’atto politico per eccellenza. Dottrina che Judith Butler riprende e critica al tempo stesso. All’importanza del riferimento corrisponde l’importanza della critica. “Divergo dal pensiero di Hannah Arendt, anche se attingo alle sue risorse per chiarire la mia posizione”. E continua: la prospettiva arendtiana è invalidata da una distinzione tra privato e pubblico che assegna la vita politica agli uomini e il lavoro riproduttivo alle donne. Nella sfera pubblica l’uomo appare come corpo maschile non dipendente da altri, “libero di creare ma non creato esso stesso, mentre il corpo della sfera privata è femminile, o vecchio, o straniero, o infantile” (p. 123).

Il movimento delle donne ha rivoluzionato questa sistemazione degli spazi e dei corpi con una radicalità che Butler riscopre (citando alcune pensatrici femministe, tra cui Adriana Cavarero) e rende attuale.

Penso alle prime riunioni di autocoscienza fra donne, in locali fortunosamente adattati: atto sovversivo allo stato puro, che ha cambiato dei significanti millenari e creato le condizioni della nostra, di donne, esperienza libera, senza fracassi di morte e distruzioni. Ecco uno squisito esempio di come agisce il performativo! Forse, Butler non ha conoscenza personale di quell’evento. In compenso, sa evocarlo: “La correlazione tra la performatività e la precarietà può essere riassunta da queste domande essenziali: in che modo chi non ha voce parla e rivendica le proprie istanze? Quale tipo di frattura crea questa rivendicazione nel campo del potere?” (p. 94). Per me, una frattura di quelle da cui non si torna indietro e che non si finisce di approfondire.

Le rispondenze che anche altre, come Rosaria Guacci e Alessandra Pigliaru, hanno avvertito tra questo libro e il movimento delle donne, nascono, io credo, non tanto dai fatti biografici, quanto dalla coincidente ricerca di forme nuove della politica. Ne ho avuto la certezza in quelle pagine che cominciano con queste parole: “È importante prendere in considerazione le forme di assembramento politico che non hanno luogo per strada o in piazza” e riguardano “l’efficacia performativa della creazione di uno spazio politico a partire dalle condizioni infrastrutturali esistenti” (pp. 199-201). A leggerle, di colpo ho riconosciuto la storia e il senso della Libreria delle donne di Milano, apertasi nel lontano 1975. Le situazioni che l’autrice evoca in queste pagine sono apparentemente distanti e diverse, ma il significato no: si tratta infatti di un agire politico che non calpesta i corpi, né il proprio né l’altrui, che non ignora la reciproca bisognosità, che non strumentalizza le relazioni né la dipendenza altrui, ma realizza, man mano che ciò sia possibile, le sue promesse per tutti e ciascuno.

Chi questo lo sa per esperienza, senta l’urgenza di scrivere, segua l’esempio di Judith Butler.


Forse speravamo che l’8 marzo di quest’anno passasse come al solito tra riti, elogi all’indispensabilità e alla grande forza morale delle donne e dichiarazioni del Presidente della Repubblica, per poi tornare alle nostre pratiche quotidiane. Purtroppo per noi (uomini) non è stato così: ancora una volta le donne ci hanno spiazzato.

Ammettiamolo pure, uno sciopero indetto e promosso dalle donne e per le donne ci provoca sconcerto e un’insopportabile irritazione. E non lo dico da testimone esterno: fino a qualche anno fa questa scelta ‘separatista’ mi avrebbe causato un impeto di rabbia a malapena reprimibile.

Il breve articolo scritto da Dario Di Vico per le pagine online della 27esimaora del Corriere della sera, intitolato Otto marzo. Perché lo sciopero «per le donne» è stato un errore e pubblicato di gran fretta nella stessa serata dell’8 marzo, rappresenta bene questo stato d’animo.

Intendiamoci, il pezzo è tutt’altro che gridato, usa ragionamenti pacati e ben formulati ammiccamenti alla difesa dei più deboli, identificati immediatamente con le donne.

Certo, gli obiettivi dello scritto sono più di uno: lo sciopero come strumento serio ma un po’ “spuntato” e in fondo minoritario, il facile populismo giornalistico sui disagi per i servizi ecc. ma qui non importa dare un giudizio su questi aspetti. A un certo punto il perno dell’articolo appare in tutta la sua pregnanza: «ha senso oggi coltivare ancora la separatezza delle donne?» e non usare la loro autorevolezza ben altrimenti, per salvare noi e il mondo dai disastri che abbiamo fatto e continuiamo a compiere? Questa dovrebbe essere la loro principale incombenza!

Ha ragione Di Vico: togliamoci subito il dente (e per un anno non ne parliamo più). Anche se il dolore rimane. Diciamocelo: quello che ci dà più fastidio è la lievità, la leggerezza pensante con cui le donne scelgono altro da noi. Ci dà fastidio che scelgano prima di tutto se stesse e le altre.

Il movimento femminista, in Italia ma non soltanto, riesce ad essere uno e tanti. Vediamo infatti che cambia restando fedele a qualcosa che c’era fin dagli inizi. Che cosa sia non è scritto su tavole di pietra, e nessuna, singola o gruppo, ne ha l’esclusiva. Pensiamo alla pratica della separazione, che segnò la rottura decisiva: per molte, oggi, comprende anche una considerazione positiva della differenza maschile, agli inizi non ci si pensava e alcune non ci pensano neanche adesso.

Però ne parliamo, ogni volta che occorre. Siamo d’accordo, infatti, che di mezzo c’è sempre quello che siamo e facciamo in pratica.

Adesso occorre che parliamo della pratica delle manifestazioni pubbliche e VD 3 ci invita a farlo con l’aiuto di Alessandra Pigliaru.

Agli inizi del femminismo la pratica delle manifestazioni pubbliche di strada fu ignorata, o criticata e respinta da molte, adottata da altrettante, come mostrano volentieri i documentari… Naturalmente, non ci siamo contate e forse, finora, sul significato delle manifestazioni per noi, non abbiamo ragionato abbastanza. Per esempio, un’assemblea come quelle di Paestum o, recentemente, di Bologna, sono manifestazioni pubbliche? Da una manifestazione pubblica di strada si può sensatamente escludere gli uomini? Le risposte non sono pacifiche perché c’è di mezzo la lotta contro la dicotomia tra pubblico e privato e per altro ancora, tra cui la significanza di corpi femminili sulla strada, in piazza. Ieri, oggi.

Ecco un argomento per la storia delle donne, da indagare: la storia delle manifestazioni femministe dai tempi di quella rivolta nella rivolta che segnò gli inizi del nostro movimento, fra gli anni Sessanta e Settanta, fino alla manifestazione di Non una di meno. E oltre.

Un padre e una figlia cercano di capire il senso della vita o meglio tentano di dare un senso alle loro vite.

In 162 minuti il film di Maren Ade svolge il tema con una costruzione narrativa spiazzante e un tono grottesco facendo emergere l’assurdità e le contraddizioni dei rapporti sociali e di potere prodotti dal neoliberalismo e mostrando la possibilità della diversità, del non allineamento, dello starne fuori mettendone a nudo i meccanismi. La regista stupisce e disorienta, sfida le possibili resistenze del suo pubblico, vuole che la sua opera sia vissuta come un’esperienza.

Lei, Ines, la figlia trentenne, è una manager di una multinazionale tedesca con sede a Bucarest ed incarna alla perfezione il modello della donna in carriera: alto senso del dovere e dedizione ai capi, puntualità e precisione, presenza costante e affidabilità, durezza e tenacia nelle sfide e nelle scelte. In una parola identificazione. Donna ambiziosa, in un ambiente di uomini, aspira al loro potere, ma è il lavoro a dominarla e il tempo della sua vita è il tempo del lavoro: nessun confine o limite nella sfera privata.

Lui, il padre, Winfried, insegnante di musica in pensione, è un burlone. E’ scherzoso, ironico, ha la battuta pronta, la presa in giro garbata e ama travestirsi, presentandosi sotto altre identità. Lo fa forse per rompere la routine della sua solitaria quotidianità. Di fatto il suo modo di essere anticonvenzionale e provocatorio spariglia la rigidità delle consuetudini e l’assuefazione nelle relazioni. E’ gentile e pronto a scusarsi e a spiegarsi se lo scherzo non è capito. La figlia lo ritiene, con disprezzo, un incapace, un superficiale, un uomo privo di ambizioni.

La svolta nel film avviene con il loro incontro: il padre la va a trovare a Bucarest, forse per un risvegliato amore paterno o per solitudine. Non si sa, come non si sa nulla dei loro passati rapporti.

Qui Winfried diventa Toni Erdmann, una folta parrucca nera e una sporgente dentiera che rende il suo sorriso imbarazzante: si presenta così alla figlia, al suo capo, ai suoi colleghi e alle due sue amiche.

E il film decolla. Mentre le domande del padre si fanno pressanti – Sei felice? Hai una vita? Che senso ha la vita che fai? Sei un essere umano? -, e le sue intrusioni nella vita di Ines sempre più farsesche e surreali, qualcosa dell’armatura di lei si incrina. C’è un momento dove lei intuisce la sua vera natura, un attimo per riconoscere e riprendere l’essenza del suo essere e fermare un istante di verità fra lei e il padre.

In competizione a Cannes 2016, Vi presento Toni Erdmann ha vinto cinque European Film Awards per miglior film, migliore regia, sceneggiatura, attore e attrice ed è stato candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero per la Germania. La regista Maren Ade (1976), anche sceneggiatrice del film e al suo secondo lungometraggio, dopo Alle Anderen, Orso d’Argento alla Berlinale nel 2009, è considerata “una dei rari cineasti che si sta adoperando per reinventare le strutture narrative, lavorando nel campo del cinema di finzione d’autore rivoluzionandolo dall’interno”. (Daniela Persico, Filmidee n°18, 2016).

I richiami al film di Marina Spada Il mio domani  (2011) sono molteplici.

Judith Butler – «L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva», traduzione di Federico Zappino, 2017, nottetempo edizioni


«L’alleanza dei corpi», pubblicato in Italia in questo febbraio 2017, è stato scritto nel 2015, cioè un anno prima della nomina presidenziale di Donald Trump: le imponenti manifestazioni di dissenso dal suo programma messe in atto da migliaia di donne a Washington e da altrettanti obiettori del Muslim Ban negli aeroporti americani dicono della grande attualità del testo. Ma a mio parere non è questa attualità il suo vero pregio quanto piuttosto la riflessione di Butler, più ricca e puntuale delle sue precedenti, sulla politica dei corpi sulla scena pubblica.

A fronte delle crisi delle democrazie e della predatorietà crescente del neoliberalismo e delle politiche delle multinazionali, Butler, nell’introduzione del saggio, analizza il processo di precarizzazione delle condizioni dell’inclusività, cioè la crescente “dispensabilità” dei singoli, di cui sono costituiti i popoli di Stati e nazioni, dalla collettività.

Ma, si chiede Butler, cos’è dispensabilità, cos’è popolo ed esiste un concetto unitario che possa definirlo o non si dovrebbe invece parlare di due popoli, quello degli inclusi e quello degli esclusi da condizioni minime di vivibilità? Torna qui il concetto di “buona vita” da lei posto, sulla scia di Adorno, in «Vite precarie» del 2013. In questione, in «L’alleanza dei corpi», non è più solo la buona vita ma la vita tout-court. Butler qui riprende e sostiene ancor più energicamente l’assunto che si possa e si debba vivere una vita giusta pur in un mondo eticamente ingiusto. In dettaglio: il liberalismo promuove retoricamente l’autonomia economica del singolo ma non la rende effettiva con alcun provvedimento economico. Il destino di chi è incapace di resistere all’urto di un’economia organizzata per lasciarlo deperire può quindi essere una precarietà che diventa estrema fino alla morte. A poter offrire speranza e soluzioni è la politica di corpi in relazioni attive e incarnate: con queste nuove reti di sostegno simboliche e materiali il corpo, in un contesto plurale, torna al centro della politica.
Gli attori sociali così stretti in contesto sono, per Butler, i soggetti genderizzati, razzializzati, esclusi. Donne, omosessuali transgender, stranieri, lavoratori precarizzati, apolidi, malati, disabili, nuovi poveri. I “dispensabili”, gli estromessi dalla visibilità e dall’accesso sulla scena pubblica illuminata. Dispensabili perché sollevati dalla “responsabilità” che è predicata dal Sistema-Stato come necessaria ai singoli cittadini per sopravvivere ma che in realtà non è sostenibile individualmente: ne sono esempio la pretesa di un’autonoma presa in carico delle cure mediche e di un alloggio – assunzioni che richiedono entrambe infrastrutture di sostegno che proprio esso Stato non garantisce. La scommessa è che i soggetti più vulnerabili e dispensabili conquistino il diritto di apparizione – il concetto è arendtiano ma sviluppato in un senso autonomo da Butler – nello spazio pubblico. Viene da domandarsi, e nel corso del testo se lo domanda la stessa Butler: il gender, la forma di femminismo a cui la filosofa ha legato le sue analisi, rimane l’agente primario di promozione del contesto solidale in cui i vari soggetti si legano in relazione, o in questa nuova teorizzazione le donne e i corpi genderizzati diventano uno dei vari agenti da collocare nel gruppo più generale dei “dispensati”? Sì, il femminismo resta il catalizzatore di ogni alleanza, lei scrive. Ed è suo compito diventare inclusivo rivolgendosi a chi è altro da sé, cioè a nuovi soggetti. La finalità è combattere la categorizzazione e la definizione con cui il maschile tenta di manipolare e modellare i soggetti – e quindi i corpi – più vulnerabili. Processo fallibile, come comincia a vedersi oggi con la fine del patriarcato. È importante il piano su cui si muove Butler; quello di un’idea di politica che mette in gioco i corpi. Mi soccorre qui l’analisi puntuale di cosa sia una pratica di relazione fatta da Federica Castelli durante la presentazione di «L’alleanza dei corpi», il 13 febbraio, al Tuba Bazar di Roma. Secondo lei la politica delle relazioni, perché incarnata, mette in atto trasformazioni che escono dall’a-priori e dal piano di diritti rivendicati in astratto. Ancora – ed è molto interessante che Butler lo dica – questo tipo di relazione non si fa semplicemente nelle piazze, che comunque ne mostrano con massima evidenza la modalità corporea. In questo contesto, la politica dei corpi diventa una nuova politica che situa fuori da quella cosiddetta dei diritti: non si scende in piazza per un diritto astratto; i diritti non si chiedono: si creano le condizioni per ottenerli e in questo modo si spostano dal piano tradizionale della politica. Le regole vengono fatte nel concreto, lavorando nel contatto, nello stare insieme ma anche nello spostare l’immaginario a partire da relazioni incarnate. Queste pratiche di relazione – e qui torno alle parole di Butler – non mirano alla costruzione di un’identità collettiva, di un “Noi” nel vecchio senso della tradizione liberale inclusiva (ed escludente) di cui ho già detto. Butler ora si misura, ed è innovativa rispetto a sue formulazioni precedenti, con una nuova idea di popolo e di populismo. Non negativo se inteso in questa radicalità: la questione, la passione sta nel dare un senso fino a ora inedito al mondo a cui di necessità apparteniamo producendo attenzione all’altro e cura; mettendo in essere responsabilità collettive e senso di appartenenza. Entrando ancor più dentro le problematiche del testo, in «L’alleanza dei corpi», Butler racconta il suo percorso dalle prime riflessioni circa i diritti delle minoranze sessuali all’analisi di che cosa sia un’alleanza e del come la si possa costruire. Se in «Questioni di genere», scritto nel 1990, lei ipotizzava la potenzialità di sovversione di determinati atti individuali, con tutto il loro potenziale non solo distruttivo ma anche creativo, rispetto alle norme di genere, ora sposta il focus dell’indagine. Se già nelle riflessioni di allora il gender segnalava, nominava, indicava la vulnerabilità della nostra condizione umana, il nostro essere esposti, sempre dipendenti da relazioni e ordini discorsivi che ci precedono e ci eccedono, ora l’indagine allarga sempre più il concetto di precarietà. «Termine intermedio che è anche, in qualche modo, un termine di mediazione» essa, per Butler, può in determinate condizioni costituirsi come luogo di alleanza tra varie minoranze o parti di popolazione più vulnerabile; tra quei gruppi di persone, talvolta perfino diffidenti gli uni degli altri se non antagonisti, che hanno poco in comune tra loro al di là di una possibile relazione. Butler resta convinta che le politiche identitarie non esauriscano la questione di cosa significhi vivere insieme nonostante e attraverso le differenze, in una prossimità «non scelta deliberatamente ma vista come l’unica istanza etica possibile». E con quella libertà che «non presuppone né produce un’identità collettiva, quanto, piuttosto, un insieme di possibilità e di relazioni dinamiche che includono forme di supporto reciproco, conflitto, rotture, gioia, solidarietà». In conclusione, dal movimento Occupy alle proteste di Atene, dalle cosiddette “primavere arabe” al Parco Gezi di Istanbul, alle rivolte di Ferguson, dalle mobilitazioni queer a quelle degli immigrati, la tesi di Butler è che negli ultimi anni, dal 2011 in poi, all’interno di lotte democratiche, questi raduni possano esprimere forme di resistenza e solidarietà radicali da cui emerge una nuova idea di “popolo”. Non omogeneo, non unitario, non includibile in un falso universalismo ma portatore di differenze incarnate e di una finalità d’intenti. Un popolo di diversi in alleanza che interroga cosa sia l’etica che sottende il patto sociale.

Sin dai tempi di Aristofane i fantasmi evocati da uno sciopero delle donne turbano profondamente l’universo maschile. La proclamazione, da parte di donne di tutto il mondo, di uno sciopero della produzione e della cura per il prossimo 8 marzo (cui, a differenza di quello evocato dal commediografo ateniese, si possono aggiungere gli uomini), sembra aver risvegliato questi fantasmi.

Nel mio posto di lavoro, un’università milanese, le reazioni degli uomini sono le più diverse ma ripercorrono sentieri ben conosciuti.

Qualche giorno fa un uomo scrive alla mail del collettivo che gestisce l’attività della FLC-CGIL in ateneo, chiedendo cosa si pensa di fare per l’8 marzo: aderire e sostenerlo o no?

La discussione è subito rovente: c’è chi riduce lo sciopero a un illusorio “vogliamo tutto”, chi lo ritiene uno svilimento dello strumento, altri (e qualche altra) vogliono mettere in primo piano lo sfruttamento di tutte/e tutti. Si riaffaccia nel dibattito la priorità della contraddizione di classe sulle altre, in primis quella di sesso. Queste reazioni mi sconcertano e tutta la discussione rischia, come spesso accade, di degenerare in uno scontro tra uomini.

Alcune donne della FLC-CGIL ripercorrono la trama di relazioni, da loro stabilite nel tempo, per sostenere lo sciopero, o almeno per discuterne civilmente e non farlo diventare una nuova occasione di guerra tra uomini. E cercano di valorizzare, come dice una mia collega e amica, l’impresa che le donne sono riuscite a realizzare: far convergere, su rivendicazioni non strettamente “sindacali”, organizzazioni che quasi non si parlano.

Questa scadenza e la discussione che ne è scaturita mi appassionano ma, allo stesso tempo, m’interrogano: come agire? Riconoscendo l’autorevolezza di queste donne, lasciando parlare la loro competenza nelle relazioni, autolimitandomi nelle discussioni e cercando più di porre domande che di affermare. Perché nella mia vita e nelle mie pratiche, sindacali e non, mi rendo sempre più conto che sono le donne, non l’insieme indeterminato ma, per dirlo con Angela Putino le singolarità incarnate e sessuate, a saper leggere quello che succede aprendolo verso un possibile cambiamento.

Negli anni ’70 e ’80, molte di noi, me compresa, ci trovammo attraversate da ideali ed energie incredibili, oggi intraducibili con le immagini e gli slogan che vanno per la maggiore. Più che domande, pretese che spinsero molte di noi, un po’ da sole, un po’ con altre, organizzate oppure no. Intuivamo, ma non era chiaro, volevamo rompere schemi ideologici e culturali che avevamo deciso non avremmo sopportato oltre. E adesso, cosa c’è nell’aria, qual è il vento del cambiamento che ci gira attorno, di cosa sentiamo il profumo che prima non era dato sentire?

La testimonianza di Traudel Sattler, all’ultima riunione per Via Dogana 3 (Voilà, #VD3, 20 gennaio 2017), mi ha commossa e mi ha confermato nell’idea che, le connessioni attraverso cui il cambiamento auspicato può avvenire, sono davvero inimmaginabili.

Riflettere insieme, testimoniare, sempre partendo da sé, non scordare il convincimento profondo che ci sprona a interessarci della realtà senza accettare la sottomissione al pensiero convenzionale, rimanere attive nella pratica di esistere sapendo quanto sia importante non credere di avere dei diritti, tutto questo in me ha generato una necessità di stare in dialogo con ambiti di realtà non immediatamente contigui.

Mi riferisco all’impegno di continuare negli ultimi dieci anni il dialogo con le donne della Libreria di Milano e le donne del Gruppo di Tetuan, per condividere, riflettere, scrivere in un transito continuo tra quelle due realtà. Ciò ha avuto una ricaduta importante sulla mia evoluzione personale e sulla mia pratica professionale che da vari decenni svolgo in ambito clinico, indifferentemente con donne e uomini, famiglie, coppie.

Un confine non certo banale quello da me scelto, oltre la mia pratica clinica, in Marocco con professioniste marocchine e altre provenienti da diversi paesi europei, a riflettere insieme sui temi che riguardano il ruolo della donna nella famiglia islamica.

Anche nel gruppo di Tetuan ci si interroga sui nuovi traguardi da figurarci come donne, per un futuro che non sia lontano mille anni, uno spostamento a cui poter prendere parte mentre siamo in vita e con gli apprendimenti guadagnati in anni di pratica di esistenza. Assieme agli altri, perché da soli raramente si lascia traccia. Donne di anima e di pensiero, attente alla differenza di genere e all’alleanza possibile tra donne e non solo queste, si intende con gli uomini che vogliono bene alle donne, data la ricchezza che da ciò, oggi, potrebbe venire.

Mi domandavo, anche prima della relazione di Traudel, come incontrare le altre che sono ovunque e senza saperlo attendono che qualcuno le sfiori, spostando il loro sguardo verso un altro modo possibile di leggere la realtà in cui sono, siamo immersi. Grazie alla sua testimonianza ho ricordato vividamente che alcune cose importanti a livello personale, ma anche collettivo, possono avvenire al di là delle nostre intenzioni consce. E a questo proposito mi viene in mente la dott.ssa Amina Bargasch del gruppo di Tetuan la quale sostiene l’importanza di saper costruire e decostruire la realtà attraverso un movimento di pensiero e di pratica che ci permetta, mettendo dentro anche noi stesse, di avvicinarci alle realtà.

Lei nella sua grande esperienza di psichiatra e psicoterapeuta della famiglia, di profonda umanità e capacità comunicativa, ha trovato una modalità per continuare a parlare a un pubblico ben più vasto di quello che può arrivare nel suo studio. Lei parla a una radio che trasmette solo in lingua araba raggiungendo una vastissima area geografica. Arabo, per loro la lingua dell’origine, quella prima dell’occupazione francese, l’arabo è la lingua che le permette narrazioni comprensibili alle masse più estese e i temi che tratta possono riguardare argomenti tipici ma anche no, intendo temi che normalmente, anche da noi, potrebbero essere considerati tabù. Per esempio: la prostituzione, l’incesto, i bambini che maltrattano i genitori, l’enuresi di uomini adulti, l’importanza del padre nell’educazione dei bambini anche quando i padri sono lontani per lavoro o in prigione per reati politici o di ordine pubblico. Durante le sue trasmissioni radiofoniche che vengono date una volta di pomeriggio e una in ore notturne, ci sono gruppi di ascolto di donne, ma anche di uomini, anche di uomini in carcere. E intanto passano messaggi di libertà, di diritto a sapere da dove viene una sofferenza profonda, molto diffusa nelle famiglie su un territorio estesissimo, transnazionale ma tutto di lingua araba.

Anche per lei l’inizio fu casuale, come ebbi occasione di scrivere qualche anno fa in un articolo per Via Dogana, poi però ha fatto delle cose per favorire che ciò che era accaduto per caso – aveva partecipato come ospite ad una trasmissione radiofonica – venisse sostenuto, guidato dalla buona relazione con i responsabili di quella trasmissione e poi tutto il resto.

La domanda con cui voglio terminare è come aiutare il caso, i casi che testimoniano cambiamenti in atto. Per esempio questo inatteso interesse da parte del gruppo francese incuriosito non solo a tradurre, ma a capire intimamente il periodo in cui Non credere di avere dei diritti nacque, come esso nacque, ma nel contempo, quel gruppo di donne e uomini sta inventando un metodo che si preannuncia di raffinata complessità e che permetterà a un testo scritto decenni orsono di nascere a nuova visibilità per un pubblico di lettori e lettrici che prima non esisteva.

Come aiutare il caso, visto che docenti di italianistica all’estero proprio recentemente hanno domandato di avere contatti con la Libreria delle Donne di Milano?

Penso, quando Non credere di avere dei diritti sarà circolante in francese con la narrazione di come è stata l’esperienza del gruppo di traduttori e il fitto dialogo con le autrici di un tempo, i loro “Aiuta” ecc. ecc., il mio gruppo di Tetuan dove c’è anche una collega canadese di lingua francese e le altre di nazionalità svizzera ma di lingua francese e le altre arabe ma con la conoscenza della lingua dell’antico occupante, il francese, tutte loro e chissà quante altre, potranno conoscerlo.

Nel trasporre cinematograficamente il complesso e bel romanzo di Maylis de Kerangal Riparare i viventi (Feltrinelli, 2014) che fu un caso editoriale alla sua uscita in Francia, la regista Katell Quillévéré, fin dalle prime e intense scene, enuncia il suo intento: farne un’ode alla vita.
E di fatto le immagini iniziali di un gruppo di giovani appassionati di surf che sfidano gioiosamente la potenza del mare, immergendosi nel suo abbraccio infido, facendosi travolgere da vortici e cascate d’acqua, cavalcando le onde grigio-azzurre, fra incoscienza e consapevolezza, lasciano senza respiro e trasmettono efficacemente l’idea della bellezza e della vitalità.
Preludono anche, in quell’atmosfera di rischio e di pericolo, all’imminenza del dramma che li colpirà sulla strada del ritorno verso casa e che per il diciannovenne Simon sarà fatale.

Se già nel romanzo le parole non erano state a volte sufficienti come schermo in una narrazione esplicita, filmare il trapianto di un cuore – il dolore di una morte, le intense e frenetiche ventiquattrore di attività medica, documentate puntualmente quasi minuto per minuto, l’incerta e sofferta attesa di Claire, la donna che lo riceverà – diventa una sfida che si fa questione scottante come violare un tabù.

Significa raccontare il mistero che contrappone le più sofisticate tecniche della chirurgia moderna alla questione della sacralità del corpo umano, toccare il tema «della vita e dove finisce e in quali parti è collocata simbolicamente» e di come reagiamo di fronte alla morte per «trasformare l’oltraggio e il dolore che essa ci costringe a provare», come spiega la regista in alcune interviste. È voler trasmettere l’idea del flusso ininterrotto di sangue che da una vita che si sta spegnendo passa a un’altra che sta rinascendo. Un dono immenso che non esige scambio di cui la madre di Simon, Marianne, si fa generosa e tragica mediatrice, in un gesto d’amore che è il desiderio umanissimo di trasformare la morte del figlio.
Vuol dire descrivere un legame inestricabile fra simbolico e fisico, tra scienza e l’inconoscibile, l’inspiegabile di una vita che fluisce da un essere umano ad un altro e della catena di azioni e relazioni che questo mette in moto.
È una narrazione coinvolgente quella proposta dalla regista, riuscendo a mantenere comunque la giusta distanza da emozioni che per il pubblico potrebbero essere eccessivamente condizionanti. Anche puntigliosa nel rispettare il romanzo nella sua dettagliata descrizione dei vari passaggi che un simile intervento richiede e dove i gesti della cura sono attentamente sottolineati, messi in primo piano dal movimento delle camere, come la gentilezza e la delicatezza dei chirurghi che si accostano all’intervento come ad una cerimonia.
Presentato alla 73a Mostra del Cinema di Venezia, Riparare i viventi è il terzo lungometraggio della regista francese che ne ha curato anche la sceneggiatura.

Per il momento, io resto fedele alla dizione “femminismo della differenza” e lo spiego così: la differenza sessuale è, fin dall’origine. C’è la differenza femminile e c’è la differenza maschile.  L’una e l’altra si fondano sul rapporto originario con il corpo materno. È questa consapevolezza che voglio conservare e, se possibile, tramandare perché fa ordine simbolico.

Io, donna, sono nata con un corpo uguale a quello di mia madre, un corpo predisposto in un certo modo alla riproduzione umana; tu, uomo, sei nato con un corpo diverso da tua madre e una diversa disposizione alla riproduzione. È ancora vero, infatti, che una nuova creatura nasce da un ovulo femminile e da un seme maschile, a meno che non ci arrendiamo agli scenari disumanizzanti delle tecnologie riproduttive così entusiasticamente sostenute dal mercato. La biforcazione originaria, declinata in modi diversi nel tempo e nei luoghi, è produttrice di significati e a questa declinazione ciascuna/ciascuno cerca di partecipare.

Queste cose sono del tutto chiare, ad esempio, alla mia giovane nipote, laureata, disoccupata con lavori precari, che non si dichiara femminista (ma nemmeno antifemminista), ma è convinta che nascere con un corpo di donna o di uomo “fa la differenza” e interpreta femminicidi e violenza contro le donne come una rivalsa di uomini che non accettano la libertà femminile.

Più di questo non ho da dire sulla differenza sessuale che, a livello simbolico, io interpreto come un significante più potente e davvero universale che può spodestare, e già lo sta facendo, il buon vecchio “Fallo” della tradizione psicoanalitica. Forse per questo gli uomini fanno fatica a capirla nelle donne e a riconoscerla per sé. Quanto alle giovani generazioni, ciò che vedo, e temo, è che la scelta dell’oggetto d’amore sessuale, la manipolazione del corpo e del genere sessuale si riducano a essere le uniche “libertà” concesse da un sistema globalizzato sempre più rigido e oligarchico (ma accattivante), che con le sue ferree “leggi” economico-finanziarie spacciate per naturali, è disposto a concedere molto sul piano dei diritti sessuali, ma pressoché nulla negli altri campi: disoccupazione, lavoro, istruzione di qualità, disuguaglianze crescenti, partecipazione alle decisioni fondamentali per una buona convivenza umana, marginalizzando, quando non escludendo del tutto proprio le giovani generazioni e quote sempre più estese di popolazione.

Contributo in versione scritta all’incontro di Via Dogana 3: Dal 13 novembre 2016 al 15 gennaio 2017 senza soluzione di continuità. Come può il vecchio Principe Femminismo risvegliare la sempre Giovane Voglia di cambiare il mondo, la quale dorme della grossa (o finge),  nonostante l’orribile chiasso che si sente?


Questa versione non rispecchia quella orale del quindici gennaio.


Di Lia Cigarini 13 novembre, ho tenuto presenti diversi punti. Nella parte finale lei dice: a suo tempo abbiamo espresso la nostra radicale rottura dall’ordine costituito (patriarcato) con questo motto: “noi donne siamo altrove e altrimenti”; ma io, Lia, molto presto ho eliminato l’altrove (la separazione) per mantenere l’altrimenti nella concezione della politica.

Mi colpisce, nel passaggio di Lia, una certa somiglianza con la storia dei cattolici che, spinti da don Sturzo, decidono di impegnarsi nella politica ufficiale dello Stato italiano.

Se ho capito bene, si tratta di trasferire nell’altrimenti anche la forza che c’era nell’altrove. È possibile? mi chiedo. Non ci abbiamo mai lavorato.

Leggere il presente, era e rimane il proposito delle ultime redazioni allargate di VD3. Nel presente si può leggere, a livello globale, che i rapporti tra donne e uomini stanno cambiando. Mutamento epocale e globale che si alimenta da un desiderio implacabile di donne per stare meglio. Non è contro gli uomini, se questi trovassero la strada per significare la propria parzialità (non tanto dirla, ma significarla: farne un segno) e allearsi così con l’Altro che è donna (titolo da me rubato a Riccardo Fanciullacci) per arrivare a un senso libero della differenza sessuale.

Che posto ha il femminismo in questo mutamento? Nel contributo del 13 novembre Lia afferma che le donne sono in movimento da cinquant’anni, “le donne e non le femministe”. Sono d’accordo, naturalmente la conta degli anni è approssimativa, potrebbero essere cinquecento. Di quel movimento tellurico il femminismo è stato manifestazione, interpretazione e spinta in avanti. Adesso, cos’è? Comunque, non confondiamoli.

“Sempre più donne si dichiarano femministe”, dice Lia. Bene, ma attenzione. La assimilazione del femminismo nella cultura diffusa è un progresso che rispecchia anche un ridimensionamento. Una parte dell’altrimenti si è perduta nell’integrazione femminile a base di quote e dispositivi simili; l’altrove si è spesso cambiato in un comodo recinto, tipo women’s studies

Il Non credere di avere dei diritti rende felicemente il momento della scommessa femminista che non era vinta, ma era efficace. La posta in gioco era vivamente sentita, stavamo cambiando in meglio la condizione umana femminile.

Al centro del paesaggio che ci circonda, oggi, ho pensato di mettere quel gruppo di giovani persone, donne e uomini, che, volendo arricchire la cultura politica del tempo presente e indagando sui movimenti dell’Autonomia anni Settanta-Ottanta in Italia, incontrano Non credere di avere dei diritti (apparso in Italia nel 1987, sempre tenuto in catalogo dall’editore Rosenberg & Sellier, tradotto in tedesco, spagnolo e inglese). Le sorprende non poco il fatto che il libro non sia stato tradotto in francese (e decidono di farlo loro), e ancor più che non abbia a che fare con l’Autonomia, ma con il femminismo. Il racconto di Traudel riferisce anche un altro motivo di sorpresa. Ed è quando scoprono che le donne della Librairie des femmes di Parigi non corrispondono a quello che ne diceva il nostro libro, ma sono diventate femministe “normali” e riconoscibili, per cui, ad esempio, fanno campagna per una legge che abolisca la prostituzione.

Una giornalista mi ha chiesto: “perché le giovani generazioni respingono il femminismo?” Lo respingerei anch’io se fosse quello che ne dicono i media, le ho risposto.

Noi che facciamo capo alla Libreria, teniamo ferma la scommessa degli inizi, che era di mettere in luce e d’indicare al movimento delle donne qual è la posta in gioco e di salvaguardare la sua grandezza. A essere femministe, oggi, femministe vere, si incontrano delle contraddizioni, di quelle vere, che si fanno sentire dolorosamente quando ci tocca affrontarle a distanza ravvicinata. Ci sono per fortuna anche delle sorprese che danno conferme inattese, come questa della traduzione francese. Nel suo intervento del 13 novembre Lia ci ha assicurato che non sono poche.

A proposito di giovani persone, che cosa significa la mobilitazione intorno alla sigla lgbtq… che continua ad allungarsi come un serpente? C’è stata, da parte nostra, una certa dose d’incomprensione. La critica di essenzialismo rivolta al cosiddetto femminismo della differenza era sbagliata ma bisognava capirla.

Il femminismo della differenza (torno sulla questione) è stato interpretato come se la differenza fosse tra due entità già costituite, uomo e donna. No, la differenza è in: in me, in te, a causa della sessuazione, il vivente che si biforca ai fini della sua riproduzione. Il punto di partenza è questo non-uno. Poi, quando il vivente diventa parlante e pensante, comincia l’interpretazione del reale: comincia la storia. I generi sessuali sono interpretazioni che cambiano con la cultura e nella personale esperienza. Perciò il serpente si allunga e potrebbe allungarsi all’infinito. Se ci pensiamo meglio, in quella forma di etichette in fila c’è la ricerca di un senso libero della differenza sessuale…

M’interrogo perciò se sia il caso di continuare a usare la formula del femminismo della differenza. La condivido, ma la sua comprensione non è facile e chiude la porta ad altri linguaggi. Non intendo, ripeto, rinnegare il pensiero della differenza sessuale con il suo due di base. Ma si può rinunciare a una certa formula se mette in difficoltà chi cerca di pensarsi liberamente nella fedeltà alla propria esperienza. Che fu il movente della rivolta. Lia ha suggerito di chiamarlo piuttosto femminismo delle origini. Il luogo delle origini è vuoto, dicono. Sì, può essere, ma vuoto per fare posto ai grandi desideri.

Comincio riprendendo il filo di Lia Cigarini all’ultima redazione aperta di VD il 13 novembre scorso. Nella sua lettura del presente, Lia aveva fatto notare che oggi sempre più donne si dichiarano femministe: scrittrici, artiste, registe, giornaliste…, e che le sembrava che tutto ciò c’entrasse molto col pensiero della differenza. Mentre i media riferivano che le giovani donne dichiaravano che il femminismo aveva avuto molti meriti ma che oggi a loro non aveva più niente da dire. Eppure, ha ricordato Lia, oggi accade che negli Stati Uniti traducano L’ordine simbolico della madre e in Francia Non credere di avere dei diritti. E a Londra una riunione di cinquanta giovani donne ha discusso del femminismo italiano, ritenendolo, appunto, più fedele alla rivolta degli anni Settanta.
Io posso aggiungere che Non credere di avere dei diritti lo leggono anche a Berlino, sono stata invitata nel mese di luglio dell’anno scorso: anche lì erano giovani donne che in questo libro hanno trovato indicazioni per la loro pratica politica. E pochi giorni fa ci è arrivata una richiesta da Zurigo: alcune giovani ci propongono di venire a Milano per uno scambio. Altre ancora ci hanno trovate, sempre attraverso questo libro: una ricercatrice dal Canada, un’artista australiana…

Dico tutto questo non per fare del trionfalismo: sono convinta che è accaduto non per caso. Il pensiero e la pratica della differenza, la pratica di parola, l’importanza del simbolico, vengono intercettate. Soprattutto da chi sta cercando… cercando magari una cosa per scoprirne un’altra.

E così è accaduto che quasi esattamente un anno fa, domenica 17 gennaio 2016, ci siamo trovate qui al Circolo della rosa (alcune fondatrici della Libreria delle donne, Lia Cigarini, Giordana Masotto, Silvia Motta, Luisa Muraro, poi io) con un gruppo di giovani francesi che stavano cercando qualcosa: si presentavano come «collettivo franco-italiano», giovani donne e uomini «che vivono in varie città della Francia e che hanno in comune il desiderio di legare riflessione politica e pratiche rivoluzionarie».
Avevano scoperto Non credere di avere dei diritti facendo una ricerca sull’Autonomia italiana negli anni Settanta. Raccontano: «Siamo rimasti colpiti dal processo di ricerca raccontato nel libro … che rimette continuamente in discussione le scelte politiche fatte e assunte collettivamente. Soprattutto ci ha interessato una forma di politica che mischia vita vissuta e lotta politica. Ci è sembrato strano che questo libro non sia già stato tradotto in lingua francese perché parla spesso dei legami con la Francia e dei rapporti tra femministe italiane e francesi. E quindi fa luce sulle dinamiche di circolazione del pensiero politico e sulla condivisione delle pratiche di lotta durante gli anni Settanta».

Così hanno deciso di tradurre il libro e di chiedere un incontro con noi.

Io mi sono sentita subito coinvolta in prima persona, perché avevo tradotto Non credere in tedesco, nel lontano ’88, e poi avevo accompagnato il libro, con altre della Libreria, in Germania, creando moltissimi scambi che durano nel tempo. E poi perché parlo il francese, più o meno…

In occasione di quell’incontro, un anno fa, avevamo chiesto di poter rileggere la traduzione francese prima della pubblicazione e di restare in contatto. Dopo poco tempo sono arrivate una serie di email con oggetto «aiuta!» con richieste di chiarimenti per alcuni concetti difficili da afferrare. Ci siamo messe a rileggere la loro traduzione, Luisa Muraro una parte, poi Silvia Baratella e io. Io e Silvia ci siamo anche appassionate a seguire passo passo i capitoli, con grande sorpresa del collettivo di traduzione che non si aspettava una rilettura così approfondita ma hanno accettato, per questo motivo, di rimandare la pubblicazione. Hanno accolto i nostri commenti, hanno espresso stupore quando non eravamo d’accordo con l’accostamento della Libreria all’Autonomia degli anni ’70 ma poi l’hanno accettato l’obiezione.

Il libro è stato tradotto a più mani, maschili e femminili, come spiegano nella prefazione, che invece è stata scritta dalle sole traduttrici e rispecchia le intense discussioni che hanno accompagnato il lavoro di traduzione.

Vorrei riprendere alcuni pensieri da questa prefazione che mi sembra una interlocuzione molto interessante da parte di una generazione che viene dopo di noi e che cerca di leggere questo libro alla luce del presente.
Il testo è bellissimo perché racconta il processo di trasformazione che il libro ha innescato in loro man mano che lo stavano scoprendo e traducendo. Senza sapere che cosa avrebbero trovato sono andate a cercare in Non credere di avere dei diritti qualcosa di importante che il femminismo interroga e che invece era rimasto insignificante nelle loro pratiche politiche.
Le loro esperienze femministe precedenti, infatti, non avevano soddisfatto questa ricerca. “Navigando” nel femminismo avevano trovato degli ostacoli: il primo era il considerarsi una donna. Questa cosa le rimandava soprattutto all’identità femminile comunemente considerata, un’idea astratta e asfissiante, e così alcune di loro avevano preferito cancellare la differenza sessuale, renderla insignificante, per lottare nei contesti che i francesi chiamano “mixité”, contro le identità e le norme sessuali. Questo aveva dato loro sì una certa libertà, tuttavia a qualcuna è venuto il dubbio di aver abbandonato, con questa scelta, un terreno di lotta.
Un altro ostacolo rispetto al femminismo così come l’avevano conosciuto era il fatto di non riconoscersi nelle figura delle donna oppressa che questo femminismo proponeva.
Alcune di loro avevano anche fatto esperienze con gruppi, spesso gruppi di donne, che lavoravano sul corpo e la medicina.

Poi hanno incrociato Non credere di avere dei diritti.

Raccontano che hanno affrontato il testo non senza una certa sfiducia: temevano l’essenzialismo. Per scoprire invece che «queste donne [le autrici] procedono in una maniera che resiste a ogni essenzializzazione perché si sono impegnate a non dire niente che non sia stato sperimentato a lungo», poi perché non si parla mai in nome di altre e soprattutto perché non si definisce mai la differenza sessuale, non le si dà un contenuto.
In questo approccio trovano come degli elementi di un metodo per significare la differenza, anche se “metodo” non è la parola giusta, comunque un’ispirazione per futuri passi. E percepiscono una «nuova libertà»: dire che sono una donna arricchisce la categoria donna della nostra propria singolarità, invece di rinchiuderci all’interno di una categoria preesistente.
Ed è proprio l’arricchimento del proprio universo simbolico che toglie lo sguardo dall’oppressione maschile e dai torti subiti, senza comunque negarli. Le traduttrici si rendono conto che ciò permette anche «una certa generosità nei confronti degli uomini», l’idea che esista un desiderio maschile non legato alla dominazione. E precisano subito che non si tratta di un credito concesso agli uomini, «ma una fiducia data a noi stesse, alla nostra capacità di stabilire con loro una relazione giusta – giusta nel senso di justesse e non di justice».
Qui leggono un’apertura del significato di differenza, cosa importante per la lettura del libro oggi: «Ci siamo più volte urtate con la difficoltà di dare seguito al loro insegnamento, e siamo consapevoli che non è possibile leggere questo libro nella stessa maniera come all’epoca della sua pubblicazione, ignorando l’apertura del femminismo ai movimenti transgender. Nonostante tutto vogliamo credere che le loro esperienze possano essere lette al di là di una differenza che resterebbe esclusivamente femminile, anche se non possiamo prevedere se questa impresa riuscirà. Questa speranza ci viene dal fatto che il pensiero della differenza, secondo la nostra lettura, ci sembra incompatibile con l’idea di un’accumulazione di ritratti autonomi di ogni differenza: ognuna di queste differenze ci sembra essere invitata a mettersi alla prova dei contatti con l’altro».
Ho sottolineato “insegnamento” e “vogliamo credere” perché man mano si addentrano nel testo si capisce che alla sfiducia iniziale subentra la fiducia, più volte parlano di “insegnamento”, “lezione”, “credere”, “vogliamo credere”: danno fiducia a queste parole, a questa pratica.
L’interazione con il testo si sviluppa in un processo che chiamano «mise en abyme», espressione che indica il rispecchiamento di una macrostruttura in una microstruttura, una storia che si riflette in un’altra storia, all’infinito: «Ci aveva convinto l’affermazione secondo la quale la nostra libertà non poteva essere acquisita se non a prezzo del pagamento del debito simbolico nei confronti delle donne che ci hanno preceduto, e sapevamo che la traduzione di questo libro costituiva già una prima pietra che noi abbiamo posato per la nostra genealogia femminile».
Io mi sono riconosciuta in queste parole, era successo anche a me: oltre al piacere della traduzione, oltre al guadagno che ho avuto in termini di nuovi contatti politici e alla soddisfazione di portare qualcosa di importante nel mio paese di origine, c’è stato questo senso della restituzione.
Interloquendo con il testo, le traduttrici parlano anche di “eredità”, e sottolineano che un elemento del quale si assumono pienamente l’eredità è il legame tra vita e politica: anche «se è vero che il detto il privato è politico di allora va riguardato davanti alla colonizzazione progressiva della sfera privata, oggi bisognerebbe chiedersi piuttosto cosa significa per la vita privata di essere politicizzata».
Infatti, si chiedono come reagire al fatto che oggi libertà e differenza vengano fagocitate dalla politica e dal capitalismo à la Mc Donald. Che la differenza sembra addirittura «costituire il combustibile della fabbrica democratica», oppure viene inglobata in nuove identità sociali, dove l’identità è ridotta a un questionario a scelte multiple, come sulla pagina Facebook dove il tuo profilo è ridotto in caselline, e ogni novità viene subito inglobata «per affinare la matrice universale».
Qui siamo esattamente alla questione che Giordana Masotto aveva posto nel suo contributo all’ultimo incontro di Via Dogana, quando ha affermato che libertà è una delle parole più usate e consumate nel nostro tempo, e che la differenza sessuale rischia di annegare nel mare della diversity.
Cercando, traducendo e discutendo, il collettivo ha trovato elementi di risposta nel libro stesso: nella proposta politica di una libertà che loro chiamano «libertà rivoluzionaria» e che resiste alla cattura perché si basa sulla relazione. La libertà relazionale come baluardo contro lo scippo.
Ma la “lezione” del libro ancora più sottile che hanno trovato, è la necessità della mediazione che significa un aprirsi all’altro. Tutt’altro che cercare di trovare un equilibrio, anzi è un rischio, ci vuole il gusto del rischio. «L’atto rivoluzionario più profondo è quello di accettare l’imprudenza necessaria alla mediazione.»

Ora che il libro è pronto hanno pensato giustamente che non lo possono affidare semplicemente al mercato senza accompagnarlo: subito hanno cominciato a programmare una serie di incontri di presentazione in varie città della Francia, a partire dalla Libreria delle donne di Parigi. La Librairie des femmes fa parte della storia del femminismo francese e il legame storico con il libro italiano è evidente, anche se «non abbiamo trovato nessun legame attuale con Non credere di avere dei diritti, il che ci ha molto sorpreso – ci scrivono in una email le traduttrici – visto il bellissimo passaggio del libro che racconta “l’incontro con le francesi”. Ci siamo dette che la presentazione di questo libro darà sicuramente luogo a una discussione appassionante, ma non sarà sicuramente facile. Voilà».


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3: Dal 13 novembre 2016 al 15 gennaio 2017 senza soluzione di continuità. Come può il vecchio Principe Femminismo risvegliare la sempre Giovane Voglia di cambiare il mondo, la quale dorme della grossa (o finge), nonostante l’orribile chiasso che si sente?

Dal 13 novembre 2016 al 15 gennaio 2017 senza soluzione di continuità


La redazione ristretta di VD 3 ti invita alla prossima redazione allargata, il 15 gennaio 2017, e ne anticipa il tema, senza escludere proposte alternative.

Il luogo è lo stesso, Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano (nei pressi di Piazza 5 Giornate), tel.: 02 7000 6265, e anche l’orario: alle 10 del mattino fino alle 13.45 circa, con invito a fermarsi per il brunch che seguirà.


Questo il tema che proponiamo, riassunto in un linguaggio fiabesco:


Come può il vecchio Principe Femminismo risvegliare la sempre Giovane Voglia di cambiare il mondo, la quale dorme della grossa (o finge),  nonostante l’orribile chiasso che si sente?


Al tema introducono i materiali del 13 novembre 2016, ubblicati nel numero di Via Dogana 3 Che ne è delle donne dopo quarant’anni di movimento femminista?.


L’introduzione è affidata a Traudel Sattler e Luisa Muraro.

Care amiche di VD3

1) È vero – come ha detto Lia Cigarini – che le donne fanno tutto e sono dappertutto. Questo però non porta alcun vantaggio alla qualità della mia vita. Anzi: spesso il modo di mostrarsi delle donne che hanno maggiore visibilità “pubblica” mi crea disagio. Certo sono donne, come me. Loro ci sono, la differenza sessuale non lo so se c’è.

In molti casi quello che vedo non mi parla di “senso libero della differenza sessuale”, l’espressione di Luisa Muraro che voglio imparare a adoperare, perché è più adatta a questo tempo rispetto a libertà femminile (non fosse altro perché è una espressione nella quale possono riconoscersi anche gli uomini che vogliono farlo, e quello degli uomini è un problema che non vedo come possa essere tralasciato: mi sembrano a volte sì sofferenti, ma non pietrificati né privi di desiderio).

Questa più visibile presenza femminile sulla scena pubblica mi parla al contrario di una sorta di indifferenziato: forse il modello a cui si ispirano molte di queste donne – non tutte – non è più quello maschile, ma un qualcosa supposto buono in generale, all’interno del quale il corpo non ha senso. Il che ovviamente significa che ne ha moltissimo, forse più che mai, ma non se ne deve parlare.

2) All’espressione “libertà femminile” comunque sono attaccatissima: perché la libertà è erotica. Quello che vorrei essere capace di raccontare/trasmettere a donne più giovani di me, è proprio la sensazione che ho provato tutte le volte che mi sono sentita libera. Tutte le volte che mi è riuscito di fare libertà per me stessa e per un’altra: a questo che ho vissuto non rinuncerei per nessuna ragione al mondo. Essere libera, essere viva. Mi emoziono quando ci penso e ne parlo. Non ho mai smesso di provare a farli esistere, quei momenti lì. E non riesco a capire perché di questa preziosissima esperienza (soggettiva, ma è quello che fa cambiare il modo in cui puoi stare al mondo), sembra che adesso molte donne più giovani di me non ne abbiano bisogno. Eppure sono convinta che se va perduto questo aspetto non si può fare altro che ricascare nella logica del fine che giustifica i mezzi. Ma non c’è il fine (non si va mai dove si crede di stare andando: se non ce lo ha insegnato la storia del Novecento non so che altro ce lo possa insegnare) e non ci sono i mezzi. Come diceva la mia Rosetta: c’è solo l’esistenza (perché la vita è in prestito) e quindi c’è da cercare la propria esistenza meglio che si può, sapendo della morte.

3) Che fare a questo punto? Penso anch’io che le teorie e pratiche queer e dintorni siano “vincenti” in questa fase. La questione della libertà c’entra molto anche in questo. Vince, mi pare, una interpretazione della libertà come allargarsi “all’infinito” delle possibilità e non come legame strettissimo con la necessità. Per me, nata nel 1951, la scelta è stata: o riesco a dire io che cosa è una donna, oppure stare al mondo non mi interessa. Semplice. Per le donne giovani adesso è diverso: una parte di quel che c’era da fare è stato fatto. Perché quei due aspetti della questione della libertà (possibilità/necessità) si sono disconnessi e sembrano quasi diventati alternativi? Se questo accade, a me viene da chiedermi dove sia stato l’errore. Mio, delle donne che pensavano come (e molto meglio) di me. Sono tutt’altro che soddisfatta: ascolto con interesse chi – come ad esempio Laura Colombo – chiede un supplemento di lavoro sulla questione del potere. Non sottovaluto questo aspetto. Eppure: è proprio impossibile che l’erotismo della libertà possa essere più forte di quello del potere?

Credo di essere molto d’accordo con il documento di Lia Cigarini che apre la discussione su Via Dogana.

Condivido il suo ottimismo sulla presenza delle donne in tanti campi, come Lia ben descrive.

Sono stanca dei vecchi slogan «Non basta essere donna per cambiare». È ovvio, non basta essere gatto per acchiappare un topo, ma è anche interessante che ci siano donne che vogliono i cambiamenti e sono capaci di farlo. È su di loro che bisogna puntare, sono loro che sarebbe importante godessero del sostegno di tutte noi femministe.

Purtroppo è un concetto non ancora passato.

Esemplare è il caso di Anita Sonego che ha fatto molto in Comune per le donne, compresa la Casa delle Donne e i tavoli di discussione in Sala Alessi e poi alle recenti elezioni non è stata abbastanza votata dalle donne stesse per riavere il suo posto.

L’apertura di Cigarini verso le donne che fanno politica, o sono in luoghi decisionali, è un passo avanti rispetto alla paura di entrare nelle istituzioni che ci dovrebbero fagocitare che per tanto tempo ha paralizzato il movimento delle donne.

In quanto al concetto di differenza sessuale, non vedo perché venga messo in discussione o considerato insufficiente. Proprio quelle che vengono considerate nuove sessualità non fanno che giocare con i termini maschile/femminile pur incrociandoli e mescolandoli in tutti i modi possibili.

Possibili? Magari a prezzo di sofferenze eccessive. È soltanto smontando gli stereotipi che saremo tutte e tutti più felici.

Cara Lilli, non ci sono parole proibite ma sono d’accordo con te che si tratta precisamente dell’essere corpo vivente.

Quanto alla sua (del corpo) disponibilità alle contingenze del desiderio, come tu dici, la domanda che nasce subito è: il desiderio di chi? La storia ci risponde: del più forte. La logica del più forte ha condizionato l’umanità nella maniera più pervasiva, materialmente e mentalmente, culturalmente e soggettivamente.

La nostra generazione l’ha imparato dal pensiero critico dei maestri del sospetto, Marx, Darwin, Freud. Aggiungo Foucault, un pensatore che ho in comune con la generazione venuta dopo.

Grazie alla rivolta delle donne, nutrita da pensatrici come Weil, Arendt, Woolf, Carla Lonzi, Luce Irigaray, ho visto che la logica della forza perdeva la sua presa quando ci siamo messe non a gareggiare per vincere ma a prestare attenzione ai nostri desideri e rapporti. Perciò m’interessa la differenza femminile: è un tratto del mio esserci in mezzo alla storia e all’umanità, attributo modificabile ma inerente al corpo vivente che mi rende riconoscibile… Perciò la coinvolgo nella mia ricerca di libertà. Perciò dico: le donne esistono e io sono una di loro.

Ciao, Luisa Mur.

Quando Luisa Muraro dice che lavorare perché esista il senso libero della differenza sessuale significa aver chiaro che non si tratta di stabilire una classificazione definitiva per cui ci sono gli uomini e le donne, ma che queste classificazioni sono categorie storicamente determinate, e dunque sono un’approssimazione, indica l’apertura all’ascolto di tutto il portato esperienziale e teorico dei movimenti LGBT. Avverte però di non cedere alla separazione tra natura e cultura che lì viene operata. Su questo punto farei una precisazione. Non di rapporto fra natura e cultura si tratta in quei movimenti, a mio avviso, ma di un corpo che è del tutto assimilato e assunto dalla sua interpretazione culturale e quindi disponibile alle contingenze di ogni desiderio e all’intervento di qualsiasi forma di tecnologia. È l’uso del termine “natura” che ha fatto scambiare (spesso strumentalmente) un pensiero radicato nel corpo vivente per essenzialismo. Per questo mi sembra più appropriato rimettere al centro il termine “corpo”.

Non vedo oggi, un’egemonia del femminismo della differenza rispetto ad altri femminismi, i neofemminismi delle ragazze più giovani ad esempio hanno alle spalle esperienze di sessualità profondamente diverse dalle nostre, esperienze che non conosciamo, di cui qui nessuna di noi parla, benché molte abbiano figlie e figli, nipoti e amiche… non prendiamo atto nemmeno che molte delle nuove generazioni non riconoscono come decisiva la differenza sessuale. Capire perché, quali vantaggi hanno da questa posizione è un lavoro tutto da fare: ci sono i racconti delle esperienze, ci sono teorie, riflessioni spesso da noi del tutto ignorate, forse perché fa comodo starsene nella rassicurazione del bel tempo che fu e perché il femminismo può a sua volta diventare e spesso diventa un nuovo conformismo (fatto di ripetizione e vuota liturgia).

Le donne sono dappertutto, dice Lia Cigarini, con molti esempi, ma non sono dove sono in ragione diretta del portato del femminismo, sono molte le ragioni e le cause, e in quella scena pubblica ci stanno spesso proprio per aver reciso o taciuto o considerato irrilevante la loro differenza. Il suo richiamo alle origini quindi ha senso solo se siamo consapevoli dell’assenza di nuove invenzioni di pratica politica. Le radici del partire da sé e della relazione vanno completamente rivisitate e torna una vexata quaestio: il rapporto tra politica prima e seconda (se vogliamo usare vecchi termini che non dicono più la nuova realtà) o più propriamente (il problema lo ha posto bene Laura Colombo) il rapporto tra pratiche politiche radicali (nel senso della radice e del portato di cambiamento) e potere. Questo nodo non è eludibile, né è sufficiente opporvi l’autorità, se non si aprono spazi di praticabilità riconosciuta da uomini e donne. Come farlo è il punto, e non ho risposte, perché non è solo “la riflessione che latita”, ma con lei le pratiche necessarie. E questo vale anche per il richiamo alla radicalizzazione (o alla ri-radicalizzazione).

Non vedo il desiderio maschile pietrificato: nulla sta fermo e lo sappiamo. Oggi siamo, in America e non solo, di fronte a un revanchismo molto pericoloso, che è meglio non ignorare o sottovalutare. Obama non è Trump, il suo sguardo su Michelle durante il discorso per l’insediamento aveva fatto sperare nella capacità maschile di riconoscere il proprio debito a una donna (e lui non è il solo caso, per fortuna); quell’era sembra trascorsa già da un secolo e al suo posto c’è oggi un uomo che si fa forza dell’offesa violenta alle donne (e non solo) e ha al fianco una moglie che tace (lei sì pietrificata).

Nell’incontro della redazione allargata di VD3 la scorsa domenica 13 novembre 2016, Lia Cigarini ricordava come oggi la soggettività femminile sia in gioco in tutti i campi. Nell’elaborazione del suo intervento, che si può leggere sul sito, fa molti esempi per chiarire questo punto e dice che “si tratta in fondo di essere riuscite in parte a realizzare i nostri desideri non senza sofferenza e contraddizione”.

Molte delle presenti hanno ripreso il suo entusiasmo che a me invece appariva trionfalismo, percependo in quelle parole distanza dalla mia esperienza e un senso di straniamento.

Dopo aver lavorato per anni in una multinazionale dell’informatica e nei reparti Information Technology di diverse aziende, sono arrivata alla Divisione informatica di una grande Università milanese. Molte cose possono succedere se stai dove stai senza cedere alle logiche di competizione per il primato, spesso fatte di strenuo impegno per dimostrare l’errore altrui. Molto può cambiare se credi che il senso di ciò che fai determina il (tuo) modo di lavorare, e se credi che il tuo modo di lavorare, che si basa sulla priorità di relazioni femminili e sull’allargamento della responsabilità, restituisce al lavoro un senso più ampio rispetto a carriera e profitto. Le femministe, e io con loro, vedrebbero qui all’opera le pratiche politiche della differenza, la relazione, il partire da sé, l’impegno nel “dare un senso libero alla differenza sessuale” (Luisa Muraro). C’è tuttavia uno scoglio che non si riesce a superare. Non si tratta del famoso tetto di cristallo, della soglia invalicabile di un potere cui le donne non avrebbero accesso. Non più, per quello che posso vedere io. Al tavolo dei dirigenti (il maschile non è un caso) sono molte le donne sedute e nel CDA non manca la componente femminile. Che ci siano donne ai livelli più alti dell’amministrazione e nelle stanze decisionali non è garanzia di un radicale cambiamento. Quello che si perde lì dove si decide è proprio “il senso libero della differenza”, essendo apparentemente inscalfibili le logiche di potere che governano quei luoghi. Per esempio: nel luogo in cui si decide chi paga l’Università – oggi che lo Stato c’è sempre meno – si decide il destino della ricerca pura e delle facoltà meno legate al mercato. Quali sono i criteri che guidano, se non il profitto? Ancora: dopo anni di stipendi bloccati, nell’Università dove lavoro le poche risorse disponibili sono state distribuite applicando una meritocrazia bislacca, che ha scontentato tutti. Mia nonna, col suo spiccato senso della giustizia (e il suo buon senso), avrebbe fatto meglio del lungo tavolo dei dirigenti. Tornando al femminismo mi domando: è un difetto di pratiche, una lacuna di pensiero là dove è in gioco il potere? Di certo c’è da parlarne e lo stiamo già facendo. Coglie bene il nocciolo della questione Giordana Masotto quando, pur condividendo i dati della presenza attiva delle donne nel mondo sottolinea che “molto meno diffusa è la consapevolezza che tutto il mondo si debba trasformare perché le donne ci siano”. In altri termini, non si tratta di garantire delle quote ma di mettere in discussione alla radice l’assetto politico e sociale del nostro presente. La mossa di vedere un femminismo diffuso è buona e può dare fiducia, può farci immaginare una politica delle donne praticabile ovunque. Non può tuttavia mettere ombra sugli scacchi e le contraddizioni vive, sul senso di impotenza e sulla rabbia che a volte sentiamo, sulla percezione che l’analisi politica sia frutto più della capitalizzazione dei risultati di una vita che di uno stretto corpo a corpo con la realtà. Come trovare il modo di rendere politica rabbia e impotenza senza finire in puro antagonismo o depressione è l’ardua prova del nostro femminismo.

Nel discorso di Lia, che mi piace perché ha dentro una bella energia, mi pare che lei opponga differenza e libertà. Non sono d’accordo: nella storia umana la differenza sessuale è sempre stata nominata ed espressa a prezzo di una diminuita libertà, pagato quasi interamente dalle donne. Perciò, dico che bisogna parlare di senso libero della differenza: non basta che la differenza si esprima, ma che si esprima liberamente. Anche quella degli uomini, non a spese delle donne.

In questa luce m’interessa il movimento delle cosiddette minoranze sessuali. Non condivido la loro politica dei diritti, ma in loro vedo un movimento che è alla ricerca del senso libero della differenza nel senso più ampio, evolutivo, della parola, cosa che il femminismo non era preparato a riconoscere.

Secondo me, si tratta di acquisire una nuova coscienza evolutiva, oltre la separazione natura e cultura che sottende tutta la modernità e la postmodernità, compresa l’ideologia di quelle minoranze, riconoscibile nel linguaggio tutto all’insegna del “genere”.

Sono d’accordo con la lettura del presente di Lia Cigarini, soprattutto quando sostiene che “l’attuale contesto di presenza pubblica femminile dia molte opportunità al nostro pensiero e alla nostra pratica politica” e che il protagonismo di donne “spinge ai margini le militanti politiche che insistono sulla discriminazione e la rivendicazione di uguaglianza con l’universo maschile”.

Per questo voglio interloquire con i nodi problematici sollevati da Giordana Masotto nella sua relazione. Giordana fa un bilancio della sua vita lavorativa che si può sintetizzare nel dire che, perché il mondo cambi, “non è sufficiente starci alla propria misura”. Dico subito che per una donna stare nel mondo con una misura propria, non è cosa da poco. È il passo grande, l’elemento dinamico imprescindibile. Finché si sta come deportate alle misure maschili, non comincia nessun cambiamento. Ma non basta – dice – e io sono d’accordo con lei. Per quanto so dalla mia esperienza di vita e di lavoro, non basta perché ci vuole un’intenzionalità politica esplicita.

Giordana ci avverte che “ci sono contiguità forti tra la nascita della soggettività delle donne e la trasformazione individualista, autoimprenditoriale, consumista che caratterizza il tempo presente”. Sempre in agguato il rischio di essere assimilate, risucchiate e che tutto si disperda nel nulla. Anche io ci penso da tempo, colpita come lei dalle discussioni fatte in libreria attorno alle analisi contenute in Femminismo e neoliberalismo (a cura di Tristana Dini e Stefania Tarantino, Natan Edizioni 2014). Per me ciò che non può essere assimilato, reso funzionale ai meccanismi neoliberisti è la coscienza: di essere donna e della propria presenza di donna nel mondo. Il passo in più è quello contenuto nelle parole della Lispector, che la stessa Giordana ci ripropone, sentendo che lì c’è qualcosa di prezioso per l’oggi: “Se progredisco nelle mie frammentarie visioni, il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa”.

È un livello di coscienza più allargato che crea un orizzonte grande in cui ciascuna donna si può collocare e che può anche ispirare l’agire contestuale: tutto il mondo della scuola dovrà trasformarsi perché io insegnante possa esservi inclusa; tutto il mondo della magistratura, come ci racconta La Giudice (Paola Di Nicola, Ghena 2012); tutto il mondo della salute se sei una paziente, come sono io, o una curante, come testimoniano per esempio le pubblicazioni di Metis. E così via.

La consapevolezza tiene aperta e viva la dismisura tra il poco che posso fare oggi e l’aspirazione grande al cambiamento. Un esempio. Noi insegnanti della differenza siamo state le prime a portare nella scuola soggettività e relazione, quando si parlava solo di programmazione e di tecnologie didattiche. A decenni di distanza tutti parlano di relazione, compare anche nelle ultime riforme, ma inserita in meccanismi perversi che la distorcono. Però è sempre possibile che un’insegnante si sottragga ai meccanismi imposti, la pratichi nella sua classe e con le sue colleghe e i suoi colleghi, la espliciti, la racconti politicamente. Questo apre e tiene aperto uno spazio di libertà non assimilabile.

Quando io, riflettendo assieme a Giannina Longobardi per scrivere La scuola sregolata, ho preso coscienza che “tutto il mondo della scuola dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa”, mi sono trovata in un ancora più grande bisogno di politica, perché nessuna a questo livello può farcela da sola. Hai necessità di altre e altri con cui condividere, hai necessità di elaborare modi di stare tra differenti, di praticare forme politiche nuove. Da questa spinta interiore è nata l’autoriforma della scuola, che è studiata anche all’estero per le novità che porta nelle forme politiche.

Io nella mia vita ho sempre lottato e mi sono esposta di persona, ma riconosco che ci sono state circostanze favorevoli, che mi hanno aiutato, penso al ’68, quando sono scappata di casa per fare la vita che volevo, oppure penso al movimento delle donne quando cercavo disperatamente una politica che mi corrispondesse. Oggi che il mondo è cambiato nel senso delle soggettività e non dei movimenti di massa (Touraine), non è da sottovalutare il fatto che un’opinione pubblica favorevole alle donne possa essere la circostanza migliore perché una donna si esponga in una presa di parola pubblica. Perché sempre più donne si espongano. È qui che vedo un vero problema: io penso che non si possa evitare di stare nel conflitto là dove si è. Ma questo è vero anche per le altre? Soprattutto per le più giovani?

Oggi le donne sono dappertutto e possiamo teoricamente pensare che ogni situazione, che sia una scuola, un ospedale, un’azienda, un condominio, un consiglio di amministrazione, un oratorio, un parlamento, un Comune, o la direzione di un giornale, sia potenzialmente un contesto in cui una donna si assuma la libertà di significare qualcosa del suo essere donna lì dove è. E possa anche cominciare a pensare insieme ad altre che quel luogo dovrà interamente trasformarsi perché lei possa esservi inclusa. Teoricamente la distinzione tra politica prima e seconda non ha più senso. Non ci sono due scene, ma una, il mondo. In pratica le cose sono più complicate. C’è una politica possibile e praticabile e c’è tanta cattiva politica aggrappata alle logiche del potere. Niente complicità, ma per me diventa ancora più interessante intrecciare relazioni con donne molto diverse e lontane. E anche con uomini.

In chiusura Giordana rievoca il momento in cui “le donne anche quando parlavano dentro le case facevano politica perché le mura crollavano, la casa non era più un luogo separato”. E si domanda: “Come riusciamo a farlo oggi? Come ci assumiamo la responsabilità di uscire dagli spazi protetti?”

Dalle sue parole sembra quasi che tra l’autocoscienza e l’oggi non ci siano state esperienze che abbiano affrontato “il problema dei nessi tra le due (politica prima e politica seconda)”. La cosa mi sorprende perché dentro di me – e credo anche in altre – quella distinzione era già caduta. A proposito di stare in istituzioni, porto l’esempio di Diotima. È una comunità filosofica che ha sede in una università pubblica, che da 30 anni tiene aperto un conflitto simbolico visibile, che ha un laboratorio di tesi di laurea in netta controtendenza con “le menti meccaniche” che pensano l’università, che fa iniziative aperte alla città di Verona, che tiene nell’università stessa seminari politici. Ricordo il loro volume Potere e politica non sono la stessa cosa (Liguori 2009). Ci sono stati anche – Via Dogana ne ha molto parlato – movimenti di amministratrici dei Comuni. Insomma c’è molto da pensare, ma non ripartiamo da zero.

Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso c’è stato un felice incontro tra il femminismo della differenza e la crescente femminilizzazione della società. I luoghi che per primi sono diventati a maggioranza femminile, come istruzione, sanità, giustizia, pubblica amministrazione, sono diventati contesti di significative pratiche di trasformazione. Non a caso io, Marina Santini e Alessio Miceli per il nostro libro abbiamo azzardato il titolo di Scuola. Sembra ieri è già domani.

Se riconsidero la mia esperienza di vita lavorativa il bilancio dice che “si può fare”. Conferma che la politica del partire da sé e della relazione può essere una politica per tutti. Per questo sostengo che oggi la sfida aperta sia: tradurre il portato del femminismo in un’esperienza personale, in un linguaggio comune, in un agire libero e pensante nel mondo comune di uomini e donne.

Premessa personale. Sento l’esigenza, probabilmente dettata dall’età, di fare il punto, del bilancio. Come molte qui, io sento di essere nata – alla vita, alla parola, alla politica – con le donne. Prendo in prestito una frase ben nota di Clarice Lispector. Nella Passione secondo G.H., nella parte iniziale, lei conclude un ragionamento dicendo: «se progredisco nelle mie frammentarie visioni, il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa.» La frase è molto famosa. Mi è venuta in mente in questo mio tentativo di ri-considerare le mie esperienze: mi sono resa conto che in fondo ho sempre sentito che, se progredivo nella mia ricerca di libertà e insieme nella mia voglia di stare nel mondo, questo avrebbe fatto la differenza.

Adesso vedo che le cose sono assai più complicate di così. In sostanza adesso direi: se vuoi che il mondo intero si trasformi perché c’è la libertà delle donne, un fatto inedito nella storia, non è sufficiente starci alla propria misura. Se io cerco di starci alla misura della mia consapevolezza, che è in divenire, non è vero che il mondo cambia. Cambia certo, e molto, ma non si mette in atto quella trasformazione profonda alla Carol Pateman, non cambia con la radicalità che io vorrei. Questo per me mette in discussione il modo in cui sto (sono stata) nei contesti. Non è sufficiente starci alla propria misura. Questo è il mio bilancio.

Perché – e questa è l’altra cosa che mi preme dire – siamo troppo sole là fuori. Anche quando le donne si mettono insieme perché sentono che ragionano e stanno meglio con altre donne vicino, anche allora siamo troppo sole. I muri non crollano, o parlano un’altra lingua e la tua voce si disperde nel nulla, o ti valorizzano ti risucchiano e ti assimilano. E io voglio dare ascolto anche a questa solitudine, ai costi. E farne tesoro.

Anche perché nel frattempo il mondo è cambiato in una direzione di individualismo spinto e di esaltazione della “libertà” dell’individuo che complicano enormemente tutta la questione. In libreria l’anno scorso c’è stata una interessante discussione quando è stato presentato il libro su femminismo e neoliberismo (Femminismo e neoliberismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà, a cura di T. Dini e S. Tarantino; discusso in libreria a marzo del 2015). Ci sono contiguità forti tra la nascita della soggettività delle donne e la trasformazione individualista, autoimprenditoriale, consumista che caratterizza il tempo presente. Non è facile affrontarle ma vanno affrontate con strumenti adeguati. È vero che sulla soggettività non accettiamo lezioni da nessuno, ma dobbiamo stare con forza al presente. Questa è la sfida che vorrei raccogliessimo.

Un’ultima nota su questo punto. Se là fuori siamo sole è anche perché siamo donne, cioè portatrici di complessità. Aspiriamo a essere la soluzione, non a porre problemi. E così possiamo perdere su due piani: si perde la differenza che è dentro di noi e non si riesce abbastanza a creare conflitto/contrattazione che sono i modi in cui le differenze entrano in confronto e creano cambiamento.

Per tutti questi motivi, teniamola buona la messa in guardia di Lispector, perché ci può tornare utile: se mi convalido mi perdo.

Le donne sono dappertutto

Sono totalmente d’accordo con la prima affermazione di Lia che dice: le donne sono dappertutto e ci sono in una dimensione di libertà inedita nella storia. Vero. L’esposizione pubblica delle donne è grande e ritengo che non sia più possibile – a differenza di altre fasi della storia, vedi donne “esercito di riserva” nel lavoro durante la guerra – un arretramento da questa posizione pubblica e di qualità che le donne hanno acquisito. È bene non dimenticare che questo determina anche un inasprimento della misoginia che emerge in svariate forme e luoghi: il record degli abusi va ai Paesi dove le donne lavorano di più e hanno più parità; e la misoginia emerge dove forse non te la aspetti, dal parlamento norvegese alla Silicon Valley; la soppressione di parola delle donne continua viva e vegeta. Lo sappiamo, ma questo non mette in discussione il dato.

Donne e femminismo

Il secondo tassello del quadro sarebbe: c’è più valorizzazione del femminismo. Io su questo non sono molto d’accordo. Penso che il femminismo venga usato in una maniera più disinvolta, questo sì: tante magari si sentono oggi più libere di dirsi femministe. Ma ci sono anche tante che lo sentono come una camicia stretta, perché quello che c’era da fare è stato fatto, le barriere sono state infrante e adesso ci si sente libere. E forse, pensano, neppure ha più senso in una società liquida (o addirittura queer come è stato osservato). Ed è vero che l’impostazione paritaria non ha più presa: chi mai oggi sente come attraente l’obiettivo di essere pari a un uomo? Le donne si sentono sufficientemente libere e forti per poter stare nel mondo da donne. Mettendoci tagli e contenuti. Oggi si può perfino intitolare un servizio di moda «Uno stile nuovo, come Virginia Woolf», segno che il riferimento a Virginia Woolf è percepito come valorizzante in un’area di consumo fondamentale come è la moda. Virginia vende trend, chi l’avrebbe detto!

Al femminismo si può dare un riconoscimento storico, quello che ha consentito alle donne di stare nel mondo alla loro misura, ma difficilmente lo si userà per qualificare il proprio agire. Perché non è diffusa la consapevolezza di quali sono i passi successivi da fare. Infatti, se tutte pensano che le donne possono essere nel mondo, molto meno diffusa è la consapevolezza che tutto il mondo si debba trasformare perché le donne ci siano. E quindi meno diffuso è il bisogno di un simbolico politico a cui fare riferimento. In conclusione, su questo punto: riconosco che c’è maggior disinvoltura nell’uso della parola femminismo ma non le darei più peso di tanto.

Differenza e libertà

È vero che la differenza è un processo, vero che la differenza è dentro di noi e la differenza è tra. È un divenire e un agire. Ma neppure libertà è una parola che si definisce in se stessa. Certamente si è affermata (con contraddizioni, non uguale dappertutto ecc.) una libertà dai ruoli consolidati dai secoli. Ma oltre a questo? Dobbiamo invece tenere conto che libertà è una delle parole più usate e consumate del nostro tempo. Per questo motivo, per esempio, la differenza sessuale, quella che ci guida con un faro nella nebbia, oggi può annegare nel grande mare della diversità. La diversity. Quella che nutre i nuovi orizzonti del marketing e dell’organizzazione del lavoro. Quella che rende erotica – non sessuata! – l’individualità e i contatti tra gli individui.

Che cosa hanno da perdere in tutto questo le donne?

Hanno da perdere un nodo fondamentale della differenza, cioè la complessità, quella che è venuta bene alla luce nelle analisi del gruppo lavoro. Infatti io credo sia in atto una grande semplificazione che taglia dei pezzi (obliterazione/neutralizzazione).

Per questo è stato molto importante che alcune donne abbiano messo un punto fermo sulla questione dell’utero in affitto. Per sostenere il quale non a caso si usa il concetto di libertà delle donne (non diversamente da quanto accade in tutte le forme di uso spietato del proprio corpo, sesso/lavoro/politica). Penso che tutta l’area che riguarda la maternità in senso ampio sia fondamentale. Abbiamo detto: tutto il lavoro necessario per vivere, portare tutto al mercato. Ma non è vero che sta andando proprio così. L’universalizzazione del welfare si sta realizzando come aggiustamento di una modalità conciliativa che continua a richiedere il massimo impegno alle donne senza adeguato riconoscimento simbolico. Quello che sta accadendo è che “tutto il lavoro necessario per vivere”, si riduce e si trasforma, perché non c’è tempo, divorato dal lavoro per il mercato: o lo fanno delle colf/badanti, o si compera cibo pronto, o si vive in una dimensione sempre meno attenta alla qualità delle vite. Oppure come in Olanda, dove il part time è il tempo delle donne (segregazione orizzontale): e questo non mi va bene perché è la qualità della vita appaltata alle donne, non la qualità della vita che mette in discussione l’organizzazione e il senso del lavoro.

In questa ottica c’è da mettere in discussione anche quello che sottolinea Rebecca Traister (All the single ladies. Il potere delle donne single, Fandango Libri 2016). Bene che le donne siano sulla scena pubblica libere dal controllo di padri mariti e fratelli. La perdita di valore del matrimonio come fonte di legittimità e senso per sé e la propria vita, è un esempio potente di cambio simbolico. Ma se sono le “scapole”, individue al massimo grado, il target più appetibile per i consumi e anche per la politica, qualche domanda è bene porsela.

Su questo nodo della perdita di complessità ho trovato un riscontro suggestivo anche in un libro di Alain Badiou (La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie 2016). Metà libro è sui giovani maschi e metà libro sulle giovani femmine. I maschi sono in stand by perché non c’è più passaggio all’età adulta. Le ragazze non sono più ragazze, perché costrette a essere subito donne secondo una modalità semplificata. Il due, dice in sostanza Badiou, non è uomini e donne, il due è dentro le donne. E conclude: la novità potrà venire solo dalle donne.

C’è ancora da pensare

Essenziale il nodo del potere, come è emerso anche nell’incontro di domenica. Per tanto tempo la formula politica prima/politica seconda sembrava cavare le castagne dal fuoco, risolvere. L’invenzione è stata eccezionale perché ha detto che la prima è politica, quindi ha riconosciuto che le soggettività in azione, in primis quella delle donne, agiscono politica. Ma non usiamo questa formula per non affrontare il problema dei nessi tra le due. Le donne anche quando parlavano dentro le case facevano politica perché le mura crollavano, la casa non era più un luogo separato.

Come riusciamo a farlo oggi? Come ci assumiamo la responsabilità di uscire dagli spazi protetti? Come si sviluppa creatività politica diretta a nuove forme di relazioni politiche (Pateman)? E soprattutto sentiamo l’esigenza di farlo?