Una «decisione storica». Impressiona che lo stesso Ministero della Salute che aveva a lungo sostenuto l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà (come la triptorelina) in centri specializzati con l’autorizzazione dello Stato ora definiscano con questa espressione – usata martedì 12 dalla ministra della Salute Mary Caulfield – la decisione esattamente opposta, cioè il bando a quegli stessi farmaci, al termine di una lunga quanto rigorosa procedura scientifica e istituzionale.

Questo dietrofront clamoroso di cui giunge notizia da Londra, amplificato da tutti i media britannici come il capolinea annunciato di una vicenda assai travagliata, è il segno di una onesta ammissione dell’errore alimentato da chi ha sponsorizzato la transizione di genere come esito pressoché inesorabile di tutte le difficoltà di costruzione della propria identità caratteristiche della pubertà e della preadolescenza. In Inghilterra (e altrove in Europa e oltreoceano) si era scelto di fare da avanguardia e di affidare l’esame dei casi come la somministrazione dei farmaci a un centro nazionale unico, sotto controllo pubblico: la Clinica Tavistock di Londra (nome completo: Tavistock and Portman Nhs Foundation Trust, dove Nhs sta per ‘Servizio sanitario nazionale’).

Un primo, determinante colpo di freno era giunto nel 2022 con la Commissione d’indagine presieduta da Hilary Cass, pediatra di fama, che aveva esaminato i sempre più numerosi casi sospetti di sbrigativa prescrizione dei farmaci bloccanti della pubertà, somministrati a giovanissimi pazienti dei quali i medici ipotizzavano una incongruenza tra sesso alla nascita e identità personale concludendo per l’arresto farmacologico dello sviluppo, in modo da poter riattribuire il sesso secondo la scelta del giovane.

Una linea di condotta che la Commissione censurò osservando che nella grande maggioranza dei casi (si parla dell’80%) è una incertezza che non persiste nell’adolescenza. Un sintomo che scompare, insomma, ma che se preso come la prova che bisogna cambiare sesso produce conseguenze devastanti e quasi sempre irreversibili, se si ricorre ai farmaci o addirittura al bisturi. Allo stop annunciato per le attività della Tavistock erano seguite le nuove linee guida che in una fase transitoria delimitavano i casi da sottoporre a terapia farmacologica alla sola ricerca scientifica. Ora la decisione definitiva del governo inglese di mettere al bando i bloccanti della pubertà perché non ci sono «prove sufficienti» della loro efficacia e sicurezza. Una pietra tombale su qualsiasi farmaco dispensabile dai medici, a maggior ragione per prodotti che hanno effetti estremamente impattanti sulla salute della persona cui vengono prescritti.

La frenata che da due anni l’Inghilterra ha impresso al trattamento della disforia di genere ha numeri impressionanti: da 5.000 casi trattati nel 2022 ai 100 attuali. Un cambiamento di rotta a 180 gradi assai eloquente, non solo sul piano clinico e scientifico ma forse soprattutto su quello culturale: si pensi al supporto mediatico e ideologico assicurato al trattamento della disforia nella direzione della riassegnazione del genere e dell’identità sessuale come costrutto culturale soggetto alla scelta di ciascuno. Oltre al piano della salute dei minori, le conseguenze sono state rilevantissime. Come sulla gestione dei casi da parte delle scuole (si pensi agli istituti che in Italia senza alcun dibattito o esame di vicende-laboratorio come quella inglese hanno adottato la “carriera alias”) e degli stessi medici di base, che spesso hanno preferito assecondare la pressione ambientale e le paure dei genitori rimandando ogni caso problematico sul piano della personalità a centri per il trattamento della disforia, medicalizzando situazioni che richiedevano forse solo ascolto, pazienza, accompagnamento, impegno educativo e – nei casi più complessi – supporto psicoterapeutico.

Ora Londra aggiunge alla decisione di chiudere a fine mese il Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (il famoso Gids), gestito dalla Tavistock, la parola fine per la prescrizione dei farmaci. Un doppio colpo che deve far riflettere e che si lascia irreversibilmente alle spalle l’idea che in campo vi siano due teorie contrapposte e in fondo equivalenti (sì o no al trattamento della disforia per via farmacologica o chirurgica), rispetto alle quali non ci sarebbe nessuna evidenza prevalente. Col risultato che i farmaci ora banditi hanno continuato a circolare indisturbati.

E in Italia? Siamo dentro questo intreccio spesso inestricabile, che rende assai difficile assumere decisioni realmente nell’interesse del minore. Che qualcosa anche da noi non andasse nella direzione giusta l’ha rivelato l’indagine aperta in gennaio sul centro attivo presso il prestigioso Ospedale Careggi di Firenze, con l’intervento dapprima del Ministero della Salute con un’ispezione e poi della magistratura per far piena luce su possibili prescrizioni non necessarie di bloccanti della pubertà. I primi risultati fanno riflettere: il team di esperti ministeriali inviati a Firenze avrebbe infatti rilevato che non in tutti i casi di disforia di genere sarebbe stato effettuato il percorso preliminare di psicoterapia necessario a stabilire se fosse davvero inevitabile il ricorso a soluzioni senza ritorno.

Un anno fa sul delicatissimo tema intervenne la Società psicoanalica italiana, che per voce del presidente Sarantis Thanopulos scrisse al governo per esprimere «grande preoccupazione» e «forti perplessità» riguardo all’uso dei bloccanti della pubertà. «La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale – fece notare la Spi – è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso», mentre «solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà». E in queste limitate situazioni? «Anche nei casi in cui la dichiarata “disforia di genere” in età prepuberale si confermi in adolescenza, l’arresto dello sviluppo non può sfociare in un corpo diverso, sotto il profilo sessuale, da quello originario. Lo sviluppo sessuale del proprio corpo anche quando contraddice un opposto orientamento interno consente un appagamento erotico che un corpo “bloccato” o manipolato non offre». Morale: «È importante avviare sulla questione dei ragazzi con problematiche di genere una rigorosa discussione scientifica». Che in Inghilterra è già arrivata a conclusione, dopo due anni di studi. Potremmo far tesoro del grande lavoro svolto in un Paese che, in un primo tempo fortemente favorevole, ora capisce di doversi fermare. Nell’interesse prioritario dei minori.


Dopo due anni di studi il governo inglese mette al bando i farmaci per fermare lo sviluppo dei minori con problemi di identità. A fine mese la chiusura del centro nazionale. Le domande per l’Italia.

Da Avvenire

… ab rebus rerum simulacra recedunt.
«…dalle cose si distaccano
I simulacri delle cose.»
Lucrezio, De Rerum Natura, libro IV


Il 10 marzo è mancata Valentina Berardinone.

Pochi giorni prima della sua morte ero passata a trovarla. Mi accoglie la gentile Erika, «ormai non si sveglia quasi più…» mi dice. Entro nella sua stanza, voglio guardarla e salutarla, dorme minuta nel suo letto come un uccellino. Poi passo nel suo studio e mi soffermo a guardare quello spazio bello e luminoso che conoscevo bene, con le grandi tele in parte appese al muro e in parte posate a terra quasi a formare delle onde grigie e blu, sulla scrivania gli ultimi fogli che aveva dipinto pur vedendoci poco. Ma il mio sguardo cade su un foglietto scritto a mano attaccato alla parete che riporta il verso di Lucrezio in latino che apre questo ricordo. Mi commuove profondamente il suo modo di dire addio al mondo e la riconosco.

De rerum natura era il libro che teneva sul comodino e costituiva un suo costante riferimento, non a caso il suo lavoro artistico era permeato del mondo classico che aveva assorbito dalla Napoli in cui era nata e a cui era legatissima.

Non voglio parlare del suo percorso artistico e intellettuale che spazia dalla ricerca visiva più avanzata ad opere artistiche di grande rigore. Altre e altri lo faranno con la competenza necessaria.

Ho conosciuto Valentina, mia grande e preziosa amica, in Libreria delle donne. Valentina era tra le artiste che avevano donato una loro opera per finanziare l’apertura della libreria nel 1975 restando sempre parte della libreria e partecipe attiva anche con numerosi e generosi contributi artistici. Ricordo in particolare, in ordine cronologico, la copertina di Sottosopra del 1976, il secondo manifesto della libreria, una bellissima opera tutta d’oro sulla parete del circolo e un grande quadro.

Ritornando agli inizi del mio incontro con Valentina, voglio ricordare il momento in cui è nata tra noi una vera e propria amicizia: è successo nella cosidetta “via Disciplini”, un piccolo studio dove si festeggiava l’uscita della rivista Non è detto realizzata da Silvia Motta, Giordana Masotto, Elena Medi e Valentina che ne curava le immagini. Nell’atmosfera generale di allegria e di festa l’ho conosciuta più da vicino e siamo diventate amiche, un’amicizia che non si è mai interrotta fino a oggi.

Con lei ho scoperto dei mondi. La napoletanità era la sua vera essenza, ma era nel contempo cosmopolita per la sua storia familiare, poteva passare con disinvoltura dall’inglese al francese al portoghese. Amava la conversazione brillante, spiritosa, e lei lo era. Così come profonda era la sua cultura nella poesia, nella musica, nell’arte senza mai essere saccente, perché faceva parte della sua stessa natura.

Ha avuto una vita lunga e ricca di riconoscimenti e soddisfazioni, ma anche attraversata da grandi dolori. Aveva tuttavia conservato in fondo alla sua anima qualche cosa d’infantile che le dava la libertà di un sorriso, di una battuta anche negli ultimi giorni di vita.


Seguono tre immagini inviate e autorizzate da Paola Mattioli.

La pratica del partire da sé nasce all’interno della politica delle donne ed è – per la sua storia – molto vicina a quella dell’autocoscienza, di cui hanno parlato qui in Libreria Linda Bertelli e Marta Equi. Nel testo Autocoscienza ancora, che leggiamo in VD3, 9 ottobre 2023, aggiungono alcune osservazioni sulla pratica del partire da sé: «Due significati: partire da sé significa esprimersi, prendere parola, in un rapporto con il mondo che non cancelli la presenza dei corpi, l’essere corpo di chi parla e di chi ascolta. Il secondo è che partire da sé significa accettazione di sé per come si è e questo esistere per quello che si è, è, per Lonzi, ancora un passo di natura politica».

Con la comunità filosofica Diotima abbiamo scritto un testo: La sapienza di partire da sé. Nel libro Luisa Muraro dice: «Nell’idea e nella pratica del partire da sé, c’è la prospettiva di uno stare al mondo nella fedeltà a sé». «La pratica del partire da sé fa ritrovare non solo la strada, ma te stessa sulla strada nel punto in cui avevi perduto la strada e te stessa». «Partire, o partire da, significhi un movimento iniziale e un trarre spunto, quasi un attingere da. Dunque la frase mette insieme lo staccarsi e il prendere inizio, il separarsi e l’originarsi». «Il partire da sé, nel suo duplice significato coincidente, è dunque un rinnovare, nel contesto biografico e storico, il movimento della venuta al mondo» (Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli 1996, pp. 13-14). Un venire al mondo caratterizzato da uno slancio di apertura a partire dal qui e ora della contingenza.

Quale efficacia ha avuto questa pratica nel mio agire? L’ho trovata essenziale e mi corrisponde profondamente. È uno scandaglio, una sonda per muovermi in modo orientato e radicato allo stesso tempo.

Un suo presupposto, per come la sperimento, è che tutte e tutti noi, quando cerchiamo di dire quel che viviamo, lo facciamo dall’interno di un quadro di riferimento, di un contesto. Di una situazione, di cui partecipiamo.

Altro presupposto: abbiamo con quel contesto una molteplicità di legami consapevoli e inconsapevoli. Legami molteplici, non scelti, con persone e cose. Con luoghi precisi. Relazioni, di cui in parte sappiamo ma che per lo più tessono il lato inconscio del corpo e hanno a che fare con la memoria involontaria.

Proprio perché siamo all’interno di un contesto di connessioni, non si può dire che siamo dei soggetti trasparenti a noi stessi – coscienza pura – che considerano un contesto oggettivo fuori di sé. Piuttosto: ne partecipiamo dall’interno. Ne facciamo parte.

Questo ha una conseguenza. Quando dico che parto da me, in realtà parto da una molteplicità di legami che fanno il tessuto di un’esperienza. Io ne sono uno snodo e allo stesso tempo sono impegnata ad esprimerla. Certo, sono io a sentire questa esperienza e a metterla in parole, ma con la consapevolezza che sto mostrando il potenziale di ciò che io vivo assieme ad altri e alle cose. Non mi metto al posto loro, non mi sostituisco, ma esprimo un contesto di cui partecipiamo assieme. Parlando di un’esperienza, sto dando voce a ciò che io assieme ad altri viviamo, che le cose attorno a me vivono, però dalla posizione che abito in questi legami. Cioè dalla prospettiva contingente e singolare che occupo. O forse sarebbe meglio dire: che sono.

Porto due esempi.

Per anni d’estate sono andata nello stesso posto in montagna. Tra la metà degli anni Ottanta e Novanta ho cominciato a percepire di anno in anno un cambiamento nel colore del cielo e nelle forme delle nuvole. Nella qualità della luce. A me sembrava evidente e ne parlavo, ma a nessuno interessava veramente. Mi ascoltavano per gentilezza, mentre io ero inquieta per quello che percepivo. Solo col tempo gli studiosi del clima hanno parlato dei cambiamenti che vedevo e ne hanno dato una interpretazione scientifica.

Il secondo esempio. Nel 2007 è passata una legge sull’università che applicava le normative europee, che volevano la governance come sistema di governo delle organizzazioni. All’inizio non è successo nulla. Poi però mi sono resa conto di un certo malessere che serpeggiava per qualcosa di indefinibile che stava cambiando. Il malessere era palpabile. Ho allora cercato i segni di questo mutamento. Segnali minuti, ma precisi. Uno ad esempio: essere obbligati a valutare ed essere valutati in modo anonimo. Senza sapere da chi si era valutati. Valutare le segretarie in modo anonimo. Essere valutati dagli studenti in modo anonimo, che sono obbligati a farlo, altrimenti non si possono iscrivere agli esami. Essere valutati nella produzione scientifica in modo anonimo. L’anonimato della valutazione rompeva di brutto le relazioni. I questionari anonimi spezzavano tutte queste relazioni creando legami non liberi e fasulli.

È chiaro che vi sto dando una lettura già politica di quell’esperienza, il cui primo delinearsi e prendere forma però è stato attorno ad un malessere mio che mi sembrava fosse per lo più condiviso. Un partire dalla mia inquietudine, sentendo che esprimeva qualcosa di vero per tanti altri.

Abbiamo allora scritto testi per dire che l’università che volevamo era quella delle relazioni e della fiducia. Abbiamo discusso di questo pubblicamente. Non abbiamo vinto, ma il fatto importante è che abbiamo mostrato per tutti lo scontro simbolico tra una università delle relazioni e quella delle valutazioni anonime, della governance.

Penso che con questi esempi sia più chiaro quel che dicevo: uno dei presupposti di come mi regolo nella pratica del partire da sé è che, se sento – a partire da me – qualcosa di dirompente e in trasformazione, non lo considero mai qualcosa di solo mio ma come qualcosa che riguarda me in relazione ad un contesto. In relazione agli altri. Alle cose. Poi la conoscenza aiuta, ma il primo passo è sempre un’intuizione, una percezione, un sentire in un’esperienza che non si è fatta ancora chiara e che pure si avverte che segnala qualcosa di essenziale.

Questa pratica, l’ho vista agire da tante donne, femministe e non femministe. Come in altre situazioni, il femminismo ha dato una lettura politica ad un agire comune delle donne. In particolare ho visto che molte donne, quando accadono cose fondamentali che le coinvolgono, attraversano spazi di silenzio, non si precipitano a dare giudizi. Entrano in un tempo sospeso, prima di trovare le parole.

Ricordo quando il governo italiano decise di partecipare con azioni militari a fianco della Nato per la guerra della ex Jugoslavia nel 1991. Era stato uno shock per tanti motivi. I giornali accusarono le donne per non essere intervenute subito sulla questione. Perché avevano aspettato prima di esprimere un giudizio. Ora quello che scrivevano i giornalisti era vero. C’era stato un silenzio intenso. Riporto questa esperienza, perché è stata la prima volta che mi sono resa conto che le donne hanno bisogno di un certo tempo di silenzio quando un’esperienza è coinvolgente e occorrono parole non scontate. Ci sono state e ci sono oggi altre guerre, ma l’esperienza di quel silenzio, che sentivo necessario in me e vedevo in altre, mi ha reso più consapevole.

Credo infatti che occorra un momento di silenzio perché l’anima vada a tastare tutti i legami che abbiamo con la realtà per trovare le parole giuste per un’esperienza. È un silenzio sensibile, in cui accade molto. È quando si avverte una situazione in tutta la sua complessità, ed è come se l’anima toccasse le corde via via dei legami che la muovono, sentisse sensibilmente le vie del mondo, per permetterci poi di dire che esperienza si sta vivendo. E questo aiuta ad arrivare ad un giudizio. Dico l’anima sensibile, ma si può anche dire il corpo nel suo lato inconscio, incrostato di legami invisibili.

Certo – in questa pratica – occorre una grande fiducia in quel che si avverte e una fedeltà a quel sentire, che a prima vista e apparentemente è solo soggettivo. Altrettanto importante è che qualcuna abbia fiducia in noi.

E poi sappiamo che non è facile trovare le parole giuste per dire l’essenziale dell’esperienza che viviamo. Siamo ben consapevoli infatti che ogni nostra esperienza è già interpretata dai media, dalle persone delle istituzioni, dai luoghi comuni della nostra società. Le prime cose che vengono in mente sono proprio le interpretazioni più consolidate, perché hanno funzionato nel passato, oppure quelle subito fornite dai media. La scommessa è dare spazio a ciò che nella nostra esperienza resiste al senso comune abituale e a risposte già formulate. Anche se questo ci obbliga a stare silenziose per un po’, a balbettare piuttosto che essere brillanti e perfette.

Rimango sempre perplessa quando, nelle discussioni politiche con donne, una riporta come proprie le opinioni già date che circolano, identificandosi con quello che è stato già detto. Mi viene da chiedere: ma tu dove sei? Rispondendo a questa domanda, si entra in un percorso simbolico che dice del mondo e contemporaneamente ci ricongiunge con noi stesse.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024.
Immagine di Giorgia Basch, BilderAtlas

Nei contesti in cui c’è familiarità con il pensiero della differenza e col suo linguaggio, viene sempre ripetuto, tanto da donne quanto da uomini, che questi ultimi sarebbero in difficoltà a partire da sé. Vorrei ragionare su tale pratica senza accontentarmi di questo discorso già sentito e dei miseri vantaggi che può assicurare in quei contesti, cioè l’approvazione che non deriva da ascolto e comprensione del discorso dell’altro, bensì dal riconoscersi in formule note. Partire da sé non è anche tentare di sottrarsi a quei feticci di identità puntellati da simili riconoscimenti?

Se l’invito ricevuto è di scrivere sul partire da sé partendo da me e se partire da sé non è raccontare di sé, ma cercare le parole per dire una difficoltà in cui si è stretti, mostrando così che è un nodo che ha un significato più ampio, politico, allora si potrebbe tentare il colpo di scena e guardare alla difficoltà di parlare a quelle che troppo ne sanno per poter ascoltare. Ci sarebbe pure l’aneddoto: la sconosciuta che mi ha dato i suoi consigli su come dovrei realizzare il partire da me perché non le risulti noioso. Ridicolo? In effetti avrei riso, se non fosse stato per questo pensiero che ha fatto capolino: un uomo che non abbia il debito di gratitudine che ho io verso le maestre del pensiero della differenza, certo a questo punto avrebbe tagliato l’angolo e lasciato la consigliera a cercarsi il suo specchio. Ad ogni modo, non sarebbe un gran colpo di scena perché Lia Cigarini, una di quelle maestre, ha già dato un nome a questa difficoltà (si veda l’articolo “Usare la mediazione maschile”, nella nuova edizione del suo libro). Soprattutto, quella difficoltà non è davvero la mia: quando un incontro mi ha suscitato il desiderio di incontrare il pensiero della differenza, mi sono messo in ascolto, di voci e scritture, per quasi vent’anni e alla fine l’interlocuzione, la fiducia e lo scambio ci sono stati.

La difficoltà su cui invece, in questo periodo, sto ragionando a partire da me e di cui ho pensato di parlare per raccogliere l’invito a ragionare qui sul partire da sé è una difficoltà che incontro sul luogo di lavoro, nel momento in cui cerco di muovermici in un modo diverso. Se fossi un sindacalista o un giornalista, questa mia difficoltà potrebbe riuscire a dirci qualcosa sui sindacati o sui mass-media, ma insegno in un’università per cui è da lì che devo partire. Si dice spesso che oggi il sapere è mercificato e l’università aziendalizzata. Dicendo così si nominano certo dei processi reali, ma è significativo che, nominandoli in questo modo, si riconosca implicitamente che l’università non è di per sé un’azienda come le altre o un’impresa interna alla logica del mercato. Per capire la difficoltà che sto cercando di esporre, questo è dunque il primo elemento: di per sé, in università ne va di qualcosa di più di un interesse privato, ne va del sapere, della sua ricerca incondizionata e della sua trasmissione alle nuove generazioni. Un po’ come in un ospedale ne va della cura incondizionata della salute, secondo quanto ci ricorda il giuramento di Ippocrate. Sono questi degli ideali e non la realtà? Esattamente, sono gli ideali a cui quelle realtà sono rimandate come alla loro misura. Un ideale può essere investito da un desiderio: non è detto che succeda e se succede le cose possono ancora andar male, ma possono anche andar peggio, ad esempio se il desiderio investe solo l’ultimo modello di smartphone. Ad ogni modo, il mio desiderio investe quegli ideali. Ma dal pensiero della differenza ho imparato che quell’investimento, per non andare a male, deve tradursi in relazioni e tanto nutrirle quanto farsene nutrire. Ecco, dunque, il primo filo del mio nodo: un luogo che convoca un ideale (il sapere), un ideale che suscita un desiderio (il mio), un desiderio che sa di poter coltivare quell’ideale solo in una rete differenziata di relazioni in cui circola fiducia. Ho scritto che la rete delle relazioni è differenziata perché ce ne sono almeno di due tipi: quelle con le e gli studenti e quelle coi colleghi e le colleghe. Il nodo di cui vorrei parlare riguarda queste seconde.

Di solito, il partire da sé ottiene necessità quando il desiderio è come ostacolato o stretto dalle cosiddette “mediazioni ricevute”, le interpretazioni e le forme di rapporto dominanti. Ebbene il desiderio che ho evocato si trova effettivamente stretto da un certo modo di abitare l’università che, è facile notarlo, non favorisce né la coltivazione del sapere (la ricerca autentica, l’insegnamento coinvolgente), né il fiorire di relazioni di fiducia (non si dimentichi però il segreto: non sono due cose separate; se non se ne favorisce una, si soffoca anche l’altra).

Dare il nome giusto a questo modo di abitare l’università, che fa ostacolo, è fondamentale. Cercando questo nome, ho innanzitutto escluso che fosse “avidità o sete di denaro”: troppi pochi soldi circolano in università perché la passione che travia il desiderio sia quella per la ricchezza. Un’altra ipotesi che può venire in mente è che a sviare, soprattutto gli uomini, sia la ricerca del sesso, ma il movimento Metoo è entrato anche all’università accelerando una trasformazione di quei costumi. La terza e più importante ipotesi è che la passione sviante sia quella per il potere in generale (il poter imporre, il poter decidere, il far fare) e, in particolare, per il potere dato dal prestigio. Per quanto di potere in palio all’università (e soprattutto nelle facoltà umanistiche) non ce ne sia poi molto e il prestigio sia calante da vari decenni, è fuori di dubbio che dinamiche di potere ce ne siano e che producano i loro effetti malefici, sia a livello dei vissuti, sia soffocando possibilità. Ho anch’io la mia buona dose di storie in proposito, ma invece di raccontarle, rimando a un’opera cinematografica che riesce a parlarne con competenza, pur col tono della commedia: si tratta della trilogia Smetto quando voglio. In rete si trova anche una mia analisi dei primi due film, ma non meno importante è il terzo che solleva l’inquietante problema di quanto di fatto si sia conniventi con quelle dinamiche, per mediocri paure o ristretti calcoli. Proprio questo problema obbliga il ragionamento a fare un passo in più e a chiedersi: dov’è che queste dinamiche di potere trovano il loro aggancio soggettivo? Interrogando la mia esperienza, mi sto insomma chiedendo perché così tante persone, uomini e donne, le assecondino o vi partecipino. La risposta è semplicemente che sono abitate da un desiderio di potere o prestigio? Ne ho incontrate alcune per cui sembra proprio così, ma le altre? Molte pensatrici e qualche pensatore, ad esempio Sant’Agostino, suggeriscono che quel desiderio sia in realtà un desiderio d’amore che non ha trovato la strada giusta. Da qualche tempo mi chiedo se la spiegazione non sia ancora diversa.

Più che un teatro in cui si scontrano solo grandi ambizioni di potere, a me sembra che gran parte della vita accademica assomigli sempre più a un’associazione a responsabilità limitata. Al posto della dedizione alla ricerca di un sapere che sia all’altezza delle sfide del presente o a un insegnamento che esige l’assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni, non stanno le drammatiche vicende di un Macbeth o di una Lady Macbeth, bensì povere routine. Ci si adatta, non senza i consueti lamenti, a richieste e modelli di cui è escluso interrogare i fondamenti o le alternative. Limitando il corso all’esposizione di un manuale, la ricerca alla scrittura di saggetti ben confezionati e il lavoro coi laureandi alla valutazione di elaborati verso cui non c’è attesa, si rinuncia a delle possibili sorprese e persino a delle possibili gioie. Mi chiedo perché succeda tutto ciò e non mi soddisfa la risposta che invoca il desiderio di potere e di carriera. La mia ipotesi è che quei modelli seducano il soggetto promettendogli i vantaggi di una responsabilità limitata. Ossia: schermando il pericolo che si corre quando si lascia la strada vecchia per raccogliere la sfida di un desiderio grande come può essere il desiderio del sapere (che si sente in sé e che si legge negli occhi di altri, ad esempio le e gli studenti). C’è chi dice che sia proprio questo il nuovo volto del potere in università: non più la dinamica tra il servo e il barone, ma i modelli impersonali dell’accreditamento e della valutazione standardizzata. Io aggiungo che nel tornaconto ci sono i vantaggi, di corto respiro, della responsabilità limitata.

Questi vantaggi, comunque, per me sono svantaggi perché mi passa la voglia di fare e finisco per deprimermi. Così, cerco passaggi verso un modo diverso di abitare questo luogo. Provo a fondare situazioni differenti. Lo scorso ottobre, ad esempio, ho organizzato un seminario, che continua ancora, in cui leggiamo Le nuvole di Aristofane, la commedia tra i cui personaggi c’è Socrate: è un seminario che non dà crediti agli studenti e che non viene retribuito ai docenti. Si basa sull’idea di una messa in comune dei saperi e delle esperienze per ragionare su quel testo: partecipano una quarantina di studenti e molti colleghi e colleghe di discipline diverse, dalla letteratura greca a quella bizantina, dalla semiotica alla storia del teatro, dalla filosofia politica alla storia greca, dalla paleografia all’antropologia culturale e alla storia della filosofia antica. Per più versi, si tratta di un contesto generativo.

Sto dunque raccontando una storia che finisce bene? Non proprio, perché c’è qualcosa che mi angustia. Potrei dire che è il terzo filo di questo nodo, insieme al desiderio grande e alle forme della responsabilità limitata. Lo descriverò così: se sono le relazioni di fiducia la risorsa attraverso cui creare un luogo per quel desiderio, entro lo spazio ingombrato da quelle forme, dove cercare la misura per quella fiducia? A me viene spontaneo cercare tale misura prendendo a modello le relazioni di amicizia: cerco, insomma, di diventare amico con quei colleghi e colleghe insieme a cui metto in piedi il tipo di situazioni generative descritte. Ma alcune brutte esperienze vissute qualche anno fa in Francia mi dicono che non è una buona soluzione. In effetti, se ci penso con un po’ di distacco, mi accorgo anch’io che, in un contesto in cui è forte la tentazione della responsabilità limitata, non è un’ottima idea proporre un coinvolgimento così intenso come l’amicizia. Ci si destina a delusioni, che però si potrebbero evitare perché dipendono da attese eccessive. Ho dunque bisogno di un’altra misura per le mie attese, ma quale?

A dire il vero, Aristotele parlava di un tipo di amicizia che si realizza proprio nella coltivazione comune di ciò che è più alto, ma non è chiaro come imparare a praticarla. E se, invece, l’amicizia e la fiducia fossero da coltivare altrove, così che da lì possano nutrire un modo di entrare nei contesti dove prevale la responsabilità limitata, capace di coinvolgimento e di creatività, ma non privo di prudenza? Rileggendo il saggio di Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, mi ha colpito in proposito questa frase: «Quello che devo saper fare sono i conti con la realtà, me compresa, e farli bene». Qui si allude alla possibilità di un conto in cui possano trovare misteriosamente posto anche quelle figure dell’incalcolabile che sono il desiderio e gli ideali (o beni comuni). Quel desiderio, grande ma intimo, che impari a riconoscere entro le relazioni di fiducia, nominarlo e giocarlo poi anche in altre relazioni, di cui accetti la differenza proprio nello stesso momento in cui resisti a che divengano a responsabilità limitata. Penso sia questa contrattazione sapiente la via difficile e stretta che mi indica Muraro.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024.

Questo incontro di Via Dogana ha come tema la scommessa del partire da sé. Il partire da sé è una pratica che è stata importantissima per il movimento delle donne, noi abbiamo scritto nell’invito «una pratica vincente». Vincente perché ha permesso di scardinare il discorso neutro-oggettivo su di noi che gli uomini ci imponevano dall’esterno. E adesso è una scommessa che vogliamo proporre a tutte e a tutti come una delle possibili vie d’uscita dalla crisi di tutti i modelli politici, che oggi stanno drammaticamente franando.

Personalmente sono ancora un’apprendista della pratica del partire da sé, perché ho fatto venticinque anni di politica neutra maschile, iniziando molto giovane, e questo mi ha inculcato tutti gli schemi dell’“oggettività”, dell’astrazione, e devo ogni volta fare uno sforzo cosciente per tornare al mio sentire, e a volte non lo riconosco, non lo “sento”. C’è un qualcosa che mi fa arrabbiare, o che risveglia la mia diffidenza, o che suscita altre reazioni, ma non riesco a individuare che cos’è, cerco di far ricorso a razionalizzazioni e non so metterlo a confronto con me stessa. Quando ci riesco però mi rendo conto della profonda differenza, mi rendo conto che viene fuori l’autenticità, la chiarezza sulla natura politica dei problemi. E diventa più chiaro anche cosa è possibile fare.

Il partire da sé naturalmente non è l’autobiografia, non è fermarsi a raccontare la propria esperienza. È, per dirlo con le parole di Luisa Muraro che abbiamo citato nell’invito1, coinvolgersi, non pensare per schemi astratti ma coinvolgersi in quello di cui si parla, sapere se ci tocca, perché e per quale motivo.


Ne parleremo con Chiara Zamboni della Comunità filosofica Diotima dell’Università di Verona, che parlerà del partire da sé e delle relazioni con il contesto in cui si parte da sé, e con Riccardo Fanciullacci, che accetta la scommessa che sia anche una pratica politica per gli uomini e che ci porta l’esperienza di un tentativo di attuarla, ma anche delle difficoltà che ha incontrato.

Anche Riccardo ha partecipato alla Comunità filosofica Diotima. Ora è docente all’Università di Bergamo; ha collaborato e scritto con Luisa Muraro e insieme a Stefania Ferrando ha curato la raccolta di scritti di Lia Cigarini La politica del desiderio.

  1. “Partire da sé, che vuol dire: rinunciare al punto di vista oggettivo esterno per coinvolgersi nella realtà in questione, e farlo distaccandosi da sé, per mettersi nel movimento della trasformazione di sé e della lingua, una cosa mediante l’altra.” ↩︎

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024


Domenica 10 marzo 2024, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Calvi 29, Milano

Il partire da sé è una pratica inventata dal movimento delle donne alla fine degli anni ’60 del ’900. Se per le donne è stata innegabilmente una politica vincente, oggi questa scommessa riguarda sia le donne che gli uomini almeno per due ordini di ragioni. È infatti una possibilità che si apre a fronte di una crisi sempre più grave delle forme della politica maschile: per comprenderlo basti pensare a quanta forza hanno avuto le parole e le azioni della sorella e del papà di Giulia Cecchettin uccisa dal suo ex fidanzato. Inoltre viviamo in un’epoca in cui i sistemi di governo entrano sempre più a normare e regolare ogni aspetto della vita e il potere non è una cosa astratta e lontana, ma lo viviamo nei nostri stessi corpi che diventano la posta in gioco: proprio dai corpi, da ciò che patiscono e da ciò che desiderano può partire il cambiamento.

Per discuterne insieme riprendiamo delle parole di Luisa Muraro: «Partire da sé, che vuol dire: rinunciare al punto di vista oggettivo esterno per coinvolgersi nella realtà in questione, e farlo distaccandosi da sé, per mettersi nel movimento della trasformazione di sé e della lingua, una cosa mediante l’altra».
Ne parliamo con Chiara Zamboni e Riccardo Fanciullacci. Introduce Silvia Baratella.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Olga Karatch è una giornalista e attivista per la pace e per i diritti civili bielorussa. Il 3 marzo, a Bolzano, ha ricevuto il Premio internazionale “Alexander Langer” per il suo lavoro contro la guerra, a favore dei diritti umani e per una svolta democratica in Bielorussia. A causa del suo impegno, il regime di Aljaksandr Lukashenko l’ha accusata di terrorismo, crimine per il quale nel suo Paese è prevista la pena di morte. Oggi vive a Vilnius, in Lituania, dove le è stato negato l’asilo politico perché considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale”.


Karatch, per quale motivo il governo del suo Paese l’ha accusata di essere una terrorista?

Durante le proteste del 2020, scoppiate dopo le elezioni presidenziali fraudolente, ho contribuito a organizzare una linea telefonica per le vittime della repressione di Lukashenko, avviando una raccolta fondi per coprire le loro spese legali. Nel 2021 il governo ha interrotto il nostro lavoro, arrestando alcuni di noi e costringendo altri alla fuga all’estero. Il Kgb ha quindi inserito il mio nome nella lista dei terroristi. Questa è la realtà dei fatti. Ufficialmente il regime mi ha accusata però di aver tentato un attacco kamikaze nei pressi di un punto di comunicazione russo su ordine di Angela Merkel.


Il suo impegno con “Our house” è iniziato nel 2005. In quali ambiti si sviluppa l’attività dell’organizzazione?

“Our house” si è dedicata inizialmente a supportare le donne, che in Bielorussia sono vittime di abusi di diversa natura. Con la campagna “252+1”, ad esempio, abbiamo fatto pressione affinché venisse consentito alle donne di accedere ad alcune professioni a loro proibite, spesso lavori meglio retribuiti o legati a stereotipi di genere. Fino a qualche tempo fa la lista comprendeva 252 professioni. Oggi, grazie alla nostra campagna, sono 186. Un focus particolare lo dedichiamo poi ai minori. “Children 328”, per esempio, mira alla liberazione dei minori incarcerati. In Bielorussia, infatti, i ragazzi dai quattordici anni in su possono essere condannati a dieci anni di carcere per il consumo di sostanze stupefacenti. Le conseguenze per la salute fisica e mentale per un giovane possono essere tremende, date le condizioni in cui versano gli istituti di pena bielorussi: non c’è la possibilità di frequentare la scuola, l’assistenza sanitaria è carente e sono frequenti violenze e torture.


Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, due anni fa, avete dato vita alla campagna “No means no”. Di che cosa si tratta?

“No means no” è una campagna per promuovere e difendere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, 43mila bielorussi hanno ricevuto la cartolina di precetto dell’esercito. Abbiamo risposto diffondendo materiale informativo per esortare gli uomini a non rispondere alla chiamata e a fuggire. Il nostro obiettivo è l’istituzione di corridoi umanitari per tutti coloro che rifiutano di combattere. Noi garantiamo assistenza legale a chi si rifugia in Lituania. Siamo convinte che l’obiezione di coscienza contribuirebbe a risolvere ogni conflitto sul Pianeta. Si potrebbero combattere le guerre senza soldati?


Quanti sono gli obiettori di coscienza nel Paese e quali conseguenze devono affrontare?

In Bielorussia, dove non esistono tribunali indipendenti, gli obiettori di coscienza vanno incontro a una condanna da sette a dieci anni di carcere. Nel 2023, fonti governative hanno dichiarato che i ricercati per non aver risposto alla chiamata alle armi erano cinquemila. Se chi decide di non arruolarsi – o diserta – fugge in Russia, rischia la deportazione. Lo stesso accade in Lituania, dove si aggiunge la sospensione di cinque anni per un visto di ingresso nei Paesi dell’Unione europea.


Dal punto di vista sociale invece quali effetti produce questa scelta?

Chi rifiuta di imbracciare le armi fa i conti con un forte stigma all’interno di una società, quella bielorussa, in cui si è riaffermato un unico modello di uomo, ossia colui che combatte. La donna, invece, ha il solo compito di ispirarlo e sostenerlo nel compimento del suo dovere. Gli obiettori di coscienza, così come i reduci che non vogliono o non possono più combattere, sono considerati cittadini di livello inferiore.


Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha paventato la possibilità di un intervento delle truppe Nato in Ucraina. Vladimir Putin ha risposto ventilando la minaccia delle armi nucleari. In Europa e non solo si assiste a una sorta di corsa alle armi. Come giudica questa escalation?

Oltre al fatto che, ovviamente, senza veri percorsi di pace l’escalation bellica continuerà con risultati potenzialmente catastrofici per l’umanità, da quello che osservo nella regione e nei Paesi limitrofi – Polonia e Paesi baltici – la militarizzazione ha effetti sulla vita quotidiana di adulti e bambini. “Our house” accende i riflettori sulla militarizzazione dei minori in atto in Bielorussia, dove, nel 2022, 18mila bambini dai sei anni in su hanno partecipato a 480 campi militari estivi sotto l’egida del ministero della Difesa. Di questi, duemila giovani sono stati poi selezionati per un vero e proprio addestramento e oggi sono in grado di sparare, guidare mezzi militari e gestire parte della logistica militare. In molti casi i bambini coinvolti provengono da famiglie marginalizzate, che vedono in questa iniziativa la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Insomma, stiamo assistendo a una escalation che agisce su più livelli e che non sembra facilmente arrestabile.


In Lituania, dove vive, le è stato negato l’asilo politico. Quanto si fa sentire la pressione del governo bielorusso anche al di fuori dai suoi confini?

Enormemente. A me è stato negato l’asilo e ora ho un permesso di soggiorno per motivi umanitari che scadrà tra un anno. Ero arrivata in Lituania, un Paese dell’Ue, con molte speranze, ma ho capito presto di essermi illusa. Anche qui siamo vittime delle operazioni di discredito da parte del regime di Lukashenko. Per essere considerati “minaccia per la sicurezza nazionale” dal Dipartimento di sicurezza nazionale lituano – come nel mio caso – basta solo un sospetto. Nel Paese poi sta prendendo piede un sentimento di avversione nei confronti di chi scappa dalla Bielorussia. Alcuni obiettori di coscienza che hanno presentato domanda di asilo sono stati rinchiusi in strutture simili a prigioni e sono sottoposti a maltrattamenti basati unicamente sulla loro pregressa esperienza militare. Il governo lituano, inoltre, cerca di limitare proprio le nostre attività in sostegno ai rifugiati bielorussi.


Quali richieste vorrebbe avanzare al Parlamento europeo, in vista delle elezioni del prossimo giugno?

Nel Parlamento europeo abbiamo bisogno di persone che lavorino per la pace e che creino spazio per la forza della società civile e dei costruttori di pace, finora esclusi da qualsiasi dibattito. Se davvero si vuole fermare la guerra bisogna puntare sulla diplomazia, creando strumenti alternativi alle armi. Il sostegno agli obiettori di coscienza, a cui finora l’Ue non ha garantito alcun supporto, può essere una misura importante.


Domenica 3 marzo le è stato consegnato il Premio internazionale “Alexander Langer” 2023, dedicato al politico ed eurodeputato altoatesino scomparso nel 1995 e assegnato ogni anno a personalità o organizzazioni che si sono distinte per la loro attività a favore della pace, dei diritti umani e civili. Quale aspetto dell’eredità di Langer la guida nel suo impegno per la pace?

«Meglio un anno di trattative che un giorno di guerra». Questa frase di Alexander Langer deve essere il nostro faro. Per quanto sia complicato e faticoso, in una società in cui le opinioni sono polarizzate e le persone non si ascoltano, dobbiamo continuare a credere nella comunicazione non violenta e nella possibilità di costruire ponti. La via per la pace passa anche dall’affermazione di questi principi.


Da altreconomia.it

Contrariamente a quanto tutti hanno detto, nella Carta francese non è stata scritta la parola “diritto”. Per fortuna. Sennò si scivola sul terreno dei diritti contrapposti (quello dell’uomo, quello del feto…) e si banalizza una esperienza trascendente.

Da un po’ di tempo spirano verso l’Europa venti minacciosi per conquiste delle donne che pensavamo solide, come la libera scelta nella procreazione. Da ovest, dagli Stati Uniti arrivano notizie di drastici passi indietro in singoli Stati e dalla Corte Suprema; da est nella Russia putiniana è in atto un ritorno massiccio a un’alleanza tra tradizionalismo religioso ortodosso e Stato che non lascia presagire niente di buono per le donne, da sud premono fondamentalismi religiosi di matrice islamica che hanno nel mirino la conservazione del dominio sulle donne.

In questo clima di incertezza e di generale disorientamento, la Francia ha pensato bene di mettere in sicurezza la libera scelta femminile, costituzionalizzandola… non si sa mai. Dico la Francia e non una maggioranza politica, visti gli schiaccianti numeri che hanno approvato, a camere riunite, la proposta. E lo ha fatto con una formula che conviene citare per esteso: “La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza”. Nel testo si parla di “libertà” e di “condizioni” in cui si esercita tale libertà, non di “diritto”. Ma in tutti i commenti parlati e scritti che ho letto o ascoltato la parola usata è stata invece “diritto”, anche qui su Huffpost.

Ora su un terreno così sensibile e aperto ai dilemmi etici e nel quale la differenza del soggetto femminile viene giuridicamente riconosciuta l’uso dei termini giusti è fondamentale. Parlare di libertà o di autodeterminazione nel caso dell’aborto è cosa ben diversa che definirlo un diritto. L’interruzione volontaria di gravidanza non è oggetto di esercizio di un diritto positivo, come può esserlo il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, ecc. No, siamo in un campo diverso in cui il soggetto neutro eguale che è alla base del diritto moderno mostra i suoi limiti.

La donna è un corpo differente da quello maschile, porta in sé la potenza procreativa che l’uomo non possiede. Equiparare questa potenza/potere – sia nel suo versante positivo, come nella scelta della maternità sia in quello negativo come nella scelta dell’aborto – a un diritto significa neutralizzare questa differenza, cancellare il fatto che, mentre il diritto divide in individui, in soggetti distinti, anche in potenziale conflitto tra loro, la potenza procreativa della donna unisce, vincola il sé all’altro. La libera scelta procreativa è nello stesso tempo affermazione di responsabilità verso l’altro. Si riconosce alla donna la libertà di interrompere la gravidanza perché è lei, in ultima istanza, la sola custode e responsabile di un’altra vita. E può, per i più vari motivi, non sentirsi di farcela. Se riportiamo questa differenza femminile allo schema del diritto soggettivo, quello dell’individuo neutro-maschile, allora risulta facile far scivolare questo ambito così peculiare nella logica dei diritti contrapposti. L’abbiamo già visto: perché non prendere in considerazione il diritto dell’uomo o il diritto del feto?

Non solo, io sono persuasa che l’aborto, che sul piano dell’esperienza individuale e interiore ha il senso di “un evento importante e trascendente” (Eva Pattis), non vada banalizzato trasformandolo in uno dei tanti diritti positivamente inteso. Il testo introdotto nella Costituzione francese non va, per fortuna, in questa direzione.


Da HuffPost

Ero andata a questo incontro con l’atteggiamento dell’osservatrice, come altre mie coetanee.

In quei due giorni tantissime donne, di tutte le età, si erano date appuntamento a Bologna, la città in cui vivo, dal nord al sud d’Italia, per organizzare uno sciopero globale l’8 marzo contro la violenza maschile. Mi interessava vederle, sapere cosa pensavano.

Ed è stata una sorpresa felice.

Sono uscita dall’assemblea generale, che presentava le sintesi dei lavori di gruppo del giorno e mattina precedenti, con una sensazione di contentezza, per la passione, l’entusiasmo e l’energia vitale che le giovani organizzatrici avevano comunicato nei loro resoconti a tutte le donne presenti, e penso anche, forse, ai diversi uomini che, con discrezione, avevano partecipato ai lavori.

Dal mio punto d’osservazione nell’aula magna dell’università, stipata fino all’inverosimile, ho avuto dei flash back di riunioni storiche del femminismo sorgivo degli anni ’70, dove la politica si comunicava attraverso un sentire, un modo anche gioioso di esserci, che si può solo vivere in presenza.

Nell’assemblea generale della domenica pomeriggio, sono stati riportati i temi discussi nei lavori di gruppo ai tavoli. Gli argomenti erano: Educare alla differenza, all’affettività e alla sessualità, e la formazione come prevenzione nei confronti della violenza; Femminismo migrante; Sessismo nei movimenti; Diritto alla salute sessuale e riproduttiva; Narrazioni della violenza attraverso i media; Piano legislativo e giuridico; Percorsi di fuoriuscita dalla violenza; Lavoro e salute.

Nei lavori di gruppo ai tavoli si parlava di pratiche e di esperienze molto concrete, avendo come filo conduttore il tema della violenza maschile come parte integrante del sistema politico patriarcale, e gli strumenti politici e culturali necessari per prevenirla e contrastarla.

Questi temi sono stati declinati nei modi più diversi, come diversissime e variegate erano le partecipanti e i loro percorsi. Erano rappresentate le varie condizioni di lavoro. C’erano molte lavoratrici, precarie e non: insegnanti, sindacaliste, migranti, attiviste sociali, ricercatrici universitarie, avvocate, pensionate, studenti … Si andava dalla riflessione sulla trasformazione di sé e la crescita personale, nel gruppo su Educazione e formazione, alle azioni di aiuto alle migranti da parte delle attiviste sociali, nel gruppo Femminismo migrante. Non ho sentito da nessuna parlare della violenza maschile in tono vittimistico: “non ve ne faremo passare una”, ha detto la giovane che riferiva sul gruppo “sessismo nei movimenti”.

Penso che le riflessioni e le dichiarazioni uscite dal convegno siano andate molto oltre la preparazione per la scadenza dello sciopero dell’8 marzo e che la necessità di reagire alla violenza contro le donne sia stata trasformata in consapevolezza politica, in energia propulsiva e desiderio di cambiamento. Ho sentito da più parti affermare con entusiasmo che un nuovo movimento internazionale trasversale sta nascendo, è partito dall’Argentina, coinvolge le donne di più di trenta nazioni come la Polonia e la Russia, e le reti di collegamento si stanno sempre più allargando.

Per me, femminista dagli anni Settanta, è stato vivificante sentire le giovani, che riportavano in assemblea con intelligenza e competenza i temi discussi in gruppo, affermare con orgoglio di essere femministe, e dichiarare il loro desiderio di mettere a frutto la ricchezza dell’elaborazione femminista che le aveva precedute. Comunicavano la consapevolezza di avere una genealogia alle spalle, ci stavano restituendo parte del nostro investimento di energie e di vita.

Voglio accogliere con fiducia la loro scommessa.

Riprendo in queste note, a mio modo, alcuni dei temi trattati nella redazione allargata di VD3 sull’immigrazione, domenica 3 febbraio 2019. Penso che il discrimine della differenza sessuale sia cruciale non solo per le donne migranti, ma per noi tutte. Le prime, come è stato detto, spesso soggette a violenza, se noi non facciamo la differenza non ci parlano, non parlano in un contesto in cui sono presenti anche gli uomini. Alcune di noi, d’altro canto, sono messe in affanno quando i migranti sono più uomini che donne.

Le migranti, in questo paese, non hanno determinato quasi alcun problema. Generalmente, grazie a relazioni tra donne anche faticose e impegnative, hanno piuttosto aiutato a risolverne molti.

I migranti se non hanno una donna che li accompagni, che li abbia voluti accanto a sé, che li abbia qui richiamati dal paese di origine ed introdotti, che insomma se ne faccia garante, possono essere un problema. Per me è così.

Si riducono i luoghi della città in cui giro sentendomi relativamente libera e serena, a causa della presenza di nutriti gruppi di uomini. Ho smesso di usare i mezzi pubblici di sera tardi, per la presenza quasi esclusiva di uomini che non mi capiscono e di cui non capisco la lingua o il cui colore della pelle rimanda a civiltà di cui non conosco i codici e nelle quali so che il posto delle donne è quello della soggezione. L’argomentazione che la maggioranza degli stupri sono commessi dagli uomini che ci sono più familiari, non basta a convincermi che non sia più che opportuno scansare quei luoghi.

Certo non rincuora, come ci raccontano le più intraprendenti di noi, fondatrici di associazioni, animatrici attive di politica, che studiosi, attivisti, affiliati a più famose e potenti “associazioni nazionali”, donne non escluse, non colgano la centralità della differenza sessuale. Gli pare efficace, per invalidarne l’importanza, notare che anche gli uomini vengono stuprati dai loro simili. Pare loro che venga enfatizzata la violenza sulle donne, se agita da immigrati. Non vedono le migranti prostituite e i loro prostitutori, ma si concentrano sui diritti delle lavoratrici del sesso. Mi chiedo se si può fare qualche cosa per dare loro la sveglia, perché vedano che quanto di intollerabile viviamo a motivo delle migrazioni è un problema di uomini, italiani e stranieri, è un problema di violenza maschile.

E mi chiedo se la nostra libertà di donne esiga di non arrenderci alle migrazioni come fatto ineludibile, di non avallare la previsione dell’irreversibilità degli attuali movimenti migratori.

Per me il bene è che questo fenomeno, per i modi e i motivi per cui si manifesta, abbia fine. Che le guerre, le carestie, le siccità indotte da interventi umani sciagurati, abbiano fine. Che i migranti possano restare sulle loro terre a custodirne integrità e fertilità, che si interrompa la forzata sconnessione degli uomini dalle donne.

Riflettendo sulle parole che comunemente vengono usate, non voglio negarmi la possibilità di dire aiutiamoli, qui da noi o a casa loro, se è di aiuto che hanno bisogno, ma voglio dire essenzialmente che a casa loro bisogna smettere di depredare e cominciare a restituire, a risarcire, e penso soprattutto all’Africa. Si tratta di riparazioni di guerra, perché di una guerra si è trattato, secolare, di ininterrotta strage, schiavitù e rapina.

Mi pare che si debba continuare a dirlo forte e chiaro e che è su questo punto che si deve trovare uno spiraglio per cominciare a intervenire. Poi molti modi civili e sensati di promozione o di risposta positiva alla domanda di immigrazione possono essere trovati, tenendo fermo il punto della differenza sessuale e mantenendo al primo posto la libertà femminile. Due esempi di cura e attenzione possibili: accoglienza prioritaria di donne migranti che vogliono sottrarsi alla violenza di padri, fratelli, mariti; informazione diffusa tra le donne italiane sulla legislazione e sulle usanze prevalenti nei rapporti fra uomini e donne nei paesi di provenienza dei migranti.

Resta il fatto che deve essere garantita una vita degna a quelle e quelli che già vivono in Italia e che degnamente dovranno essere accolti quelli che ancora arriveranno.

E non vorrei privarmi della parola accoglienza “solo” perché quella di Stato si è rivelata ennesima occasione di criminalità e violenza.

La tesi che l’abitare, la convivenza in quanto tale, sarebbe la via per volgere in accoglienza, in libera accettazione quel che spesso proprio nella vicinanza è paura, lontananza, avversione, non mi pare convincente. Certo è il punto di appoggio su cui far leva, sulla e nella convivenza si combatte la battaglia della relazione con i migranti. Se perfino l’abitare manca, siamo nella disperazione dei Cara, delle baraccopoli, dei palazzoni fatiscenti occupati, frutto di decenni di inerzia di tutte le forze politiche del paese.

Abbiamo pieno titolo ed esperienza sufficiente per discuterne, grazie alla presenza attiva nostra e delle nostre simili nella società, grazie alla “politica prima” che molte donne praticano, grazie al tanto, fatto e detto, per promuovere una degna permanenza di minori, donne e uomini migranti, là dove eravamo e siamo, nelle scuole, negli ospedali, sui tram, nelle nostre case come nelle imprese ed associazioni di donne, a garanzia del passaggio dalla prima, semplice accoglienza alla ricchezza della relazione.

Uno dei punti di svolta possibili sembra essere dato, come a Riace, da una comunità che ritrova un proprio, preciso interesse nell’accogliere i migranti. Se non è la Confindustria a convincere del bisogno che abbiamo di immigrazione, può essere, paradossalmente o forse non tanto, la parte più debole della popolazione, quella che può trarre immediato profitto da questa forza giovane, la forza che nell’invecchiamento viene a mancare, che manca alle campagne incolte, ai boschi abbandonati, a un grande e antico patrimonio edilizio altrimenti destinato al degrado. Vi è una mobilitazione possibile in questa direzione, Riace lo dimostra.

Cambiando scenario: anche negli spazi delle grandi città, mettendo al centro il “primum vivere” e non rimanendo incastrati dal ricatto del lavoro che manca, si potrebbe pensare al reciproco beneficio di scambi non convenzionali, inventando, agevolando forme di vita che permettano mescolanza e convenienza. Anche i poveri di certi degradati agglomerati urbani, potrebbero per tali vie trovare nei migranti una ricchezza.

A me pare che la maggiore presenza politica delle donne nella vita pubblica, a partire dalle città, può applicarsi al meglio a tutti i temi affrontati. Potrebbe provare inoltre a eludere la via delle burocrazie, degli stati nazionali e delle bande criminali, per creare un flusso di ricchezza da indirizzare attraverso donne e uomini migranti nei paesi di origine, perché vi tornino più forti e ritemprati o aiutino chi è rimasto a realizzare progetti, avviare imprese: per riportare ricchezza che è cosa varia, fatta di denaro, certo, ma come sempre ripetiamo, forse prima di tutto di pensiero, parole e relazioni.

Quasi tutti i mezzi d’informazione di oggi, 5 febbraio, si occupano della vicenda dello stupro della tredicenne a Catania. Alcuni si pongono il problema di cosa dicano le donne, in particolare le femministe, di questo stupro che è stato commesso da giovani maschi, alcuni minorenni, di nazionalità non italiana. Molti di coloro che si pongono questa domanda sono uomini.

A quanto mi risulta ben pochi uomini sui mezzi d’informazione si pongono, di contro, la domanda di cosa pensiamo, diciamo e facciamo noi maschi, me compreso.

Forse, in questi casi invece di guardare sempre al fuori di noi, di rendere esterno a noi il problema della violenza, in questo caso anche sessuale, e di puntare il dito accusatore verso altri uomini, meglio se stranieri, sarebbe il caso che volgessimo il dito, lo sguardo su di noi, sui nostri silenzi e sulle nostre omissioni. E tentassimo, con le parole e con le azioni, di cambiare lo stato di cose esistente, senza pensare che violenza sia sempre agita da altri, e ho non da noi stessi.

Nel mese di novembre si è consumato, davanti agli occhi di tutti – in una morbosa diretta televisiva, a cui ormai siamo purtroppo abituati – l’ennesimo femminicidio: la vittima era Giulia Cecchettin. Siamo stati tutti, per una settimana, con gli occhi incollati al telefono, alla tv, le orecchie fisse a varie stazioni radiofoniche alla ricerca di una notizia, un’informazione in più, nonostante la maggior parte degli spettatori conoscesse già quale sarebbe stato l’epilogo.

Io ho appreso la notizia durante una delle attività quotidiane più banali e indispensabili: stavo facendo la spesa al supermercato. Ricordo di aver aperto Instagram, mentre navigavo nel reparto surgelati, e aver visto sulla mia home il post di Elena Cecchettin – una tenera foto tra sorelle, un cuore in didascalia. Ricordo di essermi fermata in mezzo al corridoio, giusto un istante come per far funzionare meglio le mie sinapsi tra il rumore delle casse e il vociare degli avventori. Ricordo poi di aver pianto, una reazione spontanea e viscerale. Mi sono vergognata, un pochino, delle mie lacrime tra surgelati, verdure in scatola e patatineHo pagato la mia spesa, sempre tra lacrime sommesse, e sono rientrata a casa, triste e confusa.

La mia giornata è andata avanti alla meno peggio: non riuscivo a distogliere la mia attenzione da questa vicenda. Mi sono chiesta a lungo il perché, perché questo femminicidio era diverso – lo sentivo diverso, vicino, personale – mi sono chiesta se fosse per la tv, se fosse per l’attesa, se fosse per la contingenza con il 25 novembre, poi ho capito: era personale perché per la prima volta nella mia vita ho pensato: «Potevo essere io».

La mia vicenda personale, ormai di parecchi anni fa, è abbastanza simile a quanto ha preceduto la scomparsa di Cecchettin. Un uomo come Filippo Turetta l’ho avuto al mio fianco: una persona meschina, insicura, che traduceva questa sua inettitudine in una continua competizione con me, che apparivo agli occhi di tutti come una brillante liceale con un roseo futuro davanti. Lui, al contrario, accumulava fallimenti e delusioni accademiche durante i primi anni dell’università. Sminuirmi era dunque per lui essenza di sopravvivenza: più lui cadeva in basso, più doveva trascinarmi appresso.

Quella che all’inizio era una semplice cotta estiva in pochi mesi è diventata una di quelle che adesso chiamiamo relazioni tossiche, con tira e molla, insulti, litigi, tranelli, fino alla violenza vera e propria e alla persecuzione. Infatti, non è sempre facile chiudere le relazioni con questo tipo di persone: come bisce riescono sempre a trovare il modo di rientrare nella tua vita, magari tramite amici in comune, attenzioni non richieste o chiamate imploranti nel cuore della notte. Rientrano coi i vari cambierò, i vari non sei tu, sono io e altre bugie che raccontano come se ci credessero davvero. Non se ne vanno, mai. Non se ne vanno perché io – e come me tante altre – mi sento obbligata ad accogliere le loro turbe, a offrirmi come spalla su cui piangere lacrime di coccodrillo. Così, anche se l’unica cosa che vuoi fare è sbattergli la porta in faccia, sei lì a cercare le parole migliori per andartene senza farlo soffrire troppo. Solo che a volte queste parole non esistono e resti con la porta aperta, lui entra ed esce quando gli pare, come se quella relazione fosse solo un albergo e le cose che vorresti dirgli si accumulano sempre di più, ma le parole buone, quelle che non fanno soffrire nessuno, non le hai più, te le ha tirate tutte via a suon di insulti e quindi che fai? Stai zitta, aspetti che il tempo faccia il suo corso, che sia lui a stufarsi, che sia lui a sbattere la porta, sperando che non faccia più casino del necessario. Così, a volte si alza solo un polverone, altre volte, nell’uscire, ti lascia cadavere.

E poi la fanno facile in tv: «Dovete lasciarli al primo segno di squilibrio!». Nei rotocalchi non lo sanno che nonostante il nostro immenso dolore, nonostante ci trattino come degli stracci, che in fondo ci dispiace, sì, ci dispiace vederli tristi e sofferenti: siamo noi le donne e in quanto tali ci dobbiamo prendere cura del mondo intero, anche della parte del mondo che ci odia e ci uccide.

D’altronde, è con questo refrain che siamo state educate: se ti tira i capelli gli piaci… devi capirlo… è che lui è un maschietto e non è intelligente emotivamente e attento come te che sei una femminuccia… così devi volergli bene lo stesso, perché a lui piaci, anche se tu i capelli non li vuoi tirati.

Da Avvenire

Le donne lasciano un segno sulle guerre di Putin. Le madri dei soldati guidate da Valentina Melnikova hanno saputo mettere in crisi il potere sovietico e poi russo nelle sue diverse stagioni politiche e storiche. È accaduto sempre. Dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan all’invasione dell’Ucraina passando per le guerre in Cecenia. Anche nell’agosto del ’91, a Mosca, in prima fila alla manifestazione che celebrava la fine del golpe c’erano loro, le madri dei soldati. Simboli di disobbedienza civile, dal ventre della società, lungo i suoi undici fusi orari.

Quel che le donne hanno fatto nelle guerre in Cecenia è noto e costituisce un riferimento per chi promuove la risoluzione 1325 dell’Onu, che riconosce il ruolo delle donne nei processi di pace. Donne che hanno aiutato le madri dei figli scomparsi, prigionieri o caduti al fronte, recuperando i loro corpi o facendoli liberare grazie a relazioni radicalmente estranee alla guerra e perciò capaci di linguaggi e sensibilità per superare limiti costituiti.

Nella guerra di oggi accade altrettanto, fuori dai riflettori. Non si vedono o si finge di non vederle. Si cerca di nasconderle sotto al tappeto perché sono un problema. Disturbano chi le vorrebbe nell’esclusivo ruolo di creatrici di vite da spezzare, per soddisfare il bisogno di uomini per la guerra. Eppure loro agiscono. Fanno rumore. Nei modi e nei luoghi utili a creare ascolto e dialogo. Sono le donne che creano gruppi e associazioni come “Riporta il marito a sua moglie”, iniziata con la donna andata a cercare il marito di cui non aveva più notizie. L’ha trovato, prigioniero. Poi lei ha scelto di restare in Ucraina per fare da tramite per altre donne e riportare altri soldati a casa e, come dice lei, per fare il possibile per fermare la guerra. Qualcuno ricorderà i girotondi delle donne di Ulan Ude, capitale della Buriazia, quando Putin lanciò la mobilitazione. Protestavano mettendo in imbarazzo le forze dell’ordine, che non osarono arrestarle.

Molte di quelle donne oggi sono vedove per avere perso i mariti proprio a causa di quella mobilitazione. Non hanno mai smesso di protestare. Hanno creato un’associazione di vedove, “Donne forti”. L’organizzatrice è una donna che ha perso lei stessa il marito. Per cercare di contenerne la rabbia le autorità hanno messo a loro disposizione una sede e uno psicologo. Le donne si sono dotate di un avvocato. Come riportarono sull’account Instagram e Telegram Bajkal People, «la cosa più importante è che lì ci riuniremo e tra noi ci capiremo sicuramente». E ancora: «Gli amici siano amici, ma quando perdi una persona cara, non tutti capiscono i tuoi sentimenti e il tuo dolore. Le vedove che hanno vissuto il trauma possono capirsi di più, raccontare come ognuna di noi riesce a sopravvivere. Non esiste un’unica opzione per sopravvivere al dolore. L’esperienza può aiutare, e grazie a questa ognuna può farcela».

Parole che già allora suonavano come un avvertimento. Oggi, all’indomani dell’annuncio da parte della leader dell’associazione della volontà di candidarsi alle elezioni presidenziali chiedendo l’immediata fine della guerra, suonano come un avvertimento per Putin. Gli episodi che rappresentano il malessere verso la guerra sono tanti, come emerge pure dai sondaggi. Dal coro che sulla piazza di Ekaterinburg durante il discorso di Capodanno proiettato sul grande schermo manda al diavolo Putin, alla preoccupazione crescente per la violenza di ritorno dal fronte e per l’amnistia ai criminali in cambio del servizio al fronte, ai bambini della scuola vicina al Lago Bajkal che accolgono i volontari in divisa, giunti per sostenere i figli dei caduti, con una famosa canzone contro la guerra nota per essere eseguita da una cantante che sui social si esprime contro la guerra, alla rabbia, sempre delle donne buriate, che chiedono in incontri pubblici e in dirette tv perché un caduto buriato valga meno di uno della parte occidentale del Paese.

Sono malesseri antichi che vedono colpita questa popolazione da tempo. La storia insegna che il malessere delle donne può trasformarsi e smuovere poteri, anche quelli più forti o apparentemente tali. Donne che sfuggono di mano. Giornaliste, insegnanti, attrici, registe, poetesse, madri e vedove, tante già dietro le sbarre per il loro nonviolento “no” alla guerra, che possono diventare più di un disturbo perché toccano nervi sempre più scoperti e vanno oltre gli schieramenti, sfidando anche quelli ritenuti invalicabili.

Osservatori, think thank, progetti partecipativi e non solo… Ecco i luoghi più interessanti da conoscere sul tema del femminismo oggi: sono reali e virtuali, istituzionali oppure di frontiera, storici o nati da poco

Il femminismo oggi non è solo parità di genere. È un’economia che guarda ai divari da una prospettiva di genere, osservatori che mettono i dati al servizio delle persone, think tank intergenerazionali e reti tessute per affermare le competenze femminili o per affermare le tante nuove forme d’amore. Luoghi dove sperimentare progetti partecipativi e luoghi dove proteggere dalla violenza di genere, spazi digitali dove combattere tutti i razzismi e spazi fisici dove immaginare un’umanità “libera, allegra e consapevole”. Qui alcuni dei tanti luoghi – fisici e non, istituzionali e di frontiera, storici o sbocciati da poco – che può essere interessante conoscere per capire da vicino come evolve la galassia femminista.

L’economia di genere è qui 

Un sito di divulgazione, Ladynomics.it, che parla di economia e politica dalla prospettiva delle donne e che mira dritto ad affermare una visione di genere che trasformi il Paese. «Millenni a prenderci cura delle persone non possono essere passati invano», scrivono nel manifesto le due fondatrici, le economiste e ricercatrici Giovanna Badalassi e Federica Gentile. «È ora che questo sentire si traduca in presa di coscienza pubblica, per un’economia al servizio delle persone e non al loro comando». Da seguire se si hanno cuore da pasionaria e sguardo acceso e si cerca una lettura facilitata delle grandi questioni che coinvolgono la metà del pianeta.

La voce di tutte 

Una startup sociale dal respiro internazionale, un media civico impetuoso contro le discriminazioni di genere, un progetto partecipativo di attivismo ed elaborazione di contenuti a opera di firme prestigiose: tutto questo è Le Contemporanee (lecontemporanee.it), una voce autorevole e pragmatica che sa farsi ascoltare nei luoghi che contano, come quando le sue attiviste si sono battute perché il PNRR riconoscesse la crucialità degli asili nidi – che sono numericamente una miseria – per favorire l’occupazione femminile, modesta anch’essa. Delle donne Contemporanee piace la capacità di attraversare tutti i femminismi e connettere le generazioni.

Fuori dagli stereotipi 

Qui pulsa un femminismo intersezionale molto vitale, grazie al team di scriventi Millennial e GenZ che più vorticoso ed eterogeneo di così non si potrebbe: è bossy.it, nato quasi dieci anni fa dalla passione di una ragazza visionaria, Irene Facheris. Sorellanza, diritti LGBTQ+, erotismo, razzismi, politica e tutte le forme della violenza di genere: ogni tema è buono per accendere una storia fuori dagli stereotipi e dagli schemi. Sono banditi i maschili sovraestesi, benvenute le schwa.

Contro la violenza

D.i.Re – Donne in rete contro la violenza è la rete italiana di Centri Antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne. 106 i centri antiviolenza, 62 le case rifugio per le donne e i figli minorenni, più di 20mila le donne ascoltate in un anno. Le parole chiave: auto-aiuto, autodeterminazione, empowerment, segretezza e antidiscriminazione, gratuità.

Luoghi simbolo/Milano 

La Libreria delle donne (nella foto in alto, da Facebook), dal 1975 luogo storico di elaborazione teorica del femminismo della differenza, con sede prima in via Dogana 2 e ora in via Pietro Calvi 29, e la Casa delle Donne, altra istituzione del femminismo della seconda ondata, convivono con i luoghi abitati dalle ragazze e i ragazzi del femminismo intersezionale più di frontiera: questi ultimi si incontrano oggi al Csoa Lambretta, allo Zam e al PianoTerra del quartiere Isola. 

Luoghi simbolo/Roma 

La Casa internazionale delle donne è centro congressi, foresteria, ristorante e mette al centro l’autodeterminazione e le scelte libere sulla salute riproduttiva, il sostegno alle donne vittime di violenza, il contrasto al sessismo. TUBA è, invece, libreria, bar e bazar ed è costruita quotidianamente da un gruppo di femministe e lesbiche che, dicono, «credono in una società libera, allegra e consapevole e lottano contro le discriminazione di genere, orientamento sessuale, classe, colore della pelle, provenienza geografica». 

Più competenze, meno pregiudizi 

Per togliere ogni alibi a chi organizza panel con solo uomini o scrive articoli senza mai citare una donna esperta (“perché di donne esperte in questo campo non se ne trovano”, dice lo stereotipo) nasce 100esperte.it, che propone profili, competenze e cv di professioniste della scienza e della tecnologia, dell’economia e della finanza, della politica internazionale, della storia e della filosofia (grazie all’Osservatorio di Pavia e all’associazione Gi.U.Li.A). L’ultima sezione nata è quella dedicata alle donne esperte di sport. Perché femminismo è oggi più che mai anche lotta agli stereotipi e ai pregiudizi. 

La politica si fa con i dati 

Period è il think tank femminista intersezionale (thinktankperiod.org) che usa i dati per monitorare le azioni della politica. Da seguire gli Osservatori femministi che ha costituito sul territorio per fare il punto sull’andamento dei progetti del PNRR e valutare l’impatto che hanno sulle donne e i giovani.

Mobilitazione permanente 

Non Una Di Meno è un grande movimento femminista e transfemminista, un intreccio di reti, un flusso di assemblee e sit-in, una mobilitazione permanente contro le tante forme che assume il patriarcato. Il prossimo 25 novembre, giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lancia i cortei nazionali a Roma e Messina Transfemministǝ ingovernabili contro la violenza patriarcale.

Un concentrato di approfondimenti 

«L’economia ha bisogno di essere riletta con uno sguardo che assuma la differenza tra i sessi e denunci le disuguaglianze»: è il manifesto del documentatissimo webmagazine ingenere.it, forziere di dati, studi, analisi e approfondimenti a opera di economiste, docenti universitarie, studiose delle scienze sociali, giornaliste che tengono il punto sul panorama nazionale e internazionale. 

Più vie dedicate alle donne 

Il 40% delle vie e delle piazze del nostro Paese sono intestate a uomini, appena il 3% a donne, sostanzialmente martiri e sante. Toponomastica femminile (toponomasticafemminile.com) è un’associazione che punta a svegliare le amministrazioni affinché mettano in luce il valore delle tante donne che hanno contribuito a costruire il Paese e leggano la storia non dal solito punto di vista.

Nella foto: Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo alla Libreria delle donne di Milano, durante l’incontro dal titolo “Orientarsi con l’amore” organizzato dalla rivista Via Dogana Tre l’11 giugno 2023.

ro un’adolescente quando vivevo a Gaza vent’anni fa. Ricordo che un giorno avevo un ciclo pesante. Ero alla fermata dell’autobus al valico di Rafah, che aveva sedili di plastica bianca. Ho traboccato e ho macchiato il sedile. Una donna anziana mi ha chiamato e mi ha indicato il sangue. Sono una femminista e sono cresciuta bene con mia madre femminista. Indossavo addirittura un assorbente e avevo preso tutte le precauzioni. Eppure, ricordo quanto fu stigmatizzante per me quel momento.

Oggi, seduta a Brooklyn, negli Stati Uniti, guardando la mia città ridotta in macerie, continuo a pensare a quel giorno alla fermata dell’autobus e mi chiedo cosa stiano attraversando le donne mestruate in questo momento a Gaza, che è sotto assedio israeliano da quasi tre mesi. Posso sentire la vergogna e l’umiliazione che devono provare. Molte di queste ragazze e donne portavano con sé solo uno zaino quando se ne andavano. Cosa potrebbero portare in quello zaino? Non sorprende sentire che a Gaza la richiesta di pillole per bloccare le mestruazioni e contraccettivi è aumentata dopo questa invasione. Le donne non vogliono avere le mestruazioni perché non c’è acqua.

Mi chiamo Farah Barqawi. Attualmente sto terminando un MFA [Master of Fine Arts, cioè in belle arti, Ndt] in scrittura creativa saggistica e sono una poeta. Scrivo di Gaza, del confine, di mia madre e dell’ULFA [University of Lethbridge Faculty Association]. È tutto sconvolgente perché mia madre Zainab al Ghonaimy, settant’anni, ora è a Gaza City. Attivista femminista e difensora dei diritti umani, è stata lì fin dall’inizio, sopravvivendo all’artiglieria israeliana, alle bombe e al fosforo bianco. Ha co-fondato un rifugio per donne sopravvissute a violenza domestica e abusi. Nonostante gli immani bombardamenti è rimasta nel suo appartamento a Gaza City. Nel bel mezzo del conflitto, deve sopravvivere da sola e anche gestire il rifugio. Non so quando e se potrò rivederla.

Da queste parti, la guerra ha un impatto sulle donne a molti livelli. Naturalmente stiamo perdendo un gran numero di uomini, giovani, ragazzi e anziani, e questo è devastante. Ma in queste guerre, le donne che sopravvivono si trovano arretrate di decenni nelle condizioni di vita. Le donne devono diventare le principali fonti di sostentamento per i loro figli e dovranno prendersi cura per tutta la vita dei loro familiari maschi mutilati o invalidi. Bisogna anche ricordare che, nonostante l’enorme autonomia delle donne palestinesi, la nostra è una società alquanto conservatrice e la maggior parte delle donne non si sente a proprio agio nel cambiarsi, fare il bagno o anche fare pipì negli spazi pubblici.

Ora pensate a tutte le migliaia di donne sfollate a causa di questa guerra che attualmente trovano rifugio in appartamenti o stanze anguste che condividono con altri rifugiati, uomini e donne. E si tratta pur sempre di donne della classe media o medio-alta. I poveri vivono in tende di plastica o in baracche improvvisate. Non c’è acqua, essenziale per mantenere l’igiene genitale. Ristrette in questi spazi o rimaste orfane o sfollate a causa dei bombardamenti, molte giovani donne sono anche a rischio di abusi sessuali. Ci sono così tante donne incinte e così pochi servizi di emergenza ancora sopravvissuti.

Intenzionalmente o no, l’esercito di occupazione israeliano ha preso di mira gli ospedali. L’ospedale arabo Al Ahli, che disponeva delle migliori strutture di maternità e parto di Gaza, è stato uno dei primi a essere bombardato. Molti dei miei cugini erano nati lì. Tante donne incinte hanno avuto aborti dolorosi a Gaza a causa della mancanza di strutture per il parto e di medicinali.

Alcune delle mie compagne di scuola sfollate dalla zona di Al-Remal a Gaza sono madri giovani o di mezza età con tre-quattro figli ciascuna. Le loro case sono state completamente demolite. Mi dicono che la situazione nei rifugi di fortuna e nei campi degli sfollati è orribile. Si mettono in fila per l’acqua e per l’uso del bagno e poiché non c’è acqua potabile, molti vengono umiliati e trattati come animali e costretti a bere l’acqua non potabile del bagno.

Questo è il motivo per cui mia madre si è rifiutata di lasciare la sua casa a Gaza City. Ha detto che è vecchia e che le fanno male le ginocchia, e che preferirebbe morire a casa piuttosto che vivere una vita di umiliazione come sfollata abusiva, per sempre in fuga. Mi preoccupo per lei. Tutti mi dicono di portare via mia madre da Gaza. Ma lei è forte e la sua forza dà forza anche a me.

L’organizzazione di mia madre rappresenta e difende le donne che divorziano, vengono private dell’eredità e combattono per l’affidamento dei figli. Nei giorni normali ha un team di avvocate che lavora con lei. Per tutta la vita ha lavorato duramente per creare spazi umani in cui le donne potessero interagire tra loro e con i loro figli, in particolare le donne divorziate in causa per l’affidamento.

Tutto questo lavoro ora è stato interrotto. Il rifugio è ancora in funzione, ma è un rifugio antiaereo. Non sappiamo quando potrebbe essere bombardato.

Io stessa ho seguito un corso per formatrici della CEDAW [Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, Ndt], un’iniziativa delle Nazioni Unite in base alla quale le organizzazioni per i diritti delle donne si trovano a marzo di ogni anno e discutono di protezione delle donne. Ma qual è il punto adesso? Chi formerò? A Gaza sono stati violati tutti gli accordi per i diritti minimi indispensabili delle donne.

Di tutti i servizi che Gaza ha sviluppato nel corso degli anni, come l’assistenza sanitaria, l’emancipazione delle donne, l’istruzione e la sensibilizzazione sui diritti, il cambiamento di uomini e donne – tutte le generazioni che sono cambiate o che ci stavano lavorando – metà degli operatori e operatrici sono morte o non sono più lì. Chi penserà ai diritti adesso? Al femminismo? È un passo indietro in tutti i sensi per il movimento femminista. Eppure le donne – le femministe – di tutto il mondo stanno ancora decidendo da che parte stare. Ciò che sta accadendo a Gaza è una punizione collettiva e le donne sono quelle che la subiscono.

Mentre sto scrivendo, mia madre è a Gaza e così la sua famiglia: due delle mie zie, tutti i miei cugini e le mie cugine da parte di madre sono a Gaza, solo un paio di noi è all’estero. Non sappiamo cosa ne sarà di loro, ma finora mi è stata risparmiata la tragedia di perdere una persona cara. Per questa volta. Ma due anni fa, nella guerra di maggio a Gaza, ho perso mia cugina, suo marito e due figli. Il suo unico figlio sopravvissuto ora ha dodici anni.

Continuo a pensare a cosa deve passare oggi quel dodicenne. Quali immagini gli passano per la testa? È sopravvissuto una volta. È sopravvissuto sotto le macerie come tante persone adesso a Gaza. Le donne forti di Gaza tengono duro e continuano a combattere. Ma per quanto tempo? Rivedrò mai mia madre? Per ora non ho risposte.

(Traduzione nostra, qui l’originale)

C’è chi parla di radere al suolo la striscia di Gaza. Chi chiede di non avere nessuna pietà “per i crudeli”. Chi invoca l’uso della bomba nucleare. È l’escalation verbale che si sta verificando nel discorso pubblico in Israele, escalation che accompagna quella delle violenze e dei bombardamenti nella striscia di Gaza. Un gruppo di personaggi pubblici israeliani ha inviato una lettera per prendere posizione contro questo incitamento “esteso e palese” al genocidio e alla pulizia etnica e chiedere al procuratore generale e ai procuratori statali di intervenire per fermare la normalizzazione di un linguaggio che viola la legge israeliana e internazionale. Tra i firmatari ci sono scienziati, accademici, ex diplomatici, ex parlamentari, giornalisti e attivisti.

«Per la prima volta da quando abbiamo memoria, gli appelli espliciti a commettere crimini atroci contro milioni di civili sono diventati una parte legittima e ordinaria del discorso israeliano», scrivono. «Oggi, appelli di questo tipo sono quotidiani in Israele».

La lettera, lunga undici pagine, contiene numerosi esempi del «discorso di annientamento, espulsione e vendetta». L’elenco di israeliani che hanno incitato ai crimini di guerra include ministri del governo e membri del parlamento israeliano, ex alti ufficiali militari, accademici, personaggi famosi e influencer. Tra i commenti citati nella lettera c’è quello del parlamentare Yitzhak Kroizer, che ha dichiarato in un’intervista radiofonica: «La Striscia di Gaza dovrebbe essere rasa al suolo, e per tutti loro c’è solo una sentenza, ed è la morte».

Tally Gotliv, del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha chiesto al primo ministro di usare una bomba nucleare su Gaza come «deterrente strategico», si legge nella lettera, «prima di considerare l’inserimento di truppe di terra, arma del giorno del giudizio». Un altro deputato del Likud, Boaz Bismuth, ha evocato il massacro biblico di Amalek, nemica dell’antico Israele. «È vietato avere pietà dei crudeli, non c’è posto per alcun gesto umanitario», ha detto riferendosi a Gaza, aggiungendo poi il riferimento alla Bibbia: «La memoria di Amalek deve essere cancellata».

Non sono solo i politici a portare avanti il discorso d’odio: il giornalista Zvi Yehezkeli ha dichiarato in televisione: «Avremmo dovuto uccidere 20mila persone molte volte, [avremmo dovuto] iniziare con una botta da 100mila».

La lettera è stata presentata dall’avvocato per i diritti umani, Michael Sfard, che si è detto stupito dalla velocità con cui l’incitamento al genocidio e altri discorsi estremisti sono stati normalizzati in Israele. «Non avrei mai immaginato di dover scrivere una lettera del genere», ha dichiarato.

«Il fatto che questo tipo di discorso sia entrato nel mainstream in modo così massiccio per me è incomprensibile. Il primo pericolo è che le persone agiscano in accordo con questo tipo di discorso, e poi mi chiedo che tipo di società saremo dal momento che questo è il discorso che regola il nostro trattamento dei palestinesi. Ci sono 2,3 milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali è minorenne». Anche nella lettera si sottolinea come «il linguaggio del genocidio rischia di influenzare il modo in cui Israele conduce la guerra. Un discorso normalizzato che invoca l’annientamento, la cancellazione, la devastazione può influenzare il modo in cui i soldati si comportano».

Se, da un lato, è mancata un’azione giudiziaria anche sui casi più gravi e pericolosi di incitamento all’odio contro gli abitanti di Gaza, dall’altro si sta verificando un’intensa campagna da parte della magistratura nei confronti di chi, nei suoi discorsi, avrebbe mostrato sostegno ad Hamas, prosegue la lettera. Alla fine di novembre, erano state aperte 269 indagini e 86 incriminazioni. «È sorprendente il numero di indagini penali, quando si tratta di cittadini palestinesi che vivono in Israele», ha detto Sfard, che ha sottolineato come nella maggior parte dei casi si tratti di persone comuni che non hanno alcun seguito nel discorso pubblico. «Il divario tra questo trattamento e la libertà e l’impunità per coloro che sostengono ogni genere di cose – pulizia etnica, uccisioni di civili, bombardamenti di aree civili e persino genocidio – non quadra. Le autorità devono spiegare».

La lettera è stata inviata poco prima che il Sudafrica si rivolgesse alla Corte internazionale di giustizia per aprire una causa contro Israele, accusando il paese di genocidio. «Abbiamo inviato questa lettera la settimana scorsa, prima che il Sudafrica presentasse la sua denuncia e senza sapere che l’avrebbe fatto», ha detto Sfard. Le accuse di istigazione mosse dal Sudafrica includono il linguaggio citato nella lettera e sottolineano l’incapacità delle autorità di intraprendere un’azione giudiziaria in risposta. Adesso sarà il procuratore generale a doversi esporre e prendere posizione: «Vogliamo dare alle autorità l’opportunità di fare qualcosa», ha concluso Sfard.

«Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono?». Cosa potremmo fare? In verità, quando la virilità distruttiva è la guerra, ci dissociamo, tanto da aver dato vita a un movimento capace di grandi mobilitazioni, un movimento divenuto soggetto politico: il pacifismo.

Invece, quando la virilità distruttiva è la violenza maschile sulle donne, siamo capaci di fare poco e nulla, ad eccezione di alcune valorose piccole minoranze di volenterosi. Gli stessi uomini che si reputano «rispettosi» evitano di assumersi una responsabilità, rimangono indifferenti o, peggio, difendono il proprio sesso di appartenenza («Non tutti gli uomini…»; «Anche le donne…»), se si sentono chiamati in causa. Solo molto di recente, alcuni opinionisti della grande stampa hanno iniziato a inquadrare la violenza sulle donne come questione maschile, ottenendo perlopiù il consenso femminile. In particolare, è successo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa a novembre dal suo ex, Filippo Turetta, il quale rifiutava la separazione. Perché la maggioranza degli uomini sembra rimanere indifferente?

Viene in mente come prima risposta che femminicidi, stupri, maltrattamenti, siano ancora percepiti dalla maggioranza degli uomini solo come questione penale, per cui vale la responsabilità individuale. Casi di cronaca nera mista a cronaca rosa. Riguardanti unicamente lui, un matto squilibrato, lei, una che ha sbagliato a sceglierlo o a non mollarlo per tempo. Perciò, è una cosa buona l’irrompere del concetto di patriarcato nel dibattito pubblico sui femminicidi. Perché oppone alla lettura psicologica, individualistica, di cronaca, una lettura politica, che vede nella violenza l’espressione di un sistema di potere, sociale e culturale, a dominanza maschile. Che questo sistema di potere sia in grave crisi non è in contraddizione con l’essere così tanto evocato. La crisi di un ordine sociale e simbolico fa sì che non sia più percepito come ordine naturale, permette che sia svelato e riconosciuto nella sua parzialità, quindi che sia nominato e denunciato, nei suoi retaggi e nelle sue rigenerazioni. Bujar Fandaj, l’assassino femminicida di Vanessa Ballan, prima del delitto ha scritto su TikTok: «Mia madre mi ha cresciuto come la persona più gentile e dolce che tu abbia mai incontrato, ma se mi manchi di rispetto scoprirai perché porto il cognome di mio padre». Non somiglia a una consapevole rivendicazione patriarcale?

Il concetto di patriarcato lo ha rilanciato Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera del 19 novembre, riprendendo un antico slogan femminista, proprio per affermare l’esistenza di una responsabilità collettiva: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». La lettera ha suscitato insistite resistenze. Per settimane, i talk-show di Mediaset si sono chiesti se il patriarcato c’entra con i femminicidi. Per rispondersi sempre di no, senza però mai riuscire a liberarsi da quella domanda.

Secondo la visione delle femministe americane degli anni ’70, la violenza maschile è una funzione della società maschilista. Fa gioco a tutti gli uomini, violenti e non violenti, perché intimidisce e stressa tutte le donne a vantaggio di tutti gli uomini. Sia nelle relazioni private, sia nelle relazioni pubbliche. Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. Nelle relazioni pubbliche, spesso relazioni competitive, lei, quando vittima di violenza, deve gestire lo stress del maltrattamento, sottraendo tempo ed energia alla gestione dello stress del lavoro e della carriera, con relativo beneficio dei competitori maschili. Allora, può essere che la maggioranza maschile intuisca che, in fondo, la violenza sulle donne, più che una deviazione, sia una misura d’ordine favorevole agli uomini. Che, peraltro, se uomini buoni, permette loro di proporsi come protettori, tutori, controllori. O di ottenere un premio di fiducia per il solo fatto di non nuocere.

D’altra parte, noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? C’è chi ha proposto un #metoo alla rovescia. Se tante donne, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza, altrettanti uomini, almeno una volta nella vita, hanno inflitto violenza. Per parte mia, credo di aver reagito in modo abbastanza corretto ai rifiuti, perché in genere corrispondenti alle mie aspettative. Non posso sempre dire altrettanto della gestione delle relazioni e, in particolare, degli abbandoni, perché questi contrastavano con le mie aspettative. Specie, in un paio di situazioni, tipo quelle descritte da Dora Casadio, nelle quali durante l’amicizia tra un uomo e una donna, è l’uomo a innamorarsi della donna, perché lui scambia per reciprocità la disposizione di lei allo scambio intimo; per lui è un fatto eccezionale, mentre per lei è naturale. Perciò, ad alcune mie amiche, compagne, ho inflitto scene di gelosia quando mi sembrava fossero troppo amiche di altri uomini, o conversazioni coercitive, con toni insultanti, sarcastici, sminuenti, quando mi pareva che le loro opinioni divergessero dalle mie e, peggio, convergessero con quelle dei miei avversari. Così come ho vincolato più del tollerabile donne che non volevano avere più a che fare con me. Nulla di estremo, ma comportamenti conformi con lo schema di pensiero del potenziale femminicida.

Mi era oscura la mia interiorità? Non sapevo gestire le mie emozioni? Ero incapace di elaborare i miei sentimenti? Può darsi. Così mi presentavo quando era il momento di scusarmi. Una persona confusa che genera confusione nell’altra persona. Il dottor Jekyll che non sa spiegarsi il mister Hyde. Una forma di inganno e autoinganno. Perché, quando (forse) non sai gestire le tue emozioni negative, gelosia, rabbia, delusione, senso di abbandono, una cosa la scopri subito e impari a gestirla presto. L’espressione delle emozioni negative ha un potere manipolatorio. Lei, finché non arriva al punto di rottura, si mette sulla difensiva, si scervella per capirti, e accetta limitazioni. Questo, in una relazione nella quale ti senti inadeguato rispetto al dovuto, ti dà una sensazione dopante di potere a cui preferisci non rinunciare, fino a sondare il limite cui puoi arrivare.

Per un uomo, dissociarsi dalla violenza maschile può avere un effetto proiettivo, che gli permette di chiamarsi fuori nel breve termine. Ma, se la dissociazione è seria, riflessiva, duratura, l’effetto ti trasforma anche se non persegui l’obiettivo della trasformazione. Perché è difficile sfuggire di continuo al riconoscere parti di sé negli uomini che dici di voler isolare. Questo effetto specchio, con relativo senso di colpa, può essere l’ostacolo interiore alla dissociazione dalla violenza. Come il vantaggio sociale che deriva agli uomini dalla violenza è l’ostacolo esteriore.



Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, ho cominciato a curiosare nel diario di Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Cercavo, nelle pagine di questa donna che ha iniziato il femminismo italiano scrivendo un libro formidabile – Sputiamo su Hegel – un riferimento al massacro del Circeo, il più tremendo dei femminicidi del suo tempo. Protagonisti tre ragazzi della borghesia romana. Rapirono due adolescenti, le picchiarono e le violentarono per 36 ore e poi le uccisero (anzi credettero di averle uccise entrambe, invece una si salvò). Ancora oggi si parla di quel delitto. Ma all’epoca la discussione fu enorme. Chissà cosa ne aveva pensato, mi chiedevo, Lonzi. Pubblicamente, è noto, niente. Ma sono stato sorpreso di scoprire che nemmeno nelle pagine del suo diario ne fa cenno. Sorpresa moltiplicata dal fatto che, mentre sfoglio, deluso, le pagine di quell’autunno del 1975, mi accorgo che un altro episodio di cronaca irrompe nel diario e lo occupa per giorni. L’assassinio di Pier Paolo Pasolini.

Scrive: “Adesso che sei stato ucciso fratello mio, anima mia, ti piango”. Sono le prime parole che le vengono in mente appena appresa la notizia al telegiornale delle 13.30 che lo scrittore era morto nella notte tra l’1 e il 2 novembre. I sostantivi che usa sono eclatanti. “Fratello”, lo chiama: una donna che aveva scritto nel luglio del 1970 il manifesto di Rivolta femminile, la cui ultima frase, gelidamente, recitava: “Comunichiamo solo con donne”. Un riconoscimento mai concesso a nessun altro. E poi, “anima mia”: detto da una lettrice di Carl Gustar Jung, secondo cui “l’anima” è la componente femminile della psiche di ogni uomo. È un rispecchiamento piuttosto significativo: la più importante delle critiche del patriarcato che si identifica con un maschio. Ancora più rilevante se si considera che Pasolini, in gran parte, aveva ignorato il femminismo, e anzi si era convinto che la componente femminile della rivolta degli anni Settanta fosse l’elemento più negativo della rivolta stessa. E che inoltre aveva fantasticato – in una delle sue tarde poesie, La Couvade – il parto maschile. Un mondo che si rigenera senza donne. Fatto solo di maschi. 
Teoricamente, avrebbe dovuto sputargli in un occhio. Almeno quanto a Hegel. Invece si sente sua sorella. Lo percepisce come parte di sé (“anima mia”). Ma perché? Da dove viene questa attrazione? È noto che il 21 gennaio del 1975 spedisce a Pasolini una lettera. Lui aveva scritto un articolo che il Corriere della Sera sintetizza con questo titolo: Sono contro l’aborto. Ma Pasolini aveva parlato anche, e soprattutto, di ciò che viene prima: cioè, il coito. Da omosessuale temeva che l’aborto avrebbe sacralizzato la sessualità della maggioranza, la cosiddetta normalità, escludendo tutto ciò che “è sessualmente diverso”. Com’era lui, per esempio: omosessuale. Su questo Lonzi è d’accordo. La legalizzazione dell’aborto, pensa, avrebbe lasciato intatto il rapporto sessuale basato sul piacere maschile. Lei stessa aveva abortito due volte: in entrambi i casi, nel rapporto sessuale non aveva raggiunto l’orgasmo. Perciò, interpreta la legalizzazione come “una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere”. E a Pasolini dice: “Il tuo articolo l’ho letto con partecipazione, come se senti la voce di un fratello, e con l’amarezza di constatare che il fratello continua a arrivare prima della sorella a farsi ascoltare. Non ti dico questo per vittimismo ma perché non voglio lasciare incompleto il gesto di fiducia che faccio a mandarti questa lettera”. 
Da tempo Lonzi desiderava instaurare un rapporto con Pasolini. Un desiderio talmente profondo che affiora anche nei sogni, e ben due volte, prima che si decida a spedire quella lettera. Il primo sogno lo annota nel diario il 29 dicembre del 1974. “Sono con Pasolini, so che è omosessuale, mi appare timido. Ma io trovo degli argomenti che lo sciolgono a poco a poco”. Lei nel sogno appare cosi: “Faccio la calza e sono molto calma”. E certo bisogna esercitare la fantasia al massimo per immaginarsi Lonzi placida, con i ferretti in mano. “A un certo punto mi aiuta a passare un gomitolo tra dei fili di lana, cosa che mi sembra un gesto d’intesa fra me e lui. Dopo di che diventa addirittura euforico, parla e parla”. Poi, prima del risveglio, la sensazione finale: “Provo un estremo bisogno di conquistarlo e sono certa di riuscirci”. Il secondo sogno è del 11 gennaio del 1975, dieci giorni prima della lettera. “Pasolini su una povera strada di campagna”. Lei continua a percepire la difficoltà di entrare in contatto con lui. “Intuisco di dover condurre gli approcci in modo molto delicato”. Pian piano però si apre un varco. “Ogni tanto dico qualcosa che lo colpisce, faccio centro”. Finché Pasolini diventa “sempre più allegro, più loquace”. E il gioco è fatto. “Non vedo l’ora di dire a Lucia della mia amicizia con Pasolini”.

Il giorno dopo l’invio della lettera, Lonzi si libera di colpo di ogni dilemma su cui si era arrovellata in precedenza: scrivergli, non scrivergli, cosa penserà, risulterò “ingenua”, oppure “machiavellica”. “E una gran sensazione”, essersi lasciata i dubbi alle spalle. Pensa al rapporto fratello-sorella, a San Francesco e Santa Chiara. È convinta: “Un incontro si prepara”. Ma mentre passano i giorni, e lui non risponde, è assalita dall’incertezza: “Cosa può avere capito da quella lettera?”. Ma subito la respinge. “Per me è, in assoluto, la cosa più importante. Non posso non essere attratta, non cercare un contatto con chi mi si mostri in quella veste”. La delusione si abbatte su di lei il 30 gennaio. Pasolini risponde sul Corriere della Sera. Ma non a lei. Bensì ad Alberto Moravia. Il “patriarca” delle lettere italiane. Confessa che vorrebbe dargli del “fascista”. Respinge, sdegnato, l’accusa di essere un “cattolico”. M agli dice anche che, in parte, sono “affratellati”. 
La stessa vicinanza offerta a lui da Lonzi. Che ne deduce: “Non dà spazio per me e per quelle come me”. Se “il migliore di loro, non capisce, non vede, non è toccato”. Ne ricava una regola generale: “Viene dato spazio alla donna quando è già portavoce di un’esigenza in comune con l’uomo”. E descrivendo una dinamica che considera tipica: la donna promuove la battaglia, come quella sull’aborto, “ma poi, al momento opportuno, come sempre, l’uomo la impugna, la gestisce, la con-trolla”.

Pasolini non risponderà mai alla lettera di Lonzi. In tutto il suo corpus letterario, composto da dieci volumi di meridiani Mondadori, più un grande tomo di lettere, non c’è un riferimento a Lonzi. Per Pasolini, Lonzi, semplicemente, non esiste. Non è mai esistita. Lei, invece, continuerà a sentirsi ferita ogni volta che lo legge, a ridimensionarlo, ad accusarlo di sentirsi al centro delle ingiustizie del mondo, mentre, per cecità calpesta chi sta più in basso di lui, come le donne, come lei. Si convince che lui sia in cerca del riconoscimento dei fratelli, e che le sorelle non lo interessino, La disillusione giunge al culmine 18 ottobre, quando scrive: “Cosa ho da spartire con Pasolini?”. È una domanda a cui vorrebbe rispondere: “Nulla”. Ma sa che non è così. Tornando un po’ indietro nel tempo, nelle pagine del diario, si trova un’altra lettera a Pasolini. Ancora più lunga. Ma pochissimo nota. È dell’agosto del 1974. E non risulta essere stata mai spedita. 
Dopo aver visto il suo film, Il fiore della mille e una notte, Lonzi gli scrive che la sua mitizzazione del sottoproletariato è destinata a fallire. La comprende benissimo, sia chiaro: l’ha vissuta anche lei. L’ha cercata “nei santi, negli artisti, nei poeti, nei popoli primitivi, infine nelle donne”. Ma ha capito che non funziona: è solo nostalgia di un paradiso terrestre. E il paradiso è irrimediabilmente perso. C’è poco da fare. “Adesso che conosco il mio diritto all’infelicità e perciò alla coscienza”, gli scrive, “ho finalmente imboccato la strada della felicità”. Colpisce, in questa lettera, il fatto che Lonzi anticipi un fallimento che nella vita di Pasolini avrà conseguenze catastrofiche: il crollo del mito dei sottoproletari, che gli aprirà le porte di una disperazione feroce. Ma non è solo questo, ci sono altri due elementi notevoli. Il primo è che in pochi ebbero la lucidità di avvertirlo in diretta. Mentre tutto ciò avveniva. Il secondo è che dei pochi che glielo fecero notare (per esempio, Franco Fortini) nessuno si era posto, come Lonzi, al suo stesso livello: senza guardarlo dall’alto in basso, trincerato nella sicurezza ideologica, dicendogli piuttosto: “Guarda che anche io ho provato la stessa cosa”. È una delle testimonianze delle qualità intellettuali di Carla Lonzi (disgraziatamente ancora non accolta nell’esclusivo mondo dei pensatori italiani del Novecento).

Ed è anche una testimonianza del suo metodo. Che parte innanzitutto da sé. E dice: ti critico, sì. Ma mettendo in gioco anche me stessa. Non puntando il dito. Non in astratto. Non solo in teoria.

Quando Pasolini viene ucciso, alcune femministe prendono le parti del ragazzo che lo aveva assassinato. Si mettono nei panni del borgataro che aveva dovuto offrirsi sessualmente al maschio con più potere di lui e pensano: in fondo se l’è meritato, quella del ragazzo è una ribellione comprensibile. Carla Lonzi si arrabbia. “Donne del Padre”, scrive, “mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie”. Osserva che nessuna di loro conosceva il ragazzo che lo aveva assassinato. Ignoravano perché lo avesse fatto. Cos’era scattato in lui.

Si schieravano, cioè, in maniera dottrinaria. 
Come Moravia: che non garantiva di “sentire” in termini femministi, ma garantiva di “pensare” in termini femministi. Proprio ciò su cui lei sputava: l’astrattezza teorica, anziché il vissuto. In questo, la voce di Pasolini era diversa, e lei l’aveva sentita come quella di un fratello. Perché “ci aveva parlato di sé”, scrive, per questo “possiamo avere delle relazioni personali”. 
Mi spiega Annarosa Buttarelli, tra le maggiori studiose di Lonzi, filosofia e curatrice della riedizione delle opere lonziane per La Tartaruga della Nave di Teseo, che questo punto è centrale per comprendere cosa sia, nell’universo lonziano, la battaglia contro il patriarcato. “Significa anche disobbedire alle regole imposte da un ruolo, agli imperativi sociali, alle parole dette da altri. Per trovare, invece, la propria lingua. Parlarla. Dire, appunto, di sé”. Ho chiuso il diario di Carla Lonzi mentre era diventato impossibile non discutere della morte di Giulia Cecchettin con gli amici a cena, con la propria compagna, con le colleghe al lavoro, con gli sconosciuti in metro. La novità è che parecchi uomini hanno parlato di una responsabilità della cultura maschile. Mentre altri l’hanno respinta, credendo che la colpa sia solo e soltanto di quel ragazzo che ha ucciso Giulia, Filippo Tu-retta. Personalmente mi sento più vicino ai primi che ai secondi. Ma ho imparato un criterio che distingue i maschi che ne parlano veramente dai maschi che ne parlano retoricamente. Questi ultimi tendenzialmente prendono la parola a nome della categoria: “Noi uomini”, eccetera. Gli altri invece raccontano cosa sin la cultura maschile nella loro vita – come la esercitano, come ne sono ricattati – usando la prima persona singolare. Il sé, avrebbe detto Carla Lonzi. 

Le relazioni introduttive all’ultima redazione allargata di Via Dogana 3 coltivano qualche speranza che l’omicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex-fidanzato segni una svolta nel comportamento di molti uomini. Contano che lo scambio con le donne, come è già stato per alcuni, si approfondisca e diventi per i più elemento di ispirazione per un radicale ripensamento dei comportamenti maschili violenti. Tento anch’io di dare un contributo in questa direzione.

Mi ha molto colpita che l’assassino, Filippo Turetta, abbia sofferto particolarmente del fatto che la ragazza si sarebbe laureata prima di lui. Il traguardo raggiunto avrebbe potuto portarla lontano e sancire la separazione sentimentale che da mesi Giulia perseguiva.

Dunque, un giovane uomo, di fronte al rifiuto di una donna e all’ipotesi di un allontanamento che la sottrarrebbe definitivamente a lui, alimenta possessività e frustrazione al punto da arrivare all’estremo crimine. Ma se agli inizi del loro rapporto avesse provato ammirazione e gioia nello stare vicino a una giovane brillante più di lui negli studi, se si fosse detto, magari con ingenua beatitudine giovanile, «Ha scelto proprio me!», sarebbe per questo cambiato l’epilogo della loro storia affettiva? Non lo sappiamo, ma lui avrebbe posto le basi per accettare forse con sofferenza, ma certo anche con rispetto il rifiuto di lei.

Viene ripetuto giustamente che i cosiddetti femminicidi sono determinati dall’impossibilità per alcuni uomini di accettare la libertà che le donne agiscono. E moltissimi, sempre di più, diventano consapevoli che la violenza estrema è la spia di un disagio vissuto forse da tutti gli uomini per una manchevole elaborazione del mutato rapporto tra i sessi.

Noto che tra le conseguenze più evidenti della libertà delle donne vi è certamente il loro eccellere negli studi e sempre più spesso nelle professioni.

Mi concentro su questo unico aspetto della realtà per chiedermi se, tra le cause dell’infelice rapporto che gli uomini intrattengono con le donne, non sia centrale proprio il modo in cui vivono e (non) elaborano l’eccellenza femminile.

Le donne hanno dato ampia testimonianza dei sentimenti e dei comportamenti che le hanno legate a uomini eminenti e geniali, ne sono piene la storia dell’arte, della letteratura, delle scienze. Sono diventate allieve riconoscenti, collaboratrici fattive ed orgogliose, purtroppo anche spesso misconosciute dagli stessi uomini che hanno goduto del loro appoggio, ma qui conta solo la testimonianza dell’elaborazione vitale che le donne hanno dato della grandezza di un uomo.

E gli uomini? Certo non manca qualche esempio di riconoscimento da parte di alcuni, ma sembra non bastare.

Come i più attenti sanno, anche per le donne è stato difficile sia elaborare il modo di rapportarsi alla grandezza di un’altra, sia accettare che comunque l’altra mantiene integra la libertà di sottrarsi alla relazione. L’impegno politico e il lavoro del pensiero femminile hanno trovato parole per dire che vi è da guadagnare coltivando sentimenti di ammirazione e di riconoscimento per l’intelligenza e le capacità di una propria simile, superando così invidia e indifferenza. Ma anche per affermare che è possibile accettarne il diniego, per via della felicità che viene dal mettersi in gioco con la forza del proprio desiderio, qualunque sia l’esito della contrattazione. “Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio” di Luisa Muraro è uno dei testi fondamentali che ha mostrato come stare proficuamente al mondo, misurandosi con il desiderio dell’altra o dell’altro, che può corrispondere o non corrispondere.

E gli uomini? Possono approfittare anche loro di questo percorso esemplare? Imparando a riconoscere, per esempio, i guadagni possibili nella loro vita grazie all’accettazione piena dell’eccellenza delle donne? E così imparando anche a rispettarne le scelte?

Si potrebbe cominciare con la constatazione che quando lei si muove libera è molto probabile che eccella, perché millenni di ricerca dei modi per sopravvivere all’oppressione o di uscirne addirittura vincenti, da parte delle sue simili, sono per lei un pozzo senza fondo di conoscenza, di connessione profonda con la realtà, che la proiettano su un piano di maggiore intelligenza del mondo e alimentano il desiderio, la forza e il coraggio necessari per cambiarlo.

Il disconoscimento delle grandi e diffuse capacità femminili rischia di rendere la maggior parte degli uomini cieca e sorda nei riguardi di metà del genere umano.

Come insegnare, dunque, a un giovane uomo la felicità di trovarsi vicino alla grandezza di una donna?

Infatti proprio della sua felicità si tratta, sempre che lui non si accontenti dei piaceri promessi dal potere e dalla sopraffazione.

Leggendo i numerosi articoli riguardanti la recente morte di Toni Negri, mi è tornato alla memoria un breve saggio che Ida Dominijanni, in un post apparso su Facebook, ha definito «quel piccolo capolavoro che è La differenza italiana (nottetempo, 2005) dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale».

Non ho frequentato i testi del teorico dell’operaismo, ma mi sembra che per ricordare la sua attività filosofica questo breve saggio abbia un’importanza legata anche al giudizio che in quella sede ha dedicato al pensiero della differenza sessuale.

Secondo Negri la filosofia è l’analisi critica che consente di comprendere l’epoca in cui si vive, di orientarsi in essa, di contribuire alla costruzione di un destino condiviso e di testimoniarne la realtà con questo obiettivo: a questa definizione segue il giudizio che di filosofia, dopo Gentile e in parte Croce, nel XX secolo non ve ne sia stata (almeno in Italia).

Questo netto giudizio ha tre importanti eccezioni: Gramsci che ha «reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune», Mario Tronti, e «quasi nascosto eppure profondissimamente agente […] il pensiero femminista della differenza sviluppato da Luisa Muraro».

Il pensiero filosofico può emergere solamente quando ci si sofferma sul tema biopolitico della riproduzione e quando si creano, in questo ambito, soggettività nuove come dallo scontro operaio contro il lavoro salariato e «nell’insorgere femminile contro il dominio patriarcale».

Negri ritiene che il pensiero delle due eccezioni che individua nella seconda metà del ’900 abbiano in comune sia la «lotta contro la dialettica» (in particolare quella hegeliana, citando Carla Lonzi), cioè contro il processo dialettico che nega, supera un momento, una categoria e, al tempo stesso, lo eleva e conserva, sia «l’imponente fenomenologia della differenza che interpretano».

In entrambe, l’azione sovversiva nei confronti della condizione umana attuale si orienta verso l’adesione, in prima istanza, al separatismo: della classe operaia per Tronti e delle «donne in rivolta contro le istituzioni borghesi del dominio patriarcale: così si organizza polemica la prima presa di coscienza femminile della differenza».

La pratica di distacco, enfatizzando le differenze, condurrà a una fase successiva più profonda: un cambiamento ontologico che coinvolge entrambe queste posizioni. Si tratta di una separazione creativa che «spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione […]. In Italia in brevissimo tempo si dà il passaggio dall’affermazione separatista della differenza a un’affermazione costituente della medesima. […] qui non c’era più semplicemente teoria, ma pratica trasformatrice».

I movimenti delle donne vanno oltre la mera critica dell’esistente e lo sostituiscono con l’idea di metamorfosi, modificazione e trasformazione che riguardano sia il piano individuale che collettivo.

Per Negri «la differenza è resistenza […] una resistenza che rompe l’orizzonte del dominio [in questo caso patriarcale] non dai margini ma dal centro, meglio, ricostruendo un centro, un punto su cui far leva per trasformare la realtà, là, davvero nel cuore del sistema».

Un riconoscimento teorico e politico del pensiero della differenza sessuale, un pensiero che modifica l’orizzonte filosofico ed è «reale produzione del legame sociale».

Senza, infine, dimenticare una sua produzione di discendenze «che operano su più grandi scene [… e che escono] dai seminari e dai laboratori» e che sono attive nei movimenti e nella società: la differenza sessuale «ha finito di essere separazione, è diventata creativa e comincia a produrre avvenire».