Da L’Unità

[…] «Il coraggio di alzare bandiera bianca». Le parole del papa ci costringono a una riflessione che va oltre la resistenza ucraina, rispetto alla quale continuo ad avere alcuni dubbi (Putin interpreterebbe qualsiasi cessate il fuoco come conferma che solo l’uso della violenza paga). In che senso? Associare il coraggio, e dunque cose molto “virili” come l’onore, la dignità, l’eroismo, etc. al pacifismo e alla non-violenza, a me pare un gesto eversivo. Sono però convinto che questo gesto, apparentemente “scandaloso”, possa essere compreso soltanto dalle donne. Credo di non fare un outing personale così clamoroso se confesso che nei film di guerra, anche quelli risolutamente contro la guerra, un po’ mi eccito sempre quando sullo schermo ci sono azioni guerresche, operazioni di commando, assalti, bombardamenti spettacolari. Il mio immaginario è assai meno evoluto dei miei principi morali. Mentre mia moglie di fronte alle stesse scene si annoia e non nasconde una estraneità totale, di tipo antropologico. Si obietterà: ma la grande tradizione epica consiste proprio nella esaltazione di imprese eroiche, di guerre e avventure, dai poemi eroici ai western di John Ford. Eppure ci volevano due donne a rileggere genialmente l’Iliade e a vedere in esso non tanto e solo il poema della forza ma un’opera che assume la forza stessa come illusione, e non come verità ultima della condizione umana. Simone Weil e Rachel Bespaloff, ebree in esilio, nei primi anni ’40 si sono rivolte all’Iliade per capire la tragedia del presente (segnato dalla guerra), scrivendo due saggi gemelli – e certamente audaci – pur non conoscendosi e non incontrandosi mai!

Non si riflette mai abbastanza su come nel corso del ’900 solo il pensiero femminile ha saputo indicare una via d’uscita dalla crisi, dalla spirale autodistruttiva della nostra stessa civiltà.

Provo qui a indicare due saggi apparsi su rivista a distanza di venticinque anni che insistono giustamente su questo aspetto. Nell’estate del 1997 Giancarlo Gaeta, curatore e traduttore dell’opera di Simone Weil per Adelphi, scrisse un saggio – La libertà di pensare le cose come sono – (“Lo straniero”), che così cominciava: «Virginia Woolf, Simone Weil, Etty Hillesum. Provo a ragionare intorno a queste tre figure di scrittrici del Novecento tra un gruppo assai più vasto, la cui frequentazione è stata importante per la mia vita intellettuale e spirituale. Tra queste Marina Cvetaeva e Karen Blixen, innanzitutto, e poi altre che si sono espresse nei decenni successivi alla guerra, come Elsa Morante, Hannah Arendt, Anna Maria Ortese […] una generazione più giovane di pensatrici e di scrittrici, quella formatasi nel cuore drammatico del secolo, non aveva esitato a spingere lo sguardo fino al fondo dell’abisso, cercando risposte nuove alla crisi […] A me sembra che nell’insieme la risposta più alta alla crisi della civiltà occidentale sia venuta lungo l’arco di questo secolo da alcune donne». E aggiunge: «Non solo hanno saputo cogliere e interpretare perfettamente il carattere distruttivo della crisi, ma hanno anche trovato in se stesse energie sufficienti per indicare le porte strette per ricominciare, senza distogliere lo sguardo dal cumulo delle macerie». Insomma, nel pensiero femminile l’ultima parola non è mai la morte, il nulla, la distruzione, e poi solo lo sguardo femminile è capace di vedere le cose come sono, senza calcoli di dominio, senza secondi fini, senza alcuna volontà di controllo sulle cose stesse. L’idea stessa di conoscenza muta radicalmente: in María Zambrano, filosofa andalusa, diventa passività ricettiva, saper accogliere. In Zambrano la conoscenza è «un lasciar alle cose il tempo e il modo di manifestarsi nel loro essere proprio». E, al fine di «lasciare che l’altro venga alla presenza da sé», bisogna restare fiduciosamente in attesa e rinunciare a qualunque esito immediato. […]

Gaeta e Cacciari, studiosi pur diversissimi tra loro, giungono alle stesse conclusioni: solo nel pensiero di alcune donne del ’900 si schiude la possibilità di salvarsi per l’Occidente (salvarsi dall’autodistruzione cui porta la mera volontà di potenza). Solo una obiezione, o piuttosto una considerazione in margine: non bisognerebbe mai sottacere la radicalità di pensiero e di esistenza di queste donne. Zambrano, Weil, Bespaloff hanno attraversato gli orrori del secolo breve: sempre disperatamente in fuga. Per loro la “salvezza” è legata a una esperienza interiore di tipo mistico, inaccessibile e inscrutabile, a un salto vertiginoso così distante dalle nostre quiete, protette esistenze.

Torno al papa. Se pensiamo che l’essere umano consiste solo in una volontà di potenza che «assale il diverso e lo conosce solo come barbaro», sia esso il migrante o il nemico in guerra, non capiremo mai il papa. Se invece riteniamo che «siamo capaci anche nel più duro conflitto di rispettare l’avversario» (Cacciari), allora potremmo farlo. La conclusione del poema, il ritorno del corpo di Ettore a Priamo, il piano che accomuna Priamo ad Achille, uccisore di suo figlio, interrompe la logica della guerra e – pur riconoscendo per intero il tragico della nostra condizione – ci fa intravedere qualcos’altro: gli antagonisti irriducibili possono riconoscere reciprocamente il proprio valore, entro una umanità comune. Non sempre prevalgono inimicizia e odio. La pace contiene una verità forse più profonda della guerra. Ecco, anche soltanto immaginare questa possibilità – che ci hanno mostrato alcune pensatrici del secolo scorso e poi la chiesa nei suoi momenti più alti –, è oggi un dovere per tutti noi.

Inizio dicendo alla buona come ho sempre inteso la pratica del partire sé, nei suoi due significati, quasi opposti, ma entrambi presenti nell’espressione stessa ed entrambi necessari: partire da sé significa sia cominciare da sé, dalla propria posizione soggettiva e dal contesto in cui ci si colloca, sia allontanarsi da sé, decentrarsi, per incontrare altre e altri, per farsi comprendere e per condividere un percorso anche con chi non si attiene a tale pratica né si colloca in un orizzonte femminista.

Tutto questo è ben sintetizzato da Luisa Muraro nell’espressione «la partitura della nascita», che «mette insieme lo staccarsi e il prendere inizio, il separarsi e l’originarsi1», come è accaduto nella nascita di ciascuno/a: una separazione dal corpo materno che ci ha consegnato alla precarietà e al rischio delle relazioni, innanzitutto con colei che ci ha messo al mondo e poi con molte altre e altri. Il saggio di Muraro a cui faccio riferimento s’intitola Partire da sé e non farsi trovare…:quel “non farsi trovare” va interpretato come mobilità, come agilità, come attitudine a non fissarsi in una traiettoria già prevista, nella posizione più ovvia, dove gli altri si aspettano che una sia. Questa postura è collegata a quel momento di sospensione, di silenzio, necessario per stare in ascolto del proprio sentire, sottraendosi alle cose già pensate e scontate, come ha ricordato Chiara Zamboni nella sua relazione introduttiva.

Mentre la pratica del partire da sé è spesso assunta spontaneamente da donne, anche non femministe, invece essa risulta più ostica per molti uomini, forse perché questi ultimi temono il rischio di soggettivismo e si sentono chiamati a esprimere un punto di vista imparziale, oggettivo. Forse è vero, come ha osservato Ida Dominijanni, che oggi, a differenza che in passato, diversi uomini anche nella sfera pubblica si sbilanciano in un’esposizione soggettiva, ma non credo che questo significhi da parte loro fare propria la pratica del partire da sé; ritengo piuttosto che questa sia una strategia comunicativa, un esporsi in prima persona per accattivarsi la simpatia di chi li ascolta.

Desidero infine intervenire su un punto della relazione introduttiva di Riccardo Fanciullacci: è un punto che riguarda l’università, luogo in cui anch’io ho insegnato per molti anni. Riccardo accenna ad alcune patologie dell’università, fra cui il potere. A suo avviso, tuttavia, il potere che si esercita nell’istituzione universitaria non sarebbe una vera e propria patologia, quanto piuttosto il sintomo di una «società a responsabilità limitata»: sarebbe in definitiva una giustificazione per non assumersi del tutto la responsabilità delle proprie azioni e iniziative, soprattutto quelle innovative e non previste, con la scusa che il potere le renderebbe vane. Probabilmente questo ha a che fare con la governance neoliberale, che tende alla de-responsabilizzazione: ne parlerò più avanti.

A mio parere, però, il potere in università è una vera e propria patologia, anzi è una piaga senza rimedio. Forse, se confrontato con quello che si esercita in altri contesti, quello universitario non è poi un grande potere, ma in ogni caso esso è coniugato col prestigio; e, come ricorda la sempre lucida Simone Weil, il prestigio è ciò che costituisce per più di tre quarti il potere. È prestigioso insegnare all’università: è un privilegio di cui a lungo ho apprezzato gli aspetti positivi – fare ricerca liberamente, scrivere, pubblicare, essere in relazione con le/gli studenti e con docenti affini che condividono la passione per il sapere –, ma di cui ho mal tollerato gli aspetti deleteri, le patologie, in particolare proprio quella del potere. Il potere in università c’è sempre stato e nessuna legge, per quanto ben intenzionata, è riuscita a scalfirlo minimamente: questo si ripercuote pesantemente sul reclutamento, sull’assunzione delle persone più giovani, quasi sempre cooptate non tanto per il loro merito – un po’ di merito si spera comunque che ce l’abbiano – quanto piuttosto perché gradite a chi il potere lo detiene e lo esercita senza scrupoli.

Chiara Zamboni, nella sua relazione introduttiva, ha accennato alla rottura delle relazioni in università iniziata nel 2007 con l’introduzione di questionari anonimi di valutazione del personale amministrativo da parte dei docenti e di questi ultimi da parte degli studenti. Allora ci opponemmo, non solo Chiara e io ma anche diverse altre/i, perché la nostra politica puntava e scommette tuttora proprio sulla forza e sulla fiducia che circolano nelle relazioni. Tuttavia, in seguito, questo attacco alle relazioni ebbe la meglio. A partire dal 2008, con la riforma Gelmini – fieramente avversata dalla stragrande maggioranza di docenti e studenti – e con altre negli anni successivi, l’autonomia degli atenei si tradusse di fatto in una governance neoliberale che concepì le università come aziende in competizione fra loro; furono indirettamente invitati a competere fra loro, rispettivamente, sia docenti sia studenti; e la competizione avvelena le relazioni. L’aziendalizzazione dell’università, con gli studenti ridotti a “clienti”, e la governance neoliberale conferirono un nuovo assetto al potere universitario, reso in un certo senso più anonimo e de-responsabilizzante, come ha notato Fanciullacci, ma senza intaccarne il carattere patologico. Noi di Diotima ci siamo sempre mosse sempre puntando al massimo di autorità con il minimo di potere: sul piano dell’autorità, questa scommessa è stata sicuramente vincente, ma, per ciò che riguarda il potere, com’era tutto sommato prevedibile, non siamo riuscite a scalfirne i meccanismi di fondo.

La questione del potere in università e la governance neoliberale sono stati i due motivi principali per cui ho lasciato il mio lavoro, per altri versi molto amato, prima del tempo previsto per il mio pensionamento. Benché sia convinta che l’esistenza di Diotima e molte iniziative legate alla politica delle donne abbiano creato spazi di libertà femminile in università e altrove, mi resta tuttavia l’amarezza per il fatto che Diotima non abbia eredi, nell’ateneo di Verona, nell’insegnamento della filosofia. Certo, il pensiero e le pratiche della differenza sessuale possono brillare ovunque una si trovi, e il mondo è ben più grande dell’università. Ciononostante, l’amarezza rimane: non mi stupisce, ma mi addolora profondamente che coloro che detengono il potere nella mia università non abbiano sentito il dovere di dare continuità all’insegnamento filosofico di Diotima. Dal loro punto di vista, noi di Diotima siamo state solo “meteore”. Per me, restiamo comunque delle stelle che possono fare luce altrove.


  1. Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare…, in Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996, p. 13. ↩︎

Partire da sé richiede fiducia, hanno detto alcune di voi, come se il partire da sé poggiasse su una fiducia già esistente. Io credo invece che sia proprio il partire da sé a costruire la fiducia. Non solo la fiducia “tra”, proprio la fiducia “in sé” e “nel sé”.

Mi è piaciuta molto la geometrica intelligenza della relazione introduttiva di Chiara Zamboni, quel suo dare ordine al pensiero di cui sento un profondo bisogno. Credo ce ne sia bisogno proprio per partire da sé con la consapevolezza che essere vivi è essere “nel” e “del mondo” e che la vita è un intreccio continuo di incontri, scontri, attriti, abrasioni con tutto ciò che definiamo “altro” da sé: altrimenti, perché non stare, ognuna/o di noi, là dove già siamo.

Non posso dunque non porre un grande punto di domanda. Che cos’è oggi, nel 2024, nel mondo in cui siamo finite e finiti, che cos’è il sé? Non è certo il sé che era negli anni ’70, per la banalissima ragione che il mondo non è più lo stesso mondo. Ho notato, tra l’altro, un’oscillazione interessantissima da parte delle varie persone intervenute: alcune dicono “partire da sé”, alcune dicono “partire da me”. Non è indifferente, perché sono categorie del pensiero profondamente diverse, come del resto sono stati molto diversi i due partire da sé di Chiara Zamboni e Riccardo Fanciullacci. Se il primo apriva al mondo, ricordandoci che il sé è un fascio effimero di possibilità immerso nella materia tutta, umana e non umana, il secondo tendeva a restringere il campo alle claustrofobiche relazioni di potere che si creano nell’istituzione universitaria. Sarebbe utile capire da dove venga questa differenza.

Un altro interrogativo stimolato dal tema, evocato da Diana Sartori, del perdersi e del trovarsi: ma il sé non è esattamente questo, un luogo di perenne mutazione, di perenne divenire? Chiara lo ha chiamato “nodo”. Io aggiungerei una “s” a quel nodo. Mi piace di più “snodo”, perché il nodo blocca, interrompe, ostacola, ferma, fa problema, mentre lo snodo è un luogo di transito, un luogo di transito di pensieri, emozioni, esperienze, memorie, desideri, ma anche di luce e di buio, di suoni, atmosfere, climi, sensazioni.

Chiara ha parlato di una cosa che in questo momento sta al centro del mio pensiero, che è l’assoluto bisogno di silenzio, o di parole molto, molto ben pensate. E le parole molto ben pensate non possono non venire dopo il silenzio. Il silenzio non è vuoto. Il silenzio è il tempo che ognuna/o di noi deve prendersi proprio perché il mondo sta cambiando a ritmi vertiginosi; è il tempo per capire come mai certe cose ci fanno soffrire, altre ci emozionano, altre non le capiamo, è il tempo in cui fare casa nel disorientamento. E allora, silenzio. Il silenzio è un momento straordinario che spero duri a lungo per me, perché è finalmente il tempo dell’ascolto.

Il partire da sé si è, da alcuni decenni, inflazionato e mercificato, trasformandosi in un seducente inganno narcisistico. Io vorrei, dunque, partire molto dalle altre, dagli altri. E allora ascoltarli, e poi chiedere loro il perché delle cose che dicono, per quali vie, attraverso quali esperienze, ci sono arrivati. Che spazio c’è tra parola e pensiero e, soprattutto, tra opinione e pensiero.

E, in ultimo, che rapporto c’è tra il dentro e il fuori? Chiara ha parlato di questi fasci che ci attraversano. E questo “sé”, appunto, non è oggi un dentro che sa guardare fuori, ma che sa anche lasciarsi guardare da fuori? E un dentro che è tutto teso all’ascolto, ma che è anche tutto disponibile a essere ascoltato?

Infine ringrazio Renata Sarfati e gli altri e le altre che hanno scritto un prezioso documento politico su quanto sta avvenendo nella Palestina storica. Io credo che parlare di “sé” senza cadere nell’ipertrofia del sé che ci viene proposta quotidianamente richieda una grande disponibilità a mettersi in gioco. Ecco, il che a me interessa in questo momento è un sé che si mette a rischio, che è disposto a esporsi, non a esibirsi. Si può definire sé un che non rischia? Ed è proprio questo sé audace a innescare gli altri sé, proponendosi come luogo di un possibile rischio comune. Oggi per me, in questo mondo così alterato, così fuori asse, davvero out of joint, questo provare a rischiare insieme è politica.

A Valentina Berardinone piaceva l’azzurro. Lo stendeva sulle tele; lo acchiappava incorniciandolo. D’altronde è il mare della Costiera, visto dalla sua casa di Massa, che precipita verso Nerano.

Per arrivare da lei, bisognava parcheggiare in alto: a dominare pretenziosamente la collina, si intravedeva la villa che era stata dei Lauro.

Poi giù, una discesa di gradini sgarrupati e Valentina che saliva dalla cucina trascinandoci sul terrazzo che guarda Capri.

Aveva sempre avuto una predilezione Valentina per le dimore scomode. Anche a Milano. Attraverso le stanze si arrivava comunque allo studio luminoso, zeppo di album di disegni, “prove d’artista”, tele ammonticchiate oppure attaccate alle pareti.

Disseminati nel disordine, sul tavolo, quei piccoli “oggetti”, creati sembrava a dispetto, con la colata d’inchiostro che invece di espandersi scendeva a cascata su uno zoccolo di legno.

È vero, lo scrive Renata Sarfati, Valentina era spiritosa. E intelligente. Osservava le cose, ne ribaltava il senso. Amava la conversazione, le osservazioni taglienti, le battute colte. Le piacevano le donne capaci di ridere con lei, che assaporassero la sua lingua, civettuolamente altalenante tra le tonalità napoletane.

Aveva un piccolo gozzo. Il marito, Luciano, stava seduto al timone. Davano appuntamento per mare, davanti a Recommone oppure a Ieranto.

Una volta a noi due, Franca e Letizia, si era incagliata l’ancora – una grossa pietra scomoda a lanciarsi, infernale a tirarla su – trattenuta dalle rocce. Arrivarono a “liberarci”. Ma la pietra venne recuperata. Lasciarla lì sarebbe stato uno smacco troppo umiliante.

Valentina rideva. E scuoteva la testa, le braccia, le mani, per sottolineare la differenza tra veri e finti marinai con quel suo modo tutto particolare di unire generosità e allegria. Dipendeva dall’origine napoletana questa unione oppure dal mare azzurro che era riuscita a adagiare nei quadri?

Francesca Izzo, nel suo articolo intitolato La libertà di scelta non equivale a diritto, apparso sull’Huffington Post del 5 marzo scorso, ha trascritto con precisione la formula con la quale la Francia ha voluto inscrivere in Costituzione il fatto dell’aborto. «La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza». Nota Izzo che non si tratta di diritto all’aborto, che avrebbe comportato la sostanziale cancellazione del ruolo della donna nella scelta della procreazione. Per un’analisi chiara e convincente delle conseguenze negative che una logica dei diritti avrebbe significato, rimando al suo articolo pubblicato anche su questo sito.

L’autrice apprezza che il testo parli di “libertà” e di “condizioni in cui si esercita tale libertà”.    Penso, tuttavia, che non vi sia da compiacersi per la formula utilizzata dal dettato costituzionale francese. È evidente che il vero soggetto, e non solo grammaticale, di quella formulazione è “la legge” che così, con forza costituzionale, si attribuisce il potere di legiferare sulle condizioni che garantiscono a una donna la libertà di interrompere una gravidanza. Un curioso bisticcio quello di una “libertà garantita” a condizioni determinate dalla legge.

In Italia, senza l’intralcio costituzionale, basterebbe l’abrogazione della l. 194/78 per realizzare ciò che una parte delle donne aveva già chiesto durante il dibattito che ne precedette l’approvazione, e cioè che si dovesse semplicemente depenalizzare l’aborto che era un reato, lasciando alla donna, alle sue relazioni, affettive, amicali, di fiducia con operatrici ed operatori sanitari, la ricerca delle “condizioni” a cui tale procedura medica si sarebbe potuta dare. Sarebbe così sparito del tutto dall’ordinamento giuridico il tema dell’aborto che deve essere una decisione di ciascuna singola donna, affiancata da chi le è più vicino.

Ho conosciuto Rosella Cardano nel gennaio del 1990 nel gruppo Dalla relazione madre-figlia alla relazione tra donne che coordinavo all’Associazione Melusine. Nel gruppo ascoltava molto e parlava poco, mentre nella relazione con me, che si è protratta per diversi anni, si apriva. Leggeva molto, soprattutto libri di donne, partecipava agli incontri aperti alla Libreria delle donne e qualche sera si fermava a dormire da me. Cercava, come dice Luisa Muraro, di dare giorno per giorno un senso libero al suo essere donna e per farlo esplorava relazioni femminili. Per lei avevo scritto questa poesia:


– Rosa, Rosina, Rosella –
saltelli
su una corda tesa
impavida
contro il cielo vuoto,
canticchi
– sembra senza darci peso –
un mandala sottile
di parole
un labirinto azzurro
in filigrana
di cui cerchi la chiave.


Poi ho cambiato casa e ci siamo perse di vista. Lei continuava a seguire, attraverso la rivista Via Dogana e i libri che via via venivano pubblicati, le riflessioni sul presente che le donne della Libreria di Milano mettevano in circolo. Se ne nutriva e ha voluto dimostrare la sua riconoscenza lasciando la sua eredità i suoi “amatissimi libri” e la sua casa proprio alla Libreria, perché questo luogo di incontro aperto, di invenzione di pratiche di libertà femminile, di pensiero in presenza sul mondo possa, anche col suo aiuto, continuare a esistere. Lo ha fatto con l’aiuto di un’altra donna, la sua amica Anna Denes, da lei conosciuta fin dalla fine degli anni Settanta mentre preparava la tesi. Un modo generoso, come quello della scrittrice Bibi Tomasi, che con la sua eredità ha permesso la ristrutturazione della Libreria e al cui tavolo di lavoro parlano con noi le ospiti invitate negli incontri pubblici, non solo a partire dai libri che hanno scritto.

Rosella viveva a Galliate, vicino a Novara, dove era nata il 20 febbraio 1956, scriveva poesie che l’aiutavano a fermare il suo sentire e a rafforzare ciò che l’aiutava a vivere. Infatti scriveva: «Mi sento come Ipazia fatta a pezzi ho l’arma della poesia e della parola femminile». Negli ultimi anni ne aveva inviate alcune alla pagina facebook La biblioteca femminista, ora intitolata a Donatella Massara, una delle fondatrici che ci ha lasciate lo scorso settembre. Donatella, qualche mese dopo la morte di Rosella avvenuta il 22 agosto del 2021, le aveva pubblicate nel sito da lei curato Donne e conoscenza storica perché non si perdessero.

Tra queste il delicato Autoritratto in cui Rosella apre la descrizione di sé così: «Sensibile come rugiada su una foglia/ appena curva, me ne sto su un ramo/ di albicocco con sana ignoranza/ sudicio trastullo». Lei, che aveva studiato filosofia all’Università statale di Milano e aveva provato su di sé quello che nel libro Il piacere femminile è clitorideo la storica María-Milagros Rivera Garretas nomina come «violenza ermeneutica dell’Accademia», segnala come il restare presso di sé sia giudicato un «sudicio trastullo» e come le sia necessaria trovare «una lingua/ saliva d’amore più verbale» che riscatti l’infanzia e i suoi dolori. Da qui, nelle altre liriche si delinea un percorso in cui troviamo momenti di solitudine come in Crudele cecità dei parchi, di valorizzazione di sé come in Ali carnee infantili in cui si afferma «io, abbecedario gioioso del mio mondo/ amato» o di rapporto quasi mistico con la natura come in Quiete d’anima in cui il giallo di un campo di grano è «l’abbraccio solare/ che mi accarezza gli occhi/ nella penombra/che si chiama vita».

Sono otto poesie da leggere qui.

Qui invece ne propongo alcune da lei copiate a macchina e su cui ritornava spesso correggendo.

Ci parlano di genealogia femminile, di piacere clitorideo, dell’amore che non nasconde l’orrore ma non ce ne rende succubi, della pace che si costruisce col lavoro sul simbolico.


A MIA NONNA

Eri la magnolia piena di sole,

golosa, bevevi la luce e l’ombra degli anni;

negli angoli bui di ancestrali cortili ti ubriacavi

di nenie profumate;

a chi passava accanto porgevi petali e colori che avevi dipinto

quando il cielo era più limpido e ancora non avevi

quel viso di bimba affamato di vita,

tra la pelle del viso caduta,

per la stanchezza di un dio persecutore in ombra straziata,

nel corpo a riccio, la tua ultima ribellione alla morte…

Eri la magnolia aperta alla risata, ora ti sento afferrare da

un lontanissimo sonno, gravidanza di un sogno mortale.

Al mistero io guardo e, ancora ti vedo in un angolo di vita

chiedere l’amore di figlia in figlia…


ANTILOGICA: LIBERTÀ VAGINALI

Tra le mie gambe

nonché nel mio umido pensiero sei perla

non ha sussiego, né urla da ossessa, sei…

Domandi timida, inquieta, forse smarrita, perché? Come?

Nel corallino mondo sei perla, spasimo di luce, scintilla istintuale…

Tra le mie gambe sussurri “ancora voglio vivere”

spensierata, paga di sole.

Dimenticare vuoi chi dall’intelletto e dalle sue alte sfere fa abuso

di infimo potere…


SPIRITUALITÀ

C’era un’ombra ad Auschwitz…

ma io sarò stella, cometa, futuro…

e sempre amore, amore, amore

in primavere, ancora.


PACE

A Luisa e alla cara Bibi Tomasi

Non più violenza,

la culla della poeta è allegria e mestizia,

così soave una forsizia

dice sì alla vita tra inverno e primavera.

Non più violenza,

ma penna per gli intrigati giorni

descrivere accennando,

così è la vita frastuono e silenzio, è alba è sera,

tempesta, arcobaleno, primavera…

Non più violenza,

ma miti le parole

giuochi, incanti e fole…

Ricordo ero un animale

barrivo col mio naso…

vezzosa mi inchinavo, in stelle birichine,

la culla della poeta è allegria e mestizia…

Ricordo è una vita, vita è ricordare…

La forza della donna di pace Nadia Murad non sta tanto nel coraggio, nella lotta per la giustizia come un dovere, nel diritto di rimarginare ferite. Sta nella schiettezza con cui racconta da dieci anni la sua storia ai leader della terra e nell’esercizio dell’umanità più pura: «Voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia». Rapita il 15 agosto 2014 poco più che ventenne dal suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, durante la campagna genocidaria dello Stato Islamico contro le minoranze, in particolare quella yazida, Nadia Murad quel giorno ha perso la madre e sei fratelli. Con le sorelle è stata venduta ai mercati delle sabaya, le schiave, e comprata dai miliziani islamisti che l’hanno più volte violentata e rivenduta. Dopo quattro mesi di torture è riuscita a fuggire e nel novembre 2015, arrivata in Germania grazie ad un programma umanitario, ha deciso di testimoniare per la prima volta la tragedia delle donne yazide ad un forum delle Nazioni Unite. Nel 2016 è stata nominata Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e insignita dal Parlamento europeo del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Nel 2018 ha vinto il premio Nobel per la pace, insieme all’attivista e medico congolese Denis Mukwege, «per i loro sforzi volti a mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato». Impegno portato avanti anche attraverso la sua fondazione, Nadia’s Initiative, in prima linea sia nella ricostruzione dei servizi nei villaggi della sua comunità distrutti dall’Isis, sia nell’impegnare governi e organizzazioni internazionali a sostenere i sopravvissuti alla violenza sessuale e soprattutto a prevenirla. Gli yazidi sono una minoranza etno-religiosa originaria del nord iracheno. La loro storia affonda le radici nelle culture dell’antica Mesopotamia e nei secoli hanno sempre subito discriminazioni, persecuzioni e uccisioni di massa. Le donne e i bambini rapiti da Daesh durante l’occupazione di vaste aree dell’Iraq e della Siria nell’estate 2014 sono state quasi 7.000. Ad oggi ne mancano ancora all’appello la metà: in parte sono nelle mani dei rapitori, rientrati nei paesi di origine. Di altre non si ha nessuna notizia.

Nadia Murad, le donne impegnate nei processi di pace, per i diritti e l’uguaglianza sono più concrete degli uomini e possono ottenere più risultati. È possibile affermarlo?

Conosco molti uomini in gamba che sono altrettanto impegnati per la pace e l’uguaglianza, e non sono sicura che sia utile o vero dire che le donne lottano per la pace mentre gli uomini sono per la guerra. Se vogliamo pace ed equità durature non è solo responsabilità di una parte della società, ma una responsabilità collettiva per tutti noi, specialmente per coloro che occupano posizioni di potere e sono in grado di apportare cambiamenti significativi. Tuttavia, la ricerca ci mostra che quando le donne ricoprono posizioni di leadership e sono attivamente coinvolte nella costruzione della pace nelle loro comunità, questa dura più a lungo. Quindi, penso che sia importante che le donne siano incluse in ogni fase della costruzione della pace e, inoltre, che le ragazze credano che un giorno potranno guidare le loro comunità. Allo stesso modo, gli uomini devono essere allevati nella convinzione che le donne siano capaci di input e leadership significativi. Abbiamo bisogno di fratelli, mariti e figli che ci aiutino ad amplificare le nostre voci e le nostre idee.

C’è una persona, una donna, a cui si ispira, un punto di riferimento che la guida e la motiva ogni giorno nelle sue battaglie e nell’impegno per la pace?

Mia madre era e rimane la mia luce guida e ispirazione. Era una madre single, con poca istruzione, che cresceva undici figli nelle zone rurali dell’Iraq. Ha instillato in me il senso di giusto e sbagliato, la compassione e avere obiettivi.

Ha fatto commuovere leader politici e capi di Stato con la sua storia personale. Siamo tutti colpiti dal suo forte senso di giustizia. Qual è la caratteristica personale che le ha permesso di ottenere così tanto?

Sono assolutamente determinata a garantire che gli attacchi perpetrati contro le mie sorelle, i miei nipoti, i miei amici e me – insieme a migliaia di altre ragazze yazidi – non si ripetano in nessun’altra parte del mondo. Guidata da questo principio ho parlato più e più volte, rivolgendomi ai leader politici non solo per proporre problemi, ma anche per proporre soluzioni. Ho scritto nel mio libro che volevo essere “l’ultima ragazza” che ha subito la violenza sessuale legata a un conflitto. Purtroppo così non è stato: la violenza sessuale è endemica nelle zone di guerra di tutto il mondo. Tuttavia non smetterò di fare campagne, di sostenere o di dire la verità a chi è al potere.

Perché è difficile per ogni vittima di violenza, anche sessuale, denunciare e far rispettare i propri diritti? È un paradosso.

Penso che le vittime della violenza siano spesso le più vulnerabili della società, tanto per cominciare; minoranze, donne, poveri. Quindi, quando vengono attaccati, le strutture non sono in grado di aiutarli o proteggerli. In più, per le sopravvissute alla violenza sessuale legata al conflitto, vi è lo stigma e la vergogna associati ai crimini che hanno subito, il che rende ancora più difficile la loro denuncia. Denunciare un crimine può essere di per sé traumatico. Soprattutto se la giustizia non è garantita. Una volta che i crimini sono stati denunciati e magari anche indagati, è normale che non succeda altro. In Iraq, l’UNITAD ha documentato l’omicidio, la violenza sessuale e la riduzione in schiavitù di migliaia di yazidi, ma i combattenti dell’Isis sfuggono ancora alla giustizia. Solo tre membri dell’Isis sono stati chiamati a rispondere dei loro crimini di genocidio. Sapendo che il sistema è a scapito delle vittime, diventa molto più difficile denunciare i crimini.

Nadia’s Initiative, la sua fondazione, è un progetto che sta aiutando molto la vostra comunità nel nord dell’Iraq e le azioni di pace. Qual è l’emergenza più importante ad oggi?

Penso intanto che ci troviamo di fronte a un’emergenza sfollati globale. 110 milioni di persone sono state costrette con la forza a fuggire dalle proprie case in tutto il mondo. Molte di loro vivono in campi che offrono solo soluzioni a breve termine e non sono certamente case adeguate in cui le famiglie possano prosperare. La ricostruzione e il ripristino delle zone post-conflitto per permettere il ritorno a casa degli sfollati dovrebbero essere una priorità globale, per ragioni economiche, politiche e morali. L’ISIS ha distrutto gran parte di Sinjar durante l’invasione nel 2014 e, dieci anni dopo, Nadia’s Initiative lavora duramente con i sopravvissuti per ricostruire le infrastrutture, le fattorie e le scuole che sono la linfa vitale delle comunità. Molte donne sono state lasciate da sole a prendersi cura delle proprie famiglie, quindi dare loro istruzione, e le competenze e gli strumenti di cui hanno bisogno per vivere è una parte importante del nostro lavoro. Un lavoro reso più difficile dal fatto che Sinjar è ancora una zona contesa, priva di una governance chiara o infrastrutture burocratiche. Abbiamo un disperato bisogno di rappresentanza politica e di un sindaco, nonché di finanziamenti e sostegno da parte del governo iracheno.

Quest’anno ricorre il decimo anniversario dell’attacco dell’ISIS a Sinjar. Dieci anni dopo, gli yazidi si sentono sicuri, c’è pace oppure no?

La comunità yazida è più diffusa di quanto lo fosse in passato. Molti sono partiti per rifarsi una vita all’estero, centinaia di migliaia rimangono nei campi profughi e nonostante tutte le sfide, più di 160.000 sono tornati a vivere a Sinjar. Ma penso che tutti gli yazidi si sentirebbero più sicuri se coloro che ci hanno attaccato fossero ritenuti responsabili delle loro azioni. Se sapessimo che l’agosto 2014 non si ripeterà perché è stata fatta giustizia ed esistesse un deterrente per chi decidesse di agire ancora in questo modo. Ci sono anche problemi di sicurezza più immediati. Per le donne yazide nei campi profughi c’è una reale mancanza di sicurezza e privacy. E le famiglie yazide in Germania sono preoccupate per i rimpatri, poiché il governo ha introdotto una nuova legge che obbligherà alcuni a tornare in Iraq. Ci sono problemi di sicurezza da molto tempo per coloro che vivono a Sinjar. Credo fermamente che dobbiamo ricostruire la nostra patria in modo che le famiglie possano lasciare i campi e crearsi vite con uno scopo per sé stessi. Abbiamo bisogno che il governo iracheno contribuisca a stabilizzare la regione e a garantire un po’ di sicurezza a Sinjar.

Ci sono ancora donne e bambini che riescono a tornare a casa dopo essere stati rapiti dieci anni fa?

Sì, ci sono. L’anno scorso siamo riusciti ad aiutare un numero maggiore di donne a ritornare dalle loro famiglie. Ma quasi 3.000 sono ancora detenuti dall’Isis e da persone affiliate. Garantire il loro rilascio dovrebbe essere una priorità. In Germania ci sono stati i primi processi contro membri dell’Isis grazie alla giurisdizione universale.

Perché altri paesi hanno paura di fare giustizia?

Questa è una buona domanda. Suppongo che siano preoccupati per i soldi e il tempo che ci vorrebbe. Molti paesi occidentali non vogliono assumersi la responsabilità delle azioni intraprese dai propri cittadini in Iraq. Sono incredibilmente grata alla Germania per aver assunto un ruolo guida nella giustizia e nella responsabilità verso il mio popolo.

Come sta andando l’azione intrapresa contro la corporation francese del calcestruzzo Lafarge, per il suo presunto sostegno economico all’Isis?

Siamo ancora nelle fasi iniziali del procedimento legale ma la mia speranza è che riusciremo a dissuadere le grandi multinazionali dall’aiutare e favorire i terroristi.

Come è stato accolto “Codice Murad”, che fissa linee guida per raccogliere testimonianze di violenze nel pieno rispetto delle vittime?

È un progetto di cui sono fortemente orgogliosa e mi rincuora sapere che aiuta le sopravvissute a raccontare le loro storie. L’anno scorso sono stata invitata in Ucraina per incontrare donne che avevano subito violenza sessuale e molte di loro hanno affermato che il Codice ha dato loro coraggio e fiducia mentre raccontavano le loro esperienze.

Nella guerra Hamas-Israele abbiamo ancora assistito alla violenza sulle donne. Per prevenirla nei conflitti sono sufficienti norme preventive più severe e una giustizia certa che punisca i colpevoli oppure è più importante un maggiore sostegno alle donne in tempi di pace e investimenti nella cultura dell’uguaglianza?

Assolutamente entrambe le cose. Responsabilità e educazione, ma anche consapevolezza a livello globale che la violenza sessuale contro le donne non è semplicemente un effetto collaterale inevitabile della guerra, ma un crimine utilizzato da secoli per spezzare il cuore stesso delle comunità. E deve esserci giustizia per coloro che commettono violenza sessuale legata ai conflitti, quei terroristi che perpetrano questi crimini devono essere ritenuti responsabili: cos’altro potrebbe dissuadere altri dall’usare questa tattica in guerra?

Credi che stiamo assistendo alla “fine dei diritti umani” nel mondo? Come far comprendere ai giovani l’importanza di impegnarsi sempre perché pace e diritti non siano mai dati per scontati?

Non penso che stiamo assistendo alla loro fine, gli esseri umani avranno sempre diritti. Infatti qualche mese fa abbiamo visto tante persone riaffermare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, giunta al suo 70° anniversario. Però il nostro mondo si trova in una situazione molto precaria e ci sono paesi e attori non statali che non attribuiscono un valore sufficientemente elevato ai diritti umani. Ma ho incontrato tanti giovani che hanno passione per l’umanità e vogliono creare un futuro pacifico. Il loro desiderio di difendere e cambiare il mondo in meglio mi dà speranza. Penso che forse le persone di cui abbiamo bisogno per essere sicuri di comprendere l’importanza dei diritti umani sono gli adulti, i leader e i decision-makers. Devono agire a lungo termine e nell’interesse degli altri.


Da Avvenire

Una «decisione storica». Impressiona che lo stesso Ministero della Salute che aveva a lungo sostenuto l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà (come la triptorelina) in centri specializzati con l’autorizzazione dello Stato ora definiscano con questa espressione – usata martedì 12 dalla ministra della Salute Mary Caulfield – la decisione esattamente opposta, cioè il bando a quegli stessi farmaci, al termine di una lunga quanto rigorosa procedura scientifica e istituzionale.

Questo dietrofront clamoroso di cui giunge notizia da Londra, amplificato da tutti i media britannici come il capolinea annunciato di una vicenda assai travagliata, è il segno di una onesta ammissione dell’errore alimentato da chi ha sponsorizzato la transizione di genere come esito pressoché inesorabile di tutte le difficoltà di costruzione della propria identità caratteristiche della pubertà e della preadolescenza. In Inghilterra (e altrove in Europa e oltreoceano) si era scelto di fare da avanguardia e di affidare l’esame dei casi come la somministrazione dei farmaci a un centro nazionale unico, sotto controllo pubblico: la Clinica Tavistock di Londra (nome completo: Tavistock and Portman Nhs Foundation Trust, dove Nhs sta per ‘Servizio sanitario nazionale’).

Un primo, determinante colpo di freno era giunto nel 2022 con la Commissione d’indagine presieduta da Hilary Cass, pediatra di fama, che aveva esaminato i sempre più numerosi casi sospetti di sbrigativa prescrizione dei farmaci bloccanti della pubertà, somministrati a giovanissimi pazienti dei quali i medici ipotizzavano una incongruenza tra sesso alla nascita e identità personale concludendo per l’arresto farmacologico dello sviluppo, in modo da poter riattribuire il sesso secondo la scelta del giovane.

Una linea di condotta che la Commissione censurò osservando che nella grande maggioranza dei casi (si parla dell’80%) è una incertezza che non persiste nell’adolescenza. Un sintomo che scompare, insomma, ma che se preso come la prova che bisogna cambiare sesso produce conseguenze devastanti e quasi sempre irreversibili, se si ricorre ai farmaci o addirittura al bisturi. Allo stop annunciato per le attività della Tavistock erano seguite le nuove linee guida che in una fase transitoria delimitavano i casi da sottoporre a terapia farmacologica alla sola ricerca scientifica. Ora la decisione definitiva del governo inglese di mettere al bando i bloccanti della pubertà perché non ci sono «prove sufficienti» della loro efficacia e sicurezza. Una pietra tombale su qualsiasi farmaco dispensabile dai medici, a maggior ragione per prodotti che hanno effetti estremamente impattanti sulla salute della persona cui vengono prescritti.

La frenata che da due anni l’Inghilterra ha impresso al trattamento della disforia di genere ha numeri impressionanti: da 5.000 casi trattati nel 2022 ai 100 attuali. Un cambiamento di rotta a 180 gradi assai eloquente, non solo sul piano clinico e scientifico ma forse soprattutto su quello culturale: si pensi al supporto mediatico e ideologico assicurato al trattamento della disforia nella direzione della riassegnazione del genere e dell’identità sessuale come costrutto culturale soggetto alla scelta di ciascuno. Oltre al piano della salute dei minori, le conseguenze sono state rilevantissime. Come sulla gestione dei casi da parte delle scuole (si pensi agli istituti che in Italia senza alcun dibattito o esame di vicende-laboratorio come quella inglese hanno adottato la “carriera alias”) e degli stessi medici di base, che spesso hanno preferito assecondare la pressione ambientale e le paure dei genitori rimandando ogni caso problematico sul piano della personalità a centri per il trattamento della disforia, medicalizzando situazioni che richiedevano forse solo ascolto, pazienza, accompagnamento, impegno educativo e – nei casi più complessi – supporto psicoterapeutico.

Ora Londra aggiunge alla decisione di chiudere a fine mese il Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (il famoso Gids), gestito dalla Tavistock, la parola fine per la prescrizione dei farmaci. Un doppio colpo che deve far riflettere e che si lascia irreversibilmente alle spalle l’idea che in campo vi siano due teorie contrapposte e in fondo equivalenti (sì o no al trattamento della disforia per via farmacologica o chirurgica), rispetto alle quali non ci sarebbe nessuna evidenza prevalente. Col risultato che i farmaci ora banditi hanno continuato a circolare indisturbati.

E in Italia? Siamo dentro questo intreccio spesso inestricabile, che rende assai difficile assumere decisioni realmente nell’interesse del minore. Che qualcosa anche da noi non andasse nella direzione giusta l’ha rivelato l’indagine aperta in gennaio sul centro attivo presso il prestigioso Ospedale Careggi di Firenze, con l’intervento dapprima del Ministero della Salute con un’ispezione e poi della magistratura per far piena luce su possibili prescrizioni non necessarie di bloccanti della pubertà. I primi risultati fanno riflettere: il team di esperti ministeriali inviati a Firenze avrebbe infatti rilevato che non in tutti i casi di disforia di genere sarebbe stato effettuato il percorso preliminare di psicoterapia necessario a stabilire se fosse davvero inevitabile il ricorso a soluzioni senza ritorno.

Un anno fa sul delicatissimo tema intervenne la Società psicoanalica italiana, che per voce del presidente Sarantis Thanopulos scrisse al governo per esprimere «grande preoccupazione» e «forti perplessità» riguardo all’uso dei bloccanti della pubertà. «La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale – fece notare la Spi – è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso», mentre «solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà». E in queste limitate situazioni? «Anche nei casi in cui la dichiarata “disforia di genere” in età prepuberale si confermi in adolescenza, l’arresto dello sviluppo non può sfociare in un corpo diverso, sotto il profilo sessuale, da quello originario. Lo sviluppo sessuale del proprio corpo anche quando contraddice un opposto orientamento interno consente un appagamento erotico che un corpo “bloccato” o manipolato non offre». Morale: «È importante avviare sulla questione dei ragazzi con problematiche di genere una rigorosa discussione scientifica». Che in Inghilterra è già arrivata a conclusione, dopo due anni di studi. Potremmo far tesoro del grande lavoro svolto in un Paese che, in un primo tempo fortemente favorevole, ora capisce di doversi fermare. Nell’interesse prioritario dei minori.


Dopo due anni di studi il governo inglese mette al bando i farmaci per fermare lo sviluppo dei minori con problemi di identità. A fine mese la chiusura del centro nazionale. Le domande per l’Italia.

Da Avvenire

… ab rebus rerum simulacra recedunt.
«…dalle cose si distaccano
I simulacri delle cose.»
Lucrezio, De Rerum Natura, libro IV


Il 10 marzo è mancata Valentina Berardinone.

Pochi giorni prima della sua morte ero passata a trovarla. Mi accoglie la gentile Erika, «ormai non si sveglia quasi più…» mi dice. Entro nella sua stanza, voglio guardarla e salutarla, dorme minuta nel suo letto come un uccellino. Poi passo nel suo studio e mi soffermo a guardare quello spazio bello e luminoso che conoscevo bene, con le grandi tele in parte appese al muro e in parte posate a terra quasi a formare delle onde grigie e blu, sulla scrivania gli ultimi fogli che aveva dipinto pur vedendoci poco. Ma il mio sguardo cade su un foglietto scritto a mano attaccato alla parete che riporta il verso di Lucrezio in latino che apre questo ricordo. Mi commuove profondamente il suo modo di dire addio al mondo e la riconosco.

De rerum natura era il libro che teneva sul comodino e costituiva un suo costante riferimento, non a caso il suo lavoro artistico era permeato del mondo classico che aveva assorbito dalla Napoli in cui era nata e a cui era legatissima.

Non voglio parlare del suo percorso artistico e intellettuale che spazia dalla ricerca visiva più avanzata ad opere artistiche di grande rigore. Altre e altri lo faranno con la competenza necessaria.

Ho conosciuto Valentina, mia grande e preziosa amica, in Libreria delle donne. Valentina era tra le artiste che avevano donato una loro opera per finanziare l’apertura della libreria nel 1975 restando sempre parte della libreria e partecipe attiva anche con numerosi e generosi contributi artistici. Ricordo in particolare, in ordine cronologico, la copertina di Sottosopra del 1976, il secondo manifesto della libreria, una bellissima opera tutta d’oro sulla parete del circolo e un grande quadro.

Ritornando agli inizi del mio incontro con Valentina, voglio ricordare il momento in cui è nata tra noi una vera e propria amicizia: è successo nella cosidetta “via Disciplini”, un piccolo studio dove si festeggiava l’uscita della rivista Non è detto realizzata da Silvia Motta, Giordana Masotto, Elena Medi e Valentina che ne curava le immagini. Nell’atmosfera generale di allegria e di festa l’ho conosciuta più da vicino e siamo diventate amiche, un’amicizia che non si è mai interrotta fino a oggi.

Con lei ho scoperto dei mondi. La napoletanità era la sua vera essenza, ma era nel contempo cosmopolita per la sua storia familiare, poteva passare con disinvoltura dall’inglese al francese al portoghese. Amava la conversazione brillante, spiritosa, e lei lo era. Così come profonda era la sua cultura nella poesia, nella musica, nell’arte senza mai essere saccente, perché faceva parte della sua stessa natura.

Ha avuto una vita lunga e ricca di riconoscimenti e soddisfazioni, ma anche attraversata da grandi dolori. Aveva tuttavia conservato in fondo alla sua anima qualche cosa d’infantile che le dava la libertà di un sorriso, di una battuta anche negli ultimi giorni di vita.


Seguono tre immagini inviate e autorizzate da Paola Mattioli.

La pratica del partire da sé nasce all’interno della politica delle donne ed è – per la sua storia – molto vicina a quella dell’autocoscienza, di cui hanno parlato qui in Libreria Linda Bertelli e Marta Equi. Nel testo Autocoscienza ancora, che leggiamo in VD3, 9 ottobre 2023, aggiungono alcune osservazioni sulla pratica del partire da sé: «Due significati: partire da sé significa esprimersi, prendere parola, in un rapporto con il mondo che non cancelli la presenza dei corpi, l’essere corpo di chi parla e di chi ascolta. Il secondo è che partire da sé significa accettazione di sé per come si è e questo esistere per quello che si è, è, per Lonzi, ancora un passo di natura politica».

Con la comunità filosofica Diotima abbiamo scritto un testo: La sapienza di partire da sé. Nel libro Luisa Muraro dice: «Nell’idea e nella pratica del partire da sé, c’è la prospettiva di uno stare al mondo nella fedeltà a sé». «La pratica del partire da sé fa ritrovare non solo la strada, ma te stessa sulla strada nel punto in cui avevi perduto la strada e te stessa». «Partire, o partire da, significhi un movimento iniziale e un trarre spunto, quasi un attingere da. Dunque la frase mette insieme lo staccarsi e il prendere inizio, il separarsi e l’originarsi». «Il partire da sé, nel suo duplice significato coincidente, è dunque un rinnovare, nel contesto biografico e storico, il movimento della venuta al mondo» (Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli 1996, pp. 13-14). Un venire al mondo caratterizzato da uno slancio di apertura a partire dal qui e ora della contingenza.

Quale efficacia ha avuto questa pratica nel mio agire? L’ho trovata essenziale e mi corrisponde profondamente. È uno scandaglio, una sonda per muovermi in modo orientato e radicato allo stesso tempo.

Un suo presupposto, per come la sperimento, è che tutte e tutti noi, quando cerchiamo di dire quel che viviamo, lo facciamo dall’interno di un quadro di riferimento, di un contesto. Di una situazione, di cui partecipiamo.

Altro presupposto: abbiamo con quel contesto una molteplicità di legami consapevoli e inconsapevoli. Legami molteplici, non scelti, con persone e cose. Con luoghi precisi. Relazioni, di cui in parte sappiamo ma che per lo più tessono il lato inconscio del corpo e hanno a che fare con la memoria involontaria.

Proprio perché siamo all’interno di un contesto di connessioni, non si può dire che siamo dei soggetti trasparenti a noi stessi – coscienza pura – che considerano un contesto oggettivo fuori di sé. Piuttosto: ne partecipiamo dall’interno. Ne facciamo parte.

Questo ha una conseguenza. Quando dico che parto da me, in realtà parto da una molteplicità di legami che fanno il tessuto di un’esperienza. Io ne sono uno snodo e allo stesso tempo sono impegnata ad esprimerla. Certo, sono io a sentire questa esperienza e a metterla in parole, ma con la consapevolezza che sto mostrando il potenziale di ciò che io vivo assieme ad altri e alle cose. Non mi metto al posto loro, non mi sostituisco, ma esprimo un contesto di cui partecipiamo assieme. Parlando di un’esperienza, sto dando voce a ciò che io assieme ad altri viviamo, che le cose attorno a me vivono, però dalla posizione che abito in questi legami. Cioè dalla prospettiva contingente e singolare che occupo. O forse sarebbe meglio dire: che sono.

Porto due esempi.

Per anni d’estate sono andata nello stesso posto in montagna. Tra la metà degli anni Ottanta e Novanta ho cominciato a percepire di anno in anno un cambiamento nel colore del cielo e nelle forme delle nuvole. Nella qualità della luce. A me sembrava evidente e ne parlavo, ma a nessuno interessava veramente. Mi ascoltavano per gentilezza, mentre io ero inquieta per quello che percepivo. Solo col tempo gli studiosi del clima hanno parlato dei cambiamenti che vedevo e ne hanno dato una interpretazione scientifica.

Il secondo esempio. Nel 2007 è passata una legge sull’università che applicava le normative europee, che volevano la governance come sistema di governo delle organizzazioni. All’inizio non è successo nulla. Poi però mi sono resa conto di un certo malessere che serpeggiava per qualcosa di indefinibile che stava cambiando. Il malessere era palpabile. Ho allora cercato i segni di questo mutamento. Segnali minuti, ma precisi. Uno ad esempio: essere obbligati a valutare ed essere valutati in modo anonimo. Senza sapere da chi si era valutati. Valutare le segretarie in modo anonimo. Essere valutati dagli studenti in modo anonimo, che sono obbligati a farlo, altrimenti non si possono iscrivere agli esami. Essere valutati nella produzione scientifica in modo anonimo. L’anonimato della valutazione rompeva di brutto le relazioni. I questionari anonimi spezzavano tutte queste relazioni creando legami non liberi e fasulli.

È chiaro che vi sto dando una lettura già politica di quell’esperienza, il cui primo delinearsi e prendere forma però è stato attorno ad un malessere mio che mi sembrava fosse per lo più condiviso. Un partire dalla mia inquietudine, sentendo che esprimeva qualcosa di vero per tanti altri.

Abbiamo allora scritto testi per dire che l’università che volevamo era quella delle relazioni e della fiducia. Abbiamo discusso di questo pubblicamente. Non abbiamo vinto, ma il fatto importante è che abbiamo mostrato per tutti lo scontro simbolico tra una università delle relazioni e quella delle valutazioni anonime, della governance.

Penso che con questi esempi sia più chiaro quel che dicevo: uno dei presupposti di come mi regolo nella pratica del partire da sé è che, se sento – a partire da me – qualcosa di dirompente e in trasformazione, non lo considero mai qualcosa di solo mio ma come qualcosa che riguarda me in relazione ad un contesto. In relazione agli altri. Alle cose. Poi la conoscenza aiuta, ma il primo passo è sempre un’intuizione, una percezione, un sentire in un’esperienza che non si è fatta ancora chiara e che pure si avverte che segnala qualcosa di essenziale.

Questa pratica, l’ho vista agire da tante donne, femministe e non femministe. Come in altre situazioni, il femminismo ha dato una lettura politica ad un agire comune delle donne. In particolare ho visto che molte donne, quando accadono cose fondamentali che le coinvolgono, attraversano spazi di silenzio, non si precipitano a dare giudizi. Entrano in un tempo sospeso, prima di trovare le parole.

Ricordo quando il governo italiano decise di partecipare con azioni militari a fianco della Nato per la guerra della ex Jugoslavia nel 1991. Era stato uno shock per tanti motivi. I giornali accusarono le donne per non essere intervenute subito sulla questione. Perché avevano aspettato prima di esprimere un giudizio. Ora quello che scrivevano i giornalisti era vero. C’era stato un silenzio intenso. Riporto questa esperienza, perché è stata la prima volta che mi sono resa conto che le donne hanno bisogno di un certo tempo di silenzio quando un’esperienza è coinvolgente e occorrono parole non scontate. Ci sono state e ci sono oggi altre guerre, ma l’esperienza di quel silenzio, che sentivo necessario in me e vedevo in altre, mi ha reso più consapevole.

Credo infatti che occorra un momento di silenzio perché l’anima vada a tastare tutti i legami che abbiamo con la realtà per trovare le parole giuste per un’esperienza. È un silenzio sensibile, in cui accade molto. È quando si avverte una situazione in tutta la sua complessità, ed è come se l’anima toccasse le corde via via dei legami che la muovono, sentisse sensibilmente le vie del mondo, per permetterci poi di dire che esperienza si sta vivendo. E questo aiuta ad arrivare ad un giudizio. Dico l’anima sensibile, ma si può anche dire il corpo nel suo lato inconscio, incrostato di legami invisibili.

Certo – in questa pratica – occorre una grande fiducia in quel che si avverte e una fedeltà a quel sentire, che a prima vista e apparentemente è solo soggettivo. Altrettanto importante è che qualcuna abbia fiducia in noi.

E poi sappiamo che non è facile trovare le parole giuste per dire l’essenziale dell’esperienza che viviamo. Siamo ben consapevoli infatti che ogni nostra esperienza è già interpretata dai media, dalle persone delle istituzioni, dai luoghi comuni della nostra società. Le prime cose che vengono in mente sono proprio le interpretazioni più consolidate, perché hanno funzionato nel passato, oppure quelle subito fornite dai media. La scommessa è dare spazio a ciò che nella nostra esperienza resiste al senso comune abituale e a risposte già formulate. Anche se questo ci obbliga a stare silenziose per un po’, a balbettare piuttosto che essere brillanti e perfette.

Rimango sempre perplessa quando, nelle discussioni politiche con donne, una riporta come proprie le opinioni già date che circolano, identificandosi con quello che è stato già detto. Mi viene da chiedere: ma tu dove sei? Rispondendo a questa domanda, si entra in un percorso simbolico che dice del mondo e contemporaneamente ci ricongiunge con noi stesse.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024.
Immagine di Giorgia Basch, BilderAtlas

Nei contesti in cui c’è familiarità con il pensiero della differenza e col suo linguaggio, viene sempre ripetuto, tanto da donne quanto da uomini, che questi ultimi sarebbero in difficoltà a partire da sé. Vorrei ragionare su tale pratica senza accontentarmi di questo discorso già sentito e dei miseri vantaggi che può assicurare in quei contesti, cioè l’approvazione che non deriva da ascolto e comprensione del discorso dell’altro, bensì dal riconoscersi in formule note. Partire da sé non è anche tentare di sottrarsi a quei feticci di identità puntellati da simili riconoscimenti?

Se l’invito ricevuto è di scrivere sul partire da sé partendo da me e se partire da sé non è raccontare di sé, ma cercare le parole per dire una difficoltà in cui si è stretti, mostrando così che è un nodo che ha un significato più ampio, politico, allora si potrebbe tentare il colpo di scena e guardare alla difficoltà di parlare a quelle che troppo ne sanno per poter ascoltare. Ci sarebbe pure l’aneddoto: la sconosciuta che mi ha dato i suoi consigli su come dovrei realizzare il partire da me perché non le risulti noioso. Ridicolo? In effetti avrei riso, se non fosse stato per questo pensiero che ha fatto capolino: un uomo che non abbia il debito di gratitudine che ho io verso le maestre del pensiero della differenza, certo a questo punto avrebbe tagliato l’angolo e lasciato la consigliera a cercarsi il suo specchio. Ad ogni modo, non sarebbe un gran colpo di scena perché Lia Cigarini, una di quelle maestre, ha già dato un nome a questa difficoltà (si veda l’articolo “Usare la mediazione maschile”, nella nuova edizione del suo libro). Soprattutto, quella difficoltà non è davvero la mia: quando un incontro mi ha suscitato il desiderio di incontrare il pensiero della differenza, mi sono messo in ascolto, di voci e scritture, per quasi vent’anni e alla fine l’interlocuzione, la fiducia e lo scambio ci sono stati.

La difficoltà su cui invece, in questo periodo, sto ragionando a partire da me e di cui ho pensato di parlare per raccogliere l’invito a ragionare qui sul partire da sé è una difficoltà che incontro sul luogo di lavoro, nel momento in cui cerco di muovermici in un modo diverso. Se fossi un sindacalista o un giornalista, questa mia difficoltà potrebbe riuscire a dirci qualcosa sui sindacati o sui mass-media, ma insegno in un’università per cui è da lì che devo partire. Si dice spesso che oggi il sapere è mercificato e l’università aziendalizzata. Dicendo così si nominano certo dei processi reali, ma è significativo che, nominandoli in questo modo, si riconosca implicitamente che l’università non è di per sé un’azienda come le altre o un’impresa interna alla logica del mercato. Per capire la difficoltà che sto cercando di esporre, questo è dunque il primo elemento: di per sé, in università ne va di qualcosa di più di un interesse privato, ne va del sapere, della sua ricerca incondizionata e della sua trasmissione alle nuove generazioni. Un po’ come in un ospedale ne va della cura incondizionata della salute, secondo quanto ci ricorda il giuramento di Ippocrate. Sono questi degli ideali e non la realtà? Esattamente, sono gli ideali a cui quelle realtà sono rimandate come alla loro misura. Un ideale può essere investito da un desiderio: non è detto che succeda e se succede le cose possono ancora andar male, ma possono anche andar peggio, ad esempio se il desiderio investe solo l’ultimo modello di smartphone. Ad ogni modo, il mio desiderio investe quegli ideali. Ma dal pensiero della differenza ho imparato che quell’investimento, per non andare a male, deve tradursi in relazioni e tanto nutrirle quanto farsene nutrire. Ecco, dunque, il primo filo del mio nodo: un luogo che convoca un ideale (il sapere), un ideale che suscita un desiderio (il mio), un desiderio che sa di poter coltivare quell’ideale solo in una rete differenziata di relazioni in cui circola fiducia. Ho scritto che la rete delle relazioni è differenziata perché ce ne sono almeno di due tipi: quelle con le e gli studenti e quelle coi colleghi e le colleghe. Il nodo di cui vorrei parlare riguarda queste seconde.

Di solito, il partire da sé ottiene necessità quando il desiderio è come ostacolato o stretto dalle cosiddette “mediazioni ricevute”, le interpretazioni e le forme di rapporto dominanti. Ebbene il desiderio che ho evocato si trova effettivamente stretto da un certo modo di abitare l’università che, è facile notarlo, non favorisce né la coltivazione del sapere (la ricerca autentica, l’insegnamento coinvolgente), né il fiorire di relazioni di fiducia (non si dimentichi però il segreto: non sono due cose separate; se non se ne favorisce una, si soffoca anche l’altra).

Dare il nome giusto a questo modo di abitare l’università, che fa ostacolo, è fondamentale. Cercando questo nome, ho innanzitutto escluso che fosse “avidità o sete di denaro”: troppi pochi soldi circolano in università perché la passione che travia il desiderio sia quella per la ricchezza. Un’altra ipotesi che può venire in mente è che a sviare, soprattutto gli uomini, sia la ricerca del sesso, ma il movimento Metoo è entrato anche all’università accelerando una trasformazione di quei costumi. La terza e più importante ipotesi è che la passione sviante sia quella per il potere in generale (il poter imporre, il poter decidere, il far fare) e, in particolare, per il potere dato dal prestigio. Per quanto di potere in palio all’università (e soprattutto nelle facoltà umanistiche) non ce ne sia poi molto e il prestigio sia calante da vari decenni, è fuori di dubbio che dinamiche di potere ce ne siano e che producano i loro effetti malefici, sia a livello dei vissuti, sia soffocando possibilità. Ho anch’io la mia buona dose di storie in proposito, ma invece di raccontarle, rimando a un’opera cinematografica che riesce a parlarne con competenza, pur col tono della commedia: si tratta della trilogia Smetto quando voglio. In rete si trova anche una mia analisi dei primi due film, ma non meno importante è il terzo che solleva l’inquietante problema di quanto di fatto si sia conniventi con quelle dinamiche, per mediocri paure o ristretti calcoli. Proprio questo problema obbliga il ragionamento a fare un passo in più e a chiedersi: dov’è che queste dinamiche di potere trovano il loro aggancio soggettivo? Interrogando la mia esperienza, mi sto insomma chiedendo perché così tante persone, uomini e donne, le assecondino o vi partecipino. La risposta è semplicemente che sono abitate da un desiderio di potere o prestigio? Ne ho incontrate alcune per cui sembra proprio così, ma le altre? Molte pensatrici e qualche pensatore, ad esempio Sant’Agostino, suggeriscono che quel desiderio sia in realtà un desiderio d’amore che non ha trovato la strada giusta. Da qualche tempo mi chiedo se la spiegazione non sia ancora diversa.

Più che un teatro in cui si scontrano solo grandi ambizioni di potere, a me sembra che gran parte della vita accademica assomigli sempre più a un’associazione a responsabilità limitata. Al posto della dedizione alla ricerca di un sapere che sia all’altezza delle sfide del presente o a un insegnamento che esige l’assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni, non stanno le drammatiche vicende di un Macbeth o di una Lady Macbeth, bensì povere routine. Ci si adatta, non senza i consueti lamenti, a richieste e modelli di cui è escluso interrogare i fondamenti o le alternative. Limitando il corso all’esposizione di un manuale, la ricerca alla scrittura di saggetti ben confezionati e il lavoro coi laureandi alla valutazione di elaborati verso cui non c’è attesa, si rinuncia a delle possibili sorprese e persino a delle possibili gioie. Mi chiedo perché succeda tutto ciò e non mi soddisfa la risposta che invoca il desiderio di potere e di carriera. La mia ipotesi è che quei modelli seducano il soggetto promettendogli i vantaggi di una responsabilità limitata. Ossia: schermando il pericolo che si corre quando si lascia la strada vecchia per raccogliere la sfida di un desiderio grande come può essere il desiderio del sapere (che si sente in sé e che si legge negli occhi di altri, ad esempio le e gli studenti). C’è chi dice che sia proprio questo il nuovo volto del potere in università: non più la dinamica tra il servo e il barone, ma i modelli impersonali dell’accreditamento e della valutazione standardizzata. Io aggiungo che nel tornaconto ci sono i vantaggi, di corto respiro, della responsabilità limitata.

Questi vantaggi, comunque, per me sono svantaggi perché mi passa la voglia di fare e finisco per deprimermi. Così, cerco passaggi verso un modo diverso di abitare questo luogo. Provo a fondare situazioni differenti. Lo scorso ottobre, ad esempio, ho organizzato un seminario, che continua ancora, in cui leggiamo Le nuvole di Aristofane, la commedia tra i cui personaggi c’è Socrate: è un seminario che non dà crediti agli studenti e che non viene retribuito ai docenti. Si basa sull’idea di una messa in comune dei saperi e delle esperienze per ragionare su quel testo: partecipano una quarantina di studenti e molti colleghi e colleghe di discipline diverse, dalla letteratura greca a quella bizantina, dalla semiotica alla storia del teatro, dalla filosofia politica alla storia greca, dalla paleografia all’antropologia culturale e alla storia della filosofia antica. Per più versi, si tratta di un contesto generativo.

Sto dunque raccontando una storia che finisce bene? Non proprio, perché c’è qualcosa che mi angustia. Potrei dire che è il terzo filo di questo nodo, insieme al desiderio grande e alle forme della responsabilità limitata. Lo descriverò così: se sono le relazioni di fiducia la risorsa attraverso cui creare un luogo per quel desiderio, entro lo spazio ingombrato da quelle forme, dove cercare la misura per quella fiducia? A me viene spontaneo cercare tale misura prendendo a modello le relazioni di amicizia: cerco, insomma, di diventare amico con quei colleghi e colleghe insieme a cui metto in piedi il tipo di situazioni generative descritte. Ma alcune brutte esperienze vissute qualche anno fa in Francia mi dicono che non è una buona soluzione. In effetti, se ci penso con un po’ di distacco, mi accorgo anch’io che, in un contesto in cui è forte la tentazione della responsabilità limitata, non è un’ottima idea proporre un coinvolgimento così intenso come l’amicizia. Ci si destina a delusioni, che però si potrebbero evitare perché dipendono da attese eccessive. Ho dunque bisogno di un’altra misura per le mie attese, ma quale?

A dire il vero, Aristotele parlava di un tipo di amicizia che si realizza proprio nella coltivazione comune di ciò che è più alto, ma non è chiaro come imparare a praticarla. E se, invece, l’amicizia e la fiducia fossero da coltivare altrove, così che da lì possano nutrire un modo di entrare nei contesti dove prevale la responsabilità limitata, capace di coinvolgimento e di creatività, ma non privo di prudenza? Rileggendo il saggio di Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, mi ha colpito in proposito questa frase: «Quello che devo saper fare sono i conti con la realtà, me compresa, e farli bene». Qui si allude alla possibilità di un conto in cui possano trovare misteriosamente posto anche quelle figure dell’incalcolabile che sono il desiderio e gli ideali (o beni comuni). Quel desiderio, grande ma intimo, che impari a riconoscere entro le relazioni di fiducia, nominarlo e giocarlo poi anche in altre relazioni, di cui accetti la differenza proprio nello stesso momento in cui resisti a che divengano a responsabilità limitata. Penso sia questa contrattazione sapiente la via difficile e stretta che mi indica Muraro.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024.

Questo incontro di Via Dogana ha come tema la scommessa del partire da sé. Il partire da sé è una pratica che è stata importantissima per il movimento delle donne, noi abbiamo scritto nell’invito «una pratica vincente». Vincente perché ha permesso di scardinare il discorso neutro-oggettivo su di noi che gli uomini ci imponevano dall’esterno. E adesso è una scommessa che vogliamo proporre a tutte e a tutti come una delle possibili vie d’uscita dalla crisi di tutti i modelli politici, che oggi stanno drammaticamente franando.

Personalmente sono ancora un’apprendista della pratica del partire da sé, perché ho fatto venticinque anni di politica neutra maschile, iniziando molto giovane, e questo mi ha inculcato tutti gli schemi dell’“oggettività”, dell’astrazione, e devo ogni volta fare uno sforzo cosciente per tornare al mio sentire, e a volte non lo riconosco, non lo “sento”. C’è un qualcosa che mi fa arrabbiare, o che risveglia la mia diffidenza, o che suscita altre reazioni, ma non riesco a individuare che cos’è, cerco di far ricorso a razionalizzazioni e non so metterlo a confronto con me stessa. Quando ci riesco però mi rendo conto della profonda differenza, mi rendo conto che viene fuori l’autenticità, la chiarezza sulla natura politica dei problemi. E diventa più chiaro anche cosa è possibile fare.

Il partire da sé naturalmente non è l’autobiografia, non è fermarsi a raccontare la propria esperienza. È, per dirlo con le parole di Luisa Muraro che abbiamo citato nell’invito1, coinvolgersi, non pensare per schemi astratti ma coinvolgersi in quello di cui si parla, sapere se ci tocca, perché e per quale motivo.


Ne parleremo con Chiara Zamboni della Comunità filosofica Diotima dell’Università di Verona, che parlerà del partire da sé e delle relazioni con il contesto in cui si parte da sé, e con Riccardo Fanciullacci, che accetta la scommessa che sia anche una pratica politica per gli uomini e che ci porta l’esperienza di un tentativo di attuarla, ma anche delle difficoltà che ha incontrato.

Anche Riccardo ha partecipato alla Comunità filosofica Diotima. Ora è docente all’Università di Bergamo; ha collaborato e scritto con Luisa Muraro e insieme a Stefania Ferrando ha curato la raccolta di scritti di Lia Cigarini La politica del desiderio.

  1. “Partire da sé, che vuol dire: rinunciare al punto di vista oggettivo esterno per coinvolgersi nella realtà in questione, e farlo distaccandosi da sé, per mettersi nel movimento della trasformazione di sé e della lingua, una cosa mediante l’altra.” ↩︎

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024


Domenica 10 marzo 2024, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Calvi 29, Milano

Il partire da sé è una pratica inventata dal movimento delle donne alla fine degli anni ’60 del ’900. Se per le donne è stata innegabilmente una politica vincente, oggi questa scommessa riguarda sia le donne che gli uomini almeno per due ordini di ragioni. È infatti una possibilità che si apre a fronte di una crisi sempre più grave delle forme della politica maschile: per comprenderlo basti pensare a quanta forza hanno avuto le parole e le azioni della sorella e del papà di Giulia Cecchettin uccisa dal suo ex fidanzato. Inoltre viviamo in un’epoca in cui i sistemi di governo entrano sempre più a normare e regolare ogni aspetto della vita e il potere non è una cosa astratta e lontana, ma lo viviamo nei nostri stessi corpi che diventano la posta in gioco: proprio dai corpi, da ciò che patiscono e da ciò che desiderano può partire il cambiamento.

Per discuterne insieme riprendiamo delle parole di Luisa Muraro: «Partire da sé, che vuol dire: rinunciare al punto di vista oggettivo esterno per coinvolgersi nella realtà in questione, e farlo distaccandosi da sé, per mettersi nel movimento della trasformazione di sé e della lingua, una cosa mediante l’altra».
Ne parliamo con Chiara Zamboni e Riccardo Fanciullacci. Introduce Silvia Baratella.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Olga Karatch è una giornalista e attivista per la pace e per i diritti civili bielorussa. Il 3 marzo, a Bolzano, ha ricevuto il Premio internazionale “Alexander Langer” per il suo lavoro contro la guerra, a favore dei diritti umani e per una svolta democratica in Bielorussia. A causa del suo impegno, il regime di Aljaksandr Lukashenko l’ha accusata di terrorismo, crimine per il quale nel suo Paese è prevista la pena di morte. Oggi vive a Vilnius, in Lituania, dove le è stato negato l’asilo politico perché considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale”.


Karatch, per quale motivo il governo del suo Paese l’ha accusata di essere una terrorista?

Durante le proteste del 2020, scoppiate dopo le elezioni presidenziali fraudolente, ho contribuito a organizzare una linea telefonica per le vittime della repressione di Lukashenko, avviando una raccolta fondi per coprire le loro spese legali. Nel 2021 il governo ha interrotto il nostro lavoro, arrestando alcuni di noi e costringendo altri alla fuga all’estero. Il Kgb ha quindi inserito il mio nome nella lista dei terroristi. Questa è la realtà dei fatti. Ufficialmente il regime mi ha accusata però di aver tentato un attacco kamikaze nei pressi di un punto di comunicazione russo su ordine di Angela Merkel.


Il suo impegno con “Our house” è iniziato nel 2005. In quali ambiti si sviluppa l’attività dell’organizzazione?

“Our house” si è dedicata inizialmente a supportare le donne, che in Bielorussia sono vittime di abusi di diversa natura. Con la campagna “252+1”, ad esempio, abbiamo fatto pressione affinché venisse consentito alle donne di accedere ad alcune professioni a loro proibite, spesso lavori meglio retribuiti o legati a stereotipi di genere. Fino a qualche tempo fa la lista comprendeva 252 professioni. Oggi, grazie alla nostra campagna, sono 186. Un focus particolare lo dedichiamo poi ai minori. “Children 328”, per esempio, mira alla liberazione dei minori incarcerati. In Bielorussia, infatti, i ragazzi dai quattordici anni in su possono essere condannati a dieci anni di carcere per il consumo di sostanze stupefacenti. Le conseguenze per la salute fisica e mentale per un giovane possono essere tremende, date le condizioni in cui versano gli istituti di pena bielorussi: non c’è la possibilità di frequentare la scuola, l’assistenza sanitaria è carente e sono frequenti violenze e torture.


Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, due anni fa, avete dato vita alla campagna “No means no”. Di che cosa si tratta?

“No means no” è una campagna per promuovere e difendere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, 43mila bielorussi hanno ricevuto la cartolina di precetto dell’esercito. Abbiamo risposto diffondendo materiale informativo per esortare gli uomini a non rispondere alla chiamata e a fuggire. Il nostro obiettivo è l’istituzione di corridoi umanitari per tutti coloro che rifiutano di combattere. Noi garantiamo assistenza legale a chi si rifugia in Lituania. Siamo convinte che l’obiezione di coscienza contribuirebbe a risolvere ogni conflitto sul Pianeta. Si potrebbero combattere le guerre senza soldati?


Quanti sono gli obiettori di coscienza nel Paese e quali conseguenze devono affrontare?

In Bielorussia, dove non esistono tribunali indipendenti, gli obiettori di coscienza vanno incontro a una condanna da sette a dieci anni di carcere. Nel 2023, fonti governative hanno dichiarato che i ricercati per non aver risposto alla chiamata alle armi erano cinquemila. Se chi decide di non arruolarsi – o diserta – fugge in Russia, rischia la deportazione. Lo stesso accade in Lituania, dove si aggiunge la sospensione di cinque anni per un visto di ingresso nei Paesi dell’Unione europea.


Dal punto di vista sociale invece quali effetti produce questa scelta?

Chi rifiuta di imbracciare le armi fa i conti con un forte stigma all’interno di una società, quella bielorussa, in cui si è riaffermato un unico modello di uomo, ossia colui che combatte. La donna, invece, ha il solo compito di ispirarlo e sostenerlo nel compimento del suo dovere. Gli obiettori di coscienza, così come i reduci che non vogliono o non possono più combattere, sono considerati cittadini di livello inferiore.


Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha paventato la possibilità di un intervento delle truppe Nato in Ucraina. Vladimir Putin ha risposto ventilando la minaccia delle armi nucleari. In Europa e non solo si assiste a una sorta di corsa alle armi. Come giudica questa escalation?

Oltre al fatto che, ovviamente, senza veri percorsi di pace l’escalation bellica continuerà con risultati potenzialmente catastrofici per l’umanità, da quello che osservo nella regione e nei Paesi limitrofi – Polonia e Paesi baltici – la militarizzazione ha effetti sulla vita quotidiana di adulti e bambini. “Our house” accende i riflettori sulla militarizzazione dei minori in atto in Bielorussia, dove, nel 2022, 18mila bambini dai sei anni in su hanno partecipato a 480 campi militari estivi sotto l’egida del ministero della Difesa. Di questi, duemila giovani sono stati poi selezionati per un vero e proprio addestramento e oggi sono in grado di sparare, guidare mezzi militari e gestire parte della logistica militare. In molti casi i bambini coinvolti provengono da famiglie marginalizzate, che vedono in questa iniziativa la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Insomma, stiamo assistendo a una escalation che agisce su più livelli e che non sembra facilmente arrestabile.


In Lituania, dove vive, le è stato negato l’asilo politico. Quanto si fa sentire la pressione del governo bielorusso anche al di fuori dai suoi confini?

Enormemente. A me è stato negato l’asilo e ora ho un permesso di soggiorno per motivi umanitari che scadrà tra un anno. Ero arrivata in Lituania, un Paese dell’Ue, con molte speranze, ma ho capito presto di essermi illusa. Anche qui siamo vittime delle operazioni di discredito da parte del regime di Lukashenko. Per essere considerati “minaccia per la sicurezza nazionale” dal Dipartimento di sicurezza nazionale lituano – come nel mio caso – basta solo un sospetto. Nel Paese poi sta prendendo piede un sentimento di avversione nei confronti di chi scappa dalla Bielorussia. Alcuni obiettori di coscienza che hanno presentato domanda di asilo sono stati rinchiusi in strutture simili a prigioni e sono sottoposti a maltrattamenti basati unicamente sulla loro pregressa esperienza militare. Il governo lituano, inoltre, cerca di limitare proprio le nostre attività in sostegno ai rifugiati bielorussi.


Quali richieste vorrebbe avanzare al Parlamento europeo, in vista delle elezioni del prossimo giugno?

Nel Parlamento europeo abbiamo bisogno di persone che lavorino per la pace e che creino spazio per la forza della società civile e dei costruttori di pace, finora esclusi da qualsiasi dibattito. Se davvero si vuole fermare la guerra bisogna puntare sulla diplomazia, creando strumenti alternativi alle armi. Il sostegno agli obiettori di coscienza, a cui finora l’Ue non ha garantito alcun supporto, può essere una misura importante.


Domenica 3 marzo le è stato consegnato il Premio internazionale “Alexander Langer” 2023, dedicato al politico ed eurodeputato altoatesino scomparso nel 1995 e assegnato ogni anno a personalità o organizzazioni che si sono distinte per la loro attività a favore della pace, dei diritti umani e civili. Quale aspetto dell’eredità di Langer la guida nel suo impegno per la pace?

«Meglio un anno di trattative che un giorno di guerra». Questa frase di Alexander Langer deve essere il nostro faro. Per quanto sia complicato e faticoso, in una società in cui le opinioni sono polarizzate e le persone non si ascoltano, dobbiamo continuare a credere nella comunicazione non violenta e nella possibilità di costruire ponti. La via per la pace passa anche dall’affermazione di questi principi.


Da altreconomia.it

Contrariamente a quanto tutti hanno detto, nella Carta francese non è stata scritta la parola “diritto”. Per fortuna. Sennò si scivola sul terreno dei diritti contrapposti (quello dell’uomo, quello del feto…) e si banalizza una esperienza trascendente.

Da un po’ di tempo spirano verso l’Europa venti minacciosi per conquiste delle donne che pensavamo solide, come la libera scelta nella procreazione. Da ovest, dagli Stati Uniti arrivano notizie di drastici passi indietro in singoli Stati e dalla Corte Suprema; da est nella Russia putiniana è in atto un ritorno massiccio a un’alleanza tra tradizionalismo religioso ortodosso e Stato che non lascia presagire niente di buono per le donne, da sud premono fondamentalismi religiosi di matrice islamica che hanno nel mirino la conservazione del dominio sulle donne.

In questo clima di incertezza e di generale disorientamento, la Francia ha pensato bene di mettere in sicurezza la libera scelta femminile, costituzionalizzandola… non si sa mai. Dico la Francia e non una maggioranza politica, visti gli schiaccianti numeri che hanno approvato, a camere riunite, la proposta. E lo ha fatto con una formula che conviene citare per esteso: “La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza”. Nel testo si parla di “libertà” e di “condizioni” in cui si esercita tale libertà, non di “diritto”. Ma in tutti i commenti parlati e scritti che ho letto o ascoltato la parola usata è stata invece “diritto”, anche qui su Huffpost.

Ora su un terreno così sensibile e aperto ai dilemmi etici e nel quale la differenza del soggetto femminile viene giuridicamente riconosciuta l’uso dei termini giusti è fondamentale. Parlare di libertà o di autodeterminazione nel caso dell’aborto è cosa ben diversa che definirlo un diritto. L’interruzione volontaria di gravidanza non è oggetto di esercizio di un diritto positivo, come può esserlo il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, ecc. No, siamo in un campo diverso in cui il soggetto neutro eguale che è alla base del diritto moderno mostra i suoi limiti.

La donna è un corpo differente da quello maschile, porta in sé la potenza procreativa che l’uomo non possiede. Equiparare questa potenza/potere – sia nel suo versante positivo, come nella scelta della maternità sia in quello negativo come nella scelta dell’aborto – a un diritto significa neutralizzare questa differenza, cancellare il fatto che, mentre il diritto divide in individui, in soggetti distinti, anche in potenziale conflitto tra loro, la potenza procreativa della donna unisce, vincola il sé all’altro. La libera scelta procreativa è nello stesso tempo affermazione di responsabilità verso l’altro. Si riconosce alla donna la libertà di interrompere la gravidanza perché è lei, in ultima istanza, la sola custode e responsabile di un’altra vita. E può, per i più vari motivi, non sentirsi di farcela. Se riportiamo questa differenza femminile allo schema del diritto soggettivo, quello dell’individuo neutro-maschile, allora risulta facile far scivolare questo ambito così peculiare nella logica dei diritti contrapposti. L’abbiamo già visto: perché non prendere in considerazione il diritto dell’uomo o il diritto del feto?

Non solo, io sono persuasa che l’aborto, che sul piano dell’esperienza individuale e interiore ha il senso di “un evento importante e trascendente” (Eva Pattis), non vada banalizzato trasformandolo in uno dei tanti diritti positivamente inteso. Il testo introdotto nella Costituzione francese non va, per fortuna, in questa direzione.


Da HuffPost

Ero andata a questo incontro con l’atteggiamento dell’osservatrice, come altre mie coetanee.

In quei due giorni tantissime donne, di tutte le età, si erano date appuntamento a Bologna, la città in cui vivo, dal nord al sud d’Italia, per organizzare uno sciopero globale l’8 marzo contro la violenza maschile. Mi interessava vederle, sapere cosa pensavano.

Ed è stata una sorpresa felice.

Sono uscita dall’assemblea generale, che presentava le sintesi dei lavori di gruppo del giorno e mattina precedenti, con una sensazione di contentezza, per la passione, l’entusiasmo e l’energia vitale che le giovani organizzatrici avevano comunicato nei loro resoconti a tutte le donne presenti, e penso anche, forse, ai diversi uomini che, con discrezione, avevano partecipato ai lavori.

Dal mio punto d’osservazione nell’aula magna dell’università, stipata fino all’inverosimile, ho avuto dei flash back di riunioni storiche del femminismo sorgivo degli anni ’70, dove la politica si comunicava attraverso un sentire, un modo anche gioioso di esserci, che si può solo vivere in presenza.

Nell’assemblea generale della domenica pomeriggio, sono stati riportati i temi discussi nei lavori di gruppo ai tavoli. Gli argomenti erano: Educare alla differenza, all’affettività e alla sessualità, e la formazione come prevenzione nei confronti della violenza; Femminismo migrante; Sessismo nei movimenti; Diritto alla salute sessuale e riproduttiva; Narrazioni della violenza attraverso i media; Piano legislativo e giuridico; Percorsi di fuoriuscita dalla violenza; Lavoro e salute.

Nei lavori di gruppo ai tavoli si parlava di pratiche e di esperienze molto concrete, avendo come filo conduttore il tema della violenza maschile come parte integrante del sistema politico patriarcale, e gli strumenti politici e culturali necessari per prevenirla e contrastarla.

Questi temi sono stati declinati nei modi più diversi, come diversissime e variegate erano le partecipanti e i loro percorsi. Erano rappresentate le varie condizioni di lavoro. C’erano molte lavoratrici, precarie e non: insegnanti, sindacaliste, migranti, attiviste sociali, ricercatrici universitarie, avvocate, pensionate, studenti … Si andava dalla riflessione sulla trasformazione di sé e la crescita personale, nel gruppo su Educazione e formazione, alle azioni di aiuto alle migranti da parte delle attiviste sociali, nel gruppo Femminismo migrante. Non ho sentito da nessuna parlare della violenza maschile in tono vittimistico: “non ve ne faremo passare una”, ha detto la giovane che riferiva sul gruppo “sessismo nei movimenti”.

Penso che le riflessioni e le dichiarazioni uscite dal convegno siano andate molto oltre la preparazione per la scadenza dello sciopero dell’8 marzo e che la necessità di reagire alla violenza contro le donne sia stata trasformata in consapevolezza politica, in energia propulsiva e desiderio di cambiamento. Ho sentito da più parti affermare con entusiasmo che un nuovo movimento internazionale trasversale sta nascendo, è partito dall’Argentina, coinvolge le donne di più di trenta nazioni come la Polonia e la Russia, e le reti di collegamento si stanno sempre più allargando.

Per me, femminista dagli anni Settanta, è stato vivificante sentire le giovani, che riportavano in assemblea con intelligenza e competenza i temi discussi in gruppo, affermare con orgoglio di essere femministe, e dichiarare il loro desiderio di mettere a frutto la ricchezza dell’elaborazione femminista che le aveva precedute. Comunicavano la consapevolezza di avere una genealogia alle spalle, ci stavano restituendo parte del nostro investimento di energie e di vita.

Voglio accogliere con fiducia la loro scommessa.

Riprendo in queste note, a mio modo, alcuni dei temi trattati nella redazione allargata di VD3 sull’immigrazione, domenica 3 febbraio 2019. Penso che il discrimine della differenza sessuale sia cruciale non solo per le donne migranti, ma per noi tutte. Le prime, come è stato detto, spesso soggette a violenza, se noi non facciamo la differenza non ci parlano, non parlano in un contesto in cui sono presenti anche gli uomini. Alcune di noi, d’altro canto, sono messe in affanno quando i migranti sono più uomini che donne.

Le migranti, in questo paese, non hanno determinato quasi alcun problema. Generalmente, grazie a relazioni tra donne anche faticose e impegnative, hanno piuttosto aiutato a risolverne molti.

I migranti se non hanno una donna che li accompagni, che li abbia voluti accanto a sé, che li abbia qui richiamati dal paese di origine ed introdotti, che insomma se ne faccia garante, possono essere un problema. Per me è così.

Si riducono i luoghi della città in cui giro sentendomi relativamente libera e serena, a causa della presenza di nutriti gruppi di uomini. Ho smesso di usare i mezzi pubblici di sera tardi, per la presenza quasi esclusiva di uomini che non mi capiscono e di cui non capisco la lingua o il cui colore della pelle rimanda a civiltà di cui non conosco i codici e nelle quali so che il posto delle donne è quello della soggezione. L’argomentazione che la maggioranza degli stupri sono commessi dagli uomini che ci sono più familiari, non basta a convincermi che non sia più che opportuno scansare quei luoghi.

Certo non rincuora, come ci raccontano le più intraprendenti di noi, fondatrici di associazioni, animatrici attive di politica, che studiosi, attivisti, affiliati a più famose e potenti “associazioni nazionali”, donne non escluse, non colgano la centralità della differenza sessuale. Gli pare efficace, per invalidarne l’importanza, notare che anche gli uomini vengono stuprati dai loro simili. Pare loro che venga enfatizzata la violenza sulle donne, se agita da immigrati. Non vedono le migranti prostituite e i loro prostitutori, ma si concentrano sui diritti delle lavoratrici del sesso. Mi chiedo se si può fare qualche cosa per dare loro la sveglia, perché vedano che quanto di intollerabile viviamo a motivo delle migrazioni è un problema di uomini, italiani e stranieri, è un problema di violenza maschile.

E mi chiedo se la nostra libertà di donne esiga di non arrenderci alle migrazioni come fatto ineludibile, di non avallare la previsione dell’irreversibilità degli attuali movimenti migratori.

Per me il bene è che questo fenomeno, per i modi e i motivi per cui si manifesta, abbia fine. Che le guerre, le carestie, le siccità indotte da interventi umani sciagurati, abbiano fine. Che i migranti possano restare sulle loro terre a custodirne integrità e fertilità, che si interrompa la forzata sconnessione degli uomini dalle donne.

Riflettendo sulle parole che comunemente vengono usate, non voglio negarmi la possibilità di dire aiutiamoli, qui da noi o a casa loro, se è di aiuto che hanno bisogno, ma voglio dire essenzialmente che a casa loro bisogna smettere di depredare e cominciare a restituire, a risarcire, e penso soprattutto all’Africa. Si tratta di riparazioni di guerra, perché di una guerra si è trattato, secolare, di ininterrotta strage, schiavitù e rapina.

Mi pare che si debba continuare a dirlo forte e chiaro e che è su questo punto che si deve trovare uno spiraglio per cominciare a intervenire. Poi molti modi civili e sensati di promozione o di risposta positiva alla domanda di immigrazione possono essere trovati, tenendo fermo il punto della differenza sessuale e mantenendo al primo posto la libertà femminile. Due esempi di cura e attenzione possibili: accoglienza prioritaria di donne migranti che vogliono sottrarsi alla violenza di padri, fratelli, mariti; informazione diffusa tra le donne italiane sulla legislazione e sulle usanze prevalenti nei rapporti fra uomini e donne nei paesi di provenienza dei migranti.

Resta il fatto che deve essere garantita una vita degna a quelle e quelli che già vivono in Italia e che degnamente dovranno essere accolti quelli che ancora arriveranno.

E non vorrei privarmi della parola accoglienza “solo” perché quella di Stato si è rivelata ennesima occasione di criminalità e violenza.

La tesi che l’abitare, la convivenza in quanto tale, sarebbe la via per volgere in accoglienza, in libera accettazione quel che spesso proprio nella vicinanza è paura, lontananza, avversione, non mi pare convincente. Certo è il punto di appoggio su cui far leva, sulla e nella convivenza si combatte la battaglia della relazione con i migranti. Se perfino l’abitare manca, siamo nella disperazione dei Cara, delle baraccopoli, dei palazzoni fatiscenti occupati, frutto di decenni di inerzia di tutte le forze politiche del paese.

Abbiamo pieno titolo ed esperienza sufficiente per discuterne, grazie alla presenza attiva nostra e delle nostre simili nella società, grazie alla “politica prima” che molte donne praticano, grazie al tanto, fatto e detto, per promuovere una degna permanenza di minori, donne e uomini migranti, là dove eravamo e siamo, nelle scuole, negli ospedali, sui tram, nelle nostre case come nelle imprese ed associazioni di donne, a garanzia del passaggio dalla prima, semplice accoglienza alla ricchezza della relazione.

Uno dei punti di svolta possibili sembra essere dato, come a Riace, da una comunità che ritrova un proprio, preciso interesse nell’accogliere i migranti. Se non è la Confindustria a convincere del bisogno che abbiamo di immigrazione, può essere, paradossalmente o forse non tanto, la parte più debole della popolazione, quella che può trarre immediato profitto da questa forza giovane, la forza che nell’invecchiamento viene a mancare, che manca alle campagne incolte, ai boschi abbandonati, a un grande e antico patrimonio edilizio altrimenti destinato al degrado. Vi è una mobilitazione possibile in questa direzione, Riace lo dimostra.

Cambiando scenario: anche negli spazi delle grandi città, mettendo al centro il “primum vivere” e non rimanendo incastrati dal ricatto del lavoro che manca, si potrebbe pensare al reciproco beneficio di scambi non convenzionali, inventando, agevolando forme di vita che permettano mescolanza e convenienza. Anche i poveri di certi degradati agglomerati urbani, potrebbero per tali vie trovare nei migranti una ricchezza.

A me pare che la maggiore presenza politica delle donne nella vita pubblica, a partire dalle città, può applicarsi al meglio a tutti i temi affrontati. Potrebbe provare inoltre a eludere la via delle burocrazie, degli stati nazionali e delle bande criminali, per creare un flusso di ricchezza da indirizzare attraverso donne e uomini migranti nei paesi di origine, perché vi tornino più forti e ritemprati o aiutino chi è rimasto a realizzare progetti, avviare imprese: per riportare ricchezza che è cosa varia, fatta di denaro, certo, ma come sempre ripetiamo, forse prima di tutto di pensiero, parole e relazioni.

Quasi tutti i mezzi d’informazione di oggi, 5 febbraio, si occupano della vicenda dello stupro della tredicenne a Catania. Alcuni si pongono il problema di cosa dicano le donne, in particolare le femministe, di questo stupro che è stato commesso da giovani maschi, alcuni minorenni, di nazionalità non italiana. Molti di coloro che si pongono questa domanda sono uomini.

A quanto mi risulta ben pochi uomini sui mezzi d’informazione si pongono, di contro, la domanda di cosa pensiamo, diciamo e facciamo noi maschi, me compreso.

Forse, in questi casi invece di guardare sempre al fuori di noi, di rendere esterno a noi il problema della violenza, in questo caso anche sessuale, e di puntare il dito accusatore verso altri uomini, meglio se stranieri, sarebbe il caso che volgessimo il dito, lo sguardo su di noi, sui nostri silenzi e sulle nostre omissioni. E tentassimo, con le parole e con le azioni, di cambiare lo stato di cose esistente, senza pensare che violenza sia sempre agita da altri, e ho non da noi stessi.

Nel mese di novembre si è consumato, davanti agli occhi di tutti – in una morbosa diretta televisiva, a cui ormai siamo purtroppo abituati – l’ennesimo femminicidio: la vittima era Giulia Cecchettin. Siamo stati tutti, per una settimana, con gli occhi incollati al telefono, alla tv, le orecchie fisse a varie stazioni radiofoniche alla ricerca di una notizia, un’informazione in più, nonostante la maggior parte degli spettatori conoscesse già quale sarebbe stato l’epilogo.

Io ho appreso la notizia durante una delle attività quotidiane più banali e indispensabili: stavo facendo la spesa al supermercato. Ricordo di aver aperto Instagram, mentre navigavo nel reparto surgelati, e aver visto sulla mia home il post di Elena Cecchettin – una tenera foto tra sorelle, un cuore in didascalia. Ricordo di essermi fermata in mezzo al corridoio, giusto un istante come per far funzionare meglio le mie sinapsi tra il rumore delle casse e il vociare degli avventori. Ricordo poi di aver pianto, una reazione spontanea e viscerale. Mi sono vergognata, un pochino, delle mie lacrime tra surgelati, verdure in scatola e patatineHo pagato la mia spesa, sempre tra lacrime sommesse, e sono rientrata a casa, triste e confusa.

La mia giornata è andata avanti alla meno peggio: non riuscivo a distogliere la mia attenzione da questa vicenda. Mi sono chiesta a lungo il perché, perché questo femminicidio era diverso – lo sentivo diverso, vicino, personale – mi sono chiesta se fosse per la tv, se fosse per l’attesa, se fosse per la contingenza con il 25 novembre, poi ho capito: era personale perché per la prima volta nella mia vita ho pensato: «Potevo essere io».

La mia vicenda personale, ormai di parecchi anni fa, è abbastanza simile a quanto ha preceduto la scomparsa di Cecchettin. Un uomo come Filippo Turetta l’ho avuto al mio fianco: una persona meschina, insicura, che traduceva questa sua inettitudine in una continua competizione con me, che apparivo agli occhi di tutti come una brillante liceale con un roseo futuro davanti. Lui, al contrario, accumulava fallimenti e delusioni accademiche durante i primi anni dell’università. Sminuirmi era dunque per lui essenza di sopravvivenza: più lui cadeva in basso, più doveva trascinarmi appresso.

Quella che all’inizio era una semplice cotta estiva in pochi mesi è diventata una di quelle che adesso chiamiamo relazioni tossiche, con tira e molla, insulti, litigi, tranelli, fino alla violenza vera e propria e alla persecuzione. Infatti, non è sempre facile chiudere le relazioni con questo tipo di persone: come bisce riescono sempre a trovare il modo di rientrare nella tua vita, magari tramite amici in comune, attenzioni non richieste o chiamate imploranti nel cuore della notte. Rientrano coi i vari cambierò, i vari non sei tu, sono io e altre bugie che raccontano come se ci credessero davvero. Non se ne vanno, mai. Non se ne vanno perché io – e come me tante altre – mi sento obbligata ad accogliere le loro turbe, a offrirmi come spalla su cui piangere lacrime di coccodrillo. Così, anche se l’unica cosa che vuoi fare è sbattergli la porta in faccia, sei lì a cercare le parole migliori per andartene senza farlo soffrire troppo. Solo che a volte queste parole non esistono e resti con la porta aperta, lui entra ed esce quando gli pare, come se quella relazione fosse solo un albergo e le cose che vorresti dirgli si accumulano sempre di più, ma le parole buone, quelle che non fanno soffrire nessuno, non le hai più, te le ha tirate tutte via a suon di insulti e quindi che fai? Stai zitta, aspetti che il tempo faccia il suo corso, che sia lui a stufarsi, che sia lui a sbattere la porta, sperando che non faccia più casino del necessario. Così, a volte si alza solo un polverone, altre volte, nell’uscire, ti lascia cadavere.

E poi la fanno facile in tv: «Dovete lasciarli al primo segno di squilibrio!». Nei rotocalchi non lo sanno che nonostante il nostro immenso dolore, nonostante ci trattino come degli stracci, che in fondo ci dispiace, sì, ci dispiace vederli tristi e sofferenti: siamo noi le donne e in quanto tali ci dobbiamo prendere cura del mondo intero, anche della parte del mondo che ci odia e ci uccide.

D’altronde, è con questo refrain che siamo state educate: se ti tira i capelli gli piaci… devi capirlo… è che lui è un maschietto e non è intelligente emotivamente e attento come te che sei una femminuccia… così devi volergli bene lo stesso, perché a lui piaci, anche se tu i capelli non li vuoi tirati.

Da Avvenire

Le donne lasciano un segno sulle guerre di Putin. Le madri dei soldati guidate da Valentina Melnikova hanno saputo mettere in crisi il potere sovietico e poi russo nelle sue diverse stagioni politiche e storiche. È accaduto sempre. Dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan all’invasione dell’Ucraina passando per le guerre in Cecenia. Anche nell’agosto del ’91, a Mosca, in prima fila alla manifestazione che celebrava la fine del golpe c’erano loro, le madri dei soldati. Simboli di disobbedienza civile, dal ventre della società, lungo i suoi undici fusi orari.

Quel che le donne hanno fatto nelle guerre in Cecenia è noto e costituisce un riferimento per chi promuove la risoluzione 1325 dell’Onu, che riconosce il ruolo delle donne nei processi di pace. Donne che hanno aiutato le madri dei figli scomparsi, prigionieri o caduti al fronte, recuperando i loro corpi o facendoli liberare grazie a relazioni radicalmente estranee alla guerra e perciò capaci di linguaggi e sensibilità per superare limiti costituiti.

Nella guerra di oggi accade altrettanto, fuori dai riflettori. Non si vedono o si finge di non vederle. Si cerca di nasconderle sotto al tappeto perché sono un problema. Disturbano chi le vorrebbe nell’esclusivo ruolo di creatrici di vite da spezzare, per soddisfare il bisogno di uomini per la guerra. Eppure loro agiscono. Fanno rumore. Nei modi e nei luoghi utili a creare ascolto e dialogo. Sono le donne che creano gruppi e associazioni come “Riporta il marito a sua moglie”, iniziata con la donna andata a cercare il marito di cui non aveva più notizie. L’ha trovato, prigioniero. Poi lei ha scelto di restare in Ucraina per fare da tramite per altre donne e riportare altri soldati a casa e, come dice lei, per fare il possibile per fermare la guerra. Qualcuno ricorderà i girotondi delle donne di Ulan Ude, capitale della Buriazia, quando Putin lanciò la mobilitazione. Protestavano mettendo in imbarazzo le forze dell’ordine, che non osarono arrestarle.

Molte di quelle donne oggi sono vedove per avere perso i mariti proprio a causa di quella mobilitazione. Non hanno mai smesso di protestare. Hanno creato un’associazione di vedove, “Donne forti”. L’organizzatrice è una donna che ha perso lei stessa il marito. Per cercare di contenerne la rabbia le autorità hanno messo a loro disposizione una sede e uno psicologo. Le donne si sono dotate di un avvocato. Come riportarono sull’account Instagram e Telegram Bajkal People, «la cosa più importante è che lì ci riuniremo e tra noi ci capiremo sicuramente». E ancora: «Gli amici siano amici, ma quando perdi una persona cara, non tutti capiscono i tuoi sentimenti e il tuo dolore. Le vedove che hanno vissuto il trauma possono capirsi di più, raccontare come ognuna di noi riesce a sopravvivere. Non esiste un’unica opzione per sopravvivere al dolore. L’esperienza può aiutare, e grazie a questa ognuna può farcela».

Parole che già allora suonavano come un avvertimento. Oggi, all’indomani dell’annuncio da parte della leader dell’associazione della volontà di candidarsi alle elezioni presidenziali chiedendo l’immediata fine della guerra, suonano come un avvertimento per Putin. Gli episodi che rappresentano il malessere verso la guerra sono tanti, come emerge pure dai sondaggi. Dal coro che sulla piazza di Ekaterinburg durante il discorso di Capodanno proiettato sul grande schermo manda al diavolo Putin, alla preoccupazione crescente per la violenza di ritorno dal fronte e per l’amnistia ai criminali in cambio del servizio al fronte, ai bambini della scuola vicina al Lago Bajkal che accolgono i volontari in divisa, giunti per sostenere i figli dei caduti, con una famosa canzone contro la guerra nota per essere eseguita da una cantante che sui social si esprime contro la guerra, alla rabbia, sempre delle donne buriate, che chiedono in incontri pubblici e in dirette tv perché un caduto buriato valga meno di uno della parte occidentale del Paese.

Sono malesseri antichi che vedono colpita questa popolazione da tempo. La storia insegna che il malessere delle donne può trasformarsi e smuovere poteri, anche quelli più forti o apparentemente tali. Donne che sfuggono di mano. Giornaliste, insegnanti, attrici, registe, poetesse, madri e vedove, tante già dietro le sbarre per il loro nonviolento “no” alla guerra, che possono diventare più di un disturbo perché toccano nervi sempre più scoperti e vanno oltre gli schieramenti, sfidando anche quelli ritenuti invalicabili.