Parlar bene delle donne non vuol dire parlar bene delle donne: per carità di patria, per partito preso, per non sparare sulla croce rossa. Perché è trendy e anche mainstream. Per comodità, mancanza di coraggio o di lucidità.

Parli bene quando vuoi aprire uno spazio in cui dai all’altra la possibilità di sperimentarsi, sperimentare. Parli bene se vuoi vedere la potenzialità di essere nell’altra donna. Se ne sei curiosa e ci credi. Se credi che il futuro lo possiamo generare e riconosci nell’altra la possibilità di generare futuro. È questo il parlar bene. Come è stato osservato, è proprio questo che amiamo nella letteratura e nel cinema delle donne. Lì vediamo all’opera la forza illuminante del parlar bene delle donne: lì la parola e lo sguardo hanno il potere di cambiare la storia. Possiamo imparare, almeno un po’.

Sospendere il giudizio non vuol dire non vedere quel che non ti piace, non pensare a quello che non accetti, mandare giù rospi. Sospensione del giudizio vuol dire fare un passo indietro per creare lo spazio sufficiente per agire il conflitto. Il conflitto infatti, a differenza della guerra di annientamento, è relazione. Dunque è possibile quando ci si dà spazio tempo e condizioni per dire, ascoltare ed essere ascoltate, contrattare. Possiamo accontentarci del puro giudizio quando non vogliamo entrare nella relazione conflittuale. Se riteniamo che non ne valga la pena.

Tutto questo non vuol dire essere accomodanti. Possiamo esercitare giudizio lucido e pensiero libero sui fatti ma mantenere la nostra fiducia nelle donne come soggetti politici. Non è facile, ma questo è il lavoro politico. Non è obbligatorio farlo. Ma è importante affinare questa capacità di giudizio che può tornare molto utile. Una discriminante che ci serve per capire come parlano le donne. Parlano bene se fanno emergere nelle altre quella potenzialità di essere; se valorizzano e non restano confinate nella posizione delle vittime, cioè di oggetto del discorso. Se non trasformano le donne in un puro argomento nella parola di altri. Questa è una bella discriminante. Parlare ribadendo la posizione di vittima, senza capire che cosa accade alle donne, non è parlar bene delle donne. Il manifestarsi pubblico di relazioni politiche tra donne è esattamente il contrario della posizione della vittima.

Io credo che sia un buon momento per parlar bene delle donne.

Alcune hanno interpretato come sospensione del giudizio quello che ha detto Chiara Zamboni nella sua introduzione quando ha affermato che “c’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà”. Io dissento da quella interpretazione, perché per me l’accento va posto su quel “prima” che è una postura da prendere e che cambia lo sguardo sulla realtà.

Per parte mia ho inteso il parlare bene delle donne come un dispositivo simbolico. Mi spiego con un esempio. Sempre Luisa Muraro e Chiara Zamboni, molti anni fa hanno lanciato l’autoriforma dell’università e della scuola con un’affermazione che ha parecchie analogie con quanto stiamo discutendo oggi. Hanno detto: “partire da quello che c’è e funziona”. Era un punto di vista del tutto inedito nel panorama della sinistra, incastrata nel meccanismo della denuncia per cui vedeva solo ciò che non funzionava. E ha tolto anche me da quell’incastro, facendomi vedere altro. Di mezzo c’è stata una trasformazione interiore. Questo è un punto che non si può saltare. Un dispositivo simbolico non è una pratica, non è una tecnica comunicativa, è una diversa disposizione interiore che ti fa vedere le cose differentemente.

Io, per esempio, partecipavo in precedenza al disprezzo con cui in sala prof si parlava delle maestre: “Non sanno insegnare”, “Ci arrivano che fanno ancora errori di ortografia”, “Non sono laureate”, erano le frasi ricorrenti del parlar male delle maestre. Poi ho capito che sbagliavo e sono riuscita a vedere che era l’ordine di scuola che funzionava meglio e ho cominciato a parlarne bene. E il resto è storia nota. E oggi nessuno più le considera inferiori. Anzi. È risaputa la loro bravura. Un dispositivo simbolico lavora di suo, per strade che non conosciamo.

Proprio perché ho fatto in passato quelle esperienze, sono attirata oggi dal parlar bene delle donne per le potenzialità trasformative che sento ne possono scaturire.

L’altra questione che mi sta a cuore riguarda il conflitto che sarebbe come contrapposto al “parlar bene delle donne”. Sempre riferendomi a quelle mie esperienze posso dire che se si tengono insieme si guadagna in intelligenza politica.

Sappiamo tutte che in questo momento sempre più donne si affacciano sulla scena pubblica in modi che magari non ci piacciono e questo chiede più consapevolezza. Chiara Z. nella sua apertura ha portato come esempio il suo rapporto a Verona con giovani donne del movimento Non una di meno e ci ha detto la sua postura che è quella di “avere fiducia nella potenzialità generativa che è viva”. Ha fiducia e pratica il conflitto circonstanziato su questioni precise. Luisa M. ci ha messo in guardia dal fare le cose per obbligo e nei suoi esempi riguardo al parlar bene delle donne ha mostrato i passaggi della sua trasformazione. Il suo invito è a trovare liberamente una nostra postura, per riuscire a vedere, per riuscire a capire e agire di conseguenza. La sua impostazione indica che il bandolo della matassa è la trasformazione personale.

Quando la Libreria ha chiamato a riflettere su come parliamo delle donne non aspettavo altro: dire quello che ho voluto sempre fare. Ho sempre parlato bene delle donne, dal primo femminismo, perché imparai ad amarle e conoscerle, a scorta arrivava il capire me stessa e conoscermi.

Come l’adolescenza in ogni cosa, arrivò nei primi anni ’70 la fatica di salvare me e loro nelle nostre differenze, processo infinito lungo la mia emancipazione dalla fusione con loro, e poi dalla insicurezza nel confronto delle idee, e ancora dalla delusione che non fossero comunque garanti anche del mio pensiero, che io fossi in effetti sola nelle mie idee, che mi dovessi bastare. Non è mai finita la battaglia per difendere le mie idee e abbeverarmi a quelle delle altre, per verificare che il pluralismo sia una realtà benefica per tutte, ma di difficile concezione per la fragilità di ciascun essere che non sia avvezzata alla coesistenza, all’ascolto del differente, al sapersi anche mentre tace.

Amarle e poi amarmi, e nonostante la differenza amarle ancora è stato l’esercizio quasi spontaneo di sempre (oggi mi conviene specificare per combattere una confusione che detesto: parlo di amore; non di desiderio sessuale o erotico). All’inverso comprendere me stessa mi ha portata a comprendere le donne, e così via, amo ormai sempre di più l’umanità, i processi naturali e tutte le creature.

È il conoscere che rende amabile, sapere di sé e degli altri, sapere di come le cose avvengono, di come si trasformano, “sapere” infonde amore.

Valutare il buono delle donne è stata la mia abitudine e intenzione sempre di più nel tempo, è avvenuto per empatia e per consapevolezza dei miei limiti; l’esistenza e l’azione di altre, il loro pensiero mi garantisce di non essere sola al mondo e di potermi aspettare benefici dagli altri non solo da me stessa. Preferisco riconoscere ad altre un pensiero prima che a me stessa, se così ho rintracciato, per la passione di valorizzare il nostro essere tante.

Certo qualche volta una critica, lucida oppure egoistica, la lancio come una frusta; e mi dà soddisfazione, riguarda l’azione di quella persona, un’azione per cui ho invidia (come Lia ci segnalò moltissimi anni fa) oppure fastidio: è il desiderio di avere con lei un confronto, di capire le sue ragioni e le mie.

(Tutto il femminismo a me è sembrato questo: comprendere la nostra sfiducia nelle donne e comprendere di che cosa fosse fatta. Vi trovammo l’opera instancabile degli uomini nello sminuire e deridere le donne, la nostra omologazione al pensiero maschile per sollevarci da una appartenenza che ci umiliava e ci opprimeva, la divisione dei compiti che snaturava la natura umana ed era la causa della svalorizzazione dei compiti dati alle donne e della esaltazione di quelli dati agli uomini. Vi trovammo la differenza delle donne dagli uomini come risorsa politica e intellettuale da scoprire, ma anche le differenze di ciascuna così come le somiglianze. Ci sono tutte le somiglianze degli esseri umani da ragionare, naturalmente è un lungo percorso.

Forse questa osservazione veniva data per scontata, proprio la libreria delle donne ha sviluppato la conoscenza della letteratura femminile da sempre e la discussione tra donne, a partire dalle soggettive esperienze è stata la prassi di tutto il movimento negli anni in cui si è costituita e l’ha continuata, così come anche moltissimi gruppi di donne hanno fatto.)

Come mai allora il ritorno su un dubbio: le donne non parlano bene di loro stesse, come fare per riuscire a non parlarne male?

Io sono fuori dai social, sono anche fuori dalla riflessione più interna alla libreria perché godo soltanto delle discussioni allargate e rarissimamente l’ho condotta; ora, dopo l’incontro a cui ho partecipato su questo argomento che da parte delle conduttrici è stato sviluppato sul conflitto tra pensiero giusto e sbagliato, sulle tensioni politiche tra donne, sulla didattica alla comunicazione tra donne; comprendo come sia scaturito da una attualità che vede chi lavora alla politica tra le donne essere immersa nella lotta di idee. E mi sovvengo di come la comunicazione solipsistica della scrittura, il confronto solo con le interlocuzioni che tu scegli sia ben più facile rispetto alla interlocuzione polimorfa del reale. Una comunicazione che va condotta mettendosi al servizio della comprensione del pensiero di altre e moltissime altre, per districare qualche filo conduttore, partendo dai più oscuri ma utilizzando i più chiari. Un puro servizio alla moltitudine! E dunque l’esperienza delle classi e dell’insegnamento, dell’autoritarismo e dei rischi paludosi dell’antiautoritarismo torna alla mente anche a me; così come l’abbandono per me risolutorio delle situazioni collettive più compromesse o anche di quelle dialogiche che hanno un retroterra troppo distante e troppo urgente. Abbandoni utili al fiato da prendere, al tempo da non perdere, all’attesa che qualche cosa maturi in altri e in me, abbandoni che mi lasciano vivere e che non sono definitivi.

Io ho dato per scontato che anche nel gruppo della libreria le persone abbiano fatto il percorso che personalmente ho fatto io. Un confronto con una realtà che mi respinge e qualche volta mi accetta, ma per parti; oggi ma non domani; con la lunga emarginazione; soprattutto con la comprensione degli altri e dei fatti che li motivano e delle azioni che compiono e dei risultati che conseguono; tutte cose che mi arricchiscono e mi modificano e mi fanno capire che io sono me ma il mondo è pieno di altri soggetti e forze diverse che agiscono inevitabilmente su di me. La trovo una esperienza benefica perché credo sia la verità, il limite che ci fa essere nel mondo, senza potere sugli altri ma con il piccolo nostro potere di comprendere.

Mentre mi viene naturale parlar bene di quanto le donne esprimono nel campo dell’arte, del pensiero e della letteratura, mi risulta invece difficile per quello che esse fanno e dicono nell’ambito della politica ufficiale. La ragione penso sia riconducibile a un generale sentimento di diffidenza nei confronti della politica e in particolare a un giudizio di omologazione al maschile nei confronti delle donne che si affermano in quel campo.

Da poco tempo mi sono però imposta di astenermi almeno dal parlar male, qualora non riesca a parlar bene, anche delle donne politiche. La decisione è seguita a una travagliata riflessione autocritica intorno al più recente episodio nel quale mi sono trovata a esprimere un giudizio negativo su donne protagoniste di un avvenimento politico. Al centro della riflessione c’era un mio articolo, uscito in occasione delle ultime elezioni amministrative per il Comune di Savona, nel quale stigmatizzavo la candidatura delle due donne che si contendevano la carica di sindaco al ballottaggio come mera operazione cosmetica e di facciata da parte dei partiti in forte crisi di credibilità nell’opinione pubblica. Una volta divenute una sindaca e l’altra capa dell’opposizione, mi sono sentita in forte imbarazzo e impedita nel fare interventi nel merito avendo realizzato che ogni possibilità di interlocuzione e confronto risultava compromessa in partenza proprio a causa del mio articolo; d’altronde mi son chiesta come avrebbe potuto agire quello stigma a parti invertite e ho dovuto ammettere che difficilmente io stessa avrei potuto avere sentimenti di apertura e disponibilità al confronto con chi mi avesse giudicata incapace di volontà propria e mero strumento di disegni altrui.

L’autocritica mi ha portato pertanto a concludere che, per quanto convinta di aver detto il vero, ritenendo in quel momento di non avere elementi per parlar bene a meno che non volessi limitarmi a esaltare la novità delle candidature in rosa, avrei fatto meglio a tacere. L’invito di ViaDogana3 all’incontro del 13 maggio ha però riaperto la questione e mi ha fatto capire che non potevo accontentarmi della conclusione cui ero arrivata, per cui mi sono recata all’incontro determinata ad accogliere qualunque idea in grado di aiutarmi a sciogliere il nodo nel quale mi sentivo avviluppata. In effetti le relazioni introduttive e diversi interventi hanno soddisfatto pienamente le mie aspettative consentendomi di mettere a fuoco i differenti modi nei quali avrei potuto agire positivamente nel caso in esame, evitando la chiusura della comunicazione e anzi tenendo la porta aperta a impreviste possibilità di scambio.

Accogliendo il senso dell’introduzione di Chiara Zamboni, avrei potuto sospendere il giudizio per rimanere in posizione di apertura e attenzione verso la “potenzialità di essere” insita nella scelta di mettere a disposizione della collettività la propria esperienza femminile da parte delle aspiranti sindache oppure, sull’esempio della celebre intervista di Ida Dominijanni a Patrizia D’Addario, fare un passo indietro e dare la parola alle due donne per fare emergere il loro punto di vista sul dispositivo (di potere) che aveva portato alla candidatura in rosa. La sospensione temporanea del giudizio avrebbe potuto consentire interventi successivi mirati e anche, come suggerito da Giordana Masotto, l’apertura di conflitti atti a spostare in avanti il terreno del confronto, oppure di capire meglio e trovare una spiegazione non superficiale dei fatti, come precisato da Lia Cigarini.

Anziché impormi anche temporaneamente il silenzio avrei potuto intervenire, secondo l’indicazione di Luisa Muraro, articolando diversamente il discorso in modo da mettere in luce anche il lato positivo di quell’avvenimento politico e riconoscendo alle due donne ciò che sappiamo essere una leva potente, in genere sottaciuta, del protagonismo femminile nella scena pubblica: il desiderio di riscatto personale e collettivo da una situazione storica di inferiorità come anche la volontà di significare simbolicamente valore e sapere femminile anche in attività tradizionalmente maschili.

Una presa di parola contestuale ma saggia e consapevole, con maggiore probabilità della sospensione del giudizio, avrebbe lavorato per l’apertura alla possibilità di sviluppi futuri, ma per prendere quella parola avrei forse dovuto fare appello all’empatia e al senso di sorellanza, di cui hanno parlato sia Luciana Tavernini che Luisa Muraro, che purtroppo mi risulta ancora difficile nutrire nei confronti di tutte le donne e in particolare per quelle impegnate nella politica maschile. Penso infatti che dovrò lavorare ancora molto per alleggerire il mio sguardo e la mente da pre-giudizi, antipatie, false certezze per divenire capace di scorgere anche nel negativo la possibilità del bene ed imparare a parlar bene delle mie simili anche quando sono dissimili da me.

Le parole molto usate o usate male, si logorano, ma le parole a certe condizioni hanno il dono di rigenerarsi. Siamo qui per trovare queste condizioni, anzi con il sentimento di creare qui, ora, tra noi, queste condizioni capaci di rigenerare parole come quelle del titolo. Privilegerò il punto di vista della donna che sono io stessa, ma la questione si pone anche, diversamente, dal punto di vista maschile.

Concordo con Chiara Zamboni che parlare bene delle donne, prima di essere un impegno, domanda una disposizione interiore di apertura. Imporsi di farlo è perfino controproducente. In generale, le esistenze femminili sono afflitte da troppe imposizioni, esterne o interiorizzate o interne. A furia di essere gentili, ci sono donne che alla fine delle loro vite riescono solo a parlare di dolori, disgrazie e cattiverie. Io ho smesso gli sforzi per essere gentile, che mi facevano ammalare.

Non è facile parlare bene delle donne. Intendiamoci su una cosa di fondo: come ha detto Simone Weil, “il male è il contrario del bene, ma il bene non è il contrario di niente”. A proposito, vi segnalo l’uscita di Giancarlo Gaeta, Leggere Simone Weil (Quodlibet 2018), quanto di meglio per avvicinare l’opera e la figura di questa pensatrice, alla quale Gaeta ha dedicato tanta parte del suo impegno di studioso.

Non è facile, ma s’impara. S’impara non come un dover essere o come una pratica politica. S’impara così come impariamo a parlare una lingua straniera o a cucinare bene. Dopo tanto esercitarsi, un giorno scopri che lo sai fare. Diventa una competenza e un’accresciuta familiarità tra sé e il mondo. Detto in altro modo e meglio: questo parlare bene è essenzialmente una risposta; da imparare sono le domande che portano a quella risposta.

L’input iniziale più forte a me è venuto quando mi sono resa conto che, scrivendo, ci riesco meglio se parlo bene delle donne, indipendentemente da quello che io ho progettato di scrivere. Anche le critiche mi vengono meglio. Perché e per come, posso solo supporlo. Quando si scrive, si tratta di non mentire, di non imbrogliarsi, di immaginare senza illudersi, di lavorare nella ricerca della verità soggettiva, di ascoltare, di rendere dicibile il vero… insomma, di attingere a quel bene che non è il contrario di niente. Suggerisco di farsi una strategia, come in tutte le cose che riguardano il gioco del dentro-fuori. Quello che dico di me può valere anche per te, ma non sostituisce la tua strategia. Per esempio, ho smesso di fare sforzi di gentilezza perché mi facevano ammalare, ma mi serve una strategia nei rapporti con le altre, altrimenti mi ammalo di rimorso.

Ci sono dei momenti speciali in cui si fanno passi da gigante. Uno è stato, per me, la nascita della Libreria delle donne qui a Milano. Con la presenza di tutte quelle opere femminili, mi sono resa conto che, fino allora, in maniera inconsapevole e automatica, la firma femminile si associava in me a un senso d’inferiorità. Libera da questo complesso, sono diventata più intelligente. Il femminismo da solo non bastava, infatti poteva ridursi a offrirmi uno sfogo nel parlare male e contro gli uomini. Il groppo restava dentro.

Di che cosa sto parlando? Della disgrazia di essere nata donna, per rispondere con parole di Simone Weil. Faceva groppo un’eredità millenaria di soggezione e di misoginia.

Non capiremmo la strada che ha preso una parte del movimento femminista (il trans femminismo di cui ha fatto cenno Chiara Zamboni nel secondo esempio) senza considerare l’impulso a trascendere la differenza sessuale, sentita come causa della “disgrazia”. Questo impulso c’è perché fra l’essere corpo e l’essere parola c’è la necessità di una mediazione: se questa manca e sei una femmina, la tua diventa l’indecente differenza, come l’ha chiamata Alessandra Bocchetti. Il parlar bene delle donne è questa mediazione in atto. Non è la strada che ha preso Simone Weil, lei ha preso un’altra strada. Il pensiero della differenza (la ricerca del senso libero della differenza sessuale) nasce storicamente dalla necessità della mediazione, tenendo presente che la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse.

Io mi sono azzardata a scrivere un libro sulla fortuna di essere nata donna facendo conto che ci siano donne che hanno accettato di esserlo nella maniera più pacifica e naturale. Ho davanti agli occhi il caso di una mia sorella. Queste donne (che di solito non diventano femministe) sono un ingrediente prezioso per fare società femminile. Anche la relazione tra sorelle, detto per inciso, è un ingrediente prezioso e mi viene in mente la felice idea di Ivana Ceresa di fondare un’associazione ispirata a questa relazione, la Sororità.

Ma il libro l’ho scritto e altri ne ho scritti perché io invece non ero come mia sorella, io avevo dentro quel groppo e non ho accettato la condizione umana così come mi si presentava. Non sono un’eccezione, c’è tutto il movimento femminista a dimostrarlo con la sua abbondante letteratura (lo scrivere, come il parlare, in generale, è lavoro di mediazione).

Quando dico “io sono una donna”, non è un’affermazione naturalistica, è una guadagnata rispondenza tra natura e cultura, una conquista. Per alcune la conquista sarebbe la transessualità. Non sono d’accordo ma conosco la difficile accettazione della condizione umana così come può presentarsi a una donna e so anche che la necessaria mediazione non è un possesso, è un attuare (un agire qui e ora). Quando incontri donne che prendono posizioni per te urtanti, c’è la possibilità di una narrazione inclusiva, senza per questo pasticciare con quello che per te è vero e giusto.

Prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo. La società femminile si regge su un’arte molto nominata e poco indagata, quella di un parlar-male-con misura, così come la società femminista si regge sulla capacità di confliggere senza farsi la guerra.

Un’altra occasione d’imparare le domande che portano alla risposta del parlare bene, è stata per me il cinema a firma femminile. Oggi penso con riconoscenza alla scelta dell’associazione “Lucrezia Marinelli” di raccogliere e far conoscere esclusivamente questo cinema. Non mi viene più l’impulso di confrontarlo con quello selezionato per il grande pubblico, che è maggioritariamente a firma maschile. D’altra parte, non c’è niente di strano se mi sono trovata in difficoltà davanti a un cinema con la sensibile impronta di una ricerca centrata sulle donne. Vuol dire che sono sulla strada di farmi le domande giuste. E proprio per questo, ho cominciato a prestargli un’attenzione speciale, come davanti a una scrittura che comincio a decifrare. Per esempio, nella protagonista del film di Francesca Comencini, Amori che non sanno stare al mondo, che è una tipa straordinariamente innamorata di un tipo gradevole quanto poco straordinario, ho riconosciuto un modo di essere posto a grande distanza da me, ma internamente a me (l’intima estraneità…).

Per una ragione simile frequento gli appuntamenti della Quarta vetrina alla Libreria delle donne, promossi dalla critica d’arte Francesca Pasini. In verità la situazione qui è diversa, io sono a disagio davanti all’arte contemporanea in generale. Li frequento per imparare a capire, avendo però capito a che porta bussare, da che porta passare.

L’idea che parlare bene delle donne sia, almeno per me, una risposta e una conquista, mi si è affacciata pochi mesi fa. Una giovane amica del Coordinamento delle teologhe mi aveva interrogato sul fare memoria del passato per andare verso il futuro. Le ho risposto che noi oggi, cioè l’umanità nel suo insieme se posso parlarne a partire da me, abbiamo il problema di sgombrare il futuro, sgombrarlo dalle macerie di speranze finite male e dalla sua attuale destinazione agli scopi dell’economia finanziaria. Una dimensione temporale per accogliere le cose buone, come ai tempi delle utopie politiche, per noi forse non c’è. E allora? Ho risposto: siamo donne, possiamo liberare la prospettiva del futuro generandolo, e mi sono messa a divagare su quest’idea, risalendo a Carla Lonzi che ha detto che noi femministe non abbiamo bisogno del futuro, e prima ancora, fino ai primi cristiani che si erano messi ad aspettare il ritorno del loro Maestro, credendolo imminente.

Ma in pratica, ho dovuto fermarmi e chiedermi, che cosa vuol dire generare il futuro? Ho scoperto così che una risposta buona, almeno per me, c’era già: nei limiti delle mie possibilità, ho scritto, vuol dire obbedire a una richiesta dei nostri tempi che è di parlare bene delle donne, dopo secoli e secoli d’iniqua maldicenza. (Poco dopo aver formulato questa risposta, il direttore di un quotidiano italiano pubblicò un goffo elogio delle donne, in prima pagina; era alle sue prime prove e faceva un po’ ridere, ma c’era lì la timida conferma che si tratta di un’esigenza sentita ai nostri tempi.)


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.

C’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà. Questa apertura mostra che noi ne siamo del mondo e il mondo è in relazione a noi. In termini politici questa apertura significa che le donne e gli uomini mi interessano, quel che fanno mi riguarda sempre e comunque. Ogni loro azione, discorso mi coinvolge, mi ferisce, aumenta il senso di me o mi diminuisce. Ha a che fare con la mia vita.

Non si tratta dunque di assumere come buona pratica il parlare bene delle donne contro la pratica del parlarne male, ma di portarsi su ciò che è essenziale e cioè questa apertura per cui tutto è interessante. Mi riguarda. Ed è a partire dal fatto che mi riguarda che sono portata poi – in seconda battuta – a formulare dei giudizi.

Compiendo questo passo indietro, mi fermerei sul fatto che questo interesse per il mondo prima di ogni giudizio mi porta a dare poi dei giudizi non tanto positivi o negativi, quanto singolari, circostanziati, sapendo che comunque sono coinvolta soggettivamente perché nel comportamento dell’altra c’è qualcosa che ne va di me.

Porto un esempio di passo indietro dall’immediatezza di un giudizio positivo o negativo nel considerare il comportamento di un’altra donna. Ricordo come nel 2009 Ida Dominijanni avesse presentato su «il manifesto» la figura di Patrizia D’Addario, una donna che era entrata nel circuito dello scambio sesso-denaro nella costruzione del mito di potere ruotante attorno alla sessualità maschile di Berlusconi. Avevo letto allora gli articoli. Ho riletto poi su Patrizia D’Addario le pagine che Ida Dominijanni le dedica in Il trucco. Sessualità e biopolitica alla fine di Berlusconi (Ediesse, pp.71-101). Lo porto come esempio cruciale perché mi ricordo che nel dibattito femminista del tempo D’Addario veniva giudicata o positivamente (si tratta di libertà femminile e ognuna può regolarsi come crede) o negativamente (è un esempio di sottomissione alla logica di uno scambio maschile). Dominijanni ha fatto un passo indietro rispetto a questa contrapposizione. Ha intervistato, cioè dato parola pubblica, a D’Addario. Ha dato voce agli elementi di scarto soggettivo rispetto al modello previsto di giovane donna nel contesto della sessualità di potere maschile, al lato affettivo di differenza femminile che ha spinto lei, a differenza di altre, a portare a luce pubblica i comportamenti di Berlusconi mostrando il castello di carta di una sessualità di potere, che è di carta solo se donne a partire dalla loro esperienza ne parlano.

Ovviamente il lavoro simbolico di mostrare le potenzialità politiche del gesto di D’Addario è tutto di Dominijanni, perché Ida ha a cuore la politica delle donne, che è come dire che le interessa il mondo e se ne sente parte.

Quale guadagno da questo esempio? Che in realtà l’invito a parlare bene in generale delle donne – quando è una posizione presa a priori, come postura – significa creare un tempo di sospensione dall’accettazione o rifiuto immediati. Comporta che per un po’ mettiamo tra parentesi il lavoro simbolico di capire il comportamento di quella singola. Questo di solito per due motivi. In primo luogo perché per il momento non abbiamo elementi per arrivare a un giudizio singolare. In secondo luogo abbiamo bisogno di fare silenzio dentro di noi e riorientarci. Dunque interpreto l’invito a parlare bene delle donne in modo generale come attesa per avere il tempo di andare a una conoscenza effettiva della situazione. Certo c’è un guadagno di tutte a fare un passo indietro dall’immediatezza dell’accettazione o rifiuto. Per poi, come nel caso di Ida Dominijanni e Patrizia D’Addario, andare a una comprensione dell’altra, cioè a dare spazio alla voce singolare all’interno di una trama simbolico-politica della realtà.

Porto un secondo esempio. Frequento occasionalmente a Verona il gruppo di giovani donne del movimento Non una di meno. Il mio giudizio è positivo o negativo? Da un lato sono molto contenta che ci siano perché è legato a un movimento femminista presente in più paesi, che oggi trovo tra i più interessanti. Le ragazze del movimento a Verona hanno un riconoscimento vero, non formale, del pensiero della differenza e allo stesso tempo sono del tutto impegnate in una loro ricerca autonoma attorno alla parola orientante di transfemminismo, come termine ancora da scoprire e inventare. Tuttavia in una città come Verona, nella quale la sinistra tradizionale è più assente che altrove, si stanno caricando di compiti, che sono stati propri della sinistra: l’antifascismo, le manifestazioni per il 25 aprile, e così via.

Da un lato vedo in loro delle grandi potenzialità, un femminismo radicato, ma allo stesso tempo osservo che si fanno portatrici di valori già consolidati e sperdono la loro energia nell’organizzazione di manifestazioni che tendono in parte a sostituirsi alla sinistra nella forma dell’attivismo.

Perché porto questo esempio? Sono ragazze che mostrano grandi potenzialità. Sono vitali, intelligenti, appassionate del femminismo. Tuttavia rischiano di sperdersi per sostenere battaglie non loro. Non mi sento di dare un giudizio definitivo né di bene né di male. Ho un atteggiamento di apertura nei loro confronti perché sento la potenzialità che esse fanno essere anche per me. La loro potenza d’essere è un processo in atto. Possono fare degli errori, sbagliare, ma sento che il loro percorso è agli inizi, si misura nel processo stesso, che sicuramente è a zig zag, non lineare.

In questo caso il parlarne, dandone un’immagine complessivamente positiva e generale senza rigettare subito certi aspetti particolari, significa lasciare tempo che questo movimento inaugurale si faccia processo. È avere fiducia nella loro potenzialità generativa che è viva.

Questa riflessione è estendibile al rapporto con molte donne che mi interessano. La vita di una donna infatti non è un percorso legato a un destino che realizza consapevolmente.

Hannah Arendt alludeva al fatto che solo dopo la morte possiamo vedere il disegno che con i nostri passi abbiamo disegnato. Mentre siamo in vita, prevale invece il senso dell’imprevisto, della possibilità di una nuova nascita, di una potenzialità d’essere che una donna vive come processo in atto. Se mi è facile vedere in un movimento politico inaugurale la potenzialità che si fa processo, più complesso riconoscere questa potenzialità in donne che conosciamo da tempo e che vediamo ripetere gesti che esprimono una ferita interiore. Ma anche la ferita può diventare potenzialità politica-esistenziale. Penso che giudicare apre uno spazio simbolico positivo se manteniamo sempre aperto il senso di questa potenzialità d’essere, la possibilità di una svolta, di un nuovo inizio.

Allora anche un giudizio negativo rivolto a una donna a cui si tiene può risultare un aiuto per rimettere in movimento il processo trasformativo che magari vediamo essersi bloccato.

Voglio differenziare in modo netto l’invito a parlare bene delle donne in forma generale dalla pratica del conflitto politico. I conflitti politici con altre non nascono da giudizi positivi o negativi su di loro, ma per un discorso sulla realtà che viene fatto in modo contrastante e dove ognuna porta ragioni diverse. Il conflitto politico riguarda precise questioni del mondo comune e il significato da dare alla realtà. Scontrarsi politicamente con una donna non implica parlare male di lei nella sua singolarità d’essere. Anche se da sempre mi interessa capire il legame tra uno stile di vita, un modo di esserci e le posizioni prese sul mondo.

Detto questo, mi sono chiesta che parte abbia il legame con il materno nei giudizi particolarmente negativi di donne su altre donne.

Si sa che tra noi e le altre donne c’è un legame in cui le soggettività non sono del tutto individualità separate. Né una né due ma anche allo stesso tempo una e due con l’altra. Ciò accentua l’opacità fantasmatica, onirica del nostro rapporto con le altre. Non siamo di fronte ad una vera e propria confusione ma non si può parlare nemmeno di autonomia individuale e questo ha a che fare con il nostro legame con la madre da cui ci siamo separate ma anche non ci siamo separate. E così con le altre donne. Lo considero un elemento di forza che però rende complesse le relazioni femminili. Un aspetto che vedo risulta abbastanza incomprensibile agli uomini.

Questa prossimità intessuta di fantasmi spiega la durezza di giudizio di alcune donne sulle altre, che nasce di frequente dal fatto che l’altra non è lo specchio in cui vorremmo rifletterci. Non è mai sufficientemente all’altezza, non è mai perfetta. Non essendo perfetta, riflettendoci in lei, noi stesse ci sentiamo di meno. È questo che è insopportabile.

Ho in mente lo sguardo di amarezza, la bocca piegata in una smorfia in chi con sdegno parla male di altre donne. Non si tratta di un giudizio morale: c’è qualcosa di ferito rispetto a sé quando l’altra non è all’altezza.

È proprio in rapporto a questa situazione che è così importante l’orientamento della politica delle donne che tiene assieme aspetto soggettivo e politico: riscatta infatti le nostre ferite, le nostre mancanze, non negandole o aggirandole, ma mostrando che la loro verità è parte di un percorso politico dove la nostra soggettività è il luogo di sperimentazione di quello che capiamo e possiamo fare. Senza dunque sanarle, ma facendole parlare. La politica delle donne impara dalle mancanze e dalle ferite, e per questo aiuta a limitare il rifiuto della inadeguatezza di altre in cui ci rispecchiamo.

Cosa succede quando un giudizio negativo – comunque alla fine formulato – può andare a male, diventa disgregante? Questo tema è al centro del libro di Diotima La magica forza del negativo (Liguori).

Mi sono fatta l’idea che parlare bene delle donne come atteggiamento di fondo, come interesse e apertura, permette di dare spazio al negativo senza che questo vada a finire male. Può sembrare un paradosso ma non lo è. Cerco di spiegarmi.

Succede a volte che lo scarto che noi avvertiamo nei confronti di un’altra su cui formuliamo un giudizio negativo scivoli nella disgregazione del rapporto, con uno scacco conseguente sia della lingua sia della politica. La differenza che sentiamo con lei e che porta ad un giudizio negativo, se va oltre un certo limite, diventa ostilità nichilistica. Muro. Interrompe il circuito della politica.

Per questo è così importante formulare con finezza un giudizio singolare e circostanziato sull’altra. Questo impedisce che lo scarto tra me e lei diventi disgregazione e assuefazione alla disgregazione, cosa ancora peggiore.

In un saggio intitolato La grazia del no e contenuto in questo libro di Diotima, Cristina Faccincani rilegge il racconto di Melville intitolato Bartleby, dove lo scrivano pagato per trascrivere dei documenti dice: preferirei di no. Cristina lavora sulla grazia del no come un sottrarsi, un aprire uno spazio simbolico. Lo scrivano si ritrae «abolendo contemporaneamente ogni accettazione e ogni rifiuto, devasta e sabota i presupposti di ogni reattività abituale. (…) Facendosi vuoto di contenuti consolidati e familiari, apre spazi al processo, all’ignoto, alla differenza, al cambiamento, alla creazione» (p. 196).

Cosa guadagno da questo testo rispetto alla questione che ci sta a cuore? Rileggo la proposta di parlare bene delle donne come passo indietro dal parlarne male. Non tanto effettivamente parlarne bene sempre e comunque nei giudizi, ma astenersi dal parlarne male, perché ciò crea vuoto nei confronti dei contenuti consolidati, familiari, scontati e reattivi. Apre alla differenza, allo scarto, alla possibilità di cambiamento. Evita l’atteggiamento immediato di accettazione e rifiuto, facendo un passo indietro, cioè stando nell’apertura di cui parlavo all’inizio.

In questo modo si permette che appaia altro dell’altra. Ricordo una frase di Simone Weil nei Quaderni: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti» (Quaderni, vol. 1°, p. 258).


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.

Il tema “parlare bene delle donne” mi ha sollecitato alcune riflessioni sul mio approccio al cinema delle registe e sul lavoro di recensione dei loro film.

Sono state illuminanti le parole di Luisa Muraro che nello scritto Parlare bene delle donne, trans comprese (VD3, 5 aprile 2018) dice: “A me tocca parlare bene delle donne e, quando non posso, tacere. […] Parlo per me, lo ripeto, ma la decisione ha in sé delle ragioni più grandi di me. […] So che c’è di mezzo una questione di giustizia. […] Sicuramente c’entra anche l’avere cognizione di causa; Simone Weil avrebbe parlato di attenzione”.

E quelle di Lia Cigarini che nel suo intervento all’incontro “Sulla violenza. Ancora” / Non accontentiamoci di mezzo mondo (www.donnealtri.it, 28 febbraio 2018) dice: “L’impegno e le energie, a mio parere, dovrebbero essere rivolte principalmente a parlare della donna uccisa: narrando la sua storia e dando un senso, un nome, al diniego che l’ha silenziata per sempre. Queste donne uccise sono protagoniste in prima persona della rottura del patto sessuale che sottendeva tutte le istituzioni sia quelle democratiche che quelle autoritarie conosciute fino ad ora.”

Per me si tratta, e mi interessa, avendo chiaro il forte impatto che il cinema ha sull’immaginario, di cercare nei film delle registe il nuovo: nuovi sguardi sui cambiamenti che le donne stanno mettendo in atto in tutto il mondo, sulle nostre nuove possibilità, sulla ricerca di nuove strade di libertà.

Sappiamo bene come il cinema recepisca velocemente i mutamenti e questa capacità l’hanno mostrata bene le registe a partire dagli anni Settanta con il femminismo.

Mi interessa come le registe (la maggior parte delle quali è anche sceneggiatrice e ideatrice del soggetto) raccontano le donne nelle loro esistenze; come costruiscono i personaggi femminili: i loro percorsi di coscienza; i desideri, le passioni; i sentimenti di libertà; la volontà di darsi un futuro o a volte solo la speranza di averne uno, la ribellione rispetto alle costrizioni, ai ruoli predefiniti. A questo proposito la grande regista Jane Campion dice: “mentre gli uomini raccontano ‘le donne dei sogni’, le donne raccontano come sono le donne reali”.

E infine, mi interessa, per significare sicuramente il nuovo, come le registe agiscono il cambiamento, come rovesciano, ad esempio, un finale, capovolgendolo, così da giocare uno scacco alla “predestinazione”. Mi piace qui ricordare la versione data da Agneszka Holland nel suo film Washington Square – L’ereditiera rispetto all’omonimo romanzo di Henry James e quella di Jane Campion in Ritratto di signora sempre tratta da un romanzo di James.

Tutto questo però evitando di cadere nel buonismo, nell’apologia o nella censura.

All’opposto parlando del negativo e ricordando l’importanza del suo lavoro “per sciogliere legami non liberi, sgombrare la mente da costruzioni inutili, alleggerire la volontà da fardelli insensati” (Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, 2005), porto come esempio, come esso operi nei film delle registe, ancora Jane Campion.

Le protagoniste di J. Campion – la regista con la sua opera copre un arco temporale che spazia dall’Ottocento ai giorni nostri – sono donne costrette dentro i vincoli della società patriarcale o da quelli istituzionali e, comunque, anche se non patriarcali, dentro rapporti di potere maschili, contro cui si scontrano passando anche attraverso le loro zone buie, le loro contraddizioni e debolezze e anche attraverso relazioni negative o false con donne. Compiono un viaggio, una rinascita che è la scoperta della potenza dei loro desideri, della sessualità, del piacere dei corpi. Un cambiamento che produce un sentire e un vivere più pienamente le loro vite. Le loro irrequietezze, instabilità e nevrosi hanno trovato la strada e si sono trasformate in una forza vitale.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.

domenica 13 maggio 2018 ore 10.00-13.30


Cosa vuol dire parlare bene delle donne?

Quando per esempio si parla di violenza parlare bene delle donne può voler dire parlare di lei, della sua vita, non come vittima ma come testimone.

Parlare bene delle donne vuol dire sottrarsi ai significati correnti e vuol dire anche parlare con cognizione di causa.

Può voler dire considerare il negativo, anzi partire proprio da lì, ma senza consegnarsi ad una interpretazione unica e svalorizzante perché il negativo ha una magica forza che può portarci avanti.

Siamo all’interno di un cambiamento molto rapido nei rapporti tra uomini e donne, e questo ci porta a reinterrogarci sul linguaggio e sull’atteggiamento che abbiamo quando parliamo di quello che le donne dicono e fanno sulla scena pubblica.

Parlare bene delle donne ha a che fare con l’attenzione, con la giustizia e con la nostra libertà. E porta con sé un dono di intelligenza politica e capacità di stare in relazione che ci interessa.

Avvieranno la discussione Chiara Zamboni e Luisa Muraro.

Annemarie Jacir è una regista palestinese conosciuta a livello internazionale per il suo impegno politico a favore della sua terra, impegno che manifesta nella realizzazione di film e nella sua attività di produzione e distribuzione attraverso la Philistine Film, da lei creata per far conoscere la cinematografia palestinese indipendente. È autrice di numerosi film fra corti e lungometraggi e fra questi vorrei ricordare i pregevoli Salt of this Sea del 2008, prima regista palestinese ad essere selezionata a Cannes nella sezione Un Certain Regard e When I Saw You del 2012 premiato alla 63a Berlinale e candidato all’Oscar.

In questo suo ultimo lavoro, Wajib, premiato in numerosi festival, candidato all’Oscar 2018, e primo suo film ad avere una regolare distribuzione nelle sale, mette sulla scena un padre, Abu Shadi, stimato insegnante di Nazareth, e il figlio, Shadi, che vive e lavora in Italia.

L’occasione che li vede riuniti nella casa paterna è il matrimonio dell’amatissima figlia e sorella Amal. Insieme, i due, secondo una tradizione palestinese che ancora resiste compiono il wajib, il dovere da parte dei maschi della famiglia di consegnare direttamente agli invitati la partecipazione alle nozze.

Un rituale che li porta di casa in casa, fra parenti e amici, cristiani e musulmani, credenti e non; un viaggio che li vede confrontarsi con la realtà contraddittoria della città palestinese “situata dentro lo Stato di Israele” e “territorio occupato”.

E poi in macchina a proseguire le discussioni che frequentemente diventano litigi anche aspri, in cui passa di tutto: i ricordi e le storie familiari, le riflessioni sul passato e sul futuro in cui facilmente le idee e i desideri del padre, spesso convenzionali, si scontrano con le insofferenze e le posizioni moderne del figlio.

Parlare di futuro in una terra così difficile stimola il confronto fra padre e figlio spesso su posizioni opposte: la convivenza trova l’obiezione nelle umiliazioni costantemente subite, mentre la vita da esuli in un paese straniero, e loro lo sanno bene come lo sa bene la regista, non può che nutrirsi di nostalgia per un luogo ormai solo oggetto del desiderio. Solo l’amore per Amal ad un certo punto darà loro la possibilità di darsi reciprocamente una tregua.

Ammiro e nutro grande considerazione per l’opera di Annemarie Jacir. La sua filmografia e l’intera sua attività, costantemente centrati sul tema che tanto la coinvolge, sono notevoli. Di Wajib ho apprezzato la sicurezza e bravura nel dirigere con serenità ed equilibrio un tema politico nodale della nostra storia contemporanea.

Ho avvertito però per tutta la durata del film la mancanza delle voci delle donne, ben presenti invece in tutti gli altri suoi lavori. Mi spiego: le donne sono presenti, fisicamente e nei discorsi e nel pensiero degli uomini, ma lo sono come brave o cattive madri, mogli o compagne più o meno amorevoli, amiche confidenti o sorelle da proteggere: dei complementi nella loro visione del mondo.

Le loro voci risultano un chiacchiericcio, un rumore di fondo che non rompe l’ininterrotto discorso maschile. Eppure le donne avrebbero molto da dire su tutti questi discorsi.

C’è un passaggio nel film, e non mi pare posto a caso, in cui Amal, rivolgendosi al fratello, che le aveva fatto notare come lei poco esprimesse i suoi pareri, gli dice: «Tutto questo non riguarda me, non l’hai ancora capito?» E penso si riferisse a ben altro che il matrimonio e a tutto il suo cerimoniale.

Di fatto, l’unica vera assente è la madre di Amal e Shadi che ha scelto di vivere la propria vita andandosene dalla famiglia e dal paese.

Definirei il movimento di presa di parola contro le molestie e la violenza sulle donne – dilagato in tutto il mondo in questi ultimi tempi – un’invenzione politica (delle donne) ‘contemporanea’, una sorta di ri-edizione dell’autocoscienza adattata ai giorni nostri.

Dico questo perché ho l’impressione che la presa di parola di alcune abbia scatenato la presa di coscienza di molte. Lo dico anche a partire da me che, a seguito di quel che leggevo e sentivo (dalle attrici americane, da Asia Argento, da donne meno note), ho rielaborato il mio personale MeToo. Mi è accaduto infatti di ripercorrere la mia storia e di veder riemergere inaspettatamente, da qualche profondità, episodi trascurati o sottovalutati. Molestie lievi, si potrebbe dire, ma in passato subito archiviate come ’normalità del comportamento maschile’ e per questo buttate dietro le spalle soffocando il senso di fastidio e l’umiliazione. E lì, dietro le spalle, erano rimaste. Il MeToo me le ha fatti rivivere, con lo sconcerto di allora, con l’emozione negativa di allora, con l’inaccettabilità e la ribellione che adesso è esplosa.

Per questo sono grata a chi ha svelato non solo i grandi soprusi, come la violenza sessuale che approfitta di una evidente disparità di potere, ma anche quelle molestie che – con il linguaggio, con i gesti, con le allusioni, con i furti di competenza e di intelligenza, con la sleale competizione – accompagnano come punture di vespa la vita di ogni donna. Sintomi, anche questi, di una volontà maschile – per qualche uomo, forse, un’abitudine non portata alla coscienza – di assoggettare le donne.

Nella riunione di Via Dogana del 18 Marzo Maria Nadotti, pur riconoscendo la portata rivoluzionaria del MeToo (“non lo ferma più nessuno”) è molto critica verso le prese di posizioni collettive avvenute in Italia da parte delle giornaliste e delle attrici con i manifesti “Dissenso comune” e “Noi ci siamo”.  Dice Maria Nadotti: “È curioso che i documenti nascano attraverso le categorie professionali. Non è politicamente rilevante dire ‘anche noi ci siamo’ senza dire ‘dove e in che modo ci siamo’, Chi sono queste giornaliste? Cosa hanno fatto finora?”.

Il mio approccio invece è stato di apprezzamento. Non si tratta di documenti che “nascono attraverso categorie professionali”, ma di prese di posizioni che partono da ambiti lavorativi, come peraltro è stato anche per le protagoniste del MeToo americano.

Possono esserci venature corporative? Può darsi, soprattutto se la protesta sfocia in rivendicazioni paritarie e nulla più. Ma è possibile vederci anche dell’altro… dei primi passi, come è avvenuto per me/per molte di noi tanti anni fa. Senza trascurare il fatto che confrontarsi e accordarsi tra donne nel/sul lavoro è oggi piuttosto raro e anche particolarmente difficile. Di questo, finora, si è parlato poco.

Da quando lavoro accogliendo le donne che sono rese oggetto di violenza, è diventata per me una abitudine ormai quasi automatica cercare sempre il germe della resistenza – resistenza alla violenza e resistenza al patriarcato, interiorizzato e non – in ogni comunicazione tra donne. Nel testo di Ilaria Fraioli, ad esempio, mi ha colpita una frase – e ho preso un appunto esclusivamente su quella frase – nella quale si fa riferimento all’autorizzazione sulla quale si fonda e si sostiene il sistema discriminatorio e violento degli abusi e delle molestie di intimidazione contro le donne.

Alla radice della parola autorizzazione c’è l’idea di un nutrimento che accresce (augere), un nutrimento che possiamo e dobbiamo togliere a questo sistema (che si sta cominciando finalmente a togliere), e che invece dobbiamo offrire alle parole delle donne attraverso un ascolto diverso, un ascolto delle denunce delle donne senza giudizio. Per uscire dalla violenza è necessaria una relazione di scambio di valore tra donne, e il primo valore è il riconoscimento che una donna subisce violenza – sul lavoro e altrove – in primo luogo perché la sua forza, la manifestazione e il riconoscimento di quella forza, mette in crisi l’uomo. La sua presenza stessa come donna nel mondo del lavoro, ad esempio, risulta intollerabile, e per questo motivo il mostrare delle immagini porno alle collaboratrici (come nel caso dell’architetto Meier, che però, ci dicono, ha fatto anche altro) non è una “cosetta”: è un gesto violento che simbolicamente e significativamente vuole riaffermare i ruoli di genere grazie ai quali il patriarcato si mantiene in vita, ricordando alle donne che il loro posto non sarebbe il luogo del lavoro degli uomini, che le donne non possono stare in quel luogo come gli uomini. Il movimento #metoo, all’estero e anche in Italia, sta effettuando uno spostamento fondamentale di autorizzazione, sottraendola al sistema patriarcale e indirizzandola verso le denunce forti e coraggiose delle donne. È questa forza e questa capacità di resistere e di denunciare che ha bisogno di essere reciprocamente autorizzata, fatta crescere, tra donne;riconosciuta e curata.

Non mi viene in mente di parlare di complicità con il sistema, quando si tratta di violenza contro le donne, piuttosto di una resistenza dentro il sistema che ora ha bisogno di un sostegno collettivo per mettere definitivamente in crisi un sistema che, come tutti i sistemi, è espertissimo nel mantenersi in vita. Il primo passo per me è il sostegno reciproco, che viene in primo luogo dal credere a un’altra donna: al suo desiderio di uscire dalla dissociazione e non solo al suo racconto della violenza, del furto, della sopraffazione.

A questo proposito, penso al senso che “resistenza” ha nel testo più recente di Carol Gilligan, La virtù della resistenza. Resistenza è una parola che a me è molto cara. Gilligan si occupa della dissonanza e della dissociazione che le donne, anche se non solo loro, sperimentano nel patriarcato «tra una voce radicata nel corpo e nelle emozioni e una voce legata a una falsa storia». Il riconoscimento di quel qualcosa che sentiamo e che sappiamo, ma che impariamo che non va detto se vogliamo essere accettate dentro la società patriarcale, è, credo, la forza collettiva che si sta accumulando e liberando nel #metoo.

La presenza di un forte movimento politico è stata fondamentale per portare avanti gli studi sul trauma, ci dice anche Judith Herman, come lo è stata per portare avanti la liberazione delle donne attraverso il riconoscimento della violenza contro di loro e dei suoi effetti.

Un aspetto sul quale occorre insistere di più, secondo me, è la radice della misoginia, quella radice che emerge con chiarezza nel dato, troppo poco conosciuto, della violenza che si scatena intorno al corpo generativo della donna: la violenza maschile che colpisce, spesso comincia o si scatena, in gravidanza o intorno al momento della gravidanza.

Collegandomi all’intervento di Luisa Muraro, ritengo che per poter affrontare la violenza contro le donne sia necessario andare alla sua radice, alle ragioni che la costruiscono e costituiscono, e questo per me non si può fare prescindendo dai corpi sessuati. Se è vero che non ci sono qualità maschili o femminili ma qualità umane, come ci ricorda anche Gilligan, il lavoro da fare non è cancellare i corpi affidandosi al genere ma liberarli dal genere e dalle sue prescrizioni, non per riaffermare un dualismo ma per uscirne, liberandone la pluralità delle possibili messe in atto, come ci invita a fare Daniela Pellegrini, che io trovo molto vicina al pensiero di Gilligan. Forse superare la paura di andare a questa radice della misoginia è il passo che resta ancora da fare per far saltare davvero il sistema, e sarebbe opportuno che una riflessione sul collegamento tra la misoginia e l’asservimento sessuale e riproduttivo del corpo generativo non restasse più clandestina, mentre vediamo che è costantemente sotto attacco, non a caso.

Nel #metoo avviene un passaggio fondamentale: si esce, anche dolorosamente, dall’ipocrisia che accettare sotto ricatto sia una scelta, e che quello che si è subito sia stato davvero accettato. Si smaschera il ricatto sessuale esponendolo per quello che è. Per questo motivo si può parlare di un continuumcon il tema della prostituzione, e per questo qualunque regolamentazione della prostituzione come lavoro sarebbe un capolavoro di pervertimento patriarcale della libertà delle donne. È fondamentale intensificare la riflessione su questo legame, a mio avviso, per sostenere il rovesciamento sistemico che sta avvenendo nel mondo.

Mi piace il modo che ha Maria Nadotti di dire le cose, anche quelle cattive: soave e sorridente. Non è il mio, e forse anche per questo mi piace. Ma mi lascia perplessa la sostanza del suo dire, per un motivo che ho spiegato in un incontro pubblico in Germania. Una brava blogger, Antje Schrupp, amica di Diotima da molti anni, ha fatto un intervento con severe critiche a quelle donne che, impegnate nella politica ufficiale, secondo lei sono acquiescenti nei confronti della vecchia politica (maschile) e ha chiesto che cosa ne pensassi io.

“Tempo fa, le ho risposto, in un’intervista a una brava giornalista ho espresso la stessa tua idea; quando l’ho letta, stampata, ho trovato che era una brutta intervista e non per colpa della giornalista. E ho capito una cosa: non è affare per me, a me tocca parlare bene delle donne e, quando non posso, tacere”. Il pubblico, femministe di diversa provenienza, per lo più impegnate, ha reagito a queste parole con segni di un’approvazione che io ho sentito autorevole e convincente. Parlo per me, lo ripeto, ma la decisione ha in sé delle ragioni più grandi di me. Devo ancora approfondirle, so che c’è di mezzo una questione di giustizia. E devo ancora approfondire che cosa vuol dire “parlar bene”, sicuramente c’entra anche l’avere cognizione di causa; Simone Weil avrebbe parlato di attenzione.

Aggiungo qualcosa che riguarda Paul B. Preciado. Sul tema, io sostengo una tesi molto impegnativa, che riassumo in poche parole: l’appartenenza di genere non è immutabile ma non per questo possiamo farla rientrare nel disponibile. Penso cioè che la differenza sessuale sia, per l’essere umano, un bene non disponibile.

Con un’aggiunta indispensabile. L’appartenenza di genere, l’assegnazione a un genere, maschile o femminile, che si fa alla nascita della creatura, a volte può risultare sbagliata, per incertezza anatomica. Oppure, anni dopo, per motivi enigmatici di rigetto intimo e personale dell’identità basata sul corpo anatomico: un corpo anatomico maschile, nel caso delle transessuali. Ed è questo il caso in cui siamo d’accordo che sia reso possibile e accettato, culturalmente e legalmente, cambiare il genere sessuale e poter dire: “io sono una donna”.

Preciado parla invece di un atto volontario e intenzionale di rinuncia a essere donna, ma questo è un altro discorso. Le moderne donne emancipate sono o, meglio, erano (eravamo, c’ero anch’io) sulla strada di una finta transessualità al maschile, per motivi più che comprensibili, fino a quando non è intervenuta la rivolta femminista. Così è andata per me, che un giorno, grazie alla scelta femminista, ho detto, per far intendere quella che veramente mi sentivo di essere, “io sono una donna”. Innumerevoli altre, ne conosco alcune, questo l’hanno detto senza bisogno di fare una scelta, per semplice accettazione di sé.

Il #Metoo americano ha liberato energie femminili in tutto il mondo, Italia compresa e nella redazione di Via Dogana guardiamo con favore a quello che si sta muovendo nel nostro paese, ispirato in vario modo da una forza femminile contagiosa e potente che non ha confini. Non mi riferisco solo al manifesto Dissenso comune, alla lettera delle giornaliste Noi ci siamo, e a #Quellavoltache. Penso anche al lavoro sempre più massiccio e preciso dei Centri antiviolenza, all’hashtag #IosonoLinaMerlin di Resistenza femminista, alle iniziative di NonUnaDiMeno per l’8 marzo, alle prese di posizione sempre più estese contro l’introduzione in Italia della maternità surrogata. Sono iniziative tra loro differenti, ma contengono tutte la ribellione e il contrasto al dominio e all’uso maschile del corpo delle donne.

Questo è l’aspetto essenziale che ci trova d’accordo. In redazione sappiamo bene che hanno pratiche differenti – alcune che sentiamo vicine, altre che sentiamo lontane e non condivisibili – ma pensiamo ci sia quell’essenziale di base per stare in rapporto e continuare a interloquire.

C’è anche un altro elemento che interessa la rivista. Come abbiamo scritto già nell’invito alla redazione allargata di marzo, Diventa più grande l’orizzonte della politica, qui in Italia, a partire dalle molestie e dai ricatti sessuali, il discorso sembra estendersi a tutto ciò che alle donne capita nei luoghi pubblici, in primis quelli del lavoro.

Partire dal luogo in cui si è, come hanno fatto le lavoratrici dello spettacolo del manifesto Dissenso comune, non è corporativismo, come è stato loro rimproverato. È partire dalla propria esperienza che avviene sempre in un luogo e in un tempo definiti. Il contesto è prezioso per una pratica politica, perché è lì che si possono intrecciare relazioni e avviare trasformazioni ed è significativo che più di cento attrici e registe abbiano cominciato a trovarsi e a riflettere sulla propria realtà e si siano poi esposte con prese di parola e iniziative pubbliche. Proprio perché radicato, quel Manifesto ha un peso ben diverso da tutti i generici appelli che circolano e che chiunque può firmare in internet.

In questo caso mettere la firma è di più, è già coinvolgersi in una esposizione pubblica e sostenerne le azioni politiche, è un primo passo che può aprirsi a un esserci in prima persona e sperimentarsi in una dimensione collettiva, cosa che di questi tempi è merce rara.

Inoltre c’è ancora tanto altro da svelare e riuscire a mettere in parole. Ciascuna donna nel luogo di lavoro o in un luogo pubblico sta intera e sa per esperienza che soprusi e prevaricazioni maschili colpiscono sia il corpo che la mente di una donna. Io so bene, per esempio, che una insegnante ha dalla società il compito di trasmettere una cultura costruita come se al mondo ci fossero solo maschi. E non è anche questa una prevaricazione intellettuale oramai insopportabile?

Io per prima, però, vedo una profonda contraddizione su cui riflettere. Quello che sorprende nei documenti di Dissenso comune è che contengono nello stesso testo sia espressioni molto radicali, che indicano uno scontro con un intero sistema di potere, sia espressioni che rimandano alla richiesta di parità con gli uomini.

Da una parte parlano di rivolta definitiva e irreversibile e si sentono partecipi di un flusso di movimenti che “hanno scoperchiato un sistema che faceva del silenzio e dell’omertà la sua forza e la sua linfa”. Infatti scrivono: “Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo” e, per farlo, si stanno muovendo per “entrare in relazione con altre donne che come noi vogliono incrinare fino a distruggere questo sistema di regole scritte e non scritte”. Dall’altra parte dichiarano di portare avanti iniziative quali lo studio di “una serie di richieste da presentare nei luoghi decisionali” e stanno “lavorando anche sulle rivendicazioni della parità di compenso e sulla equa rappresentanza”.

Le due prospettive sono opposte. L’abbattimento di un potere maschile siffatto è antitetico alla richiesta di spartirlo, di essere di egual numero in quegli stessi organismi di potere marci all’origine. Non si può sapere quali sviluppi avranno gli avvenimenti in corso, ma sarebbe deleterio che prevalesse la seconda prospettiva. Se si vuole ribaltare l’intero sistema e determinare “una vera e propria svolta culturale e politica” ci vuole di più e di meglio, ci vuole invenzione politica e capacità trasformativa.

A partire dal #Metoo americano di fatto si è aperto ed è in corso un conflitto tra donne e uomini che va più in profondità e mira a ridiscutere il “contratto sessuale” sottostante il contratto sociale. Per dirlo con Carole Pateman, il contratto sociale che dichiara di attribuire uguaglianza e libertà a tutti gli individui, in realtà nasconde un patto fondativo tra soli uomini per l’accesso al corpo delle donne, il “contratto sessuale”, che determina la loro sottomissione. Per questo le donne entrano nei rapporti sociali gravate da ogni tipo di prevaricazione maschile. Il fatto che il patto sociale sia stato costruito tra uomini a danno delle donne ha determinato e determina profonde ingiustizie, che oggi generano insofferenza e aperta ribellione. Finora sono state chiamate con il nome generico di “discriminazioni”, nel quadro dello specchietto per le allodole dell’impossibile parità con gli uomini. Con questo numero di Via Dogana abbiamo proposto di cominciare un lavoro sul linguaggio: rinominarle dalla prospettiva che il #Metoo sta svelando. Per fare solo un esempio: il fatto che una donna guadagni meno di un uomo per lo stesso lavoro viene chiamato “discriminazione salariale”. Oggi appare chiaro che la parola che svela è FURTO perpetrato nei confronti delle donne.

Come dicono le americane “oggi quel tempo è finito!” La posta in gioco è attraente: chiama tutte e ciascuna ad esserci e delinea un orizzonte grande in cui collocarsi a partire da sé, singolarmente e insieme alle altre.

Intervento iniziale Maria Nadotti (1)

Comincio ringraziando di questo invito che mi ha un po’ sorpresa, perché non sono una frequentatrice della Libreria delle donne anche se ho molto rispetto del vostro lavoro e mi interessa proseguire la discussione con voi. Mi è successa una cosa strana mentre Rosaria Guacci leggeva quel testo scritto in modo collettivo, ma firmato da una sola persona: molto manifesto, molto poco interlocutorio. Stavo prendendo appunti e, arrivata a un certo punto, la penna mi si è scaricata. Difficile discutere in absentia. Per cui dirò ciò che mi ha irritato.

Il documento originario, Dissenso comune, del 1° febbraio, continua in questa sua seconda puntata a chiamarsi Dissenso comune e invita a scatenare un movimento femminile (anche se in realtà non si tratta di un movimento perché è tutto molto corporativo e si riproduce la gabbia delle quote rosa, trappola infernale, politicamente parlando, sia per le donne che per gli uomini). Partiamo dalla parola scelta: ‘dissenso’. Perché non si parla di conflitto? Forse perché ‘dissenso’ è un termine più interlocutorio e negoziale, mentre ‘conflitto’ è un termine più antagonistico, che prevede pratiche che non hanno come unica mira quella di cambiare semplicemente le cifre?

Altra cosa sottesa a questi ‘manifesti’ è che esista un ‘Sistema’ comandato, governato, ordinato, voluto, blindato dagli uomini, di cui noi donne non parteciperemmo se non sempre e solo come parte lesa, offesa, esclusa, ai margini.

Io credo invece che anche noi siamo il Sistema. Si tratta di capire eventualmente in che modo siamo sistema dentro il sistema. Il manifesto Dissenso Comune è firmato da 124 donne che obiettivamente sono il sistema cinematografico italiano. In questo secondo capitolo dello stesso manifesto si rincorre qualcosa che andava fatto prima. La spinta che avrebbe mosso queste 124 donne del cinema italiano sarebbe stata la solidarietà verso le ‘sorelle’ molestate, violentate. E già la parola ‘sorella’ andrebbe usata con molta discrezione, non vi pare? Uno, perché il rapporto sororale è uno dei più complessi e conflittivi che ci siano sulla faccia della terra. Due, perché è un termine che storicamente ha assunto un peso politico vero.

L’altro punto è l’insistenza su un Sistema in cui saremmo partecipanti-innocenti: è vero? Di questo oggi mi piacerebbe discutere.

Altra cosa: un manifesto firmato dalle donne del cinema italiano, all’interno di un Sistema di cui però non si sentono parte, sarebbe un mezzo per dar voce alle donne? Perché? Il cinema si fonda fin dall’inizio sul corpo femminile, suscita desiderio attraverso di esso. E questo vale per gli uomini e per le donne. Il cinema ci rende tutte transessuali o lesbiche. Il cinema nasce attorno a un corpo desiderato e il corpo è corpo messo in posizione femminile, succede anche se è corpo di uomo. È come se il corpo cinematografico del desiderio fosse di per sé femminilizzato. È strano che le donne che lavorano nel cinema non si rendano conto che non si può dire semplicemente che l’uso del corpo femminile nel cinema le rende soggetti privi di discorso, senza analizzare che cosa sia stato il cinema, che cosa continui a essere il cinema. Se si vuole fare un ragionamento sul diritto di parola, e di parola che rappresenta tutte le donne del mondo, bisogna aprire altri discorsi. Tutto il loro ragionamento finisce nelle quote rosa perché non sembrano mettere a tema niente di politico, solo la questione dei numeri: quante siamo, quanto denaro va agli uomini, quanti film a regia femminile vengono distribuiti. Io penso che questa sia una trappola, perché elude tutte le questioni vere: il provare a immaginarsi lo scardinamento vero nelle teste degli uomini e anche nelle nostre teste.

Passo alle cose che volevo dirvi io, riprendendo le fila dell’altra volta.

Premetto che la questione del #MeToo ha scatenato in me una serie di dubbi, è una materia complessissima, non la si può ridurre a nessuna semplificazione. Sono convinta che ognuna di noi – a prescindere dall’età anagrafica e dalla sua collocazione nel mondo del lavoro produttivo e riproduttivo –, se onesta con se stessa e un po’ coraggiosa, potrebbe fare una lista di occasioni in cui si è trovata soggetto potenziale di #MeToo. Solo che non lo facciamo, non solo collettivamente ma neanche singolarmente. L’altra volta, a riunione conclusa, avevo chiesto a Marisa Guarneri, (lo avevo chiesto a lei per il lavoro politico che fa) se sarebbe stato ipotizzabile un #MeToo italiano, con tutte le riserve del caso. Marisa mi ha risposto: Sì, ma dopo le elezioni. E sono andata via ‘con la coda tra le gambe’. Perché è esattamente questo: in Italia abbiamo una sorta di lealtà – non è sudditanza – nei confronti delle istituzioni. Un bisogno di riconoscimento, anche rispetto a cose nobili sul piano sociale… ma che nella realtà producono immobilità, impossibilità di buttare giù la parete… Perché dopo le elezioni, mi sono chiesta, perché non prima?

Sempre l’altra volta Luisa Muraro ha fatto un intervento sui media che non ci riconoscono, non ci danno spazio. Io non la penso così e, in ogni caso, la questione è: Come si prende lo spazio? Chiedendolo?

In Italia potremmo cominciare a pensare insieme qualche forma di disobbedienza civile invece di continuare a essere incivilmente obbedienti. Riusciamo a immaginarlo? Qual è il patto che ci lega socialmente a qualcos’altro? Vale per il rapporto che abbiamo con lo stato, le istituzioni pubbliche, i partiti, le chiese, i figli, gli amanti, padri, mariti, sorelle, fratelli… tutte le nostre relazioni. A chi siamo fedeli? E perché? Che cosa ne ricaviamo? Queste le domande che mi pongo, e ho alcune risposte parziali. Risposte che nel tempo sono cambiate e che continuano a cambiare… Sono le domande più radicali che ci si possa porre in questo momento. Non riesco a prendere sul serio chi dice: “sto dentro al sistema, ma voglio un po’ più di potere dentro quel sistema. Il sistema sostanzialmente va bene, ma quello che non lo fa andare bene è che Lui ha più spazio di me, un po’ più di potere”. Se questo è il tema: si salvi chi può. Le donne messe in posizione di potere in un sistema ‘bacato’ sono peggio degli uomini.

Ci sono tante questioni che vanno affrontate perché altrimenti sembra che le donne siano meglio degli uomini per definizione. Perché mai? Forse perché sono tenute ai margini?

Altro grande tema, esito di cent’anni di movimenti femministi mondiali, sollevato dalle protagoniste del #MeToo americano provocando un’onda d’urto pazzesca. Sono riuscite a collegare – ripeto non se lo sono inventato – l’Io al Noi, facendo sì che la donna che dice di sé e dice cose imbarazzanti e difficili da dire, non si presenti come una semplice vittima cui è possibile credere o non credere, e magari rinfacciare il ‘ritardo’ con cui ha deciso di raccontare ciò che le è accaduto.

Ogni volta che si subisce una discriminazione sul lavoro, una violenza sessuale, una molestia, un insulto o commento pesante, un’umiliazione – ognuna di noi ne ha da raccontare – mi dico che sarebbe utile domandare a se stesse: ma tu dov’eri? Di Asia Argento dicono: si è svegliata dopo ventuno anni. Ma non capita a tutte noi, leggendo le nostre vite col senno di poi, di arrivare a capire cose che in tempo reale non avevamo colto e che non avremmo saputo raccontare per quello che in realtà erano? Talora mi capita, ripensando a cose fatte o fattemi in passato, di capire che il mio silenzio di allora era solo una presunzione di libertà, un’autodifesa, un modo di costruirmi. Era vero quel che facevo allora ed è vero quel che ne so oggi. La vita è questo. Non si capisce quasi niente in tempo reale, soprattutto in campi delicati e complessi quali l’amore, il sesso, la politica.

Il #MeToo è riuscito a mettere in moto l’Io che dice di sé, in un avanti-indietro nel tempo, ricordando ricostruendo immaginando, e producendo il #We-Too, un soggetto politico collettivo ancor prima che plurale. Credo che qui in Italia quel po’ che si è mosso con documenti e manifesti abbia prodotto un Noi lievemente fasullo, perché dietro ad esso mancano gli Io. Non basta una firma sotto un documento per dire anch’io.

Si è anche nominato il documento delle giornaliste, venuto immediatamente dopo quello delle donne del cinema. È curioso che i documenti nascano attraverso le categorie professionali. Non è politicamente rilevante dire ‘anche noi ci siamo’ senza dire ‘dove e in che modo ci siamo’, Chi sono queste giornaliste? Cosa hanno fatto finora?

Sembra sempre che si abbiano le mani legate e che non si possa fare nulla. Invece si può, oggi come ieri. E questo luogo, come molti altri luoghi politici delle donne, lo dimostra.

Immaginiamo – come ha fatto qualche anno fa un film esilarante – che un giorno, a Los Angeles, tutti i lavoratori messicani non si presentino al lavoro. La città si paralizza, senza di loro la vita si ferma. Il tema è quello del ‘vero’ potere femminile: immaginiamo un atto di slealtà, complicato perché per l’appunto non siamo una categoria professionale. Immaginiamo una sottrazione simbolica di sostegno agli uomini, perché è lì che si può operare.

Recentemente ho visto il film di Tullio Giordana, Nome di donna, e il film di Francesca Comencini, Amori che non sanno stare al mondo. Giordana fa sempre lo stesso film trattando di temi sociali, dalla Meglio gioventù… atterra ora sul tema delle molestie sessuali sul posto di lavoro. Vorrei ragionarne con voi. Premesso che io non l’ho amato, premesso che ci sarebbe da capire ‘perché adesso’, grazie a questo film M. T. Giordana esce come il paladino di… di che cosa? Invece il film di Francesca Comencini, che cosa ci racconta, cosa sanno raccontare le donne di diverso dagli uomini, sempre che lo sappiano fare? Non ci raccontano, almeno in Italia, quasi mai altri mondi possibili e soprattutto non sembrano porsi il tema dell’invenzione di una forma diversa, di un più ragionato linguaggio cinematografico. Perché non siamo in grado di farlo?

Altro punto, riprendendo quanto detto da Ida Dominijanni la volta scorsa. Sembrerebbe solo una questione linguistica, ma non lo è. Di fronte alle molestie sessuali, invocare nuove leggi-punizioni espone a  un grosso rischio. Intrinseco al movimento #MeToo ci sarebbe il puritanesimo: la caccia alle streghe, la gogna, la vendetta, la rappresaglia. Quante volte abbiamo letto negli ultimi mesi che ‘si tratta di una nuova caccia alle streghe’? Ma – mi e vi domando – dove sono le streghe? Dove sono i comunisti nel #MeToo? Perché, se si adotta questa metafora, allora sembrerebbe che oggi i comunisti, i dissidenti o le streghe siano proprio i molestatori. Occorre ragionare bene, perché questo linguaggio è stato usato anche da alcune donne. Il rischio dell’accanimento c’è ed è pericolosissimo, ma come mai si usa una metafora storico-politica che non c’entra niente? Vorrei capire come si produca questo slittamento semantico, perché si adottino categorie discorsive che servono solo a produrre passività.

Il #MeToo non lo ferma più nessuno non solo perché si è liberato qualcosa nelle donne, ma perché si è liberato anche dell’altro.

Torno all’inizio: tutte noi abbiamo cose da raccontare. Perché non le raccontiamo? E, se le raccontiamo, come e perché le raccontiamo? Per me è questa la questione: che cosa ci impedisce di essere sleali nei confronti degli uomini e, quando è necessario, anche delle donne (si parla di molestie sessuali, ma pensiamo anche alle discriminazioni o competizioni professionali).

Noi siamo il Sistema, non siamo la parte sana del sistema in quanto donne. Siamo salve dal sistema non in quanto donne, ma in quanto donne che fanno qualcosa.

Nota: A Parigi le istituzioni pubbliche rincorrono il #MeToo a modo loro. La città è tappezzata di manifesti e in metropolitana distribuiscono pieghevoli dove si vede una donna alle cui spalle è in agguato un orso, uno squalo, o un lupo… e lo slogan è: Ne minimisons jamais le harcèlement sexuel. Victimes ou témoins, donnez l’alerte (Non minimizziamo mai la molestia sessuale, vittime o testimoni date l’allarme). Anche se le molestie, come sappiamo, sono per lo più roba domestica, da interno familiare… Avrei voglia di scrivere una protesta a nome di orsi, lupi e squali….

Conclusioni

Subito dopo il primo #MeToo, nell’ottobre del 2017, la scrittrice e attivista femminista Robin Morgan pubblica sul suo blog un articolo in cui dice che “sulla rivista Ms. è dal 1974 che le donne parlano di questi temi, violenze sessuali, discriminazioni sul lavoro… Sono stanca di considerarli tipping points, emergenze”. Il #MeToo statunitense ha avuto il merito di rivelarne il carattere sistemico. E, ad una cosa sistemica, non si può che rispondere in modo sistemico. Viene fuori un nuovo coraggio. Non rispondiamo: “vogliamo più potere”, ma “non vogliamo questo tipo di potere”. E non è un caso che lo dicano inizialmente donne potentissime all’interno del sistema.

A Rosaria Guacci che mi dice che il mio intelligente tentativo di de-costruire è depressivo, rispondo che io mi deprimo solo in assenza di intelligenza, quando c’è un blocco dell’analisi.

Lia Cigarini ha detto una cosa fondamentale: bisogna stare nel tempo della storia. Non si può prendere quello che è successo nel passato a esempio di ciò che accade oggi. Noi siamo reali in un tempo preciso, in uno spazio preciso, in una data classe sociale, con un certo colore della pelle… E allora temporalità, spazialità, intersezionalità sono categorie essenziali e lo sono proprio nel loro costante divenire. Alle spalle del #MeToo ci sono anni e anni di pratiche e teorie femministe, dice Lia, e ha perfettamente ragione. Ciò non toglie tuttavia che questo patrimonio storico sia rivisitabile all’infinito e non possa esser usato in modo statico. Il potere di Meryl Streep non è uguale a quello della cameriera d’albergo Nafissatou Diallo, che denunciò Dominique StraussKahn, all’epoca direttore generale del Fondo monetario internazionale. Anche in quel caso partì una denuncia – e siamo ben prima del #MeToo – che mise fine alla carriera politica dell’uomo. La questione dell’intersezionalità è davvero cruciale.

Alcune di voi hanno parlato di “portare l’esperienza femminile sul lavoro”. Ma di quale esperienza parlano esattamente? Ogni donna ha una sua specificità, ogni lavoro ha una sua specificità, mentre spesso va a finire che per ‘femminile’ si intende ‘materna’, ed è una finzione bella e buona.

Luisa Muraro sollecita uno sguardo positivo verso le donne, invitando a parlare bene delle donne pubblicamente. Ebbene io non sempre ci riesco, perché penso che ci siano donne e donne. Alcune hanno dimostrato di essere profondamente diverse da alcuni uomini. Perché ci sono anche uomini e uomini. È un problema politico crescere uomini e donne diversi da quelli che vediamo troppo spesso. Altrimenti è facile che venga fuori la locandina in cui gli uomini sono squali, porci… e le donne tutte Cappuccetto rosso.

Per chiudere, vorrei leggere l’incipit di un testo recente di Paul B. Preciado, perché mi sembra che ogni binarismo, incluso quello adombrato dal #MeToo, porti con sé la sua e la nostra rovina e non sia del tutto adeguato ai tempi in cui siamo:

“Signore, signori e tutti gli altri,

nel fuoco incrociato riguardo alle politiche di molestie sessuali, vorrei prendere la parola in quanto contrabbandiere tra due mondi, quello “degli uomini” e quello “delle donne” (due mondi che potrebbero non esistere ma che qualcuno si sforza di mantenere separati con una sorta di muro di Berlino di genere) per portarvi notizie dalla posizione di “oggetto trovato” o piuttosto di “soggetto perduto” durante la traversata.

Non parlo come uomo che appartiene alla classe dominante, la classe di quelli a cui è assegnato il genere maschile alla nascita e sono educati come esponenti della classe governante, quelli a cui si concede il diritto o meglio da cui si pretende (ed è una chiave analitica interessante) l’esercizio della sovranità maschile.

Non parlo nemmeno come una donna, visto che ho volontariamente e intenzionalmente rinunciato a questa forma di incarnazione politica e sociale.

Parlo da uomo trans e non pretendo in alcun modo di rappresentare un collettivo o una fazione. Non parlo e non posso parlare in quanto eterosessuale né in quanto omosessuale, benché io conosca e viva entrambe le condizioni, perché quando si è trans queste categorie diventano obsolete. Parlo come transfuga di genere, come fuggitivo della sessualità, come dissidente (magari maldestro, perché mi mancano codici prestabiliti) di un regime della differenza sessuale. Parlo come auto-cavia della politica sessuale che vive l’esperienza, ancora non tematizzata, di esistere da entrambi i lati del muro, e che a forza di scavalcarlo quotidianamente comincia a essere stufo, signore e signori, della rigidità recalcitrante dei codici e dei desideri imposti dal regime eteropatriarcale.”

(1) Questo intervento, trascritto e solo minimamente rimaneggiato, è un testo ‘parlato’ in assenza del corpo enunciante.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Diventa più grande l’orizzonte della politica, del 18 marzo 2018

Il documento Dissenso Comune è nato da un incontro tra donne del mondo dello spettacolo con l’esigenza di analizzare e in seguito prendere parola pubblicamente per denunciare lo stato delle cose in merito alla disparità di genere e alla diffusa e autorizzata modalità relazionale molesta nell’ambito del cinema.

La prima spinta è stata senz’altro quella della solidarietà che abbiamo sentito e voluto dimostrare verso le nostre sorelle attrici molestate, offese, violate, alcune delle quali hanno, con grande fatica e coraggio, cominciato a denunciare situazioni  immediatamente e tristemente familiari a tutte noi.
Queste situazioni infatti non sono eccezioni, ma una regola o peggio un dato di fatto contato e “naturale”. In seguito a questa riflessione la nostra solidarietà si è man mano trasformata in vicinanza, in “prossimità”.
Ci siamo sentite tutte vittime di uno stato di cose che ha a che fare non solo con l’abuso di potere nel contesto lavorativo gerarchico, ma essenzialmente con un Sistema che regola ancora e senza eccezioni le relazioni umane di genere, nonostante l’emancipazione e la liberazione femminile, anzi forse proprio da queste evoluzioni rafforzato e paradossalmente valorizzato.
Pensiamo che la messa in crisi di un sistema di valori antichissimo generi un disordine simbolico e morale che si sviluppa tutto sul corpo femminile.
Le attrici presenti durante la riflessione che ha portato al documento hanno descritto il corpo dell’attrice come esposto per eccellenza, un corpo esposto alla narrazione di tutti, paradigma e rappresentazione dell’immaginario collettivo; in quanto tale il senso comune vi risiede e rende visibili, riconoscibili e concreti i principi che lo governano.
Ma in quanto tale esso può essere anche efficacemente utilizzato da noi come specchio riflettente e altisonante di un grido di rivolta definitiva ed irreversibile.
Durante i nostri primi incontri abbiamo riconosciuto il privilegio di aver accesso a questa
piattaforma che può enormemente amplificare la nostra voce, quella di tutte noi, corpi immaginari e corpi reali, lavoratrici dello spettacolo, lavoratrici in generale, donne di tutto il mondo.
Di qui la decisione di assumersi questa responsabilità, quella di prendere parola.
In particolare si è cercato di utilizzare questa presa di parola come un dire prima ancora che come un richiedere.
Dire a partire dai fatti recentemente accaduti e denunciati pubblicamente da Asia Argento e con lei da tutte le altre che ci hanno precedute; dire per cercare di portare il discorso più avanti della denuncia verso una analisi della realtà fotografata e riprodotta dalla lente del nostro obbiettivo, quello delle donne dello spettacolo, quello delle attrici molestate, quello delle lavoratrici profondamente e colpevolmente discriminate in ambito lavorativo; dire per mettere fine alla terribile deriva regressiva generata dall’aumento di libertà femminile che mette le donne sempre più al centro di episodi di violenza e molestia, dire per dare forza ad un movimento di opinione che generi a sua volta, come in altri paesi e in varie forme sta finalmente accadendo, una vera e propria
svolta culturale e politica a fronte di una situazione sempre più degenerante non solo nei costumi e nella morale, ma anche nella “reale” possibilità di piena cittadinanza a questo mondo per tutte noi donne e donne lavoratrici.
Abbiamo in questo senso sentito anche l’esigenza di sostanziare l’analisi della condizione particolare nel contesto lavorativo del cinema in Italia con il supporto di una raccolta dati che potesse accompagnare la spinta primaria, il senso profondo di una ribellione ormai necessaria come l’ossigeno.
Alcuni sintetici risultati di questa raccolta dati.
Nel 2016/17 l’88% dei film a finanziamento pubblico italiano è stato diretto da uomini così come il 79% dei film prodotti dalla RAI ed il 90,8% dei film che sono stati proiettati nelle sale cinematografiche.
A fronte di ciò si è rilevato non solo che sul piano della qualità i film fatti da donne sono in percentuale molto alta (circa 40%) apprezzati e premiati in festival nazionali ed internazionali e ottengono il finanziamento e il riconoscimento di film di interesse culturale da parte del MIBACT, ma anche che nel campo della formazione la presenza delle donne e la loro risposta nell’apprendimento è molto alta.

Ciò significa in modo chiaro che il collo dell’imbuto si stringe nelle fasi successive della carriera, quando si attiva un meccanismo di sistematica esclusione o idimensionamento o discriminazione che nega alle donne un percorso professionale lineare e corretto.
Questo nonostante il fatto che la redazione della nuova legge sul cinema del 2016/17 sia stata, nei decreti attuativi, formalmente obbligata a tenere conto della normativa europea in merito al contrasto verso le discriminazioni di genere.
In Italia si è riusciti cioè a scrivere una nuova legge che di fatto riduce al minimo consentito tale indicazione di orientamento. Basti verificare la percentuale di presenze femminili previste nei nuovi organi decisionali ed esecutivi nell’ambito dello Spettacolo: il minimo possibile per non “scontentare” l’orientamento europeo.
Questi dati non hanno fatto che confermare qualcosa di terribilmente già noto a tutte noi.
In ambito professionale, oltre che esistenziale, siamo continuamente ridimensionate; siamo sottoposte ad una continua induzione alla mancata riuscita delle nostre ambizioni e, in questo modo, sistematicamente indirizzate verso il posto di secondo piano, il compenso ridotto, il minore riconoscimento.
Quindi quel Sistema insopportabilmente discriminatorio e violento non solo gode di buona salute nonostante sia l’espressione estrema e disperata, urlata e folle, di un modo di stare al mondo ormai palesemente fallimentare oltre che ingiusto, ma continua ad agire nei luoghi decisionali e in tutti i contesti privati e professionali senza freno anzi con il pieno riconoscimento, con la piena autorizzazione.
Il nostro documento ha voluto tentare di dare voce al profondo dissenso verso questo stato delle cose di tantissime donne dello spettacolo e degli altri contesti professionali per poi attivare queste energie antagoniste verso il cambiamento. Di più, il nostro documento ha voluto entrare nel flusso già attivato da altri movimenti che hanno scoperchiato un Sistema che faceva del silenzio e dell’omertà la sua forza e la sua linfa e dall’interno di questo flusso elaborare una analisi a partire dal proprio specifico.
Attualmente, dopo aver avuto un emozionante incontro con le prime 124 firmatarie del documento ed esserci guardate, ascoltate e riconosciute, stiamo lavorando insieme su alcune questioni specifiche e studiando una serie di richieste da presentare nei luoghi decisionali preposti a renderle pratica come l’istituzione di un codice etico che regoli i rapporti nei luoghi di lavoro al quale tutte le produzioni cinematografiche e i lavoratori da esse contrattualizzati dovranno attenersi, pena il licenziamento per giusta causa.
Stiamo lavorando anche sulla rivendicazione della parità di compenso e sulla equa rappresentanza negli ambiti decisionali sia istituzionali (commissioni ministeriali) sia di immagine (presenze nelle giurie e nella direzione dei festival) sia nella composizione delle troupe, proponendo un iniziale 30% di presenze femminili per arrivare al 50%.
Stiamo anche tentando di entrare in una relazione concreta con altre donne che come noi vogliono incrinare fino a distruggere questo Sistema di regole scritte e non scritte, sia le donne di altri contesti professionali specifici (ad esempio le giornaliste) sia le nostre sorelle già organizzate politicamente, già in rete, già attive sulla scena del cambiamento.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Diventa più grande l’orizzonte della politica, del 18 marzo 2018

Preparando questo incontro, una considerazione ci è venuta spontanea: il #metoo ha mostrato che le donne sono sì dappertutto, ma ci sono arrivate da sole. E si sono fatte male: hanno potuto incidere poco, e hanno pagato prezzi alti. Le molestie e i ricatti sessuali sono solo una parte del problema. A questo proposito è emblematica la storia di Rosalind Franklin, citata nell’invito.

Nel 1951, Rosalind Franklin fu chiamata al King’s College di Londra come ricercatrice associata, dopo aver già svolto importanti lavori in altri prestigiosi laboratori. Ebbe gravi conflitti con il suo collega Maurice Wilkins, che tentava di usarla come assistente personale, mentre lei mantenne tenacemente un ruolo autonomo a costo di non parlargli più. Rosalind fotografò l’elica del DNA. Wilkins a sua insaputa comunicò i risultati del suo lavoro a Watson e Crick. Per Watson la celebre “foto n. 51” fu l’elemento determinante per orientarsi tra le strutture che stava ipotizzando e “pubblicò” il modello insieme a Crick, guadagnando la fama, vincendo il Nobel, e guardandosi bene dal coinvolgere l’autrice.

La scoperta del DNA ha una genealogia femminile: è figlia della foto scattata da Rosalind con un’apparecchiatura a raggi X che doveva la sua esistenza alle scoperte di Marie Curie. Eppure è andata nel mondo come “figlia” di una coppia di soli maschi.

È vero, parliamo di un altro momento storico, le donne non erano ancora entrate in massa in tutti i luoghi di lavoro, non c’era ancora stato il femminismo. Tuttavia quello che è successo a Rosalind Franklin rimane un esempio emblematico di prevaricazione maschile. Quelle che oggi vengono genericamente chiamate “discriminazioni” sono ben altro. È ora di chiamarle con il nome appropriato: rapina intellettuale, prevaricazione professionale, plagio di idee, furto economico, paternalismo, per dirne qualcuno.

Da questo allargamento della questione delle sopraffazioni maschili ripartiamo per parlare di cosa succede in Italia dopo il #metoo.

Le silence breakers italiane (Asia Argento, Miriana Trevisan e Giulia Blasi) non hanno avuto lo stesso grado di ascolto delle loro compagne in altri paesi. Sono state meno credute e subissate di considerazioni misogine su quando se e come potessero legittimamente parlare. Solidarietà però c’è stata, badiamo bene, e se talvolta è stata sminuita o respinta, questo è stato un errore. In ultimo Asia Argento l’ha accettata, aderendo alla manifestazione di NonUnaDiMeno dell’8 marzo, in cui è stata accolta dai cartelli “Sorella, io ti credo”. Altre cose sono accadute: è nato l’hashtag italiano #quellavoltache (ne è anche stato tratto un libro uscito in questi giorni, #quellavoltache – Storie di molestie, manifestolibri), ma non ha avuto lo stesso impatto travolgente sull’insieme della società e gli uomini denunciati non hanno subito gravi danni. Eppure il clima è cambiato anche qui e sono convinta che abbia influito su vicende come l’espulsione del magistrato Bellomo dall’organo di autogoverno della magistratura amministrativa.

Ma altre cose si muovono, gli abusi contro le donne sono da anni al centro dell’impegno di una rete di centri antiviolenza, un hashtag intitolato #IosonoLinaMerlin è stato lanciato di recente da Resistenza femminista per combattere le proposte di regolamentazione della prostituzione, e da tempo è in atto una resistenza all’introduzione in Italia della maternità surrogata.

Nel mondo del lavoro, gruppi di donne sono partite dal #metoo per costruire relazioni e produrre riflessioni non solo su ciò che c’è da denunciare, ma su come la propria posizione professionale possa far gioco alle donne.

È questo che fa il manifesto “Dissenso comune” (1° febbraio 2018), firmato da 124 donne del mondo dello spettacolo, nato da lunghi confronti. Una presa di posizione ricca di pensiero. Cito anche la lettera “È ora di cambiare. Noi ci siamo” (4 febbraio 2018) firmato da 125 giornaliste, che rimanda esplicitamente al primo. Entrambi sono stati ripresi sul nostro sito.

A differenza di altre, noi non vediamo queste iniziative politiche come un’alternativa a #metoo. Sono pratiche diverse che gli si affiancano, allargando l’orizzonte: queste donne, che sono andate nel mondo da sole, ora non lo sono più. Ci mostrano un cambiamento in atto.

Per parlare di questo avevamo invitato le autrici di Dissenso comune. Doveva venire Ilaria Fraioli, che ha avuto un contrattempo lavorativo e ha dovuto disdire l’impegno. Lei e le altre ci hanno comunque mandato un contributo scritto, che Rosaria Guacci leggerà per noi.

Qui in Italia, la strada che può essere usata più efficacemente è quella di stare tutte in quest’orizzonte più grande, sapendo che fare cose diverse allarga il campo; che per le polemiche c’è spazio ma che per fare politica è essenziale riconoscere la forza che ci dà l’altra e rimandargliela, anche quando non si fanno le stesse cose.

Ne parliamo con Maria Nadotti, giornalista, saggista, consulente editoriale, traduttrice e molto altro. Maria collabora con Internazionale e tiene un blog intitolato “in genere” sul sito di Doppiozero.

Maria ha già iniziato un’interlocuzione con noi nel precedente incontro di #VD3, Parlano le donne parlano il 14 gennaio scorso, che desideriamo continuare in questa sede.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Diventa più grande l’orizzonte della politica, del 18 marzo 2018

domenica 18 marzo 2018 ore 10.00-13.30


Il gesto di Asia Argento, Giulia Blasi e Miriana Trevisan con il #metoo americano ha aperto anche in Italia la strada della denuncia femminista di una pratica nota e taciuta di ricatti sessuali maschili. Il manifesto Dissenso comune firmato da 124 donne del mondo dello spettacolo non ha la stessa impostazione ma va nella stessa direzione di svelare il nesso fra sesso e potere. Lo stesso si può dire della lettera È ora di cambiare. Noi ci siamo firmata da oltre 100 giornaliste.

Sono iniziative politiche tra loro differenti, ma accomunate nell’essenziale, che è un agire di donne per la propria indipendenza nei luoghi pubblici, in primis quelli di lavoro. Sono tutte donne che si espongono e parlano di una posta in gioco che ci riguarda: aprire un conflitto con il potere maschile e produrre un cambio di civiltà nei rapporti tra uomini e donne. Vogliamo interrogarci su come stare – ciascuna e tutte – in questo orizzonte grande, senza paura di polemizzare ma accettando le differenze.

Partendo dalla cosa più odiosa, gli abusi sessuali, il discorso nel nostro paese sembra estendersi a ciò che accade alle donne in altri ambiti della vita pubblica. Non chiamiamole più con il nome generico di discriminazioni. Sono furti economici e prevaricazioni professionali, a cui si aggiungono rapine intellettuali, plagi di idee e paternalismi vari. Formano l’immagine del DNA dell’intero sistema di potere maschile. Quest’immagine non compare qui per caso, ci ricorda la fotografia della struttura del DNA che nel 1951 Rosalind Franklin scattò grazie ai raggi X scoperti da Marie Curie. I suoi colleghi la trafugarono prendendosi il merito della doppia elica e diventando alla fine i famosi Watson e Crick.

Ora crescono la consapevolezza e l’insofferenza verso questa storia di sopraffazioni e violenze. Parole di verità soggettiva e azioni pubbliche sono il cuore di un agire politico efficace che parte da ciascuna di noi e si rafforza nella relazione con le altre.

Avvieranno la discussione Ilaria Fraioli e Maria Nadotti.

C’è qualcosa di spiazzante nell’ultimo lavoro di Laura Bispuri, Figlia mia, in concorso alla Berlinale in questi giorni. Da spettatrice noto subito la schematicità della sceneggiatura, la regia ruvida e l’ambientazione in una Sardegna rurale, concentrato di tanti luoghi interni e di costa della nostra memoria. Ma il suo tema continua a frullarmi nella testa e non mi abbandona.

Sembrerebbe un film sulle madri, sull’essere madre. E questo di fatto occupa buona parte della narrazione. La storia di due madri che si contendono l’amore e l’attenzione della figlia: la madre biologica, Angelica, che l’ha affidata a Tina, che l’ha allevata e amata.

Di nuovo, trovo troppo rigida la polarizzazione dei due caratteri: da un lato la madre buona, accudente, devota in tutti i sensi – alla figlia, alla chiesa, al marito – dall’altro quella considerata puttana che si dà per un bicchiere di mirto, fragile e confusa, mossa dal desiderio di essere amata dagli uomini e quello di vivere liberamente – e spesso al limite – le proprie passioni e i propri desideri, fuori dai pregiudizi dei suoi compaesani. Da sottolineare l’intensa fisicità delle bravissime Golino e Rohrwacher, una tutta trattenuta e l’altra tutta urlata, in una grande interpretazione.

Poi, c’è la ragazzina contesa, Vittoria, una decenne timida e decisamente ingenua rispetto alla precocità delle sue coetanee; corpo minuto, infantile, con una distinguibilissima chioma rosseggiante, personaggio che comincia a prendere forma di soggetto, ad acquisire consistenza, volontà e desideri propri.

Allora è ancora altro ciò che la regista ci vuole raccontare. Ci vuole raccontare la ricerca necessaria di una figlia che passa dalla necessità di guardare le molte facce del materno che abbiamo assimilato, dall’urgenza di riconoscere tutti i modelli di donna che abbiamo introiettato e infine dal riconoscere quanto abbiamo elaborato di quella genealogia femminile che risale ai tempi dei tempi e che comprende anche le madri che, nel corso delle nostre vite, abbiamo incontrato e scelto. Sembra suggerirci che da lì si passa come da un passaggio obbligato, ma proprio da lì si può attingere per nutrire il nostro simbolico e la nostra libertà.

Uno spostamento psichico, un movimento, quello che avviene in Vittoria – più che nelle due madri – ben raffigurato dalla scena del suo ingresso nella buca e dalla sua successiva fuoriuscita a rappresentare la sua nuova nascita. Un passaggio e un cambiamento che si concretizzano nel suo desiderio di andare avanti, oltre la contesa delle sue due madri, e di cercare liberamente la propria strada, il proprio senso di essere, come significativamente rappresentato nella scena finale.

Laura Bispuri prosegue, dopo il suo primo lungometraggio, Vergine giurata, tratto dal bellissimo romanzo di Elvira Dones, la sua riflessione sulla ricerca di sé delle donne.

Il grande cinema americano sa raccontare storie che coinvolgono e colpiscono per la loro bellezza, anche quando sono zeppe di politically correct e costellate di luoghi comuni. Tuttavia, quando un film è grande, dice molto di più della sceneggiatura presa alla lettera. Quando un film è grande, il regista ci racconta qualcosa di sé che nemmeno lui sa, facendo emergere elementi in cui tutti si possono riconoscere.

È il caso di Tre manifesti a Ebbing Missouri, di Martin McDonagh che, detto in estrema sintesi, è un film che racconta il fantasma femminile ancora profondamente radicato negli uomini, che si manifesta chiaramente quando devono fare i conti con la violenza sessista. È questo fantasma il vero protagonista del film.

La prima donna che incontriamo è Mildred, risoluta e spigolosa, lotta perché sia fatta giustizia della morte di sua figlia, stuprata e uccisa ormai da mesi nell’indifferenza della polizia. È la madre terribile, minacciosa, vendicativa, implacabile, temuta dagli uomini perché li può abbattere con la stessa violenza da loro ben conosciuta. Fa il paio con “mammina”, la madre divorante, castrante, simbiotica del poliziotto Dixon, costretto da lei a vivere represso e insicuro, pieno di rabbia e paura.  

L’altra faccia della medaglia rispetto alla donna strega, mostro, arpia, è la donna oggetto del desiderio maschile: giovane, sensuale, desiderabile e inesorabilmente stupida, senza personalità, afona, sottomessa e corrispondente ai bisogni e ai desideri di lui. Il personaggio maschile più complesso, il capo della polizia locale William Willoughby, non si sottrae completamente a questo schema: malato, decide un’uscita di scena spettacolare, non prima di aver assicurato alla moglie l’immagine della sua potenza sessuale.

È sorprendente vedere come nell’immaginario collettivo maschile la donna non appaia come un soggetto desiderante, ma sempre come qualcosa di più o qualcosa di meno rispetto al desiderio maschile. Non c’è ancora una donna reale, ma uno schermo su cui vengono proiettati alternativamente il desiderio o la paura del maschio. Per questo non basta, come sembra suggerire Stefano Sarfati su #VD3 in Darcy lotta insieme a noi, uno sguardo femminile che va oltre, per far essere un uomo che ancora non c’è. Insieme a donne ancora disponibili alla relazione con gli uomini e ancora disposte a regalare uno sguardo creativo ai loro compagni, ci vogliono uomini disponibili a fare la loro parte e disposti a non voltare lo sguardo di fronte a un piano della rappresentazione che influenza così nel profondo il rapporto tra i sessi.

Dopo la riunione di Via Dogana del 14 gennaio ho letto il libro di Ida Dominijanni (Il trucco, Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse 2014), e mi ha riportato alle sensazioni provate durante il ventennio del regime mediatico berlusconiano: alla paura che ho provato, al senso di umiliazione, di pressione psicologica e sessuale, alla rabbia e al senso di vergogna nebulizzato intorno agli abusi verbali; alla sensazione di essere spiate, a quella di essere minacciate; questo amplificato dal senso di isolamento e del dovercela fare da sola. Il libro di Ida mi ha fatto riguardare la memoria di me, parallelamente alla sua narrazione giornalistica e filosofica.

La mia coscienza rispetto alla politica ufficiale inizia nel 1978 durante il caso Moro, ho 7 anni allora: sento la paura, il mio istinto è con le Brigate Rosse; lui mi fa pena fotografato con i giornali addosso per leggere la data; ricordo le lettere di Noretta; spero tantissimo che lo rimandino a casa, finché viene ritrovato nel bagagliaio di un’auto.

Poi avevo letto tutti i libri sui brigatisti, La notte della RepubblicaIl caso Moro, e tutta la letteratura che man mano veniva pubblicata sull’argomento: avevo scritto il progetto per un’intervista a Mario Moretti (di cui conservo ancora le domande ingenue che non ho mai provato a fargli).

La retorica statale sulla famiglia per me era finita, e anche quella sulle Brigate Rosse, lo smarrimento politico che è seguito si è tradotto in una forma di sfiducia verso il governo e verso il linguaggio dei politici, ma anche nella possiblità di impegno sociale, o di discorso collettivo. L’ironia ha preso il campo in me, la resistenza, la politica e il linguaggio si sono confinate nella ricerca artistica individuale.

Nel 1998 ho realizzato ed esposto questo lavoro: una foto e due oggetti (che compaiono nella foto).

È un autoritratto, gli oggetti sono tazze di ceramica con due immagini, stampate da me, del rapimento di Aldo Moro. Il lavoro si intitola: venderne 1 per venderne 100. E in un luogo solo intuito del pensiero volevo tenere assieme quella vicenda politica, il sistema consumistico capitalista che seguiva, la memoria personale, e una risata.

Nel Trucco Ida D. dice, (anche guardando al film di Bellocchio, Buongiorno, notte del 2004) che Aldo Moro è stato l’ultimo padre della prima Repubblica, che morì in quel momento:

“Morì assieme al doppio corpo del re, privato dall’aura sacrale e riportato alla finitezza di un cadavere abbandonato nel cofano di un’ auto come un bagaglio inutile. E morì assieme al padre edipico, ucciso non dal rito simbolico della congiura fraterna ma da un omicidio reale che resterà privo di elaborazione nell’inconscio politico nazionale (…) Niente più padri, dopo, nella scena politica italiana, niente più genealogie paterne”. Fine del patriarcato quindi come collasso di un dispositivo simbolico, nella logica della psicanalisi lacaniana detto “dell’evaporazione del padre” che indica il “passaggio da un ordine socio-simbolico basato sulla dialettica fra desiderio e legge a un disordine basato sull’imperativo del godimento”.

Oggi l’effetto della narrazione storica di Dominijanni è liberatorio e insieme stabilizzante: è convincente e tiene insieme in una visione complessa la ricostruzione dei fatti di cronaca, il dibattito sui media (in cui è stata immersa per tutto il tempo), gli strumenti della psicanalisi per smontare la logica della filosofia dominante, e la filosofia della differenza sessuale che non è solo una teoria a partire dal femminismo, ma un modo diverso di pensare e di guardare il reale da parte delle donne (molte, e di alcuni alleati) e per capire il passato con più chiarezza e meno ironia.

In quegli anni la pressione mediatica lavorava sul consenso attraverso la depressione sensoriale, e non ostante la retorica fosse quella del divertimento, del successo e del consumo, si trattava di un godimento omologato e guidato da un mercato, un consumo a catalogo per soggetti resi simili e venduto come forma di libertà, mentre gli ingredienti della libertà venivano eliminati di nascosto o trasformati dal linguaggio: l’espressione torsione semantica della parola libertà è magnifica (sempre nel libro di Ida D.).

Eliminata la televisione di casa, per un lungo periodo avevo smesso di leggere notizie e quotidiani, il mio modo di parlare assomigliava sempre di più a un codice, la reticenza era un esercizio personale per organizzare una resistenza senza alleati chiari, e un esercizio di stile per rendere più incisive le parole dette e no, oltre che la conseguenza della linea tratteggiata che è in me.

Negli anni successivi ho cercato le voci delle femministe a Milano e nei libri, e la mia coscienza si è sviluppata: nuovo linguaggio, nuove istruzioni per schivare il pericolo, zone di pensiero nebbiose e preintuite diventavano paesaggi abitati e condivisi/ibili.

Questo per dire la mia ammirazione per la chiarezza e la fiducia di chi ha parlato durante il regime televisivo con interlocutori e interlocutrici politicamente e filosoficamente cangianti, (ad un certo punto non si capiva più nulla, chi era chi e chi portava il paese e l’immaginario verso cosa), mi piace pensare che l’energia del mio silenzio fosse già con lei in qualche forma.