Preparando questo incontro, una considerazione ci è venuta spontanea: il #metoo ha mostrato che le donne sono sì dappertutto, ma ci sono arrivate da sole. E si sono fatte male: hanno potuto incidere poco, e hanno pagato prezzi alti. Le molestie e i ricatti sessuali sono solo una parte del problema. A questo proposito è emblematica la storia di Rosalind Franklin, citata nell’invito.

Nel 1951, Rosalind Franklin fu chiamata al King’s College di Londra come ricercatrice associata, dopo aver già svolto importanti lavori in altri prestigiosi laboratori. Ebbe gravi conflitti con il suo collega Maurice Wilkins, che tentava di usarla come assistente personale, mentre lei mantenne tenacemente un ruolo autonomo a costo di non parlargli più. Rosalind fotografò l’elica del DNA. Wilkins a sua insaputa comunicò i risultati del suo lavoro a Watson e Crick. Per Watson la celebre “foto n. 51” fu l’elemento determinante per orientarsi tra le strutture che stava ipotizzando e “pubblicò” il modello insieme a Crick, guadagnando la fama, vincendo il Nobel, e guardandosi bene dal coinvolgere l’autrice.

La scoperta del DNA ha una genealogia femminile: è figlia della foto scattata da Rosalind con un’apparecchiatura a raggi X che doveva la sua esistenza alle scoperte di Marie Curie. Eppure è andata nel mondo come “figlia” di una coppia di soli maschi.

È vero, parliamo di un altro momento storico, le donne non erano ancora entrate in massa in tutti i luoghi di lavoro, non c’era ancora stato il femminismo. Tuttavia quello che è successo a Rosalind Franklin rimane un esempio emblematico di prevaricazione maschile. Quelle che oggi vengono genericamente chiamate “discriminazioni” sono ben altro. È ora di chiamarle con il nome appropriato: rapina intellettuale, prevaricazione professionale, plagio di idee, furto economico, paternalismo, per dirne qualcuno.

Da questo allargamento della questione delle sopraffazioni maschili ripartiamo per parlare di cosa succede in Italia dopo il #metoo.

Le silence breakers italiane (Asia Argento, Miriana Trevisan e Giulia Blasi) non hanno avuto lo stesso grado di ascolto delle loro compagne in altri paesi. Sono state meno credute e subissate di considerazioni misogine su quando se e come potessero legittimamente parlare. Solidarietà però c’è stata, badiamo bene, e se talvolta è stata sminuita o respinta, questo è stato un errore. In ultimo Asia Argento l’ha accettata, aderendo alla manifestazione di NonUnaDiMeno dell’8 marzo, in cui è stata accolta dai cartelli “Sorella, io ti credo”. Altre cose sono accadute: è nato l’hashtag italiano #quellavoltache (ne è anche stato tratto un libro uscito in questi giorni, #quellavoltache – Storie di molestie, manifestolibri), ma non ha avuto lo stesso impatto travolgente sull’insieme della società e gli uomini denunciati non hanno subito gravi danni. Eppure il clima è cambiato anche qui e sono convinta che abbia influito su vicende come l’espulsione del magistrato Bellomo dall’organo di autogoverno della magistratura amministrativa.

Ma altre cose si muovono, gli abusi contro le donne sono da anni al centro dell’impegno di una rete di centri antiviolenza, un hashtag intitolato #IosonoLinaMerlin è stato lanciato di recente da Resistenza femminista per combattere le proposte di regolamentazione della prostituzione, e da tempo è in atto una resistenza all’introduzione in Italia della maternità surrogata.

Nel mondo del lavoro, gruppi di donne sono partite dal #metoo per costruire relazioni e produrre riflessioni non solo su ciò che c’è da denunciare, ma su come la propria posizione professionale possa far gioco alle donne.

È questo che fa il manifesto “Dissenso comune” (1° febbraio 2018), firmato da 124 donne del mondo dello spettacolo, nato da lunghi confronti. Una presa di posizione ricca di pensiero. Cito anche la lettera “È ora di cambiare. Noi ci siamo” (4 febbraio 2018) firmato da 125 giornaliste, che rimanda esplicitamente al primo. Entrambi sono stati ripresi sul nostro sito.

A differenza di altre, noi non vediamo queste iniziative politiche come un’alternativa a #metoo. Sono pratiche diverse che gli si affiancano, allargando l’orizzonte: queste donne, che sono andate nel mondo da sole, ora non lo sono più. Ci mostrano un cambiamento in atto.

Per parlare di questo avevamo invitato le autrici di Dissenso comune. Doveva venire Ilaria Fraioli, che ha avuto un contrattempo lavorativo e ha dovuto disdire l’impegno. Lei e le altre ci hanno comunque mandato un contributo scritto, che Rosaria Guacci leggerà per noi.

Qui in Italia, la strada che può essere usata più efficacemente è quella di stare tutte in quest’orizzonte più grande, sapendo che fare cose diverse allarga il campo; che per le polemiche c’è spazio ma che per fare politica è essenziale riconoscere la forza che ci dà l’altra e rimandargliela, anche quando non si fanno le stesse cose.

Ne parliamo con Maria Nadotti, giornalista, saggista, consulente editoriale, traduttrice e molto altro. Maria collabora con Internazionale e tiene un blog intitolato “in genere” sul sito di Doppiozero.

Maria ha già iniziato un’interlocuzione con noi nel precedente incontro di #VD3, Parlano le donne parlano il 14 gennaio scorso, che desideriamo continuare in questa sede.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Diventa più grande l’orizzonte della politica, del 18 marzo 2018

domenica 18 marzo 2018 ore 10.00-13.30


Il gesto di Asia Argento, Giulia Blasi e Miriana Trevisan con il #metoo americano ha aperto anche in Italia la strada della denuncia femminista di una pratica nota e taciuta di ricatti sessuali maschili. Il manifesto Dissenso comune firmato da 124 donne del mondo dello spettacolo non ha la stessa impostazione ma va nella stessa direzione di svelare il nesso fra sesso e potere. Lo stesso si può dire della lettera È ora di cambiare. Noi ci siamo firmata da oltre 100 giornaliste.

Sono iniziative politiche tra loro differenti, ma accomunate nell’essenziale, che è un agire di donne per la propria indipendenza nei luoghi pubblici, in primis quelli di lavoro. Sono tutte donne che si espongono e parlano di una posta in gioco che ci riguarda: aprire un conflitto con il potere maschile e produrre un cambio di civiltà nei rapporti tra uomini e donne. Vogliamo interrogarci su come stare – ciascuna e tutte – in questo orizzonte grande, senza paura di polemizzare ma accettando le differenze.

Partendo dalla cosa più odiosa, gli abusi sessuali, il discorso nel nostro paese sembra estendersi a ciò che accade alle donne in altri ambiti della vita pubblica. Non chiamiamole più con il nome generico di discriminazioni. Sono furti economici e prevaricazioni professionali, a cui si aggiungono rapine intellettuali, plagi di idee e paternalismi vari. Formano l’immagine del DNA dell’intero sistema di potere maschile. Quest’immagine non compare qui per caso, ci ricorda la fotografia della struttura del DNA che nel 1951 Rosalind Franklin scattò grazie ai raggi X scoperti da Marie Curie. I suoi colleghi la trafugarono prendendosi il merito della doppia elica e diventando alla fine i famosi Watson e Crick.

Ora crescono la consapevolezza e l’insofferenza verso questa storia di sopraffazioni e violenze. Parole di verità soggettiva e azioni pubbliche sono il cuore di un agire politico efficace che parte da ciascuna di noi e si rafforza nella relazione con le altre.

Avvieranno la discussione Ilaria Fraioli e Maria Nadotti.

C’è qualcosa di spiazzante nell’ultimo lavoro di Laura Bispuri, Figlia mia, in concorso alla Berlinale in questi giorni. Da spettatrice noto subito la schematicità della sceneggiatura, la regia ruvida e l’ambientazione in una Sardegna rurale, concentrato di tanti luoghi interni e di costa della nostra memoria. Ma il suo tema continua a frullarmi nella testa e non mi abbandona.

Sembrerebbe un film sulle madri, sull’essere madre. E questo di fatto occupa buona parte della narrazione. La storia di due madri che si contendono l’amore e l’attenzione della figlia: la madre biologica, Angelica, che l’ha affidata a Tina, che l’ha allevata e amata.

Di nuovo, trovo troppo rigida la polarizzazione dei due caratteri: da un lato la madre buona, accudente, devota in tutti i sensi – alla figlia, alla chiesa, al marito – dall’altro quella considerata puttana che si dà per un bicchiere di mirto, fragile e confusa, mossa dal desiderio di essere amata dagli uomini e quello di vivere liberamente – e spesso al limite – le proprie passioni e i propri desideri, fuori dai pregiudizi dei suoi compaesani. Da sottolineare l’intensa fisicità delle bravissime Golino e Rohrwacher, una tutta trattenuta e l’altra tutta urlata, in una grande interpretazione.

Poi, c’è la ragazzina contesa, Vittoria, una decenne timida e decisamente ingenua rispetto alla precocità delle sue coetanee; corpo minuto, infantile, con una distinguibilissima chioma rosseggiante, personaggio che comincia a prendere forma di soggetto, ad acquisire consistenza, volontà e desideri propri.

Allora è ancora altro ciò che la regista ci vuole raccontare. Ci vuole raccontare la ricerca necessaria di una figlia che passa dalla necessità di guardare le molte facce del materno che abbiamo assimilato, dall’urgenza di riconoscere tutti i modelli di donna che abbiamo introiettato e infine dal riconoscere quanto abbiamo elaborato di quella genealogia femminile che risale ai tempi dei tempi e che comprende anche le madri che, nel corso delle nostre vite, abbiamo incontrato e scelto. Sembra suggerirci che da lì si passa come da un passaggio obbligato, ma proprio da lì si può attingere per nutrire il nostro simbolico e la nostra libertà.

Uno spostamento psichico, un movimento, quello che avviene in Vittoria – più che nelle due madri – ben raffigurato dalla scena del suo ingresso nella buca e dalla sua successiva fuoriuscita a rappresentare la sua nuova nascita. Un passaggio e un cambiamento che si concretizzano nel suo desiderio di andare avanti, oltre la contesa delle sue due madri, e di cercare liberamente la propria strada, il proprio senso di essere, come significativamente rappresentato nella scena finale.

Laura Bispuri prosegue, dopo il suo primo lungometraggio, Vergine giurata, tratto dal bellissimo romanzo di Elvira Dones, la sua riflessione sulla ricerca di sé delle donne.

Il grande cinema americano sa raccontare storie che coinvolgono e colpiscono per la loro bellezza, anche quando sono zeppe di politically correct e costellate di luoghi comuni. Tuttavia, quando un film è grande, dice molto di più della sceneggiatura presa alla lettera. Quando un film è grande, il regista ci racconta qualcosa di sé che nemmeno lui sa, facendo emergere elementi in cui tutti si possono riconoscere.

È il caso di Tre manifesti a Ebbing Missouri, di Martin McDonagh che, detto in estrema sintesi, è un film che racconta il fantasma femminile ancora profondamente radicato negli uomini, che si manifesta chiaramente quando devono fare i conti con la violenza sessista. È questo fantasma il vero protagonista del film.

La prima donna che incontriamo è Mildred, risoluta e spigolosa, lotta perché sia fatta giustizia della morte di sua figlia, stuprata e uccisa ormai da mesi nell’indifferenza della polizia. È la madre terribile, minacciosa, vendicativa, implacabile, temuta dagli uomini perché li può abbattere con la stessa violenza da loro ben conosciuta. Fa il paio con “mammina”, la madre divorante, castrante, simbiotica del poliziotto Dixon, costretto da lei a vivere represso e insicuro, pieno di rabbia e paura.  

L’altra faccia della medaglia rispetto alla donna strega, mostro, arpia, è la donna oggetto del desiderio maschile: giovane, sensuale, desiderabile e inesorabilmente stupida, senza personalità, afona, sottomessa e corrispondente ai bisogni e ai desideri di lui. Il personaggio maschile più complesso, il capo della polizia locale William Willoughby, non si sottrae completamente a questo schema: malato, decide un’uscita di scena spettacolare, non prima di aver assicurato alla moglie l’immagine della sua potenza sessuale.

È sorprendente vedere come nell’immaginario collettivo maschile la donna non appaia come un soggetto desiderante, ma sempre come qualcosa di più o qualcosa di meno rispetto al desiderio maschile. Non c’è ancora una donna reale, ma uno schermo su cui vengono proiettati alternativamente il desiderio o la paura del maschio. Per questo non basta, come sembra suggerire Stefano Sarfati su #VD3 in Darcy lotta insieme a noi, uno sguardo femminile che va oltre, per far essere un uomo che ancora non c’è. Insieme a donne ancora disponibili alla relazione con gli uomini e ancora disposte a regalare uno sguardo creativo ai loro compagni, ci vogliono uomini disponibili a fare la loro parte e disposti a non voltare lo sguardo di fronte a un piano della rappresentazione che influenza così nel profondo il rapporto tra i sessi.

Dopo la riunione di Via Dogana del 14 gennaio ho letto il libro di Ida Dominijanni (Il trucco, Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse 2014), e mi ha riportato alle sensazioni provate durante il ventennio del regime mediatico berlusconiano: alla paura che ho provato, al senso di umiliazione, di pressione psicologica e sessuale, alla rabbia e al senso di vergogna nebulizzato intorno agli abusi verbali; alla sensazione di essere spiate, a quella di essere minacciate; questo amplificato dal senso di isolamento e del dovercela fare da sola. Il libro di Ida mi ha fatto riguardare la memoria di me, parallelamente alla sua narrazione giornalistica e filosofica.

La mia coscienza rispetto alla politica ufficiale inizia nel 1978 durante il caso Moro, ho 7 anni allora: sento la paura, il mio istinto è con le Brigate Rosse; lui mi fa pena fotografato con i giornali addosso per leggere la data; ricordo le lettere di Noretta; spero tantissimo che lo rimandino a casa, finché viene ritrovato nel bagagliaio di un’auto.

Poi avevo letto tutti i libri sui brigatisti, La notte della RepubblicaIl caso Moro, e tutta la letteratura che man mano veniva pubblicata sull’argomento: avevo scritto il progetto per un’intervista a Mario Moretti (di cui conservo ancora le domande ingenue che non ho mai provato a fargli).

La retorica statale sulla famiglia per me era finita, e anche quella sulle Brigate Rosse, lo smarrimento politico che è seguito si è tradotto in una forma di sfiducia verso il governo e verso il linguaggio dei politici, ma anche nella possiblità di impegno sociale, o di discorso collettivo. L’ironia ha preso il campo in me, la resistenza, la politica e il linguaggio si sono confinate nella ricerca artistica individuale.

Nel 1998 ho realizzato ed esposto questo lavoro: una foto e due oggetti (che compaiono nella foto).

È un autoritratto, gli oggetti sono tazze di ceramica con due immagini, stampate da me, del rapimento di Aldo Moro. Il lavoro si intitola: venderne 1 per venderne 100. E in un luogo solo intuito del pensiero volevo tenere assieme quella vicenda politica, il sistema consumistico capitalista che seguiva, la memoria personale, e una risata.

Nel Trucco Ida D. dice, (anche guardando al film di Bellocchio, Buongiorno, notte del 2004) che Aldo Moro è stato l’ultimo padre della prima Repubblica, che morì in quel momento:

“Morì assieme al doppio corpo del re, privato dall’aura sacrale e riportato alla finitezza di un cadavere abbandonato nel cofano di un’ auto come un bagaglio inutile. E morì assieme al padre edipico, ucciso non dal rito simbolico della congiura fraterna ma da un omicidio reale che resterà privo di elaborazione nell’inconscio politico nazionale (…) Niente più padri, dopo, nella scena politica italiana, niente più genealogie paterne”. Fine del patriarcato quindi come collasso di un dispositivo simbolico, nella logica della psicanalisi lacaniana detto “dell’evaporazione del padre” che indica il “passaggio da un ordine socio-simbolico basato sulla dialettica fra desiderio e legge a un disordine basato sull’imperativo del godimento”.

Oggi l’effetto della narrazione storica di Dominijanni è liberatorio e insieme stabilizzante: è convincente e tiene insieme in una visione complessa la ricostruzione dei fatti di cronaca, il dibattito sui media (in cui è stata immersa per tutto il tempo), gli strumenti della psicanalisi per smontare la logica della filosofia dominante, e la filosofia della differenza sessuale che non è solo una teoria a partire dal femminismo, ma un modo diverso di pensare e di guardare il reale da parte delle donne (molte, e di alcuni alleati) e per capire il passato con più chiarezza e meno ironia.

In quegli anni la pressione mediatica lavorava sul consenso attraverso la depressione sensoriale, e non ostante la retorica fosse quella del divertimento, del successo e del consumo, si trattava di un godimento omologato e guidato da un mercato, un consumo a catalogo per soggetti resi simili e venduto come forma di libertà, mentre gli ingredienti della libertà venivano eliminati di nascosto o trasformati dal linguaggio: l’espressione torsione semantica della parola libertà è magnifica (sempre nel libro di Ida D.).

Eliminata la televisione di casa, per un lungo periodo avevo smesso di leggere notizie e quotidiani, il mio modo di parlare assomigliava sempre di più a un codice, la reticenza era un esercizio personale per organizzare una resistenza senza alleati chiari, e un esercizio di stile per rendere più incisive le parole dette e no, oltre che la conseguenza della linea tratteggiata che è in me.

Negli anni successivi ho cercato le voci delle femministe a Milano e nei libri, e la mia coscienza si è sviluppata: nuovo linguaggio, nuove istruzioni per schivare il pericolo, zone di pensiero nebbiose e preintuite diventavano paesaggi abitati e condivisi/ibili.

Questo per dire la mia ammirazione per la chiarezza e la fiducia di chi ha parlato durante il regime televisivo con interlocutori e interlocutrici politicamente e filosoficamente cangianti, (ad un certo punto non si capiva più nulla, chi era chi e chi portava il paese e l’immaginario verso cosa), mi piace pensare che l’energia del mio silenzio fosse già con lei in qualche forma.

Care tutte, parlano le donne parlano, ma le parole scritte non risuonano. Giustamente Ida Dominijanni segna una differenza tra la sinistra europea e quella americana, in cui sono entrati i popoli diversi, le rivolte anticoloniali, lo sfruttamento dei corpi femminili quasi-eterna risorsa di un’umanità al maschile.

In effetti è grave che oggi le nostre voci assordino, persino, antichi amici sconcertati che non sanno come riprendersi nella sorpresa. Ma è grave anche che, nella nostra scena politica, più piccola, le parole scritte di donne iniziatrici e continuatrici di una più ampia e visionaria politica vengano irrise, confuse, cancellate.

Faccio tre esempi in cui mi sono imbattuta recentemente. Il primo riguarda un filosofo mite e gentile di cui leggevo, l’altra sera, un discorso sul mito di Dioniso divorato dai Titani. Se Dioniso bambino, scrive il filosofo, vede nello specchio non solo se stesso ma anche chi lo divorerà, egli vede l’intero, il mondo, che tuttavia nello specchio non può raggiungere: distanza e partecipazione all’impossibile raggiungimento dell’origine, questo il senso del mito.

Ma – è la successiva mossa del filosofo – qui, nell’impossibile raggiungere l’origine, e come già Freud comprese, la donna non appare, non si può comprendere, o più precisamente non può essere compresa. Ed essa vive così nella sola naturalità, cui dà corso, senza essere nella scrittura. 

La donna, tanto più, nemmeno ha mai scritto!

Un’altra cancellazione della scrittura femminile ha fatto un politico “rossobruno di sinistra”, su un diffuso blog in rete, con un articolo in cui trascorre da Butler a Muraro a Frazer. E in cui mescola tra loro, per i suoi scopi, posizioni delle tre pensatrici femministe che sono invece ben altrimenti definite. E ne cita pure i testi nelle note!

L’ultimo esempio riguarda un sito meno importante in cui voci solo maschili sono intervenute sul “dibattito” (sic) attorno al caso Weinstein e oltre, provando a “ridurre” (in senso chimico) il rapporto tra i due sessi a una regolata fantasmagoria di passaggi da un “cattivo” dominio a una “politica” uguaglianza. A niente è valso ricordare l’autoerotismo di coppia di Lonzi, come se Lonzi o Irigaray o il lesbismo non aprissero la sfera sessuale a territori estranei alla sfera sessuale maschile. (E sul discorso di Lonzi cala un giudizio tranchant: “trionfalistico, settario e dogmatico”.)

Insomma vi scrivo per dire che parlano, le donne, parlano, ma il deposito della scrittura, ancora, non risuona ad alta voce.

Donne sconosciute e donne famose parlano di sé, senza vergogna, in forza di una leva, che non è quella di Archimede ma che trova il suo punto di appoggio nel passato.

Ricordo che mia zia aveva un talento speciale, possedeva l’arte dell’ascolto attento, empatico. Riusciva a far raccontare a chiunque ciò che non voleva raccontare. Era dell’Udi e abituata alle relazioni privilegiate con altre donne, in primis con le vicine di casa, con cui aveva scambi intensi e assidui. Discutevano di tutto e davano giudizi sul comportamento degli uomini, sui partiti, sugli accadimenti politici. Era operaia specializzata allo zuccherificio Eridania di Mezzano, molto stimata. Io fin da piccola ascoltavo i suoi discorsi e le chiedevo spesso consiglio. Nell’adolescenza lei mi sostenne apertamente nelle mie scelte e a volte mi sollecitava a partecipare a eventi pubblici. Nel 1962 per esempio mi incitò a partecipare alla marcia per la pace, durante la crisi dei missili a Cuba. Fu per me un precedente di forza e di amore femminile. Mi raccontava della sua vita e mi portava esempi di libertà e di radicale anticonformismo. Criticava senza paura, liberamente, mio padre, mio fratello e sosteneva anche le giovani vicine di casa che volevano liberarsi da relazioni infelici con mariti o fidanzati, incoraggiandole come extrema ratio anche a separarsi e, quanto c’è stata la legge, a divorziare per il loro bene, incurante delle reazioni della gente. Ricordo un episodio rivoluzionario per l’epoca: una giovane donna di Camerlona di Ravenna le confidò che aveva una relazione con il prete del paese e lei la approvò pubblicamente, in nome della libertà femminile.

Il tempo delle storie che le donne raccontano è un tempo che non risponde a una periodizzazione strumentale- ideologica, basata su eventi memorabili, di solito guerreschi, ma un tempo che zigzaga dal presente al passato e viceversa, incurante delle convenzioni, che non rispetta il tempo lineare convenzionale. Segue i moti del cuore e dell’anima. È una misura temporale che donne coraggiose e consapevoli hanno deciso di cambiare, facendo svoltare l’orologio della storia. Una svolta che avvantaggia tutte e tutti.

Un cambiamento tanto radicale mia zia non lo poteva immaginare e anzi si stupiva di ricevere apprezzamenti da persone colte e conosciute a vari livelli. La pratica di parola e di ascolto ha prodotto un cambio di civiltà come ho potuto verificare in occasione di una iniziativa pubblica a Ravenna il 19 gennaio 2018, dove sono stata invitata come esponente della Libreria delle donne di Milano. Ho visto un pubblico attento che ha dato molto valore al mio racconto della zia e interessato a comprenderne il senso politico oggi nell’orientare la nostra lettura di ciò che accade alle donne così come la mutata collocazione che nella narrazione storica occupano questi fatti rispetto al sentire del passato.

Trovandomi a Ravenna, mia città natale, ho potuto seguire il processo per femminicidio al dermatologo Cagnoni. Accusato di avere ucciso a bastonate la moglie che lo tradiva, nega tutto. È emerso che prima dell’omicidio aveva organizzato in gran segreto la vendita di tutte le sue proprietà immobiliari con l’intento di impedire alla moglie di godere delle sue ricchezze. Una volontà punitiva che voleva colpire per mezzo del denaro una donna che non lo amava più. Ma forse non lo aveva mai amato, mi dicono le amiche di Ravenna, Marina e Paola dell’Associazione Donne verso il mare aperto, con cui ho parlato e che conoscono a fondo la storia. Paola dice che fu una sorta di matrimonio combinato fra la famiglia Cagnoni, ricca e molto nota a Ravenna, e la famiglia di lei, che si trovava in difficoltà finanziarie. E allora mi si presenta davanti agli occhi l’immagine di una moderna Ifigenia, sacrificata per aiutare la famiglia di origine, che avrebbe accettato di sposarsi non per amore, ma per acconsentire a una richiesta della madre. Questo è quello che sta trapelando dal processo. Che forse lei ha ceduto, spinta dalla necessità, e ha cercato di farselo piacere questo rampollo viziato e abituato al lusso e alla celebrità, ma poi le è capitato di innamorarsi davvero e le è costato la vita. Non so come andrà a finire perché lui è un potente, sostenuto dal padre, da tutto il suo clan, ma il giudizio su di lei non è certo quello che una volta si dava per scontato, che se la fosse cercata. Oggi la sua relazione extraconiugale e la sua volontà di divorziare, che hanno provocato la violenza di lui, sono interpretate come un atto di libertà. Ha voluto seguire il desiderio di un amore libero da costrizioni economico-mercantili e le sue ragioni sono comprese. Piuttosto è su di lui che cade pesante il giudizio della gente comune.

Una città che pensa mi ha dato molta gioia, essendo anche il luogo che ho lasciato quarant’anni fa, ritenendolo invivibile e inospitale per la realizzazione dei miei desideri e per la mia libertà. Non a caso fu proprio mia zia che seppe decifrare la mia insoddisfazione e vide la via che mi portava altrove e mi incoraggiò a perseguirla. Aveva letto giusto nell’orologio del tempo futuro, una vera lettrice del cuore umano.

Prima l’onda, poi la valanga – queste erano le metafore ricorrenti per descrivere ciò che è avvenuto dopo lo scandalo Weinstein. Già subito dopo la cacciata del produttore dall’Academy degli Oscar circolava la frase: “Nulla sarà come prima”. La radicalità  del cambiamento si riflette in molti commenti nei media: “Rivoluzione”,“Svolta”, “spartiacque”; Geneviève Fraisse in un’ intervista parlava di “un avant et un après”(France Inter 29 dic. 2017)

E gli avvenimenti si sono susseguiti, come sappiamo: Le Silence Breakers vengono scelte dalla rivista Time persona dell’anno, il dizionario americano Merriam-Webster elegge “femminismo” come parola dell’anno 2017, in Alabama vince il senatore democratico sotto l’effetto di #metoo, Oprah Winfrey, in occasione del Golden Globe tiene un discorso mai sentito a Hollywood, un atto simbolico, parla di genealogia femminile,  dell’ importanza della parola: “Quello che so con certezza è che dire la verità è lo strumento più potente che abbiamo”. Un discorso forte, liberatorio – altro che vittimismo e puritanesimo che ci vedranno poi le cento donne francesi tra cui Catherine Deneuve, puntualmente contestate.

La presa di parola non avviene solo nei paesi occidentali ma a livello mondiale: #MeToo in Pakistan, in India, in Cina.

In Italia il 12 gennaio esce la notizia che il magistrato Bellomo è stato definitivamente destituito dall’organo di autogoverno della magistratura, quasi all’unanimità. È stato escluso per aver leso il prestigio della magistratura, a causa del suo comportamento nei confronti delle aspiranti magistrate nel suo corso.

Ciò che veniva denunciato, all’inizio, come abuso di potere da parte da un Big dello show-business si è rivelato, man mano che le donne parlavano, l’infrastruttura che sorreggeva non solo Hollywood, ma che imperversa in  tutti i luoghi dove le donne si trovano a lavorare – ospedali, scuole, uffici, il mondo dello sport:  il nesso tra sesso e potere. La cosa nuova: Le donne non si vergognano più di parlare e vengono ascoltate.

Anzi, direi che mai prima è stato loro dato tanto credito. In Germania, per esempio, due giornaliste del settimanale Die Zeit hanno pubblicato le esperienze di stupro e ricatti sessuali subite da tre attrici, negli anni 90, da parte di un regista televisivo, anche se quest’ultimo ha negato tutto e ha minacciato querela in caso di pubblicazione. Anche in altri paesi sono state proprio le grandi testate, insieme ai social network, a dare voce alle donne. Siamo in un momento storico favorevole.

È accaduto, su vasta scala,  ciò che Vita Cosentino in un suo testo per il nostro sito ha chiamato una sorta di autocoscienza. Io penso che sia la parola giusta, anche quando il confronto non è in presenza fisica. Perché c’è l’autorizzazione da parte di altre donne a prendere la parola, l’interrogarsi sulla propria esperienza, la presa di coscienza, anche sul fascino del potere. E leggendo queste notizie molte di noi hanno passato in rassegna la propria vita e si sono ricordate di episodi finiti nel dimenticatoio o rimossi.

Autocoscienza anche per gli uomini: “I maschi sono frastornati”, scrive Pierluigi Battista sul Corriere della sera del 18 gennaio. Hanno capito che non possono più andare avanti così, che il patto sessuale si è definitivamente rotto. E si è rotta anche l’antica complicità tra uomini, hanno paura di essere espulsi e rinnegati dai loro simili, e, più che altro, temono la caduta dell’eros maschile di fronte alla “qualità della relazione a cui ci chiama la fine del sostegno femminile al patriarcato” (Claudio Vedovati, FB 10/1/2018).
Non c’è dubbio che tutto va rinegoziato nella relazione tra uomini e donne, a cominciare dalla sessualità fino al mondo del lavoro. Le esperienze raccontate sui ricatti sessuali gettano anche una nuova luce sul discorso del “soffitto di vetro” e fanno capire che la politica delle quote rimane una operazione di facciata. Ora alcuni uomini cominciano a riconoscere che hanno creato un “ambiente lavorativo ostile alle donne” (è successo alla rivista Artforum a New York dopo le dimissioni del coeditore Landesman in seguito alle accuse di pesanti molestie nei confronti di una collaboratrice)

“L’affare Weinstein sta rivelandosi, per le donne, un buon affare”, ha scritto Luisa Muraro in un articolo sul sito della Libreria. Sono d’accordo.

Infatti,  il dibattito che si è aperto ci fa gioco perché ha portato alla luce il conflitto tra i sessi e così contrasta la tendenza alla neutralizzazione e all’Uno che cerca di imporsi.

Ci fa gioco perché ciò che prima sembrava un discorso “femminista” ora è diventato senso comune: la sessualità è passata, anche nell’opinione pubblica, da fatto privato ad una dimensione politica.

Ci fa gioco perché oltrepassa la riscrittura neoliberale della libertà femminile che traduce la libertà guadagnata dalle donne con il femminismo in autoimprenditorialità e libertà di mercato, come Ida Dominijanni ha analizzato con acutezza nel suo libro Il trucco.

E non potevamo non pensare subito a invitare Ida quando si era delineato l’argomento per la redazione aperta di oggi. Come saggista e giornalista (al manifesto dal 1982 al 2012, oggi all’Internazionale), ha arricchito per tanti anni, unica nel panorama della stampa italiana, la nostra ricerca con il suo lavoro di analisi e lettura del reale con il taglio della differenza sessuale. Poi, nel 2014, il suo libro il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi che è stato presentato e discusso qui al Circolo il 3 ottobre 2015. Con questo libro, ricchissimo per le sue analisi, Ida ha anticipato molti nodi del dibattito sui scandali sessuali mostrando la loro rilevanza politica. Ha messo in evidenza il peso della  parola femminile che, più che ogni altra cosa, ha contribuito alla caduta di Berlusconi. Oggi questo testo è di grandissima attualità. Addirittura impressionante come descrive con capacità quasi profetica lo spettro di Berlusconi.
Ida ha anche insegnato teoria femminista in varie università italiane e straniere, è stata per un anno negli Stati uniti come research fellow e così ha potuto vedere da vicino la realtà del paese dove la valanga di oggi ha avuto origine e maggiore forza.

Rompere il silenzio, questo è anche il primo passo nella pratica di Marisa Guarneri, con la quale abbiamo una lunga storia di scambio politico: è intervenuta con testi su VD e ha condotto numerose serate qui al Circolo.
Insieme ad altre ha dato vita, nella seconda metà degli anni 80, alla Casa delle donne maltrattate di Milano CADMI, un luogo di ascolto e di aiuto per donne in difficoltà a causa di violenza domestica fisica, psicologica e sessuale. Di questa violenza, in quei tempi si parlava ancora pochissimo. Marisa e le altre della CADMI hanno sviluppato e diffuso in tutta Italia e tramite progetti europei un’ innovativa pratica di intervento che mette la donna che subisce violenza al centro della sua storia e delle decisioni e la fa protagonista di un nuovo sapere, un approccio spesso in conflitto con quello delle istituzioni che vuole tutelare e controllare le donne. Rifiutare quelle mediazioni che portano svantaggio alle donne in difficoltà e di conseguenza alle donne tutte è un gesto eminentemente politico. Ora ci interessa in particolare sapere come Marisa, oggi presidente onoraria della CADMI, ha vissuto il dibattito #metoo, se ha avuto una ripercussione politica sul suo lavoro.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Parlano le donne parlano, del 14 gennaio 2018

1.Il movimento #metoo – slogan inventato dieci anni fa da una donna nera, Tamara Burke – esplode negli Stati uniti il 15 ottobre dell’anno scorso, a seguito dello scandalo Weinstein, e si diffonde a macchia d’olio su scala pressoché planetaria: due settimane dopo, a inizio novembre, il Newsweek conta due milioni e trecentomila tweet in 28 paesi – ai primi posti Usa, Canada, Brasile, Messico, Gran Bretagna, Svezia, Francia, Italia, Germania, Australia, India, Giappone, Sudafrica1. L’11 gennaio il New York Times elenca 78 uomini “high profile” – appartenenti ai circuiti della politica, dei media, dell’intrattenimento, dell’accademia – accusati dalle loro vittime di molestie o “cattiva condotta sessuale” (sexual misconduct) e licenziati, o sospesi, o costretti a dimettersi: tra loro sei esponenti politici, parlamentari o uomini di partito, e tra questi l’ex comico democratico Al Franken, il caso forse più controverso e Roy Moore, candidato repubblicano al Senato, cha ha perso le elezioni in Alabama anche in seguito alle denunce femminili di sexual harassment e pedofilia2. Parzialmente diverso il quadro in altri paesi. In India ad esempio – uno dei casi di #metoo più interessanti – il campo più colpito è quello accademico; sotto accusa, in particolare, alcuni tra gli esponenti più amati dei post-colonial studies, da cui un dibattito incentrato soprattutto sullo scarto fra ideologie rivoluzionarie professate in pubblico e comportamenti privati3. In Francia invece – altro esempio – il dibattito sul caso più esplosivo, le accuse di molestie e stupro a Tariq Ramadan, è “deragliato” su quello sui rapporti fra cultura occidentale e cultura islamica4.

Come sempre accade, un movimento femminile transnazionale con contenuti sostanzialmente omogenei acquista pieghe e accentuazioni diverse a seconda dei contesti nazionali, e domanda perciò uno sguardo comparativo. Il mio si poserà soprattutto sulla comparazione fra Stati uniti e Italia, per una ragione precisa: molto di quanto sta accadendo nell’America trumpiana – compresa la scoperta, grazie alla presa di parola pubblica femminile, di un sistema diffuso di scambio fra sesso e potere – è stato anticipato nell’Italia berlusconiana; ma con effetti in parte simili, in parte – sembra – assai diversi. Da qui la strana sensazione di stare assistendo a un déjà vu da una parte, a qualcosa di inedito dall’altra.


2.Negli Stati uniti il #metoo è stato/è un enorme e contagioso movimento femminile di presa di parola pubblica, potentemente aiutato dai social network, appoggiato dalla stampa illuminata, sostenuto sia dall’autorizzazione reciproca delle donne coinvolte sia da una forte autorizzazione dell’opinione pubblica, che è riuscito a ribaltare una congiuntura che pareva svantaggiosa per le donne – l’elezione di Trump e la sconfitta di Hillary Clinton – in una situazione di protagonismo femminile socialmente riconosciuto e supportato. La congiuntura politica è di estrema rilevanza e dà risposta alla domanda che è imperversata sui media italiani: “Perché parlano adesso e non hanno parlato prima?”.

Le donne, lo sappiamo, parlano quando possono parlare: quando si può aprire una crepa nel regime del dicibile e dell’indicibile, e l’autorizzazione a dire la verità soggettiva prevale sul silenzio-assenso femminile necessario al mantenimento dell’ordine patriarcale. Dopo la vittoria di Trump e la sconfitta di Hillary – una candidata che il femminismo radicale riteneva non idonea perché moderata e neoliberale, ma che tutto il femminismo ha difeso dagli attacchi misogini del suo avversario – negli Stati uniti le donne hanno reagito con un salto di prospettiva politica, ben visibile fin nella women’s march del 21 gennaio 2017, che con i suoi due slogan principali, inclusività e intersezionalità, già annunciava un femminismo determinato a prendere in mano le redini di un movimento di opposizione più vasto. A distanza di un anno scrive infatti il NYT: “Allora non era chiaro se si trattasse di un momento o di un movimento, ma ora è chiaro che le donne sono diventate le leader emergenti di una doppia scommessa: sostenere l’opposizione a Trump e lanciare una sfida culturale più ampia al potere maschile, com’è accaduto con il #metoo”5.

La presa di parola individuale che ha fatto esplodere il caso Weinstein non sarebbe stata possibile, dunque, senza l’autorizzazione simbolica del movimento già sceso in campo contro il Presidente che si vanta di “prendere le donne per le parti intime”. Vale la pena di notare che questa congiuntura politica conquista al femminismo la generazione di donne nata e cresciuta sotto le insegne dell’individualismo neoliberale che ne era rimasta fin qui più estranea, come fanno notare nelle loro testimonianze molte protagoniste del #metoo che raccontano la loro scoperta della dimensione collettiva dell’agire politico6. Di questa congiuntura, infine, fa parte il “divenire minoranza” degli uomini (bianchi), sotto i colpi della globalizzazione, della crisi economica, dei cambiamenti demografici e della perdita di privilegi innescata mezzo secolo fa dal femminismo storico: una condizione declinante del tutto compatibile tanto con i colpi di coda del suprematismo bianco che ha portato Trump alla presidenza quanto con i colpi di coda dell’aggressività sessuale “virile” disvelata dal #metoo.

A fronte di questo “divenire minoranza” degli uomini bianchi, c’è il “divenire maggioranza” delle donne: per la prima volta, in una società come quella americana abituata a rappresentarsi per segmenti, le donne non sono percepite come una minoranza da tutelare ma come una potenziale maggioranza vincente, una forza di cambiamento da sostenere e di cui fidarsi. All’autorizzazione femminile si aggiunge quindi un’autorizzazione sociale più vasta, ben percepibile attraverso il racconto incoraggiante e positivo che del #metoo hanno fatto i media mainstream liberal: il New York Times, il New Yorker, il Guardian, il Washington PostThe Nation – per citare solo quelli che ho cercato di seguire da qui.


3.Questo sostegno dell’opinione pubblica americana è il dato che stride di più con l’esperienza italiana. L’Italia non avrebbe dovuto restare sorpresa daI #metoo, avendo sperimentato, solo pochi anni fa, l’analogo fenomeno di una imprevista presa di parola pubblica femminile contro il “dispositivo di sessualità” dominante. Mi riferisco, ovviamente, all’esplosione del Berlusconi-gate, dovuta alla denuncia, da parte di Veronica Lario e Patrizia D’Addario (e altre dopo di loro, tra le quali Ambra Battilana, che ritroviamo oggi fra le donne che negli Usa hanno denunciato Weinstein), del sistema di scambio fra sesso, danaro e potere che vigeva nelle residenze dell’ex premier e decideva la distribuzione di lavori e di candidature alle donne nelle sue televisioni e nelle sue liste elettorali. Anche allora questa presa di parola si avvalse di una parte dei media, o perché contrassegnati dalla sensibilità di opinioniste femministe o perché, più semplicemente e strumentalmente, anti-berlusconiani. Ma subì anche e soprattutto una fortissima dose di incredulità, discredito e ostracismo, non solo da parte dei media berlusconiani (oggi in prima fila anche contro il #metoo, e con gli stessi argomenti di allora) ma anche negli ambienti della sinistra, e perfino in quella parte del femminismo che considerava “poco degne” le donne che si erano ribellate al sistema berlusconiano dal suo interno. Che fosse in atto, anche allora, una scossa tellurica che investiva verticalmente i rapporti fra donne e uomini, dalla sessualità al mercato del lavoro alle istituzioni della rappresentanza, lo si capì forse solo di fronte alla manifestazione del febbraio 2011 – le manifestazioni di piazza essendo la sola forma in cui l’esistenza del femminismo viene tuttora registrata. La risposta del circuito politico e mediatico mainstream fu tuttavia, anche nel campo della sinistra, momentanea, strumentale all’abbattimento di Berlusconi e inadeguata7. Soprattutto, non pare abbia seminato consapevolezza alcuna della crisi e della domanda di trasformazione di cui quei fatti erano il segno: lo si vede benissimo oggi che Berlusconi torna in campo come simulacro di se stesso, per ironia della storia contemporaneamente all’esplosione del #metoo, e nessuno, nei circuito mediatico, ricorda che a farlo cadere nel 2011 furono le donne prima dello spread, né associa la rivolta femminile italiana di allora a quella planetaria di oggi. Si potrebbe anzi sostenere, io sostengo, che la scarsa considerazione di cui il #metoo ha goduto in Italia è figlia diretta della rimozione della vicenda del 2009-2011.

A commento dei fatti di allora e di oggi, resta vero quello che Luisa Muraro aveva scritto ben prima, in tempi non sospetti: “Ci sono numerosi indizi che il regime di verità abbia fin qui funzionato, nelle sue succcessive forme storiche, sulla mutezza femminile. Se una donna si mette a dire la verità, diventa una minaccia per l’altro sesso e per la civiltà, insieme. ‘Virilità’ è un nome, o forse il nome, di questo insieme”. La verità soggettiva femminile detta in pubblico ha una forza dirompente della quale noi stesse non siamo forse abbastanza consapevoli. La comparazione fra le due vicende dimostra però anche che questa dirompenza, per essere efficace, ha bisogno di una qualche risonanza, e deve dunque dotarsi di una strategia mediatica. La differenza fra l’Italia e gli Usa si sta rivelando, da questo punto di vista, abissale, fin nell’uso del linguaggio e negli stili che connotano il racconto giornalistico, e non può essere attribuita solo al diverso valore che nella cultura americana e nella nostra ha il “dire la verità al potere”: attiene anche alla peculiare misoginia dell’establishment intellettuale e giornalistico italiano, e alla capacità o all’incapacità di associare mutamento femminile e mutamento sociale, e di fidarsene. Dedicando la copertina della “persona dell’anno” alle silence breakers, il Time ha acutamente osservato che il #metoo ha mostrato che i due principali obiettivi polemici di Trump, le donne e il giornalismo, hanno reagito, e sono in qualche modo “risorti”, insieme. Si può ragionevolmente sostenere che finché non avrà imparato a trattare sensatamente di donne e di femminismo, il giornalismo italiano continuerà a precipitare nell’abisso di ignoranza, pressapochismo, autoreferenzialità in cui vivacchia da anni.


4.La rimozione dei fatti del 2009-2011 spiega anche la ripetizione, in Italia, di molti argomenti contro le silence breakers di allora e di oggi. Riassumo qui brevemente i principali, maschili ma anche femminili, talvolta presenti in modo ben più pacato anche nel dibattito americano, proponendo per ciascuno di essi un rovesciamento di prospettiva.

a) L’(auto)vittimizzazione. Si va dal “fanno le vittime, ma sono state conniventi per anni”, scagliato contro Asia Argento soprattutto ma non solo da uomini, al timore, soprattutto femminile e femminista, che il #metoo possa risolversi in un processo regressivo di vittimizzazione e infantilizzazione delle donne. Alla prima obiezione ho già risposto: le donne parlano quando possono parlare. La seconda è più comprensibile, ma a mio avviso è infondata. È vero che il #metoo condivide con il femminismo di ultima generazione la tendenza a una soggettivazione basata sulla denuncia della violenza subìta piuttosto che sull’affermazione di un desiderio positivo, com’è stato invece per il femminismo degli anni Settanta; ed è vero che questa accentuazione della condizione di vittima rischia di riprodurla, nonché di riportare indietro il discorso, dal paradigma della libertà a quello dell’oppressione femminile. Ma nel caso del #metoo a me pare che il rischio di un attaccamento alla condizione di vittima sia decisamente inferiore alla spinta collettiva a uscirne, anche con una buona dose di allegria. Faccio inoltre notare che in Italia il fronte che accusa di vittimismo ritardato le attrici oggi, è lo stesso che ieri accusava le escort e le olgettine di non rappresentarsi come vittime e di rivendicare il loro lavoro come una scelta: a dimostrazione che il victim blaming è sempre attivo, nell’un caso e nell’altro.

b) Il fantasma della “caccia alle streghe”, ovvero il panico da rischio di reazione “maccartista” contro i maschi sospettati di “comportamenti inappropriati, a Hollywood e altrove. Il ricorso alla evocazione della caccia alle streghe per esprimere il terrore di una caccia agli orchi ha qualcosa di comico, e dice quanto sia radicata la fantasia di una simmetria fra i sessi e di una vocazione ritorsiva della rivoluzione femminista. Storicamente, la caccia alle streghe (donne) l’hanno fatta gli uomini, e oggi, casomai, sono di nuovo uomini a farla su altri uomini. Con modalità talvolta violente e discutibili, come la cancellazione dai titoli dei film di attori fino a ieri osannati, o la “maledizione” di opere d’arte che dovrebbero sopravvivere ai comportamenti sessuali dei loro autori. Queste modalità però segnalano che una crepa si è davvero aperta nell’omertà maschile, e questo è un fatto positivo.

c) Invocazione/scongiuro della legge e delle regole. Vasta e contraddittoria gamma di posizioni. Da una parte il #metoo viene attaccato perché agisce sulla base di una denuncia pubblica ma non giudiziaria dei comportamenti maschili, impedendo così l’esercizio del diritto di difesa: si invocano insomma i tribunali, temendo – come di recente Margareth Atwood8 – la sostituzione dello stato di diritto con di una giustizia “immediata” o con quello che in Italia chiamiamo “giustizialismo”. Oltre a non tener conto della storica – e giustificata – diffidenza femminile per l’esercizio maschile della giustizia, questo tipo di obiezioni occulta quello che è il pregio, non il limite del #metoo: il suo carattere eminentemente politico, basato sulla presa di parola e sulla solidarietà collettiva, e non sull’uso dei tribunali. La questione che il #metoo pone è politica, non penale.

Dall’altra parte però, e contraddittoriamente, lo stesso fronte paventa che l’esito del #metoo possa essere quello di una regolamentazione forzata e di un controllo moralista e normativo dei comportamenti sessuali9 – esito peraltro da non escludere, data la tendenza alla codificazione dei comportamenti propria della società americana. Va detto però che questa regolamentazione, talvolta fin troppo rigida, negli Usa vigeva già prima del #metoo, ad esempio nelle università; il #metoo, casomai, ne segnala l’inutilità. C’è un eccesso della sessualità maschile che sfugge, evidentemente, a ogni regola e a ogni codice di comportamento: merito del #metoo è l’averlo messo in luce, riportando il fuoco del discorso dalle forme del politicamente corretto alla sostanza delle cose.

Più in generale, l’altalena fra invocazione e scongiuro delle norme è sintomatica di una condizione tutta maschile, che sembra non poter fare a meno delle norme per regolamentare le pulsioni: le invoca mentre le scongiura, e le scongiura mentre le invoca. Vale sulla sessualità, dove gli uomini sembrano voler delegare a un codice di comportamento quello che non riescono a regolare relazionalmente, come vale, lo sappiamo bene, per tutti i campi della vita associata, la politica in primis.

d) Il fantasma della fine della seduzione e della morte della sessualità, con la correlata confusione fra seduzione e violenza, “avance” e molestiaSu questa confusione, impugnata come una bandiera in Italia dal Foglio e dalla stampa di destra e fatta propria in Francia dal testo firmato da Catherine Deneuve di cui tanto si è parlato, ho poco da dire: a differenza di Deneuve non conosco donna alcuna che non sappia distinguere fra l’una e l’altra cosa, mentre mi arrendo alla constatazione che tale confusione c’è davvero nella testa di molti uomini, che infatti la rivendicano come se il confine fra sesso e violenza fosse effettivamente poroso e facilmente valicabile.

Il punto tuttavia a me non pare questo, palesemente strumentale, ma un altro. Rebecca Traister ha sostenuto, con buoni argomenti, che puntare il discorso sul terreno della sessualità significa evadere la questione principale posta dal #metoo, che a suo avviso riguarda la ricattabilità delle donne nel lavoro più che il sesso10[10]. Si tratta a mio avviso di una falsa alternativa: la questione riguarda, direi, la ricattabilità delle donne nel lavoro attraverso il sesso, ovvero l’uso della sessualità come moneta di scambio nel mercato del lavoro. E dunque il #metoo, esattamente come in Italia gli “scandali sessuali” di qualche anno fa, dice qualcosa del “dispositivo di sessualità” della nostra epoca. Esattamente come allora, anche stavolta colpisce la miseria della sessualità maschile che risulta dalle testimonianze femminili: uomini che scambiano potere con briciole di sesso come un massaggio sotto un accappatoio o una masturbazione all’aperto. Se è così, il #metoo non annuncia la fine della seduzione e della sessualità, ma la registra, per aprire, si spera, una pagina più ricca e più felice. Nella ricontrattazione dei rapporti fra i sessi che la presa di parola femminile domanda, io credo che ci sia anche la rivolta contro questa miseria dello scambio eterosessuale. 

  1. www.newsweek.com/how-metoo-has-spread-wildfire-around-world ↩︎
  2. www.nytimes.com/interactive/2017/11/10/us/men-accused-sexual-misconduct-weinstein ↩︎
  3. www.dinamopress.it/news/abusi-silenzi-nellaccademia-postcoloniale-la-necessita-lettura-femminista-dei-saperi ↩︎
  4. www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-tariq-ramadan-scandal-derailed-the-balancetonporc-movement-in-france? ↩︎
  5. www.nytimes.com/newsletters/2018/01/21/gender-metoo-moment ↩︎
  6. www.nytimes.com/2017/12/12/magazine/the-conversation-seven-women-discuss-work-fairness-sex-and-ambition.html ↩︎
  7. Per la ricostruzione dell’intera vicenda e dei suoi effetti rimando al mio Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014. ↩︎
  8. www.theguardian.com/books/2018/jan/15/margaret-atwood-feminist-backlash-metoo ↩︎
  9. www.newyorker.com/news/our-columnists/sex-consent-dangers-of-misplaced-scale ↩︎
  10. www.thecut.com/2017/12/rebecca-traister-this-moment-isnt-just-about-sex.html ↩︎

Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Parlano le donne parlano, del 14 gennaio 2018

Nel cercare di affrontare il tema della differenza sessuale, i registi di Hollywood mi ricordano Lord Sandwich mentre prova a inventare il panino imbottito, nella parodia di Woody Allen: una fetta di pane tra due fette di prosciutto, no; una fetta di formaggio tra una fetta di pane e una di prosciutto, no; tre fette di pane e una di prosciutto…

Tre manifesti a Ebbing Missouri per me è uno di questi falsi panini perché anche se è molto ben fatto, è un’insieme di diritti civili, di politicamente corretto e di idee che vanno di moda: Frances McDormand (bravissima bisogna dire) che cerca di ottenere giustizia per una figlia stuprata e uccisa; un cattivo trumpiano suprematista bianco, ma che secondo la moda attuale americana non è un vero cattivo bensì un uomo che soffre (vedi in cronaca: Sarah Silverman salva il suo hater Jeremy Jamrozy dicendogli «credo in te», gennaio 2018).  Per non farsi mancare niente c’è anche un poliziotto afro-americano buono.

Gli americani procedono così, per parole d’ordine, per mode, per diffusione di poche idee semplici. Certo, dal momento in cui le stelle del cinema hanno detto #metoo le denunce di soprusi sesso-e-potere si sono diffuse a macchia d’olio arrivando a scuotere perfino la magistratura italiana; però la mia idea è che gli hashtag non cambiano le vite delle persone, nel modo in cui invece è cambiata la mia per essere stato in fisica e prolungata presenza delle donne della Libreria delle donne. Sono convinto che il mutamento profondo delle persone non avviene soltanto con la propagazione virale di una parola o di un’idea, ci può essere una scintilla che accende, ma non basta, quello è un punto di partenza.  

Mi ricordo un intervento di Marirì Martinengo che diceva (parola più, parola meno) che l’Amor Cortese non erano uomini che si sono messi a fare i cortesi, ma che quel fenomeno è avvenuto in virtù della grande autorità che avevano quelle donne in quel momento. Ecco, dopo la scintilla del #metoo non può venire a mancare l’autorità e la capacità femminile di tessere relazioni di differenza.

Alla riunione di Via Dogana si è parlato di fine della sessualità tra uomo e donna e io ho detto che comunque non è la sessualità che conta ma l’erotismo. Può sembrare una dichiarazione comoda e di chi non ha presente da dove parla. Una donna potrebbe ben dirmi: «io lo so, ma tu lo sai?» È vero che noi uomini abbiamo una sessualità coatta (ed è questo il vero panino che Hollywood dovrebbe preparare) ma sono darwinianamente convinto che, se l’uomo vuole sopravvivere, deve adattarsi a questa nuova epoca, e sono altresì convinto che, siccome l’uomo è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, come diceva Shakespeare, cioè siamo animali simbolici, un mutamento è possibile.

Ecco, nelle relazioni di differenza che ho in mente le donne guardano oltre, a un uomo che magari ancora non c’è. Del resto nemmeno uno figo come Darcy forse è mai esistito ma, per averlo concepito Jane Austen, esiste e lotta insieme a noi.

Ci sono fatti che portano a grandi conseguenze e quindi suscitano accesi dibattiti. Siamo in uno di quei momenti fortunati, ma l’impressione è che i media siano invece più interessati ad alimentare l’idea di una guerra tra donne, a suggerire schieramenti: chi sta col #metoo, chi invece aderisce all’appello delle 100 francesi. Posizioni distanti sono per noi segno di ricchezza se nel confronto si riesce ad approfondire cosa c’è in gioco e cosa può essere rilanciato senza cadere nella trappola delle divisioni fra femministe.

Abbiamo letto in questa chiave l’intervista ad Anna Bravo apparsa su Robinson il 14 gennaio scorso. Sono molte infatti le questioni che qui emergono.


Lo sguardo sul presente

L’intera vicenda partita dallo scandalo Weinstein viene interpretata da Anna Bravo, in accordo con l’appello francese, come “trionfo del radicalismo puritano”, a cui vengono contrapposte “le femministe americane dei primi anni Settanta che lottavano contro il modello perbenista e rispettabile”.

A noi sembra che le femministe di oggi, quelle del #metoo, non solo non sono puritane ma anzi sono politicamente molto in sintonia e in continuità con le femministe di allora. E hanno anche la stessa dirompenza. Hanno fatto un gesto di rottura efficace andando a svelare e a colpire l’intreccio tra sesso denaro e potere che è diventato sistema. E qui in Italia lo sappiamo bene con i venti anni di governo di Berlusconi. Negli ultimi decenni le donne sono entrate nella società a tutti i livelli, forse pensando che il mondo le stesse aspettando, perché non era più il mondo dell’oppressione femminile. Invece hanno cozzato contro quel pilastro che regge tutta l’architettura del potere maschile. La prevaricazione maschile riguarda ogni aspetto, pensiamo ad esempio all’ultimo libro di Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose, che mostra le prevaricazioni intellettuali che lei stessa ha dovuto fronteggiare. È un’intera cultura che ne è impregnata ed è un’intera cultura che va cambiata. Con intuito politico le donne del #metoo hanno trovato il modo di aprire una crepa nel sistema di potere maschile e nel fare questo hanno trovato l’aiuto e il sostegno delle femministe di allora. In America non c’è contrapposizione evidente tra le diverse generazioni di femministe.


La sfiducia nel cambiamento

La critica al #metoo è animata dalla sfiducia che in questo modo ci possa essere davvero cambiamento. Anna Bravo teme che tutto questo “non serva a niente”. “I patriarchi cadono, ma il patriarcato è più vivo che mai”.

Casomai è il contrario. Non viviamo più in epoca patriarcale. Possiamo dire che con il ’68, che è stata una rivolta contro i padri, è iniziato il processo di disgregazione delle strutture patriarcali della società. Ma non è finito il dominio maschile. Ha ragione Chiara Zamboni quando dice che “il patriarcato è morto, ma gli uomini sono sempre sulla scena, occupata a questo punto dai fratelli che hanno creato una società fortemente conflittuale a cui vogliono invitare le donne, sorelle, per fare da specchio ai conflitti tra loro”. Siamo in una situazione di passaggio, che è una condizione favorevole, e si è potuta aprire una crepa nel sistema: quello che si annuncia è un vero e proprio cambio di civiltà. E ha ragione Oprah Winfrey quando dice che “Quel tempo è scaduto” e siamo a “un nuovo inizio”. La posta in gioco è altissima: mira a ridiscutere il contratto sessuale sottostante al contratto sociale.


Paragoni indebiti

Quello che sta succedendo è visto con preoccupazione e viene paragonato da Anna Bravo ai “processi popolari” della rivoluzione culturale cinese. Sui giornali si è parlato anche di maccartismo, caccia alle streghe, purghe staliniane.

È vero, le reazioni sono dure: allontanamenti, dimissioni, sparizioni dal mondo del cinema. Ma quei paragoni sono del tutto indebiti. In questo caso non c’è un apparato statale, un partito, un uomo solo al comando che impartisce direttive. Non ci sono morti e deportazioni. Quello che sta avvenendo è un sommovimento nel corpo stesso della società che autoproduce trasformazioni situazione per situazione. E questo è uno degli aspetti più interessanti. Queste donne non si rivolgono alla magistratura. Parlano. La novità è che oggi vengono credute e la società risponde.

L’obiezione si innesta sul fatto che ci sono, e ci potranno essere ancora, eccessi e ingiustizie. Anche questo è vero. E allora cosa fare? Il caso di Margaret Atwood è molto interessante in proposito. Lei si è coinvolta di persona. Ha difeso un docente universitario secondo lei ingiustamente accusato di molestie. Ha fronteggiato pesanti critiche sul web e fa presente un’istanza importante: se le donne vogliono una giustizia giusta, questa deve valere per tutti. Il rischio di una deriva giustizialista si combatte entrando nella mischia di persona con la forza della verità di una parola autorevole, caso per caso, e non criminalizzando la portata di quello che sta succedendo.  


Vittimismo

Un’altra falsa contrapposizione è quella tra l’immagine della donna vittima, che sarebbe veicolata dal #metoo e l’immagine della donna soggetto che sarebbe invece da rivendicare per cambiare il sistema.

Ci sono voluti quaranta anni di femminismo, ma la soggettività femminile è stata messa al mondo, e questo grazie a donne come la stessa Anna Bravo. Anzi il femminismo ha fatto di più. Come mostra l’ultimo libro di Wanda Tommasi Ciò che non dipende da me, ha contribuito in modo decisivo alla formazione dell’immagine del soggetto contemporaneo, che presenta un volto più femminile che maschile.

Una donna che parla è una donna che prende in mano la sua vita. Dire la propria verità soggettiva esponendosi in pubblico – e oggi anche i social sono spazio pubblico – non solo è un atto di coraggio per ogni singola donna ma è anche la strada maestra per diventare soggetto. Un soggetto non è un’entità astratta. Esiste in quanto prende la parola. Parlare è già agire e se la parola è trasformativa, come in questo caso, rafforza ancora di più la soggettività della singola che si trova a fare un’esperienza condivisa con le altre.

Impersonare la figura della vittima è così estraneo alle giovani donne che anche il movimento Non una di meno – che nasce in Argentina precisamente contro la violenza sulle donne – nel suo Piano italiano su questo punto in particolare è nettissimo. Si dichiarano femministe e da questo posizionamento rifiutano “ogni discorso o retorica su un presunto ‘destino biologico’ fatto di fragilità, inferiorità – e quindi vittimità – delle donne” .

Con i movimenti del #metoo e di Non una di meno, ci vengono dall’America del nord e del sud due spinte differenti ma entrambe significative, destinate, crediamo, a potenziarsi l’una con l’altra.


Il politicamente corretto

Non sappiamo dove porterà tutto questo sommovimento ma sappiamo che il pericolo che “il politicamente corretto uccida la libertà” esiste.

È vero che il rapporto tra uomini e donne è delicatissimo e “troppo complicato per essere liquidato con il politicamente corretto”. Ma non lo si può imputare alle donne del #metoo che non si caratterizzano certo per la pretesa di nuove regole e nuove leggi. Anzi. Piuttosto questo pericolo viene dalle istituzioni del potere che potrebbero voler porre fine a questa libera ricontrattazione tra i sessi, inquietante proprio perché ingovernabile, fuori dalle regole e dagli schemi. Pensiamo anche noi che sarebbe una vera iattura che si aggiunge alla pesante regolamentazione che ha già investito ogni ambito del mondo del lavoro. Lo sarebbe soprattutto nell’educazione delle giovani generazioni.

Manca una cultura della sessualità e ha ragione Ida Dominijanni quando interpreta quello che sta capitando come una reazione alla miseria sessuale maschile del nostro tempo. Proprio rispondendo all’appello delle 100 francesi dice: “il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse può farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra.”

Contrastare il politicamente corretto è una ragione in più per esserci in prima persona e spendere la propria intelligenza per la libertà di tutte. È un buon momento.

Il movimento Non una di meno e quello di Me too sviluppano un processo di soggettivazione femminile contro la violenza maschile, cioè molte donne parlano e agiscono a partire dalla presa di coscienza della sua insopportabilità e dalla necessità e dal desiderio che essa non sia più accettabile. Mi pare positivo e lo dico in base a quello che mi è accaduto.

Dopo 5 anni di pratica di Storia Vivente nel 2010 riuscii finalmente a riconoscere e a scrivere 1 di una molestia subita a 16 anni, ben 45 anni prima, da parte di un medico di cui mia madre si fidava, e ne ho capito il nesso con la mia difficoltà di parola pubblica autentica, cioè legata davvero a ciò che sentivo.

Il bisogno di esprimersi è un bisogno umano e io parlavo anche in pubblico ma sempre in modo mimetico. Ad esempio, per dire di me usavo l’ironia così da potermi tirare indietro, dicevo quello che poteva far piacere a chi mi invitava, facendo fatica a rifiutare la mia disponibilità, usavo le citazioni, ero bravissima a riassumere il pensiero altrui. In qualche modo riuscivo ad esserci, senza la gioia che viene dal dire ciò che si sente.

Infatti per salvarmi avevo messo in dubbio ciò che avevo provato e provavo e cioè che nei miei confronti, nonostante i modi gentili, era stata usata una costrizione, la forza di chi ha potere. Che lo sapessi lo dimostra che non volli mai più andare a Verona da quel medico e che, ancora nel 2005, vedendo La bestia nel cuore, il film di Cristina Comencini, piansi a dirotto. Pensare che in fondo non si fosse trattata di molestia, che quel medico in un qualche senso volesse farmi del bene (rendermi più libera sessualmente), che forse fosse il suo modo di volermi bene, non era altro che sfuggire alla reificazione, la sensazione più vicina al morire. Simone Weil lo dice chiaramente: «La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno.» 2

Inoltre la molestia distrugge la fiducia nella propria madre, sicuramente se il molestatore è da lei conosciuto. Sia io, sia ad esempio Azar Nafisi 3, siamo riuscite a dirlo solo dopo la morte di nostra madre. La madre non ha saputo difenderci, non se ne è accorta. Lei, avendoci insegnato a parlare ci aveva garantito che le parole potevano aiutarci a esprimere ciò che ci capitava, ma in questo caso non abbiamo più parole per capire l’accaduto e quindi dirlo. Dall’esperienza della molestia non detta alla madre scaturisce la rottura della fiducia in lei e nella forza della parola. Infine, essendo state colpite perché dello stesso sesso di nostra madre è la grandezza dell’essere donna, che lei rappresentava per noi, a venir messa in crisi.

Paradossalmente per me fu più dannosa quella molestia che l’aggressione con un coltello subita quando avevo quarant’anni perché in quest’ultima riuscii a far mettere via l’arma, farmi derubare di poche lire e sporcare solo le gambe. Fu certamente un’esperienza angosciante ma ne parlai subito, ne scrissi, la denunciai alla polizia con poco esito, riuscii comunque a non essere ridotta del tutto a cosa.

Diversamente da #Quella volta che dove al centro viene posta la situazione, nel movimento Me too al centro vi è la donna che parla in relazione con altre per cui vi è un processo di soggettivazione che passa attraverso la scelta di cosa dire: anch’io riconosco la violenza, anch’io ne parlo pubblicamente, scelgo come parlarne e lo faccio grazie e con le altre. Non è unirsi in quanto vittime, ma in quanto donne che hanno la capacità dirompente di squarciare il silenzio.

Lo dico perché sono già sette anni che parlo quando ho qualcosa da dire, sentendomi radicata in me stessa.

  1. I grumi oscuri del disordine simbolico in “DWF. La pratica della storia vivente”, n.3 2012, pp.35-45 già pubblicato in catalano Els obscurs grumolls del desordre simbòlic in “Duoda” n.40 2011, pp.85-97 leggibile liberamente http://www.raco.cat/index.php/DUODA/article/view/241956/324547. Ne ho scritto in modo più articolato Lo spessore invisibile dei fatti, in La pratica della Storia Vivente, Atti dell’incontro del 26 settembre 2014, a cura dell’associazione Le Vicine di casa di Mestre, pp. 22-28 leggibile liberamente come primo intervento di Tavernini in Laura Minguzzi, Luciana Tavernini, Marina Santini, La pratica della storia vivente. Prologo per María-Milagros Rivera Garretas, Biblioteca Virtual Duoda http://www.ub.edu/duoda/bvid/text.php?doc=Duoda:text:2016.12.0010. ↩︎
  2. Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios, Trieste 2012, pp.39-40. ↩︎
  3. Azar Nafisi, Le cose che non ho detto, trad. di Ombretta Giumelli, Adelphi, Milano 2008, cap.6 – Il sant’uomo, pp.69-77. ↩︎

Una mattina di oltre vent’anni fa fui svegliata da una notizia di cronaca alla radio che di recente mi è tornata in mente. Un commesso del Comune di Milano era stato denunciato ai superiori per molestie sessuali da ben sette dipendenti comunali: impiegate, funzionarie e persino una dirigente. La notizia era che ciascuna di loro, compresa la dirigente, era stata trasferita in seguito alla denuncia, mentre al commesso non era stata nemmeno comminata una sanzione disciplinare ed era rimasto indisturbato al suo posto.  

È di questi giorni invece la notizia che Bellomo(1) è stato destituito dall’organo di autogoverno della magistratura amministrativa e che per lui si prospetta l’espulsione dalla magistratura.

Se un tempo un semplice commesso poteva molestare impunemente persino una dirigente, e anzi ne pagava lei le conseguenze, oggi uno dei magistrati più potenti d’Italia (membro del Consiglio di Stato e dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa) si ritrova con la carriera distrutta per aver fatto la stessa cosa a delle semplici studentesse. Quanta strada abbiamo fatto!

Alcune ora osservano che #metoo sta creando soggettivazione femminile, sì, ma basata solo sul riconoscimento di un comune ruolo di vittime. Una preoccupazione giusta. Ma forse anche alla luce di quella lunga strada, non posso fare a meno di vederci molto di più. Vedo donne che non appaiono impotenti come di solito immaginiamo le vittime: non solo hanno tenuto duro e si sono districate da situazioni terribili, ma mostrano chiaramente di avere il senso della propria forza e di sapere cosa stanno facendo. Fanno giustizia e spostano l’opinione pubblica, e in questo riconosco il segno dell’autorità femminile.

(1)  La vicenda è nota: magistrato amministrativo, consigliere di Stato e direttore della scuola per aspiranti magistrati Diritto e Scienza, Francesco Bellomo aveva imposto alle allieve di firmare un contratto segreto con cui si impegnavano all’uso obbligatorio di minigonne (con misure esatte) e tacchi a spillo, a sottoporre al suo controllo la loro vita sentimentale e sessuale, a rompere con gli uomini da lui giudicati di Q.I. inadeguato. Prevedibilmente, a queste “regole” si sono aggiunti rapporti sessuali imposti, stalking anche a mezzo delle forze dell’ordine e pubblicazione sulla rivista della scuole Scienza e Diritto di fatti e confidenze personali di quelle che si ribellavano alle sue ingiunzioni. Al primo esposto presentato dal padre di una corsista vittima di stalking, si sono in seguito aggiunti e si vanno aggiungendo altri esposti da parte di altre studentesse.

Le donne che hanno subito molestie, abusi, violenza sessuale stanno parlando in tutti gli ambiti possibili. In questi giorni ho pensato ai tanti silenzi che mi sono trovata davanti, alle tante donne chiuse da un macigno di regole, doveri, segreti, patti fatti con gli uomini e la società.

Solo attraverso una lenta e attenta relazione con un’altra donna questo muro di silenzio si è cominciato a scheggiare, si sono aperte feritoie in un racconto prima blindato. Il tempo è stato quello possibile, quello necessario, quello opportuno.

In questo ascolto anche io sono cambiata.

Non correvo più alla soluzione, strumenti, progetti (sempre indispensabili), ma davo attenzione ai non detti, alle allusioni, alle sfumature, ai toni della voce e agli occhi, molto agli occhi.

Da questo scambio profondo nasceva una legittimazione al fare, all’interrompere la violenza, a darsi credito. Come una ragnatela questo metodo basato sulla pratica di relazione ha invaso in modo progressivo il mondo, dal nord al sud, da una donna all’altra.

Non mi sono meravigliata per le manifestazioni di donne americane contro Trump, non mi sono meravigliata per le manifestazioni di NonUnaDiMeno in tutto il mondo a partire dalla lotta contro i femminicidi. Donne di tutte le età unite contro la violenza, con obiettivi comuni anche se con pratiche diverse. A volte con convinzioni diverse.

Come mai tutto questo accade contro la violenza, proprio contro la violenza. A mio parere perché nella relazione uomo-donna la violenza è molto presente e si rispecchia e si rinforza nella violenza del contesto in cui avviene. Ha a che fare con il potere e con le regole che tengono ancora in piedi questo traballante mondo.

Questa ragnatela, sempre più in crescita, di forza e libertà femminile ha avuto grande vantaggio dal ME-Too, pratica che dichiara a viva voce ciò che si è subito. Ma chi lo denuncia è chi l’ha subito, non altre a sostegno e in rappresentanza. Questa è la forza del momento, parlare della propria diretta esperienza, senza vittimismo, ma con i tempi scelti e pensati dalla donna stessa. Questo ha cambiato il quadro, non lotte per altre, ma lotta per sé, con coraggio e correndo i rischi che la libertà femminile può anche dare.

Essere protagoniste della propria storia, essere al centro. Le parole con cui le donne hanno cominciato tanti anni fa.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Parlano le donne parlano, del 14 gennaio 2018

Da Repubblica-Robinson

Forse non era mai accaduto che il femminismo occidentale producesse simboli e idee quasi opposti nel giro di pochi giorni. Da una parte i vestiti in nero sul red carpet hollywoodiano, al grido pronunciato da Oprah Winfrey: «Il tempo degli uomini brutali è scaduto!». Dall’altra l’appello di Catherine Deneuve e di altre intellettuali francesi che su Le Monde difendono la libertà sessuale, anche «la libertà degli uomini di importunarci».

Tra Europa e Stati Uniti due visioni del mondo contrarie: laicità versus puritanesimo, spregiudicatezza contro politicamente corretto. E soprattutto — contro una storia a lieto fine che sembra scritta negli studios americani — il coraggio di attraversare quel mare di ambiguità che sono i rapporti tra uomini e donne. Temi delicatissimi su cui è interessante ascoltare una voce poco conformista, la storica Anna Bravo, che ha posto le donne al centro delle sue ricerche e del suo impegno militante fin dalle origini del femminismo.


Partirei dall’appello francese, che rivendica per le donne il potere di scegliere, e quindi la libertà di essere “importunate”.

«Condivido la sostanza, anche se non mi piace il linguaggio. “Importunare” è una parola infelice. Però è centrata la questione dei rapporti tra uomini e donne, che implicano desiderio, complicità, simpatia, e anche interesse, prevaricazione, oppressione: rapporti troppo complicati per essere liquidati con il politicamente corretto».


Soprattutto l’appello sottrae le donne da un’eterna condizione di vittime, restituendo loro la capacità di dire no. E di dire sì.

«È un altro punto centrale. Le donne non sono soltanto vittime, ma soggetti dotati di potere: avere un potere piccolo non è la stessa cosa che non averne alcuno. Questo deve essere riconosciuto, perché altrimenti riduciamo il femminile all’inconsistenza di una fogliolina al vento. Le donne sono consapevoli del proprio valore erotico e sanno come governarlo, anche se non sempre è cosa facile. Ma è giusto dire che siamo sufficientemente accorte per distinguere tra il corteggiamento goffo e la vera molestia. Lo sappiamo tutte se una cosa che l’uomo ci propone ci fa piacere o ci far star male».


Un’obiezione ragionevole è che molto dipende anche dalle condizioni sociali e culturali. È più facile sottrarsi al ricatto maschile in un salotto che in fabbrica, dove rischi il posto di lavoro.

«Attenzione. Non vorrei che le proletarie finissero per apparire due volte vittime. Dietro queste obiezioni vedo un paternalismo che nasconde un classismo alla rovescia: forse che le borghesi sono necessariamente più accorte e le altre povere oche smarrite? Io penso che tutte le donne capiscano benissimo allo stesso modo. Il punto è che in determinate condizioni devono faticare e rischiare molto di più, anche conseguenze rovinose. Devono patteggiare di più con sé stesse e con l’altro. Ma vorrei ricordare che tutto è cominciato negli studios di Hollywood, non in periferia».


I vestiti neri sul red carpet dei Golden Globe hanno chiuso in modo spettacolare tutta la storia cominciata con il caso Weinstein. Come vede l’intera vicenda?

«Con una certa preoccupazione. Lo schema — denuncia, esecrazione pubblica, autocritica, punizione esemplare — fa venire in mente i “processi popolari” della rivoluzione culturale cinese. Lì i professori condannati andavano a zappare la terra, qui Kevin Spacey viene ripudiato da Ridley Scott. È il trionfo del radicalismo puritano. Ho una certa nostalgia per le femministe americane dei primi anni Settanta che lottavano contro il modello perbenista e rispettabile».


Le ultime immagini di Hollywood — tutti in piedi, commossi, ad applaudire la fine del patriarcato cattivo — evocano la scena di un film. Una storia volutamente a lieto fine.

«Quella dei vestiti neri è una grande scena di teatro politico dove prevale il lutto, il pianto della madre, il simbolo della donna ferita: molto efficace sul piano delle emozioni, ma non credo che ci faccia andare avanti. Trovo irritante anche questa enfasi sui giganti maschili imbattibili cui le donne “ cedevano” come costrette da una sorta di ius primae noctis. Se poi ti metti a ucciderli simbolicamente uno per uno, temo non serva a niente. Ha ragione la Faludi quando sostiene che i patriarchi cadono, ma il patriarcato è più vivo che mai. Le ragazze del “Me too” dovrebbero porsi il problema della costruzione di nuove norme giuridiche ed economiche. Mi pare che ci stiano pensando».


Resta il problema di un dominio maschile che sopravvive anche nella testa di molte donne: come se ne esce?

«Ho due sogni privati. Il primo è vedere una ragazza che, insidiata, minaccia il suo molestatore: ti do un pugno se non la smetti. L’altro sogno è vedere al contrario una ragazza che per suo calcolo accetta, e poi con sana sfacciataggine rivendica: l’ho fatto, e allora? Oggi la religione del politicamente corretto uccide questa libertà».


Però così non si cambiano le regole del gioco maschili.

«Il sistema cambia solo se le donne si sottraggono alla condizione di vittime. Siamo soggetti: rivendicarlo è un passo importante. In Francia hanno mostrato più coraggio e più laicità, esponendosi anche a critiche che fanno male. Per questo molte donne preferiscono parlare liberamente solo in privato. Ma questo è triste».

domenica 14 gennaio 2018 ore 10.00-13.30


Da Hollywood alle università dai parlamenti alle palestre dagli uffici alle redazioni, la presa di parola delle donne è una rivolta contro il potere maschile. Si è propagata nel mondo con inedita efficacia perché c’è stata una sinergia fra i mass media tradizionali che hanno agito dal primo momento e i social che hanno moltiplicato le risposte.

Il potere resta l’amore più grande di chi ci arriva e anche di molti che non ci arrivano. Ora, però, si sta aprendo una crepa che fa intravedere il nascosto che porta al sottoscala della vita pubblica. E conferma quello che il femminismo in Italia ha già smascherato sull’intreccio fra sesso denaro e potere (“Il trucco” di Ida Dominijanni) a proposito di qualcuno che chiamano il mostro.

Quello che sta succedendo è già l’inizio di una nuova contrattazione tra uomini e donne. Le donne non si vergognano di parlare, trovano ascolto e credito, quelle più esposte sono state aiutate da quelle in posizione più garantita, ed è un fenomeno contagioso destinato a crescere. Gli uomini non sono più al sicuro e si fidano sempre meno degli altri uomini.

E… in Italia?

Avvieranno la discussione Ida Dominijanni e Marisa Guarneri.

Appuntamento: domenica14 gennaio 2018 alle ore 10 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265; la conclusione è prevista verso le 13.30 e sarà seguita da un pranzetto, come d’abitudine.

Traduzione in spagnolo www.ub.edu/duoda/web/es/textos/10/210/

Corpo e anima, Orso d’Oro alla Berlinale 2017, è una piacevole sorpresa insieme alla riscoperta del talento della sua regista, l’ungherese Ildiko Enyedi, di cui poco si era visto sul grande schermo dopo il brillante debutto a Cannes nel 1989 con Il mio XX secolo, vincitore della Caméra d’Or.


On body and soul, questo il suo titolo internazionale, di corpi parla: dei corpi fisici di donne e uomini, integri e menomati, di quelli psichici, fragili e sofferenti, di quelli onirici dalle straordinarie e fantastiche possibilità. E anche di quelli degli animali, in libertà nelle foreste o in docile attesa al mattatoio e delle loro trasformazioni, le cui fasi crude e realistiche non ci vengono risparmiate.

La regista, passo dopo passo, dipana la sua narrazione su una materia così poco convenzionale con precisione clinica, metodo e lentezza per ben introdurci ai caratteri dei due protagonisti. Altrettanto precisa e lucida è l’uso della fotografia: dalle geometriche inquadrature degli ambienti chiusi all’eleganza degli spazi aperti, dai primi piani dei volti ai significati metaforici dei corpi.

Mária è la neoassunta, incaricata al controllo di qualità nel mattatoio di Budapest, dove Endre è il direttore finanziario. Lei, schiva, riservata, maniacalmente precisa sul lavoro, diventa subito l’oggetto di derisione e di chiacchiere malevole fra le colleghe e i colleghi per l’evidente incapacità a relazionarsi; Endre è già un uomo di mezza età; esausto e deluso, sembra aver lasciato alle spalle energia e speranze, forse anche per la sofferenza di un corpo menomato che lo rende fortemente impacciato. Entrambi vivono vite solitarie, quotidianamente regolate fra l’asetticità anonima dei loro ordinati appartamenti e la cruda violenza degli ambienti in cui lavorano. Si osservano a distanza, diffidenti, immersi ciascuno nelle proprie ferite e ossessioni. Due universi lontani.

Con un tocco magistrale, da grande cinema, la regista scompone la rigida fissità delle loro esistenze e costruisce le vie misteriose per favorire il contatto. Un sogno comune, che entrambi fanno a loro insaputa: l’incontro di una cerva e un cervo nel silenzio maestoso di un bosco innevato.

È solo l’inizio di un cammino per conoscersi, infrangere le barriere dense di un passato non raccontato, rompere le reticenze, le ritrosie e i pregiudizi. È la scoperta e il riconoscimento di qualcosa di prezioso, misteriosamente capitato a loro, da far crescere, conservare e osservare con tenerezza e desiderio, insieme al brivido di vivere lo stesso sogno.

Il film è il racconto di una storia d’amore che passa dal sogno alla realtà, seguita e costruita, momento dopo momento; un amore che non ricalca le solite vie, che sa mostrare che è possibile uscire dalla fissità dei propri schemi e dei propri pregiudizi, prendere coscienza di sé e di chi ci circonda e provare a mettersi in relazione senza paure.

Corpo e anima è candidato all’Oscar 2018 come Miglior Film Straniero.

Seguire la propria strada, spinte da un forte desiderio di realizzazione di sé comporta a volte uno strappo lacerante con le proprie origini, gli affetti familiari e con il legame d’amore primario, quello con la madre. Questo vuole raccontare la regista di Sami Blood, Amanda Kernell, nel suo primo bel lungometraggio.

Selezionato al Festival di Venezia – Giornate degli Autori, al Festival di Toronto e recentemente vincitore del festival del cinema europeo con il Lux Prize 2017, è la storia della discriminazione di una minoranza, i Sami, meglio conosciuti come Lapponi, del desiderio di normalità e d’integrazione di una giovane, Elle Marja, e del suo percorso di riconciliazione con le proprie radici e con il legame profondo con il suo materno.

Con due stacchi temporali – gli anni trenta e i giorni nostri – il film si muove dal punto di vista della giovane Sami, che insieme alla sorella minore, Njenna, e ad altre/i giovani lapponi è obbligata a frequentare un collegio, una cosiddetta “scuola di civilizzazione”, istituita dal governo, in cui le materie di insegnamento sono la lingua, la storia e i costumi svedesi, mentre è assolutamente vietato esprimersi nella propria lingua e seguire le proprie consuetudini.

La regista, di padre Sami e di madre svedese, pur convenendo che i tempi da quegli anni sono decisamente cambiati, racconta di aver vissuto quelle stesse dinamiche sulla propria pelle. Nel corso delle ricerche per la realizzazione del film molti delle/gli anziani intervistati le hanno rivelato di aver cambiato nome e di aver disconosciuto le loro origini in seguito a quelle dolorose esperienze. In questi collegi, diffusi negli anni trenta, le/i giovani Sami erano inoltre oggetto di studi di antropologia e di biologia razziale. Con stupore, la regista rivela di aver scoperto che la Svezia, cosa pochissimo nota come oscuro è ancora in parte il suo passato coloniale – una pagina della sua storia da far dimenticare – aveva creato il primo istituto di studi di ‘biologia razziale’ a cui i tedeschi si erano successivamente ispirati.

Il film, girato in lingua originale, vuol essere secondo le intenzioni di Amanda Kernell una dichiarazione d’amore per la popolazione Sami, sia per coloro che sono fuggiti sia per chi è rimasto, e il personaggio di Elle Marja ben ne riassume le caratteristiche e le complessità.

Elle Marja, non sopportando più la discriminazione, la derisione, l’umiliazione di essere studiata come un fenomeno da baraccone e desiderando con tutte le forze frequentare una scuola superiore, decide di tagliare con la propria comunità e con la famiglia, trasformandosi in Christina, una ragazze come tante altre ragazze svedesi. Il suo difficile e doloroso processo di accettazione e di ricomposizione di sé passerà ineluttabilmente attraverso la riconoscenza dell’amore della madre e della sorella, che avevano permesso e accettato la sua scelta.

Nell’incontro di Via Dogana 3 La Rete è nella nostra realtà. Come starci?, nel discorso di Loretta come anche di Tahereh c’era una radicalità che è andata persa. Tutte le cose che sono state dette sono, più o meno, interessanti. Però dallo scambio emerge una postura di fondo che non va, secondo me: «Non bisogna demonizzare, ho sentito dire a proposito della rete. Dobbiamo credere che quello è uno strumento», è stato anche detto. Uno strumento?

A suo tempo si è voluto pensare, si è cercato di credere che l’intelligenza artificiale sarebbe stato uno strumento per gli esseri umani, ma adesso si è capito che no, l’intelligenza artificiale prende il posto della intelligenza umana. Prende il posto della sensibilità, della casualità, della inventività – l’intelligenza artificiale è inventiva. Prende il posto di lavoro, naturalmente, e prende il posto della politica, e delle nostre capacità di capire – l’intelligenza artificiale è molto capiente. Più o meno, lo stesso che è capitato in generale della la tecnoscienza: si credeva che sarebbe stato uno strumento ma… La questione bisogna dirsela.

L’unica risposta che io vedo alla contraddizione dello strumento che non è uno strumento – risposta che qui qualche volta è affiorata – è di sapere che noi siamo un elemento estraneo là dentro.

Quelle che dicono «io non ho competenze però sono contenta che quella lì ce le abbia» ecc., è un discorso sensato a metà. Tutte abbiamo competenza della impotenza in cui ci troviamo. Tutte, tutti lo sappiamo. Che sia in un modo o nell’altro, che sia così o per colà, l’esperienza e la sensazione d’impotenza non ci mancano, il mezzo lo conosciamo… Però accadono cose, sono d’accordo, e il grande accadimento è il cambiamento in corso nei rapporti tra i sessi, tra donne e uomini. Per amore di libertà da parte delle donne. Detto così è molto vago e in questi contesti di scambio possiamo cercare di uscire dal vago per trovare formule parlanti a noi stesse e ad altre. Ci sono delle cose che accadono. La soggettività autonoma femminile è la cosa che accade. Torno con la mente alle origini del cristianesimo, che mi aiuta sempre a ragionare sulla politica del simbolico… Quando i Romani, parlo di una piccola minoranza, primo secolo dopo Cristo, si sono convertiti al cristianesimo in Roma, che era il teatro della strapotenza dell’imperatore, Paolo scrive loro una lettera. C’è un famoso passaggio della Lettera ai Romani che ha provocato poi studi bellissimi, e commenti in abbondanza ecc., perfino io ci ho provato a commentarlo, chissà se hanno capito quei poveretti che mi avevano chiesto qualcosa sulla differenza sessuale e io gli ho spiegato l’indipendenza simbolica. Paolo dice ai cristiani di Roma: «si obbedisce all’imperatore, si obbedisce ai padroni, si obbedisce»… Cosa volete farci? nella disparità di potere si obbedisce. E dopo questo passo che ha scandalizzato tanto, «poi noi abbiamo la nostra legge». E si riferisce naturalmente alla legge dell’amore. Lui non precisa ma sembra sia la legge dell’amore. L’importante è lo stacco: «Noi abbiamo la nostra legge.» Cioè c’è la differenza, la differenza è quello che conta. La differenza serve per esaltare la soggettività libera. E lì, nella tecnologia digitale, come nell’impero romano, bisogna fare questo: entrare come un elemento non integrabile, come un elemento che fa stonato.

Qui, io ho sentito tanti esempi di buon senso che accomoda. No, no, no: niente il buon senso che accomoda! Prendiamo il caso dell’aborto e di come ne parla Augias. Certo che c’è una legge che permette alle donne d’interrompere la maternità ed è una buona legge, anche. Ma quelli che fanno l’obiezione di coscienza non sono degli stronzi, sono delle persone che hanno fatto medicina non per quello e non vogliono… Può darsi che ci siano anche i filoni, e ci sono, che mimano l’obiezione di coscienza, o per soldi, ma non sono tutti così, è l’aborto in sé… Allora, bisogna sapere che l’aborto è brutto, non abbiamo mai teorizzato – almeno quelle con cui sono in rapporto – che l’aborto sarebbe un diritto. C’è una potenza, potestas, del corpo della donna che decreta ingiustamente di porre fine a questa vita che comincia. La radicalità è quella. Anche Rinalda ha sbagliato quando, a proposito dello scandalo Weinstein, ha detto al suo amico: «un po’ di ingiustizia anche a voi» e poi le dispiace di averlo detto. No, l’ingiustizia ci vuole per mettere fine a secoli e secoli forse millenni, di una cultura di prevaricazione sessuale degli uomini sulle donne o sui bambini o su altri uomini più deboli. È inevitabile l’ingiustizia.

Allora, questa radicalità Loretta l’ha messa nel suo discorso e ha messo anche gli ingredienti, perché in definitiva quello che le ha permesso di muoversi sono state delle relazioni, delle parole, delle esperienze. Non la competenza, la competenza era una sua passione, che è importantissima. Ma non è l’essenziale, l’essenziale è fare la cosa non omogenea a quella macchina là. Quindi il sito, chiedo alle governanti del sito di non avere il programma di impedire i casini, di farlo il casino, ecco. I casini proficui, naturalmente, non i battibecchi, gli antagonismi, bisogna sempre spostarsi, non farsi trovare. Essere da un’altra parte, cogliere di sorpresa chi interviene con le logiche meccaniche eccetera, farsi trovare da un’altra parte. Spostarsi, cogliere di sorpresa, invece di aggiustare. Un’ultima cosa. Non: portare il linguaggio della differenza. Bisogna essere la differenza.

Rispondo agli spunti venuti dalla redazione di #VD3 rispetto alla rete, ai social e a come starci, decidendo di partire dal perché sono arrivata alla Libreria delle donne. Il mio arrivo non è avvenuto attraverso i social network, ma è associato al fatto che sono una donna che lavora nell’informatica.

Quando avevo 21 anni, nel 1999, ho iniziato a lavorare in questo campo per necessità dovute ai cambiamenti nell’ambito della grafica e dell’editoria.

Da subito in questo lavoro ho percepito una differenza di approccio tra me e gli altri che facevano parte di quel mondo prevalentemente maschile. Provavo un certo piacere nell’essere capace di programmare le macchine, ma all’interno di quel sistema sentivo qualcosa che mi creava inquietudine. Non riuscivo a nominare cosa fosse, ma capivo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato.

Ho avviato una mia lotta personale nei confronti del linguaggio informatico, iniziando una ricerca disperata e molto complessa nei meandri della logica matematica e della linguistica. Studiavo molti filosofi alla ricerca di un principio di origine che mi permettesse di capire che cosa fosse sbagliato nell’impostazione dell’informatica. Ero convinta, allora, che se fossi arrivata all’origine, avrei potuto poi costruire un discorso perfettamente logico in grado di esprimere altro.

In quegli anni, nei discorsi politici relativi alla tecnologia aveva grande seguito il Manifesto cyborg di Donna Haraway. Anche nel percorso di studi che seguivo all’Accademia di Brera c’era un grande interesse verso il Manifesto. Si parlava della necessità delle donne di esserci, marcare una presenza nell’informatica, aderire nel corpo e nella carne a quel discorso che si stava avviando.

Comprendevo la necessità di confrontarsi con il panorama tecnologico, ma trovavo irritante l’eccessiva fiducia nella tecnologia e rifiutavo l’idea di essere totalmente assorbita da un pensiero che escludeva qualsiasi differenza. Il Manifesto era entusiastico nel dire “dobbiamo esserci” ma non diceva niente del mio disagio.

La fortuna volle che nel 2006 la filosofa Chiara Zamboni fosse invitata dall’Accademia a parlare del Manifesto. A lei ho raccontato  la mia inquietudine nel dovere aderire a quel linguaggio i cui fondamenti non mi risultavano sensati, e il mio rifiuto del sistema logico-linguistico. Mi rispose in modo criptico: “È una questione di ordine simbolico della madre”.

Nel corso dell’incontro, mi ha fatto comprendere l’importanza della spinta politica di Haraway nel prendere parte a una cultura “alto tecnologica” come “elaborata icona per sistemi chiave di differenza simbolica e materiale nel tardo-capitalismo”.

Avevo studiato la logica matematica alla ricerca dell’origine, ma non conoscevo ancora il pensiero e la politica delle donne.

La lettura di L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro ha sbrogliato i miei dubbi. Nel primo capitolo dal titolo La difficoltà di cominciare ho trovato una frase che sintetizzava i miei tentativi di ricerca di un discorso logico: “Io comincio dal principio perché non so cominciare da dove sono e questo perché non sono da nessuna parte”.

Era esattamente la sensazione che avevo nell’ambito informatico, quella di non essere da nessuna parte, non avere parole, la sensazione che quel linguaggio totalmente logico tagliasse via una parte di fatti.

Più avanti Muraro afferma: “Accettare la necessità di fatto è logico quanto accettare quella logica. Arrivarci dà una gioia ed un riposo di gran lunga superiori a quelli che può dare la dimostrazione del teorema di Pitagora”. Fino ad allora avevo continuato a cercare la dimostrazione logica di quello che volevo dire e invece, finalmente, capivo che aveva un’autorità anche accettare la necessità dei fatti.

Da questa lettura è nato il desiderio di frequentare la Libreria delle donne e di ricercare la parola di altre donne che avessero espresso la loro opposizione alla indiscussa verità logica dell’informatica. Questo è il movente del mio arrivo in libreria: il disagio nell’informatica, il non sapere come starci.

Nel tempo ho incontrato altre donne che ne hanno parlato e scritto.

Ho ritrovato quell’opposizione in Ellen Ullman, scrittrice e informatica americana, che ha diretto sistemi di digitalizzazione  per grandi centri sanitari. Nel suo libro Close to the Machine racconta come in un momento emotivamente complesso della sua esistenza, avesse deciso di smontare il suo computer e poi rimontarlo, un gesto simbolico per trovare un altro  linguaggio. Nello stesso libro scrive: “Avevo ridotto le obiezioni degli utenti a un insieme di cinque modificazioni del sistema. Vorrei che la parola ridurre fosse intesa proprio nel suo senso culinario: far bollire qualcosa sino a ricavarne l’essenza. Eppure ero pienamente consapevole che la vera essenza umana era assente dalla lista che avevo preparato. Una questione del tipo ‘Come faremo a sapere se i clienti hanno la tubercolosi?’ – La paura di stare seduti in una stanzetta male areata con qualcuno che ha la TBC resistente alle medicine, la normale eppure complicata urgenze biologica di una domanda del genere – tutto questo diventava una lista di elementi da aggiungere sullo schermo o a un database”.

Ci sono donne che, lavorando nell’ambito informatico, sentono la necessità di un cambiamento nelle strutture che vengono create. Alla Libreria delle donne ho la fortuna di sperimentare quel ridurre la necessità di fatto in un progetto politico. Il gruppo nel quale elaboro in pratica questo approccio è la redazione della rivista online Aspirina.

Siamo partite prima di tutto con il chiederci che tipo di tecnologia utilizzare. Il confronto tra noi è stato  importante, soprattutto perché le altre hanno compreso il mio desiderio di non tradurre  il progetto in sistemi già esistenti. Questo è quello che si fa di solito nell’informatica, cioè riprodurre gli stessi sistemi logici che ripropongono il già pensato. La mia esigenza invece era quella di pensare insieme partendo da quello che volevamo.

In particolare il confronto con Elena Leoni, la grafica della rivista, è stato la base per riprogrammare un sistema editoriale informatico, non sentendoci costrette alle sue funzionalità o all’uso imposto dal mercato tecnologico.

Volevamo una rivista periodica i cui contenuti creassero un’opera corale. Siamo rimaste distanti dall’imperativo della comunicazione odierna che prevede la produzione costante e frammentaria di contenuti, come succede nei blog.

Con la rivista cerchiamo di “costruire un’unità poetico/politica” nei termini di Haraway, attraverso una pratica di affidamento reciproco.

In Aspirina abbiamo riflettuto a lungo sul rapporto con i social network.

Personalmente sono molto critica nei confronti di social come Facebook. Essere nella rete non significa essere su Facebook, questa corrispondenza non è da intendersi come necessaria. Però sono consapevole che molte persone sono ingabbiate in questo equivoco.

In redazione, aprendo la nostra pagina Facebook, ci siamo poste una serie di interrogativi sul suo uso: questo strumento che cosa comporta? come è fatto? quali sono le cose che richiede di fare? quanto tempo dedichiamo alle caratteristiche specifiche dello strumento? quanto lavoro?

In base a questo abbiamo pensato di sottrarre ore di lavoro su Facebook per dedicarle alle relazioni politiche tra noi e con altre. Non abbiamo messo a disposizione le nostre risorse per  stare in quella dinamica social di continua interazione.

Ci è capitato di essere  coinvolte dalle onde emotive tipiche di Facebook, per esempio nel caso “Charlie Hebdo”. La velocità della comunicazione in quei giorni ci chiamava, come rivista satirica, a una reazione immediata a cui siamo sfuggite. Abbiamo preferito dedicare tempo alla discussione in redazione e scegliere di dare una risposta corale attraverso un numero speciale della rivista.

In Aspirina convive un duplice aspetto, quello del gruppo politico e quello dell’autorialità/percorso professionale delle singole. Ci siamo chieste: che cosa ha comportato l’ascesa di Facebook nella vita di ognuna? È evidente che ha provocato un enorme cambiamento nel mercato del lavoro.

Dal confronto tra noi è emerso che quel social network ha comportato la perdita di contrattazione lavorativa ed economica. Per molte autrici quella modalità di condivisione ha un impatto molto forte sulle vite personali.

Si tratta di un sistema commerciale che vuole creare un determinato spostamento economico e finanziario. Un sistema che accumula denaro e potere, che non è prendibile perché dietro c’è un interesse e un’intenzione.

Il problema non è se usare un social o no, ma capire, nel momento in cui lo scegli, in che modo vuoi starci.

Una critica radicale ai social network prevede una conoscenza molto approfondita dell’algoritmo e delle regole di quel linguaggio. Per aprire un conflitto, bisogna obbedire a quella grammatica e pensare un altro ordine logico.

Se invece il desiderio non è quello di risignificare le interfacce e l’algoritmo, ma di usare strumentalmente i social per veicolare un messaggio politico, sento come necessario valutare i rischi e le criticità. Bisogna essere consapevoli che c’è una parola altrui che ti guida e che si è coinvolte in giochi di potere.


Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 La Rete è nella nostra realtà. Come starci?, del 12 novembre 2017