Riprendo alcuni passaggi del (bellissimo) articolo di Giordana Masotto, che mi interessa sviluppare attraverso la mia esperienza politica con donne manager, l’ambito dove io agisco. Sono aspetti che condivido e di cui parliamo da tempo con altre donne manager.

I punti sono:

– c’è un gap salariale e di carriera percepiti come sistema maschilista inaccettabile

– non si tratta di fare spazio alle donne, ma di cambiare la natura del potere.

– possiamo sentirci più libere di avere l’ambizione di prendere il governo delle aziende

Parto da un fatto. Nei mesi recenti, quando sono apparsi i risultati della legge sulle quote minime di donne nei CdA, si è parlato e documentato con ricerche che le aziende con più donne ai vertici aumentano la redditività.

Nonostante queste evidenze, nelle aziende non è cambiato molto: quello che resta bloccato è l’accesso delle donne ai livelli più alti del management, dove effettivamente si decidono le politiche aziendali. Il top management resta territorio degli uomini.

Evidentemente l’accesso delle donne a quei livelli tocca una posta più importante perfino del ritorno economico delle aziende. Infatti tocca il ricambio dell’élite, che tende sempre a riprodursi uguale a se stessa. E dato che è un’élite maschile, le donne non sono cooptate. Così la cultura aziendale, che lì si forma e agisce, continua a essere maschile. Con conseguenze pesanti nella vita delle donne.

Per esempio la disparità retributiva tra uomini e donne, e la conseguenza dell’enorme disparità di ricchezza posseduta (documentata dalla Banca d’Italia). La cui causa principale deriva soprattutto dal mancato accesso delle donne alle carriere (a tutti i livelli), dato che le carriere comportano maggiore remunerazione. La disparità retributiva. Anche dove i contratti impongono pari salario a pari mansioni, si vede comunque la disparità retributiva tra settori con più manodopera femminile, che hanno retribuzioni medie più basse rispetto a quelli più maschili (come il tessile verso il metalmeccanico). Persino le donne star del management che guadagnano stipendi vertiginosi sono comunque pagate molto meno dei corrispondenti uomini.

Il punto è questo: il lavoro degli uomini vale sempre di più di quello delle donne. E questo lo decidono gli uomini. E lo decidono perché stanno in posizioni dove possono imporre la loro cultura con i suoi criteri valutativi.

Dunque non si tratta solo di fare più spazio alle donne. Bisogna invece cambiare questa cultura aziendale, fondata su un esercizio del potere come dominio, controllo, comando, arbitrio.

Per questa ragione dobbiamo puntare a entrare nei luoghi decisionali dove questa cultura si crea e agisce. Occorre che lì ci siano più donne, ma donne che agiscono consapevolmente con un proprio punto di vista differente, un’altra concezione dell’economia, del lavoro, del potere.

Non sono solo parole, è quello che pensano e praticano molte donne manager che hanno assunto ruoli decisionali alti, senza assimilarsi ai codici vigenti. Ma portando una loro visione, che possiamo sintetizzare nell’idea di azienda come luogo dove convergono soggetti diversi con interessi diversi, ma di tutti bisogna tenere conto con adeguata remunerazione perché tutti contribuiscono a crearne il valore. L’azienda è una costruzione comune.

E intendono dunque il potere come possibilità di governare le aziende secondo i propri princìpi, e lo esercitano come forte assunzione di responsabilità verso tutti i soggetti che vi agiscono.

Questo concetto è l’opposto dell’economia finanziaria, che concepisce l’azienda come il luogo da cui estrarre valore – massimo, immediato, a ogni costo – e il profitto è destinato solo a chi ha la posizione più forte in azienda, chi ne detiene la proprietà, senza curarsi delle conseguenze per chi lavora.

Queste manager, proprio perché sono entrate in quei ruoli, hanno potuto realizzare politiche in discontinuità con questa cultura dominante.

Non possiamo qui ragionare specificamente di queste esperienze, per questo rimando ai miei libri (v. Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende, ed. Guerini e Associati). Accenno però ad alcuni criteri ricorrenti: come l’autonomia e la responsabilizzazione diffusa di chi lavora, sviluppare le potenzialità delle persone, organizzare il lavoro tenendo conto dell’interezza della vita, e quindi gestire diversamente il tempo…

E faccio un solo esempio, perché contiene diversi di questi criteri, e perché è un’esperienza di quasi 10 anni fa, che dimostra come ci sono state già da tempo manager che hanno aperto questa strada, con molto coraggio. Oggi questa strada è più larga e ci passano più donne, ma se le idee richiedono tempo per radicarsi, ci vuole però qualcuna che cominci e che altre vadano avanti.

L’esperienza è di Anna Deambrosis (venuta poi anche a parlarne alla Libreria). Allora era una giovane manager già responsabile di un’importante area di business. Ma desiderava un figlio, una figlia. Rifiutando però la prassi aziendale per cui carriera e maternità sono necessariamente alternative, quindi le manager in quella situazione venivano rimosse, sostituite, bloccate nella carriera. La nuova soluzione trovata per il suo problema non è stata però individuale, egoistica: è partita da sé, ma si è allargata a un sé collettivo. Perché è passata attraverso una profonda riorganizzazione del lavoro. Ha sviluppato le capacità di autonomia e responsabilizzazione diffusa dei suoi collaboratori, mettendoli così in grado di funzionare senza la sua presenza continua. Questo modello si è rivelato così fruttuoso che è stato esteso a tutta l’azienda, diventando il nuovo paradigma organizzativo. Ha cambiato la cultura aziendale, almeno in parte, portando un beneficio permanente per chi lavora e per l’azienda.

Queste esperienze effettivamente realizzate mostrano che si può entrare nei luoghi “del potere” e usarli diversamente. Lì possiamo incidere su come tutte le donne stanno nel lavoro.

Nessuna donna, sia chiaro, è tenuta ad assumere ruoli di responsabilità se non lo desidera. Ma se lo vogliamo, abbiamo tutte le ragioni per nutrire questa ambizione.

Prendo un pensiero che mi è piaciuto di Luisa Muraro, invitando le giovani donne a puntare in alto: “L’ambizione femminile è feconda, non narcisistica”.

Questa convinzione la troviamo tra le donne a tutti i livelli lavorativi. C’è oggi consapevolezza diffusa della sopraffazione che troviamo nei luoghi di lavoro e c’è voglia di non lasciare che questo continui. Anche nelle manager c’è stata una svolta: se fino a pochissimi anni fa c’era anche in donne già a livelli alti una presa di distanza dai ruoli cosiddetti di potere, oggi la domanda è “come facciamo?”

I tempi sono maturi per fare questo passo in alto e alzare la posta in gioco: prendere il governo delle aziende, per farlo a modo nostro.

L’incoraggiamento viene anche dalle donne del MeToo che hanno denunciato i ricatti sessuali nel lavoro dello spettacolo. Hanno fatto crollare quel sistema, e portato l’azienda del potente violentatore Weinstein vicina al fallimento.

Ma c’è un seguito meno noto che prendo come simbolo. Prima che fallisse, quell’azienda è stata rilevata da una donna, Maria Contreras-Sweet, che ha messo a dirigerla un board a grande maggioranza di donne. Anche così si spazzano via le sopraffazioni.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Il lavoro ha bisogno di femminismo, del 7 ottobre 2018

Parto dalla considerazione di Giordana Masotto, quella che apre e chiude il suo articolo: «Il lavoro oggi, con tutte le sue micidiali trasformazioni, ha bisogno di più femminismo». Anch’io non ho scelto di identificarmi nelle discriminazioni e nelle minacce delle violenze. Questo non significa che non ho subito discriminazioni o non ho affrontato, quando l’ho incontrato, il tema delle molestie. Quando mi sono trovata in queste situazioni mi sono messa in una posizione diversa: non mi sono messa in difesa, non ho scelto la denuncia; per cambiare le cose sono andata all’attacco. Le discriminazioni non mi hanno fermato, alle molestie ho fatto intorno terra bruciata.

Mi ritrovo nelle parole di Giordana Masotto: ho voluto e voglio di più. Lavoro e sono in relazione con molte donne che vogliono di più.
Donne che per realizzare questo di più si mettono in gioco e cambiano le cose; per le quali il lavoro è necessità e autonomia economica ma anche affermazione di sé; il luogo e il mezzo che hanno scelto per realizzare l’espressione di se stesse.
«Farsi spazio nel lavoro vuol dire imparare a fare più mestieri, a fare più lavori», dice Stefania Filetti, segretaria della Fiom di Varese parlando della sua esperienza di operaia alla catena di montaggio dell’Alfa Romeo di Arese.

E Anna Poggio, segretaria della Fiom di Alessandria, parla cosìdel suo lavoro di sindacalista: «È sicuramente faticoso, questo sì perché prende tante ore della giornata, però è un modo di vivere alla fine, quando lo fai per tanti anni così. È la tua vita, fa parte della tua vita».

Quando le donne aprono la porta degli uffici e delle officine per entrarci, mettono in discussione il posto che si vuole loro assegnare.
Credo possa accadere in molti modi, io conosco meglio come accade quando le donne incontrano il sindacato, quando le donne fanno sindacato, quando le donne sono il sindacato.
Giordana Masotto la chiama “espressione creativa di sé”, io ho in testa i racconti e le vicende di tante lavoratrici, delegate e funzionarie sindacali che, proprio perché al lavoro ci vanno intere, hanno fatto sistematicamente saltare gli argini entro cui le si voleva incanalare e contenere.
Questo è accaduto con tanti incidenti di percorso, scivoloni, cadute, arresti, ripartenze, spesso anche con la scoperta che un passaggio era impraticabile e che si doveva tornare indietro e ricominciare da capo, prendere un’altra strada.
Si procede per tentativi, “una grande fatica”.

Per la nostra libertà.
Dobbiamo allargare, arricchire il nostro bagaglio, fare esperienza di questa fatica per poterla ridurre, per avere più possibilità di successo.
Dobbiamo riconoscere il conflitto e conoscere il campo di battaglia, dotarci di qualche strategia, adottare la tattica migliore.

Difficile per me dire della violenza e delle molestie. So che ci sono; credo siano in aumento ma non sono oggi, nel mondo del lavoro che conosco, un terreno di iniziativa che va oltre la denuncia generale del fenomeno.
Non c’è in campo esperienza personale e gesto pubblico come MeToo.
Nulla di paragonabile a quanto sta accadendo in altri ambiti del mondo del lavoro (difficile per me anche pensare a questi mondi come altri ambiti del mondo del lavoro).
Quello che sta accedendo apre però la possibilità di allargare questa discussione al mondo del lavoro che conosco e di svelare i ricatti sessuali, le molestie e la diffusa sopraffazione che frena il riconoscimento al di più che portano le donne.

Il nesso sesso/potere e il cambiamento che riguarda la natura stessa del potere per me interessa il mondo del lavoro che conosco in altri termini.
C’è la violenza e la bestialità di un lavoro ridotto in schiavitù rappresentato da una parte dalla violenza di padroni e caporali delle campagne di tutta Italia e dall’altra dalle braccianti straniere che subiscono violenza.
L’esperienza della Cgil di Ragusa e del sindacato dei braccianti in altri territori mette insieme la denuncia delle violenze con quelle degli altri soprusi, della negazione dei diritti elementari che queste lavoratrici subiscono ogni giorno.

In altri luoghi di lavoro e nel sindacato vedo una presenza meno ostentata di questo “costume” del potere maschile e dellasopraffazione sessuale che il potere maschile esercita.
Forse perché socialmente meno accettato, forse perché più contrastato politicamente.
Mi sembra, quando è presente, più uno scambio reciprocamente condiviso; liberamente cercato più che preteso o imposto.
È forse un terreno meno esposto? È un potere limitato che, nel suo campo di azione e nel tempo, ha margini e disponibilità economiche esigue; può offrire progressioni di carriera poco remunerate e poco riconosciute come status.
Proprio perché il sindacato esprime una soggettività, quella del lavoro, e la organizza, perché il sindacato interviene nei rapporti sociali tra uomini e donne nel mondo del lavoro, credo sia più difficile esercitare questo ricatto e più “socialmente sostenuto”l’atto di ribellarsi.
Il rapporto di lavoro nella mia esperienza è un rapporto normato, contrattato, tutelato.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Il lavoro ha bisogno di femminismo, del 7 ottobre 2018

domenica 7 ottobre 2018 ore 10.00-13.30


Il lavoro ha bisogno di femminismo

«Oggi molestie ed espliciti ricatti sessuali nel lavoro hanno lo scopo di frenare le ambizioni e la libertà delle donne. …anche chi non ne ha esperienza diretta, intuisce e sperimenta che sono solo la punta di un iceberg di sopraffazione sottile e pervasiva che continua a inquinare lavoro e istituzioni. …La novità è che quei segnali cominciano a essere percepiti come un sistema ed è questo sistema che sta diventando inaccettabile agli occhi di tante.»


Ambizione, libertà, MeToo, misoginia, potere: sono alcune delle parole chiave di uno scenario in mutamento che ci sollecita a osare. A fare un passo oltre, forti di quanto già detto in Immagina che il lavoro. In quali direzioni?


Avvierà la discussione Giordana Masotto a partire dal suo articolo Il lavoro ha bisogno di femminismo pubblicato nel nuovo Sottosopra-settembre 2018, con Luisa Pogliana (autrice del libro Le donne, il management, la differenza) e Michela Spera, segreteria nazionale Fiom.

Prendo le mosse dall’invito di Lia Cigarini: riflettere a partire dall’immigrazione, dall’ipotesi che l’Africa continuerà a premere sull’Europa, dalla paura di uno che teme di perdere i vantaggi che ha guadagnato con il suo lavoro e le sue lotte, a causa degli immigrati. Il nostro, che abbiamo chiamato Simplicio – v. Luisa Muraro in Contributi del 18/3/2018 – forse ha paura perché quei vantaggi, gradualmente e da decenni, li ha parzialmente persi quanto a sé, e li vede ormai quasi del tutto vanificati per i suoi figli cui pensava di averli garantiti.

La presenza degli immigrati che – più nella fantasia che nella realtà – sottraggono casa e lavoro, può essere un’occasione per fare i conti con l’illusione che il lavoro salariato, e più, il lavoro remunerato tout court, sia la via maestra per garantire i bisogni fondamentali degli esseri umani. È questa, io credo, una delle verità che bisogna dire e continuare a elaborare nel mondo occidentale.

Si tratta di dire al Simplicio del nord che, almeno in Italia, e indipendentemente dagli immigrati, con tutta evidenza nei prossimi anni, non vi sarà abbastanza lavoro qualificato per tutti i suoi figli, come sperava, ed al Simplicio del sud, che già ha vissuto arrangiandosi, disoccupato con lavori saltuari, che non vi sarà lavoro, nemmeno poco qualificato, per tutti i suoi figli. Ma lui già lo sa, e infatti ha votato di conseguenza. Ha votato per chi – con il cosiddetto reddito di cittadinanza, ennesima illusione, legato com’è alla ricerca/promessa di un lavoro che non arriverà – è stato tuttavia capace di avvicinarsi al cuore della sua paura e della sua miseria. Per sorvolare sulla constatazione che per moltissimi il reddito da lavoro non riesce quasi a garantire la sussistenza.

Propongo, allora, che diamo fondo a tutto il sapere che ci viene dalla nostra esperienza di donne, per affrontare questo tema in maniera radicale, perché a me pare il nucleo della sofferenza nel nostro paese che si esprime, fra l’altro, come rabbia e rifiuto degli immigrati – tralasciando per un momento la massima e più importante reazione a questa sottaciuta consapevolezza, che è quella delle donne che, anche per questo, credo, hanno quasi smesso di fare figli.

Non si tratta di scomodare teorie che spieghino se e perché il modello economico che conosciamo possa perpetuarsi solo se rimangono e si allargano precariato, povertà, guerra e mille altre miserie.

Se anche così non fosse, è evidente che l’immenso numero di umani che ormai premono, sulla terra, sulle rive dei mari, alle frontiere, in tutte le parti del mondo, non potrà procurarsi un reddito attraverso il lavoro. E non vi è alcuna speranza di remunerazione per il lavoro di cura e manutenzione, senza che, e prima che, ancora e sempre, non siano manipolati, consumati, terra, acqua, aria, esseri viventi dai quali dipendiamo, distrutti per il profitto in quantità maggiore di quel che vogliamo curare, di quel che vogliamo manutenere. Mi pare sia già ampia la riflessione al riguardo.

Il lavoro remunerato per tutti non solo non è una soluzione possibile, ma è auspicabile non sia più il centro dell’attenzione, delle rivendicazioni, del desiderio, di coloro che non lo hanno. Con questo non intendo affatto dire che non occorra presidiare, con pensiero, pratiche, riflessioni il mondo del lavoro, del moltissimo lavoro remunerato che permette di nutrirci, scaldarci, curarci e di godere di molto, di tantissimo altro. E che, ci dicono, produce già quanto basterebbe a sfamare tutta l’umanità.

Si tratta di dare il via alla festa della fine del lavoro salariato e remunerato, come unica prospettiva di benessere e fondamento dei legami sociali. Dobbiamo, dove si è ancora in tempo, appoggiare e sperare che vinca chi si batte per la tenuta delle produzioni locali ecologiche, e lavorare noi, nella nostra società, per immaginare e inventare nuove forme di appropriazione dei beni necessari per vivere, per chi non li ha, e nuove forme di vita per chi un lavoro remunerato non ce l’ha. Si tratta di dare visibilità, significatività a vite possibili, vissute ora come pena e degrado, riscattate e riscattabili quasi solo con la criminalità.

Penso che dobbiamo cominciare a intendere il lavoro remunerato come uno dei privilegi possibili e l’essere liberi dalla disciplina, dai vincoli del lavoro socialmente determinato, pure un privilegio. Dobbiamo inventare scambi e attività possibili, per degne e invidiabili forme di vita, libere dal lavoro remunerato. E dobbiamo pensare a forme diverse di appropriazione di ricchezza da parte di chi ne ha bisogno, perché, ben si vede, il puro meccanismo economico non riesce a garantire forme adeguate di redistribuzione. Sappiamo a chi e come chiedere questa ricchezza?

Se la partita con il moderno non è chiusa (Muraro), possiamo pensare di aprire e allargare brecce in cui far passare altro?

Sappiamo ripensare la questua, in forme aggiornate e adeguate alla nostra realtà?

Si può rievocare, come e in quali ambiti, la doverosa responsabilità dei ricchi nei riguardi dei poveri o dei molto meno ricchi o fortunati?

Possiamo sollecitare una rispettosa accettazione e sovvenzione di attività di meditazione che impegnino un’intera vita? Di meditazione, concentrazione, immersione in/su che cosa? Non so, anche su un pallone, perché, come dice il sant’uomo, chi sono io per giudicare che non si possa spendere felicemente un’intera vita giocando a pallone, o suonando uno strumento, o recitando, senza volere per questo conquistarsi un posto di calciatore, di concertista o di attore professionista?

Può una donna immigrata passare di casa popolare in casa popolare, aiutando anziane donne italiane ad accudire malmessi mariti, o rimanere al loro fianco nelle difficoltà della vecchiaia, in cambio di vitto, alloggio e ricevendo il dono di una lingua sconosciuta? Si potrà? O in nome dei diritti sindacali si individuerà nell’alleanza tra le due una bella forma di sfruttamento e lavoro nero?

Si potrà smettere l’orribile cantilena di giovani che né studiano, né lavorano (versione più asettica di bamboccioni sdraiati) e cominciare a elencare le mille possibilità che hanno di utilizzare felicemente il loro tempo, e con questo indirizzare non altrove, ma altrimenti la bella gioventù?

Esperienze di donne lontane nei secoli, possono soccorrerci in questo momento?

Anche solo pensare a società molto più povere della nostra e ben più della nostra in balia di disgrazie sconosciute, eppure capaci di concepire che le più alte e rispettate forme di vita fossero dedicate a Dio e per questo onorate e finanziate, può ancora insegnarci qualche cosa?

E il ruolo eminente che le donne vi hanno giocato può aiutarci?

Si tratta di sottrarre riconoscimento, negare autorità ai diktat del capitalismo che del resto provvede ampiamente a smentire le sue promesse – vedi il commento di Muraro alla storia dei due giovani morti nell’incendio della torre di appartamenti a Londra. Tremo all’idea che lo facciano dei giovanotti più o meno colti che giocano da apprendisti stregoni con meccanismi più grandi di loro che possono travolgerci tutti. Occorre, invece, che lo facciamo noi, come ci ha insegnato la politica delle donne, assieme e ciascuna a suo proprio nome, per muoversi altrimenti, al di sopra del mostruoso meccanismo economico.

È questo anche il solo modo che vedo di dare forza al lavoro dipendente, che può ritrovare una qualche capacità contrattuale – che in anni non lontani si è pensato illusoriamente potesse solo incrementarsi – grazie a coloro che non corrono sempre, comunque e dovunque alla ricerca di lavoro, ma restano e pensano, lì dove sono, al più utile e felice utilizzo del loro tempo.

Ma come posso parlare io che ho lasciato a poco più di vent’anni il luogo in cui sono nata, perché mi pareva che tutto fosse perduto. Mi sono spostata di mille chilometri e ancora non so se devo rimpiangere di non averne fatti altri mille verso il nord, dieci anni dopo, o di non avere attraversato un oceano, come pure avevo ipotizzato come il meglio per me. Se mi avessero offerto, in cambio di una prestazione socialmente utile, sussistenza e tempo libero, avrei potuto scegliere di rimanere lì, da dove sono partita, quietamente a leggere, a scrivere, a imparare musica.

Forse Simplicio soffre anche di quest’altra pena, della grande fatica del lavoro, sempre più taciuta. Intento com’è a rivendicarlo come unica forma di bene per sé, non può dire quanto gli costa.

Per questo non può tollerare neanche minime forme di assistenza alle vite più fragili, perché se lui ha tanto sofferto per procacciarsi il necessario o anche il di più, perché ad altri qualche cosa viene data gratuitamente?

A me pare che ogni giorno abbiamo testimonianze di una grande sofferenza fisica, mentale e psichica, diffusa anche nel mondo del lavoro molto qualificato.

Interessanti al riguardo, al di là del valore artistico, due film, Il maestro di violino di Sérgio Machado (2015) e La mélodie di Rachid Hami (2017). Ripetono una storia già raccontata, quella di un insegnante, un intellettuale, tra ragazzi di periferia e del suo impegno per indicare ai giovani vie d’uscita possibili, un utilizzo sensato del loro tempo di vita. Ma c’è una variante che sopravanza il copione noto. È messa in primo piano la storia del maestro, dell’artista. È sua la prima mossa, è lui che decide di sottrarre la sua vita al tempo sempre uguale, competitivo e comunque asfissiante del suo mondo, e quasi la getta quella sua vita, malvolentieri, nel gran tempo disponibile di quei giovani. Ed è lì che si ritrova, è con loro che riconquista serenità ed equilibrio. Quel mondo di periferia degradata, banlieu o favela, gli si apre e lo accoglie, con questo facendo fare una capriola al senso che di questi tempi attribuiamo al concetto di accoglienza. Analogamente, nel bel romanzo Tempi del verbo andare di Jenny Erpenbeck (2015), sono i migranti, in verità, ad accogliere nel loro mondo il docente universitario in pensione che li ospita senza risparmio nel suo appartamento, ma che solo nella relazione che intreccia con loro sembra ritrovare un senso ed un fondamento alla propria vita.

Gli uomini si sono molto dedicati a pensare alla fatica del lavoro. Intellettuali, artisti, hanno ipotizzato, immaginato, vite del tutto o sempre più liberate dal lavoro.

Aspettano noi perché si cominci a dare realtà al loro mondo utopico, liberato dal lavoro a fini di lucro? Forse sì.

Di sicuro ci aspetta mia madre che, con un’audacia che oggi mi pare avere dell’incredibile, raccontava, il volto e il sorriso un po’ estatico ogni volta che ripeteva il racconto, di come a vent’anni aveva chiesto alle suore del convento in cui era stata educata, previa donazione di cospicua dote, di poter rimanere lì, a suonare il pianoforte, solo questo, per il resto della vita. Troppo comodo, le rispondevano, non è questa la vocazione. Certo dobbiamo risalire una bella china. Se quella non era una vocazione, che cosa lo è? Neanche voglio pensare all’incomparabile risparmio energetico e al piccolo ma certo contributo al contenimento demografico che quella felice soluzione avrebbe comportato, al primo posto nella mia mente e nel mio cuore essendovi il rammarico per la vocazione disconosciuta di mia madre.

E inoltre, dove è detto, definitivamente, che quel che chiamiamo la ritrosia delle donne a esporsi, non sia un tesoro per l’umanità, e specialmente ora, nelle società opulente, purché la si riconosca, oltre che come limite in tante circostanze, anche come una risorsa e le si dia dignità. E non sappiamo, forse, quanto e come pratichiamo l’eremitaggio, l’ascesi, nelle nostre case? Possono risultare utili a tutti, certi disvelamenti?  

Per tornare ai migranti: propongo che si chieda loro di collaborare per portare sollievo alle fasce più povere della popolazione di questo paese o per porre rimedio ai problemi che più le assillano. Loro certamente sono poveri, ma fra di noi vi sono moltissimi poveri e poverissimi. Che ci diano una mano a rimediare alla nostra povertà.

Proporrei di pensare concretamente questo ribaltamento.

Tanti ne hanno parlato. Che sia venuto il momento di chiederlo con forza, magari a un potente della terra, ad uno o più grandi ricchi? O la solita illusione di migliaia di posti di lavoro al di là da venire, impedirà di vedere che investimenti limitati possono mettere in moto un aumento di benessere per tutti, e forse di felicità.

Accettiamo l’invito di Lia Cigarini a impegnarci a interpretare la realtà che cambia e ad aprirci a essa (Alla luce di un credito politico crescente, VD3 14 luglio 2018). Ciò che tocca l’animo di tutti noi in questo momento sono le morti in mare e la situazione di incertezza, povertà e paura di chi arriva in Italia e di chi in Italia vive e vede il proprio paese cambiare. Di fronte a questo problema Lia invita a non limitarci a pronunciare la parola accoglienza e ad ascoltare invece le obiezioni di chi vota Lega. Così ci si siamo chieste come vediamo e viviamo quello che sta accadendo.

Dalle donne emigrate che conosciamo – badanti, donne delle pulizie, madri di alunne e alunni, colleghe – sappiamo che chi emigra lo fa in cerca di un futuro migliore e per farlo lascia tutto: affetti, casa, radici. Entra in una fase di incertezza e di ricerca. Attraversa territori difficili ed emozioni complesse tra cui la paura. Ha mille ragioni per avere paura. Deve imparare una lingua nuova, trovare lavoro e casa, ricrearsi una comunità di legami. Tuttavia, nei media e nei discorsi della gente sono messe in evidenza solo le paure degli italiani.

Ci sono paure di base: c’è lavoro a sufficienza? Ci sono soldi e possibilità per tutti?

E paure che investono orizzonti più grandi: il sistema ambiente può far fronte al nostro sistema capitalistico (se tutti avessimo un’auto il mondo reggerebbe)?

Anche Ada Colau, sindaca di Barcellona, in Italia per sostenere la lotta di Riace, in una intervista sottolinea che: «Fra gli errori più importanti della sinistra di sicuro c’è stato il non aver visto come il liberismo sfrenato stesse portando incertezze e paura nella popolazione: non sappiamo se domani avremo un lavoro, o la pensione, sappiamo che i nostri figli rischiano di stare peggio di noi; oltre alla minaccia del terrorismo globale. Sono paure vere, e legittime che non bisogna negare. Vanno guardate negli occhi. Per trovare però delle soluzioni concrete. Che ridiano spazio alla comunità. E non alla paura» (L’Espresso, 9 agosto 2018).

Per noi è chiaro che la questione delle migrazioni oggi riporta al sistema economico che più di tutti attrae, quello occidentale, in cui si crede di poter fare fortuna, e che secondo noi va cambiato, perché è un sistema capitalistico e il capitalismo regge sul sacrificio delle classi povere. Come riuscirci è la questione.

Alcuni movimenti della sinistra fanno appello alle buone pratiche e all’intento di cambiare lo stile di vita egoistico, che pensa solo in termini di presente e di contesto locale. Esempio di buona pratica è la Consultoria di Milano, cioè l’Ambulatorio medico popolare autogestito che fornisce servizi essenziali a chi rimane fuori dal sistema sanitario nazionale, dai senza dimora agli stranieri senza permesso di soggiorno. Altro esempio è quello del sindaco di Riace, Mimmo Lucano: il paese da lui governato, spopolato da anni, è divenuto una comunità globale di persone che vive in armonia e stabilità, grazie all’immigrazione, per far fronte alla quale si è rilanciata la vita economica e sociale. Nuove opportunità di lavoro per italiani e stranieri, in una terra di ‘ndrangheta e povertà, con un microsistema economico funzionante, col recupero di case e botteghe abbandonate, l’apertura di laboratori tessili e di ceramica, bar e panetterie, il lavoro di 70 mediatori culturali e di 50 maestre per corsi di italiano. Ma dove lo Stato avrebbe dovuto riconoscere il valore di un esperimento di integrazione, anche continuando a sostenere economicamente le azioni avviate, lo Stato si è ritratto: Riace dal 2016 non ha più ricevuto i fondi per i progetti in corso.

Parliamo quindi di pratiche che potrebbero divenire modelli da seguire, che tengono aperti varchi di speranza e di azione, eppure sembrano dare fastidio e non essere sufficienti nemmeno a modificare in profondità la lungimiranza dei politici e il sentire della gente. Noi pensiamo si debba far circolare più verità, sia sui popoli che scappano che sui nostri paesi, in cui si cerca fortuna.

I problemi dell’Africa sono vari, tra cui il debito pubblico e l’oppressione neocoloniale. L’Africa è un continente ricco e in crescita, sfruttato dall’Europa, dagli USA e ora anche da paesi dell’Oriente. Di questi interessi economici i media parlano poco e i fatti – la vendita in corso di terreni dell’Africa all’India, alla Cina, agli sceicchi arabi – non diventano un sapere. Chi parlava in un modo diverso, raccontando di questi giochi di forza tra nazioni, come Thomas Sankara, è stato ucciso. Thomas Sankara (ex presidente del Burkina Faso) negli anni ’80 con lo slogan “Africa agli africani” invitava gli Occidentali a lasciare l’Africa e a cancellare il debito di paesi da sempre depredati e sfruttati.

Pur pensando che gli spostamenti dei popoli non si possano fermare, facciamo posto all’idea che, se lasciassimo la possibilità all’Africa di decidere del proprio futuro, il fenomeno migratorio potrebbe essere differente.

Nel presente comunque abbiamo più di centomila africani che arrivano in Italia, un quarto sono donne che arrivano terrorizzate. Durante il viaggio alcune (e non poche) sono vittime di stupri. Non si può far altro che accoglierle.

Ma accoglierle in che modo? «Cosa vuol dire accoglienza?» chiede Marisa Guarneri su Via Dogana in Accoglienza, una parola che ha cambiato senso. Perché per alcuni accoglienza significa persino l’allargamento di centri (praticamente dei lager) costruiti nei paesi come la Libia. Stefania Prandi in Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, una inchiesta durata più di due anni con centinaia di interviste, racconta delle violenze di ogni tipo che subiscono le donne che raccolgono e confezionano il cibo che arriva sulle nostre tavole.

Cosa significa accogliere chi scappa, se poi stipiamo donne e uomini nei sobborghi delle città, senza di fatto cercare soluzioni e alimentando la paura e la rabbia di chi vive nei quartieri delle periferie? Finora sono state le classi sociali più povere a pagare i costi delle politiche di chi governa comuni e territori.

Ciò che fa problema non sono i tanti immigrati, ma la mancanza di un progetto di integrazione. La cartografia del voto alle elezioni parla di questo: non ha votato Lega l’elettorato del centro, l’ha votata la periferia.

Noi conosciamo la periferia di Milano e sappiamo che è in difficoltà, lo sanno anche tutti i sindaci che si sono succeduti di giunta in giunta. Pensiamo per esempio al Giambellino, un quartiere in cui finiscono tutte le famiglie che non trovano assistenza da parte del Comune. D’altronde l’edilizia pubblica a Milano riesce a soddisfare solo il 4% delle richieste di case popolari.

In questi quartieri sono soprattutto le donne quelle impegnate in prima fila a tenere la decenza, un minimo di civiltà e il senso di non essere proprio al fondo della scala sociale. Creano cooperative sociali che si basano prevalentemente sul volontariato, efficientissime nel sostegno alle famiglie e nel reinserimento abitativo e lavorativo delle persone in condizioni di disagio sociale. D’altro lato le donne conoscono anche la fatica della condivisione del proprio spazio con popoli che hanno un’altra cultura. Sono quelle che creano lo spazio per l’incontro con l’altro da sé, ma hanno anche paura dei giovani maschi che arrivano qui senza famiglia, senza relazioni che possano dare loro una misura e, infelici, si mettono a bere, diventando violenti.

Se le classi più abbienti e la Confindustria ricordano che gli immigrati fanno comodo al nostro sistema sociale, sia a livello pensionistico, perché pagano le tasse, e sia facendosi carico di mestieri che noi non vogliamo fare – dalla badante al bracciante – d’altro lato chi vive in periferia sa che il costo del lavoro si abbassa per la presenza degli immigrati: dai cinesi che vendono servizi e prodotti a prezzi super concorrenziali, agli africani di fatto schiavizzati come manodopera nelle campagne.

Per uscire da questa rappresentazione in cui l’altro è lo straniero che ci porta via il lavoro, che ci spaventa, c’è bisogno di riformare dal basso «quest’Europa unita per le merci e i grandi patrimoni, non per le persone», partendo soprattutto dalle città dove si può ricostruire la comunità, come dice Ada Colau. La politica locale, in prospettiva, sarà sempre più centrale. Anche negli Stati Uniti la resistenza a Trump si sta consolidando a partire dalle città. Le relazioni tra città possono dare forza a progetti condivisi e fare in modo che le paure non vengano strumentalizzate. Perché lo sappiamo: individuare ogni volta un nemico è funzionale a distogliere la gente da quello che fa o non fa il governo, da quello che riesce o non riesce a risolvere.

Per noi è ora di impegnarsi per cambiare l’immaginario e far emergere più verità, partendo dalle narrazioni delle periferie e delle campagne, e delle donne e degli uomini migranti.

Detto tutto questo, ci arrestiamo e sentiamo di non poter proseguire nel pensiero, se non poniamo alcuni punti fermi, che rappresentano il nostro irrinunciabile. Si tratta di punti che per noi sono alla base della nostra civiltà:

-Non si possono rinchiudere le persone in hotspot che diventano galere.

-Non si possono lasciare morire persone in mare.

-Non si possono rimandare indietro persone che fuggono dalle guerre e dalla miseria.

La convenzione di Dublino va cambiata. Non si devono più porre distinzioni tra immigrati economici e politici. Noi siamo per il libero movimento dei popoli.

E se gli altri paesi si rifiutano di accogliere? La questione è connessa al senso di Europa da dibattere e riformulare. Su queste scelte ci giochiamo la nostra umanità.

Girare un film biografico (un biopic) sulla vita di una donna non è impresa facile perché si rischia di interpretarla secondo schemi riduttivi, ma ci sono registe e registi che ci provano, come abbiamo visto  negli anni scorsi  con le grandi figure di Ipazia, di Ildegarda di Bingen, di Hannah Arendt. Alcuni esempi meritevoli di citazione sono stati realizzati di recente: segno di  un maggior interesse e di un’accresciuta curiosità per la storia delle donne soprattutto scrittrici e artiste.

Abbiamo recentemente visto A Quiet Passion di Terence Davies (2016) su Emily Dickinson. Un film apprezzabile per la ricostruzione storica puntuale, per l’accuratezza dell’ambientazione, la scelta dei costumi, la direzione delle attrici e degli attori; insufficiente per le gravi ed evidenti omissioni biografiche che oscurano, rendendole trascurabili, le importanti relazioni femminili che furono determinanti nella vita della grande poeta. Errore voluto  o trascuratezza del regista, autore anche della sceneggiatura?

Meno recente, uscito circa un anno fa, e poco visto per la ridotta distribuzione, il film di Natalia Beristain Eterno femminile sulla vita della grande – e da noi quasi sconosciuta – scrittrice e poeta messicana femminista Rosario Castellanos (1927-1974). Il film ha la forza di raccontare il mondo delle passioni che tormentò la vita dell’artista, divisa tra il bisogno di scrivere e di testimoniare anche in forma militante il suo essere donna e il legame controverso e conflittuale che la univa al compagno e filosofo Ricardo Guerra. Se il film ha un difetto è quello di raccontare poco le sue opere (da noi non tradotte); il pregio è quello di riuscire ad entrare nello spirito della scrittrice narrando la sua indomita rivolta al ruolo che la società le assegnava di moglie e di madre.

Ultimo per uscita Mary Shelley. Un amore immortale* della prima regista saudita Haifaa Al Mansour famosa per l’indimenticato La bicicletta verde (2012).

Con quale sguardo lei e la sceneggiatrice Emma Jensen hanno voluto che osservassimo la figura di Mary Wollstonecraft Godwin, una fanciulla vissuta giusto due secoli fa?

Concentrandosi sul periodo 1814 (Mary aveva 17 anni) – 1818, anno della pubblicazione del suo Frankenstein in forma anonima, raccontano un percorso di libertà. Di una giovane dalle idee trasgressive, bramosa di conoscenze nuove e di avventure, straordinariamente curiosa e audace nell’affermazione delle sue scelte, pronta a sfidare la società e il giudizio e i veti  paterni quando decide di fuggire con il poeta Shelley.

Ma il film non la cristallizza in una storia romantica. Racconta altro.

Della sua quasi maniacale determinazione di dare voce al suo mondo interiore, ossessionato dai fantasmi della morte, dal ricordo della madre (Mary Wollstonecraft, grande intellettuale e pioniera femminista) delle  cui opere è avida lettrice, da un senso di perdita e di abbandono che solo nella scrittura riuscirà a trovare sollievo. E’ ancora la scrittura il potente e necessario anestetico per calmare il dolore straziante della perdita della prima figlia.

Racconta della realizzazione del suo primo romanzo, punto di snodo del  processo di formazione di dare voce a se stessa, di ricerca e di ascolto del  proprio io, fuori e al di là da quel mondo di uomini, quei grandi intellettuali liberali di cui si attornia, in parte culturalmente sedotta, ma di cui viene a conoscere bene il potere, l’egoismo e la misoginia in una crescente coscienza e sperimentazione della sua differenza di donna.

Un’unica perplessità: nell’intento di dare maggiore spessore alla modernità del personaggio alcune riflessione della protagonista, ad esempio, sui diritti delle donne mi sono suonate artificiose. Nulla toglie al merito e alle intenzioni del film: dare un’immagine vivida della ricchezza della personalità di Mary Shelley ben interpretata da Elle Fanning vicina per età e sentimenti.

* la seconda parte del titolo è stata aggiunta dai distributori italiani sottintendendo che il film avrebbe trattato solo di questo.

In questa fase di mezza estate mi sento assediata da tutte le decisioni negative contro gli esseri umani, specialmente se stranieri, che il governo sta prendendo. Confusione e contrasto accompagnano queste decisioni.

Il linguaggio sta cambiando, dando a concetti positivi connotazioni negative e viceversa.

Mi tormenta leggere la parola Accoglienza usata e travisata in tutti i modi.

L’unico ambito in cui sembrerebbe conservare il suo valore politico e sociale è quello dei Centri Antiviolenza. Ma il contesto incombe.

Accoglienza è un termine usato da sempre fra i cattolici e può significare moltissime cose: dall’accoglienza fisica a quella abitativa, dall’ascolto alla condivisione di momenti difficili della vita.

Oggi sembra assumere il significato di lasciare attraccare navi e far scendere persone che sfuggono alla guerra ed alla fame, dare assistenza sanitaria, e un luogo dove stare temporaneamente. A questo andrebbe aggiunta la spiegazione di quali politiche utilizzare per fare di queste persone cittadine e cittadini a pieno titolo.

Invece tutto viene spezzettato in azioni singole e spesso separate fra loro.

Accoglienza sta diventando un cappello da mettere sulle azioni che sono diritti già riconosciuti nel ns paese, facendoli diventare opzioni. Una diversa forma di accoglienza si sta configurando come l’allargamento di centri (lager) nei paesi di provenienza. La parola Respingimento è troppo cruda persino per chi la propone.

È necessario smontare questo significato, sostituirlo con la realtà che tende a coprire. A volte propaganda, a volte rassicurazione collettiva.

Tenere conto delle esigenze di tutti, donne-uomini-bambini in difficoltà è indispensabile, italiani e stranieri.

È uno sforzo che già abbiamo fatto per altre questioni, come smontare l’amore e trovare la violenza, smontare dichiarazioni di cura e trovare femminicidi in preparazione. Accogliere non basta più, è necessario trovare modi per stare in relazione, privilegiando la relazione fra donne.

Una pratica di verità che insieme alle donne dei Centri Antiviolenza mi sento di proporre alle donne femministe. Andare più in fondo anche a noi stesse, e tagliare ciò che ci fa ostacolo.

Fra i tanti buoni interventi del Via Dogana attuale e di quello precedente, mi sollecita lo scritto di Cristiana Fischer (che pure appare nella sezione del sito” Contributi”) che mescola il tema del credito politico crescente dato alle donne con quello del parlar bene di “alcuni” uomini.

A me sembra importante – e so di poter essere equivocata – che “non solo la donna può non essere considerata come l’altra ma come l’una – e l’uomo la sua variazione” (Massimo Lizzi), ma anche che alcuni uomini possono, e lo dico senza il timore di commettere sacrilegio, essere considerati centrali insieme a alcune donne. Avremmo quindi le alcune, gli alcuni, i “non tutti”. Sono convinta che la cosa sia non semplice da spiegare in termini piani. Il nuovo dire, che appunto viene tentato, è moltosimile al balbettio del lattante che grazie alla madre mette insieme a spezzoni, a sillabe le sue prime parole – momento basico della capacità futura del suo parlare. Ne ha trattato da tempo la psicoanalisi, in particolare Lacan, ma stando geograficamente e politicamente a casa nostra abbiamo a disposizione diversi scritti sulla questione: la sapiente ignoranza delle donne capaci di tornare a un loro dire originario, a una sorta di balbettio, per poi pienamente parlare recedendo dallamonolitica onnicomprensiva cultura maschile. Cito a questo proposito due testi, fra i molti pubblicati nel corso degli anni, rispettivamente del 1970 e del 1991: il “Manifesto di Rivolta femminile” e “L’ordine simbolico dela madre”: troppo note le autrici, pleonastico nominarle.

Nel mio ragionare ho guardato al passato del lavoro femminista del dire in prossimità della madre, che si travasa e si invera più che mai nel presente; al linguaggio di cui abbiamo ora bisogno nel sociale: un linguaggio che possa essere nuovo e politicamente efficace come vogliono e dicono nei loro scritti Cigarini, Santini, Rampello, Cosentino. Sono anche stata in prossimità, sempre seguendo Cristiana, del buon pensiero maschile: le riflessioni, che a me sembrano efficaci ed elegantemente scritte – cosa non secondaria – di Massimo Lizzi. E approdo anch’io, come Cristiana, al “comunismo materno” di cui parlava e parla tuttora Lia Cigarini (vedi il suo Intervento nel testo collettaneo “Al lavoro e alla lotta. Le parole del Pc”, Harpo 2017): si dia a ognuno secondo i propri bisogni; così come all’origine la madre ci ha dato, offrendoci quel preciso nutrimento che ci serviva per vivere.

Che si sposino le ragioni di Simplicio o che si contestino in una visione ben più drammatica e complessa della vita politica e dei partiti che la determinano, non confondiamo “rivolta” e “rivoluzione”. Equivalenza che, mi ha raccontato di recente un’amica prof di scuola media superiore, avrebbe fatto un suo alunno. “C’è poi, in fondo, questa gran differenza?”, ha opposto lui alle proteste dell’insegnante. “Sì, c’è una grande differenza.”

Al di là dell’aneddoto, a noi tocca ormai pronunciarci con chiarezza sulla realtà politica in cui viviamo e sulle emergenze che essa ci pone, forse sentendoci in contraddizione (ancora Cigarini all’inizio del suo intervento in VD3) ma brandendo visibilmente la bandiera delle nostre opinioni. Esposizione che richiede impegno, approfondimento, coraggio, umiltà, possibilità di entrare in contraddizione e soprattutto il non fare sconti a nessuno, nemmeno a noi stesse. Esposizione estrema che, in quanto tale, a me sembra rivoluzionaria.

In questi giorni di vacanza siciliana a casa della cara amica Anna Tamburini molto abbiamo ricordato del passato e condiviso del presente. Per molte di noi, oggi quasi settantenni, per legittimarci al pensiero e a una parola che potesse essere pubblica e dunque politica, è sembrato inevitabile cercare un interlocutore maschile. Costruire pensiero con le ragazze di allora, era impedito dalla timidezza delle stesse ragazze che non si legittimano: “…non ci ho mai pensato… scusami… ecc.” Ai nostri occhi i maschiavevano la legittimazione a pensare: di uomini erano i libri di testo su cui studiavamo, loro erano i detentori del logos in qualsiasi disciplina. Per noi, che oscuramente temevamo il destino che ci sarebbe toccato in quanto donne, tutto ci portava a pensare di essere imprigionate in un ruolo pesante e limitante dal quale proprio per questo, pur con altri elevati, avremmo cercato-creato vie d’uscita.

Inizialmente, il pensiero femminile, con tutte le eccezioni del caso, poteva essere inteso come atto trasgressivo: io non ho il permesso di una serie di cose? Allora disobbedisco, io scelgo, io penso, io rischio il nuovo che le nostre madri mai avrebbero pensato prima! E volevamo anche agire, non solo pensare! Allora agirò e insieme alle altre cambierò il mondo. In quegli anni, in assenza di un codice linguistico già fatto, adatto a dire la nostra parola politica, si crearono linguaggi un po’ a imitazione di quello esistente, pur intuendo che noi stavamo trovando il nuovo.

Con l’autocoscienza è stata inventata la circolarità della parola e dell’esperienza delle donne che si riempie di pensiero femminile: la parola dell’amicizia, della chiacchiera che circolarmente diviene altro: è questo l’inizio della parola politica delle donne e si chiama autocoscienza, nobilitata, nella circolarità della parola esperienziale in cui il conscio e l’inconscio lavorano senza stabilire gerarchie: parola concreta, privata, carnale, profonda. Là e allora siamo riuscite a non abbandonare la circolarità della parola, pur utilizzando in parte i codici della parola-logos. La ricerca del nuovo, era inizialmente connessa al pensiero politico orientato all’azione, all’autodeterminazione, prendendo a prestito consapevolmente o no, anche le modalità maschili a volte del pensiero ermetico, del pensiero per pochi, come già detto, le uniche al tempo conosciute.

Con Anna condividiamo l’idea che fin dall’inizio le donne francesi, le americane, soprattutto, più di noi italiane scelsero un linguaggio semplice che idealmente doveva raggiungere tutte e favorire la comprensione di ciò che la parola dell’autocoscienza femminile aveva portato alla luce. Inizialmente e transitoriamente si tentò di rimanere unite, ma presto le forze liberate portarono in parte alle stesse modalità maschili: logo-pensiero, logo-competizione e dunque contrapposizione. Si formarono così tanti diversi gruppi che via via si connotarono con vistose differenze: alcuni gruppi più orientati a teorizzare, altri più all’azione e i linguaggi utilizzati divennero molto differenti tra loro. Le nostre esperienze, mie e di Anna, pur con qualche anno di differenza, in parte si sovrappongono: noi donne, in lotta con noi stesse per uscire dallo sguardo dell’uomo; noi, in cerca di essere noi. Io, soggetto pieno di me, individua in un corpo di donna: corpo che sa e che pensa. Ma il pensiero delle donne s’era dato il compito di cambiare il mondo! Eppure, anche noi, con la competizione, la frammentazione, diventammo un po’ uguali a loro: gli uomini. Allora, gerarchia anche tra le donne, lotte che a noi generavano lacerazioni, perdendo così la circolarità che aveva reso possibile l’invenzione che pure ci stava cambiando. Subentrò strisciante il modello gerarchico da sempre esistito: l’ha detto una di noi che è fonte autorevole? Allora è vero! Così perdemmo circolarità, perdemmo una parte di originalità e non era questo che volevamo.

Nel Medioevo le mistiche hanno fatto un’altra invenzione: loro hanno scelto il Cristo nudo, spoglio di ogni velleità maschia per potersi rispecchiare in lui e dire l’amore assoluto che sentivano dentro sé. Un’intuizione formidabile, interiorizzare il Cristo, Gesù, l’eccezione che arriva a tracciare lo spartiacque tra prima di lui e dopo di lui. L’uomo figlio di Dio che s’è spogliato degli aspetti predatori imperanti nel maschile fin dalla notte dei tempi e s’è fatto interlocutore anche delle donne: le peccatrici, le madri, le sorelle poi le mistiche, le sante, le teologhe.

Io e altre, abbiamo creato dentro di noi un ideale maschile che non esisteva, non proprio un Cristo, ma un maschile che potesse avere interesse per ciò che noi pensavamo e non si perdesse nei soliti pensieri misogini tradizionalmente squalificanti il femminile. Inizialmente un’invenzione, ma oggi di uomini in ascolto del nostro pensiero ne esistono, ancora troppo pochi rispetto al desiderio delle donne, ma ci sono e ce ne saranno sempre di più.

Con Anna ci domandiamo: l’elemento di profondità è solo psicoanalitico, oppure c’è altro che ci sappia portare giù nel profondo? Quasi tutte si fermano prima, ma bisogna andare oltre, oltre come Inanna che compie la discesa agli inferi. Moltissime di noi, come la regina della Terra, dei Mari e dei cieli, ciclicamente ci ammaliamo sulla soglia, ma chi va oltre? E da quanto siamo su quella soglia, quanto soffriamo consapevolmente o inconsapevolmente, bloccate lì? L’inconscia ricerca della rinascita appartiene potenzialmente a tutte, passaggio del femminile per realizzare in questo mondo il miraggio della nostra soggettività. Eppure, pare che tutto lavori perché ci si fermi prima. Sulla soglia appunto, dove si intravvede cosa potrebbe esserci oltre. Si vede tutto, tra i veli, tutto? No, ma si percepisce molto, eppure il sistema lavora affinché, donne e uomini ci si accontenti della superficie e si ignori la profondità.

Attualmente, il nemico non più incarnato in un uomo individuabile, è piuttosto un processo in atto al di fuori delle nostre capacità di leggere e interpretare una tale complessità, un algoritmo disincarnato, un’ombra o un raggio di luce, qualunque sia, sempre artificiale, via dalla carne, dai corpi che sanno tutto, via dell’essere mosso da intenzione umana. Piuttosto, imposizione d’altri, a noi mai noti che rimangono non identificabili, sempre più evanescenti, impalpabili eppure onnipresenti.

Cosa è mancato? Ci chiediamo: la circolarità delle origini? Io che penso in presenza, mentre al contempo sto nella circolarità fatta della parola di altre sull’esperienza personale e collettiva; è questo che ci è mancato? La circolarità è senza gerarchia: parola carne, esperienza vivente che non pretende di essere fondativa di una teoria, ma è come fosse seme: seme e poi foglie, fiori, poi altri semi, altri fiori, boccioli frutti e poi? Poi tutto cambia, dopo non può essere più come prima. È un’altra stagione. Circolarità è parola lievito, non metodo, ognuna ha le proprie strade, ognuna i propri ponti. Forse non abbiamo pensato al mare in cui rigagnoli e poi torrenti e poi fiumi avrebbero potuto tutti, sfociare nel medesimo mare.

Oggi la parola delle donne, dopo il #meetoo ha guadagnato forza e credito. È il momento di essere in campo insieme con tutta l’autorità faticosamente guadagnata in questi decenni. La politica dei diritti sta facendo acqua da tutte le parti, mi ricordo: come un monito suonava alle mie orecchie il non credere di avere diritti! Oggi, abbiamo la possibilità e il dovere di entrare unite con gli altri gruppi sulla scena pubblica. In Italia non è ancora scattato con tutta la sua forza il movimento che soprattutto le americane hanno messo in campo con una forza e una determinazione che dovrebbero fare scuola anche qui da noi.

A livello europeo la sinistra non è più riuscita a fare la critica al capitalismo, negli stessi anni le donne hanno inventato “primum vivere”, “il doppio sì”, come incisive parole d’ordine che hanno trasportato con sé il pensiero di alcuni gruppi di donne più sensibilizzate di altre su alcuni temi e non altri. Non basta stare nel nostro pensiero, occorre accogliere quello delle altre con atteggiamento di fiducia e desiderio di reale confronto e non solo quando al centro del confronto c’è il corpo, ma quando al centro c’è da ripensare la vita tra uomini e donne in un mondo, quello attuale, in cui dalla società liquida su cui non poco si è teorizzato, siamo passati alla retorica di una politica che non c’è più o peggio ancora sta andando all’incontrario rispetto alle mete che insieme alla società civile ci era parso di aver raggiunto.

L’introduzione di Lia Cigarini all’incontro dell’8 luglio Alla luce di un credito politico crescente ha fatto aperture importanti soprattutto su due questioni: quella di trovare nuove interlocutrici e quella di esporsi di più. A mio avviso può esserci un cambiamento in meglio se le due cose procedono insieme e al superamento di chiusure si intreccia un maggior coraggio nel farsi avanti.

Per tutto l’anno in corso, Via Dogana ha lavorato nella direzione di ampliare le interlocuzioni e proprio in questi giorni, in vista dell’incontro della redazione allargata, anche io, come Lia C., ho pensato alle femministe di NonUnaDiMeno per una faccenda che mi sta molto a cuore.

Nell’invito abbiamo scritto che nei successi internazionali delle donne quello che ha funzionato è stata un’interazione positiva tra politica soggettiva e mass-media. Invece qui in Italia sembra ci sia una certa difficoltà al riguardo. È una situazione da sbloccare. Ricordo che tempo fa, subito dopo il manifesto Dissenso comune delle lavoratrici dello spettacolo, c’era stata una lettera di oltre cento giornaliste dal titolo È ora di cambiare. Noi ci siamo. Era una presa di posizione forse un po’ generica, ma indicava una disponibilità a coinvolgersi in prima persona, a usare la loro parola per “stare accanto a tutte le donne in questa battaglia”. La cosa – che io sappia – non ha avuto molto seguito, invece io penso che il linguaggio e la narrazione della realtà siano le questioni fondamentali.

Lilli Rampello nel suo intervento ha indicato alcuni aspetti di una battaglia sul linguaggio. Sulla questione Via Dogana ha già cominciato a lavorare con la proposta di Parlare bene delle donne dopo secoli e secoli d’iniqua maldicenza (Muraro). Ma se continuiamo a dirci le cose tra di noi senza stabilire fattive interlocuzioni, non si va lontano.

Con il Metoo è diventato evidente per l’intera società che le donne entrano nei rapporti sociali gravate da ogni tipo di prevaricazioni maschili sul corpo e sulla mente. E questo a causa del contratto sessuale (Pateman), cioè quel patto fondativo tra uomini che è sottostante al contratto sociale e che sta saltando. Forse ora è il momento in cui le parole possono dire con chiara coscienza queste iniquità, attribuendole a chi ne è responsabile: il sesso maschile. Un esempio straordinario è quello di Rachel Moran che non usa più la parola “prostituta” e l’ha sostituita con “donna prostituita”. In questo passaggio linguistico c’è l’essenziale di quello che cerco di dire. Abbiamo bisogno di un’altra narrazione della realtà e questo chiede molto pensiero, scambi e interlocuzioni.

Come le giornaliste firmatarie della lettera, anche le femministe di NonUnaDiMeno sono delle possibili interlocutrici. In una delle sezioni più interessanti del loro piano, Libere di narrarci, affrontano il problema “con l’obiettivo che i media italiani non siano più espressione e veicolo di narrazioni tossiche e sessiste che riproducono una cultura di violenza diffusa”.

Seconda questione. Nella sua introduzione Lia C. a un certo punto afferma che una delle conseguenze del Metoo è che “l’inviolabilità del corpo femminile si sta affermando come principio di civiltà”. Io penso che si debba mantenere viva l’attenzione sull’inviolabilità e continuare a far lievitare nella società il taglio operato dal Metoo. Una delle questioni massimamente in ballo è la prostituzione. Luisa Muraro nella sua recensione al libro di Rachel Moran Stupro a pagamento, sostiene che “secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione, hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione, non è più accettabile. E non lo è mai stata”.

Ipotizza che, com’è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro, “verrà il momento – ed è questo – in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità”.

Su questo si prospetta una battaglia politica da non mancare. Ricordo che di recente è stata riproposta la riapertura delle case chiuse. Nel sito Luisa M. si è espressa più volte al riguardo, Luciana Tavernini ha organizzato incontri e c’è già una buona interlocuzione con il gruppo resistenza femminista che lavora a difesa della legge Merlin.

Ultima questione, sull’immigrazione. Non vuole contraddire l’ascolto delle obiezioni di Simplicius, ma affiancarsi. Con Laura Milani ci siamo dette spesso che si parla poco delle ragioni per cui dai barconi scendono troppe donne incinte. La verità è che sono tutte donne abusate, stuprate lungo tutto il loro terribile viaggio. Questa tragedia nella tragedia ci interpella. Non si parte da zero. Ricordo che tempo fa su questo in Libreria è stato proiettato il documentario Orizzonti mediterranei (di Pina Mandolfo e Maria Grazia Lo Cicero, 2014) e che le amiche delle Città vicine non mancano mai di parlarne nei loro interventi. In tutto il mondo quando c’è guerra, quando c’è disordine aumenta a dismisura la violenza contro le donne. Io penso che la tragedia delle nostre sorelle migranti faccia parte del grande movimento antiviolenza che c’è in Italia, possa entrare nella sensibilità dei centri antiviolenza e degli innumerevoli gruppi che si occupano sui territori della violenza contro donne.

Nel 1994 Forza Italia andò al governo per la prima volta, il 25 aprile di quell’anno la manifestazione fu una grande protesta contro il nuovo presidente del consiglio e il lunedì successivo, 27 aprile, presi servizio per la prima volta nell’ente pubblico in cui lavoro. Io ero molto politicizzata, molto di sinistra, e molto scioccata che due italiane e italiani su tre lo avessero votato. Mentre mi facevano fare il giro di presentazione alle colleghe e ai colleghi mi domandavo ossessivamente: «Questa sarà una dei due su tre?», «Questo sarà uno dei due su tre?».

Per alcuni giorni mi sono sentita circondata dal “nemico” di destra. Poi non ne ho potuto più e ho deciso di spazzar via quell’idea dal mio cervello perché mi stava rendendo la vita impossibile. Mi impediva di fare conoscenza serenamente con le nuove colleghe e i nuovi colleghi, di farmi insegnare il lavoro, di collaborare con loro, ma non solo: mi avrebbe impedito anche di fare politica con loro. Una volta libera dall’ossessione, scoprii persone forse non abbastanza di sinistra per i miei standard super-selettivi, ma intelligenti, argute, dotate di spirito critico e di buon senso, con cui si poteva parlare e magari anche fare amicizia. Ho poi fatto anche politica sul mio posto di lavoro, dove sono stata delegata sindacale per quattordici anni.

Adesso che al governo c’è la Lega e un suo esponente è ministro dell’Interno, la sindrome da accerchiamento colpisce ancora. Come effetto si attacca chi ha votato a destra benché non fosse nel suo interesse, invece di cercare di capire perché l’ha fatto, e si ribadisce di essere di sinistra come un mantra per scongiurare una realtà in cui la sinistra non c’è più.

Fra noi alcune si sono chieste come contrapporsi alla trasformazione in atto. Non si può, perché la realtà politica a cui eravamo abituate non tornerà, ma anche se lo fosse perché dovremmo voler cristallizzare un mondo patriarcale e capitalista? Non si tratta di riavvolgere il nastro e tornare indietro, ma di cercare di realizzare la trasformazione che vogliamo noi, quella del #metoo, degli elettori irlandesi e dei parlamentari argentini che ascoltano la voce delle donne sull’aborto e di tutti i cambiamenti positivi che comunque le donne in questi anni stanno producendo. Sganciarsi dalla contrapposizione tra destra e sinistra significa vedere che entrambe condividono un patto basato sull’esclusione delle donne e sulla garanzia dell’accesso maschile ai loro corpi e sganciarsi dall’ossessione che rischia di impedirci di fare politica a partire da noi.

Ringrazio Marina Santini per la ricostruzione dei forti cambiamenti nel panorama internazionale dovuti al credito dato alla parola delle donne e Lia Cigarini per lo sforzo fatto nel cercare di individuare dove e come è necessario spostare in avanti il pensiero per aprirsi alla realtà che cambia e per l’invito a mettere in gioco certezze e interpretazioni che ci hanno accompagnato finora. Personalmente penso che là dove si tratta di sessualità e corpo delle donne (violenza, maternità, prostituzione…) il mutamento sia avvenuto davvero, su questo terreno elidere o eludere la parola femminile è nei fatti impossibile, perché su queste questioni l’esperienza femminile è comune indipendentemente da storie e geografie, posizioni politiche o culturali: ci possono essere differenze tra le donne, ma la parola autorevole esiste e ha finalmente incrociato anche il pensiero dominante.

Diversa a me sembra la situazione quando si tratta di parlare di come è cambiata la realtà e la realtà politica: qui il confronto anche tra noi è tutto da fare o quantomeno da fare meglio e più analiticamente; qui la parola pubblica femminile è molto esitante e anche quando autorevole manca di un forte sostegno collettivo, che potremmo intanto imparare ad offrire con maggiore attenzione e continuità (a proposito di quell’esporsi di cui ha parlato Lia). Ad esempio come far circolare con maggiore forza le parole della Colau o della Merkel, o di molte altre che ragionano dall’interno di situazioni politiche, istituzionali, nazionali e internazionali, alle quali una rete simbolica di approvazione femminile potrebbe fare da moltiplicatore di efficacia.

Nella realtà cambiata è affiorato qualcosa che non credo faciliti la proposta politica di donne, se non pensiamo di più e meglio, per due ragioni che propongo alla discussione. La prima è che il fallimento o crisi della forma partito e dei corpi intermedi (che sono stati sponda di interlocuzione del femminismo, nel bene e nel male) non ha semplicemente prodotto una società liquida, o l’immiserimento della politica mangiata dall’economia (cose entrambe vere), ma la messa in crisi radicale dell’idea di democrazia in Occidente. Su questo quale pensiero abbiamo? Non parlo dello Stato, delle sue leggi, in quanto tale e tali, che ritengo essenziali, ma parlo di qualcosa di ancora più radicale, parlo di quella comunità democratica che si regge su una convivenza civile e non feroce, di cui vedo ogni giorno impallidire il sembiante, e che è a rischio se non ha riflessi anche istituzionali. Qui un confronto vero tra noi non è ancora avvenuto, a partire dalla differenza nel credere o meno che non esista sinistra e destra, faccenda che andrebbe aggiornata e declinata in modo più appropriato, meno sloganistico (io ad esempio credo eccome che esistano politiche di destra e politiche di sinistra, e valori di sinistra – non vedo valori a destra, mio limite) soprattutto ora che la destra, e non solo in Italia, c’è e comanda (il patriarca quando ha questa faccia è revanscista, anche nel rapporto tra i sessi, meglio non dimenticarlo).

La seconda ragione per cui abbiamo bisogno di un pensiero sempre più fine è che quanto ha sostituito una realtà politica a noi nota non è un’altra realtà politica, ma una potente costruzione retorica, di straordinaria efficacia (e questo vale per entrambi i governanti di oggi): come si combatte sul piano del linguaggio (machista, viriloide, virulento, arcaico e patriarcale) e su quello del discorso (la quotidiana costruzione retorica di realtà inesistenti o manipolate per politiche che non si fanno ma si enunciano)? Qui la debolezza della parola femminile è a mio avviso concreta e bisogna pensare e studiare, perché abbiamo molto alle spalle da spendere ma qualcosa di nuovo e di ben diverso da capire.

Che questa riunione non sia un unicum, ma un inizio, questo può essere già l’avvio di un’iniziativa concreta e necessaria, per scomporre il problema avviato (come aprirsi a una realtà che cambia) e tentare una risposta che ci esponga autorevolmente ovunque possiamo e vogliamo.

Mi è stato dato un compito impossibile perché questo incontro ha come tema centrale la domanda: che cosa possiamo fare noi in Italia nella situazione che si è creata dopo le elezioni politiche? Io mi limiterò a sollevare dei problemi. Siamo tutte impegnate a interpretare la realtà che cambia. E sapere come aprirci ad essa. Faccio un’ulteriore premessa per me importante: sono disposta a perdere ogni coerenza teorica per restare coinvolta nella realtà che cambia.

Abbiamo sempre sottolineato la asimmetria dei due sessi, asimmetrica la loro storia e la loro politica rispetto alle nostre. Infatti, nella situazione attuale: da una parte ci sono le femministe e molte altre donne contente e coinvolte nella grande esplosione del #metoo partita dagli USA e sparsa nel mondo anche in paesi patriarcali; dall’altra, immiserimento della politica classica maschile. Per quello che riguarda quest’ultima, invito a non stare all’immediatezza dei problemi, come governo, Europa, Trump, ecc. perché su questi il pensiero critico maschile ha già detto tanto. Penso invece che sia utile cercare di andare al cuore dei fatti politici nei quali abbiamo già a portata di mano grandi intuizioni del femminismo.

Non starò a parlare in dettaglio del #metoo se non per alcuni punti che mi servono come premessa per quanto dirò poi.

I punti sono: 1. le donne hanno parlato e sono state credute; 2. ciò significa che l’autorità femminile è entrata in gioco e in circolo; 3. l’inviolabilità del corpo femminile si sta affermando come principio di civiltà; 4. oggi, non c’è solo, come già si manifestava, un credito nei confronti delle donne genericamente intese bensì un credito verso il femminismo; preparato da cinquant’anni di lavoro politico delle donne e manifestato in questi ultimi anni da tantissime dichiarazioni di donne che si sono qualificate come tali, femministe.

Aggiungo come fatto positivo che il governo italiano non ha messo le donne nel suo programma o più precisamente contratto. Per me è un passo avanti. E’ finita così la commedia delle quote. Infatti, attraverso donne in parlamento o al governo non c’è stato un tema, una proposta del femminismo che abbia inciso nella politica comunemente intesa.

Finite le premesse, osservo che la situazione politica attuale è difficilissima perché l’ordine simbolico-politico che ci domina procede oscillando: una parte tende alla destra securitaria, l’altra al neo-liberismo spregiudicato, cioè quello dei “progressisti”, sostenitori dei falsi diritti e del falso progresso.

E’ difficile perché la sinistra è sparita a causa che non è più riuscita a fare il suo mestiere, cioè criticare il capitalismo. Naturalmente la deriva della sinistra, o centro-sinistra che sia, è iniziata da tempo.

Ma noi, per dire le qui presenti, di fronte alla sconfitta della sinistra e alla crisi generale della politica dominata dall’economia, come reagiamo, che cosa diciamo, come ci facciamo avanti? Non si può continuare ad affidarsi alla logica dei partiti, che vuol dire prendere il potere con le elezioni e andare al governo o stare all’opposizione, oppure gingillarsi con dei commenti alle mosse degli uni e degli altri.

Sappiamo che la politica delle donne non è né di sinistra né di destra, perché tutte le donne sono in prima battuta interessate alla libera affermazione di sé, mentre in seconda battuta c’è la scelta elettorale o l’adesione ad un partito che sono comandate dalla collocazione sociale e culturale. Credo che sul punto siamo tutte d’accordo e abbiamo detto che la nostra politica è un altrimenti.

E’ ben vero, tuttavia, che le femministe degli anni Settanta venivano per lo più da quella parte (la sinistra). Anche recentemente ho sentito ragazze che esordivano dicendo: io mi riconosco nella sinistra.  Sappiamo poi che tante votano a sinistra, con adesione non superficiale a questa scelta. (Passate le elezioni, anche la passione è passata).

C’è da dire che fino a quando c’è stato il Partito comunista di Berlinguer e forse fino al cambiamento del nome, esistevano le commissioni femminili, l’UDI, ecc. E’ stata possibile un’interlocuzione vivace con le donne che vi appartenevano. Il Sottosopra verde Più Donne che uomini è stato diffuso e discusso dalle donne del PCI. Siamo state chiamate in molte città a presentarlo (e quelle donne hanno aperto un conflitto con gli uomini sulla base di quel documento). Di seguito c’è stata l’opzione per il pensiero della differenza da parte della Commissione femminile diretta da Livia Turco,  e infine la Carta delle donne,

Insomma, c’era una sponda perché c’era ancora una politica che stava in piedi e che ha esonerato molte dall’esporsi sulla scena pubblica. Sappiamo, infatti, quanto sia difficile per le donne esporsi, combattere nei luoghi di lavoro e della politica classica.  Ora, da anni sinistra zero, interlocuzione zero.

A questo punto, che cosa facciamo? Per esemplificare, ma non è solo un esempio, si affaccia la questione più urgente, quella dove, a mio parere, abbiamo più cose da dire per spostare il punto di vista dominante. Cioè quella dell’emigrazione. Per prima cosa, rispondo, si tratta di dire la verità cioè che il problema non sparirà, l’Africa continuerà a premere per trasferirsi in Europa.

Poi, non limitarsi a pronunciare la parola accoglienza che palesemente ha messo paura; ascoltare invece le obiezioni di Simplicius, cioè la tipica persona che votava a sinistra e ora vota Lega. Certo, lui ha paura di perdere i vantaggi ma i vantaggi se li è guadagnati con il suo lavoro e le sue lotte. Quindi, per prima cosa, bisogna non farlo sentire in colpa con il solo risultato che, se c’è paura, si aggiunge la rabbia. E, nella scena pubblica, non parlargli moralisticamente. Ma farlo parlare e ascoltarlo. Attraverso la pratica dell’autocoscienza e dell’inconscio sappiamo affrontare i sentimenti e le emozioni. La paura: chi ci sta dentro non sa che cosa sia possibile fare e come agire in modo diverso.

In sostanza, non per risolvere ma per riassumere il punto: in questi anni abbiamo fatto una politica per impedire il danno patriarcale e abbiamo vinto (anche se la violenza non sparirà mai del tutto). Con il #metoo è stata raggiunta una svolta epocale, vorrei altre svolte epocali nel lavoro e nella politica.

D’altra parte in questi anni abbiamo parlato e agito in un orizzonte di cambio di civiltà cioè in vista di una società dove i rapporti di forza tendano a modificarsi in rapporti più liberi. Quindi, anche se è molto problematico, considero indispensabile l’aprirci alle questioni e ai conflitti che scuotono l’Italia oggi, e farlo con tutto il nostro sapere politico. Qui però si pone a mio parere una grande questione sempre dibattuta nel femminismo, cioè la relazione con gli uomini che si oppongono all’attuale miseria della politica.

Il #metoo ha avuto la forza di spaccare il fronte maschile. In conseguenza delle denunce, moltissimi uomini hanno cominciato a non volere più la sottile complicità con i propri simili violenti e non li hanno più scusati. Anche in Italia, inoltre, come io stessa e Marina Santini abbiamo già sottolineato, c’è un credito verso il femminismo, come un’attesa che le donne si facciano avanti sulla scena pubblica. Quindi pongo qui una domanda: ritenete possibile un’interlocuzione serrata o un’alleanza, chiamatela come volete, con gli uomini critici della condizione attuale della politica? Oppure no. Se sì, in quali termini iniziamo a ragionarci? Se no, in quale modo andiamo avanti con i temi discussi oggi?

Un altro esempio, questo di pratica politica. Il movimento Non una di meno ha pubblicato un documento intitolato Abbiamo un piano. Parecchie lo hanno letto e alcune lo hanno criticato per la scrittura burocratica e per il lungo elenco di rivendicazioni. Tuttavia sono femministe e siamo state d’accordo per tenere dei rapporti. Ci voleva di più.

Ecco io oggi farei diversamente: una puntuale esegesi del testo mettendo in luce i punti con cui sono d’accordo, vale a dire il partire da sé e la pratica di relazione. E arriverei a dire che la lunga sfilza di rivendicazioni rimanda ad un tentativo di affrontare e volere una svolta nel lavoro e nella politica. Aggiungerei la mia scelta dei punti chiave, dove intervenire. In questo modo farei di quelle femministe le mie interlocutrici. In fondo questa è stata la nostra pratica di parola: trovare interlocutrici.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Alla luce di un credito politico crescente, del 8 luglio 2018.

Nel 2010 avevamo intitolato un numero di VD (92/ 2010), cartaceo, Cambiare l’immaginario del cambiamento: si sottolineava come da parte dei media, di intellettuali e politici di professione ci fosse una sorta di ostinazione a non vedere pratiche messe in atto dalle donne che hanno cambiato il modo di stare nei posti di lavoro, nello spazio pubblico, senza far ricorso ai mezzi del potere. Dobbiamo registrare, da allora, un cambiamento sostanziale: oggi si dà credito alla parole delle donne e le loro espressioni non si definiscono più, in senso negativo, come pre-politiche o impolitiche. C’è stata nel mondo un’apertura di credito.

Negli ultimi incontri di Vd3 abbiamo usato spesso parole come parlare ascoltare cambiamento: il primo appuntamento di quest’anno si intitolava Parlano le donne parlano. Ci si riferiva al #metoo, perché tutto è partito da lì.

Donne che partono da sé, prendono la parola e raccontano la propria esperienza.

Sentiamo verità in quello che dicono come ci è accaduto con Rachel Moran, che qui è venuta a denunciare in modo radicale che la prostituzione è ‘stupro a pagamento’.

In Irlanda il risultato del referendum del 25 maggio scorso ha tolto il divieto costituzionale all’aborto. Nella campagna referendaria abbiamo assistito ad un’altra dinamica del cambiamento: i racconti delle donne, che hanno affrontato sulla loro pelle le conseguenze dell’8° emendamento, comparsi anche sulla pagina facebook in her shoes “nei suoi panni” (sottintesa la domanda, tu che faresti?) hanno vinto sull’obiezione politica. E alcune testate, intitolando “È stata ascoltata la voce delle donne”, hanno registrato che proprio in questo ascolto consiste il vero cambiamento.

Di qualche giorno fa, l’onda verde delle donne argentine ottiene la depenalizzazione dell’aborto: il presidente Mauricio Macri non usa il diritto di veto che la legge gli riconosce e sceglie di non esprimersi.

La rivista on line globalproject.info pubblica ciò che sta accedendo in Cile, dove da qualche mese le studentesse, dopo le numerose denunce di molestie sessuali, manifestano, in quella che viene definita la più grande mobilitazione femminista dagli anni Settanta: occupano le università, esigono un cambiamento del sistema educativo. È un movimento che non nasce oggi ma è frutto di anni di attività da parte delle femministe che hanno costruito reti di sostegno alle vittime degli abusi e delle violenze. Vengono raccolte e pubblicate le storie di studentesse su ciò che hanno subito nella Facoltà di Diritto della Pontificia Universidad Católica de Chile. Scioperi e occupazioni si sono così diffusi in tutto il paese che la questione è ora al centro del dibattito pubblico. Sono donne che combattono il patriarcato dall’interno di un movimento politico misto, che sostengono il femminismo come resistenza a ogni forma di oppressione e si pongono l’obiettivo di costruire un’alternativa politica nel paese.

A New York nel collegio di Bronx e Queens, Alexandria Ocasio Cortéz, giovane attivista 27enne, è riuscita a sconfiggere nella corsa delle primarie democratiche il deputato, uomo bianco di più di 50 anni, Joe Crowley in carica da vent’anni. Candidata del popolo, mezza portoricana, si è imposta sul candidato designato dal partito. Alexandria ha vinto su una piattaforma di sinistra chiedendo assistenza sanitaria e istruzione universitaria gratuita per la popolazione variegatissima del collegio.

Anche questo si aggiunge agli altri guadagni di credito e di forza politica ottenuti dal movimento internazionale delle donne.

Oggi è più facile che le donne vengano ascoltate per sentire il loro punto di vista sulle cose del mondo: forse sono finiti i tempi in cui si parlava di loro come di una ‘categoria’ fra le altre (giovani, anziani…) di cui occuparsi. Alla sindaca di Barcellona Ada Colau, a Bologna (20-21/6) per un incontro pubblico, viene richiesto di raccontare le pratiche di democrazia locale nella sua città, sapendo che dalle città si parte per un cambiamento che va oltre l’ambito locale (“Le città sono lo spazio dove affrontarle, perché sono lo spazio dove l’altro non è uno sconosciuto, disumanizzato, è il mio vicino e la mia vicina. Possiamo trasformare qui le paure in speranze. Abbiamo una responsabilità enorme, di esercitare la speranza”)

Questo il panorama internazionale. In Irlanda, come in altri paesi, quello che ha funzionato è stata una interazione positiva e di rilancio tra una politica soggettiva delle donne e i mass-media.

E in Italia? Che cosa registrano i media? Cosa possiamo fare? Il governo appena insediato si autodefinisce di cambiamento e potrebbe esserlo, ma per ora mostra cambiamenti ‘rabbiosi’ che possono metterci in difficoltà politiche e umane.

Vogliamo proporre una discussione alla luce dei successi internazionali perché pensiamo che i cambiamenti di cui le donne sono protagoniste sono traducibili anche nella nostra realtà. A patto che, come dice Ida Dominijanni sull’Huffington Post (1/7), si voglia arrivare al cuore del problema: riconoscere ‘il nucleo di verità nelle tesi dell’avversario’, che “Le paure non si vincono riconoscendo il diritto di esserne preda, ma smontandone la radice quasi sempre fantasmatica e ammettendo che un tasso di rischio è inevitabile nelle società aperte, ed eliminabile solo in quelle autoritarie”. Come Ada Colau con le sue politiche -un intreccio tra iniziativa sociale e politiche istituzionali nel segno del cambiamento- ci mostra.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Alla luce di un credito politico crescente, del 8 luglio 2018.

domenica 8 luglio 2018 ore 10.00-13.30


Il risultato del referendum irlandese del 25 maggio scorso che ha tolto il divieto costituzionale all’aborto si aggiunge agli altri guadagni di credito e di forza politica ottenuti dal movimento internazionale delle donne.
Alla luce del credito politico crescente di cui godono le donne dobbiamo chiederci pubblicamente quello che tra noi ci chiediamo tutti i giorni: cosa possiamo fare noi in l’Italia, nella situazione che si è creata dopo le elezioni politiche? Il governo appena insediato si autodefinisce di cambiamento e potrebbe esserlo, ma con cambiamenti che possono metterci in difficoltà politiche e umane.
Guardando all’Irlanda abbiamo visto un’altra dinamica del cambiamento dove, tra il racconto in prima persona e l’obiezione politica, hanno vinto i racconti delle donne. Alcune testate, intitolando “E’ stata ascoltata la voce delle donne”, hanno registrato che proprio in questo ascolto consiste il vero cambiamento. In Irlanda, come in altri paesi, quello che ha funzionato è stata una interazione positiva e di rilancio tra una politica soggettiva delle donne e i mass-media. Molte pensano che, da questo punto di vista, in Italia ci sia una certa arretratezza. Se è vero, com’è vero, teniamo conto di quello che sta avvenendo a livello internazionale: i guadagni del movimento delle donne, non importa dove, sono traducibili in opportunità realizzabili nel nostro paese.
Vi invitiamo a portare nello scambio di VD3 idee, critiche, proposte e pensieri per l’Italia di oggi, peggiore o migliore che sia.
Avvierà la discussione Lia Cigarini.

Esistono comportamenti femminili maltrattanti? Parliamone, almeno un po’. Quanto? Q.B., quanto basta, come ben sa una mia amica che di cucina e relazioni se ne intende. Con chi? Con almeno un’altra che stimi e scegli, quella che è o può diventare “sorella d’elezione”. Perché è troppo doloroso se un torto te lo fa proprio una donna: non te lo aspetti e in lei in qualche modo c’è rispecchiamento. Ti lascia un tale amaro in bocca che perdi il gusto. Occorre un’altra che assaggi anche per te, ti dica la misura e ridia sapore a ciò che stai facendo.

Ma fuori di metafora vediamo quando e come, facendo qualche esempio in cui più volte ho giocato ruoli differenti. Ne scrivo perché anch’io penso, come Luisa Muraro, che sia impresa quasi impossibile riparare le relazioni rotte e che sia importante insegnare piuttosto a prevenire le rotture, “i sbreghi no se ripara più”1.

– Soprattutto negli ultimi anni ho realizzato, prendendo contatti con donne e uomini poco conosciuti, creando fiducia, tenendo conto di desideri, suggerimenti, informazioni che mi venivano date, decine di incontri pubblici su tematiche diverse negli ambiti più disparati: da scuole di vari livelli a carceri, da librerie a centri sociali, da biblioteche a centri donne e via discorrendo. Anche quando si trattava di presentare il libro, scritto e curato con Marina Santini, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, ogni volta è stata una prima, senza replica.

Dunque in queste occasioni c’è sempre una certa tensione: mi sento con la percezione all’erta come una direttrice d’orchestra. Ora immaginatela, questa direttrice di orchestra, mentre entra in teatro e incontra una critica musicale che comincia a dirle quello che non deve fare, che le svela che in sala ci sarà il tale e il tal altro, che sono loro il fulcro a cui va indirizzata l’esecuzione e le dice persino come dovrebbe dirigerla. Penso che la critica, pur ben intenzionata, sia fortunata perché la direttrice dovrà usare la sua bacchetta e non gliela romperà in testa come vorrebbe. Ma l’ansia è spesso ansiogena e può destabilizzare.

Per me è stato utile parlarne a una terza donna (la già citata “sorella d’elezione”) che, riconoscendo pienamente l’inopportunità dell’altra, nello stesso tempo mi ha fatto interpretare la sua ansia come interesse per la buona riuscita dell’evento; ha mostrato piena fiducia nelle mie capacità e nel mio lavoro e mi ha suggerito di vedere se in ciò che mi era stato detto c’era qualcosa che non sapevo e di cui valeva la pena tenessi conto. Così l’evento è stato un successo e ho potuto ridere di quell’agire ‘sconveniente’.

– Spesso mi sono impegnata con donne che volevano porsi al centro di un progetto comune e per questo sminuivano il lavoro che non erano in grado di fare, senza dare riconoscimento pubblico a chi lo faceva: a volte ringraziavano privatamente, soprattutto quando era loro indispensabile continuare a utilizzare i “servizi”. Se avevano lanciato un’idea, mettevano il copyright anche sulle successive modifiche, precisazioni, sviluppi che la pratica comune sempre genera. Io invece sottolineavo le variazioni sul tema e chi vi aveva contribuito, valorizzandone gli apporti. Nelle situazioni che ho avuto modo di conoscere direttamente o attraverso i racconti di altre, queste donne dimostravano una concezione verticistica dell’autorità, nominando con riconoscenza solo le relazioni con quelle più famose di loro da cui potevano ricevere lustro. Pretendevano l’esclusiva dell’autorità ma pretenderla è dimostrazione di averla perduta e il rischio di cadere nel ridicolo è presente. Ho dovuto usare un certo talento per evitare di cadere con loro.

Ho provato e mi è stata descritta la sensazione di essere derubata e il fatto che sia stata una donna a farlo ha prodotto in me una tale incredulità che ho preferito non vedere, minimizzare e continuare a offrire il mio contributo. Quando la situazione si è ripetuta più volte, mi è stata necessaria una lettura condivisa almeno con un’altra. Ho potuto così sottrarmi senza abbandonare il progetto. A volte ho trasformato l’impresa in nave scuola. Certo navigare sotto costa richiede tempo e tutto si rallenta. Ma, quando il bisogno dell’oceano delle relazioni politiche femminili è diventato impellente, sono andata al largo senza un distacco rancoroso con un contatto aperto. Ho smesso di rimpicciolirmi nel desiderio stretto di un’altra, ho respirato la forza del mio.

– Molta parte dell’esperienza femminile non ha ancora parole e io riesco a trovarle parlando con altre che mi sembrano vicine. A volte ne ho scelto una che si è rivelata disattenta per la fretta, non ha creduto potesse venire del nuovo dal nostro scambio: amava gli slogan, anche quelli del femminismo, e li appiccicava su quel che le dicevo. Sapeva già quel che tentavo di dire. E, peggio ancora, non ascoltando e non leggendo in modo fine, pensava di poter parlare per me pubblicamente, distorcendomi. È stato inutile tentare di spiegarle che si sbagliava. Continuava nelle distorsioni, non mostrava nemmeno di rendersene conto. Ho visto donne allontanarsi da queste mine vaganti. La presa di distanza è un modo per vivere: ne va di mezzo la messa in parole, il simbolico, di ciò che senti di essere e che fai.  Allora una terza può porsi in ascolto, facendo in modo che la distanza non diventi baratro. Io sono stata ascoltata e ho ascoltato.

Quando si devono realizzare progetti con una ‘disattenta ciarliera’, bisogna saper tacere, riparare appena possibile il suo pressapochismo, senza pensare di doverlo fare sempre e comunque. Se altre sono coinvolte, occorre far presente soltanto che i rapporti sono duali, non con un gruppo: che scelgano liberamente a chi far riferimento, osservandone le conseguenze.

– Provo ammirazione per donne appassionate e irruenti, con intelligenza acuta e capacità di individuare errori politici più rapidamente di molte. Accade però che non sappiano trattenersi: criticano pubblicamente prima ancora che una riesca ad aver chiara la propria posizione. Quella a cui è indirizzata la critica si trova nella situazione paradossale di domandarsi: “Che cosa non va bene di quel che ho detto se non l’ho ancora detto?”

E le altre del pubblico e io pure, sconcertate per la veemenza, facciamo ipotesi su cosa verta quella critica che quasi sempre si rivela giusta e finalmente capiamo dove va a parare. Dunque è importante parlarne, riconoscere il danno dell’impazienza che può aprire incomprensioni durature ma anche il merito dell’intuizione anticipatrice e il vantaggio che se ne può ricavare.

Il problema è che si tratta di una situazione pubblica. Quando ero amica di chi era stata attaccata, ho avuto la possibilità di farle vedere la sostanza. Quando parlavo con chi aveva assistito come spettatrice non sempre mi è riuscito di modificare l’idea che la forma fosse letta come sostanza di un modo irrispettoso e gerarchico di intendere le relazioni.

In passato per sopportare questi comportamenti dannosi usavo un metodo psicologico-giustificazionista: li collegavo ai racconti sulle loro vite che pubblicamente le donne in questione facevano, li consideravo traumi che le spingevano a una “coazione a ripetere”, ero una specie di rabdomante alla ricerca delle sorgenti nascoste: la rabbia si trasformava in pena per i lacci in cui le vedevo avvolte. Poi un’amica, arrabbiatissima per quello che le era stato fatto, alla spiegazione del mio metodo mi ha detto che tutte abbiamo avuto i nostri traumi, anche più dolorosi, eppure non ci comportiamo tanto male, che lei non aveva nessuna voglia di soffrire per cui sarebbe andata in luoghi più piacevoli. Così ho perso buone occasioni per incontrarla e ci limitiamo a sentirci per telefono. Ma ho avuto modo di riflettere su come può muoversi questa sorta di “trinità femminile” perché la creatività femminile non resti impigliata in rovi urticanti e si apra al meglio imprevisto.

  1. Per il progetto Riparare le relazioni Donatella Franchi e Adriana Sbrogiò hanno chiesto a donne e uomini a loro legate di inviare dei brevi testi sul tema che ricamati o stampati su tessuto hanno costituito la base per un’installazione.
    Il testo di Luisa Muraro è: Lasciate perdere l’impresa quasi impossibile del riparare le relazioni rotte, insegnate piuttosto a non romperle. /Ricucire le relazioni? insegnate piuttosto a prevenire le rotture, “i sbreghi no se ripara più”.
    La documentazione del lavoro è pubblicata in http://ripararelerelazioni.netsons.org/ ↩︎

Parlare bene delle donne si è rivelata espressione potente, sia durante l’incontro di VD3 così intitolato, sia nei successivi interventi pubblicati sul sito.  Molti i possibili utilizzi e le interpretazioni.

Nell’impossibilità di parlarne senz’altro bene, sospendere il giudizio per darsi il tempo necessario a comprendere, a spiegare posizioni o comportamenti di altre che avvertiamo intollerabili, svilenti, per noi e le nostre simili: questo il suggerimento di Lia Cigarini durante la discussione.

Il punto, mi pare, è trovare una spiegazione che sia politicamente efficace, che rilanci la relazione. La sfida è che anche la spiegazione non sia svilente o umiliante per le destinatarie. E cominci ad avere in sé qualche elemento di positiva elaborazione. 

È necessario, indispensabile per aprire e praticare un conflitto. Deve, può essere il primo di innumerevoli passi per creare un ponte con quelle – donne e posizioni – che più lontane non si potrebbe immaginare.

E il ponte è così fatto: comprensione/spiegazione per operare traduzione di linguaggi, per agevolare passaggio di esperienza e saperi, insomma per mettere in moto le tante mediazioni che la realtà consente.

Nel più profondo di me stessa so che si tratta di un lavoro difficile.

Ho avuto un pessimo rapporto con mia madre e solo nell’imparare a parlarne bene ho trovato la mia salvezza. Per questo, da quasi quarant’anni, presto assidua attenzione a ciò che è corso tra noi. Eppure, ancora oggi, ritrovo intere distese di significati incolti, tenuti lì a marcire, privi di una parola vivificante che ne dia una spiegazione dignitosa eonorevole sia per me sia per lei. 

Parlare bene delle donne è impegnativo. 

Ma questa formula a me pare un formidabile passo in avanti rispetto ai tempi in cui sapevamo solo dire quanto fossero difficili i rapporti fra donne. Arriva salutare e benefica in tempi che sono pieni di iniziative, di presenza e di sperimentazione di donne.

È uno scenario immenso e inusitato. Al nostro sesso toccherà accumulare esperienze, le più varie, senza avere precedenti. Occorrerà provare e riprovare, perché si sedimenti un sapere, un’eredità per quelle che verranno dopo. Sarà inevitabile, credo, sbagliare molto. Donne e uomini, amiche e amici dovranno dimostrare di saperci aiutare, di saper aiutare le tante nostre simili che sbaglieranno. 

Non se ne può parlare male, non si può.

Non c’è che prendersi il tempo necessario per parlarne bene. 

È quanto già accade, che donne e uomini accorrano a comprendere, analizzare, ipotizzare spiegazioni che possano giustificare gli errori che commettiamo. 

Ne abbiamo avuto un esempio recente nell’impegno di Luisa Muraro, Silvia Niccolai, Daniela Danna e tante altre che si sono spese per arrivare a comprendere che cosa si gioca nel caso della cosiddetta Gpa, lì dove il mercato, il capitale, le biotecnologie, i colpi di coda del patriarcato forse imperversano, ma dove è soprattutto importante comprendere errori, distrazioni, sviste di donne che possono ingannare e confondere noi stesse e molte altre.

Beati i puri di cuore ché questo mondo non è per loro, mi veniva da pensare, interpretando a modo mio la Beatitudine, dopo aver visto l’ultima opera di Alice Rohrwacher, ancora più visionaria e magica delle precedenti.

Da un’umanità contadina, misera, schiava, paurosa, ignorante per la cupidigia e l’inganno dei latifondisti – nel film il ferreo dominio della marchesa Alfonsina de Luna – a quella postindustriale delle periferie emarginate, i poveri sono sempre gli stessi, anzi di più insieme alle schiere dei migranti, e sempre più poveri; i ricchi sempre più lontani e invisibili.

Lazzaro (Adriano Tardiolo, al suo felice esordio), il mite, il semplice, il buono, passa dagli uni agli altri – dopo la sua miracolosa resurrezione che segna i due tempi – con la sua naturale gentilezza, l’inesauribile generosità e altruismo, l’assidua attenzione e cura per loro e le loro vite, senza quasi lasciare mai traccia. Invisibile anche a chi gli dovrebbe un gesto di gratitudine. Ma per queste donne e uomini, provati dalla fatica e dal disinganno, i suoi non sono beni spendibili e trasformabili in denaro sonante. Lui stesso, man mano che la storia procede, è sempre più un Lazzaro stralunato che si vede ricambiare la bontà con la sgarberia e la violenza, la fiducia con la noncuranza, l’inganno e le bugie.

Lazzaro non ha origini, non ha famiglia, non ha terra, è l’ingenuo, lo “scemo”, lo sfruttato dagli sfruttati perché questa è la condizione sua di stare nel mondo: innocente, fedele a se stesso, spontaneo, incapace di mentire e di tradire.

Nelle sue precedenti opere – Corpo celeste e Le meraviglie – Alice Rohrwacher tracciava per le sue protagoniste percorsi di presa di coscienza e di  possibilità di scelta di un futuro di libertà fuori da tradizioni, costrizioni e pregiudizi; qui, la suggestione è verso un’intera umanità, donne e uomini, che potrebbero prendere in mano il proprio futuro liberandosi dal dominio delle paure e scoprendo che il lupo della favola, che porta terrore e morte, è vecchio e debole e non può più diffondere né incutere timore (esplicito il riferimento al libro di Chiara Frugoni, San Francesco e il lupo. Un’altra storia, Feltrinelli, 2013).

La regista rinnova il desiderio degli altri suoi film di rapportarsi alla natura e ai suoi segni. In Lazzaro felice vediamo la natura passare da entità forte, potente e rispettata a una sua versione ridotta e deformata: piccoli bordi ai margini delle ferrovie, dove crescono erbe e arbusti, stentate verzure lungo strade ancora sterrate delle periferie abbandonate che contornano capannoni e depositi in disuso. Il suo desiderio di riscatto fa meglio comprendere la scena finale del film.

Lo sguardo della regista, attraverso quello di Lazzaro, è nuovo ed esplora, con un’immaginazione ineguagliabile, stati e momenti delle esistenze, stati nascosti che forse preferiremmo ignorare, muovendoci sinuosamente per non vedere, facendoci passare per normalità quello che normale non è.

Mi piace qui riportare ciò che ha scritto in una nota di regia sul film: «Racconta la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta, e li interroga con un sorriso.»

Lazzaro felice è stato premiato al 71° Festival di Cannes per la miglior sceneggiatura.

Qual è il nesso tra il “parlar bene delle donne” e la creatività di pensiero e di azione? E perché “parlare bene delle donne” nell’accezione data da Zamboni nella riunione di Via Dogana 3 del 13 maggio – una posizione presa a priori come postura […] un tempo di sospensione dall’accettazione o rifiuti immediati – è ciò che consente un approccio creativo ai problemi, alla ricerca delle risposte possibili e in una certa misura anche alla soluzione dei conflitti?

Queste due domande hanno percorso per qualche aspetto la riunione di Via Dogana 3 e qui vorrei ritornarci.

È mia convinzione che, più che un nesso, ci sia addirittura una sovrapposizione: la postura del “parlar bene” è la stessa che è necessaria per dare spazio alla creatività. Si tratta però di intendersi sul termine creatività, troppo spesso identificata con attività effimere, bizzarre, modaiole, talvolta screditate o screditabili (es. la finanza creativa!). Oppure con un imperscrutabile dono divino riservato a pochi eletti.

La creatività di cui parlo è uno stile di pensiero, una forma mentis che orienta alla trasformazione e al cambiamento in meglio rispetto all’esistente.

Fra tutte le definizioni di creatività che girano la più bella e la più convincente, non solo per me, è quella data da Henri Poincaré, matematico-fisico-astronomo-filosofo della scienza, vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Per Poincaré «creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove che siano utili»Cioè, nessuno crea dal nulla. Si parte da elementi esistenti (idee, concetti, fatti, dati di realtà, saperi) per generare connessioni e conclusioni nuove. Non basta tuttavia che ci sia “novità”. La novità deve essere “utile”. E io aggiungo, a scanso fraintendimenti, utile all’umanità.

Cosa caratterizza la forma mentis creativa? Ecco, è qui che trovo la perfetta corrispondenza con il “parlare bene delle donne”. Questa forma mentis presuppone apertura, richiede di abbandonare le risposte standard, le prime che ci vengono in mente a partire dalle nostre credenze, convinzioni, informazioni. Per dirla con Edgard Morin, «Si tratta di sostituire un pensiero che separa e riduce con un pensiero che distingue e che collega».

È il “passo indietro” di cui parla Zamboni.

È “una postura”: quella posseduta dai bambini (finché sono molto piccoli, quando fanno mille domande e si pongono tanti perché) e da tutte le innovatrici e gli innovatori che ci sono state/i nella storia. Potenzialmente posseduta da tutte/tutti e, specialmente, dalle donne che trovano continuamente risposte non necessariamente eclatanti ma certamente creative ai mille problemi quotidiani. Ugualmente, però, non è una postura facile, non è detto che sgorghi spontaneamente: siamo troppo abituate a visioni manichee, a contrapporre giusto-sbagliato, bello-brutto, bianco-nero, specie quando all’ordine del giorno ci sono i grandi temi che più ci coinvolgono.

È per questo che si afferma, e io lo condivido, che questa postura si può anche apprendere o incrementare.

Nella pratica creativa, per allenarsi a fare questo passo indietro, per favorire la capacità di scoprire nuovi nessi e accogliere nuovi punti di vista senza restare chiusi nelle proprie gabbie mentali, si richiede di sospendere il giudizio.

La sospensione del giudizio è un passaggio, un darsi il tempo di capire e immaginare prima di passare alla valutazione (valutazione, non giudizio!) e all’azione. È in questo tempo “di sospensione” che la mente riesce ad allontanarsi dal già detto, dal “si è sempre fatto così”, dalle risposte scontate. E si aprono strade nuove.

Io interpreto in questo modo anche l’atto creativo che ha dato vita al movimento femminista delle origini. Con un gesto concreto – la separazione dai maschi – molte donne si sono prese il tempo e lo spazio per fare un passo indietro rispetto a educazione, saperi trasmessi e convinzioni interiorizzate. E abbiamo cominciato a farci delle domande (perché questi nostri disagi? cosa vuol dire essere una donna?) e a scoprire che la posizione in cui ci siamo trovate con la nascita non è l’unica possibile, che da millenni sulla differenza sessuale è stato edificato l’ordine patriarcale, che questo ordinamento ha sancito la nostra secolare inferiorizzazione. E che tutto questo non è immutabile.

Per quel che mi riguarda la sospensione del giudizio, in questo caso, si è configurata come un atto di pulizia mentale rispetto ai filtri percettivi, culturali e simbolici che fino ad allora avevano operato in me. E, parafrasando Chiara Zamboni «ho fatto silenzio dentro di me per riorientarmi».

L’espressione “sospensione del giudizio”, nella discussione che ha fatto seguito alla riunione di Via Dogana 3 sul “parlar bene delle donne”, non è stata da tutte accettata. Forse fa pensare a una capitolazione, a una rinuncia o a un’autocensura. Per come la intendo io – e per come agisce nei processi creativi – significa autorizzarsi a fare come fanno i bambini che, di fronte a un oggetto, se lo girano tra le mani, lo guardano, lo toccano, lo annusano per capire cos’è, come e fatto. È autorizzarsi a esplorare e a guardare il paesaggio da più punti di vista.

È esattamente quello che Vita Cosentino afferma nel suo articolo Il bandolo della matassa (curiosamente contestando l’espressione “sospensione del giudizio”). Vita dice: «Alcune hanno interpretato come sospensione del giudizio quello che ha detto Chiara Zamboni nella sua introduzione quando ha affermato che “c’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà”. Io dissento da quella interpretazione, perché per me l’accento va posto su quel “prima” che è una postura da prendere e che cambia lo sguardo sulla realtà».

La sospensione del giudizio, a mio parere, si situa proprio in questo “prima” ed è ciò che consente di cambiare lo sguardo sulla realtà.

Mi viene in mente a questo proposito l’esercizio mentale di sospensione del giudizio che ho dovuto fare al momento dell’elezione della Presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Come trattenermi dal lanciare – ad es. sulla mia pagina Facebook – frasi screditanti o previsioni catastrofiche conoscendo il suo background berlusconiano e, peggio di tutto, la sua difesa della “nipote di Mubarak”? Ho resistito. Mi sono detta «Aspetta Silvia, magari nella nuova posizione succede qualcosa di diverso».

Se non vedrò qualcosa di diverso non mancherò di fare le mie valutazioni. Ma non credo di aver sbagliato, come primo passo, a starmene in silenzio.

Penso che così facendo, se dovrò esprimere una valutazione critica, non sarà di contrapposizione precostituita, ma sarà precisa e circostanziata. Indirizzata al comportamento, non alla persona.

Un tempo mi divertivo a dichiarare il mio orientamento sessuale così: sono bisessuale, non mi piacciono né gli uomini, né le donne. La mia visione dell’umanità, in effetti, è negativa e tiene conto dei due sessi: gli uomini sono cattivi, le donne sono deboli. Gli uni impongono rapporti di dominio, le altre li subiscono o li tollerano, pur di preservare il legame.

Un mio amico di gioventù, per correggermi, sostenne che la grande forza della sua fidanzata consisteva proprio nella capacità di sopportarlo. Aveva qualche ragione, ma la condizione di debolezza consisteva, per me, appunto nel dover impiegare la propria forza, per riuscire a sottostare ad un prepotente.

Questo è quello che ho visto, in sostanza e in vario grado, nella storia millenaria studiata sui libri o narrata nei film, e prima ancora, nella storia più breve e recente delle mie famiglie, dei miei circoli di amicizia, nei rapporti politici e di lavoro. Se ho visto sempre questo, ciò deve avere un fondamento ed essere diffuso. Oppure sono proprio io a guardare da una finestra che mi fa vedere le cose in modo poco o tanto deformato. Con questa visione primordiale, parlar bene delle donne (e di chiunque) è complicato e, al tempo stesso, una opportunità terapeutica. Riuscire a vedere cosa c’è di buono nella propria madre, nella propria nonna, nelle donne della propria vita, può forse salvaguardare qualcosa anche di me stesso. Una donna mi ha generato, lei e altre donne mi hanno nutrito, allevato, istruito.

Non saprei da dove cominciare, ma credo di essermi già avviato, per sentieri che ancora conosco poco. Da quando frequento la Libreria delle donne, parlo molto meno male delle donne (e anche degli uomini): un po’ per emulazione nell’ascoltare interventi, discussioni, nel leggere testi, più orientati a valorizzare che a svalutare e, persino a cercare il buono nel negativo; un po’ per l’adattamento ad un ambiente che cerca di aprire conflitti senza fare guerre, con il senso della misura e dell’equilibrio, anche a rischio di rinunciare a scegliere (cosa che talvolta un po’ mi irrita).

Il lato meno buono di questo mio adattamento, è che esito di più a dire quello che penso. Per esempio, penso, ma di solito non dico, che il concetto di vittima ha più accezioni e negare la donna vittima trova il suo significato più immediato nella negazione dell’oppressione. Nel rappresentare la donna debole (o vittima), c’è una (non l’unica) aderenza alla realtà, che non va rimossa e che trova una conferma nello stesso bisogno di ribadire che le donne vittime non sono. C’è, inoltre, il principio di rimontare una visione peggiore: quella della donna complice o profittatrice, che è stato poi il modo più violento di parlare delle donne da parte degli opinionisti ostili al #metoo. In questo senso, chiarire che le donne che hanno subito abusi, sono state vittime, è un parlarne bene.

Tra le cose che penso, ma esito a dire, c’è che non vedo in alternativa la politica nell’associazionismo, nel volontariato, nella cultura e la politica nei partiti e nelle istituzioni, né reputo una, per definizione, migliore dell’altra. Vedo pratiche politiche differenti, che possono convivere, pure nelle stesse persone, e aiutarsi a vicenda. Rispetto al tempo in cui esistevano grandi integratori sociali e grandi alternative di società, la politica è diventata meno interessante e più autoreferenziale. I limiti e i difetti imputabili alle donne politiche, anche nel confronto con il passato, non sono però diversi e più gravi di quelli imputabili ai loro colleghi maschi, anzi credo in media siano migliori, più competenti ed affidabili, e questo credo vada riconosciuto. Il parlar male della politica, dunque potrebbe non sfociare nel parlare molto male delle donne in politica.

L’omologazione penso dipenda, non da una natura irrimediabilmente maschile dei luoghi della politica istituzionale, rispetto alla quale le donne soccombono, ma dal fatto che le donne sono state finora troppo poche, per formare una sufficiente massa critica, per riuscire a stabilire relazioni tra loro più significative o paragonabili a quelle stabilite con i loro leader e colleghi maschi. Quando tra le poche, emerge una donna forte, autonoma, come nel caso di Laura Boldrini, arrivata ad assumere la terza carica dello stato, finisce poi per apparire isolata ed esposta ad un incivile bullismo sessista. Nonostante, si sia dichiarata subito femminista ed abbia intrapreso iniziative simboliche a favore delle donne, il femminismo, forse per disinteresse verso la sua pratica politica o per timore di essere strumentalizzato, non ha mostrato di sostenerla – e questo mi ha colpito – neppure nella forma minima della solidarietà.