Invito alla Redazione allargata di Via Dogana 3

domenica 7 aprile 2019 ore 10.00-13.30

Dal movimento internazionale per il clima, iniziato da Greta Thunberg e guidato quasi dappertutto da ragazze, è emersa a gran voce la richiesta, rivolta ai governi di tutto il mondo, di fare qualcosa, da subito, in difesa dell’ambiente perché non c’è più tempo e non abbiamo a disposizione un pianeta B. E’ l’idea di una nuova coscienza evolutiva che si fa strada e si pone davanti a noi come una promessa di cambiamento politico?

Con Ina Praetorius pensiamo che il cambiamento globale del clima dimostra che tutti e tutte dipendono da ciò che non possono produrre di propria iniziativa come l’aria, l’acqua e il tessuto delle relazioni umane. Inoltre i cambiamenti ecologici in atto testimoniano che uno sviluppo fine a se stesso, che risponde solo alle leggi del mercato, sta minacciando ogni aspetto della vita.

Le concezioni del mondo prodotte da un soggetto universale maschile che si è proposto disincarnato, esterno alla natura e in posizione di dominio mostrano tutta la loro arroganza e pericolosità.

Il pensiero politico delle donne, legato alla vita e alla convivenza umana, su questo ha detto molto e pensiamo che abbia ancora molto da dire: è stato proprio il femminismo a mettere in discussione tutti i dualismi: corpo/mente, natura/cultura, materia/spirito, pubblico/privato.

Quali contributi possiamo dare? Adesso.

Avvierà la discussione Chiara Zamboni

Nell’incontro sull’immigrazione i due interventi di apertura sono stati preziosi perché hanno portato due esperienze e quindi due punti di vista molto diversi. Molte hanno raccolto il contributo di Anna di Salvo che metteva a fuoco un punto di vista preciso: le donne all’interno dell’immigrazione. Quindi l’urgenza, il disagio, la necessità, ma anche la possibilità di sessuare il discorso dell’immigrazione e il modo in cui ci mettiamo in relazione con l’immigrazione.

Dall’altra parte il discorso e l’esperienza di Tahereh Toluian diceva altro: la sua è un’esperienza forte, magica per certi aspetti, quella di sentirsi contemporaneamente dentro due mondi, di essere quei due mondi. Un faro: mette insieme nell’esperienza individuale problemi che sono radicali nel mondo di oggi. Invece di guardarli, lei dice: io sono, io incarno l’attraversamento di questi problemi.
In misura minore è quello che sentiamo tutte e tutti. In misura minore (ma ognuna soffre i propri disagi e pensa che siano già belli pesanti) il peso dell’immigrazione lo viviamo tutte non solo perché ce l’abbiamo di fronte e vediamo il dolore e la cattiveria che sembra stiano mangiandosi tutto il resto, ma perché è vero che il luogo che abitiamo – quel concentrato di possibilità, di esperienze, di cultura, di identità storico culturale che ci è familiare – si è incrinato pesantemente. È a un bel punto di crisi. Ognuno di noi lo vive: negli sguardi, negli odori, nell’intrico di lingue e di toni che senti mentre viaggi sui mezzi pubblici… Io che da giovane andavo all’estero perché mi sembrava che in un’altra lingua potevo inventarmi meglio la mia vita, se però piglio il tram sotto casa e non c’è più una lingua che riconosco, allora l’immaginazione creativa si spegne e soffro la babele. Perfino l’andare lontano, il viaggiare è diventato un po’ senza senso, e ogni altrove è attraversato da inediti spostamenti. Ognuna potrebbe fare bei racconti su come vive sulla propria pelle la trasformazione del luogo che stiamo abitando… Simbolico che s’attacca alle case, ai suoni, ai movimenti.

Il vero problema, il nodo teorico e politico interessante, è che la cittadinanza come la conoscevamo non c’è più. Non si tratta solo di sessuare la realtà dell’immigrazione da una parte e di ripensare sia le paure sia l’accoglienza dall’altra. La posta in gioco, la scommessa che abbiamo di fronte, è che possiamo affrontare l’invenzione di una nuova cittadinanza.
Certamente attraversata dalla globalizzazione e dai movimenti delle persone.
Certamente secondo me – d’accordo con Ada Colau (ricordate il manifesto delle sindache Colau, Carmena, Hidalgo?) – radicata nel luogo/città, cioè nel luogo dove vivi. E che lì può essere reinventata, rimessa in gioco.
Certamente questa nuova cittadinanza è attraversata radicalmente, potentemente, come noi ben sappiamo e vogliamo, dalla differenza sessuale, dalla presenza delle donne nello spazio pubblico.
Infine, la nuova cittadinanza ha un altro elemento di radicale trasformazione: il prolungarsi della vita. Il rapporto con l’età e con la malattia è mutato, con grandi sconvolgimenti nel lavoro necessario per vivere (sia per il mercato che di manutenzione dell’esistenza, sia nella produzione che nella riproduzione, lavoro non toccato dall’automazione e fortemente legato alla immigrazione).

Il nodo politico che dobbiamo affrontare è dunque come vogliamo agire nel luogo che abitiamo – per molte di noi è Milano – per ripensare una nuova cittadinanza, radicata nelle nostre soggettività e attraversata da tutti questi nodi: migrazioni, postpatriarcato, interdipendenze.

Si illumina chi affronta il mare per espatriare, non si illumina neppure un poco il dolore degli abbandonati, vecchi malati, poveri nel nostro paese. Anch’essi muoiono, con fatica, a furia di patire e alcuni di suicidio. Ho visto tramite il filmato di Franca Caffa chi vive nello sporco del suo locale, nel disastro del degrado che non sa più contenere quando le forze cedono e la solitudine intontisce. Ho visto malati e famiglie disperate e miserabili a causa della malattia mentale di un componente. Io stessa per molti anni ho avuto la madre malata ed era sola e povera, mi sono disperata nel non saper risolvere né confortare i suoi problemi e nel sentirmi terrorizzata da tanta solitudine nella responsabilità verso di lei.

Ci vogliono molte cure e moltissimi soldi per sollevarsi da gravi malattie che con l’età avanzata incombono e non si può essere soli di fronte alla rovina delle proprie energie e della propria vita. È pochissimo quello che le istituzioni riescono a fare, sono necessarie molte più risorse, prese o non date ai ricchi e ancor più ai ricchissimi. Ci vogliono misure che rendano sopportabile l’esistenza con l’assistenza domiciliare e quella in case comuni che devono essere multigenerazionali perché gli anziani non possono vedere solo altri vecchi morenti.

Sono mostruose le condizioni dei ricoveri di vecchi e malati che non abbiano moltissimi soldi propri e dei parenti, li ho visti tutti, sono un inferno che non sembra possa esistere appena te lo togli dagli occhi; dovrebbero essere filmate tutte queste situazioni, mostrate continuamente come si fa con i salvataggi in mare perché l’opinione pubblica comprenda che cosa vivono di disperante molte persone assieme ai loro parenti e queste stesse si sentano esistere per la società.

Nella città e sui media sembriamo vivere in un nirvana di giovani e di adulti in benessere, divertiti dai negozi illuminati e dai nuovi consumi, ci tranquillizzano, mentre l’immagine di chi chiede aiuto è un peso; non vogliamo sensi di colpa, non si vogliono perdere privilegi che si sentono esilissimi, ma soprattutto fa paura ciò che non sembra trovi soluzione.

Molti di noi hanno visto qualche cosa che tengono nascosto, sanno di vicende penose che ad altri sono capitate, temono l’angoscia che hanno già provata. Per questo dietro il paravento di chi dice: “prima gli Italiani” tacciono ma si accodano o non hanno parole, o non osano parlare.

L’inesistenza di una cultura solidale, di una pratica più solidale e comune di quella che nella tua famiglia ti può prendere al collo e obbligare; la rabbia per l’isolamento in cui si è affrontato qualche cosa di difficile, la certezza di poter affogare in futuro se fossi costretto a chiedere aiuto sono le ragioni di una paura e un fastidio che ti fanno lasciare a Salvini il compito di chiudere quel discorso di condivisione che tu non hai praticato né visto praticare. Una pratica solidale non la costruisci solo con le belle parole, quante persone hanno fatto le pratiche per accettare nel loro monolocale affittato agli studenti o ai turisti un migrante? E perché dovrebbero perdere un introito se basta demandare allo Stato tutta la problematica senza dare indicazioni? O senza riceverne un piccolo tornaconto?

Se tutta la nostra realtà sociale potesse essere mostrata e condivisa, se fossimo abituati a renderla meno dolorosa, a soccorrerla e vederla soccorsa, se la solidarietà fosse stata maggiore per noi e per gli altri, se ci fosse più giustizia sociale e meno dolore non farebbe impressione oggi vedere quanti scappano da paesi più poveri per aiutare chi resta o per mettersi in salvo o cercare di migliorare la propria condizione. Sembrerebbe più normale. Se fossimo stati abituati a sollevare le difficoltà agli altri e a vedere sollevate le nostre non saremmo così spaventati e incattiviti.

Oggi a Milano chi abbisogna di terapie fisiche, necessarie a moltissimi che abbiano compiuto settanta/ottanta anni, deve a fatica riuscire a entrare in una lista di attesa per l’anno prossimo, aspettare un anno, o spendere almeno 1000 euro. Se ne hanno 700 in tutto aspettano e sperano la morte.

L’ingiustizia del tutto italiana sugli italiani ci ha convinti che non ci siano alternative a una piramide di classe con una base larghissima di emarginati, è colpa della scelta politica della sinistra di concordare la piramide di classe con le destre e farla apparire come la naturalità dell’esistenza, la giusta organizzazione sociale e questo ha creato un riflusso di invidia e indifferenza che si abbatte, almeno su chi non è stato procreato qui ma altrove.

Davanti a questi tanti giovani, grandi e coraggiosi che vogliono approdare da noi io penso: “ce la faranno!”; oppure resto senza parole perché non posso pensare di dover dare ogni giorno un aiuto solo io, solo a loro. In realtà ogni giorno da anni lo faccio, come lo faccio con molte associazioni politiche e culturali, ma diventa troppo oblativo un infinito dare senza che la politica ti porti un tornaconto.

Una integrazione degli immigrati è indispensabile, non possono essere l’esempio del massimo sfruttamento che il padronato vuole. Dal film su Riace, dagli articoli di Muraro e da quello di Mammani, colgo il desiderio che è mio: i più disperati degli italiani devono stare molto meglio, devono essere assistiti economicamente e relazionalmente, magari proprio dagli immigrati, usando denaro pubblico per istruire questi ultimi nella lingua e nell’assistenza, congiungendo due bisogni diversi, realizzando una felicità comune che deve essere necessariamente mostrata. Anche i giovani possono lavorare per ciò che serve al paese: l’assistenza a chi non è del tutto autosufficiente, a chi è solo, è questo che oggi serve all’Italia per alleviare le preoccupazioni di chi oggi assiste da solo con aiuti economici irrisori o inesistenti. Immigrazione e disoccupazione possono essere investite di risorse che rincuorano tutti quanti, divenire iniziative di gioia e di relazione comune che attragga anche gli indifferenti quando la possano vedere. Usiamo i mezzi di comunicazione per condividere cultura e solidarietà positiva, non per spaventare.

Chi si ostina a giudicare con parole inutili la popolazione che non intende solidarietà agli sconosciuti accresce il fastidio di essere appunto sconosciuti agli altri e ingrossa le fila di chi incarna la peggiore reazione.

È necessario trovare una mediazione che restituisca volontà positive, è necessario comprendere chi non vede soluzione e prospettargliela. Come Riace ha fatto, utilizzando i soldi degli immigrati per farli vivere in un paese che guadagnava dalla loro presenza la ristrutturazione delle case, l’impiego di insegnanti per la scuola, quello di personale per la creazione di un poliambulatorio che diveniva una opportunità anche per gli abitanti. A Milano c’è bisogno di molta assistenza relazionale, di accompagnamento, di impieghi per il personale paramedico, di impieghi per la ristrutturazione delle case popolari. Mettiamoci un poco di professionalità nella lotta politica.

Mi ricollego all’intervento di Sara Gandini (all’incontro di Via Dogana 3, Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, 3 febbraio 2019) che ha parlato di “aggressività machista che è stata sdoganata”, per dire il mio pensiero al riguardo.

Queste forme di populismo, di sovranismo in giro per il mondo, alla Trump e alla Salvini per intenderci, sono tutte improntate dalla forma mentis patriarcale. Hanno un sovrainvestimento sulla virilità come risorsa simbolica e politica e consistono nel mostrare i muscoli, nell’esibire il fallo. C’è da essere consapevoli che hanno come radice prima il dominio dell’uomo sulla donna. Il possesso dell’uomo del corpo della donna è il prototipo di tutte le altre forme di dominio e di inferiorizzazione. Un filo rosso unisce tutte queste forme di dominio e di esclusione. E questo mi riguarda, ci riguarda come femministe. È una concezione del potere in cui le donne hanno operato una rottura a cominciare dal Metoo a cui è seguito tutto quello che sappiamo, e altro ancora continua a succedere.

Nell’invito a questa riflessione, abbiamo scritto che oggi nel mondo si è aperto uno spazio di libertà femminile nella vita pubblica. Negli USA un momento significativo di cambiamento sono state le recenti elezioni, in cui parecchie donne sono entrate nella politica per spinta propria, ispirate dal Metoo e legate a reti civiche locali, e non agganciate al partito democratico, come mostra la ricerca condotta da Lara Putnam e Theda Skocpol (L’Espresso, 6 gennaio 2019).

Così lì oggi capita che una senatrice democratica di 52 anni, Kirsten Gillibrand, è pronta a candidarsi alla Casa Bianca nel 2020 con questa motivazione: “Ho un figlio di 14 anni e non posso permettere che cresca in un Paese con un presidente misogino che ripete “l’ho acchiappata per…” (Repubblica, 4 febbraio 2019).

Le sue parole fanno capire bene come da parte femminile si stia aprendo un conflitto politico e simbolico con queste forme di potere improntate al machismo e alla misoginia. E quello che capita in USA si ripercuote in tutto il movimento internazionale delle donne. Uno di questi terreni di conflitto si riferisce proprio alle migrazioni e alle politiche messe in atto al riguardo. Per questo – oltre a quanto è stato detto nelle belle relazioni iniziali – mi sembra importante prestare attenzione a quali mosse stanno portando avanti, sia negli Stati Uniti che qui in Italia, alcune donne che hanno cominciato a muoversi con libertà nella politica istituzionale. In questi giorni sono andata a cercare nelle cronache dei giornali, nelle interviste che hanno rilasciato, le loro parole, quelle che danno senso ai gesti di libertà che hanno compiuto.

Ho in mente Nancy Pelosi che ha tenuto testa e per ora ha vinto su Trump nello scontro sul finanziamento al muro che il presidente vuole costruire ai confini con il Messico e il conseguente shutdown. Il braccio di ferro è cominciato dopo una lite accesa nello studio ovale e, andandosene, Nancy Pelosi lo ha apostrofato così: “Ho 5 figli e 9 nipoti e so riconoscere un capriccio” (La Repubblica, 27 gennaio 2019). E da quel momento non ha ceduto di un millimetro e alla fine Trump è stato costretto a fare marcia indietro sullo shutdown, senza aver ottenuto quello che voleva. La sua mossa politica è stata quella di togliere credito a quel terreno simbolico e ridicolizzare il personaggio. Infatti quello che per Trump e i suoi sostenitori era una prova di forza da “vero uomo” agli occhi di Nancy Pelosi era un comportamento da bambino bizzoso.

Il suo sguardo dice molto anche delle vicende di casa nostra e, guardando con i suoi occhi, anche noi riusciamo a vedere un bambino capriccioso che si ostina a gridare “porti chiusi porti chiusi” al di là di ogni ragionevole mediazione. In questi giorni anche qui in Italia ho visto capitare alcuni gesti di libertà femminile e voglio metterli in risalto. Mi riferisco alla mossa di Stefania Prestigiacomo che ha tranquillamente ignorato gli ordini del ministro dell’interno e si è messa alla guida del gommone che ha portato lei e altri due parlamentari (uno di +Europa e uno di Leu) a bordo della Seawatch, ancorata nel porto di Siracusa. La sua motivazione è stata quella che Ada Colau, sindaca di Barcellona, e Annarosa Buttarelli, filosofa di Diotima, chiamano prossimità. La parlamentare è originaria di Siracusa e ama la sua città che considera civile e accogliente e nell’intervista dice: “Adesso da giorni c’è una nave davanti a casa mia con 47 disperati a bordo. E io che faccio, sto a guardare? Andare a verificare la situazione di persona e cercare una soluzione per queste persone mi è sembrata una scelta naturale e umana. Tutto qui” (La Repubblica, 28 gennaio 2019). Qui la mossa è quella di non obbedire a ordini ingiusti e appellarsi a un’altra legge.

L’altra mossa che ho individuato è quella di criticare l’uso che si fa della “forza virile” così esibita: viene chiamato “codardo” chi la usa contro deboli e indifesi.

È la mossa che ha fatto Mara Carfagna nei confronti di Salvini: “Prendersela con il più piccolo del cortile è da codardi. (torna l’accusa di infantilismo) Lo fa uno Stato debole che ha bisogno di mostrare i muscoli” (Il manifesto, 29 gennaio 2019).

Sullo stesso filo di ragionamento è la lettera a lui indirizzata da una immigrata nigeriana che così conclude: «Vedo che non ho mai pronunciato il suo nome. Me ne scuso, ma mi mette paura. Quella per l’ingiustizia di chi sa far la faccia dura contro i deboli, ma sa sorridere sempre ai potenti. Vuole che torniamo a casa? Parli ai suoi potenti, a quelli degli altri paesi che occupano di fatto casa mia in una guerra velenosa e mai dichiarata. Se ha un po’ di dignità e di coraggio, la faccia brutta la faccia a loro» (Famiglia Cristiana, 9 gennaio 2019).

Mi sono interessata alle parole di donne della politica istituzionale perché finalmente mi è sembrato di cogliere qualcosa di inedito e di libero nel loro muoversi nella vita politica. Per questo ho deciso di custodirle e riproporle in questo incontro tenendole insieme a quelle di un’immigrata clandestina. Per non perderle e farne un elemento di forza. D’altronde qui in Italia abbiamo già sperimentato, ai tempi del governo Berlusconi, quanto parole di donne che colgono nel segno possono produrre un terremoto politico.

Questa domenica dedicata alle nostre pratiche con le donne immigrate e con gli uomini immigrati è stata aperta da due relazioni molto interessanti di Tahereh Toluian e Anna di Salvo della Città felice di Catania. Mi soffermo sulla relazione di Anna.

Mi ha colpito la concretezza e la chiarezza di Anna nel portare avanti, anche in ambienti “difficili” il nostro modo di affrontare i problemi, in emergenza o meno.

Non c’era sentimentalismo nelle sue parole, ma sentimento e consapevolezza che per avere risultati la pratica politica è essenziale.

E su questo ho cercato di dare un contributo.

La questione, a mio parere, si divide in livelli diversi: i diritti, i bisogni e le soluzioni.

Per i diritti, mi riferisco sempre a “non credere di avere dei diritti”, testo chiarissimo, e alle giuriste di cui mi fido, per i bisogni alla mia esperienza. La rilevazione dei bisogni ormai è una tecnica sperimentata in vari ambiti, ma con le donne in disagio è necessario entrare in relazione per capire davvero e rispettare non solo i bisogni, ma anche i loro tempi e i loro… silenzi. In quanto alle soluzioni – parola grossa – diciamo tentativi di soluzioni. Come quello di costruire luoghi e metodi per favorire la consapevolezza di essere nel mercato del lavoro con le proprie ritrovate o aggiornate competenze. L’autonomia non è soltanto un essere, ma anche una forma di dover essere con cui confrontarsi: regole, tempi, metodi, relazioni con… clienti e finanziatrici/tori, analisi di mercato, collaborazioni ecc. Un luogo, realmente fondato e organizzato sulle relazioni, può produrre desiderio di lavorare anche da sole o collettivamente. Un luogo che tiene conto del percorso fatto e dei luoghi in cui è stato fatto, ma non fa troppi sconti sulla concretezza e sul desiderio di…

E quindi arriviamo al nocciolo, che peraltro Anna Di Salvo ha descritto benissimo. Oggi non possiamo più parlare di accoglienza, termine strausato, ma anche manipolato, confusivo e strumentalizzato. Tutto è accoglienza e se muore qualcuno, è sempre colpa di chi non capisce cosa vuol dire fare accoglienza: magari tenere donne, bambini e uomini in una nave nel mare in tempesta per settimane e poi scaricarli alla Chiesa o alle chiese.

Cambiare il linguaggio, le parole che usiamo è sempre segno di un cambiamento simbolico, già avvenuto dentro e fuori di noi. Invece di accoglienza userei “in relazione con”. Un modo preciso per definire chi sono io e chi è con me in una relazione. Mi sembra per noi tutte indispensabile. Ricordo sempre le parole di Lia Cigarini: è da chiarire da dove parli, come ti collochi.

La posizione geopolitica della Sicilia e di Catania, la città dove vivo, ha favorito in questi anni l’approdo al porto di Catania di navi delle Ong umanitarie o di navi militari e guardacostiere con a bordo donne, uomini e bambini, bisognosi di protezione umanitaria, provenienti da paesi africani e medio orientali, per lo più partiti dalle coste libiche e salvati dai naufragi nel canale di Sicilia. Questo, e la presenza in città dell’agenzia Frontex per i respingimenti e del Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo (Cara) di Mineo nel territorio circostante, hanno fatto sentire a me e alle amiche della Città Felice di Catania la necessità di impegnarci, di non voltare la faccia dall’altra parte. Così ci siamo messe in contatto con altre realtà, collaborando con loro con le nostre pratiche e le nostre scommesse femministe.

Per esempio, venute a conoscenza degli stupri subiti dalle donne migranti nei centri di detenzione libici da parte di uomini delle milizie mercenarie locali, ci impegnammo, collaborando alla stesura della Carta di Lampedusa nel 2012, affinché il linguaggio adoperato comprendesse le donne migranti e per fare chiarezza in alcuni passaggi tra i quali quello che se buona parte delle donne che giungevano sino a noi si trovavano in stato di gravidanza, questo era dipeso dalle violenze subite in Libia e non perché avessero deciso di partire dai loro paesi in stato di gravidanza. (1) Già a Catania, avendo saputo del disagio in cui si trovavano le donne migranti ospitate insieme agli uomini in strutture cittadine senza criteri di civiltà e senza alcuna distinzione di sesso, avevamo chiesto a esponenti del comune e alle associazioni accreditate di porre fine a quello stato di promiscuità, separando le donne dagli uomini affinché non condividessero spazi, dormitori e bagni.

Con le “Mamme di Lampedusa” e anche con le “Mamme No Muos” di Niscemi (Caltanissetta) e di Caltagirone (Catania) dove opera anche l’associazione “Astra”, le donne mediche di Medu (Medici per i diritti umani) nonché dell’associazione “Lasciateci entrare”, con le quali eravamo entrate in relazione organizzando insieme manifestazioni e recandoci frequentemente non solo alla base militare-satellitare del Muos di Niscemi (realizzata in una secolare sughereta protetta patrimonio Unesco) ma anche dinanzi ai cancelli del Cara di Mineo (Villaggio degli aranci) per incontrare donne e uomini migranti, iniziammo una riflessione che ci portò ad acquisire la consapevolezza del forte nesso esistente in questi ultimi anni tra lo svolgimento delle guerre e il flusso delle migrazioni, soprattutto quando ci sono donne: sono in primo luogo i conflitti bellici, non le aspettative di una vita migliore come nel caso di molti uomini, a spingere sempre più donne a lasciare le loro case e intraprendere quei viaggi con i loro bambini/e che molto spesso le hanno portate a morire per annegamento o per altri violenti motivi. In seguito a questa visione secondo noi più vera della questione e a nuove letture in merito alle cause della migrazione, attribuibile in buona parte alla militarizzazione, abbiamo pensato lo slogan “Libere da violenza e militarizzazione” trascrivendolo su documenti e volantini e in un colorato striscione esibito più volte durante manifestazioni e mostre mail art, una delle quali è stata la mostra “Lampedusa porta della vita” curata da Katia Ricci e Rossella Sferlazzo (2) esposta al LampedusaInFestival nel 2014. Ma libere da violenza non solo causata dalle guerre. In secondo luogo, infatti, oltre alla violenza delle guerre, le donne di paesi africani e d’oriente che abbiamo conosciuto ci hanno parlato della cultura misogina che regna nei loro paesi e nelle loro famiglie, che sono costrette a subire e dalle quali molte sono fuggite. E che spesso hanno ritrovato anche qui. Sono donne che abbiamo incontrato in varie situazioni: migranti incrociate ai cancelli del Cara di Mineo o incontrate grazie ai nostri rapporti con la Rete Antirazzista Catanese e gli/le amiche eritree di “Africa unita”, anche donne prostituite durante il giorno dentro lo stesso Cara o lungo le strade provinciali (3), o donne fuggite dal Cara perché la loro richiesta d’asilo era stata bocciata dalla commissione, conosciute nelle loro brevi permanenze a Catania mentre erano in attesa di partire per altri paesi europei. Ancora abbiamo conosciuto donne straniere che svolgevano l’attività di mediatrici culturali, collaboratrici domestiche o badanti con le quali siamo entrate in contatto per l’attività che Nunzia Scandurra svolge allo sportello della CGIL di Catania per essere d’aiuto in qualità d’avvocata. O donne straniere desiderose di fermarsi a vivere a Catania, che Giusi Milazzo responsabile del Sunia in Sicilia, sostiene e orienta nella loro faticosa ricerca della casa… Anche Mirella Clausi da anni segue nel suo percorso di inserimento nella vita cittadina una donna proveniente dal Marocco…

Un problema importante che stiamo affrontando è quello del modo di considerare la prostituzione, grazie agli scambi con le amiche operatrici dell’associazione anti-tratta “Penelope” (la cui responsabile Oriana Cannavò è co-fondatrice insieme a molte donne e uomini di realtà catanesi della rete antiviolenza La Ragna-Tela), che da tempo lavorano, e con risultati, per liberare dalla prostituzione giovani donne africane e sudamericane vincolate ai loro carnefici da riti woodoo e joujou e da debiti contratti per ingenti somme in Nigeria o in altri paesi dove sono state raggirate con false offerte di lavoro in Europa: è di qualche mese fa la condanna a Catania a 8 anni di reclusione a uomini e donne di un racket della prostituzione grazie all’individuazione dei/delle componenti della banda e alla denuncia alle forze dell’ordine da parte delle donne di Penelope. Ebbene, insieme a loro da tempo siamo in conflitto politico con uomini (anche alcuni celebri studiosi delle questioni geopolitiche e delle migrazioni nel Mediterraneo) e donne di alcune forze di sinistra non solo catanesi, operatori e avvocate che lavorano al Villaggio degli aranci, a causa dell’indifferenza e della superficialità con le quali viene vista la questione dell’induzione alla prostituzione delle donne migranti all’interno e all’esterno del Cara e nel territorio circostante, che va affrontata invece a nostro avviso in maniera radicale senza alcuna giustificazione e indulgenza. Da parte maschile notiamo solo indignazione riguardo allo sfruttamento economico delle donne prostituite da parte di uomini del racket della prostituzione (solitamente africani o arabi), in analogia allo sfruttamento della forza lavoro dei migranti nelle raccolte stagionali da parte del caporalato. Mentre si fa rientrare quasi nella “normalità” il fatto in sé della prostituzione, il dato che le donne vengano prostituite, come “qualcosa difficile da sradicarsi” e legato alla necessità economica, in quanto esse non avrebbero altra soluzione per estinguere il debito contratto. Ci sono stati avvocati/e che lavorano al Cara di Mineo per assistere i/le migranti, che interpellati da noi in merito alla questione prostituzione se ne sono lavate le mani dicendo che se la denuncia ai loro aguzzini non parte dalle stesse donne loro non possono farci niente. Troviamo inaccettabile la sottovalutazione del significato misogino e sessista del permanere in questo stato di negligenza, e lo diciamo, ma non riusciamo ancora a incidere. Ci siamo rese conto che mentre nel nostro lavoro sulla città da molti anni ci viene riconosciuta autorità da parte di donne e uomini di associazioni locali (come nel caso del lavoro con il comitato “Babilonia” nel quartiere di San Berillo a Catania), su queste questioni c’è quasi una impermeabilità alla politica delle donne.

Altro punto di conflitto con molti uomini di sinistra, è la loro veemente reazione in difesa degli uomini migranti o stranieri che commettono violenze sessiste nei confronti delle donne occidentali o dei loro stessi paesi. Confliggere su questo richiede di approfondire il discorso perché è vero che c’è un accanimento mediatico strumentale contro gli uomini migranti rispetto a quelli occidentali che commettono violenze. Quello che facciamo è mostrare la radice della violenza nella sessualità maschile, che riguarda personalmente anche loro, attivisti antirazzisti. Il problema si ripropone continuamente perché la partecipazione della Città Felice e della rete La Ragna-Tela a varie iniziative a Catania, Niscemi, Riace, Messina, Palermo, in collaborazione con realtà e reti antirazziste, antagoniste e pacifiste quali la Rete Antirazzista Catanese, Comitato No Muos, No Sigonella, Oxfam, Borderline Sicilia, Catania 2018…, apre a buone occasioni di scambio e di conflitto. Per esempio, quando nominiamo la violenza maschile che le donne migranti subiscono in Libia, nella stesura dei documenti comuni riguardanti le migrazioni, ci viene opposto che le violenze non le subiscono solo le donne ma anche uomini e ragazzi. Anche da parte di molte donne, che non vogliono discriminare gli uomini picchiati e i giovani violentati. Questa volontà di spostare l’attenzione dalle donne, tutte le volte che viene affrontata la questione della violenza maschile, è in realtà un modo di sviare l’attenzione dal fatto che chi la commette sono uomini. Un nodo per molti/e irrisolto, e noi cerchiamo di mantenere aperte le contraddizioni, non demordiamo.

Negli ultimi anni Catania è diventata anche e sempre più riferimento per molte realtà pacifiste a carattere internazionale. Per esempio, la Caravana migrantes buscando desaparecidos composta da donne e uomini provenienti da varie parti del mondo ogni primavera fa capo a Catania per incontrarci. Lo scorso aprile insieme a loro abbiamo accolto e sostenuto al porto di Catania le donne e gli uomini componenti l’equipaggio della nave Acquarius della Ong SOS Mediterranée e visitato la nave. Le Madres buscando desaparecidos intraprendono solitamente da Catania i loro viaggi annuali per sensibilizzare luoghi e genti riguardo la tragedia e l’ineluttabilità delle migrazioni. Con loro abbiamo messo a fuoco l’importanza di esporre durante le loro iniziative anche le fotografie delle figlie scomparse oltre a quelle dei figli. La primavera scorsa abbiamo avuto a lungo con noi anche la carovana Abriendo fronteras: oltre 250 donne e uomini provenienti dai paesi baschi che hanno visitato, manifestando con espressioni e performance dal carattere e dal linguaggio femminista soprattutto da parte delle donne componenti la carovana, i luoghi della militarizzazione in Sicilia e della reclusione dei/delle migranti (Cara e Cie siciliani di Catania, Pozzallo, Trapani, Lampedusa)… Voglio ricordare anche i giorni vissuti febbrilmente a fine agosto 2018 al porto di Catania insieme a oltre 3000 presenze tra donne e uomini per manifestare nelle forme più imprevedibili della creatività politica e per pretendere che le donne, i minori e gli uomini sequestrati a bordo della nave della Guardia costiera Diciotti venissero autorizzati a scendere. Finalmente vista la partecipazione di tante siciliane/i che non dismettevano il presidio e la protesta neanche di notte, e visto l’interessamento di Laura Boldrini, in un primo momento, che è riuscita a ottenere che le donne venissero ricoverate in ospedale, e della Cei dopo, trascorsa una settimana i e le migranti rimaste sulla Diciotti sono stati fatti scendere e assegnati a strutture Sprar (adesso chiuse) e strutture ecclesiastiche… Quelli/e che eravamo rimasti/e in forma stanziale al porto, avevamo dialogato con loro con fiaccole e varie emissioni luminose di notte, con musiche, canti, tuffi acrobatici che i e le giovani presenti facevano per tentare di raggiunge la Diciotti a nuoto, ed enormi scritte in inglese su striscioni con cui davamo il benvenuto e chiedevamo loro di non smettere di sperare e continuare ad avere forza e fiducia perché c’era chi era contento/a di saperli vivi e li avrebbe voluti in Sicilia!

In tutto questo fervore di attività, l’errore politico delle persone benintenzionate, e anche nostro, è stato quello di non aver saputo comprendere per tempo l’entità del malessere generale e di non aver avuto né desiderio di confronto né atteggiamenti di disponibilità al dialogo, quanto piuttosto di impotente disprezzo, verso coloro che non la pensavano allo stesso modo, definendoli populisti, ignoranti, creduloni, manipolabili… Non è stato valutato a dovere quel disagio sociale che aleggiava da tempo in Italia così come in molti altri paesi occidentali, disagio dovuto alla mancanza di una buona politica, dell’occupazione a favore dei/delle giovani costrette a loro volta a emigrare, della corruzione, del sessismo, dei brogli, della discriminazione sociale e culturale.

Adesso ci diciamo che la mediazione culturale la dobbiamo fare con le catanesi e i catanesi. Ma abbiamo perso molto tempo, ci dovevamo pensare molto molto prima. Recentemente a Catania abbiamo montato con le realtà con le quali collaboriamo, un gazebo in una strada del centro cittadino che ci vede presenti in una turnazione di donne e uomini che oltre a distribuire materiale informativo utile a stranieri/e e migranti di passaggio o stanziali a Catania, cercano di comunicare nella maniera meno animosa possibile e ascoltare uomini e donne che rifiutano la presenza dei migranti nel nostro paese. Stiamo cercando di modificare quell’atteggiamento “di sinistra” che ha causato rigide contrapposizioni nel modo d’intendere la questione e che nuoce fortemente al tentativo di dare corso a una reale convivenza con i/le migranti nelle città.


Note:

1- Faccio riferimento per questo ai film Terraferma del regista Crialese e Orizzonti mediterranei delle registe Maria Grazia Lo Cicero e Pina Mandolfo. E rimando per le altre questioni qui trattate anche ai film Come il peso dell’acqua e L’ordine delle cose del regista Andrea Segre, al film Dove bisogna stare e al libro Cicogne nere dell’eritreo Abdel Fetah.

2- L’opera-installazione artistica realizzata a Lampedusa nel 2015 dalla scrivente e dalle Mamme di Lampedusa dal titolo “La porta della Vita” rimanda, proponendo la figura simbolica della donna-mare Abissa che compare in prospettiva dinanzi alla porta, alla grandezza femminile che nella “questione migranti” e nel rispetto dell’ambiente e dell’esistente tutto, sa come procedere e dare sollecitazioni e indicazioni positive.

3- Sull’induzione alla prostituzione delle donne migranti, vedi l’ultimo numero speciale di A&P della MAG Verona, “Le Città all’opera”, dicembre 2018.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, del 3 febbraio 2019

Quello delle migrazioni è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Mi riguarda in prima persona e da diversi punti di vista. Devo la mia nascita all’immigrazione. Mia madre è italiana e mio padre un immigrato iraniano. Conosco quindi la fatica della ricerca delle necessarie mediazioni quando si incontrano mondi diversi.

La mia lingua madre è l’italiano, sono nata e cresciuta qui in Italia e ho la cittadinanza italiana ma tengo molto alle mie doppie origini che per me hanno significato una doppia appartenenza e contemporaneamente una doppia estraneità.

Dalla rivoluzione del ’79, per molti anni, la mia famiglia ha offerto prima accoglienza a donne, uomini e bambini che scappavano dall’Iran. Ho quindi familiarità con la determinazione e la forza del desiderio di felicità di chi lascia il proprio paese, andando incontro ad altro e altri, anche quando l’unico movente sembra essere la necessità che non lascia spazi di libertà.

Ho vissuto due volte l’esperienza dell’emigrazione, in condizioni molto diverse. A sedici anni ho dovuto lasciare la Sicilia, in seguito a minacce e intimidazioni mafiose, perché mio padre era uno degli imprenditori che si rifiutava di pagare il pizzo. Mia madre, per proteggerci, volle portare me e mio fratello a Milano. Siamo partiti di notte, di nascosto, senza salutare né amici né parenti. Per mesi non abbiamo potuto metterci in contatto con nessuno. Fu uno strappo violento.

E poi a trent’anni, con mio figlio ancora piccolo, ho seguito mio marito negli Stati Uniti, dove gli veniva offerta un’interessante occasione di lavoro e ricerca.

So quindi cosa significa dovere ma anche volere lasciare il luogo in cui si è nati e cosa significa ricostruirsi un mondo nel luogo in cui si arriva. Ma so bene che la mia è un’esperienza da privilegiati: ho comunque il passaporto giusto.

Per le mie origini, mi trovo in una posizione che non è fissa. Un punto di vista, il mio, in continuo movimento tra dentro e fuori. E quindi oggi la deriva nazionalista, il risentimento, l’odio, la criminalizzazione degli stranieri, espressioni come “sostituzione etnica”, mi colpiscono profondamente, mi sento chiamata in causa, parlano anche di me. Al di là del fatto che le mie preoccupazioni siano fondate, mi chiedo se in futuro ci sarà posto per me e i miei figli in Italia, se dovrò lasciarla e se ci sarà un luogo in cui saremo accolti.

La violenza delle parole che circolano, i numerosi episodi di violenza razzista contro stranieri o italiani dalla pelle nera, mi fanno paura. E allo stesso tempo molta rabbia, mi sento tradita. E mi chiedo che effetto faccia tutto questo sui giovani immigrati, sui giovani di seconda e terza generazione. Mi chiedo che futuro stiamo costruendo con loro.

Come parte di questa comunità che è l’Italia, inserita in una più grande che è l’Europa, io vivo sulla mia pelle quotidianamente le difficoltà della crisi economica. Conosco la fatica del non lasciarsi annientare dal senso di impotenza e anche di umiliazione, a cui vorrebbe condannarmi un sistema, enormemente più grande di me, che detta spietate regole ma che mi vuole responsabile dei miei fallimenti, in quanto imprenditrice di me stessa.

Ma oggi quello che mi procura più dolore è il sentirmi complice di politiche direttamente responsabili della morte, della tortura e del trattamento disumano a cui vengono condannate le donne, i bambini e gli uomini che lasciano i loro paesi, perché devono o perché vogliono, mossi dal desiderio di una vita migliore per sé e per i propri cari.

Nell’articolo Migranti e la catastrofe umanitaria dell’Europa, Franca Fortunato cita Simone Weil: «Ogni volta che dal fondo di un cuore umano risale quel lamento infantile che Cristo stesso non riuscì a trattenere “Perché mi si fa del male?” vi è certamente ingiustizia».

E questa ingiustizia è sotto i nostri occhi. È perfino esibita e rivendicata come successo politico. Sappiamo delle morti, sappiamo della feroce violenza subita dalle donne nel loro viaggio, cosa accade ai loro bambini; quali sono le disumane condizioni di vita negli hotspot (centri di identificazione e registrazione) delle isole greche in seguito agli accordi tra Ue e Turchia; cosa sono i lager libici dove, grazie al pilatesco accordo con la guardia costiera libica, facciamo respingere bambini, donne e uomini. Insomma sappiamo tutto. E per me è diventato insopportabile assistere a questa ingiustizia.

Ci siamo confrontate moltissimo in redazione e so che questo è un sentire comune a molte di noi. Anche a quelle di noi che temono le migrazioni di massa, che nella storia dei popoli hanno spesso significato la cancellazione della civiltà che le precedeva, ma sanno che oggi è diverso: oggi è possibile la scommessa politica femminile, che apre a nuove possibilità.

È da tempo che voglio scrivere per porre la questione e non ci sono riuscita. Anche scrivere questa breve relazione è stato difficilissimo. Ho capito che lo scacco nasceva dall’obiettivo, troppo ambizioso per me, di trovare la soluzione, mentre non è di questo che si tratta.

E per cominciare a ragionare insieme, voglio dire della mia difficoltà.

Mi sono ammutolita, paralizzata. Da una parte, in cerca di un’intuizione geniale che indicasse la direzione, fuori dagli schemi contrappositivi e cercando di non tralasciare nessuna delle questioni implicate in questo problema e di cui comunque voglio elencare almeno alcune:

E mi sono ritrovata ammutolita anche dalla preoccupazione di non apparire buonista, in un momento in cui pare che la bontà, già peccato di ingenuità, stia diventando anche nel senso comune sanzionabile, perché sovversiva nel senso deteriore, dopo che anche la legge, con gli attacchi alla ong, ha cominciato a suggerire il capovolgimento per cui il reato è il soccorso e non l’omissione di soccorso.

Eppure qualcosa sta cambiando. Io credo proprio per l’intollerabilità dell’ingiustizia a cui assistiamo.

Forza buoni, titolava la copertina dell’Espresso di qualche settimana fa, con un numero in cui si parla dell’Italia delle reti sociali, delle forme di associazione tra italiani e stranieri e tra società civile e comunità religiose, dei progetti di solidarietà che nascono dal basso su tutto il territorio nazionale per fare fronte alle difficoltà e la crescente povertà, della disobbedienza civile dei sindaci oltre a quella delle ong.

E io voglio ricordare l’Italia dell’immediata reazione della società civile con la raccolta fondi che di fatto neutralizzava l’ordinanza del comune di Lodi che impediva ai bambini stranieri l’accesso al servizio mensa. O anche l’esperienza di Caserta, dove le fasce più deboli e gli stranieri hanno stretto una sorta di alleanza e così i migranti dello Sprar hanno chiesto di usare il premio ricevuto dalla città di Caserta per la sua attività di accoglienza dei migranti, per finanziare i buoni libro per le famiglie in difficoltà della città.

Nello stesso articolo dell’Espresso si cita una ricerca americana (di Lara Putnam e Theda Skocpol), che mostra che le donne entrate in politica negli Stati Uniti non hanno fatto il loro percorso all’interno dei circuiti della politica istituzionale dei partiti, ma nelle reti civiche locali.

C’è sempre più libertà femminile nella vita pubblica. Lo registra anche un’altra ricerca, questa volta di Médecins Sans Frontières, che rileva che sul territorio italiano le situazioni in cui si pratica accoglienza al di fuori delle istituzioni sono popolate da donne.

Voglio nominare Ada Colau, sindaca di Barcellona, sempre più convinta della sua scommessa sulla municipalità «soprattutto perché le città sono il luogo della prossimità, della vita quotidiana, dove l’Altro non è un’astrazione, ma è il mio vicino di casa, lo conosco», dice nell’intervista pubblicata su Left. E ancora dice che «Il femminismo è legato a doppio filo al municipalismo perché propone cambiamenti che devono prodursi nell’ambito della vita».

E in effetti è nei contesti reali che abbiamo visto una vera politica dell’accoglienza, non intesa come assistenzialismo e oltre la logica dell’emergenza, esperienze nate dal basso che sono diventate modello di convivenza con vantaggio reciproco per la comunità che accoglie e per chi arriva. Nomino fra tutte l’esperienza di Riace, perché diventata simbolo di una convivenza possibile perché reale (e quindi purtroppo da cancellare), ma tantissime sono le realtà in tutta Italia in cui questa politica ha funzionato.

Dalla ricerca di MSF nasce il documentario Dove bisogna stare. «Questo documentario racconta di una possibile risposta a questi tempi cupi. Non racconta l’immigrazione dal punto di vista di chi sceglie di partire o è costretto a farlo: è innanzitutto un film su di noi, sulla nostra capacità di confrontarci con il mondo e di condividerne il destino», si legge nelle note di regia.

E le protagoniste sono quattro donne molto diverse tra loro, che trovano strade e pratiche diverse, in comune hanno che sanno dove bisogna stare (nei contesti in cui si è, lì dove le cose ci si presentano) e la consapevolezza che la loro è politica, non è buonismo né assistenzialismo.

Una delle protagoniste, una giovane donna di Como, raccontando la genesi del suo impegno dice che alla vista dei profughi ammassati per strada, a causa dell’inasprimento della chiusura della frontiera svizzera, quella non le è apparsa più come la sua città. È in quel momento che nasce il suo impegno. Mi sono riconosciuta in quella sua frase: non si tratta solo di aiutare chi viene qui, la posta in gioco è che umanità vogliamo essere.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, del 3 febbraio 2019

Invito alla Redazione allargata di Via Dogana 3

domenica 3 febbraio 2019 ore 10.00-13.30

Sempre più si sta aprendo uno spazio di libertà femminile nella vita pubblica. Pensiamo solo alla politica generativa di Ada Colau, sindaca di Barcellona, alle numerose donne entrate di recente al Congresso degli Stati Uniti sulla spinta del #metoo e delle reti sociali, all’ambizioso piano di Non una di meno, alle reti di donne che si sono create in varie città italiane. In questo orizzonte vogliamo trovare parole – non solo contrappositive o aderenti alle politiche (vere o presunte) già in atto – su uno dei più pressanti e tragici problemi del nostro tempo, quello delle migrazioni. La proposta politica da discutere insieme è quella di agire nel corpo sociale con parole, immagini, pensieri positivi e iniziative che possano ridurre le paure e aiutare la convivenza.

Avvieranno la discussione Tahereh Toluian e Anna Di Salvo.

Cara Luisa Muraro, sento profondamente vero che nulla di essenzialistico vi è nell’idea di differenza sessuale che costantemente affini e che mi fa da bussola. La mia storia personale si racconta secondo il principio che illustri, che la differenza sessuale consiste nelle differenze tra donne. Ma è come se infilassi la tua stessa collana a partire da un altro grano.

Da giovane avvertivo la maggior parte delle donne così distanti, dissimili, che la differenza sessuale, come accettazione di similitudine con le altre, tutte le altre, era quasi da capogiro. È stata solo la garanzia, la rassicurazione che non di uguaglianza o di sorellanza si trattasse, ma di differenze tra donne, a farmi accettare il mio essere simile, le mie simili.

Trovo quindi perfetta per me la precisazione che la differenza non è “tra”, ma “in”. Intendo così le tue parole: che la differenza non è uno spazio o un intervallo, fisico, mentale o relazionale. Si può, si deve (?) lavorare per costruirlo. Ma la differenza è “in”, è in me che scopro, accetto che io sono donna. È la differenza “in” me che apre uno squarcio anche sul panorama che tu spesso nomini, mi pare, come differenza “di me con me”. La luce che inonda lo scenario è la possibilità di contemplare le “differenze” che mi attraversano e che riguardano in infinita varietà tutte le altre.

Da questo punto fermo ho potuto accettare la differenza che mi ha reso simile, “la differenza sessuale” diventata per me principio evolutivo, che mi ha portata con il tempo e il lavorio del pensiero ad essere e sentirmi donna tra donne. È stata questa, propriamente, la mia nascita alla cultura.

Si è aperta anche, così, la più prossima delle possibilità di un mondo del “tra”. Da costruire, tra donne e tra donne e uomini. Un mondo, un noi, a proposito del pronome che tante volte sembra fare problema e che mi è caro, perché il tra donne, per me lontano da sentimenti di uguaglianza o di sorellanza, è stato una conquista: una continua risignificazione delle differenze tra noi, fuori dagli schemi delle discipline e della cultura corrente, ispirato dalla differenza sessuale: con le tue parole “principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana”.

– “La lingua batte”, domenica 2 dicembre 2018, Rai radio3, podcast, https://www.raiplayradio.it/audio/2018/12/La-lingua-batte-6feecfcc-deb1-4d25-802f-6f71ae37b816.html

– Lia Cigarini, La battaglia della narrazione, in “Sottosopra” Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda, settembre 2018.

– Paola Di Nicola, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, HarperCollins 2018.

– GiULiA giornaliste, Stop violenza: le parole per dirlo, GiULiA 2017.

– Chiara Zamboni, intervento in Linguaggio e politica, IAPh 8 dicembre 2015, audiofile, http://www.iaphitalia.org/quarto-incontro-linguaggio-e-politica-intervento-di-chiara-zamboni/

– Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, GiULiA giornaliste, http://www.accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf

– Chiara Zamboni, Lo splendore di avere un linguaggio, Intervento al Convegno internazionale “Culture indigene di pace”, Torino 23-26 aprile 2013, http://www.associazionelaima.it/intervento-di-chiara-zamboni/

– Vita Cosentino (a cura di), Lingua bene comune, Città Aperta Edizioni 2006.

– Chiara Zamboni (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il Poligrafo 2006.

– Chiara Zamboni, Parole non consumate, Liguori 2001.

– Eva-Maria Thüne (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Sellier 1998.

– Luisa Muraro e altre/i, Lingua e verità. Emily Dickinson, Teresa di Lisieux, Ivy Compton-Burnett, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 1995.

– Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, “aut-aut”, n. 260-261, 1994.

– Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 1992 e 2006.

– Luce Irigaray, Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti 1991 (esaurito).

– Luisa Muraro, La lingua batte dove il dente duole, il manifesto, 2 giugno 1988 (https://puntodivista.libreriadelledonne.it/la-lingua-batte-dove-il-dente-duole/).

– Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, e Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Istituto Poligrafico dello Stato 1987 (esauriti, si trovano sul sito Pari opportunità o su uniroma.it).

– Patrizia Violi, L’infinito singolare, Essedue 1986 (ebook 2014 http://ebook.women.it/prodotto/linfinito-singolare-patrizia-violi/)

Sono andata a rivedermi alcuni scritti miei e di altre donne che risalgono a tanti anni fa, durante i percorsi comunicativi sull’identità e sul desiderio femminile, percorsi frequentati principalmente da donne. In ogni percorso, a un certo punto si presentava la domanda su che cosa fosse, in realtà, la differenza sessuale, dopo il riconoscimento biologico. Soprattutto perché veniva fatta confusione tra la differenza sessuale, la differenza tra donne e tutte le altre differenze.

A un certo momento, mettendo insieme gli scritti di molte donne, emergeva una consapevolezza personale e anche comune. Abbiamo raccolto le parole, prendendole dall’una e dall’altra e ci siamo dette: Sono Donna differente dall’uomo e mi riconosco nelle altre donne mie simili. Ognuna di noi può dirsi e dire: Sono Donna Originale Unica Diversa (da ogni altra donna), e Questa consapevole realtà fa la differenza sessuale femminile.

Per me e per parecchie altre donne è stata importante quella presa di coscienza. La differenza è in ciascuna di noi in relazione con l’altra, proprio così.

Da allora credo di avere intuito o individuato la differenza IN maschile di alcuni uomini, naturalmente tra quelli con i quali ho potuto comunicare, approfondire e interrogare, capire la distanza che c’era tra me e loro, chiedere di dirmi la visione che avevano di se stessi – che li metteva in difficoltà – ascoltare la loro visione delle cose e del mondo di cui, mi pareva, sapevano tutto con sicurezza e senza imbarazzo.

Noi donne nominiamo la nostra differenza sessuale femminile e sappiamo di averla dentro e la significhiamo con le nostre parole dicendo come stiamo e vogliamo il mondo.

Gli uomini, in generale, ci hanno sempre mostrato e continuano a mostrare il risultato del loro stare nel mondo: quello che hanno imparato e sanno, quello che hanno il potere di dire, fare, comandare e governare. A tutti i livelli.

Hanno una grande difficoltà a capire che cosa vuol dire partire da sé e di conseguenza non possono creare quella cultura radicata al proprio essere maschile perché, normalmente, partono dal fuori di sé.

Mi pare che la differenza in del maschile gli uomini non la dicano, pare che non la sappiano dire. Non nominano la loro differenza e alcuni uomini dicono di riconoscersi proprio nella differenza femminile e si definiscono femministi. Si riconoscono nella differenza femminile che però, mi pare, resta fuori-altra da sé.  Infatti ci sono uomini che lasciano ben sperare perché, attratti dal modo di essere ed esistere della differenza femminile, si presentano con attenzione, disponibilità e desiderio di partecipare e vivere nel mondo desiderato e creato dal femminismo.

Penso che ci sia un rischio, però, di superficialità quando un uomo si definisce femminista, perché può venire facile mettersi in quella posizione e fermarsi là, facendo coincidere la sua differenza con quella femminile, sovrapponendosi o aggiungendosi alla modalità della differenza femminile. È una situazione che può impedire di accorgersi che, per stare bene e governare il mondo insieme donne e uomini, un uomo ha da nominare la sua differenza in (quella che è emersa in lui, dopo il patriarcato) e darle il nome a partire da sé, con profondità e consapevolezza, mettendosi di fronte alla già esistente differenza femminile nominata.

Leggo il Corriere della Sera da quarant’anni e ha ragione Giovanna Pezzuoli quando afferma che sui media, specialmente quelli italiani, c’è scarsa attenzione e comprensione della politica delle donne: ma non è tutto. Se alcuni affermano – come fa Saviano – che le manifestazioni del #metoo hanno un “sapore antico” è perché sono loro che hanno uno sguardo antico, come anche la giornalista dice alla fine della sua introduzione. Ma noi gli occhi nuovi per vedere ce li abbiamo e non possiamo non notare ciò che è cambiato.

Tanto per fare un esempio, quarant’anni fa un articolo come quello di Pierluigi Battista Uomini assenti sul caso Weinstein (6/10/2017) a proposito di Asia Argento nessuno lo avrebbe mai scritto sul Corriere; e lo stesso si può dire di altri interventi su questo giornale: come più recentemente Se le donne tornano in quota (21/11/2018) dove Marco Garzonio afferma, sia pur tra qualche ingenuità, che «non è questione di quote rosa, ma di cambio di mentalità: di rivoluzione culturale».

O ancora Paolo Lepri che nella sua rubrica Facce nuove («Il diario pubblico di Mahdia Hosseini», 4/1/2019) commenta le parole scritte da questa giovane donna afghana sul Migratory Birds, il giornale da lei fondato insieme a quindici ragazze del campo profughi di Schisto in Grecia.

Quello che trovo interessante è che non solo sta cambiando lo sguardo degli uomini – di alcuni uomini – sulle donne, ma sul loro essere maschi: negli anni precedenti non sono mancate iniziative in questo senso, come quella di Maschile plurale (www.maschileplurale.it) o interventi su giornali come Il Manifesto o riviste come Via Dogana – dove ha scritto per esempio Alberto Leiss – ma erano esperienze minoritarie che non conquistavano la grande stampa come oggi: segno che il senso comune sta cambiando.

E non solo sulle pagine dei quotidiani: ultimamente è uscito il romanzo di Francesco Piccolo “L’animale che mi porto dentro”, che ha provocato giudizi contrastanti sia fra gli uomini che fra le donne.

L’ho comprato subito e in prima pagina ho trovato due citazioni: la prima ci parla di ciò che l’ha spinto a scrivere:

«Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio». Simone de Beauvoir, Il secondo sesso.

La seconda ci dice a chi ha rubato il titolo:

«L’animale che mi porto dentro/ non mi fa vivere felice mai/ si prende tutto/ anche il caffè/ mi rende schiavo delle mie passioni», Franco Battiato, L’animale.

Il romanzo, scritto da Piccolo con leggerezza e la consueta ironia, ha un inizio scoppiettante e segue il protagonista durante la sua formazione nel branco dei maschi, cercando di capire come dal ragazzino che piange disperato per amore su una panchina sia venuto fuori l’energumeno che nel campo di basket prende a pugni l’avversario e gli sputa in faccia. Insomma come sia diventato stocazzo.

Penso che questo sia un romanzo coraggioso anche se parla più agli uomini che alle donne – noi certe cose le sappiamo già: ho trovato molto divertente il personaggio della moglie, che quando lui vuole parlare gli volta le spalle e comincia a occuparsi di un’altra cosa perché pensa che discutere con lui sia una perdita di tempo, costringendolo così ad inseguirla.

Del fatto che questo libro parli di più agli uomini, ho avuto una conferma giorni fa: ero al bar che ne discutevo con un’amica quando un avventore a me sconosciuto si è inserito nella conversazione e poi si è scritto il titolo su un tovagliolino con l’intenzione di comprarselo. L’ho incontrato qualche giorno dopo e lo stava già leggendo. Non mi era mai capitato.

Per concludere: non è vero che non c’è niente di nuovo sotto il sole, bisogna vederlo se vogliamo che uomini e donne imparino a parlarsi.

Care tutte, seguo il ragionamento di Luisa Muraro nell’articolo «Differenze tra donne, differenza sessuale» (18/12/2018) come lo ho capito:

La differenza è in, quindi c’è, è “prima”. Come lo so? Affermandola. Se c’è, cosa è? Si mostra, si dice.

È sostanza ma non cosa, c’è se la affermo per me e per le altre, ed è nel rapporto con le altre che si significa. È il meccanismo dell’Io penso-con, la differenza.

Ma l’Io penso-con ha già in sé la differenza perché io sono come mia madre e mia madre me lo ha comunicato (e ugualmente comunica la differenza a chi non è come lei).

Eccola qui, aerea e imprendibile nella sua sostanza ma esplicita e grandiosa nella sua incarnazione, come la figura un po’ troppo disincarnata dell’Assunta.

Ciao, Cristiana Fischer

La discussione sull’intersezionalità nata nell’incontro di #VD3 del 2 dicembre 2018 è risultata più ricca e interessante di come di solito succede. Se ne coglie meglio l’aspetto positivo, che è quello di cercare una chiave per rapportarsi alle differenze fra donne, di cercare di capire le altre.

Carlotta ci ha raccontato com’è nata la parola. L’avvocata Kimberlé Crenshaw l’ha coniata nel 1989 durante una causa per il reintegro di lavoratrici licenziate da un’azienda, che erano tutte nere. La difesa dell’azienda respingeva le accuse di comportamento discriminatorio con quest’argomento: non era discriminazione contro le donne, perché non aveva licenziato tutte le lavoratrici (solo quelle nere), né discriminazione razziale, perché non aveva licenziato tutti i dipendenti neri (solo le donne).

Carlotta dice che si tratta, per lei, di una lente metodologica di cui aveva bisogno per leggere la sua vita e quella delle altre.

A mio avviso, l’avvocata si è trovata nell’urgenza di trovare una parola che rendesse dicibile l’evidente ingiustizia che l’azienda negava. La parola ha avuto il merito di farlo. Resta legata, però, a un’ottica di contrasto delle discriminazioni, proprio perché nata in una causa legale in cui i dispositivi antidiscriminatori erano l’elemento cruciale per tentare di far annullare il licenziamento. Ed è questo il punto debole: dall’associazione con le discriminazioni, e per estensione con le oppressioni, l’uso del concetto di intersezionalità scivola facilmente in quella banalizzazione che la fa percepire, talvolta da chi la sente, talvolta da chi la usa, che mescola i piani tra quello che si è per nascita e per storia e le ingiustizie subite, per esempio essere donna ed essere supersfruttata, riducendo tutto a una somma di oppressioni: essere donna, essere nera (per restare all’esempio del caso giuridico) rischiano di diventare “oppressioni”. E, no, io sono una donna, non un’“oppressione”. Ci sono gli uomini, o c’è il patriarcato, che vogliono opprimermi o ridurmi all’insignificanza, ma io sono una donna e non voglio essere altro. Lo stesso vale per chi è nera, per chi è lesbica.

Allora mi atterrei a qualche considerazione: una è che occorre uscire dall’ottica antidiscriminatoria, e usare la parola “intersezionalità” solo con proprietà e precauzione, e ascoltarla con estrema attenzione a come viene usata, evitando e facendo evitare banalizzazioni.

Un’altra è pensare a sé come soggetti in relazione con altri, riducendo al minimo le categorie interpretative “oggettive” da applicare a sé e alle altre a favore della pratica politica del partire da sé, del cercare la propria verità soggettiva, che non è l’individualismo ma la consapevolezza che ciò che vivi realmente non può essere azzerato da ciò che altri (o altre) dicono di te. Allora non sarà più una lente metodologica applicata da me all’altra a farmi capire le sue differenze da me e quello che abbiamo in comune, ma quello che l’altra mi dice di sé e il suo sguardo su di me, che io ricambio e confronto con la mia verità soggettiva, a fare luce sulle differenze tra donne e a dare misura a entrambe. Una misura che non è l’oppressione ma il desiderio politico. Un esempio? Riconosco autorità a Audre Lorde, femminista, nera e lesbica. Lei diceva: «Fate delle vostre differenze la vostra forza». È questo.

L’importanza politica dell’intersezionalità consiste nella sfida di accordare le differenze tra esseri umani con il principio di uguaglianza. Altrimenti, il principio dì uguaglianza comunemente riconosciuto si trasforma in un fattore di appiattimento che di fatto conferma vecchie ingiustizie o ne crea di nuove. Basta pensare alla nozione post-patriarcale di genitorialità che cancella la differenza sessuale e rende invisibile il contributo femminile alla procreazione.

Nella politica delle donne, la nozione d’intersezionalità si afferma esplicitamente, a cominciare dagli Usa, con la contestazione della presunta sorellanza femminista da parte delle afroamericane.

Finora io, come tante altre, ho riflettuto su questo problema nei termini posti dalle differenze tra donne, come differenze di situazione familiare, di condizione sociale, di privilegi sociali, di provenienza geografica, differenze nei rapporti con gli uomini, di collocazione nel gruppo stesso che si frequenta…  Dunque, non sono soltanto quelle prese in considerazione dalle teoriche dell’intersezionalità, che di solito coincidono con le categorie fatte oggetto di analisi sociologica e storica; altre ce ne sono, percepite nelle relazioni tra donne a partire dalla propria esperienza vissuta come anche dalla conoscenza della realtà circostante. Per esempio, negli anni Settanta la scarsa presenza di operaie tra noi si faceva notare. Ed è in questi termini che darò il mio contributo.

Per me, il femminismo comincia nell’atto di riconoscere che io sono una donna e di rispecchiarmi, quindi, come essere umano nelle altre donne, prima che negli uomini. Ma tra me e le altre donne ci sono molte differenze. Tuttavia, per quanto grandi, non previste e non pacifiche, queste differenze non mi fanno sentire altra dal genere umano femminile né mi fanno dire che quelle non sono donne. Ed è in questo punto che ho trovato la risposta a una domanda che mi viene posta quando respingo la critica di essenzialismo rivolta al femminismo della differenza.

La domanda è questa: ma allora, se non teorizzi un’essenza umana femminile differente da quella maschile, in che cosa consiste la differenza sessuale negli esseri umani? La risposta ha due passaggi. Primo: sia chiaro che la differenza sessuale non è tra uomini e donne, sarebbe insensato perché, se distinguo i due sessi, maschile e femminile, vuol dire che la differenza ha già operato; diciamo perciò che la differenza sessuale è in. È in me, per cominciare, per cui dico: «io sono una donna». Secondo: la differenza sessuale che ha già operato, traspare con il mio (tuo… nostro, vostro…) riconoscermi nelle altre donne. Essa consiste dunque nelle differenze tra donne; ma non è una consistenza, è un principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana.

Questa, per ora, è un’intuizione; sento che è buona ma devo rifletterci e qui la espongo quasi per la prima volta, sperando nei commenti di chi mi leggerà.

È giusto analizzare i meccanismi neutri che, anche se meno di una volta, occupano il linguaggio, le immagini, le informazioni. Il neutro più eccellente e “inossidabile” è quello dell’arte visiva, dove il Leitmotiv è che la rappresentazione femminile fa parte dell’arte stessa, vedi la Venere di Botticelli. Così si sviluppa l’aspirazione a una specie universale, dove non è necessario distinguere se chi crea è un uomo o una donna.

Quando ho capito che ogni opera d’arte visiva è un soggetto messo al mondo non per via biologica da uomini o donne, ho cominciato a vedere non solo la differenza tra uomini e donne, ma anche la possibilità di entrare in dialogo con un sentimento maschile che prima attribuivo alla capacità dell’artista di trascendere la relazione soggettiva tra me e lui. Oggi, quando le immagini, non solo artistiche, sono il perno dell’informazione, è necessario decifrare in che modo l’opera di quella donna o di quell’uomo interagisce con il mio sguardo senza spingermi in una zona neutra consentita, perché realizzata con capacità che superano le mie. Dall’arte prendo, invece, il suggerimento di appropriarmi di una lettura simbolica, estetica, concettuale in cui sta alla mia responsabilità decifrare la differenza che mi lega o unisce. Insomma, anche nella lettura dell’opera siamo facilmente preda di un neutro per mettere in primo piano la comprensione dell’eccellenza, invece della “scossa dei nervi” di cui parla Virginia Woolf, proprio rispetto alla pittura. Luisa Muraro parla della libera differenza delle donne, che permette di registrare anche le differenze tra le donne. Nel momento in cui mi approprio di un’opera d’arte di un uomo, non divento un uomo, ma posso registrare la differenza che voglio mettere a confronto con me e non solo rispetto alla storia dell’arte, presente o passata. Mi piacerebbe trovare il modo perché questo processo di appropriazione diventi uno degli elementi sul quale avviare la lettura reciproca del mondo. Forse allora ci sarà la forza per pretendere non un’equa distribuzione delle informazioni, ma una “normale accettazione” che donne o uomini creano, pensano, scrivono e che attraverso le loro opere possiamo riconoscere le nostre reciproche differenze e non un universale neutro che le comprende senza distinzione. Da qui ognuna e ognuno può rendersi conto di un comportamento e discuterlo, vale sia per le donne che per gli uomini, neanche a loro fa bene il neutro.


Francesca Pasini è critica d’arte e cura la Quarta Vetrina della Libreria delle donne, progetto dedicato alle arti visive.

domenica 2 dicembre 2018 ore 10.00-13.30


La parola giusta ha in sé il potere della realtà

Dopo la Women’s march e il #Metoo, anche le recenti elezioni di midterm negli USA mostrano che nella società americana la forza del cambiamento è nelle mani della soggettività politica femminile. In questa occasione ancora una volta si è creata una proficua interazione tra ciò che dicono le donne e la risonanza data dai mass-media alle loro parole.

Questo ci dà la spinta positiva per interrogarci sul rapporto tra donne e mass media qui in Italia. Come parlano delle donne? E della politica delle donne?

Sempre più donne si accorgono che siamo immerse in una cultura misogina che cancella e sminuisce l’esperienza femminile. Il linguaggio la veicola e la riflette. «La parola giusta ha in sé il potere della realtà» ci suggerisce Mary Daly. Partiamo allora dal linguaggio come questione politica: per trovare di volta in volta le parole giuste capaci di far deperire le narrazioni tossiche per le donne.


Ne discutiamo a partire dalle esperienze di Silvia e Carlotta di NonUnaDiMeno, e di Giovanna Pezzuoli, giornalista impegnata in GiULiA.

Ho riflettuto a lungo prima di recensire il film Euforia, opera seconda di Valeria Golino dopo l’acclamato Miele. Mi bloccavano una serie di perplessità e considerazioni sulla scelta dei personaggi: i due uomini protagonisti, due fratelli, Matteo e Ettore, poco mi corrispondevano con tutto il loro carico di desideri e di affermazioni sessuali, di bisogni di conferme e di incapacità a riflettere e elaborare le loro fragilità e disillusioni.

Però ho anche pensato che non avrei fatto giustizia alla regista, al suo lavoro e alla sua onestà – che ho ammirato alla sua interessante lezione di regia – fermandomi a queste prime valutazioni.

Perché la storia che racconta Euforia – due fratelli e la malattia – mi ha molto emozionato e ho sentito che mi riguardava,risvegliando ricordi e sensazioni intime e importanti. Parla sì della morte ma non in forme retoriche, lo sguardo è nuovo, non scontato. E parla della vita. Ha la sensibilità e la forza di raccontare come cambia la vita, come cambiano le nostre relazioni quando la malattia colpisce una persona cara.

Sa descrivere ed entrare con rara sensibilità e originalità in quelle atmosfere un po’ rarefatte e fittizie che si creano nelle relazioni quando la coscienza della nostra fragilità ci appare nelle sue forme assolute. Situazioni in cui vorremmo allontanare il più possibile il momento della verità, rendere più facile e sereno quell’ultimoscampolo di vita, regalare un’artificiosa inconsapevolezza in uno scambio di finzione con la realtà. E più i nostri sforzi sono orientati in quella direzione più vediamo crescere la consapevolezza nell’altro che forse vorrebbe piangere o ridere con noi e raccontarci tutta la sua paura.

Il film ben racconta il percorso verso questa consapevolezzariassumendolo in una bellissima scena fra i due fratelli in un parco fra coreografie di stormi in volo.

Valeria Golino lo descrive – nelle sue note di regia – con la parola euforia, che dà il titolo al film: «euforia è quella sensazione bella e pericolosa che coglie i subacquei a grandi profondità: sentirsipienamente felici e totalmente liberi. È la sensazione a cui deve seguire l’immediata decisione della risalita prima che sia troppo tardi, prima di perdersi per sempre in profondità».

Nella direzione delle attrici e degli attori la regista mostra grande maturità e talento, a partire dai due protagonisti, Ettore (Valerio Mastandrea) e Matteo (Riccardo Scamarcio) a cui si affiancano le interpretazioni di Jasmine Trinca, Isabella Ferrari e Valentina Cervi. Da sottolineare la sceneggiatura solida e ben costruita scritta da Francesca Marciano e Velia Santella.

Vorrei ringraziare Giordana Masotto per il suo bellissimo testo, “Il lavoro ha bisogno di femminismo”, pubblicato nel Sottosopra Un cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda, di cui si è discusso all’incontro di Via Dogana alla Libreria delle donne di Milano. Arrivare in Libreria e sentire l’effervescenza del pensiero vivo, riconoscere quelle corde prima della presentazione al mondo di parole e idee nuove, respirare l’aria di festa e di celebrazione, mi ha dato subito una carica di vivacità, di allegria e di felicità. La felicità che da stare con donne appassionate dall’essere donne.

La prima cosa che ho sentito leggendo il testo di Giordana è stata sollievo. Le sue parole sul “non identificarsi né nelle discriminazioni né nella minaccia delle violenze” mi hanno alleggerito del peso che portavo ogni volta che come studiosa di diritto del lavoro sentivo quell’obbligo di dovermi soffermare su di esse e se non lo facevo, se non osservavo quel doveroso passaggio, mi sentivo a volte un po’ persa, altre bloccata e sempre in colpa. Giordana ci autorizza a non farlo ma allo stesso tempo ci libera dei pesi superflui e dannosi del farlo. Come? Ripetendo, come sentiamo e ci diciamo nella politica delle donne, che le donne al lavoro ci vanno intere. Ora (da tempo) ho capito che andare intere al lavoro vuol dire avere a che fare anche con la violenza, le molestie, le paure, le strategie di difesa e tra queste tanto tanto di prudenza. Infatti mi chiedo spesso perché non lo siamo di più, perché facciamo il capodanno di Colonia, perché andiamo ai San Fermines. Mi sento addosso il peso di queste donne, amiche, sorelle – forse anche le mie figlie lo faranno come l’ho fatto io –, che sono così imprudenti; e lo siamo quando non ci confrontiamo con il mondo, con i rischi e pericoli che ci circondano, con il nostro essere corpo (corpo desiderato da un sistema caotico e malato). Ieri mattina ho sentito paura quando ho attraversato Firenze alle sette del mattino per prendere il treno per arrivare qui, era ancora era buio. Ho incrociato uomini ubriachi, con lo sguardo perso e cattivo dopo una notte sfrenata di sabato. C’erano anche delle donne. Una volta c’ero anch’io. Mi chiedo, perché ci stiamo? Io non ci sto più ma sentivo lo stesso il peso di chi ancora preferisce vivere imprudentemente.

Quando al lavoro ci affermiamo, facciamo delle scelte con sicurezza e convinzione, ma soprattutto quando lo facciamo insieme ad altre, in relazione, lasciando sentire il profumo della libertà femminile in tutta la sua grandezza, gli uomini si inquietano e fanno ricorso a una vecchia e vincente strategia del patriarcato: dividere le donne. Non so nemmeno io, come dice Giordana, se il patriarcato è morto del tutto o è morente ma pericoloso, so di certo che questa vecchia strategia, a volte rude altre sofisticata e subliminale, di dividere le donne è ancora in piedi. Funziona così. Appena hanno occasione ti parlano male delle donne di potere o di quelle che lo ambiscono, di destra, delle belline che fanno carriera grazie al loro corpo, di quelle che della parità ne fanno un mestiere, di quelle ricche, di quelle imprudenti… di tutte quelle che intuiscono che tu non sei, che sei stata ma non più o non sempre, che avresti voluto essere, che hai smesso di essere dopo un processo di presa di coscienza e tanta sofferenza. E tu ci caschi ancora.

Facile cascarci quando sei cresciuta in un patriarcato che non risparmiava nemmeno le madri di alimentare la rivalità fra sorelle e amiche. Oppure in alternativa, se la consapevolezza ti ha fatto capire la trappola, accumuli i pesi che non ti fanno andare avanti lo stesso. Perché di questo si tratta qui e ora. Di andare avanti e di lasciar perdere, di parlare bene delle donne dicono alcune, di almeno non parlarne male, di stare attente alle circostanze di ognuna, di mettere da parte il nostro ego e costruire rete e comunità femminili, di interpretare la parola imperfetta dell’altra nel modo migliore, di non farci distrarre della nostra strada che è quella, come dice il testo, “di governare il lavoro con nuovi paradigmi”. Ho chiesto alle presenti alla discussione se si trattasse di costruire un universale da opporre/proporre all’universale maschile. Forse sì forse no. Dipende anche da loro, dagli uomini, se vogliono smettere di fuggire alle nostre richieste di dialogo, di interlocuzione, di negoziazione della differenza sessuale. Nel frattempo mentre si decidono noi ci faremmo un grosso piacere se smettessimo di sentire pesi patriarcali che ci impediscono di rimanere unite da quello che ci accomuna a tutte, pur avendo esperienze di vita molto diverse, cercando i punti di desiderio comune con le altre colleghe, come sentii dire a Stefania Giannotti a Barcellona, e facendo forza sulla nostra millenaria capacità di saper vivere le relazioni ricavandone il meglio di ognuna.

Ho apprezzato molto e colto come un segnale in questo senso la collocazione delle tre protagoniste di ieri mattina in Libreria: Giordana Masotto al centro della manager, Luisa Pogliana, e della sindacalista, Michela Spera. Un tentativo coraggioso di costruire parole insieme nel lavoro. Parole e prassi per farla finita con le violenze, con i riscatti sessuali, con le molestie e con il gap salariale; che tengano presente il nostro essere corpo al lavoro; che diano una misura e valore diversi del tempo di lavoro; che pensino a un lavoro ecosostenibile e che possano contrastare la conversione per alcune del doppio si in un doppio no.

Togliamoci pesi, sgombriamone la strada che ci porta a poter fare questo lavoro necessario per l’intera umanità. Che ci porta a essere unite! Metterei questo come sedicesimo consiglio da dare a una figlia femminista tra quelli che Chiamamanda Ngozi Adichie dà alla sua amica per la sua bambina. Ci provo anch’io con le mie due belle Matilda e Lia.

Quello che so del lavoro deriva dai lavori che ho fatto. Ne ho fatti molti, molto diversi tra loro, per poco o molto tempo, guadagnando poco o tanto, in posizioni differenti. Dunque ho una ricca esperienza di lavoro. Nonostante ciò, quello che so del lavoro mi deriva soprattutto dal pensiero fatto con altre. L’esperienza ha potuto diventare pensiero perché è stata ragionata, ripercorsa insieme ad altre. Questo è avvenuto nel gruppo lavoro, negli incontri e nella scrittura fatta insieme, nell’esperienza allargata dell’Agorà, nelle pagine dell’inserto di Via Dogana, Pausa lavoro.

L’età e la mia esperienza mi fanno dire che non è facile tenere insieme lavoro e pensiero/agire politico. Io temo di esserci riuscita poco. Ma adesso mi pare che il panorama stia cambiando e ho fiducia che per le donne si stiano aprendo più possibilità. È questa l’emozione di fondo che spero trasmetta l’articolo che ho scritto per Sottosopra. Ho fiducia che questo cambio di panorama apra più possibilità per ogni donna di tenere insieme il desiderio di starci alla propria misura e un agire politico che consenta di modificare il contesto in cui si muove, non solo di trovare un precario e spesso anche doloroso equilibrio personale.

Pensare con altre è fondamentale e per questo sono molto felice che Luisa Pogliana e Michela Spera – con cui abbiamo recentemente avviato un progetto comune che vuole dare voce e connettere in maniera inedita esperienze di manager e sindacaliste – siano venute qui oggi per farlo insieme, portando il punto di vista delle realtà in cui si muovono.

Concludo questa premessa ribadendo che due cose sono importanti nel panorama di oggi: è importante fare della buona teoria, mettere lì pensiero, perché altrimenti non si sa che gambe dare a quello che ognuna vive. L’altra cosa è tenere relazioni forti, valorizzanti, che riescano a dare forza a quel pensiero.

Come valuto la situazione presente. Di recente ho letto una frase che mi ha colpito. “Nei prossimi 100 anni gli esseri umani cambieranno più di quanto siano cambiati nel corso di tutta la storia dell’umanità.” È la valutazione di un autorevole studioso di biotecnologie e intelligenza artificiale.

Ho pensato che anche la posizione delle donne sta cambiando, sta diventando una posizione come non c’è mai stata nella storia dell’umanità. Una bella sfida.

Ho voluto titolare l’articolo per Sottosopra “Il lavoro ha bisogno di femminismo”. Ho messo la parola femminismo per segnare come sta cambiando il panorama.

Infatti in “Immagina che il lavoro” avevamo detto: “il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più”. Adesso dico: la critica alla parità è una battaglia obsoleta. Nell’esperienza che le donne hanno del lavoro non è più la parità il punto di riferimento, anche se magari usano quella parola perché non ne trovano altre. La propria differenza, il bisogno di starci intere, ci parla invece di una consapevolezza diffusa da cui non si torna indietro, anche se fatica a trovare parole e gesti adeguati.

Penso anche che sia il momento di ritirare fuori la parola femminismo. C’è bisogno di femminismo per affrontare con strumenti adeguati il livello del conflitto che oggi emerge in maniera più nitida. Un femminismo come lo possiamo dire oggi, cioè che tenga conto di tutto quello che abbiamo già detto sul lavoro. Quando abbiamo detto che le donne vogliono stare nel lavoro alla loro misura, questa interezza che le donne portano al lavoro – dolorosa, faticosa, a volte forte, a volte soccombente – quel tipo di consapevolezza rimane il punto di partenza: che cosa vogliamo dal lavoro. Abbiamo detto cose limpide.

Per cambiare il lavoro ci vuole femminismo perché solo così possiamo leggere in maniera adeguata, e senza cedimenti vittimistici, i vecchi e nuovi segnali di sopraffazione e maschilismo che abbiamo imparato a vedere. Credevamo che bastasse starci nel mondo e portare la nostra interezza. Ma l’avvento della libertà delle donne mette in crisi il patriarcato. La misoginia, che si esprime in modi e livelli diversi, si colloca nel disordine della crisi del patriarcato. Ho parlato di “rantoli di patriarcato” per esprimere la forza trasformista di quello che rimane un campo di battaglia imprescindibile e che ci riporta alla radice del nesso sesso/potere.

Il secondo motivo per cui per cambiare il lavoro ci vuole femminismo è perché nelle trasformazioni micidiali che sta subendo il lavoro i diritti si appannano per tutti, ma questo non vuol dire fare un discorso neutro. Non entro nel merito, faccio un solo esempio: si parla di neet (Not in Education, Employment or Training) ma se guardiamo alle ragazze dobbiamo parlare di “doppio no” né lavoro né maternità. Oppure la tendenza donne single. La singolarità ha una connotazione forte perché le donne si sottraggono a una normatività di tipo patriarcale, ma ci sono dentro anche limiti che andrebbero indagati. In conclusione, quello che sta accadendo al lavoro oggi non è neutro e va continuamente sessuato. Dobbiamo continuare a mostrare come il soggetto complesso che sono le donne sta oggi nel mondo del lavoro mettendo in campo differenti strumenti di resistenza e di cambiamento, ben ancorate in quel nesso corpo/parola che è la nostra forza.

Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Il lavoro ha bisogno di femminismo, del 7 ottobre 2018