Esistono comportamenti femminili maltrattanti? Parliamone, almeno un po’. Quanto? Q.B., quanto basta, come ben sa una mia amica che di cucina e relazioni se ne intende. Con chi? Con almeno un’altra che stimi e scegli, quella che è o può diventare “sorella d’elezione”. Perché è troppo doloroso se un torto te lo fa proprio una donna: non te lo aspetti e in lei in qualche modo c’è rispecchiamento. Ti lascia un tale amaro in bocca che perdi il gusto. Occorre un’altra che assaggi anche per te, ti dica la misura e ridia sapore a ciò che stai facendo.
Ma fuori di metafora vediamo quando e come, facendo qualche esempio in cui più volte ho giocato ruoli differenti. Ne scrivo perché anch’io penso, come Luisa Muraro, che sia impresa quasi impossibile riparare le relazioni rotte e che sia importante insegnare piuttosto a prevenire le rotture, “i sbreghi no se ripara più”1.
– Soprattutto negli ultimi anni ho realizzato, prendendo contatti con donne e uomini poco conosciuti, creando fiducia, tenendo conto di desideri, suggerimenti, informazioni che mi venivano date, decine di incontri pubblici su tematiche diverse negli ambiti più disparati: da scuole di vari livelli a carceri, da librerie a centri sociali, da biblioteche a centri donne e via discorrendo. Anche quando si trattava di presentare il libro, scritto e curato con Marina Santini, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, ogni volta è stata una prima, senza replica.
Dunque in queste occasioni c’è sempre una certa tensione: mi sento con la percezione all’erta come una direttrice d’orchestra. Ora immaginatela, questa direttrice di orchestra, mentre entra in teatro e incontra una critica musicale che comincia a dirle quello che non deve fare, che le svela che in sala ci sarà il tale e il tal altro, che sono loro il fulcro a cui va indirizzata l’esecuzione e le dice persino come dovrebbe dirigerla. Penso che la critica, pur ben intenzionata, sia fortunata perché la direttrice dovrà usare la sua bacchetta e non gliela romperà in testa come vorrebbe. Ma l’ansia è spesso ansiogena e può destabilizzare.
Per me è stato utile parlarne a una terza donna (la già citata “sorella d’elezione”) che, riconoscendo pienamente l’inopportunità dell’altra, nello stesso tempo mi ha fatto interpretare la sua ansia come interesse per la buona riuscita dell’evento; ha mostrato piena fiducia nelle mie capacità e nel mio lavoro e mi ha suggerito di vedere se in ciò che mi era stato detto c’era qualcosa che non sapevo e di cui valeva la pena tenessi conto. Così l’evento è stato un successo e ho potuto ridere di quell’agire ‘sconveniente’.
– Spesso mi sono impegnata con donne che volevano porsi al centro di un progetto comune e per questo sminuivano il lavoro che non erano in grado di fare, senza dare riconoscimento pubblico a chi lo faceva: a volte ringraziavano privatamente, soprattutto quando era loro indispensabile continuare a utilizzare i “servizi”. Se avevano lanciato un’idea, mettevano il copyright anche sulle successive modifiche, precisazioni, sviluppi che la pratica comune sempre genera. Io invece sottolineavo le variazioni sul tema e chi vi aveva contribuito, valorizzandone gli apporti. Nelle situazioni che ho avuto modo di conoscere direttamente o attraverso i racconti di altre, queste donne dimostravano una concezione verticistica dell’autorità, nominando con riconoscenza solo le relazioni con quelle più famose di loro da cui potevano ricevere lustro. Pretendevano l’esclusiva dell’autorità ma pretenderla è dimostrazione di averla perduta e il rischio di cadere nel ridicolo è presente. Ho dovuto usare un certo talento per evitare di cadere con loro.
Ho provato e mi è stata descritta la sensazione di essere derubata e il fatto che sia stata una donna a farlo ha prodotto in me una tale incredulità che ho preferito non vedere, minimizzare e continuare a offrire il mio contributo. Quando la situazione si è ripetuta più volte, mi è stata necessaria una lettura condivisa almeno con un’altra. Ho potuto così sottrarmi senza abbandonare il progetto. A volte ho trasformato l’impresa in nave scuola. Certo navigare sotto costa richiede tempo e tutto si rallenta. Ma, quando il bisogno dell’oceano delle relazioni politiche femminili è diventato impellente, sono andata al largo senza un distacco rancoroso con un contatto aperto. Ho smesso di rimpicciolirmi nel desiderio stretto di un’altra, ho respirato la forza del mio.
– Molta parte dell’esperienza femminile non ha ancora parole e io riesco a trovarle parlando con altre che mi sembrano vicine. A volte ne ho scelto una che si è rivelata disattenta per la fretta, non ha creduto potesse venire del nuovo dal nostro scambio: amava gli slogan, anche quelli del femminismo, e li appiccicava su quel che le dicevo. Sapeva già quel che tentavo di dire. E, peggio ancora, non ascoltando e non leggendo in modo fine, pensava di poter parlare per me pubblicamente, distorcendomi. È stato inutile tentare di spiegarle che si sbagliava. Continuava nelle distorsioni, non mostrava nemmeno di rendersene conto. Ho visto donne allontanarsi da queste mine vaganti. La presa di distanza è un modo per vivere: ne va di mezzo la messa in parole, il simbolico, di ciò che senti di essere e che fai. Allora una terza può porsi in ascolto, facendo in modo che la distanza non diventi baratro. Io sono stata ascoltata e ho ascoltato.
Quando si devono realizzare progetti con una ‘disattenta ciarliera’, bisogna saper tacere, riparare appena possibile il suo pressapochismo, senza pensare di doverlo fare sempre e comunque. Se altre sono coinvolte, occorre far presente soltanto che i rapporti sono duali, non con un gruppo: che scelgano liberamente a chi far riferimento, osservandone le conseguenze.
– Provo ammirazione per donne appassionate e irruenti, con intelligenza acuta e capacità di individuare errori politici più rapidamente di molte. Accade però che non sappiano trattenersi: criticano pubblicamente prima ancora che una riesca ad aver chiara la propria posizione. Quella a cui è indirizzata la critica si trova nella situazione paradossale di domandarsi: “Che cosa non va bene di quel che ho detto se non l’ho ancora detto?”
E le altre del pubblico e io pure, sconcertate per la veemenza, facciamo ipotesi su cosa verta quella critica che quasi sempre si rivela giusta e finalmente capiamo dove va a parare. Dunque è importante parlarne, riconoscere il danno dell’impazienza che può aprire incomprensioni durature ma anche il merito dell’intuizione anticipatrice e il vantaggio che se ne può ricavare.
Il problema è che si tratta di una situazione pubblica. Quando ero amica di chi era stata attaccata, ho avuto la possibilità di farle vedere la sostanza. Quando parlavo con chi aveva assistito come spettatrice non sempre mi è riuscito di modificare l’idea che la forma fosse letta come sostanza di un modo irrispettoso e gerarchico di intendere le relazioni.
In passato per sopportare questi comportamenti dannosi usavo un metodo psicologico-giustificazionista: li collegavo ai racconti sulle loro vite che pubblicamente le donne in questione facevano, li consideravo traumi che le spingevano a una “coazione a ripetere”, ero una specie di rabdomante alla ricerca delle sorgenti nascoste: la rabbia si trasformava in pena per i lacci in cui le vedevo avvolte. Poi un’amica, arrabbiatissima per quello che le era stato fatto, alla spiegazione del mio metodo mi ha detto che tutte abbiamo avuto i nostri traumi, anche più dolorosi, eppure non ci comportiamo tanto male, che lei non aveva nessuna voglia di soffrire per cui sarebbe andata in luoghi più piacevoli. Così ho perso buone occasioni per incontrarla e ci limitiamo a sentirci per telefono. Ma ho avuto modo di riflettere su come può muoversi questa sorta di “trinità femminile” perché la creatività femminile non resti impigliata in rovi urticanti e si apra al meglio imprevisto.
- Per il progetto Riparare le relazioni Donatella Franchi e Adriana Sbrogiò hanno chiesto a donne e uomini a loro legate di inviare dei brevi testi sul tema che ricamati o stampati su tessuto hanno costituito la base per un’installazione.
Il testo di Luisa Muraro è: Lasciate perdere l’impresa quasi impossibile del riparare le relazioni rotte, insegnate piuttosto a non romperle. /Ricucire le relazioni? insegnate piuttosto a prevenire le rotture, “i sbreghi no se ripara più”.
La documentazione del lavoro è pubblicata in http://ripararelerelazioni.netsons.org/ ↩︎
Parlare bene delle donne si è rivelata espressione potente, sia durante l’incontro di VD3 così intitolato, sia nei successivi interventi pubblicati sul sito. Molti i possibili utilizzi e le interpretazioni.
Nell’impossibilità di parlarne senz’altro bene, sospendere il giudizio per darsi il tempo necessario a comprendere, a spiegare posizioni o comportamenti di altre che avvertiamo intollerabili, svilenti, per noi e le nostre simili: questo il suggerimento di Lia Cigarini durante la discussione.
Il punto, mi pare, è trovare una spiegazione che sia politicamente efficace, che rilanci la relazione. La sfida è che anche la spiegazione non sia svilente o umiliante per le destinatarie. E cominci ad avere in sé qualche elemento di positiva elaborazione.
È necessario, indispensabile per aprire e praticare un conflitto. Deve, può essere il primo di innumerevoli passi per creare un ponte con quelle – donne e posizioni – che più lontane non si potrebbe immaginare.
E il ponte è così fatto: comprensione/spiegazione per operare traduzione di linguaggi, per agevolare passaggio di esperienza e saperi, insomma per mettere in moto le tante mediazioni che la realtà consente.
Nel più profondo di me stessa so che si tratta di un lavoro difficile.
Ho avuto un pessimo rapporto con mia madre e solo nell’imparare a parlarne bene ho trovato la mia salvezza. Per questo, da quasi quarant’anni, presto assidua attenzione a ciò che è corso tra noi. Eppure, ancora oggi, ritrovo intere distese di significati incolti, tenuti lì a marcire, privi di una parola vivificante che ne dia una spiegazione dignitosa eonorevole sia per me sia per lei.
Parlare bene delle donne è impegnativo.
Ma questa formula a me pare un formidabile passo in avanti rispetto ai tempi in cui sapevamo solo dire quanto fossero difficili i rapporti fra donne. Arriva salutare e benefica in tempi che sono pieni di iniziative, di presenza e di sperimentazione di donne.
È uno scenario immenso e inusitato. Al nostro sesso toccherà accumulare esperienze, le più varie, senza avere precedenti. Occorrerà provare e riprovare, perché si sedimenti un sapere, un’eredità per quelle che verranno dopo. Sarà inevitabile, credo, sbagliare molto. Donne e uomini, amiche e amici dovranno dimostrare di saperci aiutare, di saper aiutare le tante nostre simili che sbaglieranno.
Non se ne può parlare male, non si può.
Non c’è che prendersi il tempo necessario per parlarne bene.
È quanto già accade, che donne e uomini accorrano a comprendere, analizzare, ipotizzare spiegazioni che possano giustificare gli errori che commettiamo.
Ne abbiamo avuto un esempio recente nell’impegno di Luisa Muraro, Silvia Niccolai, Daniela Danna e tante altre che si sono spese per arrivare a comprendere che cosa si gioca nel caso della cosiddetta Gpa, lì dove il mercato, il capitale, le biotecnologie, i colpi di coda del patriarcato forse imperversano, ma dove è soprattutto importante comprendere errori, distrazioni, sviste di donne che possono ingannare e confondere noi stesse e molte altre.
Beati i puri di cuore ché questo mondo non è per loro, mi veniva da pensare, interpretando a modo mio la Beatitudine, dopo aver visto l’ultima opera di Alice Rohrwacher, ancora più visionaria e magica delle precedenti.
Da un’umanità contadina, misera, schiava, paurosa, ignorante per la cupidigia e l’inganno dei latifondisti – nel film il ferreo dominio della marchesa Alfonsina de Luna – a quella postindustriale delle periferie emarginate, i poveri sono sempre gli stessi, anzi di più insieme alle schiere dei migranti, e sempre più poveri; i ricchi sempre più lontani e invisibili.
Lazzaro (Adriano Tardiolo, al suo felice esordio), il mite, il semplice, il buono, passa dagli uni agli altri – dopo la sua miracolosa resurrezione che segna i due tempi – con la sua naturale gentilezza, l’inesauribile generosità e altruismo, l’assidua attenzione e cura per loro e le loro vite, senza quasi lasciare mai traccia. Invisibile anche a chi gli dovrebbe un gesto di gratitudine. Ma per queste donne e uomini, provati dalla fatica e dal disinganno, i suoi non sono beni spendibili e trasformabili in denaro sonante. Lui stesso, man mano che la storia procede, è sempre più un Lazzaro stralunato che si vede ricambiare la bontà con la sgarberia e la violenza, la fiducia con la noncuranza, l’inganno e le bugie.
Lazzaro non ha origini, non ha famiglia, non ha terra, è l’ingenuo, lo “scemo”, lo sfruttato dagli sfruttati perché questa è la condizione sua di stare nel mondo: innocente, fedele a se stesso, spontaneo, incapace di mentire e di tradire.
Nelle sue precedenti opere – Corpo celeste e Le meraviglie – Alice Rohrwacher tracciava per le sue protagoniste percorsi di presa di coscienza e di possibilità di scelta di un futuro di libertà fuori da tradizioni, costrizioni e pregiudizi; qui, la suggestione è verso un’intera umanità, donne e uomini, che potrebbero prendere in mano il proprio futuro liberandosi dal dominio delle paure e scoprendo che il lupo della favola, che porta terrore e morte, è vecchio e debole e non può più diffondere né incutere timore (esplicito il riferimento al libro di Chiara Frugoni, San Francesco e il lupo. Un’altra storia, Feltrinelli, 2013).
La regista rinnova il desiderio degli altri suoi film di rapportarsi alla natura e ai suoi segni. In Lazzaro felice vediamo la natura passare da entità forte, potente e rispettata a una sua versione ridotta e deformata: piccoli bordi ai margini delle ferrovie, dove crescono erbe e arbusti, stentate verzure lungo strade ancora sterrate delle periferie abbandonate che contornano capannoni e depositi in disuso. Il suo desiderio di riscatto fa meglio comprendere la scena finale del film.
Lo sguardo della regista, attraverso quello di Lazzaro, è nuovo ed esplora, con un’immaginazione ineguagliabile, stati e momenti delle esistenze, stati nascosti che forse preferiremmo ignorare, muovendoci sinuosamente per non vedere, facendoci passare per normalità quello che normale non è.
Mi piace qui riportare ciò che ha scritto in una nota di regia sul film: «Racconta la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta, e li interroga con un sorriso.»
Lazzaro felice è stato premiato al 71° Festival di Cannes per la miglior sceneggiatura.
Qual è il nesso tra il “parlar bene delle donne” e la creatività di pensiero e di azione? E perché “parlare bene delle donne” nell’accezione data da Zamboni nella riunione di Via Dogana 3 del 13 maggio – una posizione presa a priori come postura […] un tempo di sospensione dall’accettazione o rifiuti immediati – è ciò che consente un approccio creativo ai problemi, alla ricerca delle risposte possibili e in una certa misura anche alla soluzione dei conflitti?
Queste due domande hanno percorso per qualche aspetto la riunione di Via Dogana 3 e qui vorrei ritornarci.
È mia convinzione che, più che un nesso, ci sia addirittura una sovrapposizione: la postura del “parlar bene” è la stessa che è necessaria per dare spazio alla creatività. Si tratta però di intendersi sul termine creatività, troppo spesso identificata con attività effimere, bizzarre, modaiole, talvolta screditate o screditabili (es. la finanza creativa!). Oppure con un imperscrutabile dono divino riservato a pochi eletti.
La creatività di cui parlo è uno stile di pensiero, una forma mentis che orienta alla trasformazione e al cambiamento in meglio rispetto all’esistente.
Fra tutte le definizioni di creatività che girano la più bella e la più convincente, non solo per me, è quella data da Henri Poincaré, matematico-fisico-astronomo-filosofo della scienza, vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Per Poincaré «creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove che siano utili». Cioè, nessuno crea dal nulla. Si parte da elementi esistenti (idee, concetti, fatti, dati di realtà, saperi) per generare connessioni e conclusioni nuove. Non basta tuttavia che ci sia “novità”. La novità deve essere “utile”. E io aggiungo, a scanso fraintendimenti, utile all’umanità.
Cosa caratterizza la forma mentis creativa? Ecco, è qui che trovo la perfetta corrispondenza con il “parlare bene delle donne”. Questa forma mentis presuppone apertura, richiede di abbandonare le risposte standard, le prime che ci vengono in mente a partire dalle nostre credenze, convinzioni, informazioni. Per dirla con Edgard Morin, «Si tratta di sostituire un pensiero che separa e riduce con un pensiero che distingue e che collega».
È il “passo indietro” di cui parla Zamboni.
È “una postura”: quella posseduta dai bambini (finché sono molto piccoli, quando fanno mille domande e si pongono tanti perché) e da tutte le innovatrici e gli innovatori che ci sono state/i nella storia. Potenzialmente posseduta da tutte/tutti e, specialmente, dalle donne che trovano continuamente risposte non necessariamente eclatanti ma certamente creative ai mille problemi quotidiani. Ugualmente, però, non è una postura facile, non è detto che sgorghi spontaneamente: siamo troppo abituate a visioni manichee, a contrapporre giusto-sbagliato, bello-brutto, bianco-nero, specie quando all’ordine del giorno ci sono i grandi temi che più ci coinvolgono.
È per questo che si afferma, e io lo condivido, che questa postura si può anche apprendere o incrementare.
Nella pratica creativa, per allenarsi a fare questo passo indietro, per favorire la capacità di scoprire nuovi nessi e accogliere nuovi punti di vista senza restare chiusi nelle proprie gabbie mentali, si richiede di sospendere il giudizio.
La sospensione del giudizio è un passaggio, un darsi il tempo di capire e immaginare prima di passare alla valutazione (valutazione, non giudizio!) e all’azione. È in questo tempo “di sospensione” che la mente riesce ad allontanarsi dal già detto, dal “si è sempre fatto così”, dalle risposte scontate. E si aprono strade nuove.
Io interpreto in questo modo anche l’atto creativo che ha dato vita al movimento femminista delle origini. Con un gesto concreto – la separazione dai maschi – molte donne si sono prese il tempo e lo spazio per fare un passo indietro rispetto a educazione, saperi trasmessi e convinzioni interiorizzate. E abbiamo cominciato a farci delle domande (perché questi nostri disagi? cosa vuol dire essere una donna?) e a scoprire che la posizione in cui ci siamo trovate con la nascita non è l’unica possibile, che da millenni sulla differenza sessuale è stato edificato l’ordine patriarcale, che questo ordinamento ha sancito la nostra secolare inferiorizzazione. E che tutto questo non è immutabile.
Per quel che mi riguarda la sospensione del giudizio, in questo caso, si è configurata come un atto di pulizia mentale rispetto ai filtri percettivi, culturali e simbolici che fino ad allora avevano operato in me. E, parafrasando Chiara Zamboni «ho fatto silenzio dentro di me per riorientarmi».
L’espressione “sospensione del giudizio”, nella discussione che ha fatto seguito alla riunione di Via Dogana 3 sul “parlar bene delle donne”, non è stata da tutte accettata. Forse fa pensare a una capitolazione, a una rinuncia o a un’autocensura. Per come la intendo io – e per come agisce nei processi creativi – significa autorizzarsi a fare come fanno i bambini che, di fronte a un oggetto, se lo girano tra le mani, lo guardano, lo toccano, lo annusano per capire cos’è, come e fatto. È autorizzarsi a esplorare e a guardare il paesaggio da più punti di vista.
È esattamente quello che Vita Cosentino afferma nel suo articolo Il bandolo della matassa (curiosamente contestando l’espressione “sospensione del giudizio”). Vita dice: «Alcune hanno interpretato come sospensione del giudizio quello che ha detto Chiara Zamboni nella sua introduzione quando ha affermato che “c’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà”. Io dissento da quella interpretazione, perché per me l’accento va posto su quel “prima” che è una postura da prendere e che cambia lo sguardo sulla realtà».
La sospensione del giudizio, a mio parere, si situa proprio in questo “prima” ed è ciò che consente di cambiare lo sguardo sulla realtà.
Mi viene in mente a questo proposito l’esercizio mentale di sospensione del giudizio che ho dovuto fare al momento dell’elezione della Presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Come trattenermi dal lanciare – ad es. sulla mia pagina Facebook – frasi screditanti o previsioni catastrofiche conoscendo il suo background berlusconiano e, peggio di tutto, la sua difesa della “nipote di Mubarak”? Ho resistito. Mi sono detta «Aspetta Silvia, magari nella nuova posizione succede qualcosa di diverso».
Se non vedrò qualcosa di diverso non mancherò di fare le mie valutazioni. Ma non credo di aver sbagliato, come primo passo, a starmene in silenzio.
Penso che così facendo, se dovrò esprimere una valutazione critica, non sarà di contrapposizione precostituita, ma sarà precisa e circostanziata. Indirizzata al comportamento, non alla persona.
Un tempo mi divertivo a dichiarare il mio orientamento sessuale così: sono bisessuale, non mi piacciono né gli uomini, né le donne. La mia visione dell’umanità, in effetti, è negativa e tiene conto dei due sessi: gli uomini sono cattivi, le donne sono deboli. Gli uni impongono rapporti di dominio, le altre li subiscono o li tollerano, pur di preservare il legame.
Un mio amico di gioventù, per correggermi, sostenne che la grande forza della sua fidanzata consisteva proprio nella capacità di sopportarlo. Aveva qualche ragione, ma la condizione di debolezza consisteva, per me, appunto nel dover impiegare la propria forza, per riuscire a sottostare ad un prepotente.
Questo è quello che ho visto, in sostanza e in vario grado, nella storia millenaria studiata sui libri o narrata nei film, e prima ancora, nella storia più breve e recente delle mie famiglie, dei miei circoli di amicizia, nei rapporti politici e di lavoro. Se ho visto sempre questo, ciò deve avere un fondamento ed essere diffuso. Oppure sono proprio io a guardare da una finestra che mi fa vedere le cose in modo poco o tanto deformato. Con questa visione primordiale, parlar bene delle donne (e di chiunque) è complicato e, al tempo stesso, una opportunità terapeutica. Riuscire a vedere cosa c’è di buono nella propria madre, nella propria nonna, nelle donne della propria vita, può forse salvaguardare qualcosa anche di me stesso. Una donna mi ha generato, lei e altre donne mi hanno nutrito, allevato, istruito.
Non saprei da dove cominciare, ma credo di essermi già avviato, per sentieri che ancora conosco poco. Da quando frequento la Libreria delle donne, parlo molto meno male delle donne (e anche degli uomini): un po’ per emulazione nell’ascoltare interventi, discussioni, nel leggere testi, più orientati a valorizzare che a svalutare e, persino a cercare il buono nel negativo; un po’ per l’adattamento ad un ambiente che cerca di aprire conflitti senza fare guerre, con il senso della misura e dell’equilibrio, anche a rischio di rinunciare a scegliere (cosa che talvolta un po’ mi irrita).
Il lato meno buono di questo mio adattamento, è che esito di più a dire quello che penso. Per esempio, penso, ma di solito non dico, che il concetto di vittima ha più accezioni e negare la donna vittima trova il suo significato più immediato nella negazione dell’oppressione. Nel rappresentare la donna debole (o vittima), c’è una (non l’unica) aderenza alla realtà, che non va rimossa e che trova una conferma nello stesso bisogno di ribadire che le donne vittime non sono. C’è, inoltre, il principio di rimontare una visione peggiore: quella della donna complice o profittatrice, che è stato poi il modo più violento di parlare delle donne da parte degli opinionisti ostili al #metoo. In questo senso, chiarire che le donne che hanno subito abusi, sono state vittime, è un parlarne bene.
Tra le cose che penso, ma esito a dire, c’è che non vedo in alternativa la politica nell’associazionismo, nel volontariato, nella cultura e la politica nei partiti e nelle istituzioni, né reputo una, per definizione, migliore dell’altra. Vedo pratiche politiche differenti, che possono convivere, pure nelle stesse persone, e aiutarsi a vicenda. Rispetto al tempo in cui esistevano grandi integratori sociali e grandi alternative di società, la politica è diventata meno interessante e più autoreferenziale. I limiti e i difetti imputabili alle donne politiche, anche nel confronto con il passato, non sono però diversi e più gravi di quelli imputabili ai loro colleghi maschi, anzi credo in media siano migliori, più competenti ed affidabili, e questo credo vada riconosciuto. Il parlar male della politica, dunque potrebbe non sfociare nel parlare molto male delle donne in politica.
L’omologazione penso dipenda, non da una natura irrimediabilmente maschile dei luoghi della politica istituzionale, rispetto alla quale le donne soccombono, ma dal fatto che le donne sono state finora troppo poche, per formare una sufficiente massa critica, per riuscire a stabilire relazioni tra loro più significative o paragonabili a quelle stabilite con i loro leader e colleghi maschi. Quando tra le poche, emerge una donna forte, autonoma, come nel caso di Laura Boldrini, arrivata ad assumere la terza carica dello stato, finisce poi per apparire isolata ed esposta ad un incivile bullismo sessista. Nonostante, si sia dichiarata subito femminista ed abbia intrapreso iniziative simboliche a favore delle donne, il femminismo, forse per disinteresse verso la sua pratica politica o per timore di essere strumentalizzato, non ha mostrato di sostenerla – e questo mi ha colpito – neppure nella forma minima della solidarietà.
Parlar bene delle donne non vuol dire parlar bene delle donne: per carità di patria, per partito preso, per non sparare sulla croce rossa. Perché è trendy e anche mainstream. Per comodità, mancanza di coraggio o di lucidità.
Parli bene quando vuoi aprire uno spazio in cui dai all’altra la possibilità di sperimentarsi, sperimentare. Parli bene se vuoi vedere la potenzialità di essere nell’altra donna. Se ne sei curiosa e ci credi. Se credi che il futuro lo possiamo generare e riconosci nell’altra la possibilità di generare futuro. È questo il parlar bene. Come è stato osservato, è proprio questo che amiamo nella letteratura e nel cinema delle donne. Lì vediamo all’opera la forza illuminante del parlar bene delle donne: lì la parola e lo sguardo hanno il potere di cambiare la storia. Possiamo imparare, almeno un po’.
Sospendere il giudizio non vuol dire non vedere quel che non ti piace, non pensare a quello che non accetti, mandare giù rospi. Sospensione del giudizio vuol dire fare un passo indietro per creare lo spazio sufficiente per agire il conflitto. Il conflitto infatti, a differenza della guerra di annientamento, è relazione. Dunque è possibile quando ci si dà spazio tempo e condizioni per dire, ascoltare ed essere ascoltate, contrattare. Possiamo accontentarci del puro giudizio quando non vogliamo entrare nella relazione conflittuale. Se riteniamo che non ne valga la pena.
Tutto questo non vuol dire essere accomodanti. Possiamo esercitare giudizio lucido e pensiero libero sui fatti ma mantenere la nostra fiducia nelle donne come soggetti politici. Non è facile, ma questo è il lavoro politico. Non è obbligatorio farlo. Ma è importante affinare questa capacità di giudizio che può tornare molto utile. Una discriminante che ci serve per capire come parlano le donne. Parlano bene se fanno emergere nelle altre quella potenzialità di essere; se valorizzano e non restano confinate nella posizione delle vittime, cioè di oggetto del discorso. Se non trasformano le donne in un puro argomento nella parola di altri. Questa è una bella discriminante. Parlare ribadendo la posizione di vittima, senza capire che cosa accade alle donne, non è parlar bene delle donne. Il manifestarsi pubblico di relazioni politiche tra donne è esattamente il contrario della posizione della vittima.
Io credo che sia un buon momento per parlar bene delle donne.
Alcune hanno interpretato come sospensione del giudizio quello che ha detto Chiara Zamboni nella sua introduzione quando ha affermato che “c’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà”. Io dissento da quella interpretazione, perché per me l’accento va posto su quel “prima” che è una postura da prendere e che cambia lo sguardo sulla realtà.
Per parte mia ho inteso il parlare bene delle donne come un dispositivo simbolico. Mi spiego con un esempio. Sempre Luisa Muraro e Chiara Zamboni, molti anni fa hanno lanciato l’autoriforma dell’università e della scuola con un’affermazione che ha parecchie analogie con quanto stiamo discutendo oggi. Hanno detto: “partire da quello che c’è e funziona”. Era un punto di vista del tutto inedito nel panorama della sinistra, incastrata nel meccanismo della denuncia per cui vedeva solo ciò che non funzionava. E ha tolto anche me da quell’incastro, facendomi vedere altro. Di mezzo c’è stata una trasformazione interiore. Questo è un punto che non si può saltare. Un dispositivo simbolico non è una pratica, non è una tecnica comunicativa, è una diversa disposizione interiore che ti fa vedere le cose differentemente.
Io, per esempio, partecipavo in precedenza al disprezzo con cui in sala prof si parlava delle maestre: “Non sanno insegnare”, “Ci arrivano che fanno ancora errori di ortografia”, “Non sono laureate”, erano le frasi ricorrenti del parlar male delle maestre. Poi ho capito che sbagliavo e sono riuscita a vedere che era l’ordine di scuola che funzionava meglio e ho cominciato a parlarne bene. E il resto è storia nota. E oggi nessuno più le considera inferiori. Anzi. È risaputa la loro bravura. Un dispositivo simbolico lavora di suo, per strade che non conosciamo.
Proprio perché ho fatto in passato quelle esperienze, sono attirata oggi dal parlar bene delle donne per le potenzialità trasformative che sento ne possono scaturire.
L’altra questione che mi sta a cuore riguarda il conflitto che sarebbe come contrapposto al “parlar bene delle donne”. Sempre riferendomi a quelle mie esperienze posso dire che se si tengono insieme si guadagna in intelligenza politica.
Sappiamo tutte che in questo momento sempre più donne si affacciano sulla scena pubblica in modi che magari non ci piacciono e questo chiede più consapevolezza. Chiara Z. nella sua apertura ha portato come esempio il suo rapporto a Verona con giovani donne del movimento Non una di meno e ci ha detto la sua postura che è quella di “avere fiducia nella potenzialità generativa che è viva”. Ha fiducia e pratica il conflitto circonstanziato su questioni precise. Luisa M. ci ha messo in guardia dal fare le cose per obbligo e nei suoi esempi riguardo al parlar bene delle donne ha mostrato i passaggi della sua trasformazione. Il suo invito è a trovare liberamente una nostra postura, per riuscire a vedere, per riuscire a capire e agire di conseguenza. La sua impostazione indica che il bandolo della matassa è la trasformazione personale.
Quando la Libreria ha chiamato a riflettere su come parliamo delle donne non aspettavo altro: dire quello che ho voluto sempre fare. Ho sempre parlato bene delle donne, dal primo femminismo, perché imparai ad amarle e conoscerle, a scorta arrivava il capire me stessa e conoscermi.
Come l’adolescenza in ogni cosa, arrivò nei primi anni ’70 la fatica di salvare me e loro nelle nostre differenze, processo infinito lungo la mia emancipazione dalla fusione con loro, e poi dalla insicurezza nel confronto delle idee, e ancora dalla delusione che non fossero comunque garanti anche del mio pensiero, che io fossi in effetti sola nelle mie idee, che mi dovessi bastare. Non è mai finita la battaglia per difendere le mie idee e abbeverarmi a quelle delle altre, per verificare che il pluralismo sia una realtà benefica per tutte, ma di difficile concezione per la fragilità di ciascun essere che non sia avvezzata alla coesistenza, all’ascolto del differente, al sapersi anche mentre tace.
Amarle e poi amarmi, e nonostante la differenza amarle ancora è stato l’esercizio quasi spontaneo di sempre (oggi mi conviene specificare per combattere una confusione che detesto: parlo di amore; non di desiderio sessuale o erotico). All’inverso comprendere me stessa mi ha portata a comprendere le donne, e così via, amo ormai sempre di più l’umanità, i processi naturali e tutte le creature.
È il conoscere che rende amabile, sapere di sé e degli altri, sapere di come le cose avvengono, di come si trasformano, “sapere” infonde amore.
Valutare il buono delle donne è stata la mia abitudine e intenzione sempre di più nel tempo, è avvenuto per empatia e per consapevolezza dei miei limiti; l’esistenza e l’azione di altre, il loro pensiero mi garantisce di non essere sola al mondo e di potermi aspettare benefici dagli altri non solo da me stessa. Preferisco riconoscere ad altre un pensiero prima che a me stessa, se così ho rintracciato, per la passione di valorizzare il nostro essere tante.
Certo qualche volta una critica, lucida oppure egoistica, la lancio come una frusta; e mi dà soddisfazione, riguarda l’azione di quella persona, un’azione per cui ho invidia (come Lia ci segnalò moltissimi anni fa) oppure fastidio: è il desiderio di avere con lei un confronto, di capire le sue ragioni e le mie.
(Tutto il femminismo a me è sembrato questo: comprendere la nostra sfiducia nelle donne e comprendere di che cosa fosse fatta. Vi trovammo l’opera instancabile degli uomini nello sminuire e deridere le donne, la nostra omologazione al pensiero maschile per sollevarci da una appartenenza che ci umiliava e ci opprimeva, la divisione dei compiti che snaturava la natura umana ed era la causa della svalorizzazione dei compiti dati alle donne e della esaltazione di quelli dati agli uomini. Vi trovammo la differenza delle donne dagli uomini come risorsa politica e intellettuale da scoprire, ma anche le differenze di ciascuna così come le somiglianze. Ci sono tutte le somiglianze degli esseri umani da ragionare, naturalmente è un lungo percorso.
Forse questa osservazione veniva data per scontata, proprio la libreria delle donne ha sviluppato la conoscenza della letteratura femminile da sempre e la discussione tra donne, a partire dalle soggettive esperienze è stata la prassi di tutto il movimento negli anni in cui si è costituita e l’ha continuata, così come anche moltissimi gruppi di donne hanno fatto.)
Come mai allora il ritorno su un dubbio: le donne non parlano bene di loro stesse, come fare per riuscire a non parlarne male?
Io sono fuori dai social, sono anche fuori dalla riflessione più interna alla libreria perché godo soltanto delle discussioni allargate e rarissimamente l’ho condotta; ora, dopo l’incontro a cui ho partecipato su questo argomento che da parte delle conduttrici è stato sviluppato sul conflitto tra pensiero giusto e sbagliato, sulle tensioni politiche tra donne, sulla didattica alla comunicazione tra donne; comprendo come sia scaturito da una attualità che vede chi lavora alla politica tra le donne essere immersa nella lotta di idee. E mi sovvengo di come la comunicazione solipsistica della scrittura, il confronto solo con le interlocuzioni che tu scegli sia ben più facile rispetto alla interlocuzione polimorfa del reale. Una comunicazione che va condotta mettendosi al servizio della comprensione del pensiero di altre e moltissime altre, per districare qualche filo conduttore, partendo dai più oscuri ma utilizzando i più chiari. Un puro servizio alla moltitudine! E dunque l’esperienza delle classi e dell’insegnamento, dell’autoritarismo e dei rischi paludosi dell’antiautoritarismo torna alla mente anche a me; così come l’abbandono per me risolutorio delle situazioni collettive più compromesse o anche di quelle dialogiche che hanno un retroterra troppo distante e troppo urgente. Abbandoni utili al fiato da prendere, al tempo da non perdere, all’attesa che qualche cosa maturi in altri e in me, abbandoni che mi lasciano vivere e che non sono definitivi.
Io ho dato per scontato che anche nel gruppo della libreria le persone abbiano fatto il percorso che personalmente ho fatto io. Un confronto con una realtà che mi respinge e qualche volta mi accetta, ma per parti; oggi ma non domani; con la lunga emarginazione; soprattutto con la comprensione degli altri e dei fatti che li motivano e delle azioni che compiono e dei risultati che conseguono; tutte cose che mi arricchiscono e mi modificano e mi fanno capire che io sono me ma il mondo è pieno di altri soggetti e forze diverse che agiscono inevitabilmente su di me. La trovo una esperienza benefica perché credo sia la verità, il limite che ci fa essere nel mondo, senza potere sugli altri ma con il piccolo nostro potere di comprendere.
Mentre mi viene naturale parlar bene di quanto le donne esprimono nel campo dell’arte, del pensiero e della letteratura, mi risulta invece difficile per quello che esse fanno e dicono nell’ambito della politica ufficiale. La ragione penso sia riconducibile a un generale sentimento di diffidenza nei confronti della politica e in particolare a un giudizio di omologazione al maschile nei confronti delle donne che si affermano in quel campo.
Da poco tempo mi sono però imposta di astenermi almeno dal parlar male, qualora non riesca a parlar bene, anche delle donne politiche. La decisione è seguita a una travagliata riflessione autocritica intorno al più recente episodio nel quale mi sono trovata a esprimere un giudizio negativo su donne protagoniste di un avvenimento politico. Al centro della riflessione c’era un mio articolo, uscito in occasione delle ultime elezioni amministrative per il Comune di Savona, nel quale stigmatizzavo la candidatura delle due donne che si contendevano la carica di sindaco al ballottaggio come mera operazione cosmetica e di facciata da parte dei partiti in forte crisi di credibilità nell’opinione pubblica. Una volta divenute una sindaca e l’altra capa dell’opposizione, mi sono sentita in forte imbarazzo e impedita nel fare interventi nel merito avendo realizzato che ogni possibilità di interlocuzione e confronto risultava compromessa in partenza proprio a causa del mio articolo; d’altronde mi son chiesta come avrebbe potuto agire quello stigma a parti invertite e ho dovuto ammettere che difficilmente io stessa avrei potuto avere sentimenti di apertura e disponibilità al confronto con chi mi avesse giudicata incapace di volontà propria e mero strumento di disegni altrui.
L’autocritica mi ha portato pertanto a concludere che, per quanto convinta di aver detto il vero, ritenendo in quel momento di non avere elementi per parlar bene a meno che non volessi limitarmi a esaltare la novità delle candidature in rosa, avrei fatto meglio a tacere. L’invito di ViaDogana3 all’incontro del 13 maggio ha però riaperto la questione e mi ha fatto capire che non potevo accontentarmi della conclusione cui ero arrivata, per cui mi sono recata all’incontro determinata ad accogliere qualunque idea in grado di aiutarmi a sciogliere il nodo nel quale mi sentivo avviluppata. In effetti le relazioni introduttive e diversi interventi hanno soddisfatto pienamente le mie aspettative consentendomi di mettere a fuoco i differenti modi nei quali avrei potuto agire positivamente nel caso in esame, evitando la chiusura della comunicazione e anzi tenendo la porta aperta a impreviste possibilità di scambio.
Accogliendo il senso dell’introduzione di Chiara Zamboni, avrei potuto sospendere il giudizio per rimanere in posizione di apertura e attenzione verso la “potenzialità di essere” insita nella scelta di mettere a disposizione della collettività la propria esperienza femminile da parte delle aspiranti sindache oppure, sull’esempio della celebre intervista di Ida Dominijanni a Patrizia D’Addario, fare un passo indietro e dare la parola alle due donne per fare emergere il loro punto di vista sul dispositivo (di potere) che aveva portato alla candidatura in rosa. La sospensione temporanea del giudizio avrebbe potuto consentire interventi successivi mirati e anche, come suggerito da Giordana Masotto, l’apertura di conflitti atti a spostare in avanti il terreno del confronto, oppure di capire meglio e trovare una spiegazione non superficiale dei fatti, come precisato da Lia Cigarini.
Anziché impormi anche temporaneamente il silenzio avrei potuto intervenire, secondo l’indicazione di Luisa Muraro, articolando diversamente il discorso in modo da mettere in luce anche il lato positivo di quell’avvenimento politico e riconoscendo alle due donne ciò che sappiamo essere una leva potente, in genere sottaciuta, del protagonismo femminile nella scena pubblica: il desiderio di riscatto personale e collettivo da una situazione storica di inferiorità come anche la volontà di significare simbolicamente valore e sapere femminile anche in attività tradizionalmente maschili.
Una presa di parola contestuale ma saggia e consapevole, con maggiore probabilità della sospensione del giudizio, avrebbe lavorato per l’apertura alla possibilità di sviluppi futuri, ma per prendere quella parola avrei forse dovuto fare appello all’empatia e al senso di sorellanza, di cui hanno parlato sia Luciana Tavernini che Luisa Muraro, che purtroppo mi risulta ancora difficile nutrire nei confronti di tutte le donne e in particolare per quelle impegnate nella politica maschile. Penso infatti che dovrò lavorare ancora molto per alleggerire il mio sguardo e la mente da pre-giudizi, antipatie, false certezze per divenire capace di scorgere anche nel negativo la possibilità del bene ed imparare a parlar bene delle mie simili anche quando sono dissimili da me.
Le parole molto usate o usate male, si logorano, ma le parole a certe condizioni hanno il dono di rigenerarsi. Siamo qui per trovare queste condizioni, anzi con il sentimento di creare qui, ora, tra noi, queste condizioni capaci di rigenerare parole come quelle del titolo. Privilegerò il punto di vista della donna che sono io stessa, ma la questione si pone anche, diversamente, dal punto di vista maschile.
Concordo con Chiara Zamboni che parlare bene delle donne, prima di essere un impegno, domanda una disposizione interiore di apertura. Imporsi di farlo è perfino controproducente. In generale, le esistenze femminili sono afflitte da troppe imposizioni, esterne o interiorizzate o interne. A furia di essere gentili, ci sono donne che alla fine delle loro vite riescono solo a parlare di dolori, disgrazie e cattiverie. Io ho smesso gli sforzi per essere gentile, che mi facevano ammalare.
Non è facile parlare bene delle donne. Intendiamoci su una cosa di fondo: come ha detto Simone Weil, “il male è il contrario del bene, ma il bene non è il contrario di niente”. A proposito, vi segnalo l’uscita di Giancarlo Gaeta, Leggere Simone Weil (Quodlibet 2018), quanto di meglio per avvicinare l’opera e la figura di questa pensatrice, alla quale Gaeta ha dedicato tanta parte del suo impegno di studioso.
Non è facile, ma s’impara. S’impara non come un dover essere o come una pratica politica. S’impara così come impariamo a parlare una lingua straniera o a cucinare bene. Dopo tanto esercitarsi, un giorno scopri che lo sai fare. Diventa una competenza e un’accresciuta familiarità tra sé e il mondo. Detto in altro modo e meglio: questo parlare bene è essenzialmente una risposta; da imparare sono le domande che portano a quella risposta.
L’input iniziale più forte a me è venuto quando mi sono resa conto che, scrivendo, ci riesco meglio se parlo bene delle donne, indipendentemente da quello che io ho progettato di scrivere. Anche le critiche mi vengono meglio. Perché e per come, posso solo supporlo. Quando si scrive, si tratta di non mentire, di non imbrogliarsi, di immaginare senza illudersi, di lavorare nella ricerca della verità soggettiva, di ascoltare, di rendere dicibile il vero… insomma, di attingere a quel bene che non è il contrario di niente. Suggerisco di farsi una strategia, come in tutte le cose che riguardano il gioco del dentro-fuori. Quello che dico di me può valere anche per te, ma non sostituisce la tua strategia. Per esempio, ho smesso di fare sforzi di gentilezza perché mi facevano ammalare, ma mi serve una strategia nei rapporti con le altre, altrimenti mi ammalo di rimorso.
Ci sono dei momenti speciali in cui si fanno passi da gigante. Uno è stato, per me, la nascita della Libreria delle donne qui a Milano. Con la presenza di tutte quelle opere femminili, mi sono resa conto che, fino allora, in maniera inconsapevole e automatica, la firma femminile si associava in me a un senso d’inferiorità. Libera da questo complesso, sono diventata più intelligente. Il femminismo da solo non bastava, infatti poteva ridursi a offrirmi uno sfogo nel parlare male e contro gli uomini. Il groppo restava dentro.
Di che cosa sto parlando? Della disgrazia di essere nata donna, per rispondere con parole di Simone Weil. Faceva groppo un’eredità millenaria di soggezione e di misoginia.
Non capiremmo la strada che ha preso una parte del movimento femminista (il trans femminismo di cui ha fatto cenno Chiara Zamboni nel secondo esempio) senza considerare l’impulso a trascendere la differenza sessuale, sentita come causa della “disgrazia”. Questo impulso c’è perché fra l’essere corpo e l’essere parola c’è la necessità di una mediazione: se questa manca e sei una femmina, la tua diventa l’indecente differenza, come l’ha chiamata Alessandra Bocchetti. Il parlar bene delle donne è questa mediazione in atto. Non è la strada che ha preso Simone Weil, lei ha preso un’altra strada. Il pensiero della differenza (la ricerca del senso libero della differenza sessuale) nasce storicamente dalla necessità della mediazione, tenendo presente che la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse.
Io mi sono azzardata a scrivere un libro sulla fortuna di essere nata donna facendo conto che ci siano donne che hanno accettato di esserlo nella maniera più pacifica e naturale. Ho davanti agli occhi il caso di una mia sorella. Queste donne (che di solito non diventano femministe) sono un ingrediente prezioso per fare società femminile. Anche la relazione tra sorelle, detto per inciso, è un ingrediente prezioso e mi viene in mente la felice idea di Ivana Ceresa di fondare un’associazione ispirata a questa relazione, la Sororità.
Ma il libro l’ho scritto e altri ne ho scritti perché io invece non ero come mia sorella, io avevo dentro quel groppo e non ho accettato la condizione umana così come mi si presentava. Non sono un’eccezione, c’è tutto il movimento femminista a dimostrarlo con la sua abbondante letteratura (lo scrivere, come il parlare, in generale, è lavoro di mediazione).
Quando dico “io sono una donna”, non è un’affermazione naturalistica, è una guadagnata rispondenza tra natura e cultura, una conquista. Per alcune la conquista sarebbe la transessualità. Non sono d’accordo ma conosco la difficile accettazione della condizione umana così come può presentarsi a una donna e so anche che la necessaria mediazione non è un possesso, è un attuare (un agire qui e ora). Quando incontri donne che prendono posizioni per te urtanti, c’è la possibilità di una narrazione inclusiva, senza per questo pasticciare con quello che per te è vero e giusto.
Prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo. La società femminile si regge su un’arte molto nominata e poco indagata, quella di un parlar-male-con misura, così come la società femminista si regge sulla capacità di confliggere senza farsi la guerra.
Un’altra occasione d’imparare le domande che portano alla risposta del parlare bene, è stata per me il cinema a firma femminile. Oggi penso con riconoscenza alla scelta dell’associazione “Lucrezia Marinelli” di raccogliere e far conoscere esclusivamente questo cinema. Non mi viene più l’impulso di confrontarlo con quello selezionato per il grande pubblico, che è maggioritariamente a firma maschile. D’altra parte, non c’è niente di strano se mi sono trovata in difficoltà davanti a un cinema con la sensibile impronta di una ricerca centrata sulle donne. Vuol dire che sono sulla strada di farmi le domande giuste. E proprio per questo, ho cominciato a prestargli un’attenzione speciale, come davanti a una scrittura che comincio a decifrare. Per esempio, nella protagonista del film di Francesca Comencini, Amori che non sanno stare al mondo, che è una tipa straordinariamente innamorata di un tipo gradevole quanto poco straordinario, ho riconosciuto un modo di essere posto a grande distanza da me, ma internamente a me (l’intima estraneità…).
Per una ragione simile frequento gli appuntamenti della Quarta vetrina alla Libreria delle donne, promossi dalla critica d’arte Francesca Pasini. In verità la situazione qui è diversa, io sono a disagio davanti all’arte contemporanea in generale. Li frequento per imparare a capire, avendo però capito a che porta bussare, da che porta passare.
L’idea che parlare bene delle donne sia, almeno per me, una risposta e una conquista, mi si è affacciata pochi mesi fa. Una giovane amica del Coordinamento delle teologhe mi aveva interrogato sul fare memoria del passato per andare verso il futuro. Le ho risposto che noi oggi, cioè l’umanità nel suo insieme se posso parlarne a partire da me, abbiamo il problema di sgombrare il futuro, sgombrarlo dalle macerie di speranze finite male e dalla sua attuale destinazione agli scopi dell’economia finanziaria. Una dimensione temporale per accogliere le cose buone, come ai tempi delle utopie politiche, per noi forse non c’è. E allora? Ho risposto: siamo donne, possiamo liberare la prospettiva del futuro generandolo, e mi sono messa a divagare su quest’idea, risalendo a Carla Lonzi che ha detto che noi femministe non abbiamo bisogno del futuro, e prima ancora, fino ai primi cristiani che si erano messi ad aspettare il ritorno del loro Maestro, credendolo imminente.
Ma in pratica, ho dovuto fermarmi e chiedermi, che cosa vuol dire generare il futuro? Ho scoperto così che una risposta buona, almeno per me, c’era già: nei limiti delle mie possibilità, ho scritto, vuol dire obbedire a una richiesta dei nostri tempi che è di parlare bene delle donne, dopo secoli e secoli d’iniqua maldicenza. (Poco dopo aver formulato questa risposta, il direttore di un quotidiano italiano pubblicò un goffo elogio delle donne, in prima pagina; era alle sue prime prove e faceva un po’ ridere, ma c’era lì la timida conferma che si tratta di un’esigenza sentita ai nostri tempi.)
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.
C’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà. Questa apertura mostra che noi ne siamo del mondo e il mondo è in relazione a noi. In termini politici questa apertura significa che le donne e gli uomini mi interessano, quel che fanno mi riguarda sempre e comunque. Ogni loro azione, discorso mi coinvolge, mi ferisce, aumenta il senso di me o mi diminuisce. Ha a che fare con la mia vita.
Non si tratta dunque di assumere come buona pratica il parlare bene delle donne contro la pratica del parlarne male, ma di portarsi su ciò che è essenziale e cioè questa apertura per cui tutto è interessante. Mi riguarda. Ed è a partire dal fatto che mi riguarda che sono portata poi – in seconda battuta – a formulare dei giudizi.
Compiendo questo passo indietro, mi fermerei sul fatto che questo interesse per il mondo prima di ogni giudizio mi porta a dare poi dei giudizi non tanto positivi o negativi, quanto singolari, circostanziati, sapendo che comunque sono coinvolta soggettivamente perché nel comportamento dell’altra c’è qualcosa che ne va di me.
Porto un esempio di passo indietro dall’immediatezza di un giudizio positivo o negativo nel considerare il comportamento di un’altra donna. Ricordo come nel 2009 Ida Dominijanni avesse presentato su «il manifesto» la figura di Patrizia D’Addario, una donna che era entrata nel circuito dello scambio sesso-denaro nella costruzione del mito di potere ruotante attorno alla sessualità maschile di Berlusconi. Avevo letto allora gli articoli. Ho riletto poi su Patrizia D’Addario le pagine che Ida Dominijanni le dedica in Il trucco. Sessualità e biopolitica alla fine di Berlusconi (Ediesse, pp.71-101). Lo porto come esempio cruciale perché mi ricordo che nel dibattito femminista del tempo D’Addario veniva giudicata o positivamente (si tratta di libertà femminile e ognuna può regolarsi come crede) o negativamente (è un esempio di sottomissione alla logica di uno scambio maschile). Dominijanni ha fatto un passo indietro rispetto a questa contrapposizione. Ha intervistato, cioè dato parola pubblica, a D’Addario. Ha dato voce agli elementi di scarto soggettivo rispetto al modello previsto di giovane donna nel contesto della sessualità di potere maschile, al lato affettivo di differenza femminile che ha spinto lei, a differenza di altre, a portare a luce pubblica i comportamenti di Berlusconi mostrando il castello di carta di una sessualità di potere, che è di carta solo se donne a partire dalla loro esperienza ne parlano.
Ovviamente il lavoro simbolico di mostrare le potenzialità politiche del gesto di D’Addario è tutto di Dominijanni, perché Ida ha a cuore la politica delle donne, che è come dire che le interessa il mondo e se ne sente parte.
Quale guadagno da questo esempio? Che in realtà l’invito a parlare bene in generale delle donne – quando è una posizione presa a priori, come postura – significa creare un tempo di sospensione dall’accettazione o rifiuto immediati. Comporta che per un po’ mettiamo tra parentesi il lavoro simbolico di capire il comportamento di quella singola. Questo di solito per due motivi. In primo luogo perché per il momento non abbiamo elementi per arrivare a un giudizio singolare. In secondo luogo abbiamo bisogno di fare silenzio dentro di noi e riorientarci. Dunque interpreto l’invito a parlare bene delle donne in modo generale come attesa per avere il tempo di andare a una conoscenza effettiva della situazione. Certo c’è un guadagno di tutte a fare un passo indietro dall’immediatezza dell’accettazione o rifiuto. Per poi, come nel caso di Ida Dominijanni e Patrizia D’Addario, andare a una comprensione dell’altra, cioè a dare spazio alla voce singolare all’interno di una trama simbolico-politica della realtà.
Porto un secondo esempio. Frequento occasionalmente a Verona il gruppo di giovani donne del movimento Non una di meno. Il mio giudizio è positivo o negativo? Da un lato sono molto contenta che ci siano perché è legato a un movimento femminista presente in più paesi, che oggi trovo tra i più interessanti. Le ragazze del movimento a Verona hanno un riconoscimento vero, non formale, del pensiero della differenza e allo stesso tempo sono del tutto impegnate in una loro ricerca autonoma attorno alla parola orientante di transfemminismo, come termine ancora da scoprire e inventare. Tuttavia in una città come Verona, nella quale la sinistra tradizionale è più assente che altrove, si stanno caricando di compiti, che sono stati propri della sinistra: l’antifascismo, le manifestazioni per il 25 aprile, e così via.
Da un lato vedo in loro delle grandi potenzialità, un femminismo radicato, ma allo stesso tempo osservo che si fanno portatrici di valori già consolidati e sperdono la loro energia nell’organizzazione di manifestazioni che tendono in parte a sostituirsi alla sinistra nella forma dell’attivismo.
Perché porto questo esempio? Sono ragazze che mostrano grandi potenzialità. Sono vitali, intelligenti, appassionate del femminismo. Tuttavia rischiano di sperdersi per sostenere battaglie non loro. Non mi sento di dare un giudizio definitivo né di bene né di male. Ho un atteggiamento di apertura nei loro confronti perché sento la potenzialità che esse fanno essere anche per me. La loro potenza d’essere è un processo in atto. Possono fare degli errori, sbagliare, ma sento che il loro percorso è agli inizi, si misura nel processo stesso, che sicuramente è a zig zag, non lineare.
In questo caso il parlarne, dandone un’immagine complessivamente positiva e generale senza rigettare subito certi aspetti particolari, significa lasciare tempo che questo movimento inaugurale si faccia processo. È avere fiducia nella loro potenzialità generativa che è viva.
Questa riflessione è estendibile al rapporto con molte donne che mi interessano. La vita di una donna infatti non è un percorso legato a un destino che realizza consapevolmente.
Hannah Arendt alludeva al fatto che solo dopo la morte possiamo vedere il disegno che con i nostri passi abbiamo disegnato. Mentre siamo in vita, prevale invece il senso dell’imprevisto, della possibilità di una nuova nascita, di una potenzialità d’essere che una donna vive come processo in atto. Se mi è facile vedere in un movimento politico inaugurale la potenzialità che si fa processo, più complesso riconoscere questa potenzialità in donne che conosciamo da tempo e che vediamo ripetere gesti che esprimono una ferita interiore. Ma anche la ferita può diventare potenzialità politica-esistenziale. Penso che giudicare apre uno spazio simbolico positivo se manteniamo sempre aperto il senso di questa potenzialità d’essere, la possibilità di una svolta, di un nuovo inizio.
Allora anche un giudizio negativo rivolto a una donna a cui si tiene può risultare un aiuto per rimettere in movimento il processo trasformativo che magari vediamo essersi bloccato.
Voglio differenziare in modo netto l’invito a parlare bene delle donne in forma generale dalla pratica del conflitto politico. I conflitti politici con altre non nascono da giudizi positivi o negativi su di loro, ma per un discorso sulla realtà che viene fatto in modo contrastante e dove ognuna porta ragioni diverse. Il conflitto politico riguarda precise questioni del mondo comune e il significato da dare alla realtà. Scontrarsi politicamente con una donna non implica parlare male di lei nella sua singolarità d’essere. Anche se da sempre mi interessa capire il legame tra uno stile di vita, un modo di esserci e le posizioni prese sul mondo.
Detto questo, mi sono chiesta che parte abbia il legame con il materno nei giudizi particolarmente negativi di donne su altre donne.
Si sa che tra noi e le altre donne c’è un legame in cui le soggettività non sono del tutto individualità separate. Né una né due ma anche allo stesso tempo una e due con l’altra. Ciò accentua l’opacità fantasmatica, onirica del nostro rapporto con le altre. Non siamo di fronte ad una vera e propria confusione ma non si può parlare nemmeno di autonomia individuale e questo ha a che fare con il nostro legame con la madre da cui ci siamo separate ma anche non ci siamo separate. E così con le altre donne. Lo considero un elemento di forza che però rende complesse le relazioni femminili. Un aspetto che vedo risulta abbastanza incomprensibile agli uomini.
Questa prossimità intessuta di fantasmi spiega la durezza di giudizio di alcune donne sulle altre, che nasce di frequente dal fatto che l’altra non è lo specchio in cui vorremmo rifletterci. Non è mai sufficientemente all’altezza, non è mai perfetta. Non essendo perfetta, riflettendoci in lei, noi stesse ci sentiamo di meno. È questo che è insopportabile.
Ho in mente lo sguardo di amarezza, la bocca piegata in una smorfia in chi con sdegno parla male di altre donne. Non si tratta di un giudizio morale: c’è qualcosa di ferito rispetto a sé quando l’altra non è all’altezza.
È proprio in rapporto a questa situazione che è così importante l’orientamento della politica delle donne che tiene assieme aspetto soggettivo e politico: riscatta infatti le nostre ferite, le nostre mancanze, non negandole o aggirandole, ma mostrando che la loro verità è parte di un percorso politico dove la nostra soggettività è il luogo di sperimentazione di quello che capiamo e possiamo fare. Senza dunque sanarle, ma facendole parlare. La politica delle donne impara dalle mancanze e dalle ferite, e per questo aiuta a limitare il rifiuto della inadeguatezza di altre in cui ci rispecchiamo.
Cosa succede quando un giudizio negativo – comunque alla fine formulato – può andare a male, diventa disgregante? Questo tema è al centro del libro di Diotima La magica forza del negativo (Liguori).
Mi sono fatta l’idea che parlare bene delle donne come atteggiamento di fondo, come interesse e apertura, permette di dare spazio al negativo senza che questo vada a finire male. Può sembrare un paradosso ma non lo è. Cerco di spiegarmi.
Succede a volte che lo scarto che noi avvertiamo nei confronti di un’altra su cui formuliamo un giudizio negativo scivoli nella disgregazione del rapporto, con uno scacco conseguente sia della lingua sia della politica. La differenza che sentiamo con lei e che porta ad un giudizio negativo, se va oltre un certo limite, diventa ostilità nichilistica. Muro. Interrompe il circuito della politica.
Per questo è così importante formulare con finezza un giudizio singolare e circostanziato sull’altra. Questo impedisce che lo scarto tra me e lei diventi disgregazione e assuefazione alla disgregazione, cosa ancora peggiore.
In un saggio intitolato La grazia del no e contenuto in questo libro di Diotima, Cristina Faccincani rilegge il racconto di Melville intitolato Bartleby, dove lo scrivano pagato per trascrivere dei documenti dice: preferirei di no. Cristina lavora sulla grazia del no come un sottrarsi, un aprire uno spazio simbolico. Lo scrivano si ritrae «abolendo contemporaneamente ogni accettazione e ogni rifiuto, devasta e sabota i presupposti di ogni reattività abituale. (…) Facendosi vuoto di contenuti consolidati e familiari, apre spazi al processo, all’ignoto, alla differenza, al cambiamento, alla creazione» (p. 196).
Cosa guadagno da questo testo rispetto alla questione che ci sta a cuore? Rileggo la proposta di parlare bene delle donne come passo indietro dal parlarne male. Non tanto effettivamente parlarne bene sempre e comunque nei giudizi, ma astenersi dal parlarne male, perché ciò crea vuoto nei confronti dei contenuti consolidati, familiari, scontati e reattivi. Apre alla differenza, allo scarto, alla possibilità di cambiamento. Evita l’atteggiamento immediato di accettazione e rifiuto, facendo un passo indietro, cioè stando nell’apertura di cui parlavo all’inizio.
In questo modo si permette che appaia altro dell’altra. Ricordo una frase di Simone Weil nei Quaderni: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti» (Quaderni, vol. 1°, p. 258).
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.
Il tema “parlare bene delle donne” mi ha sollecitato alcune riflessioni sul mio approccio al cinema delle registe e sul lavoro di recensione dei loro film.
Sono state illuminanti le parole di Luisa Muraro che nello scritto Parlare bene delle donne, trans comprese (VD3, 5 aprile 2018) dice: “A me tocca parlare bene delle donne e, quando non posso, tacere. […] Parlo per me, lo ripeto, ma la decisione ha in sé delle ragioni più grandi di me. […] So che c’è di mezzo una questione di giustizia. […] Sicuramente c’entra anche l’avere cognizione di causa; Simone Weil avrebbe parlato di attenzione”.
E quelle di Lia Cigarini che nel suo intervento all’incontro “Sulla violenza. Ancora” / Non accontentiamoci di mezzo mondo (www.donnealtri.it, 28 febbraio 2018) dice: “L’impegno e le energie, a mio parere, dovrebbero essere rivolte principalmente a parlare della donna uccisa: narrando la sua storia e dando un senso, un nome, al diniego che l’ha silenziata per sempre. Queste donne uccise sono protagoniste in prima persona della rottura del patto sessuale che sottendeva tutte le istituzioni sia quelle democratiche che quelle autoritarie conosciute fino ad ora.”
Per me si tratta, e mi interessa, avendo chiaro il forte impatto che il cinema ha sull’immaginario, di cercare nei film delle registe il nuovo: nuovi sguardi sui cambiamenti che le donne stanno mettendo in atto in tutto il mondo, sulle nostre nuove possibilità, sulla ricerca di nuove strade di libertà.
Sappiamo bene come il cinema recepisca velocemente i mutamenti e questa capacità l’hanno mostrata bene le registe a partire dagli anni Settanta con il femminismo.
Mi interessa come le registe (la maggior parte delle quali è anche sceneggiatrice e ideatrice del soggetto) raccontano le donne nelle loro esistenze; come costruiscono i personaggi femminili: i loro percorsi di coscienza; i desideri, le passioni; i sentimenti di libertà; la volontà di darsi un futuro o a volte solo la speranza di averne uno, la ribellione rispetto alle costrizioni, ai ruoli predefiniti. A questo proposito la grande regista Jane Campion dice: “mentre gli uomini raccontano ‘le donne dei sogni’, le donne raccontano come sono le donne reali”.
E infine, mi interessa, per significare sicuramente il nuovo, come le registe agiscono il cambiamento, come rovesciano, ad esempio, un finale, capovolgendolo, così da giocare uno scacco alla “predestinazione”. Mi piace qui ricordare la versione data da Agneszka Holland nel suo film Washington Square – L’ereditiera rispetto all’omonimo romanzo di Henry James e quella di Jane Campion in Ritratto di signora sempre tratta da un romanzo di James.
Tutto questo però evitando di cadere nel buonismo, nell’apologia o nella censura.
All’opposto parlando del negativo e ricordando l’importanza del suo lavoro “per sciogliere legami non liberi, sgombrare la mente da costruzioni inutili, alleggerire la volontà da fardelli insensati” (Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, 2005), porto come esempio, come esso operi nei film delle registe, ancora Jane Campion.
Le protagoniste di J. Campion – la regista con la sua opera copre un arco temporale che spazia dall’Ottocento ai giorni nostri – sono donne costrette dentro i vincoli della società patriarcale o da quelli istituzionali e, comunque, anche se non patriarcali, dentro rapporti di potere maschili, contro cui si scontrano passando anche attraverso le loro zone buie, le loro contraddizioni e debolezze e anche attraverso relazioni negative o false con donne. Compiono un viaggio, una rinascita che è la scoperta della potenza dei loro desideri, della sessualità, del piacere dei corpi. Un cambiamento che produce un sentire e un vivere più pienamente le loro vite. Le loro irrequietezze, instabilità e nevrosi hanno trovato la strada e si sono trasformate in una forza vitale.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.
domenica 13 maggio 2018 ore 10.00-13.30
Cosa vuol dire parlare bene delle donne?
Quando per esempio si parla di violenza parlare bene delle donne può voler dire parlare di lei, della sua vita, non come vittima ma come testimone.
Parlare bene delle donne vuol dire sottrarsi ai significati correnti e vuol dire anche parlare con cognizione di causa.
Può voler dire considerare il negativo, anzi partire proprio da lì, ma senza consegnarsi ad una interpretazione unica e svalorizzante perché il negativo ha una magica forza che può portarci avanti.
Siamo all’interno di un cambiamento molto rapido nei rapporti tra uomini e donne, e questo ci porta a reinterrogarci sul linguaggio e sull’atteggiamento che abbiamo quando parliamo di quello che le donne dicono e fanno sulla scena pubblica.
Parlare bene delle donne ha a che fare con l’attenzione, con la giustizia e con la nostra libertà. E porta con sé un dono di intelligenza politica e capacità di stare in relazione che ci interessa.
Avvieranno la discussione Chiara Zamboni e Luisa Muraro.
Annemarie Jacir è una regista palestinese conosciuta a livello internazionale per il suo impegno politico a favore della sua terra, impegno che manifesta nella realizzazione di film e nella sua attività di produzione e distribuzione attraverso la Philistine Film, da lei creata per far conoscere la cinematografia palestinese indipendente. È autrice di numerosi film fra corti e lungometraggi e fra questi vorrei ricordare i pregevoli Salt of this Sea del 2008, prima regista palestinese ad essere selezionata a Cannes nella sezione Un Certain Regard e When I Saw You del 2012 premiato alla 63a Berlinale e candidato all’Oscar.
In questo suo ultimo lavoro, Wajib, premiato in numerosi festival, candidato all’Oscar 2018, e primo suo film ad avere una regolare distribuzione nelle sale, mette sulla scena un padre, Abu Shadi, stimato insegnante di Nazareth, e il figlio, Shadi, che vive e lavora in Italia.
L’occasione che li vede riuniti nella casa paterna è il matrimonio dell’amatissima figlia e sorella Amal. Insieme, i due, secondo una tradizione palestinese che ancora resiste compiono il wajib, il dovere da parte dei maschi della famiglia di consegnare direttamente agli invitati la partecipazione alle nozze.
Un rituale che li porta di casa in casa, fra parenti e amici, cristiani e musulmani, credenti e non; un viaggio che li vede confrontarsi con la realtà contraddittoria della città palestinese “situata dentro lo Stato di Israele” e “territorio occupato”.
E poi in macchina a proseguire le discussioni che frequentemente diventano litigi anche aspri, in cui passa di tutto: i ricordi e le storie familiari, le riflessioni sul passato e sul futuro in cui facilmente le idee e i desideri del padre, spesso convenzionali, si scontrano con le insofferenze e le posizioni moderne del figlio.
Parlare di futuro in una terra così difficile stimola il confronto fra padre e figlio spesso su posizioni opposte: la convivenza trova l’obiezione nelle umiliazioni costantemente subite, mentre la vita da esuli in un paese straniero, e loro lo sanno bene come lo sa bene la regista, non può che nutrirsi di nostalgia per un luogo ormai solo oggetto del desiderio. Solo l’amore per Amal ad un certo punto darà loro la possibilità di darsi reciprocamente una tregua.
Ammiro e nutro grande considerazione per l’opera di Annemarie Jacir. La sua filmografia e l’intera sua attività, costantemente centrati sul tema che tanto la coinvolge, sono notevoli. Di Wajib ho apprezzato la sicurezza e bravura nel dirigere con serenità ed equilibrio un tema politico nodale della nostra storia contemporanea.
Ho avvertito però per tutta la durata del film la mancanza delle voci delle donne, ben presenti invece in tutti gli altri suoi lavori. Mi spiego: le donne sono presenti, fisicamente e nei discorsi e nel pensiero degli uomini, ma lo sono come brave o cattive madri, mogli o compagne più o meno amorevoli, amiche confidenti o sorelle da proteggere: dei complementi nella loro visione del mondo.
Le loro voci risultano un chiacchiericcio, un rumore di fondo che non rompe l’ininterrotto discorso maschile. Eppure le donne avrebbero molto da dire su tutti questi discorsi.
C’è un passaggio nel film, e non mi pare posto a caso, in cui Amal, rivolgendosi al fratello, che le aveva fatto notare come lei poco esprimesse i suoi pareri, gli dice: «Tutto questo non riguarda me, non l’hai ancora capito?» E penso si riferisse a ben altro che il matrimonio e a tutto il suo cerimoniale.
Di fatto, l’unica vera assente è la madre di Amal e Shadi che ha scelto di vivere la propria vita andandosene dalla famiglia e dal paese.
Definirei il movimento di presa di parola contro le molestie e la violenza sulle donne – dilagato in tutto il mondo in questi ultimi tempi – un’invenzione politica (delle donne) ‘contemporanea’, una sorta di ri-edizione dell’autocoscienza adattata ai giorni nostri.
Dico questo perché ho l’impressione che la presa di parola di alcune abbia scatenato la presa di coscienza di molte. Lo dico anche a partire da me che, a seguito di quel che leggevo e sentivo (dalle attrici americane, da Asia Argento, da donne meno note), ho rielaborato il mio personale MeToo. Mi è accaduto infatti di ripercorrere la mia storia e di veder riemergere inaspettatamente, da qualche profondità, episodi trascurati o sottovalutati. Molestie lievi, si potrebbe dire, ma in passato subito archiviate come ’normalità del comportamento maschile’ e per questo buttate dietro le spalle soffocando il senso di fastidio e l’umiliazione. E lì, dietro le spalle, erano rimaste. Il MeToo me le ha fatti rivivere, con lo sconcerto di allora, con l’emozione negativa di allora, con l’inaccettabilità e la ribellione che adesso è esplosa.
Per questo sono grata a chi ha svelato non solo i grandi soprusi, come la violenza sessuale che approfitta di una evidente disparità di potere, ma anche quelle molestie che – con il linguaggio, con i gesti, con le allusioni, con i furti di competenza e di intelligenza, con la sleale competizione – accompagnano come punture di vespa la vita di ogni donna. Sintomi, anche questi, di una volontà maschile – per qualche uomo, forse, un’abitudine non portata alla coscienza – di assoggettare le donne.
Nella riunione di Via Dogana del 18 Marzo Maria Nadotti, pur riconoscendo la portata rivoluzionaria del MeToo (“non lo ferma più nessuno”) è molto critica verso le prese di posizioni collettive avvenute in Italia da parte delle giornaliste e delle attrici con i manifesti “Dissenso comune” e “Noi ci siamo”. Dice Maria Nadotti: “È curioso che i documenti nascano attraverso le categorie professionali. Non è politicamente rilevante dire ‘anche noi ci siamo’ senza dire ‘dove e in che modo ci siamo’, Chi sono queste giornaliste? Cosa hanno fatto finora?”.
Il mio approccio invece è stato di apprezzamento. Non si tratta di documenti che “nascono attraverso categorie professionali”, ma di prese di posizioni che partono da ambiti lavorativi, come peraltro è stato anche per le protagoniste del MeToo americano.
Possono esserci venature corporative? Può darsi, soprattutto se la protesta sfocia in rivendicazioni paritarie e nulla più. Ma è possibile vederci anche dell’altro… dei primi passi, come è avvenuto per me/per molte di noi tanti anni fa. Senza trascurare il fatto che confrontarsi e accordarsi tra donne nel/sul lavoro è oggi piuttosto raro e anche particolarmente difficile. Di questo, finora, si è parlato poco.
Da quando lavoro accogliendo le donne che sono rese oggetto di violenza, è diventata per me una abitudine ormai quasi automatica cercare sempre il germe della resistenza – resistenza alla violenza e resistenza al patriarcato, interiorizzato e non – in ogni comunicazione tra donne. Nel testo di Ilaria Fraioli, ad esempio, mi ha colpita una frase – e ho preso un appunto esclusivamente su quella frase – nella quale si fa riferimento all’autorizzazione sulla quale si fonda e si sostiene il sistema discriminatorio e violento degli abusi e delle molestie di intimidazione contro le donne.
Alla radice della parola autorizzazione c’è l’idea di un nutrimento che accresce (augere), un nutrimento che possiamo e dobbiamo togliere a questo sistema (che si sta cominciando finalmente a togliere), e che invece dobbiamo offrire alle parole delle donne attraverso un ascolto diverso, un ascolto delle denunce delle donne senza giudizio. Per uscire dalla violenza è necessaria una relazione di scambio di valore tra donne, e il primo valore è il riconoscimento che una donna subisce violenza – sul lavoro e altrove – in primo luogo perché la sua forza, la manifestazione e il riconoscimento di quella forza, mette in crisi l’uomo. La sua presenza stessa come donna nel mondo del lavoro, ad esempio, risulta intollerabile, e per questo motivo il mostrare delle immagini porno alle collaboratrici (come nel caso dell’architetto Meier, che però, ci dicono, ha fatto anche altro) non è una “cosetta”: è un gesto violento che simbolicamente e significativamente vuole riaffermare i ruoli di genere grazie ai quali il patriarcato si mantiene in vita, ricordando alle donne che il loro posto non sarebbe il luogo del lavoro degli uomini, che le donne non possono stare in quel luogo come gli uomini. Il movimento #metoo, all’estero e anche in Italia, sta effettuando uno spostamento fondamentale di autorizzazione, sottraendola al sistema patriarcale e indirizzandola verso le denunce forti e coraggiose delle donne. È questa forza e questa capacità di resistere e di denunciare che ha bisogno di essere reciprocamente autorizzata, fatta crescere, tra donne;riconosciuta e curata.
Non mi viene in mente di parlare di complicità con il sistema, quando si tratta di violenza contro le donne, piuttosto di una resistenza dentro il sistema che ora ha bisogno di un sostegno collettivo per mettere definitivamente in crisi un sistema che, come tutti i sistemi, è espertissimo nel mantenersi in vita. Il primo passo per me è il sostegno reciproco, che viene in primo luogo dal credere a un’altra donna: al suo desiderio di uscire dalla dissociazione e non solo al suo racconto della violenza, del furto, della sopraffazione.
A questo proposito, penso al senso che “resistenza” ha nel testo più recente di Carol Gilligan, La virtù della resistenza. Resistenza è una parola che a me è molto cara. Gilligan si occupa della dissonanza e della dissociazione che le donne, anche se non solo loro, sperimentano nel patriarcato «tra una voce radicata nel corpo e nelle emozioni e una voce legata a una falsa storia». Il riconoscimento di quel qualcosa che sentiamo e che sappiamo, ma che impariamo che non va detto se vogliamo essere accettate dentro la società patriarcale, è, credo, la forza collettiva che si sta accumulando e liberando nel #metoo.
La presenza di un forte movimento politico è stata fondamentale per portare avanti gli studi sul trauma, ci dice anche Judith Herman, come lo è stata per portare avanti la liberazione delle donne attraverso il riconoscimento della violenza contro di loro e dei suoi effetti.
Un aspetto sul quale occorre insistere di più, secondo me, è la radice della misoginia, quella radice che emerge con chiarezza nel dato, troppo poco conosciuto, della violenza che si scatena intorno al corpo generativo della donna: la violenza maschile che colpisce, spesso comincia o si scatena, in gravidanza o intorno al momento della gravidanza.
Collegandomi all’intervento di Luisa Muraro, ritengo che per poter affrontare la violenza contro le donne sia necessario andare alla sua radice, alle ragioni che la costruiscono e costituiscono, e questo per me non si può fare prescindendo dai corpi sessuati. Se è vero che non ci sono qualità maschili o femminili ma qualità umane, come ci ricorda anche Gilligan, il lavoro da fare non è cancellare i corpi affidandosi al genere ma liberarli dal genere e dalle sue prescrizioni, non per riaffermare un dualismo ma per uscirne, liberandone la pluralità delle possibili messe in atto, come ci invita a fare Daniela Pellegrini, che io trovo molto vicina al pensiero di Gilligan. Forse superare la paura di andare a questa radice della misoginia è il passo che resta ancora da fare per far saltare davvero il sistema, e sarebbe opportuno che una riflessione sul collegamento tra la misoginia e l’asservimento sessuale e riproduttivo del corpo generativo non restasse più clandestina, mentre vediamo che è costantemente sotto attacco, non a caso.
Nel #metoo avviene un passaggio fondamentale: si esce, anche dolorosamente, dall’ipocrisia che accettare sotto ricatto sia una scelta, e che quello che si è subito sia stato davvero accettato. Si smaschera il ricatto sessuale esponendolo per quello che è. Per questo motivo si può parlare di un continuumcon il tema della prostituzione, e per questo qualunque regolamentazione della prostituzione come lavoro sarebbe un capolavoro di pervertimento patriarcale della libertà delle donne. È fondamentale intensificare la riflessione su questo legame, a mio avviso, per sostenere il rovesciamento sistemico che sta avvenendo nel mondo.
Mi piace il modo che ha Maria Nadotti di dire le cose, anche quelle cattive: soave e sorridente. Non è il mio, e forse anche per questo mi piace. Ma mi lascia perplessa la sostanza del suo dire, per un motivo che ho spiegato in un incontro pubblico in Germania. Una brava blogger, Antje Schrupp, amica di Diotima da molti anni, ha fatto un intervento con severe critiche a quelle donne che, impegnate nella politica ufficiale, secondo lei sono acquiescenti nei confronti della vecchia politica (maschile) e ha chiesto che cosa ne pensassi io.
“Tempo fa, le ho risposto, in un’intervista a una brava giornalista ho espresso la stessa tua idea; quando l’ho letta, stampata, ho trovato che era una brutta intervista e non per colpa della giornalista. E ho capito una cosa: non è affare per me, a me tocca parlare bene delle donne e, quando non posso, tacere”. Il pubblico, femministe di diversa provenienza, per lo più impegnate, ha reagito a queste parole con segni di un’approvazione che io ho sentito autorevole e convincente. Parlo per me, lo ripeto, ma la decisione ha in sé delle ragioni più grandi di me. Devo ancora approfondirle, so che c’è di mezzo una questione di giustizia. E devo ancora approfondire che cosa vuol dire “parlar bene”, sicuramente c’entra anche l’avere cognizione di causa; Simone Weil avrebbe parlato di attenzione.
Aggiungo qualcosa che riguarda Paul B. Preciado. Sul tema, io sostengo una tesi molto impegnativa, che riassumo in poche parole: l’appartenenza di genere non è immutabile ma non per questo possiamo farla rientrare nel disponibile. Penso cioè che la differenza sessuale sia, per l’essere umano, un bene non disponibile.
Con un’aggiunta indispensabile. L’appartenenza di genere, l’assegnazione a un genere, maschile o femminile, che si fa alla nascita della creatura, a volte può risultare sbagliata, per incertezza anatomica. Oppure, anni dopo, per motivi enigmatici di rigetto intimo e personale dell’identità basata sul corpo anatomico: un corpo anatomico maschile, nel caso delle transessuali. Ed è questo il caso in cui siamo d’accordo che sia reso possibile e accettato, culturalmente e legalmente, cambiare il genere sessuale e poter dire: “io sono una donna”.
Preciado parla invece di un atto volontario e intenzionale di rinuncia a essere donna, ma questo è un altro discorso. Le moderne donne emancipate sono o, meglio, erano (eravamo, c’ero anch’io) sulla strada di una finta transessualità al maschile, per motivi più che comprensibili, fino a quando non è intervenuta la rivolta femminista. Così è andata per me, che un giorno, grazie alla scelta femminista, ho detto, per far intendere quella che veramente mi sentivo di essere, “io sono una donna”. Innumerevoli altre, ne conosco alcune, questo l’hanno detto senza bisogno di fare una scelta, per semplice accettazione di sé.
Il #Metoo americano ha liberato energie femminili in tutto il mondo, Italia compresa e nella redazione di Via Dogana guardiamo con favore a quello che si sta muovendo nel nostro paese, ispirato in vario modo da una forza femminile contagiosa e potente che non ha confini. Non mi riferisco solo al manifesto Dissenso comune, alla lettera delle giornaliste Noi ci siamo, e a #Quellavoltache. Penso anche al lavoro sempre più massiccio e preciso dei Centri antiviolenza, all’hashtag #IosonoLinaMerlin di Resistenza femminista, alle iniziative di NonUnaDiMeno per l’8 marzo, alle prese di posizione sempre più estese contro l’introduzione in Italia della maternità surrogata. Sono iniziative tra loro differenti, ma contengono tutte la ribellione e il contrasto al dominio e all’uso maschile del corpo delle donne.
Questo è l’aspetto essenziale che ci trova d’accordo. In redazione sappiamo bene che hanno pratiche differenti – alcune che sentiamo vicine, altre che sentiamo lontane e non condivisibili – ma pensiamo ci sia quell’essenziale di base per stare in rapporto e continuare a interloquire.
C’è anche un altro elemento che interessa la rivista. Come abbiamo scritto già nell’invito alla redazione allargata di marzo, Diventa più grande l’orizzonte della politica, qui in Italia, a partire dalle molestie e dai ricatti sessuali, il discorso sembra estendersi a tutto ciò che alle donne capita nei luoghi pubblici, in primis quelli del lavoro.
Partire dal luogo in cui si è, come hanno fatto le lavoratrici dello spettacolo del manifesto Dissenso comune, non è corporativismo, come è stato loro rimproverato. È partire dalla propria esperienza che avviene sempre in un luogo e in un tempo definiti. Il contesto è prezioso per una pratica politica, perché è lì che si possono intrecciare relazioni e avviare trasformazioni ed è significativo che più di cento attrici e registe abbiano cominciato a trovarsi e a riflettere sulla propria realtà e si siano poi esposte con prese di parola e iniziative pubbliche. Proprio perché radicato, quel Manifesto ha un peso ben diverso da tutti i generici appelli che circolano e che chiunque può firmare in internet.
In questo caso mettere la firma è di più, è già coinvolgersi in una esposizione pubblica e sostenerne le azioni politiche, è un primo passo che può aprirsi a un esserci in prima persona e sperimentarsi in una dimensione collettiva, cosa che di questi tempi è merce rara.
Inoltre c’è ancora tanto altro da svelare e riuscire a mettere in parole. Ciascuna donna nel luogo di lavoro o in un luogo pubblico sta intera e sa per esperienza che soprusi e prevaricazioni maschili colpiscono sia il corpo che la mente di una donna. Io so bene, per esempio, che una insegnante ha dalla società il compito di trasmettere una cultura costruita come se al mondo ci fossero solo maschi. E non è anche questa una prevaricazione intellettuale oramai insopportabile?
Io per prima, però, vedo una profonda contraddizione su cui riflettere. Quello che sorprende nei documenti di Dissenso comune è che contengono nello stesso testo sia espressioni molto radicali, che indicano uno scontro con un intero sistema di potere, sia espressioni che rimandano alla richiesta di parità con gli uomini.
Da una parte parlano di rivolta definitiva e irreversibile e si sentono partecipi di un flusso di movimenti che “hanno scoperchiato un sistema che faceva del silenzio e dell’omertà la sua forza e la sua linfa”. Infatti scrivono: “Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo” e, per farlo, si stanno muovendo per “entrare in relazione con altre donne che come noi vogliono incrinare fino a distruggere questo sistema di regole scritte e non scritte”. Dall’altra parte dichiarano di portare avanti iniziative quali lo studio di “una serie di richieste da presentare nei luoghi decisionali” e stanno “lavorando anche sulle rivendicazioni della parità di compenso e sulla equa rappresentanza”.
Le due prospettive sono opposte. L’abbattimento di un potere maschile siffatto è antitetico alla richiesta di spartirlo, di essere di egual numero in quegli stessi organismi di potere marci all’origine. Non si può sapere quali sviluppi avranno gli avvenimenti in corso, ma sarebbe deleterio che prevalesse la seconda prospettiva. Se si vuole ribaltare l’intero sistema e determinare “una vera e propria svolta culturale e politica” ci vuole di più e di meglio, ci vuole invenzione politica e capacità trasformativa.
A partire dal #Metoo americano di fatto si è aperto ed è in corso un conflitto tra donne e uomini che va più in profondità e mira a ridiscutere il “contratto sessuale” sottostante il contratto sociale. Per dirlo con Carole Pateman, il contratto sociale che dichiara di attribuire uguaglianza e libertà a tutti gli individui, in realtà nasconde un patto fondativo tra soli uomini per l’accesso al corpo delle donne, il “contratto sessuale”, che determina la loro sottomissione. Per questo le donne entrano nei rapporti sociali gravate da ogni tipo di prevaricazione maschile. Il fatto che il patto sociale sia stato costruito tra uomini a danno delle donne ha determinato e determina profonde ingiustizie, che oggi generano insofferenza e aperta ribellione. Finora sono state chiamate con il nome generico di “discriminazioni”, nel quadro dello specchietto per le allodole dell’impossibile parità con gli uomini. Con questo numero di Via Dogana abbiamo proposto di cominciare un lavoro sul linguaggio: rinominarle dalla prospettiva che il #Metoo sta svelando. Per fare solo un esempio: il fatto che una donna guadagni meno di un uomo per lo stesso lavoro viene chiamato “discriminazione salariale”. Oggi appare chiaro che la parola che svela è FURTO perpetrato nei confronti delle donne.
Come dicono le americane “oggi quel tempo è finito!” La posta in gioco è attraente: chiama tutte e ciascuna ad esserci e delinea un orizzonte grande in cui collocarsi a partire da sé, singolarmente e insieme alle altre.
Intervento iniziale Maria Nadotti (1)
Comincio ringraziando di questo invito che mi ha un po’ sorpresa, perché non sono una frequentatrice della Libreria delle donne anche se ho molto rispetto del vostro lavoro e mi interessa proseguire la discussione con voi. Mi è successa una cosa strana mentre Rosaria Guacci leggeva quel testo scritto in modo collettivo, ma firmato da una sola persona: molto manifesto, molto poco interlocutorio. Stavo prendendo appunti e, arrivata a un certo punto, la penna mi si è scaricata. Difficile discutere in absentia. Per cui dirò ciò che mi ha irritato.
Il documento originario, Dissenso comune, del 1° febbraio, continua in questa sua seconda puntata a chiamarsi Dissenso comune e invita a scatenare un movimento femminile (anche se in realtà non si tratta di un movimento perché è tutto molto corporativo e si riproduce la gabbia delle quote rosa, trappola infernale, politicamente parlando, sia per le donne che per gli uomini). Partiamo dalla parola scelta: ‘dissenso’. Perché non si parla di conflitto? Forse perché ‘dissenso’ è un termine più interlocutorio e negoziale, mentre ‘conflitto’ è un termine più antagonistico, che prevede pratiche che non hanno come unica mira quella di cambiare semplicemente le cifre?
Altra cosa sottesa a questi ‘manifesti’ è che esista un ‘Sistema’ comandato, governato, ordinato, voluto, blindato dagli uomini, di cui noi donne non parteciperemmo se non sempre e solo come parte lesa, offesa, esclusa, ai margini.
Io credo invece che anche noi siamo il Sistema. Si tratta di capire eventualmente in che modo siamo sistema dentro il sistema. Il manifesto Dissenso Comune è firmato da 124 donne che obiettivamente sono il sistema cinematografico italiano. In questo secondo capitolo dello stesso manifesto si rincorre qualcosa che andava fatto prima. La spinta che avrebbe mosso queste 124 donne del cinema italiano sarebbe stata la solidarietà verso le ‘sorelle’ molestate, violentate. E già la parola ‘sorella’ andrebbe usata con molta discrezione, non vi pare? Uno, perché il rapporto sororale è uno dei più complessi e conflittivi che ci siano sulla faccia della terra. Due, perché è un termine che storicamente ha assunto un peso politico vero.
L’altro punto è l’insistenza su un Sistema in cui saremmo partecipanti-innocenti: è vero? Di questo oggi mi piacerebbe discutere.
Altra cosa: un manifesto firmato dalle donne del cinema italiano, all’interno di un Sistema di cui però non si sentono parte, sarebbe un mezzo per dar voce alle donne? Perché? Il cinema si fonda fin dall’inizio sul corpo femminile, suscita desiderio attraverso di esso. E questo vale per gli uomini e per le donne. Il cinema ci rende tutte transessuali o lesbiche. Il cinema nasce attorno a un corpo desiderato e il corpo è corpo messo in posizione femminile, succede anche se è corpo di uomo. È come se il corpo cinematografico del desiderio fosse di per sé femminilizzato. È strano che le donne che lavorano nel cinema non si rendano conto che non si può dire semplicemente che l’uso del corpo femminile nel cinema le rende soggetti privi di discorso, senza analizzare che cosa sia stato il cinema, che cosa continui a essere il cinema. Se si vuole fare un ragionamento sul diritto di parola, e di parola che rappresenta tutte le donne del mondo, bisogna aprire altri discorsi. Tutto il loro ragionamento finisce nelle quote rosa perché non sembrano mettere a tema niente di politico, solo la questione dei numeri: quante siamo, quanto denaro va agli uomini, quanti film a regia femminile vengono distribuiti. Io penso che questa sia una trappola, perché elude tutte le questioni vere: il provare a immaginarsi lo scardinamento vero nelle teste degli uomini e anche nelle nostre teste.
Passo alle cose che volevo dirvi io, riprendendo le fila dell’altra volta.
Premetto che la questione del #MeToo ha scatenato in me una serie di dubbi, è una materia complessissima, non la si può ridurre a nessuna semplificazione. Sono convinta che ognuna di noi – a prescindere dall’età anagrafica e dalla sua collocazione nel mondo del lavoro produttivo e riproduttivo –, se onesta con se stessa e un po’ coraggiosa, potrebbe fare una lista di occasioni in cui si è trovata soggetto potenziale di #MeToo. Solo che non lo facciamo, non solo collettivamente ma neanche singolarmente. L’altra volta, a riunione conclusa, avevo chiesto a Marisa Guarneri, (lo avevo chiesto a lei per il lavoro politico che fa) se sarebbe stato ipotizzabile un #MeToo italiano, con tutte le riserve del caso. Marisa mi ha risposto: Sì, ma dopo le elezioni. E sono andata via ‘con la coda tra le gambe’. Perché è esattamente questo: in Italia abbiamo una sorta di lealtà – non è sudditanza – nei confronti delle istituzioni. Un bisogno di riconoscimento, anche rispetto a cose nobili sul piano sociale… ma che nella realtà producono immobilità, impossibilità di buttare giù la parete… Perché dopo le elezioni, mi sono chiesta, perché non prima?
Sempre l’altra volta Luisa Muraro ha fatto un intervento sui media che non ci riconoscono, non ci danno spazio. Io non la penso così e, in ogni caso, la questione è: Come si prende lo spazio? Chiedendolo?
In Italia potremmo cominciare a pensare insieme qualche forma di disobbedienza civile invece di continuare a essere incivilmente obbedienti. Riusciamo a immaginarlo? Qual è il patto che ci lega socialmente a qualcos’altro? Vale per il rapporto che abbiamo con lo stato, le istituzioni pubbliche, i partiti, le chiese, i figli, gli amanti, padri, mariti, sorelle, fratelli… tutte le nostre relazioni. A chi siamo fedeli? E perché? Che cosa ne ricaviamo? Queste le domande che mi pongo, e ho alcune risposte parziali. Risposte che nel tempo sono cambiate e che continuano a cambiare… Sono le domande più radicali che ci si possa porre in questo momento. Non riesco a prendere sul serio chi dice: “sto dentro al sistema, ma voglio un po’ più di potere dentro quel sistema. Il sistema sostanzialmente va bene, ma quello che non lo fa andare bene è che Lui ha più spazio di me, un po’ più di potere”. Se questo è il tema: si salvi chi può. Le donne messe in posizione di potere in un sistema ‘bacato’ sono peggio degli uomini.
Ci sono tante questioni che vanno affrontate perché altrimenti sembra che le donne siano meglio degli uomini per definizione. Perché mai? Forse perché sono tenute ai margini?
Altro grande tema, esito di cent’anni di movimenti femministi mondiali, sollevato dalle protagoniste del #MeToo americano provocando un’onda d’urto pazzesca. Sono riuscite a collegare – ripeto non se lo sono inventato – l’Io al Noi, facendo sì che la donna che dice di sé e dice cose imbarazzanti e difficili da dire, non si presenti come una semplice vittima cui è possibile credere o non credere, e magari rinfacciare il ‘ritardo’ con cui ha deciso di raccontare ciò che le è accaduto.
Ogni volta che si subisce una discriminazione sul lavoro, una violenza sessuale, una molestia, un insulto o commento pesante, un’umiliazione – ognuna di noi ne ha da raccontare – mi dico che sarebbe utile domandare a se stesse: ma tu dov’eri? Di Asia Argento dicono: si è svegliata dopo ventuno anni. Ma non capita a tutte noi, leggendo le nostre vite col senno di poi, di arrivare a capire cose che in tempo reale non avevamo colto e che non avremmo saputo raccontare per quello che in realtà erano? Talora mi capita, ripensando a cose fatte o fattemi in passato, di capire che il mio silenzio di allora era solo una presunzione di libertà, un’autodifesa, un modo di costruirmi. Era vero quel che facevo allora ed è vero quel che ne so oggi. La vita è questo. Non si capisce quasi niente in tempo reale, soprattutto in campi delicati e complessi quali l’amore, il sesso, la politica.
Il #MeToo è riuscito a mettere in moto l’Io che dice di sé, in un avanti-indietro nel tempo, ricordando ricostruendo immaginando, e producendo il #We-Too, un soggetto politico collettivo ancor prima che plurale. Credo che qui in Italia quel po’ che si è mosso con documenti e manifesti abbia prodotto un Noi lievemente fasullo, perché dietro ad esso mancano gli Io. Non basta una firma sotto un documento per dire anch’io.
Si è anche nominato il documento delle giornaliste, venuto immediatamente dopo quello delle donne del cinema. È curioso che i documenti nascano attraverso le categorie professionali. Non è politicamente rilevante dire ‘anche noi ci siamo’ senza dire ‘dove e in che modo ci siamo’, Chi sono queste giornaliste? Cosa hanno fatto finora?
Sembra sempre che si abbiano le mani legate e che non si possa fare nulla. Invece si può, oggi come ieri. E questo luogo, come molti altri luoghi politici delle donne, lo dimostra.
Immaginiamo – come ha fatto qualche anno fa un film esilarante – che un giorno, a Los Angeles, tutti i lavoratori messicani non si presentino al lavoro. La città si paralizza, senza di loro la vita si ferma. Il tema è quello del ‘vero’ potere femminile: immaginiamo un atto di slealtà, complicato perché per l’appunto non siamo una categoria professionale. Immaginiamo una sottrazione simbolica di sostegno agli uomini, perché è lì che si può operare.
Recentemente ho visto il film di Tullio Giordana, Nome di donna, e il film di Francesca Comencini, Amori che non sanno stare al mondo. Giordana fa sempre lo stesso film trattando di temi sociali, dalla Meglio gioventù… atterra ora sul tema delle molestie sessuali sul posto di lavoro. Vorrei ragionarne con voi. Premesso che io non l’ho amato, premesso che ci sarebbe da capire ‘perché adesso’, grazie a questo film M. T. Giordana esce come il paladino di… di che cosa? Invece il film di Francesca Comencini, che cosa ci racconta, cosa sanno raccontare le donne di diverso dagli uomini, sempre che lo sappiano fare? Non ci raccontano, almeno in Italia, quasi mai altri mondi possibili e soprattutto non sembrano porsi il tema dell’invenzione di una forma diversa, di un più ragionato linguaggio cinematografico. Perché non siamo in grado di farlo?
Altro punto, riprendendo quanto detto da Ida Dominijanni la volta scorsa. Sembrerebbe solo una questione linguistica, ma non lo è. Di fronte alle molestie sessuali, invocare nuove leggi-punizioni espone a un grosso rischio. Intrinseco al movimento #MeToo ci sarebbe il puritanesimo: la caccia alle streghe, la gogna, la vendetta, la rappresaglia. Quante volte abbiamo letto negli ultimi mesi che ‘si tratta di una nuova caccia alle streghe’? Ma – mi e vi domando – dove sono le streghe? Dove sono i comunisti nel #MeToo? Perché, se si adotta questa metafora, allora sembrerebbe che oggi i comunisti, i dissidenti o le streghe siano proprio i molestatori. Occorre ragionare bene, perché questo linguaggio è stato usato anche da alcune donne. Il rischio dell’accanimento c’è ed è pericolosissimo, ma come mai si usa una metafora storico-politica che non c’entra niente? Vorrei capire come si produca questo slittamento semantico, perché si adottino categorie discorsive che servono solo a produrre passività.
Il #MeToo non lo ferma più nessuno non solo perché si è liberato qualcosa nelle donne, ma perché si è liberato anche dell’altro.
Torno all’inizio: tutte noi abbiamo cose da raccontare. Perché non le raccontiamo? E, se le raccontiamo, come e perché le raccontiamo? Per me è questa la questione: che cosa ci impedisce di essere sleali nei confronti degli uomini e, quando è necessario, anche delle donne (si parla di molestie sessuali, ma pensiamo anche alle discriminazioni o competizioni professionali).
Noi siamo il Sistema, non siamo la parte sana del sistema in quanto donne. Siamo salve dal sistema non in quanto donne, ma in quanto donne che fanno qualcosa.
Nota: A Parigi le istituzioni pubbliche rincorrono il #MeToo a modo loro. La città è tappezzata di manifesti e in metropolitana distribuiscono pieghevoli dove si vede una donna alle cui spalle è in agguato un orso, uno squalo, o un lupo… e lo slogan è: Ne minimisons jamais le harcèlement sexuel. Victimes ou témoins, donnez l’alerte (Non minimizziamo mai la molestia sessuale, vittime o testimoni date l’allarme). Anche se le molestie, come sappiamo, sono per lo più roba domestica, da interno familiare… Avrei voglia di scrivere una protesta a nome di orsi, lupi e squali….
Conclusioni
Subito dopo il primo #MeToo, nell’ottobre del 2017, la scrittrice e attivista femminista Robin Morgan pubblica sul suo blog un articolo in cui dice che “sulla rivista Ms. è dal 1974 che le donne parlano di questi temi, violenze sessuali, discriminazioni sul lavoro… Sono stanca di considerarli tipping points, emergenze”. Il #MeToo statunitense ha avuto il merito di rivelarne il carattere sistemico. E, ad una cosa sistemica, non si può che rispondere in modo sistemico. Viene fuori un nuovo coraggio. Non rispondiamo: “vogliamo più potere”, ma “non vogliamo questo tipo di potere”. E non è un caso che lo dicano inizialmente donne potentissime all’interno del sistema.
A Rosaria Guacci che mi dice che il mio intelligente tentativo di de-costruire è depressivo, rispondo che io mi deprimo solo in assenza di intelligenza, quando c’è un blocco dell’analisi.
Lia Cigarini ha detto una cosa fondamentale: bisogna stare nel tempo della storia. Non si può prendere quello che è successo nel passato a esempio di ciò che accade oggi. Noi siamo reali in un tempo preciso, in uno spazio preciso, in una data classe sociale, con un certo colore della pelle… E allora temporalità, spazialità, intersezionalità sono categorie essenziali e lo sono proprio nel loro costante divenire. Alle spalle del #MeToo ci sono anni e anni di pratiche e teorie femministe, dice Lia, e ha perfettamente ragione. Ciò non toglie tuttavia che questo patrimonio storico sia rivisitabile all’infinito e non possa esser usato in modo statico. Il potere di Meryl Streep non è uguale a quello della cameriera d’albergo Nafissatou Diallo, che denunciò Dominique Strauss–Kahn, all’epoca direttore generale del Fondo monetario internazionale. Anche in quel caso partì una denuncia – e siamo ben prima del #MeToo – che mise fine alla carriera politica dell’uomo. La questione dell’intersezionalità è davvero cruciale.
Alcune di voi hanno parlato di “portare l’esperienza femminile sul lavoro”. Ma di quale esperienza parlano esattamente? Ogni donna ha una sua specificità, ogni lavoro ha una sua specificità, mentre spesso va a finire che per ‘femminile’ si intende ‘materna’, ed è una finzione bella e buona.
Luisa Muraro sollecita uno sguardo positivo verso le donne, invitando a parlare bene delle donne pubblicamente. Ebbene io non sempre ci riesco, perché penso che ci siano donne e donne. Alcune hanno dimostrato di essere profondamente diverse da alcuni uomini. Perché ci sono anche uomini e uomini. È un problema politico crescere uomini e donne diversi da quelli che vediamo troppo spesso. Altrimenti è facile che venga fuori la locandina in cui gli uomini sono squali, porci… e le donne tutte Cappuccetto rosso.
Per chiudere, vorrei leggere l’incipit di un testo recente di Paul B. Preciado, perché mi sembra che ogni binarismo, incluso quello adombrato dal #MeToo, porti con sé la sua e la nostra rovina e non sia del tutto adeguato ai tempi in cui siamo:
“Signore, signori e tutti gli altri,
nel fuoco incrociato riguardo alle politiche di molestie sessuali, vorrei prendere la parola in quanto contrabbandiere tra due mondi, quello “degli uomini” e quello “delle donne” (due mondi che potrebbero non esistere ma che qualcuno si sforza di mantenere separati con una sorta di muro di Berlino di genere) per portarvi notizie dalla posizione di “oggetto trovato” o piuttosto di “soggetto perduto” durante la traversata.
Non parlo come uomo che appartiene alla classe dominante, la classe di quelli a cui è assegnato il genere maschile alla nascita e sono educati come esponenti della classe governante, quelli a cui si concede il diritto o meglio da cui si pretende (ed è una chiave analitica interessante) l’esercizio della sovranità maschile.
Non parlo nemmeno come una donna, visto che ho volontariamente e intenzionalmente rinunciato a questa forma di incarnazione politica e sociale.
Parlo da uomo trans e non pretendo in alcun modo di rappresentare un collettivo o una fazione. Non parlo e non posso parlare in quanto eterosessuale né in quanto omosessuale, benché io conosca e viva entrambe le condizioni, perché quando si è trans queste categorie diventano obsolete. Parlo come transfuga di genere, come fuggitivo della sessualità, come dissidente (magari maldestro, perché mi mancano codici prestabiliti) di un regime della differenza sessuale. Parlo come auto-cavia della politica sessuale che vive l’esperienza, ancora non tematizzata, di esistere da entrambi i lati del muro, e che a forza di scavalcarlo quotidianamente comincia a essere stufo, signore e signori, della rigidità recalcitrante dei codici e dei desideri imposti dal regime eteropatriarcale.”
(1) Questo intervento, trascritto e solo minimamente rimaneggiato, è un testo ‘parlato’ in assenza del corpo enunciante.
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Diventa più grande l’orizzonte della politica, del 18 marzo 2018
Il documento Dissenso Comune è nato da un incontro tra donne del mondo dello spettacolo con l’esigenza di analizzare e in seguito prendere parola pubblicamente per denunciare lo stato delle cose in merito alla disparità di genere e alla diffusa e autorizzata modalità relazionale molesta nell’ambito del cinema.
La prima spinta è stata senz’altro quella della solidarietà che abbiamo sentito e voluto dimostrare verso le nostre sorelle attrici molestate, offese, violate, alcune delle quali hanno, con grande fatica e coraggio, cominciato a denunciare situazioni immediatamente e tristemente familiari a tutte noi.
Queste situazioni infatti non sono eccezioni, ma una regola o peggio un dato di fatto contato e “naturale”. In seguito a questa riflessione la nostra solidarietà si è man mano trasformata in vicinanza, in “prossimità”.
Ci siamo sentite tutte vittime di uno stato di cose che ha a che fare non solo con l’abuso di potere nel contesto lavorativo gerarchico, ma essenzialmente con un Sistema che regola ancora e senza eccezioni le relazioni umane di genere, nonostante l’emancipazione e la liberazione femminile, anzi forse proprio da queste evoluzioni rafforzato e paradossalmente valorizzato.
Pensiamo che la messa in crisi di un sistema di valori antichissimo generi un disordine simbolico e morale che si sviluppa tutto sul corpo femminile.
Le attrici presenti durante la riflessione che ha portato al documento hanno descritto il corpo dell’attrice come esposto per eccellenza, un corpo esposto alla narrazione di tutti, paradigma e rappresentazione dell’immaginario collettivo; in quanto tale il senso comune vi risiede e rende visibili, riconoscibili e concreti i principi che lo governano.
Ma in quanto tale esso può essere anche efficacemente utilizzato da noi come specchio riflettente e altisonante di un grido di rivolta definitiva ed irreversibile.
Durante i nostri primi incontri abbiamo riconosciuto il privilegio di aver accesso a questa
piattaforma che può enormemente amplificare la nostra voce, quella di tutte noi, corpi immaginari e corpi reali, lavoratrici dello spettacolo, lavoratrici in generale, donne di tutto il mondo.
Di qui la decisione di assumersi questa responsabilità, quella di prendere parola.
In particolare si è cercato di utilizzare questa presa di parola come un dire prima ancora che come un richiedere.
Dire a partire dai fatti recentemente accaduti e denunciati pubblicamente da Asia Argento e con lei da tutte le altre che ci hanno precedute; dire per cercare di portare il discorso più avanti della denuncia verso una analisi della realtà fotografata e riprodotta dalla lente del nostro obbiettivo, quello delle donne dello spettacolo, quello delle attrici molestate, quello delle lavoratrici profondamente e colpevolmente discriminate in ambito lavorativo; dire per mettere fine alla terribile deriva regressiva generata dall’aumento di libertà femminile che mette le donne sempre più al centro di episodi di violenza e molestia, dire per dare forza ad un movimento di opinione che generi a sua volta, come in altri paesi e in varie forme sta finalmente accadendo, una vera e propria
svolta culturale e politica a fronte di una situazione sempre più degenerante non solo nei costumi e nella morale, ma anche nella “reale” possibilità di piena cittadinanza a questo mondo per tutte noi donne e donne lavoratrici.
Abbiamo in questo senso sentito anche l’esigenza di sostanziare l’analisi della condizione particolare nel contesto lavorativo del cinema in Italia con il supporto di una raccolta dati che potesse accompagnare la spinta primaria, il senso profondo di una ribellione ormai necessaria come l’ossigeno.
Alcuni sintetici risultati di questa raccolta dati.
Nel 2016/17 l’88% dei film a finanziamento pubblico italiano è stato diretto da uomini così come il 79% dei film prodotti dalla RAI ed il 90,8% dei film che sono stati proiettati nelle sale cinematografiche.
A fronte di ciò si è rilevato non solo che sul piano della qualità i film fatti da donne sono in percentuale molto alta (circa 40%) apprezzati e premiati in festival nazionali ed internazionali e ottengono il finanziamento e il riconoscimento di film di interesse culturale da parte del MIBACT, ma anche che nel campo della formazione la presenza delle donne e la loro risposta nell’apprendimento è molto alta.
Ciò significa in modo chiaro che il collo dell’imbuto si stringe nelle fasi successive della carriera, quando si attiva un meccanismo di sistematica esclusione o idimensionamento o discriminazione che nega alle donne un percorso professionale lineare e corretto.
Questo nonostante il fatto che la redazione della nuova legge sul cinema del 2016/17 sia stata, nei decreti attuativi, formalmente obbligata a tenere conto della normativa europea in merito al contrasto verso le discriminazioni di genere.
In Italia si è riusciti cioè a scrivere una nuova legge che di fatto riduce al minimo consentito tale indicazione di orientamento. Basti verificare la percentuale di presenze femminili previste nei nuovi organi decisionali ed esecutivi nell’ambito dello Spettacolo: il minimo possibile per non “scontentare” l’orientamento europeo.
Questi dati non hanno fatto che confermare qualcosa di terribilmente già noto a tutte noi.
In ambito professionale, oltre che esistenziale, siamo continuamente ridimensionate; siamo sottoposte ad una continua induzione alla mancata riuscita delle nostre ambizioni e, in questo modo, sistematicamente indirizzate verso il posto di secondo piano, il compenso ridotto, il minore riconoscimento.
Quindi quel Sistema insopportabilmente discriminatorio e violento non solo gode di buona salute nonostante sia l’espressione estrema e disperata, urlata e folle, di un modo di stare al mondo ormai palesemente fallimentare oltre che ingiusto, ma continua ad agire nei luoghi decisionali e in tutti i contesti privati e professionali senza freno anzi con il pieno riconoscimento, con la piena autorizzazione.
Il nostro documento ha voluto tentare di dare voce al profondo dissenso verso questo stato delle cose di tantissime donne dello spettacolo e degli altri contesti professionali per poi attivare queste energie antagoniste verso il cambiamento. Di più, il nostro documento ha voluto entrare nel flusso già attivato da altri movimenti che hanno scoperchiato un Sistema che faceva del silenzio e dell’omertà la sua forza e la sua linfa e dall’interno di questo flusso elaborare una analisi a partire dal proprio specifico.
Attualmente, dopo aver avuto un emozionante incontro con le prime 124 firmatarie del documento ed esserci guardate, ascoltate e riconosciute, stiamo lavorando insieme su alcune questioni specifiche e studiando una serie di richieste da presentare nei luoghi decisionali preposti a renderle pratica come l’istituzione di un codice etico che regoli i rapporti nei luoghi di lavoro al quale tutte le produzioni cinematografiche e i lavoratori da esse contrattualizzati dovranno attenersi, pena il licenziamento per giusta causa.
Stiamo lavorando anche sulla rivendicazione della parità di compenso e sulla equa rappresentanza negli ambiti decisionali sia istituzionali (commissioni ministeriali) sia di immagine (presenze nelle giurie e nella direzione dei festival) sia nella composizione delle troupe, proponendo un iniziale 30% di presenze femminili per arrivare al 50%.
Stiamo anche tentando di entrare in una relazione concreta con altre donne che come noi vogliono incrinare fino a distruggere questo Sistema di regole scritte e non scritte, sia le donne di altri contesti professionali specifici (ad esempio le giornaliste) sia le nostre sorelle già organizzate politicamente, già in rete, già attive sulla scena del cambiamento.
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 Diventa più grande l’orizzonte della politica, del 18 marzo 2018