Sono nato e cresciuto in una famiglia comunista con spirito militante. Da piccolo ascoltavo i racconti che facevano l’orgoglio della sinistra: la Resistenza partigiana; l’occupazione delle terre al sud; la lotta operaia alla Fiat e nelle grandi fabbriche del nord; gli scontri con la celere; i fatti di Genova nel 1960. Tra questi racconti c’era la battaglia per la chiusura delle case di tolleranza. La legge Merlin era (ed è tuttora) una delle bandiere gloriose della sinistra italiana.
Nel mio ambiente familiare, la prostituzione era considerata non tanto una questione morale relativa ai costumi, quanto una questione sociale relativa ai rapporti tra le classi e tra i sessi. La prostituzione era un’espressione dell’ingiustizia sociale, ormai risolta dalla lotta vincente di Lina Merlin. Quel che ne rimaneva era considerato residuale, destinato al superamento nel progresso come il resto della cosiddetta questione femminile.
Così la consideravo anch’io, fino alla fine degli anni ’80, quando la prostituzione è tornata visibile con le donne immigrate e prostituite. Qualche giornale iniziava a pubblicare fatti di cronaca e inchieste sul ritorno della tratta delle bianche, storie di sequestri, inganni e violenza, che riguardavano le ragazze dell’Est costrette alla servitù sessuale, poi in seguito anche ragazze africane. Storie che era molto penoso e inquietante leggere.
Dopo l’impatto delle nuove prostitute straniere, i media hanno continuato a trattare il tema in modo saltuario e marginale, fino a quando è arrivata la rete, con i suoi luoghi virtuali di discussione e i social media. In questo nuovo ambiente di comunicazione e interazione, molte donne e femministe hanno cominciato a parlare della prostituzione come di una istituzione patriarcale; un tema in conflitto con i maschi, identificati spesso a ragione con i “clienti”; o in conflitto tra donne nella opposizione tra regolamentariste e abolizioniste.
In principio, ho creduto che la posizione femminista fosse quella favorevole ai diritti delle prostitute. Era uscito, in Belgio nel 2005, un manifesto europeo per i diritti delle sex worker, mentre già conoscevo il movimento delle lucciole, il comitato per i diritti civili delle prostitute di Pordenone, diretto da Pia Covre. Mi sembrava giusto e sensato voler tutelare sindacalmente le prostitute. L’ho pensata così, finché non ho conosciuto la legge svedese, che ha scelto di tutelare la prostituta e sanzionare il “cliente”, per colpire la domanda maschile, individuata come principale responsabile della tratta e del mercato del sesso. Una scelta che mi è sembrata ancora più sensata, persino illuminante, per lo spostamento della criminalizzazione dalle prostitute ai “clienti”.
A sostegno di questa impostazione, ho curato un blog insieme con una mia amica femminista, per pubblicare testimonianze di ex prostitute sopravvissute, per mostrare che la voce delle dirette interessate non era solo quella delle volontarie che sostenevano la cosiddetta “libera scelta”. Gli articoli ottenevano molte visite e condivisioni, ma dopo un po’ di tempo ho voluto interrompere questo lavoro, perché attraverso le chiavi di ricerca indicate nel pannello di controllo delle statistiche, mi sono reso conto che molti visitatori erano persone alla ricerca di siti pornografici. Dunque, mi venne il dubbio che le testimonianze, invece di sensibilizzare il pubblico maschile, avessero soprattutto l’effetto di eccitarlo.
Peraltro, la diffusa facilità di accesso alla pornografia e la qualità dei contenuti pornografici fanno sì che molti ragazzi e uomini siano presto educati a una sessualità prostitutiva. Molto materiale pornografico è prodotto con il reclutamento di donne prostituite o, per questa via, avviate alla prostituzione. Le due questioni, prostituzione e pornografia, andrebbero sempre più trattate insieme.
Attraverso l’immaginario sessuale pornografico si può vedere come sia velleitario il cavallo di battaglia regolamentarista, che vuole riconoscere e legalizzare un presunto lavoro, per togliere lo stigma alla prostituta. Naturalmente, da parte nostra è giusto rispettare le prostitute. Ma se fosse possibile eliminare lo stigma, dettato in primo luogo dal disprezzo provato dai “clienti”, sarebbe risolta la prostituzione, perché i “clienti” non sarebbero più interessati a frequentare prostitute, divenute donne dignitose e rispettabili al pari delle loro mogli e fidanzate.
Trovo più realistico, secondo la visione abolizionista, che lo stigma collettivo espresso dal pubblico, dalla società, dalle istituzioni, sia spostato dalla donna prostituita al “cliente” prostitutore. A questo fine, come il femminismo ha già iniziato a fare, è importante che tutto il linguaggio che definisce il mercato del sesso e i suoi attori sia riformulato, per mostrare il “cliente” prostitutore, gli uomini che vogliono comprare le donne, come causa propulsiva e decisiva della prostituzione.
Una volta messo al centro il “cliente” prostitutore, non vorrei però relativizzarlo un attimo dopo, con la retrocessione a “ingranaggio” o addirittura a “vittima” (anche lui come lei) di un’entità disincarnata più grande di lui (il denaro, il mercato, il capitalismo, il sistema). La prostituzione, la sua organizzazione, il suo farsi industria, mercato, ordinamento giuridico, esiste per lui, l’ha creata lui. Se pochi “clienti” prostitutori diventano imprenditori dello sfruttamento economico, tutti i “clienti” prostitutori sono e restano i principali attori dello sfruttamento sessuale.
Riconosco, anche per le ragioni dette in apertura, un’aurea di sacralità alla legge Merlin. Meglio non toccarla, fosse pure per migliorarla, perché una volta tentato di migliorarla, sarebbe più esposta a ogni peggioramento. Credo non abbia neppure bisogno di essere migliorata. La legge Merlin è a tutti gli effetti una legge abolizionista: non tocca la prostituta e indica tutti i reati dei soggetti che si muovono intorno a lei. Se assumiamo la svolta simbolica del femminismo e del modello nordico, e impariamo a riconoscere nel “cliente” il prostitutore e quindi uno sfruttatore, un favoreggiatore, un induttore, si può prevedere e sperare che il cliente sia destinato a cadere nel raggio dei reati già sanzionati dalla legge Merlin.
Ho già ampiamente illustrato le ragioni del mio prendere parola sulla prostituzione nella introduzione al mio capitolo del testo Né sesso, né lavoro. In fase di stesura e correzione Luciana Tavernini, preziosissimo aiuto in questa avventura di scrittura in condivisione tra donne, mi aveva invitata a mettermi in gioco, a scoprire le motivazioni del mio coinvolgimento e a dichiarare il perché la prostituzione riguardava anche me. A differenza di altre la prostituzione non è mai stata un tabù, nemmeno quando ero piccola.
Mio padre alle domande insistenti di noi bambine sul significato di quei fuochi con i copertoni lungo le vie, di fronte alla manifestata compassione per quelle donne povere che dovevano riscaldarsi per strada al calore delle fiamme anziché al riparo delle case, ci ha sempre spiegato che non era «colpa loro, ma di uomini cattivi che facevano loro del male» e che quando saremmo state più grandi, ci avrebbe spiegato meglio, insieme alla mamma. Così avvenne man mano che si cresceva, fino alla condanna esplicita verso chi induceva alla prostituzione e a un giudizio pesante sulla presunta mascolinità di chi ricorreva al mercimonio, dichiarando, con l’imbarazzo e il pudore di quegli anni, che mai lui sarebbe potuto “andare con una prostituta”, per rispetto verso di lei, verso mia madre, verso di noi, verso di sé.
Di seguito, come ho già scritto, ci sono state le letture, racchiuse tra Lettere dalle case chiuse1 da ragazzina e Stupro a pagamento2 lo scorso anno, due pugni nello stomaco proporzionati alle età differenti.
Nel mezzo, la professione e la politica: il primo interrogatorio, il processo per reato di schiavitù, l’Osservatorio giuridico per i diritti dei migranti e delle migranti, le ragazze della tratta, le loro lacrime sulle mie mani; la politica praticata, le politiche del diritto, la politica delle donne, la scoperta del diritto sessuato.
Oggi, qui con voi, vorrei condividere che cosa è accaduto dentro di me tramite la stesura del libro e la sua divulgazione, che cosa è cambiato, che cosa si è confermato rispetto al tema: la prostituzione ci riguarda tutte e tutti. Oltre alla scoperta della bellezza e della fatica di una scrittura condivisa, lo studio delle proposte di legge giacenti in Parlamento sulla prostituzione ha tolto il velo, ha smascherato molte delle mie certezze, tra illusioni e persistenti ingenuità.
Prima fra tutte, almeno in questa vicenda, la dolorosa constatazione, con conseguente interrogativo: destra e sinistra pari sono? e poi ancora: non tutte le donne di sinistra sono femministe! Mentre sapevo che non esiste un unico femminismo (ci sono quello di Stato, quello radicale, quello paritario e, naturalmente, il “nostro”!), l’ipotizzare che una donna di sinistra potesse non essere femminista, in una fra tutte le declinazioni possibili, mi ha lasciata basita.
Senza entrare nel dettaglio e nelle esemplificazioni che potete trovare nel libro, in sintesi due sono le visioni assimilabili che producono o rischiano di determinare la sovrapposizione tra scelte politiche e giuridiche, ahimè non più differenti: l’ineludibilità della prostituzione e la doppia morale “al femminile”.
Sul primo punto, se è vero che da parte di tutte le proposte di legge, molte presentate da donne, vi è una condanna astratta di tutto il fenomeno prostituivo, detta condanna non si traduce in un’assunzione di responsabilità politica per farla cessare e in un impegno fattivo, in una lotta concreta perché ciò possa accadere. Mi sembra di aver capito che la convinzione della impossibilità di sradicare la prostituzione dalla nostra società venga ancor prima del tema della libertà di scegliere e del disporre del proprio corpo, vendita compresa!
Ciò finisce per ingenerare una sorta di “doppia morale” da parte delle donne che si occupano e discutono di prostituzione, alimentata dall’implodere del fenomeno della tratta. Da una parte, infatti, aumenta la condanna unanime, l’invocazione di pesanti penalizzazioni, l’investimento di risorse per combattere la tratta, il traffico sessuale, la cosiddetta prostituzione coatta, azioni sostenute, come ci ha insegnato Julie Bindel3, anche dalla lobby dei prostitutori, in quanto la tratta inquinerebbe il mercato regolamentato o libero della prostituzione.
Si distingue ad esempio, parlando delle “povere ragazze nigeriane sfruttate”, tra lo stupro che avviene nei campi di detenzione in Libia (attuale luogo della svergination di massa) e il singolo atto prostituivo, individuando la violenza sessuale nella costrizione, nella schiavitù, nella soggezione al trafficante o alla madame e non in ogni prestazione sessuale, in ogni stupro a pagamento.
Dall’altra parte, in quella che mi sono permessa di chiamare “doppia morale”, vi è una specie di plauso verso le donne libere e sfrontate che sbandierano la propria sessualità liberata, non solo esibendola dentro le regole della pornocrazia, ma che ne rivendicano l’utilizzo come strumento di potere sugli uomini e mezzo per un lecito e debito arricchimento.
Si passa dalla condivisa e audace scelta di Lina Merlin di non condannare la prostituta, alle felicitazioni per chi sa stare nel mercato del corpo traendo profitto per sé.
Da qui, dentro di me, è scattata la radicalizzazione della lotta per la difesa della legge Merlin e il consolidamento della scelta di passare da “la prostituzione riguarda anche me” a “la fine della prostituzione riguarda anche me”.
In questi mesi successivi alla pubblicazione, il libro è diventato allora uno strumento per questa azione politica, il pretesto per parlare di prostituzione, l’occasione per informare sul fenomeno, il luogo per discutere e far emergere anche il conflitto.
Sono andata in due scuole superiori, ho tenuto una lezione nel mio corso all’Università degli adulti, ho partecipato a cinque incontri organizzati da gruppi di donne o da donne impegnate nelle istituzioni, due dei quali con Luciana Tavernini, così almeno fino ad oggi, ma in programma c’è molto ancora, prossimamente l’incontro organizzato per il 26 ottobre a Pinerolo, promosso anche dall’associazione di uomini Maschile plurale.
Distinguo questa restituzione tra giovani e adulti.
Come tutte ben sappiamo a scuola le ragazze e i ragazzi sono molto ricettivi, soprattutto nei confronti delle novità e di chi “viene da fuori”. Ciò aumenta, per esperienza diretta, quando l’offerta riguarda gli istituti tecnici o professionali dove le/gli studenti sono vivaci e “ruspanti”, hanno meno filtri comportamentali e sono fin troppo schietti, a dire delle e degli ottimi dediti docenti. Si sentono poi sempre onorate e onorati dal fatto che qualcuno di esterno le/li prenda in considerazione, si metta in gioco per interloquire anche con chi frequenta scuole di serie B!
Immaginate quindi il contesto in cui, dentro la lezione sui diritti umani delle donne, ho affrontato con loro il tema della prostituzione. Dopo qualche slide una studentessa, interrompendomi, ha rivendicato il diritto delle ragazze di trarre profitto dal proprio corpo, «Il corpo è mio e posso farci quello che voglio», aggiungendo «Se gli uomini sono così stupidi da pagarci o da farci regali costosi, perché non dobbiamo approfittarne? Visto che poi ti chiedono anche prestazioni minime…» (mio modo per tradurre l’esplicita espressione gergale e provocatoria della ragazza riferita al rapporto orale). Sul punto vorrei sottolineare qui che la seconda frase della ragazza è la stessa che Blessing Okoedion cita nel suo libro Il coraggio della libertà4, riferita alla propaganda che viene fatta dalle donne che vanno a reclutare in Nigeria, soprattutto in città dove il tasso di istruzione è maggiore, perciò alcune sanno che cosa le può attendere in Italia. Unica variante sta nell’aggettivare la stupidità degli uomini come “bianchi e occidentali”!
Tornando alla classe, una compagna indignata grida: «Ma che cosa dici, tu non hai rispetto di te stessa, come puoi vendere una parte del tuo corpo, nessuna parte, soprattutto quella, che è la più intima». Un’altra timidamente aggiunge: «Quella da cui nascono i bambini»… Il tutto tra risatine e sguardi furtivi dei maschi, con qualche commento di entrambi i sessi sulla possibilità di non coinvolgere “quella parte” delle donne, posto che si possono offrire e ottenere prestazioni che la tengono fuori dal rapporto sessuale. Anche qui, pur in uno spaccato parzialissimo come può essere una classe scolastica, trova conferma il dato sempre più diffuso della preferenza per le prestazioni orali in molte situazioni di prostituzione, specie se minorile.
Alla fine, il classico bel ragazzo leader interviene per dirimere il conflitto tra le ragazze: «Se il problema è il pagamento e la voglia di fare sesso, io mi offro gratuitamente così non offendo nessuna», tra risate generali pacificanti.
Il registro cambia quando rivolgendomi direttamente ai ragazzi, anche al bel ragazzo, inizio a parlare del turismo sessuale, della presenza record di maschi italiani fra chi lo pratica, con un’età media di 27 anni, e gli dico che di conseguenza, nel giro di pochi anni, potrebbero essere loro stessi a farlo. «Noi no, noi mai, noi non ne abbiamo bisogno, abbiamo già le nostre ragazze che fanno tutto quello che gli chiediamo e… a gratis».
Riflettiamoci insieme.
Questi giovani maschi almeno hanno parlato, gli uomini adulti no!
È accaduto quasi sempre ad ogni occasione di incontro, tranne per qualche presa di parola a Pinerolo e a Mantova con interventi di rappresentanti dell’associazione Maschile plurale o di operatori nel settore (volontari o educatori in associazioni contro la tratta). Silenzio totale, impressionante e significativo all’Università degli adulti. Alle mie lezioni partecipano in media 200-220 persone, di cui almeno un terzo uomini, sempre molto attivi e partecipi anche quando abbiamo parlato di storia e/o di diritti delle donne, di gravidanza per altri, di fecondazione assistita. Sulla prostituzione silenzio totale, nessuno ha preso la parola, almeno non davanti a me. All’esterno capannelli di discussioni accese.
Silenzio degli avvocati maschi, presenti in numero superiore al previsto al corso organizzato dall’Associazione Donne Giuriste patrocinato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati (ancora al maschile) di Como.
Silenzio dei maschi presenti alla presentazione del libro a Lucca, tutti amici miei, nessuno sconosciuto, nonostante l’ottima organizzazione dell’assessora Ilaria Vietino.
Riflettiamoci insieme.
La reazione delle donne adulte, sia organizzatrici degli eventi, sia partecipanti è stata più confortante e feconda.
I ragionamenti più diffusi sono stati quello relativo al tema della libertà di scelta, anche alla luce delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, l’esistenza di un diritto a prostituirsi, il dibattito intorno alle sex workers, la legittimità delle distinzioni tra prostituzione libera e coatta, i dubbi persistenti sull’utilizzo di alcuni termini quali “stupro a pagamento” o “prostituzione di Stato”, riferito alle proposte di neoregolamentazione. A questo proposito vorrei condividere con voi come tra, i titoli proposti per gli incontri, quello contenente le parole “stupro a pagamento” venga quasi sempre scartato. Vi è una maggior accettazione del nostro Né sesso, né lavoro, ma solo se l’occasione è la presentazione del libro, di solito si preferisce il riferimento neutro alla legge Merlin: la modifica, l’anniversario, l’attualità…
Riflettiamoci insieme.
Unanime la gratitudine da parte delle donne intervenute per l’importanza di aver preso parola e scritto di prostituzione, di aver consentito di organizzare un dibattito su un tema spinoso e divisivo tra donne. A Lucca la presidente del Centro donne, Mary Baldacchini, ha dichiarato pubblicamente di aver cambiato idea sulle proposte di neo-regolamentazione dopo aver letto il libro, convincendosi dell’importanza di non modificare la legge Merlin.
Tutte queste esperienze, quindi, non solo mi hanno confermato l’importanza della scelta politica intrapresa con voi, ma mi hanno consentito di passare progressivamente dall’esperienza professionale allo studio, dalla scrittura agli incontri, dal dolore raccolto alla lotta per evitarlo.
A chi mi ha criticato per la dedizione a questo aspetto marginale delle nostre vite, che o non ci riguarda o ci riguarda poco, ho risposto che da mesi guardo dallo stesso buco della serratura da cui hanno guardato molti uomini, quello de La chiave di Tinto Brass o quello utilizzato ancora oggi nel mondo del web pornografico (del quale dovremmo occuparci maggiormente). Solo che attraverso questo sguardo apparentemente ristretto si apre un ampio orizzonte, un cono di luce che si allarga e illumina molte dimensioni dell’umano: il Moloch del mercato e le sue regole fameliche; le relazioni tra gli umani e quella tra i sessi, la crisi delle coppie e della famiglia tradizionale, le resipiscenze del patriarcato; il ruolo dei padri… per narrarne alcune e capire insieme come la prostituzione ci riguarda tutte e tutti, ma proprio tutte e tutti.
- Lettere dalle case chiuse, a cura di Lina Merlin e Carla Barberis, ed. Il gallo, 1955. Ripubblicato con nel 2018 con il titolo Cara senatrice Merlin. Lettere dalle case chiuse, a cura di Mirta Da Pra Pocchiesa, Edizioni GruppoAbele, 2018. ↩︎
- Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, ed. Round Robin 2017. ↩︎
- Julie Bindel, giornalista britannica e attivista, autrice fra l’altro di Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, VandA.epublishing, 2018. ↩︎
- Blessing Okoedion con Anna Pozzi, Il coraggio della libertà, Edizioni Paoline, 2017. ↩︎
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, del 6 ottobre 2019
Oggi parliamo nuovamente di prostituzione. In Libreria ne abbiamo già discusso più volte sotto l’aspetto delle politiche e sotto quello giuridico. A quest’ultimo aggiungiamo solo un richiamo, per ricordare che il 7 marzo 2019 la Corte costituzionale si è espressa contro l’eccezione di costituzionalità sollevata su alcuni articoli della legge abolizionista voluta da Lina Merlin, stabilendo che «la prostituzione è sempre subordinazione e negazione delle relazioni». Una sentenza incoraggiante, che deve spingerci a continuare a difenderla e a farla conoscere.
Di prostituzione abbiamo discusso anche con Rachel Moran, a partire dal suo libro Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione1. Proprio grazie al suo libro e all’incontro con lei in alcune di noi è nata l’esigenza di capire quanto l’esistenza della prostituzione traccia i confini del nostro mondo condizionando anche le nostre vite.
Nel preparare questa discussione, mi è tornato insistentemente alla memoria un episodio personale, e ho deciso di cominciare raccontandovelo. A fine anni ’90, inizio 2000, in vacanza a Parigi, un pomeriggio mentre passeggio un tizio mi butta lì a muso duro che lui è solo ed emarginato per colpa della società, e quindi io devo fargli compagnia. Con “compagnia” naturalmente intendeva “sesso”, ma è irrilevante: nel corso della breve conversazione lui non lo ha mai esplicitato, e io ho fatto finta di non capirlo. Dopo avergli chiarito che la società sarà anche escludente e ingiusta, ma che io non avevo il dovere di fargli da servizio sociale, l’ho fermamente congedato. Perché proprio questo fra tanti abbordaggi, molto più molesti o volgari, mi è tornato in mente in rapporto al nostro tema?
L’anonimo parigino aveva trovato perfettamente logico esigere rapporti umani e risarcimento sociale da me, una sconosciuta, come se fosse un mio debito personale. Il vero sottinteso infatti, più che il sesso, era che essendo io una donna non visibilmente al servizio di un altro uomo, un servizio lo dovevo a lui in quanto uomo. Una pretesa che mi indignò moltissimo, che mi indigna ogni volta che la incontro.
Succede, infatti, spesso a tutte noi di scontrarci con la pretesa degli uomini di trovare le donne a loro disposizione quando gli servono e di non trovarle dove possono fargli ombra. I colleghi pari grado che ci trattano come le loro segretarie personali, i mariti o conviventi che contano sull’assistenza domestica della loro compagna e al massimo “aiutano”, in casa loro come se fossero ospiti. Eccetera. Questa strumentalità, questa pretesa ostentata con tanta naturalezza, su di me hanno pesato come un macigno per tutta la vita, schiacciando la possibilità di fidarmi mai di un uomo e di scommettere su una relazione con lui.
Non esiste solo questo, certo. Con il femminismo sono stati aperti molti conflitti che hanno spostato la consapevolezza di alcuni uomini e molte altre cose. Uno dei più importanti conflitti recenti è stato il #metoo, che ha fatto emergere un fenomeno contiguo proprio alla prostituzione: le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro. Ed è stato sempre un conflitto aperto da donne, non necessariamente femministe ma che hanno parlato a partire dalla loro verità soggettiva, a rivelare lo scambio sesso-potere-denaro impastato alla base del sistema politico in Italia. Lo analizza benissimo Ida Dominijanni ne “Il trucco”2.
I casi citati hanno in comune con la prostituzione di essere tutte manifestazioni di quello che Carole Pateman chiama il “contratto sessuale”, il patto inespresso tra uomini per l’accesso maschile ai corpi delle donne posto a fondamento delle nostre società, che determina l’esclusione delle donne come soggetti del contratto sociale e fa coincidere gli “individui” liberi cittadini con i soli maschi3. Di quel contratto erano parte anche certi vecchi arnesi giuridici come il “diritto coniugale” del marito alla prestazione sessuale della moglie e lo ius corrigendi4, che ora, grazie ai conflitti aperti dal femminismo, sono diventati per la legge stessa reati di violenza contro le donne.
Ma finché esiste il riconoscimento ai maschi di un accesso al corpo delle donne, sancito dal passaggio di denaro, finché donne e uomini lo considereranno normale, o anche solo fatalisticamente inevitabile il contratto sessuale non si estinguerà. Che spazio c’è per una libera relazione di differenza tra le une e gli altri all’ombra della prostituzione? Come evitare, se si dà questa per scontata, che continuino a nascere forme, anche nuove e inedite, di quella pretesa maschile di uso del corpo e delle risorse delle donne?
Eppure sulla natura della prostituzione c’è sorprendentemente poca chiarezza. Forse perché resta sempre un po’ a margine del campo visivo. Non si vuole vederla, non si vuole pensarci. Gli uomini la occultano, suppongo insieme alla propria vergogna. Ma anche le donne preferiscono non vederla, forse perché non ci rassegniamo a precludere a noi stesse un orizzonte ampio e sgombro, perché non vogliamo vedere intaccate la nostra libertà e le relazioni con gli uomini che fanno parte della nostra vita. La giornalista inglese Julie Bindel, nel libro Il mito Pretty Woman5, osserva che il cono d’ombra che avvolge la prostituzione dipende anche all’impossibilità per molte donne di affrontare gli interrogativi che pone sull’uomo con cui fanno colazione al mattino (anche lui potrebbe usare a pagamento il corpo di un’altra donna come me, come se fosse un oggetto? E se è così, anch’io per lui sono un oggetto?).
Vogliamo quindi parlarne oggi a partire da quello che la sua esistenza ha prodotto nelle nostre vite, come incide sul lavoro e sul concetto di lavoro, sulla società. Vederla bene per non confonderla con altre cose, per non scambiare per sessualità femminile quella che è una rinuncia da parte di donne alla propria sessualità per permettere agli uomini di usarla, per non scambiare per autodeterminazione la decisione (o la costrizione) di rinunciare ad autodeterminarsi per bisogno economico. Vederla bene per sradicarla meglio: la prostituzione va abolita come la schiavitù, vanno liberate tutte le donne come sono stati liberati tutti gli schiavi. Occorre, come con i ricatti sessuali e le molestie sul lavoro, far vedere che è inaccettabile, affinché gli uomini cambino.
Ne parliamo con Grazia Villa, avvocata, e con Luciana Tavernini, da molti anni impegnata nella Libreria delle donne con molteplici attività, autrici rispettivamente del terzo e del quarto capitolo del bellissimo libro Né sesso né lavoro6 (VandA.epublishing, 2019).
- «Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione» di Rachel Moran (ed. Round Robin, 2017, traduzione a cura di Resistenza Femminista) ↩︎
- «Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi» di Ida Dominijanni (Ediesse, 2014) ↩︎
- «Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna» di Carole Pateman (Moretti & Vitali, 2015) ↩︎
- cioè il diritto del marito alle prestazioni sessuali della moglie, cui corrispondeva da parte di lei il “dovere coniugale” di erogarle, e il diritto, sempre del marito, di punire la moglie, anche fisicamente. ↩︎
- «Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione» di Julie Bindel (VandA.epublishing, 2018) ↩︎
- «Né sesso né lavoro» di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa (VandA.epublishing, 2019) ↩︎
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, del 6 ottobre 2019
Fino a qualche anno fa preferivo non vedere la prostituzione dicendo «Se una si prostituisce è affar suo». Tornando la sera a casa con l’auto e passando vicino alle ragazze seminude lungo la circonvallazione, le vedevo con lo sguardo che vede e non vede e mi fermavo a pensare solo al disagio per il freddo. Ho scoperto che questa è una posizione di molte infatti, quando le ho invitate agli incontri su questo problema, mi hanno risposto «È un argomento che non mi interessa», riducendolo appunto ad argomento evitabile. Che cosa mi ha fatto cambiare e come cambiare la postura verso la prostituzione ha messo in atto riflessioni politiche che coinvolgono tutte e tutti?
Inviolabilità del corpo femminile
Quando sono riuscita a riconoscere come molestia sessuale, da parte di un medico stimato da mia madre, un episodio della mia adolescenza che per decenni mi sono sforzata di minimizzare, ho potuto vedere come questo avesse inficiato la mia capacità di radicarmi nel mio sentire e mi avesse deportata nel regno dell’altro. Per non sentirmi cosa, quanto c’è di più vicino alla morte, il cadavere è letteralmente una cosa che prima era una persona1, mettevo le mie energie a cercare di giustificare il comportamento maschile, a trovarci qualcosa che lo potesse rendere in qualche modo buono per me.
Ma proprio perché veniamo violate attraverso il corpo che noi siamo e per il fatto che siamo caratterizzate dall’essere dello stesso sesso della madre, ogni violazione ci fa perdere il senso del piacere e del privilegio che l’essere come la madre comporta e la fiducia che le parole, apprese principalmente con lei, dicano il mondo.
Come dice la psicologa Candela Valle Blanco2 nel seminario di Duoda di quest’anno il tabù dell’incesto è innanzi tutto tabù per le donne a parlarne. Ci sono proposti tanti nomi in modo che la violazione del corpo femminile appaia differenziata e noi ne siamo confuse. Anche i nazisti usavano 50 nomi diversi per definire i campi di concentramento mentre il grido delle persone deportate era «Ci portano via», indicandone la caratteristica fondamentale nell’averle private con la violenza della libertà3.
Che cosa ci portano via tutte le forme di violazione delle donne che ci vengono fatte o a cui assistiamo?
Viene cancellato il riconoscimento simbolico che solo grazie alla dipendenza dalla madre ciascun essere umano esiste e quindi il senso di gratitudine verso di lei. Perdiamo la fiducia piena nel nostro sentire: quindi da un lato perdiamo la guida fondamentale per parlare pubblicamente e dall’altro quella al piacere erotico, che è prima di tutto saper ascoltare se stesse nella relazione.
Non è un caso che la maggior parte delle donne prostituite abbiano subito abusi sessuali o abbiano assistito a violenze maschili contro le donne, che ora sappiamo sono fisiche, economiche e psicologiche.
Occorre, come abbiamo fatto con la violenza maschile, far emergere le narrazioni femminili, rompere il tabù del silenzio, mostrare le conseguenze della violazione del corpo femminile sotto tutte le forme, come già accade in alcuni testi4 ma anche essere in grado di rileggere testimonianze di donne prostituite, ad esempio nello storico libro Ritratto a tinte forti5 di Carla Corso, fondatrice del Comitato di difesa delle prostitute, mi è apparso come punto dirimente il comportamento del padre che umiliava continuamente la madre6.
Far questo ci permette di guardare liberamente la prostituzione, ci dà parola pubblica più rispondente alla nostra esperienza, toglie una facilitazione all’avvio alla prostituzione e riusciamo a cogliere i collegamenti con altre forme di violenza maschile organizzata, come la guerra, una riflessione ampia su cui ho scritto e a cui, per mancanza di tempo, rimando7.
Liberazione o libertà sessuale?
Guardare liberamente la prostituzione ci interroga su quale idea di piacere sessuale abbiamo interiorizzato e ci riporta alla differenza che da femministe abbiamo fatto tra liberazione sessuale e libertà sessuale. Essere disinibite non significa essere disponibili a ciò che la rappresentazione maschile della sessualità e i comportamenti derivati propongono ma scoprire il piacere nella reciprocità, non una routine predeterminata né un obbligo a dire sì alle richieste altrui sempre e comunque. La libertà sessuale è continua invenzione e scoperta di sé e dell’altro da sé nell’unità del corpo che noi siamo. Io ho sperimentato, attraverso l’imprevedibile intimità dell’incontro con l’altro da me, un’apertura all’energia cosmica. Come donne che abbiamo preso parola pubblica abbiamo imparato a definire stupro qualsiasi atto a sfondo sessuale che non tenga conto del piacere di lei: abbiamo riconosciuto che il matrimonio non autorizza più tale abuso, mascherato da dovere coniugale, e con la definizione di Rachel Moran della prostituzione come stupro a pagamento che nessun passaggio di denaro lo giustifica.
Accettare che la prostituzione venga considerata sessualità libera e che sia una possibilità per l’uomo con cui si sceglie di stare diventa un retropensiero che costituisce un blocco al proporre o rifiutare, insomma alla creatività del rapporto, come se dal denaro e non dall’incontro potesse dipendere ciò che si può chiedere all’altra o all’altro. Questo è un altro motivo per cui molte preferiscono non vederla.
Considerare il denaro come equivalente universale che permette la libertà sessuale e la realizzazione di tutti i desideri significa ridurla a libertà di vendere e comprare e ci spinge, come ha scritto Niccolai, «a dimenticare il senso stesso della libertà, a dimenticare cioè l’idea che ci sono cose che hanno valore in sé, e che sono smisurate e perciò producono cambiamenti; siamo ammaestrati a pensare che tutto, la libertà in primo luogo, è solo un bene di scambio che, come tale, trova sempre una misura già data, non esiste per creare imprevisto, ma per confermare l’esistente e le sue leggi – la legge del denaro quale misura del valore e del senso dell’esistenza umana, che anziché come unica e incommensurabile va pensata misurabile, equivalente, fungibile8».
Senso dell’esistenza e del lavoro
È proprio l’idea stessa di esistenza umana che viene ridefinita dalla prostituzione. Invece di esseri umani interi non separabili diventiamo individui proprietari di un corpo liberi di offrire le sue prestazioni all’offerente disponibile a pagarle. Ciò che conta è la possibilità di contrattarle al miglior prezzo possibile. La differenza sessuale diventa insignificante perché in questa finzione le prestazioni variano in base alle richieste del mercato: l’io proprietario non appare intaccato. L’idea che solo il contratto e la forza contrattuale regoli le relazioni umane ha invaso il mondo del lavoro9. Si lotta allora per dare un prezzo a tutte le prestazioni attraverso mansionari il più articolati possibile, e per rendere accettabile la prostituzione basta che si rispetti il tabellario e i relativi prezzi, come avveniva nelle case chiuse. Sembra irrilevante interrogarsi su cosa sia un lavoro degno di un essere umano con la sua inestricabile, singolare, sessuata e unitaria esistenza.
Riflettendo sulle mie esperienze lavorative retribuite (da quella di donna delle pulizie a quella di infermiera generica, da cameriera in hotel a intervistatrice e infine insegnante in vari ordini di scuola), e quelle non retribuite come casalinga, ho scoperto che il mio modo di lavorare era condiviso da altre donne, era una visione politica e non un aspetto del mio modo di essere o una caratteristica di quel particolare lavoro, anche se mi sono scontrata più volte con la visione maschile di lavoro.
Riconoscendo la verità della definizione di lavoro come tutto quello necessario per vivere10, non separo i due tipi di lavoro per cui non esaurisco in nessuno dei due tutte le mie e altrui energie e do sempre importanza all’ambiente che deve essere salubre e piacevole.
Ho acquisite, sviluppate e travasate conoscenze e abilità in tutti gli ambiti e continuo a farlo e il valore del lavoro è anche in questa crescita.
Il tempo è un elemento prezioso, è esauribile e costituisce un continuum che ho imparato a gestire nell’arco della giornata, dell’anno, della vita in base all’urgenza che le relazioni mi suggeriscono.
Attraverso il lavoro costruisco e intreccio relazioni da cui cerco e offro giudizio per rendere la vita mia e altrui migliore.
E sempre quello che faccio è legato al come costruisco un senso libero del mio essere donna.
Infine voglio precisare quello che intendo per necessario. Non significa che mi può procurare denaro per vivere. Lavorando come donna delle pulizie e come casalinga, ad esempio, pulire i gabinetti è un lavoro estremamente necessario ed è un contributo per la salute e bellezza della casa e di chi vi abita. Ho viaggiato molto e ho sempre valutato la civiltà di un paese dall’accessibilità, pulizia e gratuità dei gabinetti, anche quando sono a deposito come ho constatato nell’isola di Grinda in Svezia o come accadeva a casa dei miei nonni fino a una trentina di anni fa. Chimamanda Ngozi Adichie nel romanzo Americanah inserisce un episodio che illustra bene quando subentra l’abuso e quando diventa vitale rifiutarsi. Il protagonista maschile, Obinze, a Londra lavora pulendo i gabinetti in un’impresa immobiliare. Ma una sera, entrando in uno scomparto, rimase scioccato perché «trovò uno stronzo sulla tavoletta del water, solido, affusolato, centrato come se lo avessero collocato con cura, misurando il punto esatto. Sembrava un cucciolo acciambellato su uno zerbino. Era una performance». Il protagonista si fa domande sulla società inglese e sui problemi possibili dell’autore, poi prende una decisione: «Obinze fissò quel mucchietto di merda per un bel po’, sentendosi sempre più piccolo, finché non gli parve un affronto personale, un pugno alla mascella. E tutto per tre sterline all’ora. Si tolse i guanti, li posò accanto al mucchietto di merda e lasciò l’edificio11». Per me è un esempio illuminante della differenza tra lavoro necessario e abuso, apparentemente giustificato dal fatto che qualcuno/a riceve del denaro per rendere invisibili i danni che vengono così commessi.
Credo che chiamare lavoro la prostituzione sia stato da parte di alcune in buona fede un modo per togliere discredito alle donne prostituite, ma, come abbiamo imparato dalla relazione con le donne maltrattate, chiamare amore la violenza è proprio un modo che ci impedisce di vederla e di liberarcene. Sono rimasta colpita vedendo come la scritta «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi) era parte integrante del cancello d’entrata e chiusura dei campi di concentramento di Mauthausen e Auschwitz. Rendiamo più libere le donne chiamando la prostituzione lavoro? O è di nuovo un modo per non vederne le caratteristiche? Come nella relazione con una donna maltrattata pensare che in famiglia tutto potesse essere ricondotto all’amore coniugale da salvaguardare ha ostacolato un ascolto attento a ciò che lei comunicava della sua esperienza, così nella relazione con una donna prostituita quanto l’idea che la prostituzione sia un lavoro impedisce un ascolto attento di ciò che le accade e dei suoi desideri? Non si discuterà con lei di come organizzarlo meglio, magari sconsigliando l’uso di anestetici vaginali perché nasconderebbero più a lungo possibili lesioni, come succede in Nuova Zelanda?12
Inoltre, se di lavoro si tratta allora è un’opportunità che una disoccupata, come è già stato proposto in Germania, non dovrebbe poter rifiutare13. E come opportunità deve essere aperta a tutti. Che la stragrande maggioranza riguardi donne prostituite e per la quasi totalità uomini prostitutori, sarà solo un fatto contingente.
Nuove relazioni tra donne e uomini
Invece io continuo a voler vedere di quale tipo relazioni tra uomini e donne si tratta e che tipo di società si costruisce, accettando la prostituzione e so che è in atto un cambiamento.
Vedo molte donne che, attraverso la relazione con altre, hanno reso il loro sguardo sul mondo più rispondente a sé e lo continuano a mostrare, in un rilancio di altre che dà forza pubblica alla verità che emerge. Vedo che sempre più non aderiscono a comportamenti basati su stereotipi di genere ma neppure sul loro contrario.
Vedo che, proprio per questo, in parecchi uomini che conosco, e in modo più diffuso tra quelli più giovani, si sta costruendo un’idea di che cosa significa essere uomo che tiene in gran conto il giudizio delle donne con cui sono in relazione e il loro agire non è più dettato anche qui da stereotipi di genere ma dal desiderio di costruire una vita che dia una maggiore felicità, nella concretezza del nesso necessità-libertà. Diventare maschio non è essere nella categoria di quelli superiori alle donne, da cui farsi servire o da considerare oggetti da possedere ed esibire, né in quella di quelli che basano il loro valore sulla prevaricazione di un altro individuo, basti pensare al bullismo.
Il senso dell’onore maschile, dell’essere degno di stima, si basa sempre meno sul rapporto esclusivo con gli altri maschi e sempre più sulla relazione costruita con le donne. Con l’altra da sé, infatti, si aprono orizzonti di conoscenza e di sperimentazione altrimenti impossibili. Guardiamo, ad esempio, al rapporto con le creature piccole che i nuovi padri sperimentano, che fa riscoprire il valore dei piaceri elementari, la delicatezza nel contatto, il limite al proprio volere nell’altro essere preciso che ci è di fronte. La prostituzione non prevede padri, pone il limite a ciò che puoi desiderare nel denaro non nell’altro che ti è di fronte, costruisce la mascolinità nel considerare ininfluente il desiderio di lei.
Rappresentare invece il nuovo tipo di relazioni tra i sessi è un impegno politico in cui le giovani sono capaci di mettere la loro creatività. Penso al progetto di cinque spettacoli che, a partire da Le mille e una notte, Lidelab14, una compagnia teatrale di cinque giovani, in uno scambio intergenerazionale tra donne, ha rappresentato con i modi spiazzanti e toccanti dell’arte e del teatro contemporaneo un punto di vista femminile trasformativo, per ora in due spettacoli, uno sulla violenza maschile e il suo superamento, l’altro sul piacere sessuale. Non un discorso per donne (molti uomini erano in sala) ma di donne che parlano a tutte e tutti.
- Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios Editore, Triste 2012, pp.39-40 ↩︎
- Candela Valle Blanco, Decir lo indecibile. Escuchar lo verdadero, intervento al XXX Seminario Público International di Duoda El cuerpo se confiesa: el incesto, 11 maggio 2019. Il video dell’incontro si trova a questo link https://www.youtube.com/embed/_Gm_7Mk3LdM” title=”XXX Seminario Público Internacional. El cuerpo se confiesa: el incesto. Sesión de mañana ↩︎
- Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, Affinità elettive, Ancona 2017, p. 251. ↩︎
- Vedi in particolare Marie-Thérèse Giraud, «Il peso del silenzio» in Comunità di storia vivente di Milano, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, pp. 25-40; Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Round Robin, Roma 2017; Annie Leclerc, Della paedophilia e altri sentimenti, Malcor D’, Catania 2015; Luciana Tavernini, «Gli oscuri grumi del disordine simbolico» in DWF 2012/3, pp. 35-45. Segnalo due opere letterarie che senza moralismo ma con incisiva lucidità rappresentano i danni della concezione maschile della sessualità: il racconto del 1930 di Dorothy Parker «The big blonde», tradotto con «La bella bionda» in Il mio mondo è qui, Bompiani, Milano 1984, pp.187-215 e un episodio del romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah, Einaudi, Torino 2015, pp. 149-150 e 159-165. ↩︎
- Carla Corso e Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, Giunti, Firenze 1991. ↩︎
- Ho esaminato alcune testimonianze di donne prostituite in relazione con femministe, a partire dall’inizio del Novecento ad oggi nel saggio «Quanto ci tocca la prostituzione?» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, Vandae-publishing, Milano 2019, pp. 180-205. ↩︎
- Luciana Tavernini, «Un’eredità dirompente» in Comunità di storia vivente di Milano, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, op. cit., pp.107-123. ↩︎
- Silvia Niccolai, «La legge Merlin e i suoi interpreti» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, op. cit., p. 113. ↩︎
- Una storia del contrattualismo e una lucida analisi delle sue conseguenze rispetto al lavoro, alla prostituzione e alla maternità surrogata con grande preveggenza critica si trova nel libro, uscito nel 1988, di Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, ristampato nel 2015 da Moretti&Vitali. ↩︎
- La definizione è del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, in particolare in «Immagina che illavoro», Sottosopra 2009, ripresa in «Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda», Sottosopra 2018. Molte riflessioni sul lavoro le ho elaborate con Marina Santini per Mia madre femminista. Una rivoluzione che continua, Il Poligrafo, Padova 2015, in particolare per il testo, le testimonianze e le foto del capitolo «Immagina che il lavoro», p.181-233. ↩︎
- Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah, op. cit., pp. 245-247. ↩︎
- Vedi Daniela Danna, «Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, op. cit., p. 29-30. ↩︎
- Vedi Daniela Danna, «Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione», op. cit., nota 13, pag. 34. ↩︎
- Si tratta di un progetto finalista Registi under 30-Biennale College teatro. Uno spettacolo è stato rappresentato al Festival dei due mondi di Spoleto e l’altro nel Festival di teatro contemporaneo L’altra scena a Piacenza. Per conoscere il gruppo vedi: https://www.facebook.com/lidelabtheatre/photos/a.266631827296909/430670790893011/?type=3&ref=embed_post ↩︎
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, del 6 ottobre 2019
Domenica 6 ottobre 2019, ore 10.00-13.30
A partire dall’esperienza e dalla riflessione politica di Rachel Moran, espresse nel suo libro «Stupro a pagamento», molte di noi hanno cominciato a sentire che la prostituzione ci riguarda, tutte. La sua esistenza istituisce e rivela l’immaginario distorto di sopraffazione maschile entro cui si giocano le relazioni, non soltanto sessuali, tra uomini e donne.
Finché gli uni e le altre considereranno “normale”, o anche solo “inevitabile”, l’esistenza di un accesso maschile al corpo delle donne sancito dal passaggio di denaro, che spazio c’è per una libera relazione di differenza?
La prostituzione è inaccettabile. La strada per abolirla passa dal principio che il corpo di una donna non può essere oggetto di commercio né di regolamentazione pubblica e da una presa di coscienza differente per uomini e donne.
Avvieranno la discussione Luciana Tavernini e Grazia Villa.
Al suo esordio alla regia, Rohena Gera realizza un film tenero e ricco di sottili e perspicaci analisi della società indiana. Contrariamente al titolo dovuto alla ben nota piaggeria della distribuzione italiana – quello originale è Sir – il film ha poco a che fare con Cenerentola e il Principe Azzurro, favola abbondantemente sfruttata in molteplici versionicinematografiche, compresi film di grande successo economico e di notevole impatto nell’immaginario come Ufficiale e gentiluomodi Taylor Hackford e Pretty Woman di Garry Marshall.
Con tratti delicati, la regista entra nel mondo di Ratna che, rimasta vedova a 20 anni, lascia il villaggio natale e, per mantenere se stessa e la sorella, lavora come domestica in una ricca famiglia di Mumbai. Il suo datore di lavoro è Ashwin, bello e prestante che,dopo aver studiato a New York, è tornato per assumersi gli incarichi nella sua ricca famiglia di imprenditori.
Con una narrazione cronologica il film procede sviluppando i temi che interessano la regista. Mettere in evidenza la grande ingiustizia della divisione delle caste in India; il paradosso di un’intimità quotidiana condivisa e l’esistenza di due mondi invisibili, insormontabili l’uno per l’altro: barriere sociali e culturali che impediscono contatti, sguardi, parole pur condividendo ambienti e spazi. Lo sguardo della macchina da presa si muove con precisione e racconta più che le parole il mondo di lei, di lui: i luoghi condivisi e quelli separati, sempre a sottolinearne le differenze e l’inaccessibilità che è mentale. E nel contempo e impercettibilmente mostrare il processo di avvicinamento, in un gesto, in uno sguardo che, in frazioni di secondo, possono modificare la percezione che Ratna e Ashwin hanno l’uno dell’altra. Passaggi inimmaginabili in quel contesto sociale.
Non ci sono conclusioni chiare per una storia d’amore così, fra due persone che comunque procedono in un cambiamento, in una trasformazione di loro stessi che modificherà le loro vite. Ratna non è una vittima e non si considera tale; ha grandi progetti, è creativa e un futuro è in grado di immaginarselo e anche di perseguirlo.
Rohena Gera è nata in India, ha studiato cinema negli USA e lavora da più di vent’anni per il cinema e la televisione come sceneggiatrice e assistente alla regia. Sir, di cui è sceneggiatrice e produttrice, è il suo primo lungometraggio. È stato presentato a Cannes 2018 nella sezione Un Certain Regard.
Nella bella riunione di VD3 di giugno 2019 non abbiamo neppure tentato di operare delle critiche basate sul ‘no grazie’. Eppure alcune le fecero alle prime TV tanti anni fa. Ci siamo parlate da subito nei termini di una visione matura nei confronti delle tecnologie in generale.
Ci siamo dette come ci comportiamo, ciascuna di noi, con questo nuovo spazio nel quale siamo. Anche chi non ci sta. Come spesso mi accade sono stupita dall’intelligenza e apertura mentale delle donne che con-vengono in Libreria. Le strategie di uso, abuso e presa di distanza di ciascuna da/in questo spazio sono già un compendio di buone pratiche.
Ascoltando, ho pensato a cosa faccio io. Parlo di solito per un’ora al giorno con Lorenza che abita a Chicago senza spendere un soldo, più o meno, chiacchierando come fossimo in salotto sorbendo un tè, a volte facendo comunella con altre/i della famiglia eventualmente presenti. Una delizia. Ma a Natale, quando Lorenza’s family non viene alla tavolata di 30 sorelle, nipoti, zie e cugini, nonni e amici che si tiene a casa mia, lei dice che il loro Natale non riesce a decollare. Ecco il limite fra relazione a distanza e in presenza, nell’amore e nel bisticcio. Esiste un nome per questo limite che sappiamo esistere e riguarda sia l’uno che l’altro spazio? Vorrei conoscerlo.
Ho chiuso Facebook in un minuto dopo che Mark Zuckerberg ha detto che milioni di dati sono passati di mano senza controlli e con una efficace intenzionalità. Ho saputo che 170 milioni di persone hanno fatto come me. Bravò! Come dicono i francesi. A me Facebook non piace. Prude dentro di me una radice contadina che mi ha salvato alcune volte e mi fido di lei più che di Mark Zuckerberg. Ho sempre pensato “che ne faranno di tutti questi dati?” Foto di figli, dire dove sono, capire chi amo e chi no. Sono cose intime, erotiche, sensuali che condiscono al meglio i mestieri del vivere. Antonella Nappi l’ha detto, perché mettere in pubblico la propria intimità, o lasciarla osservare senza replicare?
A casa le mie amiche dicono che è così e basta. Non sono spaventate. Io sì.
Ho ragionato da tempo sullo spazio virtuale non con intenzioni critiche ma per capirne gli aspetti fisici. Ho qualche competenza di fisica matematica. Qualsivoglia cosa o configurazione è dotata di uno specifico assetto fisico. Mi fido della capacità esplicativa di questo approccio. Non ho usato la lente e le equazioni, ho selezionato gli articoli che ne parlano. Ebbene, di quale tipo d’informazioni si avvale la rete? La sua potenza economica è dovuta all’essere un mercato mondiale che orienta e offre merci acquistabili, dal pomodoro, alle azioni di un’impresa, all’ultimo film americano, alla lista degli iscritti alle prossime elezioni.
Le informazioni vengono raccolte facendo osservare da algoritmi sufficientemente intelligenti i nostri comportamenti in rete, classificati e diffusi in sistemi d’imprese interessate a meglio orientare il loro mercato potenziale. Su quali merci m’informo, quante volte ritorno sullo stesso prodotto, sono donna o uomo, ho figli oppure no, mi piace il cotone o la lana, sono influente oppure no, quanto mi soffermo su un prodotto, che film mi piacciono. L’intelligenza di un buon algoritmo è sufficiente per iniziare e poi migliorare man mano che l’affare procede. Ma l’informazione la forniamo noi, personalmente, gratuita e senza potere controllare il suo uso. Ecco dove sta uno spazio politico. Enorme, attraverso il quale possiamo orientare politiche di redistribuzione di ricchezze, sostegno i processi che ci interessano, introdurre misure di contenimento. Noi consumatori abbiamo in mano una grande forza trasformativa.
Abbiamo un interesse politico in quanto donne su questa materia? Sì. Le tecnologie, figlie del pensiero scientifico associato all’ingegneria sono smisurate. Questa non-dimensione ci inquieta, è incommensurabili alle misure del corpo umano. Le misure che noi donne conosciamo così bene grazie alle pratiche di tenere nella nostra pancia e poi allevare, “tirare su” diceva Ida Farè, le creature fisicamente, culturalmente e spiritualmente. Tutte queste pratiche ci hanno posto severi e inappellabili condizionamenti che un’altra creatura ci impone per vivere. La nostra libertà la complichiamo con misure di limitazione del desiderio per trovarne un altro, un desiderio di relazione profonda.
È piccolo il dono che facciamo alle multinazionali quando accettiamo di farci osservare? È un dato di fatto e non possiamo farci niente? Certo che possiamo. Ma dobbiamo allontanarci dalla sensibilità della nostra generazione, nata e vissuta nella maestà del lavoro operaio e manifatturiero. Del produrre e non del consumare. Consumismo è stato un concetto, e una realtà, non amata, cioè aborrita dalle élite culturali.
Siamo sostituibili? Le informazioni che forniamo possono essere sostituite da altre osservazioni? No. Perché? Dal più semplice limite alla conoscenza scientifica su base oggettiva. Non può osservare ciò che pensiamo e sentiamo come esseri umani. Dobbiamo raccontarlo personalmente. E se non lo facessimo? Se lo facessimo a condizioni di…? In breve, esiste una rottura dell’impianto epistemologico alla scala del corpo umano. Almeno finché rimane tale.
Colloco il mio nuovo approccio al femminismo, molto differente dagli inizi, al 2001, quando vide la luce il sito della Libreria, sulla spinta del desiderio delle due “webmater” Sara G. e Laura C.. Fu un desiderio che mi trasportò come su un tappeto volante nel mondo virtuale. Ho deciso allora di ascoltare e seguire le due giovani donne perché ho sentito in loro forza ed energia. Fui come trascinata da un vento impetuoso. La paura di volare c’era, ma il fatto di avere mantenuto il giovedì come incontro della redazione del sito era per me un legame con la mia pratica storica, un segno-fatto simbolico.
Mi sono affidata, diciamo la verità. La presenza viva era salva, cosa che per me contava e conta parecchio. Mi appassionai alla ricerca linguistica per confezionare il sito e dare un nome alle stanze dove collocare i miei desideri, le mie parole, le mie relazioni e quelle ignote che sarebbero arrivate dalle nuove relazioni-connessioni. Passavo molto tempo a trascrivere gli incontri in Libreria per postarli e farli conoscere. A volte accadevano fatti curiosi. Mi capitava di ricordare ad alcune amiche della Libreria che ogni giovedì alle diciannove c’era il sito e dopo si stava insieme a cenare. Loro o non lo sapevano o lo dimenticavano non essendo interessate. Anni di passione in cui ero nella rete in modo attivo e nei social networks in modo passivo. Amavo e amo tuttora lo scambio via e-mail, cui si sono via via aggiunti whatsapp, instagram e messenger. La mia pagina facebook l’ho usata e la uso tuttora postando articoli di giornale, i miei viaggi o altro materiale informativo; non sapendo come funziona la macchina non posso interagire in modo critico e attivo, ma è stato un modo per mantenere un contatto-scambio, un filo di comunicazione di parole o immagini, teso in equilibrio fino al prossimo incontro o alla prossima riunione, come preludio a… Un’aspettativa che a volte si è realizzata. Con alcune mie ex-alunne ci siamo scambiate foto di viaggi e notizie e anche in qualche occasione non detti sulla nostra relazione. Ho abbandonato da poco questo tipo d’interazione con loro quando ho capito che mi ero illusa, lo scambio si fermava lì, non c’era evoluzione. Quei pochi tentativi che ho fatto per interagire ed esprimere il mio punto di vista commentando notizie o fatti di cronaca sono stati dei veri boomerang che mi hanno convinta a lasciar perdere. Essere nella rete, infatti, non significa essere su facebook come da molte, molti è stato sottolineato.
Ho pensato spesso in questi anni e oggi ancora di più a quanto mi diceva mia zia nel secolo scorso: per le cose importanti non devi né telefonare né scrivere ma andare di persona. E l’esperienza in molti casi me l’ha confermato. Come è capitato di recente con Jasmine, una giovane dottoranda di Oxford. Dal sito alla telefonata e poi l’incontro, in un crescendo dove c’è dentro un desiderio di politica che trascende con una schivata i pericoli cui il mezzo espone con un linguaggio che ha interrogato la mia curiosità e acceso libere associazioni col raffronto fra le parole inglesi e la traduzione italiana. Una parola che lei ha usato durante il nostro incontro a Oxford mi ha fatto pensare a Ildegarda di Bingen, allargando il mio campo di visione in termini genealogici oltre che di immaginazione.
In quel periodo cruciale, il passaggio nel nuovo millennio, mi capitò un fatto di cui solo oggi capisco l’enorme portata simbolica: ricevetti una comunicazione burocratica di fine di un rapporto di lavoro via internet e la cosa mi colpì dolorosamente. Rimasi paralizzata dall’impotenza e incredula. Mi risollevai per fortuna contaminata dal desiderio delle giovani webmater della Libreria e decisi di sostenerle in questa impresa. Prima difficoltà fu abituarmi alla velocità con cui avvenivano gli scambi.
Il tempo fu l’elemento di scarto e ora ne comprendo il senso: i vent’anni che ci separano significano un cambio generazionale. È stato per me un allenamento all’accelerazione che la globalizzazione ha portato nella mia vita e nella vita di tutti. Bisognava attrezzarsi. Due ore passate insieme alla redazione del sito ogni giovedì per intensità equivalevano, equivalgono a un pomeriggio intero o a un salto di paradigma come si dice oggi… Era un assaggio del cambio di civiltà. Donne protagoniste che corrono con i lupi furono il titolo di un libro e di un numero di Via Dogana cartacea. Oggi si parla di leoni da tastiera. Nei social networks spesso si urla, si usa un tono inadeguato, si offende, si è fuori misura; lì si riversano le viscere sofferenti di chi non trova più orecchie disponibili all’ascolto amoroso gratuito. C’è chi gratta le viscere e ne ottiene consenso politico. L’umana richiesta di riconoscimento ha trovato spazio in questi canali. Perché non ci sono più orecchie femminili che un tempo pazientemente stavano in ascolto e facevano questo lavoro? Forse una domanda fuori luogo ma me la sono posta. Le donne sono altrove, non hanno più tempo. La violenza del linguaggio può rappresentare lo specchio deformato di una società in cui le donne non sono più disponibili all’oblatività. Né subalterne, né subordinate. Noi sappiamo come trattare le sofferenze avendo sperimentato la passione della differenza, l’estraneità e dato voce all’inconscio. Il lavoro dell’inconscio è lavoro del pensiero. Io ho deciso di stare sempre offline di notte per tenere sgombre le vie insondabili dell’inconscio e al mattino decifrarne il linguaggio.
La scommessa potrebbe essere oggi di trasformare l’intimità, il fuori misura, la sofferenza, l’informe degli scambi in rete in uno spazio di trasformazione soggettiva, cioè in politica. I luoghi reali che abbiamo costruito negli anni sono, in effetti, questo connubio ibrido di relazioni intime – “relazioni spesse” per citare Pascale Molinier – che agiscono in un luogo pubblico in una cornice che spazia in una visione che tutte le/ i protagoniste/i, a qualunque titolo presenti, contribuiscono a costruire con parole, desideri, gesti, denaro, lavoro, opere d’arte, libri, relazioni, conflitti, condivisione di una prospettiva…
Un lavoro di ascolto e di scrittura che richiede tempo, attenzione e cura per le parole che si usano. Lo stato d’animo di quando scrivo un’e-mail per esempio è lo stesso di una volta quando scrivevo una lettera con francobollo e ne ho scritte tante… Attendo fiduciosa una risposta. Avere autorità nella rete significa avere l’ambizione di fare della rete uno spazio di trasformazione soggettiva come lo sono la Libreria e il Circolo della rosa, luoghi autonomi, dove nell’intreccio di relazioni si mescolano cultura, politica, lavoro, creatività, intimità e presenza nello spazio pubblico, senza più distinzioni fra dentro e fuori. Abbiamo sviscerato con fatica nodi, angosce, frustrazioni, aggressività, polemiche, ansie, difficoltà, preferenze e rifiuti, gioie e dolori, desideri differenti e trovato soluzioni; armate solo della lingua madre abbiamo dato forma alla materia vivente inventando figure simboliche e parole di mediazione che contaminano, come dimostrano i recenti movimenti globali del #MeToo e dei giovani e non, in nome di Greta T.
Come ha fatto Giordana Masotto, anch’io attiro l’attenzione sul tema del soggetto a partire da quello che Laura Colombo fa dire a Luciano Floridi sulla condizione umana che oggi è onlife. Lo farò con una raffica di appunti (che sono un breviario del mio impegno di ricerca nel movimento femminista). “Il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni” dice Laura citando Floridi. Questa posizione, io dico, non ignora ma aggira la svolta politica e filosofica del 1970 che è all’origine del femminismo di oggi.
Chi è questo “soggetto” di cui parla Floridi e che ha perso il primato? È il moderno Soggetto fondato sul pensiero razionale (scienza) e sulla uguaglianza davanti alla legge (stato di diritto). È (o meglio: era) un soggetto universale senza corpo e senza sesso, di fatto maschile e occidentale, di fatto morto ben prima che Luciano Floridi costatasse che aveva perso il primato.
La fine del moderno Soggetto universale senza corpo, di fatto maschile e occidentale, è stata lunga ma non graduale. Ci sono state scosse di terremoto (Marx, Freud, Nietzsche). C’è stata la prima guerra mondiale, che ha messo rovinosamente fine alla modernità compiaciuta di sé. Tutto il secolo XX è stato occupato da tentativi di voltare le spalle al disastro o di riprendere criticamente il corso interrotto. Tre le risposte più notate, il nazifascismo e il comunismo. Tra le meno notate, il femminismo.
Il femminismo era iniziato ai tempi della Rivoluzione francese. Durante il Sessantotto, che voleva essere anche lui una Rivoluzione, il femminismo rispunta in una forma imprevista, che riguarda proprio l’idea del soggetto.
Intorno agli anni Settanta escono due testi che segnano la svolta che dicevo. Uno è Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi: il soggetto non è indipendente dall’essere corpo, che è sessuato, ma la dialettica servo/padrone non si applica al rapporto donna/uomo, la storia umana riprende con le donne come soggetto. L’altro testo è Il maschile come valore dominante del gruppo Demau, che scopre quell’aspetto fondamentale della condizione umana che è il simbolico (siamo animali parlanti), e inaugura così una politica che non mira alla presa del potere ma alla presa di coscienza. I due filoni si combinano e danno luogo a una vasta letteratura che va dalla poesia alla filosofia. Scelgo di citare il racconto della storia della Libreria delle donne, Non credere di avere dei diritti, cui le femministe Usa cambiano il titolo in Sexual Difference.
Il pensiero politico-filosofico di quegli anni ignora questi sviluppi e dice: il Soggetto è morto. Le femministe dicono: è morto il Soggetto neutro-universale senza corpo, insieme al patriarcato che lo teneva in piedi. E scrivono sul loro stendardo “Io sono una donna”. N.B. Le idee che qui riassumo in parole, nella realtà sono modi di vivere e di pensare, sono pratiche politiche.
Il pensiero politico-filosofico tradizionale continua a ignorare quello che capita e deperisce. Il sistema dei partiti nella cornice dello Stato va in crisi, il mondo si unifica all’insegna del mercato finanziario. Le donne entrano nel mercato del lavoro come una risorsa nuova e concorrenziale. La rivoluzione digitale entra in circolo con i cambiamenti e diventa una potenza.
Da internazionale il femminismo diventa globale ed entra nel campo di battaglia del cambio di civiltà in corso. Le donne sono incoraggiate da più parti a seguire lo stendardo dei diritti e della parità. I mass-media insistono a dire che questo è il significato del femminismo. Ma le femministe che non hanno dimenticato le origini non sono d’accordo. Sanno che le donne desiderano altro e di più. Perciò lottano per il senso libero della differenza sessuale nell’orizzonte di un protagonismo femminile a livello globale. Dicono: la posta in gioco è impedire la mercificazione della vita e del desiderio femminile, e si ritrovano così in risonanza profonda con l’ecologia che promuove la difesa dell’ambiente e del pianeta Terra.
Arriva un filosofo, un Cartesio dei nostri tempi, che vede nella rivoluzione tecnologica il punto di partenza per ripensare la condizione umana e dice: il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni. Le femministe dicono: noi lottiamo per il primato del soggetto relazionale dotato di una sua interiorità, per noi il punto di partenza è la relazione materna, tutto il resto va bene ma viene dopo.
Attualmente vivo esattamente a 1.298,9 km dalla Libreria delle donne di Milano, nella città di Oxford. Ciò nonostante, domenica scorsa ho potuto partecipare al mio primo incontro nella Libreria riguardo al tema dei social grazie a ‘Skype,’ un social che permette ad una persona o un gruppo di connettersi per tutto il mondo via audio e video. Grazie a un social, ero con Voi.
Certo, questo ‘ero’ non era assolutamente un essere intero; non ero fisicamente presente, e questo non mi ha permesso di vivere pienamente cosa significa essere lì fra di voi ad ascoltare e dialogare in carne e ossa. Ciò nonostante, Vi ho ascoltate. Vi ho ascoltate con tutta l’attenzione che vi avrei dato in persona. Vi ho ascoltate via Skype perché non avevo la possibilità di lasciare i miei studi e viaggiare per incontrarvi. Vi ho ascoltate via Skype perché il Vostro gruppo, e il tema in particolare di cui avete parlato è di grande interesse per me sia nella mia vita personale che in quella professionale; i miei obiettivi nella dimensione ‘offline’ mi hanno spinta a usare un social, Skype, per avere accesso alla vostra conversazione, anche solo in una maniera “parziale”. E con questa mia prima esperienza con Voi estraggo il primo punto riguardo ai social: I social possono essere utilizzati come strumenti per ottenere obiettivi concreti nella dimensione “offline”.
Spesso quando si parla dei social in Italia, diamo tanta luce al lato negativo, alle persone che hanno abusato dei social per compiere atti riprovevoli o alle vittime di questi atti violenti. Questo lato del digitale è opprimente ma importantissimo e da conoscere bene, e nell’incontro di domenica avete giustamente dedicato molta attenzione al lato più infido del mondo digitale. Ma questo mondo, come il nostro, è caratterizzato anche da persone e gruppi con intenzioni buone e che hanno trovato varie maniere creative per cogliere ‘opportunità’ dai social. Possiamo pensare per esempio all’attivismo sociale. Negli ultimi anni vari studi, specialmente nel campo di informatica e politica, hanno dimostrato che i social possono essere utilizzati come strumento politico e sociale per seguire obiettivi nella dimensione “offline” e che, in questo senso, l’attivismo offline e online si stanno gradualmente intrecciando. Guardiamo, per esempio, il movimento #BlackLivesMatter. Uno studio del 2018 di Marcia Mundt., Karen Ross e Charla Burnett ha dimostrato che questo movimento è stato rafforzato dall’utilizzo dei social, in particolare nella possibilità di costruire connessioni, mobilitare attivisti, e amplificare ‘narrative alternative’. Il beneficio che i social hanno dato al movimento era però, sottolineano nello stesso studio, anche conseguenza dell’educazione che hanno ricevuto gli attivisti riguardo ai rischi nel mondo digitale; le conversazioni “offline” hanno rafforzato l’attivismo online. Questo esempio mi porta a un secondo punto fondamentale riguardo ai social. Per poter utilizzare i social in maniere vantaggiose, è necessario discutere il tema attivamente nella dimensione offline per capire quali sono gli obiettivi dell’utilizzare i social, educarsi sui rischi, ma soprattutto valutare quali strategie si possono sviluppare per affrontare e affrontare questi rischi. Come è stato detto nell’incontro la domenica scorsa riguardo alla presenza della Libreria sui social: “È importante esserci, ma anche saperci stare”.
Saper stare sui social non è facile, e non è possibile risolvere con un solo incontro. Ma la conversazione di questa domenica mi pare essere stato il primo passo importante, e forse il più difficile, per capire come la Libreria possa rimanere sui social in una maniera che sia più sana e bilanciata per tutte. La mia proposta per il secondo passo: identificare quali sono le qualità innovative dei social di cui potrete usufruire, e come questi potranno essere un complemento ai Vostri obiettivi nella dimensione offline.
Uno
Ho accolto con piacere l’invito di Laura Colombo di partecipare a questo incontro sulle trasformazioni digitali e la politica delle donne sollecitata dal tema ma, soprattutto, dal desiderio di tornare in Libreria dopo tanto tempo. Ho pensato che questo dovesse essere il mio punto di partenza: i tempi sono cambiati ma c’è qualcosa che non cambia mai. C’è qualcosa nella presenza che è irriducibile, che non può essere cancellato e che a che fare con l’umano.
Due
La mia compagna lavora in una società che si occupa di tecnologie digitali che offrono servizi per le pubbliche amministrazioni e per il settore privato. I tipi di servizi che vengono offerti riguardano la registrazione e la trascrizione di assemblee, consigli di amministrazione, assemblee comunali, regionali, provinciali fino alla Camera dei deputati.
Fino a qualche anno fa questo tipo di lavoro consisteva in un “servizio in presenza”, era impensabile pensare di erogare il servizio senza avere almeno due persone presso il cliente – spesso contrattualmente si prevedevano clausole di “elezione di domicilio” presso l’ente che dotava di un ufficio fisico presso cui risidere – c’era cioè sempre qualcuno – un tecnico e una stenotipista o una trascrittrice – che svolgeva il lavoro direttamente nella sede del lavoro.
Con lo sviluppo delle tecnologie questo tipo di presenza è diventata sempre meno necessaria, è diventato possibile immaginare un servizio senza la persona, o meglio con una presenza ma a distanza – remota. Questo passaggio non è stato proprio indolore per i clienti che, nessuno escluso, hanno sollevato dubbi e perplessità: i timori riguardavano sì la qualità del servizio, la possibilità tecnica che le cose potessero comunque funzionare bene, ma più di tutto la preoccupazione era quella di non aver più un interlocutore su cui riporre la propria fiducia e a cui fosse possibile rivolgersi nel caso di malfunzionamenti. Il tentativo maldestro di “far passare il servizio” senza la persona spesso non riesce, si è compresa la necessità che, per convincere i clienti al passaggio, non bisognasse puntare sull’efficacia tecnica del serivizio offerto quanto piuttosto sul fatto che dietro l’apparente assenza, dietro alla tecnologia, c’erano comunque delle persone che continuavano a lavorare, una presenza che seppur distante – in remoto – c’era.
Non c’è nessun perfezionamento tecnico che possa eliminare questo bisogno, un rapporto umano che implica fiducia. La presenza fisica delle persone – delle stesse persone – garantisce una fiducia che nessuna tecnologia, neanche la più perfetta, può sostituire.
I tempi sono certamente cambiati ma i bisogni umani profondi, quelli, non cambiano mai.
Tre
Pur non avendo mai riflettutto a fondo sulle implicazioni teoriche e politiche della tecnologia, mi è sempre parso chiaro che la fiducia chiama in causa le persone in carne e ossa – che siano vicine oppure lontane – e che questo elemento sia irriducibile ed è da qui, da questo snodo cruciale, che ho messo in campo, da sempre, la mia pratica politica.
Si può dire che Lìbrati, la libreria delle donne di Padova di cui sono fondatrice insieme a Laura Capuzzo, sia nata da un blog in cui scrivevo con alcune compagne femministe, un luogo virtuale in cui discutevamo di tutto quello che ci passava per la testa, in libertà, e che pensavamo fosse importante discutere assieme e con le donne lontane da noi, fisicamente irraggiungibili. Questa dimensione soltanto digitale ci è stata fin da subito stretta, bella sì, stimolante, ricca di tante potenzialità, ma comunque stretta, volevamo di più.
Abbiamo iniziato a viaggiare, ad andare a trovare le donne con cui avevamo intessuto le prime relazioni soltanto digitali, le abbiamo conosciute, abbiamo frequentato i luoghi delle donne, quelli reali, dove ci potevamo abbracciare, dove potevamo stringere quelle mani che avevano battuto i tasti creando quel primo contatto.
La piattaforma digitale è stata per noi un trampolino per andare, anche e soprattutto, “altrove”. Ed è qui che è nato il desiderio di aprire una libreria – un luogo fisico – perché il virtuale a un certo punto non ci è bastato, i viaggi ci portavano lontano, volevamo di più e, a quel punto, molto di più.
È grazie al prezioso suggerimento delle amiche della Libreria delle donne di Milano che abbiamo avviato una campagna digitale di raccolta fondi che ha avuto un grande successo e che ci ha permesso di aprire le serrande.
Sappiamo bene che quel successo – l’importante contributo economico che ci è stato dato – è dovuto a una fiducia in noi che è stata possibile perché ci siamo viste e conosciute in carne e ossa, nella nostra intera umanità.
Ancora oggi per noi la rete è un mezzo fondamentale di comunicazione, ne conosciamo limiti e pregi e la usiamo come modo per avvicinarci alle donne che potrebbero voler frequentare il nostro luogo e mai come un mezzo per tenerci a distanza. Grazie alla rete percorriamo quei chilometri che non è possibile percorrere sempre, per ragioni diverse – di tempo, di soldi, di possibilità – ma sempre, sempre, dopo una conoscenza virtuale scatta il desiderio di tirare quel filo digitale e raggiungere i corpi.
I tempi sono cambiati e cambieranno ma mai, mai cambiano i sentimenti umani, la gratitudine per la fiducia e la fiducia che nasce dalla relazione.
Quattro
Alla fine della rete, ad ogni capo del filo c’è sempre una persona, con i suoi sentimenti umani. Questa per me è una verità che al di là delle critiche che possono essere mosse alla tecnologia mi parla degli uomini e delle donne e dei loro bisogni e desideri reali e veri.
Uno degli spunti critici più forti contro l’utilizzo della rete, nella sua dimensione sociale, si articola sull’idea che siano uno strumento di alterazione della realtà, che le persone si mostrino diverse da quelle che sono, le foto modificate con photoshop, la narrazione di vite praticamente perfette ma false, che diano cioè una visione distorta di noi e del mondo in cui viviamo. Io li uso i social e sì, cerco con esiti più o meno felici di mostrarmi migliore di quella che sono, d’altra parte questo corrisponde interamente al modo che ho – e penso che abbiamo tutte – di muovermi nel mondo fuori: mostrarmi migliore agli occhi degli altri per poter meritare il loro amore. Il desiderio di essere amati, il bisogno di attenzione che abbiamo per sentirci parte del mondo, riconosciute nella nostra unicità, dietro il successo della rete io vedo questo, con tutto ciò che questa potenza comporta, con i suoi esiti buoni e anche nelle sue storture. Vedo svelato il grande potere politico dei sentimenti, fin dove possiamo arrivare a trasformare il mondo con la sola forza di quello che ci muove dentro.
Per quanto la rete possa trasformare le nostre vite da fuori – in termini di tempo e spazio – possa cambiarci, non altera la nostra essenza, ciò che in noi c’è di irriducibilmente umano, non replicabile, non cancellabile.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019
Pensiamo al luogo in cui siamo ora, la Libreria delle donne di Milano. È uno spazio pubblico, quattro muri e una porta che segnano il confine rispetto al fuori della città. In questa stanza ci sono tuttavia degli apparati che mettono in connessione tra loro una serie di computer e permettono di avere una rete senza fili: le stanze della Libreria sono attraversate dal wifi. Molto probabilmente anche nelle nostre case c’è il wifi. Questo significa che gli spazi pubblici o privati, che fino a pochi anni fa erano ben definiti e inaccessibili, erano aperti su invito o secondo regole stabilite e condivise, oggi sono modificati dalla rete e resi aperti e pubblici, anche se non si vede.
Ogni apparato connesso a una rete ha la possibilità di essere contattato e raggiunto da altri apparati in rete. Ogni oggetto che si affaccia sulla rete ha un nome e un cognome (si chiama indirizzo IP) e può essere conosciuto da tutti gli altri, ci sono dispositivi predisposti per far conoscere i nomi e i cognomi di computer grandi e piccoli, smartphone, tablet. Cosa diventa quindi questo spazio? Non è più solo fisico ma è anche digitale, spazio informativo. L’organizzazione di questo spazio non dipende più solo dal movimento fisico, ora anche le informazioni lo attraversano e lo modificano. In questo momento, Google sa esattamente dove sono e così tutto il mondo potrebbe sapere le coordinate GPS (il punto esatto) della Libreria. Nelle nostre case entrano sempre più oggetti intelligenti: lampadine che si accendono prima che entriamo, frigoriferi che ci mandano la lista della spesa sullo smartphone, assistenti vocali che rispondono alle nostre domande (di solito hanno nomi e voci femminili: Alexa, Siri…).
In questo momento, quasi tutte noi abbiamo un telefono intelligente, uno smartphone: del telefono ha il nome e la funzione, residuale rispetto a tutto il resto. In realtà è un computer grande un palmo costantemente connesso a Internet, impensabile fino a una decina di anni fa e indispensabile una volta che inizi a usarlo. Nelle nostre case abbiamo un computer che, a differenza di qualche anno fa, basta accendere per andare in Internet: niente più modem da avviare, niente più accesso da fare, operazioni vintage che i ragazzini di oggi non sanno immaginarsi. Usciamo a camminare o a correre con orologi che raccolgono i dati delle pulsazioni, della velocità, il numero dei passi, che possiamo consultare con una app o col computer, costruendoci un obiettivo di allenamento o di salute.
Oggi abitiamo un mondo fatto di informazioni, condividiamo un ambiente globale con altri esseri umani ma anche con artefatti ingegneristici che interagiscono con noi (si pensi al braccialetto che misura le pulsazioni e trasmette i dati nel cloud). In altri termini, non è più così netta la distinzione tra la nostra vita on-line e quella off-line, siamo sempre in un presente connesso e addirittura capita che siamo in un luogo fisico e contemporaneamente altrove, proprio attraverso la connessione. È il presente altrove di chi, in metropolitana, sta lì fisicamente mentre guarda Instagram. Internet quindi non è un semplice strumento, ma il nuovo spazio in cui un numero crescente di persone passa sempre più tempo. Un filosofo che si occupa di questi temi, Luciano Floridi, ha inventato il temine onlife che esprime quanto detto finora, ovvero che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, nell’acronimo inglese) influenzano radicalmente la condizione umana, modificando la relazione di sé con sé, di sé con gli altri e con il mondo che ci circonda: la crescente pervasività delle ICT sfuma i confini tra reale e virtuale. Floridi ha coordinato un gruppo di ricerca su come le ICT abbiano cambiato persone e società nell’epoca dell’iperconnessione ed è stato pubblicato l’Onlife Manifesto. I punti salienti, anticipati nella prefazione, sono questi: la frontiera netta tra reale e virtuale è sfumata; i confini tra uomo, macchina e Natura sono stati erosi; la quantità di informazioni disponibili è aumentata a dismisura; il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni.
Credo sia importante conoscere questo testo (scaricabile liberamente sotto licenza Creative Commons), organizzato in sezioni e punti come un manifesto deve essere, perché non abbiamo strumenti concettuali per comprendere le questioni relative alle ICT, che tuttavia sono la nostra realtà. Non avere strumenti per comprendere la realtà porta a paura e senso di inadeguatezza, se non al rifiuto per mancanza di conoscenza e mancanza di senso. È importante anche per un altro motivo: il pensiero delle donne ha già riflettuto su molti dei punti che la realtà iperconnessa pone (fine della modernità, fine del primato del soggetto, organizzazioni gerarchiche e di potere versus relazioni reticolari basate sulla fiducia, controllo/sorveglianza/sicurezza, confine tra pubblico e privato, responsabilità individuale e collettiva, libertà). Ancora, in questa realtà, dove non mancano insidie, ci sono molte possibilità per le donne.
Come abbiamo visto, la rete non è uno strumento, come una bicicletta che uso e ripongo. È la realtà e offre una possibilità di ampliare la relazione. In rete “esserci” significa “essere-con” e la presenza richiede la partecipazione e la condivisione: da un evento ludico, come un concerto o una manifestazione sportiva, a un evento politico come una manifestazione di protesta, persino nei momenti collettivi religiosi, la scena è illuminata da schermi di smartphone e tablet, che servono certamente per documentare “io c’ero” ma anche per condividere con altri, cui offriamo quel presente altrove di cui parlavo poco fa. Questa forma “aumentata” di presenza è vissuta in modo molto efficace dalle donne. In vista di questo incontro, parlavo con Sara Filippelli della Collettiva Femminista Sassari, che nell’ultimo anno ha seguito una influencer in ambito food. Ha verificato che la presenza in rete di questa donna prende il suo senso dalla relazione, poiché mette sé stessa e il racconto dei pezzi della sua vita nei social, avendo in mente una interlocutrice, come se stesse parlando a ciascuna delle sue follower. La relazione che si stabilisce è di fiducia, chi segue una o un influencer riconosce autorità. Naturalmente la consapevolezza che esserci oggi significa condividere, diventa uno slogan facilone se tagliamo via la dimensione mediatica e quella economico-commerciale. Pensiamo al fenomeno Chiara Ferragni, milioni di followers sparsi sui vari social network. Con un ottimo lavoro di squadra e una profonda conoscenza dei social, ha creato un impero e un giro di soldi notevole. La verità che esserci significa condividere diventa uno slogan superficiale se non riflettiamo anche sulla parte in ombra: da dove viene e dove porta l’esibizione di sé? Cosa succede se la condivisione diventa un bisogno ossessivo? Cosa diventa la presenza aumentata, di cui parlavo poco fa, se sono sempre in un presente-altrove? Lo dico a partire da me e dalla mia esperienza con Instagram: ora, ogni foto che faccio col telefonino, ha dietro l’idea che potrei postarla, che potrei mostrare quella parte a chi mi segue, creando un mio personaggio, offrendo a chi mi segue una narrazione particolare di me. Ho in mente anche donne che diventano totalmente altro sui social, che sono sul limite della mistificazione presentandosi come madri perfette, dentro una famiglia perfetta, con un lavoro importante e perfetto (anche gli scacchi nella relazione con figlie, mariti e colleghe diventano un tassello di questa perfezione). Mi chiedo che ne è di quella che Carla Lonzi definiva autenticità, che cosa diventa la propria verità soggettiva.
Ho in mente anche le recenti vicende del gruppo Facebook della Libreria, nato proprio sulla scorta di questo concetto di condivisione: offrire uno spazio di presenza politica e discussione sensata per donne e uomini che fisicamente sono lontani da Milano, o chi è vicino ma trova congeniale lo spazio dei social. Non frequento Facebook, che comunque è parte della realtà, come dicevo, quindi tocca anche me, un po’ come il fatto di non guidare non mi pone fuori da un mondo in cui le auto ci sono e hanno impatti su tutti. Cosa succede se lo spazio di condivisione diventa terreno di conflitti? Come si trasformano i conflitti agiti senza la mediazione dei corpi? Quanto e come gioca l’autorità nell’amministrazione di un gruppo, che ha in mano il potere di ammettere o respingere, bannare partecipanti, dare una direzione alla discussione, seguendo o meno una proposta?
Sono domande che ci portano dritte alla politica delle donne in rete, che è anche la scommessa pionieristica che ha fatto nascere il sito della Libreria delle donne di Milano, diventato maggiorenne quest’anno (ed è diventata una ragazza stupenda, profonda, matura e interessante, si regge sulle sue gambe, senza bisogno delle sue madri, come ogni creatura dovrebbe fare). Il sito si è affacciato per la prima volta in rete il 6 febbraio del 2001, in una notte di passione politica tra due donne, eravamo io e Sara Gandini, chine davanti a un computer, immerse nel codice html (era il web 1.0!). Pionieristico per la sperimentazione del linguaggio, il gioco e l’invenzione: per esempio site amiche e mappamonda sono termini che oggi fanno parte di noi, suonano familiari, sono usati anche da altri. Allora ha voluto dire trovarsi, pensare, progettare, inventare insieme, cercare le mosse politiche giuste per dare alla rete una misura che fosse nostra. Questa è la politica delle donne, trovare il modo per stare con agio lì dove si è, portare lì dove si è la dirompenza di un pensiero e una pratica.
Altre realtà sono state pionieristiche e importanti per il femminismo in rete, per esempio a Bologna il Server Donne e la rete Lilith, con una ricerca importantissima e condivisa anche a livello internazionale che ha portato alla creazione di basi-dati bibliografiche e archivistiche dei documenti delle donne. Sì, perché classificare in internet documenti e dati secondo categorie pensate dalle donne per donne e uomini non è banale né scontato, e soprattutto ce n’è ancora un gran bisogno. Le bolognesi sono state davvero delle pioniere, sono partite all’inizio degli anni ’90 a riflettere su questi temi e mettere in campo alternative. Sto pensando al loro lavoro rispetto ai risultati delle ricerche del motore Google, che allora più di ora nascondeva le donne, letteralmente, non uscivano risultati con le parole declinate al femminile. Hanno quindi messo in linea la macchina femminista “Cercatrici di rete”, un motore di ricerca che aveva l’ambizione di “sputare su Google” come pratica tecno-femminista (è stata Marzia Vaccari a parlarne in questi termini).
Abbiamo appena pubblicato nel sito della Libreria delle donne di Milano un articolo tratto dal Sole 24 ore Dove sono le donne su Wikipedia? Il gender gap della più grande enciclopedia virtuale: sono passati vent’anni e il lavoro da fare è ancora tanto. La voce della rete Lilith è finalmente in wikipedia, quella della Libreria delle donne è incompleta e ogni volta che sottomettiamo revisioni le respingono.
Oggi la tecnologia è andata avanti e il tema grosso non è più quello dei motori di ricerca ma dell’intelligenza artificiale e dei dati. Sto leggendo un libro molto bello, Armi di distruzione matematica di Cathy O’Neil (Giunti, 2017), matematica ed esperta finanziaria. Gli algoritmi sono «armi pericolose, giudicano insegnanti e studenti, vagliano curricula, stabiliscono se concedere o negare prestiti, valutano l’operato dei lavoratori, influenzano gli elettori, monitorano la nostra salute». Sono temi complessi, con implicazioni economiche e di potere.
Il punto è che le ICT sono pervasive e hanno un potenziale enorme. Le imprese e la politica ne vedono le opportunità, anche quelle economiche, tanto che l’Unione Europea ha predisposto qualche anno fa un piano per la crescita con obiettivi da raggiungere entro il 2020. Uno dei punti è l’Agenda Digitale che vuole sfruttare il potenziale delle ICT per la crescita dei paesi membri. Concretamente significa investimenti per le infrastrutture di rete, sviluppo di piattaforme per la fatturazione e il pagamento elettronico, possibilità che dati e programmi della Pubblica Amministrazione si possano parlare (pensiamo al fascicolo sanitario, che raccoglie gli esami, le visite, le prenotazioni, tutte informazioni consultabili anche dal medico di base, accessibili ovunque perché in formato elettronico). C’è anche un tema culturale, di aumento dell’alfabetizzazione, delle competenze e dell’inclusione nel mondo digitale per arrivare a un aumento dell’impegno pubblico dei cittadini, proprio attraverso le piattaforme e i programmi digitali.
Tutto ciò fa capire che quando si parla di ICT si muovono enormi investimenti, di soldi e non solo, e succede su sfera globale: l’Agenda Digitale è stata concepita dopo la grande crisi economica del 2008, come una leva per risollevare l’economia e come possibilità di competere con le grandi potenze occidentali, USA e Giappone, nel digitale.
Se penso a quando ho iniziato io a lavorare nell’informatica, le cose sono cambiate radicalmente. L’ambito di cui mi occupo è ancora molto segnato dalla presenza maschile, ma in generale la situazione è decisamente favorevole per le donne. Non si tratta solo di numeri, di presenza. Si lega tutto alla trasformazione radicale della realtà fatta dal digitale. Se pensiamo al lavoro, il tema delle competenze assume un ruolo centrale: alcuni studi (sempre commissionati dall’Europa) stimano che nei prossimi anni le competenze digitali saranno prerequisito di accesso per l’85/90% delle professioni. Le ragazze studiano di più e meglio e risultano quindi avvantaggiate. Il nuovo spazio pubblico creato dalla rete, di dibattito, di aggregazione, di opinione, è anche spazio economico, che abbatte molte barriere all’imprenditoria e al commercio, anche nei paesi non occidentali. Sono meccanismi del mondo digitale che agiscono sulle donne in modo diverso rispetto agli uomini, come rileva brand eins, una rivista tedesca di business innovativo, ripresa da Internazionale (12/4/2019), diventano nuove opportunità imprenditoriali perché abbassano le barriere di accesso a molti business, che di solito penalizzano le donne. Come sappiamo bene dalla ricerca del Gruppo lavoro della Libreria, cambiare le cose nel “vecchio” mercato del lavoro è complesso e richiede molto tempo, perché si devono scardinare meccanismi antichi. Adesso si è aperto un nuovo mondo, costituito dall’economia digitale, e le donne ne possono essere protagoniste. Nel 2017 l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) ha svolto un’analisi per capire se la trasformazione digitale rafforzerà o indebolirà la posizione delle donne nel mercato del lavoro (Going digital: the future of work for women) prendendo in considerazione principalmente due variabili proprie della digitalizzazione: l’automazione e la maggiore flessibilità nelle modalità e negli orari di lavoro. Come sappiamo, la flessibilità è amica delle donne, innanzi tutto per quello che il gruppo lavoro ha chiamato il doppio sì, la possibilità di tenere insieme lavoro produttivo e maternità, cura affetti. La ricerca ha anche rilevato che dove c’è più flessibilità, diminuisce il divario retributivo tra donne e uomini.
Quali risposte politiche e culturali, è una delle domande su cui la redazione di Via Dogana 3 ci chiede di riflettere oggi. Vedo una possibile risposta nello sviluppo delle competenze nell’ambito ICT, accompagnato da un pensiero sessuato. Cultura umanistica messa al lavoro con la cultura scientifica e pensiero che tiene in conto la differenza sessuale, vedo qui una chiave politica. Per le bambine e le ragazze è importante non solo fruire la tecnologia ma mettersi in un atteggiamento attivo. Per esempio, mia figlia da qualche anno sperimenta il “coding”, ovvero le basi della programmazione informatica, che insegna a “dialogare” con il computer, a dare alla macchina comandi in modo semplice e intuitivo. È un linguaggio, da imparare al pari di altri, perché è la conoscenza e la multidisciplinarietà che possono darci una strada. Ho in mente Eleonora Gargiulo, giovane fondatrice di Wher, l’app che permette alle donne di muoversi in città in maniera più consapevole, premiata alla recente Digital Week milanese. Alla domanda cos’è per te una città a misura di donna, la sua risposta è politica nel senso femminista del termine, consapevole e attivo, non vittimistico, visionario senza essere lontano dalla realtà: «È un sogno, è la visione di Wher, ciò verso cui tendiamo ogni giorno. Una città a misura di donna è una città che tiene in considerazione i modi e i tempi in cui le donne usufruiscono della città, è una città in cui il benessere percepito e la gentilezza – intesa come bellezza dei rapporti umani – vengono valorizzati e realizzati concretamente. Diciamo sempre che se una città è a misura di donna, è a misura di tutti.»
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019
Nella nostra epoca di trasformazione digitale, sperimentiamo di persona come siano venute meno le classiche mediazioni (spazio, tempo, presenza) che ci davano il senso della realtà. Non per questo lo stiamo perdendo, ma siamo in difficoltà: tutti, tutte ne risentono in qualche modo.
In questi giorni infatti, ne ha risentito in modo pesante la leader dei democristiani tedeschi Annegret Kramp-Karrenbauer. Nelle elezioni europee si è giocata la fiducia di molti giovani elettori/elettrici perché non ha saputo reagire adeguatamente a un video su you tube di un famoso influencer che aveva invitato a non votare la CDU: La presidente del partito ha chiesto che le regole sulle campagne elettorali che valgono per la stampa e la Tv dovrebbero valere anche nel mondo digitale, e le venne subito rimproverato di essere una politica incapace, di avere una visione obsoleta del mondo, di ignorare che la rete è nella realtà e ha cambiato profondamente la comunicazione.
Questo esempio fa vedere che oggi c’è una difficoltà a muoversi in una situazione storicamente nuova che ha fatto saltare molte certezze.
“La rete è nella nostra realtà. Come starci?” così avevamo intitolato un incontro della redazione di VD3 nel mese di novembre 2017 (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-rete-e-nella-nostra-realta-come-starci-introduzione/). Oggi riprendiamo questa riflessione perché sentiamo il bisogno di tenere viva l’attenzione e di osservare cosa succede a noi: la rete stessa si trova in continua trasformazione e questo si ripercuote sulla nostra percezione della realtà, le nostre relazioni, i nostri comportamenti e il nostro pensiero, per giunta sul nostro cervello, spesso in modo impercettibile. Molte delle questioni che sono state poste un anno e mezzo fa nei contributi introduttivi ci occupano ancora:
Vorrei richiamare solo alcuni aspetti. Nel primo intervento Tahereh Toluian ci parlava del suo coinvolgimento nei social che sono diventati per lei un vero e proprio luogo di incontro, dove possono accadere eventi imprevisti che aprono a nuove possibilità. Raccontava anche di esperienze di frustrazione e di estraneità davanti alla logica della contrapposizione e del narcisismo che domina la discussione nei social, del rischio di creare delle bolle, dei micromondi, della “logica algoritmica che cancella i desideri e le ambizioni”. Uno spostamento per lei era avvenuto quando Sara Gandini era intervenuta in un dibattito Facebook e ha portato un pensiero per lei nuovo che dopo l’ha anche convogliata in Libreria (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/26570-2/).
Loretta Borrelli invece parlava dal punto di vista di una programmatrice, di una che possiede una competenza tecnica e professionale. La sua prima esperienza di donna che lavora nell’informatica è stato il disagio, il non sapere come starci, in quel pensiero che escludeva qualsiasi differenza. Leggendo il libro L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro ha ritrovato quella sensazione di non trovarsi da nessuna parte, e più avanti ha capito “che aveva un’autorità anche di accettare la necessità dei fatti” (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-rete-e-nella-nostra-realta-come-starci-loretta-borrelli/).
Ho richiamato solo qualche frammento dei due interventi, che consiglio di rileggere sul nostro sito per la precisione e la radicalità con la quale affrontano la questione. Uno degli aspetti che mi hanno colpito era che la prima esordisce dicendo di non avere competenze informatiche, la seconda sicuramente è una “competente”: tutte e due dichiarano la propria estraneità e il disagio nel mondo del web/dell’informatica e come hanno trovato un modo per affermare la propria soggettività nelle parole e nelle relazioni con altre.
Questo mi ha convinta che non devo lasciare spazio alla sensazione di incompetenza che spesso mi prende nei confronti della rete: ho capito che non si tratta di questo. Per molto tempo mi ero anche illusa di potermi tener fuori dalla logica della rete, semplicemente non frequentando i social, che peraltro non mi attiravano neanche, o di poterla usare come strumento: ormai sono convinta che anch’io sono dentro fino al collo. Non si tratta più della questione di frequentarla con maggiore o minore intensità, di vederla come uno dei tanti canali di comunicazione, come se io fossi qui e la rete di là. Non posso dire semplicemente sì o no alla rete, perché la rete c’è, e in questa necessità dei fatti vogliamo, anzi, dobbiamo giocarci.
Una che secondo me si gioca bene è la giornalista e blogger tedesca Antje Schrupp, che da tanti anni è attiva in rete e che riflette anche il suo agire: postare brevi commenti sulle cose, anche piccole, non spettacolari, per lei è diventato un “pensare in pubblico”, perché “pensare non funziona nel cervello isolato di una singola persona, ma nello scambio permanente con il mondo e con altre persone”.
E non lo fa per avere il numero massimo di Like, invece guarda bene da chi vengono questi pollici in su o chi riprende il suo pensiero; se sono persone alle quali lei attribuisce autorità, le prende in considerazione. Quindi sta dentro alla macchina facendo delle cose non previste dalla macchina. Un’indicazione come fare della necessità un’occasione per quello che le interessa.
Pensiamo ora come fare della necessità un’occasione per quello che interessa a me, a te, a te a te, a te, a te….
Per continuare il dibattito in presenza abbiamo invitato:
Ilaria Durigon, che insieme con Laura Capuzzo ha dato vita nel 2004 a una libreria delle donne che da allora è attivissima, Lìbrati, a Padova. Ilaria ci racconterà in che modo la rete fa parte del loro progetto.
Laura Colombo, che insieme a Sara Gandini ha dato vita al nostro sito web www.libreriadelledonne.it, oggi parte integrante dell’attività della Libreria. Laura è anche nella sua vita professionale coinvolta nell’informatica come responsabile del settore sistemi e infrastrutture, direzione IT all’università degli studi di Milano.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019
Domenica 2 giugno 2019 ore 10.00-13.30
La trasformazione digitale sta radicalmente cambiando il mondo del lavoro, l’economia, la politica, il rapporto con noi stesse e con le altre e gli altri.
Che ci siano dei rischi e delle insidie è sotto gli occhi di tutti e sperimentiamo di persona come siano venute meno le classiche mediazioni (spazio, tempo, presenza) che ci davano il senso della realtà. Non per questo lo stiamo perdendo, ma siamo in difficoltà: tutti, tutte ne risentono in qualche modo.
Con questa consapevolezza vogliamo andare oltre le discussioni pro o contro il digitale e porci nuove domande:
– come fare di questa necessità un’occasione per quello che ci interessa?
– come trovare buone risposte politiche e culturali?
Avvieranno la discussione Laura Colombo e Ilaria Durigon.
Facciamo parte dell’Associazione Parco Piazza d’Armi Le Giardiniere. Una scommessa, la nostra, azzardata fin dall’inizio: togliere alla speculazione e al cemento la più grande area verde oggi esistente a Milano, una ex area militare di 43 ettari (la Piazza d’Armi di Baggio), oggi vera oasi naturalistica, su cui tuttora insiste un progetto di edificazione di ca. 4.000 appartamenti.
Una cosa abbiamo capito in questi otto anni di esperienza politica: che non saremmo in grado di fare una pratica diversa da quella che, nel corso del tempo, si è venuta via via costruendo, un po’ diretta da noi, un po’ di conseguenza, come quando si fa un passo dopo l’altro e la strada si fa facendola.
Per questa pratica sono stati necessari: un riferimento genealogico e un nome (le Giardiniere, gruppi di donne carbonare attive a Milano e a Napoli nei moti risorgimentali del 1821); l’uscita dal recinto delle Pari Opportunità (siamo nate come uno dei Tavoli fortemente voluti da Anita Sonego, già coordinatrice della Commissione P.O. del Comune di Milano e nostra appassionata madrina e sostenitrice) dal cui orizzonte – Consultori, Spazi di donne, Lavoro femminile, Violenza – ci siamo smarcate preferendovi quello universale/individuale della salute e quello del “primum vivere”, per noi e per la città; il rapporto con altre donne da noi ritenute più avanti (amministratrici, esperte di settore, militanti dell’ambientalismo); la partecipazione puntuale a tutte le occasioni pubbliche dove possiamo imparare nonché comunicare la nostra esperienza; la scelta di lavorare, già da ora, con realtà associative e individuali alla costruzione di un progetto di riuso sostenibile (RIMANI, Rigenerazione Manutenzione Innovazione), pur senza alcuna garanzia futura; l’interlocuzione con l’Amministrazione pubblica nazionale, locale e di zona; il collegamento con le realtà del territorio e le formazioni politiche; l’attenzione alle relazioni (fuori e dentro il nostro gruppo).
Si va avanti, un po’ con soddisfazione, altre volte con frustrazione. Come quando ci sembra che non ci sia più strada, ma solo un muro davanti, e allora si cercano spiragli, fessure dove introdursi per riaprire brecce e speranze. Siamo in dieci, più o meno come quando siamo partite, ma ci sono stati conflitti, uscite ed entrate. Il conflitto fa paura… infatti lo temiamo, anche se abbiamo capito che è inevitabile: dentro noi stesse (intra), nel gruppo (inter), tra il gruppo e gli altri (versus). Naturalmente c’è acceso confronto anche sul grado di elasticità della corda: c’è chi la vorrebbe spezzare prima, chi dopo, chi mai. Ad esempio: le uscite dal gruppo non sono state tutte volontarie. Alcune si chiedono, ancor oggi, se sarebbero state possibili mediazioni più accurate rispetto alla normale dialettica IO-TU-NOI, quali pause di riflessione, sospensioni temporanee concordate, diverse modalità di collaborazione al posto della totale interruzione dei rapporti.
Altro esempio, su cui è tuttora in corso un vivace confronto tra di noi (una socia è uscita per divergenza su questo punto, altre non partecipano più alle riunioni in zona), è quello del rapporto con i gruppi politici del territorio che hanno preso a cuore, come noi ma parecchi anni dopo di noi, l’area della Piazza d’Armi. Sono realtà contrassegnate da una pratica politica di pressione/contrapposizione, che si esprime con linguaggio belligerante e sfidante, anche se – lo riconosciamo – più mitigato e ironico rispetto a quello degli anni ’70. Ma il più delle volte incompatibile, non con gli obiettivi, ma con il nostro sentire e le nostre parole. Un sentire e un linguaggio, ilnostro, che dai gruppi politici viene vissuto come inopportuno,quando non ingenuo o – peggio – “oggettivamente”collaborazionista.
Ma non sapremmo fare altrimenti. Là dove si ergono fronti e steccati, noi apriamo e dialoghiamo con tutti, dovunque e comunque; là dove si scommette su complotti e doppi giochi, noi stiamo alle parole spese e allo stato reale delle relazioni che abbiamo intrecciato. Ma vigilando… Anche con l’Amministrazione infatti siamo sempre in campana: ora stiamo collaborando, insieme alle maggiori associazioni ambientaliste, a un Tavolo istituzionale di progettazione della parte verde della Piazza d’Armi, ma… che controllo abbiamo sulla superficie già destinata all’edificazione dal vecchio come dal nuovo PGT?
È ovvio che la sproporzione tra noi e la controparte è fortissima: c’è in gioco un grande business, dell’ordine di un miliardo di euro. Le ragioni della forza sono le solite: il debito pubblico da risanare (il terreno, ora smilitarizzato, appartiene al Demanio Civile che deve fare cassa con le privatizzazioni), il bisogno di appartamenti in una città con un trend abitativo in crescita (?), mentre la forza della ragione ha avuto un sussulto grazie a Greta e al movimento mondiale contro i cambiamenti climatici. Che però non investe ancora appieno la coscienza di chi ci governa, ostaggio della ben nota schizofrenia per cui alle parole seguono fatti che le contraddicono.
A tutt’oggi non sappiamo se la nostra pratica di relazioni sempre e comunque, ostinata e realistica, dialogante e radicale, riuscirà a portare a casa qualcosa per noi, per le future generazioni, per Milano.
Sappiamo che non potremmo farne un’altra: non solo perché abbiamo quasi l’età degli ulivi del Salento, ma perché è quella che più ci piace, ci soddisfa, ci ha aperto tante porte e finestre sul mondo, ci ha fatto crescere senza venire meno al nostro sentire e alle nostre parole di donne.
Per noi la Piazza d’Armi non è solo un luogo da difendere e tutelare o, peggio, un “vuoto urbano”, noi la Piazza d’Armi, coi suoi vecchi magazzini militari anni ’30, il suo bosco, le radure, la zona umida, i leprotti, i fagiani e gli uccelli, anfibi e rettili compresi, la amiamo.
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Ogni abitante della Terra occupa il tempo della sua giornata a svolgere un’agenda d’impegni quotidiani. L’agenda di una donna ha un carattere tutto particolare. Lei porta la sapienza dellamisura nell’insieme di cose da fare; si ferma, pensa un attimo “…ok, uscendo posso anche fare un salto in farmacia per il nonno, sì,cambio strada, vado io…”. E così fa.
Lia Cigarini e il Gruppo lavoro della Libreria chiamano questo arabesco tutto il lavoro necessario per vivere. LabMi per la città del primum vivere ha gettato questo concetto nelle pratiche del vivere quotidiano di donne abitanti a Milano. In LabMi abbiamo ascoltato il racconto del loro modo di abitare nei luoghi, sentito cose del tutto inattese, iniziato a capire cosa c’entra Milano, sostituendo definitivamente stili di vita con il concetto più utile modi di abitare nei luoghi. Questa sostituzione è una torsione operata dal Gruppo Vanda, la comunità accademica femminile nata presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, di cui Gisella Bassanini oggi è l’erede. Ciò comporta dare corpo,materialità e ambiente fisico al soggetto del vivere. E qual è il soggetto di ogni frase che usa vita, vivere e tanto più abitare? La risposta la conosciamo: è il corpo umano. È una donna qualsivoglia, un uomo qualsivoglia incarnato, sessuato, vivo e pertanto attivo nella continuità del tempo donato da Dio o dalla natura o da entrambi. Semplicemente è il corpo di una persona abitante in qualche luogo del vasto mondo. È la condizione antropologica più evidente e più negletta dal pensiero comune e anche dalle scienze. A noi di LabMi interessa quello di donna, vivente e attivo. Ed ecco, l’idea grande del Gruppo lavoro: aggregare tutte le attività dentro la categoria del lavoro. Cosìfinalmente si ricompone la frattura paradossale fra attività del vivere e lavoro del lavorare. È il pensiero moderno ad aver separato, spezzato tutto ciò che sta assieme in natura: qui sta la sua debolezza.
Non sembra, ma arriviamo velocemente al clima. Le Lei, donne che sono state ascoltate durante gli incontri di LabMI per la città del primum vivere, hanno ridisegnato il mix di lavori in ragione di una personale idea di libertà. Il lavoro remunerato è stato in molti casi diminuito, accettando di impoverirsi per impiegare il tempo liberato in attività volontarie da tempo desiderate. Il lavoro di cura è stato alleggerito con invenzioni che hanno ampliato le relazioni con altre/i e aumentato l’autonomia di tutti i partner di famiglia,accrescendo l’efficienza della cura stessa. Il lavoro volontario, scelto con criteri di qualità in ambito politico o sociale o culturale spesso tutti mescolati (insomma non si tratta di fare un maglione a crochet), è sempre un serio impegno condotto in modo professionale, e la sapienza impiegata è volta a mantenere un alto coefficiente di cooperazione tra una pluralità di partner in relazione. Infine il lavoro per sé ha trovato spazio, per approfondire la propria educazione, la cultura, per mantenere la forma fisica e dilatare l’amore per il mondo, e poter finalmente anche fare il maglione a crochet.
Durante la redazione allargata di VD3 sul clima (perché non abbiamo detto cambiamento climatico?) Vita Cosentino ha detto: dobbiamo ritrovare il sapere della vita quotidiana. Luisa Muraro ha detto: forse l’umanità ha voglia di suicidarsi? I dati scientifici affermano che più della metà dell’inquinamento deriva da due fattori: il riscaldamento domestico e l’aumento smisurato della mobilità e pertanto sia dei mezzi di trasporto e sia dell’uso di energia. Ci sono molti altri fattori nella catastrofe ecologica, e non solo climatica, che non dipendono oggi dai nostri comportamenti personali, ma da un nuovo patto sociale. La domanda ripetuta in VD3 è stata: siamo disponibili a modificare profondamente i nostri stili di vita, cioè i nostri modi di abitare nei luoghi della Terra? Sì, se possiamo trasformare qualcosa di noi, qualcosa del mondo, qualcosa del vivere assieme, qualcosa delle città. Lei, ascoltata in LabMI per la città del primum vivere, ha ridisegnato la sua vita. C’è misura anche nell’uso dell’energia utilizzata. Dov’è la chiave di volta di questa nuova architettura del vivere? Riconoscere che l’agenda delle pratiche quotidiane della mia vita sono solo parole. Quando io la metto in atto diventano gesti del mio corpo guidati dalla mia mente che riconosce una civiltà. Tutto qua.
Come possiamo sperare di abitare ecologicamente il mondo se non prevalgono altri modi di considerare il nostro esserci di umani sulla Terra? Altri – intendo – rispetto a una concezione del mondo in cui l’uomo si è autoproclamato il centro e la natura è stata vista come materia da dominare e da sfruttare fin nelle sue viscere. Per di più, in concomitanza, nella cultura moderna, si è affermata la teoria dell’homo œconomicus, che si è pensato autosufficiente e libero di perseguire esclusivamente il suo interesse. E sappiamo bene quanti danni sta facendo uno sviluppo fine a se stesso, che risponde solo alle leggi del mercato.
Come ci ricorda Greta Thunberg, siamo sull’orlo di un precipizio e questa situazione chiede che si affermi un cambiamento che arrivi fin nell’interiorità di ogni essere umano.
Quella posizione arrogante e dominatrice è stata criticata da tempo nella ricerca femminista. Ma non c’è stata solo la critica. E qui riprendo una questione già introdotta da Valeria Spirolazzi: altri modi di intendere l’essere umano sono già venuti al mondo con le pensatrici della differenza. Luisa Muraro, nei lontani anni ’90 del secolo scorso, con l’ordine simbolico della madre, ha mostrato che all’origine non c’è un identico a sé, bensì una relazione. Siamo al mondo perché qualcuna ci ha messo al mondo. Non siamo autosufficienti ma presi fin dall’inizio in una trama di relazioni e bisognosi di aria per respirare. Siamo parte della natura e non un soggetto esterno ad essa, come ha preteso di essere il soggetto universale maschile. Io ricordo bene quanto è stato fondamentale per me leggere quel libro di Luisa Muraro e prendere coscienza di questa verità sempre occultata. Sono cambiata interiormente, e di conseguenza è cambiato il mio modo di pensare e di agire. È una presa di coscienza che orienta tutto il resto.
Proprio a partire da quest’altra idea dello stare al mondo, Ina Praetorius ha sviluppato un pensiero originale, che oggi è tutto da riprendere e da rilanciare per la sua grande attualità. Voglio citare per intero il passo che ci ha ispirate per l’invito a questo incontro: «In effetti sviluppi come il cambiamento globale del clima dimostrano una cosa: tutti e tutte dipendono da ciò che non possono produrre di propria iniziativa: dall’aria, dall’acqua, dalla terra, dal fuoco, da animali e piante, da tradizioni e dal tessuto relazionale umano. I cambiamenti ecologici ci fanno presente che le idee che riguardano l’uomo libero sono un fantasma che alla fine si rivolge contro tutti quanti, anche a dispetto del progresso.» (La vita alla radice dell’economia)
Altra questione: una scelta radicale. Ci ha posto di recente davanti a questa opzione Vandana Shiva, la grande ecologa indiana, punto di riferimento di tutti i movimenti. Invitata in Italia e venuta a conoscenza dello sfratto per la Casa internazionale delle donne di Roma, ha scritto una lettera aperta a Virginia Raggi. La cosa è notevole perché è una lettera indirizzata alla politica. È rivolta alla sindaca di Roma ma in realtà pone a donne e uomini la questione di fare una scelta radicale di fronte ai cambiamenti climatici. Prospetta la scelta possibile chiedendo alla Raggi di non chiudere la Casa internazionale delle donne, anzi di ampliare il suo ruolo perché – dice – dovrebbe diventare l’università del futuro.
Il suo ragionamento parte dalla critica al dominio del capitalismo patriarcale e al paradigma agricolo e industriale di tipo estrattivo che ha portato il nostro pianeta sull’orlo del collasso. Siamo al culmine dell’ascesa e dell’avidità sfrenata dell’1% e, secondo lei, per il cambiamento oggi torna prezioso ciò che nella storia è stato considerato “irrilevante”: il lavoro quotidiano delle donne legato alla vita e il sapere che ne deriva. Sono il sapere dell’esperienza e le capacità delle donne ciò di cui avremo sempre più bisogno in futuro. Su questo è categorica. Infatti dice: «O sarà permesso alle donne di mostrare la via o non avremo nessun futuro».
Cambio di civiltà, diciamo. Sì, ma come starci? L’idea di dominare il corso della storia con grandi progetti politici si è rivelata catastrofica, e la politica a misura d’uomo non funziona più. Mi sono chiesta: possiamo noi umani con le nostre specifiche caratteristiche, in primis la parola e l’autocoscienza, prolungare l’evoluzione indirizzandola su strade migliori per quel che riguarda la convivenza e la felicità? Intendo, verso i traguardi che l’etica ci fa riconoscere buoni e giusti? Ma per i quali non abbiamo la forza morale necessaria ad attingerli, come ci dimostra la storia.
Un giorno ho sentito parlare di “coscienza evolutiva”. Mi sono impadronita di quella formula per mettermi a pensare a quei felici modi di essere o di agire che non esigono grandi sforzi di volontà, come invece l’esercizio delle virtù. Sarebbero come le buone abitudini ma non hanno l’impronta della ripetizione, hanno invece l’impronta dell’atto libero. Vi si manifesta un di più nell’ordine dell’umano, come accade con l’arte o la santità, ma reso accessibile al comune degli esseri umani.
Le buone pratiche politiche del femminismo nella mia esperienza hanno questa caratteristica. E presentano una particolarità, che corrispondono a tradizionali, comuni comportamenti femminili, ma ripresi e potenziati, con il femminismo, da un’intenzione politica, finalizzati cioè a cambiare in meglio lo stato delle cose. Pensate alla pratica del gruppo separato di autocoscienza, che ha interrotto il moderno processo d’inclusione delle donne nella cultura maschile, e che ha consentito la presa di coscienza di sé da parte del soggetto donna. Il trovarsi tra sole donne era una pratica comunissima nella vecchia società, che è stata ripresa da noi in un senso sovversivo.
Da questa constatazione ricavo l’idea che la normalità femminile possa essere vista nel suo insieme come un progresso potenziale già disponibile per un futuro altrimenti buio verso il quale andiamo. E trovo una conferma più che autorevole nella lettera di Vandana Shiva alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, in difesa della Casa internazionale delle donne: la Casa delle donne è l’università del futuro.
Perciò la crescente presenza delle donne nella vita pubblica sta diventando un fattore positivo nel cambio di civiltà, per altro incerto, che stiamo attraversando.
Ma come agisce questo fattore? Innesto qui l’intuizione esposta in un contributo a VD 3, intitolato Differenze tra donne, differenza sessuale. Lì parlavo di un senso libero della differenza femminile, che non ha una definizione né contenuti precostituiti, ma che affiora attraverso le differenze tra donne. Ora aggiungo che, grazie alla pratica delle relazioni e alla presenza nella vita pubblica, affiora anche un mondo di donne, mondo mai visto da cui gli uomini non sono esclusi: in quel mondo si ritrovano e si riconoscono, non però identici a prima perché non sono più nella posizione di prima, centrale e dominante. Sono lì fedeli a se stessi in relazione con donne. La posizione centrale e dominante non è più di nessuno, non sarà di nessuno, mondo plurale senza un centro.
Anche questa è una intuizione e fa seguito a quella delle differenze tra donne.
Sento che è buona anche questa, da sviluppare nelle sue conseguenze. Per ora ne vedo due. Le anticipo. Una è di conferma dell’importanza delle relazioni donna con donna nella vita pubblica. La seconda è di mettere argine a una certa deriva nichilista del mondo maschile, genialmente disegnata nel film Roma del regista Alfonso Cuarón che vede gli uomini ridursi a cacche di cane.
Approfittiamo dalla forza che in questo momento hanno i movimenti delle donne per avere lo slancio per pensare oggi la questione del clima. È un augurio, rispetto a una questione che è molto complessa. Questo perché qui in modo più evidente poco dipende da noi. Dipendiamo da quello che fanno e faranno gli altri in paesi molto lontani dal nostro e da come si trasforma la Terra. Non solo, è molto complessa anche perché dipendiamo dalle conoscenze che le scienziate e gli scienziati ci mettono a disposizione sull’andamento delle trasformazioni della Terra. È complessa perché comunque non possiamo vedere subito i risultati di una politica ecologista sul clima. I risultati sono visibili a distanza di molti anni. Non si può contare su un impatto immediato sull’immaginario. Più che in altri casi è una politica legata ad un atto di fiducia. Senza verifiche palpabili nel giro di poco.
Il movimento per il clima di studentesse e studenti che si rifà all’iniziativa politica di Greta Thunberg indica come problema una classe politica sorda a queste questioni. È in effetti anche il nostro problema. Gregory Bateson scriveva che il mondo sarebbe diverso se i politici sapessero i mesi nei quali le cerve partoriscono (Dove gli angeli esitano, p. 119).
– Ho scelto di sviluppare qui alcuni temi del dibattito ecologista però rigorosamente attraverso quello che ho imparato dalla politica delle donne.
Parto dunque dal primo tema. È dall’inizio del femminismo degli anni Settanta che stiamo parlando del nodo donna e natura e lo stiamo discutendo ancora oggi. Come metterlo a frutto nell’attuale dibattito sul clima?
Tutti i più importanti testi sulla natura come il classico La morte della natura. Le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica di Carolyn Merchant, Sul genere e la scienza di Evelyn Fox Keller e Terra madre di Vandana Shiva partono dal fatto che nella cultura patriarcale maschile le donne sono state identificate con la natura. Tutti e tre questi testi, come molti altri testi ecofemministi meno noti, giustamente criticano l’identificazione donne-natura. Questo non perché le donne non abbiano un rapporto profondo e radicale con il corpo, la materia, la procreazione. È così. Lo hanno. Ma il desiderio maturato con il femminismo è quello di dare una significazione libera a questi legami che sentiamo vivi. Si noti che la critica alla identificazione patriarcale tra donne e natura non porta affatto a una libertà astratta, senza vincoli, per la quale le donne non dipenderebbero dal corpo. Sappiamo bene di dipenderne, ma desideriamo dare noi soggettivamente un significato ai legami con il corpo, con la capacità di procreare, con la natura.
Per dire quanto anche oggi sia insistente questa identificazione dell’essere donna e della natura, ricordo un film belga – Quinta stagione – del 2012 di Peter Brosens, belga, e Jessica Woodworth, statunitense, che hanno girato sulla spinta di notizie molto comuni come la scomparsa delle api, l’abuso di fertilizzanti, la crisi del latte. Immaginano che la Terra non risponda più all’esigenza umana dell’alternarsi delle stagioni. Rimane un inverno senza tempo – la quinta stagione – e le comunità umane si disgregano, l’uso del linguaggio si impoverisce enormemente, la violenza dilaga. La giovane donna, che ha con la natura legami profondi, si perde con essa e muore. Il suo giovane amico fa il gesto simbolico di occuparsi di un ragazzo in difficoltà e questo è l’unico segno di speranza: la storia (maschile) forse può ripartire dai legami umani di pietas, senza identificarsi con la natura.
Ho ritrovato in questo film contemporaneo l’immaginario, i miti, la cultura antica e le religioni arcaiche: non solo la Terra è madre ma la donna è natura per il ciclo mestruale, per la disposizione del suo corpo generante. Se la Terra muore, muore la donna. E viceversa. Le immagini del film sono risultate per me angoscianti: una specie di prigione.
Ora, invece, i testi classici dell’ecofemminismo ci invitano a cercare di trovare le parole in un gesto libero di significare, che è stato acquisito simbolicamente con il movimento delle donne, per esprimere il nostro rapporto di implicazione materiale con la natura. È vero: siamo dipendenti dal corpo e dalla materialità della Terra. Abbiamo un corpo che può generare. C’è una effettiva asimmetria femminile in questo. C’è un sapere che le donne hanno. Ma – e questo è l’importante – i significati del nostro rapporto soggettivo con la natura non sono già stabiliti. Siamo noi a scoprirli e rinominarli con altre in un circolo esistenziale e simbolico.
Torno all’ecologia, che in realtà fin qui non ho mai abbandonato. Occorre tenere ben stretto questo punto guadagnato, per una buona ermeneutica della questione politica ecologista. L’ecologia mostra i legami di dipendenza in cui siamo inseriti. Mostra il mondo come una rete di interdipendenze. Ora però l’impegno a significare questi legami dipende invece da noi. E, come ho cercato di mostrare, è in gioco un’asimmetria femminile.
Questo è il primo passo.
– Parlo ora del secondo tema. Possiamo imparare anche dalle critiche rivolte al pensiero della differenza sessuale, che avrebbe sostenuto che le donne sono tali per natura. È successo che, per mostrare che questa è una critica infondata, non ci siamo semplicemente spostate nell’ambito del linguaggio dicendo che “donna” è un significante vuoto da scoprire. Certo, questo è un passaggio fondamentale, ma al centro non è stata posta soltanto la sperimentazione linguistica nell’invito a trovare i significati a noi corrispondenti di essere donna. Sottolineo che in più è stato molto importante mostrare che c’è un circolo tra linguaggio ed esperienza. In questo senso ci siamo impegnate a significare la differenza sessuale a partire dall’esperienza e in una continua simbolizzazione, con narrazioni, figure, concetti. Lo ha fatto molto bene Luce Irigaray, impegnata a dare figure della sessualità femminile come lo schiudersi, l’aperto, il toccare nella contiguità, l’accoglienza. In Etica della differenza sessuale ha cercato figure che mediassero l’esperienza femminile della sessualità.
È solo un esempio. Ma un esempio fondamentale: non c’è da una parte la dimensione della vita biologica (il sesso inteso in termini biologici) e dall’altra il linguaggio, la cultura, e le loro libere sperimentazioni. Quando si dice che vita e linguaggio sono inscindibili, non vuol dire però che c’è fusione. Vuol dire che continuamente ci diciamo, ci scontriamo, ritorniamo su come dire la vita, la natura. E che non è accessibile la vita naturale indipendente dal nostro discorso. Ma d’altra parte – e questo è molto importante ricordarlo – il nostro discorso interagisce ed è dipendente dalla vita, che entra nel discorso con segni-sintomi, con smottamenti nel dire, con riconoscimenti di necessità, con imprevisti. Ci entra indirettamente attraverso i nostri sogni.
Tenere a mente questo è essenziale nell’attuale dibattito riguardo alla natura.
Una parte del femminismo sta trattando la natura come vita naturale autonoma, per sé stante. Zoe piuttosto che bios, che invece sarebbe vita significata dalla cultura. Rosi Braidotti esprime bene questa posizione per cui la procreazione materna – la gravidanza – avverrebbe per un processo di vita naturale in sé, come anche vita naturale in sé sono il proliferare delle cellule malate nel nostro corpo (In metamorfosi, p. 161). Il suo invito è a prendere atto di questa forza vitale che ci attraversa e che destruttura la padronanza dell’io personale e storico. Braidotti prende in considerazione gli effetti sull’immaginario di questa forza potente della vita in sé che ci attraversa e che trova espressione nelle figure della letteratura, dei film, nei nuovi media. Nella sua potenza d’essere la vita naturale non umana diventa la misura anche dell’umano. Risulta il vero soggetto, del tutto anonimo. Mentre il lavorìo di nominazione culturale che le donne fanno in rapporto alla vita risulta esprimersi soltanto nell’immaginario.
Questa posizione è vicina per alcuni aspetti a quella degli antispecisti. Non ci sono specie privilegiate, tanto meno l’essere umano. L’essere umano è animale accanto agli altri animali. Vita naturale pura. Paradossale è anche quella posizione molto radicale che afferma che ciò che rovina il pianeta Terra è la specie uomo. Affinché il pianeta Terra sopravviva occorre che la specie umana si autosopprima. Così il pianeta Terra riprenderà la sua vita come prima della comparsa dell’essere umano.
La critica che porto sia alla posizione femminista, per la quale la vita naturale anonima nella sua potenza d’essere è l’interpretante principale per comprendere l’umano, sia alla posizione antispecista è che entrambe scelgono per sé una posizione esterna e oggettivante rispetto alla natura. Assumono uno sguardo neutro fuori dai giochi della significazione. Intendo che si pongono dall’esterno e danno conto della vita naturale come se noi ne facessimo parte solo come esseri animali, e non come coloro che continuamente si pongono questioni rispetto alla vita naturale, si interrogano, prendono decisioni politiche. Per pensatrici femministe su questa linea e per questi pensatori sembra che interpretare se stessi come espressione della vita naturale animale immediata sia sufficiente, cancellando il fatto che ne facciamo parte nella forma inaggirabile del significare simbolicamente quello che ci avviene in rapporto alla natura, porci domande, preoccuparci, esprimere i legami con la natura con cui siamo in rapporto dall’interno. Del resto mi chiedo: l’etica nei confronti degli animali che l’antispecismo propone non nasce proprio da queste domande e dalla preoccupazione tutta umana e giusta di non far soffrire gli animali? Ritorno sull’idea che mi guida: essere all’interno della natura vuol dire che siamo partecipi del fatto che il nostro destino è intimamente legato a quello della Terra e che però noi lo significhiamo in modi diversi, che possono risultare politicamente conflittuali. La vita come potenza di Braidotti e l’antispecismo rischiano di annegarsi nella vita biologica in sé e fare del corpo l’unico referente.
– Ritorno al movimento di Greta, che domanda ai politici di intervenire per diminuire gli squilibri del clima. E questo in nome della sopravvivenza della sua generazione e del pianeta. Così introduco il terzo tema. Il movimento di Greta si appella a un desiderio di sopravvivenza. Accanto a questo, molti altri sono gli intenti e le posizioni di chi si muove politicamente per il clima.
Voglio qui accennare alla concezione di Laura Conti, medica ed ecologista. Era consigliere alla regione Lombardia proprio nel 1976 quando uscì dall’Icmesa, una fabbrica a nord di Milano, una nube di diossina molto tossica che ricadde su Seveso. Lei se ne occupò direttamente e a lungo.
Mi interessa perché ha espresso una concezione di sistema. Ovvero si è mossa sempre in una visione d’insieme e di interdipendenza. Ha posto al centro – per capire i problemi del clima – il secondo principio della termodinamica – quello della degradazione dell’energia che avviene in base a qualsiasi trasformazione. L’energia si trasforma producendo calore: ogni volta che una certa quantità di energia viene convertita da una forma a un’altra si ha una penalizzazione che consiste nella degradazione di una parte dell’energia stessa in forma di calore. L’energia è irrecuperabile e il calore aumenta. Qualsiasi trasformazione produce calore, aumentando il calore del sistema a cui apparteniamo. Quanto più produciamo sviluppo, tanto più si crea degradazione di energia e produzione di calore. Inoltre sulla Terra la popolazione è aumentata. Per dare un’idea: nel 2019 siamo 7 miliardi e mezzo. Nel 1970 eravamo 3 miliardi e mezzo. Produrre per il fabbisogno di vita è aumento del calore. Il fabbisogno di vita non è il consumo ma qualcosa di molto più basilare.
Per Laura Conti non vi sono soluzioni generali e semplici perché il sistema in cui siamo è estremamente interdipendente. Ma certo una diminuzione della popolazione e la riduzione di consumi di materia ed energia può far pensare a usare razionalmente le risorse senza intaccare il tenore di vita, pur rinunciando al concetto di sviluppo. Entrambi sono passi molto difficili. Per lei semplicemente necessari per diminuire i processi di formazione di calore e degrado di energia. Lo scrive nella postfazione del 1987 a Questo pianeta.
Mi trovo in sintonia con il suo pensiero perché prende le distanze da un ecologismo etico, che punta sui valori e sul riformare il comportamento umano attraverso l’inculcare il senso di responsabilità verso il pianeta e verso i posteri, senza però affrontare la conoscenza complessa del sistema e i problemi contradditori che tutto ciò pone in termini politici.
Laura Conti si è mossa invece per amore nei confronti del sistema terra nel suo insieme e con una grande conoscenza scientifica dei processi che riguardano l’energia, le risorse, e il lavoro. Amore come attenzione al pianeta e comprensione delle sue leggi. Da autodidatta, avendo una formazione medica, ma proprio perciò si faceva aiutare dagli altri per capire e poi agire politicamente. Polemizzava con Elisabetta Donini, che pure era sua amica e una filosofa della scienza. Criticava il fatto che Donini proponesse una concezione etica da dare alla scienza, piuttosto che accoglierne le conoscenze sulle interconnessioni del sistema che Donini considerava una forma di dominio sul mondo (Vedi Questo pianeta, p. 241). Mentre Donini riteneva ottimisticamente che la natura si autoregolasse da sé, Laura Conti non era così ottimista. Per questo dava importanza alla politica ambientalista.
La posizione di Laura Conti è dunque diversa da quella etica. Scriveva: io amo, ovvero sono attenta al sistema vivente e la scienza mi aiuta a capire che cosa è in gioco. La sua proposta era politica ed economica: diminuire il fabbisogno energetico e creare un altro modo di vivere. Per necessità.
Amore per il sistema vivente, desiderio di proteggerlo, e conoscenza scientifica della vita. Non dunque scientismo come predominio della scienza. Ma scienza guidata da grande attenzione per il vivente (p. 233).
Non pensava risolutive le applicazioni della tecnica per ovviare alla distruzione dell’ambiente – ad esempio oggi l’idea di mandare in orbita razzi che portino le immondizie nello spazio –, come se la tecnica risolvesse i problemi creati dal cattivo uso della Terra. Ma non si affidava neppure all’etica per l’ambiente – al senso di responsabilità – slegata dalla conoscenza critica del rapporto tra capitale, lavoro ed energia. Mentre oggi i due poli – quello dell’uso della tecnologia per risolvere i problemi e il polo dell’etica –occupano il dibattito pubblico.
Potrei aggiungere che, proprio perché siamo all’interno del sistema vivente, noi non lo possiamo controllare. Possiamo agire in suo favore, ma in modo parziale e soppesando conseguenze impreviste. Lo possiamo conoscere, ma mai completamente perché ne facciamo parte. Dobbiamo tener conto che resta un lato inconscio del sistema, non oggettivabile. C’è un’osservazione di Gregory Bateson che a me piace molto. Scriveva che i tecnici, che vogliono risolvere i problemi necessari del mondo, si affrettano a precipitarsi là dove gli angeli esitano a mettere piede (Dove gli angeli esitano, p. 31). Come a dire: c’è una fragilità del sistema Terra che abitiamo. I nostri interventi possono avere effetti imprevisti non positivi. Occorre fare un passo indietro per poter davvero avere cura di tale fragilità. La Terra non ci appartiene.
Anche qui il pensiero femminista ci aiuta. Apparteniamo al mondo e ne possiamo parlare solo dall’interno. Questo ci permette di dire parole di verità ma sapendo che non sono oggettive. Anzi, proprio nella misura in cui il mondo non è oggettivabile, ci troviamo impegnate in un percorso soggettivo ad esprimerlo. È questo che il femminismo può offrire all’ecologia oggi: una verità a partire da sé dell’esperienza del mondo.
– Un ultimo tema. Vandana Shiva, in Terra madre, nelle sue critiche ecologiste al capitalismo mondiale e allo sfruttamento dell’agricoltura da parte delle grandi multinazionali ha indicato la sorgente di autorità del suo discorso nel suo legame con donne indiane – in particolare le donne Chipko (Terra madre, p. 79) – per la pratica politica che esse hanno tenuto nei confronti della foresta che volevano salvare.
In modo analogo dà forza simbolica conoscere le sperimentazioni che comunità di donne stanno facendo in Italia nelle pratiche di coltivazione biologica della terra. Questo permette di capire nel vivo delle pratiche quali siano i desideri, lo stile di vita, i problemi di quelle donne che hanno scelto questa via con un senso politico. Ad esempio Lucia Bertell ha seguito questa strada dando conto del laboratorio politico che queste comunità rappresentano (vedi Lavoro ecoautonomo. Dalla sostenibilità del lavoro alla praticabilità della vita). Comunque ci sono anche altri luoghi interessanti dove si riflette su questo. Sono esperienze di cui tener conto per affrontare la questione ecologista.
Credo che in questo momento tutto serva per rendere più forte il movimento ecologista. Tutto partecipa al movimento del fiume. Sia le piccole comunità della terra autogestite da donne, di cui ho appena parlato, sia i gesti quotidiani come spegnere le luci in casa quando andiamo in un’altra stanza, sia le manifestazioni sotto i municipi delle città del mondo per sensibilizzare i politici, iniziate da Greta, sia chiarire le posizioni simboliche in gioco nel movimento, come ho cercato di fare qui. Tutto rende l’alveo del fiume più grande.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Cambia il clima. Cambia la politica?, del 7 aprile 2019
In questi giorni migliaia di giovani hanno manifestato per le strade di moltissimi paesi per ricordarci che i cambiamenti climatici in atto stanno modificando il mondo che conosciamo e per chiedere ai politici di fare qualcosa. Il futuro si giocherà sulla loro pelle. Hanno gridato a gran voce che bisogna agire subito e con radicalità.
Nell’invito abbiamo ricordato che le donne hanno già detto molto su questo tema e che sentiamo l’urgenza di continuare a pensare. Ci riferivamo ad alcune pensatrici e ad alcuni testi che ci hanno orientato in questi anni: Rachel Carson, Luisa Muraro, Ina Praetorious, Naomi Klein, Laura Conti e altre, oltre al Primum vivere (nel “Sottosopra” Immagina che il lavoro, ottobre 2009)su cui si è lavorato molto in Libreria. E anche NUDM ne ha parlato nel manifesto Abbiamo un piano.
Questi testi sono tutti disponibili a parte quelli di Laura Conti che non sono stati ristampati ed è un peccato perché nel 1977 nel suo libro Cos’è l’ecologia aveva già detto molto e con molta chiarezza mettendo a fuoco i problemi che ci troviamo a dover affrontare ancora oggi. Nonostante il mio percorso di studi, io sono laureata in materie scientifiche, ho conosciuto Laura Conti solo grazie al credito che le è stato attribuito qui in Libreria.
Rachel Carson, in Primavera silenziosa del 1962 scriveva: «Il “controllo della natura” è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’“Età di Neanderthal”, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo». Da allora di strada ne è stata fatta–ci sentiamo in buona compagnia per continuare a pensare avendo presente quello che hanno scritto poche settimane fa le ragazze che hanno firmato una lettera-manifesto del #Fridayforfuture. Loro dicono: «Abbiamo visto i politici farfugliare, impegnarsi in giochetti di politica spicciola invece di affrontare la realtà: le soluzioni di cui abbiamo bisogno non si possono trovare nel sistema corrente».
Queste autrici hanno già messo le basi per una riflessione sul mondo di tipo ecologico, che comprende necessariamente anche riflessioni sull’economia e sulla politica e hanno avanzato una proposta sull’economia intesa nel suo concetto primario, ossia come capacità di soddisfare i bisogni di tutti. Non è un concetto banale perché come sappiamo l’economia si è concentrata nel soddisfare il bisogno e l’arricchimento di pochi invece di occuparsi di tutti gli abitanti della terra, dei paesi ricchi come dei paesi poveri nonostante,per dirla con Praetorius, non esista nessun essere umano che non abbia bisogno di nulla e la terra è certamente uno spazio vitale generoso ma che ha risorse finite.
Sempre Ina Praetorius più volte nei suoi lavori, per esempio nel quaderno di via dogana Penelope a Davos, ha evidenziato come tutti e tutte dipendano da ciò che non possono produrre. Lo stesso concetto è stato ripreso e ampliato anche nel suo lavoro L’economia è cura, riedito da Altraeconomia e uscito pochi giorni fa. Nel testo lei sostiene la necessità di rimettere al centro «la soddisfazione del bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita». Quindi analizza economia e politica come alleate nella cura del mondo e si occupa di ecologia intesa come casa del mondo.
Quello che ho sempre sentito come difetto, come mancanza, nelle posizioni ecologiste, che parlano di interconnessione e di interrelazione, è di stare dalla parte del sistema terra, dalla parte dei circuiti olistici, saltando la domanda soggettiva, l’esperienza, la verità che ogni donna trova nel proprio vissuto rispetto al legame con il corpo vivente, con le altre, l’ambiente.
Il pensiero delle donne ha corretto la parzialità di questo sguardo introducendo la dipendenza: dipendiamo dall’aria e dall’acqua e dalle relazioni umane, la nostra nascita e la nostra vita sono segnate dal bisogno dell’altro.
Per riprendere le parole di Luisa Muraro: siamo al mondo perché qualcuna ci ha messo al mondo, siamo vita ricevuta con un debito di gratitudine.
Quindi possiamo sentire il mondo con tutto il nostro corpo e con la consapevolezza della dipendenza. Così la questione ambientale si rinnova di uno sguardo capace di pensare politicamente la salute, l’economia, la vita nel suo insieme per permetterci di prenderci cura di noi e degli altri. La reciprocità e la dipendenza consapevole dall’altro sono l’antidoto più sovversivo all’individualismo, sono alleate dell’ecologia.
Noi della redazione ristretta di VD3 abbiamo parlato in questi ultimi mesi con alcuni giovani impegnati nel #Fridaysforfuture. Abbiamo incontrato ragazze (ma anche ragazzi) informate, appassionate e consapevoli della necessità di agire con radicalità e alla ricerca di nuovi modi per impostare un cambiamento che loro definiscono culturale.
Siamo d’accordo con loro. Può essere questo il momento in cui può farsi strada una nuova coscienza evolutiva? Prendo questa espressione da Muraro che sottolinea che non si tratta di etica ma di sentire in base ad una nuova coscienza evolutiva.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Cambia il clima. Cambia la politica?, del 7 aprile 2019