Ogni abitante della Terra occupa il tempo della sua giornata a svolgere un’agenda d’impegni quotidiani. L’agenda di una donna ha un carattere tutto particolare. Lei porta la sapienza dellamisura nell’insieme di cose da fare; si ferma, pensa un attimo “…ok, uscendo posso anche fare un salto in farmacia per il nonno, sì,cambio strada, vado io…”. E così fa.
Lia Cigarini e il Gruppo lavoro della Libreria chiamano questo arabesco tutto il lavoro necessario per vivere. LabMi per la città del primum vivere ha gettato questo concetto nelle pratiche del vivere quotidiano di donne abitanti a Milano. In LabMi abbiamo ascoltato il racconto del loro modo di abitare nei luoghi, sentito cose del tutto inattese, iniziato a capire cosa c’entra Milano, sostituendo definitivamente stili di vita con il concetto più utile modi di abitare nei luoghi. Questa sostituzione è una torsione operata dal Gruppo Vanda, la comunità accademica femminile nata presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, di cui Gisella Bassanini oggi è l’erede. Ciò comporta dare corpo,materialità e ambiente fisico al soggetto del vivere. E qual è il soggetto di ogni frase che usa vita, vivere e tanto più abitare? La risposta la conosciamo: è il corpo umano. È una donna qualsivoglia, un uomo qualsivoglia incarnato, sessuato, vivo e pertanto attivo nella continuità del tempo donato da Dio o dalla natura o da entrambi. Semplicemente è il corpo di una persona abitante in qualche luogo del vasto mondo. È la condizione antropologica più evidente e più negletta dal pensiero comune e anche dalle scienze. A noi di LabMi interessa quello di donna, vivente e attivo. Ed ecco, l’idea grande del Gruppo lavoro: aggregare tutte le attività dentro la categoria del lavoro. Cosìfinalmente si ricompone la frattura paradossale fra attività del vivere e lavoro del lavorare. È il pensiero moderno ad aver separato, spezzato tutto ciò che sta assieme in natura: qui sta la sua debolezza.
Non sembra, ma arriviamo velocemente al clima. Le Lei, donne che sono state ascoltate durante gli incontri di LabMI per la città del primum vivere, hanno ridisegnato il mix di lavori in ragione di una personale idea di libertà. Il lavoro remunerato è stato in molti casi diminuito, accettando di impoverirsi per impiegare il tempo liberato in attività volontarie da tempo desiderate. Il lavoro di cura è stato alleggerito con invenzioni che hanno ampliato le relazioni con altre/i e aumentato l’autonomia di tutti i partner di famiglia,accrescendo l’efficienza della cura stessa. Il lavoro volontario, scelto con criteri di qualità in ambito politico o sociale o culturale spesso tutti mescolati (insomma non si tratta di fare un maglione a crochet), è sempre un serio impegno condotto in modo professionale, e la sapienza impiegata è volta a mantenere un alto coefficiente di cooperazione tra una pluralità di partner in relazione. Infine il lavoro per sé ha trovato spazio, per approfondire la propria educazione, la cultura, per mantenere la forma fisica e dilatare l’amore per il mondo, e poter finalmente anche fare il maglione a crochet.
Durante la redazione allargata di VD3 sul clima (perché non abbiamo detto cambiamento climatico?) Vita Cosentino ha detto: dobbiamo ritrovare il sapere della vita quotidiana. Luisa Muraro ha detto: forse l’umanità ha voglia di suicidarsi? I dati scientifici affermano che più della metà dell’inquinamento deriva da due fattori: il riscaldamento domestico e l’aumento smisurato della mobilità e pertanto sia dei mezzi di trasporto e sia dell’uso di energia. Ci sono molti altri fattori nella catastrofe ecologica, e non solo climatica, che non dipendono oggi dai nostri comportamenti personali, ma da un nuovo patto sociale. La domanda ripetuta in VD3 è stata: siamo disponibili a modificare profondamente i nostri stili di vita, cioè i nostri modi di abitare nei luoghi della Terra? Sì, se possiamo trasformare qualcosa di noi, qualcosa del mondo, qualcosa del vivere assieme, qualcosa delle città. Lei, ascoltata in LabMI per la città del primum vivere, ha ridisegnato la sua vita. C’è misura anche nell’uso dell’energia utilizzata. Dov’è la chiave di volta di questa nuova architettura del vivere? Riconoscere che l’agenda delle pratiche quotidiane della mia vita sono solo parole. Quando io la metto in atto diventano gesti del mio corpo guidati dalla mia mente che riconosce una civiltà. Tutto qua.
Come possiamo sperare di abitare ecologicamente il mondo se non prevalgono altri modi di considerare il nostro esserci di umani sulla Terra? Altri – intendo – rispetto a una concezione del mondo in cui l’uomo si è autoproclamato il centro e la natura è stata vista come materia da dominare e da sfruttare fin nelle sue viscere. Per di più, in concomitanza, nella cultura moderna, si è affermata la teoria dell’homo œconomicus, che si è pensato autosufficiente e libero di perseguire esclusivamente il suo interesse. E sappiamo bene quanti danni sta facendo uno sviluppo fine a se stesso, che risponde solo alle leggi del mercato.
Come ci ricorda Greta Thunberg, siamo sull’orlo di un precipizio e questa situazione chiede che si affermi un cambiamento che arrivi fin nell’interiorità di ogni essere umano.
Quella posizione arrogante e dominatrice è stata criticata da tempo nella ricerca femminista. Ma non c’è stata solo la critica. E qui riprendo una questione già introdotta da Valeria Spirolazzi: altri modi di intendere l’essere umano sono già venuti al mondo con le pensatrici della differenza. Luisa Muraro, nei lontani anni ’90 del secolo scorso, con l’ordine simbolico della madre, ha mostrato che all’origine non c’è un identico a sé, bensì una relazione. Siamo al mondo perché qualcuna ci ha messo al mondo. Non siamo autosufficienti ma presi fin dall’inizio in una trama di relazioni e bisognosi di aria per respirare. Siamo parte della natura e non un soggetto esterno ad essa, come ha preteso di essere il soggetto universale maschile. Io ricordo bene quanto è stato fondamentale per me leggere quel libro di Luisa Muraro e prendere coscienza di questa verità sempre occultata. Sono cambiata interiormente, e di conseguenza è cambiato il mio modo di pensare e di agire. È una presa di coscienza che orienta tutto il resto.
Proprio a partire da quest’altra idea dello stare al mondo, Ina Praetorius ha sviluppato un pensiero originale, che oggi è tutto da riprendere e da rilanciare per la sua grande attualità. Voglio citare per intero il passo che ci ha ispirate per l’invito a questo incontro: «In effetti sviluppi come il cambiamento globale del clima dimostrano una cosa: tutti e tutte dipendono da ciò che non possono produrre di propria iniziativa: dall’aria, dall’acqua, dalla terra, dal fuoco, da animali e piante, da tradizioni e dal tessuto relazionale umano. I cambiamenti ecologici ci fanno presente che le idee che riguardano l’uomo libero sono un fantasma che alla fine si rivolge contro tutti quanti, anche a dispetto del progresso.» (La vita alla radice dell’economia)
Altra questione: una scelta radicale. Ci ha posto di recente davanti a questa opzione Vandana Shiva, la grande ecologa indiana, punto di riferimento di tutti i movimenti. Invitata in Italia e venuta a conoscenza dello sfratto per la Casa internazionale delle donne di Roma, ha scritto una lettera aperta a Virginia Raggi. La cosa è notevole perché è una lettera indirizzata alla politica. È rivolta alla sindaca di Roma ma in realtà pone a donne e uomini la questione di fare una scelta radicale di fronte ai cambiamenti climatici. Prospetta la scelta possibile chiedendo alla Raggi di non chiudere la Casa internazionale delle donne, anzi di ampliare il suo ruolo perché – dice – dovrebbe diventare l’università del futuro.
Il suo ragionamento parte dalla critica al dominio del capitalismo patriarcale e al paradigma agricolo e industriale di tipo estrattivo che ha portato il nostro pianeta sull’orlo del collasso. Siamo al culmine dell’ascesa e dell’avidità sfrenata dell’1% e, secondo lei, per il cambiamento oggi torna prezioso ciò che nella storia è stato considerato “irrilevante”: il lavoro quotidiano delle donne legato alla vita e il sapere che ne deriva. Sono il sapere dell’esperienza e le capacità delle donne ciò di cui avremo sempre più bisogno in futuro. Su questo è categorica. Infatti dice: «O sarà permesso alle donne di mostrare la via o non avremo nessun futuro».
Cambio di civiltà, diciamo. Sì, ma come starci? L’idea di dominare il corso della storia con grandi progetti politici si è rivelata catastrofica, e la politica a misura d’uomo non funziona più. Mi sono chiesta: possiamo noi umani con le nostre specifiche caratteristiche, in primis la parola e l’autocoscienza, prolungare l’evoluzione indirizzandola su strade migliori per quel che riguarda la convivenza e la felicità? Intendo, verso i traguardi che l’etica ci fa riconoscere buoni e giusti? Ma per i quali non abbiamo la forza morale necessaria ad attingerli, come ci dimostra la storia.
Un giorno ho sentito parlare di “coscienza evolutiva”. Mi sono impadronita di quella formula per mettermi a pensare a quei felici modi di essere o di agire che non esigono grandi sforzi di volontà, come invece l’esercizio delle virtù. Sarebbero come le buone abitudini ma non hanno l’impronta della ripetizione, hanno invece l’impronta dell’atto libero. Vi si manifesta un di più nell’ordine dell’umano, come accade con l’arte o la santità, ma reso accessibile al comune degli esseri umani.
Le buone pratiche politiche del femminismo nella mia esperienza hanno questa caratteristica. E presentano una particolarità, che corrispondono a tradizionali, comuni comportamenti femminili, ma ripresi e potenziati, con il femminismo, da un’intenzione politica, finalizzati cioè a cambiare in meglio lo stato delle cose. Pensate alla pratica del gruppo separato di autocoscienza, che ha interrotto il moderno processo d’inclusione delle donne nella cultura maschile, e che ha consentito la presa di coscienza di sé da parte del soggetto donna. Il trovarsi tra sole donne era una pratica comunissima nella vecchia società, che è stata ripresa da noi in un senso sovversivo.
Da questa constatazione ricavo l’idea che la normalità femminile possa essere vista nel suo insieme come un progresso potenziale già disponibile per un futuro altrimenti buio verso il quale andiamo. E trovo una conferma più che autorevole nella lettera di Vandana Shiva alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, in difesa della Casa internazionale delle donne: la Casa delle donne è l’università del futuro.
Perciò la crescente presenza delle donne nella vita pubblica sta diventando un fattore positivo nel cambio di civiltà, per altro incerto, che stiamo attraversando.
Ma come agisce questo fattore? Innesto qui l’intuizione esposta in un contributo a VD 3, intitolato Differenze tra donne, differenza sessuale. Lì parlavo di un senso libero della differenza femminile, che non ha una definizione né contenuti precostituiti, ma che affiora attraverso le differenze tra donne. Ora aggiungo che, grazie alla pratica delle relazioni e alla presenza nella vita pubblica, affiora anche un mondo di donne, mondo mai visto da cui gli uomini non sono esclusi: in quel mondo si ritrovano e si riconoscono, non però identici a prima perché non sono più nella posizione di prima, centrale e dominante. Sono lì fedeli a se stessi in relazione con donne. La posizione centrale e dominante non è più di nessuno, non sarà di nessuno, mondo plurale senza un centro.
Anche questa è una intuizione e fa seguito a quella delle differenze tra donne.
Sento che è buona anche questa, da sviluppare nelle sue conseguenze. Per ora ne vedo due. Le anticipo. Una è di conferma dell’importanza delle relazioni donna con donna nella vita pubblica. La seconda è di mettere argine a una certa deriva nichilista del mondo maschile, genialmente disegnata nel film Roma del regista Alfonso Cuarón che vede gli uomini ridursi a cacche di cane.
Approfittiamo dalla forza che in questo momento hanno i movimenti delle donne per avere lo slancio per pensare oggi la questione del clima. È un augurio, rispetto a una questione che è molto complessa. Questo perché qui in modo più evidente poco dipende da noi. Dipendiamo da quello che fanno e faranno gli altri in paesi molto lontani dal nostro e da come si trasforma la Terra. Non solo, è molto complessa anche perché dipendiamo dalle conoscenze che le scienziate e gli scienziati ci mettono a disposizione sull’andamento delle trasformazioni della Terra. È complessa perché comunque non possiamo vedere subito i risultati di una politica ecologista sul clima. I risultati sono visibili a distanza di molti anni. Non si può contare su un impatto immediato sull’immaginario. Più che in altri casi è una politica legata ad un atto di fiducia. Senza verifiche palpabili nel giro di poco.
Il movimento per il clima di studentesse e studenti che si rifà all’iniziativa politica di Greta Thunberg indica come problema una classe politica sorda a queste questioni. È in effetti anche il nostro problema. Gregory Bateson scriveva che il mondo sarebbe diverso se i politici sapessero i mesi nei quali le cerve partoriscono (Dove gli angeli esitano, p. 119).
– Ho scelto di sviluppare qui alcuni temi del dibattito ecologista però rigorosamente attraverso quello che ho imparato dalla politica delle donne.
Parto dunque dal primo tema. È dall’inizio del femminismo degli anni Settanta che stiamo parlando del nodo donna e natura e lo stiamo discutendo ancora oggi. Come metterlo a frutto nell’attuale dibattito sul clima?
Tutti i più importanti testi sulla natura come il classico La morte della natura. Le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica di Carolyn Merchant, Sul genere e la scienza di Evelyn Fox Keller e Terra madre di Vandana Shiva partono dal fatto che nella cultura patriarcale maschile le donne sono state identificate con la natura. Tutti e tre questi testi, come molti altri testi ecofemministi meno noti, giustamente criticano l’identificazione donne-natura. Questo non perché le donne non abbiano un rapporto profondo e radicale con il corpo, la materia, la procreazione. È così. Lo hanno. Ma il desiderio maturato con il femminismo è quello di dare una significazione libera a questi legami che sentiamo vivi. Si noti che la critica alla identificazione patriarcale tra donne e natura non porta affatto a una libertà astratta, senza vincoli, per la quale le donne non dipenderebbero dal corpo. Sappiamo bene di dipenderne, ma desideriamo dare noi soggettivamente un significato ai legami con il corpo, con la capacità di procreare, con la natura.
Per dire quanto anche oggi sia insistente questa identificazione dell’essere donna e della natura, ricordo un film belga – Quinta stagione – del 2012 di Peter Brosens, belga, e Jessica Woodworth, statunitense, che hanno girato sulla spinta di notizie molto comuni come la scomparsa delle api, l’abuso di fertilizzanti, la crisi del latte. Immaginano che la Terra non risponda più all’esigenza umana dell’alternarsi delle stagioni. Rimane un inverno senza tempo – la quinta stagione – e le comunità umane si disgregano, l’uso del linguaggio si impoverisce enormemente, la violenza dilaga. La giovane donna, che ha con la natura legami profondi, si perde con essa e muore. Il suo giovane amico fa il gesto simbolico di occuparsi di un ragazzo in difficoltà e questo è l’unico segno di speranza: la storia (maschile) forse può ripartire dai legami umani di pietas, senza identificarsi con la natura.
Ho ritrovato in questo film contemporaneo l’immaginario, i miti, la cultura antica e le religioni arcaiche: non solo la Terra è madre ma la donna è natura per il ciclo mestruale, per la disposizione del suo corpo generante. Se la Terra muore, muore la donna. E viceversa. Le immagini del film sono risultate per me angoscianti: una specie di prigione.
Ora, invece, i testi classici dell’ecofemminismo ci invitano a cercare di trovare le parole in un gesto libero di significare, che è stato acquisito simbolicamente con il movimento delle donne, per esprimere il nostro rapporto di implicazione materiale con la natura. È vero: siamo dipendenti dal corpo e dalla materialità della Terra. Abbiamo un corpo che può generare. C’è una effettiva asimmetria femminile in questo. C’è un sapere che le donne hanno. Ma – e questo è l’importante – i significati del nostro rapporto soggettivo con la natura non sono già stabiliti. Siamo noi a scoprirli e rinominarli con altre in un circolo esistenziale e simbolico.
Torno all’ecologia, che in realtà fin qui non ho mai abbandonato. Occorre tenere ben stretto questo punto guadagnato, per una buona ermeneutica della questione politica ecologista. L’ecologia mostra i legami di dipendenza in cui siamo inseriti. Mostra il mondo come una rete di interdipendenze. Ora però l’impegno a significare questi legami dipende invece da noi. E, come ho cercato di mostrare, è in gioco un’asimmetria femminile.
Questo è il primo passo.
– Parlo ora del secondo tema. Possiamo imparare anche dalle critiche rivolte al pensiero della differenza sessuale, che avrebbe sostenuto che le donne sono tali per natura. È successo che, per mostrare che questa è una critica infondata, non ci siamo semplicemente spostate nell’ambito del linguaggio dicendo che “donna” è un significante vuoto da scoprire. Certo, questo è un passaggio fondamentale, ma al centro non è stata posta soltanto la sperimentazione linguistica nell’invito a trovare i significati a noi corrispondenti di essere donna. Sottolineo che in più è stato molto importante mostrare che c’è un circolo tra linguaggio ed esperienza. In questo senso ci siamo impegnate a significare la differenza sessuale a partire dall’esperienza e in una continua simbolizzazione, con narrazioni, figure, concetti. Lo ha fatto molto bene Luce Irigaray, impegnata a dare figure della sessualità femminile come lo schiudersi, l’aperto, il toccare nella contiguità, l’accoglienza. In Etica della differenza sessuale ha cercato figure che mediassero l’esperienza femminile della sessualità.
È solo un esempio. Ma un esempio fondamentale: non c’è da una parte la dimensione della vita biologica (il sesso inteso in termini biologici) e dall’altra il linguaggio, la cultura, e le loro libere sperimentazioni. Quando si dice che vita e linguaggio sono inscindibili, non vuol dire però che c’è fusione. Vuol dire che continuamente ci diciamo, ci scontriamo, ritorniamo su come dire la vita, la natura. E che non è accessibile la vita naturale indipendente dal nostro discorso. Ma d’altra parte – e questo è molto importante ricordarlo – il nostro discorso interagisce ed è dipendente dalla vita, che entra nel discorso con segni-sintomi, con smottamenti nel dire, con riconoscimenti di necessità, con imprevisti. Ci entra indirettamente attraverso i nostri sogni.
Tenere a mente questo è essenziale nell’attuale dibattito riguardo alla natura.
Una parte del femminismo sta trattando la natura come vita naturale autonoma, per sé stante. Zoe piuttosto che bios, che invece sarebbe vita significata dalla cultura. Rosi Braidotti esprime bene questa posizione per cui la procreazione materna – la gravidanza – avverrebbe per un processo di vita naturale in sé, come anche vita naturale in sé sono il proliferare delle cellule malate nel nostro corpo (In metamorfosi, p. 161). Il suo invito è a prendere atto di questa forza vitale che ci attraversa e che destruttura la padronanza dell’io personale e storico. Braidotti prende in considerazione gli effetti sull’immaginario di questa forza potente della vita in sé che ci attraversa e che trova espressione nelle figure della letteratura, dei film, nei nuovi media. Nella sua potenza d’essere la vita naturale non umana diventa la misura anche dell’umano. Risulta il vero soggetto, del tutto anonimo. Mentre il lavorìo di nominazione culturale che le donne fanno in rapporto alla vita risulta esprimersi soltanto nell’immaginario.
Questa posizione è vicina per alcuni aspetti a quella degli antispecisti. Non ci sono specie privilegiate, tanto meno l’essere umano. L’essere umano è animale accanto agli altri animali. Vita naturale pura. Paradossale è anche quella posizione molto radicale che afferma che ciò che rovina il pianeta Terra è la specie uomo. Affinché il pianeta Terra sopravviva occorre che la specie umana si autosopprima. Così il pianeta Terra riprenderà la sua vita come prima della comparsa dell’essere umano.
La critica che porto sia alla posizione femminista, per la quale la vita naturale anonima nella sua potenza d’essere è l’interpretante principale per comprendere l’umano, sia alla posizione antispecista è che entrambe scelgono per sé una posizione esterna e oggettivante rispetto alla natura. Assumono uno sguardo neutro fuori dai giochi della significazione. Intendo che si pongono dall’esterno e danno conto della vita naturale come se noi ne facessimo parte solo come esseri animali, e non come coloro che continuamente si pongono questioni rispetto alla vita naturale, si interrogano, prendono decisioni politiche. Per pensatrici femministe su questa linea e per questi pensatori sembra che interpretare se stessi come espressione della vita naturale animale immediata sia sufficiente, cancellando il fatto che ne facciamo parte nella forma inaggirabile del significare simbolicamente quello che ci avviene in rapporto alla natura, porci domande, preoccuparci, esprimere i legami con la natura con cui siamo in rapporto dall’interno. Del resto mi chiedo: l’etica nei confronti degli animali che l’antispecismo propone non nasce proprio da queste domande e dalla preoccupazione tutta umana e giusta di non far soffrire gli animali? Ritorno sull’idea che mi guida: essere all’interno della natura vuol dire che siamo partecipi del fatto che il nostro destino è intimamente legato a quello della Terra e che però noi lo significhiamo in modi diversi, che possono risultare politicamente conflittuali. La vita come potenza di Braidotti e l’antispecismo rischiano di annegarsi nella vita biologica in sé e fare del corpo l’unico referente.
– Ritorno al movimento di Greta, che domanda ai politici di intervenire per diminuire gli squilibri del clima. E questo in nome della sopravvivenza della sua generazione e del pianeta. Così introduco il terzo tema. Il movimento di Greta si appella a un desiderio di sopravvivenza. Accanto a questo, molti altri sono gli intenti e le posizioni di chi si muove politicamente per il clima.
Voglio qui accennare alla concezione di Laura Conti, medica ed ecologista. Era consigliere alla regione Lombardia proprio nel 1976 quando uscì dall’Icmesa, una fabbrica a nord di Milano, una nube di diossina molto tossica che ricadde su Seveso. Lei se ne occupò direttamente e a lungo.
Mi interessa perché ha espresso una concezione di sistema. Ovvero si è mossa sempre in una visione d’insieme e di interdipendenza. Ha posto al centro – per capire i problemi del clima – il secondo principio della termodinamica – quello della degradazione dell’energia che avviene in base a qualsiasi trasformazione. L’energia si trasforma producendo calore: ogni volta che una certa quantità di energia viene convertita da una forma a un’altra si ha una penalizzazione che consiste nella degradazione di una parte dell’energia stessa in forma di calore. L’energia è irrecuperabile e il calore aumenta. Qualsiasi trasformazione produce calore, aumentando il calore del sistema a cui apparteniamo. Quanto più produciamo sviluppo, tanto più si crea degradazione di energia e produzione di calore. Inoltre sulla Terra la popolazione è aumentata. Per dare un’idea: nel 2019 siamo 7 miliardi e mezzo. Nel 1970 eravamo 3 miliardi e mezzo. Produrre per il fabbisogno di vita è aumento del calore. Il fabbisogno di vita non è il consumo ma qualcosa di molto più basilare.
Per Laura Conti non vi sono soluzioni generali e semplici perché il sistema in cui siamo è estremamente interdipendente. Ma certo una diminuzione della popolazione e la riduzione di consumi di materia ed energia può far pensare a usare razionalmente le risorse senza intaccare il tenore di vita, pur rinunciando al concetto di sviluppo. Entrambi sono passi molto difficili. Per lei semplicemente necessari per diminuire i processi di formazione di calore e degrado di energia. Lo scrive nella postfazione del 1987 a Questo pianeta.
Mi trovo in sintonia con il suo pensiero perché prende le distanze da un ecologismo etico, che punta sui valori e sul riformare il comportamento umano attraverso l’inculcare il senso di responsabilità verso il pianeta e verso i posteri, senza però affrontare la conoscenza complessa del sistema e i problemi contradditori che tutto ciò pone in termini politici.
Laura Conti si è mossa invece per amore nei confronti del sistema terra nel suo insieme e con una grande conoscenza scientifica dei processi che riguardano l’energia, le risorse, e il lavoro. Amore come attenzione al pianeta e comprensione delle sue leggi. Da autodidatta, avendo una formazione medica, ma proprio perciò si faceva aiutare dagli altri per capire e poi agire politicamente. Polemizzava con Elisabetta Donini, che pure era sua amica e una filosofa della scienza. Criticava il fatto che Donini proponesse una concezione etica da dare alla scienza, piuttosto che accoglierne le conoscenze sulle interconnessioni del sistema che Donini considerava una forma di dominio sul mondo (Vedi Questo pianeta, p. 241). Mentre Donini riteneva ottimisticamente che la natura si autoregolasse da sé, Laura Conti non era così ottimista. Per questo dava importanza alla politica ambientalista.
La posizione di Laura Conti è dunque diversa da quella etica. Scriveva: io amo, ovvero sono attenta al sistema vivente e la scienza mi aiuta a capire che cosa è in gioco. La sua proposta era politica ed economica: diminuire il fabbisogno energetico e creare un altro modo di vivere. Per necessità.
Amore per il sistema vivente, desiderio di proteggerlo, e conoscenza scientifica della vita. Non dunque scientismo come predominio della scienza. Ma scienza guidata da grande attenzione per il vivente (p. 233).
Non pensava risolutive le applicazioni della tecnica per ovviare alla distruzione dell’ambiente – ad esempio oggi l’idea di mandare in orbita razzi che portino le immondizie nello spazio –, come se la tecnica risolvesse i problemi creati dal cattivo uso della Terra. Ma non si affidava neppure all’etica per l’ambiente – al senso di responsabilità – slegata dalla conoscenza critica del rapporto tra capitale, lavoro ed energia. Mentre oggi i due poli – quello dell’uso della tecnologia per risolvere i problemi e il polo dell’etica –occupano il dibattito pubblico.
Potrei aggiungere che, proprio perché siamo all’interno del sistema vivente, noi non lo possiamo controllare. Possiamo agire in suo favore, ma in modo parziale e soppesando conseguenze impreviste. Lo possiamo conoscere, ma mai completamente perché ne facciamo parte. Dobbiamo tener conto che resta un lato inconscio del sistema, non oggettivabile. C’è un’osservazione di Gregory Bateson che a me piace molto. Scriveva che i tecnici, che vogliono risolvere i problemi necessari del mondo, si affrettano a precipitarsi là dove gli angeli esitano a mettere piede (Dove gli angeli esitano, p. 31). Come a dire: c’è una fragilità del sistema Terra che abitiamo. I nostri interventi possono avere effetti imprevisti non positivi. Occorre fare un passo indietro per poter davvero avere cura di tale fragilità. La Terra non ci appartiene.
Anche qui il pensiero femminista ci aiuta. Apparteniamo al mondo e ne possiamo parlare solo dall’interno. Questo ci permette di dire parole di verità ma sapendo che non sono oggettive. Anzi, proprio nella misura in cui il mondo non è oggettivabile, ci troviamo impegnate in un percorso soggettivo ad esprimerlo. È questo che il femminismo può offrire all’ecologia oggi: una verità a partire da sé dell’esperienza del mondo.
– Un ultimo tema. Vandana Shiva, in Terra madre, nelle sue critiche ecologiste al capitalismo mondiale e allo sfruttamento dell’agricoltura da parte delle grandi multinazionali ha indicato la sorgente di autorità del suo discorso nel suo legame con donne indiane – in particolare le donne Chipko (Terra madre, p. 79) – per la pratica politica che esse hanno tenuto nei confronti della foresta che volevano salvare.
In modo analogo dà forza simbolica conoscere le sperimentazioni che comunità di donne stanno facendo in Italia nelle pratiche di coltivazione biologica della terra. Questo permette di capire nel vivo delle pratiche quali siano i desideri, lo stile di vita, i problemi di quelle donne che hanno scelto questa via con un senso politico. Ad esempio Lucia Bertell ha seguito questa strada dando conto del laboratorio politico che queste comunità rappresentano (vedi Lavoro ecoautonomo. Dalla sostenibilità del lavoro alla praticabilità della vita). Comunque ci sono anche altri luoghi interessanti dove si riflette su questo. Sono esperienze di cui tener conto per affrontare la questione ecologista.
Credo che in questo momento tutto serva per rendere più forte il movimento ecologista. Tutto partecipa al movimento del fiume. Sia le piccole comunità della terra autogestite da donne, di cui ho appena parlato, sia i gesti quotidiani come spegnere le luci in casa quando andiamo in un’altra stanza, sia le manifestazioni sotto i municipi delle città del mondo per sensibilizzare i politici, iniziate da Greta, sia chiarire le posizioni simboliche in gioco nel movimento, come ho cercato di fare qui. Tutto rende l’alveo del fiume più grande.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Cambia il clima. Cambia la politica?, del 7 aprile 2019
In questi giorni migliaia di giovani hanno manifestato per le strade di moltissimi paesi per ricordarci che i cambiamenti climatici in atto stanno modificando il mondo che conosciamo e per chiedere ai politici di fare qualcosa. Il futuro si giocherà sulla loro pelle. Hanno gridato a gran voce che bisogna agire subito e con radicalità.
Nell’invito abbiamo ricordato che le donne hanno già detto molto su questo tema e che sentiamo l’urgenza di continuare a pensare. Ci riferivamo ad alcune pensatrici e ad alcuni testi che ci hanno orientato in questi anni: Rachel Carson, Luisa Muraro, Ina Praetorious, Naomi Klein, Laura Conti e altre, oltre al Primum vivere (nel “Sottosopra” Immagina che il lavoro, ottobre 2009)su cui si è lavorato molto in Libreria. E anche NUDM ne ha parlato nel manifesto Abbiamo un piano.
Questi testi sono tutti disponibili a parte quelli di Laura Conti che non sono stati ristampati ed è un peccato perché nel 1977 nel suo libro Cos’è l’ecologia aveva già detto molto e con molta chiarezza mettendo a fuoco i problemi che ci troviamo a dover affrontare ancora oggi. Nonostante il mio percorso di studi, io sono laureata in materie scientifiche, ho conosciuto Laura Conti solo grazie al credito che le è stato attribuito qui in Libreria.
Rachel Carson, in Primavera silenziosa del 1962 scriveva: «Il “controllo della natura” è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’“Età di Neanderthal”, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo». Da allora di strada ne è stata fatta–ci sentiamo in buona compagnia per continuare a pensare avendo presente quello che hanno scritto poche settimane fa le ragazze che hanno firmato una lettera-manifesto del #Fridayforfuture. Loro dicono: «Abbiamo visto i politici farfugliare, impegnarsi in giochetti di politica spicciola invece di affrontare la realtà: le soluzioni di cui abbiamo bisogno non si possono trovare nel sistema corrente».
Queste autrici hanno già messo le basi per una riflessione sul mondo di tipo ecologico, che comprende necessariamente anche riflessioni sull’economia e sulla politica e hanno avanzato una proposta sull’economia intesa nel suo concetto primario, ossia come capacità di soddisfare i bisogni di tutti. Non è un concetto banale perché come sappiamo l’economia si è concentrata nel soddisfare il bisogno e l’arricchimento di pochi invece di occuparsi di tutti gli abitanti della terra, dei paesi ricchi come dei paesi poveri nonostante,per dirla con Praetorius, non esista nessun essere umano che non abbia bisogno di nulla e la terra è certamente uno spazio vitale generoso ma che ha risorse finite.
Sempre Ina Praetorius più volte nei suoi lavori, per esempio nel quaderno di via dogana Penelope a Davos, ha evidenziato come tutti e tutte dipendano da ciò che non possono produrre. Lo stesso concetto è stato ripreso e ampliato anche nel suo lavoro L’economia è cura, riedito da Altraeconomia e uscito pochi giorni fa. Nel testo lei sostiene la necessità di rimettere al centro «la soddisfazione del bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita». Quindi analizza economia e politica come alleate nella cura del mondo e si occupa di ecologia intesa come casa del mondo.
Quello che ho sempre sentito come difetto, come mancanza, nelle posizioni ecologiste, che parlano di interconnessione e di interrelazione, è di stare dalla parte del sistema terra, dalla parte dei circuiti olistici, saltando la domanda soggettiva, l’esperienza, la verità che ogni donna trova nel proprio vissuto rispetto al legame con il corpo vivente, con le altre, l’ambiente.
Il pensiero delle donne ha corretto la parzialità di questo sguardo introducendo la dipendenza: dipendiamo dall’aria e dall’acqua e dalle relazioni umane, la nostra nascita e la nostra vita sono segnate dal bisogno dell’altro.
Per riprendere le parole di Luisa Muraro: siamo al mondo perché qualcuna ci ha messo al mondo, siamo vita ricevuta con un debito di gratitudine.
Quindi possiamo sentire il mondo con tutto il nostro corpo e con la consapevolezza della dipendenza. Così la questione ambientale si rinnova di uno sguardo capace di pensare politicamente la salute, l’economia, la vita nel suo insieme per permetterci di prenderci cura di noi e degli altri. La reciprocità e la dipendenza consapevole dall’altro sono l’antidoto più sovversivo all’individualismo, sono alleate dell’ecologia.
Noi della redazione ristretta di VD3 abbiamo parlato in questi ultimi mesi con alcuni giovani impegnati nel #Fridaysforfuture. Abbiamo incontrato ragazze (ma anche ragazzi) informate, appassionate e consapevoli della necessità di agire con radicalità e alla ricerca di nuovi modi per impostare un cambiamento che loro definiscono culturale.
Siamo d’accordo con loro. Può essere questo il momento in cui può farsi strada una nuova coscienza evolutiva? Prendo questa espressione da Muraro che sottolinea che non si tratta di etica ma di sentire in base ad una nuova coscienza evolutiva.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Cambia il clima. Cambia la politica?, del 7 aprile 2019
Invito alla Redazione allargata di Via Dogana 3
domenica 7 aprile 2019 ore 10.00-13.30
Dal movimento internazionale per il clima, iniziato da Greta Thunberg e guidato quasi dappertutto da ragazze, è emersa a gran voce la richiesta, rivolta ai governi di tutto il mondo, di fare qualcosa, da subito, in difesa dell’ambiente perché non c’è più tempo e non abbiamo a disposizione un pianeta B. E’ l’idea di una nuova coscienza evolutiva che si fa strada e si pone davanti a noi come una promessa di cambiamento politico?
Con Ina Praetorius pensiamo che il cambiamento globale del clima dimostra che tutti e tutte dipendono da ciò che non possono produrre di propria iniziativa come l’aria, l’acqua e il tessuto delle relazioni umane. Inoltre i cambiamenti ecologici in atto testimoniano che uno sviluppo fine a se stesso, che risponde solo alle leggi del mercato, sta minacciando ogni aspetto della vita.
Le concezioni del mondo prodotte da un soggetto universale maschile che si è proposto disincarnato, esterno alla natura e in posizione di dominio mostrano tutta la loro arroganza e pericolosità.
Il pensiero politico delle donne, legato alla vita e alla convivenza umana, su questo ha detto molto e pensiamo che abbia ancora molto da dire: è stato proprio il femminismo a mettere in discussione tutti i dualismi: corpo/mente, natura/cultura, materia/spirito, pubblico/privato.
Quali contributi possiamo dare? Adesso.
Avvierà la discussione Chiara Zamboni
Nell’incontro sull’immigrazione i due interventi di apertura sono stati preziosi perché hanno portato due esperienze e quindi due punti di vista molto diversi. Molte hanno raccolto il contributo di Anna di Salvo che metteva a fuoco un punto di vista preciso: le donne all’interno dell’immigrazione. Quindi l’urgenza, il disagio, la necessità, ma anche la possibilità di sessuare il discorso dell’immigrazione e il modo in cui ci mettiamo in relazione con l’immigrazione.
Dall’altra parte il discorso e l’esperienza di Tahereh Toluian diceva altro: la sua è un’esperienza forte, magica per certi aspetti, quella di sentirsi contemporaneamente dentro due mondi, di essere quei due mondi. Un faro: mette insieme nell’esperienza individuale problemi che sono radicali nel mondo di oggi. Invece di guardarli, lei dice: io sono, io incarno l’attraversamento di questi problemi.
In misura minore è quello che sentiamo tutte e tutti. In misura minore (ma ognuna soffre i propri disagi e pensa che siano già belli pesanti) il peso dell’immigrazione lo viviamo tutte non solo perché ce l’abbiamo di fronte e vediamo il dolore e la cattiveria che sembra stiano mangiandosi tutto il resto, ma perché è vero che il luogo che abitiamo – quel concentrato di possibilità, di esperienze, di cultura, di identità storico culturale che ci è familiare – si è incrinato pesantemente. È a un bel punto di crisi. Ognuno di noi lo vive: negli sguardi, negli odori, nell’intrico di lingue e di toni che senti mentre viaggi sui mezzi pubblici… Io che da giovane andavo all’estero perché mi sembrava che in un’altra lingua potevo inventarmi meglio la mia vita, se però piglio il tram sotto casa e non c’è più una lingua che riconosco, allora l’immaginazione creativa si spegne e soffro la babele. Perfino l’andare lontano, il viaggiare è diventato un po’ senza senso, e ogni altrove è attraversato da inediti spostamenti. Ognuna potrebbe fare bei racconti su come vive sulla propria pelle la trasformazione del luogo che stiamo abitando… Simbolico che s’attacca alle case, ai suoni, ai movimenti.
Il vero problema, il nodo teorico e politico interessante, è che la cittadinanza come la conoscevamo non c’è più. Non si tratta solo di sessuare la realtà dell’immigrazione da una parte e di ripensare sia le paure sia l’accoglienza dall’altra. La posta in gioco, la scommessa che abbiamo di fronte, è che possiamo affrontare l’invenzione di una nuova cittadinanza.
Certamente attraversata dalla globalizzazione e dai movimenti delle persone.
Certamente secondo me – d’accordo con Ada Colau (ricordate il manifesto delle sindache Colau, Carmena, Hidalgo?) – radicata nel luogo/città, cioè nel luogo dove vivi. E che lì può essere reinventata, rimessa in gioco.
Certamente questa nuova cittadinanza è attraversata radicalmente, potentemente, come noi ben sappiamo e vogliamo, dalla differenza sessuale, dalla presenza delle donne nello spazio pubblico.
Infine, la nuova cittadinanza ha un altro elemento di radicale trasformazione: il prolungarsi della vita. Il rapporto con l’età e con la malattia è mutato, con grandi sconvolgimenti nel lavoro necessario per vivere (sia per il mercato che di manutenzione dell’esistenza, sia nella produzione che nella riproduzione, lavoro non toccato dall’automazione e fortemente legato alla immigrazione).
Il nodo politico che dobbiamo affrontare è dunque come vogliamo agire nel luogo che abitiamo – per molte di noi è Milano – per ripensare una nuova cittadinanza, radicata nelle nostre soggettività e attraversata da tutti questi nodi: migrazioni, postpatriarcato, interdipendenze.
Si illumina chi affronta il mare per espatriare, non si illumina neppure un poco il dolore degli abbandonati, vecchi malati, poveri nel nostro paese. Anch’essi muoiono, con fatica, a furia di patire e alcuni di suicidio. Ho visto tramite il filmato di Franca Caffa chi vive nello sporco del suo locale, nel disastro del degrado che non sa più contenere quando le forze cedono e la solitudine intontisce. Ho visto malati e famiglie disperate e miserabili a causa della malattia mentale di un componente. Io stessa per molti anni ho avuto la madre malata ed era sola e povera, mi sono disperata nel non saper risolvere né confortare i suoi problemi e nel sentirmi terrorizzata da tanta solitudine nella responsabilità verso di lei.
Ci vogliono molte cure e moltissimi soldi per sollevarsi da gravi malattie che con l’età avanzata incombono e non si può essere soli di fronte alla rovina delle proprie energie e della propria vita. È pochissimo quello che le istituzioni riescono a fare, sono necessarie molte più risorse, prese o non date ai ricchi e ancor più ai ricchissimi. Ci vogliono misure che rendano sopportabile l’esistenza con l’assistenza domiciliare e quella in case comuni che devono essere multigenerazionali perché gli anziani non possono vedere solo altri vecchi morenti.
Sono mostruose le condizioni dei ricoveri di vecchi e malati che non abbiano moltissimi soldi propri e dei parenti, li ho visti tutti, sono un inferno che non sembra possa esistere appena te lo togli dagli occhi; dovrebbero essere filmate tutte queste situazioni, mostrate continuamente come si fa con i salvataggi in mare perché l’opinione pubblica comprenda che cosa vivono di disperante molte persone assieme ai loro parenti e queste stesse si sentano esistere per la società.
Nella città e sui media sembriamo vivere in un nirvana di giovani e di adulti in benessere, divertiti dai negozi illuminati e dai nuovi consumi, ci tranquillizzano, mentre l’immagine di chi chiede aiuto è un peso; non vogliamo sensi di colpa, non si vogliono perdere privilegi che si sentono esilissimi, ma soprattutto fa paura ciò che non sembra trovi soluzione.
Molti di noi hanno visto qualche cosa che tengono nascosto, sanno di vicende penose che ad altri sono capitate, temono l’angoscia che hanno già provata. Per questo dietro il paravento di chi dice: “prima gli Italiani” tacciono ma si accodano o non hanno parole, o non osano parlare.
L’inesistenza di una cultura solidale, di una pratica più solidale e comune di quella che nella tua famiglia ti può prendere al collo e obbligare; la rabbia per l’isolamento in cui si è affrontato qualche cosa di difficile, la certezza di poter affogare in futuro se fossi costretto a chiedere aiuto sono le ragioni di una paura e un fastidio che ti fanno lasciare a Salvini il compito di chiudere quel discorso di condivisione che tu non hai praticato né visto praticare. Una pratica solidale non la costruisci solo con le belle parole, quante persone hanno fatto le pratiche per accettare nel loro monolocale affittato agli studenti o ai turisti un migrante? E perché dovrebbero perdere un introito se basta demandare allo Stato tutta la problematica senza dare indicazioni? O senza riceverne un piccolo tornaconto?
Se tutta la nostra realtà sociale potesse essere mostrata e condivisa, se fossimo abituati a renderla meno dolorosa, a soccorrerla e vederla soccorsa, se la solidarietà fosse stata maggiore per noi e per gli altri, se ci fosse più giustizia sociale e meno dolore non farebbe impressione oggi vedere quanti scappano da paesi più poveri per aiutare chi resta o per mettersi in salvo o cercare di migliorare la propria condizione. Sembrerebbe più normale. Se fossimo stati abituati a sollevare le difficoltà agli altri e a vedere sollevate le nostre non saremmo così spaventati e incattiviti.
Oggi a Milano chi abbisogna di terapie fisiche, necessarie a moltissimi che abbiano compiuto settanta/ottanta anni, deve a fatica riuscire a entrare in una lista di attesa per l’anno prossimo, aspettare un anno, o spendere almeno 1000 euro. Se ne hanno 700 in tutto aspettano e sperano la morte.
L’ingiustizia del tutto italiana sugli italiani ci ha convinti che non ci siano alternative a una piramide di classe con una base larghissima di emarginati, è colpa della scelta politica della sinistra di concordare la piramide di classe con le destre e farla apparire come la naturalità dell’esistenza, la giusta organizzazione sociale e questo ha creato un riflusso di invidia e indifferenza che si abbatte, almeno su chi non è stato procreato qui ma altrove.
Davanti a questi tanti giovani, grandi e coraggiosi che vogliono approdare da noi io penso: “ce la faranno!”; oppure resto senza parole perché non posso pensare di dover dare ogni giorno un aiuto solo io, solo a loro. In realtà ogni giorno da anni lo faccio, come lo faccio con molte associazioni politiche e culturali, ma diventa troppo oblativo un infinito dare senza che la politica ti porti un tornaconto.
Una integrazione degli immigrati è indispensabile, non possono essere l’esempio del massimo sfruttamento che il padronato vuole. Dal film su Riace, dagli articoli di Muraro e da quello di Mammani, colgo il desiderio che è mio: i più disperati degli italiani devono stare molto meglio, devono essere assistiti economicamente e relazionalmente, magari proprio dagli immigrati, usando denaro pubblico per istruire questi ultimi nella lingua e nell’assistenza, congiungendo due bisogni diversi, realizzando una felicità comune che deve essere necessariamente mostrata. Anche i giovani possono lavorare per ciò che serve al paese: l’assistenza a chi non è del tutto autosufficiente, a chi è solo, è questo che oggi serve all’Italia per alleviare le preoccupazioni di chi oggi assiste da solo con aiuti economici irrisori o inesistenti. Immigrazione e disoccupazione possono essere investite di risorse che rincuorano tutti quanti, divenire iniziative di gioia e di relazione comune che attragga anche gli indifferenti quando la possano vedere. Usiamo i mezzi di comunicazione per condividere cultura e solidarietà positiva, non per spaventare.
Chi si ostina a giudicare con parole inutili la popolazione che non intende solidarietà agli sconosciuti accresce il fastidio di essere appunto sconosciuti agli altri e ingrossa le fila di chi incarna la peggiore reazione.
È necessario trovare una mediazione che restituisca volontà positive, è necessario comprendere chi non vede soluzione e prospettargliela. Come Riace ha fatto, utilizzando i soldi degli immigrati per farli vivere in un paese che guadagnava dalla loro presenza la ristrutturazione delle case, l’impiego di insegnanti per la scuola, quello di personale per la creazione di un poliambulatorio che diveniva una opportunità anche per gli abitanti. A Milano c’è bisogno di molta assistenza relazionale, di accompagnamento, di impieghi per il personale paramedico, di impieghi per la ristrutturazione delle case popolari. Mettiamoci un poco di professionalità nella lotta politica.
Mi ricollego all’intervento di Sara Gandini (all’incontro di Via Dogana 3, Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, 3 febbraio 2019) che ha parlato di “aggressività machista che è stata sdoganata”, per dire il mio pensiero al riguardo.
Queste forme di populismo, di sovranismo in giro per il mondo, alla Trump e alla Salvini per intenderci, sono tutte improntate dalla forma mentis patriarcale. Hanno un sovrainvestimento sulla virilità come risorsa simbolica e politica e consistono nel mostrare i muscoli, nell’esibire il fallo. C’è da essere consapevoli che hanno come radice prima il dominio dell’uomo sulla donna. Il possesso dell’uomo del corpo della donna è il prototipo di tutte le altre forme di dominio e di inferiorizzazione. Un filo rosso unisce tutte queste forme di dominio e di esclusione. E questo mi riguarda, ci riguarda come femministe. È una concezione del potere in cui le donne hanno operato una rottura a cominciare dal Metoo a cui è seguito tutto quello che sappiamo, e altro ancora continua a succedere.
Nell’invito a questa riflessione, abbiamo scritto che oggi nel mondo si è aperto uno spazio di libertà femminile nella vita pubblica. Negli USA un momento significativo di cambiamento sono state le recenti elezioni, in cui parecchie donne sono entrate nella politica per spinta propria, ispirate dal Metoo e legate a reti civiche locali, e non agganciate al partito democratico, come mostra la ricerca condotta da Lara Putnam e Theda Skocpol (L’Espresso, 6 gennaio 2019).
Così lì oggi capita che una senatrice democratica di 52 anni, Kirsten Gillibrand, è pronta a candidarsi alla Casa Bianca nel 2020 con questa motivazione: “Ho un figlio di 14 anni e non posso permettere che cresca in un Paese con un presidente misogino che ripete “l’ho acchiappata per…” (Repubblica, 4 febbraio 2019).
Le sue parole fanno capire bene come da parte femminile si stia aprendo un conflitto politico e simbolico con queste forme di potere improntate al machismo e alla misoginia. E quello che capita in USA si ripercuote in tutto il movimento internazionale delle donne. Uno di questi terreni di conflitto si riferisce proprio alle migrazioni e alle politiche messe in atto al riguardo. Per questo – oltre a quanto è stato detto nelle belle relazioni iniziali – mi sembra importante prestare attenzione a quali mosse stanno portando avanti, sia negli Stati Uniti che qui in Italia, alcune donne che hanno cominciato a muoversi con libertà nella politica istituzionale. In questi giorni sono andata a cercare nelle cronache dei giornali, nelle interviste che hanno rilasciato, le loro parole, quelle che danno senso ai gesti di libertà che hanno compiuto.
Ho in mente Nancy Pelosi che ha tenuto testa e per ora ha vinto su Trump nello scontro sul finanziamento al muro che il presidente vuole costruire ai confini con il Messico e il conseguente shutdown. Il braccio di ferro è cominciato dopo una lite accesa nello studio ovale e, andandosene, Nancy Pelosi lo ha apostrofato così: “Ho 5 figli e 9 nipoti e so riconoscere un capriccio” (La Repubblica, 27 gennaio 2019). E da quel momento non ha ceduto di un millimetro e alla fine Trump è stato costretto a fare marcia indietro sullo shutdown, senza aver ottenuto quello che voleva. La sua mossa politica è stata quella di togliere credito a quel terreno simbolico e ridicolizzare il personaggio. Infatti quello che per Trump e i suoi sostenitori era una prova di forza da “vero uomo” agli occhi di Nancy Pelosi era un comportamento da bambino bizzoso.
Il suo sguardo dice molto anche delle vicende di casa nostra e, guardando con i suoi occhi, anche noi riusciamo a vedere un bambino capriccioso che si ostina a gridare “porti chiusi porti chiusi” al di là di ogni ragionevole mediazione. In questi giorni anche qui in Italia ho visto capitare alcuni gesti di libertà femminile e voglio metterli in risalto. Mi riferisco alla mossa di Stefania Prestigiacomo che ha tranquillamente ignorato gli ordini del ministro dell’interno e si è messa alla guida del gommone che ha portato lei e altri due parlamentari (uno di +Europa e uno di Leu) a bordo della Seawatch, ancorata nel porto di Siracusa. La sua motivazione è stata quella che Ada Colau, sindaca di Barcellona, e Annarosa Buttarelli, filosofa di Diotima, chiamano prossimità. La parlamentare è originaria di Siracusa e ama la sua città che considera civile e accogliente e nell’intervista dice: “Adesso da giorni c’è una nave davanti a casa mia con 47 disperati a bordo. E io che faccio, sto a guardare? Andare a verificare la situazione di persona e cercare una soluzione per queste persone mi è sembrata una scelta naturale e umana. Tutto qui” (La Repubblica, 28 gennaio 2019). Qui la mossa è quella di non obbedire a ordini ingiusti e appellarsi a un’altra legge.
L’altra mossa che ho individuato è quella di criticare l’uso che si fa della “forza virile” così esibita: viene chiamato “codardo” chi la usa contro deboli e indifesi.
È la mossa che ha fatto Mara Carfagna nei confronti di Salvini: “Prendersela con il più piccolo del cortile è da codardi. (torna l’accusa di infantilismo) Lo fa uno Stato debole che ha bisogno di mostrare i muscoli” (Il manifesto, 29 gennaio 2019).
Sullo stesso filo di ragionamento è la lettera a lui indirizzata da una immigrata nigeriana che così conclude: «Vedo che non ho mai pronunciato il suo nome. Me ne scuso, ma mi mette paura. Quella per l’ingiustizia di chi sa far la faccia dura contro i deboli, ma sa sorridere sempre ai potenti. Vuole che torniamo a casa? Parli ai suoi potenti, a quelli degli altri paesi che occupano di fatto casa mia in una guerra velenosa e mai dichiarata. Se ha un po’ di dignità e di coraggio, la faccia brutta la faccia a loro» (Famiglia Cristiana, 9 gennaio 2019).
Mi sono interessata alle parole di donne della politica istituzionale perché finalmente mi è sembrato di cogliere qualcosa di inedito e di libero nel loro muoversi nella vita politica. Per questo ho deciso di custodirle e riproporle in questo incontro tenendole insieme a quelle di un’immigrata clandestina. Per non perderle e farne un elemento di forza. D’altronde qui in Italia abbiamo già sperimentato, ai tempi del governo Berlusconi, quanto parole di donne che colgono nel segno possono produrre un terremoto politico.
Questa domenica dedicata alle nostre pratiche con le donne immigrate e con gli uomini immigrati è stata aperta da due relazioni molto interessanti di Tahereh Toluian e Anna di Salvo della Città felice di Catania. Mi soffermo sulla relazione di Anna.
Mi ha colpito la concretezza e la chiarezza di Anna nel portare avanti, anche in ambienti “difficili” il nostro modo di affrontare i problemi, in emergenza o meno.
Non c’era sentimentalismo nelle sue parole, ma sentimento e consapevolezza che per avere risultati la pratica politica è essenziale.
E su questo ho cercato di dare un contributo.
La questione, a mio parere, si divide in livelli diversi: i diritti, i bisogni e le soluzioni.
Per i diritti, mi riferisco sempre a “non credere di avere dei diritti”, testo chiarissimo, e alle giuriste di cui mi fido, per i bisogni alla mia esperienza. La rilevazione dei bisogni ormai è una tecnica sperimentata in vari ambiti, ma con le donne in disagio è necessario entrare in relazione per capire davvero e rispettare non solo i bisogni, ma anche i loro tempi e i loro… silenzi. In quanto alle soluzioni – parola grossa – diciamo tentativi di soluzioni. Come quello di costruire luoghi e metodi per favorire la consapevolezza di essere nel mercato del lavoro con le proprie ritrovate o aggiornate competenze. L’autonomia non è soltanto un essere, ma anche una forma di dover essere con cui confrontarsi: regole, tempi, metodi, relazioni con… clienti e finanziatrici/tori, analisi di mercato, collaborazioni ecc. Un luogo, realmente fondato e organizzato sulle relazioni, può produrre desiderio di lavorare anche da sole o collettivamente. Un luogo che tiene conto del percorso fatto e dei luoghi in cui è stato fatto, ma non fa troppi sconti sulla concretezza e sul desiderio di…
E quindi arriviamo al nocciolo, che peraltro Anna Di Salvo ha descritto benissimo. Oggi non possiamo più parlare di accoglienza, termine strausato, ma anche manipolato, confusivo e strumentalizzato. Tutto è accoglienza e se muore qualcuno, è sempre colpa di chi non capisce cosa vuol dire fare accoglienza: magari tenere donne, bambini e uomini in una nave nel mare in tempesta per settimane e poi scaricarli alla Chiesa o alle chiese.
Cambiare il linguaggio, le parole che usiamo è sempre segno di un cambiamento simbolico, già avvenuto dentro e fuori di noi. Invece di accoglienza userei “in relazione con”. Un modo preciso per definire chi sono io e chi è con me in una relazione. Mi sembra per noi tutte indispensabile. Ricordo sempre le parole di Lia Cigarini: è da chiarire da dove parli, come ti collochi.
La posizione geopolitica della Sicilia e di Catania, la città dove vivo, ha favorito in questi anni l’approdo al porto di Catania di navi delle Ong umanitarie o di navi militari e guardacostiere con a bordo donne, uomini e bambini, bisognosi di protezione umanitaria, provenienti da paesi africani e medio orientali, per lo più partiti dalle coste libiche e salvati dai naufragi nel canale di Sicilia. Questo, e la presenza in città dell’agenzia Frontex per i respingimenti e del Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo (Cara) di Mineo nel territorio circostante, hanno fatto sentire a me e alle amiche della Città Felice di Catania la necessità di impegnarci, di non voltare la faccia dall’altra parte. Così ci siamo messe in contatto con altre realtà, collaborando con loro con le nostre pratiche e le nostre scommesse femministe.
Per esempio, venute a conoscenza degli stupri subiti dalle donne migranti nei centri di detenzione libici da parte di uomini delle milizie mercenarie locali, ci impegnammo, collaborando alla stesura della Carta di Lampedusa nel 2012, affinché il linguaggio adoperato comprendesse le donne migranti e per fare chiarezza in alcuni passaggi tra i quali quello che se buona parte delle donne che giungevano sino a noi si trovavano in stato di gravidanza, questo era dipeso dalle violenze subite in Libia e non perché avessero deciso di partire dai loro paesi in stato di gravidanza. (1) Già a Catania, avendo saputo del disagio in cui si trovavano le donne migranti ospitate insieme agli uomini in strutture cittadine senza criteri di civiltà e senza alcuna distinzione di sesso, avevamo chiesto a esponenti del comune e alle associazioni accreditate di porre fine a quello stato di promiscuità, separando le donne dagli uomini affinché non condividessero spazi, dormitori e bagni.
Con le “Mamme di Lampedusa” e anche con le “Mamme No Muos” di Niscemi (Caltanissetta) e di Caltagirone (Catania) dove opera anche l’associazione “Astra”, le donne mediche di Medu (Medici per i diritti umani) nonché dell’associazione “Lasciateci entrare”, con le quali eravamo entrate in relazione organizzando insieme manifestazioni e recandoci frequentemente non solo alla base militare-satellitare del Muos di Niscemi (realizzata in una secolare sughereta protetta patrimonio Unesco) ma anche dinanzi ai cancelli del Cara di Mineo (Villaggio degli aranci) per incontrare donne e uomini migranti, iniziammo una riflessione che ci portò ad acquisire la consapevolezza del forte nesso esistente in questi ultimi anni tra lo svolgimento delle guerre e il flusso delle migrazioni, soprattutto quando ci sono donne: sono in primo luogo i conflitti bellici, non le aspettative di una vita migliore come nel caso di molti uomini, a spingere sempre più donne a lasciare le loro case e intraprendere quei viaggi con i loro bambini/e che molto spesso le hanno portate a morire per annegamento o per altri violenti motivi. In seguito a questa visione secondo noi più vera della questione e a nuove letture in merito alle cause della migrazione, attribuibile in buona parte alla militarizzazione, abbiamo pensato lo slogan “Libere da violenza e militarizzazione” trascrivendolo su documenti e volantini e in un colorato striscione esibito più volte durante manifestazioni e mostre mail art, una delle quali è stata la mostra “Lampedusa porta della vita” curata da Katia Ricci e Rossella Sferlazzo (2) esposta al LampedusaInFestival nel 2014. Ma libere da violenza non solo causata dalle guerre. In secondo luogo, infatti, oltre alla violenza delle guerre, le donne di paesi africani e d’oriente che abbiamo conosciuto ci hanno parlato della cultura misogina che regna nei loro paesi e nelle loro famiglie, che sono costrette a subire e dalle quali molte sono fuggite. E che spesso hanno ritrovato anche qui. Sono donne che abbiamo incontrato in varie situazioni: migranti incrociate ai cancelli del Cara di Mineo o incontrate grazie ai nostri rapporti con la Rete Antirazzista Catanese e gli/le amiche eritree di “Africa unita”, anche donne prostituite durante il giorno dentro lo stesso Cara o lungo le strade provinciali (3), o donne fuggite dal Cara perché la loro richiesta d’asilo era stata bocciata dalla commissione, conosciute nelle loro brevi permanenze a Catania mentre erano in attesa di partire per altri paesi europei. Ancora abbiamo conosciuto donne straniere che svolgevano l’attività di mediatrici culturali, collaboratrici domestiche o badanti con le quali siamo entrate in contatto per l’attività che Nunzia Scandurra svolge allo sportello della CGIL di Catania per essere d’aiuto in qualità d’avvocata. O donne straniere desiderose di fermarsi a vivere a Catania, che Giusi Milazzo responsabile del Sunia in Sicilia, sostiene e orienta nella loro faticosa ricerca della casa… Anche Mirella Clausi da anni segue nel suo percorso di inserimento nella vita cittadina una donna proveniente dal Marocco…
Un problema importante che stiamo affrontando è quello del modo di considerare la prostituzione, grazie agli scambi con le amiche operatrici dell’associazione anti-tratta “Penelope” (la cui responsabile Oriana Cannavò è co-fondatrice insieme a molte donne e uomini di realtà catanesi della rete antiviolenza La Ragna-Tela), che da tempo lavorano, e con risultati, per liberare dalla prostituzione giovani donne africane e sudamericane vincolate ai loro carnefici da riti woodoo e joujou e da debiti contratti per ingenti somme in Nigeria o in altri paesi dove sono state raggirate con false offerte di lavoro in Europa: è di qualche mese fa la condanna a Catania a 8 anni di reclusione a uomini e donne di un racket della prostituzione grazie all’individuazione dei/delle componenti della banda e alla denuncia alle forze dell’ordine da parte delle donne di Penelope. Ebbene, insieme a loro da tempo siamo in conflitto politico con uomini (anche alcuni celebri studiosi delle questioni geopolitiche e delle migrazioni nel Mediterraneo) e donne di alcune forze di sinistra non solo catanesi, operatori e avvocate che lavorano al Villaggio degli aranci, a causa dell’indifferenza e della superficialità con le quali viene vista la questione dell’induzione alla prostituzione delle donne migranti all’interno e all’esterno del Cara e nel territorio circostante, che va affrontata invece a nostro avviso in maniera radicale senza alcuna giustificazione e indulgenza. Da parte maschile notiamo solo indignazione riguardo allo sfruttamento economico delle donne prostituite da parte di uomini del racket della prostituzione (solitamente africani o arabi), in analogia allo sfruttamento della forza lavoro dei migranti nelle raccolte stagionali da parte del caporalato. Mentre si fa rientrare quasi nella “normalità” il fatto in sé della prostituzione, il dato che le donne vengano prostituite, come “qualcosa difficile da sradicarsi” e legato alla necessità economica, in quanto esse non avrebbero altra soluzione per estinguere il debito contratto. Ci sono stati avvocati/e che lavorano al Cara di Mineo per assistere i/le migranti, che interpellati da noi in merito alla questione prostituzione se ne sono lavate le mani dicendo che se la denuncia ai loro aguzzini non parte dalle stesse donne loro non possono farci niente. Troviamo inaccettabile la sottovalutazione del significato misogino e sessista del permanere in questo stato di negligenza, e lo diciamo, ma non riusciamo ancora a incidere. Ci siamo rese conto che mentre nel nostro lavoro sulla città da molti anni ci viene riconosciuta autorità da parte di donne e uomini di associazioni locali (come nel caso del lavoro con il comitato “Babilonia” nel quartiere di San Berillo a Catania), su queste questioni c’è quasi una impermeabilità alla politica delle donne.
Altro punto di conflitto con molti uomini di sinistra, è la loro veemente reazione in difesa degli uomini migranti o stranieri che commettono violenze sessiste nei confronti delle donne occidentali o dei loro stessi paesi. Confliggere su questo richiede di approfondire il discorso perché è vero che c’è un accanimento mediatico strumentale contro gli uomini migranti rispetto a quelli occidentali che commettono violenze. Quello che facciamo è mostrare la radice della violenza nella sessualità maschile, che riguarda personalmente anche loro, attivisti antirazzisti. Il problema si ripropone continuamente perché la partecipazione della Città Felice e della rete La Ragna-Tela a varie iniziative a Catania, Niscemi, Riace, Messina, Palermo, in collaborazione con realtà e reti antirazziste, antagoniste e pacifiste quali la Rete Antirazzista Catanese, Comitato No Muos, No Sigonella, Oxfam, Borderline Sicilia, Catania 2018…, apre a buone occasioni di scambio e di conflitto. Per esempio, quando nominiamo la violenza maschile che le donne migranti subiscono in Libia, nella stesura dei documenti comuni riguardanti le migrazioni, ci viene opposto che le violenze non le subiscono solo le donne ma anche uomini e ragazzi. Anche da parte di molte donne, che non vogliono discriminare gli uomini picchiati e i giovani violentati. Questa volontà di spostare l’attenzione dalle donne, tutte le volte che viene affrontata la questione della violenza maschile, è in realtà un modo di sviare l’attenzione dal fatto che chi la commette sono uomini. Un nodo per molti/e irrisolto, e noi cerchiamo di mantenere aperte le contraddizioni, non demordiamo.
Negli ultimi anni Catania è diventata anche e sempre più riferimento per molte realtà pacifiste a carattere internazionale. Per esempio, la Caravana migrantes buscando desaparecidos composta da donne e uomini provenienti da varie parti del mondo ogni primavera fa capo a Catania per incontrarci. Lo scorso aprile insieme a loro abbiamo accolto e sostenuto al porto di Catania le donne e gli uomini componenti l’equipaggio della nave Acquarius della Ong SOS Mediterranée e visitato la nave. Le Madres buscando desaparecidos intraprendono solitamente da Catania i loro viaggi annuali per sensibilizzare luoghi e genti riguardo la tragedia e l’ineluttabilità delle migrazioni. Con loro abbiamo messo a fuoco l’importanza di esporre durante le loro iniziative anche le fotografie delle figlie scomparse oltre a quelle dei figli. La primavera scorsa abbiamo avuto a lungo con noi anche la carovana Abriendo fronteras: oltre 250 donne e uomini provenienti dai paesi baschi che hanno visitato, manifestando con espressioni e performance dal carattere e dal linguaggio femminista soprattutto da parte delle donne componenti la carovana, i luoghi della militarizzazione in Sicilia e della reclusione dei/delle migranti (Cara e Cie siciliani di Catania, Pozzallo, Trapani, Lampedusa)… Voglio ricordare anche i giorni vissuti febbrilmente a fine agosto 2018 al porto di Catania insieme a oltre 3000 presenze tra donne e uomini per manifestare nelle forme più imprevedibili della creatività politica e per pretendere che le donne, i minori e gli uomini sequestrati a bordo della nave della Guardia costiera Diciotti venissero autorizzati a scendere. Finalmente vista la partecipazione di tante siciliane/i che non dismettevano il presidio e la protesta neanche di notte, e visto l’interessamento di Laura Boldrini, in un primo momento, che è riuscita a ottenere che le donne venissero ricoverate in ospedale, e della Cei dopo, trascorsa una settimana i e le migranti rimaste sulla Diciotti sono stati fatti scendere e assegnati a strutture Sprar (adesso chiuse) e strutture ecclesiastiche… Quelli/e che eravamo rimasti/e in forma stanziale al porto, avevamo dialogato con loro con fiaccole e varie emissioni luminose di notte, con musiche, canti, tuffi acrobatici che i e le giovani presenti facevano per tentare di raggiunge la Diciotti a nuoto, ed enormi scritte in inglese su striscioni con cui davamo il benvenuto e chiedevamo loro di non smettere di sperare e continuare ad avere forza e fiducia perché c’era chi era contento/a di saperli vivi e li avrebbe voluti in Sicilia!
In tutto questo fervore di attività, l’errore politico delle persone benintenzionate, e anche nostro, è stato quello di non aver saputo comprendere per tempo l’entità del malessere generale e di non aver avuto né desiderio di confronto né atteggiamenti di disponibilità al dialogo, quanto piuttosto di impotente disprezzo, verso coloro che non la pensavano allo stesso modo, definendoli populisti, ignoranti, creduloni, manipolabili… Non è stato valutato a dovere quel disagio sociale che aleggiava da tempo in Italia così come in molti altri paesi occidentali, disagio dovuto alla mancanza di una buona politica, dell’occupazione a favore dei/delle giovani costrette a loro volta a emigrare, della corruzione, del sessismo, dei brogli, della discriminazione sociale e culturale.
Adesso ci diciamo che la mediazione culturale la dobbiamo fare con le catanesi e i catanesi. Ma abbiamo perso molto tempo, ci dovevamo pensare molto molto prima. Recentemente a Catania abbiamo montato con le realtà con le quali collaboriamo, un gazebo in una strada del centro cittadino che ci vede presenti in una turnazione di donne e uomini che oltre a distribuire materiale informativo utile a stranieri/e e migranti di passaggio o stanziali a Catania, cercano di comunicare nella maniera meno animosa possibile e ascoltare uomini e donne che rifiutano la presenza dei migranti nel nostro paese. Stiamo cercando di modificare quell’atteggiamento “di sinistra” che ha causato rigide contrapposizioni nel modo d’intendere la questione e che nuoce fortemente al tentativo di dare corso a una reale convivenza con i/le migranti nelle città.
Note:
1- Faccio riferimento per questo ai film Terraferma del regista Crialese e Orizzonti mediterranei delle registe Maria Grazia Lo Cicero e Pina Mandolfo. E rimando per le altre questioni qui trattate anche ai film Come il peso dell’acqua e L’ordine delle cose del regista Andrea Segre, al film Dove bisogna stare e al libro Cicogne nere dell’eritreo Abdel Fetah.
2- L’opera-installazione artistica realizzata a Lampedusa nel 2015 dalla scrivente e dalle Mamme di Lampedusa dal titolo “La porta della Vita” rimanda, proponendo la figura simbolica della donna-mare Abissa che compare in prospettiva dinanzi alla porta, alla grandezza femminile che nella “questione migranti” e nel rispetto dell’ambiente e dell’esistente tutto, sa come procedere e dare sollecitazioni e indicazioni positive.
3- Sull’induzione alla prostituzione delle donne migranti, vedi l’ultimo numero speciale di A&P della MAG Verona, “Le Città all’opera”, dicembre 2018.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, del 3 febbraio 2019
Quello delle migrazioni è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Mi riguarda in prima persona e da diversi punti di vista. Devo la mia nascita all’immigrazione. Mia madre è italiana e mio padre un immigrato iraniano. Conosco quindi la fatica della ricerca delle necessarie mediazioni quando si incontrano mondi diversi.
La mia lingua madre è l’italiano, sono nata e cresciuta qui in Italia e ho la cittadinanza italiana ma tengo molto alle mie doppie origini che per me hanno significato una doppia appartenenza e contemporaneamente una doppia estraneità.
Dalla rivoluzione del ’79, per molti anni, la mia famiglia ha offerto prima accoglienza a donne, uomini e bambini che scappavano dall’Iran. Ho quindi familiarità con la determinazione e la forza del desiderio di felicità di chi lascia il proprio paese, andando incontro ad altro e altri, anche quando l’unico movente sembra essere la necessità che non lascia spazi di libertà.
Ho vissuto due volte l’esperienza dell’emigrazione, in condizioni molto diverse. A sedici anni ho dovuto lasciare la Sicilia, in seguito a minacce e intimidazioni mafiose, perché mio padre era uno degli imprenditori che si rifiutava di pagare il pizzo. Mia madre, per proteggerci, volle portare me e mio fratello a Milano. Siamo partiti di notte, di nascosto, senza salutare né amici né parenti. Per mesi non abbiamo potuto metterci in contatto con nessuno. Fu uno strappo violento.
E poi a trent’anni, con mio figlio ancora piccolo, ho seguito mio marito negli Stati Uniti, dove gli veniva offerta un’interessante occasione di lavoro e ricerca.
So quindi cosa significa dovere ma anche volere lasciare il luogo in cui si è nati e cosa significa ricostruirsi un mondo nel luogo in cui si arriva. Ma so bene che la mia è un’esperienza da privilegiati: ho comunque il passaporto giusto.
Per le mie origini, mi trovo in una posizione che non è fissa. Un punto di vista, il mio, in continuo movimento tra dentro e fuori. E quindi oggi la deriva nazionalista, il risentimento, l’odio, la criminalizzazione degli stranieri, espressioni come “sostituzione etnica”, mi colpiscono profondamente, mi sento chiamata in causa, parlano anche di me. Al di là del fatto che le mie preoccupazioni siano fondate, mi chiedo se in futuro ci sarà posto per me e i miei figli in Italia, se dovrò lasciarla e se ci sarà un luogo in cui saremo accolti.
La violenza delle parole che circolano, i numerosi episodi di violenza razzista contro stranieri o italiani dalla pelle nera, mi fanno paura. E allo stesso tempo molta rabbia, mi sento tradita. E mi chiedo che effetto faccia tutto questo sui giovani immigrati, sui giovani di seconda e terza generazione. Mi chiedo che futuro stiamo costruendo con loro.
Come parte di questa comunità che è l’Italia, inserita in una più grande che è l’Europa, io vivo sulla mia pelle quotidianamente le difficoltà della crisi economica. Conosco la fatica del non lasciarsi annientare dal senso di impotenza e anche di umiliazione, a cui vorrebbe condannarmi un sistema, enormemente più grande di me, che detta spietate regole ma che mi vuole responsabile dei miei fallimenti, in quanto imprenditrice di me stessa.
Ma oggi quello che mi procura più dolore è il sentirmi complice di politiche direttamente responsabili della morte, della tortura e del trattamento disumano a cui vengono condannate le donne, i bambini e gli uomini che lasciano i loro paesi, perché devono o perché vogliono, mossi dal desiderio di una vita migliore per sé e per i propri cari.
Nell’articolo Migranti e la catastrofe umanitaria dell’Europa, Franca Fortunato cita Simone Weil: «Ogni volta che dal fondo di un cuore umano risale quel lamento infantile che Cristo stesso non riuscì a trattenere “Perché mi si fa del male?” vi è certamente ingiustizia».
E questa ingiustizia è sotto i nostri occhi. È perfino esibita e rivendicata come successo politico. Sappiamo delle morti, sappiamo della feroce violenza subita dalle donne nel loro viaggio, cosa accade ai loro bambini; quali sono le disumane condizioni di vita negli hotspot (centri di identificazione e registrazione) delle isole greche in seguito agli accordi tra Ue e Turchia; cosa sono i lager libici dove, grazie al pilatesco accordo con la guardia costiera libica, facciamo respingere bambini, donne e uomini. Insomma sappiamo tutto. E per me è diventato insopportabile assistere a questa ingiustizia.
Ci siamo confrontate moltissimo in redazione e so che questo è un sentire comune a molte di noi. Anche a quelle di noi che temono le migrazioni di massa, che nella storia dei popoli hanno spesso significato la cancellazione della civiltà che le precedeva, ma sanno che oggi è diverso: oggi è possibile la scommessa politica femminile, che apre a nuove possibilità.
È da tempo che voglio scrivere per porre la questione e non ci sono riuscita. Anche scrivere questa breve relazione è stato difficilissimo. Ho capito che lo scacco nasceva dall’obiettivo, troppo ambizioso per me, di trovare la soluzione, mentre non è di questo che si tratta.
E per cominciare a ragionare insieme, voglio dire della mia difficoltà.
Mi sono ammutolita, paralizzata. Da una parte, in cerca di un’intuizione geniale che indicasse la direzione, fuori dagli schemi contrappositivi e cercando di non tralasciare nessuna delle questioni implicate in questo problema e di cui comunque voglio elencare almeno alcune:
- la crisi economica e le scarse risorse che ne conseguono;
- le ansie e le paure degli europei che, lasciate senza senso, si prestano alla manipolazione che esita nel populismo;
- la catastrofe climatica, la geopolitica, il colonialismo e il neocolonialismo;
- la ferocia del neoliberismo e la sua governance delle migrazioni;
- il concetto di esclusione, alla base della costruzione del senso di comunità che fonda la Nazione e il pericoloso paradosso, di cui l’umanità ha già visto le possibili mortifere conseguenza, per cui quelle che vengono chiamate politiche di accoglienza si traducono e si riducono in politiche di esclusione (come evidenzia Donatella Di Cesare in Stranieri residenti), che consistono unicamente nell’esercizio del potere di stabilire e nell’imporre i criteri di selezione della convivenza umana: cominciando dalla distinzione tra profughi e migranti economici, si va dal criterio del sangue dei sovranisti, alle competenze del capitale umano proposte dal neoliberismo.
- L’urgenza di una politica dell’accoglienza condivisa realmente con l’Europa e la necessaria riforma del trattato di Dublino (di cui con passione si occupa l’europarlamentare Elly Schlein), incredibilmente osteggiata proprio dalle forze politiche che accusano l’Europa di avere abbandonato l’Italia.
E mi sono ritrovata ammutolita anche dalla preoccupazione di non apparire buonista, in un momento in cui pare che la bontà, già peccato di ingenuità, stia diventando anche nel senso comune sanzionabile, perché sovversiva nel senso deteriore, dopo che anche la legge, con gli attacchi alla ong, ha cominciato a suggerire il capovolgimento per cui il reato è il soccorso e non l’omissione di soccorso.
Eppure qualcosa sta cambiando. Io credo proprio per l’intollerabilità dell’ingiustizia a cui assistiamo.
Forza buoni, titolava la copertina dell’Espresso di qualche settimana fa, con un numero in cui si parla dell’Italia delle reti sociali, delle forme di associazione tra italiani e stranieri e tra società civile e comunità religiose, dei progetti di solidarietà che nascono dal basso su tutto il territorio nazionale per fare fronte alle difficoltà e la crescente povertà, della disobbedienza civile dei sindaci oltre a quella delle ong.
E io voglio ricordare l’Italia dell’immediata reazione della società civile con la raccolta fondi che di fatto neutralizzava l’ordinanza del comune di Lodi che impediva ai bambini stranieri l’accesso al servizio mensa. O anche l’esperienza di Caserta, dove le fasce più deboli e gli stranieri hanno stretto una sorta di alleanza e così i migranti dello Sprar hanno chiesto di usare il premio ricevuto dalla città di Caserta per la sua attività di accoglienza dei migranti, per finanziare i buoni libro per le famiglie in difficoltà della città.
Nello stesso articolo dell’Espresso si cita una ricerca americana (di Lara Putnam e Theda Skocpol), che mostra che le donne entrate in politica negli Stati Uniti non hanno fatto il loro percorso all’interno dei circuiti della politica istituzionale dei partiti, ma nelle reti civiche locali.
C’è sempre più libertà femminile nella vita pubblica. Lo registra anche un’altra ricerca, questa volta di Médecins Sans Frontières, che rileva che sul territorio italiano le situazioni in cui si pratica accoglienza al di fuori delle istituzioni sono popolate da donne.
Voglio nominare Ada Colau, sindaca di Barcellona, sempre più convinta della sua scommessa sulla municipalità «soprattutto perché le città sono il luogo della prossimità, della vita quotidiana, dove l’Altro non è un’astrazione, ma è il mio vicino di casa, lo conosco», dice nell’intervista pubblicata su Left. E ancora dice che «Il femminismo è legato a doppio filo al municipalismo perché propone cambiamenti che devono prodursi nell’ambito della vita».
E in effetti è nei contesti reali che abbiamo visto una vera politica dell’accoglienza, non intesa come assistenzialismo e oltre la logica dell’emergenza, esperienze nate dal basso che sono diventate modello di convivenza con vantaggio reciproco per la comunità che accoglie e per chi arriva. Nomino fra tutte l’esperienza di Riace, perché diventata simbolo di una convivenza possibile perché reale (e quindi purtroppo da cancellare), ma tantissime sono le realtà in tutta Italia in cui questa politica ha funzionato.
Dalla ricerca di MSF nasce il documentario Dove bisogna stare. «Questo documentario racconta di una possibile risposta a questi tempi cupi. Non racconta l’immigrazione dal punto di vista di chi sceglie di partire o è costretto a farlo: è innanzitutto un film su di noi, sulla nostra capacità di confrontarci con il mondo e di condividerne il destino», si legge nelle note di regia.
E le protagoniste sono quattro donne molto diverse tra loro, che trovano strade e pratiche diverse, in comune hanno che sanno dove bisogna stare (nei contesti in cui si è, lì dove le cose ci si presentano) e la consapevolezza che la loro è politica, non è buonismo né assistenzialismo.
Una delle protagoniste, una giovane donna di Como, raccontando la genesi del suo impegno dice che alla vista dei profughi ammassati per strada, a causa dell’inasprimento della chiusura della frontiera svizzera, quella non le è apparsa più come la sua città. È in quel momento che nasce il suo impegno. Mi sono riconosciuta in quella sua frase: non si tratta solo di aiutare chi viene qui, la posta in gioco è che umanità vogliamo essere.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, del 3 febbraio 2019
Invito alla Redazione allargata di Via Dogana 3
domenica 3 febbraio 2019 ore 10.00-13.30
Sempre più si sta aprendo uno spazio di libertà femminile nella vita pubblica. Pensiamo solo alla politica generativa di Ada Colau, sindaca di Barcellona, alle numerose donne entrate di recente al Congresso degli Stati Uniti sulla spinta del #metoo e delle reti sociali, all’ambizioso piano di Non una di meno, alle reti di donne che si sono create in varie città italiane. In questo orizzonte vogliamo trovare parole – non solo contrappositive o aderenti alle politiche (vere o presunte) già in atto – su uno dei più pressanti e tragici problemi del nostro tempo, quello delle migrazioni. La proposta politica da discutere insieme è quella di agire nel corpo sociale con parole, immagini, pensieri positivi e iniziative che possano ridurre le paure e aiutare la convivenza.
Avvieranno la discussione Tahereh Toluian e Anna Di Salvo.
Cara Luisa Muraro, sento profondamente vero che nulla di essenzialistico vi è nell’idea di differenza sessuale che costantemente affini e che mi fa da bussola. La mia storia personale si racconta secondo il principio che illustri, che la differenza sessuale consiste nelle differenze tra donne. Ma è come se infilassi la tua stessa collana a partire da un altro grano.
Da giovane avvertivo la maggior parte delle donne così distanti, dissimili, che la differenza sessuale, come accettazione di similitudine con le altre, tutte le altre, era quasi da capogiro. È stata solo la garanzia, la rassicurazione che non di uguaglianza o di sorellanza si trattasse, ma di differenze tra donne, a farmi accettare il mio essere simile, le mie simili.
Trovo quindi perfetta per me la precisazione che la differenza non è “tra”, ma “in”. Intendo così le tue parole: che la differenza non è uno spazio o un intervallo, fisico, mentale o relazionale. Si può, si deve (?) lavorare per costruirlo. Ma la differenza è “in”, è in me che scopro, accetto che io sono donna. È la differenza “in” me che apre uno squarcio anche sul panorama che tu spesso nomini, mi pare, come differenza “di me con me”. La luce che inonda lo scenario è la possibilità di contemplare le “differenze” che mi attraversano e che riguardano in infinita varietà tutte le altre.
Da questo punto fermo ho potuto accettare la differenza che mi ha reso simile, “la differenza sessuale” diventata per me principio evolutivo, che mi ha portata con il tempo e il lavorio del pensiero ad essere e sentirmi donna tra donne. È stata questa, propriamente, la mia nascita alla cultura.
Si è aperta anche, così, la più prossima delle possibilità di un mondo del “tra”. Da costruire, tra donne e tra donne e uomini. Un mondo, un noi, a proposito del pronome che tante volte sembra fare problema e che mi è caro, perché il tra donne, per me lontano da sentimenti di uguaglianza o di sorellanza, è stato una conquista: una continua risignificazione delle differenze tra noi, fuori dagli schemi delle discipline e della cultura corrente, ispirato dalla differenza sessuale: con le tue parole “principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana”.
– “La lingua batte”, domenica 2 dicembre 2018, Rai radio3, podcast, https://www.raiplayradio.it/audio/2018/12/La-lingua-batte-6feecfcc-deb1-4d25-802f-6f71ae37b816.html
– Lia Cigarini, La battaglia della narrazione, in “Sottosopra” Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda, settembre 2018.
– Paola Di Nicola, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, HarperCollins 2018.
– GiULiA giornaliste, Stop violenza: le parole per dirlo, GiULiA 2017.
– Chiara Zamboni, intervento in Linguaggio e politica, IAPh 8 dicembre 2015, audiofile, http://www.iaphitalia.org/quarto-incontro-linguaggio-e-politica-intervento-di-chiara-zamboni/
– Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, GiULiA giornaliste, http://www.accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf
– Chiara Zamboni, Lo splendore di avere un linguaggio, Intervento al Convegno internazionale “Culture indigene di pace”, Torino 23-26 aprile 2013, http://www.associazionelaima.it/intervento-di-chiara-zamboni/
– Vita Cosentino (a cura di), Lingua bene comune, Città Aperta Edizioni 2006.
– Chiara Zamboni (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il Poligrafo 2006.
– Chiara Zamboni, Parole non consumate, Liguori 2001.
– Eva-Maria Thüne (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Sellier 1998.
– Luisa Muraro e altre/i, Lingua e verità. Emily Dickinson, Teresa di Lisieux, Ivy Compton-Burnett, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 1995.
– Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, “aut-aut”, n. 260-261, 1994.
– Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 1992 e 2006.
– Luce Irigaray, Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti 1991 (esaurito).
– Luisa Muraro, La lingua batte dove il dente duole, il manifesto, 2 giugno 1988 (https://puntodivista.libreriadelledonne.it/la-lingua-batte-dove-il-dente-duole/).
– Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, e Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Istituto Poligrafico dello Stato 1987 (esauriti, si trovano sul sito Pari opportunità o su uniroma.it).
– Patrizia Violi, L’infinito singolare, Essedue 1986 (ebook 2014 http://ebook.women.it/prodotto/linfinito-singolare-patrizia-violi/)
Sono andata a rivedermi alcuni scritti miei e di altre donne che risalgono a tanti anni fa, durante i percorsi comunicativi sull’identità e sul desiderio femminile, percorsi frequentati principalmente da donne. In ogni percorso, a un certo punto si presentava la domanda su che cosa fosse, in realtà, la differenza sessuale, dopo il riconoscimento biologico. Soprattutto perché veniva fatta confusione tra la differenza sessuale, la differenza tra donne e tutte le altre differenze.
A un certo momento, mettendo insieme gli scritti di molte donne, emergeva una consapevolezza personale e anche comune. Abbiamo raccolto le parole, prendendole dall’una e dall’altra e ci siamo dette: Sono Donna differente dall’uomo e mi riconosco nelle altre donne mie simili. Ognuna di noi può dirsi e dire: Sono Donna Originale Unica Diversa (da ogni altra donna), e Questa consapevole realtà fa la differenza sessuale femminile.
Per me e per parecchie altre donne è stata importante quella presa di coscienza. La differenza è in ciascuna di noi in relazione con l’altra, proprio così.
Da allora credo di avere intuito o individuato la differenza IN maschile di alcuni uomini, naturalmente tra quelli con i quali ho potuto comunicare, approfondire e interrogare, capire la distanza che c’era tra me e loro, chiedere di dirmi la visione che avevano di se stessi – che li metteva in difficoltà – ascoltare la loro visione delle cose e del mondo di cui, mi pareva, sapevano tutto con sicurezza e senza imbarazzo.
Noi donne nominiamo la nostra differenza sessuale femminile e sappiamo di averla dentro e la significhiamo con le nostre parole dicendo come stiamo e vogliamo il mondo.
Gli uomini, in generale, ci hanno sempre mostrato e continuano a mostrare il risultato del loro stare nel mondo: quello che hanno imparato e sanno, quello che hanno il potere di dire, fare, comandare e governare. A tutti i livelli.
Hanno una grande difficoltà a capire che cosa vuol dire partire da sé e di conseguenza non possono creare quella cultura radicata al proprio essere maschile perché, normalmente, partono dal fuori di sé.
Mi pare che la differenza in del maschile gli uomini non la dicano, pare che non la sappiano dire. Non nominano la loro differenza e alcuni uomini dicono di riconoscersi proprio nella differenza femminile e si definiscono femministi. Si riconoscono nella differenza femminile che però, mi pare, resta fuori-altra da sé. Infatti ci sono uomini che lasciano ben sperare perché, attratti dal modo di essere ed esistere della differenza femminile, si presentano con attenzione, disponibilità e desiderio di partecipare e vivere nel mondo desiderato e creato dal femminismo.
Penso che ci sia un rischio, però, di superficialità quando un uomo si definisce femminista, perché può venire facile mettersi in quella posizione e fermarsi là, facendo coincidere la sua differenza con quella femminile, sovrapponendosi o aggiungendosi alla modalità della differenza femminile. È una situazione che può impedire di accorgersi che, per stare bene e governare il mondo insieme donne e uomini, un uomo ha da nominare la sua differenza in (quella che è emersa in lui, dopo il patriarcato) e darle il nome a partire da sé, con profondità e consapevolezza, mettendosi di fronte alla già esistente differenza femminile nominata.
Leggo il Corriere della Sera da quarant’anni e ha ragione Giovanna Pezzuoli quando afferma che sui media, specialmente quelli italiani, c’è scarsa attenzione e comprensione della politica delle donne: ma non è tutto. Se alcuni affermano – come fa Saviano – che le manifestazioni del #metoo hanno un “sapore antico” è perché sono loro che hanno uno sguardo antico, come anche la giornalista dice alla fine della sua introduzione. Ma noi gli occhi nuovi per vedere ce li abbiamo e non possiamo non notare ciò che è cambiato.
Tanto per fare un esempio, quarant’anni fa un articolo come quello di Pierluigi Battista Uomini assenti sul caso Weinstein (6/10/2017) a proposito di Asia Argento nessuno lo avrebbe mai scritto sul Corriere; e lo stesso si può dire di altri interventi su questo giornale: come più recentemente Se le donne tornano in quota (21/11/2018) dove Marco Garzonio afferma, sia pur tra qualche ingenuità, che «non è questione di quote rosa, ma di cambio di mentalità: di rivoluzione culturale».
O ancora Paolo Lepri che nella sua rubrica Facce nuove («Il diario pubblico di Mahdia Hosseini», 4/1/2019) commenta le parole scritte da questa giovane donna afghana sul Migratory Birds, il giornale da lei fondato insieme a quindici ragazze del campo profughi di Schisto in Grecia.
Quello che trovo interessante è che non solo sta cambiando lo sguardo degli uomini – di alcuni uomini – sulle donne, ma sul loro essere maschi: negli anni precedenti non sono mancate iniziative in questo senso, come quella di Maschile plurale (www.maschileplurale.it) o interventi su giornali come Il Manifesto o riviste come Via Dogana – dove ha scritto per esempio Alberto Leiss – ma erano esperienze minoritarie che non conquistavano la grande stampa come oggi: segno che il senso comune sta cambiando.
E non solo sulle pagine dei quotidiani: ultimamente è uscito il romanzo di Francesco Piccolo “L’animale che mi porto dentro”, che ha provocato giudizi contrastanti sia fra gli uomini che fra le donne.
L’ho comprato subito e in prima pagina ho trovato due citazioni: la prima ci parla di ciò che l’ha spinto a scrivere:
«Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio». Simone de Beauvoir, Il secondo sesso.
La seconda ci dice a chi ha rubato il titolo:
«L’animale che mi porto dentro/ non mi fa vivere felice mai/ si prende tutto/ anche il caffè/ mi rende schiavo delle mie passioni», Franco Battiato, L’animale.
Il romanzo, scritto da Piccolo con leggerezza e la consueta ironia, ha un inizio scoppiettante e segue il protagonista durante la sua formazione nel branco dei maschi, cercando di capire come dal ragazzino che piange disperato per amore su una panchina sia venuto fuori l’energumeno che nel campo di basket prende a pugni l’avversario e gli sputa in faccia. Insomma come sia diventato stocazzo.
Penso che questo sia un romanzo coraggioso anche se parla più agli uomini che alle donne – noi certe cose le sappiamo già: ho trovato molto divertente il personaggio della moglie, che quando lui vuole parlare gli volta le spalle e comincia a occuparsi di un’altra cosa perché pensa che discutere con lui sia una perdita di tempo, costringendolo così ad inseguirla.
Del fatto che questo libro parli di più agli uomini, ho avuto una conferma giorni fa: ero al bar che ne discutevo con un’amica quando un avventore a me sconosciuto si è inserito nella conversazione e poi si è scritto il titolo su un tovagliolino con l’intenzione di comprarselo. L’ho incontrato qualche giorno dopo e lo stava già leggendo. Non mi era mai capitato.
Per concludere: non è vero che non c’è niente di nuovo sotto il sole, bisogna vederlo se vogliamo che uomini e donne imparino a parlarsi.
Care tutte, seguo il ragionamento di Luisa Muraro nell’articolo «Differenze tra donne, differenza sessuale» (18/12/2018) come lo ho capito:
La differenza è in, quindi c’è, è “prima”. Come lo so? Affermandola. Se c’è, cosa è? Si mostra, si dice.
È sostanza ma non cosa, c’è se la affermo per me e per le altre, ed è nel rapporto con le altre che si significa. È il meccanismo dell’Io penso-con, la differenza.
Ma l’Io penso-con ha già in sé la differenza perché io sono come mia madre e mia madre me lo ha comunicato (e ugualmente comunica la differenza a chi non è come lei).
Eccola qui, aerea e imprendibile nella sua sostanza ma esplicita e grandiosa nella sua incarnazione, come la figura un po’ troppo disincarnata dell’Assunta.
Ciao, Cristiana Fischer
La discussione sull’intersezionalità nata nell’incontro di #VD3 del 2 dicembre 2018 è risultata più ricca e interessante di come di solito succede. Se ne coglie meglio l’aspetto positivo, che è quello di cercare una chiave per rapportarsi alle differenze fra donne, di cercare di capire le altre.
Carlotta ci ha raccontato com’è nata la parola. L’avvocata Kimberlé Crenshaw l’ha coniata nel 1989 durante una causa per il reintegro di lavoratrici licenziate da un’azienda, che erano tutte nere. La difesa dell’azienda respingeva le accuse di comportamento discriminatorio con quest’argomento: non era discriminazione contro le donne, perché non aveva licenziato tutte le lavoratrici (solo quelle nere), né discriminazione razziale, perché non aveva licenziato tutti i dipendenti neri (solo le donne).
Carlotta dice che si tratta, per lei, di una lente metodologica di cui aveva bisogno per leggere la sua vita e quella delle altre.
A mio avviso, l’avvocata si è trovata nell’urgenza di trovare una parola che rendesse dicibile l’evidente ingiustizia che l’azienda negava. La parola ha avuto il merito di farlo. Resta legata, però, a un’ottica di contrasto delle discriminazioni, proprio perché nata in una causa legale in cui i dispositivi antidiscriminatori erano l’elemento cruciale per tentare di far annullare il licenziamento. Ed è questo il punto debole: dall’associazione con le discriminazioni, e per estensione con le oppressioni, l’uso del concetto di intersezionalità scivola facilmente in quella banalizzazione che la fa percepire, talvolta da chi la sente, talvolta da chi la usa, che mescola i piani tra quello che si è per nascita e per storia e le ingiustizie subite, per esempio essere donna ed essere supersfruttata, riducendo tutto a una somma di oppressioni: essere donna, essere nera (per restare all’esempio del caso giuridico) rischiano di diventare “oppressioni”. E, no, io sono una donna, non un’“oppressione”. Ci sono gli uomini, o c’è il patriarcato, che vogliono opprimermi o ridurmi all’insignificanza, ma io sono una donna e non voglio essere altro. Lo stesso vale per chi è nera, per chi è lesbica.
Allora mi atterrei a qualche considerazione: una è che occorre uscire dall’ottica antidiscriminatoria, e usare la parola “intersezionalità” solo con proprietà e precauzione, e ascoltarla con estrema attenzione a come viene usata, evitando e facendo evitare banalizzazioni.
Un’altra è pensare a sé come soggetti in relazione con altri, riducendo al minimo le categorie interpretative “oggettive” da applicare a sé e alle altre a favore della pratica politica del partire da sé, del cercare la propria verità soggettiva, che non è l’individualismo ma la consapevolezza che ciò che vivi realmente non può essere azzerato da ciò che altri (o altre) dicono di te. Allora non sarà più una lente metodologica applicata da me all’altra a farmi capire le sue differenze da me e quello che abbiamo in comune, ma quello che l’altra mi dice di sé e il suo sguardo su di me, che io ricambio e confronto con la mia verità soggettiva, a fare luce sulle differenze tra donne e a dare misura a entrambe. Una misura che non è l’oppressione ma il desiderio politico. Un esempio? Riconosco autorità a Audre Lorde, femminista, nera e lesbica. Lei diceva: «Fate delle vostre differenze la vostra forza». È questo.
L’importanza politica dell’intersezionalità consiste nella sfida di accordare le differenze tra esseri umani con il principio di uguaglianza. Altrimenti, il principio dì uguaglianza comunemente riconosciuto si trasforma in un fattore di appiattimento che di fatto conferma vecchie ingiustizie o ne crea di nuove. Basta pensare alla nozione post-patriarcale di genitorialità che cancella la differenza sessuale e rende invisibile il contributo femminile alla procreazione.
Nella politica delle donne, la nozione d’intersezionalità si afferma esplicitamente, a cominciare dagli Usa, con la contestazione della presunta sorellanza femminista da parte delle afroamericane.
Finora io, come tante altre, ho riflettuto su questo problema nei termini posti dalle differenze tra donne, come differenze di situazione familiare, di condizione sociale, di privilegi sociali, di provenienza geografica, differenze nei rapporti con gli uomini, di collocazione nel gruppo stesso che si frequenta… Dunque, non sono soltanto quelle prese in considerazione dalle teoriche dell’intersezionalità, che di solito coincidono con le categorie fatte oggetto di analisi sociologica e storica; altre ce ne sono, percepite nelle relazioni tra donne a partire dalla propria esperienza vissuta come anche dalla conoscenza della realtà circostante. Per esempio, negli anni Settanta la scarsa presenza di operaie tra noi si faceva notare. Ed è in questi termini che darò il mio contributo.
Per me, il femminismo comincia nell’atto di riconoscere che io sono una donna e di rispecchiarmi, quindi, come essere umano nelle altre donne, prima che negli uomini. Ma tra me e le altre donne ci sono molte differenze. Tuttavia, per quanto grandi, non previste e non pacifiche, queste differenze non mi fanno sentire altra dal genere umano femminile né mi fanno dire che quelle non sono donne. Ed è in questo punto che ho trovato la risposta a una domanda che mi viene posta quando respingo la critica di essenzialismo rivolta al femminismo della differenza.
La domanda è questa: ma allora, se non teorizzi un’essenza umana femminile differente da quella maschile, in che cosa consiste la differenza sessuale negli esseri umani? La risposta ha due passaggi. Primo: sia chiaro che la differenza sessuale non è tra uomini e donne, sarebbe insensato perché, se distinguo i due sessi, maschile e femminile, vuol dire che la differenza ha già operato; diciamo perciò che la differenza sessuale è in. È in me, per cominciare, per cui dico: «io sono una donna». Secondo: la differenza sessuale che ha già operato, traspare con il mio (tuo… nostro, vostro…) riconoscermi nelle altre donne. Essa consiste dunque nelle differenze tra donne; ma non è una consistenza, è un principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana.
Questa, per ora, è un’intuizione; sento che è buona ma devo rifletterci e qui la espongo quasi per la prima volta, sperando nei commenti di chi mi leggerà.