Nella sua relazione introduttiva all’incontro di VD3 «La differenza sessuale alla prova del presente», Stefania Ferrando, riferendosi alle riflessioni di Hannah Arendt sui “tesori perduti” delle rivoluzioni moderne, scrive che oggi la prova per la rivoluzione femminista è non perdere i nomi che ci consentono di dire l’esperienza e la libertà, le trasformazioni di sé e del mondo.

Questi nomi, mi è venuto da pensare, non li abbiamo perduti, continuano a circolare tra noi e nel mondo, anche se oscurati e minacciati dall’avanzata del nuovo neutro di cui parlano Zamboni e Sattler. Si tratta semmai di rilanciarli mettendoli così alla prova del presente. Il primo nome che mi viene in mente e che per me è alla radice del pensiero della differenza sessuale è “genealogie femminili”; un nome potente che sta nell’esperienza di tutte, anche delle non femministe. Penso alla mia mamma che quando era incinta di me sognava e desiderava mettere al mondo una bimba perché – diceva – le figlie sono sempre vicine alle madri. Mia mamma era una donna semplice, aveva fatto la terza elementare eppure quella cosa che noi chiamiamo il continuum materno lei la sentiva. Dentro di sé, come figlia di sua madre, mia nonna, e come madre della figlia che ha poi felicemente partorito. In questo momento io e alcune amiche pisane stiamo lavorando sui testi de «La carta coperta» e tra noi c’è una ragazza giovanissima (22 anni), molto intelligente, militante di Potere al popolo e consigliera comunale a Livorno. Una ragazza impegnata nel sociale, nell’oggettivo economico. Un pomeriggio io e lei ci siamo incontrate e abbiamo parlato a lungo di femminismo e di pratica dell’inconscio, del partire da sé, della disparità tra donne e della pratica dell’affidamento, di autorità femminile, in uno scambio che teneva conto delle nostre diverse età ed esperienze. Ed era straordinario come quei nomi della rivoluzione femminista la toccassero profondamente come qualcosa in cui riconosceva se stessa. «Il sentire, la sensibilità, la sessualità, l’esperienza», diceva, «sono fuori dalla politica che io e altre ragazze facciamo, ma dobbiamo riprendercele, farle agire».

Il nostro “tesoro” – mi dico – non andrà perduto fintanto che ci saranno ragazze disposte a riceverlo in nome delle genealogie femminili, ossia di una tradizione che riconosce nella relazione madre-figlia la matrice di un nuovo tessuto sociale e di un nuovo ordine simbolico. Certo, dipende da noi, dal nostro desiderio, dalla nostra pazienza, dalla nostra generosità, dal nostro coraggio. La mia relazione con questa ragazza che ha un nome bellissimo, Aurora, e la relazione con le altre amiche con cui leggiamo «La carta coperta», e le relazioni che a partire da questo primo piccolo gruppo costruiremo è un gesto politico che intende opporsi all’avanzata del nuovo neutro, alle ossessioni identitarie anche femminili (le vere donne, le vere madri, le vere lesbiche, le vere femministe ecc.), e rimettere in gioco nella pratica e nel pensiero il senso libero della differenza sessuale. Ossia un movimento che tenga insieme la trasformazione di sé e del mondo che è l’eredità luminosa e ancora operante seppur tra mille ostacoli, del femminismo degli anni Settanta.

Tra le cose che sono state dette, mi ha colpito la domanda che Chiara Zamboni ha riportato qui tra noi. In un dibattito ad un certo punto una tale (una studentessa?) le ha chiesto: ma allora che ne sarà della (mia) esperienza?

Prima di me, la domanda ha colpito Chiara e giustamente, c’è infatti da preoccuparsi per la sorte della nostra esperienza… nostra? Pare invece che sia sempre meno nostra e quindi sempre meno esperienza. In un libro ormai celebre, Il capitalismo della sorveglianza (Luiss U.P., 2019) di cui si è cominciato a ragionare qui in Libreria su iniziativa di Laura Colombo, l’autrice Shoshana Zuboff ha illustrato in maniera convincente il processo di formazione di un nuovo capitalismo che trae i suoi profitti dall’appropriazione della nostra stessa esperienza, esproprio reso possibile dai prodigiosi progressi dell’informatica. Quest’ultima, che sembrava dover essere un benefico fattore nell’ambito dell’informazione e della comunicazione globali, sta diventando, come dimostra Zuboff, una tecnologia che impoverisce gli umani della loro vita interiore e relazionale (rendendoli prevedibili) a vantaggio di minoranze privilegiate (i “nuovi poteri”) che non rendono conto di sé a nessuno.

Attenzione, non parlo del futuro; questo è quello che capita. A noi in Libreria è già capitato di dover soffrire delle perdite nei nostri rapporti.         

Il femminismo è un campo di battaglia, mi piaceva dire una volta. Lo è ancora un campo di battaglia, ma con il sistematico ricorso ai mezzi digitali rimodellati secondo gli interessi del grande capitale, il campo di battaglia rischia di diventare come i campi trattati con i diserbanti della Monsanto, o come le trincee della prima guerra mondiale quando si usavano i gas nervini. Inquinato, tossico. La realtà virtuale prende il posto del tempo e dello spazio. La presenza altrui perde di significato, come anche l’assenza; nel vuoto subentrano sigle e schieramenti che possono cambiare, gonfiarsi, sparire e ricomparire, non si sa come. I nomi delle persone diventano dei segnali, le parole vanno a una velocità che non lascia il tempo di pensare né di vivere l’esperienza relazionale, che è indispensabile per avere un felice rapporto intimo tra sé e sé.

Il movimento femminista ha preso lo slancio proprio da un’esperienza di questo tipo, insieme relazionale e intima. E si è sviluppata quella che possiamo considerare una rivoluzione simbolica e sociale, la prima senza morti e senza condanne a morte.

E adesso? Adesso ci troviamo in un nuovo campo di battaglia con una posta in gioco altissima. Io dico: stiamoci (ci sono forse delle alternative?) con tutta la necessaria consapevolezza. Ma con quali armi per combattere? Se è vero, come temo, che i mezzi che un avversario strapotente lascia nella nostra disponibilità, sono trappole?  

La mia risposta è relativamente semplice: vinceremo con l’autenticità della presa di coscienza, con la ricerca della verità soggettiva, con la pratica delle relazioni, con la fiducia nelle altre donne, insomma con tutte le armi che sono la posta in gioco, il tesoro stesso che non vogliamo perdere, senza il quale saremmo perdute in partenza. Non ho detto che sia facile.

Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 9 febbraio 2020, La differenza sessuale alla prova del presente

Le parole “differenza sessuale” sono diventate impronunciabili nel contesto in cui lavoro da alcuni anni (l’università francese). Anche la parola “donne”, soprattutto se riferita a sé (per dire, ad esempio “sono una donna”, “siamo tra donne”) è usata con molte cautele e imbarazzi. Quando si impiegano queste parole, accade così di essere richiamate all’ordine e accusate di usare termini non scientifici, legati a lotte politiche sorpassate, ma anche parole violente o escludenti. Le volte in cui è capitato a me di essere richiamata all’ordine, il richiamo non è venuto dalla collega trans né dagli studenti che lottano perché l’università accetti il loro nuovo nome e non quello dei documenti ufficiali. Il richiamo all’ordine è invece venuto da alcuni uomini, intellettuali radicali, o da donne che ne hanno fatto uno strumento in strategie di potere e di carriera. E secondo me è l’esperienza di molte, nell’università.

Si impone così un linguaggio senza “differenza” e che di fatto rende sempre più difficile dare un senso libero e politicamente potente alla parola “donne”. Eppure quel che vedo nelle pratiche di ricerca e insegnamento, parla un altro linguaggio: l’università è un luogo in cui ci sono tante studentesse e ricercatrici che possono prendersi autorità e esercitare libertà. Alcuni giorni fa sono stata a un seminario organizzato da alcune colleghe antropologhe che, per studiare la mafia, hanno dovuto trasformare il modo di pensare il rapporto tra corpo e politica e anche di vivere il proprio corpo di ricercatrici (si chiedevano ad esempio come fare in modo che quel che si avverte, visceralmente, quando si vede un morto ammazzato per strada possa tradursi nel linguaggio dell’antropologia). Hanno introdotto pratiche di insegnamento e di ricerca innovative e si vedeva che tra loro circolava autorità e libertà, e quindi intelligenza e felicità, e che traevano forza da questa collaborazione. E si vedeva, io vedevo, che questa libertà, autorità e intelligenza aveva a che fare con il loro modo di essere donne, di far giocare liberamente la loro differenza in quel luogo, tra loro e con noi. E nelle loro parole qualcosa di tutto questo traspariva, ma è restato sui bordi del linguaggio. Non si riusciva proprio a dire che sono delle donne che pensano insieme con libertà e che, facendo leva su questa relazione, trasformano la loro disciplina.

È importante dirlo o basta fare quel che si fa?

Nelle pagine in cui riflette sull’eredità senza testamento, Hannah Arendt parla dei “tesori” delle rivoluzioni moderne: la libertà e la felicità, che si incontrano e si praticano nei momenti di grande intensità politica e trasformano le relazioni con gli altri e la soggettività di ciascuno. Aggiunge però che la storia politica moderna è la storia di tesori perduti: tesori che emergono, brillano e poi scompaiono. Dopo un po’ quella libertà e quella felicità non si sa più che cosa siano. E così Arendt conclude: se perdiamo questi tesori è perché non sappiamo dare loro un nome. Con il trasformarsi delle esperienze, rinunciamo ai nomi che ci consentono di dire quel che è prezioso per noi, di riconoscerlo, di indicarlo ad altri, di rilanciarlo. Oppure irrigidiamo questi nomi, ne facciamo un guscio vuoto perché distaccato dalla vita concreta e dalle sue avventure.

Il recente incontro di Via Dogana dedicato alla questione della differenza aveva come titolo: La differenza sessuale alla prova del presente. Ecco, per me è questa la prova del presente: la prova per la rivoluzione femminista è non perdere i nomi che ci consentono di dire l’esperienza e la libertà, le trasformazioni di sé e del mondo. Non cancellare, nel linguaggio della ricerca e della politica, le parole che dicono la libertà e le invenzioni di donne. Ne va proprio del tesoro di questa libertà, del suo brillare per sé e per il mondo.

Ma che cosa porta a cancellare queste parole, oggi? Prima ho scritto che si incontrano spesso dei richiami all’ordine, a un ordine di rapporti di potere che cancella la differenza per riprodurre se stesso. Ma se fosse solo questo sarebbe relativamente semplice. Insomma, si tratterebbe di un conflitto, magari duro, ma in cui si lotterebbe con chiarezza interiore.

C’è però qualcosa che accade anche in sé, una resistenza o una censura che si avverte nel proprio modo di parlare e pensare. Questa cancellazione della differenza che trasforma il linguaggio e il pensiero è il problema importante che ha posto Traudel Sattler nel suo intervento introduttivo, quando ha parlato della politologa Antje Schrupp, che in passato ha contribuito a far conoscere il pensiero della differenza in Germania, ma che ora ha pubblicato un libro in cui non parla più di “madri” ma di “persone gestanti”.

Per spiegare meglio che cosa è, secondo me, questa resistenza interiore al libero significare della differenza, racconto un episodio. Un’amica faceva parte di un collettivo di donne, studentesse per lo più, ecologiste e femministe, che in quel momento stavano progettando di partecipare a una grande manifestazione a sud di Berlino, per il blocco di una miniera. Una di loro propone uno slogan “Clitoridi per il clima”, che piace alle altre: dalla penetrazione della terra e del corpo delle donne alla potenza della libertà femminista. Ma una ragazza si rabbuia: lo slogan è violento per le donne trans, che non possono riconoscersi in questo messaggio – dice. Cala un silenzio imbarazzato e confuso e poi ne discutono. La mia amica è spaesata, qualcosa le sfugge: tra loro, nel gruppo, non c’è una donna trans e la ragazza che ha sollevato l’obiezione non parte da uno scambio o da una discussione con una donna trans. Quando esplicita le sue ragioni, dice che teme in generale degli attacchi esterni e di prendere la posizione dell’“oppressore”. La discussione fa perdere di slancio alla creatività del gruppo, e alla fine decidono di usare semplicemente il simbolo femminista queer. L’accaduto lascia strascichi e insoddisfazioni, che portano alcune ragazze del gruppo a cercare scambi altrove. Ed è così che le ho incontrate.

Di questo racconto, mi colpisce che la presa in conto dell’altra, la donna trans la cui obiezione è anticipata, sia in realtà un evitamento della relazione e del conflitto reali, in carne e ossa e in presenza, con le mediazioni politiche e simboliche che il conflitto non distruttivo rende possibili e anzi necessarie. Nelle parole e nel gesto di quella ragazza c’è una colpa della differenza, la differenza d’essere una donna libera, che si cancella cancellando tutte le altre. Ma perché lei e il gruppo di ragazze alla fine accettano la cancellazione delle loro parole con un simbolo tanto inclusivo quanto vuoto?

Se penso a situazioni simili in cui mi sono trovata direttamente, mi vengono in mente due osservazioni.

La prima è che la differenza sessuale non è una differenza rassicurante, che assegna a un gruppo compatto (donne /uomini; donne/donne trans) e fa tornare i conti con sé stesse. La differenza non è “tra” è “in”, come scrive Luisa Muraro.Attraversa ciascuna, impedisce di fare uno con sé stesse, di soddisfarsi di sé e delle cose che si posseggono, di funzionare come un ingranaggio ben oliato nel sistema sociale. È una sfasatura in sé stesse, che è tanto l’apertura da cui spuntano invenzioni, desideri e relazioni, quanto la crepa da cui risalgono angosce e ombre. Così, la colpa della differenza è anche la colpa rispetto all’imperativo sociale della prestazione, del bastarsi a se stessi, contenendo o cancellando quel che di inquietante o trasformativo può venire dall’altra e da sé, in modo da non perdere l’efficacia soggettiva richiesta nei rapporti sociali e nel lavoro.

Ecco la seconda osservazione: l’inclusione che anticipa l’altra e la sua obiezione mi fa pensare al “falso universale” di cui parla Irigaray per descrivere l’inclusione patriarcale delle donne nello stato liberale moderno. L’integrazione in un “comune” che è svuotato di senso perché non si costituisce attraverso il rapporto, né a partire dalle esperienze e desideri di chi vi è integrato. E quindi di fatto continua a far valere una parzialità, maschile, cioè delle mediazioni esistenti e subite dalle donne e non trasformate dal pensiero né dalle pratiche di chi si trova in relazione. Anche nell’episodio riferito nel racconto c’è una cancellazione dell’esperienza e delle mediazioni, per le donne che sono lì, ma anche per chi è anticipata nelle sue domande e obiezioni.

Quando Irigaray ne parla, l’integrazione delle donne si fa nell’universalismo liberale patriarcale, in uno stato che include rendendo tutte e tutti dei cittadini neutri e neutralizzati politicamente (è un tema che ritorna nelle sue opere, ma penso particolarmente a Sessi e genealogie).

Ma oggi? In quale falso universale ci si include, oggi, quando si cancella la differenza, includendo anche le altre? Chiara Zamboni parla giustamente di un “ritorno del tutto nuovo e imprevisto – post-patriarcale – al neutro” (nell’introduzione al libro da lei curato, La carta coperta, Moretti&Vitali 2019, p. 10). E, nel suo testo per Via Dogana, La differenza sessuale alla prova del presente, Chiara lo spiega a partire dal rapporto particolare che ha con il linguaggio chi sostiene il superamento del genere: il linguaggio, i nomi e le distinzioni sono pensati e vissuti come una gabbia, un’imposizione che opprime, sottrae libertà e nega la singolarità. Non si tratta quindi dell’inclusione nel modello maschile presentato come modello universale (il Cittadino, lo Scienziato…), ma dell’assorbimento di sé e degli altri in uno spazio simbolico che si vorrebbe il più possibile indifferenziato.

In questo nuovo ritorno al neutro, io vedo anche questo: è così difficile pensare di avere qualcosa in comune con le altre e con gli altri, che si immagina di trovare qualcosa di comune in questo punto estremo di negazione della differenza, nella cancellazione della storia che ci ha fatte e che siamo, delle parole che ci accompagnano e che ci segnano. Come se questa negazione fosse l’unica condizione per pensare un mondo comune, anche se vuoto.

Ed è qui che, secondo me, si gioca la scommessa del femminismo oggi.

Innanzitutto penso alla pratica del partire da sé, del non cedere sull’esperienza, per fare leva su ciò che non si riesce a dire né a essere se si sta nell’indifferenziato. Il che vuol dire anche non cedere sulle pratiche politiche di confronto e di conflitto con chi l’accetta, cioè con chi riconosce la propria parzialità senza richiudersi su di essa. È questo che rende possibile aprire uno spazio comune, reale.

Ma c’è anche un’altra sfida, per me: che le pratiche di libertà delle donne (come le nuove pratiche di ricerca delle colleghe antropologhe di cui parlavo all’inizio) non siano un’oasi nel deserto, come direbbe Arendt, ma che diano avvio a una trasformazione del mondo intero (dell’università e del sapere, in questo caso). È un bisogno profondo che avverto: sentire che le invenzioni delle donne non sono uno spazio isolato di cui godono alcune quando tutto il resto va in rovina, perché non c’è più modo di pensare insieme agli altri un mondo nuovo e migliore. È questa, per me, la scommessa: mostrare che il libero significare della differenza è la risorsa per pensare una vita collettiva più libera e più giusta, per rendere possibile un altro lavoro e un’altra politica per tutti. È così che io ritrovo il tesoro della rivoluzione femminista.

Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 9 febbraio 2020, La differenza sessuale alla prova del presente 

La tentazione del neutro oggi viene anche da altre strade rispetto a quella diffusa neutralizzazione che è effetto dell’emancipazione, cioè dell’inclusione delle donne nel mondo maschile senza che le donne agiscano e segnalino in modo creativo la loro differenza. La tentazione del neutro sicuramente viene da un certo modo di intendere la tecnologia e il rapporto con il corpo. Ma qui mi vorrei fermare sul neutro che emerge dall’intenzione politica e culturale delle comunità lgbt di radicalizzare il superamento del genere.

Cercano di disfare il genere, in particolare il binarismo del femminile e del maschile. Partono dal livello della costruzione linguistica. Sono i più attivi critici del genere linguistico binario. Confondono il genere con il pensiero della differenza sessuale che in realtà non sanno mettere a fuoco. Infatti la rimandano ad una forma essenzialista, oggettivata. Non colgono così la specificità del pensiero della differenza sessuale, in cui natura e cultura sono legate in un percorso di soggettivazione a partire dall’esperienza.

In positivo: all’interno di queste comunità l’autorappresentazione in sigle linguistiche molteplici è una strada di lotta politica per difendere delle minoranze, e per dare voce a un disagio esistenziale. Si pensi anche solo ai trans. In questo senso è un’azione niente affatto neutra. Le riconosco un valore politico preciso. Tuttavia, alla fine, la stessa moltiplicazione di nominazioni viene sentita come qualcosa che si svuota di senso. Le identità sessuali plurime finiscono per essere a loro volta percepite come piccole gabbie linguistiche.

Ciò che vedo di vivo sono le azioni di lotta politica, dove in Italia c’è una egemonia del transfemminismo delle donne di Non una di meno. Accanto a ciò sul piano esistenziale, aggirata al limite ogni identità, restano i legami di relazionalità fluida, dove ognuno, ognuna è in quanto risponde alla relazione a cui viene chiamato da chi l’interpella. Come a dire: io sono in quanto sono chiamato e rispondo alla chiamata. Orizzontalmente. Considero questa una forma di neutro per dir così relazionale. Ricordo un amico che mi diceva: a seconda di come mi vedi e mi chiami, io allora sono femminile, o maschile o altro. La comunicazione si era interrotta quando gli avevo chiesto come rispondeva alla prima chiamata di sua madre.

Ho ascoltato Manuela Fraire a un convegno che trattava del pensiero della differenza sessuale e del genere fluido, organizzato dal Filo d’Arianna a Verona l’11 gennaio di quest’anno. Faccio riferimento al solo dibattito, dove stringeva all’essenziale le sue posizioni. Ora, anche lei si opponeva alle identità sessuate viste come gabbie linguistiche. E non aveva niente contro la fluidità vista in un percorso esistenziale. Ma ricordava che noi veniamo al mondo all’interno di una relazione primaria con nostra madre. Ovvero, che noi veniamo al mondo all’interno di una relazione che non abbiamo scelto e in cui siamo stati nominati. Rispetto alla quale siamo solo nella condizione di dipendere. All’inizio non c’è nessuna scelta da parte nostra. Questa prima relazione di differenza è ciò che rende possibile affrontare poi tutte le altre differenze.

La sessualità non è qualcosa di biologico e oggettivo e neppure un solo linguistico, dato che noi la viviamo a partire da questa prima relazione che ci nomina e in cui però passa molto di più di un puro fatto linguistico. L’erotismo invece – lei diceva – è molto più libero e del resto non è strettamente legato al sesso. Segue sue strade impreviste e va là dove non lo attendiamo.

Credo che si veda bene la distanza tra una relazionalità fluida, neutra, che si concretizza nel rispondere a chi ti interpella qui e ora, orizzontale e senza limiti e in cui si sciolgono le differenze, da un lato, e dall’altro la prima relazione in cui si nasce e in cui prende significato la sessualità, cosa ben più complessa del sesso biologico. Obietterei a chi sostiene che esiste solo la relazionalità fluida orizzontale, in cui rispondiamo all’altro, che tale relazionalità fluida è resa possibile dalla relazione primaria verticale che ci offre quella che chiamo una culla simbolica.

Ora, io credo che la tentazione del neutro nasca dalla fatica della differenza e in primo luogo dalla fatica dello stare in rapporto alla differenza dell’altra e poi dell’altro. Nasca dal desiderio di una libertà senza vincoli e senza attraversamenti di parzialità.

In questo senso il discorso di Fraire si lega a quello di Cristina Faccincani all’interno del libro La carta coperta. In entrambi i casi c’è il fatto che non si è onnipotenti. Fraire: siamo già nominati in una relazione costitutiva primaria da cui prende significato la sessualità. Non possiamo evitarlo. Faccincani: la madre non è arcaica e onnipotente. Non ha entrambi i sessi. È sessuata. Dunque parziale. Confrontarsi con una madre sessuata, che quindi è parziale, obbliga a confrontarsi con la propria parzialità sessuata. Con la propria non onnipotenza. Con la questione dell’altro come ciò che ci attraversa (l’altro tra me e me) e la nostra dipendenza dall’altro imprevisto, che incontriamo. Che ci capita. Che non scegliamo e ci coinvolge. Questo, per Faccincani, implica la capacità di lasciar andare qualcosa, di elaborare il lutto per questa perdita. È questa la condizione di possibilità per una trasformazione autentica.

Di fronte al neutro ricordo la passione della differenza sessuale, espressione presente nel primo libro di Diotima. Ha un doppio significato: sia di patire qualcosa che ci è capitato e non abbiamo scelto – essere una donna con il peso delle nominazioni già date –, sia di patire come verbo che indica la passione desiderante verso scoperte esistenziali, soggettive e singolari.

Vediamo bene la fatica della differenza femminile nei discorsi di Fraire e Faccincani: rinunciare all’onnipotenza, alla libertà di essere tutto. Accettare la parzialità. Fatica, perché la libertà è possibile solo attraverso la porta stretta della accettazione della dipendenza iniziale.

Si può vedere la fatica anche da un altro punto di vista. La fatica è proprio anche la fatica della differenza, in quanto si è una parte, che però scommette sul tutto. Sentire che la parzialità assunta ed espressa può risultare una scommessa di verità per tutti. È un percorso di grande misura partire da sé per dire una verità condivisibile. Da un lato occorre smontare i significati già dati su ciò che siamo, dall’altra stare in ascolto degli altri, coglierne i desideri, le istanze, le differenze di visione, in fedeltà al proprio percorso. Dunque la passione della differenza è anche passione positiva. Scoperta esistenziale di qualcosa di imprevisto.

Mi rimane nell’orecchio la domanda di una giovane attivista delle Non una di meno: «E la mia esperienza? Che me ne faccio delle tante identità molteplici, che me ne faccio dell’identità fluida rispetto alla mia esperienza singolare? Dov’è e dove colloco la mia esperienza in questo indistinto delle relazioni fluide e molteplici?»

Mi sembra che il pensiero della differenza le possa offrire qualcosa di preciso. E cioè di dare valore e significato alla sua esperienza. Non soltanto raccontarla, ma portarne la verità nel circuito del pensiero condiviso e nella politica di tutti. Non di una minoranza.

Vorrei concludere con un tema che mi sembra una chiave per comprendere la forma del neutro su cui mi sono fermata. Si tratta della svalutazione del linguaggio sentito solo come gabbia di potere.

La critica al genere si esercita sul suo essere gabbia linguistica soffocante. Per estensione la stessa critica viene portata alle altre nominazioni identitarie. In questo contesto il linguaggio è visto solo per l’aspetto normativo e catturante. Così viene auspicata dapprima una fuga liberatoria nel rifiutare tutte le identità linguistiche per finire poi nella identità fluida. Ci si affida alla nominazione più larga possibile. Il fluido. Si scivola così nel vasto mare dell’indifferenziato, senza determinazioni. Questa mossa è molto vicina ad un puro annullamento dell’io.

È un certo modo di concepire il linguaggio come se noi non ne facessimo parte necessariamente e potessimo salvarci altrove. Non a caso viene scelta la nominazione più comprensiva e indeterminata, il fluido.

Anch’io un tempo avevo una grande sfiducia nel linguaggio. Dunque capisco bene questa posizione. Ma il gusto per la politica mi ha portato a comprendere che il linguaggio è sì ciò che apre un campo indipendentemente dal soggetto ed è sicuramente normativo. Ma gli esseri umani sono all’interno del linguaggio e lo possono trasformare dall’interno, perché la normatività non è deterministica. C’è gioco: con il linguaggio si può fare in modo che l’esperienza singolare diventi verità condivisibile. È una scommessa.

La posta in gioco è la fiducia nel linguaggio come una casa che appartiene a tutti, postura che vedo venir meno in chi va nella direzione del fluido, dell’indistinto, del neutro. La fiducia nel linguaggio viene sostituita con la fiducia nell’azione, nel fare e nell’organizzare.

Ho scoperto da poco, girando in rete e facendo attenzione alle diverse iniziative di movimenti politici, che questo medesima sfiducia nel linguaggio visto solo come gabbia – e dunque la paura della differenza – collega tra di loro la tendenza a oltrepassare i generi verso l’identità fluida da un lato e dall’altro un certo specifico ambientalismo che si batte per il superamento della differenza tra la specie umana e le altre specie. Tenendo fermo che riconosco una tensione positiva all’antispecismo, in quanto mosso da un desiderio di giustizia verso gli animali.

In questa prospettiva però il desiderio profondo di indifferenziato annulla sia la differenza sessuale sia la differenza umana rispetto alle altre specie. Come se noi ci potessimo mettere fuori dalla nostra specie e guardarla dall’alto accanto alle altre con uno sguardo di sorvolo. Ma non è così: è vero che noi siamo incernierati alle altre specie, ma, inevitabilmente, a partire dalla nostra, che ha una singolarità imprescindibile.

Concludo ricordando la domanda della giovane attivista delle Non una di meno: «Che ne è della mia esperienza allora?» È una domanda che ha bisogno di linguaggio e di creazione politica.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 9 febbraio 2020, La differenza sessuale alla prova del presente

Voglio cominciare spiegando la mia motivazione, la mia urgenza per cui ho proposto di dedicare questo incontro di Via Dogana 3 alla questione della differenza sessuale alla prova del presente: recentemente sono rimasta molto turbata dalla lettura di un libro la cui autrice, con l’intento di aprire la strada per un nuovo ordine simbolico al posto dell’ordine patriarcale in declino, partendo dalla differenza riproduttiva non parla più di donne e uomini, ma di “persone con/senza utero”, di “persone gestanti”, e dichiara parole come “madre” e “mamma” “parole consumate”.

Questo libro mi ha messo in uno stato di allerta perché l’ha scritto Antje Schrupp, politologa e giornalista di Francoforte che stimo molto e che da anni è in un rapporto di scambio con le filosofe di Diotima. È una voce importante nel panorama mediatico e ha contribuito molto a far conoscere il pensiero della differenza in Germania. Io vivo in Italia da tanti anni, naturalmente seguo anche ciò che capita in Germania ma la questione che si pone riguarda noi qui. In un altro articolo, infatti, Antje si chiede: “Le discriminazioni contro le donne ormai sono cadute, quindi che senso ha ancora distinguere tra i sessi? Praticamente nessuno”.
Sì, 50 anni di movimento delle donne hanno prodotto molti cambiamenti. Viviamo in un presente abitato dalla libertà femminile, io vedo con gioia che le donne sono ovunque, e i movimenti più significativi si richiamano al femminismo: «La battaglia per l’ambiente è il movimento femminista più grande del mondo» (Malena Ernman Thunberg, madre di Greta). Vedo ragazze che prendono la parola con disinvoltura, ministre, sindache, presidenti che chiamano altre donne per gestire insieme il corpo sociale. Non come neutre, cooptate o fedeli esecutrici di un ordine prestabilito, ma con un atteggiamento in cui vedo felicità e naturalezza di essere sulla scena pubblica con un corpo di donna.
Ho sperimentato però che nominare questa bravura “eccellenza femminile” in alcune ha suscitato imbarazzo, come mi è successo ultimamente in un incontro pubblico: mi è stato obiettato “le donne non sono esseri umani migliori”. E la differenza sessuale, che io considero un punto di leva, oggi spesso viene letta come ingombro, mi viene restituita come significato ridotto ai minimi termini: “binarismo o eteronormatività”, o addirittura negata. Il pensiero della differenza da alcune viene visto come espressione di un vecchio femminismo conservatore, come teoria ormai superata.
Insomma, mi sono sentita come se la realtà mi sfuggisse, in una situazione di incomunicabilità, e mi sono chiesta: ho vissuto in una bolla? mi sono adagiata in una posizione che credevo sicura e acquisita una volta per tutte? Le nostre pratiche come il partire da sé, la pratica della disparità e dell’affidamento e le figure che sono state inventate riescono ancora a parlare al presente?
A me pare di sì, perché senza fiducia non c’è una politica trasformativa per me. Anche per mettere a fuoco i miei pensieri per questo mio intervento ho sentito la produttività della relazione. E ho visto che queste idee hanno fatto breccia anche in posti lontani, ispirando le pratiche anche là. Basta pensare al collettivo di giovani francesi che hanno scoperto Non credere di avere dei diritti e che nel processo del tradurre hanno sperimentato la forza trasformativa di queste parole su di sé.
Ma non voglio stare in una posizione difensiva. E così continuo a cercare delle modalità, parole e pratiche all’altezza di “un presente segnato dal crollo del patriarcato di cui noi stesse siamo state le prime agenti e dalle cui conseguenze noi stesse siamo attraversate e investite”, come scrive Ida Dominijanni nel libro La carta coperta.
Ed è stata proprio la lettura di questo volume collettaneo (La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, a cura di Chiara Zamboni, Moretti&Vitali 2019) e poi la presentazione-discussione qui in Libreria delle donne lo scorso 30 novembre che mi ha dato strumenti importanti per la lettura del presente e per capire la situazione di scacco in cui mi sentivo. Lì ho ritrovato le mie preoccupazioni per la cancellazione della differenza sessuale, per via di un ritorno del tutto nuovo e imprevisto – post-patriarcale – al neutro, come scrive Chiara Zamboni.
Non voglio e non posso qui riassumere le analisi profonde e illuminanti dei contributi, ricchissimi di spunti, che mostrano che è in corso un cambiamento di economia psichica e sociale rispetto agli anni in cui è nato il femminismo con il quale siamo cresciute noi, come emerge dai testi soprattutto di Ida Dominijanni e di Cristina Faccincani. Vorrei invece sottolineare come in vari contributi e da varie angolature viene fuori la necessità di rinnovare la pratica, rinnovare l’originaria alleanza fra pratica politica e pratica analitica che, secondo me, ha reso il femminismo italiano così inventivo e originale. Rilanciare quel connubio non è facile “in un’epoca che non ci aiuta in questa impresa, perché non è amica né dell’inconscio, né del simbolico, né della differenza sessuale” – diagnosi azzeccatissima di Ida Dominijanni. Anche Cristina Faccincani, che analizza come la differenza sessuale viene cancellata perché testimonia l’incompletezza dell’umano, conclude che è di fondamentale importanza tenere vive e feconde tutte le pratiche di relazione che accolgano la dimensione inconscia dell’essere, che lascino spazio alla meraviglia delle differenze […], pratiche generatrici di apertura al futuro.
Tenere attive le tracce della pratica dell’inconscio, osserva anche Lia Cigarini, infatti, preserva la differenza femminile dal diventare una teoria definita una volta per tutte. Certo, bisogna tener conto dello scenario cambiato: l’idea della trasformabilità del sé che ha avuto una risonanza politica non piccola negli anni ’70, oggi è stata scippata dal neoliberismo e dalla biopolitica, tuttavia Lia lancia la scommessa di risignificare la differenza sessuale e di “rinegoziare i rapporti tra i due sessi, per trovare altre figure di scambio, cioè altre mediazioni con il mondo”.


Rinnovare, rilanciare, risignificare, rinegoziare – in queste parole ho trovato un invito forte a interrogare le nostre pratiche. Con noi abbiamo Chiara Zamboni, filosofa di Diotima, curatrice e coautrice del libro La carta coperta che era già venuta a presentare, insieme ad altre. Ringrazio Chiara di essere tornata, dandoci l’occasione per riprendere anche questo punto cruciale delle pratiche che l’ultima volta non ha potuto essere approfondito a sufficienza.
Ringrazio anche Stefania Ferrando per essere venuta da Parigi dove vive e insegna filosofia politica. Dai primi anni di università è coinvolta con Diotima, ogni tanto partecipa ai ritiri e ai seminari. Nelle sue ricerche, dedicate soprattutto all’Ottocento, ha seguito le tracce di pratiche politiche di donne, le loro invenzioni: luoghi, riviste, associazioni che hanno creato per agire la loro libertà.

Invito alla Redazione allargata di Via Dogana 3


domenica 9 febbraio 2020, ore 10.00-13.30


Oggi la libertà femminile è presente e attiva visibilmente, le donne sono dappertutto e i movimenti più significativi si richiamano al femminismo. Eppure contemporaneamente si avverte una forte spinta alla neutralizzazione e alla cancellazione della differenza femminile, non più da parte del neutro-maschile, efficacemente decostruito dal movimento delle donne, ma a causa dell’emergere di un imprevisto neutro post-patriarcale.


Di fronte a uno scenario psichico e sociale che cambia rapidamente, vogliamo interrogare le nostre pratiche alla luce del nostro sentire, per rilanciare la sfida della differenza sessuale come forza propulsiva di una politica condivisa.Avvieranno la discussione Chiara Zamboni e Stefania Ferrando, con Traudel Sattler per la redazione di Via Dogana 3. 

Greta Thunberg, con la sua eroica fragilità, mi ha comunicato l’urgenza. Non c’è molto tempo. Sulla sua spinta ho letto Il pianeta di tutti e Il mondo in fiamme, ultime opere rispettivamente di Vandana Shiva e di Naomi Klein. Sono due attiviste che seguo da anni e mi fido delle loro parole. Così ora sono ancora più allarmata e sento che non ci si può più sottrarre a informarsi davvero, a prendere coscienza e fare la propria parte. Anche se si è molto in là con gli anni come me e una vocina interna può sempre insinuare: «Tanto tu già non ci sarai più. Non è un problema tuo.» Sì, la vocina cinica è realistica, ma dimentica che ne va del senso della vita che ho vissuto. Non è questo che volevo.

Malena Ernman, a suggello del libro scritto con la figlia Greta, La nostra casa è in fiamme, tira in ballo il femminismo affermando che la battaglia per l’ambiente è il movimento femminista più grande del mondo. Il suo intendimento non è escludere gli uomini ma sfidare «quelle strutture e quei valori che hanno creato la crisi in cui ci troviamo». Per lei il femminismo c’entra. Io la penso allo stesso modo perché so bene che le femministe hanno sfidato da oltre cinquant’anni quelle strutture e quei valori, guadagnandoci molto nella concretezza delle esistenze quotidiane e nell’intelligenza del mondo.

Quelle poche parole della mamma di Greta stabiliscono una profonda connessione. Se le azioni concrete per una rapida transizione ecologica, richieste a gran voce dalle piazze del movimento Fridays For Future, puntano soprattutto al piano economico – come smettere immediatamente di bruciare combustibili fossili –, Malena Ernman fa presente che l’efficacia di quelle stesse azioni dipende dal fatto che si intreccino con lo smantellamento della strutturazione del mondo e del sistema di pensiero che hanno radici maschili e ci hanno portato sull’orlo dell’abisso.

Trovo che ci sia una vicinanza sorprendente e carica di doni tra le analisi del femminismo della differenza e quelle di Vandana Shiva nella critica del pensiero occidentale. L’attivista indiana lo bolla come “monocultura della mente”, con un’espressione di straordinaria efficacia, non diversamente le teoriche del pensiero della differenza hanno svelato come l’uno universale risulti dalla cancellazione della differenza, che è in primis la donna.

Pensare con la differenza è la sfida che ci aspetta per girare pagina nei confronti di un pensiero maschile che si basa sull’appropriazione, sulla riduzione a sé dell’altro, o alla sua trasformazione in un oggetto di conoscenza. Già Anna Maria Ortese molti anni fa desiderava e non vedeva un’Italia «che abbia al centro la parola essere, prima di “avere” e “potere”, la parola essere con gli altri, invece che contro o sugli altri» (Corpo Celeste, pag. 42).

La transizione è inevitabile, riguarda tutti e tutte e non sarà facile. Per questo va accompagnata da pensieri e parole che la rendano desiderabile. Ora non è così, prevale un immaginario catastrofico. Racconto un piccolo episodio. Poco tempo fa, quando non faceva altro che piovere, la signora ucraina che viene una volta alla settimana per le pulizie, arriva piena di inquietudine. Riceverà a giorni la data del rogito e non sa più se comprare o meno la casa, indebitandosi con la banca per un mutuo che praticamente copre l’intero ammontare. Non sa più se vale la pena di fare così tanti sacrifici quando suo marito ha visto in internet che l’Italia nel 2050 sarà sommersa dall’acqua. Ecco, questo è quello che passa per la testa di una donna comune a fronte delle notizie che arrivano dalla televisione e da internet. E anch’io, nei miei peggiori incubi, vedo Venezia e New York sott’acqua, nubifragi e frane a ritmo continuo, migrazioni in massa, ricconi asserragliati nelle poche zone meno minacciate… La paura e il “si salvi chi può” non portano a buoni consigli, lo abbiamo già visto. 

Per imprimere un segno positivo all’immaginario della transizione, c’è già molto pensiero femminile da mettere in circolazione e far conoscere, ci sono ottime idee come quella del Buon vivere che vengono da popoli lontani, ma serve un intenso lavoro della mente e una fervida immaginazione per stabilire inedite connessioni.

Luca Mercalli, in una recente intervista, fa notare come siamo in grado di pensare alla fine della vita sul pianeta, ma non siamo in grado di pensare alla fine del capitalismo (AREL La rivista, n. 3/2019). Pure è quello che dobbiamo pensare, di pari passo e in stretto collegamento con il superamento del dominio maschile.

Io, se guardo anche alla mia vita, a ciò che mi è interessato davvero, ho idea che le donne siano meno intrappolate nella ragnatela del capitalismo, che, come si sa, non agisce solo sul piano economico. Forse per il posto che danno nella loro vita all’amore, agli affetti, alle relazioni. Ho sentito di recente un’intervista a Letizia Battaglia, in occasione della mostra delle sue fotografie a Palazzo Reale a Milano e minimizzava, affermando che ha sempre dato più importanza all’amore che al successo. E Grace Paley nel suo Apologo sulla felicità ne indica ingredienti non certo mercantili, come possono essere un’amica con cui passeggiare, i bambini, qualche cosa da fare e l’essere innamorate.

Per pensare di uscire dall’imposizione a consumare, dalla saturazione del desiderio tramite gli oggetti, una buona mossa ecologica è volgersi dalla parte delle donne. Le donne sanno.

Elena, una giovane attivista del movimento Extinction rebellion (XR), racconta di avere scelto la sua pratica politica perché mossa, in primo luogo, dalla preoccupazione per il rischio di estinzione del pianeta e di tutte le forme di vita, a causa del cambiamento climatico. Secondariamente, dall’insoddisfazione verso le modalità politiche di altri movimenti, troppo improntati a forme di organizzazione tradizionali e gerarchiche. Ciò che l’attrae in questa pratica è l’attenzione ai cambiamenti interiori che gli scambi relazionali delle/dei partecipanti producono. Le relazioni, la loro qualità, le emozioni sono esigenze anteposte alle azioni di protesta.

Simbolo del movimento XR è una clessidra. Il tempo stringe i nodi, il tempo è alla base del ragionamento su cui posa l’azione e lo stare insieme. I nodi hanno un duplice significato: sono vincolo, legame o inciampo che blocca, groviglio da sciogliere. I nodi al pettine della crisi climatica sono anche quelli delle relazioni. Non si riesce a pensare il futuro perché la politica ha perso il senso delle relazioni, del legame sociale e perciò c’è stasi, una sorta di impasse evolutiva, come sostiene Marco Deriu. Ma c’è un senso positivo del nodo, come vincolo, dipendenza necessaria dall’altro e c’è la gioia del fare insieme, come dice Elena, del creare significati autonomi, del rigenerarsi e rigenerare la realtà, vie d’uscita dal vicolo cieco, dal tempo sospeso. Dove ci sono nodi ci sono legami, amicizie, società in fieri. Mi viene in mente il nodo di cui parla l’artista Maria Lai, spiegando la sua celebre installazione/azione, nel paese in cui è nata in Sardegna. Un lungo nastro azzurro che le/gli abitanti annodano e stringono nelle mani e con cui simbolicamente tengono unite le case e il luogo. Infatti, dice, dove non c’è il nodo non ci sono relazioni. L’architetta e cuoca Ida Farè nei suoi scritti faceva riferimento al doppio significato della casa come nido e nodo. L’abitare femminile nella città crea relazioni e nella civiltà nascente dopo la fine del patriarcato anche la casa è stata attraversata dalla libertà femminile, è stata risignificata.

La mia presa di coscienza della gravità del fenomeno del riscaldamento globale ha radici in una crisi personale e nel desiderio di indagare le motivazioni profonde e inconsapevoli del negazionismo ambientale di mio fratello, operaio specializzato in una fabbrica che produce plastica. Il mio punto di partenza è stato l’insopportabilità che la mia storia cadesse nell’oblio. Il timore dell’estinzione della memoria, madre della storia a radice femminile, mi provocava un dolore sordo, muto, paralizzante. La casa brucia se non avviene il passaggio interiore del cambiamento. Passaggio o casa interiore, come io definisco questo spostamento in profondità nella Spirale del tempo, dove elaboro il mio nodo irrisolto, che scioglie dall’identificazione schiacciante sul presente e fa intravedere una prospettiva creando una frattura, un’interruzione nella saturazione del tutto pieno, in cui non c’è spazio per il pensiero e dà parola alla verità soggettiva come ponte con la realtà e i suoi nodi problematici. La verità soggettiva apre a un reale e profondo capovolgimento del vivere e della vita urbana, un salto di civiltà.

Nella presa di coscienza c’è un inizio del desiderio di dare spazio alla costruzione del passaggio interiore, fare vuoto per lo spazio desiderante. Il troppo pieno, la saturazione della civiltà delle merci toglie respiro, spazio/tempo allo sguardo lungo di una prospettiva, di un orizzonte in cui poter immaginare e immaginarsi una civiltà, che oggi stiamo sperimentando. Riafferrare la freccia del tempo con la fiducia di poterne cambiarne la direzione rileggendo i contesti, la storia, i luoghi di lavoro, i fatti, dove possiamo agire la libertà di reinterpretarli prestando ascolto al sentire dell’esperienza femminile, mettendo in atto la politica delle relazioni che disfano il potere. La memoria fa parte dell’immaginario, del simbolico di cui tutti sentono la necessità, ma di cui le donne soffrono di più la mancanza. Un bene immateriale che migliora la vita, fa parte del ben vivere, della buona vita e della democrazia!

Elena ci ha detto che uno degli obiettivi del movimento di disobbedienza civile XR è la messa in atto di assemblee di quartiere dove ci si parla e si ascolta l’esperienza dell’abitare, del vivere quotidiano e si fa opera di presa di coscienza dell’urgenza di un cambiamento di stili di vita per salvare se stessi, oltre che il pianeta e tutte le forme viventi. Questa necessità di de-saturazione interiore/esteriore, di sciogliere nodi creando vuoti portatori di desideri nuovi, è il motore del cambiamento, un passo verso la possibilità di spezzare l’impasse che ostacola la politica del desiderio e fa rimanere sulla soglia del cambio di civiltà.

C’è un crescente desiderio di spazi liberi in cui poter parlare e porsi in ascolto per conoscere e costruire relazioni di fiducia. Io ho percepito questo bisogno, quasi una corale urgenza, anche al convegno europeo «Un tempo per sé, un diritto per tutti», per un rilancio delle politiche temporali urbane, cui ho partecipato in novembre a Strasburgo. Luoghi terzi, li hanno chiamati questi spazi di incontro né familiari né lavorativi. Anche la Libreria delle donne di cui ho raccontato la pratica e la storia è stata rinominata “luogo terzo” in quel contesto, dove erano presenti molte associazioni femminili, femministe e figure istituzionali di varie città europee. Perfino una proposta di trasformare il cimitero di Strasburgo in un grande parco dove incontrarsi, passeggiare, parlare, mi è sembrato, a dire il vero dopo un primo momento di sconcerto, un esempio della necessità di non perdere la memoria di sé, del proprio passato, non cancellare la storia, la vicenda umana singolare ma esemplare… «Città dei morti e dei vivi, quando i vivi si parlano veramente, fuori dai riti e dai sepolcri imbiancati dell’ipocrisia e della rimozione.»

Ho trovato un’assonanza con la mia esperienza. Per me è stato così, quando una decina di anni fa ho rielaborato il mio passato, nella Comunità di storia vivente, spazio transizionale per citare Wanda Tommasi (dal libro La carta coperta, Moretti&Vitali 2019), ritrovando una relazione con mio fratello, negazionista allora del cambiamento climatico, davanti alla tomba di famiglia. Ho dato vita con lui, dopo avere risvegliato la sua memoria, a un romanzo politico della storia italiana, a partire dall’osservazione delle fotografie di famiglia e dal mio interrogare in chiave soggettiva la nostra comune origine. Una storia sessuata, non di regime, che ha preso parola e forza dal varco creato dalla presa di coscienza, dal mio bisogno di narrare una storia soggettiva di libertà femminile, una storia che non oblitera l’esperienza e la relazione con la comune matrice: nostra madre, morta tragicamente nell’anno in cui l’uomo è andato sulla luna, in un tempo, prima della rivoluzione femminista, che non ammetteva la libertà di una donna di decidere il proprio destino. Un’epoca, gli anni Sessanta, non in grado di ascoltare la voce di una donna, la voce di una figlia, la voce di una madre che desideravano altro, coltivare la terra, in contrattempo con la modernità e il progresso, con la tecnologia e la scienza al servizio del capitalismo. 

Vorrei portare un contributo all’incontro sull’ecologia e la crisi ambientale. È un tema politico che sta radicalmente cambiando il modo di pensare il nostro rapporto con il mondo. Ora, quello che ho imparato nelle pratiche politiche delle donne mi sembra possa aiutarci a seguire una strada più fine in rapporto a questa questione.

Mi riferisco al fatto che nel femminismo abbiamo tenuto conto dell’insistenza di aspetti fantasmatici nell’agire, quando abbiamo ragionato tra noi sull’esperienza nelle pratiche. Penso al fantasma della madre arcaica da cui si dipende totalmente, quello dell’onnipotenza, della paura della distruzione nel conflitto, e così via. Abbiamo tenuto conto cioè del lato inconscio del pensare e dell’agire, che non può essere risolto, ma può dare una chiave di lettura di molti comportamenti e pensieri. A me sembra che questo tener conto dei segni dell’inconscio possa aiutare nel ragionare in rapporto alla natura. Non intendo solo l’interrogarsi sul lato immaginario che riguarda la terra, accostata ora alla madre che nutre, ora alla madre indifferente, oppure vista come soggetto fragile, malato, di cui prendersi cura e così via. Mi riferisco anche al fatto che l’insistenza dell’inconscio nel nostro agire ci rende consapevoli che non tutto è progettabile, che l’omino gobbo delle fiabe può sviare le migliori intenzioni. Ovvero l’inconscio si mette in mezzo scompigliando ciò che di meglio vorremmo realizzare. È un invito a prendere in considerazione certi sintomi come il restare mute, il non aver niente da dire, ad esempio. O la noia verso certe ripetizioni ossessive. Oppure un tono vuoto e convenzionale del discorso.

Considero dunque essenziale l’ascolto della soggettività in un movimento così complesso come quello per l’ambiente e per la terra. La differenza femminile può aiutare a tener conto di tali implicazioni soggettive. Possiamo imparare così a non immedesimarci nei fantasmi circolanti e totalizzanti che riguardano il clima e la natura, e tenerne conto piuttosto come degli orientamenti.

Ascoltare la differenza implica la fatica di stare in rapporto con vissuti non trasparenti, oscuri, che hanno a che fare con l’inconscio. In questo modo però, sciogliendoci dalle immedesimazioni, si possono aprire spazi vuoti, dove può accadere qualcosa di imprevisto, in un movimento politico come quello ecologista che si presenta come totalizzante. 


Con il quarto lungometraggio, Portrait de la jeune fille en feu, Celine Sciamma prosegue nella messa in scena di percorsi di scoperta di sé, di ricerca di identità e di autoaffermazione delle adolescenti e delle giovani donne nell’incontro con la sessualità, le passioni e i desideri.

Dopo le adolescenti di Naissance des pieuvres alle prese con i primi turbamenti d’amore e sessuali, dopo Laure che in Tomboy vuole farsi passare per un ragazzo, dopo Diamante nero con il suo gruppo di giovani della banlieue in esplorazione di una propria via nel mondo, la regista ci porta nel 1770 in un’isola della Bretagna per raccontarci come in un piccolo universo femminile – gli uomini sono semplici comparse o citazioni – possa insinuarsi un’idea di libertà, un sogno di relazioni e di sentimenti veri.

Marianne, una giovane pittrice, giunge sull’isola incaricata di ritrarre Heloïse che, appena uscita dal convento, è promessa a un nobile milanese. La giovane, chiusa nel dolore per la recente morte della sorella e contraria all’obbligo del matrimonio, in un gesto di resistenza rifiuta di farsi ritrarre. La madre allora consiglia Marianne di lavorare al ritratto di notte e di approfittare durante il giorno della compagnia della giovane per studiarne la figura. Lo sguardo di Marianne tutto teso a memorizzare le fattezze di Heloïse (per tentare di riprodurle sulla tela, la notte) si fa man mano più profondo, più attento nel desiderio di andare oltre le apparenze, mentre cresce la confidenza fra loro.

La regista usa la metafora della pittura e della musica per raccontare la nascita di un amore, che, sottolinea, è fra eguali, non inscritto nelle gerarchie dei rapporti di forza e di potere, né nei giochi di seduzione.*

Il film lavora su più piani e più tempi: il piano cinematografico in cui la regista mostra come il cinema possa emulare la pittura con accurate e splendide rappresentazioni di paesaggi, di visi e di corpi in posa, facendosi il suo sguardo pittorico; quello del suo tempo interiore in cui, prendendosi tutto l’agio della lentezza, illustra in dettaglio l’evoluzione della storia d’amore; e il tempo delle due protagoniste che è poco, i cinque giorni concessi dalla madre per completare il ritratto.

L’amore che per entrambe è una delicata scoperta, si fa rimpianto, desiderio dell’ultimo sguardo per portare con sé il ricordo dell’amata. Così il mito di Euridice e di Orfeo si presenta alla memoria, mentre il canto notturno attorno al falò che incendierà il vestito di Heloise, in una scena di grande effetto, avverte: “Non si può fuggire, non si può fuggire”.

Già nelle primissime scene Celine Sciamma dichiara il suo debito al cinema di Jane Campion di Lezioni di piano – il viaggio in barca di Marianne, la caduta in mare, l’arrivo alla spiaggia ripresa in tutta la sua lunghezza –; alla letteratura delle sorelle Brontë – di grande effetto alcune scene in un paesaggio simile alla brughiera –; alla pittura, quella romantica dell’ottocento, e alla musica: indimenticabile la scena finale.

Celine Sciamma ha partecipato al Festival di Cannes fin dal 2007 con Naissances des pieuvres, poi alla Quinzaine des realisateurs con Tomboy e infine a Cannes 2019 nella selezione ufficiale con Portrait de la jeune fille en feu vincendo il Premio per la Miglior Sceneggiatura.

Il film esce nelle sale italiane il 19 dicembre 2019.

*Il gioco del guardarsi, del conoscersi attraverso lo sguardo è parte dell’atto creativo nella pittura: chi dipinge e chi è dipinto, chi guarda e chi è guardato. Uno sguardo reciproco e un reciproco processo di conoscenza. Berthe Morisot, la grande pittrice impressionista, aveva ben raccontato nei diari e nelle lettere, questa esperienza, quando posava per Edouard Manet.


Con la democrazia, ha suggerito qualcuno. La mia idea è un’altra. Non vedo che ci sia un rapporto stretto tra le nostre democrazie e il benessere del pianeta: gli abitanti di Vicenza non sono riusciti a impedire la seconda base militare Usa e oggi non si può legalmente impedire l’invasione degli scatoloni di Amazon, tanto per rendere l’idea. Il credito della democrazia è così scarso che le persone sinceramente democratiche hanno paura del voto popolare.

Secondo me è meglio fare leva sul crescente favore di cui gode, in questi ultimi decenni, l’umanità femminile. L’ecologia e il femminismo tendono a formare, nella rappresentazione diffusa, un continuum. Lo dice anche la citazione fatta da Marina Santini verso la fine della sua introduzione.

È sbagliato? Potrebbe essere ideologico: le donne sono migliori degli uomini. Ma noi qui e molte altre femministe abbiamo il linguaggio per significare l’eccellenza femminile senza fare confronti sommari tra donne e uomini. Rendiamoci conto che, nel secolo scorso, il femminismo si è dimostrato un movimento vincente, e che questo oggi ci viene riconosciuto da più parti. I risultati si vedono. I rapporti tra donne (punto fondamentale) e delle donne con gli uomini (punto decisivo) stanno cambiando e vanno nel senso di una maggiore libertà femminile.

Inserisco un inciso: opponiamoci alla riduzione del femminismo a una lotta per la parità. La parità è una misura quantitativa che ha il merito di non mentire, come ha detto giustamente Geneviève Fraisse. Ma non è il traguardo.

Si tratta, da parte nostra, di procedere sul crinale tra una spontanea rivendicazione di parità, da una parte, e dall’altra l’idea diffusa che le donne siano superiori agli uomini nella cura della vita. Non vogliamo essere idealizzate ma neanche diventare delle imitatrici. E allora? Ho detto “procedere sul crinale”: non deve succedere che la parità sia un limite al desiderio né, viceversa, che l’ideale sia un pretesto per sacrificarsi. Si può fare e io sostengo che noi qui e altre abbiamo la risposta: è la politica del simbolico. Può sembra una formula enigmatica ma in pratica non lo è. Nel contesto attuale, tradotta in altre parole, dice: usiamo quelle tendenze spontanee favorevoli al femminile per prendere autorità nella vita pubblica e qui facciamo la differenza dal come finora sono andate le cose.

Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 1 dicembre 2019 Crisi ambientale: i nodi al pettine.

Via Dogana 3 ritorna sul tema della crisi ambientale. Da aprile a oggi, sono continuate in tutto il mondo le manifestazioni di adolescenti e giovani, l’ultima di venerdì scorso con il quarto sciopero globale promosso da Fridays for Future; Extinction Rebellion (XR, il movimento nato in Gran Bretagna nel 2018) ha messo in atto forme di disobbedienza civile nelle principali città del mondo, una per tutte, a Roma, tra l’8 e il 10 ottobre, uno sciopero della fame di fronte a Montecitorio.

Recentemente c’è stato il primo incontro a Roma sulle economie trasformative in preparazione del Fòrum Social Mundial de les Economies Transformadores che si terrà a Barcellona (25-28 giugno 2020). A mano a mano che la crisi diventa più evidente, aumentano le persone che si uniscono alla lotta e acquisiscono consapevolezza. Durante l’estate si è avuta la concreta la percezione dell’emergenza climatica, anche se da più di 30 anni gli ambienti ecologisti e chi si occupa di scienza mettono in guardia da politiche scellerate, segnalando il pericolo della deriva a cui si va incontro se non cambiamo radicalmente il modello di sviluppo.

Greta è diventata voce della coscienza globale, anche se prima di lei nel 1992, la dodicenne canadese Severn Cullis-Suzuki intervenne al primo vertice dei Capi di stato sull’ambiente a Rio de Janeiro con un discorso molto simile nei contenuti ai discorsi di Greta e concludeva: “Sto lottando per il mio futuro”.

Che cosa è cambiato? L’essere presente con il proprio corpo di fronte ai palazzi del potere, ha fatto la differenza: Greta si è messa in gioco e il tam-tam dei social ha lanciato il suo grido: migliaia di ragazze e ragazzi seguono il suo esempio in ogni parte del mondo. E i giornalisti non possono non vedere e non sentire. È accaduto come per Me-too. Si dice a voce alta una verità scomoda, conosciuta da tempo, ma ipocritamente nascosta, e chi la ascolta la sente vera e la rilancia.

Ora è il momento in cui le cose si stanno coagulando, prendono spessore: negli anni ’80, Alexander Langer diceva che la conversione ecologica “potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”.

Sotto le spinte dei movimenti e delle evidenze climatiche, una parte del mondo finanziario e politico sembra reagire. La BEI (Banca Europea per gli Investimenti) ha dichiarato che dal 2021 non investirà più nelle energie fossili, e si orienterà, in coerenza con gli accordi di Parigi, verso fonti rinnovabili e progetti di efficienza energetica. Quindi niente prestiti per la costruzione di oleodotti, gasdotti e ricerche petrolifere. (Verranno anche sospesi i finanziamenti per quei progetti già approvati, e in fase di realizzazione?). Nel programma del partito labourista presentato da Jeremy Corbyn si parla di dirottare le risorse verso un’economia attenta all’ambiente, verso la creazione di posti di lavoro ‘buoni e qualificati’, rispettosi del clima. È di pochi giorni fa la proposta ‘verde’ per l’Europa di Ursula von der Leyen: un piano ambientale, presentato come nuovo motore di crescita, da 1.000 miliardi di euro.

Per ora sono solo intenzioni.

Naomi Klein e Vandana Shiva sono attiviste, impegnate da anni nella critica all’attuale modello di sviluppo. Per preparare questo incontro, due loro libri ci sono serviti da guida: Il mondo in fiamme di Naomi Klein ripercorre dieci anni di interventi e articoli e lancia proposte politiche concrete, e Il pianeta di tutti. Come il capitalismo ha colonizzato la Terra di Vandana Shiva in cui l’autrice, che conosciamo da tempo ed è stata nostra ospite a ‘Vetrine di libertà’, ragiona sui legami tra la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, che detengono il monopolio delle risorse globali, la crisi umanitaria dei migranti e i limiti ecologici del pianeta.

Chi minimizza la crisi che stiamo vivendo, parla di ‘origine antropica’ del cambiamento climatico, di ‘attività umane’ che portano al riscaldamento globale. La questione si annacqua: tutti siamo responsabili. Non si vede, invece, che responsabili sono secoli di colonialismo e rapina e le attuali politiche economiche di governi e multinazionali, politiche basate sull’energia dei combustibili fossili, sullo sfruttamento del suolo.

“Ci serve una mobilitazione massiccia più grande di tutte le altre nella storia. Ci serve un Piano Marshall per la Terra”: sono le parole pronunciate da Angélica Navarro Llanos, una negoziatrice climatica boliviana al summit climatico delle Nazioni Unite (2009), a cui Naomi Klein si è ispirata.

Un decennio fa questi discorsi cadevano nel vuoto. Oggi ci sono giovani esponenti della politica che sentono l’urgenza di trasformarle in azioni. Una è Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna mai eletta al Congresso americano. Nella sua piattaforma elettorale propone un Green New Deal, sostenuta da altre giovani della sua squadra (Rashida Tlaib di Detroit e Ayanna Pressley di Boston). Come il New Deal, che era però pensato da e per maschi, bianchi, il Green New Deal dovrebbe avere lo stesso impatto, un cambiamento radicale nelle politiche economiche e sociali per “Riparare la Terra. Riparare la nostra roba. Riparare senza timore i nostri rapporti all’interno dei nostri paesi e tra essi.”

Scrive Naomi Klein “Facciamo ancora in tempo a evitare un riscaldamento catastrofico, ma non entro le regole del capitalismo come sono oggi formulate. E potrebbe essere la migliore scusa che abbiamo mai avuto per cambiare queste regole. E se non c’è un cambio di passo radicale non solo nella politica ma nei valori basilari che governano la nostra politica, sarà così che il mondo ricco si ‘adatterà’ alle nuove devastazioni climatiche, scatenando le ideologie tossiche che stilano una graduatoria del valore relativo delle vite umane e giustificano il mostruoso svilimento di enormi pezzi di umanità”.

Il momento di crisi può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento: il cambiamento del clima, rende quasi inevitabile una rivoluzione. Ci sono novità promettenti. Il movimento trasformativo in atto genera la speranza di costruire un sistema economico che redistribuisca la ricchezza, che riduca le disuguaglianze, che trasformi la sfera pubblica, che pianifichi l’economia sulla base di bisogni e priorità collettive, metta delle regole. Il piano per la transizione apre spazi per una democrazia diversa. Possiamo pensare a una ‘giustizia climatica’ perché le politiche per l’ambiente e la giustizia sociale vanno di pari passo.

Vandana Shiva riconosce nelle donne himalayane del movimento Chipko (che significa abbracciare, perché hanno difeso le piante legandosi ad esse) le sue maestre di biodiversità ed ecologia: le hanno insegnato che tutto è interconnesso. Possiedono un sapere incarnato, sanno che il valore di una foresta non sta in un albero tagliato, ma nelle piante che creano le condizioni per mantenere l’umidità necessaria alla vita.

Il modello capitalistico considera la Terra come qualcosa di inerte da depredare, distrugge la natura e soprattutto la nostra umanità come capacità di essere solidali, provare compassione e condivisione. Pensare che si possa crescere in modo illimitato su un pianeta dalle risorse limitate, segnala l’arroganza di quell’1% che impone il proprio potere, che considera i saperi e la creatività delle donne, delle popolazioni indigene, di chi lavora la terra come vecchi e retrogradi, non ‘scientifici’. Mentre ‘innovativi’ e ‘moderni’ sono gli accordi di libero scambio, la privatizzazione dei beni comuni, i brevetti sul vivente, il controllo attraverso i Big Data. L’intelligenza e la sapienza di milioni di anni di evoluzione, la ricchezza della biodiversità, viene sostituita dalla manipolazione genetica. È un modo meccanico di concepire la natura che semplifica: ritiene lineare il principio di causalità; ignora la complessità dei sistemi viventi e che ciò che accade dipende dal contesto e dalle relazioni in quella particolare situazione; riduce il vivente a fonte di dati e informazioni. Il grande capitale, fondato sul paradigma neoliberale che riduce il potere nelle mani di poche multinazionali, è un pericolo per la democrazia stessa: l’acquisizione, il controllo e la vendita dei dati diventeranno, se già non lo sono, il nuovo ‘petrolio’. È l’arroganza di chi per propri interessi produce divisione sociale, sradica intere comunità (pensiamo al Brasile di Bolsonaro), crea masse di profughi ambientali.

Le tecnologie dell’informazione e le biotecnologie si stanno integrando in vista di una corsa all’‘oro verde’. È l’arroganza di chi pensa di contrastare il cambiamento climatico e evitare la catastrofe con la geoingegneria, con tecniche mai testate prima che sono oltre che parziali, un ulteriore attentato all’umanità: ci sono progetti per oscurare il sole, fertilizzare i mari, seminare le nuvole.

Il capitale investe sul ‘verde’, comprando prodotti ‘verdi’, crea mercati per smaltire l’inquinamento e carica gli ‘individui’ (individui separati, consumatori come li vuole il capitalismo) del problema: la sfida è altissima e la si può affrontare solo come parte di un movimento globale. Senza una radicale critica al capitalismo predatorio, senza un nuovo paradigma di civiltà sensibile ai limiti della natura e dell’intelligenza umana, senza un serio programma climatico, che tocchi finanza, commercio, infrastrutture, i cambiamenti individuali del proprio stile di vita, importantissimi per la presa di coscienza e per un cambiamento culturale, e le politiche locali di contrasto al ‘riscaldamento’ climatico, sono antidoti parziali che genereranno effetti solo a lungo termine.

E Milano fa la sua parte con le sue belle contraddizioni. A fine settembre l’architetto Stefano Boeri propone una riforestazione urbana, accolta dal Comune: 3 milioni di alberi entro il 2030, e già 200.000 messi a dimora entro il 21 marzo 2020, giornata internazionale della foresta. Contemporaneamente, però i progetti di riqualificazione urbana prevedono la costruzione di edifici, come nel caso di Piazza d’armi o come il Parco di via Tesio, che rischia di essere sacrificato per un nuovo stadio. Forse di piante ne cresceranno sui tetti dei centri commerciali o sulle terrazze come nel Bosco verticale (giudicato fra i 50 più bei grattacieli), che ha sostituito il vicino Bosco di Gioia – orizzontale – dove 180 alberi sono stati abbattuti nel 2006 per fare posto al Palazzo della Regione. Oggi sopravvive ancora una magnolia, fra i vetri e il cemento.

Siamo in una fase di transizione e si sente qualcosa di nuovo e di grande. Un movimento che cresce e contagia perché ciascuna e ciascuno parte da bisogni concreti e dal sentire che ne va della propria vita. In molte fanno riferimento al femminismo. Mary Robinson (prima donna presidente dell’Irlanda) dice: “Questa crisi ha radici maschili comunque la si osservi. Porta la mano dell’uomo. Quando dico che c’è bisogno di un surplus femminista significa che anche i maschi dovranno essere inclusi in questa soluzione globale. Senza lasciare nessuno indietro. Perché ci si salva solo assieme”. Greta scrive in La nostra casa è in fiamme: “La battaglia per l’ambiente è il movimento femminista più grande del mondo, non perché in qualche modo escluda gli uomini, ma perché sfida quelle strutture e quei valori che hanno creato la crisi in cui ci troviamo”. Linda 24 anni di Roma (manifestazione NUDM 25.11) “Secondo me il femminismo adesso è il campo di lotta più credibile, accanto all’ecologismo C’è una penetrazione profonda delle istanze femministe nella mia generazione…”

Negli anni, molte donne si sono interrogate, ben prima che la crisi odierna lo mettesse in evidenza, sulle logiche dello sviluppo e dell’economia sulla distruttività di una civiltà che tratta il pianeta come un bene illimitato. Il pensiero di pensatrici come Rachel Carson, Laura Conti, Ina Praetorius. (di cui abbiamo parlato la volta scorsa) ci ha aiutato a cogliere le connessioni fra le scelte economiche e politiche, le ricadute sull’ambiente e i rapporti umani.

Sappiamo che il femminismo è stata una rivoluzione, l’unica che ha vinto senza violenza e pensiamo possa ispirare i movimenti che si battono per un cambiamento radicale. Ha criticato l’universalismo patriarcale e reso palese la connessione tra questa cultura e lo sviluppo capitalistico predatorio, fra fenomeni in apparenza lontanissimi tra loro: il militarismo e la violenza maschile sulle donne, la tratta e i bilanci statali; ha parlato di intelligenza domestica e del lavoro per mantenere l’esistenza, di produzione e riproduzione sociale come tutto il lavoro necessario per vivere (Sottosopra. Immagina che il lavoro). Vandana Shiva dice: “quando l’economia entra in conflitto con l’ecologia, risulta la cattiva amministrazione della Terra”, sottolineando la matrice comune di ecologia (scienza della casa) ed economia (amministrazione della casa) con la parola greca oikos (casa); Ina Praetorius ci ha parlato di ‘cura’ come ‘preoccupazione per il mondo’, ci chiede di prenderci cura di tale transizione; il valore del sapere dell’esperienza, ha consentito lo scambio tra donne molto diverse, ripreso ancestrali modalità di resistenza e inventato pratiche politiche nuove, messo in discussione la stessa concezione di sviluppo.

Questa è una occasione per mettere a confronto realtà diverse, e vedere come possiamo contribuire insieme alla creazione di una cultura, di un immaginario e di un linguaggio per una transizione positiva.

Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 1 dicembre 2019 Crisi ambientale: i nodi al pettine.

Guardare fino in fondo la crisi ambientale e il cambiamento climatico è come guardarsi allo specchio. La crisi ecologica e climatica non ci sta di fronte. Non è un problema di cui ci possiamo occupare o non occupare come si fa con altre cose. Noi ci siamo completamente dentro, riguarda le nostre vite e noi stessi. C’è qualcosa infatti che ci implica in maniera profonda e che è stato non a caso subito sottolineato da Greta Thunberg.

Quando nel settembre 2018 Greta ha iniziato il suo primo sciopero ha scritto una lettera con la quale spiegava le ragioni del suo sciopero. C’è un passaggio di quella lettera che mi ha toccato profondamente: «[…] La crisi climatica è il tema più importante dei nostri tempi, eppure c’è ancora chi crede che possiamo risolvere questa crisi senza sforzo, senza sacrificio. […] Se vivessi cent’anni, nel 2103 sarò ancora viva. Quando voi oggi pensate al “futuro”, non pensate oltre il 2050. Ma io, nel migliore dei casi, nel 2050 sarò arrivata a metà della mia vita. E cosa accadrà dopo? Nel 2078 compirò settantacinque anni. Se avrò figli e nipoti, vorranno festeggiare quel giorno con me. Vorreste che parlassi loro di voi? Come vorreste essere ricordati? Ciò che state o non state facendo oggi, influenzerà la mia vita e la vita dei miei figli e dei miei nipoti. Forse mi chiederanno perché non avete fatto nulla e perché chi sapeva o poteva parlare non lo ha fatto».

Questo passaggio in cui si rivolge direttamente al mondo degli adulti mi interpella: «Vorreste che parlassi loro di voi? Come vorreste essere ricordati?». Ci ricorda al fatto che come esseri viventi, come esseri umani, nasciamo e viviamo di relazioni. Siamo chi siamo perché dipendiamo e ci rispecchiamo gli uni negli altri. Questo è un insegnamento chiave del femminismo veniamo al mondo attraverso la relazione con la madre e ancora prima attraverso l’incontro di due persone. E viviamo, ci nutriamo, ci sviluppiamo, cresciamo, ci individuiamo attraverso le relazioni. Questo tema delle relazioni è importante anche nell’ecologismo, o almeno in un certo ecologismo, perché l’ecologismo non è tutto uguale. Come ci ha insegnato Gregory Bateson, per tutto ciò che riguarda la vita e il vivente «la relazione viene prima, precede».

Quello che vorrei dire dunque è che i “nodi che vengono al pettine” sono le nostre relazioni, riguardano non solamente cosa stiamo facendo e cosa stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi o cosa stiamo facendo agli altri popoli o alle altre specie. Riguardano chi siamo noi oggi. Chi siamo come esseri umani, come uomini, come donne, padri, madri, nonni, nonne, fratelli, sorelle. Ma anche chi siamo come “generazione”, come “soggetti politici”, come “cittadini democratici”, perfino chi siamo come “specie”. Noi siamo le nostre relazioni. Siamo nelle e attraverso le nostre relazioni. I nodi che vengono al pettine riguardano dunque non solo come pensiamo “la natura”, “il pianeta”, “il futuro”, ma come pensiamo noi stessi. Come ci pensiamo. Come pensiamo e basta. Se pensiamo come individui o soggetti isolati o se riconosciamo relazioni, differenze, interdipendenze. Se pensiamo come famiglia, come clan, come nazione, come specie se pensiamo per relazioni, in quanto esseri conviventi. La situazione attuale – che la si chiami antropocene o capitalocene – come ha notato Donna Haraway è stata creata su basi relazionali e va disfatta su basi relazionali.

Occorre da questo punto ampliare la prospettiva a partire dalla quale si assumono gli orientamenti e le decisioni. In fondo si tratta di un problema di inquadramento contestuale e di significazione dell’esperienza. Aveva probabilmente ragione Gregory Bateson quando ci suggeriva di considerare il destino in cui la nostra civiltà è entrata “un caso particolare di vicolo cieco evolutivo”. Abbiamo iniziato a pensare con un’ottica sempre più ristretta e di breve periodo (in quanto specie, in quanto maschi, in quanto bianchi occidentali, in quanto paesi sviluppati, in quanto generazione) e i comportamenti che offrivano vantaggi a breve scadenza per “noi” sono stati prima adottati e poi programmati rigidamente. Ma alla fine sui periodi più lunghi, questi stessi comportamenti (e i loro relativi modi di pensare) hanno cominciato a rivelarsi disastrosi e a costituire una minaccia per tutti e tutte. Quindi le strategie che si sono apparse funzionali e premianti fino ad un certo punto (il più forte, il più armato, il più grande, il più ricco, il più sviluppato, il più tecnologico) oggi si rivelano essere il principale ostacolo, l’elemento di rigidità che ci rende difficile pensare di cambiare e pensare di salvarci. Occorre dunque revisionare radicalmente questo modo di pensare. Come alcuni scienziati cominciano a rivelarci, «non siamo mai stati individui».

Ma questa revisione o riconfigurazione cognitiva non va vista come un problema dei singoli individui, ma come un problema di cultura e educazione democratica. È la comunità politica democratica che deve seminare e coltivare nei cittadini un senso diverso del nostro essere e del nostro vivere che aiuti a superare la miopia e la strumentalità di un modo di segmentare la realtà troppo angusto. Se oggi la politica è in crisi, se non sa orientarsi nel presente e non sa proiettarsi nel futuro è perché ha perso il senso delle relazioni fondamentali su cui si basa il vivente e su cui si deve rifondare anche la comunità politica. Per dare luogo a una politica capace di futuro deve mutare la nostra percezione del qui e ora. Si può parlare a questo proposito di alcuni assi fondamentali lungo cui va inscritta la nostra libertà e ripensata la politica, riconoscendo e risignificando in maniera più profonda e più saggia le diverse forme di interdipendenza che riguardano le relazioni tra i sessi, tra i popoli vicini e lontani, tra generazioni passate e future, tra differenti specie viventi. Io credo ci sia una profonda relazione tra la crisi ecologica e climatica e la crisi della democrazia in termini politici, culturali e sociali. In termini di comprensione non è sufficiente infatti misurare e valutare la portata della crisi ecologica e climatica (in termini di emissioni e concentrazioni di gas climalteranti, di inquinamento, di perdita di biodiversità, di pressione sulle risorse ecc…) sulla base di un generico riconoscimento dell’origine antropogenica di queste alterazioni. Non è possibile infatti prescindere da un’approfondita indagine capace di interrogare le radici di tale disequilibrio ecologico a partire dalla strutturazione e dal funzionamento delle società umane e delle comunità politiche e delle relative istituzioni, migliorando così la comprensione riflessiva della condizione in cui ci troviamo.

Dobbiamo considerare fra l’altro che ci sono modi molto diversi di pensare la crisi ecologica e il cambiamento climatico, che implicano o suggeriscono prospettive e modelli di azione molto diversi: si tratta di un problema generato dal crescente impatto dell’umanità sul pianeta (l’idea dell’antropocene); oppure dal sempre più distruttivo ruolo del sistema capitalista (la categoria differente di capitalocene); dalla violenta storia dell’imperialismo; dal fallimento di un sistema tecnologico industriale che ha legato il suo destino a fonti fossili non rinnovabili; dall’egoismo di poche generazioni nei confronti di quelle successive; è l’esito ultimo di una specifica tradizione filosofica e culturale che è andata completamente e arrogantemente alienandosi dal proprio habitat (la prospettiva della deep ecology), oppure di un paradigma patriarcale che ha informato scienza ed economia fino a disconoscere il ruolo centrale della cura e della riproduzione (femminismo ed ecofemminismo), o ancora il frutto dell’ossessione quantitativa sulla crescita (la prospettiva della decrescita) eccetera… Ciascuna di queste congetture presuppone non soltanto analisi dissimili, ma soprattutto prospettive di lavoro che presuppongono percorsi, ricette e obiettivi pubblici e privati anche molto differenti. Insomma, il conflitto politico anche sul tema del cambiamento climatico non può essere espunto o trasceso. Un conto è il dato scientifico e incontrovertibile sul riscaldamento del pianeta e la sua origine antropogenica, un altro conto è ammettere le diverse responsabilità di fronte a questa condizione o comprendere che il cambiamento climatico significherà cose diverse per soggetti, territori, e tempi differenti, o ancora riconoscere l’esistenza di strategie e politiche alternative per affrontare questo problema.

Occorre d’altro canto riconoscere, in tutta onestà, che i regimi e le democrazie contemporanee si sono fin ora dimostrati non all’altezza dei problemi concreti, si pensi alla riduzione delle emissioni climalteranti per non parlare di cambiamenti più incisivi, e questo per ragioni strutturali e tutt’altro che superficiali. Un generico appello verso la democrazia – tanto più in un momento in cui i sistemi democratici sembrano sempre più sclerotizzati e platealmente vulnerabili alle forme peggiori di populismo e di sovranismo egoistico – non ha senso, se non come scommessa di rigenerazione e rinnovamento. Le democrazie liberali hanno la responsabilità storica di aver costruito gran parte del loro successo e del loro consenso sull’espansione e la moltiplicazione dei bisogni e dei consumi all’interno di un mercato capitalistico, contribuendo così ad accrescere l’impatto sull’ambiente e sul clima e a sedimentare e cristallizzare forme di disuguaglianza e di ingiustizia ambientale a livello globale. Basti pensare a come l’accesso alle risorse energetiche e alle altre risorse fondamentali sia stato garantito attraverso lunghi e sanguinosi conflitti e interventi militari. In passato per il petrolio, in futuro magari per le terre rare o per il cibo. Se una parte del successo delle democrazie liberali e di mercato si è fondato sulla capacità di assicurare energia, tecnologia, merci e prodotti a buon mercato ai propri cittadini allora è facile comprendere come la possibilità di costruire consenso politico attorno alla prospettiva di abbandonare le forme di economia capitalistica distruttiva, di sostenere un’automoderazione dei consumi, un livellamento del tenore di vita verso livelli dignitosi ma più sobri e sostenibili diventi una sfida complicatissima, e allo stesso tempo ineludibile.

Quello che ci è richiesto oggi è proprio la capacità di affrontare una radicale discontinuità, che richiede non solamente un’estensione della partecipazione e un maggior decentramento del potere, ma anche una capacità di apprendimento dei sistemi democratici e della cultura pubblica, in funzione di un salto di complessità e riflessività. Dunque, con quale idea di democrazia ci prepariamo a raccogliere queste sfide? Cosa significa concretamente ripensare la democrazia a partire dal riconoscimento (come avrebbe suggerito Hannah Arendt) della pluralità dei soggetti che abitano il mondo: uomini, donne, popoli, generazioni, specie viventi? In che modo il riconoscimento di questa pluralità – ovvero il ripensamento dell’idea stessa di cittadinanza e di sovranità – può riaprire il gioco della democrazia e donargli uno spazio, un tempo e una profondità differente?

Certamente, così come il femminismo ci ha ricordato che il riconoscimento delle donne, delle differenze, non può essere semplicemente un’aggiunta alla democrazia maschile, allo stesso modo la dimensione ecologica e della sostenibilità non può essere semplicemente un’aggiunta alla democrazia liberale di mercato. Entrambe le interrogazioni richiamano all’incapacità della tradizione democratica di mettere al centro il nodo delle relazioni, delle interdipendenze e quindi dei limiti. Dunque, non si tratta solo di affrontare qualcosa che è stato tralasciato o considerato secondario, si tratta invece di illuminare una ferita, un vulnus strutturale della teoria e della prassi democratica. Riconoscere questo peccato nella coscienza politica delle democrazie occidentali non significa chiudere i conti con la democrazia. Significa piuttosto sfidare il pensiero democratico a un necessario riorientamento complessivo.

Perché le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nella rinascita di un pensiero ecologista moderno? E perché in tutto il mondo le donne guidano movimenti ecologici contro la deforestazione e l’inquinamento, contro i pericoli tossici e nucleari, per un cibo sano e per la tutela della salute? Come ha sottolineato Vandana Shiva, questo «non è dovuto a nessun cosiddetto “essenzialismo” femminile innato. È una necessità appresa attraverso la divisione sessuale del lavoro, poiché le donne sono lasciate a prendersi cura del sostentamento, fornendo cibo e acqua, salute e cure. Quando si parla di economia rigenerativa, le donne sono gli esperti, anche se non sono riconosciute come tali. Anche se l’apporto di sostentamento è l’attività umana più vitale, un’economia maschilista che comprende solo il mercato, lo tratta come non-lavoro».

Per immaginare e costruire assieme una comunità politica realmente democratica ed ecologica, dobbiamo dunque riconoscere e rimettere al centro l’idea centrale della cura. La cura intesa non in senso familistico, privatizzato e reso invisibile, ma come necessità complessiva di sussistenza e manutenzione, non solo ambientale, ma anche economica, sociale e politica. Dunque, la cura dei corpi, dei bisogni, dei desideri e delle aspirazioni; la cura dei bambini, dei giovani e degli anziani; degli uomini e delle donne; dei sani e dei malati; delle case, delle città e delle istituzioni; dei territori e del vivente; dei beni comuni, sociali ed ambientali; la cura della trama invisibile delle relazioni come impegno di tutta una comunità, costituisce l’aspetto fondamentale e ineludibile di ogni tentativo di rigenerazione della vita e della politica.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 1 dicembre 2019 Crisi ambientale: i nodi al pettine.

Mi chiamo Elena e faccio parte di Extinction Rebellion (abbreviato XR) da qualche mese. Come mai sono entrata in XR? Da sempre sono abbastanza attenta e sensibile verso le sofferenze degli altri esseri viventi e del pianeta in generale, ho fatto parte di associazioni animaliste, ho spesso dedicato le mie vacanze al volontariato naturalistico, nutrendo la speranza che questo potesse servire. Purtroppo, però non basta, e non basta lo sforzo di tutte le persone di buona volontà che ho conosciuto e di quelle che non ho conosciuto. I dati scientifici fanno poco ben sperare e ho sentito una urgenza rinnovata e forte, ho pensato che le azioni individuali sono importantissime, ma anche i governi devono fare la loro parte, l’emergenza attuale richiede azioni immediate e veloci.

Perché allora non entrare in qualche organizzazione ambientalista grande e importante, a questo punto? Perché sono organizzazioni uguali alle organizzazioni che già ben conosciamo, non vedo nulla di nuovo, se non entrare, chiedere chi comanda e farsi dire cosa c’è da fare. Anche no, grazie.

In XR non ci sono capi, ma un sistema organizzativo basato sulla decentralizzazione e soprattutto sulla spinta personale. XR dice proprio «fai quello che ti porta gioia». Wow, questa è una novità! Poi ho sentito parlare di cultura rigenerativa, essere già noi, nel nostro modo di stare insieme, il mondo che vorremmo. Un mondo non violento, sotto ogni aspetto, a partire dalle relazioni tra noi ribelli. Ecco, ho trovato quello che cercavo, visto che non accetto la violenza, non accetto la violenza fisica, non accetto l’uso della forza solo perché si può. Ma non accetto nemmeno la violenza verbale, psicologica, la violenza dei silenzi, la violenza del cibo, la violenza del cosiddetto “progresso”. Non accetto la violenza. Punto. E in XR ho trovato una forte attenzione a questo, non violenza non soltanto durante i momenti di protesta ma anche nello stare insieme, nel modo di stare insieme, nel modo di parlare tra di noi. Questo non lo avevo mai trovato altrove.

Ci si potrebbe chiedere cosa c’entra tutto questo con l’ambiente. A mio avviso c’entra tantissimo. Perché nel nostro sistema attuale, il modo di stare insieme e stare con il pianeta e gli esseri viventi è basato principalmente sulla violenza. Sul furto di ciò che non è nostro, si prende senza chiedere il permesso. Siamo abituati a questo, siamo assuefatti alla violenza. Tutti e tutte. Anche io.

Qualche anno fa ho iniziato a sentire che necessitavo di altro, qualcosa non mi tornava, non saprei neanche dire con quanta consapevolezza presi una serie di decisioni, ora è più facile darvi un senso, ma in quel momento mi spinse solo la necessità di “cambiare aria”. E ho iniziato un percorso personale che chiamerei di “risveglio”. Ho approfondito la mia formazione con una specializzazione in psicoterapia, mi sono avvicinata ai buddisti di Tic Nathan, che ho conosciuto durante i ritiri al Plum Village in Francia. Mi sento, come dire, risvegliata appunto, ho gli occhi aperti, o meglio più aperti di prima, ho ancora molto da fare. E di XR apprezzo questa attenzione e sensibilità a RI-educarci tutti quanti ad un nuovo modo di stare insieme, mettendo in discussione quello che è il nostro sistema alla radice, rimettendoci in gioco uscendo dalle comfort zone, ripensando tutto. Ho trovato persone con cui proseguire questo percorso e intanto chiediamo ai governi di non fare finta di nulla, di dire la verità, di agire velocemente e di pensare a modi nuovi per prendere decisioni. Subito, perché siamo già in ritardo.

Pensiamo alle decisioni, nelle organizzazioni qualcuno decide e altri no, questo modello è efficientissimo, ma lascia indietro tantissime posizioni, persone, opinioni, punti di vista, in favore di uno solo. XR non vuole proporre soluzioni ma vogliamo che le soluzioni vengano da assemblee di cittadini, che tutti noi torniamo a occuparci di noi. In XR ho trovato persone diverse, con opinioni diverse, ma tutte egualmente preoccupate per il destino del pianeta e degli esseri viventi che lo abitano, ed è bello potersi confrontare in questi termini con altre persone, mi sento meno sola in questa preoccupazione, e meno impotente davanti alla catastrofe. Perché stiamo parlando di una estinzione di massa in corso.


Greta Thunberg ha spostato le montagne provocando politici riottosi a mettere in agenda l’emergenza climatica e molto comincia a muoversi nella società e nelle coscienze individuali. Assieme ai Fridays for Future, altri movimenti internazionali sono venuti alla ribalta come Extinction Rebellion e il Fòrum Social Mundial de les Economies Transformadores.

Con queste realtà politiche vogliamo dialogare, tenendo conto che, se vogliamo incisività e capacità trasformativa, non possiamo ignorare la critica e la lotta al capitalismo predatorio che tanta parte ha avuto nella crisi che abbiamo davanti ai nostri occhi.

A partire dalle nostre realtà diverse, come possiamo contribuire insieme alla creazione di una cultura, di un immaginario e di un linguaggio per una transizione positiva?


Avvieranno la discussione Marco Deriu ed Elena (Extinction Rebellion)

Ci sono uomini e donne che dicono in buona fede: bisogna cambiare la legge Merlin per regolare meglio la prostituzione. Con queste persone bisogna parlare, come ha fatto S. con suo figlio. In effetti, la legge Merlin non è fatta per regolare il rapporto di scambio sesso/denaro tra un uomo e una donna. Questa legge si limita a depenalizzarlo (cancellarlo come reato dal codice penale). Lo Stato interviene solo in caso di abusi (minorenni, violenza fisica, costrizione, ricatti… che sono comunque dei reati).

Questo è il primo punto da dirsi chiaramente: regolare il rapporto di prostituzione come tale, vorrebbe dire che lo Stato lo riconosce e si assume quindi il dovere di renderlo possibile nei limiti fissati dai suoi regolamenti, con conseguenze che possono avvicinarsi alle famigerate case chiuse o ai quartieri a luci rosse. Vorrebbe dire cioè che la prostituzione è ammessa come un’istituzione della vita civile.

La legge Merlin, invece, semplicemente ignora il rapporto tra lei che consente e lui che la paga, se è dato supporre che sia una libera scelta di entrambi. Quello che fa è proibire penalmente il fatto che terze persone possano trarne profitto, dagli sfruttatori veri e propri agli intermediari, agli albergatori, ecc. Le traversie penali di Berlusconi (tasse, mafia e minorenni a parte) parlano proprio di questo: lui ne è rimasto fuori ma non gli intermediari (i ruffiani, nel linguaggio popolare).

La legge Merlin regola così la posizione dello Stato verso la prostituzione nel senso che non autorizza né vieta alle persone di ricorrere al rapporto sessuale prostituito, ma non ammette che il loro rapporto generi profitto per altri. Neanche lo Stato può guadagnarci, infatti lo scambio sesso/denaro non è tassato. 

Qual era lo scopo di Lina Merlin? La risposta è semplice: abolire la prostituzione in quanto istituzione del patriarcato che, mediante i soldi, procura agli uomini il diritto di usare il corpo femminile, analogo a quello dei vincitori in tempo di guerra. Ma perché lei non ha preso la strada del proibizionismo? La risposta è meno semplice: perché il proibizionismo non funziona; perché penalizza anche la parte femminile; perché darebbe allo Stato il potere d’intromettersi nelle scelte personali: e forse anche per lasciare aperta un’alternativa alla sessualità maschile… 

Non è la legge Merlin, quindi, che dobbiamo cambiare, anzi! va difesa in quanto è il compromesso più avanzato che ci sia tra libertà personale e dignità di una società civile degna di questo nome.

“Les plages d’Agnès” così titola il suo film-autoritratto la regista Agnès Varda per significare l’importanza dei luoghi che segnarono la sua infanzia, la sua adolescenza, le prime imprese di fotografa, la successiva carriera di regista con la creazione della casa di produzione Ciné-Tamaris, e  la sua vita sentimentale e familiare. Sono le spiagge del Nord – quelle belghe; le spiagge del Sud – Sète in particolare della sua giovinezza; le coste della Corsica nei suoi viaggi da studentessa; le spiagge di Parigi lungo la Senna e quella artificiale creata nella sua via; le spiagge dell’Ovest sull’Atlantico – Noirmoutier in particolare, frequentate  con il marito Jacques Demy e i figli; quelle americane di Los Angeles e Venis Beach.

Con apparente levità la regista evoca i grandi eventi storici che hanno segnato e influenzato la sua esistenza: la seconda guerra mondiale, la fuga dal Belgio, la persecuzione degli ebrei e la caccia e cattura dei bambini ebrei, la guerra di Algeria, il maggio francese, il movimento dei neri negli USA e il femminismo.

Per esprimere l’importanza della fotografia nella sua vita e nella sua carriera di artista, il suo racconto parte dalle foto d’infanzia  dall’album della madre che dispone sulla sabbia, in mezzo all’erba secca delle dune; ci sono poi le foto di Sète e del suo porto; la sua tessera di studentessa; quelle del festival di Avignone al suo debutto come fotografa; le foto riprese nei suoi viaggi in Cina e a Cuba.

Passato e presente si mescolano quando ci riporta con un viaggio in barca nel porto di Sète o a visitare la sua casa d’infanzia a Bruxelles o a rivisitare Pointe Courte e incontrare  le comparse del suo primo lungometraggio del ’54 che la rese celebre fra cineasti e critici della Nouvelle Vague.

Come parte della sua vita scorrono le immagini dei film realizzati creando una forma di retrospettiva personale: quelli di fiction e i documentari e i film d’inchiesta insieme  al repertorio privato di immagini e di video sulla sua famiglia e le sue amicizie più intime.

Dai suoi racconti e dalle immagini emerge con chiarezza il senso della sua intera opera cinematografica: l’invenzione che ha caratterizzato il suo cinema e la sua intera produzione di artista e di fotografa. Saper riprodurre il reale e inserirlo in un’opera di fiction e viceversa. Realtà e immaginario in una versione nuova da lei chiamata “cinécriture”.

Nel film è lei sola in scena e si rappresenta senza abbellimenti e per dare il senso del reale c’è il rumore delle onde, l’uso della luce naturale, la sua troupe all’opera che procede con la messa in scena che diventa essa stessa una parte delle sue installazioni artistiche dove l’autorappresentarsi scherza con il simbolismo degli specchi.

Il film è girato su una dimensione  giocosa per descrivere il mondo interiore di Agnès Varda e quello delle persone che ama e di cui vuole parlare. Tutto appare artigianale e improvvisato, una  scelta che nasconde una pianificazione attenta ad ogni movimento di macchina, ad ogni ripresa di scena.

La rappresentazione del passato diventa una ri-presentazione attraverso una foto o un’immagine, un oggetto che fa risorgere i ricordi e qui procede, nella realizzazione del  suo documenteur – una parola di sua invenzione -, dove tutto è vero, ma in forme sempre diverse e  inusuali.

Sono una studentessa brasiliana che viene alla Libreria delle donne di Milano da settembre 2019. Il 6 ottobre ho partecipato all’incontro della rivista Via Dogana 3 per la prima volta. L’argomento su cui tre donne stanno ragionando mi fa desiderare di mettere in scena il mio “partire da sé” per ripensare con il mio corpo, in presenza, la mia storia e la relazione con mia mamma (e la sua storia). Sono tante le donne del passato e del presente che mi abitano in questo momento! Ricordo la relazione di gratitudine con tutte le donne prostituite che mia mamma mi ha insegnato.

Lei è nata in una famiglia molto povera nello stato brasiliano di Minas Gerais. Lei e i suoi fratelli hanno patito la fame nell’infanzia. Mia nonna preparava le caramelle perché i figli le vendessero nelle strade della città. Erano bambini che lavoravano per aiutare la loro mamma a portare cibo a casa. Già allora i bambini che restavano in strada a vendere qualcosa erano ignorati dalla gente più ricca. Quale madre permette ai suoi figli di stare fuori a lavorare? Con questi giudizi morali quei bambini non riuscivano a vendere le caramelle alle persone distinte (oggi chiamate “buoni cittadini”).

Erano le prostitute che provavano empatia per la loro situazione e, senza giudicare mia nonna, compravano tutte le caramelle dei poveri bambini. Così loro potevano tornare a casa e far mangiare tutta la famiglia. Semplicemente lì è stato costruito un legame di solidarietà tra donne: mia nonna non chiedeva ai suoi figli dove e come avevano potuto vendere i dolci, e queste donne non chiedevano ai bambini chi fosse la loro madre e perché già lavoravano… Le “donne di vita” – come il popolo chiamava le prostitute – a Uberlândia negli anni ’50 avevano soldi e senso di solidarietà sociale. Per questo ho imparato a rispettarle e a essere molto grata per la loro presenza nella storia delle donne della mia famiglia materna.

Così, in un primo momento, ho avuto una relazione quasi poetica con la prostituzione. Ma, essendo brasiliana, vedo la complessità di questo problema, perché ho davvero e per sempre quella gratitudine come eredità materna ma provo anche una forte indignazione per il modo in cui le donne sono prostituite nel mio paese.

Quindi chiedo, e non solo retoricamente, chi sono le donne che possono scegliere di vendere o no il proprio corpo in modo autonomo, farne un lavoro, un lavoro sessuale, dargli o no un prezzo? La mia domanda non ha un approccio morale ma un approccio socio-economico. Non propongo neanche un dibattito sulla legittimità o meno della decriminalizzazione della prostituzione o della lotta per il sex work. La cosa che mi colpisce adesso è il fatto che la prostituzione sia strutturale ed endemica in Brasile e come questo ci consente di avvicinare il Brasile e l’Italia, perché io oggi sono qui e penso da questo posto.

La prostituzione costituisce una necessità economica per molte famiglie brasiliane (e non solo brasiliane, perché so che è un fenomeno internazionalizzato) e alimenta una rete che fornisce sostentamento a molte persone. Alcune persone sono consapevoli che i soldi che le sostentano provengono da questo tipo di lavoro, molte altre sono ingannate da persone legate alle reti di sfruttamento sessuale di bambine e adolescenti o del traffico sessuale di donne. Dove c’è carenza di quasi tutto, la società dei consumi rende i corpi di bambine, adolescenti e giovani donne un prodotto desiderabile. Quindi sono spesso i genitori che offrono o incoraggiano la vendita dei corpi delle loro figlie, oppure spesso queste ragazze, abbandonate dalle famiglie, dallo Stato, invisibili a tutti noi, scoprono molto presto che i loro corpi hanno un valore di scambio e possono consentire loro di condurre una vita di sopravvivenza, spesso breve e intrecciata con innumerevoli violenze. La prostituzione è crudelmente una fonte di reddito indispensabile per molte famiglie e molte piccole città.

Ma la relazione tra Brasile e Italia pensata dalla prostituzione ha attirato la mia attenzione nel 2009, quando sono andata in Ceará per restare più di un mese da un mio caro amico. Abbiamo fatto un giro tra molte spiagge bellissime, con acqua calda e di un azzurro quasi trasparente. La bellezza di quello Stato è indimenticabile, però quello che mi ha colpito di più è stato il numero di turisti italiani accompagnati da ragazze o giovani donne brasiliane. Mi guardavo intorno e mi chiedevo: «È normale? Nessuno ne è disturbato? Sono solo io indignata per questi esempi espliciti di sfruttamento e prostituzione delle ragazze?»

Nello stato di Ceará, nel nordest del Brasile, i tassi di turismo sessuale sono molto alti. Come dimostrano i documenti ufficiali del governo brasiliano del 2013, gli italiani sono la maggior parte dei turisti stranieri. Forse non tutti vanno lì per turismo sessuale, ma molti ci vanno a questo scopo e questo lo sanno tutti, al punto che ci sono voli diretti dall’Italia verso Fortaleza, capitale di questo Stato, che tutti chiamano “il volo del turismo sessuale”. E la prostituzione di bambine, adolescenti e giovani donne davvero avviene alla luce del giorno sulle spiagge di Ceará, come se fosse qualcosa di naturalizzato e normalizzato in quel contesto. Per me è un crimine gravissimo. Ma è anche una fonte sicura di profitto per l’industria del turismo. E questa sarebbe una prima ipotesi per spiegare la normalizzazione di questo crimine in questo contesto, la cui economia dipende fondamentalmente dal turismo. Secondo il regista brasiliano Joel Zito Araújo che ha condotto una ricerca approfondita sul turismo sessuale e la prostituzione nel nordest del Brasile, in Italia e in Germania per realizzare il documentario Cinderela, lobos e um príncipe encantado, il 70% delle donne cercate da uomini stranieri per turismo sessuale sono nere e il 95% proviene da classi sociali inferiori. Sono dati che confermano l’impressione che ho avuto quando mi sono resa conto di questo problema, nel 2009. I corpi di ragazze nere e/o povere valgono meno sul mercato ed è per questo che il loro sfruttamento è così facilmente naturalizzato? O è il bisogno di sopravvivenza in un luogo privo di opportunità per la maggior parte delle persone che, insieme agli interessi economici, definisce i comportamenti? Queste sarebbero altre ipotesi che ritengo necessarie ad approfondire le cause della naturalizzazione dello sfruttamento delle donne.

La prostituzione in Brasile è spesso ancora legata a contesti di schiavitù o servitù contemporanea, nutrita dal neocolonialismo e giustificata dalla complessa rete di oppressioni vissuta dalle donne brasiliane, secondo la nostra realtà sociale, culturale ed economica: oppressione di genere, razza, classe e molti altre non ancora nominate. Ma, contraddittoriamente, come mostra il documentario sopra citato, anche negli scenari peggiori, che agli occhi di donne privilegiate come noi superano tutti i limiti della dignità umana, molte ragazze e donne vedono lì un’opportunità per cambiare la propria vita. Molte di loro nutrono il sogno romantico di incontrare un principe azzurro che potrebbe salvarle da ogni sofferenza. Perché per loro queste fugaci relazioni con uomini stranieri sono di solito le loro uniche fonti di affetto e apprezzamento per la loro autostima. Il contesto mostrato in quel film e la mia esperienza di indignazione in Ceará risalgono al primo decennio di questo secolo e ora sia i programmi sociali dei governi progressisti che abbiamo avuto in Brasile dal 2003 al 2016, sia i numerosi progressi dei movimenti femministi hanno contribuito a trasformare la vita di molte donne.

Ma domando: che cosa si potrebbe fare dall’Italia in modo che i ragazzi in formazione oggi non diventino prostitutori o consumatori di turismo sessuale in futuro, sfruttando ragazze di paesi come il Brasile? Chi dovrebbe fare qualcosa? Servirebbe a educare i loro desideri mostrargli le conseguenze delle loro scelte sessuali sulla vita delle donne? Gli uomini prostitutori, da adulti, dovrebbero essere puniti in conformità con le leggi del loro paese di origine e del paese in cui sfruttano le donne? Queste sono le sfide del patriarcato internazionalizzato che dovranno essere affrontate.

La riflessione che sto facendo vittimizza ancora le donne? Penso di sì, ma insisto con questo tono perché molte donne, in paesi resi subalterni (o di paesi subalterni portate in Europa), sono le principali vittime di un sistema capitalistico, patriarcale, colonizzatore e razzista che sfrutta ripetutamente i loro corpi per mantenere i suoi profitti e le sue posizioni di potere, alimentando industrie come il turismo sessuale nonostante le sue terribili conseguenze.

Comunque la prostituzione mi attraversa, mi appartiene e mi sconcerta. In Europa, in particolare in Italia, paese che consuma ripetutamente la prostituzione brasiliana, io sono vista da molte persone attraverso questa prospettiva e ne sono giudicata moralmente. Sono quindi una brasiliana che parla di prostituzione in un luogo in cui l’immagine preponderante della donna brasiliana è di prostituta. Questa immagine è stata costruita all’estero dallo stesso governo brasiliano, principalmente negli anni ’70 e ’80, attraverso strategie pubblicitarie e di marketing per promuovere il turismo in Brasile. Ma deriva da meccanismi interni costitutivi e molto più antichi di quanto siamo noi come paese, senza dimenticare che la schiavitù è stata per quasi quattrocento anni la principale istituzione del modello di colonizzazione brasiliano.

Un modello socio-economico basato sulla violenza simbolica sulle donne, in particolare sulle donne di colore, i cui corpi sono stati (e sono ancora) proprietà dei padroni e che sono sempre state concretamente e simbolicamente a loro disposizione per essere sfruttate e violentate. Le donne di colore, anche dopo l’abolizione legale della schiavitù, sono ancora rappresentate attraverso stereotipi che contribuiscono alla perpetuazione delle numerose violenze che vivono concretamente e che sono indispensabili per alimentare il desiderio dei consumatori maschi.

Quindi voglio concludere riaffermando la necessità e l’importanza di costruire legami di solidarietà tra donne diverse, attraverso un costante sforzo di riavvicinamento e comprensione tra i loro diversi mondi, come mi ha insegnato la storia di mia madre e di mia nonna. Lo scopo della mia riflessione era quello di rivelare le emozioni e i ricordi che il tema della prostituzione mi provoca, e non di parlare a nome delle molte ragazze e donne brasiliane la cui situazione nutre la mia indignazione, come se non avessero voce e avessero bisogno di essere salvate da me. Primo, perché so che hanno voci, voci diverse e anche protagonismo (e organizzazione sociale), che spesso permette loro di ricostruire le proprie vite. E immagino anche che le loro voci, se fossero ascoltate e diffuse, offrirebbero sfumature mai pensate da esperienze diverse come la mia. Infine, non faccio affidamento su una prospettiva religiosa per presentare i miei argomenti in una dimensione di salvezza, ma noi donne della periferia del mondo (e non solo di lì), a causa della complessità dei problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente, non possiamo ancora rinunciare a un certo messianismo per rimanere attive nella lotta per altre modalità di esistenza.

Abbiamo partecipato con grande interesse alla redazione allargata di Via Dogana 3, sul tema La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti (6 ottobre 2019).

Avevamo affrontato e discusso, in diverse occasioni, gli aspetti giuridici e le politiche in atto a livello internazionale sulla prostituzione, ora abbiamo avuto la spinta a ripartire ciascuna “da sé”, da noi, dal vissuto, per mettere a fuoco cosa ci tocca nel profondo e come ci interpella quest’esperienza, anche se non la viviamo in prima persona. Durante l’incontro è emerso con forza il tema dello stupro simbolico. La femminista Elizabeth Cady Stanton, a noi donne delle Comunità Cristiane di Base molto nota per aver scritto a fine Ottocento un saggio di esegesi biblica dal punto di vista femminile intitolato La bibbia delle donne, sosteneva che la società, così com’ era organizzata sotto il potere maschile, era un grande stupro del genere femminile.

Questa è una consapevolezza che abbiamo da tempo, Lia Cigarini nel 1995 in La politica del desiderio dedicò un capitolo a questo tema, ricordando che è necessario tener presente che, nonostante l’esistenza di leggi buone, è possibile che si riproducano rapporti di forza determinati e sfavorevoli alle donne se non si va alla radice di ciò che accade, trovando pratiche che pongano fine allo stupro simbolico.

Nella prostituzione siamo di fronte ad un duplice stupro: fisico e simbolico.

Il commercio del sesso è al centro di un dibattito molto acceso a livello internazionale, sia tra le femministe sia tra le e gli attivisti per i diritti umani. E anche la sinistra – abbiamo visto in Italia le posizioni della CGIL – oscilla tra pro-sex-work e abolizionismo. Per questo motivo alcune donne hanno restituito la tessera sindacale e dato le dimissioni dalla rappresentanza. Tra noi due Doranna, delegata sindacale nella Cgil Comunicazione, vive con sofferenza questa contraddizione perché sente che riconoscere la prostituzione come un lavoro qualsiasi mette in discussione il senso stesso del lavoro, come spiega Luciana Tavernini,e non consente alcun margine di trasformazione radicale nel rapporto tra i sessi.

Ciò che c’è di nuovo è che molte donne che hanno vissuto la prostituzione in prima persona hanno preso la parola, hanno scritto libri importanti in cui analizzano politicamente il loro vissuto, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia per l’abolizione della prostituzione, partendo dal presupposto che la compravendita dei corpi non sia lecita, che sia equiparabile a una forma di schiavitù e che, come la schiavitù, vada abolita.

Hanno reso manifesta un tipo di sessualità maschile spesso violenta e immiserita dallo scambio sesso/denaro, svelando che il corpo non è una cosa che una donna possiede ma la costituisce.

Non si tratta dunque di rendere disponibili alla compravendita qualcosa di separabile da sé se non attraverso la dissociazione. La schiavitù di donne e bambine sul mercato, oltre ad essere stupro a pagamento, come ci spiega nel suo libro Rachel Moran uscita dal mercato prostituente e ora attivista abolizionista, rappresentano uno stupro simbolico che tocca tutte le donne, perché offendendo i loro corpi si offendono le donne nella loro interezza. Finché questo sarà possibile, nelle relazioni tra i sessi mancherà l’equilibrio necessario per l’affermarsi di una sessualità relazionale, libera e gioiosa espressione del desiderio tra uomini e donne e si immiserisce il desiderio e l’espressione di sé maschile. Le nuove narrazioni femminili hanno dato parole nuove e forza anche a chi, come noi due, non ha vissuto quest’esperienza, per parlarne pubblicamente e trovare le connessioni con i nostri vissuti.

Non crediamo di poter guarire le ferite delle donne e bambine alle quali è stato inflitto lo stupro fisico, ma possiamo, grazie al loro coraggio e alle loro parole che dicono la verità su quest’esperienza, lottare insieme per porre fine allo stupro materiale e simbolico della prostituzione, un’istituzione maschile patriarcale, consolidata dal capitalismo, per accedere ai corpi delle donne attraverso il denaro.

Per noi lottare insieme ha significato prima di tutto far rete con le associazioni che sul nostro territorio si occupano di violenza degli uomini contro le donne, sia per quanto riguarda l’accoglienza e l’accompagnamento delle donne che la subiscono sia per quanto riguarda i centri di ascolto del disagio maschile dove vengono accolti gli uomini maltrattanti. La nostra assessora Francesca Costarelli ha avuto l’intuizione di creare un tavolo con tutte queste associazioni per dar vita a eventi significativi che affrontino il problema sia sul piano materiale che su quello simbolico, nel senso che questo tipo di violenza è strutturale ed è quindi necessario andare alle radici di ciò che accade per comprendere a fondo da quali meccanismi sono determinati i fatti.

Per un problema strutturale servono soluzioni strutturali. Non basta quindi parlarne tra donne, occorre che anche gli uomini ne parlino. Mentre in passato non era possibile perché gli uomini negavano, ora, grazie alla presa di parola pubblica delle donne, è il momento in cui si può avere un’interlocuzione vera e, ritenendolo importante, noi ci siamo messe in dialogo con gli uomini.

Dopo l’incontro del 15 marzo scorso a Pinerolo, realizzato nell’ambito di IO LOTTO SEMPRE, a cui erano state invitate Grazia Villa e Luciana Tavernini, che con Daniela Danna e Silvia Niccolai hanno scritto il libro Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione, noi due che facciamo parte del Gruppo Donne della Comunità Cristiana di Base Viottoli abbiamo chiesto a Beppe Pavan fondatore del gruppo Uomini in cammino: “Ma tu cosa ne pensi? Cosa è già emerso dal vostro confronto su questi temi? A che punto siete?” Da queste domande dirette e urgentiha preso avvio la costruzione di un incontro congiunto di riflessione e di scambio di pensieri e parole tra uomini e donne, a partire dalla propria differenza sessuale, che si è tenuto il 26 ottobre, patrocinato dal comune di Pinerolo e organizzato dalle donne della CdB Associazione Viottoli insieme ad Associazioni che si prendono cura delle donne che subiscono violenza da parte degli uomini, con i Gruppi di Uomini in cammino e l’Associazione nazionale Maschile Plurale, sul tema: Prostituzione: domanda e offerta o stupro a pagamento? Hanno introdotto l’incontro Grazia Villa su “La prostituzione: né sesso né lavoro” e Alberto Leiss con Gianluca Giraudo (Maschile Plurale) su “Desiderio, corpo, violenza. Un’autoriflessione maschile”, tema su cui a Roma gli uomini hanno lavorato nei mesi scorsi. All’incontro hanno partecipato anche uomini di alcuni gruppi del Nord (Verona, Monza-Brianza, Torino, Val Pellice) e, il giorno seguente, hanno continuato tra loro lo scambio di riflessioni sulla sessualità maschile.

Tra un intervento e l’altro sono state lette pagine tratte dal libro I girasoli di Liliam, un testo nato dalla relazione tra Teresa Canone, psicoterapeuta dell’associazione ANLIB, con Liliam Altuntas che dall’età di sei anni è stata schiava sessuale nel mercato della pedofilia in Brasile e poi esportata nei bordelli in Germania. Una storia fortissima e vera a cui Teresa ha dato ascolto creando, in una scrittura a due, la narrazione che tanto premeva a Liliam soprattutto per l’esigenza di onorare la memoria delle sue piccole compagne – e piccoli compagni – uccise prima di diventare adulte, nella speranza di porre fine a tanto orrore. Liliam che per motivi familiari non ha potuto partecipare all’incontro, ha inviato un accorato messaggio in cui esprimeva la sua felicità per il fatto che ci siano donne che si muovono, approfondiscono e lottano, mettendoci la faccia, con il desiderio di cambiare le cose insieme. La sua testimonianza e vicinanza, la relazione tra lei e Teresa hanno rafforzato il nostro desiderio di dire ciò che abbiamo sempre pensato e la sofferenza che abbiamo provato incontrando per le strade donne prostituite senza mai riuscire a fare qualcosa. La potenza dello stupro simbolico sta proprio nella capacità di creare barriere attraverso preconcetti e luoghi comuni, in questo caso soprattutto quello che sostiene che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo, legittimando la sessualità maschile come necessità primaria.

Durante l’incontro, molto partecipato, per la prima volta abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci pubblicamente con uomini che hanno preso parola, rompendo il silenzio. Crediamo abbia funzionato la presenza di due relatori che hanno esplicitato liberamente il loro disagio parlando apertamente della loro chiusura emotiva, della loro rimozione del corpo, della sessualizzazione delle donne nel tra uomini e della loro visione agonistica della sessualità, dell’asimmetria tra desiderio maschile e desiderio femminile e dell’incapacità vissuta e sofferta di comprendere qualcosa del desiderio femminile, nello stesso tempo la loro attrazione nei confronti di donne  innamorate della propria libertà. In un contesto misto questa doppia presenza li ha incoraggiati e spalleggiati nell’espressione di sé. Nello stesso tempo anche le donne hanno avuto modo di interloquire apertamente partendo da sé, dal proprio desiderio e dalla propria esperienza che parla di presenza dell’essere al di fuori della genitalità, dell’energia, anche sessuale, che si sprigiona solo nella relazione, di trovare modi per scardinare il silenzio maschile che non pongano la donna in una posizione assistenzialistica e, per quanto riguarda la sessualità dei disabili, saper gestire l’assenza poiché non tutto ci è dovuto. Siamo rimaste sorprese di quanto su questo tema, ancora oscuro per molti uomini e anche per qualche donna, pochissimi abbiano colto il nesso tra prostituzione e violenza, tenendo distinte le due cose. Questo conferma l’importanza del percorso che abbiamo fatto e che ha fatto diventare il tema della prostituzione uno svelamento dei meccanismi che stanno alle radici del patriarcato.

Non dimentichiamo inoltre che anche (e soprattutto) le istituzioni religiose sono portatrici di stupro simbolico in quanto promuovono modelli patriarcali di relazione tra i sessi e li radicano nel trascendente e nel naturale.

Il prossimo incontro in programma a Pinerolo sarà il 15 novembre con Paola Cavallari che presenterà l’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne.


Nota bibliografica:

Cigarini Lia (1995), La politica del desiderio, Pratiche Editrice. Pag. 84 Lo stupro simbolico.

Moran, Rachel. (2017), Stupro a pagamento: la verità sulla prostituzione, Round Robin.

Danna Daniela/ Niccolai Silvia/ Tavernini Luciana/ Villa Grazia. (2019), Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione, VandA.epublishing. Pag. 193 Tavernini L. La battaglia attuale sul senso del lavoro.

Canone Teresa Giulia (2019), I girasoli di Liliam. Da bambina schiava sessuale in Brasile al grande sogno realizzato in Italia, Fefe Editore.

Ancamò! Così ho pensato quando Marina mi informa sul prossimo VD3. È dallo scorso novembre con BookCity che si va avanti con Moran e Bindel, Bindel e Moran, insomma che in Libreria si debba sempre finire a… oddio ma che sto pensando? Poi arriva l’invito. La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti. Tutti? Tutti chi? I clienti per forza, sì poi anche le istituzioni, l’opinione pubblica. Ma Luciana è donna precisa: tutte e tutti e quindi anche me.

Nato nei primi anni cinquanta, non ho mai frequentato il mondo della prostituzione per molti motivi. Al di là di un mio istintivo fastidio per qualsiasi contatto fisico con estranei, posso elencare l’educazione ricevuta, il senso morale elaborato, il problema inquadrato nell’ambito più generale delle ingiustizie sociali, espresse qui nello sfruttamento mercantile tipicamente capitalistico che futuri sistemi socialisti risolveranno, la sessualità intesa come libero scambio di piaceri reciproci. In sintesi: la prostituta come una donna violata nella sua dignità che soffre ed è sfruttata; il cliente l’esemplare di un immorale irrispettoso, che sfrutta il bisogno materiale altrui, illudendosi di trasformare delle prestazioni pagate in manifestazioni di esuberante virilità, insomma uno squallido soggetto.

Definirei oggi questo modo di impostare la questione sfuggente e superficiale.

Primo caso.

Un adulto trentenne, allenatore di una squadra giovanile insulta sulla rete la giovane Greta, definendola pronta per debuttare nella prostituzione. Le conseguenze: indignazione, proteste, licenziamento, e le immediate scuse dell’adulto con la piena assunzione di responsabilità. All’agenzia Ansa l’allenatore ha poi aggiunto: «Quelle cose che ho scritto non le penso. È stata un’esternazione di pancia, ma non sono la persona che è stata descritta nei commenti che leggo su internet. Non sono sessista. Mi dispiace perché a 34 anni si dovrebbe ragionare di più prima di scrivere. È stata una cosa scritta di rabbia che non rifarei assolutamente»

(https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/09/30/grosseto-offese-contro-greta-thunberg-sui-social-licenziato-allenatore-di-calcio-delle-giovanili/5487299/).

Poco me ne faccio della sua buona fede, mi interessa la rabbia, che malattia non è, e soprattutto mi intriga la contrapposizione, davvero illuminante, tra esternazione di pancia e durata del ragionare.

Se riflettessi più a lungo quelle cose che penso non le scriverei. Bene, non sono affatto sessista, sì, ma perché le penso?

Secondo caso.

Qualche settimana fa ascoltando il Gazzettino Padano sulle solite vicende post discoteca, ho fatto un balzo sentendo: «maxi-rissa dopo apprezzamenti a una ragazza».

Credevo che l’espressione appartenesse ormai a un giornalismo superato, provinciale e mediocre, invece è furbescamente e ancor più maldestramente utilizzata per spiegare e giustificare la rabbia (toh, chi si rivede!) maschile. In rete sono ancora parecchie le notizie spiegate secondo una ricostruzione in cui «sembra che la scazzottata sia nata a seguito di un complimento, pare anche poco cortese, rivolto da uno degli avventori del locale ad una ragazza. Complimento che avrebbe infastidito non poco l’accompagnatore della giovane ed il gruppo di amici» (https://www.anteprima24.it/salerno/ragazza-discoteca-rissa/).

Per concludere: giudichiamo con superiorità di sesso, celata da difesa, della misura dei complimenti ambigui, provando fastidio per un apprezzamento che appunto disprezza noi, non lei, che del suo corpo ci siamo erti a controllori; proteggiamo una donna muta e passiva, come una proprietà che val bene una rissa: la rabbia si autogiustifica.

Ma… disprezzo, inferiorità, controllo del corpo, donna muta e passiva rispetto agli apprezzamenti più o meno volgari che riceve, proprietà: proprio come nella prostituzione!

Quello che la rabbia dunque non trattiene e lascia fuoriuscire è la convinzione dell’inferiorità femminile, sesso indegno e disprezzabile.

Un’eco di disprezzo risuonava dunque nel mio pensiero trattenuto?

I maschi che, come re pigri e indolenti, soltanto nell’arrocco si spostano di due caselle, beninteso restando sempre sullo stesso colore, impareranno a balzare come il cavallo da uno all’altro?