Domenica delle Palme, dopo un pranzo frugale, nella casa grande in cui abito ho aperto un video musicale che profumava di mistero e grande sacralità. Mi volevo preparare al mio impegno di scrittura assunto in questo tempo di Covid-19. La clip me l’aveva mandata un’amica protestante, poi anche una delle amiche e colleghe del gruppo “Femmes de Tétouan” con cui da dieci anni mi incontro a Tetuan. Tra noi discutiamo e ci confrontiamo: psicoterapeute, sociologhe, formatrici su temi che riguardano le famiglie e i vari contesti di appartenenza pur nei diversi orientamenti politici ed eventualmente religiosi, delle varie forme di precarietà simili eppure diverse.
La clip conteneva l’esibizione dell’Orchestra Filarmonica del Marocco registrata il 30 marzo dello scorso anno, davanti al Papa e al Re del Marocco Mohammed VI, interpretazione che univa in unisono sublime “Allahu Akbar”, “Adonai” e “Ave Maria”. Meraviglioso assistere a tanta bellezza e apertura al sacro pur nel minuscolo schermo di un cellulare.
Da me, a noi, noi adesso, noi in Italia noi nel mondo, uomini e donne, ma soprattutto noi donne. Forse per noi è più chiaro che al cospetto del Covid 19 il mondo sia diventato una grande cascina, una specie di condominio dove sentiamo i guai, i lutti e i pasticci dei vicini che a loro volta vedono i nostri. Noi donne, appunto, in un momento della storia in cui è chiaro quanto sia imperativo ricondurre l’umanità che abita il pianeta alla ragione e alla necessità di aprirci o riaprirci al sacro che pure ci abita tutti, ma particolarmente serve che fertilizzi la mente e l’anima di tante donne. Serve bilanciare l’eccessiva protervia e fragilità maschile con il contributo del pensiero femminile, il contributo della nostra visione, del nostro essere l’arte del fare per la collettività, più che per sterile egoismo personale.
Ho notato che sui social si parla tanto del narcisismo maschile dicendone peste e corna, ma purtroppo molte donne che con alcune eccezioni, in Italia e oltre, si sono avvicinate alla politica dei partiti, hanno messo in scena altrettanto narcisismo come se fosse quello una qualità piuttosto che un maledetto limite. È il momento di riflettere molto seriamente sulla necessità della rappresentanza femminile, possibilmente capace di creare valore anche nei luoghi decisionali dove il potere si esprime. Forse, proprio in questi giorni, cose eclatanti stanno accadendo: per esempio con la lettera aperta alle due leader europee che in questi tempi, hanno raggiunto i vertici dell’Europa: Christine Lagarde e Ursula von der Leyen. Più che per loro, il mio respiro di sollievo è per la lettera collettiva che sta raccogliendo firme e non solo di donne, lettera aperta che dovrebbe diventare oceanica, planetaria, capace di trasportare tantissime adesioni probabilmente di tutti coloro che amano Madre Terra e le donne.
Proprio oggi, tra le ferite sanguinanti di questa pandemia, possiamo intravvedere i percorsi possibili per creare maggiore spazio per il pensiero e l’agire delle donne, il maggior numero di noi, non solo le intellettuali, le femministe, piuttosto la maggioranza che spicca per intelligenza intuitiva, buon senso, capacità di sacrificio, generosità che si esprime quotidianamente nelle più varie forme.
Le donne che arrivano al vertice, sono sole, hanno bisogno di altre di noi che nei vari strati sottostanti o a latere creino e tengano per loro una base sicura affinché possano ricevere il nostro flusso di amore e fiducia, di sostegno con idee e progetti, come facemmo negli anni ’70 quando in discussione era la nostra identità di donne. Quello che volevamo allora era svincolato e spesso in contrasto con l’identità che i maschi accanto a noi speravano che noi assumessimo, sempre per sostenere loro, loro nella loro vanità.
Ora dobbiamo farlo oltre noi stesse, per il mondo, per noi donne, per i discendenti. Molte di noi hanno bisogno di orizzonti ampi per decidere che ne vale la pena; che è il caso di darci da fare per sostenere le possibili alternative a questo sistema che miseramente ci ha ingannati, negando l’attuazione dei diritti fondamentali ben presenti nella nostra Costituzione. Ci siamo lasciate ingannare, quindi come nelle relazioni di coppia che da anni, da decenni, da una vita intera non funzionano, è necessario che ci assumiamo le nostre responsabilità per aver fatto errori, pur pensando che certi atteggiamenti di accondiscendenza e asservimento al modello imperante, ancora, purtroppo, fossero necessari a salvare il salvabile. Non è più vero da un pezzo! Guardiamoci in faccia e poi guardiamo la realtà. Molte di noi hanno assecondato per paura, per bisogno, per ristrettezza di vedute, per penuria di coraggio, per isolamento, per incapacità di aggregazione con le altre: per solitudine. E quando ci abbiamo magari provato, dopo aver partecipato a qualche assemblea al femminile, purtroppo vi abbiamo ritrovato i limiti prevalenti nel modello maschile. È ora di cambiare aria, disinfettare, pulire e non solo le nostre case, come tutte in questi giorni, volendo o no, siamo tenute a fare.
Ho incrociato cronos e kairos quando ho scelto di vivere a Milano all’inizio degli anni novanta nel preciso punto di svolta in cui si evidenziava la radicale trasformazione della città. Amo le grandi città, sempre proiettate in avanti in continuo movimento. Ho abitato prima a nord in una casa di ringhiera, senza servizi, e subito mi sono presa una brutta infezione. Oggi dopo trent’anni abito a sud-est in una casa di proprietà. Quando il cielo è azzurro vedo a nord-ovest le Grigne e il monte Penice dal balcone opposto. Un quartiere moderno in continuo cambiamento dove però da un mese regna il silenzio.
Le gigantesche gru sono ferme, i lavori del nuovo centro direzionale e residenziale sono bloccati. Durante le mie brevi passeggiate entro il perimetro del quartiere vedo, nel terreno incolto a ridosso del borgo rurale prossimo a dove abito, fagiani e fagiane che pascolano nell’erba verde, colonie di nutrie nello specchio d’acqua formatosi da una roggia, intubata, interrata poi cementata ma che sbuca qua e là nello spazio non ancora costruito. Presto lo sarà, finita l’emergenza inattesa. Secondo il piano di governo del territorio (PGT), qui è prevista l’Arena Multifunzionale per le Olimpiadi del 2026 per le gare di hockey su ghiaccio poi per grandi eventi musicali. A me piacerebbe di più una bella piscina immersa nel verde con varie attività culturali e forse posso ancora sperare/sognare, adesso che la pandemia impone uno stop di lunga durata e un ascolto maggiore delle esigenze del territorio. Non è proibito sognare e possibilmente anche agire come sostiene l’economista italo-americana Melania Mazzuccato, consigliera economica del Governo italiano: «approfittare della crisi per indirizzare l’economia e l’intervento pubblico dello Stato verso una trasformazione ecologica».
Non separare i bisogni, i desideri e la libertà, questo per me significa cogliere il momento opportuno. Farci orientare e guidare dal principio materno quando i cicloni storici ci fanno piombare nell’emergenza. Ne parla anche Marcel Gauchet in un breve pamphlet dal titolo La fine del dominio maschile. Il principio della libertà incondizionata l’ho visto manifestarsi in mia madre. Io desideravo studiare e lei non pose condizioni sull’oggetto, sul cosa. Mentre mio padre pose delle condizioni ideologiche limitanti. Dovevo studiare quello che piaceva a lui. Anche il ciclone degli anni cinquanta/sessanta ebbe origine dalla modernizzazione. Ripensare a quel periodo che pose le fondamenta di una biforcazione storica nella mia vita e in quella italiana mi aiuta a capire il presente. Affiora da questo tempo rallentato un altro ricordo sepolto. Negli anni sessanta mio padre, da contadino, s’improvvisò insieme a un amico piccolo imprenditore. Installarono una struttura per l’allevamento intensivo di galline faraone. Mia madre era contraria, ma non fu ascoltata. Lei era esperta di allevamento di animali da cortile e aveva uno sguardo più lungo. Le faraone, animali molto sensibili che per un nonnulla si spaventano, infatti morivano a decine e venivano date in pasto ai maiali… E così l’esperimento si rivelò un fallimento. Con gravi perdite economiche e sofferenze.
Oggi nella selva di dati statistici manca sempre qualcosa, e cioè le motivazioni soggettive che spingono le azioni di una donna. Cioè la necessità di interpretare i dati così come le scelte determinanti delle nostre vite per cambiare le letture correnti e andare in profondità e lontano. Il respiro della città è il soffio che anima la mia fiducia di poter realizzare l’inimmaginabile. Un di più di esistenza me lo può dare una città dove c’è aria, dove c’è larghezza, termine occitano usato dalle trovatore, cioè generosità, dove ci sono relazioni che non hanno paura di pensare e pensarsi in grande. La ruach, il soffio, un termine ebraico, usato dalle beghine, è poter trovare, ricreare tracce della relazione materna nell’assetto urbano, nella vita della città. Citando la mistica medievale Hadewijch di Anversa, nella sua poesia strofica sulla primavera: «Uno spirito di buona volontà crea al suo interno più bellezza di quanto qualsiasi regola possa mai generare».
A Radio 3 alla lettura dei giornali del mattino ho ascoltato la storia di un’infermiera che cura con lo sguardo. Completamente coperta, le restano solo gli occhi per comunicare con il o la paziente di cui deve prendersi cura e ha constatato come questa modalità porti sollievo e sia efficace. Oggi viene visto il lavoro di cura, non è più invisibile, ma com’è interpretato, raccontato? Sento spesso usare la chiave di lettura del sacrificio eroico di tante infermiere e infermieri. A questo proposito un’altra notizia mi ha colpito: un’infermiera suicida a causa del sovraccarico di lavoro. Letteralmente bruciata dal lavoro di cura. Assistiamo nel discorso pubblico alla retorica della vocazione di coloro che sono “in prima linea”, tanto per usare un linguaggio inappropriato, che rischia di far passare di nuovo il messaggio tradizionale dell’inevitabile bisogno di sacrificare vite umane all’emergenza, mistificando la realtà dei fatti. «Il lavoro di cura è stressante, faticoso e soprattutto non gli viene attribuito il giusto valore, non dico riconoscimento, ma valore simbolico ed economico nella gerarchia dei valori del neoliberismo o modernità», come sostiene Pascale Molinier in Care: prendersi cura. Un lavoro inestimabile. Un libro uscito l’anno scorso che in questi giorni ho riletto. Un bene essenziale che, come scrivono le autrici del Sottosopra Immagina che il lavoro, fa parte di «tutto il lavoro necessario per vivere», mentre oggi si tende a glorificare come una panacea l’intelligenza artificiale che ci libererà dagli eventi catastrofici che ciclicamente, “inevitabilmente” dobbiamo stare pronte, pronti ad affrontare. Sempre all’erta, in guardia. Ci aiuteranno i robot a superare la fatica dello stare in relazione, un robot al posto di una badante, un tablet al posto di una insegnante in carne e ossa, un robot al posto di una cameriera, un cameriere… E diventeremo noi stesse sempre più come macchine: una madre surrogata al posto di una madre.
Con l’automazione, con le tecnologie senzienti ci vogliono far credere che ci verrà risparmiata la fatica delle relazioni e dei conflitti prodotti dalle differenze. Affidarsi alle macchine per superare la sfiducia nelle relazioni o i rischi. Per sopportare l’incertezza del futuro e gli imprevisti ci vuole fiducia nelle relazioni. Siamo sicuri che basterà un nuovo vaccino per scongiurare le conseguenze dello stravolgimento dell’ecosistema di cui stiamo vivendo la nocività? È una nuova illusione? Pari a quella dell’intelligenza artificiale? Ci basterà l’idea che le merci possano liberamente circolare e gli umani no?
Io mi immagino una possibilità di sovvertimento dell’ordine delle cose: riprendere l’idea di un nuovo patto simbolico e sociale. Approfittare della crisi per ridiscutere il contratto sessuale, rovesciando le priorità del vivere in società mettendo al primo posto il principio dell’inviolabilità del corpo femminile e di conseguenza di tutte le forme del vivente. Aprire una fase costituente come il movimento delle donne chiede da tempo.
In questi giorni di obbligata astinenza dalla vita sociale, di chiusura di negozi, fabbriche, servizi, scuole, università, stadi, teatri e accademie, la realtà virtuale imperversa.
Dopo i primi giorni di esaltazione e di indigestione, ho cominciato ad avvertire un gran senso di insoddisfazione e di grande spaesamento. Eppure, quanti concerti, film, letture ad alta voce, visite virtuali di tutti i tipi, quanti appuntamenti per condividere un aperitivo online, una lezione di svedese o la favola della buona notte. Ma cos’è che manca? mi sono chiesta, oltre all’evidente mancanza di tutto ciò che è reale, tangibile, afferrabile con le nostre mani, o ancora annusabile, percepibile con tutti i nostri sensi? Cosa manca a questa valanga di offerte, di proposte, erogazioni e omaggi?
Una cosa importantissima: la domanda. Perché chiedere, forse lo abbiamo dimenticato, è fondamentale. Nasce da noi, dalle nostre esigenze, dalla nostra intimità. Dal silenzio e dal vuoto. Questa bulimia dell’offerta inibisce la domanda, che è il principio della ricerca, della curiosità, della crescita individuale, dell’educazione. Bisogna imparare a fare domande.
Oggi invece, è come se entrassimo in un enorme, babelico self-service, dove virtualmente, tutti i piatti – caldi e freddi, buoni e cattivi – sono là, imbanditi per noi. Non ci resta che allungare la mano e servirci.
Ma come facciamo a sapere cosa desideriamo, di cosa abbiamo veramente bisogno? Senza il silenzio, il riconoscimento di un vuoto e senza la formulazione delle nostre domande, anche il più appetitoso cibo virtuale scade e va a male. E se mangiato diventa altamente indigesto.
L’isolamento necessario in questo momento non ci impedisce lo scambio che può avvenire in relazioni duali fruttuose. Per esempio questo testo è nato in seguito a una discussione avuta con l’amica Anna Turri sulle liturgie al tempo del covid-19.
L’emergenza coronavirus scompagina anche i riti della Settimana Santa. Le funzioni vengono officiate a porte chiuse e seguite solo in streaming. Il Papa celebra nella Basilica di S. Pietro deserta e sull’altare con lui ci sono solo il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie e alcuni cerimonieri. Sulle prime panche siedono due o tre suore e gli uomini della sicurezza.
La tempesta smaschera le nostre vulnerabilità, ha affermato Papa Bergoglio, durante la benedizione Urbi et Orbinella piazza di S. Pietro deserta, sotto la pioggia.
Mi viene in mente un’immagine ricorrente in tutti i racconti di crocefissione tranne quello di Giovanni, in cui, al momento della morte di Gesù si squarciò il velo del tempio in due, da cima a fondo. Nel tempio ebraico una grande tenda separava la zona dei sacerdoti dal Santo dei Santi, il luogo più sacro, in cui poteva entrare solo il Sommo sacerdote. La tenda era alta quasi venti metri e spessa dieci centimetri. Una robusta separazione simbolica tra il sacro e il profano, tra il trascendente e l’umano. Lo strappo, dall’alto verso il basso, del velo stava quindi a significare, nei racconti evangelici, il riavvicinamento dello sguardo umano, delle menti e dei cuori all’insondabilità del mistero.
Le donne non sono mai mancate nelle chiese, anzi le hanno riempite più degli uomini anche se sempre lontane dall’altare. Oggi l’immagine di questa imponente e splendida cattedrale, completamente vuota, dove risuonano unicamente i passi di uno sparuto gruppo di soli uomini che si muovono sulla scena rivestiti dei loro paramenti sacri, mette a nudo una mancanza che è anche vulnerabilità. Il contrasto tra l’ostentata grandezza materiale e la ripetizione di rappresentazioni rituali di fronte ad un vuoto di corpi, privo di sguardi e di empatia, non fa che accrescere il senso di angoscia che grava in questo tempo di pandemia. Cadono i veli del tempio, anche in questo caso. I dispositivi della rappresentazione s’inceppano e svelano qualcosa nell’evidenza delle immagini che, in questo caso, non possono ingannare.
Allora ciò che torna ad avere valore è la parola che salva, quella che cerca di dire il vero, la parola profetica, la buona novella.
Il Papa sarà ricordato più per le sue parole di verità: “Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati […] Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.
Le immagini di queste celebrazioni liturgiche, rivelano che uno dei passi più importanti da compiere per la guarigione del mondo è sicuramente intessere relazioni redentrici tra uomini e donne.
Sollecitata da Marina Santini a partecipare alla discussione di Via Dogana 3 del 5 aprile 2020, dopo aver letto l’invito della redazione ho deciso di coinvolgere anche altre amiche, invitandole a leggere i primi interventi pubblicati il 30 marzo nel sito della Libreria di Milano. Mi è sembrata una buona idea impegnarmi con altre nella riflessione su come attraversiamo questo tempo, quali interrogativi ci poniamo, quali pensieri e prospettive stiamo elaborando. In pochi giorni, mentre ero impegnata a scrivere il mio, ho ricevuto diversi testi di Désirée Urizio, Marisa Bettini, Carla Turola, Marina Canal, Daniela Bettella, Franca Marcomin, che descrivono le nostre giornate in tempi di pandemia. (Alessandra De Perini)
Alessandra De Perini
Prima di questo strano tempo in cui la dimensione del fuori è contrapposta al dentro e al “contagio” del desiderio viene anteposto il pericolo del contagio da coronavirus, le mie giornate scorrevano veloci, scandite da impegni politici, incontri mensili di riflessione sull’essere donne nel tempo presente, letture e riunioni mirate a una presa di parola in città con l’associazione “Le Vicine di casa”, iniziative, corsi o convegni organizzati da donne dell’associazione “Preziose” con le quali ho stretto il patto di sostenerci nella vita pubblica. Oltre alla politica basata su un’intensa vita di relazione, seguivo nello studio, una volta la settimana, una nipote quasi adolescente, Laura, rimasta orfana di madre a 6 anni; andavo spesso a Rovigo, dove abita mio figlio Nicola con la famiglia, per seguire, in assenza dei genitori, spesso all’estero o fuori città per lavoro, a volte anche per intere settimane, Maddalena e Ariannina, nipoti adorate, una già adolescente, bella e molto studiosa, e l’altra ancora bambina, simpatica e creativa. Un altro impegno quasi settimanale, gesto politico, di cura e di amicizia, era recarmi a Mirano, una cittadina a un’ora di distanza da Mestre, per passare delle ore di felice conversazione – ma a volte anche di semplice ascolto di diversi contrattempi e disagi – con Carla, un’amica con cui ho condiviso alla fine degli anni Ottanta il percorso politico che, attraverso l’esercizio quotidiano delle relazioni e la lettura appassionata di Carla Lonzi, Simone Weil, Luisa Muraro, mi ha portato ad abbracciare senza riserve e con grande determinazione la politica della differenza. Colpita da una grave malattia che l’ha costretta in carrozzina, non potendo più condurre un’esistenza autonoma e non avendo relazioni familiari su cui fare affidamento, da diversi anni Carla si trova ospite in una casa di riposo. La nostra relazione si era interrotta molti anni fa ma, da quando ci siamo reincontrate, quasi per caso, grazie alla mediazione di un’amica comune, tutto è ricominciato e ora c’è di nuovo tra me e lei circolarità di affetti, gioco di relazioni, scambio fecondo di idee, esperienze e progetti.
Oltre a tutto questo, nell’economia delle mie giornate c’era, e non voglio dimenticarlo né darlo per scontato, il lavoro necessario del vivere quotidiano che ho condiviso fin da piccola con migliaia di donne, ma oggi anche moltissimi uomini, impegnate e impegnati a cucinare, fare la spesa, il bucato, stirare, spolverare, pulire e mettere in odine la casa, insomma a mandare avanti l’esistenza materiale su questo pianeta.
A quel tempo, intendo prima della pandemia – sembra tanto tempo fa – avevo due desideri che continuavo a spostare nel tempo, presa da continue e impreviste urgenze politiche o familiari. Il primo era prendermi cura di me, della mia salute. E qui non ho più potuto sottrarmi.
L’altro desiderio era raccontare il mio percorso politico. Anche se ogni tanto ero presa da forti dubbi che mi portavano a ridimensionare drasticamente il valore del lavoro politico fatto da me in questi anni, ero convinta di avere qualcosa di importante da dire. Sono tra quelle, infatti, che nei primi anni Settanta hanno operato il taglio del femminismo, da cui è nato un nuovo mondo, “il mondo comune delle donne”. Prima della pandemia, mi spaventava l’idea dell’enorme lavoro da fare per realizzare questo mio desiderio di un racconto politico significativo e coerente, esitavo ad aprire gli innumerevoli quaderni di appunti, album di fotografie, diari, cartelline di scritti, scatole di lettere, scatoloni di volantini e documenti che, con il trasloco nella nuova casa, dove dal 2017 abito insieme alla mia amica Désirée, ho deciso di “salvare” da un’insana furia distruttiva e di cancellazione e ho portato con me.
Adesso ho finalmente tutto il tempo necessario per aprire il libro della storia viva dentro di me ecominciare a scrivere, un’occasione straordinaria che posso e voglio cogliere, anche se non sono sicura della qualità del risultato finale. Care amiche, sono ancora qui, il mio corpo-pensiero è in fermento, sto seguendo il flusso di un desiderio che è stato risvegliato molti anni fa ed è ancora in movimento.
Désirée Urizio
All’inizio di questa pandemia io e le mie colleghe della biblioteca Centro Donna di Mestre non sapevamo come comportarci: le indicazioni che ricevevamo erano continue e contrapposte. Prima dovevamo solo ricevere i libri restituiti senza poter effettuare prestiti, poi potevamo dare libri in prestito ma solo se venivano presi “al volo”, lungo il percorso (2 metri) dalla porta al banco prestiti. Poi dovevamo mantenere la distanza di un metro anche tra di noi e in cinque, in un ambiente piccolo, non è facile. Il tutto aspettando le mascherine e il materiale igienizzante che doveva esserci fornito dall’Amministrazione e che non è mai arrivato. Per fortuna io e le mie colleghe condividiamo molte idee di base e quindi ci siamo attrezzate, a nostre spese, per pulire e disinfettare ogni mattina il luogo di lavoro e i materiali che usavamo, computer, telefoni, libri compresi e ci siamo comprate le mascherine. Alla fine è arrivata l’ultima disposizione: tutte a casa e si lavora con lo Smart Working.
Ognuna di noi ha presentato un progetto di lavoro inerente la biblioteca e ora lavoriamo da casa, ma non è stato subito facile organizzarci per mille motivi, a cominciare dalle linee internet da usare e dai collegamenti con il sito del Comune, oltre al fatto che non tutte hanno il computer di casa sempre disponibile e connessioni illimitate. Ci siamo aiutate tra noi colleghe con telefonate e scambi di mail. I nostri capi si sono limitati a dare le indicazioni, ma siamo state noi bibliotecarie che abbiamo saputo metterle in pratica dimostrando la nostra capacità e serietà professionale. Certo che vivo una situazione un po’ strana: dal rapporto diretto con le colleghe siamo passate a quello unicamente telefonico.
Oltre alle colleghe, ho ricevuto e risposto a messaggi delle operatrici del Centro anti violenza che hanno gli uffici situati sopra la biblioteca e con cui siamo in contatto diretto. Ho pensato spesso a loro che continuano a lavorare, ma non so in che termini, in questo tragico periodo di aumento di casi di violenze domestiche: già sono pressate nella quotidianità, ora saranno ancora più in tensione.
Una volta realizzato che dovevo stare in casa e lavorare al computer, ringraziando il fatto che non sono sola ma vivo con Sandra, mia cara amica, mi sono dedicata all’ordine, materiale e mentale, di documenti, film, vecchi ricordi cercando di liberarmi del superfluo e di alleggerirmi il più possibile. Ho infatti la tendenza ad accumulare e, nonostante conosca benissimo i 10 suggerimenti di Marie Kondo per fare ordine, ho sempre troppa roba. Ma mi serve tutta.
In questo periodo, poi, dove mi sembra di avere tantissimo tempo a disposizione, ho sentito più spesso amiche che abitano lontane e alcuni parenti. Ma è soprattutto un continuo e simpatico rapporto con le amiche Vicine di casa che mi fa compagnia in questi giorni: uno scambio di foto di stanze delle nostre case, di angoli di lavoro e di scrivanie, davanzali fioriti e racconti, poesie e pensieri ci unisce idealmente e mi incoraggia a pensare a iniziative future da fare insieme.
Naturalmente, ascolto spesso i telegiornali per tenermi informata sull’andamento del virus. Alle notizie contrastanti sull’economia e sulla sanità, preferisco le interpretazioni delle ricercatrici e delle economiste perché mi sembrano più sensate e attuabili. Alle notizie sulla crisi dei grandi centri ospedalieri ho pensato a quando in Romagna ogni paesino, anche piccolo, aveva il suo ospedale: pochi reparti ma ben organizzati e con personale preparato. Spesso sono andata a trovare amiche o parenti ricoverate lì, dove ho sempre respirato un’aria di umanità che non ho sentito nei grandi ospedali. Peccato li abbiano chiusi perché ora sarebbero serviti moltissimo. Speriamo ci sia un ripensamento anche su questo.
Carla Turola
Sono un soggetto considerato “ad alto rischio”. Soprattutto perché vado in dialisi tre volte alla settimana e vivo in una casa di riposo dove gli spazi sono ristretti e non è possibile mantenere le distanze. Inutile nascondere la paura che si avverte anche da parte delle assistenti per mancanza di protezioni adeguate. Quando arrivo dalla dialisi mi disinfettano la carrozzina, ruote comprese. Quando mi lavano, si infilano due paia di guanti. Eppure io sto bene e sono di buon umore. Ogni mattina mi lavo accuratamente, mi massaggio con creme idratanti, mi spruzzo in po’ di profumo. E mi sorrido allo specchio, augurandomi una buona giornata, felice di essere viva. Mi chiedo cosa posso fare per le altre e gli altri che condividono questa clausura (molti, molte con problemi di demenza). Il sorriso fa bene. Quindi sorrido, anche se ho dormito poco e male per il mal di schiena. Mostro interesse alla salute altrui, chiedendo: come stai? Hai riposato bene? C’è qualcosa che posso fare per te? A volte, può essere il regalo di un pacchetto di fazzoletti per chi non ha nessuno che glieli procuri.
Purtroppo sono molto limitata dall’uso della carrozzina ma, grazie a una ginnastica da distesa che mi sono inventata e alcuni esercizi da seduta che faccio tutte le mattine, mantengo una discreta autonomia. Ho anche problemi di udito e dovrei far regolare gli auricolari, ma non posso uscire, quindi devo farmi ripetere più volte le parole, soprattutto quelle delle assistenti che usano la mascherina. E tuttavia ogni mattina mi alzo all’alba e mi godo il momento più bello perché posso raccogliermi in preghiera nel silenzio. Qui ogni piccola cosa è un godimento: il caffè del mattino presto, la pulizia degli occhiali, la colazione con le fette biscottate spalmate di marmellata di amarene.
Questa difficile prova che mi priva delle amiche carissime mi fa sentire ancora di più il valore delle relazioni di vicinanza, dello scambio di pensiero e di parole scelte con intelligenza. Approfitto di questo tempo per leggere, quando non ho più materiali per dipingere, un bel romanzo sulla storia delle Beghine (La notte delle beghine di Aline Kiner) o le poesie di Alda Merini o per studiare il Vangelo di Giovanni, che è di una bellezza sfolgorante, aiutandomi con un ricco commentario ordinato su Amazon. Vedo un filo conduttore tra luce e tenebre.
Questo tempo è una porta stretta da attraversare. Nella mia vita ne ho attraversate molte e ogni volta ne sono uscita migliore, con più fiducia. È anche un esercizio di libero arbitrio: ci costringe a scegliere se uscirne con risentimento o con amore rinnovato. Questo è il momento di invocare lo Spirito Santo e i suoi doni. Tra i tanti doni che ho ricevuto nella vita, oltre alle relazioni privilegiate con alcune donne, c’è la pittura di icone che, pur con difficoltà, riesco ancora a praticare.
Questo è il momento delle piccole cose che si fanno grandi e importanti come non mai. Auguriamoci di ricordarcelo poi, quando finalmente l’epidemia sarà finita, potremo riabbracciarci e festeggiare sedute a tavola nella nostra trattoria preferita!
Franca Marcomin (Associazione Preziose di Mestre e Mirano)
Lavoro in un punto nascita della provincia di Venezia che è stato chiuso a fine febbraio e aperto solo per le emergenze, quindi il contatto con le donne gravide e le puerpere è stato limitato. Dopo un mese il punto nascita è stato chiuso definitivamente perché il mio ospedale è stato destinato a ricoveri di persone positive al Covid 19, così tutte noi ostetriche siamo state trasferite in un altro ospedale vicino. È stato un cambiamento che ha fatto attivare le mie risorse di adattamento a una nuova situazione. Tra l’altro andrò in pensione tra sei mesi, se non la bloccano, come sono state bloccate le ferie a tutto il personale per farlo restare a disposizione delle necessità che potrebbero presentarsi.
Non abbiamo avuto finora casi di gravide e puerpere positive al virus in entrambi gli ospedali, quindi non abbiamo avuto situazioni di operatrici/ori sanitari infettati. Di fatto, prestare servizio nel materno-infantile ci ha protetto dal lavorare in reparti di terapia intensiva, medicine e geriatrie dove vi sono stati i ricoveri delle persone malate o positive.
Ho potuto osservare che le donne da noi assistite non sono angosciate dal coronavirus; sicuramente sono preoccupate, come tutte e tutti, ma le sento fiduciose verso le operatrici/operatori sanitari a cui si rivolgono e, a mio avviso, sono molto più proiettate nel futuro con il proprio bambino o bambina.
È comunque faticoso andare a lavorare in ospedale. A volte penso ai pericoli con cui vengo in contatto ogni giorno, ma questa è stata la mia scelta di lavoro e sento fortemente il richiamo a prendermi cura delle donne che stanno per partorire, ma anche del benessere lavorativo delle ostetriche e infermiere che coordino. È una fatica che ha un senso: quello di continuare a costruire civiltà nel mondo attraverso il lavoro di cura, civiltà che si basa principalmente sulle relazioni e non sul potere.
Marisa Bettini
Quando Sandra ha lanciato l’idea di scrivere per Via Dogana 3, avevo appena letto un interessante articolo che riguardava l’emergenza attuale nella nostra città: Venezia, isole e terraferma. Una frase in particolare mi era rimasta impigliata nei pensieri: «non mettere tutte le uova nello stesso paniere». Mi divertiva e mi risultava estremamente condivisibile. Così come la sollecitudine di Sandra a scrivere qualcosa partendo dal fatto che godo della presenza di un cortile/giardino nella mia abitazione «fortunatamente», come spesso dicono le amiche e che dico io stessa.
Perché accostavo le due cose? Sono affermazioni accomunate dal fatto che una SCELTA era avvenuta prima. In una, in maniera più consapevole e nell’altra meno, ma entrambe mi ricordano che non c’è “fortuna” o “caso” (perlomeno non solo e non sempre) nel trovarsi in una data situazione. Testimoniano che l’oggi è frutto delle ambizioni di ieri, l’oggi è anche il risultato di una SCELTA operata ad un certo punto del percorso dato. Buon senso e buone norma di vita vanno sempre considerate, sia nelle vicende individuali sia in quelle collettive, sono precauzioni utili alle persone come alle politiche.
Questa riflessione mi riporta a me, alla mia vita di donna, qui e ora.
Mi rende urgente sottolineare l’importanza dei due termini messi in chiaro prima: POSSIBILITÀ e CAPACITÀ di SCELTA. Voglio farne tesoro perché sento vitale procurarci e non sciupare mai possibilità di scelta e coltivare capacità di discernimento nelle nostre vite personali e collettive.
È solo un lampo ma mi pare consono a questi strani giorni.
Una luce che vorrei conservare per non dimenticare domani che non è “fortuna” dipendere o no da prodotti fatti a mille miglia lontano da noi; per ricordarmi di dare priorità anche in futuro a quei negozi di vicinato che mantengono viva la mia strada.
E per la mia città vorrei che non continuasse a bruciare ogni slancio in quell’unico precario “paniere” che è il turismo di massa, la ruota del divertimento, l’ebbrezza dei grandi numeri che la divora. Forse i limiti e i lutti di oggi ci hanno fornito qualche suggerimento… chissà!? Magàri!
Daniela Bettella
La giornata in tempo di quarantena.
Mi alzo prima delle otto, la mattina. Mi piace bere il primo caffè davanti alla finestra e guardare in alto, sopra le case che mi circondano, il cielo che in questi giorni è luminoso, senza foschia. Una volta contavo due, tre aerei che passavano nei due minuti in cui bevevo il caffè. In questo periodo no, c’è silenzio, niente traffico, né sirene di navi che entrano in porto, non sento passare i treni.
Mi piace ascoltare il silenzio. E mi piace il mattino, sapere che ho tutta la giornata intera davanti a me. Non ascolto più la lettura dei giornali alla radio, credo che non mi serva la somma delle cattive notizie. Leggo qualche articolo sul cellulare, ascolto un solo telegiornale a metà giornata, guardo il sito della Libreria di Milano. Dopo aver fatto colazione con il mio compagno, quasi per scaramanzia, pulisco tutti i davanzali con un detersivo disinfettante, le maniglie delle porte, il pavimento dei bagni e della cucina, i vetri, metto al sole le coperte. Quando ritengo di essere stata sufficientemente brava, finalmente vado nel mio studio e riprendo i lavori che mi appassionano.
Da un mese il tempo è ritornato ad essere il mio tempo. Mi mancano mia nipote Daria e suo fratello Matteo, sono in ansia per le figlie, una che deve andare al lavoro a giorni alterni e l’altra che vive in Germania, ma nel mio tempo liberato trovo i materiali per poter lavorare con le mani: colorare la carta, tagliarla, cucirla, prendere pennino e inchiostro e scrivere…
Oggi ho finito di rilegare un piccolo libro con le pagine di velluto blu che ho stampato a mano con una vecchia matrice xilografica. A volte per concentrarmi e trovare ispirazione rileggo pagine di libri che amo di Simone Weil, Luisa Muraro oppure guardo immagini di lavori della mia artista preferita Maria Lai. Ultimamente ho ascoltato le sue riflessioni sull’arte, non solo visiva, ma anche poesia, musica, teatro, danza. Riflessioni sul percorso che si deve fare per diventare esseri umani, secondo lei l’arte fornisce strumenti per allargare il proprio orizzonte e andare verso l’infinito che infine è dentro di sé…
Mani operose e parole che nutrono sono la mia forza giornaliera.
Carica di questa energia, intanto che lavoro chiamo le amiche, le ascolto, a volte ridiamo insieme delle nostre situazioni o ci consoliamo delle paure.
Mi piacerebbe molto stare insieme, ho nostalgia della possibilità di vederci. Per fortuna riesco ad essere contenta delle possibilità che comunque ho anche in questo momento. Così al telefono in videochiamata posso vedere e stare insieme a chi mi è caro.
Con questa possibilità al martedì sera, con le amiche riunite in una chat, mi collego a un sito della Royal Academy dove si può fare disegno guardando la modella dal vero. La sessione dura un’ora e mezza, durante la quale ci scambiano le foto dei lavori che stiamo facendo e anche qualche commento. Una vera gioia. Mi piace ascoltare.
Marina Canal
In questo periodo del tutto straordinario per le nostre vite (e mi limito a considerare la parte di mondo in cui ci troviamo, la nostra Italia), mai prima d’ora ci era stato dato di sperimentare in forma diretta e consapevole (anche per me che, nata a metà guerra, l’ho attraversata del tutto inconsapevole), un tempo di vita così allentato e sovvertito.
Da un lato, la nostra prospettiva temporale appare totalmente trasfigurata: alterata nel passo, procede a singhiozzo, mediamente di dieci giorni in dieci giorni (tanti quanti sono quelli che intercorrono tra un provvedimento e l’altro), ponendo il possibile compimento del tempo dell’attesa in una sorta di concezione astratta, in un limite indecifrabile.
Nel mio caso, d’altro lato, a questa sospensione dilatata pare corrispondere una concreta accelerazione: sono impressioni, sensazioni, emozioni, frustrazioni che di momento in momento si affollano, si scompongono, si frammentano, si ricompongono a una velocità incredibile.
A questo punto devo riferire un vissuto personale che bene rappresenta, a mio parere, quanto il dettame del distanziamento sociale, che tanto sembra penalizzarci nel momento presente, possa tradursi in una ricchezza di contatti e scambi sicuramente differenti dall’essere in presenza ma ugualmente intelligenti, creativi, gratificanti. Con alcune dell’associazione Le Vicine di casa in questo tempo di reclusione lo scambio di saluti, immagini, notizie, pillole di saggezza, spunti di riflessione, inviti al dibattito e tanto altro è quasi quotidiano.
Per me, che vivo in solitudine, un contatto così frequente significa veramente molto. Mi dà energia, fiducia, serenità e sicurezza. Mi dà la possibilità di conoscere meglio le abitudini di ciascuna, di condividere la gioia di nuovi fiori sbocciati in giardino o sui balconi, di assaporare una ricetta speciale in un ideale convivio, di spartire il piacere di una nuova lettura o il ripescare dalle librerie di casa vecchi tesori accantonati. Sono piccole e grandi scoperte quotidiane che danno ad ogni giornata una parte di luce.
In questo tempo sospeso per l’emergenza da coronavirus, vorrei fare alcune considerazioni su due aspetti della situazione attuale che mi toccano più da vicino.
Il primo riguarda i contraccolpi psicologici di una “quarantena” che non si sa ancora quanto a lungo possa durare, gli effetti delle immagini quotidiane, diffuse dai mass media, di un numero enorme di contagiati e di morti, fra cui molte mediche, medici e infermiere, morti che non possono nemmeno avere un funerale alla presenza dei loro cari, le sensazioni suscitate dalle notizie di paesi lontani ma ora in realtà vicinissimi, in cui il diffondersi del virus rischia di essere spaventoso (penso all’India, all’Iran e all’Africa, ma ci sono già in prima linea gli Stati Uniti, a segnalarci la fragilità anche dei cosiddetti paesi del benessere).
I risvolti psicologici ed esistenziali di un’angoscia che non può non toccarci intimamente sono notevoli. Io non ho una competenza in materia pari a quella di Pasqua Teora, che è già intervenuta su questo, ma, avendo fatto sette anni di psicanalisi e circa venti di psicoterapia, e soprattutto avendo ben presente la pratica femminista del partire da sé, ho spontaneamente trovato come primo rimedio all’angoscia quello di scrivere sul mio diario ciò che provavo di giorno in giorno. All’inizio, stranamente, non l’avevo fatto, forse perché avevo paura di guardarmi dentro o perché ero travolta da nuove incombenze (le lezioni on line, gli esami con le/gli studenti via skype ecc.).
Un’altra pratica che mi ha aiutato molto è stata la pittura: dipingere qualche immagine di bellezza, sia pure da dilettante quale sono, mi svuota temporaneamente la mente dalle molte preoccupazioni per delle inezie, che in fondo sono altrettante mozioni di sfiducia nei confronti di Dio, come direbbe Etty Hillesum.
La terza pratica a cui faccio spesso ricorso è la preghiera: prego molto per le persone che mi sono care, per le amiche e gli amici, per tutti. Forse questo non aiuterà loro, ma certo aiuta me a sentirmi meno impotente.
Il secondo punto su cui vorrei riflettere è il cambiamento nelle relazioni con gli altri che questa situazione di emergenza ha innescato: per la prima volta si parla dal balcone con dei vicini che prima neppure si sapeva che esistessero; quando s’incontra qualcuno per strada – a distanza di sicurezza –, ci si saluta e si scambia qualche parola; si offre spontaneamente aiuto a chi è più in difficoltà. Gli “odiatori” di professione per il momento tacciono. C’è una consapevolezza molto forte in tutti della propria vulnerabilità. Il pensiero della differenza ci ha fatto sempre tenere presente la fragilità umana, così come abbiamo più volte ribadito l’importanza delle relazioni e la dipendenza che esse comportano. Vale di più la libertà dell’in-dipendenza, anche se di libertà di movimento in questo momento ce n’è davvero poca.
Ora, come già altre hanno sottolineato nei contributi su “via Dogana”, questo cambiamento che è sotto gli occhi di tutti indica un cambio di civiltà. La mancanza delle relazioni in presenza ce ne fa sentire in modo straziante il desiderio; le amicizie, politiche e non, sono ancore di salvezza a cui aggrapparsi; siamo disposte a prestare un ascolto attento a tutte le persone che hanno bisogno di sfogarsi, di dire il proprio disagio; infine, la severità delle restrizioni ci costringe a chiederci che cosa sia essenziale per noi, che cosa conti veramente. In questo periodo, sembra stia nascendo un’umanità più consapevole della propria fragilità, più disposta ad aiutare, meno incattivita, più solidale. Non so se questo cambio di passo durerà anche una volta finita l’emergenza, non sono in grado di prevederlo, ma per ora è così. In qualche modo, l’umanità intera sembra far proprie in questo periodo le conquiste più importanti di quella che noi abbiamo chiamato politica prima.
Io vivo a Verona, una città con un numero di contagi e di morti ormai piuttosto elevato, ma non certo pari a quello della vicina Brescia, di Bergamo e dell’intera Lombardia.
Ho saputo che a Milano una poeta ha scritto su dei post-it appesi ai muri: “tutto andrà bene”. Una frase bella, ma forse troppo ottimista. Mi è subito venuta in mente la formula, simile ma non identica, che si trova nel Libro delle rivelazioni di Giuliana di Norwich: nonostante tutto il male del mondo, “tutto sarà bene, e ogni specie di cosa sarà bene”. In Giuliana, c’è la fiducia in un Dio-madre che volgerà ogni cosa al bene, benché il suo sguardo non si distolga affatto da tutto il peccato, il male e la sofferenza che affliggono il mondo.
La notte scorsa, ho fatto un sogno. Una mia cara amica, che è morta qualche anno fa di un tumore ai polmoni, mi è apparsa in sogno non devastata com’era prima di morire a causa del cortisone e delle chemioterapie, ma giovane, bellissima, elegante: mi sono prostrata davanti a lei in segno di adorazione. Allo stesso modo, nell’intimo di me, mi prostro davanti a tutti questi morti per il virus.
Che cosa, per il momento, sempre che abbiamo la fortuna di sfuggire al contagio, può salvarci? Come ho cercato di dire in questo mio breve testo, credo che possano salvarci la scrittura, la bellezza e le relazioni, beni preziosi che le pratiche delle donne hanno sempre custodito con cura. Ora più che mai.
Care amiche della Libreria, da Vita mi arriva la segnalazione dell’invito a scrivere che compare nell’ultimo numero di Via Dogana. È la sua voce a sostenere questo tentativo di trovare parole mie dentro l’eccesso di parole e numeri con cui ogni giorno si viene frastornate. Al telefono per qualche minuto il mio cattivo udito percepisce Mita. Un nome che amo da quando ho letto le Lettere a Mita di Cristina Campo. Ci vuole un po’ di tempo per sentire qui, viva e presente nonostante la distanza, Vita, un’amica importante, con la quale tuttavia non c’è una consuetudine di scambi quotidiani. Senza questa percezione della presenza non troverei la forza di scrivere.
Mentre leggo lo scritto di Pasqua Teora in Via Dogana, penso all’importanza dei sogni, a come ci orientano e ci curano, aiutandoci a riconoscere gli impulsi profondi che dobbiamo ascoltare e assecondare per non distrarci, per non dissipare le energie vitali nel tempo in cui la malattia invade i corpi e le menti, costringendoci a non vedere altro. Perché il tempo che stiamo attraversando è un tempo nel quale la malattia invade tutto, così la morte. La morte più crudele che si possa immaginare, quella in cui non c’è il conforto della presenza, del contatto che accompagna la persona cara verso la fine della sua esistenza terrena. La morte che, come sta capitando nella mia città, talvolta avviene lontano, nell’ospedale di una città che non ci possiamo nemmeno rappresentare, di una nazione che parla una lingua che non possiamo nemmeno usare per sapere dove si trova la persona cara e, se muore, dove e come è avvenuta la morte, dove si trova la bara, dove si farà la cremazione…
Mi viene in mente quello che mi raccontava una delle donne partigiane che avevo intervistato negli anni Ottanta del secolo scorso, la voragine di lutto che si era creata in lei nel non sapere dove e come trovare le ceneri del fratello scomparso in un lager in Germania. È troppo vicina al nostro sentire questa storia per non avvertire, nonostante tutto, una somiglianza con quello che la gestione regionale della cura sta provocando, per accettare senza indignarsi la possibilità che un fratello, una sorella, un marito, un padre, una madre… una persona che amiamo, venga portata in Germania o in un altro paese perché altre regioni del nostro paese, addirittura province confinanti dove c’è disponibilità di posti di terapia intensiva, hanno deciso di non accoglierla.
Il dopo si crea adesso. Dopo aver cercato di arginare la collera che minaccia di invadere la mente, tenendomi lontana dalle parole, con pratiche silenziose, dipingendo, creando immagini, pulendo e ripulendo la casa anche quando non ce n’è bisogno, esco da questo suo insidioso serpeggiare nel fondo scrivendo una lettera alle amiche di diotima, dichiarando il mio bisogno di parole che creino una vicinanza d’anima. Chiara Zamboni lo chiama un pensare meditato su quello che ci sta capitando. Io stessa mi impegno a trovarle, quelle parole. Così vedo la collera allontanarsi mentre prende forma questo pensiero: il dopo si crea adesso. Non è una speranza, ma una certezza. Adesso che vediamo quello che, prima, era ben nascosto e, salvo rari momenti, una persona poteva vedere solo lasciandosi trasformare nello sguardo, noi tutti e tutte siamo costretti a vederlo. Adesso: in questo tempo che oso chiamare di verità. Perché il tempo che stiamo vivendo è il tempo in cui sono caduti tre tabù: il tabù della morte, il tabù della malattia e il tabù della vecchiaia. Questa epidemia li ha fatti saltare brutalmente tutti in una volta. E in modo così fragoroso che non li si può ignorare.
Adesso: morte, malattia e vecchiaia si mostrano in tutta la loro evidenza come nervature del Reale. È questa evidenza che sta sconvolgendo un ordine in cui dovevano restare nascoste, ben protette per non disturbare i sani, i giovani, i vivi. Per confermarli/confermarci nell’illusione che la vita sia altro dalla morte, dalla malattia e dalla vecchiaia. Ora questi nervi si sono scoperti e provocano dolori lancinanti, paralizzanti, non avendo rimedi per placarli.
Adesso che siamo costrette, costretti a vedere che non possiamo ammalare perché gli ospedali non possono curare, possiamo renderci disponibili ad una metamorfosi dello sguardo tale da riconoscere questa verità? Penso spesso a Zambrano, alla fecondità dell’esilio per lei. Sento una profonda sintonia con questo suo modo di vivere l’esilio, non come separazione dagli altri, ma come possibilità di sfuggire alla “seduzione di una patria qualsiasi essa sia”, di accedere a un sapere, “il sapere più materiale, più concreto, più implicato ed intriso del sensibile ma anche il più esposto all’abissalità della cosa, più di essa partecipe”. Penso al suo scegliere l’esilio cui è costretta, come oggi io scelgo l’eremitaggio cui sono costretta come luogo nel quale mi è possibile sentire, toccare avvertire questi nervi scoperti della vita, senza la tentazione di catalogare questo tempo come un tempo di emergenza.
Qualcosa cambierà, lo dicono tutti. La retorica che prevale dice: cambierà e non può che essere un bene. Non lo so. Rifuggo dalla retorica. Quindi mi attesto su me stessa. Quello che è cambiato in tutte e tutti è la percezione della malattia. I posti in ospedale sono maledettamente pochi. Lo sapevamo. Attese di mesi per essere operate di un tumore, al seno. A pagamento in quindici giorni tutto risolto.
Io lo so perché ho una lunga storia di tumori al seno. Ho cominciato nel 1994 a 44 anni non ancora compiuti. Sono stata operata allo IEO appena aperto, a pagamento. Allora era appena morto mio padre ma mia madre era ancora viva sarebbe morta pochi anni dopo. Avevamo ricevuto anche l’eredità di una cugina, morta di tumore al seno, l’anno prima. Ho poi avuto altre due operazioni nel 2006 e nel 2007, con la mutua. Non avrei certamente potuto permettermi altre soluzioni, anche se l’attesa di mesi nel 2007 c’è stata, con questo tumore che sentivo diventare sempre più grosso. Finalmente è venuto il mio turno. Ha visto? Mi ha detto la chirurga quando il risultato è stato buono, niente linfonodi intaccati, benché avesse girato per vari convegni mentre aspettavo che mi chiamasse. Ecco tutta questa trafila che attraversa la mia vita da 26 anni, che significa controlli, prevenzione, attenzione, autovisita, dieta, fare parte di programmi di studio, partecipazione a incontri sempre dal punto di vista della dieta alimentare in cui credo, so che cambierà. Ma forse no. Magari invece no. Diventerà ancora più importante approfondire la ricerca, quella genetica, per esempio, che, avendo scoperto la mutazione genetica che mi predispone al cancro al seno, mi vede fra le protagoniste interessate.
Faccio il punto di come vedo la situazione. Di tutto quello che avverrà sul fronte della sanità non sappiamo niente, neppure sappiamo cosa avverrà di un’economia che avrà è ovvio una montagna di problemi anche di sopravvivenza pura e semplice. La sanità da settore importante vessato dai tagli ma che salvava la faccia con un aggiustamento e l’altro, un taglio di qui e un finanziamento farmaceutico di là, uno studio in più a destra, e un altro in meno a sinistra, ha mostrato un contradditorio risultato. Capace di gestire un’emergenza mai vista prima, di costruire ospedali in 15 giorni quello che fino a un mese prima “solo i cinesi ci riescono”, sostenuta da un numero altissimo di donne e uomini che hanno fatto richiesta di intervenire, abile a gestire una malattia, fino a dove è possibile, avvicinando il malessere con sistemi abituali ma non sperimentati per il Covid 19. Questa sanità ha però sacrificato migliaia di donne e uomini non avendo a disposizione le protezioni che una politica sanitaria avveduta, in mano a governanti capaci di pensare non solo alla spesa, aveva il dovere di rifornire.
La mia percezione della malattia oggi è cambiata. Mi sono convinta che ammalarsi è un lusso. Purtroppo la malattia non è solo una questione di accidenti capitati in seguito all’età, al clima, alla conformazione fisica, ai contagi, appunto, la genetica ci insegna che apparteniamo a catene umane che ci mettono fino dalla nascita dentro alle malattie. Non per tutte e tutti però, ci sono alte percentuali ma chissà perché c’è chi scappa via dal suo destino genetico. Quindi niente è detto mentre cerchiamo di dire tutto. Forse è qui che potremmo agire. Sulla percezione del costo della malattia devo molto a mio cognato Paolo Banfi che – oltre a essere un ottimo pneumologo che mi ha sempre curato molto bene – nella discussione politica quotidiana mi ha sempre avvertito che era con questo sguardo che mi toccava guardare alle cure che ricevevo, per diritto, tutte gratuite benché molto costose. Esami del sangue, mammografie, ecografie, Risonanza magnetica ogni anno, visite ginecologiche con ecografia, operazioni, caspita quanto sono costata in questi anni alla spesa pubblica. Ho ricambiato – oltre che pagando le tasse – come so fare io: con moltissimo lavoro gratuito, ho creato luoghi virtuali di successo, non per il commercio ma per diffondere sapere, relazioni, conoscenza, cultura, politica delle relazioni fra donne e con gli uomini che vogliono entrarci. Ho fatto conoscere la scrittura delle donne. Ho fatto spettacoli teatrali creando la compagnia Donne di parola per comunicare il pensiero delle donne oltre che il mio. Ho scritto molto sulla rete. Ho pubblicato tre libri che non mi hanno fatto guadagnare niente. Questo è il mio impegno con cui collaboro a fare di questa società un luogo dove il pensiero la parola l’agire delle donne e intrinsecamente di tutti sia centrale nelle scelte politiche economiche sociali.
C’è la gestione della malattia in una direzione che comprende tutta la persona umana. A questa visione della malattia concorre in modo importante la dieta e qui devo molto a chi mi ha introdotto nel mondo della macrobiotica intrecciata con la cura del tumore al seno, Franco Berrino, sua moglie Jo recentemente scomparsa, e Elena Alquati, che è stata la sua assistente e cuoca, le amiche e gli amici dell’ex Punto Macrobiotico di Segrate, Cinzia Bertozzi, Mara Montesano, Marina Mazzotti amiche che condividono con me la pratica della questione alimentare come centrale. Recentemente ho avuto qualche contatto anche con le amiche e gli amici di Cuisine e Santé, fondato da René Levy e ho assimilato anche da questo gruppo di seguaci delle dottrine di George e Lima Oshawa, così come da Martin Halsey, fondatore di La sanagola, ristorante macrobiotico, e di cui tengo presente la dottrina attraverso la sua lettera quindicinale di consigli.
Esiste una gestione quotidiana della malattia e della propria salute come una cosa sola. Una gestione quindi non estemporanea, occasionale, deterministicamente dettata da un malessere e neppure dai protocolli, dalle medicine, dalla cura ospedaliera, con visite, controlli, esami. E non ho detto che siano da escludere. Dico però di considerare per ogni essere le pratiche adottate per vivere. Alla gestione quotidiana dell’essere che siamo fa da completamento il lavoro motorio. Danza, Ginnastica, Pilates, Camminare, quattro discipline a cui mi dedico per la mia salute. Con l’esclusione del Pilates le conosco abbastanza bene, le pratico così da anni che penso non solo di poterle insegnare, ma soprattutto di poterle praticare in autonomia. E come insegna Berrino ho praticato e pratico anche da anni la meditazione camminando.
Oggi ho una nuova percezione della malattia, che sta diventando un lusso. Da un giorno all’altro ho visto che le persone malate prima del Coronavirus, contate sullo sfondo dei numeri complessivi della popolazione che popola il nostro pianeta, sono pochissime. Sono così poche che quando si allarga il numero di chi abbisogna di cure salta il sistema delle normali relazioni di vita sociale, affettiva, lavorativa. Certo, mi rispondo da me: è perché la normalità è la salute, non la malattia. E già, è vero, anche per me la normalità è la mia salute che mi ha permesso di fare tante cose negli anni, eppure io ho anche una malattia per la quale pratico esami diagnostici, operazioni, cure dal 1994. E grazie a questa diagnostica, insieme all’autodiagnosi, ho avuto l’operazione di tre tumori e con la diagnosi di una mutazione genetica ho avuto anche un intervento preventivo.
Oggi ho la percezione che la mia malattia è un lusso. Forse è proprio un lusso che me la sia consentita, genetica a parte. Chissà mi dico forse una parte di me, nell’inconscio ha detto ma sì autorizza le tue cellule a replicarsi male, metti a riposo il tuo sistema immunitario, sospendi la sorveglianza su quelle cellule sbagliate, lascia correre la malattia. Perché non lo so, forse perché la salute dopo la malattia è una botta di vita. Ma qualsiasi sia la risposta, da ora in poi ci vuole più attenzione perché a occhio croce i soldi saranno molto meno di oggi. A me che ho quasi 70 anni forniranno ancora gratis gli esami che mi servono per sorvegliare il mio DNA?
Ad ogni buon conto suggerisco di pensare attentamente a cosa facciamo per la nostra salute, come dire? Gratis. Pensateci bene. Non ci sono solo i mezzi della diagnostica, per prevenire i tumori piuttosto che le malattie cardiovascolari. Ci sono semplici pratiche di vita quotidiana, come l’attenzione al cibo, all’evitamento di ciò che può nuocere a noi ma anche all’ecosistema, come la carne, in generale, il fumo, che nuoce pure all’ambiente, oltre a chi ci sta di fianco, anche l’alcool, fa male, i dolci sono dannosissimi non solo ai denti come ci dicevano da bambini. Ora queste esperienze di self-help (di autoaiuto) praticate in comunità ci possono salvare e dare la felicità di pratiche che non costano alla comunità e possono essere altamente capaci di darci una buona salute, e almeno di darci il potere di decidere di noi stesse e noi stessi.
Alimentarsi con attenzione a cosa si mangia è una medicina naturale che ciascuna e ciascuno di noi può conoscere in soggettiva, partendo da sé. È una medicina che non costa niente al bilancio pubblico e spinge a prestare attenzione a sé, qualsiasi passo verso la ricerca di sé va bene.
Sempre di più ci verrà opportuno sapere badare a noi, curandoci l’una con l’altra, l’uno con l’altro, l’una con l’altro, l’uno con l’altra e quello che abbiamo imparato in questi anni, la nostra saggezza del corpo servirà a noi e alla comunità.
Ha scritto Annie Ernaux nella sua bellissima lettera «nous ne laisserons plus nous voler notre vie, nous n’avons qu’elle», et « rien ne vaut la vie » (Sappia, signor Presidente, che non ci lasceremo più rubare la nostra vita, non abbiamo che questa e “nulla vale quanto la vita”)
In queste settimane le donne sono impegnate in una emergenza che non ha precedenti, una emergenza di cui non si riescono ad affrontare le cause se non cambiando stili di vita fino a quando la ricerca scientifica non avrà trovato rimedi, nella quale è necessaria una fatica e una consapevolezza diffusa perché la vita di tutti possa continuare. Protagoniste di questo straordinario impegno, le seguiamo con trepidazione e le vorremmo sostenere una a una nella loro impresa mentre cerchiamo di vivere la normalità in una situazione che di normale non ha proprio nulla.
Una notorietà non cercata, quella delle tre ricercatrici dello Spallanzani che, prime, hanno isolato il nuovo coronavirus. Le abbiamo conosciute nelle interviste televisive, imbarazzate e un po’ intimorite dalla telecamera, autentiche, sicure della loro scoperta, orgogliose del contributo dato alla corsa contro tempo per sconfiggere il virus. Poi abbiamo incontrato le ricercatrici del Sacco di Milano e ancora, in un susseguirsi di volti femminili, abbiamo scoperto le eccellenze del mondo medico, scientifico, culturale ed economico. In questa bolla, di giorni e ore trascorse in isolamento e distanziamento sociale, nella emergenza sanitaria, sociale ed economica, si è imposta la capacità e la forza delle donne. Mediche, infermiere e ausiliarie del sistema sanitario, giornaliste e conduttrici della televisione, insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, delegate e sindacaliste nei luoghi di lavoro, detenute che producono mascherine in e per il carcere. Impegnate a garantire “tutto il lavoro necessario per vivere” dovendo, nel contempo e per necessità, ripensare radicalmente cosa è necessario oggi a garantire salute, informazione, studio, lavoro. Tra le mura di una casa con il telefono e il computer, in un ospedale indossando mascherina e guanti, nelle strade vuote delle nostre città davanti a una telecamera con un microfono in mano. Sono invece quasi solo uomini quelli che parlano in queste settimane. In una situazione di paura e di incertezza diffusa e pur condividendo tante scelte difficili e riconoscendo l’importanza dei risultati raggiunti, penso che non sempre è stato deciso per il meglio. La paura del contagio, quella di perdere il governo della situazione, di un’economia che si ferma, anche la paura di perdere il consenso hanno condizionato il dibattito e le decisioni politiche e qualcuno ha chiesto misure straordinarie per garantire l’ordine pubblico. Questa paura però, nonostante l’emergenza, non si respira nell’agire delle donne. In questa situazione non abbiamo parole adeguate e trovare queste parole non è facile. Io queste parole le ho trovate in Lia Cigarini: “Mi azzardo a dire che le sorti della civiltà sono nelle mani delle donne”. Per due ragioni, dice, e la prima di queste ragioni in queste settimane è proprio evidente: le donne “hanno un’importanza, un peso che non hanno mai avuto prima nella storia umana”. Noi, però, oggi viviamo una situazione dove, oltre a impegnare la nostra capacità e la nostra forza per garantire una vita normale in una situazione anormale, dobbiamo fare i conti con la paura; la nostra, quella degli altri, quella di chi governa e fa scelte politiche. Tornano allora le parole di Lia Cigarini, “chi sta dentro la paura non sa che è possibile fare e agire in modo diverso”, e qui troviamo la seconda ragione che consegna le sorti della civiltà nelle nostre mani perché, dice ancora Lia, “le pratiche (politiche)inventate dalle donne, autocoscienza, inconscio, affidamento, partire da sé e relazioni sono le uniche adeguate ad affrontare, ad esempio, la paura”. La prova del presente.
Bergamo. Da una ventina di giorni lavoro da casa con quei pazienti che accettano di ricevere consulenza o psicoterapia a distanza. Tante cose, non immaginate prima, diventano reali e praticabili grazie alla tecnologia e alla rivoluzione in atto, come anche alle necessità contingenti fattesi irrinunciabili.
I vivi colpiti dal virus continuano a morire e c’è chi si sveglia in piena notte sentendo il brusio dei morti che passeggiano nelle strade della città deserte e dei paesi spopolati. Sono alcuni degli espropriati all’improvviso dei loro padri, di tanti amici, congiunti, vicini di casa, tanti loro cari. Sognano e senza saperlo, percepiscono l’invisibile che da svegli generalmente non possiamo intercettare. Nel mondo invisibile incontrano soprattutto i grandi padri, un esercito di uomini che ha lavorato instancabilmente tutta la vita per la fondazione di questo universo più che laborioso. In nome di cosa se non di un processo di sviluppo immaginato ciecamente, senza controindicazioni? Chissà cosa vogliono dirci i morti che trasparenti stanno girando quando si fa buio? Sperano forse di entrare nei nostri sogni per raccontarci verità impossibili da immaginare finché erano in vita? Chissà cosa stanno scoprendo dopo essere stati polverizzati nel grande incendio dei forni crematori?
Un po’ infantilmente, lo riconosco, con alcuni ci stiamo interrogando proprio sulla cremazione subita da chi non l’avrebbe mai scelta. Come insegnano in India, dove le salme bruciano per ore su pire altissime in riva al sacro fiume Gange, le anime non bruciano insieme ai corpi. Un rito sacro che risale alla notte dei tempi e tuttavia assai diverso da quello a cui assistiamo nelle ultime due settimane. Forse per ingenuità qualcuno ha bisogno che la Chiesa si pronunci e li rassicuri: le anime anche di questi morti si ricongiungeranno alla fine di tutto con il corpo splendente di luce, anche dopo la polverizzazione in un lampo. Vero?
Un’altra immagine surreale, ovviamente costruita, capace di emozionare, girava stamattina tra i vari messaggi, documenti, fotografie che vorticosamente condividiamo in questi giorni di fine del mondo – certo anche un po’ per farci compagnia. Comunque, questa mostrava una fila di vivi che ordinati accompagnavano la fila dei defunti in forma di sagome trasparenti. La processione funebre era collocata dall’autore a fianco dei camion militari che per la macabra occasione qui a Bergamo erano vestiti a lutto. Pensavo, noi nelle strade non possiamo scendere, ma i nostri cari sì, loro ormai sono liberi: simbolicamente si stanno aggirando, oltre che nelle nostre menti, nelle strade della nostra città e della sua laboriosa provincia. Certo, la morte non impedisce loro di presidiare in spirito il territorio dove in queste lunghissime settimane tutti stiamo patendo: tutti in cerca di spiegazioni, a leggere, indagare, ascoltare, mettendo in ipotesi cose prima mai neppure immaginate.
Ecco, tutto questo smarrimento non ci sta impedendo di godere il piacere della musica, dei canti, di scenette comiche, dell’esplosione di creatività collettiva, della raccolta di offerte per il volontariato, per gli ospedali, per la Protezione Civile. Eppure, la sera, in numero crescente, come già alcuni fanno, in tanti potremmo accendere lumini sui davanzali per fare compagnia ai nostri morti. Un gesto per testimoniare che, in qualsiasi modo siano stati trattati i loro poveri corpi, la loro essenza abita e abiterà in noi, e che continueremo a camminare in una direzione che non potrà più essere esattamente quella da loro praticata. Noi, certo, prenderemo esempio dalle loro testimonianze, ma per perseguire i cambiamenti che oggi si sono fatti irrinunciabili. Forse in spirito i nostri morti, questo vogliono venire a svelarci: il loro consenso prima neppure immaginabile?
Un esempio minuscolo, rispetto all’incredibile che si sta verificando: io stessa, fino a qualche anno fa, mai avrei immaginato di fare psicoterapia a distanza e non solo individuale, di gruppo! Eppure lo sto facendo. Soprattutto da quando, insieme ad altri, stiamo immaginando come migliorare o cambiare – magari radicalmente – approcci, teorie, strategie.
Oggi, con questa specie di fine del mondo, comprendiamo che il mondo che c’era, non ci sarà più. Dovremo rifondarlo, migliorandolo dalle logiche stringenti del profitto a qualunque costo.
La vita esige di più.
Scrive Hannah Arendt che i «tempi bui» sono quelli in cui «lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata». Nello stato di emergenza che stiamo vivendo, in cui la politica è interamente ridotta a decisione verticale, in cui ogni forma di partecipazione e deliberazione è sospesa, in cui ci troviamo costretti in casa, impauriti, impediti dal muoverci o dal riunirci, è forte l’impressione di assistere a un oscuramento della dimensione pubblica.
È altamente probabile che la pandemia di Covid-19 sia uno di quegli snodi del tempo storico a cui giustamente diamo il nome di crisi perché l’imprevisto comporta il vacillare di sistemi teorici, assetti istituzionali e forme di vita, aprendo a un cambiamento irreversibile. Crisi è da intendere nel duplice senso del greco krisis, che rimanda all’idea di scelta, decisione, prefigurando un rischio, un pericolo, ma anche una (seppure drammatica) opportunità.
Cosa ci attende oltre la crisi? Il completo oscuramento della politica? O la sua rigenerazione in forme oggi difficili da intravedere? Sarà l’oscurità che avanza, il compimento finale di quell’opera di depoliticizzazione prodotta dal neoliberalismo, favorita da un evento tanto inaspettato quanto esiziale? O sarà piuttosto un’eclissi dello spazio pubblico, finita la quale una qualche luce tornerà a illuminare la nostra capacità di azione politica.
Molto dipende, naturalmente, da cosa sapremo fare di questo tempo sospeso, ed io azzarderò qui un certo ottimismo. Dalla narrazione della vita al tempo del Covid-19 provengono segnali contrastanti: manifestazioni di estremo individualismo da free-rider ma anche, e forse in maggior numero, espressioni – o accenni, o frammenti – di una diversa consapevolezza. Mai, in anni recenti, avevamo udito pronunciare con tanta frequenza parole come cura, relazione, responsabilità. Forse stiamo imparando – a nostre spese, ma meglio tardi che mai – che persino davanti a un virus che ha l’effetto di separarci, che ci costringe a mantenere le distanze (come ha detto Benasayag, un virus davvero neoliberale!), abbiamo la responsabilità di pensare al di là della nostra persona, possiamo prenderci cura di altri e altre, che pure sono lontani, proprio perché ci sappiamo vulnerabili, in relazione con gli altri, in un rapporto di reciproca dipendenza.
«Una circostanza straordinaria», ha scritto Caterina Botti, «ci permette forse di recuperare quello sfondo così ordinario da risultare spesso invisibile, non visto, non detto, lo sfondo su cui si staglia la nostra singola esistenza, e cioè l’insieme delle relazioni che la rendono possibile. Diventa acutamente visibile, e dicibile, il fatto che dipendiamo gli/le uni/e dagli/dalle altri/e, che nessuno vive o si salva da solo. Il che vuol dire anche – per girare in positivo ciò che di nuovo può essere letto a prima vista in modo negativo – che è in nostro potere, nel potere di ciascuno di noi, fare qualcosa per gli altri».
Possiamo fare dunque di questa crisi un’occasione di conoscenza? E più ancora, possiamo trasformare questa conoscenza in capacità di azione politica?
A me pare che la consapevolezza della vulnerabilità, della relazionalità, della dipendenza, unita all’esperienza reale, fisica della malattia, del lutto, della quarantena, del governo totale delle nostre vite, abbia buone possibilità di generare nuovo senso comune su molte questioni politicamente cruciali.
Alcuni scostamenti importanti sono già stati segnalati dai sondaggi d’opinione: l’emergenza Coronavirus ha fatto riscoprire il significato e il valore del pubblico, dopo decenni di cessione di quote ai privati in ambiti vitali, come quello della sanità. Ha anche indotto un netto ripensamento dei cittadini sul progetto dissennato dell’“autonomia differenziata” che fino a pochi mesi fa pareva di prossima realizzazione e che decreterebbe la fine del welfare universale (si può leggere in proposito Ida Dominijanni)
Ma c’è anche altro, nell’esperienza che stiamo vivendo, che ha la potenzialità di trasformare il senso comune e riorientare la politica. Innanzitutto, la brusca interruzione dei ritmi vorticosi di produzione e consumo che sono tipici delle nostre società tardo-capitaliste, se naturalmente provoca una diffusa ansietà per le conseguenze economiche, non è da escludere che possa indurre maggiore cognizione dell’assoluta follia di un sistema che condanna persone a rischiare la vita per lavorare, non solo perché chiamate “in prima linea”, non solo per rispondere alle necessità della produzione, ma anche (spesso allo stesso tempo) perché completamente prive di tutela in caso di assenza dal lavoro. Un sistema che induce a sacrificare per il lavoro aspetti essenziali della propria vita, come le relazioni e la cura. Un sistema, infine, fondato su diseguaglianze – di età, genere, classe, status migratorio… – che la crisi del Coronavirus ha fatto emergere con un’evidenza difficilmente riproducibile in condizioni “ordinarie”. Saprà questa crisi generare anticorpi diffusi contro il dominio incontrastato del modello neoliberale, che fa dell’homo oeconomicus la misura dell’umano, e del singolo il responsabile ultimo della propria sopravvivenza?
In secondo luogo, le misure messe in atto per “sconfiggere” il virus, tanto dure da riconfigurare interamente i nostri stili di vita, ci hanno indotto a sperimentare concretamente – seppure per un periodo di tempo che si auspica breve e comunque a scadenza – il peso di politiche che comprimono la sfera dei diritti e delle libertà individuali. In un tempo storico percorso dalla fascinazione per i modelli di esercizio autoritario del potere, non c’è forse migliore occasione di immunizzarsi rispetto alla tentazione antidemocratica.
Infine, il Covid-19 ha fatto strame della retorica sovranista. A nulla – se non ad avvelenare i pozzi – sono serviti i proclami razzisti e le grida alla chiusura dei confini. Il virus non conosce confini, e ci consegna l’immagine di un pianeta interdipendente con una forza che nessun discorso politico o teorico era fino ad oggi riuscito a conseguire. Non solo, ma proprio nel momento in cui l’egoismo del benessere sembrava destinato a conquistare definitivamente la scena politica, il virus ci ha fatto sperimentare il rovesciamento: siamo diventati i corpi da bloccare alla frontiera; da isolare su una nave, o su un aereo, con divieto di sbarco. Non importa quanta bianchezza, cultura o ricchezza portiamo con noi.
Sarebbe auspicabile che tutto questo ci insegnasse qualcosa. Che ci insegnasse, per esempio, l’empatia verso chi fugge, verso le sue paure. Anche noi ci siamo trovati in pochi giorni a prendere dei treni in preda al panico. Anche noi abbiamo sentito quanto gli altri possono diventare ostili verso di noi quando ci percepiscono come pericolo.
Se il rischio di contagio e l’imperativo della cura altrui ha saputo agire sulle nostre coscienze inducendoci a pensare oltre noi stessi/e, saremo in grado di trasformare questa esperienza in energia politica, per esempio di fronte a grandi sfide comuni come quella ambientale o alla lotta alle diseguaglianze sociali? Saremo in grado di allargare la cognizione della relazionalità e interdipendenza degli esseri umani, per includere tra le vite che “contano” anche quelle che stanno premendo ai confini dell’Europa e che l’Europa ha deciso di abbandonare a se stesse?
Quando tutto questo finirà (perché finirà, vero?) dovremo pensare ai nostri morti e ai nostri vivi, a ricostruire un sistema sanitario pubblico all’altezza delle sfide poste dall’invecchiamento della popolazione, a riparare un mondo del lavoro distrutto dalla mancanza di tutele, a ridare nelle nostre vite spazio ad altro che al profitto o alla pura sopravvivenza, e a fare spazio ad altre e altri, che chiedono protezione.
Se l’esperienza terribile che stiamo vivendo saprà farsi nutrimento per un nuovo senso comune e un approccio etico e politico ispirato a valori quali cura, responsabilità, solidarietà, l’eclissi che oggi sembra oscurare il pubblico potrebbe finire. Potrebbe farsi strada un certo chiarore. Potrebbe persino, per molte e molti di noi, per la mia generazione – ecco il mio azzardo! – essere l’esperienza di più grande politicizzazione che ci è toccato in sorte di vivere come collettività.
(https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/03/17/ricostruire-lo-spazio-pubblico-dopo-leclissi-della-politica/)
Siamo in due, in casa tutto il giorno, le notizie si accavallano con numeri ed esortazioni alla prudenza: una donna, un uomo. Parliamo, confrontiamo le nostre sensazioni su questo tempo sospeso. Vediamo l’impegno di donne e uomini per arginare il diffondersi dell’epidemia, per curare chi ha contratto il virus, per alleviare i problemi di chi non ha più lavoro e per sostenere un’economia che faticherà a riprendersi.
Si può parlare di donne impegnate nell’emergenza quotidiana e di uomini che parlano sulla scena pubblica? Credo che la questione si ponga su un altro piano.
In questi anni abbiamo avuto modo di frequentare diversi ospedali e abbiamo notato come fra il personale in corsia siano presenti molti uomini e molte siano le mediche. Il diffondersi del virus ha reso tutti più consapevoli del loro indispensabile e prezioso lavoro.
Io sono rimasta colpita da due immagini comparse sui quotidiani: l’infermiera stravolta, addormentata sulla tastiera del computer poco prima della fine del turno che le ha esaurito le forze, e quella di due sanitari, forse un uomo e una donna irriconoscibili sotto gli indumenti protettivi, in una stanza d’ospedale vuota, seduti su un letto vuoto, le mani in grembo, sfiniti dalla stanchezza, con la testa di una (uno) sulla spalla dell’altro (altra). Immagini emblematiche di personale anonimo che si sta impegnando allo stremo. Solo due giorni dopo la pubblicazione, l’infermiera avrà un nome, Elena Pagliarini: chiederà scusa per l’attimo di debolezza “Dopo questa foto mi chiamano in tanti e mi ringraziano. In tempi normali mi avrebbero criticato”. Effetto del capovolgimento di valori operato dal coronavirus: a prevalere adesso è l’umano.
Nella politica istituzionale deputata a governare la situazione e a prendere provvedimenti c’è predominanza maschile, ma ai vertici europei ci sono due donne, Christine Lagarde, presidente della BCE e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Anche sulla scena pubblica delle dichiarazioni, delle conferenze stampa, delle opinioni ci sono ricercatrici, virologhe, scienziate che dicono la loro.
L’emergenza che stiamo vivendo sembra aver messo ordine tra quello che la politica delle donne ha chiamato politica prima, quella del giorno per giorno, della quotidianità fatta di cura e attenzioni, dove donne e uomini si relazionano fra di loro e mediano per la soluzione di problemi che sentono propri e impellenti, e la politica in seconda battuta, quella delle istituzioni, dei governi, quella che non funziona senza la prima se perde il contatto con le persone.
Con il coronavirus l’imprevisto non è solo la nostra clausura individuale. Ci sono dei ribaltamenti* di situazioni che colpiscono l’immaginario in modo secondo me salutare: il sud (dell’Italia ma anche del mondo) che teme il nord e lo chiude fuori, l’Italia che chiudeva i porti e poi li ha trovati chiusi per i suoi turisti, un paese piccolo e povero come Cuba che ci manda medici e infermieri in aiuto perché noi, paese ricco e popoloso, non ne abbiamo più abbastanza.
Altre novità: i sostenitori del liberismo sfrenato hanno temporaneamente abbassato la cresta e per qualche settimana non hanno quasi più osato farsi sentire, anche se dal penultimo Ecofin Olanda e Germania stanno ricominciando a mettere i conti pubblici e i pareggi di bilancio davanti alle vite – degli altri – mentre tante e tanti capiscono improvvisamente quant’è preziosa la sanità pubblica universale e che errore è stato permettere di sottoporla a vent’anni di tagli. Con la prima manovra da 25 miliardi (a cui breve ne seguirà un’altra di analoga entità) il governo Conte mostra di essersi accorto che il welfare state e gli ammortizzatori sociali sono centrali. A livello internazionale si ritrova la memoria degli anni ’30 del XX secolo, quando dalla crisi si poté uscire grazie a politiche di tipo keynesiano; da decenni queste ultime erano un’eresia innominabile. Eppure, si sapeva benissimo che avevano funzionato, mentre nessuna ricetta neoliberista ci ha mai tirato veramente fuori dalle ultime crisi.
Qualcuno, qualcuna rimette in discussione i ritmi frenetici che hanno le nostre vite in tempi normali. La sospensione delle attività extrascolastiche di bambine e bambini forse, speriamo, darà loro finalmente il tempo di giocare in libertà, gestendosi in autonomia, senza essere ogni santo minuto inquadrati e controllati o da persone adulte o dagli algoritmi delle loro app.
L’aria è fresca, limpida e pulita anche in una città come Milano, campionessa europea dell’inquinamento.
Per la prima volta nell’epoca dell’etica del lavoro tantissimi uomini si trovano segregati in casa, costretti come molte donne già facevano a coniugare le attività lavorative a distanza con la presenza della famiglia. Per la prima volta non hanno la possibilità di sfuggire alle esigenze della vita quotidiana rifugiandosi nella carriera, nello sport, nella politica o nel bicchiere al bar con gli amici. È un’opportunità senza precedenti perché comincino a considerare “lavoro” tutto quello che quotidianamente serve per vivere, e perché comincino a farsene carico. Non dico che lo faranno, sicuramente non tutti, ma per qualcuno di loro forse questa esperienza comporterà un cambiamento di consapevolezza e di pratiche.
Insomma, c’è una sorta di rivoluzione possibile in quello che ci sta accadendo.
Naturalmente, il giorno dopo la cessazione dell’emergenza si può rimuovere tutto e ricominciare come prima. Forse si licenzierà il personale medico e sanitario assunto per far fronte all’emergenza e si tornerà a regalare denaro pubblico alla sanità privata. Forse il pareggio di bilancio tornerà al centro di tutta l’organizzazione sociale al posto della vita della gente. Forse riprenderemo, tutte e tutti, delle esistenze che causano ipertensione persino ai bambini. Forse gli uomini scaricheranno le incombenze domestiche e familiari sulle donne come prima. E faremo finta che non sia successo niente.
Però non è obbligatorio.
Possiamo cercare di consolidare quello che di positivo ci è successo, in modo imprevisto, in questo tempo sospeso. Possiamo fare in modo non se ne rimuova subito la memoria. Forse potremo cercare di mantenere e condividere le pratiche che già stiamo sperimentando adesso per far fronte alla situazione.
E forse, prima ancora di trovarci al “dopo”, possiamo condividere fin d’ora domande, riflessioni, idee per fare di questo strano periodo qualcosa di trasformativo. Approfittiamone per condividere su #VD3 quello che si sta modificando in noi, o quello che in quest’occasione vorremmo cambiare o che fatichiamo ad affrontare o che abbiamo già inventato.
(*) descritti molto bene nell’interessante articolo di Anna Simone Covid-19: il soggetto imprevisto. Rovesci simbolici, emozioni, vita quotidana del 14/3/2020 apparso sul sito https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/03/14/covid-19-il-soggetto-imprevisto-rovesci-simbolici-emozioni-vita-quotidiana/
Viviamo nell’emergenza, separate le une dalle altre, senza sapere né come né quando finirà. Alle preoccupazioni per la salute nostra e altrui si aggiungono quelle per la situazione economica e politica che troveremo là fuori, quando potremo uscire. Eppure ci sono segni di qualcosa di buono: l’importanza ritrovata della sanità pubblica universale, la ribellione di diversi governi al pareggio di bilancio, l’aria più pulita, per fare alcuni esempi.
Dopo, non si potrà far finta di niente e riprendere delle esistenze che causano l’ipertensione persino ai bambini. Possiamo cominciare da subito a condividere le pratiche che ciascuna/o sta già sperimentando adesso per far fronte alla situazione, diffondere le idee e le scoperte fatte in questo tempo sospeso, mettere a fuoco gli interrogativi che chiedono un pensiero radicale per fare di questo disturbante imprevisto qualcosa di trasformativo.
Vi invitiamo a partecipare a una redazione di VD3 che si avvia con le riflessioni di Silvia Baratella, Marina Santini, Pasqua Teora e Giorgia Serughetti e che vive del vostro contributo scritto per pensare un presente fuori dall’ordinario.
Mandate i vostri testi a info@libreriadelledonne.it, scrivendo nell’oggetto “VD3”
(Via Dogana 3, 30 marzo 2020)
Queste riflessioni sono il tentativo di mettere in scrittura l’intervento alla riunione di Via Dogana del 2 febbraio 2020, in dialogo con quelli di apertura di Traudel Satter, Stefania Ferrando e Chiara Zamboni, tentativo che si rivela più complesso del previsto e che si misura con la sorpresa nella memoria delle mie stesse parole, e con il fatto che erano sospese e sostenute dalla struttura dei primi interventi. Il mio racconto iniziava con l’ammissione di essere stata attratta dall’idea e dall’esperienza del neutro, e della fluttuazione del genere. Oggi le parole di Chiara Zamboni, che descrive la moltiplicazione del neutro post-patriarcale (che è lotta politica per le minoranze e per le sofferenze soggettive) come una forma di confusione tra genere e differenza sessuale, mi sono comprensibili. Comprendo anche l’errore di chi non ha capito la differenza sessuale, considerandola essenzialista ed oggettivata. (In corsivo le espressioni sue). Oggi la moltiplicazione infinita delle nominazioni va verso un cattivo infinito, (…).
E si tratta di rinunciare alla libertà di essere tutto. È su questa espressione che dentro di me comincia a formarsi il discorso:
F/M Oscillazione possibile/fluidità possibile in relazione al tempo?
A proposito di infiniti, in fisica il tempo viene misurato con unità di misura variabili in base agli eventi di cui si parla. Tra queste, il secondo è definito come[i] l’oscillazione periodica di una particella di materia imprevedibile.

Inizialmente, nell’infanzia, l’identificazione interiore femminile-maschile e le forme intermedie che l’accompagnavano dipendevano dalle relazioni, gentili, violente o schizzoidi. Alleati e nemici si scambiavano il posto, solo una percentuale minima di questo era portata a coscienza.
Crescendo, apparentemente potevo fare tutto. Il mondo intorno cambia profilo ad una nuova velocità, ma nel profondo le forze, le violenze e le voci hanno radici antiche e lentezze ancestrali, per far sopravvivere la mia libertà potevo immaginare di oscillare da un genere all’altro: il corpo giovane risponde con i suoi segnali e lascia intendere che si può andare molto oltre.
Alla prova è la forza del reale, finché i confini tra parole e cose si frantumano.
Allora il corpo diventa l’unica realtà affidabile rimasta ed è impossibile farne una metafora. Per un tempo indefinito perdo il linguaggio e sento scorrermi il sangue. Una realtà possibile, dopo, sarà solo quella filtrata dall’esperienza diretta, il linguaggio ricostruito in aderenza all’esperienza diretta, un intero sistema di riferimenti culturali crolla tra le molecole, nella presa di coscienza di essere prima un corpo.
Inizia allora un secondo movimento verso il reale, diversamente consapevole. Il desiderio di poter essere di più, o di essere tutto (sovrapposto a quello di non essere nulla) inizia con un nuovo tipo di possibilità dentro ad una fragilità, blindata. A questo punto posso decidere che il mio genere si modifica nel medesimo corpo, che mi costruisco/decostruisco fisicamente in nome dell’altra/o che mi cerca finché il mio desiderio non è espresso, l’espressione “bisessuale” sembra non bastare anche se riguarda i soggetti amati con/accanto ai quali prendiamo forma, in fasi diverse dell’esistenza, e della nostra ricerca.

In questo video (Il pensiero veloce, 2006) l’orizzonte continua a ruotare lentamente facendo perdere l’ordine di cielo e acqua, fino all’ultima inquadratura in cui la prua della barca compare e riporta l’orientamento. Il titolo dell’immagine singola è Ragazzo/a barca, dove la seconda non può cambiare genere. Questo breve testo accompagnava il lavoro:
“A partire da orizzonti speculari creati dal riflesso dell’acqua il video crea una sequenza di movimenti nella quale il ribaltamento della prospettiva lento e quasi impercettibile si svolge in un completo giro d’orizzonte, richiama il moto di ogni lenta rivoluzione, e la velocità della rotazione terrestre. L’apparente specularità del paesaggio attraverso una diversa rappresentazione diventa un disegno e poi una macchia di inchiostro, chiave di una diversa profondità della visione introspettiva, l’aderenza tra le forme interiori e quelle del paesaggio/macchia offre uno strumento di lettura e di racconto delle cose, indagando liberamente la zona compresa tra la rappresentazione delle forme e la loro fragile interpretazione. Nulla è veramente simmetrico, e la prospettiva centrale è tradita dalla materia, come qualsiasi sistema di pensiero lo è nel campo visivo del racconto di un soggetto”.
In un confronto con la cultura che mi ha formata mi rendo conto che realizzo e assecondo anche una identificazione con un sé maschile. Ciò che accade in questa sperimentazione di fluttuazione, F(emminile)-N(eutro)-M(aschile), e ritorno, è una deriva lievemente onnipotente nella quale posso desiderare chiunque ed essere da chiunque desiderata, ma è un’illusione. Al contrario, dentro a un sistema di potere del genere, i momenti di intimità diventano sempre più rari e stanno dentro a un sistema di contatti diventato promiscuo, ad ogni vero rischio vitale o mortale di intimità il sistema muta genere diventando irriconoscibile e imprendibile, paradossalmente nominabile: è una forma di resistenza, di sparizione. Il mio corpo è di nuovo lo scenario (non più neutro) in cui gestire una forma politica del desiderio, ideologica. L’ideologia di fondo è costruita su rabbia e paura di violenza. In questo regime di resistenza identitaria e relazionale una parte del mio corpo, legato alle funzioni riproduttive, smette di funzionare, e da questo silenzio inizia il secondo recupero del corpo che accade nell’integrazione della differenza nella parzialità. Nella presa di coscienza di una forma assieme unica e sessuata che dà accesso al profondo e all’inconscio, una forma selvatica che, rinunciando all’ideologia, diventa mediazione affettiva del discorso.
1 La durata di 9 192 631 770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio-133.
Può il corpo essere oggetto, con la manipolazione delle forme linguistiche riferite al genere, il vessillo di un appello all’indifferenziato e al Neutro? O piuttosto costituire, con la sua indisponibile materialità, un argine alla scomparsa della differenza sessuale?
Mi sono posta questa domanda dopo l’incontro alla redazione di Via Dogana del 9 febbraio 2020, dove il corpo è stato uno dei temi dell’intervento di Chiara Zamboni.
Negli ultimi anni abbiamo assistito, nel linguaggio politico dei movimenti, all’ingresso di questo termine nella narrazione degli eventi. Nessuno, nel ’68 si sarebbbe sognato/a di esprimersi con: abbiamo portato in piazza i nostri corpi… Ci andavamo con la baldanza ma anche la coscienza che i nostri corpi, proprio perchè giovanili, erano loro che portavano noi, insieme alla passione politica che li animava, gli uni con l’altra: una loro ‘scorporazione’ era impensabile… Quindi mi colpì molto quando sentii a Paestum, al secondo convegno nazionale femminista (2013) esprimersi in questi termini alcune ragazze che raccontavano di “opporre i propri corpi” a Lampedusa contro le politiche immigratorie, quasi che “il corpo” costituisse una sorta di scudo materiale, ma anche simbolico, più forte della intera presenza.
Anche recentemente ho sentito i leader delle Sardine affermare, per l’appunto, di aver “portato in piazza” i loro corpi, forse – immagino, interpreto – a indicare la materialità di una protesta in grado di sostituirsi, nel suo consistere fisicamente, al peso simbolico di ideologie tramontate.
Mi sono chiesta se per le ragazze di Paestum, come per le Sardine, il corpo è da intendersi anche come sessuato, o vi prevale, piuttosto, la valenza di opposizione, di barriera contro il potere patriarcale e capitalistico/neoliberista. Oppure tutte e due le cose insieme. E mi piacerebbe allora indagarne l’intreccio, l’eventuale guadagno simbolico nel dire “corpi”, piuttosto che donne e uomini.
Non ho risposte, ma interrogativi. E mi piacerebbe approfondire il tema con chi utilizza, disinvoltamente e/o coscientemente, questo linguaggio.
Dal “corpo”, con o senza virgolette, all’inconscio il passo è breve, anzi brevissimo.
E qui mi vorrei riallacciare al testo La carta coperta curato da Chiara Zamboni e presentato alla Libreria delle donne lo scorso 30 novembre. Al termine di questo incontro, interessante, atteso, ne sono uscita con la necessità di declinare i temi proposti nella mia pratica politica con le donne, che mi vede attiva in quattro gruppi di lavoro solo femminili. Uno di questi è un gruppo di autocoscienza, un gruppo che esiste da più di trent’anni.
Non si esiste da così tanti anni, se non vi è un agio, una necessità, un ritorno per chi ancora ve ne fa parte. Questo nostro gruppo di autocoscienza, che definiamo “alta” perché si confronta e si interroga a partire da sé con gli scritti di donne autorevoli, è oggi una piccola comunità di pensiero che ci radica in un qui ed ora, una volta al mese, in una casa ospite a turno, per permetterci di andare più libere, meno zavorrate e più consapevoli in tutti gli altrove che desideriamo.
Quindi, per noi, il luogo elettivo dove, in seguito all’incontro in Libreria e alla lettura del testo, ci siamo poste alcuni interrogativi sollecitati dall’articolo di Ida Dominijanni Pratica dell’inconscio, inconscio della pratica (pagg. 13-33).
In particolare ci hanno colpito alcune sue domande e cioè:
Il femminismo della differenza è stato caratterizzato, fin dalla sua origine, dal sapere che c’è dell’inconscio, c’è dell’altro (il titolo anche di un Seminario di Diotima). Vale a dire il visibile non esaurisce la realtà e abitare il sentire ci permette – come scrive Chiara Zamboni – di stare nella soglia tra conscio e inconscio, lì dove si collocano le nostre pratiche e le nostre relazioni.
Questa è la sua originaria matrice: è essa ancora viva? È ancora possibile che essa alimenti le nostre pratiche? E la sua materia è la stessa delle origini del femminismo?
La seconda questione riguarda il posto della differenza sessuale nel costituirsi del soggetto.
È ancora rilevante? E, aggiungiamo – rispetto ai nuovi scenari culturali – il nomadismo dell’oggetto d’amore incide sull’identità sessuale? Come?
L’ultima questione riguarda il rapporto tra pratiche femministe e inconscio. Queste pratiche hanno prodotto inconscio? E quale?
Le ho ricordate perché ci sembra essenziale una riflessione su questi temi e ringraziamo Dominijanni che li ha esposti così lucidamente.
Nel nostro gruppo abbiamo incominciato a riflettere sulla prima domanda: la matrice è ancora viva?
Sì, abbiamo risposto, e per varie ragioni.
Perché non abbiamo mai cancellato la madre (vedi posizione sulla GPA, la prostituzione, la costante riflessione sul rapporto madre/figlia, come madri/figlie/nonne).
Perché cerchiamo di riconoscerci reciproca autorità, disponibili all’effetto di spiazzamento che questo comporta.
Perché cerchiamo di essere fedeli/disponibili al desiderio di cambiamento di noi stesse.
Perché stiamo dietro al desiderio di ognuna, soprattutto lo incalziamo, lo mettiamo a nudo.
La riflessione è appena iniziata: ci attendono tutte le altre questioni che volentieri rilanciamo e su cui invitiamo a pensare tutte coloro che, come noi le avvertono pregnanti.
Scrive Manuela Fraire (Attualità e inattualità dell’autocoscienza, pagg. 54-60) che il partire da sé è quel motore di ricerca che non ha fatto il suo tempo, quell’inesauribile ricerca di senso.
Condividiamo appieno: se la matrice è ancora viva come potrebbe non esserlo l’autocoscienza, che della matrice è la pratica elettiva?
Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale (da Manifesto di Rivolta femminile, Roma, luglio 1970)
Quindi capita che la lotta di quarant’anni prima … si ripresenti quarant’anni dopo con più forza di allora e (più) autorità femminile … (Lia Cigarini, Lectio Magistralis, Università degli Studi Roma Tre, 8 novembre 2019)
Sono tra quelle che hanno apprezzato e sottoscritto la Declaration on Women’s Sex-Based Rights, la Dichiarazione dei diritti delle donne basati sul sesso. Invito tutte ad andare a leggere il testo, presente anche in italiano.
Vi si denuncia la confusione tra sesso e genere, come cosa che ha contribuito a rendere accettabile l’idea di una identità di genere che si sostituisce sempre più alla categoria delle donne, fondata sul sesso, nei documenti internazionali. In quelli cioè che modellano lo spazio simbolico in cui si iscrivono i provvedimenti dei governi, e che ispirano le azioni promosse con fondi internazionali di aiuto allo sviluppo.
Si tratta di un’idea che in un attimo possiamo ritrovarci fra i piedi, qui, a casa nostra, senza quasi accorgercene, in qualche testo di legge, come è successo con il pareggio di bilancio inscritto in Costituzione, per dire, o con la scoperta dell’orrido pasticcio della legislazione concorrente tra Stato e Regioni, per dirne un’altra. Con l’aggravante che la materia riguarda la violenza sulle donne, l’utero in affitto, la prostituzione.
Non avevo pensato di scriverne fino a che non ho letto un recente intervento di Sara Gandini pubblicato su questo sito per Via Dogana 3, intitolato La passione della differenza. Sara dice che il linguaggio della Dichiarazione condurrebbe verso un femminismo essenzialista e biologista. A me pare esattamente il contrario e cioè che sia la Dichiarazione a combattere una specie di essenzialismo che è fondante per un’idea come quella di “identità di genere”. Se è un’identità a che cosa è identica? Deve essere identica a qualche cosa che è identificabile, che ha una precisa connotazione, un’identità, appunto. Niente a che vedere con la differenza sessuale come fatto “da scoprire e da produrre”, secondo le parole della comunità filosofica Diotima, ricordate da Sara nel suo scritto.
Perché la cosa non sembri faccenda da nulla, chiedo: avete idea di che cosa comporta questo stravolgimento del linguaggio, questa confusione tra sesso e genere?
Io, no, non ce l’avevo così chiaro. Non immaginavo che la cosa fosse andata così avanti, che questa identità di genere avesse fatto tanta strada nel mondo, fino a scalare le classifiche degli organismi internazionali. E allora, per chiarire e per dirla con le parole della Dichiarazione, «…il concetto di “identità di genere” ha messo gli uomini che rivendicano un’“identità di genere” femminile in grado di affermare, nella legge, nelle politiche e nella pratica, di essere membri della categoria delle donne, che è basata sul sesso […] li ha messi in grado di essere inclusi nella categoria delle lesbiche, basata sul sesso […] cercano di essere inclusi nella categoria legale di “madri” […] sono messi in grado di accedere alle opportunità e alle misure di protezione riservate alle donne […] sono messi in grado di partecipare alle attività sportive riservate alle donne…»
Mi fermo, andate al testo, sarà una lettura interessante. Se la prima volta non vi ha convinte, rileggetelo.
Dove sarebbe l’essenzialismo, il biologismo, la negazione dell’altra di cui si preoccupa Sara, in tutto questo?
Nel puntualizzare che solo le donne possono portare avanti una gravidanza e partorire e che questo è essere madre? Essere madre è di certo molte altre cose ancora, “da scoprire e da produrre”, ma a partire dall’accettazione di questo dato essenziale di realtà, non a prescinderne.
È essenzialismo, biologismo, ribadire che solo le donne possono, non gli uomini? Neanche quelli con un’identità di genere femminile, posto che qualcuno sappia dov’è il regno delle essenze o delle idee innate, in cui cercare tali identità?
Dall’intervento di Sara ricavo che:
1- non condivide la Dichiarazione dei diritti delle donne basati sul sesso;
2- condivide la battaglia contro la violenza sulle donne, contro l’utero in affitto e la prostituzione;
3- ha avuto un incontro illuminante con alcune trans e trova che «tra le più interessanti soggettività che esprimono profondamente la passione della differenza sessuale ci sono proprio le trans, nate con un corpo maschile ma che si sentono da sempre donne».
Concludo:
– le sue amiche trans le hanno dato qualche buona idea per condurre la battaglia contro la violenza sulle donne, l’utero in affitto e la prostituzione? Se è così, Sara non lo dice.
– le sue amiche non rivendicano di essere lesbiche, di essere madri, di gareggiare negli sport con le donne, né vogliono essere considerate donne maltrattate né vogliono concorrere per ottenere per sé fondi destinati alla maternità o alla lotta alla violenza maschile contro le donne? Bene, allora la Dichiarazione non si riferisce a loro.
La lotta alle discriminazioni e ai condizionamenti culturali che ereditiamo dalla storia patriarcale ha portato molte femministe a rifuggire da ogni riferimento alla femminilità. Per lottare contro il sessismo si preferisce parlare di persone invece che di donne e uomini e si finisce paradossalmente per non dare importanza a chi scrive un libro, chi dirige un film, chi presiede un convegno.
Per essere inclusive molte giovani femministe usano l’asterisco al posto delle desinenze, o usano le u come in Non Una Di Meno (NUDM): care, cari e caru. NUDM, che lotta con determinazione e creatività contro la violenza sulle donne, nasce come movimento internazionale e risente delle influenze del movimento femminista del nord Europa e americano, che spingono in questa direzione. Nel 2016 a Oxford, il sindacato degli studenti ha proposto di eliminare del tutto “she” e “he”, per sostituirli con un pronome non binario come “ze”, abitudine già adottata dall’università del Tennessee. In Svezia dal 2012 è stato ufficialmente introdotto nella lingua e nell’Enciclopedia Nazionale il nuovo pronome neutro, “hen”, al fianco del maschile e del femminile (1). La motivazione è che il linguaggio inclusivo aiuterebbe a ridurre i pregiudizi di genere e a essere più tolleranti.
Ma il linguaggio neutro serve anche a nascondere ciò che capita e a evitare conflitti, così quando si dovrebbe nominare la violenza sulle donne si preferisce parlare di violenza di genere, per affrontare le molestie che le donne subiscono sul lavoro, denunciate con il #metoo, aziende e università hanno creato infiniti codici di comportamento per il “reciproco rispetto della libertà e dignità della persona”.
Ho trovato quindi importante l’invito della redazione di Via Dogana 3 a discutere de «La differenza sessuale alla prova del presente» e in particolare l’intervento di Chiara Zamboni che mostra una postura che invita anche gli altri femminismi allo scambio. Zamboni apre conflitti con un pensiero fine e puntuale ma aperto al mondo e scrive: «…io credo che la tentazione del neutro nasca dalla fatica della differenza e in primo luogo dalla fatica dello stare in rapporto alla differenza dell’altra e poi dell’altro. Nasca dal desiderio di una libertà senza vincoli e senza attraversamenti di parzialità.» E continua «Di fronte al neutro ricordo la passione della differenza sessuale, espressione presente nel primo libro di Diotima. Ha un doppio significato: sia di patire qualcosa che ci è capitato e non abbiamo scelto – essere una donna con il peso delle nominazioni già date –, sia di patire come verbo che indica la passione desiderante verso scoperte esistenziali, soggettive e singolari.» (2)
Fare i conti con la propria parzialità sessuata vuol dire in primis confrontarsi con il fatto che si nasce da una donna, che quindi è parziale, e la relazione con la madre di un figlio o una figlia non è uguale, come spiegava magistralmente anche Evelyn Fox Keller in ambito scientifico («A Feeling for the Organism: The Life and Work of Barbara McClintock»).
Parlare di corpi implica tenere conto che natura e cultura, la storia da cui veniamo, sono legate in un percorso di soggettivazione a partire dall’esperienza con la madre, il primo oggetto d’amore. Ed è importante rimettere al centro della riflessione politica i corpi perché il corpo delle donne è un campo di battaglia. Ma la lotta per contrastare l’utero in affitto, combattere la prostituzione e lottare per l’inviolabilità del corpo femminile non può basarsi sulla rivendicazione dei “diritti basati sul sesso”.
Quando ho letto che una rete di associazioni italiane ed europee sta organizzando in Italia e non solo una serie di iniziative facendo riferimento a La Dichiarazione dei diritti delle donne basate sul sesso (3), ho sentito fortemente la necessità di prendere le distanze. Io penso che il linguaggio che caratterizza la Women declaration ci conduca verso un femminismo essenzialista/biologista che crea schieramenti e dogmi, mettendo insieme tra l’altro in modo manipolatorio obiettivi condivisibili con una smania definitoria, che attraverso la negazione dell’altra pretende di rivendicare una purezza identitaria. Guerreggiare sull’identità è politicamente miope perché il femminismo dovrebbe allearsi con tutte le soggettività che lottano contro il dominio sessista.
Condivido che in questo momento storico sia fondamentale affrontare nodi politici cruciali come l’utero in affitto o la prostituzione, ma non creando steccati che impediscono la discussione, perché in questo momento bisognerebbe avere un pensiero fine per individuare strategie politiche efficaci e un linguaggio convincente che sappia parlare a tutte e tutti.
Questo è un conflitto squisitamente politico, e non si può tirare in causa internet. Prendo le distanze da quel testo perché ne va del mio femminismo, della mia politica, del femminismo radicale di cui voglio continuare ad andare fiera. Mi sono innamorata del pensiero della differenza quando la comunità filosofica di Diotima definiva la differenza sessuale un significante, un fatto «da scoprire e da produrre». Le femministe che ho considerato maestre non davano definizioni all’essere donne e uomini, ma si parlava di significare liberamente questo fatto. La differenza sessuale che produce un taglio politico interessante ha a che fare con la nostra storia, con il nostro corpo, con le nostre madri, ma è quella differenza che ci impedisce di identificarci con noi stesse e che ci mette in relazione con quello che non siamo. Il senso della differenza sessuale nasce principalmente nel dialogo tra sé e sé, non tra i sessi così come vengono etero-definiti. È una differenza che ha a che fare con i corpi ma va molto più in là, è un percorso di senso, la ricerca di una vita.
La dichiarazione “io sono una donna” è per me, così come per molte femministe, un atto politico, ma il “soggetto imprevisto” che nasce dalla relazione fra donne, di cui parla Lonzi, non conduce alla nascita di un soggetto politico collettivo e unitario: “le donne”. Il simbolico che si basa sull’esperienza dell’alterità si alimenta delle differenze fra le donne e del senso della singolarità di ogni donna. Tra le più interessanti soggettività che esprimono profondamente la passione della differenza sessuale ci sono proprio le trans, nate con un corpo maschile ma che si sentono da sempre donne. Le mie amiche Laura Caruso e Monica Romano raccontano l’importanza esistenziale e politica di dirsi donna, e di volerne fare qualcosa non solo per sé. La ricerca delle donne trans secondo me è particolarmente interessante perché ha molto a che fare con la ricerca del senso libero della differenza sessuale, perché fuori da logiche identitarie e biologismi ma radicata nelle relazioni fra donne, e rappresenta simbolicamente e politicamente la possibilità di un cambiamento radicale. Anche per loro il queer è problematico proprio perché la fluidità del genere di fatto scivola verso il neutro e questa può essere l’ennesima manifestazione della ricerca di “emancipazione”, cioè dell’inclusione delle donne nel mondo pensato a misura maschile.
Non si tratta di farsi paladina dei diritti delle trans né del semplice desiderio di essere inclusive. L’incontro con loro è stato per me illuminante. Uno di quegli incontri che in cui vedi che la verità dell’altra e il modo con cui fa invenzioni per esserci, e porta avanti il suo desiderio in modo libero, ti obbliga a farti delle domande rispetto a quello che hai sempre dato per scontato. È stato un incontro che ha rimesso in discussione le mie certezze, come è stato l’incontro con il pensiero della differenza. Le donne trans sono orgogliose battagliere che non sentono la necessità di emanciparsi dalla figura femminile ma anzi ne vanno fiere.
Negli anni ’70 il femminismo nasce con il conflitto con il patriarcato e alcune donne hanno poi nominato la rabbia e la vergogna nei confronti delle madri conniventi. Di fatto questo significa vergognarsi della propria origine, delle proprie radici, di una parte di sé. La fatica di stare di fronte al femminile, con tutti i suoi lati osceni, fuori posto, le sue esagerazioni e le sue connivenze, appartiene alla nostra cultura misogina e ha a che fare con la relazione con la madre. Nell’immaginario comune le donne sono sempre troppo passionali, troppo corpo, tette, culo, troppo mamme, troppo emotive, troppo isteriche, troppo rosa… fuori misura, fuori dalla misura di riferimento, fuori dalla scena, oscene.
Per questo mi piacciono l’ironia e la sfida delle giovani artiste, penso ad esempio alle “ragazze di porta Venezia” (4), le rapper che sanno giocare con gli stereotipi e portare con orgoglio i simboli della femminilità: “occhi a cuoricino, pronte per la svolta”. E mi piacciono donne come Phoebe Waller-Bridge, attrice, regista e sceneggiatrice di una serie Fleabag che parla di «una donna sporca, perversa, arrabbiata e incasinata», parole sue, e vince ben quattro Emmy Awards nel 2019 (tra cui quello di migliore show della categoria). Le sue personagge sono donne strane, eccessive, difficili, con tutte le loro fragilità ed esagerazioni, tipicamente femminili, fuori misura… (5). Il modo libero con cui queste donne si interrogano e interrogano lo stesso femminismo, ribalta i luoghi comuni e l’immagino misogino, gioca con i simboli della femminilità con ironia e apre strade di libertà per tutte e tutti.
La sfida attuale è quindi come fare in modo che il femminismo non soccomba sotto i colpi della sua stessa misoginia ma si faccia forza della libertà femminile che sempre più si vede nel mondo. Perché il soggetto politico che nasce con il femminismo acquista forza solo quando è chiaro il conflitto politico in gioco: quello con il dominio patriarcale.
Note
(1) https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a28658706/pronomi-neutri-quali-sono/
(3) https://womensdeclaration.com
(5) https://www.kubeagency.com/post/fleabag-una-brillante-critica-del-femminismo
A partire dalla domanda della giovane attivista citata nell’incontro di VD3 del 9 febbraio da Chiara Zamboni: «Che ne è della mia esperienza, allora?», vorrei proporre un radicamento nel corpo come risorsa per superare la tentazione del neutro e dell’onnipotenza, e per sperimentare la differenza sessuale nella sua dimensione di fatica e, al contempo, di libertà come concreta possibilità.
Si potrebbe paragonare l’esperienza della differenza alla scultura intesa come “l’arte di levare” di Michelangelo: dal blocco di marmo, in cui ogni forma è possibile, occorre sottrarre materia per realizzare, rendere possibile una forma specifica. Nel dire “no” a molte strade, possiamo dire “sì” a quella che attraversiamo, in parte perché così abbiamo scelto e in parte perché così ci è capitato.
C’è chi invita a evitare parole come “madre” e io condivido la preoccupazione di Traudel Sattler di fronte a queste proposte: se il linguaggio si riempie di vita vissuta non si possono ritenere “consumate” queste espressioni. Vorrei quindi partire dalla mia esperienza, perché nella gravidanza, nel parto e nell’allattamento ho vissuto e vivo un modo di essere nel corpo femminile in cui quest’ultimo si rivela inequivocabilmente nella sua differenza sessuale, insieme faticosa e potente. Mio figlio ha 18 mesi e allatto ancora: ciò rende impossibile una suddivisione dei compiti tra me e mio marito esattamente a metà, come facevamo prima. Sono io e, in particolare, il mio corpo di donna che addormenta e riaddormenta a ogni risveglio notturno, ed è ancora il mio essere donna che consola e nutre quando il piccolo è malato e non vuole mangiare cibi solidi. Io e mio marito non siamo intercambiabili, e questo ha a che vedere non soltanto con la nostra unicità di esseri umani, ma anche con la differenza sessuale. Non potrei definirci “genitore 1” e “genitore 2”, perché questo negherebbe l’esperienza del mio corpo che entra in relazione come corpo di madre, femminile, non neutro.
A volte mi sono sentita giudicata e a disagio per il fatto che, per adesso, sono soprattutto io a occuparmi di nostro figlio: nel confronto con altre coppie in cui l’allattamento non è stato possibile oppure si è concluso prima e la suddivisione dei compiti è più paritaria (a turno si addormenta, a turno si nutre, a turno ci si sveglia di notte…) una parte di me si mette in allarme, come se il mio modo di essere madre fosse una sottomissione, un adeguamento involontario al modello patriarcale. Così mi affretto a precisare: «Sì, certo, sono stanchissima, allatto e mi sveglio sempre io di notte… però mio marito cucina e pulisce in casa». In alcuni casi trovo nell’interlocutore uno sguardo sospettoso: «Davvero non potreste fare diversamente? Si addormenta solo con la tetta? Beh, allora smetti di allattare!».
Eppure: il modello di Paesi come la Francia o gli Stati Uniti, in cui ci si aspetta che le madri tornino al lavoro dopo pochi mesi o addirittura settimane dal parto, favorisce maggiormente la libertà delle donne? Non lo credo, sebbene una parte di me sia sensibile ai sospetti e ai giudizi che citavo. Perché tutta questa fretta di “richiamare all’ordine” le madri, per riprendere la felice espressione di Stefania? Mi pare in effetti un tentativo di “neutralizzare” il materno, e dunque la differenza sessuale, all’interno del ruolo di lavoratrice, più rassicurante perché più controllabile, fondato su contratti con diritti e doveri, non su esigenze imprevedibili e non negoziabili come quelle dei neonati. Si suggerisce così che il corpo della madre non è essenziale, perché esistono i tiralatte, i biberon, e anche il latte artificiale – in contraddizione con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che sostiene fortemente l’allattamento materno, in modo esclusivo per i primi sei mesi, e poi fino ai due anni e oltre.
Ecco quindi che la fatica e la potenza della differenza sessuale si manifestano nell’eccedenza del materno, nel suo tracimare, ché nel seno e nell’abbraccio della madre c’è qualcosa di irriducibile al neutro.
Quando ho letto l’invito a partecipare all’incontro «La differenza sessuale alla prova del presente», immediatamente ho pensato che sono questioni da cui non si può prescindere: non si può prescindere dai nostri corpi e noi tutte siamo chiamate alla prova del presente, attorno a noi profonde trasformazioni vanno comprese.
Da vent’anni anni seguo proprio questa strada portando avanti una critica a cosa rappresentano le tecno-scienze e alle loro conseguenze sull’intero vivente, con uno sguardo che cerca di capire le direzioni e le evoluzioni di questo sistema. I corpi sono al centro, sotto attacco, da ideologie che li smaterializzano e dai processi di questo sistema tecno-scientifico che li rende merce, che li smembra, che li rende selezionabili e modificabili nei laboratori biotech così come nelle cliniche di fecondazione assistita, che se ne accaparra fin dentro i loro processi vitali e che arriva fino alle nostre stesse esperienze che diventano materia prima. I nostri corpi, le nostre esperienze, i nostri comportamenti, i nostri desideri, l’essere umano che è il fine ultimo del progetto cibernetico e transumanista, questo c’è in gioco oggi. È una questione di responsabilità e di urgenza che dobbiamo sentire in noi stesse nel profondo e opporsi a questi processi per me significa cercare di incepparli, significa dire a gran voce riflessioni scomode, senza mezzi termini, senza calcoli di convenienza, significa che il terreno delle trasformazioni di oggi è quello in cui intervenire.
Un motivo che mi ha spinto a venire è la mia grande preoccupazione per la continua confusione tra sesso e genere e la cancellazione della differenza tra i sessi presente sia nelle teorie, sia nei movimenti transfemministi-queer e nelle loro rivendicazioni politiche. Mi sono chiesta il perché di questa confusione e ho trovato nello studio delle teoriche, come Haraway e Braidotti, e nei contesti di movimento, una profonda ossessione del corpo, della natura, della maternità, una non accettazione della nostra vulnerabilità e dei nostri limiti. Questo si colloca nel contesto post-moderno che decostruisce tutto, la stessa realtà non esiste, dove acquisisce più significato la parola rispetto alla realtà materiale, ma questa, come il sesso, preesiste al piano simbolico, esiste prima del discorso e al difuori di questo. «Il sesso, per definizione, è già sempre genere», leggiamo nella Butler, porta alla cancellazione della differenza tra i sessi e alla risignificazione e cancellazione della donna. Traudel Sattler nell’introduzione ha accennato alle “persone con o senza utero” e alle “persone gestanti”, questo mi rimanda all’Associazione delle ostetriche nordamericane che raccomanda di usare “persona che mette al mondo” invece di donna che partorisce e “allattamento al petto” invece di allattamento al seno o “buco davanti” invece che vagina dell’Associazione Medica Britannica. Queste non sono semplici tendenze linguistiche, è un preciso processo che vuole cancellare la dimensione della procreazione e la dimensione della sessualità del corpo femminile.
Secondo l’ideologia transumanista e tecno-scientifica l’essere umano può e deve affrancarsi dalle condizioni corporee della propria esistenza per realizzare ogni suo desiderio. Riallacciandomi a Chiara Zamboni che ha parlato di “rinunciare alla libertà di essere tutto”, penso che la realizzazione illimitata di ogni desiderio non sia libertà, ma sia aprire al mercato dei desideri, dove tutto viene macinato e ridotto a un qualcosa che si può comprare o a un qualcosa a cui si deve avere diritto. Penso che una chiave di volta sia proprio l’accettazione dei nostri limiti e smascherare la retorica della libertà e dell’autodeterminazione con cui vengono travestiti utero in affitto, prostituzione, ormoni a bambini e bambine, PMA per tutti e tutte. Non è la libertà, ma è un’adesione entusiasta ai valori del biomercato e del sistema tecno-scientifico.
Considerare le tecno-scienze emancipatrici e liberatorie, il voler cancellare ogni limite e, di fatto, cancellare la realtà materiale dei corpi, rappresentano i punti di incontro tra il cyborg-transfemminismo, il queer e il transumanesimo. Non facciamoci abbagliare dalle ultime “fabule” e dal “femminismo speculativo” di Haraway: frugando nel suo “compost” troviamo bambine e bambini modificati geneticamente e piccioni con sim-card e GPS perfettamente integrati nei nuovi progetti di Smart city. Le critiche agli “eccessi” e agli “usi impropri” delle tecno-scienze, con l’ingenua illusione di poter gestire i Big data, possono solo rinforzare i nuovi paradigmi del capitalismo della sorveglianza.
Troppe cose sfumano, diventano indefinite, manteniamo invece nette le linee di demarcazione tra organico/inorganico, circuiti elettronici/sistemi nervosi, vita/morte, naturale/artificiale, così come la differenza tra i sessi. Riprendo allora ancora Zamboni che ha sottolineato l’importanza del fatto che veniamo al mondo dalla relazione con la madre, per dire che dobbiamo riappropriarci del valore simbolico della madre e considerare la relazione madre-figlio come un baluardo di resistenza all’invasione tecno-scientifica dei corpi e alla neutralizzazione imperante che va a costituire un individuo senza storia, senza legami, senza relazioni, un mero neutrum economicum.
Nascere da donna viene considerato discriminatorio, ma un discrimine è una disuguaglianza o un qualcosa a cui non si può avere accesso. Qui non c’è nessuna disuguaglianza, c’è una differenza e all’essere donna, madre, non si può avere accesso, non è un diritto e non è un qualcosa che si può comprare. Un uomo non può partorire e questa è una differenza sostanziale, materiale, corporea, per nulla essenzialista. Per opporci a questi processi dobbiamo mantenere con forza il significato dell’essere madre, colei da cui veniamo al mondo, e affermarlo come un fatto non cedibile, che non può rientrare nella sfera di mercato e di contrattazione. Per le dimensioni che potrebbero mettere in discussione come veniamo al mondo e le stesse basi della sopravvivenza sul pianeta non dobbiamo rendere possibile alcuna contrattazione e regolamentazione. Partiamo dalla dimensione della procreazione per opporci alla sua artificializzazione e creiamo alleanze che mettano in relazione i nostri percorsi. Il nostro agire dovrebbe porsi come incidere sul presente, con la consapevolezza che non saranno soluzioni tecniche a poter risolvere problemi etici, sociali, ecologici e politici.
La vita non si fabbrica, né l’oncotópa, né il batterio sintetico di Craig Venter sono stati fabbricati dal nulla e il vivente nasce, sfugge, palpita, striscia, scalpita e non sarà mai del tutto controllabile. Il vivente e quindi i corpi, il corpo, rappresentano l’ostacolo al dominio assoluto della tecnica. Rimettendo al centro l’indisponibilità dei corpi e del vivente possiamo resistere.