Ci sono uomini e donne che dicono in buona fede: bisogna cambiare la legge Merlin per regolare meglio la prostituzione. Con queste persone bisogna parlare, come ha fatto S. con suo figlio. In effetti, la legge Merlin non è fatta per regolare il rapporto di scambio sesso/denaro tra un uomo e una donna. Questa legge si limita a depenalizzarlo (cancellarlo come reato dal codice penale). Lo Stato interviene solo in caso di abusi (minorenni, violenza fisica, costrizione, ricatti… che sono comunque dei reati).
Questo è il primo punto da dirsi chiaramente: regolare il rapporto di prostituzione come tale, vorrebbe dire che lo Stato lo riconosce e si assume quindi il dovere di renderlo possibile nei limiti fissati dai suoi regolamenti, con conseguenze che possono avvicinarsi alle famigerate case chiuse o ai quartieri a luci rosse. Vorrebbe dire cioè che la prostituzione è ammessa come un’istituzione della vita civile.
La legge Merlin, invece, semplicemente ignora il rapporto tra lei che consente e lui che la paga, se è dato supporre che sia una libera scelta di entrambi. Quello che fa è proibire penalmente il fatto che terze persone possano trarne profitto, dagli sfruttatori veri e propri agli intermediari, agli albergatori, ecc. Le traversie penali di Berlusconi (tasse, mafia e minorenni a parte) parlano proprio di questo: lui ne è rimasto fuori ma non gli intermediari (i ruffiani, nel linguaggio popolare).
La legge Merlin regola così la posizione dello Stato verso la prostituzione nel senso che non autorizza né vieta alle persone di ricorrere al rapporto sessuale prostituito, ma non ammette che il loro rapporto generi profitto per altri. Neanche lo Stato può guadagnarci, infatti lo scambio sesso/denaro non è tassato.
Qual era lo scopo di Lina Merlin? La risposta è semplice: abolire la prostituzione in quanto istituzione del patriarcato che, mediante i soldi, procura agli uomini il diritto di usare il corpo femminile, analogo a quello dei vincitori in tempo di guerra. Ma perché lei non ha preso la strada del proibizionismo? La risposta è meno semplice: perché il proibizionismo non funziona; perché penalizza anche la parte femminile; perché darebbe allo Stato il potere d’intromettersi nelle scelte personali: e forse anche per lasciare aperta un’alternativa alla sessualità maschile…
Non è la legge Merlin, quindi, che dobbiamo cambiare, anzi! va difesa in quanto è il compromesso più avanzato che ci sia tra libertà personale e dignità di una società civile degna di questo nome.
“Les plages d’Agnès” così titola il suo film-autoritratto la regista Agnès Varda per significare l’importanza dei luoghi che segnarono la sua infanzia, la sua adolescenza, le prime imprese di fotografa, la successiva carriera di regista con la creazione della casa di produzione Ciné-Tamaris, e la sua vita sentimentale e familiare. Sono le spiagge del Nord – quelle belghe; le spiagge del Sud – Sète in particolare della sua giovinezza; le coste della Corsica nei suoi viaggi da studentessa; le spiagge di Parigi lungo la Senna e quella artificiale creata nella sua via; le spiagge dell’Ovest sull’Atlantico – Noirmoutier in particolare, frequentate con il marito Jacques Demy e i figli; quelle americane di Los Angeles e Venis Beach.
Con apparente levità la regista evoca i grandi eventi storici che hanno segnato e influenzato la sua esistenza: la seconda guerra mondiale, la fuga dal Belgio, la persecuzione degli ebrei e la caccia e cattura dei bambini ebrei, la guerra di Algeria, il maggio francese, il movimento dei neri negli USA e il femminismo.
Per esprimere l’importanza della fotografia nella sua vita e nella sua carriera di artista, il suo racconto parte dalle foto d’infanzia dall’album della madre che dispone sulla sabbia, in mezzo all’erba secca delle dune; ci sono poi le foto di Sète e del suo porto; la sua tessera di studentessa; quelle del festival di Avignone al suo debutto come fotografa; le foto riprese nei suoi viaggi in Cina e a Cuba.
Passato e presente si mescolano quando ci riporta con un viaggio in barca nel porto di Sète o a visitare la sua casa d’infanzia a Bruxelles o a rivisitare Pointe Courte e incontrare le comparse del suo primo lungometraggio del ’54 che la rese celebre fra cineasti e critici della Nouvelle Vague.
Come parte della sua vita scorrono le immagini dei film realizzati creando una forma di retrospettiva personale: quelli di fiction e i documentari e i film d’inchiesta insieme al repertorio privato di immagini e di video sulla sua famiglia e le sue amicizie più intime.
Dai suoi racconti e dalle immagini emerge con chiarezza il senso della sua intera opera cinematografica: l’invenzione che ha caratterizzato il suo cinema e la sua intera produzione di artista e di fotografa. Saper riprodurre il reale e inserirlo in un’opera di fiction e viceversa. Realtà e immaginario in una versione nuova da lei chiamata “cinécriture”.
Nel film è lei sola in scena e si rappresenta senza abbellimenti e per dare il senso del reale c’è il rumore delle onde, l’uso della luce naturale, la sua troupe all’opera che procede con la messa in scena che diventa essa stessa una parte delle sue installazioni artistiche dove l’autorappresentarsi scherza con il simbolismo degli specchi.
Il film è girato su una dimensione giocosa per descrivere il mondo interiore di Agnès Varda e quello delle persone che ama e di cui vuole parlare. Tutto appare artigianale e improvvisato, una scelta che nasconde una pianificazione attenta ad ogni movimento di macchina, ad ogni ripresa di scena.
La rappresentazione del passato diventa una ri-presentazione attraverso una foto o un’immagine, un oggetto che fa risorgere i ricordi e qui procede, nella realizzazione del suo documenteur – una parola di sua invenzione -, dove tutto è vero, ma in forme sempre diverse e inusuali.
Sono una studentessa brasiliana che viene alla Libreria delle donne di Milano da settembre 2019. Il 6 ottobre ho partecipato all’incontro della rivista Via Dogana 3 per la prima volta. L’argomento su cui tre donne stanno ragionando mi fa desiderare di mettere in scena il mio “partire da sé” per ripensare con il mio corpo, in presenza, la mia storia e la relazione con mia mamma (e la sua storia). Sono tante le donne del passato e del presente che mi abitano in questo momento! Ricordo la relazione di gratitudine con tutte le donne prostituite che mia mamma mi ha insegnato.
Lei è nata in una famiglia molto povera nello stato brasiliano di Minas Gerais. Lei e i suoi fratelli hanno patito la fame nell’infanzia. Mia nonna preparava le caramelle perché i figli le vendessero nelle strade della città. Erano bambini che lavoravano per aiutare la loro mamma a portare cibo a casa. Già allora i bambini che restavano in strada a vendere qualcosa erano ignorati dalla gente più ricca. Quale madre permette ai suoi figli di stare fuori a lavorare? Con questi giudizi morali quei bambini non riuscivano a vendere le caramelle alle persone distinte (oggi chiamate “buoni cittadini”).
Erano le prostitute che provavano empatia per la loro situazione e, senza giudicare mia nonna, compravano tutte le caramelle dei poveri bambini. Così loro potevano tornare a casa e far mangiare tutta la famiglia. Semplicemente lì è stato costruito un legame di solidarietà tra donne: mia nonna non chiedeva ai suoi figli dove e come avevano potuto vendere i dolci, e queste donne non chiedevano ai bambini chi fosse la loro madre e perché già lavoravano… Le “donne di vita” – come il popolo chiamava le prostitute – a Uberlândia negli anni ’50 avevano soldi e senso di solidarietà sociale. Per questo ho imparato a rispettarle e a essere molto grata per la loro presenza nella storia delle donne della mia famiglia materna.
Così, in un primo momento, ho avuto una relazione quasi poetica con la prostituzione. Ma, essendo brasiliana, vedo la complessità di questo problema, perché ho davvero e per sempre quella gratitudine come eredità materna ma provo anche una forte indignazione per il modo in cui le donne sono prostituite nel mio paese.
Quindi chiedo, e non solo retoricamente, chi sono le donne che possono scegliere di vendere o no il proprio corpo in modo autonomo, farne un lavoro, un lavoro sessuale, dargli o no un prezzo? La mia domanda non ha un approccio morale ma un approccio socio-economico. Non propongo neanche un dibattito sulla legittimità o meno della decriminalizzazione della prostituzione o della lotta per il sex work. La cosa che mi colpisce adesso è il fatto che la prostituzione sia strutturale ed endemica in Brasile e come questo ci consente di avvicinare il Brasile e l’Italia, perché io oggi sono qui e penso da questo posto.
La prostituzione costituisce una necessità economica per molte famiglie brasiliane (e non solo brasiliane, perché so che è un fenomeno internazionalizzato) e alimenta una rete che fornisce sostentamento a molte persone. Alcune persone sono consapevoli che i soldi che le sostentano provengono da questo tipo di lavoro, molte altre sono ingannate da persone legate alle reti di sfruttamento sessuale di bambine e adolescenti o del traffico sessuale di donne. Dove c’è carenza di quasi tutto, la società dei consumi rende i corpi di bambine, adolescenti e giovani donne un prodotto desiderabile. Quindi sono spesso i genitori che offrono o incoraggiano la vendita dei corpi delle loro figlie, oppure spesso queste ragazze, abbandonate dalle famiglie, dallo Stato, invisibili a tutti noi, scoprono molto presto che i loro corpi hanno un valore di scambio e possono consentire loro di condurre una vita di sopravvivenza, spesso breve e intrecciata con innumerevoli violenze. La prostituzione è crudelmente una fonte di reddito indispensabile per molte famiglie e molte piccole città.
Ma la relazione tra Brasile e Italia pensata dalla prostituzione ha attirato la mia attenzione nel 2009, quando sono andata in Ceará per restare più di un mese da un mio caro amico. Abbiamo fatto un giro tra molte spiagge bellissime, con acqua calda e di un azzurro quasi trasparente. La bellezza di quello Stato è indimenticabile, però quello che mi ha colpito di più è stato il numero di turisti italiani accompagnati da ragazze o giovani donne brasiliane. Mi guardavo intorno e mi chiedevo: «È normale? Nessuno ne è disturbato? Sono solo io indignata per questi esempi espliciti di sfruttamento e prostituzione delle ragazze?»
Nello stato di Ceará, nel nordest del Brasile, i tassi di turismo sessuale sono molto alti. Come dimostrano i documenti ufficiali del governo brasiliano del 2013, gli italiani sono la maggior parte dei turisti stranieri. Forse non tutti vanno lì per turismo sessuale, ma molti ci vanno a questo scopo e questo lo sanno tutti, al punto che ci sono voli diretti dall’Italia verso Fortaleza, capitale di questo Stato, che tutti chiamano “il volo del turismo sessuale”. E la prostituzione di bambine, adolescenti e giovani donne davvero avviene alla luce del giorno sulle spiagge di Ceará, come se fosse qualcosa di naturalizzato e normalizzato in quel contesto. Per me è un crimine gravissimo. Ma è anche una fonte sicura di profitto per l’industria del turismo. E questa sarebbe una prima ipotesi per spiegare la normalizzazione di questo crimine in questo contesto, la cui economia dipende fondamentalmente dal turismo. Secondo il regista brasiliano Joel Zito Araújo che ha condotto una ricerca approfondita sul turismo sessuale e la prostituzione nel nordest del Brasile, in Italia e in Germania per realizzare il documentario Cinderela, lobos e um príncipe encantado, il 70% delle donne cercate da uomini stranieri per turismo sessuale sono nere e il 95% proviene da classi sociali inferiori. Sono dati che confermano l’impressione che ho avuto quando mi sono resa conto di questo problema, nel 2009. I corpi di ragazze nere e/o povere valgono meno sul mercato ed è per questo che il loro sfruttamento è così facilmente naturalizzato? O è il bisogno di sopravvivenza in un luogo privo di opportunità per la maggior parte delle persone che, insieme agli interessi economici, definisce i comportamenti? Queste sarebbero altre ipotesi che ritengo necessarie ad approfondire le cause della naturalizzazione dello sfruttamento delle donne.
La prostituzione in Brasile è spesso ancora legata a contesti di schiavitù o servitù contemporanea, nutrita dal neocolonialismo e giustificata dalla complessa rete di oppressioni vissuta dalle donne brasiliane, secondo la nostra realtà sociale, culturale ed economica: oppressione di genere, razza, classe e molti altre non ancora nominate. Ma, contraddittoriamente, come mostra il documentario sopra citato, anche negli scenari peggiori, che agli occhi di donne privilegiate come noi superano tutti i limiti della dignità umana, molte ragazze e donne vedono lì un’opportunità per cambiare la propria vita. Molte di loro nutrono il sogno romantico di incontrare un principe azzurro che potrebbe salvarle da ogni sofferenza. Perché per loro queste fugaci relazioni con uomini stranieri sono di solito le loro uniche fonti di affetto e apprezzamento per la loro autostima. Il contesto mostrato in quel film e la mia esperienza di indignazione in Ceará risalgono al primo decennio di questo secolo e ora sia i programmi sociali dei governi progressisti che abbiamo avuto in Brasile dal 2003 al 2016, sia i numerosi progressi dei movimenti femministi hanno contribuito a trasformare la vita di molte donne.
Ma domando: che cosa si potrebbe fare dall’Italia in modo che i ragazzi in formazione oggi non diventino prostitutori o consumatori di turismo sessuale in futuro, sfruttando ragazze di paesi come il Brasile? Chi dovrebbe fare qualcosa? Servirebbe a educare i loro desideri mostrargli le conseguenze delle loro scelte sessuali sulla vita delle donne? Gli uomini prostitutori, da adulti, dovrebbero essere puniti in conformità con le leggi del loro paese di origine e del paese in cui sfruttano le donne? Queste sono le sfide del patriarcato internazionalizzato che dovranno essere affrontate.
La riflessione che sto facendo vittimizza ancora le donne? Penso di sì, ma insisto con questo tono perché molte donne, in paesi resi subalterni (o di paesi subalterni portate in Europa), sono le principali vittime di un sistema capitalistico, patriarcale, colonizzatore e razzista che sfrutta ripetutamente i loro corpi per mantenere i suoi profitti e le sue posizioni di potere, alimentando industrie come il turismo sessuale nonostante le sue terribili conseguenze.
Comunque la prostituzione mi attraversa, mi appartiene e mi sconcerta. In Europa, in particolare in Italia, paese che consuma ripetutamente la prostituzione brasiliana, io sono vista da molte persone attraverso questa prospettiva e ne sono giudicata moralmente. Sono quindi una brasiliana che parla di prostituzione in un luogo in cui l’immagine preponderante della donna brasiliana è di prostituta. Questa immagine è stata costruita all’estero dallo stesso governo brasiliano, principalmente negli anni ’70 e ’80, attraverso strategie pubblicitarie e di marketing per promuovere il turismo in Brasile. Ma deriva da meccanismi interni costitutivi e molto più antichi di quanto siamo noi come paese, senza dimenticare che la schiavitù è stata per quasi quattrocento anni la principale istituzione del modello di colonizzazione brasiliano.
Un modello socio-economico basato sulla violenza simbolica sulle donne, in particolare sulle donne di colore, i cui corpi sono stati (e sono ancora) proprietà dei padroni e che sono sempre state concretamente e simbolicamente a loro disposizione per essere sfruttate e violentate. Le donne di colore, anche dopo l’abolizione legale della schiavitù, sono ancora rappresentate attraverso stereotipi che contribuiscono alla perpetuazione delle numerose violenze che vivono concretamente e che sono indispensabili per alimentare il desiderio dei consumatori maschi.
Quindi voglio concludere riaffermando la necessità e l’importanza di costruire legami di solidarietà tra donne diverse, attraverso un costante sforzo di riavvicinamento e comprensione tra i loro diversi mondi, come mi ha insegnato la storia di mia madre e di mia nonna. Lo scopo della mia riflessione era quello di rivelare le emozioni e i ricordi che il tema della prostituzione mi provoca, e non di parlare a nome delle molte ragazze e donne brasiliane la cui situazione nutre la mia indignazione, come se non avessero voce e avessero bisogno di essere salvate da me. Primo, perché so che hanno voci, voci diverse e anche protagonismo (e organizzazione sociale), che spesso permette loro di ricostruire le proprie vite. E immagino anche che le loro voci, se fossero ascoltate e diffuse, offrirebbero sfumature mai pensate da esperienze diverse come la mia. Infine, non faccio affidamento su una prospettiva religiosa per presentare i miei argomenti in una dimensione di salvezza, ma noi donne della periferia del mondo (e non solo di lì), a causa della complessità dei problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente, non possiamo ancora rinunciare a un certo messianismo per rimanere attive nella lotta per altre modalità di esistenza.
Abbiamo partecipato con grande interesse alla redazione allargata di Via Dogana 3, sul tema La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti (6 ottobre 2019).
Avevamo affrontato e discusso, in diverse occasioni, gli aspetti giuridici e le politiche in atto a livello internazionale sulla prostituzione, ora abbiamo avuto la spinta a ripartire ciascuna “da sé”, da noi, dal vissuto, per mettere a fuoco cosa ci tocca nel profondo e come ci interpella quest’esperienza, anche se non la viviamo in prima persona. Durante l’incontro è emerso con forza il tema dello stupro simbolico. La femminista Elizabeth Cady Stanton, a noi donne delle Comunità Cristiane di Base molto nota per aver scritto a fine Ottocento un saggio di esegesi biblica dal punto di vista femminile intitolato La bibbia delle donne, sosteneva che la società, così com’ era organizzata sotto il potere maschile, era un grande stupro del genere femminile.
Questa è una consapevolezza che abbiamo da tempo, Lia Cigarini nel 1995 in La politica del desiderio dedicò un capitolo a questo tema, ricordando che è necessario tener presente che, nonostante l’esistenza di leggi buone, è possibile che si riproducano rapporti di forza determinati e sfavorevoli alle donne se non si va alla radice di ciò che accade, trovando pratiche che pongano fine allo stupro simbolico.
Nella prostituzione siamo di fronte ad un duplice stupro: fisico e simbolico.
Il commercio del sesso è al centro di un dibattito molto acceso a livello internazionale, sia tra le femministe sia tra le e gli attivisti per i diritti umani. E anche la sinistra – abbiamo visto in Italia le posizioni della CGIL – oscilla tra pro-sex-work e abolizionismo. Per questo motivo alcune donne hanno restituito la tessera sindacale e dato le dimissioni dalla rappresentanza. Tra noi due Doranna, delegata sindacale nella Cgil Comunicazione, vive con sofferenza questa contraddizione perché sente che riconoscere la prostituzione come un lavoro qualsiasi mette in discussione il senso stesso del lavoro, come spiega Luciana Tavernini,e non consente alcun margine di trasformazione radicale nel rapporto tra i sessi.
Ciò che c’è di nuovo è che molte donne che hanno vissuto la prostituzione in prima persona hanno preso la parola, hanno scritto libri importanti in cui analizzano politicamente il loro vissuto, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia per l’abolizione della prostituzione, partendo dal presupposto che la compravendita dei corpi non sia lecita, che sia equiparabile a una forma di schiavitù e che, come la schiavitù, vada abolita.
Hanno reso manifesta un tipo di sessualità maschile spesso violenta e immiserita dallo scambio sesso/denaro, svelando che il corpo non è una cosa che una donna possiede ma la costituisce.
Non si tratta dunque di rendere disponibili alla compravendita qualcosa di separabile da sé se non attraverso la dissociazione. La schiavitù di donne e bambine sul mercato, oltre ad essere stupro a pagamento, come ci spiega nel suo libro Rachel Moran uscita dal mercato prostituente e ora attivista abolizionista, rappresentano uno stupro simbolico che tocca tutte le donne, perché offendendo i loro corpi si offendono le donne nella loro interezza. Finché questo sarà possibile, nelle relazioni tra i sessi mancherà l’equilibrio necessario per l’affermarsi di una sessualità relazionale, libera e gioiosa espressione del desiderio tra uomini e donne e si immiserisce il desiderio e l’espressione di sé maschile. Le nuove narrazioni femminili hanno dato parole nuove e forza anche a chi, come noi due, non ha vissuto quest’esperienza, per parlarne pubblicamente e trovare le connessioni con i nostri vissuti.
Non crediamo di poter guarire le ferite delle donne e bambine alle quali è stato inflitto lo stupro fisico, ma possiamo, grazie al loro coraggio e alle loro parole che dicono la verità su quest’esperienza, lottare insieme per porre fine allo stupro materiale e simbolico della prostituzione, un’istituzione maschile patriarcale, consolidata dal capitalismo, per accedere ai corpi delle donne attraverso il denaro.
Per noi lottare insieme ha significato prima di tutto far rete con le associazioni che sul nostro territorio si occupano di violenza degli uomini contro le donne, sia per quanto riguarda l’accoglienza e l’accompagnamento delle donne che la subiscono sia per quanto riguarda i centri di ascolto del disagio maschile dove vengono accolti gli uomini maltrattanti. La nostra assessora Francesca Costarelli ha avuto l’intuizione di creare un tavolo con tutte queste associazioni per dar vita a eventi significativi che affrontino il problema sia sul piano materiale che su quello simbolico, nel senso che questo tipo di violenza è strutturale ed è quindi necessario andare alle radici di ciò che accade per comprendere a fondo da quali meccanismi sono determinati i fatti.
Per un problema strutturale servono soluzioni strutturali. Non basta quindi parlarne tra donne, occorre che anche gli uomini ne parlino. Mentre in passato non era possibile perché gli uomini negavano, ora, grazie alla presa di parola pubblica delle donne, è il momento in cui si può avere un’interlocuzione vera e, ritenendolo importante, noi ci siamo messe in dialogo con gli uomini.
Dopo l’incontro del 15 marzo scorso a Pinerolo, realizzato nell’ambito di IO LOTTO SEMPRE, a cui erano state invitate Grazia Villa e Luciana Tavernini, che con Daniela Danna e Silvia Niccolai hanno scritto il libro Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione, noi due che facciamo parte del Gruppo Donne della Comunità Cristiana di Base Viottoli abbiamo chiesto a Beppe Pavan fondatore del gruppo Uomini in cammino: “Ma tu cosa ne pensi? Cosa è già emerso dal vostro confronto su questi temi? A che punto siete?” Da queste domande dirette e urgentiha preso avvio la costruzione di un incontro congiunto di riflessione e di scambio di pensieri e parole tra uomini e donne, a partire dalla propria differenza sessuale, che si è tenuto il 26 ottobre, patrocinato dal comune di Pinerolo e organizzato dalle donne della CdB Associazione Viottoli insieme ad Associazioni che si prendono cura delle donne che subiscono violenza da parte degli uomini, con i Gruppi di Uomini in cammino e l’Associazione nazionale Maschile Plurale, sul tema: Prostituzione: domanda e offerta o stupro a pagamento? Hanno introdotto l’incontro Grazia Villa su “La prostituzione: né sesso né lavoro” e Alberto Leiss con Gianluca Giraudo (Maschile Plurale) su “Desiderio, corpo, violenza. Un’autoriflessione maschile”, tema su cui a Roma gli uomini hanno lavorato nei mesi scorsi. All’incontro hanno partecipato anche uomini di alcuni gruppi del Nord (Verona, Monza-Brianza, Torino, Val Pellice) e, il giorno seguente, hanno continuato tra loro lo scambio di riflessioni sulla sessualità maschile.
Tra un intervento e l’altro sono state lette pagine tratte dal libro I girasoli di Liliam, un testo nato dalla relazione tra Teresa Canone, psicoterapeuta dell’associazione ANLIB, con Liliam Altuntas che dall’età di sei anni è stata schiava sessuale nel mercato della pedofilia in Brasile e poi esportata nei bordelli in Germania. Una storia fortissima e vera a cui Teresa ha dato ascolto creando, in una scrittura a due, la narrazione che tanto premeva a Liliam soprattutto per l’esigenza di onorare la memoria delle sue piccole compagne – e piccoli compagni – uccise prima di diventare adulte, nella speranza di porre fine a tanto orrore. Liliam che per motivi familiari non ha potuto partecipare all’incontro, ha inviato un accorato messaggio in cui esprimeva la sua felicità per il fatto che ci siano donne che si muovono, approfondiscono e lottano, mettendoci la faccia, con il desiderio di cambiare le cose insieme. La sua testimonianza e vicinanza, la relazione tra lei e Teresa hanno rafforzato il nostro desiderio di dire ciò che abbiamo sempre pensato e la sofferenza che abbiamo provato incontrando per le strade donne prostituite senza mai riuscire a fare qualcosa. La potenza dello stupro simbolico sta proprio nella capacità di creare barriere attraverso preconcetti e luoghi comuni, in questo caso soprattutto quello che sostiene che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo, legittimando la sessualità maschile come necessità primaria.
Durante l’incontro, molto partecipato, per la prima volta abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci pubblicamente con uomini che hanno preso parola, rompendo il silenzio. Crediamo abbia funzionato la presenza di due relatori che hanno esplicitato liberamente il loro disagio parlando apertamente della loro chiusura emotiva, della loro rimozione del corpo, della sessualizzazione delle donne nel tra uomini e della loro visione agonistica della sessualità, dell’asimmetria tra desiderio maschile e desiderio femminile e dell’incapacità vissuta e sofferta di comprendere qualcosa del desiderio femminile, nello stesso tempo la loro attrazione nei confronti di donne innamorate della propria libertà. In un contesto misto questa doppia presenza li ha incoraggiati e spalleggiati nell’espressione di sé. Nello stesso tempo anche le donne hanno avuto modo di interloquire apertamente partendo da sé, dal proprio desiderio e dalla propria esperienza che parla di presenza dell’essere al di fuori della genitalità, dell’energia, anche sessuale, che si sprigiona solo nella relazione, di trovare modi per scardinare il silenzio maschile che non pongano la donna in una posizione assistenzialistica e, per quanto riguarda la sessualità dei disabili, saper gestire l’assenza poiché non tutto ci è dovuto. Siamo rimaste sorprese di quanto su questo tema, ancora oscuro per molti uomini e anche per qualche donna, pochissimi abbiano colto il nesso tra prostituzione e violenza, tenendo distinte le due cose. Questo conferma l’importanza del percorso che abbiamo fatto e che ha fatto diventare il tema della prostituzione uno svelamento dei meccanismi che stanno alle radici del patriarcato.
Non dimentichiamo inoltre che anche (e soprattutto) le istituzioni religiose sono portatrici di stupro simbolico in quanto promuovono modelli patriarcali di relazione tra i sessi e li radicano nel trascendente e nel naturale.
Il prossimo incontro in programma a Pinerolo sarà il 15 novembre con Paola Cavallari che presenterà l’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne.
Nota bibliografica:
Cigarini Lia (1995), La politica del desiderio, Pratiche Editrice. Pag. 84 Lo stupro simbolico.
Moran, Rachel. (2017), Stupro a pagamento: la verità sulla prostituzione, Round Robin.
Danna Daniela/ Niccolai Silvia/ Tavernini Luciana/ Villa Grazia. (2019), Né sesso, né lavoro. Politiche sulla prostituzione, VandA.epublishing. Pag. 193 Tavernini L. La battaglia attuale sul senso del lavoro.
Canone Teresa Giulia (2019), I girasoli di Liliam. Da bambina schiava sessuale in Brasile al grande sogno realizzato in Italia, Fefe Editore.
Ancamò! Così ho pensato quando Marina mi informa sul prossimo VD3. È dallo scorso novembre con BookCity che si va avanti con Moran e Bindel, Bindel e Moran, insomma che in Libreria si debba sempre finire a… oddio ma che sto pensando? Poi arriva l’invito. La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti. Tutti? Tutti chi? I clienti per forza, sì poi anche le istituzioni, l’opinione pubblica. Ma Luciana è donna precisa: tutte e tutti e quindi anche me.
Nato nei primi anni cinquanta, non ho mai frequentato il mondo della prostituzione per molti motivi. Al di là di un mio istintivo fastidio per qualsiasi contatto fisico con estranei, posso elencare l’educazione ricevuta, il senso morale elaborato, il problema inquadrato nell’ambito più generale delle ingiustizie sociali, espresse qui nello sfruttamento mercantile tipicamente capitalistico che futuri sistemi socialisti risolveranno, la sessualità intesa come libero scambio di piaceri reciproci. In sintesi: la prostituta come una donna violata nella sua dignità che soffre ed è sfruttata; il cliente l’esemplare di un immorale irrispettoso, che sfrutta il bisogno materiale altrui, illudendosi di trasformare delle prestazioni pagate in manifestazioni di esuberante virilità, insomma uno squallido soggetto.
Definirei oggi questo modo di impostare la questione sfuggente e superficiale.
Primo caso.
Un adulto trentenne, allenatore di una squadra giovanile insulta sulla rete la giovane Greta, definendola pronta per debuttare nella prostituzione. Le conseguenze: indignazione, proteste, licenziamento, e le immediate scuse dell’adulto con la piena assunzione di responsabilità. All’agenzia Ansa l’allenatore ha poi aggiunto: «Quelle cose che ho scritto non le penso. È stata un’esternazione di pancia, ma non sono la persona che è stata descritta nei commenti che leggo su internet. Non sono sessista. Mi dispiace perché a 34 anni si dovrebbe ragionare di più prima di scrivere. È stata una cosa scritta di rabbia che non rifarei assolutamente»
Poco me ne faccio della sua buona fede, mi interessa la rabbia, che malattia non è, e soprattutto mi intriga la contrapposizione, davvero illuminante, tra esternazione di pancia e durata del ragionare.
Se riflettessi più a lungo quelle cose che penso non le scriverei. Bene, non sono affatto sessista, sì, ma perché le penso?
Secondo caso.
Qualche settimana fa ascoltando il Gazzettino Padano sulle solite vicende post discoteca, ho fatto un balzo sentendo: «maxi-rissa dopo apprezzamenti a una ragazza».
Credevo che l’espressione appartenesse ormai a un giornalismo superato, provinciale e mediocre, invece è furbescamente e ancor più maldestramente utilizzata per spiegare e giustificare la rabbia (toh, chi si rivede!) maschile. In rete sono ancora parecchie le notizie spiegate secondo una ricostruzione in cui «sembra che la scazzottata sia nata a seguito di un complimento, pare anche poco cortese, rivolto da uno degli avventori del locale ad una ragazza. Complimento che avrebbe infastidito non poco l’accompagnatore della giovane ed il gruppo di amici» (https://www.anteprima24.it/salerno/ragazza-discoteca-rissa/).
Per concludere: giudichiamo con superiorità di sesso, celata da difesa, della misura dei complimenti ambigui, provando fastidio per un apprezzamento che appunto disprezza noi, non lei, che del suo corpo ci siamo erti a controllori; proteggiamo una donna muta e passiva, come una proprietà che val bene una rissa: la rabbia si autogiustifica.
Ma… disprezzo, inferiorità, controllo del corpo, donna muta e passiva rispetto agli apprezzamenti più o meno volgari che riceve, proprietà: proprio come nella prostituzione!
Quello che la rabbia dunque non trattiene e lascia fuoriuscire è la convinzione dell’inferiorità femminile, sesso indegno e disprezzabile.
Un’eco di disprezzo risuonava dunque nel mio pensiero trattenuto?
I maschi che, come re pigri e indolenti, soltanto nell’arrocco si spostano di due caselle, beninteso restando sempre sullo stesso colore, impareranno a balzare come il cavallo da uno all’altro?
Sono nato e cresciuto in una famiglia comunista con spirito militante. Da piccolo ascoltavo i racconti che facevano l’orgoglio della sinistra: la Resistenza partigiana; l’occupazione delle terre al sud; la lotta operaia alla Fiat e nelle grandi fabbriche del nord; gli scontri con la celere; i fatti di Genova nel 1960. Tra questi racconti c’era la battaglia per la chiusura delle case di tolleranza. La legge Merlin era (ed è tuttora) una delle bandiere gloriose della sinistra italiana.
Nel mio ambiente familiare, la prostituzione era considerata non tanto una questione morale relativa ai costumi, quanto una questione sociale relativa ai rapporti tra le classi e tra i sessi. La prostituzione era un’espressione dell’ingiustizia sociale, ormai risolta dalla lotta vincente di Lina Merlin. Quel che ne rimaneva era considerato residuale, destinato al superamento nel progresso come il resto della cosiddetta questione femminile.
Così la consideravo anch’io, fino alla fine degli anni ’80, quando la prostituzione è tornata visibile con le donne immigrate e prostituite. Qualche giornale iniziava a pubblicare fatti di cronaca e inchieste sul ritorno della tratta delle bianche, storie di sequestri, inganni e violenza, che riguardavano le ragazze dell’Est costrette alla servitù sessuale, poi in seguito anche ragazze africane. Storie che era molto penoso e inquietante leggere.
Dopo l’impatto delle nuove prostitute straniere, i media hanno continuato a trattare il tema in modo saltuario e marginale, fino a quando è arrivata la rete, con i suoi luoghi virtuali di discussione e i social media. In questo nuovo ambiente di comunicazione e interazione, molte donne e femministe hanno cominciato a parlare della prostituzione come di una istituzione patriarcale; un tema in conflitto con i maschi, identificati spesso a ragione con i “clienti”; o in conflitto tra donne nella opposizione tra regolamentariste e abolizioniste.
In principio, ho creduto che la posizione femminista fosse quella favorevole ai diritti delle prostitute. Era uscito, in Belgio nel 2005, un manifesto europeo per i diritti delle sex worker, mentre già conoscevo il movimento delle lucciole, il comitato per i diritti civili delle prostitute di Pordenone, diretto da Pia Covre. Mi sembrava giusto e sensato voler tutelare sindacalmente le prostitute. L’ho pensata così, finché non ho conosciuto la legge svedese, che ha scelto di tutelare la prostituta e sanzionare il “cliente”, per colpire la domanda maschile, individuata come principale responsabile della tratta e del mercato del sesso. Una scelta che mi è sembrata ancora più sensata, persino illuminante, per lo spostamento della criminalizzazione dalle prostitute ai “clienti”.
A sostegno di questa impostazione, ho curato un blog insieme con una mia amica femminista, per pubblicare testimonianze di ex prostitute sopravvissute, per mostrare che la voce delle dirette interessate non era solo quella delle volontarie che sostenevano la cosiddetta “libera scelta”. Gli articoli ottenevano molte visite e condivisioni, ma dopo un po’ di tempo ho voluto interrompere questo lavoro, perché attraverso le chiavi di ricerca indicate nel pannello di controllo delle statistiche, mi sono reso conto che molti visitatori erano persone alla ricerca di siti pornografici. Dunque, mi venne il dubbio che le testimonianze, invece di sensibilizzare il pubblico maschile, avessero soprattutto l’effetto di eccitarlo.
Peraltro, la diffusa facilità di accesso alla pornografia e la qualità dei contenuti pornografici fanno sì che molti ragazzi e uomini siano presto educati a una sessualità prostitutiva. Molto materiale pornografico è prodotto con il reclutamento di donne prostituite o, per questa via, avviate alla prostituzione. Le due questioni, prostituzione e pornografia, andrebbero sempre più trattate insieme.
Attraverso l’immaginario sessuale pornografico si può vedere come sia velleitario il cavallo di battaglia regolamentarista, che vuole riconoscere e legalizzare un presunto lavoro, per togliere lo stigma alla prostituta. Naturalmente, da parte nostra è giusto rispettare le prostitute. Ma se fosse possibile eliminare lo stigma, dettato in primo luogo dal disprezzo provato dai “clienti”, sarebbe risolta la prostituzione, perché i “clienti” non sarebbero più interessati a frequentare prostitute, divenute donne dignitose e rispettabili al pari delle loro mogli e fidanzate.
Trovo più realistico, secondo la visione abolizionista, che lo stigma collettivo espresso dal pubblico, dalla società, dalle istituzioni, sia spostato dalla donna prostituita al “cliente” prostitutore. A questo fine, come il femminismo ha già iniziato a fare, è importante che tutto il linguaggio che definisce il mercato del sesso e i suoi attori sia riformulato, per mostrare il “cliente” prostitutore, gli uomini che vogliono comprare le donne, come causa propulsiva e decisiva della prostituzione.
Una volta messo al centro il “cliente” prostitutore, non vorrei però relativizzarlo un attimo dopo, con la retrocessione a “ingranaggio” o addirittura a “vittima” (anche lui come lei) di un’entità disincarnata più grande di lui (il denaro, il mercato, il capitalismo, il sistema). La prostituzione, la sua organizzazione, il suo farsi industria, mercato, ordinamento giuridico, esiste per lui, l’ha creata lui. Se pochi “clienti” prostitutori diventano imprenditori dello sfruttamento economico, tutti i “clienti” prostitutori sono e restano i principali attori dello sfruttamento sessuale.
Riconosco, anche per le ragioni dette in apertura, un’aurea di sacralità alla legge Merlin. Meglio non toccarla, fosse pure per migliorarla, perché una volta tentato di migliorarla, sarebbe più esposta a ogni peggioramento. Credo non abbia neppure bisogno di essere migliorata. La legge Merlin è a tutti gli effetti una legge abolizionista: non tocca la prostituta e indica tutti i reati dei soggetti che si muovono intorno a lei. Se assumiamo la svolta simbolica del femminismo e del modello nordico, e impariamo a riconoscere nel “cliente” il prostitutore e quindi uno sfruttatore, un favoreggiatore, un induttore, si può prevedere e sperare che il cliente sia destinato a cadere nel raggio dei reati già sanzionati dalla legge Merlin.
Ho già ampiamente illustrato le ragioni del mio prendere parola sulla prostituzione nella introduzione al mio capitolo del testo Né sesso, né lavoro. In fase di stesura e correzione Luciana Tavernini, preziosissimo aiuto in questa avventura di scrittura in condivisione tra donne, mi aveva invitata a mettermi in gioco, a scoprire le motivazioni del mio coinvolgimento e a dichiarare il perché la prostituzione riguardava anche me. A differenza di altre la prostituzione non è mai stata un tabù, nemmeno quando ero piccola.
Mio padre alle domande insistenti di noi bambine sul significato di quei fuochi con i copertoni lungo le vie, di fronte alla manifestata compassione per quelle donne povere che dovevano riscaldarsi per strada al calore delle fiamme anziché al riparo delle case, ci ha sempre spiegato che non era «colpa loro, ma di uomini cattivi che facevano loro del male» e che quando saremmo state più grandi, ci avrebbe spiegato meglio, insieme alla mamma. Così avvenne man mano che si cresceva, fino alla condanna esplicita verso chi induceva alla prostituzione e a un giudizio pesante sulla presunta mascolinità di chi ricorreva al mercimonio, dichiarando, con l’imbarazzo e il pudore di quegli anni, che mai lui sarebbe potuto “andare con una prostituta”, per rispetto verso di lei, verso mia madre, verso di noi, verso di sé.
Di seguito, come ho già scritto, ci sono state le letture, racchiuse tra Lettere dalle case chiuse1 da ragazzina e Stupro a pagamento2 lo scorso anno, due pugni nello stomaco proporzionati alle età differenti.
Nel mezzo, la professione e la politica: il primo interrogatorio, il processo per reato di schiavitù, l’Osservatorio giuridico per i diritti dei migranti e delle migranti, le ragazze della tratta, le loro lacrime sulle mie mani; la politica praticata, le politiche del diritto, la politica delle donne, la scoperta del diritto sessuato.
Oggi, qui con voi, vorrei condividere che cosa è accaduto dentro di me tramite la stesura del libro e la sua divulgazione, che cosa è cambiato, che cosa si è confermato rispetto al tema: la prostituzione ci riguarda tutte e tutti. Oltre alla scoperta della bellezza e della fatica di una scrittura condivisa, lo studio delle proposte di legge giacenti in Parlamento sulla prostituzione ha tolto il velo, ha smascherato molte delle mie certezze, tra illusioni e persistenti ingenuità.
Prima fra tutte, almeno in questa vicenda, la dolorosa constatazione, con conseguente interrogativo: destra e sinistra pari sono? e poi ancora: non tutte le donne di sinistra sono femministe! Mentre sapevo che non esiste un unico femminismo (ci sono quello di Stato, quello radicale, quello paritario e, naturalmente, il “nostro”!), l’ipotizzare che una donna di sinistra potesse non essere femminista, in una fra tutte le declinazioni possibili, mi ha lasciata basita.
Senza entrare nel dettaglio e nelle esemplificazioni che potete trovare nel libro, in sintesi due sono le visioni assimilabili che producono o rischiano di determinare la sovrapposizione tra scelte politiche e giuridiche, ahimè non più differenti: l’ineludibilità della prostituzione e la doppia morale “al femminile”.
Sul primo punto, se è vero che da parte di tutte le proposte di legge, molte presentate da donne, vi è una condanna astratta di tutto il fenomeno prostituivo, detta condanna non si traduce in un’assunzione di responsabilità politica per farla cessare e in un impegno fattivo, in una lotta concreta perché ciò possa accadere. Mi sembra di aver capito che la convinzione della impossibilità di sradicare la prostituzione dalla nostra società venga ancor prima del tema della libertà di scegliere e del disporre del proprio corpo, vendita compresa!
Ciò finisce per ingenerare una sorta di “doppia morale” da parte delle donne che si occupano e discutono di prostituzione, alimentata dall’implodere del fenomeno della tratta. Da una parte, infatti, aumenta la condanna unanime, l’invocazione di pesanti penalizzazioni, l’investimento di risorse per combattere la tratta, il traffico sessuale, la cosiddetta prostituzione coatta, azioni sostenute, come ci ha insegnato Julie Bindel3, anche dalla lobby dei prostitutori, in quanto la tratta inquinerebbe il mercato regolamentato o libero della prostituzione.
Si distingue ad esempio, parlando delle “povere ragazze nigeriane sfruttate”, tra lo stupro che avviene nei campi di detenzione in Libia (attuale luogo della svergination di massa) e il singolo atto prostituivo, individuando la violenza sessuale nella costrizione, nella schiavitù, nella soggezione al trafficante o alla madame e non in ogni prestazione sessuale, in ogni stupro a pagamento.
Dall’altra parte, in quella che mi sono permessa di chiamare “doppia morale”, vi è una specie di plauso verso le donne libere e sfrontate che sbandierano la propria sessualità liberata, non solo esibendola dentro le regole della pornocrazia, ma che ne rivendicano l’utilizzo come strumento di potere sugli uomini e mezzo per un lecito e debito arricchimento.
Si passa dalla condivisa e audace scelta di Lina Merlin di non condannare la prostituta, alle felicitazioni per chi sa stare nel mercato del corpo traendo profitto per sé.
Da qui, dentro di me, è scattata la radicalizzazione della lotta per la difesa della legge Merlin e il consolidamento della scelta di passare da “la prostituzione riguarda anche me” a “la fine della prostituzione riguarda anche me”.
In questi mesi successivi alla pubblicazione, il libro è diventato allora uno strumento per questa azione politica, il pretesto per parlare di prostituzione, l’occasione per informare sul fenomeno, il luogo per discutere e far emergere anche il conflitto.
Sono andata in due scuole superiori, ho tenuto una lezione nel mio corso all’Università degli adulti, ho partecipato a cinque incontri organizzati da gruppi di donne o da donne impegnate nelle istituzioni, due dei quali con Luciana Tavernini, così almeno fino ad oggi, ma in programma c’è molto ancora, prossimamente l’incontro organizzato per il 26 ottobre a Pinerolo, promosso anche dall’associazione di uomini Maschile plurale.
Distinguo questa restituzione tra giovani e adulti.
Come tutte ben sappiamo a scuola le ragazze e i ragazzi sono molto ricettivi, soprattutto nei confronti delle novità e di chi “viene da fuori”. Ciò aumenta, per esperienza diretta, quando l’offerta riguarda gli istituti tecnici o professionali dove le/gli studenti sono vivaci e “ruspanti”, hanno meno filtri comportamentali e sono fin troppo schietti, a dire delle e degli ottimi dediti docenti. Si sentono poi sempre onorate e onorati dal fatto che qualcuno di esterno le/li prenda in considerazione, si metta in gioco per interloquire anche con chi frequenta scuole di serie B!
Immaginate quindi il contesto in cui, dentro la lezione sui diritti umani delle donne, ho affrontato con loro il tema della prostituzione. Dopo qualche slide una studentessa, interrompendomi, ha rivendicato il diritto delle ragazze di trarre profitto dal proprio corpo, «Il corpo è mio e posso farci quello che voglio», aggiungendo «Se gli uomini sono così stupidi da pagarci o da farci regali costosi, perché non dobbiamo approfittarne? Visto che poi ti chiedono anche prestazioni minime…» (mio modo per tradurre l’esplicita espressione gergale e provocatoria della ragazza riferita al rapporto orale). Sul punto vorrei sottolineare qui che la seconda frase della ragazza è la stessa che Blessing Okoedion cita nel suo libro Il coraggio della libertà4, riferita alla propaganda che viene fatta dalle donne che vanno a reclutare in Nigeria, soprattutto in città dove il tasso di istruzione è maggiore, perciò alcune sanno che cosa le può attendere in Italia. Unica variante sta nell’aggettivare la stupidità degli uomini come “bianchi e occidentali”!
Tornando alla classe, una compagna indignata grida: «Ma che cosa dici, tu non hai rispetto di te stessa, come puoi vendere una parte del tuo corpo, nessuna parte, soprattutto quella, che è la più intima». Un’altra timidamente aggiunge: «Quella da cui nascono i bambini»… Il tutto tra risatine e sguardi furtivi dei maschi, con qualche commento di entrambi i sessi sulla possibilità di non coinvolgere “quella parte” delle donne, posto che si possono offrire e ottenere prestazioni che la tengono fuori dal rapporto sessuale. Anche qui, pur in uno spaccato parzialissimo come può essere una classe scolastica, trova conferma il dato sempre più diffuso della preferenza per le prestazioni orali in molte situazioni di prostituzione, specie se minorile.
Alla fine, il classico bel ragazzo leader interviene per dirimere il conflitto tra le ragazze: «Se il problema è il pagamento e la voglia di fare sesso, io mi offro gratuitamente così non offendo nessuna», tra risate generali pacificanti.
Il registro cambia quando rivolgendomi direttamente ai ragazzi, anche al bel ragazzo, inizio a parlare del turismo sessuale, della presenza record di maschi italiani fra chi lo pratica, con un’età media di 27 anni, e gli dico che di conseguenza, nel giro di pochi anni, potrebbero essere loro stessi a farlo. «Noi no, noi mai, noi non ne abbiamo bisogno, abbiamo già le nostre ragazze che fanno tutto quello che gli chiediamo e… a gratis».
Riflettiamoci insieme.
Questi giovani maschi almeno hanno parlato, gli uomini adulti no!
È accaduto quasi sempre ad ogni occasione di incontro, tranne per qualche presa di parola a Pinerolo e a Mantova con interventi di rappresentanti dell’associazione Maschile plurale o di operatori nel settore (volontari o educatori in associazioni contro la tratta). Silenzio totale, impressionante e significativo all’Università degli adulti. Alle mie lezioni partecipano in media 200-220 persone, di cui almeno un terzo uomini, sempre molto attivi e partecipi anche quando abbiamo parlato di storia e/o di diritti delle donne, di gravidanza per altri, di fecondazione assistita. Sulla prostituzione silenzio totale, nessuno ha preso la parola, almeno non davanti a me. All’esterno capannelli di discussioni accese.
Silenzio degli avvocati maschi, presenti in numero superiore al previsto al corso organizzato dall’Associazione Donne Giuriste patrocinato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati (ancora al maschile) di Como.
Silenzio dei maschi presenti alla presentazione del libro a Lucca, tutti amici miei, nessuno sconosciuto, nonostante l’ottima organizzazione dell’assessora Ilaria Vietino.
Riflettiamoci insieme.
La reazione delle donne adulte, sia organizzatrici degli eventi, sia partecipanti è stata più confortante e feconda.
I ragionamenti più diffusi sono stati quello relativo al tema della libertà di scelta, anche alla luce delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, l’esistenza di un diritto a prostituirsi, il dibattito intorno alle sex workers, la legittimità delle distinzioni tra prostituzione libera e coatta, i dubbi persistenti sull’utilizzo di alcuni termini quali “stupro a pagamento” o “prostituzione di Stato”, riferito alle proposte di neoregolamentazione. A questo proposito vorrei condividere con voi come tra, i titoli proposti per gli incontri, quello contenente le parole “stupro a pagamento” venga quasi sempre scartato. Vi è una maggior accettazione del nostro Né sesso, né lavoro, ma solo se l’occasione è la presentazione del libro, di solito si preferisce il riferimento neutro alla legge Merlin: la modifica, l’anniversario, l’attualità…
Riflettiamoci insieme.
Unanime la gratitudine da parte delle donne intervenute per l’importanza di aver preso parola e scritto di prostituzione, di aver consentito di organizzare un dibattito su un tema spinoso e divisivo tra donne. A Lucca la presidente del Centro donne, Mary Baldacchini, ha dichiarato pubblicamente di aver cambiato idea sulle proposte di neo-regolamentazione dopo aver letto il libro, convincendosi dell’importanza di non modificare la legge Merlin.
Tutte queste esperienze, quindi, non solo mi hanno confermato l’importanza della scelta politica intrapresa con voi, ma mi hanno consentito di passare progressivamente dall’esperienza professionale allo studio, dalla scrittura agli incontri, dal dolore raccolto alla lotta per evitarlo.
A chi mi ha criticato per la dedizione a questo aspetto marginale delle nostre vite, che o non ci riguarda o ci riguarda poco, ho risposto che da mesi guardo dallo stesso buco della serratura da cui hanno guardato molti uomini, quello de La chiave di Tinto Brass o quello utilizzato ancora oggi nel mondo del web pornografico (del quale dovremmo occuparci maggiormente). Solo che attraverso questo sguardo apparentemente ristretto si apre un ampio orizzonte, un cono di luce che si allarga e illumina molte dimensioni dell’umano: il Moloch del mercato e le sue regole fameliche; le relazioni tra gli umani e quella tra i sessi, la crisi delle coppie e della famiglia tradizionale, le resipiscenze del patriarcato; il ruolo dei padri… per narrarne alcune e capire insieme come la prostituzione ci riguarda tutte e tutti, ma proprio tutte e tutti.
- Lettere dalle case chiuse, a cura di Lina Merlin e Carla Barberis, ed. Il gallo, 1955. Ripubblicato con nel 2018 con il titolo Cara senatrice Merlin. Lettere dalle case chiuse, a cura di Mirta Da Pra Pocchiesa, Edizioni GruppoAbele, 2018. ↩︎
- Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, ed. Round Robin 2017. ↩︎
- Julie Bindel, giornalista britannica e attivista, autrice fra l’altro di Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, VandA.epublishing, 2018. ↩︎
- Blessing Okoedion con Anna Pozzi, Il coraggio della libertà, Edizioni Paoline, 2017. ↩︎
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, del 6 ottobre 2019
Oggi parliamo nuovamente di prostituzione. In Libreria ne abbiamo già discusso più volte sotto l’aspetto delle politiche e sotto quello giuridico. A quest’ultimo aggiungiamo solo un richiamo, per ricordare che il 7 marzo 2019 la Corte costituzionale si è espressa contro l’eccezione di costituzionalità sollevata su alcuni articoli della legge abolizionista voluta da Lina Merlin, stabilendo che «la prostituzione è sempre subordinazione e negazione delle relazioni». Una sentenza incoraggiante, che deve spingerci a continuare a difenderla e a farla conoscere.
Di prostituzione abbiamo discusso anche con Rachel Moran, a partire dal suo libro Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione1. Proprio grazie al suo libro e all’incontro con lei in alcune di noi è nata l’esigenza di capire quanto l’esistenza della prostituzione traccia i confini del nostro mondo condizionando anche le nostre vite.
Nel preparare questa discussione, mi è tornato insistentemente alla memoria un episodio personale, e ho deciso di cominciare raccontandovelo. A fine anni ’90, inizio 2000, in vacanza a Parigi, un pomeriggio mentre passeggio un tizio mi butta lì a muso duro che lui è solo ed emarginato per colpa della società, e quindi io devo fargli compagnia. Con “compagnia” naturalmente intendeva “sesso”, ma è irrilevante: nel corso della breve conversazione lui non lo ha mai esplicitato, e io ho fatto finta di non capirlo. Dopo avergli chiarito che la società sarà anche escludente e ingiusta, ma che io non avevo il dovere di fargli da servizio sociale, l’ho fermamente congedato. Perché proprio questo fra tanti abbordaggi, molto più molesti o volgari, mi è tornato in mente in rapporto al nostro tema?
L’anonimo parigino aveva trovato perfettamente logico esigere rapporti umani e risarcimento sociale da me, una sconosciuta, come se fosse un mio debito personale. Il vero sottinteso infatti, più che il sesso, era che essendo io una donna non visibilmente al servizio di un altro uomo, un servizio lo dovevo a lui in quanto uomo. Una pretesa che mi indignò moltissimo, che mi indigna ogni volta che la incontro.
Succede, infatti, spesso a tutte noi di scontrarci con la pretesa degli uomini di trovare le donne a loro disposizione quando gli servono e di non trovarle dove possono fargli ombra. I colleghi pari grado che ci trattano come le loro segretarie personali, i mariti o conviventi che contano sull’assistenza domestica della loro compagna e al massimo “aiutano”, in casa loro come se fossero ospiti. Eccetera. Questa strumentalità, questa pretesa ostentata con tanta naturalezza, su di me hanno pesato come un macigno per tutta la vita, schiacciando la possibilità di fidarmi mai di un uomo e di scommettere su una relazione con lui.
Non esiste solo questo, certo. Con il femminismo sono stati aperti molti conflitti che hanno spostato la consapevolezza di alcuni uomini e molte altre cose. Uno dei più importanti conflitti recenti è stato il #metoo, che ha fatto emergere un fenomeno contiguo proprio alla prostituzione: le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro. Ed è stato sempre un conflitto aperto da donne, non necessariamente femministe ma che hanno parlato a partire dalla loro verità soggettiva, a rivelare lo scambio sesso-potere-denaro impastato alla base del sistema politico in Italia. Lo analizza benissimo Ida Dominijanni ne “Il trucco”2.
I casi citati hanno in comune con la prostituzione di essere tutte manifestazioni di quello che Carole Pateman chiama il “contratto sessuale”, il patto inespresso tra uomini per l’accesso maschile ai corpi delle donne posto a fondamento delle nostre società, che determina l’esclusione delle donne come soggetti del contratto sociale e fa coincidere gli “individui” liberi cittadini con i soli maschi3. Di quel contratto erano parte anche certi vecchi arnesi giuridici come il “diritto coniugale” del marito alla prestazione sessuale della moglie e lo ius corrigendi4, che ora, grazie ai conflitti aperti dal femminismo, sono diventati per la legge stessa reati di violenza contro le donne.
Ma finché esiste il riconoscimento ai maschi di un accesso al corpo delle donne, sancito dal passaggio di denaro, finché donne e uomini lo considereranno normale, o anche solo fatalisticamente inevitabile il contratto sessuale non si estinguerà. Che spazio c’è per una libera relazione di differenza tra le une e gli altri all’ombra della prostituzione? Come evitare, se si dà questa per scontata, che continuino a nascere forme, anche nuove e inedite, di quella pretesa maschile di uso del corpo e delle risorse delle donne?
Eppure sulla natura della prostituzione c’è sorprendentemente poca chiarezza. Forse perché resta sempre un po’ a margine del campo visivo. Non si vuole vederla, non si vuole pensarci. Gli uomini la occultano, suppongo insieme alla propria vergogna. Ma anche le donne preferiscono non vederla, forse perché non ci rassegniamo a precludere a noi stesse un orizzonte ampio e sgombro, perché non vogliamo vedere intaccate la nostra libertà e le relazioni con gli uomini che fanno parte della nostra vita. La giornalista inglese Julie Bindel, nel libro Il mito Pretty Woman5, osserva che il cono d’ombra che avvolge la prostituzione dipende anche all’impossibilità per molte donne di affrontare gli interrogativi che pone sull’uomo con cui fanno colazione al mattino (anche lui potrebbe usare a pagamento il corpo di un’altra donna come me, come se fosse un oggetto? E se è così, anch’io per lui sono un oggetto?).
Vogliamo quindi parlarne oggi a partire da quello che la sua esistenza ha prodotto nelle nostre vite, come incide sul lavoro e sul concetto di lavoro, sulla società. Vederla bene per non confonderla con altre cose, per non scambiare per sessualità femminile quella che è una rinuncia da parte di donne alla propria sessualità per permettere agli uomini di usarla, per non scambiare per autodeterminazione la decisione (o la costrizione) di rinunciare ad autodeterminarsi per bisogno economico. Vederla bene per sradicarla meglio: la prostituzione va abolita come la schiavitù, vanno liberate tutte le donne come sono stati liberati tutti gli schiavi. Occorre, come con i ricatti sessuali e le molestie sul lavoro, far vedere che è inaccettabile, affinché gli uomini cambino.
Ne parliamo con Grazia Villa, avvocata, e con Luciana Tavernini, da molti anni impegnata nella Libreria delle donne con molteplici attività, autrici rispettivamente del terzo e del quarto capitolo del bellissimo libro Né sesso né lavoro6 (VandA.epublishing, 2019).
- «Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione» di Rachel Moran (ed. Round Robin, 2017, traduzione a cura di Resistenza Femminista) ↩︎
- «Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi» di Ida Dominijanni (Ediesse, 2014) ↩︎
- «Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna» di Carole Pateman (Moretti & Vitali, 2015) ↩︎
- cioè il diritto del marito alle prestazioni sessuali della moglie, cui corrispondeva da parte di lei il “dovere coniugale” di erogarle, e il diritto, sempre del marito, di punire la moglie, anche fisicamente. ↩︎
- «Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione» di Julie Bindel (VandA.epublishing, 2018) ↩︎
- «Né sesso né lavoro» di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini e Grazia Villa (VandA.epublishing, 2019) ↩︎
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, del 6 ottobre 2019
Fino a qualche anno fa preferivo non vedere la prostituzione dicendo «Se una si prostituisce è affar suo». Tornando la sera a casa con l’auto e passando vicino alle ragazze seminude lungo la circonvallazione, le vedevo con lo sguardo che vede e non vede e mi fermavo a pensare solo al disagio per il freddo. Ho scoperto che questa è una posizione di molte infatti, quando le ho invitate agli incontri su questo problema, mi hanno risposto «È un argomento che non mi interessa», riducendolo appunto ad argomento evitabile. Che cosa mi ha fatto cambiare e come cambiare la postura verso la prostituzione ha messo in atto riflessioni politiche che coinvolgono tutte e tutti?
Inviolabilità del corpo femminile
Quando sono riuscita a riconoscere come molestia sessuale, da parte di un medico stimato da mia madre, un episodio della mia adolescenza che per decenni mi sono sforzata di minimizzare, ho potuto vedere come questo avesse inficiato la mia capacità di radicarmi nel mio sentire e mi avesse deportata nel regno dell’altro. Per non sentirmi cosa, quanto c’è di più vicino alla morte, il cadavere è letteralmente una cosa che prima era una persona1, mettevo le mie energie a cercare di giustificare il comportamento maschile, a trovarci qualcosa che lo potesse rendere in qualche modo buono per me.
Ma proprio perché veniamo violate attraverso il corpo che noi siamo e per il fatto che siamo caratterizzate dall’essere dello stesso sesso della madre, ogni violazione ci fa perdere il senso del piacere e del privilegio che l’essere come la madre comporta e la fiducia che le parole, apprese principalmente con lei, dicano il mondo.
Come dice la psicologa Candela Valle Blanco2 nel seminario di Duoda di quest’anno il tabù dell’incesto è innanzi tutto tabù per le donne a parlarne. Ci sono proposti tanti nomi in modo che la violazione del corpo femminile appaia differenziata e noi ne siamo confuse. Anche i nazisti usavano 50 nomi diversi per definire i campi di concentramento mentre il grido delle persone deportate era «Ci portano via», indicandone la caratteristica fondamentale nell’averle private con la violenza della libertà3.
Che cosa ci portano via tutte le forme di violazione delle donne che ci vengono fatte o a cui assistiamo?
Viene cancellato il riconoscimento simbolico che solo grazie alla dipendenza dalla madre ciascun essere umano esiste e quindi il senso di gratitudine verso di lei. Perdiamo la fiducia piena nel nostro sentire: quindi da un lato perdiamo la guida fondamentale per parlare pubblicamente e dall’altro quella al piacere erotico, che è prima di tutto saper ascoltare se stesse nella relazione.
Non è un caso che la maggior parte delle donne prostituite abbiano subito abusi sessuali o abbiano assistito a violenze maschili contro le donne, che ora sappiamo sono fisiche, economiche e psicologiche.
Occorre, come abbiamo fatto con la violenza maschile, far emergere le narrazioni femminili, rompere il tabù del silenzio, mostrare le conseguenze della violazione del corpo femminile sotto tutte le forme, come già accade in alcuni testi4 ma anche essere in grado di rileggere testimonianze di donne prostituite, ad esempio nello storico libro Ritratto a tinte forti5 di Carla Corso, fondatrice del Comitato di difesa delle prostitute, mi è apparso come punto dirimente il comportamento del padre che umiliava continuamente la madre6.
Far questo ci permette di guardare liberamente la prostituzione, ci dà parola pubblica più rispondente alla nostra esperienza, toglie una facilitazione all’avvio alla prostituzione e riusciamo a cogliere i collegamenti con altre forme di violenza maschile organizzata, come la guerra, una riflessione ampia su cui ho scritto e a cui, per mancanza di tempo, rimando7.
Liberazione o libertà sessuale?
Guardare liberamente la prostituzione ci interroga su quale idea di piacere sessuale abbiamo interiorizzato e ci riporta alla differenza che da femministe abbiamo fatto tra liberazione sessuale e libertà sessuale. Essere disinibite non significa essere disponibili a ciò che la rappresentazione maschile della sessualità e i comportamenti derivati propongono ma scoprire il piacere nella reciprocità, non una routine predeterminata né un obbligo a dire sì alle richieste altrui sempre e comunque. La libertà sessuale è continua invenzione e scoperta di sé e dell’altro da sé nell’unità del corpo che noi siamo. Io ho sperimentato, attraverso l’imprevedibile intimità dell’incontro con l’altro da me, un’apertura all’energia cosmica. Come donne che abbiamo preso parola pubblica abbiamo imparato a definire stupro qualsiasi atto a sfondo sessuale che non tenga conto del piacere di lei: abbiamo riconosciuto che il matrimonio non autorizza più tale abuso, mascherato da dovere coniugale, e con la definizione di Rachel Moran della prostituzione come stupro a pagamento che nessun passaggio di denaro lo giustifica.
Accettare che la prostituzione venga considerata sessualità libera e che sia una possibilità per l’uomo con cui si sceglie di stare diventa un retropensiero che costituisce un blocco al proporre o rifiutare, insomma alla creatività del rapporto, come se dal denaro e non dall’incontro potesse dipendere ciò che si può chiedere all’altra o all’altro. Questo è un altro motivo per cui molte preferiscono non vederla.
Considerare il denaro come equivalente universale che permette la libertà sessuale e la realizzazione di tutti i desideri significa ridurla a libertà di vendere e comprare e ci spinge, come ha scritto Niccolai, «a dimenticare il senso stesso della libertà, a dimenticare cioè l’idea che ci sono cose che hanno valore in sé, e che sono smisurate e perciò producono cambiamenti; siamo ammaestrati a pensare che tutto, la libertà in primo luogo, è solo un bene di scambio che, come tale, trova sempre una misura già data, non esiste per creare imprevisto, ma per confermare l’esistente e le sue leggi – la legge del denaro quale misura del valore e del senso dell’esistenza umana, che anziché come unica e incommensurabile va pensata misurabile, equivalente, fungibile8».
Senso dell’esistenza e del lavoro
È proprio l’idea stessa di esistenza umana che viene ridefinita dalla prostituzione. Invece di esseri umani interi non separabili diventiamo individui proprietari di un corpo liberi di offrire le sue prestazioni all’offerente disponibile a pagarle. Ciò che conta è la possibilità di contrattarle al miglior prezzo possibile. La differenza sessuale diventa insignificante perché in questa finzione le prestazioni variano in base alle richieste del mercato: l’io proprietario non appare intaccato. L’idea che solo il contratto e la forza contrattuale regoli le relazioni umane ha invaso il mondo del lavoro9. Si lotta allora per dare un prezzo a tutte le prestazioni attraverso mansionari il più articolati possibile, e per rendere accettabile la prostituzione basta che si rispetti il tabellario e i relativi prezzi, come avveniva nelle case chiuse. Sembra irrilevante interrogarsi su cosa sia un lavoro degno di un essere umano con la sua inestricabile, singolare, sessuata e unitaria esistenza.
Riflettendo sulle mie esperienze lavorative retribuite (da quella di donna delle pulizie a quella di infermiera generica, da cameriera in hotel a intervistatrice e infine insegnante in vari ordini di scuola), e quelle non retribuite come casalinga, ho scoperto che il mio modo di lavorare era condiviso da altre donne, era una visione politica e non un aspetto del mio modo di essere o una caratteristica di quel particolare lavoro, anche se mi sono scontrata più volte con la visione maschile di lavoro.
Riconoscendo la verità della definizione di lavoro come tutto quello necessario per vivere10, non separo i due tipi di lavoro per cui non esaurisco in nessuno dei due tutte le mie e altrui energie e do sempre importanza all’ambiente che deve essere salubre e piacevole.
Ho acquisite, sviluppate e travasate conoscenze e abilità in tutti gli ambiti e continuo a farlo e il valore del lavoro è anche in questa crescita.
Il tempo è un elemento prezioso, è esauribile e costituisce un continuum che ho imparato a gestire nell’arco della giornata, dell’anno, della vita in base all’urgenza che le relazioni mi suggeriscono.
Attraverso il lavoro costruisco e intreccio relazioni da cui cerco e offro giudizio per rendere la vita mia e altrui migliore.
E sempre quello che faccio è legato al come costruisco un senso libero del mio essere donna.
Infine voglio precisare quello che intendo per necessario. Non significa che mi può procurare denaro per vivere. Lavorando come donna delle pulizie e come casalinga, ad esempio, pulire i gabinetti è un lavoro estremamente necessario ed è un contributo per la salute e bellezza della casa e di chi vi abita. Ho viaggiato molto e ho sempre valutato la civiltà di un paese dall’accessibilità, pulizia e gratuità dei gabinetti, anche quando sono a deposito come ho constatato nell’isola di Grinda in Svezia o come accadeva a casa dei miei nonni fino a una trentina di anni fa. Chimamanda Ngozi Adichie nel romanzo Americanah inserisce un episodio che illustra bene quando subentra l’abuso e quando diventa vitale rifiutarsi. Il protagonista maschile, Obinze, a Londra lavora pulendo i gabinetti in un’impresa immobiliare. Ma una sera, entrando in uno scomparto, rimase scioccato perché «trovò uno stronzo sulla tavoletta del water, solido, affusolato, centrato come se lo avessero collocato con cura, misurando il punto esatto. Sembrava un cucciolo acciambellato su uno zerbino. Era una performance». Il protagonista si fa domande sulla società inglese e sui problemi possibili dell’autore, poi prende una decisione: «Obinze fissò quel mucchietto di merda per un bel po’, sentendosi sempre più piccolo, finché non gli parve un affronto personale, un pugno alla mascella. E tutto per tre sterline all’ora. Si tolse i guanti, li posò accanto al mucchietto di merda e lasciò l’edificio11». Per me è un esempio illuminante della differenza tra lavoro necessario e abuso, apparentemente giustificato dal fatto che qualcuno/a riceve del denaro per rendere invisibili i danni che vengono così commessi.
Credo che chiamare lavoro la prostituzione sia stato da parte di alcune in buona fede un modo per togliere discredito alle donne prostituite, ma, come abbiamo imparato dalla relazione con le donne maltrattate, chiamare amore la violenza è proprio un modo che ci impedisce di vederla e di liberarcene. Sono rimasta colpita vedendo come la scritta «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi) era parte integrante del cancello d’entrata e chiusura dei campi di concentramento di Mauthausen e Auschwitz. Rendiamo più libere le donne chiamando la prostituzione lavoro? O è di nuovo un modo per non vederne le caratteristiche? Come nella relazione con una donna maltrattata pensare che in famiglia tutto potesse essere ricondotto all’amore coniugale da salvaguardare ha ostacolato un ascolto attento a ciò che lei comunicava della sua esperienza, così nella relazione con una donna prostituita quanto l’idea che la prostituzione sia un lavoro impedisce un ascolto attento di ciò che le accade e dei suoi desideri? Non si discuterà con lei di come organizzarlo meglio, magari sconsigliando l’uso di anestetici vaginali perché nasconderebbero più a lungo possibili lesioni, come succede in Nuova Zelanda?12
Inoltre, se di lavoro si tratta allora è un’opportunità che una disoccupata, come è già stato proposto in Germania, non dovrebbe poter rifiutare13. E come opportunità deve essere aperta a tutti. Che la stragrande maggioranza riguardi donne prostituite e per la quasi totalità uomini prostitutori, sarà solo un fatto contingente.
Nuove relazioni tra donne e uomini
Invece io continuo a voler vedere di quale tipo relazioni tra uomini e donne si tratta e che tipo di società si costruisce, accettando la prostituzione e so che è in atto un cambiamento.
Vedo molte donne che, attraverso la relazione con altre, hanno reso il loro sguardo sul mondo più rispondente a sé e lo continuano a mostrare, in un rilancio di altre che dà forza pubblica alla verità che emerge. Vedo che sempre più non aderiscono a comportamenti basati su stereotipi di genere ma neppure sul loro contrario.
Vedo che, proprio per questo, in parecchi uomini che conosco, e in modo più diffuso tra quelli più giovani, si sta costruendo un’idea di che cosa significa essere uomo che tiene in gran conto il giudizio delle donne con cui sono in relazione e il loro agire non è più dettato anche qui da stereotipi di genere ma dal desiderio di costruire una vita che dia una maggiore felicità, nella concretezza del nesso necessità-libertà. Diventare maschio non è essere nella categoria di quelli superiori alle donne, da cui farsi servire o da considerare oggetti da possedere ed esibire, né in quella di quelli che basano il loro valore sulla prevaricazione di un altro individuo, basti pensare al bullismo.
Il senso dell’onore maschile, dell’essere degno di stima, si basa sempre meno sul rapporto esclusivo con gli altri maschi e sempre più sulla relazione costruita con le donne. Con l’altra da sé, infatti, si aprono orizzonti di conoscenza e di sperimentazione altrimenti impossibili. Guardiamo, ad esempio, al rapporto con le creature piccole che i nuovi padri sperimentano, che fa riscoprire il valore dei piaceri elementari, la delicatezza nel contatto, il limite al proprio volere nell’altro essere preciso che ci è di fronte. La prostituzione non prevede padri, pone il limite a ciò che puoi desiderare nel denaro non nell’altro che ti è di fronte, costruisce la mascolinità nel considerare ininfluente il desiderio di lei.
Rappresentare invece il nuovo tipo di relazioni tra i sessi è un impegno politico in cui le giovani sono capaci di mettere la loro creatività. Penso al progetto di cinque spettacoli che, a partire da Le mille e una notte, Lidelab14, una compagnia teatrale di cinque giovani, in uno scambio intergenerazionale tra donne, ha rappresentato con i modi spiazzanti e toccanti dell’arte e del teatro contemporaneo un punto di vista femminile trasformativo, per ora in due spettacoli, uno sulla violenza maschile e il suo superamento, l’altro sul piacere sessuale. Non un discorso per donne (molti uomini erano in sala) ma di donne che parlano a tutte e tutti.
- Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios Editore, Triste 2012, pp.39-40 ↩︎
- Candela Valle Blanco, Decir lo indecibile. Escuchar lo verdadero, intervento al XXX Seminario Público International di Duoda El cuerpo se confiesa: el incesto, 11 maggio 2019. Il video dell’incontro si trova a questo link https://www.youtube.com/embed/_Gm_7Mk3LdM” title=”XXX Seminario Público Internacional. El cuerpo se confiesa: el incesto. Sesión de mañana ↩︎
- Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, Affinità elettive, Ancona 2017, p. 251. ↩︎
- Vedi in particolare Marie-Thérèse Giraud, «Il peso del silenzio» in Comunità di storia vivente di Milano, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, pp. 25-40; Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Round Robin, Roma 2017; Annie Leclerc, Della paedophilia e altri sentimenti, Malcor D’, Catania 2015; Luciana Tavernini, «Gli oscuri grumi del disordine simbolico» in DWF 2012/3, pp. 35-45. Segnalo due opere letterarie che senza moralismo ma con incisiva lucidità rappresentano i danni della concezione maschile della sessualità: il racconto del 1930 di Dorothy Parker «The big blonde», tradotto con «La bella bionda» in Il mio mondo è qui, Bompiani, Milano 1984, pp.187-215 e un episodio del romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah, Einaudi, Torino 2015, pp. 149-150 e 159-165. ↩︎
- Carla Corso e Sandra Landi, Ritratto a tinte forti, Giunti, Firenze 1991. ↩︎
- Ho esaminato alcune testimonianze di donne prostituite in relazione con femministe, a partire dall’inizio del Novecento ad oggi nel saggio «Quanto ci tocca la prostituzione?» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, Vandae-publishing, Milano 2019, pp. 180-205. ↩︎
- Luciana Tavernini, «Un’eredità dirompente» in Comunità di storia vivente di Milano, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, op. cit., pp.107-123. ↩︎
- Silvia Niccolai, «La legge Merlin e i suoi interpreti» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, op. cit., p. 113. ↩︎
- Una storia del contrattualismo e una lucida analisi delle sue conseguenze rispetto al lavoro, alla prostituzione e alla maternità surrogata con grande preveggenza critica si trova nel libro, uscito nel 1988, di Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, ristampato nel 2015 da Moretti&Vitali. ↩︎
- La definizione è del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, in particolare in «Immagina che illavoro», Sottosopra 2009, ripresa in «Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda», Sottosopra 2018. Molte riflessioni sul lavoro le ho elaborate con Marina Santini per Mia madre femminista. Una rivoluzione che continua, Il Poligrafo, Padova 2015, in particolare per il testo, le testimonianze e le foto del capitolo «Immagina che il lavoro», p.181-233. ↩︎
- Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah, op. cit., pp. 245-247. ↩︎
- Vedi Daniela Danna, «Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione» in Daniela Danna, Silvia Niccolai, Luciana Tavernini, Grazia Villa, Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, op. cit., p. 29-30. ↩︎
- Vedi Daniela Danna, «Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione», op. cit., nota 13, pag. 34. ↩︎
- Si tratta di un progetto finalista Registi under 30-Biennale College teatro. Uno spettacolo è stato rappresentato al Festival dei due mondi di Spoleto e l’altro nel Festival di teatro contemporaneo L’altra scena a Piacenza. Per conoscere il gruppo vedi: https://www.facebook.com/lidelabtheatre/photos/a.266631827296909/430670790893011/?type=3&ref=embed_post ↩︎
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La prostituzione ci riguarda. Tutte e tutti, del 6 ottobre 2019
Domenica 6 ottobre 2019, ore 10.00-13.30
A partire dall’esperienza e dalla riflessione politica di Rachel Moran, espresse nel suo libro «Stupro a pagamento», molte di noi hanno cominciato a sentire che la prostituzione ci riguarda, tutte. La sua esistenza istituisce e rivela l’immaginario distorto di sopraffazione maschile entro cui si giocano le relazioni, non soltanto sessuali, tra uomini e donne.
Finché gli uni e le altre considereranno “normale”, o anche solo “inevitabile”, l’esistenza di un accesso maschile al corpo delle donne sancito dal passaggio di denaro, che spazio c’è per una libera relazione di differenza?
La prostituzione è inaccettabile. La strada per abolirla passa dal principio che il corpo di una donna non può essere oggetto di commercio né di regolamentazione pubblica e da una presa di coscienza differente per uomini e donne.
Avvieranno la discussione Luciana Tavernini e Grazia Villa.
Al suo esordio alla regia, Rohena Gera realizza un film tenero e ricco di sottili e perspicaci analisi della società indiana. Contrariamente al titolo dovuto alla ben nota piaggeria della distribuzione italiana – quello originale è Sir – il film ha poco a che fare con Cenerentola e il Principe Azzurro, favola abbondantemente sfruttata in molteplici versionicinematografiche, compresi film di grande successo economico e di notevole impatto nell’immaginario come Ufficiale e gentiluomodi Taylor Hackford e Pretty Woman di Garry Marshall.
Con tratti delicati, la regista entra nel mondo di Ratna che, rimasta vedova a 20 anni, lascia il villaggio natale e, per mantenere se stessa e la sorella, lavora come domestica in una ricca famiglia di Mumbai. Il suo datore di lavoro è Ashwin, bello e prestante che,dopo aver studiato a New York, è tornato per assumersi gli incarichi nella sua ricca famiglia di imprenditori.
Con una narrazione cronologica il film procede sviluppando i temi che interessano la regista. Mettere in evidenza la grande ingiustizia della divisione delle caste in India; il paradosso di un’intimità quotidiana condivisa e l’esistenza di due mondi invisibili, insormontabili l’uno per l’altro: barriere sociali e culturali che impediscono contatti, sguardi, parole pur condividendo ambienti e spazi. Lo sguardo della macchina da presa si muove con precisione e racconta più che le parole il mondo di lei, di lui: i luoghi condivisi e quelli separati, sempre a sottolinearne le differenze e l’inaccessibilità che è mentale. E nel contempo e impercettibilmente mostrare il processo di avvicinamento, in un gesto, in uno sguardo che, in frazioni di secondo, possono modificare la percezione che Ratna e Ashwin hanno l’uno dell’altra. Passaggi inimmaginabili in quel contesto sociale.
Non ci sono conclusioni chiare per una storia d’amore così, fra due persone che comunque procedono in un cambiamento, in una trasformazione di loro stessi che modificherà le loro vite. Ratna non è una vittima e non si considera tale; ha grandi progetti, è creativa e un futuro è in grado di immaginarselo e anche di perseguirlo.
Rohena Gera è nata in India, ha studiato cinema negli USA e lavora da più di vent’anni per il cinema e la televisione come sceneggiatrice e assistente alla regia. Sir, di cui è sceneggiatrice e produttrice, è il suo primo lungometraggio. È stato presentato a Cannes 2018 nella sezione Un Certain Regard.
Nella bella riunione di VD3 di giugno 2019 non abbiamo neppure tentato di operare delle critiche basate sul ‘no grazie’. Eppure alcune le fecero alle prime TV tanti anni fa. Ci siamo parlate da subito nei termini di una visione matura nei confronti delle tecnologie in generale.
Ci siamo dette come ci comportiamo, ciascuna di noi, con questo nuovo spazio nel quale siamo. Anche chi non ci sta. Come spesso mi accade sono stupita dall’intelligenza e apertura mentale delle donne che con-vengono in Libreria. Le strategie di uso, abuso e presa di distanza di ciascuna da/in questo spazio sono già un compendio di buone pratiche.
Ascoltando, ho pensato a cosa faccio io. Parlo di solito per un’ora al giorno con Lorenza che abita a Chicago senza spendere un soldo, più o meno, chiacchierando come fossimo in salotto sorbendo un tè, a volte facendo comunella con altre/i della famiglia eventualmente presenti. Una delizia. Ma a Natale, quando Lorenza’s family non viene alla tavolata di 30 sorelle, nipoti, zie e cugini, nonni e amici che si tiene a casa mia, lei dice che il loro Natale non riesce a decollare. Ecco il limite fra relazione a distanza e in presenza, nell’amore e nel bisticcio. Esiste un nome per questo limite che sappiamo esistere e riguarda sia l’uno che l’altro spazio? Vorrei conoscerlo.
Ho chiuso Facebook in un minuto dopo che Mark Zuckerberg ha detto che milioni di dati sono passati di mano senza controlli e con una efficace intenzionalità. Ho saputo che 170 milioni di persone hanno fatto come me. Bravò! Come dicono i francesi. A me Facebook non piace. Prude dentro di me una radice contadina che mi ha salvato alcune volte e mi fido di lei più che di Mark Zuckerberg. Ho sempre pensato “che ne faranno di tutti questi dati?” Foto di figli, dire dove sono, capire chi amo e chi no. Sono cose intime, erotiche, sensuali che condiscono al meglio i mestieri del vivere. Antonella Nappi l’ha detto, perché mettere in pubblico la propria intimità, o lasciarla osservare senza replicare?
A casa le mie amiche dicono che è così e basta. Non sono spaventate. Io sì.
Ho ragionato da tempo sullo spazio virtuale non con intenzioni critiche ma per capirne gli aspetti fisici. Ho qualche competenza di fisica matematica. Qualsivoglia cosa o configurazione è dotata di uno specifico assetto fisico. Mi fido della capacità esplicativa di questo approccio. Non ho usato la lente e le equazioni, ho selezionato gli articoli che ne parlano. Ebbene, di quale tipo d’informazioni si avvale la rete? La sua potenza economica è dovuta all’essere un mercato mondiale che orienta e offre merci acquistabili, dal pomodoro, alle azioni di un’impresa, all’ultimo film americano, alla lista degli iscritti alle prossime elezioni.
Le informazioni vengono raccolte facendo osservare da algoritmi sufficientemente intelligenti i nostri comportamenti in rete, classificati e diffusi in sistemi d’imprese interessate a meglio orientare il loro mercato potenziale. Su quali merci m’informo, quante volte ritorno sullo stesso prodotto, sono donna o uomo, ho figli oppure no, mi piace il cotone o la lana, sono influente oppure no, quanto mi soffermo su un prodotto, che film mi piacciono. L’intelligenza di un buon algoritmo è sufficiente per iniziare e poi migliorare man mano che l’affare procede. Ma l’informazione la forniamo noi, personalmente, gratuita e senza potere controllare il suo uso. Ecco dove sta uno spazio politico. Enorme, attraverso il quale possiamo orientare politiche di redistribuzione di ricchezze, sostegno i processi che ci interessano, introdurre misure di contenimento. Noi consumatori abbiamo in mano una grande forza trasformativa.
Abbiamo un interesse politico in quanto donne su questa materia? Sì. Le tecnologie, figlie del pensiero scientifico associato all’ingegneria sono smisurate. Questa non-dimensione ci inquieta, è incommensurabili alle misure del corpo umano. Le misure che noi donne conosciamo così bene grazie alle pratiche di tenere nella nostra pancia e poi allevare, “tirare su” diceva Ida Farè, le creature fisicamente, culturalmente e spiritualmente. Tutte queste pratiche ci hanno posto severi e inappellabili condizionamenti che un’altra creatura ci impone per vivere. La nostra libertà la complichiamo con misure di limitazione del desiderio per trovarne un altro, un desiderio di relazione profonda.
È piccolo il dono che facciamo alle multinazionali quando accettiamo di farci osservare? È un dato di fatto e non possiamo farci niente? Certo che possiamo. Ma dobbiamo allontanarci dalla sensibilità della nostra generazione, nata e vissuta nella maestà del lavoro operaio e manifatturiero. Del produrre e non del consumare. Consumismo è stato un concetto, e una realtà, non amata, cioè aborrita dalle élite culturali.
Siamo sostituibili? Le informazioni che forniamo possono essere sostituite da altre osservazioni? No. Perché? Dal più semplice limite alla conoscenza scientifica su base oggettiva. Non può osservare ciò che pensiamo e sentiamo come esseri umani. Dobbiamo raccontarlo personalmente. E se non lo facessimo? Se lo facessimo a condizioni di…? In breve, esiste una rottura dell’impianto epistemologico alla scala del corpo umano. Almeno finché rimane tale.
Colloco il mio nuovo approccio al femminismo, molto differente dagli inizi, al 2001, quando vide la luce il sito della Libreria, sulla spinta del desiderio delle due “webmater” Sara G. e Laura C.. Fu un desiderio che mi trasportò come su un tappeto volante nel mondo virtuale. Ho deciso allora di ascoltare e seguire le due giovani donne perché ho sentito in loro forza ed energia. Fui come trascinata da un vento impetuoso. La paura di volare c’era, ma il fatto di avere mantenuto il giovedì come incontro della redazione del sito era per me un legame con la mia pratica storica, un segno-fatto simbolico.
Mi sono affidata, diciamo la verità. La presenza viva era salva, cosa che per me contava e conta parecchio. Mi appassionai alla ricerca linguistica per confezionare il sito e dare un nome alle stanze dove collocare i miei desideri, le mie parole, le mie relazioni e quelle ignote che sarebbero arrivate dalle nuove relazioni-connessioni. Passavo molto tempo a trascrivere gli incontri in Libreria per postarli e farli conoscere. A volte accadevano fatti curiosi. Mi capitava di ricordare ad alcune amiche della Libreria che ogni giovedì alle diciannove c’era il sito e dopo si stava insieme a cenare. Loro o non lo sapevano o lo dimenticavano non essendo interessate. Anni di passione in cui ero nella rete in modo attivo e nei social networks in modo passivo. Amavo e amo tuttora lo scambio via e-mail, cui si sono via via aggiunti whatsapp, instagram e messenger. La mia pagina facebook l’ho usata e la uso tuttora postando articoli di giornale, i miei viaggi o altro materiale informativo; non sapendo come funziona la macchina non posso interagire in modo critico e attivo, ma è stato un modo per mantenere un contatto-scambio, un filo di comunicazione di parole o immagini, teso in equilibrio fino al prossimo incontro o alla prossima riunione, come preludio a… Un’aspettativa che a volte si è realizzata. Con alcune mie ex-alunne ci siamo scambiate foto di viaggi e notizie e anche in qualche occasione non detti sulla nostra relazione. Ho abbandonato da poco questo tipo d’interazione con loro quando ho capito che mi ero illusa, lo scambio si fermava lì, non c’era evoluzione. Quei pochi tentativi che ho fatto per interagire ed esprimere il mio punto di vista commentando notizie o fatti di cronaca sono stati dei veri boomerang che mi hanno convinta a lasciar perdere. Essere nella rete, infatti, non significa essere su facebook come da molte, molti è stato sottolineato.
Ho pensato spesso in questi anni e oggi ancora di più a quanto mi diceva mia zia nel secolo scorso: per le cose importanti non devi né telefonare né scrivere ma andare di persona. E l’esperienza in molti casi me l’ha confermato. Come è capitato di recente con Jasmine, una giovane dottoranda di Oxford. Dal sito alla telefonata e poi l’incontro, in un crescendo dove c’è dentro un desiderio di politica che trascende con una schivata i pericoli cui il mezzo espone con un linguaggio che ha interrogato la mia curiosità e acceso libere associazioni col raffronto fra le parole inglesi e la traduzione italiana. Una parola che lei ha usato durante il nostro incontro a Oxford mi ha fatto pensare a Ildegarda di Bingen, allargando il mio campo di visione in termini genealogici oltre che di immaginazione.
In quel periodo cruciale, il passaggio nel nuovo millennio, mi capitò un fatto di cui solo oggi capisco l’enorme portata simbolica: ricevetti una comunicazione burocratica di fine di un rapporto di lavoro via internet e la cosa mi colpì dolorosamente. Rimasi paralizzata dall’impotenza e incredula. Mi risollevai per fortuna contaminata dal desiderio delle giovani webmater della Libreria e decisi di sostenerle in questa impresa. Prima difficoltà fu abituarmi alla velocità con cui avvenivano gli scambi.
Il tempo fu l’elemento di scarto e ora ne comprendo il senso: i vent’anni che ci separano significano un cambio generazionale. È stato per me un allenamento all’accelerazione che la globalizzazione ha portato nella mia vita e nella vita di tutti. Bisognava attrezzarsi. Due ore passate insieme alla redazione del sito ogni giovedì per intensità equivalevano, equivalgono a un pomeriggio intero o a un salto di paradigma come si dice oggi… Era un assaggio del cambio di civiltà. Donne protagoniste che corrono con i lupi furono il titolo di un libro e di un numero di Via Dogana cartacea. Oggi si parla di leoni da tastiera. Nei social networks spesso si urla, si usa un tono inadeguato, si offende, si è fuori misura; lì si riversano le viscere sofferenti di chi non trova più orecchie disponibili all’ascolto amoroso gratuito. C’è chi gratta le viscere e ne ottiene consenso politico. L’umana richiesta di riconoscimento ha trovato spazio in questi canali. Perché non ci sono più orecchie femminili che un tempo pazientemente stavano in ascolto e facevano questo lavoro? Forse una domanda fuori luogo ma me la sono posta. Le donne sono altrove, non hanno più tempo. La violenza del linguaggio può rappresentare lo specchio deformato di una società in cui le donne non sono più disponibili all’oblatività. Né subalterne, né subordinate. Noi sappiamo come trattare le sofferenze avendo sperimentato la passione della differenza, l’estraneità e dato voce all’inconscio. Il lavoro dell’inconscio è lavoro del pensiero. Io ho deciso di stare sempre offline di notte per tenere sgombre le vie insondabili dell’inconscio e al mattino decifrarne il linguaggio.
La scommessa potrebbe essere oggi di trasformare l’intimità, il fuori misura, la sofferenza, l’informe degli scambi in rete in uno spazio di trasformazione soggettiva, cioè in politica. I luoghi reali che abbiamo costruito negli anni sono, in effetti, questo connubio ibrido di relazioni intime – “relazioni spesse” per citare Pascale Molinier – che agiscono in un luogo pubblico in una cornice che spazia in una visione che tutte le/ i protagoniste/i, a qualunque titolo presenti, contribuiscono a costruire con parole, desideri, gesti, denaro, lavoro, opere d’arte, libri, relazioni, conflitti, condivisione di una prospettiva…
Un lavoro di ascolto e di scrittura che richiede tempo, attenzione e cura per le parole che si usano. Lo stato d’animo di quando scrivo un’e-mail per esempio è lo stesso di una volta quando scrivevo una lettera con francobollo e ne ho scritte tante… Attendo fiduciosa una risposta. Avere autorità nella rete significa avere l’ambizione di fare della rete uno spazio di trasformazione soggettiva come lo sono la Libreria e il Circolo della rosa, luoghi autonomi, dove nell’intreccio di relazioni si mescolano cultura, politica, lavoro, creatività, intimità e presenza nello spazio pubblico, senza più distinzioni fra dentro e fuori. Abbiamo sviscerato con fatica nodi, angosce, frustrazioni, aggressività, polemiche, ansie, difficoltà, preferenze e rifiuti, gioie e dolori, desideri differenti e trovato soluzioni; armate solo della lingua madre abbiamo dato forma alla materia vivente inventando figure simboliche e parole di mediazione che contaminano, come dimostrano i recenti movimenti globali del #MeToo e dei giovani e non, in nome di Greta T.
Come ha fatto Giordana Masotto, anch’io attiro l’attenzione sul tema del soggetto a partire da quello che Laura Colombo fa dire a Luciano Floridi sulla condizione umana che oggi è onlife. Lo farò con una raffica di appunti (che sono un breviario del mio impegno di ricerca nel movimento femminista). “Il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni” dice Laura citando Floridi. Questa posizione, io dico, non ignora ma aggira la svolta politica e filosofica del 1970 che è all’origine del femminismo di oggi.
Chi è questo “soggetto” di cui parla Floridi e che ha perso il primato? È il moderno Soggetto fondato sul pensiero razionale (scienza) e sulla uguaglianza davanti alla legge (stato di diritto). È (o meglio: era) un soggetto universale senza corpo e senza sesso, di fatto maschile e occidentale, di fatto morto ben prima che Luciano Floridi costatasse che aveva perso il primato.
La fine del moderno Soggetto universale senza corpo, di fatto maschile e occidentale, è stata lunga ma non graduale. Ci sono state scosse di terremoto (Marx, Freud, Nietzsche). C’è stata la prima guerra mondiale, che ha messo rovinosamente fine alla modernità compiaciuta di sé. Tutto il secolo XX è stato occupato da tentativi di voltare le spalle al disastro o di riprendere criticamente il corso interrotto. Tre le risposte più notate, il nazifascismo e il comunismo. Tra le meno notate, il femminismo.
Il femminismo era iniziato ai tempi della Rivoluzione francese. Durante il Sessantotto, che voleva essere anche lui una Rivoluzione, il femminismo rispunta in una forma imprevista, che riguarda proprio l’idea del soggetto.
Intorno agli anni Settanta escono due testi che segnano la svolta che dicevo. Uno è Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi: il soggetto non è indipendente dall’essere corpo, che è sessuato, ma la dialettica servo/padrone non si applica al rapporto donna/uomo, la storia umana riprende con le donne come soggetto. L’altro testo è Il maschile come valore dominante del gruppo Demau, che scopre quell’aspetto fondamentale della condizione umana che è il simbolico (siamo animali parlanti), e inaugura così una politica che non mira alla presa del potere ma alla presa di coscienza. I due filoni si combinano e danno luogo a una vasta letteratura che va dalla poesia alla filosofia. Scelgo di citare il racconto della storia della Libreria delle donne, Non credere di avere dei diritti, cui le femministe Usa cambiano il titolo in Sexual Difference.
Il pensiero politico-filosofico di quegli anni ignora questi sviluppi e dice: il Soggetto è morto. Le femministe dicono: è morto il Soggetto neutro-universale senza corpo, insieme al patriarcato che lo teneva in piedi. E scrivono sul loro stendardo “Io sono una donna”. N.B. Le idee che qui riassumo in parole, nella realtà sono modi di vivere e di pensare, sono pratiche politiche.
Il pensiero politico-filosofico tradizionale continua a ignorare quello che capita e deperisce. Il sistema dei partiti nella cornice dello Stato va in crisi, il mondo si unifica all’insegna del mercato finanziario. Le donne entrano nel mercato del lavoro come una risorsa nuova e concorrenziale. La rivoluzione digitale entra in circolo con i cambiamenti e diventa una potenza.
Da internazionale il femminismo diventa globale ed entra nel campo di battaglia del cambio di civiltà in corso. Le donne sono incoraggiate da più parti a seguire lo stendardo dei diritti e della parità. I mass-media insistono a dire che questo è il significato del femminismo. Ma le femministe che non hanno dimenticato le origini non sono d’accordo. Sanno che le donne desiderano altro e di più. Perciò lottano per il senso libero della differenza sessuale nell’orizzonte di un protagonismo femminile a livello globale. Dicono: la posta in gioco è impedire la mercificazione della vita e del desiderio femminile, e si ritrovano così in risonanza profonda con l’ecologia che promuove la difesa dell’ambiente e del pianeta Terra.
Arriva un filosofo, un Cartesio dei nostri tempi, che vede nella rivoluzione tecnologica il punto di partenza per ripensare la condizione umana e dice: il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni. Le femministe dicono: noi lottiamo per il primato del soggetto relazionale dotato di una sua interiorità, per noi il punto di partenza è la relazione materna, tutto il resto va bene ma viene dopo.
Attualmente vivo esattamente a 1.298,9 km dalla Libreria delle donne di Milano, nella città di Oxford. Ciò nonostante, domenica scorsa ho potuto partecipare al mio primo incontro nella Libreria riguardo al tema dei social grazie a ‘Skype,’ un social che permette ad una persona o un gruppo di connettersi per tutto il mondo via audio e video. Grazie a un social, ero con Voi.
Certo, questo ‘ero’ non era assolutamente un essere intero; non ero fisicamente presente, e questo non mi ha permesso di vivere pienamente cosa significa essere lì fra di voi ad ascoltare e dialogare in carne e ossa. Ciò nonostante, Vi ho ascoltate. Vi ho ascoltate con tutta l’attenzione che vi avrei dato in persona. Vi ho ascoltate via Skype perché non avevo la possibilità di lasciare i miei studi e viaggiare per incontrarvi. Vi ho ascoltate via Skype perché il Vostro gruppo, e il tema in particolare di cui avete parlato è di grande interesse per me sia nella mia vita personale che in quella professionale; i miei obiettivi nella dimensione ‘offline’ mi hanno spinta a usare un social, Skype, per avere accesso alla vostra conversazione, anche solo in una maniera “parziale”. E con questa mia prima esperienza con Voi estraggo il primo punto riguardo ai social: I social possono essere utilizzati come strumenti per ottenere obiettivi concreti nella dimensione “offline”.
Spesso quando si parla dei social in Italia, diamo tanta luce al lato negativo, alle persone che hanno abusato dei social per compiere atti riprovevoli o alle vittime di questi atti violenti. Questo lato del digitale è opprimente ma importantissimo e da conoscere bene, e nell’incontro di domenica avete giustamente dedicato molta attenzione al lato più infido del mondo digitale. Ma questo mondo, come il nostro, è caratterizzato anche da persone e gruppi con intenzioni buone e che hanno trovato varie maniere creative per cogliere ‘opportunità’ dai social. Possiamo pensare per esempio all’attivismo sociale. Negli ultimi anni vari studi, specialmente nel campo di informatica e politica, hanno dimostrato che i social possono essere utilizzati come strumento politico e sociale per seguire obiettivi nella dimensione “offline” e che, in questo senso, l’attivismo offline e online si stanno gradualmente intrecciando. Guardiamo, per esempio, il movimento #BlackLivesMatter. Uno studio del 2018 di Marcia Mundt., Karen Ross e Charla Burnett ha dimostrato che questo movimento è stato rafforzato dall’utilizzo dei social, in particolare nella possibilità di costruire connessioni, mobilitare attivisti, e amplificare ‘narrative alternative’. Il beneficio che i social hanno dato al movimento era però, sottolineano nello stesso studio, anche conseguenza dell’educazione che hanno ricevuto gli attivisti riguardo ai rischi nel mondo digitale; le conversazioni “offline” hanno rafforzato l’attivismo online. Questo esempio mi porta a un secondo punto fondamentale riguardo ai social. Per poter utilizzare i social in maniere vantaggiose, è necessario discutere il tema attivamente nella dimensione offline per capire quali sono gli obiettivi dell’utilizzare i social, educarsi sui rischi, ma soprattutto valutare quali strategie si possono sviluppare per affrontare e affrontare questi rischi. Come è stato detto nell’incontro la domenica scorsa riguardo alla presenza della Libreria sui social: “È importante esserci, ma anche saperci stare”.
Saper stare sui social non è facile, e non è possibile risolvere con un solo incontro. Ma la conversazione di questa domenica mi pare essere stato il primo passo importante, e forse il più difficile, per capire come la Libreria possa rimanere sui social in una maniera che sia più sana e bilanciata per tutte. La mia proposta per il secondo passo: identificare quali sono le qualità innovative dei social di cui potrete usufruire, e come questi potranno essere un complemento ai Vostri obiettivi nella dimensione offline.
Uno
Ho accolto con piacere l’invito di Laura Colombo di partecipare a questo incontro sulle trasformazioni digitali e la politica delle donne sollecitata dal tema ma, soprattutto, dal desiderio di tornare in Libreria dopo tanto tempo. Ho pensato che questo dovesse essere il mio punto di partenza: i tempi sono cambiati ma c’è qualcosa che non cambia mai. C’è qualcosa nella presenza che è irriducibile, che non può essere cancellato e che a che fare con l’umano.
Due
La mia compagna lavora in una società che si occupa di tecnologie digitali che offrono servizi per le pubbliche amministrazioni e per il settore privato. I tipi di servizi che vengono offerti riguardano la registrazione e la trascrizione di assemblee, consigli di amministrazione, assemblee comunali, regionali, provinciali fino alla Camera dei deputati.
Fino a qualche anno fa questo tipo di lavoro consisteva in un “servizio in presenza”, era impensabile pensare di erogare il servizio senza avere almeno due persone presso il cliente – spesso contrattualmente si prevedevano clausole di “elezione di domicilio” presso l’ente che dotava di un ufficio fisico presso cui risidere – c’era cioè sempre qualcuno – un tecnico e una stenotipista o una trascrittrice – che svolgeva il lavoro direttamente nella sede del lavoro.
Con lo sviluppo delle tecnologie questo tipo di presenza è diventata sempre meno necessaria, è diventato possibile immaginare un servizio senza la persona, o meglio con una presenza ma a distanza – remota. Questo passaggio non è stato proprio indolore per i clienti che, nessuno escluso, hanno sollevato dubbi e perplessità: i timori riguardavano sì la qualità del servizio, la possibilità tecnica che le cose potessero comunque funzionare bene, ma più di tutto la preoccupazione era quella di non aver più un interlocutore su cui riporre la propria fiducia e a cui fosse possibile rivolgersi nel caso di malfunzionamenti. Il tentativo maldestro di “far passare il servizio” senza la persona spesso non riesce, si è compresa la necessità che, per convincere i clienti al passaggio, non bisognasse puntare sull’efficacia tecnica del serivizio offerto quanto piuttosto sul fatto che dietro l’apparente assenza, dietro alla tecnologia, c’erano comunque delle persone che continuavano a lavorare, una presenza che seppur distante – in remoto – c’era.
Non c’è nessun perfezionamento tecnico che possa eliminare questo bisogno, un rapporto umano che implica fiducia. La presenza fisica delle persone – delle stesse persone – garantisce una fiducia che nessuna tecnologia, neanche la più perfetta, può sostituire.
I tempi sono certamente cambiati ma i bisogni umani profondi, quelli, non cambiano mai.
Tre
Pur non avendo mai riflettutto a fondo sulle implicazioni teoriche e politiche della tecnologia, mi è sempre parso chiaro che la fiducia chiama in causa le persone in carne e ossa – che siano vicine oppure lontane – e che questo elemento sia irriducibile ed è da qui, da questo snodo cruciale, che ho messo in campo, da sempre, la mia pratica politica.
Si può dire che Lìbrati, la libreria delle donne di Padova di cui sono fondatrice insieme a Laura Capuzzo, sia nata da un blog in cui scrivevo con alcune compagne femministe, un luogo virtuale in cui discutevamo di tutto quello che ci passava per la testa, in libertà, e che pensavamo fosse importante discutere assieme e con le donne lontane da noi, fisicamente irraggiungibili. Questa dimensione soltanto digitale ci è stata fin da subito stretta, bella sì, stimolante, ricca di tante potenzialità, ma comunque stretta, volevamo di più.
Abbiamo iniziato a viaggiare, ad andare a trovare le donne con cui avevamo intessuto le prime relazioni soltanto digitali, le abbiamo conosciute, abbiamo frequentato i luoghi delle donne, quelli reali, dove ci potevamo abbracciare, dove potevamo stringere quelle mani che avevano battuto i tasti creando quel primo contatto.
La piattaforma digitale è stata per noi un trampolino per andare, anche e soprattutto, “altrove”. Ed è qui che è nato il desiderio di aprire una libreria – un luogo fisico – perché il virtuale a un certo punto non ci è bastato, i viaggi ci portavano lontano, volevamo di più e, a quel punto, molto di più.
È grazie al prezioso suggerimento delle amiche della Libreria delle donne di Milano che abbiamo avviato una campagna digitale di raccolta fondi che ha avuto un grande successo e che ci ha permesso di aprire le serrande.
Sappiamo bene che quel successo – l’importante contributo economico che ci è stato dato – è dovuto a una fiducia in noi che è stata possibile perché ci siamo viste e conosciute in carne e ossa, nella nostra intera umanità.
Ancora oggi per noi la rete è un mezzo fondamentale di comunicazione, ne conosciamo limiti e pregi e la usiamo come modo per avvicinarci alle donne che potrebbero voler frequentare il nostro luogo e mai come un mezzo per tenerci a distanza. Grazie alla rete percorriamo quei chilometri che non è possibile percorrere sempre, per ragioni diverse – di tempo, di soldi, di possibilità – ma sempre, sempre, dopo una conoscenza virtuale scatta il desiderio di tirare quel filo digitale e raggiungere i corpi.
I tempi sono cambiati e cambieranno ma mai, mai cambiano i sentimenti umani, la gratitudine per la fiducia e la fiducia che nasce dalla relazione.
Quattro
Alla fine della rete, ad ogni capo del filo c’è sempre una persona, con i suoi sentimenti umani. Questa per me è una verità che al di là delle critiche che possono essere mosse alla tecnologia mi parla degli uomini e delle donne e dei loro bisogni e desideri reali e veri.
Uno degli spunti critici più forti contro l’utilizzo della rete, nella sua dimensione sociale, si articola sull’idea che siano uno strumento di alterazione della realtà, che le persone si mostrino diverse da quelle che sono, le foto modificate con photoshop, la narrazione di vite praticamente perfette ma false, che diano cioè una visione distorta di noi e del mondo in cui viviamo. Io li uso i social e sì, cerco con esiti più o meno felici di mostrarmi migliore di quella che sono, d’altra parte questo corrisponde interamente al modo che ho – e penso che abbiamo tutte – di muovermi nel mondo fuori: mostrarmi migliore agli occhi degli altri per poter meritare il loro amore. Il desiderio di essere amati, il bisogno di attenzione che abbiamo per sentirci parte del mondo, riconosciute nella nostra unicità, dietro il successo della rete io vedo questo, con tutto ciò che questa potenza comporta, con i suoi esiti buoni e anche nelle sue storture. Vedo svelato il grande potere politico dei sentimenti, fin dove possiamo arrivare a trasformare il mondo con la sola forza di quello che ci muove dentro.
Per quanto la rete possa trasformare le nostre vite da fuori – in termini di tempo e spazio – possa cambiarci, non altera la nostra essenza, ciò che in noi c’è di irriducibilmente umano, non replicabile, non cancellabile.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019
Pensiamo al luogo in cui siamo ora, la Libreria delle donne di Milano. È uno spazio pubblico, quattro muri e una porta che segnano il confine rispetto al fuori della città. In questa stanza ci sono tuttavia degli apparati che mettono in connessione tra loro una serie di computer e permettono di avere una rete senza fili: le stanze della Libreria sono attraversate dal wifi. Molto probabilmente anche nelle nostre case c’è il wifi. Questo significa che gli spazi pubblici o privati, che fino a pochi anni fa erano ben definiti e inaccessibili, erano aperti su invito o secondo regole stabilite e condivise, oggi sono modificati dalla rete e resi aperti e pubblici, anche se non si vede.
Ogni apparato connesso a una rete ha la possibilità di essere contattato e raggiunto da altri apparati in rete. Ogni oggetto che si affaccia sulla rete ha un nome e un cognome (si chiama indirizzo IP) e può essere conosciuto da tutti gli altri, ci sono dispositivi predisposti per far conoscere i nomi e i cognomi di computer grandi e piccoli, smartphone, tablet. Cosa diventa quindi questo spazio? Non è più solo fisico ma è anche digitale, spazio informativo. L’organizzazione di questo spazio non dipende più solo dal movimento fisico, ora anche le informazioni lo attraversano e lo modificano. In questo momento, Google sa esattamente dove sono e così tutto il mondo potrebbe sapere le coordinate GPS (il punto esatto) della Libreria. Nelle nostre case entrano sempre più oggetti intelligenti: lampadine che si accendono prima che entriamo, frigoriferi che ci mandano la lista della spesa sullo smartphone, assistenti vocali che rispondono alle nostre domande (di solito hanno nomi e voci femminili: Alexa, Siri…).
In questo momento, quasi tutte noi abbiamo un telefono intelligente, uno smartphone: del telefono ha il nome e la funzione, residuale rispetto a tutto il resto. In realtà è un computer grande un palmo costantemente connesso a Internet, impensabile fino a una decina di anni fa e indispensabile una volta che inizi a usarlo. Nelle nostre case abbiamo un computer che, a differenza di qualche anno fa, basta accendere per andare in Internet: niente più modem da avviare, niente più accesso da fare, operazioni vintage che i ragazzini di oggi non sanno immaginarsi. Usciamo a camminare o a correre con orologi che raccolgono i dati delle pulsazioni, della velocità, il numero dei passi, che possiamo consultare con una app o col computer, costruendoci un obiettivo di allenamento o di salute.
Oggi abitiamo un mondo fatto di informazioni, condividiamo un ambiente globale con altri esseri umani ma anche con artefatti ingegneristici che interagiscono con noi (si pensi al braccialetto che misura le pulsazioni e trasmette i dati nel cloud). In altri termini, non è più così netta la distinzione tra la nostra vita on-line e quella off-line, siamo sempre in un presente connesso e addirittura capita che siamo in un luogo fisico e contemporaneamente altrove, proprio attraverso la connessione. È il presente altrove di chi, in metropolitana, sta lì fisicamente mentre guarda Instagram. Internet quindi non è un semplice strumento, ma il nuovo spazio in cui un numero crescente di persone passa sempre più tempo. Un filosofo che si occupa di questi temi, Luciano Floridi, ha inventato il temine onlife che esprime quanto detto finora, ovvero che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, nell’acronimo inglese) influenzano radicalmente la condizione umana, modificando la relazione di sé con sé, di sé con gli altri e con il mondo che ci circonda: la crescente pervasività delle ICT sfuma i confini tra reale e virtuale. Floridi ha coordinato un gruppo di ricerca su come le ICT abbiano cambiato persone e società nell’epoca dell’iperconnessione ed è stato pubblicato l’Onlife Manifesto. I punti salienti, anticipati nella prefazione, sono questi: la frontiera netta tra reale e virtuale è sfumata; i confini tra uomo, macchina e Natura sono stati erosi; la quantità di informazioni disponibili è aumentata a dismisura; il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni.
Credo sia importante conoscere questo testo (scaricabile liberamente sotto licenza Creative Commons), organizzato in sezioni e punti come un manifesto deve essere, perché non abbiamo strumenti concettuali per comprendere le questioni relative alle ICT, che tuttavia sono la nostra realtà. Non avere strumenti per comprendere la realtà porta a paura e senso di inadeguatezza, se non al rifiuto per mancanza di conoscenza e mancanza di senso. È importante anche per un altro motivo: il pensiero delle donne ha già riflettuto su molti dei punti che la realtà iperconnessa pone (fine della modernità, fine del primato del soggetto, organizzazioni gerarchiche e di potere versus relazioni reticolari basate sulla fiducia, controllo/sorveglianza/sicurezza, confine tra pubblico e privato, responsabilità individuale e collettiva, libertà). Ancora, in questa realtà, dove non mancano insidie, ci sono molte possibilità per le donne.
Come abbiamo visto, la rete non è uno strumento, come una bicicletta che uso e ripongo. È la realtà e offre una possibilità di ampliare la relazione. In rete “esserci” significa “essere-con” e la presenza richiede la partecipazione e la condivisione: da un evento ludico, come un concerto o una manifestazione sportiva, a un evento politico come una manifestazione di protesta, persino nei momenti collettivi religiosi, la scena è illuminata da schermi di smartphone e tablet, che servono certamente per documentare “io c’ero” ma anche per condividere con altri, cui offriamo quel presente altrove di cui parlavo poco fa. Questa forma “aumentata” di presenza è vissuta in modo molto efficace dalle donne. In vista di questo incontro, parlavo con Sara Filippelli della Collettiva Femminista Sassari, che nell’ultimo anno ha seguito una influencer in ambito food. Ha verificato che la presenza in rete di questa donna prende il suo senso dalla relazione, poiché mette sé stessa e il racconto dei pezzi della sua vita nei social, avendo in mente una interlocutrice, come se stesse parlando a ciascuna delle sue follower. La relazione che si stabilisce è di fiducia, chi segue una o un influencer riconosce autorità. Naturalmente la consapevolezza che esserci oggi significa condividere, diventa uno slogan facilone se tagliamo via la dimensione mediatica e quella economico-commerciale. Pensiamo al fenomeno Chiara Ferragni, milioni di followers sparsi sui vari social network. Con un ottimo lavoro di squadra e una profonda conoscenza dei social, ha creato un impero e un giro di soldi notevole. La verità che esserci significa condividere diventa uno slogan superficiale se non riflettiamo anche sulla parte in ombra: da dove viene e dove porta l’esibizione di sé? Cosa succede se la condivisione diventa un bisogno ossessivo? Cosa diventa la presenza aumentata, di cui parlavo poco fa, se sono sempre in un presente-altrove? Lo dico a partire da me e dalla mia esperienza con Instagram: ora, ogni foto che faccio col telefonino, ha dietro l’idea che potrei postarla, che potrei mostrare quella parte a chi mi segue, creando un mio personaggio, offrendo a chi mi segue una narrazione particolare di me. Ho in mente anche donne che diventano totalmente altro sui social, che sono sul limite della mistificazione presentandosi come madri perfette, dentro una famiglia perfetta, con un lavoro importante e perfetto (anche gli scacchi nella relazione con figlie, mariti e colleghe diventano un tassello di questa perfezione). Mi chiedo che ne è di quella che Carla Lonzi definiva autenticità, che cosa diventa la propria verità soggettiva.
Ho in mente anche le recenti vicende del gruppo Facebook della Libreria, nato proprio sulla scorta di questo concetto di condivisione: offrire uno spazio di presenza politica e discussione sensata per donne e uomini che fisicamente sono lontani da Milano, o chi è vicino ma trova congeniale lo spazio dei social. Non frequento Facebook, che comunque è parte della realtà, come dicevo, quindi tocca anche me, un po’ come il fatto di non guidare non mi pone fuori da un mondo in cui le auto ci sono e hanno impatti su tutti. Cosa succede se lo spazio di condivisione diventa terreno di conflitti? Come si trasformano i conflitti agiti senza la mediazione dei corpi? Quanto e come gioca l’autorità nell’amministrazione di un gruppo, che ha in mano il potere di ammettere o respingere, bannare partecipanti, dare una direzione alla discussione, seguendo o meno una proposta?
Sono domande che ci portano dritte alla politica delle donne in rete, che è anche la scommessa pionieristica che ha fatto nascere il sito della Libreria delle donne di Milano, diventato maggiorenne quest’anno (ed è diventata una ragazza stupenda, profonda, matura e interessante, si regge sulle sue gambe, senza bisogno delle sue madri, come ogni creatura dovrebbe fare). Il sito si è affacciato per la prima volta in rete il 6 febbraio del 2001, in una notte di passione politica tra due donne, eravamo io e Sara Gandini, chine davanti a un computer, immerse nel codice html (era il web 1.0!). Pionieristico per la sperimentazione del linguaggio, il gioco e l’invenzione: per esempio site amiche e mappamonda sono termini che oggi fanno parte di noi, suonano familiari, sono usati anche da altri. Allora ha voluto dire trovarsi, pensare, progettare, inventare insieme, cercare le mosse politiche giuste per dare alla rete una misura che fosse nostra. Questa è la politica delle donne, trovare il modo per stare con agio lì dove si è, portare lì dove si è la dirompenza di un pensiero e una pratica.
Altre realtà sono state pionieristiche e importanti per il femminismo in rete, per esempio a Bologna il Server Donne e la rete Lilith, con una ricerca importantissima e condivisa anche a livello internazionale che ha portato alla creazione di basi-dati bibliografiche e archivistiche dei documenti delle donne. Sì, perché classificare in internet documenti e dati secondo categorie pensate dalle donne per donne e uomini non è banale né scontato, e soprattutto ce n’è ancora un gran bisogno. Le bolognesi sono state davvero delle pioniere, sono partite all’inizio degli anni ’90 a riflettere su questi temi e mettere in campo alternative. Sto pensando al loro lavoro rispetto ai risultati delle ricerche del motore Google, che allora più di ora nascondeva le donne, letteralmente, non uscivano risultati con le parole declinate al femminile. Hanno quindi messo in linea la macchina femminista “Cercatrici di rete”, un motore di ricerca che aveva l’ambizione di “sputare su Google” come pratica tecno-femminista (è stata Marzia Vaccari a parlarne in questi termini).
Abbiamo appena pubblicato nel sito della Libreria delle donne di Milano un articolo tratto dal Sole 24 ore Dove sono le donne su Wikipedia? Il gender gap della più grande enciclopedia virtuale: sono passati vent’anni e il lavoro da fare è ancora tanto. La voce della rete Lilith è finalmente in wikipedia, quella della Libreria delle donne è incompleta e ogni volta che sottomettiamo revisioni le respingono.
Oggi la tecnologia è andata avanti e il tema grosso non è più quello dei motori di ricerca ma dell’intelligenza artificiale e dei dati. Sto leggendo un libro molto bello, Armi di distruzione matematica di Cathy O’Neil (Giunti, 2017), matematica ed esperta finanziaria. Gli algoritmi sono «armi pericolose, giudicano insegnanti e studenti, vagliano curricula, stabiliscono se concedere o negare prestiti, valutano l’operato dei lavoratori, influenzano gli elettori, monitorano la nostra salute». Sono temi complessi, con implicazioni economiche e di potere.
Il punto è che le ICT sono pervasive e hanno un potenziale enorme. Le imprese e la politica ne vedono le opportunità, anche quelle economiche, tanto che l’Unione Europea ha predisposto qualche anno fa un piano per la crescita con obiettivi da raggiungere entro il 2020. Uno dei punti è l’Agenda Digitale che vuole sfruttare il potenziale delle ICT per la crescita dei paesi membri. Concretamente significa investimenti per le infrastrutture di rete, sviluppo di piattaforme per la fatturazione e il pagamento elettronico, possibilità che dati e programmi della Pubblica Amministrazione si possano parlare (pensiamo al fascicolo sanitario, che raccoglie gli esami, le visite, le prenotazioni, tutte informazioni consultabili anche dal medico di base, accessibili ovunque perché in formato elettronico). C’è anche un tema culturale, di aumento dell’alfabetizzazione, delle competenze e dell’inclusione nel mondo digitale per arrivare a un aumento dell’impegno pubblico dei cittadini, proprio attraverso le piattaforme e i programmi digitali.
Tutto ciò fa capire che quando si parla di ICT si muovono enormi investimenti, di soldi e non solo, e succede su sfera globale: l’Agenda Digitale è stata concepita dopo la grande crisi economica del 2008, come una leva per risollevare l’economia e come possibilità di competere con le grandi potenze occidentali, USA e Giappone, nel digitale.
Se penso a quando ho iniziato io a lavorare nell’informatica, le cose sono cambiate radicalmente. L’ambito di cui mi occupo è ancora molto segnato dalla presenza maschile, ma in generale la situazione è decisamente favorevole per le donne. Non si tratta solo di numeri, di presenza. Si lega tutto alla trasformazione radicale della realtà fatta dal digitale. Se pensiamo al lavoro, il tema delle competenze assume un ruolo centrale: alcuni studi (sempre commissionati dall’Europa) stimano che nei prossimi anni le competenze digitali saranno prerequisito di accesso per l’85/90% delle professioni. Le ragazze studiano di più e meglio e risultano quindi avvantaggiate. Il nuovo spazio pubblico creato dalla rete, di dibattito, di aggregazione, di opinione, è anche spazio economico, che abbatte molte barriere all’imprenditoria e al commercio, anche nei paesi non occidentali. Sono meccanismi del mondo digitale che agiscono sulle donne in modo diverso rispetto agli uomini, come rileva brand eins, una rivista tedesca di business innovativo, ripresa da Internazionale (12/4/2019), diventano nuove opportunità imprenditoriali perché abbassano le barriere di accesso a molti business, che di solito penalizzano le donne. Come sappiamo bene dalla ricerca del Gruppo lavoro della Libreria, cambiare le cose nel “vecchio” mercato del lavoro è complesso e richiede molto tempo, perché si devono scardinare meccanismi antichi. Adesso si è aperto un nuovo mondo, costituito dall’economia digitale, e le donne ne possono essere protagoniste. Nel 2017 l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) ha svolto un’analisi per capire se la trasformazione digitale rafforzerà o indebolirà la posizione delle donne nel mercato del lavoro (Going digital: the future of work for women) prendendo in considerazione principalmente due variabili proprie della digitalizzazione: l’automazione e la maggiore flessibilità nelle modalità e negli orari di lavoro. Come sappiamo, la flessibilità è amica delle donne, innanzi tutto per quello che il gruppo lavoro ha chiamato il doppio sì, la possibilità di tenere insieme lavoro produttivo e maternità, cura affetti. La ricerca ha anche rilevato che dove c’è più flessibilità, diminuisce il divario retributivo tra donne e uomini.
Quali risposte politiche e culturali, è una delle domande su cui la redazione di Via Dogana 3 ci chiede di riflettere oggi. Vedo una possibile risposta nello sviluppo delle competenze nell’ambito ICT, accompagnato da un pensiero sessuato. Cultura umanistica messa al lavoro con la cultura scientifica e pensiero che tiene in conto la differenza sessuale, vedo qui una chiave politica. Per le bambine e le ragazze è importante non solo fruire la tecnologia ma mettersi in un atteggiamento attivo. Per esempio, mia figlia da qualche anno sperimenta il “coding”, ovvero le basi della programmazione informatica, che insegna a “dialogare” con il computer, a dare alla macchina comandi in modo semplice e intuitivo. È un linguaggio, da imparare al pari di altri, perché è la conoscenza e la multidisciplinarietà che possono darci una strada. Ho in mente Eleonora Gargiulo, giovane fondatrice di Wher, l’app che permette alle donne di muoversi in città in maniera più consapevole, premiata alla recente Digital Week milanese. Alla domanda cos’è per te una città a misura di donna, la sua risposta è politica nel senso femminista del termine, consapevole e attivo, non vittimistico, visionario senza essere lontano dalla realtà: «È un sogno, è la visione di Wher, ciò verso cui tendiamo ogni giorno. Una città a misura di donna è una città che tiene in considerazione i modi e i tempi in cui le donne usufruiscono della città, è una città in cui il benessere percepito e la gentilezza – intesa come bellezza dei rapporti umani – vengono valorizzati e realizzati concretamente. Diciamo sempre che se una città è a misura di donna, è a misura di tutti.»
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019
Nella nostra epoca di trasformazione digitale, sperimentiamo di persona come siano venute meno le classiche mediazioni (spazio, tempo, presenza) che ci davano il senso della realtà. Non per questo lo stiamo perdendo, ma siamo in difficoltà: tutti, tutte ne risentono in qualche modo.
In questi giorni infatti, ne ha risentito in modo pesante la leader dei democristiani tedeschi Annegret Kramp-Karrenbauer. Nelle elezioni europee si è giocata la fiducia di molti giovani elettori/elettrici perché non ha saputo reagire adeguatamente a un video su you tube di un famoso influencer che aveva invitato a non votare la CDU: La presidente del partito ha chiesto che le regole sulle campagne elettorali che valgono per la stampa e la Tv dovrebbero valere anche nel mondo digitale, e le venne subito rimproverato di essere una politica incapace, di avere una visione obsoleta del mondo, di ignorare che la rete è nella realtà e ha cambiato profondamente la comunicazione.
Questo esempio fa vedere che oggi c’è una difficoltà a muoversi in una situazione storicamente nuova che ha fatto saltare molte certezze.
“La rete è nella nostra realtà. Come starci?” così avevamo intitolato un incontro della redazione di VD3 nel mese di novembre 2017 (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-rete-e-nella-nostra-realta-come-starci-introduzione/). Oggi riprendiamo questa riflessione perché sentiamo il bisogno di tenere viva l’attenzione e di osservare cosa succede a noi: la rete stessa si trova in continua trasformazione e questo si ripercuote sulla nostra percezione della realtà, le nostre relazioni, i nostri comportamenti e il nostro pensiero, per giunta sul nostro cervello, spesso in modo impercettibile. Molte delle questioni che sono state poste un anno e mezzo fa nei contributi introduttivi ci occupano ancora:
Vorrei richiamare solo alcuni aspetti. Nel primo intervento Tahereh Toluian ci parlava del suo coinvolgimento nei social che sono diventati per lei un vero e proprio luogo di incontro, dove possono accadere eventi imprevisti che aprono a nuove possibilità. Raccontava anche di esperienze di frustrazione e di estraneità davanti alla logica della contrapposizione e del narcisismo che domina la discussione nei social, del rischio di creare delle bolle, dei micromondi, della “logica algoritmica che cancella i desideri e le ambizioni”. Uno spostamento per lei era avvenuto quando Sara Gandini era intervenuta in un dibattito Facebook e ha portato un pensiero per lei nuovo che dopo l’ha anche convogliata in Libreria (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/26570-2/).
Loretta Borrelli invece parlava dal punto di vista di una programmatrice, di una che possiede una competenza tecnica e professionale. La sua prima esperienza di donna che lavora nell’informatica è stato il disagio, il non sapere come starci, in quel pensiero che escludeva qualsiasi differenza. Leggendo il libro L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro ha ritrovato quella sensazione di non trovarsi da nessuna parte, e più avanti ha capito “che aveva un’autorità anche di accettare la necessità dei fatti” (http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-rete-e-nella-nostra-realta-come-starci-loretta-borrelli/).
Ho richiamato solo qualche frammento dei due interventi, che consiglio di rileggere sul nostro sito per la precisione e la radicalità con la quale affrontano la questione. Uno degli aspetti che mi hanno colpito era che la prima esordisce dicendo di non avere competenze informatiche, la seconda sicuramente è una “competente”: tutte e due dichiarano la propria estraneità e il disagio nel mondo del web/dell’informatica e come hanno trovato un modo per affermare la propria soggettività nelle parole e nelle relazioni con altre.
Questo mi ha convinta che non devo lasciare spazio alla sensazione di incompetenza che spesso mi prende nei confronti della rete: ho capito che non si tratta di questo. Per molto tempo mi ero anche illusa di potermi tener fuori dalla logica della rete, semplicemente non frequentando i social, che peraltro non mi attiravano neanche, o di poterla usare come strumento: ormai sono convinta che anch’io sono dentro fino al collo. Non si tratta più della questione di frequentarla con maggiore o minore intensità, di vederla come uno dei tanti canali di comunicazione, come se io fossi qui e la rete di là. Non posso dire semplicemente sì o no alla rete, perché la rete c’è, e in questa necessità dei fatti vogliamo, anzi, dobbiamo giocarci.
Una che secondo me si gioca bene è la giornalista e blogger tedesca Antje Schrupp, che da tanti anni è attiva in rete e che riflette anche il suo agire: postare brevi commenti sulle cose, anche piccole, non spettacolari, per lei è diventato un “pensare in pubblico”, perché “pensare non funziona nel cervello isolato di una singola persona, ma nello scambio permanente con il mondo e con altre persone”.
E non lo fa per avere il numero massimo di Like, invece guarda bene da chi vengono questi pollici in su o chi riprende il suo pensiero; se sono persone alle quali lei attribuisce autorità, le prende in considerazione. Quindi sta dentro alla macchina facendo delle cose non previste dalla macchina. Un’indicazione come fare della necessità un’occasione per quello che le interessa.
Pensiamo ora come fare della necessità un’occasione per quello che interessa a me, a te, a te a te, a te, a te….
Per continuare il dibattito in presenza abbiamo invitato:
Ilaria Durigon, che insieme con Laura Capuzzo ha dato vita nel 2004 a una libreria delle donne che da allora è attivissima, Lìbrati, a Padova. Ilaria ci racconterà in che modo la rete fa parte del loro progetto.
Laura Colombo, che insieme a Sara Gandini ha dato vita al nostro sito web www.libreriadelledonne.it, oggi parte integrante dell’attività della Libreria. Laura è anche nella sua vita professionale coinvolta nell’informatica come responsabile del settore sistemi e infrastrutture, direzione IT all’università degli studi di Milano.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019
Domenica 2 giugno 2019 ore 10.00-13.30
La trasformazione digitale sta radicalmente cambiando il mondo del lavoro, l’economia, la politica, il rapporto con noi stesse e con le altre e gli altri.
Che ci siano dei rischi e delle insidie è sotto gli occhi di tutti e sperimentiamo di persona come siano venute meno le classiche mediazioni (spazio, tempo, presenza) che ci davano il senso della realtà. Non per questo lo stiamo perdendo, ma siamo in difficoltà: tutti, tutte ne risentono in qualche modo.
Con questa consapevolezza vogliamo andare oltre le discussioni pro o contro il digitale e porci nuove domande:
– come fare di questa necessità un’occasione per quello che ci interessa?
– come trovare buone risposte politiche e culturali?
Avvieranno la discussione Laura Colombo e Ilaria Durigon.
Facciamo parte dell’Associazione Parco Piazza d’Armi Le Giardiniere. Una scommessa, la nostra, azzardata fin dall’inizio: togliere alla speculazione e al cemento la più grande area verde oggi esistente a Milano, una ex area militare di 43 ettari (la Piazza d’Armi di Baggio), oggi vera oasi naturalistica, su cui tuttora insiste un progetto di edificazione di ca. 4.000 appartamenti.
Una cosa abbiamo capito in questi otto anni di esperienza politica: che non saremmo in grado di fare una pratica diversa da quella che, nel corso del tempo, si è venuta via via costruendo, un po’ diretta da noi, un po’ di conseguenza, come quando si fa un passo dopo l’altro e la strada si fa facendola.
Per questa pratica sono stati necessari: un riferimento genealogico e un nome (le Giardiniere, gruppi di donne carbonare attive a Milano e a Napoli nei moti risorgimentali del 1821); l’uscita dal recinto delle Pari Opportunità (siamo nate come uno dei Tavoli fortemente voluti da Anita Sonego, già coordinatrice della Commissione P.O. del Comune di Milano e nostra appassionata madrina e sostenitrice) dal cui orizzonte – Consultori, Spazi di donne, Lavoro femminile, Violenza – ci siamo smarcate preferendovi quello universale/individuale della salute e quello del “primum vivere”, per noi e per la città; il rapporto con altre donne da noi ritenute più avanti (amministratrici, esperte di settore, militanti dell’ambientalismo); la partecipazione puntuale a tutte le occasioni pubbliche dove possiamo imparare nonché comunicare la nostra esperienza; la scelta di lavorare, già da ora, con realtà associative e individuali alla costruzione di un progetto di riuso sostenibile (RIMANI, Rigenerazione Manutenzione Innovazione), pur senza alcuna garanzia futura; l’interlocuzione con l’Amministrazione pubblica nazionale, locale e di zona; il collegamento con le realtà del territorio e le formazioni politiche; l’attenzione alle relazioni (fuori e dentro il nostro gruppo).
Si va avanti, un po’ con soddisfazione, altre volte con frustrazione. Come quando ci sembra che non ci sia più strada, ma solo un muro davanti, e allora si cercano spiragli, fessure dove introdursi per riaprire brecce e speranze. Siamo in dieci, più o meno come quando siamo partite, ma ci sono stati conflitti, uscite ed entrate. Il conflitto fa paura… infatti lo temiamo, anche se abbiamo capito che è inevitabile: dentro noi stesse (intra), nel gruppo (inter), tra il gruppo e gli altri (versus). Naturalmente c’è acceso confronto anche sul grado di elasticità della corda: c’è chi la vorrebbe spezzare prima, chi dopo, chi mai. Ad esempio: le uscite dal gruppo non sono state tutte volontarie. Alcune si chiedono, ancor oggi, se sarebbero state possibili mediazioni più accurate rispetto alla normale dialettica IO-TU-NOI, quali pause di riflessione, sospensioni temporanee concordate, diverse modalità di collaborazione al posto della totale interruzione dei rapporti.
Altro esempio, su cui è tuttora in corso un vivace confronto tra di noi (una socia è uscita per divergenza su questo punto, altre non partecipano più alle riunioni in zona), è quello del rapporto con i gruppi politici del territorio che hanno preso a cuore, come noi ma parecchi anni dopo di noi, l’area della Piazza d’Armi. Sono realtà contrassegnate da una pratica politica di pressione/contrapposizione, che si esprime con linguaggio belligerante e sfidante, anche se – lo riconosciamo – più mitigato e ironico rispetto a quello degli anni ’70. Ma il più delle volte incompatibile, non con gli obiettivi, ma con il nostro sentire e le nostre parole. Un sentire e un linguaggio, ilnostro, che dai gruppi politici viene vissuto come inopportuno,quando non ingenuo o – peggio – “oggettivamente”collaborazionista.
Ma non sapremmo fare altrimenti. Là dove si ergono fronti e steccati, noi apriamo e dialoghiamo con tutti, dovunque e comunque; là dove si scommette su complotti e doppi giochi, noi stiamo alle parole spese e allo stato reale delle relazioni che abbiamo intrecciato. Ma vigilando… Anche con l’Amministrazione infatti siamo sempre in campana: ora stiamo collaborando, insieme alle maggiori associazioni ambientaliste, a un Tavolo istituzionale di progettazione della parte verde della Piazza d’Armi, ma… che controllo abbiamo sulla superficie già destinata all’edificazione dal vecchio come dal nuovo PGT?
È ovvio che la sproporzione tra noi e la controparte è fortissima: c’è in gioco un grande business, dell’ordine di un miliardo di euro. Le ragioni della forza sono le solite: il debito pubblico da risanare (il terreno, ora smilitarizzato, appartiene al Demanio Civile che deve fare cassa con le privatizzazioni), il bisogno di appartamenti in una città con un trend abitativo in crescita (?), mentre la forza della ragione ha avuto un sussulto grazie a Greta e al movimento mondiale contro i cambiamenti climatici. Che però non investe ancora appieno la coscienza di chi ci governa, ostaggio della ben nota schizofrenia per cui alle parole seguono fatti che le contraddicono.
A tutt’oggi non sappiamo se la nostra pratica di relazioni sempre e comunque, ostinata e realistica, dialogante e radicale, riuscirà a portare a casa qualcosa per noi, per le future generazioni, per Milano.
Sappiamo che non potremmo farne un’altra: non solo perché abbiamo quasi l’età degli ulivi del Salento, ma perché è quella che più ci piace, ci soddisfa, ci ha aperto tante porte e finestre sul mondo, ci ha fatto crescere senza venire meno al nostro sentire e alle nostre parole di donne.
Per noi la Piazza d’Armi non è solo un luogo da difendere e tutelare o, peggio, un “vuoto urbano”, noi la Piazza d’Armi, coi suoi vecchi magazzini militari anni ’30, il suo bosco, le radure, la zona umida, i leprotti, i fagiani e gli uccelli, anfibi e rettili compresi, la amiamo.
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