Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020


Premessa: è il cammino che cambia il paesaggio

Una breve premessa, necessaria per guardare a quelle contraddizioni pressanti, le alternative degli orrori, quel “o la borsa o la vita” a cui siamo messe/i di fronte e che vengono riprese anche nell’invito a questo incontro.

Credo sia importante ribadire – per me lo è – che le donne non hanno le risposte per risolvere le contraddizioni. Le donne sono la condizione necessaria perché gli umani – di più, i viventi – convivano senza distruggersi nelle loro radicali differenze. Ogni tanto ci facciamo prendere la mano dall’onnipotenza femminile, il desiderio di essere la soluzione di tutto. Noi non vogliamo risolvere le alternative degli orrori, la borsa o la vita: vogliamo stare attivamente nelle contraddizioni. È nelle situazioni che si contratta, avendo come punti di riferimento stare intere – pretendere, almeno in prospettiva, di starci intere – e stare in rapporto con altre donne, valorizzare le donne. Questo ci potrebbe consentire di avere autorità sufficiente per affrontare situazioni forti e di potere. Stare nella realtà è la condizione, non avere le risposte.

È il cammino che cambia il paesaggio. Il senso libero della differenza di ognuna e ognuno di noi (uomini e donne siamo tutti in cammino) non è una identità fissa a cui appellarsi, una norma o un diritto. È un processo. Conta il camminare non la meta. Nel senso che camminando e misurando i passi l’un dell’altro, cambi il paesaggio. Come abbiamo detto: attraversare le distanze per generare la differenza.


Suggestione: il maschile viene dagli animali, il femminile viene dalle piante
Non è un’affermazione scientifica ovviamente. Ma è un’immagine che mi è venuta alla mente e mi pare utile. Un altro modo di parlare di quel cambio di civiltà che ci preme e che appare sempre più necessario/inevitabile.

Avrete notato che negli ultimi anni si è sviluppata una grande attenzione al mondo delle piante, si moltiplicano i libri che parlano di alberi, cresce l’attenzione alla biomassa vegetale che è la parte decisamente preponderante della biomassa visibile. La botanica ha messo in discussione il secolare predominio della zoologia. Come se avesse vinto un secolare senso di inferiorità rispetto alla zoologia… Un cambio di civiltà che metto in parallelo all’emergere del femminile.

Due elementi in particolare mi sollecitano: l’intelligenza delle piante non è concentrata in un organo/cervello ma è diffusa nei corpi (Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante). Anche il pensiero delle donne nella ricerca di libertà è profondamente radicato nei corpi. Il secondo elemento è che la vita delle piante è cooperativa o non è e si intreccia con la vita dell’altro come avviene nel corpo materno: “Le piante ci mostrano che i viventi costruiscono e iniziano una vita che alimenterà e vivificherà altri viventi che se stessi, che renderà vivi altri soggetti” (Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza; Riccardo Venturi, intervista con Emanuele Coccia, sul sito doppiozero). Come spiega Coccia: “Se le piante sono diventate paradigmi non è solo perché non sono animali, ma perché incarnano una forma di sociabilità diversa da quella che abbiamo cercato di instaurare. La pianta incarna una forma di vita che è politicamente più importante oggi di quanto lo siano gli animali. O se vuoi, essa rende più visibile un aspetto della vita sul pianeta che l’animale occulta o presuppone senza darla a vedere in modo esplicito, almeno non attivamente”. Ecco, sostituite a piante/animali femminile/maschile: funziona.

Un’altra suggestione: “Da questo punto di vista anche la relazione fondamentale che definisce il rapporto tra umano e nonumano non è più la caccia, il pastorato o l’agricoltura, ma una certa forma di giardinaggio”. Mi piace l’idea del giardinaggio perché la trovo contigua a quella di manutenzione. “L’arte della manutenzione dell’esistenza” abbiamo scritto in Immagina che il lavoro: con la parola manutenzione non volevamo certo sminuire o banalizzare quello che in genere è chiamato lavoro di cura, ma significare una postura di forte rispetto per l’altro. Capire come funziona e come relazionarsi perché possa continuare a funzionare, continuare ad avere vita propria (manutenzione del territorio, non grandi opere!).


L’orizzonte politico

Un cambio di passo che già avviene e che rimane insieme necessario e urgente, disponibile per donne e uomini. Per questo dico che è il cammino che cambia il paesaggio, perché se tu stai nella realtà e ci stai con lo sguardo e il passo libero, cambi quella realtà. Se le cose sono viste e dette la realtà cambia.

Questo vuol dire anche che, se andiamo in cerca di nuovi paradigmi di convivenza, lì spesso ci troviamo le donne. Ma è vero anche il contrario: se ci spacciano qualcosa per rinascita e nuovo paradigma e le donne non ci sono, c’è qualcosa che non torna, ed è giusto dirlo. Anche quando accade in contesti che magari non ci interessano tanto. Per questo non mi stanno bene i distinguo: “non ci interessa stare nelle task force”. Questi sono segnali di misoginia, ed è sempre importante svelare la misoginia.

Di più: oggi lo si può fare da una posizione di forza e autorevolezza. Il che significa non solo essere lontane anni luce dalla posizione della vittima, ma smarcarsi anche dalla connotazione “di genere” e da quella “femminista”. Voglio dire che i tempi sono maturi per dire che la misoginia è segnale di miopia politica e culturale tout court. Non si può immaginare rinnovamento politico economico e dei rapporti sociali senza fare spazio a ciò che le donne hanno da dire.


Agire politica 1: svelare la misoginia al lavoro

Svelare la misoginia, come ci ha ricordato il #MeToo, è un agire politico importante. Ce lo ricordano le donne al lavoro, sindacaliste e manager: bisogna imparare a vedere e nominare la misoginia “anche quella carina” quella che negli ambienti di lavoro è ammantata di gentilezze e attenzioni, ma vuole definire il posto delle donne. Senza vedere come vogliono cambiare lavoro, governo delle aziende e contrattazione. Dunque tenere alto il livello di attenzione, perché questa componente rimane forte.

Tanto più con la pandemia e il lockdown/confinamento domestico. C’è infatti una muova misoginia che sta rialzando la testa negli ambienti di lavoro, che cerca di riconquistare il territorio ri-confinando le donne. Ma leggo come misoginia anche quella che si è manifestata nelle case. Certamente ci sono stati tanti uomini che, messi di fronte alle necessità, ne hanno preso atto e cercano di esserci. Ma leggo in una recentissima indagine che il 42% degli uomini continua a pensare che il lavoro domestico sia un compito da donne.

Su questo punto mi è piaciuto che Laurie Penny, su Internazionale (n.1361, 5 giugno 2020), abbia auspicato un #MeToo del lavoro domestico. Non c’è da aspettare una diversa organizzazione del lavoro che risolva questo nodo. Bisogna, come nel #MeToo, dirlo pubblicamente e ribadire che è una forma di misoginia non più accettabile.

Leggo come miopia dettata da misoginia anche il fatto che pareri e valutazioni maschili sulla esperienza del lavoro da casa rispetto al lavoro in azienda raramente prendano in considerazione gli aspetti di intreccio con il lavoro domestico e di cura. Soppesano isolamento e relazioni, comfort e tempi, caffè con la moka o macchinetta con i colleghi. Altro non viene in mente. Quel mix rimane patrimonio primario e quasi esclusivo dell’esperienza delle donne.

Quindi teniamo alta l’attenzione su vecchia e nuova misoginia: sia quella carina e politicamente corretta sia quella vecchio stampo che rialza la testa, nelle aziende e nelle case.


Agire politica 2: contrattare il lavoro dal punto di vista dei luoghi e dei tempi (sw e digitalizzazione)

Questa inedita focalizzazione sullo smartworking è importante e lo resterà in futuro. Ho visto recentemente che un grande magazzino ha già il reparto abbigliamento ad hoc con un grande cartello “smart work”: dunque come devi vestirti per lavorare da casa. L’occasione per alcune aziende – molte, non tutte – è ghiotta: la riduzione dei costi può essere molto attrattiva.

È una rivoluzione che si sta avviando. Non pensiamo di avere già tutte le idee chiare. La valutazione delle donne che sono immerse in questi ambienti di lavoro dice che può essere una grande opportunità ma anche un boomerang. E il lavoro smart può essere intelligente ma spesso è solo furbetto. Le due facce sono entrambe presenti: si tratta di capire come riusciremo ad affrontare questa vicenda.

Tra i segnali preoccupanti, ad esempio, mi segnalava Luisa Pogliana l’emergere di una inedita figura di top management: Chief Smart Working Officer. Attenzione: mentre fino ad ora lo sw è sempre stato affrontato all’interno della contrattazione tra lavoro e azienda, quindi con il coinvolgimento delle Risorse Umane, questa nuova figura è pensata come esigenza aziendale, di una nuova organizzazione del lavoro che consente riduzione di costi.

Questo non vuol dire ovviamente che lo sw non possa essere interessante anche dalla parte del lavoro. Ma io personalmente non do per scontato che per le donne sia sempre più naturale o vantaggioso integrare tutto nello spazio domestico. Nel libro delle metalmeccaniche della Fiom che abbiamo presentato anche in Libreria, Doppio carico, si vedeva chiaramente che ci sono donne che si sentono più forti, presenti e protagoniste al lavoro e altre che sentono che la loro vita è altrove.

Nello sw è contemporaneamente più facile conciliare ma più difficile tenere i confini. Certamente dobbiamo andare avanti a pensarci se vogliamo, com’è imprescindibile, che tutto rimanga oggetto di contrattazione.

L’altro elemento che cambia il lavoro, soprattutto da remoto, è la digitalizzazione. Qui faccio riferimento al libro, segnalatomi da Laura Colombo, La tirannia del tempo – L’accelerazione della vita nel capitalismo digitale, di Judi Wajcman. L’autrice ci invita a tenere conto delle tecnologie digitali anche nelle analisi femministe del rapporto lavoro/merce-lavoro relazionale. Non si tratta di spegnere le macchine, dice JW, ma piuttosto di ripensare il tempo e i rapporti: “la digitalizzazione invita a un radicale ripensamento dei tradizionali termini del dibattito sull’equilibrio tra lavoro e vita privata, in cui il lavoro viene contrapposto alla vita e il pubblico viene contrapposto al privato”. Insomma: come cambia tutto il lavoro necessario per vivere ai tempi della digitalizzazione? Domanda interessante a cui non possiamo sottrarci se vogliamo cominciare ad affrontare il nodo disvelato da Shoshana Zuboff: come sottrarsi alla prevedibilità a cui punta il capitalismo della sorveglianza. Perché il vero prodotto delle connessioni gratuite che usiamo è la possibilità delle piattaforme di cambiare i nostri comportamenti. Ed è su questo che dobbiamo sviluppare intelligenza politica. Anche per ripensare ambiguità e trasformazioni del lavoro di cura.


Immagina uno spazio inedito: ripensare l’abitare

Tutto questo crea un focus nuovo sulla casa e sull’abitare. Qui, secondo me, si potrebbe chiudere il cerchio su qualcosa che noi abbiamo iniziato negli anni ’70. Nelle case ha preso forza l’autocoscienza, che ha generato libertà spezzando la chiusura dello spazio domestico. Da lì le donne si sono mosse nello spazio pubblico mettendo in discussione che cosa è lavoro. Ora la crisi della pandemia ha riportato il focus sullo spazio domestico: la casa è al centro della scena e si è illuminato in modo inedito l’intreccio dei lavori, dei soggetti e delle relazioni. Sempre più cose avverranno nelle case e negli spazi di prossimità: la casa va ripensata perché cambiano le convivenze le coabitazioni i vicinati le singolarità e le solitudini. Le vite si prolungano con bisogni inediti.

Attenzione: non si tratta di ripensare la casa come estensione del luogo di lavoro, come possa essere luogo compiutamente produttivo. Ma di capire che oggi la casa può diventare il luogo che contiene tutto il lavoro necessario per vivere. È la materializzazione di un intreccio indissolubile. L’esperienza delle donne, in questa fase, potrebbe impedire che anche il luogo privato venga sussunto e messo a profitto come luogo di produzione. Ma al contrario che questo intreccio di lavoro/vita/relazioni diventi punto di vista forte su economia e uso della rete. Di più: la casa diventa anche spazio pubblico, certamente uno spazio politico.

Emanuele Coccia, che citavo prima, dice: “La prossima rivoluzione non potrà che essere una rivoluzione domestica. Inutile pensare di cambiare la società se la forma dell’intimità resta legata a modelli sessisti e violenti. Viviamo in spazi patriarcali con concetti femministi: va cambiato tutto. Le case, in senso architettonico e morale, vanno distrutte e ricostruite”.

E allora non posso non pensare alle architette, a Ida Faré, ad Annalisa Marinelli e al suo Etica della cura e progetto. Ricominciamo a pensarci.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020

Nell’articolo “Ripensare il lavoro” scritto per VD3, approfittando degli spazi di riflessione apertisi a partire dagli eventi tragici della pandemia da Covid 19, avevo sottolineato la necessità e l’opportunità di ripensare l’“economia”, il “lavoro”, il “valore”, alla luce delle priorità della vita. Il lockdown, con la decisione da parte di interi Paesi di fermare la maggior parte delle attività produttive mettendo al primo posto la tutela della salute, mi era sembrato un fatto di straordinaria importanza. Simbolicamente un balzo in avanti: l’affermazione dell’esperienza messa in parola dalle donne per cui la vita viene prima di tutto e determina lo sguardo su tutto.

Questo penso sia il vero segno da cogliere e da coltivare. Ed è qui che secondo me si aprono grandi varchi per un ripensamento del presente e per un’apertura al nuovo.
Vorrei perciò ripartire da qui, dalla necessità di una rilettura dei termini “lavoro”, “produttivo”, “valore”, “economia”, “cura” per fare alcune considerazioni che avranno necessariamente il carattere della schematicità, ma che vogliono segnare una pista di riflessione.
Già si è detto di come il lockdown abbia rappresentato una risposta inaspettata alla contrapposizione ricattatoria, che sempre ritorna, tra lavoro e salute. Una risposta inedita a una questione antica: la scelta tra i posti di lavoro e la vita di uomini e donne e di interi territori.
Ma c’è di più. Se da un lato, infatti, moltissimi settori produttivi sono stati fermati durante il periodo del lockdown, tutta una serie di lavori indispensabili alla vita hanno invece continuato a dover essere garantiti, pur nel blocco totale. A parte i lavori sanitari e parasanitari, tutti quei lavori che vanno dall’approvvigionamento di generi alimentari e prodotti di prima necessità, ai trasporti, alla vendita di tali prodotti, alle pulizie, allo smaltimento dei rifiuti, all’insegnamento, all’accudimento di persone fragili e così via, per non parlare di tutte le attività di accudimento tra le pareti domestiche.
Di questo si è parlato molto in questi mesi, non senza sfumature retoriche, e non è quindi il caso di soffermarvisi qui ulteriormente. Quello su cui mi interessa invece riflettere è che, a parte il caso dei medici e di poche altre categorie, parliamo di lavori che nella stragrande maggioranza godono di  una scarsa, in molti casi scarsissima, considerazione sociale e che sono generalmente mal pagati. Sono quei lavori indispensabili alla vita, molto spesso svolti da donne ma non solo, che sono diventati improvvisamente visibili. In maniera speculare, la pandemia ci ha fatto vedere anche con estrema chiarezza, come sotto una lente di ingrandimento, tutta una serie di lavori senza senso e di nessuna utilità sociale, dei quali si potrebbe fare tranquillamente a meno –l’antropologo americano David Graeber li definisce “bullshit jobs” – spesso pagati benissimo e con una grande reputazione sociale.
Voler leggere tutto ciò senza retorica significa affrontare seriamente il tema del “lavoro”, del rapporto tra “lavoro produttivo” e “lavoro riproduttivo”; dei criteri del “valore” – sociale ed economico – dei lavori; in ultima istanza, significa affrontare il tema stesso dell’economia.


Il lavoro produttivo
Innanzitutto c’è da dire che l’idea che il lavoro debba avere come suo tratto concettuale qualificante il produrre cose – quindi la caratterizzazione del lavoro più che come attività in sé come attività finalizzata a produrre, a creare cose – non è affatto scontata. Questa concezione è in qualche modo l’equivalente fantasmatico maschile del partorire, ovvero di fare culturalmente  e mentalmente quello che le donne fanno naturalmente; e allo stesso tempo è l’illusione di agire come il Dio Creatore maschile che con la mera potenza della mente e delle parole ha creato l’intero universo. Così gli uomini si considerano creatori del mondo tramite le loro menti e la loro forza, e riconoscono in ciò l’essenza del “lavoro”, mentre lasciano alle donne la maggior parte dell’effettiva fatica di riordinare, conservare, manutenere le cose per rendere in tal modo possibile questa illusione (D. Graeber, Bullshit jobs, 2018). Ma quest’idea di lavoro, che è quella diffusa nella maggior parte dei Paesi oggi, ha dentro di sé anche un’altra matrice religiosa – derivante dalla punizione divina – che lo rende un atto obbligato e non piacevole di per se stesso. Un’idea del lavoro quindi caratterizzato: 1) dal non essere un’attività fine a se stessa per il puro piacere (come è invece il gioco), ma piuttosto una fatica, un sacrificio necessario; 2) dall’essere finalizzata a produrre cose (anche beni e servizi immateriali, il cosiddetto terziario e terziario avanzato). «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (rivolto uomini). «Moltiplicherò il tuo dolore e le tue gravidanze, con dolore partorirai i figli» (rivolto alle donne) – si legge nella Genesi, nel racconto della Caduta. Il lavoro è dunque la punizione inflitta all’uomo che non ha rispettato le prescrizioni divine (anche nel mito esiodeo di Prometeo la fatica inflitta agli uomini è la conseguenza della trasgressione di Prometeo ai dettami divini), ma anchequanto di più vicino all’atto generativo femminile, a produrre qualcosa dal nulla. E l’etica protestante del lavoro non fa che accentuare questo aspetto del lavoro come dovere e come redenzione al tempo stesso, anche a prescindere dalla ricchezza prodotta, vista come segno del favore divino.
Con lo sviluppo della manifattura, e poi della grande industria sul terreno del modo capitalistico di produzione, e con la divisione sessuale del lavoro, si accentua sempre di più la concezione secondo cui è lavoro quello che produce oggetti nello spazio fisico della manifattura, della fabbrica. Questo, accentuato dall’importanza crescente dei mercati nel processo produttivo stesso, ovvero dal fatto che i beni sono prima di tutto beni per il mercato e quindi il loro valore consiste prevalentemente nel loro essere merci. Il lavoro produttivo quindi è essenzialmente quello che produce merci.
Una volta operata l’equivalenza tra economico e produttivo – nel senso di prodotto del lavoro nelle manifatture – tutto il lavoro che sta fuori dalle manifatture, ma che rende possibile quello stesso lavoro, viene bandito, disconosciuto, e insieme a questo lavoro coloro che lo fanno, prevalentemente donne; viene considerato pre-economico o extra-economico. Lo stesso Marx – la cui analisi pure si concentra sui meccanismi di sfruttamento della forza lavoro operaia e sulle ore di lavoro non retribuito che sono il motore dell’accumulazione capitalistica – quel lavoro non pagato fuori della fabbrica non lo vede proprio e non lo considera nel processo di creazione di valore. Quel lavoro che è oggi, secondo i dati Oxfam (Oxfam briefing paper, 2020, Time to careUnpaid and underpaid care work and the global inequality crisis, in it. Avere cura di noi. Il lavoro di cura non retribuito o sottopagato e crisi globale della disuguaglianza), il motore del capitalismo. L’orizzonte dell’analisi di Marx rimane quello del lavoro salariato nello spazio fisico della manifattura e della grande industria.


Le teorie del valore
Le diverse concezioni del lavoro influenzano certamente anche le teorie del valore.
Dal valore-lavoro di Smith e Ricardo, secondo cui il valore di un bene è dato dal lavoro incorporato in esso, per cui il lavoro è valore e dà valore; allo spostamento con la teoria utilitaristica del valore – il valore-utilità appunto – sempre di più dal valore del processo di lavoro al valore del bene prodotto. Probabilmente questo slittamento è addebitabile proprio al difetto iniziale di riconoscere come lavoro solo il lavoro produttivo, ovvero quello che produce cose (naturalmente non necessariamente materiali). Qui è la radice della svalorizzazione della sfera della riproduzione, della cura della vita, dei lavori delle donne.Sempre di più assistiamo perciò a una migrazione del concetto di valore dal processo lavorativo (e quindi anche dai lavoratori/trici che sono gli attori di quel processo) ai beni prodotti, all’utilità delle merci per i consumatori. Utilità che è ben lungi da essere un valore d’uso bensì è una utilità dettata dalle propensioni dei consumatori che, in un sistema di mercato, sono comunque influenzati dalle volontà dei produttori e dei mercati stessi che orientano secondo i loro interessi.
Le due principali teorie economiche del valore, sostanzialmente antitetiche, la teoria del valore-lavoro, in cui la sostanza del valore è data dal lavoro incorporato nelle merci durante il processo produttivo; e la teoria del valore-utilità – che àncora invece il valore all’utilità del bene stesso, decretata dalle preferenze dei consumatori e quindi dei mercati – sono, in effetti, entrambe accomunate dal fatto che prendono in considerazione sempre il valore dei beni per il mercato e non per il loro valore d’uso. Se apparentemente, quindi, nel caso del valore-utilità il metro è l’utilità del bene, tale utilità, in un sistema di produzione e consumo capitalistico, è sempre limitata e influenzata dalle alternative offerte dai produttori. Pertanto, entrambe le teorie, anche se in modo diverso, rimandano al modo capitalistico di produzione e di riproduzione e alle differenze di potere economico e sociale degli attori in gioco. In entrambi i casi è il rapporto capitalistico a decidere tanto delle tecniche di produzione che delle preferenze dei consumatori all’interno di un processo di produzione e di riproduzione il cui fine non è il valore d’uso bensì il valore di scambio: il profitto. Dunque, il metro del valore di un bene, di un’attività – ed è questo che qui alla fine ci interessa – è la sua scambiabilità sul mercato non in una logica di utilità per la vita, ma in una logica di accrescimento della ricchezza(G. Lunghini, F. Ranchetti, Teorie del valore, Enciclopedia delle Scienze Sociali della Treccani, 1998).


Le politiche di welfare
Anche la filosofia ispiratrice della grande stagione del welfare novecentesco è figlia di una concezione del lavoro inteso sostanzialmente come lavoro produttivo. Frutto del patto tra capitale e lavoro salariato, il welfare state offre appunto tutele alla sfera della vita, della riproduzione – in termini di assistenza sanitaria, istruzione, protezione sociale, e via discorrendo – ma sempre in funzione dell’attività produttiva. In altre parole, tutela la riproduzione per garantire la produzione. A essere tutelati sono i cittadini e le cittadine in quanto lavoratori/rici. Di più: il loro essere lavoratori/rici dà loro a pieno titolo la cittadinanza. Di questa alleanza tra capitale e lavoro salariato si trova la traccia politica evidente, ad esempio, nella La Carta costituzionale italiana, promulgata nel 1947 ed espressione dello Stato sociale, che all’art. 1 recita appunto: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Viene da chiedersi oggi: «quale lavoro?».

Terreni di sperimentazione possibile
E alla luce di questi ragionamenti, si comprendono bene anche le ragioni di una resistenza in verità molto generalizzata rispetto a una misura come quella del reddito di base incondizionato. È una resistenza che si origina e si spiega proprio tenendo in conto la concezione del lavoro e della produttività come sopra intesi. La priorità di garantire livelli essenziali di esistenza e una vita degna per tutte/i non riesce perciò a superare – già solo in linea di principio, prima ancora che siano affrontate le questioni sulla fattibilità pratica – obiezioni legate a una scala di valori e priorità dettate dall’ordine simbolico patriarcale. Avviene così che non ci si scandalizza più di tanto per lo scollamento, che di fatto è già avvenuto, tra prestazione lavorativa e reddito nel caso per esempio delle speculazioni finanziarie che non hanno più alcuna aderenza con i processi di lavoro reali; mentre si è pronti a scandalizzarsi nel caso di misure, come il reddito universale, volte a garantire la dignità della vita per tutte/i. Ha perciò ragione Ina Praetorius quando afferma che non è possibile affrontare il ragionamento sul reddito di base incondizionato senza mettere in discussione questo ordine simbolico e questa idea del lavoro (I. Praetorius, Dreckarbeit – eine Spurensuche in Immer wieder Klartext, in corso di pubblicazione). E d’altra parte la discussione sul reddito di base incondizionato può rappresentare un luogo privilegiato da cui è possibile ripensare il lavoro e cosa debba intendersi per lavoro nel mondo post-patriarcale.
Ma non solo. Può aiutarci a svelare anche altri occultamenti divenuti scontati.
Quello del reddito di base incondizionato mi sembra in effetti un terreno di ragionamento particolarmente efficace e molto fecondo da sperimentare proprio perché si tratta di una questione palesemente di rottura rispetto all’ordine simbolico patriarcale – credo che ciò sia ormai sufficientemente chiaro per quanto detto finora – e che quindi svela in maniera inequivocabile il cambio di prospettiva necessario.
Non così la “cura” che è un concetto che si presta a più ambiguità e trappole e che, a una lettura superficiale, può non apparire così destrutturante. Per certi versi, la cura è anzi un concetto molto rassicurante. Mi spiego così la vasta circolazione della parola “cura” negli ultimi mesi, in vari appelli, manifesti, convegni e via dicendo. È una delle parole che ultimamente sta circolando di più. È chiaro che l’esperienza della pandemia ha avuto un ruolo determinante in questo, e non voglio sottovalutarne l’importanza. Mi desta però sospetto l’uso così diffuso e inoffensivo della parola, che rischia così di essere svuotata di senso. Se si dicesse, per esempio, quando si propone un reddito di base universale, che in realtà si sta mettendo in campo una misura ispirata all’economia come “cura” – perché è di questo che si tratta quando si mette al primo posto la vita, la tutela della vita e della qualità della vita per tutte/i –, sarebbe ancora così inoffensiva la parola “cura”? Credo di no.
Questo è solo un esempio per mostrare che, se si affronta il tema della cura rimanendo all’interno dell’ordine simbolico patriarcale, non si riesce a comprendere la forza scardinanteche questo sapere, questa esperienza porta con sé. Non si tratta perciò, come già più volte sottolineato, di monetizzare i lavori di cura, perché così facendo si rimane nella stessa logica di mercificazione della vita, rischiando di asservire anche la cura alle logiche del mercato – e gli esempi purtroppo sono tanti – mentre comunque poi i lavori di cura non retribuiti rimangono sulle spalle delle donne. Si tratta invece di rileggere completamente l’idea di lavoro, di economia, di valore, alla luce di un’idea di cura che rovescia le priorità acquisite e pone effettivamente la vita al centro, come priorità che determina lo sguardo su tutto il resto, superando la distinzione tra lavori produttivi e lavori riproduttivi. Si tratta di fare tesoro dell’esperienza millenaria, dei saperi e delle lotte che le donne hanno accumulato sul lavoro di riproduzione, conservando un cordone vitale con quelle pratiche e quell’esperienza, per evitare che la parola “cura” si svuoti e perda la sua presa sulla realtà. Come è stato giustamente detto in Libreria nell’incontro di redazione allargata di VD3 dello scorso 4 ottobre, “cura” è una parola delle donne.
E allora, nella libertà del post-patriarcato, tutto viene radicalmente ripensato. Il nuovo è già iniziato, ed eventi straordinari come la pandemia lo rendono improvvisamente visibile, praticabile, possibile; dobbiamo saperlo riconoscere e assumerci la responsabilità di un pezzo della costruzione comune. Incamminarsi nel mondo post-patriarcale può darci l’impressione di intraprendere percorsi temerari, ma solo perché i nostri piedi non li hanno ancora battuti. Ci fa lasciare lidi sicuri per avventurarci in mare aperto. Ma questa è l’unica condizione possibile per approdare a terre nuove.


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020

Nel corso di questo incontro, abbiamo intenzione di affrontare i dualismi perversi della nostra società su cui la pandemia ha gettato una luce più viva, dimostrando quanto sia vitale superarli. A cosa ci riferiamo? Agli aut-aut ricattatori, come quelli che pongono le grandi opere inutili e devastanti come unico modo di rilanciare l’economia dopo il Covid, a discapito dell’ambiente. Come l’opposizione tra salvaguardia dell’occupazione e salute di chi lavora. Ma soprattutto come le false alternative tra lavoro che produce reddito e lavoro gratuito e indispensabile.

Da anni Ina Praetorius ci spiega come non possa esistere un’economia che prescinda dall’aver cura della vita, la pandemia l’ha reso lampante in questi mesi in cui le attività lavorative che si sono rivelate indispensabili sono risultate quelle più legate ai gesti quotidiani: il procurare il cibo (non metaforicamente, nel senso di guadagnare per comprarlo, ma letteralmente: produrlo, distribuirlo e consegnarlo alla gente isolata in casa), l’assistere durante la malattia eccetera. Il lavoro del personale sanitario, di commesse e commessi dei negozi di alimentari, dei fattorini per le consegne a domicilio, delle addette e degli addetti alle pulizie che sanificano gli ambienti, dei braccianti agricoli. Questo, il lavoro meno pagato, più precario e meno prestigioso, è stato quello di cui non abbiamo potuto fare a meno. Non quello degli ingegneri, dei pubblicitari e dei banchieri. Adesso, dopo il confinamento ma in un’emergenza ambientale sempre più acuta, aggiungo alla lista dei lavori di cui non si può fare a meno tutti quelli che servono a frenare il disastro ecologico, a risanare, a prendersi cura dell’ambiente.

Bisogna allora porsi il problema di come si misura (non nel senso di come si quantifica, ma di come si pensa che dia misura a noi e al mondo) il valore del lavoro. La sua misura tradizionale non è la sua utilità sociale, ma il denaro che frutta a chi lo svolge e tutt’al più il tempo di apprendimento che ha richiesto (il titolo di studio). Se l’equo riconoscimento economico non deve mancare a chi svolge compiti preziosi per la vita, l’attuale scala di redditività dei lavori non può essere considerata una valida misura della loro utilità. La definizione di “tutto il lavoro necessario per vivere”, elaborata dalle autrici del manifesto Immagina che il lavoro, indica un’altra misura: quello che è necessario per vivere, pagato e non pagato. Lo dice da anni il femminismo, ma anche gli uomini più sensibili cominciano a rendersene conto. Infatti, anche nel pensiero di alcuni movimenti si comincia a contrapporre idealmente alla società capitalistica una “società della cura”. Cioè, il punto non è più solo il conflitto tra chi produce e chi sfrutta e si appropria del prodotto, ma diventa cosa si produce e perché, e quali lavori oltre alla produzione di merce sono indispensabili all’umanità.

Durante i mesi passati, da un lato si è sviluppata nella società una consapevolezza estesa come mai prima. Dall’altro, i politici non mostrano di vedere fino in fondo l’urgenza di un cambio drastico di passo o di sapere come realizzarlo. Se da una parte sembrano aver capito che dello stato sociale e dei servizi pubblici non si può fare a meno, dall’altro non propongono altro le solite ricette mortifere per “rilanciare l’economia” e non investono nel rilancio della scuola e della sanità. E della crisi economica e delle contraddizioni del governo Confindustria sta cercando di approfittare per portare a fondo un processo di acutizzazione dello sfruttamento di chi lavora, dell’ambiente e del pianeta. Le vicende recenti del rinnovo del contratto della sanità privata e dei messaggi minatori e feroci partiti dall’assemblea nazionale di Confindustria ne sono un chiaro segno.

A livello diffuso, se da una parte c’è voglia di cambiare radicalmente le cose e una consapevolezza più alta che in passato, dall’altra c’è anche voglia di “restaurazione” del precedente regime di consumi sfrenati e di sfruttamento selvaggio. C’è un’attenzione maggiore alle altre e agli altri, un senso di comunità più forte di prima, e al tempo stesso ci sono nuove paure collettive (p.es. la “caccia al jogger” durante il confinamento).

Insomma, siamo a un bivio, ma la visibilità che hanno acquistato il lavoro invisibile e l’esistenza quotidiana rappresenta un’occasione senza precedenti per imboccare la strada giusta. Come coglierla?

Di questi temi discutiamo con Adriana Maestro, Marco Deriu e Giordana Masotto.


Marta Bergman è conosciuta come regista di documentari sulla comunità rom. Il tema del suo primo lungometraggio di finzione trae origine dalle sue esperienze e dagli incontri con le ragazze rom raccontati nei suoi video e nelle sue inchieste.

La storia della giovane rom che sogna un futuro diverso, per sé e per la sua bimba, fuori dalla sua comunità, tocca nodi cruciali che parlano a tutte: il corpo e la sessualità, la misoginia e i pregiudizi, il desiderio d’amore e la relazione tra una donna e un uomo. Nel film, questi temi assumono particolare interesse per l’originalità e l’aderenza alla realtà con cui sono raccontati e messi in scena.

Pamela, la protagonista, ha poche scelte per riuscire a fuggire dalla miseria e dalla desolazione del suo piccolo villaggio vicino a Bucarest. Le prime immagini sono impietose nel dare il quadro di quel luogo: disperazione dell’anima in un concentrato di misoginia e di oppressione. A questo è doveroso aggiungere che Pamela è tutt’altro che una giovane amabile: come bugiarda è irritante, pessima come manipolatrice, inaffidabile nei suoi rapporti con la bimba e la nonna, anche se un sincero attaccamento la lega a entrambe. Dalla sua, a rendercela simpatica, c’è la sua ingenuità infantile, un’esorbitante voglia di vivere mescolata a una potente sensualità, uno smisurato desiderio di amore insieme a una forte carica ribelle.

Nel suo immaginario e nella sua esperienza, la libertà passa attraverso un uomo, un uomo dell’Europa ricca, che cerca attraverso un’agenzia matrimoniale online.

Bruno, la scelta dell’agenzia, è un uomo serio, inibito, poco socievole, gentile e rispettoso, cosa a cui lei non è abituata, che cerca nel matrimonio la prova di una raggiunta maturità sociale, una specie di emancipazione dallo stato giovanile.

Per Pamela il sogno si sgretola nella vita quotidiana con Bruno, in quel pur confortevole appartamento-prigione a Liegi, città estranea e incomprensibile. E tutto questo per cosa?

Dalla comprensione del suo stato, emerge forte il senso di perdita di sé insieme all’amore e al desiderio per la figlia lontana. Sono queste le molle che la spingono a trovare dentro di sé, e non grazie all’aiuto di un uomo, la determinazione per dare un indirizzo diverso alla sua vita e al suo futuro.

È una storia comune, già raccontata, ma il merito della regista, anche sceneggiatrice, sta nella sua creatura: irritante, libera, spiazzante, ma anche determinata e appassionata.

Il film, presentato nella sezione Acid del Festival di Cannes 2019 e al Rome Independent Film Festival dove ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria e il premio alla protagonista Alina Serban come miglior attrice, esce ora nelle sale a causa dell’emergenza Coronavirus di marzo.



Domenica 4 ottobre 2020, ore 10.00


In Libreria, via Pietro Calvi 29 a Milano, con mascherina e prenotazione obbligatoria a:

info@libreriadelledonne.it (indicare nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 4 ottobre 2020”).

Sarà possibile partecipare anche attraverso un collegamento su Zoom, sempre prenotandosi e specificando nella mail se si prenota per la presenza o per il collegamento a distanza.


La necessità di convivere con il coronavirus induce ogni giorno di più a distinguere, nella vita individuale e collettiva, ciò che è essenziale da ciò che non lo è.

A livello diffuso c’è il desiderio di cambiare e una consapevolezza più alta su quanto sia urgente e vitale ripensare il paradigma economico. 

Come spiega bene Ina Praetorius, nell’idea di economia c’è un’ambiguità da cui è tempo di uscire. Con il lockdown, infatti, è salita alla ribalta quell’economia incentrata sul vivere che non si è mai fermata. Popolata soprattutto da donne e da “invisibili” ha mostrato quanto sia indispensabile alla società. Tuttavia, nella ripartenza insiste a prevalere l’altra, quella basata su una presunta razionalità del mercato a cui si attribuisce centralità ed efficacia, ma che mostra invece tutta la sua inadeguatezza a rispondere ai bisogni creati o evidenziati dalla pandemia.

Questa è l’occasione per affrontare e superare alternative spesso ricattatorie, per esempio quella tra lavoro e salute. Per fare scelte che vanno nella giusta direzione ci vuole un orientamento di fondo: il vivere viene prima e determina uno sguardo su tutto.


Incontriamoci per parlare di come si trasformano, alla luce di questa priorità, il lavoro, l’economia, il valore, la cura. Introducono Silvia Baratella, Adriana Maestro, Alberto Leiss, Giordana Masotto.

Dopo giorni, continuo ad avere in testa le immagini, le scene, i volti di questo film bellissimo e continuo a domandarmi il senso di quella valigia grossa e ingombrante che Autumn e sua cugina Skylar si trascinano dietro per tutta la durata del film, su e giù dai pullman, per le scale della metropolitana, lungo strade ingombre e trafficate.

Skylar l’aveva preparata di fretta la sera prima riempiendola di qualche maglione e un paio di jeans per quel viaggio di pochi giorni che le avrebbe portate a New York dalla loro cittadina rurale nel mezzo della Pennsylvania. Lì Autumn avrebbe potuto abortire senza che la madre e il patrigno venissero a saperlo. 

Un tema difficile trattato con grande cura, attenzione e sensibilità dalla regista Eliza Hittman che già nei suoi precedenti lavori (It Felt Like Love, 2013 e Beach Rats, 2017) aveva raccontato dell’adolescenza e dei problemi legati alla sessualità fra le/i giovani.

I dialoghi sono scarni, raccontano di più le immagini. Si soffermano sui volti delle due ragazze con delicatezza, senza voyeurismo; sentiamo e percepiamo i loro stati d’animo, i pensieri, le emozioni. Molti i primi piani che ci spingono a tentare di penetrare l’intimità di Autumn, il suo dolore, la sua insicurezza, la sua confusione, per saperne di più, per capire.

Al suo fianco, fin dal primo momento, c’è sempre Skylar, la pianificatrice del viaggio, mente lucida e razionale, l’amica su cui si può contare che mai ti abbandonerà. Anche qui poche parole, non necessarie: quando esiste una comprensione profonda le cose che si devono fare si fanno, mentre le discussioni sarebbero puro e inutile esercizio. La solidarietà, l’intesa sono dati di fatto, ci sono e scorrono fra loro due naturalmente.

Di Autumn si sa poco. Dalle prime scene – uno spettacolo scolastico, una cena di famiglia, un patrigno aggressivo, una madre preoccupata e stanca – emerge il ritratto di una giovane isolata, non omologata, carattere schivo e timido ma determinato nelle sue scelte.

E fin dalle prime scene la regista mostra immediatamente, pur nei pochi ruoli assegnati nella sceneggiatura, il ritratto di un’umanità maschile dai comportamenti indecenti e molesti.

In Mai raramente a volte sempre tutto è mostrato nella sua essenzialità, nessuna sbavatura, nessuna retorica e ideologia per ottenere consenso, né scene fuori centro; tutto va verso la scena madre, il colloquio di Autumn con la psicologa nella Clinica degli aborti. Qui il film si fa documentario tanto il lavoro della regista è preciso, nelle inquadrature, nei movimenti di macchina, negli stacchi per mostrare il momento in cui Autumn ha coscienza, comprensione di sé, di ciò che le è accaduto. Uno svelamento e una liberazione in un momento di profonda consapevolezza e di conferma delle proprie decisioni.

Non ci dimenticheremo facilmente di questo film e delle due giovani protagoniste, Sydney Flanigan nel ruolo di Autumn e Talia Ryder nel ruolo di Skylar. Le seguo ancora mentre percorrono faticosamente le strade di New York, con la loro assurda valigia alla ricerca della loro meta, senza mangiare né dormire, non vedendo e non percependo nulla del fascino della città, dove tutto scorre indifferentemente. Così vulnerabili ai continui approcci maschili, ma così determinate a evitarli, come dei fastidi che si sa si devono sopportare.

Lo definirei un road movie al contrario, in una costante rivelazione su come lo sguardo di una donna possa aprirci nuovi orizzonti.

Never Rarely Sometimes Always è stato premiato con l’Orso d’Argento, gran premio della giuria, alla Berlinale 2020, e al Sundance Film Festival 2020 con il Dramatic Special Jury Award.


Immaginate di parlare a 57 palline colorate che contengono delle lettere tipo ST, LM, AC, FD, GN… su uno schermo nero. Non solo: immaginate di insegnare loro, a queste palline, la vostra lingua madre. Un’esperienza ai confini della realtà. Questo è stato il mio primo impatto con quella che si chiama dad – didattica a distanza. Quella Elena, quella Francesca, quel Fabio, quel George – tutte quelle persone in carne e ossa conosciute in aula durante il primo semestre, d’un colpo trasformati in palline colorate senza faccia senza corpo e senza voce: infatti, le palline non emettevano suoni.

Finalmente sentivo una voce che ho riconosciuto per quella di una studentessa molto attiva anche nelle lezioni dal vivo: un sollievo! Dalle altre palline non uscivano segni di vita: tutti sembravano spiazzati e intimoriti. E io ero nel pallone. Come riprendere la comunicazione viva che è la natura stessa del mio lavoro? Dad – questo acronimo fa pensare alla parola inglese per “babbo” – ha creato parecchia ansia e disorientamento non solo in me, docente della generazione delle mamme, anzi, delle nonne, ma anche in quella delle figlie e dei figli, i digital natives che credevo superfamiliari con i social, abituati a mandarsi con disinvoltura foto, video e messaggi. Ma ora sento grida di aiuto: «Prof, non mi si apre l’audiofile», «Prof, la vedo ma non la sento», «Prof, non sono riuscito a salvare il compito, ho perso tutto»…
Impreparati e indifesi, ci siamo trovati catapultati in una dimensione sconosciuta. Abbiamo imparato, man mano, a farci vedere davanti alla videocamera. Impossibile vedere 57 facce, al massimo quattro alla volta, le altre rimangono semplici sigle. Una parte di loro, soprattutto ragazze, ha preferito partecipare alle lezioni senza farsi vedere. Dopo mi hanno raccontato che si sentivano impresentabili, in pigiama o non truccate. Ho pensato che sia stata forse una sana autodifesa digitale. Con la videocamera, infatti, invadiamo i loro spazi intimi. Ho sentito dire da una collega: «Ci hanno aperto le loro case e noi abbiamo aperto le nostre». Ma per me è stato tutt’altro che un gentile invito reciproco, è stata una visita imposta. Non mi sento un’ospite gradita quando entro in quelle case e vedo camerette da ragazze, ordinate,  magari con due letti singoli che mi raccontano l’esistenza di una sorella, vedo cani, gatti, scruto mobili e soprammobili che mi raccontano il gusto e lo status sociale della famiglia… Mi sento quasi una guardona.
Il mio imbarazzo cresce all’esame online con sorveglianza individuale: mi sento a disagio a osservare, tramite la videocamera che la candidata è costretta a tenere accesa, la sua faccia tutta concentrata sullo schermo che sarebbe il suo foglio bianco: ogni movimento, ogni reazione, ogni emozione da venti centimetri di distanza! Incluso l’audio! La fronte corrugata, mastica nervosamente un chewing gum, beve distrattamente da una bottiglietta d’acqua mentre continua a fissare lo schermo, digita, sospira… E io distolgo lo sguardo dallo schermo perché mi sembra una tale intrusione, una violenza! Mai nella vita fissi una persona da così vicino tranne in situazioni di grande intimità. Mi dico che io stessa non vorrei essere spiata durante il lavoro del pensare: chi mi è vicina mi ha detto che faccio delle smorfie, degli strani versi… 

Ma la cosa più preoccupante: magari fossi solo io a poter osservare queste espressioni dell’anima e l’ambiente circostante: tutto ciò è carne, sì, carne viva! per i denti di chi raccoglie dati per sviluppare metodi per il riconoscimento vocale, il riconoscimento facciale, l’analisi e la manipolazione dei nostri comportamenti. Chi ha letto Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff si rende conto, già dopo poche pagine, che qui stiamo fornendo materia prima in quantità mai vista. E non si tratta di dati come quelli già raccolti da facebook, con autorappresentazioni abbellite e truccate, ma di emozioni senza filtro. Non possiamo più far finta di non sapere, di ignorare la pervasività e pericolosità di questo sistema di estrazione dati. Bisogna parlarne.
Ora il mio dilemma: la mia idea di insegnamento è quella di creare un ambiente sereno, di incoraggiamento, di scambio e collaborazione; tutto ciò mi sembrava già ostacolato dalla separazione fisica e dalla preoccupazione per il buon funzionamento dei mezzi informatici. Come parlare di questo pericolo di esproprio della nostra esperienza umana, senza aggiungere angoscia alla preoccupazione?
Sento più che mai il bisogno di riflettere insieme, insieme a colleghe e studenti – online, per forza. Dopo quasi quarant’anni di insegnamento dico che davanti a questo scenario nuovo dobbiamo imparare insieme a salvare la nostra esperienza umana. Ho cominciato facendo leva, spontaneamente, su pratiche che per me sono sempre state essenziali: per prima cosa ho intensificato lo scambio con le colleghe (molti nodi “pre-Covid” sono venuti al pettine in questa situazione di emergenza, sono scoppiati conflitti e occasioni di creare chiarezza). Ci siamo aiutate a vicenda nell’affrontare i mezzi tecnologici. Qualcuna sì è anche appassionata e ha scoperto nuove modalità e possibilità didattiche. Abbiamo mostrato la collaborazione e la relazione tra noi docenti, facendoci vedere insieme sul video, e sembra che questo abbia creato un clima di fiducia tra chi doveva affrontare l’esame.
Ciò che è cambiato è la mia postura nei confronti delle/degli studenti: so di navigare a vista e sento il bisogno di trovare un orientamento insieme a loro. Ho proposto, infatti, dopo gli esami, una sessione di riflessione e scambio sul proprio vissuto. Erano in poche (solo chi ha voglia di riflettere partecipa), ed è stato uno scambio intenso: si è creata quella che Chiara Zamboni chiama “comunità del sentire”, è stato quasi un incontro di autocoscienza.
Ora ci dicono che a settembre le lezioni riprenderanno online, e so che un atteggiamento di puro rifiuto non è possibile né sensato. Penso che dalla comunità del sentire debba nascere una comunità di pensiero e invenzione. Il “pensare in presenza” non sarà possibile nella forma che conosciamo noi, ma la riflessione comune è indispensabile: troveremo modalità nuove. Incontrerò una quantità di palline colorate sconosciute, ma sono sicura che vorranno uscire dalla loro esistenza anonima. Sono fiduciosa che attiveranno le loro risorse e la loro creatività, e io con loro, a sperimentare e creare una realtà nuova. 

Vorrei ritornare su alcuni passaggi vissuti durante la pandemia. Si è trattato di una vera e propria esperienza del tutto nuova negli effetti che ha provocato. Le epidemie non sono nuove, ma gli effetti che questa ha creato sono stati una svolta esistenziale e politica da cui non si torna indietro. Si è trattato di un evento, che non si è concluso e che continua ad accadere nel sentire, nel percepire, nel prendere atto di una conoscenza di noi e degli altri molto più attenta. Come per uno stupore che fa aprire gli occhi sulla verità delle cose.

Ricordiamo certo come agli inizi di questo evento ci sia stata una comunità del sentire. Si è trattato di un’esperienza che io non avevo mai sperimentato. Intendo per comunità del sentire il fatto che frammenti di pensieri, immagini, fantasie formavano un tessuto di cui partecipavamo collettivamente. Enumero a caso alcune di queste immagini soggettive e anonime allo stesso tempo. Quello che si temeva, guardando la Cina, era accaduto. Ognuno temeva per sé e contemporaneamente per gli altri e tutti avevano a cuore il benessere proprio e altrui. Ci sentivamo assieme. C’erano regole di comportamento date dal governo e contemporaneamente comprendevamo che dovevamo autoregolarci. Il sentimento della morte, quello della vita e della malattia ci invadevano.

Le infinite testimonianze di vissuti attraverso lettere, racconti, interviste, hanno mostrato come frammenti di inconscio fossero offerti a una lettura comune, pubblica. Un’analisi di tutti con tutti, come è stato osservato da Manuela Fraire.

Alcuni hanno preso atto di questo sentire comune, ma l’hanno fatto in senso critico. Bisognava uscirne. Più d’uno ha sostenuto che questo sentire collettivo era accaduto, ma che era eccezionale, non rappresentava la normalità. Occorreva recuperare lo spazio del pensiero singolare. Perché la normalità sarebbe che l’interno è separato dall’esterno e che il pensare a partire da sé è fondamentale. Ho in mente in particolare un articolo di Emanuele Trevi.

C’è stato invece chi – soprattutto donne – ha avuto nostalgia di questo sentire comune quando si è affievolito. Come se quello fosse la nostra unica e vera casa. La nostra sola patria. Avevamo sperimentato di essere con tutte e tutti vicini e lontani, senza differenza, e ora invece ritornavamo ad essere più comunemente solo qualcuno in rapporto a qualcun altro piuttosto che a contatto con tutti.

Bene, risponderei che il sentire comune, che abbiamo vissuto, è stato un fatto. È stata un’esperienza che, anche se passata, non possiamo dimenticare e ricordiamo bene che cosa ha significato sperimentarla. In un certo senso non finisce fintanto che la teniamo nella nostra memoria vivente. Non solo. Ora sappiamo che è concretamente possibile. Solo che non è ripetibile per decisione della volontà.

In questo modo prendo le distanze dalla posizione di Emanuele Trevi, che a prima vista è molto ragionevole ma che mi sembra esprimere più un’esigenza maschile tradizionale. L’idea cioè che in alcuni momenti drammatici si vive intensamente con gli altri, e poi ognuno ritorna nella casa dell’io. Molto pensiero femminista ha sottolineato invece che la relazione con gli altri è avvertita come un basso continuo dal quale affiorano alcune relazioni per le quali siamo qualcuno in rapporto a qualcun altro, ma anche queste mai del tutto riportabili all’io separato dal tu. L’inconscio, il sentire, il percepire assieme sono abitualmente presenti nella relazione tra donne.

L’io non è così centrale nell’esperienza femminile proprio per questa apertura. In realtà non ho niente contro l’io, che è un pronome personale che tiene assieme linee molto diverse di vissuto. Ha dunque un suo perché. È vero però che, facendo questo, ci separa dagli altri e dal mondo. Fa sembrare inesistenti i legami corporei inconsci con gli altri.

Per questo, nel processo della pandemia, che è tanto ambiguo e in cui accadono cose che non si possono controllare con certezza, chi ha avuto un contraccolpo più forte è stato chi tende a disporre la situazione, facendosi forte di tutto ciò che l’io mette a disposizione: certezze e volontà.

Ora, per le donne, puntare sull’io è più paradossale che per gli uomini. Più straniante. E, se scommettono sull’io, crollano più facilmente. È capitato a me, che sono andata in blocco, la testa da una parte e il corpo dall’altra. È capitato ad una mia amica, impegnata ad aiutare il marito in difficoltà. Ha puntato sull’io per assumersi una grande responsabilità per il bene dell’altro, credendosi forte. È crollata nella forma per cui l’io pieno di buona volontà è andato improvvisamente per suo conto rispetto al corpo che è andato per un’altra strada.

Le amiche che hanno affrontato meglio la pandemia sono quelle che sono rimaste all’interno degli accadimenti senza forzare né con rappresentazioni certe della realtà né con progetti volontaristici dell’io. Vivendo dentro l’ambiguità della situazione, accettando la sua non chiarezza e continuando però a interrogarla. A sperimentarla. A intuire al suo interno forme per una nuova convivenza nel suo sorgere.

In questo tempo così difficile che abbiamo vissuto, e in parte stiamo ancora vivendo, quello che forse di più mi ha colpito è stata la repentinità con cui la nostra vita è cambiata ma soprattutto la plasticità con cui abbiamo risposto modificando completamente le nostre abitudini e l’ordine delle nostre priorità. La pandemia è stata sicuramente un “inaspettato”, anche se sappiamo bene che c’erano tutte le condizioni di preavviso, come hanno dimostrato studi qualificati (molto interessante a questo proposito l’inchiesta di Sabrina Giannini, Il virus è un boomerang, andata in onda nella puntata di Indovina che viene a cena del 29 marzo scorso su Rai 3).

Nonostante ciò, è stata un inatteso per le nostre vite, il cui grado di diffusione è stato proporzionale alla dimensione globale del nostro vivere oggi. Il fatto che le vite di tantissime donne e tantissimi uomini siano state toccate in maniera così profonda ha aperto, allo stesso tempo, uno spazio imprevisto per “ripensare” tutto. Uno spazio che non possiamo consentire che si richiuda “semplicemente”, ammesso che questo sia possibile.
Una delle cose che questa pandemia ha fatto irrompere con prepotenza ineludibile è la centralità della vita e la relazione che c’è tra vita e lavoro. In una maniera inaspettata per le nostre società, tutte improntate al produttivismo, all’efficienza, interi Paesi si sono fermati riconoscendo, di fatto, la priorità della vita rispetto all’efficienza economica.
Sicuramente, vista l’entità della posta e degli interessi in gioco, su questo crinale si sono giocate e si stanno giocando innumerevoli posizioni, sfumature, accentuazioni, opposizioni, rifiuti; così come ci sono state derive autoritarie, securitarie, sovraniste, e via dicendo e su questo bisogna naturalmente vigilare, con grande attenzione. Ma il fatto che interi Paesi abbiano scelto di fermare le loro attività per salvaguardare la vita è una cosa di una portata enorme, impensabile fino a ieri. Simbolicamente è un salto in avanti. È una affermazione dell’esperienza messa in parola dalle donne per cui la vita, fatta di relazioni, di affetti, di socialità, di parole, viene prima di tutto: primum vivere (Immagina che il lavoro – Sottosopra rosso, Libreria delle donne di Milano, 2009).
Per poterne trarre frutto, dobbiamo saperlo vedere. Altro dato significativo è che le zone più colpite sono state, almeno in Italia, quelle con un più intenso grado di “produttività”, cosa sbandierata spesso con una sorta di ottusa sicumera, quasi come il prezzo del soldato al fronte.
Non voglio star qui ad analizzare le possibili cause e interpretazioni, quello che mi interessa è che il fatto che siano state colpite prevalentemente le zone ad intensa attività ha impressionato fortemente l’immaginario di tutti. Una ferita profonda, anche simbolicamente, nel cuore pulsante del sistema produttivo e consumistico globalizzato.
Finché lo scontro tra salute e lavoro – che è una estremizzazione del conflitto tra lavoro e sfera della vita nella sua complessità – è confinato all’interno delle fabbriche o in territori determinati o riguarda le donne tra le mura domestiche o i bambini che si avvelenano scavando con le mani nelle miniere di cobalto, si tratta pur sempre di esperienze per così dire circoscritte, geograficamente e simbolicamente. Quando però il mostro invisibile può colpire chiunque, nella pancia del mondo ricco, allora la storia cambia.
Entra allora con forza nella vita di tutte e di tutti, in maniera ineludibile, la contrapposizione tra lavoro e salute, lavoro e vita, rendendo evidente l’assurdità della separazione tra mondo della produzione e mondo della vita. Contrapposizione frutto di una domanda mal posta: la scelta tra la vita e il lavoro. Mi ha sempre oltremodo stupito la maniera in cui – penso per esempio alla vicenda dell’ex-Ilva di Taranto – vengano poste in contrapposizione la salute dei lavoratori/trici, ma anche di interi territori, e la salvaguardia dei posti di lavoro. È come dire che la morte può essere un effetto collaterale del lavoro, che bisogna scegliere tra lavoro e vita. Ma che domanda è questa? Una contrapposizione del genere è possibile solo entro i confini culturali di una società che immagina il lavoro non al servizio dei bisogni delle persone, ma al servizio dell’arricchimento di pochi, in una logica di mercificazione e non di cura della vita. Il lavoro non può essere contro la vita.
E allora bisogna cercare di intendersi su cosa significa “produttivo”, cosa significa “economia”, che cosa è “valore”, che cosa è “lavoro”, che cosa significa tutto questo per l’esistenza di donne e uomini in carne e ossa.
Quando una pensatrice post-patriarcale come Ina Praetorius scrive che «l’economia è cura» (Altreconomia, 2019), la forza del suo ragionamento è che mette in discussione il concetto di “economia” più che quello di “cura”, perché è l’economia il totem dei nostri tempi. Finché si continua a distinguere tra lavoro produttivo e lavoro di cura, limitandosi solo a rivendicare anche per questo un riconoscimento economico, non si fa il salto, si rimane in una logica residuale, rischiando di asservire anche la cura alle logiche del mercato – e gli esempi purtroppo sono tanti – mentre comunque poi i lavori di cura non retribuiti rimangono esclusivamente un problema delle donne. Bisogna invece ripensare completamente il lavoro, proprio a partire dal suo senso – che è quello di dare risposta ai bisogni fondamentali delle persone –, dalla sua utilità per la vita, con il desiderio e l’ambizione di riunificare produzione e riproduzione. Cambia allora completamente la gerarchia valoriale ed economica dei lavori; cambia l’ordine dei bisogni e delle priorità. Parimenti, l’attenzione alla dignità della vita per se stessa soppianta la dimensione compensatoria delle politiche di welfare che, pur avendo segnato indubbiamente una stagione importante, sono pur sempre l’espressione di un sostegno alla sfera della riproduzione dettato dalla vera preoccupazione che è quella di garantire l’attività produttiva. Filosofia questa che, sappiamo bene, sta tutta dentro la logica del patto tra capitale e lavoro salariato, e quindi è figlia di quell’epoca e di quella cultura del lavoro.
Ripensare invece, alla luce della priorità della vita, “economia”, “lavoro”, “valore” significa un vero cambio di civiltà. Credo che lo spazio di riflessione che gli eventi tragici degli ultimi mesi possono aprire su questi temi sia grande e che sia un guadagno che non va perso.


Probabilmente questa per me resterà la Grande Pandemia globale così come per i miei nonni Grande Guerra si chiamò fino alla fine quella che per i loro discendenti rimasti vivi o nati dopo, diventerà la prima guerra mondiale. Voglio dire semplicemente che non ci sarà un ritorno al prima, ci sarà un dopo chiamato a trarre delle conseguenze e che ci conviene intanto imparare qualcosa. Una prima cosa da imparare, secondo me, è quello che dice Hannah Arendt nel 1972 riflettendo sulla guerra del Vietnam.

Dice: bombardando le strutture industriali del Vietnam del Nord, gli Usa credevano di piegarlo, senza considerare: primo, con che popolo avevano a che fare; secondo, che le strutture industriali non sono decisive in una guerra di guerriglia. Ma la questione è che l’errore di giudizio – prosegue la filosofa – diventò colossale solo perché (come dimostrano i documenti prodotti dagli stessi Usa) nessuno volle correggerlo. A questo punto il suo discorso punta verso l’origine di quello che, a posteriori, si riconosce come l’incapacità o il rifiuto di far ricorso all’esperienza e d’imparare dalla realtà (cfr. Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, a cura di Olivia Guaraldo, traduzione di Veronica Santini, Marietti 1820, 2018, p. 77).

Chi mi legge, sono sicura che è consapevole quanto me, della bontà di far ricorso all’esperienza e d’imparare dalla realtà, tenendo in conto un sapere già acquisito ma senza farne un sostituto dell’imparare dall’esperienza. Nella realtà quotidiana pare che le donne ci riescano meglio degli uomini, ma in politica?

La mia proposta, buona per me e forse anche per altre, è di ricercare, tra sé e sé non senza il contributo di altre o altri, la verità soggettiva. La verità soggettiva è un collegamento vivo, personale, con la realtà che cambia. Ma come si fa a dirla? Molti anni fa si è risposto da alcune inventando la pratica dell’inconscio. Io, senza togliere niente a questa ottima risposta, ripresa recentemente da Chiara Zamboni, Riccardo Fanciullacci e altre/i, faccio un passo indietro e dico: il come preciso non lo so ma cerchiamola praticamente nelle cose che facciamo (o non facciamo), combattendo l’inganno e l’auto-inganno.

Per esempio (e che Silvia Romano mi perdoni di tirarla in ballo): una giovane donna lungamente sequestrata da pericolosi delinquenti, sedicenti mussulmani, torna libera, si presenta in Italia sana e sorridente, ma infagottata in un vestito che, ci viene spiegato, testimonia della sua conversione o passaggio dalla fede cattolica all’islam. Sorpresa generale. Nelle risposte delle femministe, è difficile se non impossibile rintracciare una verità soggettiva: sono soprattutto reazioni, alcune reticenti fino a non dirne una parola, altre scomposte. Eppure, siamo tutte colpite…

Anche la pandemia del nuovo corona virus è una sorpresa, gigantesca. Quale verità soggettiva sta affiorando nelle nostre risposte? È la domanda che pongo a quelle che la trovano sensata.

Per esempio, ho notato la tendenza a scrivere testi che fanno letture, analisi, proposte su quello che sta capitando, chiedendo poi ad altre di sottoscriverli. La raccolta di firme si spiega in tempi di distanziamento sociale. Ma si accorda male con la pratica di parola tra donne poi adottata e potenziata dal femminismo con l’autocoscienza, che non procede alla conta dei numeri. C’è di peggio ed è che il contarsi porta con sé il rischio di schierarsi. Bisogna capire meglio che cosa cerchiamo chiedendo l’accordo di altre. E, in generale, bisogna tornare a interrogarci sul ricorso alla Rete come medium per comunicare, ricorso che per forza di cose si sta estendendo. Una domanda che pongo è questa: che ne è del contrasto che bisogna opporre all’inganno e all’autoinganno? Come si fa?

Un inizio di risposta mi è stato suggerito da un conflitto che molte possono riconoscere e che riassumo brevemente. Si fa avanti una che di cose scientifiche se ne intende, e dice: questa pandemia è una forma d’influenza, un problema di salute ricorrente che abbiamo imparato a tenere a bada. Questa posizione viene respinta con la stessa enfasi con cui si respingono le “teorie” complottiste, cioè senza riconoscere la sua verità parziale che pure sarebbe utile tenere presente.

La verità parziale è tale solo se si esprime con la misura giusta, e questa può essere trovata in un rapporto fiducioso. L’esposizione critica e il giudizio dei pari grado, cioè la pratica propria della società scientifica, non sempre è sufficiente e spesso è impraticabile. Ci vuole anche che ci sia fiducia nel rapporto con l’altro, con l’altra, da guadagnare sul legame gregario del “noi” e sugli auto-inganni dell’Io. La comunicazione digitale consente, mi chiedo, che nasca fiducia critica e autocritica? La Rete si è sviluppata non poco sull’inganno e sulla finzione: la necessità in cui ci troviamo può farsi virtù?

È stata solo un sogno, un miraggio, o forse l’esplosione di un desiderio collettivo, la reazione che all’apparire del Coronavirus ha portato tante e tanti a dare per morto il capitalismo neoliberale? Quel virus biologico, spuntato non si sa ancora esattamente come e da dove, non sapevamo ancora bene quanta malattia e quanta morte avrebbe seminato, ma si capiva fin da subito che aveva la capacità di hackerare in un attimo, come un virus informatico, il sistema – produttivo, ambientale, sanitario, comunicativo – che l’aveva generato. Un microrganismo sconosciuto e tutto è andato in tilt: i sistemi sanitari devastati dai tagli alla spesa pubblica e perciò incapaci di fronteggiare l’emergenza, le linee aeree che prima scorrazzavano per il mondo globale costrette a fermarsi, le filiere della produzione di beni superflui costrette a interrompersi, i guru della finanza sovranazionale incapaci per una volta di fare previsioni, l’inquinamento, perfino, sospeso per lockdown.

Più niente sarà come prima, se n’era dedotto dando per scontato che tutto sarebbe stato meglio di prima. Invece no: tutto si avvia a tornare come prima, se non peggio di prima. Una ripartenza senza rinascita, come suggerisce Via Dogana. E senza ragionevolezza, aggiungo io. L’emergenza essendo stata sanitaria, la fragilità numero uno essendo stata quella del sistema sanitario, la risorsa numero uno essendo stata quella cura del vivente (negli ospedali, nelle case, nell’insegnamento a distanza, ma anche nei campi, nei supermercati, nelle consegne a domicilio) che ci ha mantenuti sani e salvi, sarebbe stato ragionevole “ripartire” appunto da qui: ricostruire un sistema sanitario nazionale universalistico, reinventare il welfare, mettere al mondo quella “società della cura” che scardina il primato della produzione sulla riproduzione e archivia l’etica della prestazione e della concorrenza. Invece no, si riparte dalle ragioni della produzione (di beni che nessuno comprerà) e del profitto sostenute a gran voce da Confindustria, il sistema sanitario resta com’è e per giunta senza neanche l’ombra delle “tre T” che servirebbero per domare davvero l’epidemia, il welfare resta una parola d’altri tempi, il lavoro di cura (femminile) resta senza riconoscimento e senza investimento. Come dice un mio maestro, historia non facit saltus: la storia si ripete, è solo la politica che può introdurre una discontinuità in questa ripetizione. Perché non ci sia ripartenza ma rinascita, perché dal crudele avvertimento della pandemia non si esca col ripristino di ciò che l’ha generata ma con un salto di civiltà, ci vorrà molta politica, e molto conflitto.

Perché le donne siano centrali in questo salto auspicabile e in questo conflitto inevitabile l’ho scritto con altre amiche su questo stesso sito (Salto della speciehttp://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/salto-della-specie/), e per brevità non lo ripeto qui. Vorrei piuttosto ragionare sui guadagni della contingenza-virus (preferisco chiamarla così piuttosto che emergenza, termine carico di troppi significati preconcetti) che possono essere rilanciati politicamente, e sulle pratiche da attivare per fare quel lavoro di elaborazione dell’accaduto che sta a cavallo fra corpo e parola e che nessun altro farà se non lo facciamo noi.

Il guadagno della contingenza-virus sta a mio avviso in uno spostamento della soggettività che si è verificato nel contagio, quando ci siamo sentiti ciascuno/a per l’altro/a, contemporaneamente, salvezza e minaccia, portatori intenzionali di cura o potenziali di infezione, soggetti e oggetti dunque di affetti di segno opposto e indecidibile, che non sono solo nelle nostre mani ma anche in quelle del caso. È stata, è, una sorta di epifania della relazionalità del soggetto, una relazionalità non solo elettiva ma costitutiva che destabilizza l’io, lo sdoppia e lo raddoppia, ne rende porosi i confini, lo altera investendolo dell’alterità dell’altro. Per noi non è certo una novità: la relazionalità del soggetto è un caposaldo del pensiero e della pratica femminista, e in particolare Judith Butler, nei suoi scritti successivi all’11 settembre, ha messo a fuoco questa alterazione dell’io che deriva dalla sua esposizione tanto alla cura quanto alla violenza dell’altro. Ma a me pare che questa alterazione sia diventata, nel contagio, un’esperienza generalizzata e condivisa, una percezione profonda e diffusa capace di modificare il sentire e l’inconscio individuale e sociale, con effetti etici e politici di prima grandezza. Non solo nella prospettiva della società della cura, che nell’essere-per-l’altro del soggetto relazionale ha ovviamente il suo presupposto. Ma anche per i riflessi sulla concezione e la pratica della libertà, che com’è sempre più chiaro è il nocciolo del conflitto sociale che si va delineando in Italia e altrove, un conflitto in cui si fronteggiano e si fronteggeranno, ancora una volta e con espressioni più aspre ed estreme che in passato, la concezione neoliberale di una libertà egocentrata, proprietaria, orientata dal codice economico, e quella di una libertà relazionale, guadagnata politicamente, orientata dalla negoziazione fra sé e l’altro.

Proiettato sul grande schermo della scena politica nazionale e internazionale come scontro fra le destre populiste, industrialiste, suprematiste e antistataliste (l’ultima dagli Usa è la protesta libertarian “No Mask”) da un lato e dall’altro le alleanze sociali e politiche che si stanno costruendo attorno alla tutela della salute, alle pratiche della cura, al ripensamento delle funzioni dello Stato e alla produzione del comune, questo conflitto ha già contrassegnato il vissuto personale della pandemia e del lockdown secondo linee non sempre scontate o prevedibili, e probabilmente riconducibili all’esperienza singolare di ciascuna/o. Voglio dire che se anche nelle comunità intellettuali e politiche che prima della pandemia erano relativamente omogenee ci siamo poi trovate/i a dividerci sul tasso di pericolosità effettivo del coronavirus, sul lockdown come provvedimento autoritario imposto dall’alto o viceversa come pratica di autotutela voluta dal basso, sui tempi e le priorità della “riapertura”, queste divisioni hanno probabilmente a che fare con differenze non tanto o non solo ideologiche ma soprattutto esperienziali, che andrebbero raccontate e confrontate. Di che cosa abbiamo o non abbiamo avuto paura all’apparire del virus? Di chi abbiamo o non abbiamo dovuto o voluto prenderci cura? Con chi abbiamo vissuto durante il lockdown? Chi abbiamo voluto tutelare dal rischio, prima o oltre che noi stesse? Chi e che cosa abbiamo ritenuto che dovesse essere prioritariamente tutelato da parte delle istituzioni? Il confine cruciale che passa fra la rivendicazione della libertà di movimento personale e la rinuncia volontaria alla libertà di mettere a rischio gli altri passa, io credo, attraverso questi dati dell’esperienza singolare, che andrebbero raccontati e confrontati.

Entro da qui in quel lavoro al confine fra corpo e parola che dicevo sopra e che credo spetti a noi fare. L’evento-coronavirus non è stato – non è – soltanto un evento biologico, sanitario, sociale, economico, biopolitico. È stato ed è anche, e in primo luogo, un evento sensoriale, percettivo, emozionale; un evento dell’immaginario e dell’inconscio. Un’alluvione di diari della pandemia ci è piovuta sulla testa dalle pagine dei giornali, dai talk televisivi, dagli instant book già scaduti catapultati nelle librerie prim’ancora che riaprissero: diari talvolta sinceri e spiazzanti, talvolta obbedienti alle regole non scritte della narrazione mediatica mainstream, carica di buoni sentimenti, buoni propositi, buoni valori, buone maniere, abitata sempre da famiglie regolari, animata da una pedagogia fra lo sdolcinato e il paternalista. Niente mi ha colpita più delle rare testimonianze dirette della malattia, il racconto di chi è arrivato in ospedale dopo settimane di febbre, è stato sedato e intubato e racconta lo stato di sospensione fra vita e morte che ha attraversato. O più delle testimonianze strazianti del lutto mancato di chi ha perso qualcuno senza poterlo vedere, stringerli la mano, accompagnarlo nel rito della sepoltura.

Tuttavia molti tasselli mancano ancora. Che cosa ha evocato in noi l’apparizione di un microrganismo sconosciuto? Come lo collochiamo nel nostro modo di pensare il rapporto fra biologia e società, natura e storia? Quali fantasie ha scatenato in noi l’esplosione di una pandemia, che è di per sé una situazione totalizzante, dove non si dà più un altrove in cui scappare fisicamente o con l’immaginazione? Quali sentimenti di tutela, propria e altrui, e quali fobie, nevrosi, idiosincrasie scatena il rischio del contagio? Che cos’è il rischio del contagio di una malattia, per chi come noi ha sempre usato positivamente la metafora del contagio per connotare la diffusione spontanea della presa di pratiche politiche? Perché il Covid-19 mette tanta paura, malgrado il suo tasso di letalità relativamente basso? È una paura artatamente indotta, o ha a che fare propriamente con l’immaginario del contagio, e con le caratteristiche della malattia? Che cos’è una malattia che attacca il respiro, soffoca, e costringe a una incubazione e a una morte solitaria? Com’è cambiato dopo l’impatto con il Covid il nostro rapporto con la malattia, e con la potenza e l’impotenza della medicina? Com’è cambiato il nostro rapporto con la morte, di fronte a tante morti solitarie e senza conforto e alla morte ridotta, come nelle immagini dei camion di Bergamo, a problema di smaltimento? Quelle migliaia di morti senza funerale potranno mai davvero riposare, e non incombere sulla comunità dei viventi, se non troviamo il modo di celebrarne pubblicamente il lutto?

Ancora. Quali effetti ha questa situazione sul pensiero? Come si pensa, come si legge, come si scrive in una pandemia che è anche una infodemia, una situazione di totalitarismo mediatico in cui pare non ci sia spazio per pensare ad altro che al virus? Che cosa significa per il nostro apparato sensoriale indossare la mascherina, portare gli occhiali per non infettare gli occhi, infilare le mani nei guanti o lavarsele in continuazione? Che cosa significa smettere di toccare le amiche, gli amici, i familiari, o temere di toccare un o una amante? Che cos’è il sesso, in tempi di pandemia? Quali segnali ci ha mandato in questi mesi l’inconscio? Che cosa abbiamo sognato, che cosa sogniamo? Che cosa non vediamo l’ora di riprendere della nostra vita precedente, e che cosa non vorremmo mai più riprendere? In che cosa la nostra vita precedente ci aveva già preparati alla distanza, alla de-sensorializzazione, alla de-sessualizzazione, alla virtualizzazione delle relazioni? Quanto contavano e come parlavano i corpi prima, quanto contano e come parlano adesso? Quanto ci siamo mancate non potendoci riunire in presenza, e quanto invece ci siamo state presenti pur nella distanza?

Sono questi i dati dell’esperienza che dovremmo “tracciare”, per sottrarre l’esperienza al “governo dei numeri” e dei big data che la riduce a statistica e ad algoritmo. Qualcuna ha già cominciato a farlo: ad esempio il collettivo Anonima Sognatrici, che raccoglie in una app i sogni fatti durante la quarantena da chiunque voglia condividerli (il progetto e l’app su Erbacce del 17/5/20). E bisognerà continuare, per “ripartire” a nostra volta con quella pratica di messa in parola dell’esperienza e di sondaggio dell’inconscio che oggi più che mai vanno riattivate per significare a partire da noi l’evento-coronavirus.

Con le mie ultime due domande sono già entrata in quella che si pone Via Dogana a proposito del rapporto, o della tensione, fra i processi accelerati di informatizzazione (del lavoro, della scuola a distanza, delle riunioni sulle piattaforme, dei consumi culturali in streaming) e l’importanza irrinunciabile della corporeità, della fisicità e delle relazioni in presenza. Il tema si annuncia fra quelli che domineranno il dibattito pubblico del dopo-pandemia, perché da un lato il capitalismo farà dell’investimento tecnologico la principale leva di risparmio dei costi e di intensificazione dello sfruttamento del lavoro, dall’altro le resistenze antitecnologiche assumeranno toni sempre più apocalittici (ho appena letto l’equazione che un noto filosofo italiano stabilisce fra i docenti che oggi accettano la didattica a distanza e e quelli che nel 1931 giurarono fedeltà al fascismo).

In verità nel trattamento della pandemia io non lamento un eccesso ma semmai un deficit di dispiegamento di potenza tecnologica, visto che in tutto l’occidente (diverso è il caso di paesi come Taiwan, Singapore, Corea del Sud) non abbiamo trovato altro mezzo che quello medievale del lockdown per frenare l’avanzata del coronavirus, in barba a decenni di competenze accumulate su come isolare i virus informatici. Il tema della pervasività tecnologica va comunque articolato attentamente, senza farsi travolgere da un immaginario pregiudiziale che rischia di confondere piani ed effetti di segno diverso, e di prendere per svolte radicali processi che erano già dispiegati ben prima della pandemia (mi ha lasciato esterrefatta la diffidenza verso l’app di segnalazione e tracciamento della positività, avanzata in nome della sacralità dei dati personali da chi magari i propri dati li cede da anni su Facebook a fini commerciali). È indubbio che la pandemia sia un’ottima occasione per mettere a frutto e implementare tecnologie di sorveglianza (sovente già sperimentate contro il terrorismo) contro le quali bisognerà vigilare e forse ribellarsi. Diverso è a mio avviso il discorso per le piattaforme di condivisione a distanza. Per quanto anch’esse siano infarcite di rischi di ogni genere (commercializzazione dei dati, sfruttamento delle emozioni, de-corporeizzazione delle relazioni), non sarei onesta se non ammettessi quanto abbiano funzionato per me come alleggerimento della solitudine e di più, come potenziamento dell’intelligenza collettiva e dello scambio di informazioni, analisi, opinioni. Non è come pensare in presenza, ma è un buon sollievo dall’assenza. A ben vedere i corpi parlano, si sentono e contano anche dietro uno schermo.


Noi madri e figlie, nelle belle viscere femminili riconosciamo e smascheriamo subito una falsa alternativa, di quelle che ti tentano pretendendo che tu scelga tra due cose perfettamente compatibili. Io la scoprii con questo nome – falsa alternativa – ascoltando, da giovane femminista, una conferenza di Victoria Sau a Barcellona.

Da lì ho imparato una volta per tutte a smascherare con il mio sentire tutte quelle che si trovano nel razionalismo greco ed europeo che si insegnava all’università e nelle proposte dei partiti politici, che Simone Weil, sempre acuta, propose di sciogliere nel suo Manifesto del 1942/43, in cui scrive: «nel continente europeo il peccato originale dei partiti è il totalitarismo» […] «I partiti sono organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in modo da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia» (Écrits de Londres et dernières lettres, trad. it. di Giancarlo Gaeta, Sulla soppressione dei partiti politici).

L’esempio più famoso di falsa alternativa sta nella sentenza migliore che fu emessa dal biblico re Salomone, chiamato dai suoi uomini il re saggio. Si dice che al suo giudizio si presentarono due donne, una di loro con una creatura in braccio, dicendo tutte e due di esserne la madre. Il re sentenziò che la creatura fosse tagliata a metà. Di fronte a cotanta brutalità, il sentire materno si rivelò e la madre cedette la sua creatura. Seppe dare la vita per mantenere la vita. Lo sostengo nonostante la tradizione scolastica e critica, quella della violenza ermeneutica, interpreti questo episodio come esempio della grande astuzia del re per scoprire e dimostrare qual era la vera madre. Lo sostengo perché so che nessuna donna, madre o no, potrebbe evitare di inorridire apertamente davanti alla brutalità di una simile sentenza.

Oggi ci sono potenti e potentissimi decisori politici della pandemia del cosiddetto coronavirus, covid-19 o contaminazione elettromagnetica di massa, che pretendono di mettere noi, popolazione, di fronte a una falsa alternativa simile a quella del giudizio di Salomone e altrettanto brutale: o la salute o la produzione. Noi madri, noi figlie sappiamo che si tratta di una falsa alternativa perché la salute e la produzione sono due cose perfettamente compatibili tra loro, oltre a essersi reciprocamente indispensabili. E sappiamo che sono compatibili specialmente oggi, perché la pretesa del “rischio zero” è, a partire dal fatto stesso della nascita, una fantasia maschile, in realtà rischiosissima.

Sapremo trovare le parole giuste e convincenti per dire a noi stesse e alla popolazione come saper dare la vita per mantenere la vita? Oseremo usare pubblicamente queste parole senza timidezza? Saprò, sapremo dare la vita per mantenerla? Questa è oggi, a mio avviso, l’alternativa della madre, madre che è sempre altra e, per questo, sa convivere con ciò che è altro da sé, anche con ciò che è perfettamente ignoto, l’altro che sprofonda l’essere umano nello spavento, come disse María Zambrano in un contesto molto diverso dall’attuale ma anch’esso molto doloroso e difficile.

Di questi tempi, ogni volta che esco per strada, protetta come devo e voglio, ho paura, vacillo e oscillo finché non mi ricordo: da’ la vita per mantenere la vita. Allora, riconosco il mio rischio, esco e mi godo l’uscita.

(Via Dogana 3, 24 maggio 2020. Traduzione dallo spagnolo di Silvia Baratella)


Versione originale

La alternativa de la madre ante la pandemia

María-Milagros Rivera Garretas


Las madres y las hijas reconocemos y desenmascaramos enseguida, desde las hermosas entrañas femeninas, una falsa alternativa, esa que te tienta pretendiendo que elijas entre dos cosas perfectamente compatibles. Yo las descubrí con ese nombre –falsa alternativa– escuchando, de joven feminista, una conferencia de Victoria Sau en Barcelona. Ahí aprendí para siempre a desenmascararlas con mi sentir en el racionalismo griego y europeo que se enseñaba en la universidad y en las propuestas de los partidos políticos, que Simone Weil, siempre acertada, propuso disolver en su Manifiesto de 1942-1943, donde escribe: “en e continente europeo el totalitarismo es el pecado original de los partidos” […] “Los partidos son organismos pública y oficialmente constituidos de manera tal que matan en las almas el sentido de la verdad y de la justicia.” (Escritos de Londres y últimas cartas, 101, 107). El ejemplo más famoso de falsa alternativa es el del mejor juicio emitido por el rey bíblico Salomón, al que sus hombres apodaron rey sabio. Se dice que ante este juez se presentaron dos mujeres, una de ellas con una criatura en brazos, diciendo las dos que eran la madre de la criatura. El rey sentenció que la criatura fuera partida por la mitad. Ante tal brutalidad, el sentir de la madre se mostró y cedió su criatura. Ella supo dar la vida para mantener la vida.

Lo sostengo a pesar de que la tradición escolástica y crítica, la de la violencia hermenéutica, lo interprete como ejemplo de la gran astucia del rey para dilucidar él cuál era la verdadera madre.

Lo sostengo porque sé que ninguna mujer, madre o no, dejaría de horrorizarse abiertamente ante la brutalidad de una sentencia así. Hoy hay poderosos y poderosísimos gestores políticos de la pandemia del llamado coronavirus, covid19 o contaminación electromagnética masiva, que pretenden ponernos a la población ante una falsa alternativa similar a la del juicio de Salomón y de similar brutalidad: o la salud o la producción. Las madres, las hijas, sabemos que se trata de una falsa alternativa porque la salud y la producción son dos cosas perfectamente compatibles entre sí, además de ser mutuamente indispensables. Y sabemos que son compatibles especialmente hoy, porque la pretensión de riesgo cero es, desde el hecho mismo del nacimiento, una fantasía masculina, en realidad arriesgadísima.

¿Sabremos encontrar las palabras justas y convincentes para decirnos y decirle a la población cómo saber dar la vida para mantener la vida? ¿Nos atreveremos a usar públicamente esas palabras sin timidez? ¿Sabré, sabremos, dar la vida para mantenerla? Esta es hoy, en mi opinión, la alternativa de la madre, madre que es siempre otra y, por ello, sabe convivir con lo otro, también con lo perfectamente desconocido, eso otro que sume al ser humano en e espanto, como dijo María Zambrano en un contexto muy distinto del actual pero también muy doloroso y difícil.

En estos tiempos, cada vez que salgo a la calle, protegida como debo y quiero, tengo miedo, vacilo y oscilo hasta que me recuerdo: da la vida para mantener la vida. Entonces, reconozco mi riesgo, salgo y disfruto.

Tutti gli esseri umani sono bisognosi, dal primo all’ultimo giorno della loro vita. È per questo, in primo luogo, che quasi tutte/i noi facciamo quello che si chiama “lavorare” o “gestire un’economia”. Tutti gli esseri umani nascono come creature dipendenti. Solo se qualcuna/o li accudisce con cibo, protezione, cura e senso, dal momento della nascita e poi per anni, possono crescere e diventare adulte/i. Gestire l’economia significa nient’altro che: contribuire attivamente affinché tutte/i ricevano tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere. Ovvero, far sì che miliardi di cittadini/e di questa terra, che a loro volta convivono con innumerevoli altri esseri viventi nell’habitat generoso e vulnerabile della terra, riescano a convivere.

L’insegnamento del mondo come economia domestica

La maggior parte dei libri di economia a pagina 1 afferma questo obiettivo di tutte le attività economiche. Anche Wikipedia, dove oggi molte persone cercano il loro primo orientamento, recita: «L’economia è la totalità di tutte le istituzioni e le azioni che servono alla soddisfazione pianificata dei bisogni». Segue una spiegazione dell’origine della parola “economia”: il termine deriva da due parole greche, oíkos e nómosOíkos significa casa, nómos significa legge o insegnamento. Quindi l’oiko-nomia è la pratica e la teoria della gestione appropriata della casa. Come per ogni casa, la gestione della grande casa-mondo deve garantire che tutti coloro che vivono sotto il tetto comune ricevano ciò di cui hanno bisogno per vivere senza danneggiare l’ambiente in cui la casa è inserita e da cui dipende.


L’insegnamento del mercato globale

Tuttavia, a partire da pagina 2, i libri di economia comunemente usati presentano il mondo non come casa ma come mercato. Su questo mercato si mostrano persone sane e ben informate, sempre già adulte e dotate di tutto il necessario, che non rimangono mai incinte e che decidono sempre liberamente quali merci produrre, dove e quando, e con chi scambiarle per quanto denaro. L’economia domestica e l’ambiente circostante rimangono al margine del discorso: il centro dell’economia non è più la soddisfazione dei bisogni di tutti, ma “il libero gioco della domanda e dell’offerta”. 

Come mai questo clamoroso cambio di argomento tra la prima e la seconda pagina dei libri di testo, per giunta quasi mai motivato? Cosa significa il fatto che apparentemente viviamo con un doppio concetto di economia? Con un’economia taciuta, nascosta, incentrata sul bisogno e un’economia appariscente incentrata sullo scambio?


Un doppio concetto di economia

Questo doppio concetto è riconducibile al fatto che solo poco tempo fa il patriarcato è finito e la schiavitù è stata ufficialmente abolita. Nell’antica Grecia, quando i filosofi introdussero il concetto di economia, infatti, si accettava l’idea che le società umane fossero composte da persone libere e da altre dipendenti. Il compito di quelle dipendenti era di provvedere a tutte le necessità della vita e di generare la prole per l’oíkos. In questo modo hanno generato, oltre la vita, anche la libertà dei proprietari di schiavi, che controllavano ciascuno una famiglia e potevano così dedicarsi ad attività “superiori”: la politica, la costruzione di teorie, la guerra.

In questo ordine sociale gerarchico è nata logicamente la visione del mondo su cui ancora oggi gli economisti fedeli alla loro disciplina amano fare affidamento: il libero cittadino autoctono possiede una casa privata in cui la moglie, casomai con il supporto del personale di servizio, badanti immigrate/i, asili nido, ragazze alla pari, nonne o bambinaie, garantisce, possibilmente in modo invisibile, che la cena sia pronta, il bambino allattato, la casa ben sistemata e l’atmosfera armoniosa quando il cosiddetto capofamiglia (in tedesco: Ernährer, colui che nutre) torna a casa la sera da quell’attività chiamata “lavoro”, ma probabilmente da ciò che l’antropologo David Graeber chiama un “bullshit-job” (lavoro di merda).


Che cosa significa per il futuro. E una buona vita per tutte e tutti

Nel 1793, Olympe de Gouges, autrice della «Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina» fu decapitata a Parigi. Poco dopo, le donne che lottavano per i loro diritti cominciarono a rivoltarsi contro il loro status di “animali domestici”. Nel XX secolo hanno ottenuto i diritti civili e il divieto di discriminazione e hanno dato vita al dibattito femminista sul lavoro domestico. Hanno denunciato forte e chiaro e a voce sempre più alta che il lavoro femminile svolto gratuitamente viene deliberatamente taciuto, per aumentare il profitto di coloro che mettono in conto solo ciò che rende denaro. Alcune hanno chiesto la ripartizione equa del lavoro di cura tra i sessi, altre la riduzione del lavoro retribuito o un salario per i lavori domestici. Insieme hanno ottenuto che negli anni ’90 in molti Paesi iniziasse la raccolta di dati sul lavoro non retribuito. Su questa base, scienziati/e e attiviste hanno allargato la ricerca su ciò che prima si chiamava Home Economics teoria della riproduzione, e che ora si chiamava Care-Economy o economia della cura. Nel marzo 2015 è stata proclamata a Berlino la Care Revolution e nel dicembre dello stesso anno è stata fondata in Svizzera a San Gallo l’associazione Wirtschaft ist Care (L’economia è cura). Si impegna per «la riorganizzazione dell’economia intorno alla sua attività principale, la soddisfazione dei bisogni umani reali in tutto il mondo». Nel gennaio 2020, poco prima del 50° World Economic Forum di Davos, l’organizzazione britannica per lo sviluppo Oxfam ha riferito: «Le donne guadagnano in media il 23 per cento in meno (rispetto agli uomini) e sono più frequentemente colpite dalla povertà estrema. Questo è il risultato di un sistema economico in cui le donne e le ragazze dedicano più di 12 miliardi di ore al giorno al lavoro domestico non retribuito, alla cura e all’assistenza senza che il valore di questo lavoro sia riconosciuto. Se si ipotizzasse il salario minimo per questo lavoro, ammonterebbe a 11 trilioni di dollari all’anno». Infine, nella primavera del 2020, una pandemia globale ha rivelato quale lavoro è superfluo e quale è rilevante per la vita e il futuro: non sono le compagnie aeree, i banchieri, il calcio e gli accademici a tenere in piedi la vita umana e la convivenza nel vulnerabile ambiente della terra, ma i genitori, i nonni, il personale di assistenza, le contadine, le infrastrutture pubbliche, i servizi di pulizia, di smaltimento dei rifiuti e di consegna.
È ora di scardinare finalmente l’economia divisa in due.


L’economia è cura

Per il movimento mondiale che si impegna per questo obiettivo si è affermato il termine inglese Care. Molte persone sono ancora abituate a intendere la cura come una virtù materna, “morbida”, che nelle case private e in determinati settori a prevalenza femminile rende sopportabile il “duro” calcolare dei maschi fuori, nel mondo ostile. Tuttavia, come scrive la scienziata sociale viennese Michaela Moser in ABC des Gutens Lebens (“L’ABC della buona vita”, NdT, uscito nel 2012 per Christel Göttert Verlag), “cura” assume sempre di più il significato di un nuovo (o addirittura antico) paradigma, di un metro di misura per la totalità dell’economia: «la consapevolezza della dipendenza, del bisogno e dell’essere in relazione come costituzione umana di base, e […] le attività concrete di cura in senso lato. Si tratta di prendersi cura del mondo […] non solo attraverso l’assistenza e il lavoro sociale o i lavori domestici in senso stretto, ma […] attraverso l’impegno per un cambio di civiltà».  

Questo prendersi cura l’uno dell’altro e del mondo è sempre stata una parte centrale dell’Oiko-Nomia, e deve diventare (di nuovo) il fulcro di tutte le attività economiche: l’economia è la soddisfazione attenta e avveduta dei bisogni di miliardi di donne e uomini che, con piena dignità, vogliono vivere bene nell’habitat generoso, vulnerabile e minacciato della terra, insieme ai loro discendenti: l’economia è cura.


(*) Come contributo alla discussione, Ina Praetorius ci ha gentilmente concesso in anteprima questo testo che sarà pubblicato (in tedesco) nel mese di settembre 2020 sulla rivista «Neue Wege».

(Traduzione di Traudel Sattler)

II linguaggio ovunque prevalente per parlare della pandemia da Covid-19, come è stato riconosciuto da molte, è quello delle metafore belliche. Si descrivono un presente impegnato nella lotta contro il virus e un futuro prossimo, la fase già denominata “ricostruzione post-bellica”. Un futuro che vuole lasciarsi alle spalle quel clima di solidarietà che tutti abbiamo ammirato, quell’intimo vivo sentire l’importanza dei legami con gli altri e l’interdipendenza che ci connette al tutto, e forse sarà invece segnato dalla lotta degli uni contro gli altri – individui, categorie umane, nazioni, governi – per la sopravvivenza (o la supremazia) fisica ed economica. Intanto in nome di questa guerra si rischia di legittimare derive autoritarie, militarizzazioni dei territori, nuovi squilibri geopolitici, oltre al sacrificio di operatori sanitari, volontari, addetti ad attività umili ma essenziali, come in tutte le guerre. 

Sulla necessità di cessare immediatamente i conflitti armati in ogni angolo del mondo, in una situazione di emergenza come questa che aggrava il pericolo per i più vulnerabili, sono intervenute due delle più autorevoli voci a livello planetario: l’invocazione di papa Francesco, in cui sento una voce di verità (come già nella bella Enciclica del 2015 Laudato si’, lì dove si ricorda «pretendiamo di essere sani in un pianeta malato»), e l’appello del Segretario Generale dell’ONU, António Guterres. Richiami certo più che condivisibili, ma che rischiano di restare petizioni ideali se, a cominciare dai potenti e dai molti indifferenti, non si sanno trarre insegnamenti da questa pandemia, se non si sostiene efficacemente una presa di coscienza personale e collettiva sia dell’urgenza di cambiare radicalmente i nostri modelli di civiltà e paradigmi socio-economici, sia delle leve su cui agire. Noi donne siamo state in lockdown per secoli. Ma anche nelle situazioni più difficili non abbiamo rinunciato a sostenere la vita, a prendercene cura e responsabilità, a difendere l’integrità nostra e di altri, di altro, a desiderare di più e di meglio per il mondo intero. Abbiamo sapienza e verità che vengono dalla nostra storia ed esperienza, dalla forza delle relazioni. Sulla lungimiranza femminile nel condannare le forme virili di governo del mondo anche in questo drammatico frangente, di cui ha parlato Annarosa Buttarelli (Coronavirus frutto di forme virili di governo, impotenti e inadeguate, La Repubblica 8 marzo 2020), così come sul protagonismo delle donne – ora anche con il volto pubblico e autorevole di tante scienziate, mediche e infermiere forse finalmente ascoltate – si può, si deve far leva per un cambiamento profondo. È questo il tempo.  

Il tanto evocato ritorno alla normalità, se inteso come prosecuzione dei modelli maschili che conosciamo, sarebbe un affronto insopportabile per i tanti morti, per il dolore di chi resta, per chi ha perso o perderà il lavoro, per gli invisibili delle periferie del mondo destinati a soccombere, per l’impoverimento di intere nazioni che vedranno allargarsi ulteriormente il divario tra i pochi previlegiati e la maggioranza della popolazione. E soprattutto un affronto alla speranza. Alla speranza, ora che sono caduti i veli di una realtà falsificante, di uscire definitivamente dalla globalizzazione neoliberista di matrice post-patriarcale in forte crisi ma capace di colpi di coda nel caos generale; alla speranza di veder ridotte le tante ingiustizie, come quelle che mi hanno toccato profondamente in questi giorni, il caso di un ragazzo americano di 17 anni, che poteva salvarsi, morto perché privo di assicurazione sanitaria in una nazione ritenuta ricca e democratica come gli Usa, dove l’assistenza medica resta un previlegio, o le fosse comuni a New York per i poveri e le persone sole.

Come per tutti, credo, anche per me il trovarmi improvvisamente (ma non inaspettatamente!) nella tragedia della pandemia ha suscitato molte e contradditorie reazioni. La prima, più istintiva e inconscia, è stata quella della rabbia, che, ora lo riconosco, nei primi giorni ha sequestrato la mia anima provocando nel corpo continui e inspiegabili brividi. Una rabbia che ho assimilato, traendola dal fondo della memoria, alla mia reazione alla notizia della morte di mio fratello ventenne. In quel terribile frangente il mio primo pensiero arrabbiato andò alla hybris degli uomini della mia famiglia, che lo spingevano a primeggiare in ogni competizione, ad avere successo ad ogni costo, anche a rischio di morire in mare per una stupida gara sportiva. Ad ogni costo. Quando la disgrazia accadde, avevo partorito da quindici giorni il mio primogenito, e mi trovai, a ventitré anni, sballottata tra la gioia di una nuova vita e l’orrore della morte. Mi ci vollero anni di analisi, e soprattutto la comunità filosofica Diotima e la politica delle donne, per ritrovarmi. 

Anche questa volta avverto rabbia, ma più ponderata: un’indignazione capace di articolarsi con le riflessioni che mi accompagnano da lungo tempo circa la connessione tra simili catastrofi e la violenza distruttiva maschile sulla natura, agita in nome del progresso, della crescita economica, della competizione globale. Nei giorni di reclusione mi sono addentrata in letture che mi permettessero di capire qualcosa di più dell’attuale catastrofe. Ho ripreso in mano autrici di cui mi fido, come Evelyn Fox Keller, Jane Goodall, Vandana Shiva, la paleoantropologa Dean Falk, Laura Conti e altre. E poi un libro di uno studioso che conosco, Telmo Pievani, filosofo delle scienze biologiche ed evoluzionista, dal titolo significativo Homo sapiens e altre catastrofi, mi ha aiutato a capire le dinamiche e soprattutto le conseguenze della connessione a cui ho accennato, quando sottolinea che stiamo entrando nella sesta estinzione di massa, questa volta però prodotta e subita dallo stesso Homo sedicente sapiens: una catastrofe in cui la biosfera potrebbe continuare la sua vita senza di noi, dal momento che la specie umana non le è indispensabile. Non avevo mai pensato che noi umani fossimo per nulla indispensabili al pianeta! e mi disturba un po’ l’idea che perfino quella infima, semivivente entità che ci tormenta, il coronavirus, oltre al vantaggio di essere, come molti virus, 3 miliardi di anni più vecchio di noi, avrebbe quello di una lunga e prospera vita anche dopo la nostra scomparsa, grazie alle sue capacità di mutazione continua! Allora ci consolano, oppure ci preoccupano ancora di più, le parole di un altro scienziato, Richard Lewontin: «La specie umana ha la coscienza della sua responsabilità che, nel bene e nel male, non sono date a nessun altro animale, poiché a nessun’altra specie è data la possibilità di decidere della sua stessa estinzione» (Biologia come ideologia, Bollati Boringhieri, 2005)?

In alcune mie lezioni universitarie di molti anni fa dedicate alla sessuazione del linguaggio utilizzavo una frase presa da un noto manuale scolastico, “l’uomo sta distruggendo l’ambiente”, per lavorare sulla distinzione tra maschile marcato e maschile non marcato (ossia con pretesa di universale) e soprattutto per pro-vocare le/gli studenti a prendere coscienza del senso di essere al mondo come donne e uomini. Non erano necessarie molte discussioni con e tra loro per arrivare alla conclusione che di uomo-maschio (maschile marcato) proprio si trattava. 

Oggi, grazie a riflessioni libere a partire da sé di donne e di qualche uomo, questa verità si è fatta strada, ma manca nei discorsi ufficiali, di decisori, politici e scienziati, e non è diventata senso comune. Così come la verità che la natura, di cui siamo parte, non è né buona né cattiva (o vendicativa), semplicemente è. E che il virus Covid-19 (come altri già arrivati e altri che verranno) fa semplicemente il suo mestiere evolutivo, quello di replicarsi all’infinito per vivere, anche facendo il salto di specie se le condizioni lo rendono favorevole o necessario: come in questo caso. Se, oltre all’inquinamento crescente, all’urbanizzazione selvaggia, si distruggono le foreste primarie e la biodiversità, e si tengono aperti i mercati di animali selvatici, che cosa possiamo aspettarci? Il problema è che a fronte dei cambiamenti rapidissimi che Homo s. ha prodotto nell’ecosistema, non altrettanto velocemente sembrano attivarsi le sue capacità di autotrasformazione creativa e ordinatrice rispetto alle mutate (e pericolose) condizioni. Lo vediamo bene: anche nell’affrontare la pandemia è pronta a riemergere la vecchia logica individualistica, degli interessi privati e del profitto.

In queste giornate di primavera in cui la natura sembra respirare e diventare più bella grazie alla nostra reclusione – lo notiamo tutti e possiamo in vari modi goderne – mi ritrovo a pensare che la vera specie invasiva siamo diventati noi. Al contrario, la hybris dei grandi della terra, come Trump, li porta a pensare che il nostro pianeta sia a disposizione per ulteriori sfruttamenti, che sia inevitabile continuare a implementare società e culture dello scarto, o perfino considerare preferibile la colonizzazione di altri pianeti lasciando al loro destino la terra e l’umanità che la abita. Tanto, le tecnologie attuali e future, come il denaro in esse investito, lo consentirebbero! 

La vita naturale è un sistema complesso, autorganizzato, dall’equilibrio dinamico e fragile che va compreso e accompagnato con amorosa intelligenza, non può essere oggetto di visioni semplificatrici, tantomeno di conquista e di profitto. Necessita invece di nuove formae mentis, di una nuova coscienza evolutiva all’altezza della sua complessità, di lungimiranza, ma anche di una profondità storica che ci permetta di comprendere meglio il nostro posto di umani nella grande storia dell’universo. 

Una scienziata come Ilaria Capua, consapevole della sua differenza femminile, ha fatto questo passaggio, e non è la sola. Da tempo insiste sulla necessità di un approccio più ampio e complesso, interepistemico e interdisciplinare, da quando, con altre, scommette, oltre che sulla Open Science, sulla One Health, una sola salute: significa riconoscere che la salute umana, degli animali e dell’ambiente sono inestricabilmente legate e trarne responsabilmente le conseguenze. Convinta che «il Covid tocca tutti gli ambiti, non solo il campo biomedico: tocca le famiglie, l’agricoltura, le imprese, gli operai, la natura e la cultura», con un’altra scienziata italiana, Fabiola Gianotti direttrice del Cern di Ginevra, ha dato vita, in una relazione duale di fiducia, a una nuova creatura: un progetto che riunisce libere intelligenze collettive, alcune venute anche dal basso, con l’obiettivo di studiare la pandemia di Covid-19 per quello che è: «un problema complesso che richiede nuove soluzioni che guardino oltre», a partire da domande che ci orientino su rotte inesplorate.


La fase due dell’emergenza Coronavirus vede in atto spinte contrastanti la cui posta in gioco è quale direzione prenderanno i processi in corso. È segnata da un conflitto simbolico e politico tra due versanti. Da una parte c’è la restaurazione dell’ordine precedente, rimanendo sugli stessi binari – una “ripartenza” appunto – e dall’altra il prendere forza di un ripensamento di cui la pandemia ha messo in luce i nodi indicando delle priorità.

Le necessità imposte dal diffondersi del virus hanno chiaramente mostrato il fallimento della ricetta dell’individualismo neoliberista e hanno rimesso al centro tutto ciò che è pubblico e della collettività, a cominciare dalla sanità e dalla scuola per finire con l’aria pulita e con una maggiore giustizia sociale. Ora si tratta di non dimenticarlo e di approfittare di questo sconvolgimento per imprimere un’altra direzione al cambiamento.

Forti contese premono soprattutto in altri due campi di esperienza. Il prolungato restare a casa ha accelerato i processi di trasformazione tecnologica già in atto nella società: dalla scuola a distanza, al ricorso esteso allo smart-working, all’uso privato di app di condivisione e di streaming culturali. Nel contempo l’esperienza di distanziamento fisico ha fatto prendere coscienza dell’interdipendenza degli esseri umani e di come siano insostituibili i legami relazionali. Si sta delineando quindi un conflitto destinato a rimanere sempre aperto tra rivoluzione informatica e centralità dei rapporti umani in presenza.

Inoltre a tutt’oggi la pandemia ha smentito l’insistente narrazione per cui si potesse fare a meno dei corpi, sostituiti da robot o da procedure tecnologiche, mostrando invece – proprio attraverso la loro vulnerabilità – come siano imprescindibili. Sono cambiate le priorità. Oggi la precedenza spetta alla vita e alla cura dei corpi e delle relazioni che avviene negli ambienti domestici e all’apporto indispensabile delle professioni considerate umili che non hanno mai smesso di lavorare per i bisogni primari degli esseri umani, dal cibo, all’assistenza, alla pulizia.

Sono contese e cambi di priorità su cui da tempo c’è pensiero femminista e che oggi indicano un possibile orizzonte di trasformazione per tutti. Su questo vogliamo lavorare per cercare come sempre il cambiamento dove già c’è, per inventarlo dove ciò che viviamo stride con quello che abbiamo a disposizione o che ci viene prospettato.

La discussione si aprirà a giorni a partire da testi di Anna Maria Piussi, Ina Praetorius e Ida Dominijanni, che saranno on line prossimamente. Nel frattempo vi invitiamo a pensare sui temi proposti.


IL DIBATTITO INIZIERÀ DOPO LA PUBBLICAZIONE DELLE INTRODUZIONI.

I contributi andranno inviati a info@libreriadelledonne.it (oggetto: VD3)


(Via Dogana 3, 11 maggio 2020)

Fin dal primo giorno di quarantena abbiamo sentito il desiderio di scambiarci pensieri e impressioni su quanto stava accadendo, nella convinzione che anche nell’emergenza non avremmo rinunciato a porci domande politiche radicali. Da femministe sappiamo che il nostro bene più prezioso sono le relazioni ed erano proprio queste ad essere messe in scacco dalla situazione, e non solo perché eravamo costrette in casa ma anche perché sembrava che non fosse più lecito porsi domande, riflettere, discutere su quanto veniva deciso sopra le nostre teste.

Se, per ragioni sanitarie, era proibito vederci, almeno dovevamo fare il possibile per continuare a pensare insieme e non lasciarci sopraffare dalla paura. Lo scambio quotidiano ci ha permesso di sentirci meno sole, regalandoci forza. L’alternativa ci era chiara: la passività, l’impotenza di una vita totalmente confinata nella sfera privata, il rinunciare alla politica, intesa come possibilità di giocarsi lo scarto tra dentro e fuori, tra personale e politico, tra stanza tutta per sé e città, domestico e inaddomesticato.

L’amore per la politica ci ha dato una spinta «fuori» dal guscio delle emozioni – rabbia, paura –, ci ha portate a cercarci, ma non è stato solo questo. Ci ha aiutate la consapevolezza che sono tantissime le donne che ci hanno precedute che hanno trascorso la loro vita tra le mura domestiche, un’esperienza non così lontana di cui ciascuna di noi conserva ancora le tracce dentro di sè, anni in cui le donne hanno dovuto trovare lo spiraglio per far sentire la propria voce, forzandosi ad abbattere quei muri, anche per noi. Sappiamo soprattutto, grazie a chi ci ha precedute, che la vita chiuse in casa non è vita. Ci portiamo dentro questa storia, questa consapevolezza e soprattutto questa forza, il desiderio antico di riprenderci la vita fuori, di essere in tutte le attività e in tutti i luoghi.

L’altro passo è stata la scrittura collettiva, che presupponeva l’immaginare un piano di riapertura che mettesse insieme delle idee per il dopo in grado di rispondere alla nostra esigenza primaria: avevamo bisogno di uno sguardo ampio in un tempo che sembrava obbligarci a una visione miope incapace di vedere al di là di domani. La politica è guardare lontano, necessita di aria, di spazi e tempi sconfinati, di un orizzonte grande, soprattutto in un momento difficile come questo.

Abbiamo capito quanto fosse importante, perché profondamente politico, l’immaginare insieme un progetto di riapertura che rispondesse alle necessità reali: l’importanza delle relazioni, la salute di tutte e tutti (bambine e bambini, donne e uomini di tutte le età), l’imperativo irrinunciabile della libertà, l’importanza del lavoro e del reddito.

Come non farci schiacciare dall’angoscia data da un virus sconosciuto, dalla mancanza di prospettiva e di informazioni chiare, dalla paura inevitabile con il bollettino quotidiano dei morti? La lotta politica è stata la nostra risposta. Sentivamo e sentiamo la necessità di continuare a riflettere insieme, non rinunciare a farci domande radicali, anche se scomode, anche se la reazione di tante amiche è stata di sconcerto. Affidarci l’una all’altra nello scambio di articoli, di riflessioni, di conoscenze è stata la nostra risposta.

Questa pandemia ci ha cambiate profondamente. Ci ha rivelato aspetti di noi, delle nostre relazioni e del simbolico che guida le nostre scelte che non ci aspettavamo. La necessità di stare presso la nostra verità, fuori da schemi ideologici, ci ha mostrato contraddizioni che ci hanno spiazzato e che ridisegnano il panorama delle alleanze politiche. Cosa mettiamo al centro delle nostre lotte? Noi sentiamo il rischio di ammantare di politica posizioni segnate dalla paura. Comprendiamo bene la necessità di non correre rischi inutili, ma invece di affidarci alle relazioni e alla fiducia nei confronti dell’altra/o, vediamo intorno a noi tante/i che non riescono a immaginare scenari diversi rispetto a quelli imposti dall’alto.

Le donne hanno lottato per la libertà come un bene prezioso che non può essere barattato con il diritto alla salute né messo in contrapposizione con il bene della comunità. La libertà per cui le donne si sono battute non ha nulla a che fare con l’egoistica libertà individualista ma è profondamente legata alla politica relazionale che abbiamo imparato con il femminismo.

Ancora adesso, di fronte alla fantomatica fase 2, lo stato entra nelle nostre vite a dare delle gerarchie di importanza nelle relazioni personali. Proprio di fronte all’ordine paterno che vorrebbe regolare le nostre urgenze, noi iniziamo a costruire reti ed immaginare il prossimo convegno femminista.

Ormai anche giornali mainstream come il The Economist si accorgono che non è mai stato così bello essere una adolescente oggi in un paese occidentale: Le ragazze sono forti è il titolo di un articolo pubblicato su Internazionale (n. 1399) che, senza trascurare le difficoltà, racconta come le ragazze stanno in relazione tra loro, interessandosi a ciò che succede nel mondo, consapevoli del fatto che la loro voce potrà essere ascoltata. Ciò che emerge è un cambiamento strutturale. Tutte le intervistate citano le madri come modelli di comportamento e da qui emerge con chiarezza il privilegio di essere dello stesso sesso della madre poiché le madri usano con le figlie un vocabolario più complesso, rispetto a quello usato con i figli, arricchito dall’alfabeto delle emozioni e dell’introspezione, accrescendo così in loro la fiducia in se stesse e nelle proprie simili.

Sono madre di due donne adulte e questa nuova narrazione della realtà, che modifica profondamente i nostri immaginari, corrisponde alla mia esperienza concreta. Ho la percezione che le mie figlie si muovano rafforzate dalla genealogia femminile che le precede e per questo siano capaci di prendere in mano la loro vita e farsi avanti con coraggio. Partecipo con loro a un complesso percorso di trasformazione delle relazioni e l’esercizio di autorità come madre, necessario per la loro crescita, si è sempre radicato nell’amore per la libertà femminile. Le giovani di oggi sono immerse nell’energia sprigionata dal femminismo e si trovano in una società modificata dalle donne. Anche se molte giovani donne non sanno nominare le proprie esperienze con le parole del pensiero della differenza, le sue pratiche fondamentali sono entrate nella loro vita concreta. Questo è il segreto della loro fiducia nelle proprie forze e, come dice Luisa Muraro, del riaffacciarsi della loro baldanza.

Tra le relazioni a distanza, fiorite on line in tempo di covid, ho avuto l’occasione di partecipare, insieme a molte amiche del Collegamento donne Comunità di base e “le molte altre”, agli incontri, organizzati dall’Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne (OIVD) e da Donne per la chiesa, con cattoliche di tutto il mondo che si sono messe in rete nel Catholic Women’s Council. Per le giovani donne cattoliche c’è un profondo scollamento tra società e chiesa, le discriminazioni tra uomini e donne sono diventate anacronistiche e gli scandali di natura finanziaria e sessuale inaccettabili. Ciò che ammiro in queste donne èl’autorità con cui sono entrate sulla scena pubblica, senza chiedere il permessoCiò che più mi ha sorpreso è che, ascoltandole, ho constatato quanto siano distanti da una semplice idea di parità rivendicativa e quanto invece siano attrezzate del ricco bagaglio femminista. Esprimono con chiarezza il proprio giudizio e hanno una precisa idea di chiesa. Le affinità riscontrate mi hanno dato gioia e rafforzata nel mio percorso.

Mi riferisco soprattutto al movimento Maria 2.0 che ha preso il via due anni fa da una piccola parrocchia di Münster. Tutto è partito da una specie di sciopero. Le donne si rifiutavano di entrare in chiesa, non aiutavano più in sacrestia, pregavano fuori dalla parrocchia, evidenziando così il proprio dissenso. Lentamente l’idea della resistenza passiva ha contagiato altre diocesi fino ad arrivare anche in Austria e in Svizzera. Recentemente hanno affisso le loro tesi ai duomi e alle chiese di tutto il Paese, chiedendo più spazi ma anche una maggior trasparenza sugli abusi sessuali.

Si definiscono femministe e praticano la politica delle relazioni: insistono moltissimo sul lavoro in piccoli gruppi di donne e sul riconoscimento delle madri e delle maestre, affermano che nella storia ci sono sempre state molte donne forti. 

Per loro l’autorità e il potere nella chiesa sono slegati dalla responsabilità, dalla relazionalità e dall’etica: c’è un abuso di potere nella simmetria gerarchica, un potere maschile non controllato.

Le più giovani auspicano un lavoro intergenerazionale, sostengono infatti: siamo sedute sulle spalle di giganti, riferendosi alle donne che le hanno precedete.

Tutte affermano di avere un approccio femminista alla teologia, Gesù era un rivoluzionario: al cuore del Vangelo c’è la giustizia. Ma nel Vangelo sono le donne che arrivano al Sepolcro e annunciano la resurrezione agli uomini che non ci credono, quindi serve disobbedienza pastorale. Per una chiesa fedele al Vangelo, che si riferisca di nuovo al messaggio di Gesù, è importante che le donne ci siano con il loro desiderio. La maggior parte delle donne non vorrebbe essere inserita in questo sistema clericale con tutto l’apparato sacramentale dei maschi, dei preti. La separazione tra laici e ordinati è solo una questione di potere. È sbagliato che l’ultima cena venga usata come strumento per separare uomini e donne tra loro. Così si rende piccolo Dio!

Quindi hanno deciso di celebrare come Gesù ha insegnato nell’ultima cena e lo scorso 29 Novembre di fronte al duomo di Colonia, Mainz, Amburgo, Münster, in contemporanea, le donne di Maria 2.0 hanno organizzato e celebrato l’eucarestia, così come pensata da loro, con centinaia di persone. Davanti all’entrata delle cattedrali hanno apparecchiato le tavole con tovaglie bianche per la condivisione del pane, del vino, proprio come fece, per altri motivi e in un diverso contesto storico, la comunità dell’Isolotto di Firenze nel lontano 1969, dando vita all’esperienza delle Comunità cristiane di base. In questa occasione però hanno celebrato solo le donne, senza preti, più simili in questo a noi donne delle Cdb, che durante il Seminario Le Scomode figlie di Eva del 1988, celebrammo un’assemblea eucaritica presieduta solo da donne, facendo notizia sulla stampa. Le amiche tedesche hanno quindi pregato, predicato, commentato anche con interventi liberi, cantato e condiviso il pane, bevendo il vino in memoria di Gesù.
Per incontrarle abbiamo scritto a più mani la nostra storia in un testo intitolato Visitazioni che uscirà a breve, anche tradotto in tedesco, felici di poter condividere con loro i nostri percorsi e valorizzare le affinità.

“La differenza delle donne sono millenni di esclusione dalla storia”, ci insegna Carla Lonzi. Ora però le donne si stanno riaffacciando e quando si raccontano sanno anche spiegare qual è il loro desiderio e dove sta l’origine della propria forza. Contemporaneamente cresce la difficoltà maschile nel misurarsi con donne che hanno forti riferimenti femminili. Si potrebbe allora dire che la differenza degli uomini sia millenni di autoesclusione dall’ordine simbolico della madre. Forse il primo passo per loro potrebbe essere dar credito alla lingua materna e far sì che quel di più che rafforza le loro sorelle, rafforzi anche loro, imparando ad usarla in tutta la sua ricchezza e riconoscendole autorità.


Nota:

ITALIAN TRANSLATION: La critica come segno di amore – voci di giovani cattoliche

DISCORSO DI APERTURA DELLA SETTIMANA D’AZIONE DI MARIA 2.0 COLONIA, 19 SETTEMBRE 2020  di MARIA MESRIAN  

Incontro “Cosa succede in Germania?” con Maria Mesrian di Maria 2.0 Colonia


Noi amiche del corso di inglese, tutte signore intorno ai 70 anni, abbiamo continuato a incontrarci con la piattaforma zoom. Luisa Valenziani, la nostra insegnante che nel frattempo si è trasferita a Roma, ci convoca settimanalmente. Leggiamo articoli dal New York Times, racconti di scrittrici e scrittori americani e ne parliamo in inglese tra noi.

Marina Santini e io abbiamo cominciato da gennaio a insegnare il corso di Storia Vivente per il master online di Duoda in Studi della differenza sessuale all’università di Barcellona. Le nostre allieve ci inviano settimanalmente i loro compiti in spagnolo, io li traduco, poi con Marina discutiamo animatamente almeno un’ora ogni testo e prepariamo delle risposte con i nostri commenti, che poi traduco e invio.

Una quindicina di giorni fa ho avuto l’irresistibile desiderio di leggere in francese. Ho scovato nella libreria Deux dames sérieuses di Jane Bowles che avevo acquistato anni fa alla svendita annuale di libri usati del Trinity College di Dublino. Un vecchio libro del 1943, tradotto in francese nel 1969, che, come succede spesso, se è per te, ti aspetta.

Mi sono accorta che anche altre amiche hanno ripreso i loro studi linguistici. Mia figlia Silvia, poco più che trentenne, che conosce a livelli differenti cinque lingue, si è ora impegnata a imparare il tedesco. Anche mio marito continua accanitamente a lottare per capire e parlare inglese e la sera lui e io vediamo film in lingua originale con sottotitoli in italiano.


Perché in questa situazione tanto fervore linguistico?

Ho pensato che, oltre a un’ottima ginnastica per il cervello, fosse un modo di rendere presente un futuro in cui potremo ancora muoverci in Europa, nel mondo, comunicare con amiche e amici che vivono in altri paesi; dimostrare concretamente fiducia nel fatto che ritorneremo a incontrarci e parlare sarà un modo di essere più profondamente vicine, pur alla debita distanza.

Un altro motivo mi sembra sia la fiducia nella possibilità connessa proprio all’imparare una lingua straniera. Quando si comincia a leggere un testo in una lingua che si conosce poco, all’inizio ci sembra quasi incomprensibile. Il senso pian piano si dispiega solo a una seconda, a una terza lettura, andando a cercare le parole sconosciute e sapendo, come dice la mia insegnante, che un testo originale consente il gioco dell’interpretazione, mentre la traduzione già data, per quanto buona, ne propone una sola, insomma ci limita. Inoltre, come mi suggerisce la psicoterapeuta psicoanalitica Annapaola Giannelli, la traduzione consente di arrivare al nocciolo della parola nella sua declinazione affettiva ed è attraverso il nostro legame con l’oggetto che si esprime la traduzione giusta per ognuna/o di noi. Con questi esercizi dunque esercitiamo e rafforziamo la fiducia nel linguaggio che ci permetterà di avere una maggiore chiarezza nella situazione attuale, una situazione confusa di cui scopriamo solo alcuni elementi ma che desidereremmo arrivare a chiarire e ci offre l’elasticità, mettendo in gioco anche l’affettività, di non accontentarci di un’unica interpretazione.


Ma non basta

La mia amica Laura Modini mi ha raccontato come in questo periodo si stia impegnando in maniera più approfondita a imparare il cinese, che da anni sta studiando. Settimanalmente fa lezione via internet con la sua insegnante, che ora vive in Ungheria, per rafforzare la sua comprensione della struttura della lingua; un’altra giovane insegnante cinese invece con insistente pazienza l’aiuta a parlare a capire. E Laura esegue anche tutti i compiti. Mentre svolge queste attività, lei non pensa ad altro, si concentra completamente; anche se dice che i risultati le sembrano ancora scarsi, continua perché si ricarica. Le ho detto che è la sua forma di meditazione, il suo modo di concentrarsi sul presente, su quello che sta facendo, mettendoci tutte le sue energie. La meditazione porta a percepire la gioia interiore di sentirsi vive, parte di un mondo più ampio verso il quale proviamo gratitudine per la possibilità di scoprire giorno per giorno, momento per momento qualcosa di nuovo, di inaspettato, come accade con la lingua in cui ogni parola può offrici la gioia della scoperta.


E altro ancora

Mio figlio Andrea vive a Londra con sua moglie Valeria e loro bambina Gaia di venti mesi a cui sua madre e los abuelos si rivolgono in spagnolo, mentre il papà e i nonni in italiano; al nido, in giro e anche in casa sente parlare inglese. Come dicevo alle mamme straniere a cui insegnavo, anche a Londra dépliant colorati del Comune suggeriscono di comunicare con le creature piccole usando la propria lingua forte, insomma la propria lingua materna, per permettere loro di godere e imparare una lingua complessa, sciolta, carica di parole, suoni e toni ricchi di sentimenti. Certo, parleranno più tardi, ma il passaggio da una lingua all’altra creerà un’abitudine al saper cogliere prospettive diverse.

In questo periodo mio figlio, secondo le diagnosi telefoniche di un medico inglese e di uno di Bergamo, in base ai sintomi che presentava era ammalato a causa del Covid-19. Stava piuttosto male ma, come anche mia nuora, doveva lavorare da casa. Allora mio marito e io abbiamo cominciato a creare un’attività di animazione a distanza con racconti di storie, canzoni, video condivisi e tanto altro, cosa che non avremmo mai fatto se non si fosse trattato di un’emergenza. Gaia, che non ha bisogno di parlare perché la capiamo immediatamente, manifesta emozioni complesse attraverso il corpo, col viso e il suo comportamento. Si infiamma alle parole nuove. Ho notato la sua gioia quando, all’interno di un discorso più ampio, ne riconosce una. È una gioia imprevista, una sorpresa sottile, quella che io chiamo solletico al cuore, che ti fa ridere tra te e te per qualcosa che ti tocca da dentro, senza che chi ti è attorno la possa condividere.

È quello che capita a me quando trovo negli scritti delle allieve forme dello spagnolo latino-americano che mi sorprendono, parole nuove che, anche solo per il loro suono, richiamano aspetti diversi della cosa che rappresentano, un’esperienza che in italiano è per me ormai rara.

Allora ho capito che questo fervore linguistico è legato anche all’ascolto primigenio delle parole, quell’ascolto della voce di nostra madre che ci assicura che le cose, il mondo, pur scomparendoci davanti, possiamo evocarle attraverso le parole, perché lei ci assicura della loro esistenza e della possibilità, parola dopo parola, di conoscerle meglio. È una parola rassicurante, quella che ascoltiamo prima e appena dopo la nascita, quando usciamo dal buio caldo alla luce accecante di un mondo che ancora non vediamo.

In questi giorni abbiamo attraversato diverse fasi: paura, incredulità, emozione per le novità del momento, grande dolore, bisogno e piacere di riposare ma anche di cacciare fuori le nostre antiche e salde competenze di governo della casa, cercando pure di renderla compatibile con il lavoro e con i giochi da inventare. Finché non si è stabilita una sorta di normalità all’interno di questa situazione anomala. Abbiamo allora capito, come si dice spesso in questi giorni, le cose essenziali della vita ma anche a dare priorità agli impegni di lavoro e ai compiti di scuola delle nostre figlie, cioè a quello che è conciliabile con il primum vivere e i suoi imprevisti, rinviando, o ignorando quelli che non lo sono.

Lo facciamo con disinvoltura e autorità e cresce in noi un senso di agio, rafforzato dalla materialità delle mura delle nostre case (quelle liberate da disordini monumentali), dove siamo le signore del gioco, stiamo al sicuro e nessuno può entrare a chiederci il tornaconto delle nostre scelte comunicate talvolta in modo brusco, anche se nel limite della cortesia, come direbbe Jane Austen ma anche mia madre.

Una sorta di “impunità” sta alleggerendo molto le mie scelte che, in un momento di emergenza, devono essere, più che mai, quelle giuste. Ma allo stesso tempo l’emergenza rende superflue le conseguenze di un eventuale errore, se non è così grave da mettere a repentaglio l’integrità fisica nostra e dei nostri cari. Possiamo sperimentare, inventare, azzardare. Seguiamo il nostro sentire, senza le solite interferenze. Ci ossigeniamo come il cielo, la terra e i mari. Siamo più centrate.

Provo un forte senso di immunità/impunità che si è rafforzato dalle condizioni straordinarie di queste giornate murate* ma che mi piacerebbe normalizzare, portarmelo addosso, renderlo dicibile. Penso allora a quanto sarebbero libere le donne nella vita, e in particolare nella sfera pubblica, se seguendo il loro senso di giustizia fossero impuni rispetto alla legge e al giudizio maschile. È vero che in tante non concediamo più credito al diritto e che chi ci legittima ad agire è un’altra donna perché accettiamo di sottoporci a una misura giudicatrice femminile, ma il diritto non per questo smette di giudicarci e ci sottrae delle energie che potremmo impiegare meglio. Quanto riuscirebbero a risolvere le donne sgombrate dai calcoli e dal timore di soffrire una sanzione che, tra l’altro, non è stata pensata da loro? Trovo in questi giorni una possibile riposta in un’asimmetrica applicazione del diritto che tenga conto della diversa partecipazione dei due sessi nella sua formulazione e significazione: diversità e conseguente sessuazione del diritto che conosciamo bene dal Non credere di avere diritti, al “Sottosopra oro”, Un filo di felicità e alla Politica del desiderio (di Lia Cigarini). In questi testi abbiamo ricevuto spunti brillanti sui vuoti nel diritto e, forse, anche sui vuoti nella sua dimensione punitiva.

Ricordo che tanti anni fa, Luisa Muraro venne a Siena a parlare di uno dei suoi libri, Al mercato della felicità, credo. Le chiesi come si può cambiare il diritto. Cominciavo all’epoca a incarnare alcune pratiche politiche che le donne stavano da tempo mettendo in gioco nei luoghi del diritto. La sua risposta fu il racconto di una sentenza di un tribunale degli Stati Uniti che non aveva applicato la sanzione prevista per l’omicidio a una donna che aveva ammazzato il marito che la picchiava, violentava e maltrattava da anni. Oltre alla eventuale legittima difesa, alcune donne e alcuni uomini sentiamo nel nostro profondo che una differente applicazione della sanzione non è altro che la giusta riparazione che le donne si meritano.

Mettiamola così: se la parola impunità significa assenza di punizione prevista dalla legge, tante volte le donne dovrebbero avere uno sconto della pena, non pensata da loro (e ancora oggi, a volte, contro di loro). Anche perché le nostre punizioni sarebbero altre, forse anche più rigorose, in quanto più attente alla realtà. Mi viene in mente a tal proposito la sentenza della giudice Paola di Nicola che in un caso di prostituzione minorile, obbligava il prostitutore a comprare testi femministi, affinché li leggesse la giovane che era stata prostituita.

Fin quando il diritto non assomiglierà di più al (rigoroso) ordine simbolico della madre, nel caso in cui una donna non osservi le leggi del padre dovrebbe avere una sorta di presunzione di impunità: scardinare la norma senza grosse conseguenze. Io stessa sento che quando le donne non seguono le regole previste in materia, ad esempio, di tempi di lavoro, svanisce la mia critica, il giudizio si ammorbidisce e mi ricordo allora il perché. So che noi donne abbiamo un’altra esperienza, un’altra misura, che fa fatica a modificare il diritto del lavoro e questo mi basta e avanza. Così, mi dico, quando arriviamo in ritardo al lavoro perché i tempi della vita, della cura, degli affetti – i tempi del primum vivere – non combaciano con i tempi della produzione, non dovremmo essere costrette a fare salti mortali per ottenere l’indulgenza del diritto. Osservo con piacere che alcune donne avvocate e giudici stanno praticando questa sorta di rilassamento punitivo sessuato. Una recente ordinanza del 22 ottobre 2019 del Tribunale di Firenze tiene conto di questa prospettiva, dichiarando illegittime alcune regole che sanzionano chi arriva in ritardo al lavoro. Queste norme, dice la sentenza, mettono in una situazione di particolare svantaggio le madri (anche i padri, ma soprattutto le madri, sottolinea la giudice) rispetto a lavoratori e lavoratrici senza figli o con figli già grandi, che non devono affrontare gli imprevisti collegati ai tempi e ritmi biologici dei bambini piccoli in età scolare, che si integrano piano piano nella vita comunitaria. Il caso venne sollevato da una dipendente dell’Ispettorato del Lavoro di Firenze che era stata sottoposta a procedimento disciplinare a causa di diversi ritardi al lavoro dovuti a una banale ma ricorrente malattia di sua figlia di tre anni. Tale situazione costringeva la madre, separata dal padre, a trovare e improvvisare delle soluzioni per far fronte alle emergenze nel momento in cui si presentavano e che mal si conciliavano con un orario di lavoro rigido, o adattabile con vincoli eccessivamente gravosi, come risulteranno quelli introdotti con gli ordini di servizio dell’Ispettorato. Tali disposizioni sono state ritenute dal Tribunale di Firenze contrarie ai tempi morbidi dell’integrazione dei bambini piccoli alla scuola e ha ordinato all’Ispettorato del Lavoro di Firenze la cessazione del comportamento pregiudizievole tramite la rimozione dell’efficacia giuridica delle norme in discussione che negano l’evidente necessità di tempi diversi. In questo caso si è riuscito a concedere questo tempo di una prima relazione con il mondo esteriore, ammorbidendo la barriera simbolica (Clara Jourdan) rappresentata dalla norma giuridica.

In questo periodo in cui tanti diritti vengono derogati – siamo chiuse senza aver commesso nessun reato! – l’impunità inaspettata prende corpo e ci adagiamo per narrarla dove è più necessaria.

Forse in questi giorni di sospensione è possibile provare a prendere una Pausa per rincorsa, dal titolo di un bel libro di Anna Santoro, che usiamo spesso ricordare io e mio marito in questo periodo in cui stiamo parlando con maggiore precisione. Anche le parole si ossigenano.

Con la fine del patriarcato ci siamo tolte gran parte dei timori ma i calcoli li dobbiamo ancora fare. E li facciamo. Come ci insegnano le nostre nonne. Penso alla mia, mi abuela Paca, che riusciva a costruirsi la cornice formale e sociale necessaria per poter mettere in atto la propria libertà negli anni del patriarcato vigoroso. Lei restò vedova giovane con due bambine di otto anni e decise di andare a vivere con loro a casa dei suoi genitori. Adorava più di tutto le passeggiate solitarie per il suo paese. Per poterle fare impunemente, si inventava delle visite alle sorelle, cugine e amiche, che duravano pochi minuti ma che a lei davano la tranquillità di spirito necessario per potersi godere pienamente la luce e il profumo del suo adorato paese senza che nessuno la giudicasse, riappropriandosi così della narrazione. Questo suo insegnamento – che ho portato al presente grazie a Luciana Tavernini e Marina Santini, le mie maestre del corso del master di Duoda di Storia vivente – mi accompagna molto in questi giorni strani in cui faccio lezione a distanza alle mie studentesse della Facoltà di giurisprudenza di Siena. Leggo loro con piacere e felicità le parole di Lia Cigarini, María-Milagros Rivera Garretas, Silvia Niccolai, Simone Weil, del Sottosopra Immagina che il lavoro, e tante altre, nell’ambito del mio corso Derecho, trabajo y diferencia sexual. Provo la leggerezza di spirito della passeggiata profumata nell’avvicinare le future giuriste alla genealogia femminile nel diritto. Come semi che germineranno in un terreno che oggi, quando tutto sembra crollare, emerge più ossigenato e fertile e dove la nostra origine ci appare ben radicata nella realtà.


(*)

Murata nel Cielo!

Che cella!

Che ogni cattività sia,

Tu, dolcissima dell’Universo,

Come quella che ti rapì a te!


(poesia 1628 di Emily Dickinson – tradotta in italiano da me – raccolta nel libro di María-Milagros Rivera, Emily Dickinson, edizione bilingue, Sabina editorial, Madrid, 2016, p. 57; con questa poesia Emily ricorda le murate).

A L’Osservatore Romano, 22 aprile 2020

Quando per me l’idea di andarmene da questo mondo non voleva dire praticamente niente, per me morivano solo gli altri; poi a poco a poco sono entrata anch’io nella categoria dei vecchi, ancora non destinata a morire ma con il sentimento che la mia vita si stava consumando. In questa fase ho fatto delle riflessioni legate alla mia morte, tra le quali che a suo tempo avrei lasciato questo mondo senza lasciar detto nulla a quelli che ci restavano: per me avrebbero parlato i miei scritti, mi piaceva pensare, il mondo che io lascio, a loro sembrerà ancora nuovo (e, in caso, da salvare dai disastri ambientali, annunciati come prossimi).

L’emergenza globale del nuovo virus ha fatto crollare questa costruzione mentale nei termini più imprevedibili: mi resta da vivere non so quanto ma il mondo sta cambiando per tutti, e nessuno sa come cambierà. Che cosa possiamo dire oggi noi che siamo vecchi? Posso fare qualcosa con le mie forze residue? E che cosa? Che cosa faranno quelle e quelli che restano? Come vivrà la generazione che viene?

Si fanno delle ipotesi, delle previsioni, delle congetture, oltre a formulare analisi critiche seguite da severe e giuste conseguenze o da accorate raccomandazioni. Si tratta, in sostanza, di adoperarsi perché non il potere sia la ragione della politica ma una maggiore giustizia sociale e una convivenza pacifica così da essere meglio preparati a questo tipo di emergenze, e più umani.

 Leggo e ascolto, ma ogni volta che mi trovo d’accordo, anzi: più mi trovo d’accordo e più sono presa da un dubbio che mi toglie la parola: non ne siamo capaci. Però… però, mi dico, l’emergenza ha mobilitato il personale sanitario e altri, donne e uomini, a dare il meglio di sé fino al limite delle loro forze e a rischio di ammalarsi. Loro, che sono persone non eroiche nella normalità del vivere, in condizioni estreme riescono a trovare le energie e mi chiedo: dove hanno trovato le forze necessarie? Le hanno trovate, questo è il fatto: dunque, l’umanità è capace di volere e condividere qualcosa di buono?

Da qualche parte nel mondo, in questi giorni su un grande muro esterno è comparsa questa scritta: “Non torniamo alla normalità, il male è questo”. Verità paradossale ma vera.

Abbiamo creduto normale accettare che nazioni povere fossero impedite di migliorare a causa del debito che hanno con i paesi ricchi, Non abbiamo neanche notato di essere regolarmente complici dei più forti, e sopportiamo o troviamo naturale che i rapporti tra le persone e tra le nazioni siano regolati dalla forza. Ci consideriamo fortunati perché abbiamo la necessaria assistenza sanitaria, che difetta o manca a tanti altri nel mondo. Si parla di libertà e si pensa alla libertà di farsi concorrenza anche nel commercio di beni indispensabili…

E noi continueremo a chiamare normalità questo stato di cose? Con quello che segue: guerre per assicurarsi risorse naturali, paesi resi invivibili da guerre civili, commercio di armi, alleanze ai fini della superiorità militare…

Sono una donna e quando quelle della mia generazione si sono dette che la subordinazione femminile al mondo degli uomini non è normale, che non potevamo accettarla e che non era accettabile neanche dagli uomini, questo stato di cose ha cominciato a cambiare profondamente a cominciare dai rapporti tra donne come anche quello con l’uomo. La subordinazione durava si può dire da sempre ma quando la consapevolezza ha cominciato a diffondersi come un contagio e il dominio maschile è stato visto per quello che aveva di iniquo e sbagliato, non aveva più credito ed è venuto meno. Queste cose succedono, come è successa la mobilitazione eroica di gente normale per aiutare il prossimo bisognoso.

Perché succedano, ci vogliono delle circostanze favorevoli. D’accordo. Forse è venuto il tempo favorevole perché una nuova generazione si mobiliti per salvare il pianeta dal disastro ecologico e l’umanità dall’egoismo fatto sistema, le due cose insieme perché insieme vanno. Non sul piano economico, si dirà. Infatti le circostanze favorevoli non bastano, ci vuole anche una presa di coscienza personale, contagiosa e condivisa, ci vuole un libero diffuso con-sentire. E questo è a causa della libertà la cui possibilità, prima di essere un diritto umano, prima di essere una conquista, ci è donata con la parola.