Fin dal primo giorno di quarantena abbiamo sentito il desiderio di scambiarci pensieri e impressioni su quanto stava accadendo, nella convinzione che anche nell’emergenza non avremmo rinunciato a porci domande politiche radicali. Da femministe sappiamo che il nostro bene più prezioso sono le relazioni ed erano proprio queste ad essere messe in scacco dalla situazione, e non solo perché eravamo costrette in casa ma anche perché sembrava che non fosse più lecito porsi domande, riflettere, discutere su quanto veniva deciso sopra le nostre teste.

Se, per ragioni sanitarie, era proibito vederci, almeno dovevamo fare il possibile per continuare a pensare insieme e non lasciarci sopraffare dalla paura. Lo scambio quotidiano ci ha permesso di sentirci meno sole, regalandoci forza. L’alternativa ci era chiara: la passività, l’impotenza di una vita totalmente confinata nella sfera privata, il rinunciare alla politica, intesa come possibilità di giocarsi lo scarto tra dentro e fuori, tra personale e politico, tra stanza tutta per sé e città, domestico e inaddomesticato.

L’amore per la politica ci ha dato una spinta «fuori» dal guscio delle emozioni – rabbia, paura –, ci ha portate a cercarci, ma non è stato solo questo. Ci ha aiutate la consapevolezza che sono tantissime le donne che ci hanno precedute che hanno trascorso la loro vita tra le mura domestiche, un’esperienza non così lontana di cui ciascuna di noi conserva ancora le tracce dentro di sè, anni in cui le donne hanno dovuto trovare lo spiraglio per far sentire la propria voce, forzandosi ad abbattere quei muri, anche per noi. Sappiamo soprattutto, grazie a chi ci ha precedute, che la vita chiuse in casa non è vita. Ci portiamo dentro questa storia, questa consapevolezza e soprattutto questa forza, il desiderio antico di riprenderci la vita fuori, di essere in tutte le attività e in tutti i luoghi.

L’altro passo è stata la scrittura collettiva, che presupponeva l’immaginare un piano di riapertura che mettesse insieme delle idee per il dopo in grado di rispondere alla nostra esigenza primaria: avevamo bisogno di uno sguardo ampio in un tempo che sembrava obbligarci a una visione miope incapace di vedere al di là di domani. La politica è guardare lontano, necessita di aria, di spazi e tempi sconfinati, di un orizzonte grande, soprattutto in un momento difficile come questo.

Abbiamo capito quanto fosse importante, perché profondamente politico, l’immaginare insieme un progetto di riapertura che rispondesse alle necessità reali: l’importanza delle relazioni, la salute di tutte e tutti (bambine e bambini, donne e uomini di tutte le età), l’imperativo irrinunciabile della libertà, l’importanza del lavoro e del reddito.

Come non farci schiacciare dall’angoscia data da un virus sconosciuto, dalla mancanza di prospettiva e di informazioni chiare, dalla paura inevitabile con il bollettino quotidiano dei morti? La lotta politica è stata la nostra risposta. Sentivamo e sentiamo la necessità di continuare a riflettere insieme, non rinunciare a farci domande radicali, anche se scomode, anche se la reazione di tante amiche è stata di sconcerto. Affidarci l’una all’altra nello scambio di articoli, di riflessioni, di conoscenze è stata la nostra risposta.

Questa pandemia ci ha cambiate profondamente. Ci ha rivelato aspetti di noi, delle nostre relazioni e del simbolico che guida le nostre scelte che non ci aspettavamo. La necessità di stare presso la nostra verità, fuori da schemi ideologici, ci ha mostrato contraddizioni che ci hanno spiazzato e che ridisegnano il panorama delle alleanze politiche. Cosa mettiamo al centro delle nostre lotte? Noi sentiamo il rischio di ammantare di politica posizioni segnate dalla paura. Comprendiamo bene la necessità di non correre rischi inutili, ma invece di affidarci alle relazioni e alla fiducia nei confronti dell’altra/o, vediamo intorno a noi tante/i che non riescono a immaginare scenari diversi rispetto a quelli imposti dall’alto.

Le donne hanno lottato per la libertà come un bene prezioso che non può essere barattato con il diritto alla salute né messo in contrapposizione con il bene della comunità. La libertà per cui le donne si sono battute non ha nulla a che fare con l’egoistica libertà individualista ma è profondamente legata alla politica relazionale che abbiamo imparato con il femminismo.

Ancora adesso, di fronte alla fantomatica fase 2, lo stato entra nelle nostre vite a dare delle gerarchie di importanza nelle relazioni personali. Proprio di fronte all’ordine paterno che vorrebbe regolare le nostre urgenze, noi iniziamo a costruire reti ed immaginare il prossimo convegno femminista.

Ormai anche giornali mainstream come il The Economist si accorgono che non è mai stato così bello essere una adolescente oggi in un paese occidentale: Le ragazze sono forti è il titolo di un articolo pubblicato su Internazionale (n. 1399) che, senza trascurare le difficoltà, racconta come le ragazze stanno in relazione tra loro, interessandosi a ciò che succede nel mondo, consapevoli del fatto che la loro voce potrà essere ascoltata. Ciò che emerge è un cambiamento strutturale. Tutte le intervistate citano le madri come modelli di comportamento e da qui emerge con chiarezza il privilegio di essere dello stesso sesso della madre poiché le madri usano con le figlie un vocabolario più complesso, rispetto a quello usato con i figli, arricchito dall’alfabeto delle emozioni e dell’introspezione, accrescendo così in loro la fiducia in se stesse e nelle proprie simili.

Sono madre di due donne adulte e questa nuova narrazione della realtà, che modifica profondamente i nostri immaginari, corrisponde alla mia esperienza concreta. Ho la percezione che le mie figlie si muovano rafforzate dalla genealogia femminile che le precede e per questo siano capaci di prendere in mano la loro vita e farsi avanti con coraggio. Partecipo con loro a un complesso percorso di trasformazione delle relazioni e l’esercizio di autorità come madre, necessario per la loro crescita, si è sempre radicato nell’amore per la libertà femminile. Le giovani di oggi sono immerse nell’energia sprigionata dal femminismo e si trovano in una società modificata dalle donne. Anche se molte giovani donne non sanno nominare le proprie esperienze con le parole del pensiero della differenza, le sue pratiche fondamentali sono entrate nella loro vita concreta. Questo è il segreto della loro fiducia nelle proprie forze e, come dice Luisa Muraro, del riaffacciarsi della loro baldanza.

Tra le relazioni a distanza, fiorite on line in tempo di covid, ho avuto l’occasione di partecipare, insieme a molte amiche del Collegamento donne Comunità di base e “le molte altre”, agli incontri, organizzati dall’Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne (OIVD) e da Donne per la chiesa, con cattoliche di tutto il mondo che si sono messe in rete nel Catholic Women’s Council. Per le giovani donne cattoliche c’è un profondo scollamento tra società e chiesa, le discriminazioni tra uomini e donne sono diventate anacronistiche e gli scandali di natura finanziaria e sessuale inaccettabili. Ciò che ammiro in queste donne èl’autorità con cui sono entrate sulla scena pubblica, senza chiedere il permessoCiò che più mi ha sorpreso è che, ascoltandole, ho constatato quanto siano distanti da una semplice idea di parità rivendicativa e quanto invece siano attrezzate del ricco bagaglio femminista. Esprimono con chiarezza il proprio giudizio e hanno una precisa idea di chiesa. Le affinità riscontrate mi hanno dato gioia e rafforzata nel mio percorso.

Mi riferisco soprattutto al movimento Maria 2.0 che ha preso il via due anni fa da una piccola parrocchia di Münster. Tutto è partito da una specie di sciopero. Le donne si rifiutavano di entrare in chiesa, non aiutavano più in sacrestia, pregavano fuori dalla parrocchia, evidenziando così il proprio dissenso. Lentamente l’idea della resistenza passiva ha contagiato altre diocesi fino ad arrivare anche in Austria e in Svizzera. Recentemente hanno affisso le loro tesi ai duomi e alle chiese di tutto il Paese, chiedendo più spazi ma anche una maggior trasparenza sugli abusi sessuali.

Si definiscono femministe e praticano la politica delle relazioni: insistono moltissimo sul lavoro in piccoli gruppi di donne e sul riconoscimento delle madri e delle maestre, affermano che nella storia ci sono sempre state molte donne forti. 

Per loro l’autorità e il potere nella chiesa sono slegati dalla responsabilità, dalla relazionalità e dall’etica: c’è un abuso di potere nella simmetria gerarchica, un potere maschile non controllato.

Le più giovani auspicano un lavoro intergenerazionale, sostengono infatti: siamo sedute sulle spalle di giganti, riferendosi alle donne che le hanno precedete.

Tutte affermano di avere un approccio femminista alla teologia, Gesù era un rivoluzionario: al cuore del Vangelo c’è la giustizia. Ma nel Vangelo sono le donne che arrivano al Sepolcro e annunciano la resurrezione agli uomini che non ci credono, quindi serve disobbedienza pastorale. Per una chiesa fedele al Vangelo, che si riferisca di nuovo al messaggio di Gesù, è importante che le donne ci siano con il loro desiderio. La maggior parte delle donne non vorrebbe essere inserita in questo sistema clericale con tutto l’apparato sacramentale dei maschi, dei preti. La separazione tra laici e ordinati è solo una questione di potere. È sbagliato che l’ultima cena venga usata come strumento per separare uomini e donne tra loro. Così si rende piccolo Dio!

Quindi hanno deciso di celebrare come Gesù ha insegnato nell’ultima cena e lo scorso 29 Novembre di fronte al duomo di Colonia, Mainz, Amburgo, Münster, in contemporanea, le donne di Maria 2.0 hanno organizzato e celebrato l’eucarestia, così come pensata da loro, con centinaia di persone. Davanti all’entrata delle cattedrali hanno apparecchiato le tavole con tovaglie bianche per la condivisione del pane, del vino, proprio come fece, per altri motivi e in un diverso contesto storico, la comunità dell’Isolotto di Firenze nel lontano 1969, dando vita all’esperienza delle Comunità cristiane di base. In questa occasione però hanno celebrato solo le donne, senza preti, più simili in questo a noi donne delle Cdb, che durante il Seminario Le Scomode figlie di Eva del 1988, celebrammo un’assemblea eucaritica presieduta solo da donne, facendo notizia sulla stampa. Le amiche tedesche hanno quindi pregato, predicato, commentato anche con interventi liberi, cantato e condiviso il pane, bevendo il vino in memoria di Gesù.
Per incontrarle abbiamo scritto a più mani la nostra storia in un testo intitolato Visitazioni che uscirà a breve, anche tradotto in tedesco, felici di poter condividere con loro i nostri percorsi e valorizzare le affinità.

“La differenza delle donne sono millenni di esclusione dalla storia”, ci insegna Carla Lonzi. Ora però le donne si stanno riaffacciando e quando si raccontano sanno anche spiegare qual è il loro desiderio e dove sta l’origine della propria forza. Contemporaneamente cresce la difficoltà maschile nel misurarsi con donne che hanno forti riferimenti femminili. Si potrebbe allora dire che la differenza degli uomini sia millenni di autoesclusione dall’ordine simbolico della madre. Forse il primo passo per loro potrebbe essere dar credito alla lingua materna e far sì che quel di più che rafforza le loro sorelle, rafforzi anche loro, imparando ad usarla in tutta la sua ricchezza e riconoscendole autorità.


Nota:

ITALIAN TRANSLATION: La critica come segno di amore – voci di giovani cattoliche

DISCORSO DI APERTURA DELLA SETTIMANA D’AZIONE DI MARIA 2.0 COLONIA, 19 SETTEMBRE 2020  di MARIA MESRIAN  

Incontro “Cosa succede in Germania?” con Maria Mesrian di Maria 2.0 Colonia


Noi amiche del corso di inglese, tutte signore intorno ai 70 anni, abbiamo continuato a incontrarci con la piattaforma zoom. Luisa Valenziani, la nostra insegnante che nel frattempo si è trasferita a Roma, ci convoca settimanalmente. Leggiamo articoli dal New York Times, racconti di scrittrici e scrittori americani e ne parliamo in inglese tra noi.

Marina Santini e io abbiamo cominciato da gennaio a insegnare il corso di Storia Vivente per il master online di Duoda in Studi della differenza sessuale all’università di Barcellona. Le nostre allieve ci inviano settimanalmente i loro compiti in spagnolo, io li traduco, poi con Marina discutiamo animatamente almeno un’ora ogni testo e prepariamo delle risposte con i nostri commenti, che poi traduco e invio.

Una quindicina di giorni fa ho avuto l’irresistibile desiderio di leggere in francese. Ho scovato nella libreria Deux dames sérieuses di Jane Bowles che avevo acquistato anni fa alla svendita annuale di libri usati del Trinity College di Dublino. Un vecchio libro del 1943, tradotto in francese nel 1969, che, come succede spesso, se è per te, ti aspetta.

Mi sono accorta che anche altre amiche hanno ripreso i loro studi linguistici. Mia figlia Silvia, poco più che trentenne, che conosce a livelli differenti cinque lingue, si è ora impegnata a imparare il tedesco. Anche mio marito continua accanitamente a lottare per capire e parlare inglese e la sera lui e io vediamo film in lingua originale con sottotitoli in italiano.


Perché in questa situazione tanto fervore linguistico?

Ho pensato che, oltre a un’ottima ginnastica per il cervello, fosse un modo di rendere presente un futuro in cui potremo ancora muoverci in Europa, nel mondo, comunicare con amiche e amici che vivono in altri paesi; dimostrare concretamente fiducia nel fatto che ritorneremo a incontrarci e parlare sarà un modo di essere più profondamente vicine, pur alla debita distanza.

Un altro motivo mi sembra sia la fiducia nella possibilità connessa proprio all’imparare una lingua straniera. Quando si comincia a leggere un testo in una lingua che si conosce poco, all’inizio ci sembra quasi incomprensibile. Il senso pian piano si dispiega solo a una seconda, a una terza lettura, andando a cercare le parole sconosciute e sapendo, come dice la mia insegnante, che un testo originale consente il gioco dell’interpretazione, mentre la traduzione già data, per quanto buona, ne propone una sola, insomma ci limita. Inoltre, come mi suggerisce la psicoterapeuta psicoanalitica Annapaola Giannelli, la traduzione consente di arrivare al nocciolo della parola nella sua declinazione affettiva ed è attraverso il nostro legame con l’oggetto che si esprime la traduzione giusta per ognuna/o di noi. Con questi esercizi dunque esercitiamo e rafforziamo la fiducia nel linguaggio che ci permetterà di avere una maggiore chiarezza nella situazione attuale, una situazione confusa di cui scopriamo solo alcuni elementi ma che desidereremmo arrivare a chiarire e ci offre l’elasticità, mettendo in gioco anche l’affettività, di non accontentarci di un’unica interpretazione.


Ma non basta

La mia amica Laura Modini mi ha raccontato come in questo periodo si stia impegnando in maniera più approfondita a imparare il cinese, che da anni sta studiando. Settimanalmente fa lezione via internet con la sua insegnante, che ora vive in Ungheria, per rafforzare la sua comprensione della struttura della lingua; un’altra giovane insegnante cinese invece con insistente pazienza l’aiuta a parlare a capire. E Laura esegue anche tutti i compiti. Mentre svolge queste attività, lei non pensa ad altro, si concentra completamente; anche se dice che i risultati le sembrano ancora scarsi, continua perché si ricarica. Le ho detto che è la sua forma di meditazione, il suo modo di concentrarsi sul presente, su quello che sta facendo, mettendoci tutte le sue energie. La meditazione porta a percepire la gioia interiore di sentirsi vive, parte di un mondo più ampio verso il quale proviamo gratitudine per la possibilità di scoprire giorno per giorno, momento per momento qualcosa di nuovo, di inaspettato, come accade con la lingua in cui ogni parola può offrici la gioia della scoperta.


E altro ancora

Mio figlio Andrea vive a Londra con sua moglie Valeria e loro bambina Gaia di venti mesi a cui sua madre e los abuelos si rivolgono in spagnolo, mentre il papà e i nonni in italiano; al nido, in giro e anche in casa sente parlare inglese. Come dicevo alle mamme straniere a cui insegnavo, anche a Londra dépliant colorati del Comune suggeriscono di comunicare con le creature piccole usando la propria lingua forte, insomma la propria lingua materna, per permettere loro di godere e imparare una lingua complessa, sciolta, carica di parole, suoni e toni ricchi di sentimenti. Certo, parleranno più tardi, ma il passaggio da una lingua all’altra creerà un’abitudine al saper cogliere prospettive diverse.

In questo periodo mio figlio, secondo le diagnosi telefoniche di un medico inglese e di uno di Bergamo, in base ai sintomi che presentava era ammalato a causa del Covid-19. Stava piuttosto male ma, come anche mia nuora, doveva lavorare da casa. Allora mio marito e io abbiamo cominciato a creare un’attività di animazione a distanza con racconti di storie, canzoni, video condivisi e tanto altro, cosa che non avremmo mai fatto se non si fosse trattato di un’emergenza. Gaia, che non ha bisogno di parlare perché la capiamo immediatamente, manifesta emozioni complesse attraverso il corpo, col viso e il suo comportamento. Si infiamma alle parole nuove. Ho notato la sua gioia quando, all’interno di un discorso più ampio, ne riconosce una. È una gioia imprevista, una sorpresa sottile, quella che io chiamo solletico al cuore, che ti fa ridere tra te e te per qualcosa che ti tocca da dentro, senza che chi ti è attorno la possa condividere.

È quello che capita a me quando trovo negli scritti delle allieve forme dello spagnolo latino-americano che mi sorprendono, parole nuove che, anche solo per il loro suono, richiamano aspetti diversi della cosa che rappresentano, un’esperienza che in italiano è per me ormai rara.

Allora ho capito che questo fervore linguistico è legato anche all’ascolto primigenio delle parole, quell’ascolto della voce di nostra madre che ci assicura che le cose, il mondo, pur scomparendoci davanti, possiamo evocarle attraverso le parole, perché lei ci assicura della loro esistenza e della possibilità, parola dopo parola, di conoscerle meglio. È una parola rassicurante, quella che ascoltiamo prima e appena dopo la nascita, quando usciamo dal buio caldo alla luce accecante di un mondo che ancora non vediamo.

In questi giorni abbiamo attraversato diverse fasi: paura, incredulità, emozione per le novità del momento, grande dolore, bisogno e piacere di riposare ma anche di cacciare fuori le nostre antiche e salde competenze di governo della casa, cercando pure di renderla compatibile con il lavoro e con i giochi da inventare. Finché non si è stabilita una sorta di normalità all’interno di questa situazione anomala. Abbiamo allora capito, come si dice spesso in questi giorni, le cose essenziali della vita ma anche a dare priorità agli impegni di lavoro e ai compiti di scuola delle nostre figlie, cioè a quello che è conciliabile con il primum vivere e i suoi imprevisti, rinviando, o ignorando quelli che non lo sono.

Lo facciamo con disinvoltura e autorità e cresce in noi un senso di agio, rafforzato dalla materialità delle mura delle nostre case (quelle liberate da disordini monumentali), dove siamo le signore del gioco, stiamo al sicuro e nessuno può entrare a chiederci il tornaconto delle nostre scelte comunicate talvolta in modo brusco, anche se nel limite della cortesia, come direbbe Jane Austen ma anche mia madre.

Una sorta di “impunità” sta alleggerendo molto le mie scelte che, in un momento di emergenza, devono essere, più che mai, quelle giuste. Ma allo stesso tempo l’emergenza rende superflue le conseguenze di un eventuale errore, se non è così grave da mettere a repentaglio l’integrità fisica nostra e dei nostri cari. Possiamo sperimentare, inventare, azzardare. Seguiamo il nostro sentire, senza le solite interferenze. Ci ossigeniamo come il cielo, la terra e i mari. Siamo più centrate.

Provo un forte senso di immunità/impunità che si è rafforzato dalle condizioni straordinarie di queste giornate murate* ma che mi piacerebbe normalizzare, portarmelo addosso, renderlo dicibile. Penso allora a quanto sarebbero libere le donne nella vita, e in particolare nella sfera pubblica, se seguendo il loro senso di giustizia fossero impuni rispetto alla legge e al giudizio maschile. È vero che in tante non concediamo più credito al diritto e che chi ci legittima ad agire è un’altra donna perché accettiamo di sottoporci a una misura giudicatrice femminile, ma il diritto non per questo smette di giudicarci e ci sottrae delle energie che potremmo impiegare meglio. Quanto riuscirebbero a risolvere le donne sgombrate dai calcoli e dal timore di soffrire una sanzione che, tra l’altro, non è stata pensata da loro? Trovo in questi giorni una possibile riposta in un’asimmetrica applicazione del diritto che tenga conto della diversa partecipazione dei due sessi nella sua formulazione e significazione: diversità e conseguente sessuazione del diritto che conosciamo bene dal Non credere di avere diritti, al “Sottosopra oro”, Un filo di felicità e alla Politica del desiderio (di Lia Cigarini). In questi testi abbiamo ricevuto spunti brillanti sui vuoti nel diritto e, forse, anche sui vuoti nella sua dimensione punitiva.

Ricordo che tanti anni fa, Luisa Muraro venne a Siena a parlare di uno dei suoi libri, Al mercato della felicità, credo. Le chiesi come si può cambiare il diritto. Cominciavo all’epoca a incarnare alcune pratiche politiche che le donne stavano da tempo mettendo in gioco nei luoghi del diritto. La sua risposta fu il racconto di una sentenza di un tribunale degli Stati Uniti che non aveva applicato la sanzione prevista per l’omicidio a una donna che aveva ammazzato il marito che la picchiava, violentava e maltrattava da anni. Oltre alla eventuale legittima difesa, alcune donne e alcuni uomini sentiamo nel nostro profondo che una differente applicazione della sanzione non è altro che la giusta riparazione che le donne si meritano.

Mettiamola così: se la parola impunità significa assenza di punizione prevista dalla legge, tante volte le donne dovrebbero avere uno sconto della pena, non pensata da loro (e ancora oggi, a volte, contro di loro). Anche perché le nostre punizioni sarebbero altre, forse anche più rigorose, in quanto più attente alla realtà. Mi viene in mente a tal proposito la sentenza della giudice Paola di Nicola che in un caso di prostituzione minorile, obbligava il prostitutore a comprare testi femministi, affinché li leggesse la giovane che era stata prostituita.

Fin quando il diritto non assomiglierà di più al (rigoroso) ordine simbolico della madre, nel caso in cui una donna non osservi le leggi del padre dovrebbe avere una sorta di presunzione di impunità: scardinare la norma senza grosse conseguenze. Io stessa sento che quando le donne non seguono le regole previste in materia, ad esempio, di tempi di lavoro, svanisce la mia critica, il giudizio si ammorbidisce e mi ricordo allora il perché. So che noi donne abbiamo un’altra esperienza, un’altra misura, che fa fatica a modificare il diritto del lavoro e questo mi basta e avanza. Così, mi dico, quando arriviamo in ritardo al lavoro perché i tempi della vita, della cura, degli affetti – i tempi del primum vivere – non combaciano con i tempi della produzione, non dovremmo essere costrette a fare salti mortali per ottenere l’indulgenza del diritto. Osservo con piacere che alcune donne avvocate e giudici stanno praticando questa sorta di rilassamento punitivo sessuato. Una recente ordinanza del 22 ottobre 2019 del Tribunale di Firenze tiene conto di questa prospettiva, dichiarando illegittime alcune regole che sanzionano chi arriva in ritardo al lavoro. Queste norme, dice la sentenza, mettono in una situazione di particolare svantaggio le madri (anche i padri, ma soprattutto le madri, sottolinea la giudice) rispetto a lavoratori e lavoratrici senza figli o con figli già grandi, che non devono affrontare gli imprevisti collegati ai tempi e ritmi biologici dei bambini piccoli in età scolare, che si integrano piano piano nella vita comunitaria. Il caso venne sollevato da una dipendente dell’Ispettorato del Lavoro di Firenze che era stata sottoposta a procedimento disciplinare a causa di diversi ritardi al lavoro dovuti a una banale ma ricorrente malattia di sua figlia di tre anni. Tale situazione costringeva la madre, separata dal padre, a trovare e improvvisare delle soluzioni per far fronte alle emergenze nel momento in cui si presentavano e che mal si conciliavano con un orario di lavoro rigido, o adattabile con vincoli eccessivamente gravosi, come risulteranno quelli introdotti con gli ordini di servizio dell’Ispettorato. Tali disposizioni sono state ritenute dal Tribunale di Firenze contrarie ai tempi morbidi dell’integrazione dei bambini piccoli alla scuola e ha ordinato all’Ispettorato del Lavoro di Firenze la cessazione del comportamento pregiudizievole tramite la rimozione dell’efficacia giuridica delle norme in discussione che negano l’evidente necessità di tempi diversi. In questo caso si è riuscito a concedere questo tempo di una prima relazione con il mondo esteriore, ammorbidendo la barriera simbolica (Clara Jourdan) rappresentata dalla norma giuridica.

In questo periodo in cui tanti diritti vengono derogati – siamo chiuse senza aver commesso nessun reato! – l’impunità inaspettata prende corpo e ci adagiamo per narrarla dove è più necessaria.

Forse in questi giorni di sospensione è possibile provare a prendere una Pausa per rincorsa, dal titolo di un bel libro di Anna Santoro, che usiamo spesso ricordare io e mio marito in questo periodo in cui stiamo parlando con maggiore precisione. Anche le parole si ossigenano.

Con la fine del patriarcato ci siamo tolte gran parte dei timori ma i calcoli li dobbiamo ancora fare. E li facciamo. Come ci insegnano le nostre nonne. Penso alla mia, mi abuela Paca, che riusciva a costruirsi la cornice formale e sociale necessaria per poter mettere in atto la propria libertà negli anni del patriarcato vigoroso. Lei restò vedova giovane con due bambine di otto anni e decise di andare a vivere con loro a casa dei suoi genitori. Adorava più di tutto le passeggiate solitarie per il suo paese. Per poterle fare impunemente, si inventava delle visite alle sorelle, cugine e amiche, che duravano pochi minuti ma che a lei davano la tranquillità di spirito necessario per potersi godere pienamente la luce e il profumo del suo adorato paese senza che nessuno la giudicasse, riappropriandosi così della narrazione. Questo suo insegnamento – che ho portato al presente grazie a Luciana Tavernini e Marina Santini, le mie maestre del corso del master di Duoda di Storia vivente – mi accompagna molto in questi giorni strani in cui faccio lezione a distanza alle mie studentesse della Facoltà di giurisprudenza di Siena. Leggo loro con piacere e felicità le parole di Lia Cigarini, María-Milagros Rivera Garretas, Silvia Niccolai, Simone Weil, del Sottosopra Immagina che il lavoro, e tante altre, nell’ambito del mio corso Derecho, trabajo y diferencia sexual. Provo la leggerezza di spirito della passeggiata profumata nell’avvicinare le future giuriste alla genealogia femminile nel diritto. Come semi che germineranno in un terreno che oggi, quando tutto sembra crollare, emerge più ossigenato e fertile e dove la nostra origine ci appare ben radicata nella realtà.


(*)

Murata nel Cielo!

Che cella!

Che ogni cattività sia,

Tu, dolcissima dell’Universo,

Come quella che ti rapì a te!


(poesia 1628 di Emily Dickinson – tradotta in italiano da me – raccolta nel libro di María-Milagros Rivera, Emily Dickinson, edizione bilingue, Sabina editorial, Madrid, 2016, p. 57; con questa poesia Emily ricorda le murate).

A L’Osservatore Romano, 22 aprile 2020

Quando per me l’idea di andarmene da questo mondo non voleva dire praticamente niente, per me morivano solo gli altri; poi a poco a poco sono entrata anch’io nella categoria dei vecchi, ancora non destinata a morire ma con il sentimento che la mia vita si stava consumando. In questa fase ho fatto delle riflessioni legate alla mia morte, tra le quali che a suo tempo avrei lasciato questo mondo senza lasciar detto nulla a quelli che ci restavano: per me avrebbero parlato i miei scritti, mi piaceva pensare, il mondo che io lascio, a loro sembrerà ancora nuovo (e, in caso, da salvare dai disastri ambientali, annunciati come prossimi).

L’emergenza globale del nuovo virus ha fatto crollare questa costruzione mentale nei termini più imprevedibili: mi resta da vivere non so quanto ma il mondo sta cambiando per tutti, e nessuno sa come cambierà. Che cosa possiamo dire oggi noi che siamo vecchi? Posso fare qualcosa con le mie forze residue? E che cosa? Che cosa faranno quelle e quelli che restano? Come vivrà la generazione che viene?

Si fanno delle ipotesi, delle previsioni, delle congetture, oltre a formulare analisi critiche seguite da severe e giuste conseguenze o da accorate raccomandazioni. Si tratta, in sostanza, di adoperarsi perché non il potere sia la ragione della politica ma una maggiore giustizia sociale e una convivenza pacifica così da essere meglio preparati a questo tipo di emergenze, e più umani.

 Leggo e ascolto, ma ogni volta che mi trovo d’accordo, anzi: più mi trovo d’accordo e più sono presa da un dubbio che mi toglie la parola: non ne siamo capaci. Però… però, mi dico, l’emergenza ha mobilitato il personale sanitario e altri, donne e uomini, a dare il meglio di sé fino al limite delle loro forze e a rischio di ammalarsi. Loro, che sono persone non eroiche nella normalità del vivere, in condizioni estreme riescono a trovare le energie e mi chiedo: dove hanno trovato le forze necessarie? Le hanno trovate, questo è il fatto: dunque, l’umanità è capace di volere e condividere qualcosa di buono?

Da qualche parte nel mondo, in questi giorni su un grande muro esterno è comparsa questa scritta: “Non torniamo alla normalità, il male è questo”. Verità paradossale ma vera.

Abbiamo creduto normale accettare che nazioni povere fossero impedite di migliorare a causa del debito che hanno con i paesi ricchi, Non abbiamo neanche notato di essere regolarmente complici dei più forti, e sopportiamo o troviamo naturale che i rapporti tra le persone e tra le nazioni siano regolati dalla forza. Ci consideriamo fortunati perché abbiamo la necessaria assistenza sanitaria, che difetta o manca a tanti altri nel mondo. Si parla di libertà e si pensa alla libertà di farsi concorrenza anche nel commercio di beni indispensabili…

E noi continueremo a chiamare normalità questo stato di cose? Con quello che segue: guerre per assicurarsi risorse naturali, paesi resi invivibili da guerre civili, commercio di armi, alleanze ai fini della superiorità militare…

Sono una donna e quando quelle della mia generazione si sono dette che la subordinazione femminile al mondo degli uomini non è normale, che non potevamo accettarla e che non era accettabile neanche dagli uomini, questo stato di cose ha cominciato a cambiare profondamente a cominciare dai rapporti tra donne come anche quello con l’uomo. La subordinazione durava si può dire da sempre ma quando la consapevolezza ha cominciato a diffondersi come un contagio e il dominio maschile è stato visto per quello che aveva di iniquo e sbagliato, non aveva più credito ed è venuto meno. Queste cose succedono, come è successa la mobilitazione eroica di gente normale per aiutare il prossimo bisognoso.

Perché succedano, ci vogliono delle circostanze favorevoli. D’accordo. Forse è venuto il tempo favorevole perché una nuova generazione si mobiliti per salvare il pianeta dal disastro ecologico e l’umanità dall’egoismo fatto sistema, le due cose insieme perché insieme vanno. Non sul piano economico, si dirà. Infatti le circostanze favorevoli non bastano, ci vuole anche una presa di coscienza personale, contagiosa e condivisa, ci vuole un libero diffuso con-sentire. E questo è a causa della libertà la cui possibilità, prima di essere un diritto umano, prima di essere una conquista, ci è donata con la parola.

Domenica delle Palme, dopo un pranzo frugale, nella casa grande in cui abito ho aperto un video musicale che profumava di mistero e grande sacralità. Mi volevo preparare al mio impegno di scrittura assunto in questo tempo di Covid-19. La clip me l’aveva mandata un’amica protestante, poi anche una delle amiche e colleghe del gruppo “Femmes de Tétouan” con cui da dieci anni mi incontro a Tetuan. Tra noi discutiamo e ci confrontiamo: psicoterapeute, sociologhe, formatrici su temi che riguardano le famiglie e i vari contesti di appartenenza pur nei diversi orientamenti politici ed eventualmente religiosi, delle varie forme di precarietà simili eppure diverse.

La clip conteneva l’esibizione dell’Orchestra Filarmonica del Marocco registrata il 30 marzo dello scorso anno, davanti al Papa e al Re del Marocco Mohammed VI, interpretazione che univa in unisono sublime “Allahu Akbar”, “Adonai” e “Ave Maria”. Meraviglioso assistere a tanta bellezza e apertura al sacro pur nel minuscolo schermo di un cellulare.

Da me, a noi, noi adesso, noi in Italia noi nel mondo, uomini e donne, ma soprattutto noi donne. Forse per noi è più chiaro che al cospetto del Covid 19 il mondo sia diventato una grande cascina, una specie di condominio dove sentiamo i guai, i lutti e i pasticci dei vicini che a loro volta vedono i nostri. Noi donne, appunto, in un momento della storia in cui è chiaro quanto sia imperativo ricondurre l’umanità che abita il pianeta alla ragione e alla necessità di aprirci o riaprirci al sacro che pure ci abita tutti, ma particolarmente serve che fertilizzi la mente e l’anima di tante donne. Serve bilanciare l’eccessiva protervia e fragilità maschile con il contributo del pensiero femminile, il contributo della nostra visione, del nostro essere l’arte del fare per la collettività, più che per sterile egoismo personale.

Ho notato che sui social si parla tanto del narcisismo maschile dicendone peste e corna, ma purtroppo molte donne che con alcune eccezioni, in Italia e oltre, si sono avvicinate alla politica dei partiti, hanno messo in scena altrettanto narcisismo come se fosse quello una qualità piuttosto che un maledetto limite. È il momento di riflettere molto seriamente sulla necessità della rappresentanza femminile, possibilmente capace di creare valore anche nei luoghi decisionali dove il potere si esprime. Forse, proprio in questi giorni, cose eclatanti stanno accadendo: per esempio con la lettera aperta alle due leader europee che in questi tempi, hanno raggiunto i vertici dell’Europa: Christine Lagarde e Ursula von der Leyen. Più che per loro, il mio respiro di sollievo è per la lettera collettiva che sta raccogliendo firme e non solo di donne, lettera aperta che dovrebbe diventare oceanica, planetaria, capace di trasportare tantissime adesioni probabilmente di tutti coloro che amano Madre Terra e le donne.

Proprio oggi, tra le ferite sanguinanti di questa pandemia, possiamo intravvedere i percorsi possibili per creare maggiore spazio per il pensiero e l’agire delle donne, il maggior numero di noi, non solo le intellettuali, le femministe, piuttosto la maggioranza che spicca per intelligenza intuitiva, buon senso, capacità di sacrificio, generosità che si esprime quotidianamente nelle più varie forme.

Le donne che arrivano al vertice, sono sole, hanno bisogno di altre di noi che nei vari strati sottostanti o a latere creino e tengano per loro una base sicura affinché possano ricevere il nostro flusso di amore e fiducia, di sostegno con idee e progetti, come facemmo negli anni ’70 quando in discussione era la nostra identità di donne. Quello che volevamo allora era svincolato e spesso in contrasto con l’identità che i maschi accanto a noi speravano che noi assumessimo, sempre per sostenere loro, loro nella loro vanità.

Ora dobbiamo farlo oltre noi stesse, per il mondo, per noi donne, per i discendenti. Molte di noi hanno bisogno di orizzonti ampi per decidere che ne vale la pena; che è il caso di darci da fare per sostenere le possibili alternative a questo sistema che miseramente ci ha ingannati, negando l’attuazione dei diritti fondamentali ben presenti nella nostra Costituzione. Ci siamo lasciate ingannare, quindi come nelle relazioni di coppia che da anni, da decenni, da una vita intera non funzionano, è necessario che ci assumiamo le nostre responsabilità per aver fatto errori, pur pensando che certi atteggiamenti di accondiscendenza e asservimento al modello imperante, ancora, purtroppo, fossero necessari a salvare il salvabile. Non è più vero da un pezzo! Guardiamoci in faccia e poi guardiamo la realtà. Molte di noi hanno assecondato per paura, per bisogno, per ristrettezza di vedute, per penuria di coraggio, per isolamento, per incapacità di aggregazione con le altre: per solitudine. E quando ci abbiamo magari provato, dopo aver partecipato a qualche assemblea al femminile, purtroppo vi abbiamo ritrovato i limiti prevalenti nel modello maschile. È ora di cambiare aria, disinfettare, pulire e non solo le nostre case, come tutte in questi giorni, volendo o no, siamo tenute a fare.


Ho incrociato cronos e kairos quando ho scelto di vivere a Milano all’inizio degli anni novanta nel preciso punto di svolta in cui si evidenziava la radicale trasformazione della città. Amo le grandi città, sempre proiettate in avanti in continuo movimento. Ho abitato prima a nord in una casa di ringhiera, senza servizi, e subito mi sono presa una brutta infezione. Oggi dopo trent’anni abito a sud-est in una casa di proprietà. Quando il cielo è azzurro vedo a nord-ovest le Grigne e il monte Penice dal balcone opposto. Un quartiere moderno in continuo cambiamento dove però da un mese regna il silenzio.

Le gigantesche gru sono ferme, i lavori del nuovo centro direzionale e residenziale sono bloccati. Durante le mie brevi passeggiate entro il perimetro del quartiere vedo, nel terreno incolto a ridosso del borgo rurale prossimo a dove abito, fagiani e fagiane che pascolano nell’erba verde, colonie di nutrie nello specchio d’acqua formatosi da una roggia, intubata, interrata poi cementata ma che sbuca qua e là nello spazio non ancora costruito. Presto lo sarà, finita l’emergenza inattesa. Secondo il piano di governo del territorio (PGT), qui è prevista l’Arena Multifunzionale per le Olimpiadi del 2026 per le gare di hockey su ghiaccio poi per grandi eventi musicali. A me piacerebbe di più una bella piscina immersa nel verde con varie attività culturali e forse posso ancora sperare/sognare, adesso che la pandemia impone uno stop di lunga durata e un ascolto maggiore delle esigenze del territorio. Non è proibito sognare e possibilmente anche agire come sostiene l’economista italo-americana Melania Mazzuccato, consigliera economica del Governo italiano: «approfittare della crisi per indirizzare l’economia e l’intervento pubblico dello Stato verso una trasformazione ecologica».

Non separare i bisogni, i desideri e la libertà, questo per me significa cogliere il momento opportuno. Farci orientare e guidare dal principio materno quando i cicloni storici ci fanno piombare nell’emergenza. Ne parla anche Marcel Gauchet in un breve pamphlet dal titolo La fine del dominio maschile. Il principio della libertà incondizionata l’ho visto manifestarsi in mia madre. Io desideravo studiare e lei non pose condizioni sull’oggetto, sul cosa. Mentre mio padre pose delle condizioni ideologiche limitanti. Dovevo studiare quello che piaceva a lui. Anche il ciclone degli anni cinquanta/sessanta ebbe origine dalla modernizzazione. Ripensare a quel periodo che pose le fondamenta di una biforcazione storica nella mia vita e in quella italiana mi aiuta a capire il presente. Affiora da questo tempo rallentato un altro ricordo sepolto. Negli anni sessanta mio padre, da contadino, s’improvvisò insieme a un amico piccolo imprenditore. Installarono una struttura per l’allevamento intensivo di galline faraone. Mia madre era contraria, ma non fu ascoltata. Lei era esperta di allevamento di animali da cortile e aveva uno sguardo più lungo. Le faraone, animali molto sensibili che per un nonnulla si spaventano, infatti morivano a decine e venivano date in pasto ai maiali… E così l’esperimento si rivelò un fallimento. Con gravi perdite economiche e sofferenze.

Oggi nella selva di dati statistici manca sempre qualcosa, e cioè le motivazioni soggettive che spingono le azioni di una donna. Cioè la necessità di interpretare i dati così come le scelte determinanti delle nostre vite per cambiare le letture correnti e andare in profondità e lontano. Il respiro della città è il soffio che anima la mia fiducia di poter realizzare l’inimmaginabile. Un di più di esistenza me lo può dare una città dove c’è aria, dove c’è larghezza, termine occitano usato dalle trovatore, cioè generosità, dove ci sono relazioni che non hanno paura di pensare e pensarsi in grande. La ruach, il soffio, un termine ebraico, usato dalle beghine, è poter trovare, ricreare tracce della relazione materna nell’assetto urbano, nella vita della città. Citando la mistica medievale Hadewijch di Anversa, nella sua poesia strofica sulla primavera: «Uno spirito di buona volontà crea al suo interno più bellezza di quanto qualsiasi regola possa mai generare».

A Radio 3 alla lettura dei giornali del mattino ho ascoltato la storia di un’infermiera che cura con lo sguardo. Completamente coperta, le restano solo gli occhi per comunicare con il o la paziente di cui deve prendersi cura e ha constatato come questa modalità porti sollievo e sia efficace. Oggi viene visto il lavoro di cura, non è più invisibile, ma com’è interpretato, raccontato? Sento spesso usare la chiave di lettura del sacrificio eroico di tante infermiere e infermieri. A questo proposito un’altra notizia mi ha colpito: un’infermiera suicida a causa del sovraccarico di lavoro. Letteralmente bruciata dal lavoro di cura. Assistiamo nel discorso pubblico alla retorica della vocazione di coloro che sono “in prima linea”, tanto per usare un linguaggio inappropriato, che rischia di far passare di nuovo il messaggio tradizionale dell’inevitabile bisogno di sacrificare vite umane all’emergenza, mistificando la realtà dei fatti. «Il lavoro di cura è stressante, faticoso e soprattutto non gli viene attribuito il giusto valore, non dico riconoscimento, ma valore simbolico ed economico nella gerarchia dei valori del neoliberismo o modernità», come sostiene Pascale Molinier in Care: prendersi cura. Un lavoro inestimabile. Un libro uscito l’anno scorso che in questi giorni ho riletto. Un bene essenziale che, come scrivono le autrici del Sottosopra Immagina che il lavoro, fa parte di «tutto il lavoro necessario per vivere», mentre oggi si tende a glorificare come una panacea l’intelligenza artificiale che ci libererà dagli eventi catastrofici che ciclicamente, “inevitabilmente” dobbiamo stare pronte, pronti ad affrontare. Sempre all’erta, in guardia. Ci aiuteranno i robot a superare la fatica dello stare in relazione, un robot al posto di una badante, un tablet al posto di una insegnante in carne e ossa, un robot al posto di una cameriera, un cameriere… E diventeremo noi stesse sempre più come macchine: una madre surrogata al posto di una madre.

Con l’automazione, con le tecnologie senzienti ci vogliono far credere che ci verrà risparmiata la fatica delle relazioni e dei conflitti prodotti dalle differenze. Affidarsi alle macchine per superare la sfiducia nelle relazioni o i rischi. Per sopportare l’incertezza del futuro e gli imprevisti ci vuole fiducia nelle relazioni. Siamo sicuri che basterà un nuovo vaccino per scongiurare le conseguenze dello stravolgimento dell’ecosistema di cui stiamo vivendo la nocività? È una nuova illusione? Pari a quella dell’intelligenza artificiale? Ci basterà l’idea che le merci possano liberamente circolare e gli umani no?

Io mi immagino una possibilità di sovvertimento dell’ordine delle cose: riprendere l’idea di un nuovo patto simbolico e sociale. Approfittare della crisi per ridiscutere il contratto sessuale, rovesciando le priorità del vivere in società mettendo al primo posto il principio dell’inviolabilità del corpo femminile e di conseguenza di tutte le forme del vivente. Aprire una fase costituente come il movimento delle donne chiede da tempo.


In questi giorni di obbligata astinenza dalla vita sociale, di chiusura di negozi, fabbriche, servizi, scuole, università, stadi, teatri e accademie, la realtà virtuale imperversa.

Dopo i primi giorni di esaltazione e di indigestione, ho cominciato ad avvertire un gran senso di insoddisfazione e di grande spaesamento. Eppure, quanti concerti, film, letture ad alta voce, visite virtuali di tutti i tipi, quanti appuntamenti per condividere un aperitivo online, una lezione di svedese o la favola della buona notte. Ma cos’è che manca? mi sono chiesta, oltre all’evidente mancanza di tutto ciò che è reale, tangibile, afferrabile con le nostre mani, o ancora annusabile, percepibile con tutti i nostri sensi? Cosa manca a questa valanga di offerte, di proposte, erogazioni e omaggi?

Una cosa importantissima: la domanda. Perché chiedere, forse lo abbiamo dimenticato, è fondamentale. Nasce da noi, dalle nostre esigenze, dalla nostra intimità. Dal silenzio e dal vuoto. Questa bulimia dell’offerta inibisce la domanda, che è il principio della ricerca, della curiosità, della crescita individuale, dell’educazione. Bisogna imparare a fare domande. 

Oggi invece, è come se entrassimo in un enorme, babelico self-service, dove virtualmente, tutti i piatti – caldi e freddi, buoni e cattivi – sono là, imbanditi per noi. Non ci resta che allungare la mano e servirci.

Ma come facciamo a sapere cosa desideriamo, di cosa abbiamo veramente bisogno? Senza il silenzio, il riconoscimento di un vuoto e senza la formulazione delle nostre domande, anche il più appetitoso cibo virtuale scade e va a male. E se mangiato diventa altamente indigesto.

L’isolamento necessario in questo momento non ci impedisce lo scambio che può avvenire in relazioni duali fruttuose. Per esempio questo testo è nato in seguito a una discussione avuta con l’amica Anna Turri sulle liturgie al tempo del covid-19.

L’emergenza coronavirus scompagina anche i riti della Settimana Santa. Le funzioni vengono officiate a porte chiuse e seguite solo in streaming. Il Papa celebra nella Basilica di S. Pietro deserta e sull’altare con lui ci sono solo il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie e alcuni cerimonieri. Sulle prime panche siedono due o tre suore e gli uomini della sicurezza.

La tempesta smaschera le nostre vulnerabilità, ha affermato Papa Bergoglio, durante la benedizione Urbi et Orbinella piazza di S. Pietro deserta, sotto la pioggia.

Mi viene in mente un’immagine ricorrente in tutti i racconti di crocefissione tranne quello di Giovanni, in cui, al momento della morte di Gesù si squarciò il velo del tempio in due, da cima a fondo. Nel tempio ebraico una grande tenda separava la zona dei sacerdoti dal Santo dei Santi, il luogo più sacro, in cui poteva entrare solo il Sommo sacerdote. La tenda era alta quasi venti metri e spessa dieci centimetri. Una robusta separazione simbolica tra il sacro e il profano, tra il trascendente e l’umano. Lo strappo, dall’alto verso il basso, del velo stava quindi a significare, nei racconti evangelici, il riavvicinamento dello sguardo umano, delle menti e dei cuori all’insondabilità del mistero.

Le donne non sono mai mancate nelle chiese, anzi le hanno riempite più degli uomini anche se sempre lontane dall’altare. Oggi l’immagine di questa imponente e splendida cattedrale, completamente vuota, dove risuonano unicamente i passi di uno sparuto gruppo di soli uomini che si muovono sulla scena rivestiti dei loro paramenti sacri, mette a nudo una mancanza che è anche vulnerabilità. Il contrasto tra l’ostentata grandezza materiale e la ripetizione di rappresentazioni rituali di fronte ad un vuoto di corpi, privo di sguardi e di empatia, non fa che accrescere il senso di angoscia che grava in questo tempo di pandemia. Cadono i veli del tempio, anche in questo caso. I dispositivi della rappresentazione s’inceppano e svelano qualcosa nell’evidenza delle immagini che, in questo caso, non possono ingannare.

Allora ciò che torna ad avere valore è la parola che salva, quella che cerca di dire il vero, la parola profetica, la buona novella.

Il Papa sarà ricordato più per le sue parole di verità: “Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati […] Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

Le immagini di queste celebrazioni liturgiche, rivelano che uno dei passi più importanti da compiere per la guarigione del mondo è sicuramente intessere relazioni redentrici tra uomini e donne.


Sollecitata da Marina Santini a partecipare alla discussione di Via Dogana 3 del 5 aprile 2020, dopo aver letto l’invito della redazione ho deciso di coinvolgere anche altre amiche, invitandole a leggere i primi interventi pubblicati il 30 marzo nel sito della Libreria di Milano. Mi è sembrata una buona idea impegnarmi con altre nella riflessione su come attraversiamo questo tempo, quali interrogativi ci poniamo, quali pensieri e prospettive stiamo elaborando. In pochi giorni, mentre ero impegnata a scrivere il mio, ho ricevuto diversi testi di Désirée Urizio, Marisa Bettini, Carla Turola, Marina Canal, Daniela Bettella, Franca Marcomin, che descrivono le nostre giornate in tempi di pandemia. (Alessandra De Perini)

Alessandra De Perini

Prima di questo strano tempo in cui la dimensione del fuori è contrapposta al dentro e al “contagio” del desiderio viene anteposto il pericolo del contagio da coronavirus, le mie giornate scorrevano veloci, scandite da impegni politici, incontri mensili di riflessione sull’essere donne nel tempo presente, letture e riunioni mirate a una presa di parola in città con l’associazione “Le Vicine di casa”, iniziative, corsi o convegni organizzati da donne dell’associazione “Preziose” con le quali ho stretto il patto di sostenerci nella vita pubblica. Oltre alla politica basata su un’intensa vita di relazione, seguivo nello studio, una volta la settimana, una nipote quasi adolescente, Laura, rimasta orfana di madre a 6 anni; andavo spesso a Rovigo, dove abita mio figlio Nicola con la famiglia, per seguire, in assenza dei genitori, spesso all’estero o fuori città per lavoro, a volte anche per intere settimane, Maddalena e Ariannina, nipoti adorate, una già adolescente, bella e molto studiosa, e l’altra ancora bambina, simpatica e creativa. Un altro impegno quasi settimanale, gesto politico, di cura e di amicizia, era recarmi a Mirano, una cittadina a un’ora di distanza da Mestre, per passare delle ore di felice conversazione – ma a volte anche di semplice ascolto di diversi contrattempi e disagi – con Carla, un’amica con cui ho condiviso alla fine degli anni Ottanta il percorso politico che, attraverso l’esercizio quotidiano delle relazioni e la lettura appassionata di Carla Lonzi, Simone Weil, Luisa Muraro, mi ha portato ad abbracciare senza riserve e con grande determinazione la politica della differenza. Colpita da una grave malattia che l’ha costretta in carrozzina, non potendo più condurre un’esistenza autonoma e non avendo relazioni familiari su cui fare affidamento, da diversi anni Carla si trova ospite in una casa di riposo. La nostra relazione si era interrotta molti anni fa ma, da quando ci siamo reincontrate, quasi per caso, grazie alla mediazione di un’amica comune, tutto è ricominciato e ora c’è di nuovo tra me e lei circolarità di affetti, gioco di relazioni, scambio fecondo di idee, esperienze e progetti.

Oltre a tutto questo, nell’economia delle mie giornate c’era, e non voglio dimenticarlo né darlo per scontato, il lavoro necessario del vivere quotidiano che ho condiviso fin da piccola con migliaia di donne, ma oggi anche moltissimi uomini, impegnate e impegnati a cucinare, fare la spesa, il bucato, stirare, spolverare, pulire e mettere in odine la casa, insomma a mandare avanti l’esistenza materiale su questo pianeta.

A quel tempo, intendo prima della pandemia – sembra tanto tempo fa – avevo due desideri che continuavo a spostare nel tempo, presa da continue e impreviste urgenze politiche o familiari. Il primo era prendermi cura di me, della mia salute. E qui non ho più potuto sottrarmi.

L’altro desiderio era raccontare il mio percorso politico. Anche se ogni tanto ero presa da forti dubbi che mi portavano a ridimensionare drasticamente il valore del lavoro politico fatto da me in questi anni, ero convinta di avere qualcosa di importante da dire. Sono tra quelle, infatti, che nei primi anni Settanta hanno operato il taglio del femminismo, da cui è nato un nuovo mondo, “il mondo comune delle donne”. Prima della pandemia, mi spaventava l’idea dell’enorme lavoro da fare per realizzare questo mio desiderio di un racconto politico significativo e coerente, esitavo ad aprire gli innumerevoli quaderni di appunti, album di fotografie, diari, cartelline di scritti, scatole di lettere, scatoloni di volantini e documenti che, con il trasloco nella nuova casa, dove dal 2017 abito insieme alla mia amica Désirée, ho deciso di “salvare” da un’insana furia distruttiva e di cancellazione e ho portato con me.

Adesso ho finalmente tutto il tempo necessario per aprire il libro della storia viva dentro di me ecominciare a scrivere, un’occasione straordinaria che posso e voglio cogliere, anche se non sono sicura della qualità del risultato finale. Care amiche, sono ancora qui, il mio corpo-pensiero è in fermento, sto seguendo il flusso di un desiderio che è stato risvegliato molti anni fa ed è ancora in movimento.


Désirée Urizio

All’inizio di questa pandemia io e le mie colleghe della biblioteca Centro Donna di Mestre non sapevamo come comportarci: le indicazioni che ricevevamo erano continue e contrapposte. Prima dovevamo solo ricevere i libri restituiti senza poter effettuare prestiti, poi potevamo dare libri in prestito ma solo se venivano presi “al volo”, lungo il percorso (2 metri) dalla porta al banco prestiti. Poi dovevamo mantenere la distanza di un metro anche tra di noi e in cinque, in un ambiente piccolo, non è facile. Il tutto aspettando le mascherine e il materiale igienizzante che doveva esserci fornito dall’Amministrazione e che non è mai arrivato. Per fortuna io e le mie colleghe condividiamo molte idee di base e quindi ci siamo attrezzate, a nostre spese, per pulire e disinfettare ogni mattina il luogo di lavoro e i materiali che usavamo, computer, telefoni, libri compresi e ci siamo comprate le mascherine. Alla fine è arrivata l’ultima disposizione: tutte a casa e si lavora con lo Smart Working.

Ognuna di noi ha presentato un progetto di lavoro inerente la biblioteca e ora lavoriamo da casa, ma non è stato subito facile organizzarci per mille motivi, a cominciare dalle linee internet da usare e dai collegamenti con il sito del Comune, oltre al fatto che non tutte hanno il computer di casa sempre disponibile e connessioni illimitate. Ci siamo aiutate tra noi colleghe con telefonate e scambi di mail. I nostri capi si sono limitati a dare le indicazioni, ma siamo state noi bibliotecarie che abbiamo saputo metterle in pratica dimostrando la nostra capacità e serietà professionale. Certo che vivo una situazione un po’ strana: dal rapporto diretto con le colleghe siamo passate a quello unicamente telefonico.

Oltre alle colleghe, ho ricevuto e risposto a messaggi delle operatrici del Centro anti violenza che hanno gli uffici situati sopra la biblioteca e con cui siamo in contatto diretto. Ho pensato spesso a loro che continuano a lavorare, ma non so in che termini, in questo tragico periodo di aumento di casi di violenze domestiche: già sono pressate nella quotidianità, ora saranno ancora più in tensione.

Una volta realizzato che dovevo stare in casa e lavorare al computer, ringraziando il fatto che non sono sola ma vivo con Sandra, mia cara amica, mi sono dedicata all’ordine, materiale e mentale, di documenti, film, vecchi ricordi cercando di liberarmi del superfluo e di alleggerirmi il più possibile. Ho infatti la tendenza ad accumulare e, nonostante conosca benissimo i 10 suggerimenti di Marie Kondo per fare ordine, ho sempre troppa roba. Ma mi serve tutta.

In questo periodo, poi, dove mi sembra di avere tantissimo tempo a disposizione, ho sentito più spesso amiche che abitano lontane e alcuni parenti. Ma è soprattutto un continuo e simpatico rapporto con le amiche Vicine di casa che mi fa compagnia in questi giorni: uno scambio di foto di stanze delle nostre case, di angoli di lavoro e di scrivanie, davanzali fioriti e racconti, poesie e pensieri ci unisce idealmente e mi incoraggia a pensare a iniziative future da fare insieme.

Naturalmente, ascolto spesso i telegiornali per tenermi informata sull’andamento del virus. Alle notizie contrastanti sull’economia e sulla sanità, preferisco le interpretazioni delle ricercatrici e delle economiste perché mi sembrano più sensate e attuabili. Alle notizie sulla crisi dei grandi centri ospedalieri ho pensato a quando in Romagna ogni paesino, anche piccolo, aveva il suo ospedale: pochi reparti ma ben organizzati e con personale preparato. Spesso sono andata a trovare amiche o parenti ricoverate lì, dove ho sempre respirato un’aria di umanità che non ho sentito nei grandi ospedali. Peccato li abbiano chiusi perché ora sarebbero serviti moltissimo. Speriamo ci sia un ripensamento anche su questo.


Carla Turola

Sono un soggetto considerato “ad alto rischio”. Soprattutto perché vado in dialisi tre volte alla settimana e vivo in una casa di riposo dove gli spazi sono ristretti e non è possibile mantenere le distanze. Inutile nascondere la paura che si avverte anche da parte delle assistenti per mancanza di protezioni adeguate. Quando arrivo dalla dialisi mi disinfettano la carrozzina, ruote comprese. Quando mi lavano, si infilano due paia di guanti. Eppure io sto bene e sono di buon umore. Ogni mattina mi lavo accuratamente, mi massaggio con creme idratanti, mi spruzzo in po’ di profumo. E mi sorrido allo specchio, augurandomi una buona giornata, felice di essere viva. Mi chiedo cosa posso fare per le altre e gli altri che condividono questa clausura (molti, molte con problemi di demenza). Il sorriso fa bene. Quindi sorrido, anche se ho dormito poco e male per il mal di schiena. Mostro interesse alla salute altrui, chiedendo: come stai? Hai riposato bene? C’è qualcosa che posso fare per te? A volte, può essere il regalo di un pacchetto di fazzoletti per chi non ha nessuno che glieli procuri.

Purtroppo sono molto limitata dall’uso della carrozzina ma, grazie a una ginnastica da distesa che mi sono inventata e alcuni esercizi da seduta che faccio tutte le mattine, mantengo una discreta autonomia. Ho anche problemi di udito e dovrei far regolare gli auricolari, ma non posso uscire, quindi devo farmi ripetere più volte le parole, soprattutto quelle delle assistenti che usano la mascherina. E tuttavia ogni mattina mi alzo all’alba e mi godo il momento più bello perché posso raccogliermi in preghiera nel silenzio. Qui ogni piccola cosa è un godimento: il caffè del mattino presto, la pulizia degli occhiali, la colazione con le fette biscottate spalmate di marmellata di amarene. 

Questa difficile prova che mi priva delle amiche carissime mi fa sentire ancora di più il valore delle relazioni di vicinanza, dello scambio di pensiero e di parole scelte con intelligenza. Approfitto di questo tempo per leggere, quando non ho più materiali per dipingere, un bel romanzo sulla storia delle Beghine (La notte delle beghine di Aline Kiner) o le poesie di Alda Merini o per studiare il Vangelo di Giovanni, che è di una bellezza sfolgorante, aiutandomi con un ricco commentario ordinato su Amazon. Vedo un filo conduttore tra luce e tenebre.

Questo tempo è una porta stretta da attraversare. Nella mia vita ne ho attraversate molte e ogni volta ne sono uscita migliore, con più fiducia. È anche un esercizio di libero arbitrio: ci costringe a scegliere se uscirne con risentimento o con amore rinnovato. Questo è il momento di invocare lo Spirito Santo e i suoi doni. Tra i tanti doni che ho ricevuto nella vita, oltre alle relazioni privilegiate con alcune donne, c’è la pittura di icone che, pur con difficoltà, riesco ancora a praticare.

Questo è il momento delle piccole cose che si fanno grandi e importanti come non mai. Auguriamoci di ricordarcelo poi, quando finalmente l’epidemia sarà finita, potremo riabbracciarci e festeggiare sedute a tavola nella nostra trattoria preferita!


Franca Marcomin (Associazione Preziose di Mestre e Mirano)

Lavoro in un punto nascita della provincia di Venezia che è stato chiuso a fine febbraio e aperto solo per le emergenze, quindi il contatto con le donne gravide e le puerpere è stato limitato. Dopo un mese il punto nascita è stato chiuso definitivamente perché il mio ospedale è stato destinato a ricoveri di persone positive al Covid 19, così tutte noi ostetriche siamo state trasferite in un altro ospedale vicino. È stato un cambiamento che ha fatto attivare le mie risorse di adattamento a una nuova situazione. Tra l’altro andrò in pensione tra sei mesi, se non la bloccano, come sono state bloccate le ferie a tutto il personale per farlo restare a disposizione delle necessità che potrebbero presentarsi.

Non abbiamo avuto finora casi di gravide e puerpere positive al virus in entrambi gli ospedali, quindi non abbiamo avuto situazioni di operatrici/ori sanitari infettati. Di fatto, prestare servizio nel materno-infantile ci ha protetto dal lavorare in reparti di terapia intensiva, medicine e geriatrie dove vi sono stati i ricoveri delle persone malate o positive.

Ho potuto osservare che le donne da noi assistite non sono angosciate dal coronavirus; sicuramente sono preoccupate, come tutte e tutti, ma le sento fiduciose verso le operatrici/operatori sanitari a cui si rivolgono e, a mio avviso, sono molto più proiettate nel futuro con il proprio bambino o bambina.

È comunque faticoso andare a lavorare in ospedale. A volte penso ai pericoli con cui vengo in contatto ogni giorno, ma questa è stata la mia scelta di lavoro e sento fortemente il richiamo a prendermi cura delle donne che stanno per partorire, ma anche del benessere lavorativo delle ostetriche e infermiere che coordino. È una fatica che ha un senso: quello di continuare a costruire civiltà nel mondo attraverso il lavoro di cura, civiltà che si basa principalmente sulle relazioni e non sul potere.


Marisa Bettini

Quando Sandra ha lanciato l’idea di scrivere per Via Dogana 3, avevo appena letto un interessante articolo che riguardava l’emergenza attuale nella nostra città: Venezia, isole e terraferma. Una frase in particolare mi era rimasta impigliata nei pensieri: «non mettere tutte le uova nello stesso paniere». Mi divertiva e mi risultava estremamente condivisibile. Così come la sollecitudine di Sandra a scrivere qualcosa partendo dal fatto che godo della presenza di un cortile/giardino nella mia abitazione «fortunatamente», come spesso dicono le amiche e che dico io stessa.

Perché accostavo le due cose? Sono affermazioni accomunate dal fatto che una SCELTA era avvenuta prima. In una, in maniera più consapevole e nell’altra meno, ma entrambe mi ricordano che non c’è “fortuna” o “caso” (perlomeno non solo e non sempre) nel trovarsi in una data situazione. Testimoniano che l’oggi è frutto delle ambizioni di ieri, l’oggi è anche il risultato di una SCELTA operata ad un certo punto del percorso dato. Buon senso e buone norma di vita vanno sempre considerate, sia nelle vicende individuali sia in quelle collettive, sono precauzioni utili alle persone come alle politiche.

Questa riflessione mi riporta a me, alla mia vita di donna, qui e ora.

Mi rende urgente sottolineare l’importanza dei due termini messi in chiaro prima: POSSIBILITÀ e CAPACITÀ di SCELTA. Voglio farne tesoro perché sento vitale procurarci e non sciupare mai possibilità di scelta e coltivare capacità di discernimento nelle nostre vite personali e collettive.

È solo un lampo ma mi pare consono a questi strani giorni.

Una luce che vorrei conservare per non dimenticare domani che non è “fortuna” dipendere o no da prodotti fatti a mille miglia lontano da noi; per ricordarmi di dare priorità anche in futuro a quei negozi di vicinato che mantengono viva la mia strada.

E per la mia città vorrei che non continuasse a bruciare ogni slancio in quell’unico precario “paniere” che è il turismo di massa, la ruota del divertimento, l’ebbrezza dei grandi numeri che la divora. Forse i limiti e i lutti di oggi ci hanno fornito qualche suggerimento… chissà!? Magàri!


Daniela Bettella

La giornata in tempo di quarantena.
Mi alzo prima delle otto, la mattina. Mi piace bere il primo caffè davanti alla finestra e guardare in alto, sopra le case che mi circondano, il cielo che in questi giorni è luminoso, senza foschia. Una volta contavo due, tre aerei che passavano nei due minuti in cui bevevo il caffè. In questo periodo no, c’è silenzio, niente traffico, né sirene di navi che entrano in porto, non sento passare i treni.
Mi piace ascoltare il silenzio. E mi piace il mattino, sapere che ho tutta la giornata intera davanti a me. Non ascolto più la lettura dei giornali alla radio, credo che non mi serva la somma delle cattive notizie. Leggo qualche articolo sul cellulare, ascolto un solo telegiornale a metà giornata, guardo il sito della Libreria di Milano. Dopo aver fatto colazione con il mio compagno, quasi per scaramanzia, pulisco tutti i davanzali con un detersivo disinfettante, le maniglie delle porte, il pavimento dei bagni e della cucina, i vetri, metto al sole le coperte. Quando ritengo di essere stata sufficientemente brava, finalmente vado nel mio studio e riprendo i lavori che mi appassionano.
Da un mese il tempo è ritornato ad essere il mio tempo. Mi mancano mia nipote Daria e suo fratello Matteo, sono in ansia per le figlie, una che deve andare al lavoro a giorni alterni e l’altra che vive in Germania, ma nel mio tempo liberato trovo i materiali per poter lavorare con le mani: colorare la carta, tagliarla, cucirla, prendere pennino e inchiostro e scrivere…
Oggi ho finito di rilegare un piccolo libro con le pagine di velluto blu che ho stampato a mano con una vecchia matrice xilografica. A volte per concentrarmi e trovare ispirazione rileggo pagine di libri che amo di Simone Weil, Luisa Muraro oppure guardo immagini di lavori della mia artista preferita Maria Lai. Ultimamente ho ascoltato le sue riflessioni sull’arte, non solo visiva, ma anche poesia, musica, teatro, danza. Riflessioni sul percorso che si deve fare per diventare esseri umani, secondo lei l’arte fornisce strumenti per allargare il proprio orizzonte e andare verso l’infinito che infine è dentro di sé…
Mani operose e parole che nutrono sono la mia forza giornaliera.
Carica di questa energia, intanto che lavoro chiamo le amiche, le ascolto, a volte ridiamo insieme delle nostre situazioni o ci consoliamo delle paure.
Mi piacerebbe molto stare insieme, ho nostalgia della possibilità di vederci. Per fortuna riesco ad essere contenta delle possibilità che comunque ho anche in questo momento. Così al telefono in videochiamata posso vedere e stare insieme a chi mi è caro.
Con questa possibilità al martedì sera, con le amiche riunite in una chat, mi collego a un sito della Royal Academy dove si può fare disegno guardando la modella dal vero. La sessione dura un’ora e mezza, durante la quale ci scambiano le foto dei lavori che stiamo facendo e anche qualche commento. Una vera gioia. Mi piace ascoltare.


Marina Canal

In questo periodo del tutto straordinario per le nostre vite (e mi limito a considerare la parte di mondo in cui ci troviamo, la nostra Italia), mai prima d’ora ci era stato dato di sperimentare in forma diretta e consapevole (anche per me che, nata a metà guerra, l’ho attraversata del tutto inconsapevole), un tempo di vita così allentato e sovvertito.

Da un lato, la nostra prospettiva temporale appare totalmente trasfigurata: alterata nel passo, procede a singhiozzo, mediamente di dieci giorni in dieci giorni (tanti quanti sono quelli che intercorrono tra un provvedimento e l’altro), ponendo il possibile compimento del tempo dell’attesa in una sorta di concezione astratta, in un limite indecifrabile.

Nel mio caso, d’altro lato, a questa sospensione dilatata pare corrispondere una concreta accelerazione: sono impressioni, sensazioni, emozioni, frustrazioni che di momento in momento si affollano, si scompongono, si frammentano, si ricompongono a una velocità incredibile.

A questo punto devo riferire un vissuto personale che bene rappresenta, a mio parere, quanto il dettame del distanziamento sociale, che tanto sembra penalizzarci nel momento presente, possa tradursi in una ricchezza di contatti e scambi sicuramente differenti dall’essere in presenza ma ugualmente intelligenti, creativi, gratificanti. Con alcune dell’associazione Le Vicine di casa in questo tempo di reclusione lo scambio di saluti, immagini, notizie, pillole di saggezza, spunti di riflessione, inviti al dibattito e tanto altro è quasi quotidiano.

Per me, che vivo in solitudine, un contatto così frequente significa veramente molto. Mi dà energia, fiducia, serenità e sicurezza. Mi dà la possibilità di conoscere meglio le abitudini di ciascuna, di condividere la gioia di nuovi fiori sbocciati in giardino o sui balconi, di assaporare una ricetta speciale in un ideale convivio, di spartire il piacere di una nuova lettura o il ripescare dalle librerie di casa vecchi tesori accantonati. Sono piccole e grandi scoperte quotidiane che danno ad ogni giornata una parte di luce.


In questo tempo sospeso per l’emergenza da coronavirus, vorrei fare alcune considerazioni su due aspetti della situazione attuale che mi toccano più da vicino.

Il primo riguarda i contraccolpi psicologici di una “quarantena” che non si sa ancora quanto a lungo possa durare, gli effetti delle immagini quotidiane, diffuse dai mass media, di un numero enorme di contagiati e di morti, fra cui molte mediche, medici e infermiere, morti che non possono nemmeno avere un funerale alla presenza dei loro cari, le sensazioni suscitate dalle notizie di paesi lontani ma ora in realtà vicinissimi, in cui il diffondersi del virus rischia di essere spaventoso (penso all’India, all’Iran e all’Africa, ma ci sono già in prima linea gli Stati Uniti, a segnalarci la fragilità anche dei cosiddetti paesi del benessere).

I risvolti psicologici ed esistenziali di un’angoscia che non può non toccarci intimamente sono notevoli. Io non ho una competenza in materia pari a quella di Pasqua Teora, che è già intervenuta su questo, ma, avendo fatto sette anni di psicanalisi e circa venti di psicoterapia, e soprattutto avendo ben presente la pratica femminista del partire da sé, ho spontaneamente trovato come primo rimedio all’angoscia quello di scrivere sul mio diario ciò che provavo di giorno in giorno. All’inizio, stranamente, non l’avevo fatto, forse perché avevo paura di guardarmi dentro o perché ero travolta da nuove incombenze (le lezioni on line, gli esami con le/gli studenti via skype ecc.).

Un’altra pratica che mi ha aiutato molto è stata la pittura: dipingere qualche immagine di bellezza, sia pure da dilettante quale sono, mi svuota temporaneamente la mente dalle molte preoccupazioni per delle inezie, che in fondo sono altrettante mozioni di sfiducia nei confronti di Dio, come direbbe Etty Hillesum.

La terza pratica a cui faccio spesso ricorso è la preghiera: prego molto per le persone che mi sono care, per le amiche e gli amici, per tutti. Forse questo non aiuterà loro, ma certo aiuta me a sentirmi meno impotente.

Il secondo punto su cui vorrei riflettere è il cambiamento nelle relazioni con gli altri che questa situazione di emergenza ha innescato: per la prima volta si parla dal balcone con dei vicini che prima neppure si sapeva che esistessero; quando s’incontra qualcuno per strada – a distanza di sicurezza –, ci si saluta e si scambia qualche parola; si offre spontaneamente aiuto a chi è più in difficoltà. Gli “odiatori” di professione per il momento tacciono. C’è una consapevolezza molto forte in tutti della propria vulnerabilità. Il pensiero della differenza ci ha fatto sempre tenere presente la fragilità umana, così come abbiamo più volte ribadito l’importanza delle relazioni e la dipendenza che esse comportano. Vale di più la libertà dell’in-dipendenza, anche se di libertà di movimento in questo momento ce n’è davvero poca.

Ora, come già altre hanno sottolineato nei contributi su “via Dogana”, questo cambiamento che è sotto gli occhi di tutti indica un cambio di civiltà. La mancanza delle relazioni in presenza ce ne fa sentire in modo straziante il desiderio; le amicizie, politiche e non, sono ancore di salvezza a cui aggrapparsi; siamo disposte a prestare un ascolto attento a tutte le persone che hanno bisogno di sfogarsi, di dire il proprio disagio; infine, la severità delle restrizioni ci costringe a chiederci che cosa sia essenziale per noi, che cosa conti veramente. In questo periodo, sembra stia nascendo un’umanità più consapevole della propria fragilità, più disposta ad aiutare, meno incattivita, più solidale. Non so se questo cambio di passo durerà anche una volta finita l’emergenza, non sono in grado di prevederlo, ma per ora è così. In qualche modo, l’umanità intera sembra far proprie in questo periodo le conquiste più importanti di quella che noi abbiamo chiamato politica prima.

Io vivo a Verona, una città con un numero di contagi e di morti ormai piuttosto elevato, ma non certo pari a quello della vicina Brescia, di Bergamo e dell’intera Lombardia.

Ho saputo che a Milano una poeta ha scritto su dei post-it appesi ai muri: “tutto andrà bene”. Una frase bella, ma forse troppo ottimista. Mi è subito venuta in mente la formula, simile ma non identica, che si trova nel Libro delle rivelazioni di Giuliana di Norwich: nonostante tutto il male del mondo, “tutto sarà bene, e ogni specie di cosa sarà bene”. In Giuliana, c’è la fiducia in un Dio-madre che volgerà ogni cosa al bene, benché il suo sguardo non si distolga affatto da tutto il peccato, il male e la sofferenza che affliggono il mondo.

La notte scorsa, ho fatto un sogno. Una mia cara amica, che è morta qualche anno fa di un tumore ai polmoni, mi è apparsa in sogno non devastata com’era prima di morire a causa del cortisone e delle chemioterapie, ma giovane, bellissima, elegante: mi sono prostrata davanti a lei in segno di adorazione. Allo stesso modo, nell’intimo di me, mi prostro davanti a tutti questi morti per il virus.

Che cosa, per il momento, sempre che abbiamo la fortuna di sfuggire al contagio, può salvarci? Come ho cercato di dire in questo mio breve testo, credo che possano salvarci la scrittura, la bellezza e le relazioni, beni preziosi che le pratiche delle donne hanno sempre custodito con cura. Ora più che mai.


Care amiche della Libreria, da Vita mi arriva la segnalazione dell’invito a scrivere che compare nell’ultimo numero di Via Dogana. È la sua voce a sostenere questo tentativo di trovare parole mie dentro l’eccesso di parole e numeri con cui ogni giorno si viene frastornate. Al telefono per qualche minuto il mio cattivo udito percepisce Mita. Un nome che amo da quando ho letto le Lettere a Mita di Cristina Campo. Ci vuole un po’ di tempo per sentire qui, viva e presente nonostante la distanza, Vita, un’amica importante, con la quale tuttavia non c’è una consuetudine di scambi quotidiani. Senza questa percezione della presenza non troverei la forza di scrivere.

Mentre leggo lo scritto di Pasqua Teora in Via Dogana, penso all’importanza dei sogni, a come ci orientano e ci curano, aiutandoci a riconoscere gli impulsi profondi che dobbiamo ascoltare e assecondare per non distrarci, per non dissipare le energie vitali nel tempo in cui la malattia invade i corpi e le menti, costringendoci a non vedere altro. Perché il tempo che stiamo attraversando è un tempo nel quale la malattia invade tutto, così la morte. La morte più crudele che si possa immaginare, quella in cui non c’è il conforto della presenza, del contatto che accompagna la persona cara verso la fine della sua esistenza terrena. La morte che, come sta capitando nella mia città, talvolta avviene lontano, nell’ospedale di una città che non ci possiamo nemmeno rappresentare, di una nazione che parla una lingua che non possiamo nemmeno usare per sapere dove si trova la persona cara e, se muore, dove e come è avvenuta la morte, dove si trova la bara, dove si farà la cremazione…

Mi viene in mente quello che mi raccontava una delle donne partigiane che avevo intervistato negli anni Ottanta del secolo scorso, la voragine di lutto che si era creata in lei nel non sapere dove e come trovare le ceneri del fratello scomparso in un lager in Germania. È troppo vicina al nostro sentire questa storia per non avvertire, nonostante tutto, una somiglianza con quello che la gestione regionale della cura sta provocando, per accettare senza indignarsi la possibilità che un fratello, una sorella, un marito, un padre, una madre… una persona che amiamo, venga  portata in Germania  o in un altro paese perché altre regioni del nostro paese, addirittura province confinanti dove c’è disponibilità di posti di terapia intensiva, hanno deciso di non accoglierla.

Il dopo si crea adesso. Dopo aver cercato di arginare la collera che minaccia di invadere la mente, tenendomi lontana dalle parole, con pratiche silenziose, dipingendo, creando immagini, pulendo e ripulendo la casa anche quando non ce n’è bisogno, esco da questo suo insidioso serpeggiare nel fondo scrivendo una lettera alle amiche di diotima, dichiarando il mio bisogno di parole che creino una vicinanza d’anima. Chiara Zamboni lo chiama un pensare meditato su quello che ci sta capitando. Io stessa mi impegno a trovarle, quelle parole. Così vedo la collera allontanarsi mentre prende forma questo pensiero: il dopo si crea adesso. Non è una speranza, ma una certezza. Adesso che vediamo quello che, prima, era ben nascosto e, salvo rari momenti, una persona poteva vedere solo lasciandosi trasformare nello sguardo, noi tutti e tutte siamo costretti a vederlo. Adesso: in questo tempo che oso chiamare di verità. Perché il tempo che stiamo vivendo è il tempo in cui sono caduti tre tabù: il tabù della morte, il tabù della malattia e il tabù della vecchiaia. Questa epidemia li ha fatti saltare brutalmente tutti in una volta. E in modo così fragoroso che non li si può ignorare.

Adesso: morte, malattia e vecchiaia si mostrano in tutta la loro evidenza come nervature del Reale. È questa evidenza che sta sconvolgendo un ordine in cui dovevano restare nascoste, ben protette per non disturbare i sani, i giovani, i vivi. Per confermarli/confermarci nell’illusione che la vita sia altro dalla morte, dalla malattia e dalla vecchiaia. Ora questi nervi si sono scoperti e provocano dolori lancinanti, paralizzanti, non avendo rimedi per placarli.

Adesso che siamo costrette, costretti a vedere che non possiamo ammalare perché gli ospedali non possono curare, possiamo renderci disponibili ad una metamorfosi dello sguardo tale da riconoscere questa verità? Penso spesso a Zambrano, alla fecondità dell’esilio per lei. Sento una profonda sintonia con questo suo modo di vivere l’esilio, non come separazione dagli altri, ma come possibilità di sfuggire alla “seduzione di una patria qualsiasi essa sia”, di accedere a un sapere, “il sapere più materiale, più concreto, più implicato ed intriso del sensibile ma anche il più esposto all’abissalità della cosa, più di essa partecipe”. Penso al suo scegliere l’esilio cui è costretta, come oggi io scelgo l’eremitaggio cui sono costretta come luogo nel quale mi è possibile sentire, toccare avvertire questi nervi scoperti della vita, senza la tentazione di catalogare questo tempo come un tempo di emergenza.


Qualcosa cambierà, lo dicono tutti. La retorica che prevale dice: cambierà e non può che essere un bene. Non lo so. Rifuggo dalla retorica. Quindi mi attesto su me stessa. Quello che è cambiato in tutte e tutti è la percezione della malattia. I posti in ospedale sono maledettamente pochi. Lo sapevamo. Attese di mesi per essere operate di un tumore, al seno. A pagamento in quindici giorni tutto risolto.

Io lo so perché ho una lunga storia di tumori al seno. Ho cominciato nel 1994 a 44 anni non ancora compiuti. Sono stata operata allo IEO appena aperto, a pagamento. Allora era appena morto mio padre ma mia madre era ancora viva sarebbe morta pochi anni dopo. Avevamo ricevuto anche l’eredità di una cugina, morta di tumore al seno, l’anno prima. Ho poi avuto altre due operazioni nel 2006 e nel 2007, con la mutua. Non avrei certamente potuto permettermi altre soluzioni, anche se l’attesa di mesi nel 2007 c’è stata, con questo tumore che sentivo diventare sempre più grosso. Finalmente è venuto il mio turno. Ha visto? Mi ha detto la chirurga quando il risultato è stato buono, niente linfonodi intaccati, benché avesse girato per vari convegni mentre aspettavo che mi chiamasse. Ecco tutta questa trafila che attraversa la mia vita da 26 anni, che significa controlli, prevenzione, attenzione, autovisita, dieta, fare parte di programmi di studio, partecipazione a incontri sempre dal punto di vista della dieta alimentare in cui credo, so che cambierà. Ma forse no. Magari invece no. Diventerà ancora più importante approfondire la ricerca, quella genetica, per esempio, che, avendo scoperto la mutazione genetica che mi predispone al cancro al seno, mi vede fra le protagoniste interessate.

Faccio il punto di come vedo la situazione. Di tutto quello che avverrà sul fronte della sanità non sappiamo niente, neppure sappiamo cosa avverrà di un’economia che avrà è ovvio una montagna di problemi anche di sopravvivenza pura e semplice. La sanità da settore importante vessato dai tagli ma che salvava la faccia con un aggiustamento e l’altro, un taglio di qui e un finanziamento farmaceutico di là, uno studio in più a destra, e un altro in meno a sinistra, ha mostrato un contradditorio risultato. Capace di gestire un’emergenza mai vista prima, di costruire ospedali in 15 giorni quello che fino a un mese prima “solo i cinesi ci riescono”, sostenuta da un numero altissimo di donne e uomini che hanno fatto richiesta di intervenire, abile a gestire una malattia, fino a dove è possibile, avvicinando il malessere con sistemi abituali ma non sperimentati per il Covid 19. Questa sanità ha però sacrificato migliaia di donne e uomini non avendo a disposizione le protezioni che una politica sanitaria avveduta, in mano a governanti capaci di pensare non solo alla spesa, aveva il dovere di rifornire.

La mia percezione della malattia oggi è cambiata. Mi sono convinta che ammalarsi è un lusso. Purtroppo la malattia non è solo una questione di accidenti capitati in seguito all’età, al clima, alla conformazione fisica, ai contagi, appunto, la genetica ci insegna che apparteniamo a catene umane che ci mettono fino dalla nascita dentro alle malattie. Non per tutte e tutti però, ci sono alte percentuali ma chissà perché c’è chi scappa via dal suo destino genetico. Quindi niente è detto mentre cerchiamo di dire tutto. Forse è qui che potremmo agire. Sulla percezione del costo della malattia devo molto a mio cognato Paolo Banfi che – oltre a essere un ottimo pneumologo che mi ha sempre curato molto bene – nella discussione politica quotidiana mi ha sempre avvertito che era con questo sguardo che mi toccava guardare alle cure che ricevevo, per diritto, tutte gratuite benché molto costose. Esami del sangue, mammografie, ecografie, Risonanza magnetica ogni anno, visite ginecologiche con ecografia, operazioni, caspita quanto sono costata in questi anni alla spesa pubblica. Ho ricambiato – oltre che pagando le tasse – come so fare io: con moltissimo lavoro gratuito, ho creato luoghi virtuali di successo, non per il commercio ma per diffondere sapere, relazioni, conoscenza, cultura, politica delle relazioni fra donne e con gli uomini che vogliono entrarci. Ho fatto conoscere la scrittura delle donne. Ho fatto spettacoli teatrali creando la compagnia Donne di parola per comunicare il pensiero delle donne oltre che il mio. Ho scritto molto sulla rete. Ho pubblicato tre libri che non mi hanno fatto guadagnare niente. Questo è il mio impegno con cui collaboro a fare di questa società un luogo dove il pensiero la parola l’agire delle donne e intrinsecamente di tutti sia centrale nelle scelte politiche economiche sociali.

C’è la gestione della malattia in una direzione che comprende tutta la persona umana. A questa visione della malattia concorre in modo importante la dieta e qui devo molto a chi mi ha introdotto nel mondo della macrobiotica intrecciata con la cura del tumore al seno, Franco Berrino, sua moglie Jo recentemente scomparsa, e Elena Alquati, che è stata la sua assistente e cuoca, le amiche e gli amici dell’ex Punto Macrobiotico di Segrate, Cinzia Bertozzi, Mara Montesano, Marina Mazzotti amiche che condividono con me la pratica della questione alimentare come centrale. Recentemente ho avuto qualche contatto anche con le amiche e gli amici di Cuisine e Santé, fondato da René Levy e ho assimilato anche da questo gruppo di seguaci delle dottrine di George e Lima Oshawa, così come da Martin Halsey, fondatore di La sanagola, ristorante macrobiotico, e di cui tengo presente la dottrina attraverso la sua lettera quindicinale di consigli.

Esiste una gestione quotidiana della malattia e della propria salute come una cosa sola. Una gestione quindi non estemporanea, occasionale, deterministicamente dettata da un malessere e neppure dai protocolli, dalle medicine, dalla cura ospedaliera, con visite, controlli, esami. E non ho detto che siano da escludere. Dico però di considerare per ogni essere le pratiche adottate per vivere. Alla gestione quotidiana dell’essere che siamo fa da completamento il lavoro motorio. Danza, Ginnastica, Pilates, Camminare, quattro discipline a cui mi dedico per la mia salute. Con l’esclusione del Pilates le conosco abbastanza bene, le pratico così da anni che penso non solo di poterle insegnare, ma soprattutto di poterle praticare in autonomia. E come insegna Berrino ho praticato e pratico anche da anni la meditazione camminando.

Oggi ho una nuova percezione della malattia, che sta diventando un lusso. Da un giorno all’altro ho visto che le persone malate prima del Coronavirus, contate sullo sfondo dei numeri complessivi della popolazione che popola il nostro pianeta, sono pochissime. Sono così poche che quando si allarga il numero di chi abbisogna di cure salta il sistema delle normali relazioni di vita sociale, affettiva, lavorativa. Certo, mi rispondo da me: è perché la normalità è la salute, non la malattia. E già, è vero, anche per me la normalità è la mia salute che mi ha permesso di fare tante cose negli anni, eppure io ho anche una malattia per la quale pratico esami diagnostici, operazioni, cure dal 1994. E grazie a questa diagnostica, insieme all’autodiagnosi, ho avuto l’operazione di tre tumori e con la diagnosi di una mutazione genetica ho avuto anche un intervento preventivo.

Oggi ho la percezione che la mia malattia è un lusso. Forse è proprio un lusso che me la sia consentita, genetica a parte. Chissà mi dico forse una parte di me, nell’inconscio ha detto ma sì autorizza le tue cellule a replicarsi male, metti a riposo il tuo sistema immunitario, sospendi la sorveglianza su quelle cellule sbagliate, lascia correre la malattia. Perché non lo so, forse perché la salute dopo la malattia è una botta di vita. Ma qualsiasi sia la risposta, da ora in poi ci vuole più attenzione perché a occhio croce i soldi saranno molto meno di oggi. A me che ho quasi 70 anni forniranno ancora gratis gli esami che mi servono per sorvegliare il mio DNA?

Ad ogni buon conto suggerisco di pensare attentamente a cosa facciamo per la nostra salute, come dire? Gratis. Pensateci bene. Non ci sono solo i mezzi della diagnostica, per prevenire i tumori piuttosto che le malattie cardiovascolari. Ci sono semplici pratiche di vita quotidiana, come l’attenzione al cibo, all’evitamento di ciò che può nuocere a noi ma anche all’ecosistema, come la carne, in generale, il fumo, che nuoce pure all’ambiente, oltre a chi ci sta di fianco, anche l’alcool, fa male, i dolci sono dannosissimi non solo ai denti come ci dicevano da bambini. Ora queste esperienze di self-help (di autoaiuto) praticate in comunità ci possono salvare e dare la felicità di pratiche che non costano alla comunità e possono essere altamente capaci di darci una buona salute, e almeno di darci il potere di decidere di noi stesse e noi stessi.

Alimentarsi con attenzione a cosa si mangia è una medicina naturale che ciascuna e ciascuno di noi può conoscere in soggettiva, partendo da sé. È una medicina che non costa niente al bilancio pubblico e spinge a prestare attenzione a sé, qualsiasi passo verso la ricerca di sé va bene.

Sempre di più ci verrà opportuno sapere badare a noi, curandoci l’una con l’altra, l’uno con l’altro, l’una con l’altro, l’uno con l’altra e quello che abbiamo imparato in questi anni, la nostra saggezza del corpo servirà a noi e alla comunità.

Ha scritto Annie Ernaux nella sua bellissima lettera «nous ne laisserons plus nous voler notre vie, nous n’avons qu’elle», et « rien ne vaut la vie » (Sappia, signor Presidente, che non ci lasceremo più rubare la nostra vita, non abbiamo che questa e “nulla vale quanto la vita”)

In queste settimane le donne sono impegnate in una emergenza che non ha precedenti, una emergenza di cui non si riescono ad affrontare le cause se non cambiando stili di vita fino a quando la ricerca scientifica non avrà trovato rimedi, nella quale è necessaria una fatica e una consapevolezza diffusa perché la vita di tutti possa continuare. Protagoniste di questo straordinario impegno, le seguiamo con trepidazione e le vorremmo sostenere una a una nella loro impresa mentre cerchiamo di vivere la normalità in una situazione che di normale non ha proprio nulla.

Una notorietà non cercata, quella delle tre ricercatrici dello Spallanzani che, prime, hanno isolato il nuovo coronavirus. Le abbiamo conosciute nelle interviste televisive, imbarazzate e un po’ intimorite dalla telecamera, autentiche, sicure della loro scoperta, orgogliose del contributo dato alla corsa contro tempo per sconfiggere il virus. Poi abbiamo incontrato le ricercatrici del Sacco di Milano e ancora, in un susseguirsi di volti femminili, abbiamo scoperto le eccellenze del mondo medico, scientifico, culturale ed economico. In questa bolla, di giorni e ore trascorse in isolamento e distanziamento sociale, nella emergenza sanitaria, sociale ed economica, si è imposta la capacità e la forza delle donne. Mediche, infermiere e ausiliarie del sistema sanitario, giornaliste e conduttrici della televisione, insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, delegate e sindacaliste nei luoghi di lavoro, detenute che producono mascherine in e per il carcere. Impegnate a garantire “tutto il lavoro necessario per vivere” dovendo, nel contempo e per necessità, ripensare radicalmente cosa è necessario oggi a garantire salute, informazione, studio, lavoro. Tra le mura di una casa con il telefono e il computer, in un ospedale indossando mascherina e guanti, nelle strade vuote delle nostre città davanti a una telecamera con un microfono in mano. Sono invece quasi solo uomini quelli che parlano in queste settimane. In una situazione di paura e di incertezza diffusa e pur condividendo tante scelte difficili e riconoscendo l’importanza dei risultati raggiunti, penso che non sempre è stato deciso per il meglio. La paura del contagio, quella di perdere il governo della situazione, di un’economia che si ferma, anche la paura di perdere il consenso hanno condizionato il dibattito e le decisioni politiche e qualcuno ha chiesto misure straordinarie per garantire l’ordine pubblico. Questa paura però, nonostante l’emergenza, non si respira nell’agire delle donne. In questa situazione non abbiamo parole adeguate e trovare queste parole non è facile. Io queste parole le ho trovate in Lia Cigarini: “Mi azzardo a dire che le sorti della civiltà sono nelle mani delle donne”. Per due ragioni, dice, e la prima di queste ragioni in queste settimane è proprio evidente: le donne “hanno un’importanza, un peso che non hanno mai avuto prima nella storia umana”. Noi, però, oggi viviamo una situazione dove, oltre a impegnare la nostra capacità e la nostra forza per garantire una vita normale in una situazione anormale, dobbiamo fare i conti con la paura; la nostra, quella degli altri, quella di chi governa e fa scelte politiche. Tornano allora le parole di Lia Cigarini, “chi sta dentro la paura non sa che è possibile fare e agire in modo diverso”, e qui troviamo la seconda ragione che consegna le sorti della civiltà nelle nostre mani perché, dice ancora Lia, “le pratiche (politiche)inventate dalle donne, autocoscienza, inconscio, affidamento, partire da sé e relazioni sono le uniche adeguate ad affrontare, ad esempio, la paura”. La prova del presente.


Bergamo. Da una ventina di giorni lavoro da casa con quei pazienti che accettano di ricevere consulenza o psicoterapia a distanza. Tante cose, non immaginate prima, diventano reali e praticabili grazie alla tecnologia e alla rivoluzione in atto, come anche alle necessità contingenti fattesi irrinunciabili.

I vivi colpiti dal virus continuano a morire e c’è chi si sveglia in piena notte sentendo il brusio dei morti che passeggiano nelle strade della città deserte e dei paesi spopolati. Sono alcuni degli espropriati all’improvviso dei loro padri, di tanti amici, congiunti, vicini di casa, tanti loro cari. Sognano e senza saperlo, percepiscono l’invisibile che da svegli generalmente non possiamo intercettare. Nel mondo invisibile incontrano soprattutto i grandi padri, un esercito di uomini che ha lavorato instancabilmente tutta la vita per la fondazione di questo universo più che laborioso. In nome di cosa se non di un processo di sviluppo immaginato ciecamente, senza controindicazioni? Chissà cosa vogliono dirci i morti che trasparenti stanno girando quando si fa buio? Sperano forse di entrare nei nostri sogni per raccontarci verità impossibili da immaginare finché erano in vita? Chissà cosa stanno scoprendo dopo essere stati polverizzati nel grande incendio dei forni crematori?

Un po’ infantilmente, lo riconosco, con alcuni ci stiamo interrogando proprio sulla cremazione subita da chi non l’avrebbe mai scelta. Come insegnano in India, dove le salme bruciano per ore su pire altissime in riva al sacro fiume Gange, le anime non bruciano insieme ai corpi. Un rito sacro che risale alla notte dei tempi e tuttavia assai diverso da quello a cui assistiamo nelle ultime due settimane. Forse per ingenuità qualcuno ha bisogno che la Chiesa si pronunci e li rassicuri: le anime anche di questi morti si ricongiungeranno alla fine di tutto con il corpo splendente di luce, anche dopo la polverizzazione in un lampo. Vero?

Un’altra immagine surreale, ovviamente costruita, capace di emozionare, girava stamattina tra i vari messaggi, documenti, fotografie che vorticosamente condividiamo in questi giorni di fine del mondo – certo anche un po’ per farci compagnia. Comunque, questa mostrava una fila di vivi che ordinati accompagnavano la fila dei defunti in forma di sagome trasparenti. La processione funebre era collocata dall’autore a fianco dei camion militari che per la macabra occasione qui a Bergamo erano vestiti a lutto. Pensavo, noi nelle strade non possiamo scendere, ma i nostri cari sì, loro ormai sono liberi: simbolicamente si stanno aggirando, oltre che nelle nostre menti, nelle strade della nostra città e della sua laboriosa provincia. Certo, la morte non impedisce loro di presidiare in spirito il territorio dove in queste lunghissime settimane tutti stiamo patendo: tutti in cerca di spiegazioni, a leggere, indagare, ascoltare, mettendo in ipotesi cose prima mai neppure immaginate.

Ecco, tutto questo smarrimento non ci sta impedendo di godere il piacere della musica, dei canti, di scenette comiche, dell’esplosione di creatività collettiva, della raccolta di offerte per il volontariato, per gli ospedali, per la Protezione Civile. Eppure, la sera, in numero crescente, come già alcuni fanno, in tanti potremmo accendere lumini sui davanzali per fare compagnia ai nostri morti. Un gesto per testimoniare che, in qualsiasi modo siano stati trattati i loro poveri corpi, la loro essenza abita e abiterà in noi, e che continueremo a camminare in una direzione che non potrà più essere esattamente quella da loro praticata. Noi, certo, prenderemo esempio dalle loro testimonianze, ma per perseguire i cambiamenti che oggi si sono fatti irrinunciabili. Forse in spirito i nostri morti, questo vogliono venire a svelarci: il loro consenso prima neppure immaginabile?

Un esempio minuscolo, rispetto all’incredibile che si sta verificando: io stessa, fino a qualche anno fa, mai avrei immaginato di fare psicoterapia a distanza e non solo individuale, di gruppo! Eppure lo sto facendo. Soprattutto da quando, insieme ad altri, stiamo immaginando come migliorare o cambiare – magari radicalmente – approcci, teorie, strategie.

Oggi, con questa specie di fine del mondo, comprendiamo che il mondo che c’era, non ci sarà più. Dovremo rifondarlo, migliorandolo dalle logiche stringenti del profitto a qualunque costo.

La vita esige di più.


Scrive Hannah Arendt che i «tempi bui» sono quelli in cui «lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata». Nello stato di emergenza che stiamo vivendo, in cui la politica è interamente ridotta a decisione verticale, in cui ogni forma di partecipazione e deliberazione è sospesa, in cui ci troviamo costretti in casa, impauriti, impediti dal muoverci o dal riunirci, è forte l’impressione di assistere a un oscuramento della dimensione pubblica.

È altamente probabile che la pandemia di Covid-19 sia uno di quegli snodi del tempo storico a cui giustamente diamo il nome di crisi perché l’imprevisto comporta il vacillare di sistemi teorici, assetti istituzionali e forme di vita, aprendo a un cambiamento irreversibile. Crisi è da intendere nel duplice senso del greco krisis, che rimanda all’idea di scelta, decisione, prefigurando un rischio, un pericolo, ma anche una (seppure drammatica) opportunità.

Cosa ci attende oltre la crisi? Il completo oscuramento della politica? O la sua rigenerazione in forme oggi difficili da intravedere? Sarà l’oscurità che avanza, il compimento finale di quell’opera di depoliticizzazione prodotta dal neoliberalismo, favorita da un evento tanto inaspettato quanto esiziale? O sarà piuttosto un’eclissi dello spazio pubblico, finita la quale una qualche luce tornerà a illuminare la nostra capacità di azione politica.

Molto dipende, naturalmente, da cosa sapremo fare di questo tempo sospeso, ed io azzarderò qui un certo ottimismo. Dalla narrazione della vita al tempo del Covid-19 provengono segnali contrastanti: manifestazioni di estremo individualismo da free-rider ma anche, e forse in maggior numero, espressioni – o accenni, o frammenti – di una diversa consapevolezza. Mai, in anni recenti, avevamo udito pronunciare con tanta frequenza parole come cura, relazione, responsabilità. Forse stiamo imparando – a nostre spese, ma meglio tardi che mai – che persino davanti a un virus che ha l’effetto di separarci, che ci costringe a mantenere le distanze (come ha detto Benasayag, un virus davvero neoliberale!), abbiamo la responsabilità di pensare al di là della nostra persona, possiamo prenderci cura di altri e altre, che pure sono lontani, proprio perché ci sappiamo vulnerabili, in relazione con gli altri, in un rapporto di reciproca dipendenza.

«Una circostanza straordinaria», ha scritto Caterina Botti, «ci permette forse di recuperare quello sfondo così ordinario da risultare spesso invisibile, non visto, non detto, lo sfondo su cui si staglia la nostra singola esistenza, e cioè l’insieme delle relazioni che la rendono possibile. Diventa acutamente visibile, e dicibile, il fatto che dipendiamo gli/le uni/e dagli/dalle altri/e, che nessuno vive o si salva da solo. Il che vuol dire anche – per girare in positivo ciò che di nuovo può essere letto a prima vista in modo negativo – che è in nostro potere, nel potere di ciascuno di noi, fare qualcosa per gli altri».

Possiamo fare dunque di questa crisi un’occasione di conoscenza? E più ancora, possiamo trasformare questa conoscenza in capacità di azione politica?

A me pare che la consapevolezza della vulnerabilità, della relazionalità, della dipendenza, unita all’esperienza reale, fisica della malattia, del lutto, della quarantena, del governo totale delle nostre vite, abbia buone possibilità di generare nuovo senso comune su molte questioni politicamente cruciali.

Alcuni scostamenti importanti sono già stati segnalati dai sondaggi d’opinione: l’emergenza Coronavirus ha fatto riscoprire il significato e il valore del pubblico, dopo decenni di cessione di quote ai privati in ambiti vitali, come quello della sanità. Ha anche indotto un netto ripensamento dei cittadini sul progetto dissennato dell’“autonomia differenziata” che fino a pochi mesi fa pareva di prossima realizzazione e che decreterebbe la fine del welfare universale (si può leggere in proposito Ida Dominijanni)

Ma c’è anche altro, nell’esperienza che stiamo vivendo, che ha la potenzialità di trasformare il senso comune e riorientare la politica. Innanzitutto, la brusca interruzione dei ritmi vorticosi di produzione e consumo che sono tipici delle nostre società tardo-capitaliste, se naturalmente provoca una diffusa ansietà per le conseguenze economiche, non è da escludere che possa indurre maggiore cognizione dell’assoluta follia di un sistema che condanna persone a rischiare la vita per lavorare, non solo perché chiamate “in prima linea”, non solo per rispondere alle necessità della produzione, ma anche (spesso allo stesso tempo) perché completamente prive di tutela in caso di assenza dal lavoro. Un sistema che induce a sacrificare per il lavoro aspetti essenziali della propria vita, come le relazioni e la cura. Un sistema, infine, fondato su diseguaglianze – di età, genere, classe, status migratorio… – che la crisi del Coronavirus ha fatto emergere con un’evidenza difficilmente riproducibile in condizioni “ordinarie”. Saprà questa crisi generare anticorpi diffusi contro il dominio incontrastato del modello neoliberale, che fa dell’homo oeconomicus la misura dell’umano, e del singolo il responsabile ultimo della propria sopravvivenza?

In secondo luogo, le misure messe in atto per “sconfiggere” il virus, tanto dure da riconfigurare interamente i nostri stili di vita, ci hanno indotto a sperimentare concretamente – seppure per un periodo di tempo che si auspica breve e comunque a scadenza – il peso di politiche che comprimono la sfera dei diritti e delle libertà individuali. In un tempo storico percorso dalla fascinazione per i modelli di esercizio autoritario del potere, non c’è forse migliore occasione di immunizzarsi rispetto alla tentazione antidemocratica.

Infine, il Covid-19 ha fatto strame della retorica sovranista. A nulla – se non ad avvelenare i pozzi – sono serviti i proclami razzisti e le grida alla chiusura dei confini. Il virus non conosce confini, e ci consegna l’immagine di un pianeta interdipendente con una forza che nessun discorso politico o teorico era fino ad oggi riuscito a conseguire. Non solo, ma proprio nel momento in cui l’egoismo del benessere sembrava destinato a conquistare definitivamente la scena politica, il virus ci ha fatto sperimentare il rovesciamento: siamo diventati i corpi da bloccare alla frontiera; da isolare su una nave, o su un aereo, con divieto di sbarco. Non importa quanta bianchezza, cultura o ricchezza portiamo con noi.

Sarebbe auspicabile che tutto questo ci insegnasse qualcosa. Che ci insegnasse, per esempio, l’empatia verso chi fugge, verso le sue paure. Anche noi ci siamo trovati in pochi giorni a prendere dei treni in preda al panico. Anche noi abbiamo sentito quanto gli altri possono diventare ostili verso di noi quando ci percepiscono come pericolo.

Se il rischio di contagio e l’imperativo della cura altrui ha saputo agire sulle nostre coscienze inducendoci a pensare oltre noi stessi/e, saremo in grado di trasformare questa esperienza in energia politica, per esempio di fronte a grandi sfide comuni come quella ambientale o alla lotta alle diseguaglianze sociali? Saremo in grado di allargare la cognizione della relazionalità e interdipendenza degli esseri umani, per includere tra le vite che “contano” anche quelle che stanno premendo ai confini dell’Europa e che l’Europa ha deciso di abbandonare a se stesse?

Quando tutto questo finirà (perché finirà, vero?) dovremo pensare ai nostri morti e ai nostri vivi, a ricostruire un sistema sanitario pubblico all’altezza delle sfide poste dall’invecchiamento della popolazione, a riparare un mondo del lavoro distrutto dalla mancanza di tutele, a ridare nelle nostre vite spazio ad altro che al profitto o alla pura sopravvivenza, e a fare spazio ad altre e altri, che chiedono protezione.

Se l’esperienza terribile che stiamo vivendo saprà farsi nutrimento per un nuovo senso comune e un approccio etico e politico ispirato a valori quali cura, responsabilità, solidarietà, l’eclissi che oggi sembra oscurare il pubblico potrebbe finire. Potrebbe farsi strada un certo chiarore. Potrebbe persino, per molte e molti di noi, per la mia generazione – ecco il mio azzardo! – essere l’esperienza di più grande politicizzazione che ci è toccato in sorte di vivere come collettività.


(https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/03/17/ricostruire-lo-spazio-pubblico-dopo-leclissi-della-politica/)


Siamo in due, in casa tutto il giorno, le notizie si accavallano con numeri ed esortazioni alla prudenza: una donna, un uomo. Parliamo, confrontiamo le nostre sensazioni su questo tempo sospeso. Vediamo l’impegno di donne e uomini per arginare il diffondersi dell’epidemia, per curare chi ha contratto il virus, per alleviare i problemi di chi non ha più lavoro e per sostenere un’economia che faticherà a riprendersi.

Si può parlare di donne impegnate nell’emergenza quotidiana e di uomini che parlano sulla scena pubblica? Credo che la questione si ponga su un altro piano.

In questi anni abbiamo avuto modo di frequentare diversi ospedali e abbiamo notato come fra il personale in corsia siano presenti molti uomini e molte siano le mediche. Il diffondersi del virus ha reso tutti più consapevoli del loro indispensabile e prezioso lavoro.

Io sono rimasta colpita da due immagini comparse sui quotidiani: l’infermiera stravolta, addormentata sulla tastiera del computer poco prima della fine del turno che le ha esaurito le forze, e quella di due sanitari, forse un uomo e una donna irriconoscibili sotto gli indumenti protettivi, in una stanza d’ospedale vuota, seduti su un letto vuoto, le mani in grembo, sfiniti dalla stanchezza, con la testa di una (uno) sulla spalla dell’altro (altra). Immagini emblematiche di personale anonimo che si sta impegnando allo stremo. Solo due giorni dopo la pubblicazione, l’infermiera avrà un nome, Elena Pagliarini: chiederà scusa per l’attimo di debolezza “Dopo questa foto mi chiamano in tanti e mi ringraziano. In tempi normali mi avrebbero criticato”. Effetto del capovolgimento di valori operato dal coronavirus: a prevalere adesso è l’umano.

Nella politica istituzionale deputata a governare la situazione e a prendere provvedimenti c’è predominanza maschile, ma ai vertici europei ci sono due donne, Christine Lagarde, presidente della BCE e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Anche sulla scena pubblica delle dichiarazioni, delle conferenze stampa, delle opinioni ci sono ricercatrici, virologhe, scienziate che dicono la loro.

L’emergenza che stiamo vivendo sembra aver messo ordine tra quello che la politica delle donne ha chiamato politica prima, quella del giorno per giorno, della quotidianità fatta di cura e attenzioni, dove donne e uomini si relazionano fra di loro e mediano per la soluzione di problemi che sentono propri e impellenti, e la politica in seconda battuta, quella delle istituzioni, dei governi, quella che non funziona senza la prima se perde il contatto con le persone.

Con il coronavirus l’imprevisto non è solo la nostra clausura individuale. Ci sono dei ribaltamenti* di situazioni che colpiscono l’immaginario in modo secondo me salutare: il sud (dell’Italia ma anche del mondo) che teme il nord e lo chiude fuori, l’Italia che chiudeva i porti e poi li ha trovati chiusi per i suoi turisti, un paese piccolo e povero come Cuba che ci manda medici e infermieri in aiuto perché noi, paese ricco e popoloso, non ne abbiamo più abbastanza.

Altre novità: i sostenitori del liberismo sfrenato hanno temporaneamente abbassato la cresta e per qualche settimana non hanno quasi più osato farsi sentire, anche se dal penultimo Ecofin Olanda e Germania stanno ricominciando a mettere i conti pubblici e i pareggi di bilancio davanti alle vite – degli altri – mentre tante e tanti capiscono improvvisamente quant’è preziosa la sanità pubblica universale e che errore è stato permettere di sottoporla a vent’anni di tagli. Con la prima manovra da 25 miliardi (a cui breve ne seguirà un’altra di analoga entità) il governo Conte mostra di essersi accorto che il welfare state e gli ammortizzatori sociali sono centrali. A livello internazionale si ritrova la memoria degli anni ’30 del XX secolo, quando dalla crisi si poté uscire grazie a politiche di tipo keynesiano; da decenni queste ultime erano un’eresia innominabile. Eppure, si sapeva benissimo che avevano funzionato, mentre nessuna ricetta neoliberista ci ha mai tirato veramente fuori dalle ultime crisi.

Qualcuno, qualcuna rimette in discussione i ritmi frenetici che hanno le nostre vite in tempi normali. La sospensione delle attività extrascolastiche di bambine e bambini forse, speriamo, darà loro finalmente il tempo di giocare in libertà, gestendosi in autonomia, senza essere ogni santo minuto inquadrati e controllati o da persone adulte o dagli algoritmi delle loro app.

L’aria è fresca, limpida e pulita anche in una città come Milano, campionessa europea dell’inquinamento.

Per la prima volta nell’epoca dell’etica del lavoro tantissimi uomini si trovano segregati in casa, costretti come molte donne già facevano a coniugare le attività lavorative a distanza con la presenza della famiglia. Per la prima volta non hanno la possibilità di sfuggire alle esigenze della vita quotidiana rifugiandosi nella carriera, nello sport, nella politica o nel bicchiere al bar con gli amici. È un’opportunità senza precedenti perché comincino a considerare “lavoro” tutto quello che quotidianamente serve per vivere, e perché comincino a farsene carico. Non dico che lo faranno, sicuramente non tutti, ma per qualcuno di loro forse questa esperienza comporterà un cambiamento di consapevolezza e di pratiche.

Insomma, c’è una sorta di rivoluzione possibile in quello che ci sta accadendo.

Naturalmente, il giorno dopo la cessazione dell’emergenza si può rimuovere tutto e ricominciare come prima. Forse si licenzierà il personale medico e sanitario assunto per far fronte all’emergenza e si tornerà a regalare denaro pubblico alla sanità privata. Forse il pareggio di bilancio tornerà al centro di tutta l’organizzazione sociale al posto della vita della gente. Forse riprenderemo, tutte e tutti, delle esistenze che causano ipertensione persino ai bambini. Forse gli uomini scaricheranno le incombenze domestiche e familiari sulle donne come prima. E faremo finta che non sia successo niente.

Però non è obbligatorio.

Possiamo cercare di consolidare quello che di positivo ci è successo, in modo imprevisto, in questo tempo sospeso. Possiamo fare in modo non se ne rimuova subito la memoria. Forse potremo cercare di mantenere e condividere le pratiche che già stiamo sperimentando adesso per far fronte alla situazione.

E forse, prima ancora di trovarci al “dopo”, possiamo condividere fin d’ora domande, riflessioni, idee per fare di questo strano periodo qualcosa di trasformativo. Approfittiamone per condividere su #VD3 quello che si sta modificando in noi, o quello che in quest’occasione vorremmo cambiare o che fatichiamo ad affrontare o che abbiamo già inventato.


(*) descritti molto bene nell’interessante articolo di Anna Simone Covid-19: il soggetto imprevisto. Rovesci simbolici, emozioni, vita quotidana del 14/3/2020 apparso sul sito https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/03/14/covid-19-il-soggetto-imprevisto-rovesci-simbolici-emozioni-vita-quotidiana/



Viviamo nell’emergenza, separate le une dalle altre, senza sapere né come né quando finirà. Alle preoccupazioni per la salute nostra e altrui si aggiungono quelle per la situazione economica e politica che troveremo là fuori, quando potremo uscire. Eppure ci sono segni di qualcosa di buono: l’importanza ritrovata della sanità pubblica universale, la ribellione di diversi governi al pareggio di bilancio, l’aria più pulita, per fare alcuni esempi.

Dopo, non si potrà far finta di niente e riprendere delle esistenze che causano l’ipertensione persino ai bambini. Possiamo cominciare da subito a condividere le pratiche che ciascuna/o sta già sperimentando adesso per far fronte alla situazione, diffondere le idee e le scoperte fatte in questo tempo sospeso, mettere a fuoco gli interrogativi che chiedono un pensiero radicale per fare di questo disturbante imprevisto qualcosa di trasformativo.

Vi invitiamo a partecipare a una redazione di VD3 che si avvia con le riflessioni di Silvia Baratella, Marina Santini, Pasqua Teora e Giorgia Serughetti e che vive del vostro contributo scritto per pensare un presente fuori dall’ordinario.


Mandate i vostri testi a info@libreriadelledonne.it, scrivendo nell’oggetto “VD3”


(Via Dogana 3, 30 marzo 2020)

Queste riflessioni sono il tentativo di mettere in scrittura l’intervento alla riunione di Via Dogana del 2 febbraio 2020, in dialogo con quelli di apertura di Traudel Satter, Stefania Ferrando e Chiara Zamboni, tentativo che si rivela più complesso del previsto e che si misura con la sorpresa nella memoria delle mie stesse parole, e con il fatto che erano sospese e sostenute dalla struttura dei primi interventi. Il mio racconto iniziava con l’ammissione di essere stata attratta dall’idea e dall’esperienza del neutro, e della fluttuazione del genere. Oggi le parole di Chiara Zamboni, che descrive la moltiplicazione del neutro post-patriarcale (che è lotta politica per le minoranze e per le sofferenze soggettive) come una forma di confusione tra genere e differenza sessuale, mi sono comprensibili. Comprendo anche l’errore di chi non ha capito la differenza sessuale, considerandola essenzialista ed oggettivata. (In corsivo le espressioni sue). Oggi la moltiplicazione infinita delle nominazioni va verso un cattivo infinito, (…).

E si tratta di rinunciare alla libertà di essere tutto. È su questa espressione che dentro di me comincia a formarsi il discorso:

F/M Oscillazione possibile/fluidità possibile in relazione al tempo?

A proposito di infiniti, in fisica il tempo viene misurato con unità di misura variabili in base agli eventi di cui si parla. Tra queste, il secondo è definito come[i] l’oscillazione periodica di una particella di materia imprevedibile.

(Margherita Morgantin, Titolo variabile, p.78, Quodlibet 2009)

 Inizialmente, nell’infanzia, l’identificazione interiore femminile-maschile e le forme intermedie che l’accompagnavano dipendevano dalle relazioni, gentili, violente o schizzoidi. Alleati e nemici si scambiavano il posto, solo una percentuale minima di questo era portata a coscienza.

Crescendo, apparentemente potevo fare tutto. Il mondo intorno cambia profilo ad una nuova velocità, ma nel profondo le forze, le violenze e le voci hanno radici antiche e lentezze ancestrali, per far sopravvivere la mia libertà potevo immaginare di oscillare da un genere all’altro: il corpo giovane risponde con i suoi segnali e lascia intendere che si può andare molto oltre.

Alla prova è la forza del reale, finché i confini tra parole e cose si frantumano.

Allora il corpo diventa l’unica realtà affidabile rimasta ed è impossibile farne una metafora. Per un tempo indefinito perdo il linguaggio e sento scorrermi il sangue. Una realtà possibile, dopo, sarà solo quella filtrata dall’esperienza diretta, il linguaggio ricostruito in aderenza all’esperienza diretta, un intero sistema di riferimenti culturali crolla tra le molecole, nella presa di coscienza di essere prima un corpo.

Inizia allora un secondo movimento verso il reale, diversamente consapevole. Il desiderio di poter essere di più, o di essere tutto (sovrapposto a quello di non essere nulla) inizia con un nuovo tipo di possibilità dentro ad una fragilità, blindata. A questo punto posso decidere che il mio genere si modifica nel medesimo corpo, che mi costruisco/decostruisco fisicamente in nome dell’altra/o che mi cerca finché il mio desiderio non è espresso, l’espressione “bisessuale” sembra non bastare anche se riguarda i soggetti amati con/accanto ai quali prendiamo forma, in fasi diverse dell’esistenza, e della nostra ricerca.

(Margherita Morgantin, Il pensiero veloce, frame da video, 4’ 17” colore, no audio, 2007)

In questo video (Il pensiero veloce, 2006) l’orizzonte continua a ruotare lentamente facendo perdere l’ordine di cielo e acqua, fino all’ultima inquadratura in cui la prua della barca compare e riporta l’orientamento. Il titolo dell’immagine singola è Ragazzo/a barca, dove la seconda non può cambiare genereQuesto breve testo accompagnava il lavoro:

“A partire da orizzonti speculari creati dal riflesso dell’acqua il video crea una sequenza di movimenti nella quale il ribaltamento della prospettiva lento e quasi impercettibile si svolge in un completo giro d’orizzonte, richiama il moto di ogni lenta rivoluzione, e la velocità della rotazione terrestre. L’apparente specularità del paesaggio attraverso una diversa rappresentazione diventa un disegno e poi una macchia di inchiostro, chiave di una diversa profondità della visione introspettiva, l’aderenza tra le forme interiori e quelle del paesaggio/macchia offre uno strumento di lettura e di racconto delle cose, indagando liberamente la zona compresa tra la rappresentazione delle forme e la loro fragile interpretazione. Nulla è veramente simmetrico, e la prospettiva centrale è tradita dalla materia, come qualsiasi sistema di pensiero lo è nel campo visivo del racconto di un soggetto”.

In un confronto con la cultura che mi ha formata mi rendo conto che realizzo e assecondo anche una identificazione con un sé maschile. Ciò che accade in questa sperimentazione di fluttuazione, F(emminile)-N(eutro)-M(aschile), e ritorno, è una deriva lievemente onnipotente nella quale posso desiderare chiunque ed essere da chiunque desiderata, ma è un’illusione. Al contrario, dentro a un sistema di potere del genere, i momenti di intimità diventano sempre più rari e stanno dentro a un sistema di contatti diventato promiscuo, ad ogni vero rischio vitale o mortale di intimità il sistema muta genere diventando irriconoscibile e imprendibile, paradossalmente nominabile: è una forma di resistenza, di sparizione. Il mio corpo è di nuovo lo scenario (non più neutro) in cui gestire una forma politica del desiderio, ideologica. L’ideologia di fondo è costruita su rabbia e paura di violenza. In questo regime di resistenza identitaria e relazionale una parte del mio corpo, legato alle funzioni riproduttive, smette di funzionare, e da questo silenzio inizia il secondo recupero del corpo che accade nell’integrazione della differenza nella parzialità. Nella presa di coscienza di una forma assieme unica e sessuata che dà accesso al profondo e all’inconscio, una forma selvatica che, rinunciando all’ideologia, diventa mediazione affettiva del discorso.


 1 La durata di 9 192 631 770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio-133.