Una crisi politica improvvisa ma non imprevista si è innestata su una pandemia improvvisa ma non imprevedibile. La crisi politica deflagrata negli ultimi giorni ha messo a nudo da un lato la debolezza, dall’altro l’arroganza della politica maschile, due facce della stessa medaglia di una caduta fallimentare non solo di classe politica, ma di sistema. La sera stessa dell’annuncio accorato del presidente della Repubblica, mi è capitato di vedere e ascoltare in una trasmissione televisiva l’intervento a caldo di Elsa Fornero e di condividerne le emozioni e il senso.
La Fornero, partecipe delle politiche di austerità del governo Monti, non gode certo delle mie simpatie, sebbene ne ricordi le lagrime pubbliche e non come segno di debolezza femminile, al contrario, forse, di empatia per i destinatari di quelle misure. Ebbene, lei ha parlato della sua rabbia nei confrontidella “miseria politica di piccoli uomini con orizzonte e intelligenza limitati”, concludendo “non ci arrivano!” Ascoltandola ho pensato: nel profondo del loro sentire le donne sanno, capiscono e giudicano,peccato mettano a tacere la loro intelligenza e autorità quando sono al governo della cosa pubblica! Dunque non tutto è responsabilità degli uomini. Il mio pensiero successivo infatti è stato alle due ministre a cui Luisa Muraro ha rivolto la sua lettera invitandole a essere autonome rappresentanti di tutti i cittadini per un governo migliore, e a prendere coscienza di quanto il bene comune sia strettamente connesso alla libertà femminile, ma le due hanno preferito l’interesse di partito e la fedeltà a un capo cinico e narcisista, fautore di quella parità 50/50 che mortifica la libera autorità femminile.Il risultato ora è sotto gli occhi di tutti: come ha notato di recente Ida Dominijanni, una crisi di governo già in gestazione e latente si è attualizzata, e non sappiamo se sposterà l’asse decisionale a favore di logiche neoliberiste dando fiato alle destre e sottraendo terreno a una auspicata rifondazione delle sinistre su nuove coraggiose pratiche politiche e su nuove visioni della vita, della società e del mondo.
Nuove visioni di cui l’umanità e il pianeta hanno urgente bisogno, lontane dalle semplificazioni; quelle semplificazioni di un pensiero lineare che negano o trascurano le connessioni sindemiche della pandemia – e della salute della democrazia – con le ingiustizie economiche e sociali, l’impoverimento e il saccheggio delle risorse naturali, il vuoto ottimismo delle tecnocrazie.
A questo proposito, temo che queste ultime, le tecnocrazie insieme alla finanza, prendano sempre più posto nelle vite e nell’immaginario, lasciando ai margini, quasi fosse superflua, la politica come pensare e agire condiviso per un di più di vita, di gioia, di libertà, di desiderio non saturabile.
Un flash: Jeff Bezos, padrone tra l’altro di Amazon e di Blue Origin, e Elon Musk, fondatore tra molto altro di Tesla, Neuralink e SpaceX (quest’ultimo attivo negazionista della pandemia ma convinto sostenitore della salvezza tecnologica dell’umanità) sono, com’è noto, i due uomini più ricchi del mondo oltre a essere considerati gli imprenditori più creativi e,come tali, influencer molto presenti nella cultura di massa. Entrambi auspicano una vita multiplanetaria e prevedono il futuro dell’umanità lontano dal nostro pianeta (che evidentemente ai loro occhi non merita attenzione e cura) ma con due visioni filosoficamente diverse: secondo Musk, tra l’altro collaboratore della NASA, agenzia pubblica statunitense sempre più orientata alla delega ai privati, l’umanità, distrutta la Terra, a un certo puntodovrà rifugiarsi su altri pianeti, a partire da Marte, e allo scopo ha già lanciato mezzi e proposte per un imminente turismo spaziale.Per Bezos, invece,basterà trasferire le produzioni pesanti e l’estrazione di materie primesu Luna e asteroidi, costruendo, poi,città sospese nello spazio come la Stazione spaziale internazionale già in orbita da decenni, e la Terra rimarrà fruibile solo come parco naturale e luogo di vacanze da visitare di tanto in tanto. Sembrano assurdità, ma progetti e strutture sono già all’opera, ed è inutile negare il potere simbolico, oltre che finanziario e tecnologico, dei due. Abbiamo già avuto prova del prometeismo maschile in azione, con Trump, solo per stare ai nostri tempi. Ora un prometeismo di ricchi tecnofilisi presenta con il volto della salvezza e del progresso, di cui peraltro essi stessi ignorano le conseguenze, ed espande a dismisurale possibilità umane, in realtà per ragioni di profittoindividuale, ignorando la saggia avvertenza1 che ci vuole discernimento e che non tutto è disponibile, anche se tecnicamente e finanziariamente è possibile. Ne va del nostro restare umani, in una interconnessione migliore possibile con la terra, il luogo dove è nata ogni forma di vita che conosciamo, compresa la nostra.Non è il diventare post-o transumani il desiderio che muove me e molte altre donne e un numero crescente di giovani uomini nella vita di ogni giorno e nella politica, una politica mossa dall’amore per il mondo e per la vita, alla ricerca di forme alte di civiltà, e fa leva sulla forza delle relazioni non strumentali e di fiducia, senza ignorare l’aiuto di tecnologie che siano a misura umana e del vivente.
A questa deriva in atto stanno cercando di fare da argine la consapevolezzae le pratiche politiche di molte e molti giovani – nomino solo Greta – che si attivano in relazioni mobilie intelligenti, in piccoli gruppi e grandi reti, si appassionano, discutono mettendosi in gioco in prima persona, e fanno sentire con tenacia la loro voce. Una voce che ora giustamente reclama anche il ritorno alla scuola – spazio delle differenze, delle relazioni e dell’incontro/confronto trasformativo – e la partecipazione creativa alla conoscenza, ben altra cosa dall’informazione. E non si sono fermate, anzi si sono moltiplicate,le iniziative di donne in molti luoghianche lontani del mondo a favore della creazione dilegami e di contesti politici di cura, di scambio di saperi vicini alla vita e lontani dal potere, di libere forme di pensiero e di esperienza, che ci convocano all’antico e nuovo desiderio di buen vivir2.
E un argine auspico essere la presa di coscienza, diffusa dalla pandemia, della fragile preziosità dei nostri corpi, del vivente, della terra che ci ospita e delle loro connessioni. Come già spesso segnalato, il Covid ha fatto emergeree acceleratocontraddizioni e problemi già esistenti, quel capitalismo della catastrofe denunciato nell’Enciclica Laudato si’, e di cui ha scritto Naomi Klein (Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, 2015). E forse questa che stiamo vivendo non è un’emergenza, se non nel senso del manifestarsi di verità ignorate, perché altri virus verranno e saranno la normalità se non cambiamo rotta. È significativo, e al tempo stesso preoccupante, che un’attenzione più diffusa alle connessioni tra salute umana e salute del pianeta sia arrivata attraverso la tangibilità inoppugnabile della malattia e della morte, che ha toccato i corpi prima ancora delle menti, dopo che da decenni gli scienziati, quelli almeno capaci di lungimiranza più dei politici, ci mettono in guardia dai pericoli di uno sviluppo ingiusto e insostenibile. Sappiamo che la presa di coscienza si radica nell’esperienza personale, ma può nutrirsi anche del confronto con verità, pur provvisorie, che provengono dalla ricerca scientifica, soprattutto quando questa è indipendente dai condizionamenti dei poteri economici, aperta al vaglio di una molteplicità di sguardi e di saperi, anche dei cosiddetti incompetenti, e disposta all’autocorrezione. Ilaria Capua, una virologa di cui mi fido pur non condividendo tutto del suo pensiero, è molto attenta a non cadere inverità assolute, e riconosce spesso di non sapere, pur dando messaggi di fiducia. Come altre studiose di cui mi fido anche perché poco inclini al narcisismo sulla scena mediatica, è consapevoledell’incertezza in cui più o meno tutti siamo immersi, esperti compresi, e del fatto che i numericircolanti della pandemia sono incerti e solo indicativi, e con autoritàdenuncia le viralità dei media accreditati, e non solo dei social media, come amplificatori della paura e in grado di influenzare con messaggi ambigui l’evoluzione della pandemia.
Un altro flash:una recente notizia dal titolo Trovate microplastiche nella placenta umana: è la prima volta nella storia,che dà conto dei risultati di una ricerca di studiose e medici dell’ospedale Fatebenefratelli e del Politecnico delle Marche pubblicata sulla rivista scientifica “Enviromental International”. Riporto il commento del medico direttore della ricerca: “È come avere un bambino cyborg, misto tra entità biologiche ed entità inorganiche, probabilmente molto dannose per il sistema immunitario e per la crescita fisica del bambino. Le madri sono rimaste scioccate”.Leggendo, non ho potuto fare a meno di associarlo a un articolo diHélène Rouch dal titolo La placenta come terzoapparso nel numero della rivista “Inchiesta” curato da Luce Irigaray nel 1987. L’autrice, Hélène Rouch, una biologa femminista che ha fatto parte del collettivo Psychanalyse et Politique, ha risignificato sulla base dei suoi studi, rigorosi ma lontani da paradigmi meccanicistici, il ruolo della placenta nell’economia naturale degli scambi tra corpo materno e feto.La placenta è un terzo che media l’interdipendenza in un rapporto duale caratterizzato da uno squilibrio positivo, rispettoso della vita di entrambi, spazio di coesistenza e di costruzione dell’alterità che non prevede né separazione né fusione tra i due, e in cui lo scambio non comporta sottrazioni al corpo materno,al contrario, si configura come un continuo gioco al rialzo, relazionale e cooperativo pur nella disparità, il cui esito è la creazione di nuova vita.
Se perfino la placenta, bene intimo, personale e universale, non solo per le donne che vogliono diventare madri, ma per tutte e tutti noi che siamo venuti a mondo da una donna, è minacciata dall’inquinamento ambientale, opera dell’uomo sedicente sapiens, non possiamo non considerare che siamo dentro una crisi di civiltà globale, da cui possiamo saltar fuori, come propone Naomi Klein,facendo leva sui cambiamenti climatici come “forza catalizzatrice per una trasformazione generale positiva”, “smettendo di scaricare il problema agli ambientalisti”.E non si tratta di una transizione ecologica in cui produzione e consumo diventino più green, ma di una vera profonda conversione:quel salto di civiltà “in cui le donne non rivendicano qualcosa per sé ma aprono una strada per tutti”, di cui parla il documentoSalto della specie3 a firma Dominijanni e altre. A differenza di altre specie, nel bene e nel male abbiamo la capacità di pensiero, immaginazione e giudizio,a nessun’altra specie è data la possibilità di decidere della sua stessa estinzione.
Bisognerà riconsiderare anche la nostra politica, che, se vuol essere efficace e generativa di desiderio, non può considerare la natura e la salute della terra come tema che interessa solo l’ecofemminismo nelle sue varie declinazioni, i cui contributi vanno pur riconosciuti.Si tratta di aprire un orizzonte più ampio, allargare confiducia le alleanze lasciando da parte le ideologie che generano schieramenti,e superare i dualismi talvolta ancora presenti anche nel nostro pensiero e nel nostro immaginario: per esempio il dualismo natura/cultura, e la diffidenza verso il tema della natura dovuta al nostro giusto rifiuto della storica identificazione maschile-patriarcale donne-natura. Ricordo la libertà mostrata nell’affrontare l’acceso dibattito sul tema dell’utero in affitto, al quale Luisa Muraro ha dedicato il libro profondo e dirimente, già citato, L’anima del corpo, in cui la parola natura è stata sdoganata in senso critico. Scrive Luisa: “parlare della natura si può, anzi si deve, ce lo insegna l’ecologia. Gli esseri umani sono il fruttodi un’evoluzione che continua nella cultura grazie alla parola e alla libertà, ma che non può perdere le sue radici naturali, pena l’autodistruzione”. Vorrei vedere all’opera una simile libertà nella necessaria conversione del pensiero e dell’anima verso la desiderabilità di nuove, più attente e più felici relazioni con la natura. Le relazioni che noi donne abbiamo con la natura sono qualcosa di intimamente, anche inconsciamente, sentito e vissuto. E la natura non è qualcosa che sta là fuori di noi, oggettivabile: ne facciamo parte (“siamo avvolti dalla natura e l’avvolgiamo a nostra volta” scrive Chiara Zamboni4), e in più ne condividiamo la generatività. Abbiamo la possibilità, più degli uomini, ditrasformare le attuali interconnessioni maligne in interconnessioni sane e generative per tutti.
- v. Luisa Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola, 2016. ↩︎
- v. il prossimo ciclo di incontri “Conversazioni dal Sud”, a cura di Maria Teresa Muraca. ↩︎
- Reperibile su http://www.libreriadelledonne.it del 12/5/2020. ↩︎
- Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis 2020, p.13. ↩︎
Introduzione alla redazione aperta di ViaDogana3 – Vincoli, connessioni, relazioni, 7 febbraio 2021
Inizio la mia riflessione con una citazione dal testo di Chiara Zamboni Sentire pubblicato nel libro La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe.
«Il sentire ha per le donne un valore politico per il fatto che molte donne affidano all’esprimere quel che sentono il primo passo per significare l’esperienza e abbiamo visto come dire l’esperienza sia un nodo direi essenziale nella politica delle donne».Nel tempo del confinamento in molte ci siamo messe in ascolto del nostro sentire cercando di tradurre in parole le percezioni, le sensazioni, le emozioni che ci attraversavano.
Un ascolto paziente, non sempre facile, che ha consentito a ciascuna di noi, e a ciascuna a suo modo, di afferrare la verità di un’esperienza così sconvolgente e di condividerla con altre. C’era il lockdown, eravamo separate e tuttavia abbiamo trovato il modo di restare in relazione e di avere uno scambio ricorrendo a pratiche di scrittura, utilizzando le piattaforme di condivisione a distanza e uno strumento come facebook. Penso alla redazione di Via Dogana 3 che fin dal marzo 2020 ha dedicato diversi incontri all’emergenza coronavirus e alla narrazione di come alcune di noi la vivevano, pativano, elaboravano. Ne ricordo i titoli: Attraversare questo tempo: interrogazioni,pensieri,prospettive; Non sembra ma è una grande occasione; Ripartenza o rinascita?; Libertà in tempo di pandemia. Penso al Grande Seminario di Diotima che si è svolto lo scorso ottobre: Contagi e contaminazioni. La politica delle donne a confronto con il reale. Penso alla Italian Virginia Woolf Society, di cui faccio parte, che nella primavera del 2020 quando per proteggere la nostra vita e quella delle altre/i ci siamo autoconfinate, sulla pagina Facebook dell’associazione ha creato una rubrica, «Parola di Judith» (Judith è l’immaginaria sorella di Shakespeare inventata da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé) per aiutarci a rimanere in contatto condividendo vissuti, sentimenti, pensieri. E potrei continuare citando i tanti articoli circolati in rete di attiviste, giornaliste, scrittrici. Quello che voglio dire è che non ci siamo mai fermate e che il desiderio di alcune ha rianimato in altre, in una come me ad esempio, un desiderio che si era bloccato.
Oggi, a distanza di un anno dove tutto non è andato bene e le cose si presentano peggio di prima,ci chiediamo come possiamo rilanciare la pratica politica, tessere relazioni restando ancorate alla propria verità soggettiva, potenziare l’elemento della fiducia e come trovare altre forme di presenza pur nella distanza.Si tratta di una scommessa che ci giochiamo in una situazione disperante, contrassegnata dall’irresponsabilità, dal cinismo e dalla mediocrità degli uomini di potere sostenuti dal silenzio-assenso di alcune donne e dove l’economia trionfa sulla politica.
Quello che mi viene in mente, e mi baso sulla mia esperienza, è che una pratica politica si rilancia creando le circostanze per farla esistere. Nei contesti in cui ci troviamo. Io sono in pensione da diversi anni, non ho più un luogo di lavoro e neppure uno politico dove agire. La lettura della Carta Coperta ha mosso in me il desiderio (che si è bloccato nel lockdown per poi risvegliarsi) di avere con altre uno scambio sui temi dell’inconscio, del desiderio, del sentire. Allora mi sono messa in relazione con un’amica che quel desiderio ha condiviso e lei a sua volta ne ha parlato con una sua amica che mossa da un suo desiderio aveva già letto la Carta Coperta.
La nostra relazione che si era interrotta con il lockdownl’abbiamo ripresa da alcune settimane e trovandoci ancora in una situazione di distanziamento fisico abbiamo deciso che la forma migliore per continuare lo scambio è una pratica di scrittura. Quello che maggiormente mi ha colpito quando ci siamo sentite per riprendere il filo delle nostre riflessioni è la fiducia che ora circola tra noi e che nella prima fase della relazione stentava ad affiorare. Per cose non dette, reticenze, fraintendimenti e perché c’è sempre dell’inconscio tra l’una e l’altra.
La fiducia è un elemento importante della nostra politica, ma può capitare nel concreto di una relazione che essa incontri degli inciampi o che ci sfugga. Nel periodo del confinamento a meè capitato di perdere la fiducia in alcune amiche che interpretavano le regole del disciplinamento come un’imposizione lesiva della libertà individuale e collettiva. Mentre io il lockdown lo vivevo non come una forma di obbedienza ma come consapevole autolimitazione della mia libertà. Ed è singolare e fa problema che tra femministe la fiducia si sia incrinata proprio sul terreno della libertà e questo mi sembra un punto su cui ragionare. Sulle pagine di facebook dove il conflitto si è manifestato senza alcuna possibilità di mediazione si sono ben presto formati degli schieramenti.Un fatto che segnala come l’uso delle tecnologie presenti al contempo vantaggi e svantaggi. Nel caso del nostro incontro di oggi e data l’impossibilità di uno scambio in presenza è senz’altro un sostegno. E lo è, se usato con criterio, anche facebook, nella misura in cui ci consente la condivisione dell’esperienza e del pensiero delle donne. Nel tempo sospeso della pandemia sono circolati su facebook tantissimi testi di femministe italiane, europee, anglosassoni e anche questo è stato un modo per spezzare l’isolamento e tenersi in contatto al di qua e al di là dell’Atlantico.
La verità soggettiva nasce dall’ascolto del proprio sentire, la fiducia è il sentimento che ci apre alle altre, agli altri, al mondo. Verità soggettive e fiducia sono gli ingredienti essenziali della relazione fra donne e della pratica politica del femminismo della differenza. Una pratica politica sulla quale ancora oggi scommettiamo. Nella congiuntura Covid-19 in cui ci troviamo è risultato evidente – e l’agire delle sette prime ministre di cui abbiamo parlato nell’incontro del 3 dicembre ne rende testimonianza – come la fiducia possa diventare anche un fattore di coesione sociale.In un articolo pubblicato sul numero 1350 di Internazionale intitolato “Per combattere il virus bisogna essere altruisti”, Laurie Penny mette in campo la fiducia. Parlando dei comportamenti sbagliati di tante persone e che la fanno arrabbiare (accaparramenti dissennati di generi alimentari nei supermercati, o fingere che non stia succedendo niente) lei scrive:
«Non puoi combattere un’epidemia solo avendo ragione. Rimproverare i tuoi amici non è il modo migliore per fargli cambiare atteggiamento. Dobbiamo essere delicati gli uni con gli altri. Dobbiamo allenarci alla fiducia. Perché ora e nei decenni a venire i nostri problemi più grandi non si potranno risolvere se non ci fideremo gli uni degli altri».
Introduzione alla redazione aperta di ViaDogana3 – Vincoli, connessioni, relazioni, 7 febbraio 2021
Questo incontro parte da un luogo fisico, la Libreria delle donne di Milano dove mi trovo io insieme ad alcune altre. È la pratica che sta emergendo ora che non possiamo trovarci in presenza: mantenere il radicamento al luogo e ai corpi è fondamentale e fa parte della politica stessa. Prima di cominciare vogliamo ringraziare Laura Colombo che è sempre qui, insieme a Laura Giordano, e Valeria Spirolazzi da remoto: mettono a disposizione le loro conoscenze tecnologiche permettendoci di comunicare anche a distanza. Laura Colombo ha impostato un potenziamento di zoom, l’ultima volta ci è dispiaciuto molto dover escludere parecchie donne che avrebbero voluto esserci. Ringraziamo anche Clara Jourdan che gestisce le iscrizioni.
L’incontro di dicembre, che ho trovato particolarmente ricco e articolato, è stato il primo di questa esperienza nuova, tutta online: ha dimostrato che se c’è il bisogno e il desiderio di scambio, anche questa modalità a distanza ne è vivificata. La gioia di ritrovarsi era palpabile. Sicuramente è stato anche l’argomento proposto, la libertà, che ha dato slancio al dibattito e ha innescato tanti contributi di verità soggettiva.
Due interventi in particolare ci sono sembrati densi di sviluppi interessanti: Giuliana Giulietti di Livorno, la quale si è riallacciata alla “Carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe” e alla costatazione di Ida Dominijanni sulla latitanza del desiderio. Abbiamo chiesto a Giuliana di intervenire oggi per riprendere quel filo, per aprire la questione della pratica politica che va ripensata e rilanciata. Ormai è chiaro che questa esperienza della pandemia non sarà mai una semplice parentesi nelle nostre biografie e che abbiamo bisogno di elaborarla. Per questo il secondo filone, che si intreccia con il primo, è affidato ad Anna Maria Piussi, che in occasione dell’ultimo incontro aveva proposto «una riflessione radicale che sia anche azione sul nostro rapporto non solo con gli umani ma anche con il vivente». È già da alcuni mesi, infatti, che si dedica a questa ricerca, seguendo un desiderio che si è svegliato in lei grazie alla pandemia. Da molto tempo anche il movimento ecologista vede queste interconnessioni, ma spesso si rimane ad un livello etico, di responsabilità personale, e mi manca il passaggio dalla verità soggettiva, per cui non riesco a farmi prendere in prima persona. Sento la necessità di un affinamento del pensiero perché stiamo attraversando una crisi che è nel contempo sanitaria, ambientale, economica, sociale e politica, soprattutto in questi giorni, con la caduta del governo Conte ad opera di ciniche manovre di potere di stampo maschile. E nella situazione in cui ci troviamo oggi, io sento fortissimo il bisogno di scambio, di ricerca di senso per non farmi travolgere dalla rabbia e dal senso di impotenza.
Dicevo che ci troviamo di fronte a una crisi strutturale di tutti gli ambiti, ma nel contempo vediamo il manifestarsi di autorità femminile. La cultura della specializzazione non riesce a dare risposte adeguate a una realtà che sembra sfuggirci. Se ne sono accorte anche le stesse persone impegnate nella ricerca scientifica rafforzando l’approccio interdisciplinare, di per sé non nuovo, per affrontare l’emergenza Covid. Il nuovo sta nel fatto che le porte che si sono aperte sui laboratori di ricerca hanno fatto vedere moltissimi volti femminili, e molte volte la presa di parola pubblica ha portato il segno dell’autorità femminile.
Anche i grandi media hanno registrato che circola un protagonismo femminile: l’ho visto nelle retrospettive sull’anno 2020 che regolarmente vengono pubblicate a fine anno (il video del Corriere della sera dal titolo significativo: 2020, l’anno che ci ha tolto le parole, elenca dieci buone notizie, tra cui: «Donne in politica, sempre più leader»; Le Monde titola: Buone notizie che hanno segnato l’anno 2020, nonostante tutto, e cita tra gli altri «Environnment, justice, féminisme»1). Tuttavia, lo si annovera come buone notizie senza conseguenze. Inoltre salta all’occhio, anche qui, una visione frammentata della realtà: invece tutti questi ambiti sono cambiati proprio a causa dell’esserci delle donne.
E inaspettatamente, tra le donne stesse che hanno scelto di competere per un posto di potere, alcune hanno cominciato a nominare il di più femminile, e a mettere in luce la genealogia femminile e la fertilità della relazione tra donne: Kamala Harris nel suo discorso del 9 novembre scorso ha parlato di sua madre immigrata dall’India, ha valorizzato le generazioni di donne nere, asiatiche, ispaniche… che con la loro lotta le hanno aperto la strada. I media non hanno rilevato la forza simbolica delle sue parole; l’abbiamo fatto noi nella redazione del sito dando un titolo nostro a quel discorso: “Il senso di Kamala per la genealogia femminile”. È una nostra pratica importante dare, attraverso titoli redazionali e brevi introduzioni, un significato alle cose che capitano e sottrarre così il monopolio della rappresentazione a chi le lascia nell’indifferenziato o le legge in chiave emancipazionistica. Ci ha anche colpito Christine Lagarde in un’intervista pubblicata da Io donna il 2 gennaio 2021: parlando della relazione con Angela Merkel e Ursula von der Leyen, sottolinea la loro comunicazione diretta, fuori dai protocolli, e quindi più efficace. E aggiunge: «nessuna di noi voleva prendersi il merito a tutti i costi, né lasciare che il nostro ego intralciasse il lavoro altrui, e anche questo si è rivelato utile. Quindi direi meno vanità». UNA BELLA DIFFERENZA, dico io!
Vorrei anche parlare delle tante donne che non si trovano sulla scena illuminata della politica internazionale e che hanno tirato fuori, anche insieme ai colleghi maschi, molta creatività e inventiva in questa situazione che ci ha tolto tutte le certezze: moltissime insegnanti, per esempio, confrontate con la chiusura delle scuole, non si sono fatte prendere in prima istanza dall’angoscia di dovere affrontare l’ondata di tools e apps che la furia della digitalizzazione ci ha buttato addosso, ma hanno pensato per prima cosa a come salvare la relazione con alunne e alunni, tramite la consegna di materiali a casa, in bicicletta, telefonate personali con chi è isolato tra le mura domestiche, e apertura di blog per scambiare idee e proposte con colleghe e colleghi mai conosciuti prima.
Tutto questo, come abbiamo scritto nell’invito, indica un agire femminile imprevisto nel quale sono leggibili i segni di un nuovo futuro. La posta in gioco è un salto di civiltà, così come è stato messo in luce nel documento “Salto della specie” promosso da Ida Dominijanni. Per me è stato un testo fondamentale, l’ho condiviso spontaneamente anche se la pratica dei testi collettivi in realtà non corrisponde alla mia pratica; qui invece mi dicevo: sììì, queste parole corrispondono profondamente a ciò che sento e penso, dalla prima all’ultima riga! Infatti, prendendo le parole da quel testo, sostengo che quell’agire delle donne che ho citato prima, da Kamala Harris all’insegnante, «si nutre dell’esperienza storica femminile e vive da decenni nella politica messa al mondo dal femminismo» ed è segno di un cambiamento «che antepone la relazione e l’interdipendenza alle pretese arroganti dell’individuo sovrano, la vulnerabilità e la cura all’onnipotenza necrofila, il bene comune all’interesse parcellizzato e al profitto, l’immaginazione e l’invenzione politica alla reiterazione delle mosse del potere» (Salto della specie).
Proprio in questi giorni abbiamo sotto gli occhi quelle pretese arroganti dell’individuo sovrano e quindi cresce l’urgenza di interrogarci sulle pratiche e le mediazioni necessarie.
Sì, a me dà soddisfazione vedere circolare autorità e libertà femminile ai livelli più alti del governo di questo mondo, ma ciò non toglie che saltano fuori contraddizioni enormi: cito solo le ministre mute (in quel caso è stata molto importante la nuova mediazione che Luisa Muraro ha lanciato con la sua lettera aperta), penso anche a Nancy Pelosi che ammiravo moltissimo per la sua signoria e i suoi gesti clamorosi, per esempio stracciando il discorso di Trump. Sprizzava autorità femminile letteralmente da tutti i pori, quando diceva all’ex presidente «Io sono madre di cinque figli e nonna di nove nipoti e riconosco quando uno fa i capricci» – ma poi, ma poi: ai primi di gennaio ha avallato delle regole linguistiche per la camera dei rappresentanti che tolgono, nel nome di una politica di inclusione, parole come madre, padre, sorella fratello e i pronomi personali sessuati. E questa non è solo una tendenza nel House of Representatives, l’idea di un linguaggio inclusivo di “tutte le identità di genere” si sta diffondendo anche in Italia. Un pensiero, un linguaggio che vuole includere tutto tranne la propria soggettività.
La scommessa politica della differenza, infatti, richiede un rilancio continuo. Se la pandemia ha messo in circolazione concetti come libertà relazionale, vulnerabilità, corpo, interdipendenza che fino a un anno fa erano appannaggio del femminismo e ora hanno trovato circolazione perché aderenti alla realtà nuova, questo non deve metterci in una posizione di autocompiacimento (“l’abbiamo sempre detto…”) ma spingerci piuttosto ad affinare le pratiche e interrogarci su quali mediazioni si possono aprire, soprattutto quando c’è una urgenza come quella del nostro presente.
Il pensiero e la pratica della differenza, infatti, domandano consapevolezza soggettiva, senso della parzialità e capacità di relazionarsi, e nessuno di questi elementi può essere saltato, neanche di fronte all’urgenza.
- «Ambiente, giustizia, femminismo» ↩︎
Introduzione alla redazione aperta di ViaDogana3 – Vincoli, connessioni, relazioni, 7 febbraio 2021
Domenica 7 febbraio 2021, ore 10-13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 7 febbraio 2021”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
La pandemia ha innescato sviluppi irreversibili e conflitti che chiedono un affinamento del pensiero e delle pratiche. Ci vuole anche discernimento, ci sono cambiamenti sbagliati, come quello di cancellare la differenza per paura delle discriminazioni. L’esperienza di quest’ultimo anno ci ha fatto capire la necessità di allargare lo sguardo mantenendo fermo l’essenziale. È ormai chiaro che la visione frammentata del mondo ereditata dalla cultura della specializzazione non corrisponde alla realtà. D’altra parte, e secondo noi non per caso, in ogni ambito della società molte donne, da protagoniste, hanno mostrato un agire imprevisto nel quale sono leggibili i segni di un nuovo futuro. L’esposizione a una situazione mai vissuta prima ha fatto scoprire cose inaspettate non solo fuori ma anche dentro di sé. Ed è proprio da qui che possiamo rilanciare la pratica politica: ancorarsi alla propria verità soggettiva restando in relazione con altre e altri per capire come potenziare la fiducia, con chi cercare nuove mediazioni, quali mosse intraprendere per allargare la politica delle relazioni, come evitare gli schieramenti, come trovare altre forme di presenza pur nella distanza.
Introducono Anna Maria Piussi, Giuliana Giulietti e Traudel Sattler.
Care amiche, quanta confusione in questi giorni. Spero di strapparvi un sorriso anti-depressione dicendo che “preferivo” la situazione ignorante del lockdown di primavera.
Ripenso spesso a quei mesi perché li ho vissuti prendendomi cura (con l’aiuto di Alberto, ma del tutto priva degli altri piccoli aiuti che nella quotidianità precedente – che mi rifiuto di chiamare normalità – mi sollevavano, almeno per qualche ora ogni tanto, da alcune incombenze) della mia mamma novantaseienne, inevitabilmente esposta al bombardamento mediatico sulla brutta fine di tante persone anziane, spaventatissima e, proprio per questo, più richiestiva, più bisognosa, più fragile. È stata in qualche modo una esperienza estrema, che mi ha portata quasi al limite delle mie risorse.
Lì in quella fatica che in qualche momento mi è sembrata senza speranza ho incontrato dentro di me la necessità di distinguere vita e sopravvivenza. La mia amatissima Rosetta Stella mi aveva indirizzata in questo senso, quando diceva, lei lo diceva benissimo, io lo riprendo come riesco, che la sopravvivenza è il contrario della vita. Mi sembra utile da tenere a mente. Intanto perché aiuta a tenere insieme i due estremi di ciò che viviamo nella Pandemia, da una parte l’isolamento e la solitudine, dall’altra l’essere lì tutti quanti insieme in questo passaggio. Le regole che ci vengono indicate attengono la sopravvivenza, mi pare. Individuale, della specie? Non lo so.
La vita invece chiede impegno soggettivo, e rischia ogni attimo di passare in secondo piano, forse perché vita e morte si toccano, è proprio quasi impossibile pensare l’una senza l’altra. Eppure il mondo in cui siamo ha fatto della morte un gran rimosso fino a “ieri”, per poi esibirla nella pandemia.
Si parla moltissimo di razionalità scientifica, di oggettività, della necessità di affidarsi a quel livello di indicazioni. Da un lato capisco, dall’altro provo disagio in proposito: come se mi si chiedesse di spegnermi… Poi mi verrà detto quando “riaccendermi”, ma come sarò diventata in questo “dopo”?
Così molto banalmente cerco di interrogarmi su quello che faccio e di orientare su questa distinzione le scelte quotidiane. È una specie di pratica della Pandemia, mi esercito a cercare dove finisce “vita” e comincia “sopravvivenza”. Cerco di fermarmi su quel crinale, ascoltando la paura e il desiderio, e cercando di confrontare il mio sentire con quello di chi ancora mi sopporta.
Ho ascoltato con grandissimo interesse l’introduzione di Ida Dominijanni all’ultima riunione di Via Dogana, mi è sembrata molto bella: ha segnalato diverse questioni, tutte importanti, che mostrano come molto di quanto detto e trovato nella ricerca del femminismo italiano del quale mi sento parte stiano diventando più visibili nella situazione attuale.
Le parole di Ida a me non sono sembrate un “ricapitolare”. Mi hanno fatto pensare: come possono essere rigiocate, rilanciate quella ricchezza di pensiero e di pratiche?
Segnalo solo – tra le tante cose – quella che a me interessa di più: forse perché mi pare la più ambigua. Come si legano e si slegano tra loro “libertà relazionale”, “spoliticizzazione”, “questione del desiderio” (e dunque dell’erotismo o al contrario della depressione)? Mi sembrerebbe utile, e mi piacerebbe, lavorare sulla trasgressione, questione che – mi pare – attraversa tutte le altre, ma “diversamente” per ognuna. Trasgredire mi sembra molto difficile, in un mondo di narrazioni che rimasticano e digeriscono di tutto, riportando ogni cosa alla normalità, e alla norma. Difficile, ma erotico. Servono anche altre parole, sul cui senso contendere? A me piace molto nominarmi “alterata” (comprende anche ascoltare i sentimenti di indignazione, quando li provo), e mi piace “femminismo della libertà”.
Dove ho sperimentato la libertà in questi periodi di confinamento? Le ordinanze del governo hanno definito via via i comportamenti da tenere. Ho visto obbedienza e ho visto opposizione e protesta. Tra questi due atteggiamenti c’è stata una terza strada. È quella che nel movimento delle donne è stata chiamata pratica delle relazioni.
La libertà è stata resa possibile dallo scambio con le altre. Ma che cosa ha significato in questo anno così particolare in cui il governo ha definito in modo preciso gli atti, i tempi e gli spazi di noi tutti? Mi sono trovata a ragionare con altre e altri – più donne che uomini – per capire in quali situazioni e perché questi provvedimenti fossero sensati e quando risultassero non necessari, al limite superflui, per la salute di tutti.
Sottolineo che non si è trattato di un giudizio individuale. Per questo ritorno sul fatto simbolico che mi sono sentita libera proprio perché mi sono confrontata con altre e altri su quel che era necessario o meno fare. Non contro il governo, ma neppure semplicemente ossequienti. Questo, in situazioni molto precise, ha comportato anche il disobbedire ad alcune regole palesemente inutili o peggio contraddittorie per la salute nostra e altrui.
Si sa che si impara sempre dalle situazioni nuove e questa lo è stata decisamente. Ma non mi aspettavo di imparare che in una situazione di pericolo collettivo mi potevo fidare di alcune amiche e di altre no. Certo non delle amiche che sostenevano bisognasse obbedire sempre e comunque alle disposizioni del governo né a quelle che ritenevano tali regole espressione di strategie di potere. Ho capito che potevo aprire un confronto su quali regole seguire e perché con chi sa ragionare a partire dalle conoscenze limitate che abbiamo avuto a disposizione e contemporaneamente sa dare ascolto e tenere conto dei segnali che il nostro corpo offre. Il lato inconscio del corpo.
Nella politica delle donne parliamo molto di fiducia, ma fiducia è una parola complessa con molti strati di significato. Nel caso che sto descrivendo mi sono fidata di chi aveva una certa indipendenza interiore sia dalle regole governative sia dalle scelte fatte dalla stampa e dai social. Pur tenendo conto di tali regole e tali scelte. Certo, come diceva Elisabetta Cibelli in una discussione di Diotima, fare politica presuppone una apertura di fiducia. Con le mie parole: la scommessa di creare legami di fiducia con chi non conosciamo e con chi è su una strada diversa dalla nostra. È come se fare politica ci rimettesse in sintonia con la prima apertura fiduciosa al mondo. Rinnovasse un inizio. E tuttavia, come ho cercato di far vedere, non è priva di contraddizioni nel farsi dell’esperienza.
Ida Dominijanni osservava nel suo intervento del 13 dicembre che nella politica delle donne la libertà ha a che fare con il desiderio e che il desiderio è sottotono in questo periodo. Osservava anche che alcuni luoghi delle donne vengono tenuti aperti per incontri via video come la Libreria delle donne di Milano. A questo aggiungo di mio che non solo alcuni luoghi di donne mantengono aperto lo spazio di scambio tra donne, ma molti ne stanno nascendo. Questi, se pure nei limiti di uno scambio via video – e accompagnati di frequente dalla pratica della scrittura -, creano le condizioni materiali per un discorso vivo, che è la prima sorgente perché prenda forma il desiderio. Il desiderio del desiderio è già desiderio.
Già al primo lockdown ho avuto la forte sensazione, dapprima soltanto istintiva, che dall’inedita esperienza del distanziamento fisico e della mancanza avrei potuto guadagnare più di ciò che avrei potuto perdere.
Credo che l’origine di quella mia istintiva certezza sia da rintracciare in una scelta: l’atto, anche amorevolmente concepito ma soprattutto politicamente orientato, che ho compiuto circa due anni fa. Non avevo esperienza con la pratica dell’affidamento né con la libertà femminile, però ho potuto leggere ascoltare e cercare di dare un nome al mio desiderio errante, e durante il distanziamento fisico ho fatto un corso di formazione accelerato. Sono una ragazza degli anni ottanta, incline a pensare che sia semplice realizzare i propri desideri. So d’esser riuscita a affrontare l’incontro ravvicinato con la vulnerabilità, con la mancanza di relazioni, con l’accettazione dell’interdipendenza umana, soltanto affidandomi a due donne dentro l’orizzonte della libertà relazionale.
Attraversando l’esperienza della pandemia, tutto il di più che mi viene oggi è cominciato nel giorno in cui ho capito con certezza che avrei dovuto fare un “all in”, avrei dovuto investire tutta me stessa puntando sul convincimento che la donna davanti a me non poteva desiderare altro che il mio bene, seppure magari un bene al primo sguardo incomprensibile, non visibile. Come quando ho pensato di essere libera nel piccolo angolo di gestione della pagina facebook dell’associazione di cui faccio parte tanto da credere di non poter accettare intromissioni in quello spazio. Il silenzio parlante che l’altra ha concesso al mio sguardo miope – che guardava solo alla difficoltà, alla fatica del confronto con tutte e non alla sua proposta di pensiero e scrittura collettiva – mi ha riportata alla necessaria mediazione generando per me nuova gioia. Di parole che arrivano e di silenzi parlanti ce ne possono essere molti, ciò che ha conferito e conferisce consistenza a quei silenzi e a quelle parole è l’incrollabile riconoscimento nella relazione di fiducia.
Affidarmi per me significa questo: ciò che l’altra mi dice o mi mostra ha un significato che mi appartiene; ciò che l’altra mi permette di sapere o di scoprire è se e quanto il mio desiderio mi corrisponda davvero.
È stato difficile fare i conti con quel vincolo, con l’accettazione dell’apparente limite che deriva dal considerare l’altra misura della propria libertà. Tanto più che la quotidianità del mondo come lo conoscevo mi mostrava altro.
In questo tempo però è arrivata la conferma della potenza simbolica che quell’investimento riesce a generare. Oggi affronto le indecisioni anche quando il desiderio si deprime, o quando lo sguardo cede alla mestizia che a volte ci circonda. Quelle relazioni sono fonte di una forza capace di rilanciare i desideri, miei e di altre, e rimetterli in circolo tra molte.
Una consapevolezza tanto chiara e rischiarata mi ha più volte messa di fronte a una domanda precisa: come fare perché la pratica dell’affidamento sia agita in modo da sprigionare tutta la sua portata di cambiamento? La risposta per me di maggior valore è: mostrarla. Mostrare la forza delle relazioni di affidamento tra donne è uno dei migliori investimenti per il futuro della politica.
Quando è scattato il primo lockdown io e alcune amiche stavamo lavorando sui testi di “La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe”. Il nostro scambio si è così bruscamente interrotto. Ci eravamo ripromesse di restare in contatto ma questo non è accaduto. Il disorientamento di quei giorni, lo sconvolgimento della nostra quotidianità, la tristezza e la paura ci hanno di fatto allontanate.
Ma forse, mi sono detta in seguito, non è stata soltanto la pandemia a bloccarci ma qualcosa di più profondo che era già in atto, quel silenziamento del desiderio di cui ha parlato Ida Dominijanni nella sua relazione e che è uno dei temi affrontati in La carta coperta e di cui si è parlato anche in libreria in occasione della presentazione del libro (30 novembre 2019). È chiaro che lo sforzo emotivo, e non volontaristico, cui Ida ci invita per rilanciare il desiderio, nessuna di noi può farlo da sola ma in relazione con le altre. E questa è una bella sfida. Perché il virus continua a circolare e ancora una volta siamo confinate e ancora si contano i morti. La tecnologia può aiutarci e l’incontro Zoom organizzato dalla redazione di Via Dogana 3 lo ha dimostrato. Certamente non è come pensare in presenza ma a ben vedere, rubo l’espressione a Ida Dominijanni, i corpi parlano, si sentono e contano anche dietro uno schermo. L’ho capito dalla gioia che ho provato rivedendo i volti di amiche che non vedevo da mesi, nell’udire le loro voci, nell’ascoltare le loro parole, nei tanti “ciao” che ci siamo scambiate. La pandemia è un evento che ciascuna di noi ha vissuto, patito, elaborato a proprio modo e che ha preso un grande posto dentro di noi, nelle nostre emozioni e sensazioni, nel nostro sentire. C’è una narrazione ufficiale della pandemia portata avanti dal governo, dalle istituzioni regionali e dai media che non solo produce confusione ma che non corrisponde a quello che io provo e vivo in questa vicenda di cui non si vede la fine. Una narrazione che secondo me va contrastata mettendo al mondo altre narrazioni a partire dal nostro sentire e dalla nostra esperienza. Per me è difficile tradurre in parole le tante e discordanti emozioni e sensazioni che il Covid-19 ha mosso e muove dentro di me. Ogni volta che ci provo viene fuori un balbettio faticoso e che assomiglia allo sforzo delle creature piccole quando imparano a parlare. Uno sforzo che impegna e tiene insieme il corpo e la mente. E forse il punto è proprio questo, che bisogna di nuovo imparare a parlare mettendoci di nuovo all’ascolto, in una realtà completamente sconvolta, del nostro inconscio, del nostro sentire, del nostro desiderio. Lo scambio tra noi può ripartire da qui e mentre scrivo mi rendo conto di avere riagguantato il filo di quelle riflessioni sui temi della Carta coperta interrotte da un accadimento imprevisto e da un desiderio assopito. In modo confuso e balbettante, senz’altro, ma sento che qui c’è per me una verità. La pandemia ha scatenato anche nel femminismo molti conflitti, lo ricordava Ida, tra due diverse interpretazioni del lockdown e, dunque, della libertà. Tra chi, come la sottoscritta, lo ha inteso come un atto di autoconfinamento, come una forma di protezione della vita, la mia e quella delle altre e degli altri e chi invece lo ha interpretato come un atto di obbedienza al governo, come una imposizione autoritaria lesiva della libertà individuale e collettiva. Un conflitto così aspro che alcune relazioni si sono spezzate. Che cosa ci è successo? – mi chiedo. E questo è un fatto che non può essere rimosso. Ma va elaborato, portato alla luce, compreso.
La nostra cultura occidentale ci ha abituato a pensare l’essere umano come il dominatore sicuro e inarrestabile che si muove al centro del mondo. I continui progressi fatti nel campo tecnologico e scientifico hanno contribuito a instillare l’idea delle potenzialità infinite di utilizzare la terra con tutte le sue risorse per il nostro sviluppo: quello che ancora non sappiamo o non si può fare oggi, lo si farà domani, è solo questione di tempo, e la padronanza sul mondo sarà una linea in costante ascesa. Il mondo ci appartiene: chi può al pari di noi rivendicare un tale concetto?
Ma in realtà siamo noi che apparteniamo al mondo, così come gli elementi che costituiscono la terra e che condividiamo con gli altri esseri viventi, anche con quei microrganismi invisibili, i virus, che possono parassitare le nostre cellule, alterarne gravemente le funzioni, e diffondersi da una persona all’altra in maniera rapidissima, cambiando tutto: le nostre vite individuali e l’assetto della società in cui viviamo.
Sono proprio le società occidentali più avanzate (Usa Uk Eu) quelle dove, più che altrove, il virus Covid 19 sta portando effetti devastanti e grande disorientamento. Esse si sono fatte cogliere di sorpresa dal virus, non solo dal punto di vista organizzativo (ma chi se non queste società, con i loro alti standard sanitari, avrebbero dovuto sapere cosa fare?), ma anche dal punto di vista esistenziale: non sono state in grado di percepire la vulnerabilità dell’essere umano di fronte alla propria appartenenza alla sfera biologica, quasi accecate da una presunzione di superiorità e invincibilità.
Ancora oggi non si sa esattamente quale siano le risposte più efficaci da dare: si alternano misure restrittive ad allentamenti per rispettare le “libertà individuali”, per salvare l’economia e continuare con i nostri abituali stili di vita. Ci sembra che le restrizioni costituiscano delle incomprensibili “dittature sanitarie”.
Abbiamo dimenticato che noi siamo da sempre condizionati naturalmente dal nostro corpo: lo sappiamo bene a livello individuale quando i ci ammaliamo anche in modo lieve; vorremmo poter correre come sempre, ma non possiamo, dobbiamo fermarci, perché abbiamo una incapacità funzionale.
Le ragioni del corpo umano, e soprattutto le relazioni tra la nostra salute individuale e l’assetto della società tutta, improvvisamente oggi si sono imposte con prepotenza. Ma nella società occidentale debolezze, fragilità, imperfezioni e malattie sono state accuratamente rimosse dalla percezione collettiva, per dare spazio all’immagine di un uomo moderno, sempre efficiente, sano, produttivo, positivo, quasi invincibile. Anche la gravidanza che rivoluziona il corpo della donna in una evoluzione fuori dal suo controllo personale, viene un po’ nascosta nei suoi aspetti più fisici e debilitanti: le limitazioni che comporta vengono percepite come debolezze personali e comunque di genere esclusivamente femminile, menomazioni compatite in uno stato d’eccezione “fuori” dalla regola comune.
Che dire dell’invecchiamento? nella nostra cultura occidentale gli anziani godono di visibilità solo in quanto “giovanili”, attivi ed allegri, sportivi e consumatori, meglio se ancora produttivi, cioè solo nella misura in cui possono confermare l’immagine di positività e di potenzialità quasi infinite del genere umano nella nostra società. Improvvisamente ora ci accorgiamo che con l’invecchiamento convivono spesso fragilità, debolezza, solitudine, e scopriamo che la vulnerabilità può appartenere anche ad altri gruppi di persone, affette da fattori di rischio che li rendono fragili. E che potenzialmente tutti siamo vulnerabili di fronte ad un virus patogeno.
Questa pandemia potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per una riflessione oltre che personale, generale della nostra cultura: una occasione per utilizzare al meglio tutte le nostre conoscenze e potenzialità di società occidentali a sviluppo avanzato, in modo da saperci adattare e riorganizzare di fronte alle possibili sfide del mondo esterno, non ultima la grossa sfida dell’emergenza climatica.
Nel mio breve intervento alla redazione aperta Via Dogana 3 del 13 dicembre, su piattaforma Zoom, ho detto «la mancanza alza il desiderio». Che cosa volevo dire? Prima di tutto che la vita, con tutti i suoi imprevisti, compreso il nostro confinamento forzato dovuto al Covid-19, affina i nostri desideri portandoli in alto, a volte fino a Dio. Questo me lo ha fatto pensare anche il recente scritto di Stefania Giannotti dal titolo “Il Dio delle donne” è di nuovo in libreria, pubblicato sul sito il 19 novembre 2020.
Infatti la mancanza ci scuote sempre, è un renderci conto, un incanalare le difficoltà e il dolore in un “oltre” capace di aprire grandi desideri che ho trovato espressi soprattutto nelle mistiche.
Per quanto mi riguarda la mancanza a cui mi hanno sottoposta le malattie, la vecchiaia e ora il Covid-19 mi ha condotta a cercare l’essenzialità del vivere. In questo caso non mi piace parlare di limiti perché, in quanto donna, nella vita di limiti ne ho dovuti subire anche troppi dalla cultura maschile dominante. Vivere nell’essenzialità è altra cosa: essa ci aiuta a non attaccarci alle cose, alle abitudini, a scoprire nuove possibilità e a contare su quest’ultime. Era dal 2013 che non avevo più messo piede nella Libreria in Via Calvi a Milano perché abito in un’altra città. Purtroppo, dopo quell’anno, sono stata sempre più impedita a camminare e a viaggiare. Il virus pandemico che vieta gli assembramenti e le riunioni mi ha aperto le porte della redazione aperta VD3 in digitale. Sono molti anni che grazie al computer io faccio molte cose, dal mantenere relazioni via mail, al fare la spesa al supermercato in quanto, ora come ora, non riesco a camminare più di cinquanta metri con le stampelle.
Quando ho saputo che la redazione aperta VD3 sarebbe stata fatta in digitale su piattaforma zoom, la mia felicità è stata grandissima e sono grata alle amiche della Libreria che si sono adoperate perché ciò si realizzasse. Certo, non condivido che la scuola si faccia in digitale, in questo caso la presenza fisica è indispensabile.
Ho detto che la mancanza può portare fino a Dio, ma in questo caso cambia il simbolico: non più l’onnipotente, ma il vero povero Cristo senza dimora che nasce in una mangiatoia, in una stalla trovata lungo la strada, mentre noi rimaniamo attaccati a tante cose al punto che la loro mancanza ci terrorizza, e alla liberazione dell’inutile preferiamo la tristezza di un consumismo da cui, malgrado tutto, non riusciamo a staccarci.
La mancanza ha a che fare con l’anima e con la differenza di essere donna. È cosa diversa dalla rinuncia e dal sacrificio. In definitiva, il senso di mancanza ci conduce al risveglio del desiderio, al bisogno di relazioni autentiche e libere, perché, come ha detto Ida Dominijanni nella sua relazione di apertura, «la libertà è relazionale».
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Quando Vita Cosentino, che ringrazio per la fiducia, mi ha chiesto se ero disponibile per un intervento introduttivo a questo incontro di Via Dogana, ho provato sgomento al pensiero di dover parlare di libertà; mi è venuto in aiuto il titolo dell’incontro “libertà in tempo di pandemia”. Ecco, quello che cercherò di dire sulla libertà deriva innanzitutto da come ho vissuto le limitazioni imposte dalla pandemia e poi dalle riflessioni che ne sono scaturite.
È un po’ deludente ammettere che ci voleva questa pandemia per fare emergere consapevolezze solitamente tenute in ombra.
Il virus Covid 19 ha inferto un duro colpo alla nostra presunzione, sbattendoci in faccia i limiti della nostra condizione umana e creando una situazione in cui ci è stata imposta una serie di limitazioni pesanti da accettare.
Penso alle reazioni, alcune scomposte, di chi ha vissuto queste giornate come violazione della propria libertà, addirittura come dittatura sanitaria. Dopo tutto, la pandemia ci ha portato a riconoscere quella che è la condizione naturale, normale, quotidiana di tutti noi esseri umani: quella di essere limitati, fragili, vulnerabili. Ho comunque l’impressione che di fronte a questo stato di limite c’è una particolare insofferenza maschile.
La pandemia ha anche evidenziato che siamo tutti/e interdipendenti, sia nel danneggiarci sia nell’aiutarci. Io posso continuare a vivere, anche se recluso in casa, perché ci sono tanti uomini e tante donne che me lo consentono continuando a fare il loro lavoro; ma c’è pure quell’interrelazione per cui uomini e donne possono diventare pericolosi per un possibile contagio, e se qualcuno/a si infetta e si ammala, prima o poi potrebbe capitare anche a me di ammalarmi per causa sua. Insomma gli/le altri/e possono essere sia fonte di limitazioni sia possibilità di superamento dei limiti.
Queste consapevolezze provocano immediatamente una riflessione sulla libertà e sul suo esercizio. In che misura le limitazioni e le interrelazioni sono un ostacolo, un impedimento della libertà?
Se penso alla libertà assoluta, come vaneggiano alcuni, i limiti mi dicono che essa non esiste; se penso che posso liberarmi dai limiti da me solo, facendo appello a un titanico volontarismo, rischio di finire nella disperazione. Un altro modo di pensare è quello di riconoscere di avere bisogno di altri e di altre perché mi possono aiutare, che questo aiuto può avvenire anche se non me ne accorgo. Si tratta però di prenderne coscienza e di provare gratitudine; il passo ulteriore è che, umilmente, conscio dei miei limiti, sia io a prendere l’iniziativa di chiedere aiuto ad altri e altre. È grazie al loro aiuto se conquisto spazi di libertà che prima non avevo.
La libertà è garantita e ampliata dal fatto che ci siano donne e uomini che scelgono di occuparsi delle e degli altri.
La cultura individualistica, ormai tanto diffusa, induce a considerare gli altri/e come un limite alla propria libertà. Ne è una traccia la convinzione che la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro/a. Per me non è così. Io penso invece che la mia libertà inizia dove inizia quella dell’altro/a. Cerco di spiegarmi.
Se io tollero l’esistenza di condizioni di vita in cui un altro/a non può essere libero/a, accetto di fatto che in quelle condizioni, fino a quando continueranno ad esistere, potrei trovarmi anch’io. Questo significa in pratica accettare di poter non essere libero.
In un mondo in cui milioni di esseri umani vivono nella mancanza di diritti fondamentali, non posso sentirmi libero perché al momento io non vivo quella situazione. E solo se mi capitasse di viverla capirei di non essere libero? Io, noi, siamo dei privilegiati. Essere dei privilegiati non è condizione di libertà, va piuttosto inteso come una precarietà favorevole, che una giusta ribellione degli svantaggiati e degli esclusi potrebbe farci perdere collocandoci in una situazione di minore libertà.
(Per inciso, con riferimento alla pandemia: se accetto che il vaccino non venga garantito a tutti, perché dovrebbe essere garantito a me? Solo se tutti sono liberi di accedere, anch’io ho la garanzia di essere libero di poterlo avere).
Non posso sentirmi libero se non c’è garanzia di libertà per tutti.
Un’altra riflessione. Le mie incapacità e insufficienze (comprese quelle temporanee che provengono da una malattia, da un contagio), fino a quando rimangono e non riesco a superarle, sono una limitazione della mia libertà, non so e non posso fare cose che altri sanno e possono fare. Posso però arrivare là dove, se fossi libero da quelle incapacità, vorrei arrivare, se incontro nell’altro/a chi mi aiuta a venirne fuori. Davvero inizia la mia libertà se l’altro/a sceglie con la sua libertà di venirmi incontro.
Lo stesso discorso vale nel caso di un’incapacità a vivere ed esprimere più pienamente la mia umanità, magari perché impedito da egoismo e individualismo, poco sensibile alla solidarietà. L‘incontro con qualcuno, più sovente è con qualcuna, che mi fa dono della sua attenzione, della sua sensibilità e generosità, può portarmi a sciogliere quei nodi e quei condizionamenti che mi rendono un po’ chiuso agli altri/e.
C’è un aspetto del tema libertà sul quale mi soffermo perché l’ho vissuto come esperienza proprio in questo tempo di pandemia: la mia libertà può fare esistere la tua, se so autolimitare la mia.
Io non ho vissuto il lockdown come un attentato alla libertà, ma come una limitazione accettata consapevolmente, quindi un’autolimitazione, per garantire il diritto alla salute e alla vita, oltre che a me, anche agli altri/e. È un’ulteriore conferma della nostra natura relazionale, di quanto dipendiamo gli uni dagli altri sia per farci del bene sia per farci del male. Anche fare del male è espressione di libertà, ma la si potrebbe limitare col pensiero che l’altro/a a sua volta potrebbe usare la sua libertà per fare del male a me.
Ritengo, dunque, che a volte l’autolimitazione è necessaria, se non vogliamo danneggiare nessuno, prima di tutti noi stessi.
Però la convinzione che, in questo tempo di pandemia, la libertà (ad es. di non essere infettati) sarebbe più garantita grazie a un’autolimitazione che ognuno sa fare della sua, non è convinzione sufficiente per vivere relazioni rispettose della reciproca libertà. Perché è una convinzione che si regge su principi quali la dignità, il valore di ogni essere umano, il riconoscimento reciproco dei diritti, tutte cose per altro affermate in dichiarazioni universali e in costituzione, che solo l’illusione di noi uomini può ritenere sufficienti a creare relazioni dove è riconosciuta e rispettata la libertà.
Non è così, la storia ce lo ricorda continuamente. Dobbiamo riconoscere i limiti pesanti della razionalità che alla ricerca di un ordine universale perde di vista le possibilità conoscitive dell’esperienza.
E l’esperienza dice che quella dinamica per cui fai agli altri/e quello che desideri che gli altri/e facciano a te, per attivarsi necessita che entrino in campo altre dimensioni dell’essere umano, che vanno oltre i principi e i diritti, dimensioni come quelle della compassione, dell’empatia, della tenerezza che si traducono poi nella cura, che in definitiva è un’espressione dell’amore.
Qui, però, devo anche fare i conti con le mie incapacità di uomo.
Sono più facilmente portato a fare riferimento a principi, a ricorrere a razionalizzazioni piuttosto che cimentarmi con pratiche politiche che mi renderebbero più capace di empatia. E queste pratiche politiche si apprendono proprio praticando le relazioni.
È vivendo le relazioni che imparo a praticare il principio del fare agli altri/e quello che desidero venga fatto a me, che acquisto quella sensibilità che mi fa capace di andare oltre alla razionalità.
È drammatico che ci accorgiamo della sofferenza degli altri/e quando soffriamo a nostra volta e ci aspettiamo ansiosamente che qualcuno/a si occupi di noi, ci dia attenzione e cura.
Dunque, l’esercizio della propria libertà condiziona ed è condizionato dalla libertà degli altri/e perché c’è una forte interrelazione tra tutti.
Mi sono posto l’interrogativo di come riesco a vivere le relazioni che condizionano.
Subisco con fastidio, quasi volendo scrollarmele di dosso, quelle che mi danno l’impressione di non portarmi niente ma di chiedermi invece tempo e spazio.
Accetto come dato di fatto, quasi con indifferenza, le relazioni con le persone dal cui servizio dipende la mia sopravvivenza e la possibilità di una qualità di vita, ad esempio con tutti i soggetti di mestieri e professioni che in fase di lockdown hanno continuato a lavorare (soprattutto medici e infermieri, donne e uomini naturalmente). Ha prevalso in me l’atteggiamento del dare per scontato piuttosto che una consapevole gratitudine.
Riflettendo, però, ho pensato che tutte queste relazioni, sia quelle subite sia quelle indifferenti, possono essere accolte invece come occasione di scambio di vita, di umanità. In tutte viene chiamata in gioco la mia libertà nella scelta di pensarmi più unito e solidale.
Avverto una carenza di libertà quando, pur disponibile a chi mi cerca, sono invece restio a cercare gli altri. È la cultura dell’autosufficienza (più maschile che femminile) che mi fa ritenere libero, mentre invece mi preclude l’apertura all’altro/a che amplierebbe i confini oltre i quali non c’è perdita ma guadagno.
Uno dei motivi per cui non ho sofferto particolarmente il lockdown è il fatto che più di tanto non ho patito la riduzione di relazioni; un po’ di solitudine e di isolamento non mi hanno disturbato; anche perché tendo ad essere piuttosto selettivo nelle relazioni e a soppesare tempi e spazi. C’è un’enorme differenza tra me e Adriana mia moglie. Mi accorgo di essere insofferente al tempo che lei dedica alle relazioni, vuoi con lunghe telefonate, vuoi con altrettanto lunghi colloqui in presenza. C’è in lei meno strumentalità nelle relazioni e sicuramente più cura, più amore e più libertà nel mantenerle e praticarle.
Queste riflessioni mi confermano che, quando sostengo ad esempio che la pratica delle relazioni è il modo innovativo di fare politica, di fatto sul tema relazioni ho un approccio un po’ intellettualistico, sorretto da principi e buone intenzioni, ma con scarsa pratica vitale, per cui libertà, solidarietà e cura sono forti convinzioni, ma sono poco e faticosamente praticate.
L’epidemia, con i conseguenti fenomeni economici e sociali, secondo me, ha inferto un altro colpo all’identità maschile, mostrandone una fragilità che si esprime anche con la depressione e la violenza, soprattutto verso le donne. Invece si è fatto avanti un soggetto femminile più libero, più sicuro di sé, più capace di fare fronte al disagio sociale.
Questa libertà femminile ha costretto ancora una volta noi uomini a relativizzarci rispetto alla pretesa di considerarci misura e regolamentazione di tutto, e di voler esercitare il potere per costruire un nostro ordine. Il relativizzarmi non lo vivo come una riduzione della libertà maschile, ma come possibilità per noi uomini di dare spazio ad altre dimensioni di sé.
La necessità di ridurre i contatti con l’esterno, soprattutto in regime di lockdown, mi ha posto in condizioni di dare più attenzione alla mia interiorità. Sollecitato anche da un confronto più continuo e inevitabile con Adriana, ho riflettuto più profondamente sul mio desiderio, che non è quello normalmente attribuito al maschio, ma quello che nasce dalla mia esigenza di vivere in pace con me e in armonia con gli altri/e e mi spinge verso un modo di stare al mondo in relazione con uomini e donne con libertà, in modo autonomo e non eterodiretto, consapevole della mia differenza maschile senza perdere me stesso, riuscendo a riconoscere e dialogare con la diversità dell’altro e con la differenza dell’altra.
Mi sono sentito autorizzato a introdurre il mio desiderio nella storia non dagli uomini, che anzi mi davano possibilità di essere visibile solo trovando collocazione nel loro ordine maschile, ma dalle donne che, sentendosi inadatte a quell’ordine, trovavano modi di esprimersi che creavano spazi in cui anche gli uomini, incominciando ad affacciarsi, sgretolavano le barriere del loro mondo.
Dunque posso pensarmi e progettarmi come il mio desiderio, libero da condizionamenti culturali di tipo patriarcale, mi spinge a essere.
Sono libero se mi sento libero, e mi sento libero quando posso vivere secondo il mio desiderio di pace e armonia con gli altri e le altre anche in questo tempo di pandemia e di restrizioni faticose da sopportare.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Voglio vedere in questo periodo del positivo: la libertà che le donne hanno agito ha portato e porterà a mutamenti sostanziali anche nella gestione della cosa pubblica. La pandemia ha reso evidente quello che in altri tempi in molti potevano fingere di non vedere.Perfino i media se ne sono accorti: alla fine del primo lockdown la rivista economica Forbes (una per tutte) ha titolato Cosa hanno in comune i paesi con le migliori risposte al Coronavirus? Le donne leader. Invece, negli stati occidentali, dove la pandemia dilaga, abbiamo al potere la concezione patriarcale dell’uomo solo al comando.
La risposta del leader maschio – uomo duro – è stata quella di minimizzare o negare la gravità della diffusione del contagio, ostentare sicurezza e fatalismo, da Bolsonaro a Putin, a Trump che, con spavalderia, è riuscito a ridicolizzare il virus. Oppure è stata quella di avere avuto comportamenti contraddittori, passando dall’immunità di gregge ai ripetuti lockdown, come il britannico Johnson. Il prossimo presidente statunitense Biden sembra voglia comportarsi diversamente, come ha già dimostrato durante la campagna elettorale: prendere molto sul serio la situazione. È quello che ha fatto sì che i paesi guidati da donne, molto diversi tra loro per condizioni geo-sociali e culturali, si siano distinti per l’efficacia nel contenere gli impatti del coronavirus.L’emergenza in cui siamo ha reso ancora più evidente la crisi dell’autorità gerarchica maschile che non funziona più: voce grossa, imposizioni, tentennamenti, passi indietro; mostrare i muscoli o negare l’innegabile, usare un linguaggio bellico o nascondersi dietro il cinismo non ha risolto la pandemia. Nella tragicità della situazione alcuni comportamenti maschili rasentano spesso il ridicolo. Nell’agire delle prime ministre, al contrario, sta emergendo un altro tipo di autorità. Quello che il pensiero politico delle donne ha elaborato (con Arendt): un’autorità che si scioglie dall’abbraccio del potere e, come vediamo da queste esperienze, che si coniuga con la libertà.Mi spiego con esempi tratti dalle cronache di questi giorni.Se analizziamo i comportamenti delle leadership femminili, pur con posizioni politiche diverse, (l’islandese Katrín Jakobsdóttir e Erna Solberg, norvegese, la finlandese Sanna Marin e Tsai IngWen di Taiwan, la danese Mette Frederiksen e Jacinda Ardern della Nuova Zelanda) troviamo che ci sono modalità simili nella gestione della pandemia. Approcci adeguati alle condizioni dei singoli paesi, ma che hanno in comune la presa d’atto fin dall’inizio che la questione è seria, da non negare né sottovalutare e se occorrono misure restrittive impopolari, contemporaneamente occorre rassicurare la popolazione e farla partecipe dello sforzo che si richiede, instaurando una comunicazione di fiducia. Le restrizioni, se ben spiegate, possono ricevere molto più seguito di norme puramente imposte.Queste donne hanno agito con autorità e prendendosi la loro libertà, riuscendo a costruire una narrazione che ha coinvolto la popolazione spingendola a collaborare.Per esempio hanno usato un linguaggio, consapevole dei limiti e delle difficoltà, che trasmettesse calma e sicurezza, molto diverso dal linguaggio urlato e volto alla prevaricazione di certi altri leader politici.È di qualche giorno fa la cancelliera tedesca Angela Merkel che tocca le emozioni sue e di chi l’ascolta, per chiedere maggior attenzione nell’evitare i contatti in occasione delle festività, ripetendo: «Mi dispiace, sono dispiaciuta nel mio cuore». I video sono pubblicati in rete.Per trovare una comunicazione empatica e di fiducia, la neozelandese Ardern si è resa disponibile a dirette face-book da casa, in veste non ufficiale. Comprendiamo come con orgoglio abbia dichiarato di aver creato un Team dei cinque milioni.Un’altra invenzione è stata pensare alle giovani creature non solo come pacchi da tenere a casa o mandare a scuola seguendo l’andamento di grafici e sondaggi. La premier conservatrice norvegese Erna Solberg dedica la sua attenzione anche ai piccoli, partecipando ad apposite conferenze stampa per rispondere a domande e curiosità, per rassicurarli nelle loro paure, aiutarli a superare le ansie e le difficoltà di questo periodo. Spiegazioni chiare e semplici che hanno prodotto benefici sullo stato psichico delle creature, ma anche dei loro genitori.E l’islandese Sanna Marin? Per raggiungere le generazioni più giovani poco avvezze a leggere i giornali o seguire la televisione si è rivolta a “influencer” sui social media per comunicare con loro.Con questi gesti di libertà queste leader si sganciano dal potere, agiscono la loro autorità mostrando che è possibile far nascere qualcosa di nuovo: hanno fatto cose che altri non hanno mai fatto. Il New York Times che non nomina né l’autorità né il potere, però scrive: «Per le donne potrebbe essere meno costoso in termini politici [operare come hanno operato] perché non devono violare nessuna norma percepita di genere per adottare politiche delicate o conservatrici». In altre parole hanno la consapevolezza che possono agire, nel mondo politico non pensato da loro, la propria autorità unita alla libertà. Hanno seguito quello che in quel momento sentivano come necessario, senza sottostare a ciò che è già prestabilito o a vincoli gerarchici. Questo ci può far pensare che agire con libertà possa essere positivo per affrontare anche altre emergenze come quella climatica o ambientale. E Jacinda Ardern ce ne fornisce subito una prova. Ai primi di dicembre, legandola alla pandemia, ha fatto approvare dal suo parlamento una dichiarazione di emergenza climatica per intraprendere azioni urgenti al fine di ridurre i gas serra e raggiungere entro il 2030 il 100% di energia proveniente da fonti rinnovabili. Ha detto: «La ripresa economica post COVID-19 rappresenta un’opportunità unica per la generazione di rimodellare il sistema energetico della Nuova Zelanda per renderlo più rinnovabile, più veloce, conveniente e sicuro».Faccio una citazione, un po’ più lontana nel tempo. Nel 2014, l’ex presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf si è trovata a guidare il suo paese durante la diffusione del virus ebola: «Non vedo nessuna contraddizione nell’essere empatici e umani ed essere buoni leader. Non è debolezza, è forza». In particolare allora aveva dovuto prendere una decisione molto difficile nei confronti della popolazione, cioè quella di cremare i corpi dei defunti per limitare la diffusione del virus, pratica però non ammessa nella tradizione buddista praticata dalla maggioranza delle persone nel paese. «Queste decisioni devono arrivare da compassione e comprensione per poter guadagnare il supporto del pubblico».In Italia la situazione mostra aspetti contradditori e domina l’incertezza.È vero che dopo il primo lockdown qualcosa è cambiato. Quel senso di solidarietà che, pur rimanendo distanti ci faceva sentire vicine, con forme esteriori come i canti dai balconi, ma anche con azioni concrete di aiuto ai più fragili, sembra essersi smarrito. In questi mesi molti hanno lavorato per “mettere in sicurezza” i locali, permettere la fruizione di mostre e musei, assistere agli spettacoli, perché la scuola potesse essere di nuovo frequentata senza timore per la salute propria e altrui.Aperture e chiusure si susseguono: l’economia ha ripreso il primato sulla vita e sulla società.Ora chi è nel commercio, chi opera nella ristorazione e nel settore alberghiero, nello spettacolo e nella cultura in generale, studenti e insegnanti protestano perché le norme cui devono sottostare, sono poco chiare, decise dall’oggi al domani. La mancanza di cooperazione tra istituzioni sta portando a tanti livelli di opposizione alle norme imposte dal governo a cui si aggiunge la non numerosa ma rumorosa protesta di chi rifiuta ogni regola, in nome di una libertà individuale per niente attenta agli altri e alle altre. Prevale ancora, forse per comodo, una concezione gerarchica dell’autorità: o si ubbidisce o si disubbidisce a regole che sono piegate a interessi personali in un gioco perverso che mette a repentaglio la vita.I rappresentanti delle istituzioni periferiche entrano in contrasto con i poteri centrali. Un mostrare i muscoli che favorisce il diffondersi della sfiducia, l’emergere di singoli interessi, il venir meno della gratitudine per coloro che si stanno ancora spendendo per tutte e tutti noi. Vediamo in questi giorni il presidente della Regione Lombardia, che impone regole rigidissime che poi invita a non rispettare.I media enfatizzano comportamenti negativi (assembramenti, fughe di massa dalle città, manifestazioni no-mask) che generano in parte della popolazione ansia e paura.È il racconto però di una parte di realtà. Le persone sono in genere più responsabili di quanto si racconti: c’è molta attenzione nel seguire le norme del distanziamento, della sanificazione… per proteggere e proteggersi. Inoltre non è mai smessa in questi mesi l’attività di associazioni di uomini e donne, giovani o meno che alleviano i disagi di chi non ha più lavoro o che comunque fa fatica a sostenersi. Anzi nuove iniziative si aggiungono a quelle già collaudate. Un esempio: recentemente ha preso il via a Milano un progetto già presente in altre città, il Sabato-Salvacibo, contro lo spreco alimentare; raccogliendo il non venduto dai mercati cittadini, si confezionano e distribuiscono pacchi di beni indispensabili a chi per la pandemia non ha più un reddito. Si agisce nell’immediato per venire incontro alle difficoltà di sopravvivenza, ma si mette in circolo anche un’azione virtuosa che va nell’ordine dell’economia circolare e della difesa dell’ambiente.In altri paesi le leader hanno operato in modo chiaro, perché hanno agito la loro autorità nella relazione concreta, quella che dà misura, ottenendo dalla popolazione adesione e appoggio per debellare il virus.Da noi vediamo che gran parte della classe dirigente è divisa, più attenta ai giochi di potere e alla facile popolarità guadagnata nelle piazze. La Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha dovuto ricordare che «l’attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni e Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza». Possiamo però vedere due atteggiamenti che escono dalla logica della contrapposizione: uno è cercare, con un lungo lavorio, di mediare fra interessi diversi come fa il capo del governo, l’altro è di esporsi, come fa il ministro della salute, con autorevole fermezza, dicendo le cose come stanno, e che le misure prese segnano la necessità di non sottovalutare quello che sta accadendo.E in futuro cosa si preannuncia? Si parla di vaccinazione: renderla obbligatoria o affidarsi al senso di responsabilità? C’è la libertà di non vaccinarsi, ma anche il dovere di non danneggiare chi è vicino… Ancora una volta: quale libertà?Il modello gerarchico patriarcale si basa sulla riproposizione di dettami, controlli, sanzioni che denotano una crisi di autorità e favoriscono la ribellione. Nella situazione in cui siamo, la trasgressione fine a se stessa è un fattore che impedisce la nostra stessa libertà. Le restrizioni nel movimento provocano disagi fisici e psichici, personali e sociali, ma abbiamo visto che il movimento fisico di chi ha contratto, anche in forma lieve il virus, ha provocato focolai che hanno messo in crisi il sistema sanitario. La libertà è un’esperienza che non deriva dalla trasgressione di regole imposte, ma ha un carattere relazionale e intraumano, essere gli uni per gli altri la possibilità di un nuovo inizio.
Intervento audio di Ida Dominijanni
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Domenica 13 dicembre 2020, ore 10.00 – 13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 13 dicembre 2020”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
Una nuova ondata di pandemia sta dilagando in Occidente, spesso accompagnata da una rivendicazione del diritto alla libertà personale che si esprime con raduni no mask o con la trasgressione di qualunque norma anticovid.
L’unica democrazia occidentale in cui questo non succede è la Nuova Zelanda. La presidente Jacinda Ardern ci sta dando una lezione su come gestire la crisi: ha puntato sulla fiducia e sulla responsabilità, ha fatto circolare autorità creando il “team dei cinque milioni”, cioè ha fatto sentire alla popolazione tutta di essere impegnata a contrastare la pandemia. C’entra che è una donna?
Negli ultimi decenni, senza tanto gridare e senza tanto rivendicare, le donne si sono conquistate la loro libertà. Oggi ci sono e pensano e parlano.
In Italia, mentre a marzo era emerso un “sentire comune” e un senso di riconoscenza nei confronti del personale sanitario, ora serpeggiano sfiducia, rabbia e un individualismo che contrappone categorie, fasce di età, interessi economici in nome della libertà. Che cosa è successo?
In questione, secondo noi, è la concezione stessa della libertà e la sua traduzione in pratica politica: dalla versione classica dell’individualismo liberale, al suo aggiornamento neoliberista, alla torsione operata dal sovranismo trumpiano.
In tempo di pandemia, vogliamo reinterrogarci sulla libertà, a partire dal fatto che il movimento delle donne l’ha ridefinita come “libertà relazionale”, trasformativa di un agire individuale e collettivo e capace di fare i conti con la necessità.
Introducono Ida Dominijanni, Marco Cazzaniga, Marina Santini.
Le serie televisive stanno prendendo sempre più spazio. Sono dei film che hanno durata più lunga e permettono uno svolgimento, in alcuni casi, travolgente. C’è chi in questi tempi di vacanze forzate va a letto alle 3 di mattina per avere visto tutti gli episodi concentrati in una sola visione. Registe di grande bravura, registi, attori e attrici trovano da anni, come sappiamo, modalità di impiego della loro creatività proprio nelle serie. Per non parlare dei prestiti letterari e delle sceneggiature di cui si avvalgono. Fra quelle italiane L’amica geniale è stata un serie bellissima tratta dai romanzi di Elena Ferrante.
The Marvelous Mrs Meisel ovvero La favolosa signora Meisel è la serie scritta, prodotta e diretta da Amy Stewart Palladino con la collaborazione del marito D. Palladino. La sua creatrice è nota per altre serie famose come Una mamma per amica.
Mrs Meisel è la più divertente intelligente e femminista (senza pesi ideologici) serie che abbia visto.
La quarta stagione è già prevista, ma per ora non è entrata in produzione causa Covid. In Italia sono state distribuite tre stagioni quindi 24 episodi di 57’. Il sito di streaming che la trasmette è Amazon Video Prime.
Le protagoniste sono le donne. Prima fra tutte c’è Mrs Meisel, Midge, alla nascita Miriam. Casalinga dell’upper class, laureata in letteratura russa, non ha ancora 30 anni, un marito e due figli; non lavora e segue il marito che quando smonta dall’ufficio si esibisce in un locale alternativo come cabarettista.
Lo humor è quello ebraico, il witz è quello del ridersi addosso comprendendo la famiglia le tradizioni la propria storia, fra malinconia e sarcasmo. Midge però è dotata di suo. Quando il marito fallisce in una serata e non sentendosi più all’altezza della moglie la lascia per la segretaria, lei, dopo avere visto la sua vita felice rivoltarsi a 360°, una sera alticcia sale sullo stesso palco del Gaslight e squaderna tutto il suo humor dissacrante. Ha successo, tanto che addirittura l’arrestano, ma attira l’attenzione di Susie Meyerson, una spigolosa butch sempre in abiti maschili, che paga la cauzione, la tira fuori di galera e si offre di diventare la sua manager.
Comincia così la nuova vita di Mrs Meisel e di Susie. Siamo nel 1958 e Mrs Meisel, sempre inappuntabile con tacchi, abito elegante, soprabito, guanti e cappellino, insieme alla manager Susie inizia la sua carriera di comedian, di comica.
Una storia appassionante che mi ha coinvolto fino all’80° episodio della terza stagione.
La relazione fra le due donne è straordinaria, molto divertente, piena di battute e di situazioni strane, verosimile e vincente perché arriveranno fino alla meta, anche se tutto è ancora da capire dopo la terza stagione.
Le recensioni dedicate alla serie, tutte molto positive, depotenziano la centralità del rapporto fra le due, che la loro autrice ha invece messo al centro della narrazione. Questa relazione é il luogo di spiegazione di tutto quello che avviene, non solo la premonizione della coppia butch-femmes non ancora cosciente di esserlo, prima di Stonewall.
C’è un progetto di riuscita sociale che le unisce ma anche la spinta alla creazione di un linguaggio che fa parlare per la prima volta le vite delle donne. L’aveva detto Carolyn G. Heilbrun. Le poetesse americane negli anni ’60 fanno parlare senza reticenze la vita delle donne. È l’autocoscienza, il consciousness raising che per la prima volta esce allo scoperto. Mrs Meisel e Susie le danno parola, divertendo, rovesciando l’idea che solo gli uomini fanno ridere.
Mi hanno fatto venire in mente una grande italiana autrice e interprete dell’esistenza femminile, Franca Valeri.
In La favolosa Mrs Meisel senza melodramma, senza alzare cartelli, rivendicare diritti, il femminismo prende parola attraverso quella strana coppia, nell’intesa che le tiene insieme. Il motto che sancisce il patto è “Tit up”. Ogni volta che Midge sale in scena le due compagne ripetono la frase benaugurante “Tit up”, “petto in fuori”, quindi “coraggio”.
Mrs Meisel forse nasce dalla stessa ispirazione di Lucy, interpretata da Lucille Ball, nella serie Lucy e io che uscì dal 1951 al 1957. Lei è una casalinga pasticciona e divertente che mi divertiva un mondo quando ero bambina. La trasmettevano anche in Italia sull’unica televisione che allora esistesse, la RAI a canale unico in bianco e nero. L’adoravo perché di traverso ci vedevo mia madre che guardandola in controluce era altrettanto comica, nonostante fosse una mamma italiana molto seria con molte idee geniali.
Mrs Meisel però decide che il suo teatro non sarà più solo la casa, e con questo passo laterale la sua creatrice ci offre l’occasione di pensare.
C’è una differenza che prende le distanze dalle fiction sull’emancipazione femminile, anche dirette da donne. Giornaliste in erba toccano il cielo con un dito per avere ottenuto la sedia a un tavolo di redazione, diretto dalla solita signora spietata con i tacchi a spillo, a modello dell’imperitura direttrice di Il Diavolo veste Prada.
In Mrs Meisel il sottotesto include tutte: oltre la scena fissa del racconto, c’è il desiderio di parlare di sé, di mettere in scena la soggettività femminile, c’è la ricerca di un linguaggio che spiazza, con lo humor, sottratto agli stereotipi sulle donne, ma anche alle modalità maschili di esprimersi, un linguaggio che cambia nella ricerca di comunicazione e invita tutte a parteciparvi.
Sono d’accordo con Giordana Masotto quando dice che le donne non hanno le risposte alle contraddizioni in cui si dibatte l’umanità, ma sanno mettersi in condizioni di trovarle e di contrattare per la loro realizzazione. Le donne infatti si muovono stando incollate alla realtà: la loro politica fa perno su un pensare e un agire contestuale. E ha modificato negli anni i rapporti con gli uomini, rendendoli più liberi.
Dunque le donne ci sono. E aggiungo che durante la pandemia l’autorità delle donne è circolata, si è mostrata a tutto il paese. Basta considerare quello che è successo in questa occasione: a Codogno è stata una medica che ha diagnosticato il primo paziente disobbedendo anche all’ordine dell’ospedale di non parlarne, giovani donne le tre ricercatrici che per prime in Italia hanno isolato il virus, tante le scienziate che ci hanno tenute informate. Le infermiere sono il 78% della categoria e tantissime le mediche ospedaliere.
A questo punto aggiungo una considerazione che so che farà discutere ma è proprio questo che sento urgente fare.
Se spostiamo lo sguardo in Europa – che con il virus è diventata una casa comune – vediamo che l’autorità femminile acquista ulteriore forza. Tre donne infatti ne hanno in mano le sorti: Angela Merkel, la cancelliera della Germania che quest’anno ha la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea, Ursula von der Leyen che presiede la Commissione Europea, cioè il centro effettivo del potere in Europa, infine Christine Lagarde che presiede la Banca Centrale Europea. Le due tedesche in relazione tra di loro da anni. Si dice, infatti, che von der Leyen sia la pupilla di Merkel. Queste tre donne, nel conflitto tra i paesi nordici e quelli mediterranei, hanno trovato una accettabile mediazione a partire dalla proposta francese del Recovery Fund. Esse hanno trovato prima un accordo tra di loro e poi hanno contrattato con gli uomini.
Sento già l’obiezione: queste sono donne di potere e noi non siamo per l’emancipazione femminile. Rispondo: sono sicuramente donne di potere che però non vanno dietro agli uomini, pensano con la loro testa e stanno in relazione tra di loro per contrattare con più efficacia con gli uomini.
E poi c’è la minuta ragazza svedese, Greta Thunberg, che ha creato un grande movimento giovanile per salvare, in extremis, il pianeta, indicando anche una pratica scandita nel tempo e quindi più efficace della solita manifestazione.
Infine io sono rimasta incantata dall’immagine di Nancy Pelosi, speaker del Congresso americano, che alle spalle di Trump strappa pagina per pagina il di lui discorso.
Questi esempi sono solo alcuni fra i molti che si potrebbero fare di mediazioni femminili e di gesti coraggiosi di donne. Li ho raccontati per mettere in luce il potenziamento e le indicazioni che possiamo ricavarne per essere libere e autonome. Soprattutto le più giovani che hanno bisogno di “modelli”. Come ne ho avuto bisogno io e tante altre, come quelle che hanno scritto il cosiddetto Catalogo Giallo, intitolato «Le madri di tutte noi».
Si impone un passaggio in più rispetto al taglio simbolico che cinquant’anni fa, con la scelta di riunioni di sole donne, ha dato vita alla soggettività femminile autonoma. Oggi la presa di parola è guadagnata. Penso all’imponenza del movimento delle donne nelle sue varie espressioni, alle migliaia e migliaia di testi scritti da donne: romanzi e poesia, saggi in tutti i campi del sapere umano, compresa la politica, l’economia e la scienza.
Si tratta ora di mettere in gioco l’autorità conquistata, e di lasciarci alle spalle il femminismo rivendicativo. Di guardare oltre e di allargare i confini del femminismo. Ci sono uomini che cominciano a sentire e a riconoscere che c’è autorità femminile, uomini che smettono perciò di appellarsi al neutro universale e che fanno parlare la differenza maschile.
Sono pochi? Più di quello che crediamo.
In questo periodo in Italia e nel resto d’Europa sono allo studio provvedimenti considerati decisivi per la ripresa economica. Ancora non si sa quali misure verranno adottate. Mi ha colpito leggere che in Germania si stia discutendo di ridurre l’orario di lavoro nella grande industria. É una misura che in passato per la sinistra si è caricata di intensi significati, quasi una rivoluzione per la liberazione dal tempo alienato. Io invece mi sono convinta che questo rimedio di per sé non sia trasformativo in meglio. Anzi può anche volgersi al peggio, ridursi a uomini che passano più tempo al bar dediti al bere e alle risse, e a donne più rinchiuse in casa a pulire e seguire la famiglia.
Ritengo che potrà portare a nuove invenzioni, a un vivere comune rinnovato, tutto da immaginare, solo se va di pari passo con lo smascheramento di quello che Ina Praetorius chiama l’ordine bipartito del mondo: “due sfere diseguali, una più alta, alla quale si associano virilità e libertà, e un’altra più bassa, che si presume naturale, quella delle donne e della dipendenza” (il corsivo è mio, Via Dogana n. 89).
Questo ragionamento sull’ambivalenza dei provvedimenti allo studio vale anche per quelle misure che in questo momento sono più dense di aspettative, come il reddito di base europeo. Insomma io credo che non sarà una politica di obiettivi a produrre il necessario cambiamento di paradigma economico. In ballo c’è una profonda trasformazione culturale che tocchi le strutture profonde della società e di conseguenza porti a una ricontrattazione del rapporto tra i sessi sia nella vita privata che in quella pubblica.
Superare quell’ordine simbolico e sociale bipartito, è già vivere un cambio di civiltà basato su un’altra concezione dell’essere umano. Per questo, alla riunione allargata di Via Dogana 3 del 4 ottobre 2020, abbiamo voluto invitare alcuni amici di Maschile Plurale e riprendere uno scambio su questioni di fondo.
Certamente l’ordine sociale e l’ordine simbolico non coincidono, ma si influenzano e in un tempo in cui la strutturazione della società va in pezzi, la grande occasione per me è questa: una presa di coscienza che cambi l’orientamento simbolico di fondo per uomini e donne e, attraverso questo modificato stare al mondo, imprima una direzione al cambiamento della società.
Oramai parecchi anni fa Luisa Muraro, nell’Ordine simbolico della madre, invitava a pensarsi come “vita ricevuta”. All’inizio di ciascuna e ciascuno di noi c’è “la relazione con la matrice della vita” e non un “io” autosufficiente. Nella sua analisi Muraro introduce l’elemento decisivo della gratitudine, che si sostituisce all’odio e all’avversione per la propria origine. Dalla madre abbiamo ricevuto la vita, la parola e tanto altro. Tutto questo non finisce con l’età infantile. Praetorius, riprendendo l’idea dell’ordine simbolico e della gratitudine come postura dell’essere umano, fa vedere come continuiamo a ricevere per tutta la vita perché siamo sempre all’interno di una matrice, la matrice mondo, Non possiamo vivere neppure pochi minuti senza aria e proprio il Covid ci ricorda drammaticamente quanto il respiro ci è indispensabile.
Io so di persona come la gratitudine può orientare la nostra vita e essere molla di trasformazione. Mi ha salvato in quell’evento tragico che mi ha ridotto invalida. Solo la gratitudine per l’aiuto e il sostegno di chi mi circondava e anche di amiche e amici lontani, mi ha permesso – come racconto in Tam tam – di attraversare il periodo più difficile, i primi anni da paraplegica, senza cedere alla disperazione. Di recente, alla fine del lockdown, tutte noi della libreria delle donne di Milano abbiamo dato volentieri dei soldi per sostenerla in una riapertura difficile, perché grate per quanto la libreria ha dato alla politica e alla elaborazione teorica femminista.
So quindi che questo dispositivo simbolico funziona nella propria forma di vita, circola nel sistema relazionale a cui si partecipa, nella società femminile, nei suoi luoghi. Ma può sprigionare il suo potere trasformativo nel mondo comune di uomini e donne? Io penso di sì, e credo che la sfida attuale sia quella di fare della gratitudine un principio di REGOLAZIONE SOCIALE Si tratta, cioè, di immettere il senso della gratitudine nel sistema sociale perché lavori come un lievito per la trasformazione, per quella “rivoluzione individuale e collettiva” di cui ha parlato Marco Deriu nella sua introduzione all’incontro di Via Dogana 3.
Nel lockdown idee radicali lette nei libri sono diventate esperienza soggettiva: possiamo fare a meno di manager, pubblicitari, banchieri, ma non di madri di famiglia, infermiere, spazzini, commesse dei supermercati, agricoltori… Queste esperienze così condivise hanno cambiato momentaneamente le categorie di attribuzione del valore.
Affinché questo processo rimanga aperto, vada avanti e non si torni come prima ci vuole lavoro teorico e simbolico e immaginazione politica: che cosa succede se si immette nel ragionamento economico il senso della gratitudine sociale?
Adriana Maestro nella sua introduzione ha fornito elementi approfonditi di conoscenza sulla questione del valore del lavoro. Come il senso della gratitudine sociale scompiglia le categorie e le gerarchie del valore del lavoro?
Farò solo un esempio un po’ provocatorio. In questi giorni si sta discutendo molto se fermare o no il campionato di calcio, dopo che quasi tutti i giocatori del Genoa sono risultati positivi al Covid. Ho seguito un dibattito alla radio e chi sosteneva che il campionato doveva andare avanti comunque, diceva di preoccuparsi non tanto dei calciatori quanto di tutti quei lavoratori invisibili che rendono possibili questi eventi sportivi e che ne uscirebbero rovinati. Con queste semplici parole si delinea tra salute ed economia l’alternativa ricattatoria che in questo tempo di pandemia si pone in ogni dove e in ogni momento.
Posto che le cose stiano davvero così, se immettiamo nel ragionamento la gratitudine sociale nei confronti di questi lavoratori si possono immaginare proposte temporanee o stabili che mettano in discussione i criteri di valore abnormi che vigono nel mondo del calcio. Se tutti quelli che vi sono coinvolti riescono a percepire attraverso la gratitudine quanto sia ingiusto l’enorme divario tra il compenso di un calciatore e quello di un lavoratore del settore, allora diventa più facile arrivare a qualche proposta che permetta a tutti di attraversare questo periodo difficile, pur con una parziale o totale sospensione del campionato.
La prima che mi viene in mente: dimezzare il compenso dei calciatori per assicurare una vita dignitosa a tutte quelle famiglie.
Era quasi un anno che anche a causa del confinamento non mi recavo in Libreria. La redazione allargata è stata l’occasione che ci voleva. Così, dentro la premessa esplicitata, che la sofferenza individuale e collettiva provocata dal “block” down potesse aver aperto interessanti spiragli. Ecco qualche considerazione dal mio solito osservatorio, sempre un po’ personale e un po’ clinico.
Equilibri precari, sotto l’effetto amplificante della pandemia, sono crollati. In questi casi, la paura delle donne si è trasformata a volte in coraggio, generando un’aumentata determinazione a cavarsela ed affrontare la separazione da anni temuta, negata e al contempo desiderata. Per altre, stato confusionale diffuso e quadri depressivi osservabili non solo nel setting clinico, piuttosto in una scena generale di auto-isolamento, potremmo dire collettiva. Io stessa, come altre colleghe, a volte ne ho potuto soffrire, dovendo cambiare drasticamente le mie abitudini, l’autonomia di cui ho sempre goduto, l’abbondanza di relazioni in presenza. Infatti, per parecchi mesi, l’attività professionale, quando possibile, mantenuta solo in video.
Per gli uomini in trattamento o in prima richiesta, più spesso ho osservato il loro crollo sotto il surplus di sofferenza e ansia di controllo aumentata, si ipotizza, dalla pandemia: alcuni si sono trovati a perdere l’orientamento che li guidava; sofferenze magari da lungo tempo rimaste nascoste a loro stessi, fino a sperimentare lo smottamento. Depressione o crisi di rabbia per questi uomini di varia estrazione con ansia lavorativa oltre ogni limite, a quel punto crollati su conflitti quotidiani scaduti in maltrattamento verso i bambini, la consorte, verso se stessi. È il persecutore interiore che in questi casi, cambiate le condizioni esterne, si è fatto più che mai virulento, finanche contro il soggetto stesso. L’aspetto positivo in tutto ciò? Può essere che finalmente, copioni familiari che reggevano a malapena hanno lasciato il posto a una sofferenza ancor più profonda, autentica che seppur disorientante, da convincerli a chiedere aiuto per andare più a fondo e seppure con resistenze residue, decidere di chiedere aiuto per evolvere.
Nelle famiglie, i limiti imposti dalla pandemia, la necessità di collaborare come mai prima, stare più vicini, compresenti e sofferenti, hanno favorito in alcune coppie la necessità di cambiare per non morire: p.e. il professionista che non tollera più di recitare il solito copione di antipatico incomodo – così la sua impressione – nella coppia di ferro costituita dalla propria moglie con la madre di lei. Il dolore amplificato dal confinamento, si fa intollerabile e allora decide: vuole liberarsi dalla schiavitù che lui stesso si infligge da anni, vuole indagare dentro di sé e scoprire il suo tesoro nascosto. Vuole prepararsi a cambiare vita, ad accettare di non aver voluto figli, a non aver paura di separarsi dalla consorte che nonostante tutto, seppur dolorosamente, gli dà tanta sicurezza.
Oppure, una signora che in prima istanza chiede di affrontare la difficoltà di relazione con un figlio adolescente, prepotente e indomabile, lei dice, ma nel corso di quell’unica seduta ammette che il problema è con il marito e che non avendo la forza di affrontarlo, proietta sul figlio il senso di impotenza e di rabbia che da anni prova verso il marito. Forse chiederà al consorte di fare terapia di coppia? Chissà.
Più che mai, in questo tempo di confinamento e “look” down, spicca che uomini e donne avremmo bisogno di luoghi e contesti in cui confrontarci in sicurezza. Troppo spesso non ci conosciamo, piuttosto abbiamo pregiudizi che facilitano processi di proiezione e identificazione inconsapevoli. Poter frequentare insieme luoghi di confronto in un clima autentico e protetto, potrebbe essere idealmente molto evolutivo. I gruppi che io conosco sono di psicoterapia, esempio molto interessante di come esperienze condivise in una logica evolutiva possano generare cambiamento all’interno di una circolarità che protegge e al contempo fa evolvere.
Di gruppi di Psicoterapia ed evoluzione personale di adulti ne conduco continuativamente da più di 30 anni. La pratica gruppale in ambito clinico non è molto frequente. Eppure è un contesto straordinario in cui uomini e donne di diversa estrazione culturale, di religione e di status, si possono trovare a lavorare su loro stessi – in presenza, diremmo noi della Libreria – ma è altro ancora. Ovvio! Quindi, cosa succede in un gruppo di questo tipo: dinamiche di rispecchiamento, identificazione, confrontazione, immedesimazione, autoriflessione ecc. ecc. Tutto tra storie di vita seppure diverse con strutture e meccanismi difensivi simili: siamo tutti umani, in ognuno dei partecipanti con impegno al cambiamento evolutivo, può passare il riflesso di qualcosa che appartiene all’altro, ma lì insieme nel cerchio, quel raggio appartiene a tutti. L’ascolto empatico, le risonanze emozionali condivise, la comparazione tra storie tanto diverse eppure simili, fa evolvere oltre l’identità maschile o femminile. Ciascuno in cerca di poter conoscere più a fondo se stesso o se stessa, la propria storia personale, gli intrecci transgenerazionali e i conseguenti meccanismi difensivi. Quelli che irrigiditi nel tempo hanno svolto funzione difensiva. Certo, ma limitante e assai costosa, ma pur sempre difensiva rispetto ai demoni e ai traumi subiti, troppo spesso non consapevolizzati.
Ipotizzo che l’autocoscienza, premessa esperienziale storica insostituibile e indispensabile per la nostra storia di donne femministe, debba ispirarci e aprirsi in cerca di qualcosa di simile e al contempo differente da poter praticare insieme agli uomini: siamo in cerca di qualcosa di nuovo che sbaragli le antiche difficoltà e ci arricchisca reciprocamente. In attesa che ciò si crei, il dato rassicurante è che molti uomini entrano in percorsi di psicoterapia con psicoterapeute donne… Alcune sono femministe.
Cosa è successo, a causa del blocco sanitario, che ci tocca di più come donne nel mondo del lavoro? Faccio riferimento ad alcuni aspetti emersi negli incontri politici che facciamo tra donne manager (donnensenzaguscio) e tra manager e sindacaliste.
Ciò che abbiamo visto nelle istituzioni si è ora affermato nelle aziende in modo più accentuato.
Nelle anomalie create da questa crisi, il potere maschile vede un’occasione per “rimettere le donne al loro posto”: in un mercato che si restringe pensano che sia più facile escludere le donne. E si diffonde una “mascolinità tossica”.
Cosi durante il blocco hanno preso corpo due tendenze di nuova misoginia, apparentemente lontane ma facce della stessa medaglia.
Una è togliere ancora di più le donne dai ruoli decisionali alti: nessuna donna nelle task force, senza nemmeno salvare la faccia, è un chiaro esempio. “Non ci sono donne nelle task force perché non ci sono donne nei vertici” ha detto il responsabile di un comitato per la gestione del virus.
Soprattutto, si vuole togliere da quei ruoli certe donne, quelle con una testa diversa, le “ingovernabili”, non assimilate alla cultura maschile (cambia poco la presenza di donne in quei posti se adottano il modello degli uomini). Forse la misoginia è scoppiata proprio perché numerose donne sono entrate nei luoghi decisionali alti con una visione differente, e hanno attuato politiche in discontinuità da quelle consolidate.
Durante il blocco sanitario le manager sono state a casa più dei manager uomini perché – come tutte – sentono di più la responsabilità verso i figli. Certo, si collegavano online per le riunioni, ma dopo calava il sipario. Una situazione angosciosa, perché le decisioni che contano non avvengono nelle riunioni ufficiali, ma negli incontri informali. E lì le manager non c’erano. Dunque hanno faticato a intercettare le dinamiche in corso e a tenere le proprie relazioni: sono mancati gli scambi con altri partecipanti alle riunioni, poter parlare con il capo, esserci nelle situazioni quotidiane non formalizzate. Non potendo capire cosa realmente stesse succedendo, non potevano gestire le conflittualità che le riguardavano. Gli uomini di vertice, invece, sono sempre stati là. E gli altri manager sono stati i primi a rientrare. In generale, sono rientrati più uomini che donne, vincolate dai figli nell’incerta ripartenza delle scuole. I manager hanno approfittato di questa assenza per fare manovre a favore dei loro interessi.
Donne manager di alto livello (non solo in Italia) hanno spesso subìto forti attacchi di potere per indebolire la loro posizione: sottrarre competenze o ignorarle, ridimensionare il ruolo, svalutare il loro modo di essere nel management, ridurre la loro autorità a “un grillo parlante”. Stare a casa svaluta il ruolo, esclude dalla cerchia di potere: bisogna considerare bene cosa va fatto in azienda e cosa stando a casa. Queste manager si trovano strette tra cambiare la cultura del presenzialismo e la pericolosa lontananza dal centro di potere.
L’altra tendenza misogina è il lavoro da casa, come lo abbiamo visto durante il blocco. Ribattezzato in modo manipolatorio smart working, è in realtà lavoro a domicilio, fuori dalla socialità del lavoro – a cui le donne tengono moltissimo – e finalizzato a scaricare totalmente sulle donne la gestione famigliare. Infatti la forzata chiusura in casa, pur con donne e uomini insieme nello stesso spazio e stesso tempo, ha fatto esplodere l’enorme peso delle incombenze domestiche che ha gravato quasi solo sulle donne: non si è verificata la sperata equa distribuzione dei compiti domestici, che ora sarà più difficile. Questa modalità, imposta nell’emergenza sanitaria, è prospettata adesso come futuro del lavoro per le donne: “risolve la conciliazione”, ha detto tutto contento un altro addetto ai lavori contro il covid. Insomma, riportare le donne a casa. Niente a che fare con il lavoro flessibile, che da anni richiedono le donne di ogni livello lavorativo, portando un concetto che ha cambiato i cardini organizzativi consolidati: separare il tempo dall’orario. Rispondere a tutte le necessità della vita senza sradicare dalla comunità di lavoro.
Oggi ci troviamo a gestire una situazione più complessa e più difficile, a volte rischiosa e pesante per le manager. Però vediamo anche che si sono aperte opportunità da cogliere.
Per esempio, la costrizione a lavorare tutti da remoto ha fatto crollare imprevedibilmente la cultura del presenzialismo nella gestione aziendale: “abbiamo davanti una prateria, e dobbiamo vedere come riempirla”. Consapevoli che il lavoro del futuro sarà sempre meno fondato sulla presenza fisica continuativa in azienda, abbiamo messo in campo la proposta di un’organizzazione che tenga conto dell’interezza della vita, ma per tutti, donne e uomini: lavorare a progetto con responsabilità degli obiettivi, e flessibilità di tempo/luogo di lavoro, parte in azienda e parte da casa. Un’agevolazione per tutti, non un welfare per le donne. Su cui possiamo cercare alleanze anche con gli uomini, per quanto siano ora più difficili. Non è un modello definito né l’unico possibile, sono criteri di fondo su cui ragionare.
Il contesto è frammentato e in veloce evoluzione, dovremo capire via via le nostre prospettive, e in che direzione è utile muoversi. E questo dobbiamo farlo insieme. Discutere tra noi di queste nuove difficoltà per le donne, scambiarci visioni e consigli su come reggere le situazioni: è così che si fa emergere cosa fare. Mai come in questo momento le manager stanno allargando le alleanze tra di loro. E’ un fatto di grande valore, perché sentiamo che la forza viene da lì.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020
Immaginate che un virus sconosciuto salti fuori da qualche parte, incominci a infettare gli esseri umani e che dia origine in breve tempo a una pandemia globale che trasforma la realtà e la vita non soltanto della vostra famiglia e della vostra città, ma di tutto il paese e di tutto il mondo. Che succede a quel punto? Come reagisce la gente? Come si muovono le autorità? Che fine fa la vostra comunità o lo stesso consorzio umano? E soprattutto: voi di cosa vi dovete preoccupare?
L’industria culturale occidentale (anglosassone ed europea) contemporanea, in particolare quella del cinema, delle serie televisive e ancora più quella dei videogiochi – divenuta la più potente fabbrica di immaginari nelle società contemporanee – ha dedicato uno spazio (e un budget) enorme a esplorare tali questioni. La lista di film e serie tv dedicate ai virus e alla pandemia negli ultimi vent’anni si aggira attorno ad una cinquantina di titoli. Solo per ricordare le più famose: 28 Days Later, I Am Legend, [Rec], Carriers, Contagion, The Bay, World War Z, Extinction, Contagious, It Comes at Night, Hostile, Survivors, The Walking Dead, Z Nation, The Strain, The Last Ship, Cordon, Containment, Between, The Rain, Black Summer ecc. Mentre nell’industria dei video game si è sviluppata un’intera categoria di giochi cosiddetti “horror survivors” – Epidemic, Resident Evil, Plague Inc, Dying Light, The Last of Us, World War Z, Days Gone, Pandemic, Follia Dear Father ecc. – che hanno segnato profondamente l’immaginario contemporaneo delle ultime generazioni.
1. Il virus dell’immaginario e la lotta per la sopravvivenza
Nonostante la numerosità dei prodotti e delle proposte il plot di fondo è piuttosto standard e le possibilità e le variazioni piuttosto ristrette. Che gli agenti infettanti arrivino da animali, da scienziati pazzi, da terroristi o ecoterroristi, dal cielo o magari da qualche figura di “straniero” o “immigrato”, il risultato non cambia molto. Le autorità politiche mostreranno la loro incapacità di prendersi cura delle persone e di gestire la situazione, il tasso di fiducia verso le istituzioni – già pericolosamente basso – si squaglierà rapidamente come neve al sole, lasciando come unica figura rilevante (nel bene o nel male) nello spazio pubblico quella dell’esercito, delle forze dell’ordine se non delle forze speciali ufficiali o autocostituite in nome della sicurezza e della protezione. Assieme con le istituzioni pubbliche, tutte le conquiste di civiltà, le norme, i valori e le pratiche sociali convenzionali saranno brutalmente spazzate via. La città, il territorio, il paese (il mondo intero?), diventeranno terreno di caccia (e ovviamente anche di fuga in cerca di salvezza). Gli spazi collettivi e anche quelli domestici privati saranno invasi da uomini infetti, rabbiosi o furiosi, regrediti dal virus a cannibali, mutanti, zombie morti viventi, vampiri succhiasangue o bestie mostruose. La salvezza, ma dovremmo meglio dire la sopravvivenza, diventa un affare privato. Lo spazio pubblico della comunità è paurosamente ridotto o è del tutto scomparso. È la tua sopravvivenza, o quella della tua famiglia o del tuo gruppo. E per la tua o la vostra sopravvivenza dovete rapidamente imparare a cavarvela, a procurarvi il cibo, ad armarvi e barricarvi se potete o al peggio a proteggervi dalla violenza altrui, a fuggire e a nascondervi. I vostri valori sociali, la vostra etica, la vostra visione del mondo dovranno comunque subire un radicale rivolgimento. Restano dunque eroi o salvatori, ma anche questi ultimi saranno obbligati a scelte drastiche e ad accettare i propri istinti e a “giustificare” la propria parte oscura e violenta.
Insomma, il sottointeso è che basta un piccolo virus per innescare una catastrofe e grattar via la patina di civiltà, riportando indietro l’umanità al suo “stato di natura”, ovvero all’idea della “lotta per la sopravvivenza” del darwinismo sociale, che nella tradizione filosofico-politica di Hobbes assume l’immagine della bellum omnium contra omnes, “la guerra di tutti contro tutti”.
Il “nucleo ideologico” di questa rappresentazione contemporanea è riconducibile al fondo dell’idea esplicitata da un recente “disaster horror” movie (Aftershock di Nicolás López) secondo cui: «l’unica cosa più terrificante di madre natura è la natura umana». Una sentenza metafisica che sintetizza contemporaneamente un pregiudizio ecologico e antropologico. Non si tratta dunque di prendersi cura dei malati o di impegnarsi collettivamente a prevenire la pandemia, ma di sopravvivere al virus e al contagio combattendo contro altri umani, contro gli infetti, i mutanti, i mostri, insomma contro tutte le possibili proiezioni dell’alterità.
Certo, penserete, il cinema, l’arte, il gioco esteriorizzano amplificano e danno forma alle nostre angosce, cercando in qualche modo di esorcizzare le nostre paure. Ma questo immaginario non è così universale come potremmo pensare. È un prodotto della nostra cultura e della nostra (iper)modernità capitalistica. Basta andare indietro di pochi decenni per riconoscere che le paure, gli incubi ma anche le attese e l’immaginazione collettiva erano differenti e seguivano altre strutture narrative. Basta guardare ad altre culture e riconoscere che la “visione” imbocca altre strade e la narrazione sviluppa altri intrecci, perfino di fronte alle stesse minacce (si veda per esempio 93 days di Steve Gukas, che racconta altrimenti la drammatica esperienza dell’epidemia di Ebola in Nigeria).
Che quello che abbiamo tratteggiato si configuri come un “nucleo ideologico” profondo e specifico è riconoscibile dal fatto che la maggior parte delle culture non occidentali non solo non condividono affatto con noi l’idea di una natura terrificante e di un’umanità bestiale, ma non comprendono nemmeno la separazione netta tra umani e natura che la nostra cultura dà invece per scontato. Il paradosso è che quella immagine della natura, degli animali, dell’umanità che noi propagandiamo e proiettiamo anche sugli altri popoli (si pensi alle rappresentazioni tutt’ora diffuse in una parte della letteratura “scientifica” – anche se sempre più contestate – degli indigeni come “popoli feroci”) è radicalmente più selvaggia e violenta di quella proposta dai popoli indigeni.
Si prenda per esempio quella straordinaria lezione che il leader e sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha regalato attraverso il libro scritto insieme all’antropologo Bruce Albert La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami (nottetempo, Milano, 2018): «Quando parlano della foresta, i Bianchi utilizzano spesso un’altra parola: ‘‘ambiente naturale’’. Neanche questa è una delle nostre parole e fino a poco tempo fa ancora la ignoravamo. Per noi, quello che i Bianchi chiamano in questo modo è ciò che resta di tutto quello che finora hanno distrutto. Non mi piace la parola ‘‘ambiente’’. La terra non dev’essere separata dall’ambiente. Noi siamo abitanti della foresta e se essa viene divisa in questo modo, sappiamo che moriremo con essa». Per i popoli indigeni la foresta è viva, la terra, le piante, gli animali, tutto quello che si muove attorno a noi è vivo. Ha cioè una sua soggettività, una sua agency e soprattutto è intrecciata in una complessa e “invisibile” trama di relazioni con noi.
L’immaginario che oggi ci ingombra nel leggere la realtà che stiamo vivendo e le emergenze ecologiche, sanitarie, economiche e politiche è dunque un immaginario occidentale, bianco, capitalistico, (iper)moderno, ed in gran parte maschile, nel doppio senso di prodotto di una cultura patriarcale ma anche di ritagliato sull’immagine di una “specifica maschilità”, aggressiva e violenta. Da questo punto di vista è interessante rivedere il tentativo più originale e profondo di Light of My Life, il recente film di Casey Affleck. Una storia tutta giocata sul rapporto intimo tra padre e figlia costretti a un continuo vagabondaggio dopo che un virus ha sterminato la popolazione femminile. La minaccia, ma anche l’eroe e i diversi ruoli attribuiti ai protagonisti rimangono ancora in gran parte imprigionati dentro un immaginario maschile, ma c’è anche uno spostamento significativo: il tema della differenza sessuale e quello del conflitto tra i sessi vengono riconosciuti; c’è il tentativo riflessivo di rimettere in discussione una maschilità monolitica, di mostrare soggettività e modi d’essere umani e maschili diversi. E soprattutto si percepisce – quantomeno come potenzialità da nutrire – il desiderio di una diversa relazione tra generi e generazioni.
Quello su cui insisto dunque è che c’è oggi un conflitto anche sul terreno dell’immaginario, della dimensione simbolica che va affrontata con forza, se vogliamo superare quell’atmosfera di “realismo capitalista” come l’ha definita Mark Fisher, che costituisce assieme una cappa e una barriera invisibile «che limita tanto il pensiero quanto l’azione» (Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018). L’antropocentrismo, l’individualismo, l’ossessione per la lotta e la competizione, il senso continuo di sospetto e minaccia fino alla paranoia non sono un dato di fatto ma una metafisica, un’ideologia e anche un’attitudine culturale e psicologica che pretendiamo di naturalizzare e normalizzare scambiandola per la realtà. Ma gli esseri umani e più in generale il vivente nonostante i riduzionismi pseudoscientifici non è riducibile semplicemente alla competizione; e l’interesse personale ed egoistico non è quella chiave o motivazione universale che gli vogliamo attribuire ma un prodotto della modernità capitalistica. Nella trama della vita si alternano e si intrecciano simbiosi e mutualismo, cooperazione e competizione, predazione, parassitismo e commensalismo. Ma il nostro sguardo ideologico, mentre pretende di essere “realistico” o “disincantato” ci impedisce in realtà di leggere e orientarci veramente nella complessità del reale e della nostra stessa esperienza.
La proposta dunque di riflettere sulla “grande occasione” che la situazione di emergenza innescata dalla pandemia e il necessario tentativo di ripartenza oggi rappresentano non costituisce ai miei occhi una provocazione, ma piuttosto un invito a guardare le cose con occhi diversi, non dando per scontato il senso comune, mettendo da una parte i pensieri automatici, e provando a vedere le possibilità e le potenzialità che la straordinarietà della situazione ha dischiuso.
2. L’indicibile solidarietà
Proviamo dunque a rileggere quello che abbiamo vissuto. Non c’è dubbio che durante la pandemia abbiamo visto e stiamo vedendo i comportamenti più vari. Abbiamo visto persone nascondersi, e sottrarsi ai loro doveri e responsabilità, persone capaci di approfittarsi, di lucrare sulla situazione di necessità, o addirittura di truffare cittadini e istituzioni. Abbiamo visto politici, capi di governo e di stato negare la gravità della situazione, dileggiare la scienza, preoccuparsi più del Pil che della gente e in qualche caso atteggiarsi a virili superuomini anche dopo aver contratto il virus. Abbiamo visto anche manifestazioni di negazionisti scesi per strada per protestare contro le norme sanitarie o le mascherine.
Abbiamo anche visto – soprattutto nel periodo del lockdown e del confinamento domestico – un aumento delle violenze maschili contro le donne nelle case e nelle relazioni intime. La Rete D.i.Re. – Donne in rete contro la violenza ha evidenziato nel periodo marzo-aprile un aumento del 74,5% di richieste di supporto ai centri antiviolenza, mentre l’Istat ha segnalato un incremento della richiesta d’aiuto al numero antiviolenza 1522 del 73%. Fatto questo che dovrebbe spingerci a interrogare le relazioni tra i sessi e le forme di potere e di ambivalenza che attraversano le strutture famigliari.
Ma certamente non abbiamo registrato quella degenerazione sociale, politica e umana che l’industria culturale occidentale ha profetizzato e propagandato. Non c’è stato il collasso delle istituzioni, il diffondersi dell’anarchia, l’esplosione della violenza o delle forme di sciacallaggio e di comportamenti predatori. Così per esempio l’informazione fornita dal Ministero dell’interno, che nell’ultimo anno c’è stata una forte diminuzione della criminalità nel nostro paese, con un forte decremento degli omicidi (-16,8% di omicidi), delle rapine (-21,1%), dei furti (-26,6%), e delle truffe (-11,3%) che avrebbe meritato una certa considerazione e una maggiore riflessione è stata del tutto oscurata dal prevalere delle notizie di cronaca nera.
E per quanto giornali e telegiornali mettessero in primo piano le violazioni o i comportamenti irresponsabili, alternandole simmetricamente alla narrazione dell’eroismo “straordinario” del personale medico sanitario, c’è stata poi la maggioranza della popolazione che ha assunto per lunghi mesi dei comportamenti socialmente responsabili, tutelando se stessi, i propri cari e gli sconosciuti. Persone, famiglie, cooperative, associazioni, imprese, negozi, ristoranti, scuole, università che pur con la confusione hanno tentato di organizzarsi, di rispettare le norme, di portare il proprio contributo. Tantissimi lavoratori e professionisti – e non solo in ambito medico – ci hanno messo del proprio, si sono messi in gioco, hanno assunto dei rischi, hanno fatto di più di quello che contratti o stipendi gli richiedevano.
Ma c’è anche dell’altro. Se non ci facciamo prendere dal timore di essere presi per ingenui o buonisti o superficiali ottimisti, possiamo nominare e dar conto con forza di un grande movimento di solidarietà che si è sviluppato in questi mesi. In tante città e territori in Italia come nel resto del mondo abbiamo visto donne, uomini, associazioni, gruppi di cittadini/e che si sono attivati per fornire cibo e supporto ai medici e al personale ospedaliero; per far la spesa per anziani e malati e per distribuire cibo, mascherine, e medicinali; per trasportare e accompagnare persone per visite, esami, ricoveri; per mettere in piedi raccolte di fondi e sostegni economici; per distribuire computer, tablet e dispositivi digitali; per condividere e scambiare materiale scolastico (libri, testi, appunti, compiti) e aiutarsi nell’impegno scolastico educativo dei bambini; per mettere a disposizione e compartecipare produzioni artistiche, musicali, letterarie, cinematografiche al di fuori delle regole normali di mercato; per offrire sostegno diretto o telefonico contro la solitudine; per aiutare e supportare le donne vittime di violenza; per supportare immigrati, rifugiati, senza tetto; per offrire forme di supporto psicologico volontario a coloro che hanno subito un lutto o per organizzare una restituzione dignitosa degli oggetti personali dei defunti; o persino carabinieri e agenti che hanno portato la pensione a casa dagli anziani. In molti contesti locali le forme di generosità e di solidarietà autorganizzata, le iniziative informali, spontanee e dal basso, hanno avuto un peso e un ruolo cruciale per affrontare l’impatto della pandemia e del blocco economico. Certamente da questo punto di vista l’Italia ha dato mostra di una società civile particolarmente attiva e creativa, ma iniziative di cura, di supporto, di cooperazione e solidarietà dal basso sono fiorite in po’ dappertutto. Marina Sitrin e il gruppo internazionale “Colectiva Sembrar” ne hanno dato ampia testimonianza nel volume Pandemic Solidarity (Pluto Press, London, 2020) intervistando e dando voce ad esperienze in diversi paesi dal Medio Oriente al sud ed est Asia, all’Africa del Sud, all’Europa, al Nord America e al Sud America. Esperienze nate nello spirito del muto appoggio e della solidarietà dal basso, spesso sfidando la diffidenza e talvolta l’aperta ostilità delle autorità. Come ha scritto Marina Sitrin queste storie e queste esperienze «manifestano il tipo di società che potremmo avere e, di fatto, già abbiamo. […] Questa pandemia sta creando piccole e grandi fessure, cosa fare con queste aperture dipende da noi» (Sitrin & Collectiva Sembrar, 2020, p. xxiv)
Non si tratta dunque di rimuovere la complessità, l’instabilità e anche la contraddittorietà della situazione attuale con l’inevitabile compresenza di elementi problematici e negativi accanto a quelli positivi e incoraggianti. Ma la questione non è fare della contabilità tra i pro e i contro e nemmeno scommettere in maniera distaccata su cosa prevarrà alla fine. Il punto politico è un altro: se il nostro cinismo e il nostro immaginario tardocapitalistico non ci permette di vedere, nominare e dare dignità all’enorme sforzo di comportamento cooperativo che si è registrato in questo periodo, allora come possiamo nutrire e far spazio all’idea di una trasformazione politica e di una transizione verso una società differente?
3. Se la calamità dischiude il desiderio di cambiamento
Diversi decenni di studi approfonditi sulle reazioni delle comunità locali a calamità ed eventi catastrofici di vario genere testimoniano che nelle situazioni di disastri le persone reagiscono in maniera molto più costruttiva e altruista di quanto il nostro immaginario sociale sia disposto ad ammettere. Come scriveva negli anni ’60 il sociologo Charles Fritz nel volume Disasters and Mental Health: Therapeutic Principles Drawn from Disaster Studies, recentemente ripubblicato (Disaster Research Center, CoomBooks, 2020), «Le notizie di saccheggi in caso di catastrofi sono grossolanamente esagerate; i tassi di furto e furto con scasso effettivamente diminuiscono durante i disastri; e molto di più viene dato via che rubato. Altre forme di comportamento antisociale, come l’aggressività verso gli altri e i capri espiatori, sono rare o inesistenti. Invece, la maggior parte dei disastri produce un grande aumento della solidarietà sociale tra la popolazione colpita, e questa nuova solidarietà tende a ridurre l’incidenza della maggior parte delle forme di patologia personale e sociale». Riprendendo quel filone di studi, più recentemente anche Rebecca Solnit (Un paradiso all’inferno, Fandango, Roma, 2009) ha sottolineato il sorprendente divario tra le convinzioni correnti in caso di disastro e le realtà degli effettivi comportamenti della gente e ha insisto sulla necessità di riconoscere le pratiche sociali emergenti in situazioni di difficoltà: «La parola emergenza viene da emergere, ossia salire alla superfice, il contrario di mergere, ossia immergere, affondare in un liquido. Un’emergenza è una separazione da ciò che è familiare, un’improvvisa emersione in una nuova atmosfera, in cui spesso ci viene chiesto di essere all’altezza della situazione».
La pandemia di Covid-19, pur presentando sue specifiche caratteristiche, manifesta anche diversi elementi in comune con le esperienze di altre calamità e disastri nelle quali le comunità e le persone non hanno semplicemente assunto il ruolo di vittime passive, ma hanno reagito e messo in campo risorse, esperienze e piccoli cantieri di pratiche sociali e politiche.
La calamità prodotta dalla pandemia ha creato certamente una situazione altamente drammatica, dolorosa e luttuosa, ma in termini sociali, economici e politici, ha aperto anche degli spazi nuovi e differenti da quelli concessi nella nostra normalità. Ha messo in crisi e stravolto i modelli di comportamento abituali delle persone, ma anche delle istituzioni e dei soggetti collettivi. Ha obbligato ad una ridefinizione della situazione e a delle scelte e dei criteri più adatti a quelli del contesto attuale. Ha determinato nuove forme di interazioni che non dipendono in toto dal sistema sociale e organizzativo preesistente ma che rispondono anche alle situazioni e alle esperienze prodotte dalla nuova situazione. Per esempio, è importante nominare il fatto che in questo periodo si sono registrate delle forme di condivisione personale, emotiva, esistenziale molto più forte e spontanea di quanto accadeva nella normalità, per così dire più ingessata, della vita pre-covid. Si sono dunque andati ridefinendo o ristrutturando quei vincoli che definivano le forme di espressione emotiva e di comunicazione, con compagni/e, parenti, amici/che, condomini, vicini/e di casa, negozianti di quartiere, personale medico o infermieristico, o addirittura persone incontrate in qualche fila in attesa, ci si è ritrovati più facilmente e spontaneamente a parlare più facilmente di dolore, di paura, di vergogna, di sensi di colpa, di angoscia, di speranza, di amore. La Pandemia ci ha dato l’occasione importante per tornare a parlare insieme di esperienze condivise, di paure condivise, di difficoltà condivise, di aspirazioni condivise.
La situazione attuale ha a più livelli illuminato aspetti invisibili della realtà precedente – della cosiddetta normalità – e li ha reinterrogati e risignificati nel bene e nel male. Si pensi al riconoscimento e alla valorizzazione di mestieri ieri invisibili e al ruolo di infermiere/i, OSS (operatori e operatrici socio-sanitari/e), di addette/i alla pulizia, di badanti, di trasportatori, di rider, ecc… Tutta una serie di mestieri e di lavori che hanno reso possibile la nostra sopravvivenza quotidiana hanno rivelato improvvisamente la loro centralità nelle nostre vite e società.
Le differenze nelle forme di lavoro, di contratti, di garanzie, di sussistenza sono diventate più visibili, più “pubbliche” e hanno stimolato discussioni, interventi, norme straordinarie.
Anche alcuni degli aspetti problematici della nostra normalità economica o sociale, come per esempio le abitudini ecologiche e alimentari connesse alla distruzione degli ambienti e al mercato degli animali esotici, o alle abitudini igieniche o sanitarie, o a quelle sociali come l’alimentazione, gli spostamenti e i viaggi hanno mostrato ad un tratto la loro natura problematica o addirittura insostenibile.
Di fatto sono stati – almeno parzialmente e temporaneamente – ridiscussi e ridefiniti valori, priorità, norme e obiettivi. Per la prima volta si è affermato pubblicamente che il Pil, il mercato, la produzione non sono priorità indiscutibili. Nel bene e nel male, l’emergenza ci ha costretto a mettere tra parentesi i quadri di riferimento passati e futuri e a concentrare l’attenzione sui bisogni immediati, momento per momento, giorno per giorno, a fronte delle condizioni emergenti. E qualunque siano le scelte e i risultati finali, mai come in questo periodo è stato chiaro a tutti, che la politica attiene all’ascolto, alla mediazione e all’equilibrio tra esigenze, necessità, valori, interessi ed aspirazioni differenti.
Insomma, questa situazione ha reso le persone, ma in qualche misura anche i soggetti collettivi (istituzioni, imprese, scuole, università), più aperti e suscettibili al cambiamento e alla trasformazione. Le ricerche sulle calamità ci ricordano d’altronde che le società colpite da disastri spesso rigenerano la loro vita sociale con ulteriori incrementi di vitalità, capacità di ricostruzione e integrazione.
È chiaro che gli stimoli e le pressioni non sono tutti in direzione di un miglioramento. Anche nelle situazioni di emergenza c’è sempre ovviamente una forza conservativa, una spinta a ritornare alle modalità tradizionali o addirittura a rafforzare certe forme di potere e di controllo.
Ma c’è al contempo una tensione, una finestra di possibile cambiamento che per un certo periodo rimane virtualmente aperta e consente di immaginare possibili cambiamenti, soprattutto se le condizioni di vita oggettiva diminuiscono i rinforzi alle vecchie abitudini e alle vecchie risposte. Parlo di “tensione” per dire che in queste situazioni più che in altri momenti il conflitto e la ridiscussione degli schemi abituali apre uno squarcio e rende possibile nella nostra testa e nella nostra quotidianità immaginare altre direzioni o altre opportunità, risposte diverse ai nostri problemi e necessità. Parlo di “tensione” anche per sottolineare l’importanza del conflitto: il conflitto, politico, sociale economico può rigenerarsi in questa situazione o assumere forme nuove. Non è scontato che il cambiamento si radichi nella realtà, magari prevarranno le forze e i poteri tradizionali. Magari verranno confermate o esacerbate le già evidenti diseguaglianze. Ma non bisognerebbe avere troppa fretta e rischiare con un facile cinismo di accompagnare e affrettare una reazione conservativa. In questo frangente è cruciale illuminare – nelle nostre vite, nelle nostre realtà sociali, famiglie, comunità, istituzioni, università ecc. – l’emergere di un desiderio di cambiamento sociale, che oggi è più vivido che in altri momenti, e prendersi cura per quel che possiamo di questo desiderio. Dobbiamo nominarlo, curarlo, nutrirlo, innaffiarlo e anche lottare per farlo maturare. Consapevoli che la questione non è come creare dal nulla un nuovo mondo una volta per tutte, ma piuttosto come mantenere acceso in noi e nelle nostre realtà questa aspirazione e questo desiderio e di trasformazione e creazione sociale e politica.
4. Percorsi maschili: dalla guerra al virus al riconoscimento della vulnerabilità e alla centralità della cura
Nei mesi passati ho avuto occasione di confrontarmi e misurarmi sul tema della cura su diversi piani. Da una parte in casa, con la fatica costante di trovare un equilibrio tra lo smartworking mio e di mia moglie e le necessità della famiglia in un tempo quotidiano completamente rivoluzionato dal lockdown e dalla chiusura della scuola di mio figlio. Dall’altra con il lavoro universitario che è continuato e che per me – come responsabile di un corso di laurea magistrale – ha significato occuparmi non solamente delle mie lezioni ma anche di tutte le difficoltà e i problemi di colleghi e colleghe, di studenti e studentesse emergenti in questa strana situazione. Questa attenzione e questo continuo dialogo e intervento, che mi ha preso molte energie e tempo, è stato per me anche un impegno di cura verso un contesto di insegnamento e di apprendimento che si fonda e dipende dalle relazioni e dal clima relazionale molto di più di quanto le istituzioni tendono a riconoscere. Poi mi è capitato di avere diverse esperienze di confronto con altri uomini.
In primo luogo, insieme all’amico Maurizio Artoni abbiamo promosso – all’interno del Progetto europeo “Parent” (capofila l’associazione “Il Cerchio degli uomini” di Torino) – un percorso intitolato “Cerchio dei papà. Incontri per futuri e neo padri” nel territorio di Montecchio, che ha coinvolto una ventina di neo o futuri papà, compresi i due conduttori, e che ha continuato a incontrarsi prima in presenza e poi in remoto da febbraio fino a dopo l’estate e che avrà anche un seguito. È stato particolarmente bello avere questo confronto tra uomini in questo periodo speciale – prima, durante e dopo il lock down – e accompagnarsi tra uomini nell’esperienza della nascita di bambini e contemporaneamente nel “venire al mondo dei padri”. Come padre di un bambino di nove anni ho condiviso con questo gruppo di neopapà il desiderio ma anche le fatiche di una paternità differente. Il piacere di poter socializzare l’esperienza della paternità e della cura dal punto di vista maschile, lo stupore di riuscire a parlare intimamente con persone conosciute da poco, il confrontarsi con le attese e l’esperienza di altri padri. Anche le madri hanno contribuito all’esperienza, non soltanto incoraggiando o sostenendo i loro compagni nel desiderio di coinvolgersi in questa esperienza ma anche partecipando in un paio di occasioni al confronto e allo scambio.
In secondo luogo, con gli amici dell’Associazione Maschile Plurale abbiamo dedicato quest’anno a scrivere e confrontarci attorno a un testo collettivo dal titolo «Uomini e donne: da dove ripartire? dalla retorica della “guerra al virus” al riconoscimento della vulnerabilità e alla centralità della cura». Il testo è stato discusso prima dentro l’associazione, poi con i gruppi e le reti di uomini locali e ora verrà diffuso e lanciato all’esterno invitando donne e uomini a confrontarsi in un incontro pubblico a novembre. Nelle nostre riflessioni siamo partiti dal notare come molti leader politici, amministratori, giornalisti, commentatori e perfino medici per raccontare lo sforzo medico sanitario, non hanno trovato di meglio che ricorrere al consueto linguaggio bellico maschile: la “guerra” contro un nemico invisibile, i medici erano “in trincea”, le “armi” per battere il virus ecc. Ci siamo chiesti se questo linguaggio non renda più difficile entrare in un’ottica differente di promozione della salute, di educazione alla responsabilità, di impegno di cura e di assistenza. Abbiamo poi riflettuto sul fatto che per molti uomini è ancora molto difficile mettere a tema e riconoscere il l’esperienza della vulnerabilità. Si pensi a come alcuni politici di primo piano da Bolsonaro, a Johnson, a Trump hanno fatto fatica a immedesimarsi con l’esperienza della malattia e della sofferenza e hanno continuato a tenere atteggiamenti virilisti fino al grottesco. Viceversa, abbiamo insistito sul fatto che l’esperienza della pandemia rappresenta l’opportunità di riconoscere quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri, quanto la vita stessa riposa su una trama di interdipendenze. E come perfino nel chiuso delle nostre case abbiamo continuato a dipendere per la nostra sopravvivenza da un’infinità di persone, soggetti, servizi, organizzazioni, tecnologie. Ci siamo infine confrontati con le diseguaglianze nel lavoro e nella cura: sulla precarietà e l’invisibilità di certi lavori; sul ruolo straordinario avuto dalle donne sia nelle professioni, sia nell’impegno di cura ed educativo in famiglia; abbiamo parlato della fatica a ridiscutere i tempi frenetici del lavoro che la pandemia ha messo in discussione; ma abbiamo voluto anche nominare il desiderio di alcuni uomini di essere padri diversi, compagni diversi, colleghi di lavoro diversi e di testimoniare un altro modo di vivere e interpretare la propria maschilità. Anche per noi uomini dunque, questo momento è un’occasione straordinaria. Sta a noi decidere se e quanto vogliamo provare ad approfittare di questa occasione per cambiare noi stessi e le nostre relazioni con gli altri e col mondo. Non abbiamo ricette o certezze, ma ci sembra di intuire che la strada giusta è quella di provare a rimettere al centro delle nostre vite e al centro dello spazio pubblico valori differenti come il rispetto della vulnerabilità, l’accettazione dell’interdipendenza, il riconoscimento delle differenti soggettività, l’importanza della cura, la valorizzazione della cooperazione e della solidarietà.