Domenica 6 giugno 2021, ore 10.00-13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 6 giugno 2021”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
La tecnologia informatica e gli scambi in rete hanno subito in quest’ultimo anno un’accelerazione mai conosciuta prima, che, aggiunta alla pandemia, ha investito l’impalcatura della nostra vita quotidiana: lavoro, scuola, salute, scambi politici e relazioni. Il processo era già in atto da molto tempo, ma in forme meno pervasive: sembrava che ci potessero essere ancora zone franche. Ora ne dubitiamo. Conflitti e contraddizioni del digitale che si erano delineati ben prima della pandemia, si sono acuiti, e poco potranno fare leggi e comitati etici per arginare la pervasività dei sistemi di raccolta dati. Più efficaci sono state le esperienze di lotta come quelle contro il dominio degli algoritmi nel settore delle consegne. L’imprescindibilità dei corpi e della loro presenza è stata messa in luce dalle studentesse e dagli studenti che manifestano per il ritorno in aula.
E tra noi? Alcune si sono adeguate perché non avevano scelta, altre in questo cambiamento vedono un’opportunità, altre non ci stanno. Tutte e tutti abbiamo dovuto comunque misurarci con un anno di relazioni a distanza e con il peso dell’assenza del corpo negli scambi. Eppure, dicono alcune, gli incontri on-line ci hanno permesso di approfittare della rete per pensare insieme a donne e uomini fisicamente lontani con cui non avremmo potuto parlare altrimenti.
Su tutto questo sentiamo la necessità di interrogarci, a partire dalla nostra esperienza, dalle perdite e dai guadagni. Come la tecnologia informatica ha cambiato noi e il mondo? Qual è l’impatto sulle pratiche politiche?
Introdurranno Sara e Francesca Bigardi con Traudel Sattler
La pandemia di Covid 19 ha dato un ulteriore colpo al ribasso alla politica di rinnovamento intrapresa da alcune realtà maschili o da singoli uomini che nel tempo avevano guardato con interesse alla differenza femminile come a un bene per sé.
E un colpo al ribasso lo ha dato anche a quella politica di uomini e di donne che avevano messo in moto scambi e conflitti costruttivi tra loro in una pratica che abbiamo chiamato relazioni di differenza «per mettere fine al dualismo per cui la politica delle donne sarebbe una politica accanto a un’altra, detta maschile o neutra, e dare luogo a una vera politica della differenza sessuale», così come dice e scrive Lia Cigarini nel suo intervento all’incontro di Via Dogana 3 del 18 aprile 2021 scorso, La politica delle donne è politica, riferendosi al numero cartaceo di Via Dogana del 1991 La politica è la politica delle donne.
Ancora Lia Cigarini nel suo intervento fa riferimento, criticandolo, al concetto di parzialità applicato da parte maschile all’essere donne, nell’intento di estrometterle insieme alle loro elaborazioni e alle loro pratiche dal contesto decisionale neutro rivolto a ciò che ci circonda e stringendole all’angolo della scena politica così da ridurre, insieme al protagonismo femminile, la loro sfera d’intervento e d’interesse agli aspetti riguardanti le donne. A tal proposito si veda, ad esempio, come alcuni uomini di realtà politiche con cui Città Felice ha collaborato avrebbero preferito, che, in merito alla sorte degli edifici e degli spazi verdi degli ospedali dismessi di Catania, noi ci occupassimo solo di porzioni ospedaliere da adibire ad uso abitativo per donne senza tetto o vittime di violenza, invece di intervenire nel contesto generale e di far valere le nostre visioni in merito alle destinazioni d’uso degli spazi, o di proporre a donne e uomini delle varie realtà interessate di assumere modalità relazionali per prendere decisioni o per mettere a fuoco le proposte da esporre alle istituzioni cittadine. Posizioni più aderenti al nostro sentire sono state invece assunte da uomini che non fanno parte di realtà di sinistra strutturate.
Ritornando all’arretramento della politica della differenza maschile, non sono pochi gli aspetti dai quali si può dedurre un allontanamento di parecchi uomini dal quel percorso di ricerca nel quale si erano riconosciuti, così come l’allontanamento dalle relazioni di differenza che alcuni avevano intrapreso con donne. Alcuni di questi aspetti ho potuto riscontrarli a malincuore nei rapporti politici che avevo instaurato da tempo con uomini di realtà politiche con cui collaborava La Città Felice e che, a mio avviso, sono peggiorati anche a causa della pandemia che da un anno ha costretto tutti e tutte a forme di distanziamento fisico e relazionale in cui si è cercato di supplire agli incontri in presenza con forme di scambi informatizzati. Parlo ad esempio dell’adesione di alcune realtà catanesi e non solo (ne hanno fatto parte da subito anche alcuni uomini di Maschile Plurale) alla rete “La società della cura”, promossa da Attac e da altre realtà della sinistra antagonista come centri sociali e donne della quarta ondata femminista, e della pressione esercitata da loro nei nostri confronti affinché ne facessimo parte, visto che avevamo mostrato perplessità riguardo all’uso superficiale della parola “cura” che non teneva conto del suo essere un principio trasformativo politico, risultato di anni di elaborazione femminista.
In seguito ai conflitti e ai malesseri scaturiti dalla nostra mancata adesione alla “Società della cura” si sono susseguite altre manifestazioni che mi/ci hanno portate a rivedere l’autenticità di certe relazioni e a riconsiderare il desiderio di relazioni di differenza da parte di alcuni uomini con i quali erano intercorsi in un passato non troppo lontano legami politici. Ne è venuto fuori che alcuni ritengono l’utero in affitto una possibile pratica da normalizzare per andare incontro al desiderio di maternità-paternità di uomini gay… Oltre che appoggiare il disegno di legge Zan ovviamente. Che altri stanno considerando insieme a partiti e sindacati la realizzazione di strutture protette dal punto di vista logistico e sanitario per consentire la “libera” attività di “sex-work” (libera cioè, a loro dire, dallo sfruttamento dei protettori), garantita da assistenza mutualistica, sindacale e pensionistica, con buona pace della legge voluta dall’inarrestabile senatrice Lina Merlin.
In questa situazione di crescente disagio per il deterioramento dei rapporti politici con alcuni uomini, nell’ultima parte del suo intervento Lia Cigarini, ideatrice e sostenitrice della pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini, avanza una proposta per sbloccare la situazione. Lia ci invita a guardare alla mediazione della relazione materna come possibile mediazione con gli uomini così come essa è diventata, insieme alla genealogia femminile, la figura simbolica che ci ha dato forza nel procedere tra donne. La mediazione della relazione materna potrebbe costituire l’elemento di fiducia nei rapporti tra donne e uomini e rendere più fluida e sincera la relazione. Sul finire dell’intervento Lia Cigarini riporta la frase di un cantante celebre che durante il periodo del MeToo fece chiarezza più di tanti discorsi: «Se hai un sano rapporto con la madre rispetti le donne».
Su questo punto siamo concordi (io e le amiche della Città Felice di Catania con le quali a giorni discuteremo del libro Il luogo accanto: Identità e Differenza, una storia di relazioni di Teresa Lucente) e vogliamo “approfittare” della proposta di Lia Cigarini per procedere nella pratica e nella ricerca di nuove relazioni di differenza mettendo al centro la possibilità della “mediazione della relazione materna”.
Lia Cigarini indica in tre citazioni i passaggi che sono a suo parere importanti nella storia della politica della differenza e io volevo riprendere le affermazioni del gruppo del Martedì della Camera del Lavoro di Brescia nel testo pubblicato nel Sottosopra intitolato “Filo di felicità” (1989).
La mia pratica politica il sindacato è riassumibile nelle parole citate: «Noi non abbiamo rivendicazioni o richieste da avanzare nei confronti del sindacato. Noi vogliamo essere il sindacato di donne e uomini, il sindacato che tiene presente la differenza sessuale a tutti i livelli».
Con altre donne, in conflitto con le scelte dell’organizzazione sindacale e diversamente dal femminismo rivendicativo, non ho accettato di ridurre la differenza sessuale a un semplice calcolo matematico, a un riequilibrio di presenza.
Non ho chiesto spazi nei quali farmi confinare in una condizione di debolezza né ho chiesto risarcimenti ma ho provato a muovermi con e in libertà.
Oggi, a differenza del dicembre del 1989, non trovo difficile analizzare come nasca la forza perché so che nasce dalla relazione con altre donne, dentro e fuori il sindacato, e ho guadagnato forza e sapere dal femminismo della differenza, ne ho esperienza, ne ho fatto tesoro.
Questa premessa però non risponde alle domande degli interventi di Lia Cigarini e di Vita Cosentino.
Io sono nel sindacato – la Cgil – da molti anni e, con maggior o minore efficacia a seconda dei momenti e dei periodi, ho ricoperto ruoli di responsabilità e di direzione per il mio sindacato, ho svolto e svolgo un lavoro di contrattazione con le controparti.
Ho lavorato e lavoro con molte donne con le quali realizzo ogni giorno buoni risultati per donne e uomini, risultati qualche volta riconosciuti e altre volte no.
Molte di loro non si dichiarano femministe, forse lo sono o forse no, ma io vedo che nelle loro scelte e «nella realtà sociale che pensano e organizzano» emerge autonomia, autorità e libertà femminile. Non è un’esperienza solo mia perché sempre più spesso le abbiamo incontrate sulla scena pubblica; le donne sono ovunque e ad ogni livello e con la pandemia ce ne siamo davvero rese conto.
Sono convinta che hanno preso consapevolezza e forza dal femminismo, che non hanno l’ideale di diventare uguali agli uomini e che mettono in gioco, più o meno consapevolmente, la differenza femminile.
Vedo e so che hanno molta competenza e sapienza del mondo e hanno strategie e pratiche per non soccombere nel rapporto con gli uomini, per «tenere insieme vita e politica, corpo e mente».
Si districano nei rapporti e fanno i conti con i sentimenti, l’amore e la solidarietà ma anche con quelli che provocano sofferenza come la rivalità, l’invidia, l’isolamento.
La fatica, che riconosco, è sostenuta dalle relazioni che rendono praticabile questa scommessa ed è ripagata dai risultati concreti, ma soprattutto è la fatica necessaria per rispondere al loro desiderio di fare quello fanno.
Forse è necessario discuterne: queste esperienze le conosciamo? le vediamo? ci sono utili?
A me sembra di sì, sembra di aver guadagnato competenze e capacità ma soprattutto di aver guadagnato, in relazione con queste donne, libertà nel mondo con le mie compagne e con le donne che sono dall’altra parte del tavolo di trattativa. Non solo, sono convinta che molte volte, tante, abbiamo pure fatto le cose per bene per tutti, certo dentro un quadro realistico di quello che, secondo noi, era possibile fare.
Vita Cosentino nel suo intervento offre questa opportunità e ci dice che dalla pratica politica del movimento di autoriforma abbiamo un guadagno per tutte e per tutti perché si può agire in qualunque luogo ci si trovi «il massimo di autorità con il minimo di potere».
La discussione sul potere e i danni che provoca riguarda tutti gli ambiti della vita, pubblica e privata, non solo la politica o il sindacato. Il meccanismo del potere, delle burocrazie che soffocano e sovrastano gli scopi, si ripete in ogni struttura organizzativa, nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende; sono convinta che le burocrazie hanno limiti e colpe in ogni ambito, ma ci sono e si riproducono con una forza che ad ogni giro aumenta. Serve discuterne perché la politica, per avere senso, non può esaurirsi in lotta per il potere e per la distribuzione delle cariche, ma deve migliorare la condizione delle donne e degli uomini. Deve trovare le migliori soluzioni possibili, portare a casa risultati, non deludere; deve svolgere un faticoso lavoro di mediazione che non consente scorciatoie e richiede capacità di relazione e tanta concretezza. Sono cose che sappiamo fare bene se conosciamo il luogo del nostro agire ma nonostante questo sapere possiamo trovarci, e spesso ci troviamo, nei pasticci.
Come stare quindi con le nostre pratiche nella realtà di quello che accade intorno a noi, in qualunque luogo ci si trovi ad agire? La mia risposta alle domande poste da Lia Cigarini e da Vita Cosentino è che per rendere evidente e far emergere con forza che la politica delle donne è politica ci serve pensiero e pratica politica.
Qualcuno si è sorpreso e forse ha persino storto il naso quando il libro di Alain Touraine del 2006, “Le monde des femmes”, è stato pubblicato in italiano, tre anni dopo, come “Il mondo è delle donne”. Questa traduzione non del tutto letterale del titolo aveva potenti ragioni simboliche dalla sua, la prima delle quali era evitare che il discorso di Touraine fosse ingabbiato nello schema, che in effetti gli era in gran parte estraneo, secondo cui accanto al mondo degli uomini sarebbe l’ora di riconoscere l’esistenza di un mondo delle donne.
È lo stesso schema da cui, in questo numero di Via Dogana (primavera 2021), ci mette ancora una volta in guardia Lia Cigarini richiamando e sviluppando un’istanza che ha sempre guidato il pensiero della differenza: la politica delle donne non completa, non integra, non arricchisce e non si affianca alla politica degli uomini, ma le chiede di trasformarsi e di rimettere in questione i suoi assunti per divenire capace di una più profonda e più giusta civiltà. Naturalmente, questa idea vale perché con “politica delle donne” non si intende qualunque politica fatta da un essere umano di sesso femminile, ma una politica orientata da quell’amore per la libertà femminile, la cui essenza più profonda è l’amore femminile per la libertà e le sue condizioni di possibilità, tra cui un mondo vivibile per tutte le creature. In effetti, il libro di Touraine può esser letto come un’indagine su tutte le invenzioni pratiche e i contesti relazionali in cui questo amore femminile per la libertà si sviluppa e cresce, scoprendo anche le sue condizioni di possibilità e di ulteriore evoluzione.
Ciò nonostante, come dicevo, qualcuno non ha apprezzato il titolo italiano. Al di là del richiamato dovere di restare fedeli alla letteralità, a cui è fin troppo facile opporre il più profondo dovere di tener conto del contesto per non tradire o compromettere fin dall’inizio la comprensione dello spirito del libro, quali motivazioni possono stare dietro un certo scontento maschile di fronte a formule come “il mondo è delle donne”, ma anche “la politica è la politica delle donne” (celebre titolo del primo numero di Via Dogana, del 1991)?
Qualcuna risponderà che gli uomini non vogliono sentire ciò che quelle formule fanno valere e cioè appunto che tutto cambia e ha da cambiare quando entra in scena la libertà femminile (o, con una formula più difficile ma importante, la libera significazione della differenza femminile), per cui non basta stringersi un po’ affinché anche tale libertà possa trovare posto, sulla stessa panca.
Credo che sia una risposta parziale, che misconosce un punto molto rilevante. Per cercare di farlo vedere ho bisogno di compiere tre mosse. La prima mossa mi sarà facilmente accordata: nel momento in cui si dice, ad esempio con Clarice Lispector, “tutto il mondo dovrà cambiare” (“affinché io possa esservi inclusa”) è comprensibile che agli uomini sorga la domanda: “E noi?”. Questa domanda può sì prendere la forma: “Che ne sarà della nostra precedenza?” oppure la forma: “Che ne sarà del nostro potere?”, ma può anche significare: “Quale sarà il mio nostro posto in questo mondo nuovo?”, una domanda che tradisce chiaramente un’inquietudine che dovrebbe essere espressa piuttosto così: “Ci sarà un posto per noi in quel mondo?”. Ora, le prime due formule vanno effettivamente combattute e lo sono state: alla prima si è fatto osservare (ad esempio da Luce Irigaray) che quella precedenza, nonostante fosse alla base dell’ordine patriarcale, derivava dalla cancellazione di una precedenza ancora più originaria, per cui va semplicemente lasciata cadere come illegittima. Alla seconda formula, il movimento delle donne ha risposto invitando a liberarsi dall’incantamento verso il potere o almeno a interrogarlo per scoprirne le radici e coltivarle in maniera diversa, meno mortifera per le donne, per la natura, ma anche per la stessa creatività e felicità maschili. E alla terza formula, invece, quella in cui gli uomini si chiedono quale sarà il loro posto, se ce ne sarà uno, nel mondo messo al mondo dalla libertà femminile, cioè nel mondo in cui il figlio maschio non è più per diritto il preferito, a questa terza domanda che cosa è stato risposto?
Qui devo introdurre la seconda delle tre mosse annunciate, quella che per tanto tempo è stata la mia ultima mossa – lo è stata da quando ho cominciato ad occuparmi del pensiero della differenza e del suo significato per il lavoro teorico e pratico della filosofia. Questa mossa serve a spiegare perché è giusto e in un certo senso necessario che non siano le donne a rispondere alla pur legittima domanda degli uomini sul proprio posto. Questa non risposta è una conseguenza della pratica del partire da sé e del significato che le viene riconosciuto all’interno dello stesso discorso teorico del pensiero della differenza. L’idea è che non possano essere che gli uomini, partendo da sé e dunque praticando la parzialità, a prendere parola sul loro possibile posto, o meglio, sul loro desiderio e su ciò che del loro desiderio gli pare irrinunciabile nelle relazioni con gli altri e innanzitutto nelle relazioni con la libertà femminile.
Questa conseguenza deriva direttamente dall’affermazione capitale secondo cui i sessi sono due, affermazione che, diventa ogni giorno più urgente ribadirlo, non serve a contare e dunque a dire che non sono tre o quattro, ma serve a sottrarsi ai dispositivi concettuali e pratici dell’uno. Tale sottrazione, tuttavia, può essere intesa in due modi. Nel primo caso, come abbandono del tema dell’universale in quanto sarebbe inseparabile dal monologo dell’uno e dunque in quanto in realtà non sarebbe altro che uno strumento inventato dal sesso maschile per legittimare il sopruso della sua precedenza. Nel secondo caso, invece, il pensiero della differenza, nel sottrarsi all’uno, non cede sull’universale bensì complica l’accesso ad esso: viene barrata la possibilità di parlare immediatamente a nome dell’universale, quella possibilità che invece gli uomini hanno sempre attribuito a se stessi (la attribuivano all’essere umano, all’homo, per poi aggiungere che le donne, di tale essere umano, erano una realizzazione imperfetta per cui quella possibilità non era davvero aperta anche per loro – e se lo era, lo era solo previa cancellazione della differenza attraverso quell’altra figura neutralizzante che è l’individuo). L’universale diventa ora la mediazione, ossia, ciò cui è, forse e mai definitivamente, possibile accedere attraverso il confronto con gli altri e le altre, ossia praticando il partire da sé in uno spazio che si riconosce abitato anche dagli altri.
Questa seconda maniera, per me la più profonda, di collegare la differenza sessuale e l’universale, invece di fare di questo un mero strumento ideologico maschile, è l’unica che dà necessità al confronto tra i sessi (cioè che fa sì che la libertà di ciascun sesso non sia un chiudersi su di sé, praticando solo relazioni monosessuate). Ancor più profondamente, è l’unica che permette di distinguere tra il conflitto, cioè il fronteggiare l’altro sesso senza dare per scontata la complementarità finale dei desideri o degli interessi, e la guerra (dove si ammette la possibilità, se non l’ideale, di levare di mezzo l’altro). Per ciò che, con Irigaray, sto chiamando l’universale, si possono anche trovare altri nomi, l’importante è conservare la complicazione del discorso portata da questo elemento. Per come lo intendo, è ciò che Cigarini chiama “l’orizzonte (o la scommessa) più grande” e che le consente, ragionando a partire dal fatto che i sessi sono due, di riferirsi sempre anche alla giustizia.
Ora, se vale tutto questo, allora in effetti gli uomini non possono aspettare dalle donne, neppure dalle maestre, la risposta alla domanda: “Che ne è della nostra libertà quando la libertà femminile entra in scena?”. La risposta non può che venire dal partire da sé e dal libero scambio con le donne.
Come dicevo, per un certo numero di anni mi sono fermato qui, a queste due mosse, quella che mostra che l’affermazione della libertà femminile chiede (e comincia a generare) una trasformazione del mondo e quella che mostra che è giusto non cercare in quell’affermazione una risposta alla domanda degli uomini intorno alla trasformazione della loro libertà e alla verità del loro desiderio. Da qualche tempo, però, mi sono convinto che occorra aggiungere una terza mossa così da poter ragionare meglio su una certa impasse maschile a raccogliere la sfida portata dalla libertà femminile. Alla base di questa terza mossa c’è il rilevamento di una cosa evidente cui però non avevo mai prestato attenzione: se è vero che non spetta al femminismo della differenza determinare come gli uomini debbano o possano concretamente abitare lo spazio comune, è vero altresì che le formule che ho citato all’inizio, “il mondo è delle donne”, “la politica è la politica delle donne” ecc., non sembrano lasciare uno spazio alla risposta maschile, né tantomeno testimoniano un interesse verso tale risposta. Forse quei millenni di assenza delle donne dalla storia, di cui parla Carla Lonzi, sono millenni in cui si è accumulata in loro una tale sfiducia nei confronti di una libertà maschile non prevaricante e dunque di una creatività generativa da parte degli uomini, che oggi le donne, pur non parlando per l’altro sesso, non sono neppure inclini ad attendere le sue parole. Le donne vanno per la loro strada e quando finalmente gli uomini avranno smesso di ritirare fuori vecchie formule, si vedrà.
È un atteggiamento che si può ben capire, ma sta di fatto che agli uomini fa un effetto paralizzante. Perché? La mia ipotesi è che ingeneri un’ansia da prestazione, oltretutto raddoppiata dal fatto che la prestazione in questione non corrisponde a nessuna delle due che in quei millenni sono state messe a punto e cioè la seduzione di lei e il primeggiare nella gara virile con gli altri.
Per non farsi paralizzare da quest’ansia, la via lunga è quelli dell’analisi della differenza maschile e dell’allentamento delle sue meccaniche. È una via che si ispira al metodo dei gruppi di autocoscienza e che ha molte altre ragioni a suo favore, ma che per me come per altri ha un difetto che ce la rende impraticabile: obbliga a trascorrere davvero troppo tempo solo con altri uomini. Esiste un’altra via, più breve, per imparare e inventare una nuova pratica della libertà maschile all’altezza dell’amore femminile per la libertà e per le sue condizioni di possibilità? Io credo di sì, ma per spiegare a che cosa sto pensando, devo richiamare un ragionamento che Luisa Muraro ha sviluppato agli inizi degli anni ’90 in un articolo, “Differenza maschile e superiorità femminile”, che è stato ripubblicato nella nuova edizione delle sue Tre lezioni sulla differenza sessuale (Orthotes 2011) – in effetti la stessa idea è ripresa in maniera più sintetica ma anche più esplicita proprio nella parte finale della terza lezione.
Muraro prendeva le mosse dall’osservazione, fatta da Clara Jourdan, a proposito dell’invisibilità della differenza maschile agli occhi degli uomini: gli uomini hanno desideri e bisogni simbolici che non riconoscono né raccontano e che tuttavia condizionano i loro comportamenti. La differenza maschile non consisterebbe solo in quei particolari desideri e bisogni, ma anche nell’apparente impossibilità maschile di prenderne atto. La difficoltà degli uomini a riconoscere la propria parzialità, al di là delle semplici formule a buon mercato del pensiero dialogico (“questa è solo la mia opinione”, “secondo me”, “potrei sbagliarmi” ecc.), era ricondotta da Muraro a un’insicurezza simbolica che innanzitutto viene nascosta e poi sottoposta a una gestione mascherata che consiste, da un lato, nella gara virile e, dall’altro, nel disprezzo verso le donne e il femminile. In alternativa a questa seconda forma di gestione, che non dà vera misura, e a quell’altra che vorrebbe tirar le donne dentro la competizione con la scusa che sono anche loro degli individui, Murano proponeva di attribuire alle donne una superiorità. Precisava che tale proposta è da intendersi come l’introduzione di una sorta di regola di grammatica. Insomma, non è che Muraro allineasse i motivi di questa presunta superiorità per convincere gli uomini a prenderne atto: offriva piuttosto delle ragioni per adottare questa regola simbolica. Si tratta di una idea che mi ha subito parlato: grazie alla sua rivendicata formalità, ho sentito che ci sgravava da una fatica senza fine. Fare propria quella regola, tra le altre cose, significa accettare che il nostro è il tempo o il mondo delle donne e invece di preoccuparci che sia garantito per noi uomini un posto simbolico, provare a esserci, avendo fiducia che questo non apparirà alle donne come un motivo per rimetterci in riga e ricondurci a ruoli troppo stretti.
E così a questa regola quasi grammaticale della superiorità femminile ho continuato a pensare. Ho capito ad esempio che adottarla non coincide ancora col riconoscere autorità a una donna, tuttavia, rende possibile tale riconoscimento eliminando quell’ostacolo preliminare che è il disprezzo per l’altro sesso. Più di recente, ho inoltre capito un’altra cosa su cui vorrei concludere perché può aiutare a correggere un certo sbilanciamento che ho riscontrato nella conclusione del già citato contributo di Lia Cigarini per questo VD.
Dopo avere decrittato l’attuale disordine (il disorientamento, l’inefficacia e l’ingiustizia) della politica (maschile) come un “narcisismo sempre più sfrenato” di uomini che “non hanno saputo partecipare al conflitto tra i sessi con la lucidità che era divenuta necessaria”, Cigarini avanza l’idea che la relazione materna, che è divenuta, grazie al femminismo, “figura di mediazione tra donne”, possa portare ordine simbolico anche nelle relazioni degli uomini con le donne. Per sviluppare questa idea, però, cita anche un famoso cantante che pare abbia detto che se si ha un sano rapporto con la madre, allora poi si rispettano le donne. Ecco è questo sviluppo che mi pare debole. Il cantante in effetti sembra ignaro di quel che ci ha insegnato Freud sulla sessualità maschile e “la più comune degradazione della vita amorosa”: perlomeno un certo amore per la madre (che si trasferisce poi sulla madre dei propri figli) è del tutto compatibile con il disprezzo verso le donne del desiderio. Per questo, non basta invitare o richiamare gli uomini all’amore e alla riconoscenza verso le loro madri per portare ordine simbolico nei loro rapporti con l’altro sesso. Semmai, sarà un rinnovato rapporto con le donne a correggere e a rendere meno parziale l’amore per la propria madre. Ma allora torniamo al punto di partenza: come incamminarsi verso un rinnovato rapporto con le donne?
Prima ho mostrato come tale domanda vada tradotta in quest’altra: che cosa può significare concretamente adottare la regola grammaticale della superiorità femminile? Ora Cigarini suggerisce che la risposta debba dare un posto importante alla relazione con la madre come figura di mediazione tra donne. Penso che abbia ragione, ma con questa aggiunta: la relazione alla madre cui gli uomini devono imparare a dare riconoscimento simbolico non è solo quella con la loro madre, ma prima ancora quella delle donne alla propria madre. È questa la relazione con la madre che il patriarcato ha rimosso (lasciandole giusto lo spazio di una trasmissione di competenze misconosciute nella loro importanza) ed è dunque questa la relazione cui non abbiamo imparato a riconoscere valore. La prima volta che ho colto, come in un’intuizione, questo punto, l’ho formulato scherzosamente così: l’ordine simbolico della madre diventa per gli uomini innanzitutto l’ordine simbolico della suocera. È uno scherzo perché le donne con cui dobbiamo imparare a relazionarci non sono solo le nostre mogli o compagne. Tuttavia, è uno scherzo serio perché tutti (persino il Papa) ci permettiamo di fare ironia sulle suocere. Questa ironia, tanto banale quanto tenace, si radica forse sulla nostra difficoltà di accettare che la libertà femminile viene davvero al mondo quando riconosce di avere una fonte e una misura che non sono gli uomini.
Ecco, dunque, la domanda che ci aiuta a vedere a che punto siamo arrivati nell’invenzione di mediazioni per dare autorità a una donna e, in generale, per entrare in relazione con la libertà femminile: quanto siamo capaci di farci da parte affinché quello spazio di riconoscenza e contrattazione femminili, chiamato ordine simbolico della madre, possa generare i suoi effetti trasformativi in questo mondo che è innanzitutto delle donne?
Nomadland, il film di Chloé Zhao, indiscusso vincitore di premi nei festival, dal Leone d’oro a Venezia ai Golden Globe, dai Bafta Film Awards inglesi fino agli Oscar, solo per citare quelli più famosi, nasce da una forte relazione di fiducia e da una stretta collaborazione fra la regista e la sua protagonista, l’attrice Frances McDormand.
All’uscita del libro Nomadland (2017) della giornalista Jessica Bruder – un’inchiesta sulla vita degli americani “nomadi” durata più di tre anni e quindicimila miglia di guida su un camper, da costa a costa, dal Messico al confine canadese – Frances McDormand comprò i diritti per la realizzazione di un film che affidò a Chloé Zhao di cui aveva apprezzato i precedenti lavori e in particolare il film The Rider (2017), storia di un giovane cowboy della tribù dei Lakota che vede infrangersi il suo sogno a causa di un incidente.
In un’intervista sul Venerdì di Repubblica del 9/4/21 Cloé Zhao così racconta: “Francis non mi ha soltanto scelto, ma mi ha aiutato con la sceneggiatura e ha coinvolto nel progetto alcuni suoi amici, come David Strathairm – unico attore professionista oltre McDormand – che interpreta un altro bastonato dalla vita”.
Fern, il personaggio-guida del film, è una sessantenne che dopo la morte del marito e la perdita del lavoro è costretta ad abbandonare la casa in cui aveva felicemente vissuto e la sua cittadina, Empire nel Nevada, come migliaia di altre vittime della grande recessione del 2008 e della crisi dei mutui subprime. Si compra un van, non certo di prima mano, che battezza “Vanguard” e arreda con le cose a lei più care e si mette sulla strada, lasciando il resto dei suoi pochi beni in un deposito.
Lavora saltuariamente percorrendo migliaia di chilometri all’anno, spostandosi da uno stato all’altro. Nel suo viaggio incontra persone come lei “nomadi”: vivono di lavori precari e si portano addosso storie dure, vite difficili che a volte sono disposte a raccontare attorno ad un fuoco, in uno dei tanti luoghi dove sostano e si scambiano notizie e oggetti creando relazioni di aiuto reciproco.
Nell’impianto del film è da sottolineare l’accurato lavoro di scrittura e di montaggio di Chloé Zhao per assimilare e armonizzare la storia di Fern, personaggio di fantasia, alle storie vere delle/i nomadi che il film vuole raccontare. Ecco Linda May che recita se stessa affiancando Fern come compagna di lavori precari. Anche lei si è ritrovata sulla strada, dopo una vita trascorsa a lavorare, con una pensione che non le permette la sopravvivenza. Oppure Swankie che insegue il suo ultimo desiderio compiendo un viaggio alla ricerca della bellezza e del contatto con una natura che sente generosa e miracolosa; oppure Bob Wells, un predicatore, per il quale il viaggio è una missione, un mettersi al servizio degli altri bisognosi come incessante ricerca di rincontro con il figlio suicida, per mantenerne viva la memoria.
Lo sguardo della regista si sofferma con frequenti primi piani su questa umanità sofferente, ma anche piena di energia, di forza e di dignità; un’umanità buttata fuori dalle crepe, dai buchi del capitalismo che in una paurosa contraddizione continua a produrre beni e creare bisogni, ma come un mostro distruttivo, è incapace di soddisfare quelli primari: una casa, il lavoro, la salute.
È un film che racconta dello smarrimento delle persone, del non sentirsi parte di un qualcosa, del non avere radici. Sentimenti che la regista stessa conosce bene e qui il racconto si fa personale, sulla propria pelle. Nata a Pechino, ha studiato a Londra e a New York, dove vive, ma preferisce i grandi orizzonti che la fotografia del film riproduce splendidamente, i grandi spazi di pianura del Sud Dakota delle comunità degli indiani Sioux, dove ha vissuto per parecchio tempo, trovando un contatto con la natura che mai prima aveva vissuto.
I paesaggi attraversati da Fern nel suo viaggio, raccontano questo bisogno, suo e delle/i nomadi. Dal Nevada alle Badlands del Sud Dakota, dal Nebraska all’Arizona fino ad arrivare all’oceano in California e giocare con le onde o abbracciare le millenarie sequoie di S. Bernardino, il viaggio diventa una necessità, un ritrovarsi, un ricongiungersi con il sé, con i pezzi della sua vita: labambina audace e determinata di un tempo, la vita vissuta felicemente con Bo e la sua perdita. Un ritornare al proprio passato per poi definitivamente lasciarlo andare per buttarsi nel presente, in
quella vita nomade che ormai è la sua.
Un’indimenticabile ritratto di donna in cammino per necessità ma non solo. Voglia di libertà, di orizzonti più ampi, senza confini né limiti, fuori dai disastri della società dei consumi, dell’apparenza e dei falsi bisogni.
Come i suoi paesaggi aridi e pietrosi il film si mostra essenziale nei dialoghi, scarni, e forte nelle emozioni poco raccontate: uno sguardo, un gesto, un atteggiamento bastano.
Tutto questo la regista me lo ha trasmesso intensamente insieme al rispetto e all’empatia per quel mondo e i suoi personaggi.
Nella riunione di VD3 di domenica 18 aprile ho consentito con la visione di Lia Cigarini sulla politica della differenza come politica unica, di donne e uomini, con la mediazione – che il femminismo ha rafforzato con la relazione tra la madre e la figlia – che la madre esercita con il mondo degli uomini. Spero di avere capito bene.
In effetti le donne hanno padri fratelli mariti e figli (maschi) per cui sono naturalmente in legami profondi con i maschi. Trasmettere questo sapere e competenza e disinvoltura alle figlie è frutto da tramandare. Consaputo possibilmente, come il femminismo permette.
Nella attuale cultura occidentale e forse mondiale in cui i maschi, con la ideologia della uguaglianza o almeno della parità, intendono annullare la differenza sessuale (non sto a specificare come si riduca a essa ideologia della uguaglianza la pluralità delle differenze: ultima loro tecnica per annullare l’unica differenza materiale, genere e specie, che ci riguarda) un bell’esempio ieri ce lo ha offerto la nostra politica casereccia, in cui il padre di un ragazzo, presunto stupratore con gruppo, lo difende attaccando insieme la ragazza vittima.
Niente so. C’è un video, e c’è una avvocata della vittima che lo avrà visto, a difenderla.
Ma vorrei porre la questione sul piano di parità e differenza.
La ragazza partecipa a una festa con altri amici. Questi a un certo punto “sforzano” un rapporto sessuale di gruppo nei suoi confronti.
Tesi difensiva dei maschi: erano tutti insieme, amici, uguali, il rapporto sessuale non è violenza, c’è accordo.
Tesi accusa: la differenza esiste, amici in uguaglianza fino al punto in cui comincia la violenza.
Voglio vedere come la bravissima avvocata, non troppo femminista, si servirà dell’argomento uguaglianza/differenza.
In effetti, alle magnifiche (senza ironia) argomentazioni di Lia, Rinalda Carati ha opposto, nel suo intervento, che sussistono contraddizioni reali: in una politica unica della differenza che ancora è tutt’altro che governante grazie alla mediazione della madre.
Per altre mie esperienze personali sono d’accordo con Rinalda.
Anche se d’altra parte so, nel mio rapporto con figli maschi, che quella mediazione – in parte! – funziona.
Affermare che è il momento, per le donne, di farsi avanti, di entrare ‘di peso’ in tutte le questioni che riguardano il vivere e la società può sembrare un azzardo, specie nei tempi difficili che ci impone la pandemia. Eppure ogni giorno noto avvenimenti dove mi sembra che questa direzione sia già tracciata e in parte operante. Sempre più donne, spesso giovani donne, occupano posizioni di grande rilievo e di potere nelle istituzioni pubbliche e private, nella produzione di beni e servizi, nella ricerca medica, quella tecnologica e nei media. Possono davvero influire su come orientare il futuro.
Questa avanzata delle donne così significativa non dovrebbe sorprendere più di tanto. È il risultato di ciò che il movimento femminista ha avviato a partire dagli anni ’70: una presa di coscienza femminile che ha portato sia a nuovi comportamenti nel rapporto uomo-donna, sia a importanti leggi volte non tanto a dare diritti, ma a togliere pesanti divieti patriarcali (il divieto di controllare le gravidanze con gli anticoncezionali o di rifiutare una maternità indesiderata, il potere indiscusso del pater familias, l’impossibilità di sciogliere il legame matrimoniale, l’adulterio considerato reato solo per le donne, l’omicidio e la violenza verso donne legalizzati… e altro ancora).
Questo ha portato le giovani di allora a volere l’autonomia economica – da qui l’entrata massiccia nel mondo del lavoro – e a desiderare di dire la propria sui destini della società.
Un fatto così eclatante poteva forse non riverberarsi sulle figlie che, oltre alla grande relativizzazione dell’autoritarismo paterno, hanno trovato davanti a sé esempi di madri che hanno affermato l’indipendenza e si sono poste verso il femminile in maniera valorizzante (a fronte di una lunga storia dove il più delle volte tra madre e figlia c’era svalorizzazione e conflitto)?
Ecco, io penso che oggi siamo a questo punto, con una presenza femminile – di giovani e meno giovani – fortemente determinate a non accettare più di essere invisibili o assenti nella dimensione sociale/extra familiare. In tutto ciò favorite, le più giovani, anche dall’alta scolarizzazione e dai risultati brillanti, più brillanti di quelli dei maschi. Perché le donne sanno – consapevolmente o meno – che lo studio/la conoscenza è una potente arma di riscatto. Non a caso tanto è stato fatto e ancora si fa nel mondo per vietare alle donne di andare a scuola!
Si pone però una questione: cosa portiamo nella società? Emerge un punto di vista femminile di fronte ai drammatici problemi che il presente ci consegna (disuguaglianze mondiali, guerre, crisi climatica, ecc.)?
Qui il mio ottimismo rischia di farsi più incerto, forse perché la cronaca, specie quella che ci mostra il modo di procedere delle donne impegnate nella politica istituzionale, ci offre uno spettacolo desolante di battaglie per essere ‘in quota’, di incapacità a mettersi insieme per contare, di scarso o nullo riferimento ai contenuti che il movimento femminista ha finora elaborato.
Tuttavia, nonostante questo sentimento un po’ debilitante, come dicevo ritengo che oggi sia proprio il momento di farsi avanti e far valere quel patrimonio di conoscenze che abbiamo accumulato e che ogni giorno arricchiamo attraverso la nostra esperienza e il confronto tra donne.
Ci sono due questioni – tra le tante sulle quali abbiamo cose molto importanti da dire e da realizzare – che desidero qui sottolineare. Una riguarda il lavoro, l’altra il concetto/l’idea di parità.
Per quanto riguarda il lavoro, se per qualche aspetto la pandemia fa temere trappole e pericolosi arretramenti per le donne, per altri si sta rivelando come un momento politico molto interessante. Mai come ora si è parlato di lavori indispensabili che le donne svolgono: nella sanità, nell’istruzione, nei servizi alla persona, nella distribuzione. Nello stesso tempo, il lavoro trasferito nelle case con lo smart working ha svelare l’intreccio che c’è tra lavoro per il mercato-retribuito, e lavoro domestico-familiare. E, cosa ancora più importante, ha mostrato l’imprescindibile funzione di ‘perno’ che le donne svolgono nel tenere insieme questi due mondi.
Proprio perché le due facce del lavoro – quello per il mercato e quello domestico-familiare, genericamente definito ‘di cura’ – e l’iniqua ripartizione tra uomini e donne sono diventati così evidenti, oggi si presenta l’occasione di mettere in discussione la storica divisione del lavoro su base sessuale.
Questa esperienza femminile del lavoro (esperienza del ‘dentro’ e del ‘fuori’ per usare un’espressione antica) non va vista come uno svantaggio, ma come la fonte di un punto di vista potente che rimette in ordine le cose. Per dirla con Ina Praetorius:“Ci consente di pensare all’economia in una prospettiva post-patriarcale, annullando la bipartizione tra sfere alte e basse, primarie e secondarie” (Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale, Quaderni di Via Dogana, Milano 2011).
Come sostenevamo già 10 anni fa nel Manifesto “Immagina che il lavoro” della Libreria delle donne, vogliamo/possiamo cambiare la definizione stessa di lavoro: lavoro non è solo quello per il mercato. Il lavoro è molto di più. È tutto il lavoro necessario per vivere.
Portare avanti questo concetto vuol dire sottolineare come il nesso vita-lavoro riguardi tutti, uomini e donne. Non si tratta di ‘conciliazione’, dove il soggetto implicito è sempre lei, la donna e il quadro di riferimento economico e organizzativo rimane immutato. La prospettiva è quella di un ’change’ profondo, è la chiamata in causa precisa e circostanziata degli uomini e del costrutto socio-economico pensato esclusivamente in chiave maschile.
Se il lavoro è una specie di cartina di tornasole dove il punto di vista femminile può emergere con grande nettezza e portare cambiamenti di grandi dimensioni, c’è una questione ancora in parte dominante oggi che invece porta confusione e rischia adi annullare proprio il punto di vista delle donne. È la questione della “parità di genere”. È Il mantra della parità, il linguaggio della parità.
Perché le donne, soprattutto quelle impegnate nella politica e nei media, ma anche in gran parte le giovani, inquadrano desideri, richieste, conquiste di libertà femminile come conquiste di parità? Perché resta fisso nella mente il punto di riferimento maschile come obiettivo da raggiungere? Dove va a finire l’irriducibile differenza di essere di sesso femminile e l’esperienza storica che non è solo di sottomissione, ma è anche sapere, conoscenza, appunto quel punto di vista che per secoli è stato assente o silenziato?
Mi sono data due spiegazioni che spesso interagiscono tra loro.
La prima è che si tratti di una povertà di linguaggio. A questo riguardo ho in mente soprattutto le giovani, la maggior parte ignare di ciò che il femminismo ha elaborato finora e sensibili al linguaggio sintetico-semplificato-sloganistico dei mass media. Il che non vuol dire, necessariamente, che aspirino ad essere come gli uomini/fare come gli uomini. In realtà il più delle volte vogliono realizzarsi, fare un lavoro che piace, costruire una vita armoniosa e non subire discriminazioni perché donne. In un certo senso, e lo dico con tenerezza, non hanno le parole per dirlo visto che nella pratica non sono affatto mimetiche e raramente hanno come ideale i coetanei maschi.
La seconda spiegazione, che attribuisco maggiormente alle donne impegnate nella politica e nei media, è che l’arroccamento intorno alla “parità di genere” in realtà vuol dire tacitare il conflitto tra i sessi, che invece c’è, e delegare alle leggi il compito del cambiamento. L’azione in questo caso si focalizza infatti prevalentemente su interventi normativi parificatori, cioè sul produrre leggi che eliminerebbero la distanza tra uomini e donne in termini di diritti. Rimuovendo nel medesimo tempo la differenza sessuale come se fosse un elemento ininfluente, marginale, privo di conseguenze.
Ci sarebbe piuttosto da chiedersi perché le norme a tutela delle donne, che in Italia non mancano (dalla Costituzione, ai diritti civili, alle leggi di parità e pari opportunità) abbiano così poca efficacia, non vengono applicate e sono poco utilizzate dalle donne stesse.
Il fatto è, ed è noto, che le leggi non bastano e arrivano quasi sempre dopo, cioè ratificano qualcosa che già si sta installando nella società. In più, nel caso di noi donne, la legge fa i conti con un sedimentato materiale e culturale millenario rispetto al quale solo la presa di coscienza di che cosa significa e quali sono le conseguenze della gerarchia sessuale che si è imposta nel mondo potrà davvero imprimere quel cambiamento di libertà a cui le donne aspirano.
Resta aperta dunque la questione del “come” farsi avanti – in termini di pratica politica e di contenuti – rispetto alla quale penso che (anche) il femminismo storico abbia molto da dire a da far sapere.
Il potere, ci ha ricordato Dominijanni, tende a consolidarsi e a cercare di occupare tutta la scena mentre l’autorità consiste nel produrre una trasformazione continua di sé e dell’altra/o in modo relazionale, quindi è mutevole e quasi invisibile.
Quali possono essere i modi per mostrare le pratiche di autorità perché non si creda che tutto il vivente sia occupato dal potere e perché cresca autorità femminile nel mondo?
Innanzi tutto ho imparato a riconoscere i passaggi che rendono possibili alcuni miei successi e trovare forme contestuali per raccontarli. Il mio desiderio è legato al fare al meglio quello che è necessario sia fatto da me, mettendo in gioco quello che so fare e sviluppando quello che potrei fare. Si rafforza l’impegno e le mediazioni per realizzare quel progetto condiviso perché lo considero parte del progetto più grande del cambio di civiltà. Lo penso come occasione perché le relazioni che via via si intrecciano facciano crescere la mia libertà generativa e quella di altre coinvolte (o anche altri). Oso proporre ma non impongo a chi lavora con me quello che ritengo più opportuno, motivo le mie proposte e cerco soprattutto condivisione e possibilità per ciascuna di dare il meglio di sé. Sto indietro se l’altra è più adatta, non cerco che appaia tutto quello che faccio per la buona riuscita. In questa fase sono importanti i riconoscimenti verbali e scritti, duali e nel gruppo di lavoro, offerti e ricevuti, in cui nominiamo ciò che ciascuna vede del contributo dell’altra. Quando il progetto è realizzato rimane la ricchezza della relazione e rimane aperta la possibilità di proporci l’una all’altra nuove occasioni.
Quando un’altra (o un altro) mi fa complimenti per la buona riuscita, racconto i passaggi che l’hanno resa possibile perché non creda sia frutto di straordinarie doti personali ma veda cammini percorribili. Graziella Bernabò mi è stata maestra di consapevolezza con i suoi racconti sui modi sempre attenti e relazionali con cui lei ha creato le biografie di Antonia Pozzi ed Elsa Morante e i molti incontri prima e dopo su queste due scrittrici.
Se una si rivolge a me per una pratica di scrittura in relazione è perché interessa a entrambe che il testo riesca a dire il nuovo che lei cerca di dire e che venga reso pubblico. In questi casi offro le mie osservazioni, prima e durante la scrittura, sia su ciò che risuona in me e su ciò che mi è oscuro, sia su come è espresso, incrociando il tutto con le mie esperienze di vita. La premessa è sempre: io sarò sincera, tu chiedi se non ti convinco ma poi sei libera di trasformare il testo in modo che corrisponda alla tua verità.
E questo è ciò che cerco anche quando mi confronto su quello che sto scrivendo.
Il modo con cui rendere visibile la scrittura in relazione varia: dalla doppia firma ai ringraziamenti con una frase precisa nei libri, a una nota, a un inciso nel testo, a un discorso in pubblico, a un riconoscimento in un piccolo gruppo o temporaneamente tra noi due, forme che rendono viva e visibile la circolarità del dono di origine materna (Genevieve Vaughan) e aperta la possibilità di nuovi scambi anche con altre, facendo crescere, in questo caso, l’autorità autoriale femminile.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 “La politica delle donne è politica“, 18 aprile 2021
A dire la verità, io per tutta la vita mi sono tenuta alla larga dalla politica istituzionale, anche quando mi è capitato di ricevere offerte al riguardo. La sentivo respingente per la macchinosità, le forme codificate fin nel linguaggio, i rituali… Neppure amavo seguirla sui giornali, annoiata dal continuo teatro monosex. Solo da poco si è risvegliato in me un interesse a seguirla, da quando, soprattutto sulla scena internazionale, sono comparse ai massimi vertici donne che sembrano puntare più sull’autorità che sul potere.
È un cambiamento inaspettato che apre a molte questioni da interrogare e approfondire sul piano teorico e politico, e che ripropone pressantemente un’interlocuzione con gli uomini: siamo, infatti, in una transizione di civiltà in cui tutto si muove e si evolve rapidamente.
Gli elementi in gioco sono: la politica, il potere, l’autorità. È necessario riprenderli in mano e distinguerli, uscire dalle identificazioni e dalle confusioni, per trovare altre combinazioni possibili che aprano a effetti di libertà e non di dominio.
Per quella mia sensazione respingente ho trovato una spiegazione nelle parole di Diana Sartori quando argomenta che con la modernità si è affermata una visione artificiale della politica e intende con questo lo Stato come macchina artificiale, regolata da tecniche di potere. Maschile. Citando Hannah Arendt, Sartori dice che la quintessenza della condizione umana è la terra, la nostra natura terrestre, ed è la negazione di questa condizione, il desiderio di “evadere dalla prigione terrestre” che porta a sostituirla con qualcosa di “artificiale”, perché così, essendo fatta da noi umani, è più controllabile e dominabile. Questa è per Diana Sartori, in Indizi terrestri, la matrice di quel modo di pensare la politica e il potere identificandoli e riducendo sia l’una che l’altro alla logica mezzi-fini dell’agire strumentale e del dominio.
Mi sembra che oggi l’identificazione tra politica e potere sia diventata un campo di battaglia, la cui posta in gioco è quella di sciogliersi da un abbraccio mortifero per andare verso qualcos’altro che è tutto da costruire. Per lo meno a considerare le vicende del più grande partito del centro sinistra italiano che su questa questione ha visto prima le dimissioni del segretario che “si vergognava del suo partito che da 20 giorni si occupava solo di poltrone”; e poi il discorso di apertura del nuovo segretario che ha affermato: “se diventiamo il partito del potere moriamo”, e ha chiesto di diventare un partito aperto.
Quanto sia mortifero esaurire la politica nella lotta per il potere e la distribuzione delle cariche è questione che riguarda – o almeno dovrebbe riguardare – anche le donne di quel partito. Nel dibattito seguito alla mancanza di ministre PD nel governo Draghi, da più parti sono infatti arrivate critiche che riguardavano proprio l’avere “la stessa vocazione governista tipica dei maschi” (Gad Lerner, Le lacrime delle donne PD, “il Fatto Quotidiano”, 17 Febbraio 2021 ) oppure lo stare “aggrappate come ostriche” alle correnti. (Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi, Una rivolta già (troppo) vista, “DeA | Donne e Altri”, 19 Febbraio 2021 ). Anche nello scontro successivo tra Debora Serracchiani e Marianna Madia per il ruolo di Capogruppo alla Camera, si è riproposta la questione, e in modo ancora più grave, se accettiamo la lettura di Nadia Urbinati che vede le donne diventare “segnaposti” delle fazioni guidate da uomini (La faida Madia-Serracchiani ci dice poco sulle donne ma molto su cos’è il PD, “Domani”, 29 marzo 2021 – ).
La domanda da porci e da porre alle donne che vogliono giocarsi su quel terreno è: perché accontentarsi di fare le replicanti dei politici maschi quando a portata di mano c’è la scommessa più grande di aprire strade fino a ieri impensate in quei territori? Di cambiare l’idea stessa di politica e di potere? E subito dopo chiederci: come rendere praticabile questa scommessa?
Intrecciata con questa, l’altra questione che attraversa la vita associata è quella dell’autorità, o meglio della sua mancanza e della sua confusione con il potere. Hannah Arendt dice che l’autorità è “scomparsa dal mondo moderno” e in effetti vari intellettuali che oggi parlano della sua crisi continuano a pensarla solo intrecciata con il potere. Marramao, per esempio, ha fatto come diagnosi del presente “La ‘crisi di autorità’ di una élite che, incapace di essere ‘dirigente’, si è ormai ridotta a pura dominatrice e detentrice della ‘forza coercitiva’” (Gli effetti violenti di un potere privo di autorità, “il manifesto”, 21 gennaio 2021 ). Ma il fenomeno nuovo è che anche “qualche maschio – come nota Alberto Leiss – persino tra quelli che sono immersi nella logica e nel linguaggio dell’informazione e della politica istituzionale, si accorge di quanto pesi in ciò che accade la dialettica dei sessi, e in particolare la crisi dell’autorità specificamente maschile di cui siamo tutti e tutte spettatori e spettatrici”. (Uomini che se ne accorgono, “il manifesto”, 26 gennaio 2021).
È questo il punto: la crisi riguarda l’autorità maschile. Storicamente per gli uomini autorità e potere si confermano reciprocamente e l’autorità ha assunto una forma gerarchica che poggia sulla non libertà di chi vi è sottoposto. Il modello è stato il pater familias. Io, avendo avuto un padre autoritario, lo so bene e ne porto ancora le cicatrici. Ora però quell’autorità gerarchica si è disfatta. Come scrive Marcel Gauchet in La fine del dominio maschile,si è liquefatta la figura paterna che “era il punto nevralgico del dispositivo, avendo il compito di garantire l’articolazione tra la cellula familiare e l’organismo sociale” (p. 29).
Secondo Arendt – e io sono d’accordo con lei – gli esseri umani hanno bisogno dell’autorità, le comunità hanno bisogno di autorità. Penso che oggi la pandemia abbia accentuato questo bisogno. Dobbiamo poterci fidare di chi si occupa di scienza e di medicina. Attualmente il riferirsi alla comunità scientifica è diventato parte integrante delle scelte politiche del governo. La ricerca di autorità è ipotizzabile come movente anche in scelte politiche recenti quali Draghi come presidente del consiglio e Enrico Letta alla guida del PD. Molto hanno pesato il prestigio e il credito di entrambi. Ma queste scelte rischiano di essere illusorie o di conservare l’esistente se non si avvia una profonda e radicale trasformazione della vita politica.
Sulla politica e sulla distinzione tra autorità e potere molto si è pensato e praticato nel femminismo della differenza, a partire da una scelta di fondo che è stata quella della distanza dal potere. Scelta che ci è stata spesso rimproverata e che oggi sembra da rimettere in discussione. Io penso che non va rinnegate, ma ripensata al presente, secondo quanto dice Luisa Muraro, nel volume di Diotima Potere e politica non sono la stessa cosa: la distanza si esprime oggi nell’indipendenza simbolica dal potere. E aggiunge: “a questa non si arriva senza il lavoro della presa di coscienza e senza la pratica del partire da sé. Che vuol dire: mettendo fine alla cieca identificazione di sé con il centro di gravitazione di tutto e mettendo al centro lo scambio tra sé e le-gli altri” (p. 10)
Questa presa di coscienza è indispensabile e, se guardiamo alla scena politica internazionale, ci sono segni che si stia diffondendo, perché ci sorprende positivamente il fatto che alcune donne ai vertici del potere mettano al centro lo scambio con le altre e gli altri, come risulta dall’intervista a Christine Lagarde pubblicata da Io Donna (Christine Lagarde: “Ho le doti delle donne: sono paziente e inclusiva”, di Alison Smale and Jack Ewing, 3 gennaio 2021 – ).
Dunque quella scelta fatta ormai cinquant’anni fa ha portato guadagni significativi che si possono rigiocare nel presente per la trasformazione della vita pubblica. Dell’autorità, infatti, il femminismo della differenza, in questi decenni, ha elaborato non solo l’idea, ma anche le pratiche politiche. La pensa come una qualità della relazione che si gioca in un rapporto diretto, costruito sulla fiducia e la stima. Io stessa da molto tempo mi muovo nel mondo consigliandomi con un’altra di cui mi fido, riconoscendo ciò che di meglio ha l’altra, e a mia volta accettando di essere di supporto per il desiderio di un’altra.
Proprio perché c’è autorità oggi è possibile tenerla in combinazione con il potere in un gioco consapevole.
Anche il potere c’è. Non è possibile espungerlo dalle nostre vite, per come sono strutturate le nostre società. È il caso invece di prendere coscienza del potere che si detiene, almeno per la posizione che si occupa nella vita associata. Io ho fatto l’insegnante per tutta la vita e so bene che l’insegnante ha a disposizione una certa dose di potere, può bocciare o promuovere, per esempio. Dalle relazioni di potere non sono certo escluse le associazioni volontarie o i luoghi delle donne. Come redattrice di Via Dogana so che ho il potere di pubblicare o rifiutare un articolo.
In ogni situazione sociale in cui ci troviamo possiamo agire prendendo la strada del potere connaturato alla funzione – e così facendo si perpetua la struttura esistente –, oppure aprirsi alla politica, così come l’hanno pensata e praticata le donne, intesa come trasformazione di sé e del reale. Si può agire a partire da sé e nello scambio con altre e altri in qualunque luogo ci si trovi a essere, che sia una scuola di periferia, un’università, un’azienda, un’associazione di volontariato, un partito, il consiglio comunale o il consiglio dei ministri. Come ho potuto sperimentare nel movimento di autoriforma, che ho contribuito a creare, significa anche aprire conflitti su ciò che non va, costruendo reti allargate di scambi a livello nazionale.
Proprio da queste esperienze di pratiche condivise nella scuola e nell’università, è scaturito il massimo di autorità con il minimo di potere. E forse non è un caso perché l’insegnamento è il contesto in cui è più forte il bisogno di autorità.
Vuol dire che non ci sono due scene, una per l’autorità e una per il potere, una buona e l’altra cattiva, ma una sola scena, quella pubblica, in cui autorità e potere stanno insieme in una combinazione sbilanciata, sempre variabile, con un punto di leva che permette il gioco.
Nella mia esperienza il punto di leva è stato esserci con la mia soggettività. Per una donna, quindi, si tratta di portare nel luogo dell’esercizio del potere, piccolo o grande che sia, l’essere donne, l’essere quella donna lì, con le proprie modalità e il proprio desiderio. Questa mossa apre a un’alchimia in cui si fa spazio per la libertà, la propria e quella di chi condivide la situazione: può essere un piccolo gruppo come è una classe scolastica oppure gruppi e situazioni molto più ampie, fino a un intero popolo. Io l’ho verificato di persona un gran numero di volte nelle mie classi e nell’autoriforma, ma lo vedo anche in donne che gestiscono la vita pubblica. Se guardiamo in quest’ottica l’arcinoto esempio della gestione della pandemia in Nuova Zelanda, notiamo subito che la presidente Jacinda Ardern si è presa la libertà di dire e mettere in atto quello che lei riteneva un buon modo di affrontarla e questo ha permesso alla popolazione di aderire consapevolmente alla sua proposta. Un altro esempio di combinazione sbilanciata dalla parte dell’autorità è quello della ministra del lavoro del governo spagnolo, Yolanda Diaz, che in poco più di un anno ha portato a casa notevoli risultati, l’ultimo riguarda i rider che sono diventati in Spagna ufficialmente lavoratori dipendenti. Il giornalista, Luca Tancredi Barone, parla di lei con ammirazione e della sua gestione annota: “Sempre con fermezza e con il sorriso, senza mai una parola fuori posto, senza che nessuno dei negoziatori, né dalla parte dei sindacati, né della confindustria, si alzi mai dal tavolo delle trattative”. (In Spagna i rider diventano ufficialmente dipendenti, “il manifesto”, 12 marzo 2021).
Penso che il criterio del massimo di autorità con il minimo di potere possa essere accolto anche dagli uomini. Non solo da quelli che insegnano, come è già successo nell’autoriforma gentile, ma anche da uomini impegnati nella vita pubblica, proprio perché qualcosa sta veramente cambiando. E, come si sa, i fatti di natura simbolica possono mutare molto rapidamente.
Marcel Gauchet parla della fine del dominio maschile come di una “rivoluzione tranquilla” in cui anche “i presunti perdenti hanno guadagnato” e sostiene che “la verità è che questa fine ha rappresentato la liberazione di un fardello anche per loro” (p. 49). In effetti analizza come nella modernità, a differenza di altre epoche, la dimensione del pubblico sia diventata il tratto distintivo della maschilità e che sia “un ideale particolarmente esigente, visto che nella ricerca del bene comune o nel compimento della missione loro affidata chiede ai titolari di tali funzioni di astrarsi il più possibile da se stessi”.
Penso quindi che uscire dalla serialità burocratica e dalla ripetizione, tornare ad esserci con la propria soggettività e parzialità, con le proprie caratteristiche umane, può essere liberante e avvincente per uomini che hanno a cuore il mondo.
Mi azzardo a dire che ho intravisto qualcosa di questa alchimia nel presidente del consiglio Giuseppe Conte nel passaggio dal primo al suo secondo governo. Sotto la pressione della pandemia ha perso parecchi dei suoi tratti di esercizio burocratico e notarile del potere e ha messo in gioco più se stesso e questo gli ha fatto acquistare maggior credito, anche ai miei occhi.
In passato a una politica contestuale che partisse da sé e fosse trasformativa attraverso le relazioni sono state rivolte le accuse di essere impolitica o prepolitica. Ora invece vedo in atto una trasformazione dell’idea stessa di politica nella direzione presa dalle donne cinquanta anni fa.
Un segnale importante di questo processo viene da una storica, Silvia Salvatici, quando, parlando della Conferenza di Pechino (1995), sostiene che l’empowerment femminile “non voleva dire portare semplicemente le donne nei luoghi costituiti del potere. Ma portare il potere nei luoghi delle donne: associazionismo, società civile, reti. Il primo tipo di empowerment è un cambiamento importante, ma non è ancora quella trasformazione dell’idea di politica che è storicamente il valore più profondo dell’impegno civile e pubblico delle donne” (intervista in È stato il decennio del #Metoo. Ma le donne riusciranno a cambiare il potere? di Elena Tebano, 27esimaora.corriere.it, 5 marzo 2021 – ).
Forse anche innescato dalle restrizioni della pandemia, nella società c’è un risveglio e cresce il desiderio di nuove forme della politica e della democrazia. Ne sono esempi il “sindacato di strada” proposto da Landini, oppure l’ampio dibattito sulle pagine del manifesto dall’inizio dell’anno attorno alla parola “Isocrazia”, intesa come “capacità e potenza di cui dispongono egualmente tutti i cittadini” (Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga, Se la politica è impotente, i corpi intermedi possono rianimarla, “il manifesto”, 19 dicembre 2020). Oppure il numero speciale dell’Espresso di fine marzo titolato L’altra politica, in cui l’editorialista, Marco Damilano, sostiene, con il supporto di Zerocalcare, che è politica quella della società che si auto-organizza nei quartieri periferici ad opera di associazioni e comitati. È l’Altra Politica.
Annie Ernaux di recente ha affermato che la fine della pandemia “porterà a una resa dei conti nella nostra società” (intervista di Massimiliano Virgilio, Fanpage, 19 febbraio 2021). Siamo alle soglie di qualcosa, non sappiamo cosa accadrà e tanto meno lo possiamo controllare. Molte questioni sono aperte ed è un buon momento per giocarsi la carta migliore: un’idea di politica che arriva fino alla singolarità e che è effettivamente trasformativa della società.
Riferimenti bibliografici:
– Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 2017.
– Luisa Muraro, Introduzione di una idea, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009, pp. 5-13.
– Diana Sartori, Indizi terrestri, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009, pp. 15-51.
– Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile, Vita e Pensiero, Milano 2019.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 “La politica delle donne è politica“, 18 aprile 2021
A differenza dell’amica di Foscolo caduta nobilmente da cavallo io sono caduta a causa di un marciapiede dissestato di Milano. Spero di essere rimasta lucida e di poter contribuire alla discussione di oggi. Partirò con tre citazioni di passaggi che sono a mio parere fondamentali nella storia della politica della differenza.
Il primo è di Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel (1970): “la differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo?”
Il secondo è un’affermazione del gruppo del Martedì della Camera del Lavoro di Brescia in un testo pubblicato nel Sottosopra intitolato Filo di felicità (1989). Cito: “troviamo difficile analizzare come nasca effettivamente la nostra forza. La sua fonte è femminile, questo è sicuro ma è generico, oltre che oramai risaputo. Noi non abbiamo rivendicazioni o richieste da avanzare nei confronti del sindacato. Noi vogliamo essere il sindacato di donne e uomini, il sindacato che tiene presente la differenza sessuale a tutti i livelli. Se si accetta di ridurre la differenza sessuale a un semplice calcolo matematico, a un riequilibrio di presenza, si indebolisce la possibilità di mantenere aperto un conflitto che è politico”.
Il terzo, infine, è contenuto nel primo numero della seconda serie di Via Dogana cartaceo (1991) con il titolo La politica è la politica delle donne. Cito: “ora ci muove una nuova scommessa: mettere fine al dualismo per cui la politica delle donne sarebbe una politica accanto a un’altra, detta maschile o neutra, e dare luogo a una vera politica della differenza sessuale”.
Ci sono più modi per intenderla. È sicuramente sbagliato il modo della spartizione del condominio accanto agli uomini, alle loro condizioni e cioè all’inserimento di cui parlava Carla Lonzi.
Dove è lo sbaglio? Noi stesse abbiamo detto: i sessi sono due, il mondo è uno. L’errore forse è stato nella teorizzazione della parzialità. È stato giusto avanzare l’idea di parzialità per criticare l’universalismo maschile che cancellava, con la differenza sessuale, l’esistenza stessa delle donne. Ma poi questo concetto è stato applicato all’essere donna e alla politica delle donne presentandola come qualcosa di parziale. E questo è sbagliato.
Per concludere: la politica della differenza sessuale non è quella che pensa e organizza il reciproco limitarsi di donne e uomini, ma quella che pensa e organizza liberamente la realtà sociale in cui ci sono donne e uomini.
Si è parlato molto in questi ultimi anni, direi più intensamente a partire dalla crisi del 2008, della morte e del lutto della politica.
Io vorrei sottolineare con forza che la politica in crisi è quella maschile. Dire questo non solo libera lo sguardo sulla politica che è quella delle donne, ma anche sull’insufficienza della risposta che hanno dato gli uomini. Che non hanno saputo partecipare al conflitto tra i sessi con la lucidità che era divenuta indispensabile. La stragrande maggioranza si è chiusa in un narcisismo sempre più sfrenato. È da lì, dagli anni ’70, che la politica maschile ha cominciato a disgregarsi e a perdere la lingua ricca della politica che produceva cultura rendendo così più colti tutti quelli che partecipavano alla lotta politica. Mentre sottolineo la ricchezza della lingua della politica della differenza che dall’inizio degli anni ’70 ha prodotto narrativa femminile dalla quale ha preso poi suggestioni e nutrimento così come dalla relazione con artiste, storiche, scienziate, insomma un nutrimento reciproco.
Abbiamo guadagnato con la pratica politica quello che andavamo creando man mano, ad esempio i luoghi delle donne, eccetera, e abbiamo fatto anche guadagni teorici. Tre esempi: il primo riguarda la relazione tra soggetto e oggetto, si è capito che la loro separazione è artificiosa e che fissare gli obiettivi prima di essersi messe alla prova è ingannevole. Secondo, abbiamo capito anche che il desiderio nel fondo non ha un oggetto. Il desiderio è l’essenza più vitale dell’essere umano. Il terzo esempio riguarda le leggi. Si crede spesso erroneamente di risolvere problemi della vita soggettiva e sessuale con una legge. In questa materia la legge non fa presa: il diritto non si invera. Anzi si fa confusione. Questo sapere ci ha suggerito un’idea di fondo: non si può omogeneizzare le persone con leggi uguali per tutti. Questo suona come un paradosso, è in realtà un tenere conto della singolarità personale (non dico di più per motivi di necessaria brevità).
Solo pochissimi uomini si sono confrontati con il pensiero e la pratica politica delle donne. Penso al Gruppo Identità e differenza (di Spinea) messo in piedi da Adriana Sbrogiò che per venti anni ha fatto degli incontri misti a Asolo e Torriglia. Poi il Gruppo di Pinerolo (Torino) e quello di Viareggio e infine Maschile Plurale.
Faccio un esempio attualissimo di sordità totale di alcuni uomini rispetto alla politica della differenza: Enrico Letta, segretario del PD, per risolvere il problema che il suo partito non aveva indicato delle donne per le cariche di ministro, ha dichiarato che avrebbe dato più spazio alle donne indicandone una per la carica di presidente del gruppo parlamentare e altre come sottosegretarie. Perché, se no, avremmo fatto un’ulteriore brutta figura in Europa. Al che un ceto politico femminile che sembra non sappia nulla delle lotte delle donne, del femminismo, salvo le quote quando ci sono incarichi in vista, davanti alla miseria di questa argomentazione di Letta non ha avuto una reazione significativa e c’è stata solo una bega tra loro donne.
Durante la pandemia molti hanno parlato di un necessario cambio di civiltà – anche se non pensano alla libertà femminile e rimuovono il conflitto tra i sessi – per due ragioni: il disordine ecologico del pianeta Terra e l’ingiustizia nella ridistribuzione della ricchezza. In sostanza si può dire che il capitalismo ha stravinto con la tecnologia ma ha creato delle insopportabili disuguaglianze. Io propongo che sia possibile indicare i primi passi di una strada che solo la politica della differenza, con la pratica del partire da sé e della relazione, può mettere in atto, coinvolgendo degli uomini che sanno che il partito e molte delle istituzioni della politica maschile sono identitarie e non in sintonia con la realtà di oggi.
Comunque già dagli anni ’90 la politica della differenza parlava, chiedeva un cambiamento di civiltà. Scrivevo in un testo del 1997 intitolato Un conflitto esplicito: “questo passaggio di civiltà ha come protagonista un sesso sconosciuto poiché la differenza femminile è fuori dalle attuali categorie interpretanti … l’uguaglianza delimita un campo di valori e di obiettivi da raggiungere: la parità nel salario, nelle carriere, nei diritti, eccetera. La differenza no. Mi dà solo delle leve per capire e fendere l’ordine simbolico: il partire da sé e la relazione invece che l’organizzazione e la rappresentanza. Però ho la sensazione alcune volte … che la differenza pur essendo esperienza profonda di ciascuna donna, si sottrae alla cattura delle interpretazioni. Io credo perché c’è reticenza ad assumerla e agirla nel mondo. Farne un fatto politico non di interiorità”.
Questo pensavamo allora. Adesso aggiungo che l’affermazione di Carla Lonzi è diventata una profezia: abbiamo approfittato come donne della differenza.
Un’inchiesta della rivista Internazionale n. 1399 del 5/11 marzo 2021 riporta che le ragazze traggono forza dal gruppo di amiche con le quali si raccontano esperienze, emozioni, giudizi su quello che succede nel mondo. Cioè fanno autocoscienza. E soprattutto citano le loro madri come modelli di comportamento. Sono libere.
Anche una recente inchiesta pubblicata dal Corriere della Sera mette in luce i buoni rapporti tra figlie e madri. D’altra parte, io stessa ho presente che nel mio gruppo di autocoscienza mentre con il racconto delle nostre esperienze anche le più intime si decostruiva il patriarcato, sentivo affiorare un sentimento diverso rispetto a mia madre.
Questo vuole dire che si è creato un simbolico delle donne: il “tra donne” è diventata la struttura simbolica che dà forza, così come la genealogia femminile, cioè un rapporto di fiducia con una donna venuta al mondo prima di te che può sostenere il tuo desiderio.
Infine, la relazione materna come figura di mediazione tra donne. E io aggiungo come mediazione con gli uomini. E possibile mediazione degli uomini con le donne.
Infatti mentre ragionavo sui temi di questa introduzione mi è venuto in mente che con un amico, Dino Leon, un giurista di valore, c’è stato uno scambio di scritti sulla politica della differenza. Una volta mi è arrivata una lettera che iniziava così: “penso che qualcosa (non so quanto) possa passare anche al figlio maschio. La madre insegna a parlare anche a lui”.
Guarda caso quasi tutti gli uomini che si sono sbilanciati verso la politica della differenza, per esempio Marcel Gauchet, Colin Crouch e Francesco Pacifico, indicano la mediazione della relazione materna nei rapporti tra donne e uomini. Durante il Me-too anche un importante cantante italiano di cui non ricordo il nome in una intervista al Corriere ha detto: se hai un sano rapporto con la madre rispetti le donne.
Qui, in queste semplici parole, io vedo un principio di mediazione per una politica di donne e uomini che metta fine all’umiliante, fuorviante e ossessiva richiesta di parità da parte delle politiche di professione. Ma vedo anche un’ambizione più alta. Che la politica della differenza di donne e uomini possa indicare i primi passi di una strada che affronti il disordine ecologico del pianeta Terra e che metta fine alle crescenti ingiustizie sociali.
Domenica 18 aprile 2021, ore 10.00-13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 18 aprile 2021”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
Questi ultimi anni ci hanno mostrato le forme diverse della forza trasformativa della politica delle donne. Abbiamo visto nel 2017 la Women’s March che è stata il primo passo per togliere credito a Trump. Abbiamo visto il #metoo cambiare la visione della società sulle molestie sessuali. Abbiamo visto le lotte contro l’emergenza climatica nate dall’iniziativa di Greta Thunberg che hanno coinvolto milioni di ragazze e ragazzi in tutto il mondo… Per parlare solo di eventi con risonanza mondiale, che hanno sullo sfondo la diffusione del femminismo e la partecipazione sempre maggiore delle donne alla vita pubblica, a cominciare dal mondo del lavoro.
La politica delle donne è politica per tutte e per tutti. E in mezzo alle presenti minacce per la vita sul pianeta Terra, apre strade fino a ieri impensate. Dove le donne sono arrivate a ricoprire posizioni istituzionali di primo piano, le abbiamo viste gestire la crisi Covid-19 meglio dei loro omologhi in altri paesi. Perché? Quelle donne hanno saputo esercitare autorità, più che potere. Il massimo di autorità con il minimo di potere è un criterio scaturito dall’esperienza viva della gestione della vita associata. Vogliamo oggi riprenderlo e approfondirlo perché sia orientante per donne e uomini impegnati nella vita pubblica.
Avviano la discussione Lia Cigarini, Vita Cosentino e Silvia Baratella
Cara Clara,
in Differenza e differenze tra donne (VD3, 20 febbraio 2021) fai una osservazione preziosa: la differenza in un’altra donna non si presuppone, ma riguarda me, è la mia pratica politica, la differenza la faccio nel momento in cui mi metto in relazione con un’altra donna, proprio sapendo che è una donna.
Non capisco però come risolvi il problema tra il “passaggio da indagare, sulla questione del potere” e “la questione venuta fuori” con la lettera che ha scritto Luisa Muraro il 31 dicembre alle due ministre di Italia Viva a proposito della crisi di governo scatenata da Renzi.
La lettera di Luisa propone di migliorare autorevolmente il lavoro del governo senza aderire a un particolare schieramento partitico, un passaggio in avanti simbolico, per una “indipendenza dalla politica che mira al potere”.
Anche Fulvia Bandoli scrive, riferendosi a una immagine ascoltata da Luisa, che una donna può entrare nel “territorio del diavolo” della politica corrente “basandosi sulla forza che può venirle solo dalle relazioni con altre”. C’è libertà a starne dentro, nei rapporti di cui scrive Fulvia Bandoli, “se acquisisci piena consapevolezza che la tua libertà risiede nella relazione con le altre donne quella resta per sempre la tua misura. E se questa misura diventa la pratica di tante donne immette un’altra realtà anche nel territorio del potere e dei partiti e comincia a risignificarli” (Un’altra realtà nel territorio del potere, VD3, 20 febbraio 2021).
Le due ministre però hanno risposto insieme alla lettera di Luisa, per rivendicare – insieme – la loro scelta libera. La questione infatti è di politica concreta: perché interesse del paese sarebbe non rompere il governo piuttosto che, viceversa, romperlo? Le due ministre si dicono convinte che interesse del paese sia cambiare il governo e per questo hanno sostenuto l’azione del partito cui appartengono. Operano perciò sul terreno delle logiche di potere, affondamento e spartizione. Tu, Clara, ipotizzi che nella famosa conferenza stampa abbiano taciuto per non lasciarsi sfuggire un possibile dissenso nei confronti di Renzi. Ma potrebbe essere anche che non volessero farsi sfuggire informazioni circa l’esistenza del piano, di cui condividevano la strategia, ma si sentivano meno abili a dissimularla. Oppure il loro silenzio banalmente potrebbe rispondere a una pratica per cui parla di solito una/un responsabile, le altre o gli altri partecipano in silenzio solo per mostrare adesione.
Hanno aggiunto comunque una osservazione piuttosto pesante circa l’accusa di essere succube del capo: è un “maleficio che sembra colpire molte donne che scelgono la politica e ambiscono a ruoli apicali”. (Viene facile collegare ora questa frase alla mancanza di ministre del pd nel nuovo governo.)
Oppure, per mostrarsi libere, avrebbero comunque dovuto stare fuori da una politica che mira al potere?
Come poi scrivi tu, Clara, c’è un elemento chiave da considerare: come fanno le donne a diventare “regine” se ora il potere non si muove più entro filiere parentali ma passa anche attraverso logiche di spartizione del potere?
Ciao
Cristiana
Ragionando sul rapporto con donne al governo, all’ultimo incontro di Via Dogana 3 del 7 febbraio 2021 una è intervenuta dicendo che «non si può presupporre la differenza nell’altra donna». Senza interpretare cosa lei intendesse dire precisamente, io trovo che sia un’espressione ambigua, anzi sbagliata, perché può far pensare che la differenza sia una questione di idee, un’idea politica che si può condividere o no.
Invece la differenza nelle altre riguarda me, è una pratica, la mia pratica politica. Nella mia pratica politica presuppongo la differenza, cioè sono io che faccio la differenza. Non presuppongo nell’altra una pratica come la mia, e neanche le mie idee, ovviamente, la differenza la faccio nel momento in cui mi metto in relazione con un’altra donna, proprio sapendo che è una donna. E quindi aprendomi alla differenza sessuale e alle differenze tra donne.
La questione è venuta fuori a proposito della vicenda delle due ministre dimissionarie del governo Conti 2, Teresa Bellanova e Elena Bonetti. Così, ho riletto una lettera di Teresa Bellanova, scritta due anni fa (19 giugno 2019) al segretario della Cgil Landini, in cui lei si esponeva con forza contro l’utero in affitto, chiedendogli una chiara presa di posizione in materia. Allora lei era solo senatrice, non era nel governo. Questo mi ha fatto pensare a un passaggio da indagare, sulla questione del potere. Perché la stessa donna quando era solo senatrice si è espressa in modo deciso contro un orientamento pericoloso su «un tema delicatissimo» che sta prendendo piede nel sindacato in cui lei ha militato per anni e tra i progressisti, e quando è al governo non si esprime con altrettanto vigore sul merito di proprie scelte gravide di conseguenze per tutti e tutte?
Traudel Sattler nell’introduzione all’incontro ha ricordato donne ai vertici del potere che hanno «cominciato a nominare il di più femminile, e a mettere in luce la genealogia femminile e la fertilità della relazione tra donne». Inoltre, da quando c’è la pandemia i mass media hanno notato che i paesi governati da donne vanno meglio. Si tratta in tutti i casi di donne ai vertici, donne a capo, non che fanno parte dei governi. Forse qui c’è un elemento chiave da considerare: nelle istituzioni politiche maschili, le donne riescono a esercitare autorità solo quando sono al vertice, come le regine di altre epoche storiche? Sembrerebbe di sì. Perciò trovo illusori gli appelli ad aumentare le donne al governo, che effettivamente nel governo Draghi sono “poche”. Poche o tante, nei governi le donne devono sottostare alle logiche della spartizione del potere tra partiti e interessi economici, come abbiamo visto. Forse potrebbe cambiare davvero qualcosa se fosse una donna a presiedere il consiglio dei ministri. Certamente anche lei dovrebbe rispondere a partiti e parlamento, ma potrebbe farlo con autorità, come è accaduto in altri paesi.
Un fatto che aveva colpito nelle due ministre dimissionarie del governo Conti 2, è che non avessero motivato le loro dimissioni nella conferenza stampa che le annunciava. Anche il silenzio è linguaggio, interpretato negativamente da molte. Io invece ci ho visto un irriducibile femminile sulla scena della politica maschile. Ho pensato che forse non hanno parlato perché tutti sapevano che i reali motivi di far cadere il governo non erano quelli dichiarati da chi lo voleva far cadere, e le due donne pure essendo convinte di dimettersi (avevano scelto loro di stare in quel partito) erano consapevoli che nel loro parlare in presenza non avrebbero potuto nascondere bene (nemmeno le attrici professioniste ci riescono sempre) la falsità di quel teatro. È una mia ipotesi, certo, ma so che il non poter dire la verità può indebolire il parlare di una donna, lo so per esperienza personale e per osservazione diretta, e forse questo accade anche a quelle che hanno scelto di stare nei luoghi di potere dove è massimo lo scarto tra le parole e la verità. Una “inadeguatezza” femminile preziosa, che impedisce l’omologazione.
Comunque, per poter vedere le differenze tra donne anche sulla questione del potere e la sua influenza sulla libertà di una donna, la differenza va presupposta in tutte le donne, come del resto in tutti gli uomini.
Penso che “presupporre la differenza” in ogni donna rappresenti una forzatura, con alcune serve aprire un conflitto. Lo dico sulla base della mia esperienza personale, perché prima dell’incontro con il femminismo non capivo né il senso della differenza, né quello della libertà femminile, né tantomeno riuscivo a far valere, prima di ogni altra, la mia relazione con altre donne.
Credo che ancora oggi molte che stanno nei partiti e nelle varie istituzioni siano nella situazione nella quale mi trovavo io agli inizi del mio percorso politico. E con queste donne credo vada aperto un conflitto trasparente ma radicale. Conosco i partiti e conosco anche il potere. L’ho subito, esercitato, l’ho visto bloccare o accelerare processi e scelte. E so quanto possa sfigurare le persone. Ma da vari decenni, per fortuna, ho imparato a conoscere (e a farne la mia pratica politica) il potere che viene dalla conoscenza e dal sapere e che, come diceva Hannah Arendt, genera un poter fare e un poter dire, un agire collettivo e relazionale. Dopo i primi anni passati in una posizione subalterna ai maschi, anche se l’aver studiato molto mi consentiva di metterli all’angolo in molte discussioni, ho avuto la fortuna di incontrare, dentro il Pci, Franca Chiaromonte e con lei il femminismo, e soprattutto di sperimentare e di veder crescere la forza che deriva della relazione tra donne. Mi colpì molto quello che disse anni fa Luisa Muraro, parlando di Flannery O’Connor, al Grande Seminario di Diotima: «Lei con la sua splendida scrittura entrò nel territorio del diavolo per immettervi realtà e contendere significato alle parole». Ecco, io penso che una donna che decida di fare politica in qualsiasi sede e a qualsiasi livello debba sapere che sta entrando nel “territorio del diavolo” e che può entrare solo se immette in quel territorio la sua realtà e se contende significato al “potere costituito” basandosi sulla forza che può venirle solo dalle relazioni con altre. Se entra da sola, o in fila dietro a un uomo, sceglie di riprodurre la sua subalternità. Torna in questi giorni, a proposito della formazione del nuovo governo Draghi, una discussione oramai stantia. Che le donne sono poche (solo 8 su 23), che la Sinistra non le ha messe, che bisognerebbe applicare davvero le “quote rosa”, che la colpa sarebbe delle correnti dirette dai maschi, e via inanellando tutte le scuse possibili. Anche i maschi naturalmente si esercitano sul tema. Michele Serra scrive: «forse per mantenere la differenza sarebbe bene per le donne tenersi lontane dal potere». Una frase che, detta da un uomo, si commenta da sola. Non credo alle sedi paritarie e alle quote rosa. Il femminismo mi ha insegnato che va aperto un conflitto di merito e radicale con gli uomini sul loro ruolo e purtroppo anche con le donne che li aiutano a perpetuarlo. Ho sempre pensato, fin da giovanissima, che una donna possa fare politica meglio di un uomo. L’esempio di come la facesse meglio mia madre, rispetto a mio padre, fu per me illuminante. Dovessi dire perché scelsi la politica invece dell’insegnamento direi che lo feci perché nel ’68/69 era piuttosto bella, ma soprattutto per dimostrare a me stessa, e a mio padre in particolare, che potevo far politica meglio di lui. E tirando le somme del mio lavoro credo di esserci riuscita. Con buoni risultati concreti nelle materie che ho affrontato e nelle leggi che ho contribuito a fare. E con più felicità e passione, mentre in lui vedevo quasi solo il dolore del sacrificio, della disciplina e della competizione. E questo “meglio di un uomo” è stato frutto quasi per intero delle mie significative relazioni con molte donne e con il femminismo, dentro e fuori dal partito nel quale ho lavorato. Magari vi chiederete se io non abbia mai fatto parte di una corrente nel mio partito. Sì, ho fatto parte della corrente di Pietro Ingrao, in quegli anni era difficile non farne parte. Ma le relazioni con le altre donne del mio partito, o con quelle che stavano nelle associazioni e nei movimenti ecologisti territoriali che frequentavo (quelle di Vicenza, quelle della Terra dei Fuochi, della Val di Susa) venivano prima della mia corrente. Io e Franca Chiaromonte, ad esempio, trent’anni fa abbiamo fatto una scelta e una scommessa consapevole l’una sull’altra: lei era femminista e aveva una grande credibilità nel movimento delle donne, io non lo ero ma avevo una più forza politica di lei dentro il partito. Politicamente non eravamo neppure sulle stesse posizioni, lei era più moderata e riformista, io più estremista, per usare il linguaggio di allora. Ma questo non fu mai un impedimento. Per quanto potessimo essere distanti su una singola scelta politica, la nostra relazione è sempre stata più forte di ogni posizione particolare. Ci siamo confrontate per moltissimi anni, e la nostra relazione è stata un lievito per altre donne. Il fatto che né io né lei “rispondessimo” ai maschi ma ci affidassimo prima di tutto l’una all’altra mostrava una pratica molto diversa da quelle solite e soprattutto mostrava forza e libertà femminili. Molte volte sono andata in conflitto proprio perché sostenevo una donna di un’altra corrente e la mia relazione primaria era con lei. Ma se acquisisci piena consapevolezza che la tua libertà risiede nella relazione con le altre donne quella resta per sempre la tua misura. E se questa misura diventa la pratica di tante donne immette un’altra realtà anche nel territorio del potere e dei partiti e comincia a risignificarli. Credo però che nei partiti del secolo scorso, pur con tutti i difetti enormi che non intendo negare, ci fosse almeno uno spazio. Oggi, dovunque mi giri, non vedo partiti, ma un panorama politico scarnificato, fatto di leader modesti sostenuti dalle rispettive tifoserie.
Sì, la posta in gioco è alta: il cambio di civiltà tanto desiderato si prospetta e sta avvenendo nella situazione più drammatica e improvvisa, in una crisi di sistema, allo stesso tempo sanitaria ambientale sociale culturale e politica.
Nell’immediato la speranza è ancora una volta affidata a un provvedimento salvifico. In questo caso sono due: il vaccino che ci porterà in tempi brevi fuori dalla pandemia; la guida di un tecnico “super” fin dal soprannome, incontro al quale sono accorsi tutti i partiti (tranne uno), in una sorta di misteriosa identificazione con il “salvatore” che porta in sé un pezzetto della propria identità. A cominciare da Grillo che gli ha attribuito un’anima grillina.
Quella speranza è falsa perché le cose non stanno così. Il covid non passerà facilmente, già imperversano le sue varianti e altri virus arriveranno; la crisi climatica è vicina alla rottura e la transizione ecologica, pur con il benvenuto ministero apposito, non sarà indolore; la povertà sta aumentando in strati sempre più ampli della popolazione, mentre aumenta la concentrazione della ricchezza in poche mani.
Così un fondo di tristezza si è accoccolato dentro di me. Ma c’è anche altro che veicola gioia, se si è donna e si ha passione politica. Io la provo quando sento parole del femminismo diventate senso comune e vedo volti di donne autorevoli saltare fuori in ogni ambito: il cambio di civiltà porta impresso un visibile segno femminile.
In questa cornice colloco l’invito di Antonietta Lelario ad autorizzarci a portare la politica della differenza sul piano politico più allargato. Ha ragione, ma diciamoci con franchezza che mentre alcune sanno stare nella sfera pubblica con efficacia, per la stragrande maggioranza delle donne è difficile.
Io ammiro chi riesce con le sue parole ad orientare nella lettura del presente e ad aprire nuove strade. È il caso di Luisa Muraro che sorprende sempre per la sua capacità di invenzione politica, l’ultima è stata la lettera aperta alle ministre di Italia Viva del governo Conte. Ha suscitato un intenso dibattito che ancora ci impegna, indicando anche una nuova possibile pratica: l’interlocuzione nella distanza. Oppure è il caso di Ida Dominijanni che con tempismo e intelligenza politica riesce a fornire analisi acute degli avvenimenti in corso. Cito solo il suo post su Facebook riguardo a Conte che ha lasciato palazzo Chigi accompagnato da lunghi, intensi applausi di impiegati e commessi. Altri giornalisti si sono affrettati a minimizzare quegli applausi, mentre la sua interpretazione va in fondo all’anima, anche della mia, facendo vedere come siano stati «una citazione inconscia dal primo lockdown, quando ci affacciavamo tutti alle finestre, e un ricordo dell’alleanza stretta in quel momento fra governanti e governati in nome non del potere o della competenza, ma della percezione di una comune impotenza, che ci ha consentito di affrontare quell’esperienza difficile senza dilaniarci». Che Dominijanni abbia colto qualcosa di speciale di quel rapporto è confermato dal numero milionario di like avuto dall’ultimo post di Conte. Un record, hanno scritto i giornali. Del resto lo stesso Draghi nel suo discorso per la fiducia in parlamento lo ha ringraziato e si è posto in una certa continuità con il governo precedente.
Tornando alla questione della presa di parola e dell’esposizione pubblica posso io stessa confermare un disagio. C’è grande bisogno e desiderio di scambio, come mostrano gli ultimi incontri di Via Dogana, e allo stesso tempo c’è un’esitazione femminile a esporsi forse per debolezza del desiderio e forse perché molte donne pensano di aver poco o niente da dire, soprattutto sull’attualità politica. Al mattino ascolto regolarmente Radio Popolare e ai microfoni aperti telefonano in genere uomini, tanto che in una trasmissione la conduttrice, Lorenza Ghidini, ha chiesto solo alle donne di chiamare per discutere il fatto del giorno: il mancato invio di ministre al governo da parte del PD. E quelle che hanno telefonato ne avevano di cose da dire! La difficoltà è innegabile e la sentiamo anche nelle nostre imprese femministe, che siano librerie, centri o riviste.
La pandemia ha rimesso al centro i corpi con tutta la loro fragilità e difettosità nel fisico e nell’anima, da accettare come comune condizione umana, inaggirabile. Mesi mesi e mesi di zona rossa o arancione me ne hanno dato una consapevolezza tangibile e qualcosa è cambiato dentro di me.
Ho cominciato a fare pace con i miei “difetti” e, quindi, con quelli di chi mi circonda. Ho smesso di avere in mente un ideale di perfezione. Gli esseri umani, le donne, io, siamo imperfetti, ma questo non toglie niente al nostro desiderio e alle nostre potenzialità di espressione.
La scena pubblica è a misura maschile e sappiamo bene che c’è un’opprimente richiesta sociale: una donna, specie se giovane, deve essere a dir poco “perfetta”.
Ma ancora più insidioso è l’ideale di perfezione che alberga nella testa delle donne. Si è ciò che si è, frutto di una vita e di una storia. Se si toglie di mezzo l’ideale con cui misurarsi e misurare, ciò che era catalogato “difetto” appare più come una differenza, una caratteristica di quell’essere umano lì, che entra in gioco con le differenze dell’altra nell’alchimia della relazione. Il potenziamento è dato proprio dal gioco delle differenze e delle caratteristiche delle singole donne che stanno in relazione. Per questo è così essenziale la fiducia nella relazione tra donne. L’altra ti fa essere più te stessa.
Le nostre pratiche politiche – quelle che abbiamo già scoperto come l’autorità e l’affidamento e quelle che andiamo scoprendo muovendoci praticamente in questa inedita situazione – sono parte integrante del passaggio che stiamo vivendo da un mondo basato sull’individuo sovrano a un mondo basato sulla relazione e l’interdipendenza.
Per parlare della mia esperienza nella redazione ristretta, posso dire che fare Via Dogana, decidere il tema della discussione, esporsi con una introduzione, sta diventando una pratica in cui le relazioni sono più importanti delle singole individualità, in cui l’io risulta meno importante del progetto comune. E questo potenzia molto il lavoro della redazione. Spesso le aggregazioni femminili funzionano male perché l’ideale di perfezione finisce per essere una lente deformante che accentua il negativo, fa vedere principalmente le manchevolezze dell’una o dell’altra e innesca una litigiosità strisciante che porta tutto al ribasso. Il vero negativo è che così l’attenzione rimane concentrata sulla singola individua e non si scommette sulla potenzialità trasformativa delle relazioni. Insomma, una più una vale cento.
L’espressione pubblica di sentimenti e pensieri non è moneta corrente tra i sessi. È un terreno poco o niente frequentato e quindi di per sé impervio: da una parte è ingombro di luoghi comuni, dall’altra registra uno storico silenzio o imbarazzo. Prevale il timore di essere fraintese, di essere assorbite nelle dinamiche note (seduzione/ammirazione/dipendenza), di essere assimilate a una parte politica, di pentirsene.
Siccome parlare su questo terreno è un azzardo lo si continua a lasciare disabitato, orfano di parole diverse di donne e a disposizione di quelle vecchie perlopiù maschili.
Per cui si sta zitte.
Noi abbiamo trovato nell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte alcune caratteristiche umane e di stile nel governo della cosa pubblica che vorremmo qui nominare e segnalare.
Siamo grate a Conte
Cominciamo dall’uso del linguaggio: semplice, chiaro, alla portata di tutte/i.
Abbiamo registrato il suo modo di essere sulla scena pubblica: presente ma non presenzialista, uno starci funzionale alle cose da fare, limitato all’essenziale.
Anche la sua modalità di interagire ci è apparsa collaborativa, volta alla mediazione e alla chiarezza, lontana da strumentalismi e doppiezze.
Ne abbiamo anche riconosciuto il notevole impegno lavorativo, la fatica e il coinvolgimento: questo ha prodotto un’immagine non futile della politica, spostandone il focus più verso l’esercizio di autorità che di potere.
Anche il difficile esercizio di trovare un punto di equilibrio e di dialogo tra alleati eterogenei per storia e collocazione, così come il sostenere scelte di equità sociale, vicine all’immediatezza dei bisogni delle persone immerse nel reale quotidiano, ha comportato uno sforzo che abbiamo apprezzato.
E infine anche il suo farsi da parte, senza recriminazioni, accuse o polemiche, ci è sembrato un segno di sobrietà politica, stimolante ed esemplare in un contesto in cui l’insulto e il discredito sono ordinari elementi del discorso.
Il saluto che il personale di Palazzo Chigi gli ha reso alla fine del suo mandato e il suo gesto (unico tra tutti i passati presidenti) di volere accanto a sé la compagna e di rendere pubblica questa relazione suggellata dall’immagine della mano nella mano, ha trasmesso l’idea di una ammissione di parzialità che necessita, per esserci, dell’altra parte del mondo.
Questo nostro riconoscimento non è più grande di un chicco di melograno, quello stesso chicco con cui Ade rapì Core vogliamo usarlo ora per segnalare le circostanze in cui il maschile può non esaurirsi nel patriarcale.
Dana Lauriola è in prigione da settembre e ci resterà ancora per un anno e mezzo, essendo stata condannata a due anni per avere bloccato un casello autostradale per circa quindici minuti, permettendo comunque che le auto passassero senza pagare il pedaggio e gridando attraverso un megafono i motivi della protesta no Tav.
Dana è incensurata, la manifestazione si è svolta in modo pacifico ma è stata respinta la richiesta di pene alternative, nonostante il sovraffollamento delle carceri che la pandemia rende particolarmente preoccupante. Nicoletta Dosio, incensurata, insegnante in pensione, dopo essere stata in carcere per qualche mese, è finalmente agli arresti domiciliari grazie alla pandemia. Stella, incensurata, è agli arresti domiciliari, in cui dovrà restare per due anni, per aver fatto volantinaggio in quella stessa occasione. Queste sentenze non sono state emesse in Turchia o in Egitto, ma a Torino. Ci sarebbero altri nomi da ricordare, Fabiola, Eddi, Francesca… e tanti ragazzi, ma questi tre casi sono sufficienti per fare capire che siamo di fronte a un’aberrazione giudiziaria, insopportabile per chi ha a cuore la giustizia e la libertà.
Colpisce e fa riflettere ancora di più il fatto che si tratta di donne, di età diverse, dai 38 ai 73 anni. Nell’esperienza di tutti/e, rafforzata persino da stereotipi, le donne sono normalmente meno aggressive, sono quelle che cercano nelle situazioni di tensione di mantenere la calma e che maggiormente rifiutano azioni violente e criminali. Non a caso la presenza delle donne nella popolazione carceraria è del tutto marginale, rappresentando circa il 4% del totale. Ma gli stereotipi sono utili solo quando sono contro le donne, per concedere, ad esempio, attenuanti ai colpevoli di femminicidio e non quando sono a favore, infatti in questo caso i giudici non solo non hanno tenuto conto del dato di realtà, ma al contrario hanno ritenuto di dover punire Dana con il massimo della pena prevista, senza alcuna attenuante, e hanno respinta la sua richiesta di scontare la pena in misure alternative con la motivazione che, dotata di una «fede incrollabile», ha mantenuto fermi i suoi «ideali politici»! Cosa ci dice questa pena esemplare? Protestare contro la TAV è un reato e quindi sotterraneamente e inconsciamente la sentenza vuole essere un monito per tutti i manifestanti uomini. Queste donne sono state usate come “strumento” per rendere ancora più forte ed efficace il messaggio: non è permessa alcuna forma di dissenso, ancora di più se si manifesta con pratiche politiche nuove in cui sono presenti molti giovani, donne e uomini, con grande capacità di coinvolgimento. Non conta la loro vita, non contano emozioni, sentimenti, affetti, sofferenze di esseri umani in carne ed ossa se è in gioco la ragion di Stato, che in questo caso l’arroganza del potere maschile fa coincidere con gli enormi interessi che stanno dietro la Tav. Il messaggio forte e chiaro è rimasto circoscritto al Piemonte; una circolazione nazionale, più diffusa, avrebbe, infatti, rischiato di farne cogliere incongruenze e vere finalità e così giornali e mass media ne hanno parlato pochissimo, raggiungendo il risultato voluto di un’opinione pubblica poco e male informata.
Noi che abbiamo lottato perché ci venisse riconosciuto lo statuto di persone e di cittadine non sopportiamo che altre donne vengano trasformate in icone da spendere per una dura campagna di dissuasione. Siamo riuscite a fare venire al mondo la libertà femminile e non tolleriamo che alcune donne siano ingiustamente private della libertà. Da tempo ci impegniamo per l’etica della cura e un salto di civiltà e non possiamo rassegnarci a una regressione della democrazia talmente grave che si stenta perfino a crederci. Non è possibile accettare che si usino due pesi e due misure e che Verdini, condannato a più di sei anni, venga messo agli arresti domiciliari dopo neanche tre mesi come misura di sicurezza per il Covid e che invece queste donne siano costrette in carcere quando sarebbe stata ragionevole la concessione della sospensione condizionale.
Noi dell’Udipalermo abbiamo “sentito” che dovevamo fare qualcosa e abbiamo costruito con i mezzi che ci permette la pandemia, una relazione con le “mamme in piazza per la libertà di dissenso” che ogni giovedì pomeriggio organizzano a Torino un presidio di fronte al carcere delle Vallette. Ci siamo interrogate su come rendere più efficace la nostra azione, abbiamo scritto lettere al Presidente Mattarella e alla senatrice Segre e stiamo, attraverso una campagna di informazione, cercando di allargare la rete di solidarietà intorno alla giusta protesta delle mamme.
Siamo tuttavia convinte che insieme a tutte voi potremmo fare di più, costruire più connessioni, e pretendere che almeno a Dana venga concesso subito l’affidamento in prova o gli arresti domiciliari.
Dare voce a chi non ha voce, ma ha molto da dire, in quanto donna e migrante. Da questa urgenza è nato nel 2005 il Concorso letterario nazionale Lingua Madre (CLM), per offrire un luogo autentico di espressione e rappresentazione del sé alle donne migranti (o di origine straniera), ma anche alle italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’Altra.
Un’opportunità d’ascolto per lettrici e lettori, per imprimere la traccia di un ordine simbolico materno, per immaginare e costruire mondi dove le differenze uniscono invece di separare.
In Italia il 52% dei migranti è femmina e sempre di più le donne migrano da sole e come capofamiglia. L’alterità che ci abita abbraccia il mondo: questa è la storia vivente che le migrazioni pongono tutti i giorni sotto i nostri occhi, qualcosa di unico e di nuovo.Una realtà che necessita di una lettura che parta da uno sguardo sessuato, per mettere in luce quelle strategie di libertà di cui scrive Cristina Borderías, che conducono al cambiamento.
I racconti che ogni anno arrivano al Concorso dimostrano che, attraverso la scrittura, le donne hanno imparato a dare corpo e senso al silenzio in cui da sempre sono state costrette, trasformandolo in metafora, in elemento significante di confronto e rapporto con le altre e gli altri.
La migrazione non è più un semplice sfondo bensì influisce sulle trame e le personagge, generando traiettorie narrative del tutto nuove.Scrivere diventa tanto – e a volte più – importante e necessario dei beni primari.«Da dove vengo io, è così difficile soddisfare il proprio corpo, tanto che spesso ci si rinuncia e si pensa solo all’anima» scrive Indira Barroso López. Si impara così a coltivarla quest’anima «dimenticando i bisogni del suo involucro».
E nella relazione l’identità si afferma in modo positivo e non preclusivo, per questo il bando incoraggia la collaborazione tra donne straniere e italiane. Una relazione che continua nel percorso di ricerca e approfondimento svolto dalle docenti – straniere e italiane – che fanno parte del Gruppo di studio CLM.
Inoltre, vengono realizzati incontri che coinvolgono direttamente le autrici e le rendono protagoniste. Le occasioni si moltiplicano a migliaia, spesso per iniziativa delle stesse autrici, perché anche questo è il CLM: luogo di gemmazione. Ecco quindi la realizzazione di reading, spettacoli teatrali, convegni, seminari, video e molto altro.Un’attività che non si è mai interrotta nonostante l’emergenza sanitaria, proprio per dare un segno di fiducia e speranza. Così si è verificato quanto sottolineava nella sua introduzione Giuliana Giulietti,e il desiderio di alcune ha ravvivato quello delle altre, che si era magari bloccato. La voglia di confronto ha dato vita a nuove iniziative e a una serie di “speciali online”, che continuano tuttora. Per esempio,Coronavirus: e le donne?,per riflettere su un possibile passaggio di civiltà che guardi al mondo e alla natura come a un ambiente domestico di cui prendersi cura, per dirla con Ina Praetorius.
Quando si tratta di soggettività femminile il confine tra umano e animale, tra naturale e razionale, tra corpo e spirito, infatti, è assai labile. La dominazione delle donne e della natura è collegata in molti sensi– storicamente, materialmente, culturalmente– comeè altrettanto evidente che lo sfruttamento ambientale e i disastri naturali hanno un effetto più grave sulle donne.
Nella scrittura emergono le modalità alternative che le donne adottano per vivere il / e nel mondo, alla luce della gentilezza come tracciato dall’etica femminista (essere delicati/e, diceva Giulietti), auspicando una nuova era, quella del Gynecene, teorizzato dalle artiste romene Alexandra Pirici e Raluca Voinea.
Così le donne migranti profilano realtà comuni a tutte/i e tracciano nuove prospettive, forme di ripensamento del vivere associato. Per questo diffondere il loro pensiero è necessario e urgente ed è il senso politico del lavoro svolto dal CLM da sedici anni.
Daniela Finocchi è l’ideatrice del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Guardando allo scenario che si è aperto con l’incarico del presidente Mattarella a Mario Draghiper la formazione di un nuovo governo, quello che mi ha maggiormente colpitaè la mancanza di gratitudine – come ha detto anche Ida Dominijanni alla redazione allargata di Via Dogana del 7 febbraio scorso – verso un governo e il suo presidente che, tra mille difficoltà, si sono trovati a fronteggiare una pandemia e un’emergenza sanitaria, economica e sociale senza precedenti.
L’ingratitudine si nutre della pratica storicamente maschile di rimuovere, cancellare, dimenticare quanto detto o fatto da chi è venuto prima, per potersene intestare il primato.
Nel caso del governo Conte, con la velocità della luce, nel dibattito pubblico abbiamo assistito alla rimozione di tutto quello che è accaduto nell’anno che ancora non ci siamo lasciate/i alle spalle, compresi i morti e le sofferenze di tanta gente. L’ingratitudine nella politica maschile che guarda al potereha mostrato il peggio di sé con Matteo Renzi che, complici le due ex ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, ha portato avanti il suo lucido e pianificato gioco con cinismo, arroganza, spregiudicatezza, slealtà, per provocare la caduta del governo e di Giuseppe Conte, che fino alla fine ha goduto della fiducia della maggioranza delle/gli italiane/i (60%) e del riconoscimento quale leader più apprezzato in Europa, secondo solo ad Angela Merkel.Un gioco di potere è ciò che ha portato alla crisi e che – secondo Ida – «non vede affatto Mattarella innocente, arbitro neutro».Di che cosa bisognerebbedire grazie al presidente Conte e al suo governo? Per quanto mi riguarda parto dalricordare e riconoscerela pacatezza con cui l’ormai ex presidente del Consiglio ha saputo rassicurare e tenere insieme il Paese nei momenti più drammatici del lockdown, quando la virologa Ilaria Capua, che mi ha orientata e mi orienta tutt’ora in questa pandemia, mi/ci spiegava che avevamo a che a fare con un virus sconosciuto di cui non si sapeva niente – lo si è conosciuto meglio strada facendo – eche viaggiava con le persone.La fiducia in lei e l’affidarmi alla sua parola mi ha dato la libertà nell’accettare come necessarie le disposizioni del governo e del ministro della Salute,decise in accordo con il Consiglio superiore della Sanità, mentre c’era chi scalpitava, chiedendo tutto e il contrario di tutto, pur di mettere in difficoltà il governo e il suo presidente.Durante quei terribili giorni non si può dimenticare la lunga, estenuante, difficile, trattativa con l’Europa,dall’esito non scontato,che il presidente Conte in prima personaha portato avanti con determinazione e tenacia,contribuendo con Angela Merkel e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a cambiare il volto dell’Europa, nell’ostilità dei Paesi cosiddetti “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Repubbliche baltiche). Quelli che allora scommettevano e tifavano per il fallimento del negoziato, pur di screditare il governo in carica, li ho/abbiamo visti sgomitare per entrare nelgoverno Draghi e partecipare al lauto banchetto. Costoro, pur di non riconoscere il debito di gratitudine verso chi ha negoziato il Recovery fund, si sono affrettati a disconoscere e cancellare il negoziato stesso, attribuendone il merito all’Europa che ci avrebbe spontaneamente e di sua iniziativa «messo a disposizione i soldi». Questa si chiama manipolazione e cancellazione della verità storica, di cui gli uomini sono maestri.
Pur di arrivare al “malloppo”, tolto a chi l’ha negoziato, abbiamo visto accadere di tutto,persinomiracoli come la conversione europeista “sincera” – si fa per dire –sullavia di Montecitorio di Matteo Salviniche magari si monderà anche “sinceramente” del suo razzismo, xenofobia e misoginia. Abbiamo assistito, ho assistito con sgomento, alla corsa a inchinarsi davanti a Mario Draghi,corsa che Ida Dominijanni ha definito “inquietante” perché non di “fiducia” si tratta ma di “un inchino di classe”.
Un inchino di quel potere economico finanziario industriale neoliberistai cui interessi sono ben rappresentati in Parlamentoe in quelle Regioni ostili a ogni provvedimento del governo, padrone della maggior parte di stampa e televisioni, che contro Conte e il suo governo ha scatenato, in piena pandemia e crisi economica sanitaria e sociale, una campagna mediatica – mai vista a mia memoria – furiosa emartellante che, all’apparire di Draghi, miracolosamente si è dileguata. A Conte e al suo governo, per quanto mi riguarda, dico grazie anche per aver preso misure di sostegno al reddito che hanno aiutato tanta gente a sopravvivere.Non dimentichiamo che già prima della pandemia i poveri nel nostro Paese che vivono in condizioni di assoluta povertà erano cinque milioni e quelli in povertà relativa nove milioni,mentre nell’ultimo decennio (2009 -2019) i ricchissimi sono passati da 424.000 a 1.496.000. Con lapandemia il divario tra ricchi e poveri è aumento cosìle disuguaglianze, prima di tuttoquelle tra i sessi visto che dei101mila lavoratori che hanno perso il lavoro 99mila sono donne (dati Istat dicembre 2020),nonostante che «in Europa siamo il Paese che più a lungo ha protetto i lavoratori dai licenziamenti», come ha riconosciuto Maurizio Landini, Segretario della Cgil. Insomma, io credo che, se si è in buona fede, non si possa non riconoscere che Conte e il suo governo hanno fattodel loro meglio nella situazione data, prima di tutto quella sanitariacon una medicina territoriale inesistente e una sanità regionalizzata, distrutta da anni di tagli e privatizzazioni. La stessa campagna vaccinale, che col governo Conte ha suscitato tante polemiche, sta andando avanti e negli ultimi giorni la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha riconosciuto che l’Italia sta facendo meglio degli altri Paesi europei. Tutto questo non vuol dire che Conte e il suo governo non abbianocommesso errori ma sicuramente non ne hanno fatti più di quelli degli altri governi occidentali, di fronte all’imprevisto,un virus sconosciuto e una pandemiadalle conseguenze economiche socialie sanitarie devastanti.
In merito alla lettera di Luisa Muraro alle due ex ministre TeresaBellanova e Elena Bonetti, alcune donne hanno fatto notare che lei parlava partendo da un’idea di libertà e di bene comune molto differente da quello delle due ministre, attribuendo loro la propria postura. Io credo che L. Muraro volesse portare sulla scena pubblica allargata la politica della differenza, far apparire nuove possibilità. Non è questo il compito del simbolico?
Lei si è lasciata interpellare. Ha fatto una lettura politica non solo degli e delle protagoniste in campo, ma delle emozioni, delle atteseche li circondavano e ha aperto un conflitto sull’esercizio della libertà e sull’idea di bene comune.
Come di fatto è stato. Non è un caso che la lettera sia stata ripresa da vari giornali e da tante donne, che siano stati scritti articoli e ne stiamo ancora parlando.
Per questoconsidero la lettera di Luisa Muraro una prova di autorità e un invito a che noi ci autorizziamo a fare altrettanto. Capita infatti spesso che ci si blocchi in una tenaglia: da una parte a pensare che basti la difesa dei princìpi, il che nel dibattito pubblico ci rende inefficaci; dall’altra a confondere il conflitto simbolico con la lite e, quindi per paura del litigio, tacere sul di più che pensiamo e sentiamo, generando così una sofferenza che va a male.
Questa capacità di portare sulla scena grande la differenza femminile e le differenze fra donne può non avere come effetto un capovolgimento della situazione, ma creaattenzione. Cambia le aspettative. Prospetta il possibile.
Non è cosa da poco!
Di questa politica del simbolico oggi c’è grande bisogno e grande assenza. Non che manchi il simbolico – e come potrebbe!– manca un conflitto adeguato su quel piano ed è stato lasciato tutto nelle mani delle donne. E di pochi uomini. E a noi tocca prendercelo anche perché su quel piano avevamo puntato. Cercherò di spiegarmi meglio.
Le due ministre hanno riconosciuto l’autorità della loro interlocutrice, ma hanno difeso il loro operato dicendo che sentono fedeltà e adesione alle decisioni della propria comunità.
La loro risposta svela il nuovo contratto sessuale che la cultura democratica e progressista sta proponendo alle donne, diverso dal pattotra uominiche ha inaugurato la modernità. In quel patto la donna doveva accettare di significare un femminile inferiorizzato o scomparire nel neutro maschile universale: i diritti dell’uomo, per esempio.
Oggi a fronte della libertà femminile che noi abbiamo portato sulla scena, edessendo stato smascherato il precedente gioco, la cultura progressista e con essa tutta la sinistra propongono un diverso contratto sessuale. Hanno bisogno di esibire la presenza femminile, ma sono incapaci di mettere in gioco la differenza, di aprire all’inaspettato.Cercano formule di inclusione nuove. Non è il vecchio patriarcato ma l’affermazione della logica neoliberalista.Si vede bene sul piano linguistico.L’uso dell’asterisco per significare sia il maschile che il femminile o espressioni come “il genitore”, oppure come “l’essere umano” sono un modo di parlare per l’uomo e la donna a condizione che sia l’uomo che la donna si allontanino dalla loro differenza. È uno dei paradossi con cui dobbiamo fare i conti: i corpi contano numericamente, stanno nell’immaginario, ma a condizione di perdere il di più di significato che i corpi sessuati hanno, che le relazioni significative, la storia, la memoria, l’esperienza hanno iscritto nei loro corpi. Per le donne viene proposta la logica della promessa abbagliante e dei numeri: “50 e 50”, per capirci, oppure “ci sono 8 ministre!” e, in cambio, viene offerta accoglienza nella comunità.
In questo moderno contratto le donne sono il segno dell’impoverimento a cui si vuole ridurre tutto il reale: dati quantificabili, rapporto di forza, esibizione, polvere sotto il tappeto.
Ecco perché il conflitto simbolico è di fondamentale importanza per tutte e per tutti.
Per noi donne ci può essere la tentazione di accettare, in questo momento storico, il calore dell’accoglimento.E tuttavia noi conosciamo l’irriducibilità del nostro corpo alla logica dei numeri.Noi sappiamo che lo spazio simbolico è una dimensione in più del reale.
Ed è lì, in quello spazio, che il di più della differenzadeve trovare parole e gesti.
Il conflitto sarà ineludibile tra uomini e donne, ma soprattutto fra donne, ed è un bene, a patto di ricordare che il conflitto non è la lite. Il conflitto simbolico ci chiede di moltiplicare e raffinare le nostre mediazioni, apre ad un di più di significato che ci arricchisce tutte, ci imponedi esercitare tutta la gamma dei nostri sentimenti.
Certo che ci sono le offese, i rancori, ma anche la risorsa di saper sentire come sta l’altra e la necessità di trovare parole per ciò che pensiamo.
E il grembo che custodisce le nostre parole è la relazione fra donne. Su questo non ho alcun dubbio.
Dalla capacità di gestire il conflitto dipende il futuro dei rapporti tra donne e dai rapporti tra le donne dipende il mondo.