Qualcuno si è sorpreso e forse ha persino storto il naso quando il libro di Alain Touraine del 2006, “Le monde des femmes”, è stato pubblicato in italiano, tre anni dopo, come “Il mondo è delle donne”. Questa traduzione non del tutto letterale del titolo aveva potenti ragioni simboliche dalla sua, la prima delle quali era evitare che il discorso di Touraine fosse ingabbiato nello schema, che in effetti gli era in gran parte estraneo, secondo cui accanto al mondo degli uomini sarebbe l’ora di riconoscere l’esistenza di un mondo delle donne.
È lo stesso schema da cui, in questo numero di Via Dogana (primavera 2021), ci mette ancora una volta in guardia Lia Cigarini richiamando e sviluppando un’istanza che ha sempre guidato il pensiero della differenza: la politica delle donne non completa, non integra, non arricchisce e non si affianca alla politica degli uomini, ma le chiede di trasformarsi e di rimettere in questione i suoi assunti per divenire capace di una più profonda e più giusta civiltà. Naturalmente, questa idea vale perché con “politica delle donne” non si intende qualunque politica fatta da un essere umano di sesso femminile, ma una politica orientata da quell’amore per la libertà femminile, la cui essenza più profonda è l’amore femminile per la libertà e le sue condizioni di possibilità, tra cui un mondo vivibile per tutte le creature. In effetti, il libro di Touraine può esser letto come un’indagine su tutte le invenzioni pratiche e i contesti relazionali in cui questo amore femminile per la libertà si sviluppa e cresce, scoprendo anche le sue condizioni di possibilità e di ulteriore evoluzione.
Ciò nonostante, come dicevo, qualcuno non ha apprezzato il titolo italiano. Al di là del richiamato dovere di restare fedeli alla letteralità, a cui è fin troppo facile opporre il più profondo dovere di tener conto del contesto per non tradire o compromettere fin dall’inizio la comprensione dello spirito del libro, quali motivazioni possono stare dietro un certo scontento maschile di fronte a formule come “il mondo è delle donne”, ma anche “la politica è la politica delle donne” (celebre titolo del primo numero di Via Dogana, del 1991)?
Qualcuna risponderà che gli uomini non vogliono sentire ciò che quelle formule fanno valere e cioè appunto che tutto cambia e ha da cambiare quando entra in scena la libertà femminile (o, con una formula più difficile ma importante, la libera significazione della differenza femminile), per cui non basta stringersi un po’ affinché anche tale libertà possa trovare posto, sulla stessa panca.
Credo che sia una risposta parziale, che misconosce un punto molto rilevante. Per cercare di farlo vedere ho bisogno di compiere tre mosse. La prima mossa mi sarà facilmente accordata: nel momento in cui si dice, ad esempio con Clarice Lispector, “tutto il mondo dovrà cambiare” (“affinché io possa esservi inclusa”) è comprensibile che agli uomini sorga la domanda: “E noi?”. Questa domanda può sì prendere la forma: “Che ne sarà della nostra precedenza?” oppure la forma: “Che ne sarà del nostro potere?”, ma può anche significare: “Quale sarà il mio nostro posto in questo mondo nuovo?”, una domanda che tradisce chiaramente un’inquietudine che dovrebbe essere espressa piuttosto così: “Ci sarà un posto per noi in quel mondo?”. Ora, le prime due formule vanno effettivamente combattute e lo sono state: alla prima si è fatto osservare (ad esempio da Luce Irigaray) che quella precedenza, nonostante fosse alla base dell’ordine patriarcale, derivava dalla cancellazione di una precedenza ancora più originaria, per cui va semplicemente lasciata cadere come illegittima. Alla seconda formula, il movimento delle donne ha risposto invitando a liberarsi dall’incantamento verso il potere o almeno a interrogarlo per scoprirne le radici e coltivarle in maniera diversa, meno mortifera per le donne, per la natura, ma anche per la stessa creatività e felicità maschili. E alla terza formula, invece, quella in cui gli uomini si chiedono quale sarà il loro posto, se ce ne sarà uno, nel mondo messo al mondo dalla libertà femminile, cioè nel mondo in cui il figlio maschio non è più per diritto il preferito, a questa terza domanda che cosa è stato risposto?
Qui devo introdurre la seconda delle tre mosse annunciate, quella che per tanto tempo è stata la mia ultima mossa – lo è stata da quando ho cominciato ad occuparmi del pensiero della differenza e del suo significato per il lavoro teorico e pratico della filosofia. Questa mossa serve a spiegare perché è giusto e in un certo senso necessario che non siano le donne a rispondere alla pur legittima domanda degli uomini sul proprio posto. Questa non risposta è una conseguenza della pratica del partire da sé e del significato che le viene riconosciuto all’interno dello stesso discorso teorico del pensiero della differenza. L’idea è che non possano essere che gli uomini, partendo da sé e dunque praticando la parzialità, a prendere parola sul loro possibile posto, o meglio, sul loro desiderio e su ciò che del loro desiderio gli pare irrinunciabile nelle relazioni con gli altri e innanzitutto nelle relazioni con la libertà femminile.
Questa conseguenza deriva direttamente dall’affermazione capitale secondo cui i sessi sono due, affermazione che, diventa ogni giorno più urgente ribadirlo, non serve a contare e dunque a dire che non sono tre o quattro, ma serve a sottrarsi ai dispositivi concettuali e pratici dell’uno. Tale sottrazione, tuttavia, può essere intesa in due modi. Nel primo caso, come abbandono del tema dell’universale in quanto sarebbe inseparabile dal monologo dell’uno e dunque in quanto in realtà non sarebbe altro che uno strumento inventato dal sesso maschile per legittimare il sopruso della sua precedenza. Nel secondo caso, invece, il pensiero della differenza, nel sottrarsi all’uno, non cede sull’universale bensì complica l’accesso ad esso: viene barrata la possibilità di parlare immediatamente a nome dell’universale, quella possibilità che invece gli uomini hanno sempre attribuito a se stessi (la attribuivano all’essere umano, all’homo, per poi aggiungere che le donne, di tale essere umano, erano una realizzazione imperfetta per cui quella possibilità non era davvero aperta anche per loro – e se lo era, lo era solo previa cancellazione della differenza attraverso quell’altra figura neutralizzante che è l’individuo). L’universale diventa ora la mediazione, ossia, ciò cui è, forse e mai definitivamente, possibile accedere attraverso il confronto con gli altri e le altre, ossia praticando il partire da sé in uno spazio che si riconosce abitato anche dagli altri.
Questa seconda maniera, per me la più profonda, di collegare la differenza sessuale e l’universale, invece di fare di questo un mero strumento ideologico maschile, è l’unica che dà necessità al confronto tra i sessi (cioè che fa sì che la libertà di ciascun sesso non sia un chiudersi su di sé, praticando solo relazioni monosessuate). Ancor più profondamente, è l’unica che permette di distinguere tra il conflitto, cioè il fronteggiare l’altro sesso senza dare per scontata la complementarità finale dei desideri o degli interessi, e la guerra (dove si ammette la possibilità, se non l’ideale, di levare di mezzo l’altro). Per ciò che, con Irigaray, sto chiamando l’universale, si possono anche trovare altri nomi, l’importante è conservare la complicazione del discorso portata da questo elemento. Per come lo intendo, è ciò che Cigarini chiama “l’orizzonte (o la scommessa) più grande” e che le consente, ragionando a partire dal fatto che i sessi sono due, di riferirsi sempre anche alla giustizia.
Ora, se vale tutto questo, allora in effetti gli uomini non possono aspettare dalle donne, neppure dalle maestre, la risposta alla domanda: “Che ne è della nostra libertà quando la libertà femminile entra in scena?”. La risposta non può che venire dal partire da sé e dal libero scambio con le donne.
Come dicevo, per un certo numero di anni mi sono fermato qui, a queste due mosse, quella che mostra che l’affermazione della libertà femminile chiede (e comincia a generare) una trasformazione del mondo e quella che mostra che è giusto non cercare in quell’affermazione una risposta alla domanda degli uomini intorno alla trasformazione della loro libertà e alla verità del loro desiderio. Da qualche tempo, però, mi sono convinto che occorra aggiungere una terza mossa così da poter ragionare meglio su una certa impasse maschile a raccogliere la sfida portata dalla libertà femminile. Alla base di questa terza mossa c’è il rilevamento di una cosa evidente cui però non avevo mai prestato attenzione: se è vero che non spetta al femminismo della differenza determinare come gli uomini debbano o possano concretamente abitare lo spazio comune, è vero altresì che le formule che ho citato all’inizio, “il mondo è delle donne”, “la politica è la politica delle donne” ecc., non sembrano lasciare uno spazio alla risposta maschile, né tantomeno testimoniano un interesse verso tale risposta. Forse quei millenni di assenza delle donne dalla storia, di cui parla Carla Lonzi, sono millenni in cui si è accumulata in loro una tale sfiducia nei confronti di una libertà maschile non prevaricante e dunque di una creatività generativa da parte degli uomini, che oggi le donne, pur non parlando per l’altro sesso, non sono neppure inclini ad attendere le sue parole. Le donne vanno per la loro strada e quando finalmente gli uomini avranno smesso di ritirare fuori vecchie formule, si vedrà.
È un atteggiamento che si può ben capire, ma sta di fatto che agli uomini fa un effetto paralizzante. Perché? La mia ipotesi è che ingeneri un’ansia da prestazione, oltretutto raddoppiata dal fatto che la prestazione in questione non corrisponde a nessuna delle due che in quei millenni sono state messe a punto e cioè la seduzione di lei e il primeggiare nella gara virile con gli altri.
Per non farsi paralizzare da quest’ansia, la via lunga è quelli dell’analisi della differenza maschile e dell’allentamento delle sue meccaniche. È una via che si ispira al metodo dei gruppi di autocoscienza e che ha molte altre ragioni a suo favore, ma che per me come per altri ha un difetto che ce la rende impraticabile: obbliga a trascorrere davvero troppo tempo solo con altri uomini. Esiste un’altra via, più breve, per imparare e inventare una nuova pratica della libertà maschile all’altezza dell’amore femminile per la libertà e per le sue condizioni di possibilità? Io credo di sì, ma per spiegare a che cosa sto pensando, devo richiamare un ragionamento che Luisa Muraro ha sviluppato agli inizi degli anni ’90 in un articolo, “Differenza maschile e superiorità femminile”, che è stato ripubblicato nella nuova edizione delle sue Tre lezioni sulla differenza sessuale (Orthotes 2011) – in effetti la stessa idea è ripresa in maniera più sintetica ma anche più esplicita proprio nella parte finale della terza lezione.
Muraro prendeva le mosse dall’osservazione, fatta da Clara Jourdan, a proposito dell’invisibilità della differenza maschile agli occhi degli uomini: gli uomini hanno desideri e bisogni simbolici che non riconoscono né raccontano e che tuttavia condizionano i loro comportamenti. La differenza maschile non consisterebbe solo in quei particolari desideri e bisogni, ma anche nell’apparente impossibilità maschile di prenderne atto. La difficoltà degli uomini a riconoscere la propria parzialità, al di là delle semplici formule a buon mercato del pensiero dialogico (“questa è solo la mia opinione”, “secondo me”, “potrei sbagliarmi” ecc.), era ricondotta da Muraro a un’insicurezza simbolica che innanzitutto viene nascosta e poi sottoposta a una gestione mascherata che consiste, da un lato, nella gara virile e, dall’altro, nel disprezzo verso le donne e il femminile. In alternativa a questa seconda forma di gestione, che non dà vera misura, e a quell’altra che vorrebbe tirar le donne dentro la competizione con la scusa che sono anche loro degli individui, Murano proponeva di attribuire alle donne una superiorità. Precisava che tale proposta è da intendersi come l’introduzione di una sorta di regola di grammatica. Insomma, non è che Muraro allineasse i motivi di questa presunta superiorità per convincere gli uomini a prenderne atto: offriva piuttosto delle ragioni per adottare questa regola simbolica. Si tratta di una idea che mi ha subito parlato: grazie alla sua rivendicata formalità, ho sentito che ci sgravava da una fatica senza fine. Fare propria quella regola, tra le altre cose, significa accettare che il nostro è il tempo o il mondo delle donne e invece di preoccuparci che sia garantito per noi uomini un posto simbolico, provare a esserci, avendo fiducia che questo non apparirà alle donne come un motivo per rimetterci in riga e ricondurci a ruoli troppo stretti.
E così a questa regola quasi grammaticale della superiorità femminile ho continuato a pensare. Ho capito ad esempio che adottarla non coincide ancora col riconoscere autorità a una donna, tuttavia, rende possibile tale riconoscimento eliminando quell’ostacolo preliminare che è il disprezzo per l’altro sesso. Più di recente, ho inoltre capito un’altra cosa su cui vorrei concludere perché può aiutare a correggere un certo sbilanciamento che ho riscontrato nella conclusione del già citato contributo di Lia Cigarini per questo VD.
Dopo avere decrittato l’attuale disordine (il disorientamento, l’inefficacia e l’ingiustizia) della politica (maschile) come un “narcisismo sempre più sfrenato” di uomini che “non hanno saputo partecipare al conflitto tra i sessi con la lucidità che era divenuta necessaria”, Cigarini avanza l’idea che la relazione materna, che è divenuta, grazie al femminismo, “figura di mediazione tra donne”, possa portare ordine simbolico anche nelle relazioni degli uomini con le donne. Per sviluppare questa idea, però, cita anche un famoso cantante che pare abbia detto che se si ha un sano rapporto con la madre, allora poi si rispettano le donne. Ecco è questo sviluppo che mi pare debole. Il cantante in effetti sembra ignaro di quel che ci ha insegnato Freud sulla sessualità maschile e “la più comune degradazione della vita amorosa”: perlomeno un certo amore per la madre (che si trasferisce poi sulla madre dei propri figli) è del tutto compatibile con il disprezzo verso le donne del desiderio. Per questo, non basta invitare o richiamare gli uomini all’amore e alla riconoscenza verso le loro madri per portare ordine simbolico nei loro rapporti con l’altro sesso. Semmai, sarà un rinnovato rapporto con le donne a correggere e a rendere meno parziale l’amore per la propria madre. Ma allora torniamo al punto di partenza: come incamminarsi verso un rinnovato rapporto con le donne?
Prima ho mostrato come tale domanda vada tradotta in quest’altra: che cosa può significare concretamente adottare la regola grammaticale della superiorità femminile? Ora Cigarini suggerisce che la risposta debba dare un posto importante alla relazione con la madre come figura di mediazione tra donne. Penso che abbia ragione, ma con questa aggiunta: la relazione alla madre cui gli uomini devono imparare a dare riconoscimento simbolico non è solo quella con la loro madre, ma prima ancora quella delle donne alla propria madre. È questa la relazione con la madre che il patriarcato ha rimosso (lasciandole giusto lo spazio di una trasmissione di competenze misconosciute nella loro importanza) ed è dunque questa la relazione cui non abbiamo imparato a riconoscere valore. La prima volta che ho colto, come in un’intuizione, questo punto, l’ho formulato scherzosamente così: l’ordine simbolico della madre diventa per gli uomini innanzitutto l’ordine simbolico della suocera. È uno scherzo perché le donne con cui dobbiamo imparare a relazionarci non sono solo le nostre mogli o compagne. Tuttavia, è uno scherzo serio perché tutti (persino il Papa) ci permettiamo di fare ironia sulle suocere. Questa ironia, tanto banale quanto tenace, si radica forse sulla nostra difficoltà di accettare che la libertà femminile viene davvero al mondo quando riconosce di avere una fonte e una misura che non sono gli uomini.
Ecco, dunque, la domanda che ci aiuta a vedere a che punto siamo arrivati nell’invenzione di mediazioni per dare autorità a una donna e, in generale, per entrare in relazione con la libertà femminile: quanto siamo capaci di farci da parte affinché quello spazio di riconoscenza e contrattazione femminili, chiamato ordine simbolico della madre, possa generare i suoi effetti trasformativi in questo mondo che è innanzitutto delle donne?
Nomadland, il film di Chloé Zhao, indiscusso vincitore di premi nei festival, dal Leone d’oro a Venezia ai Golden Globe, dai Bafta Film Awards inglesi fino agli Oscar, solo per citare quelli più famosi, nasce da una forte relazione di fiducia e da una stretta collaborazione fra la regista e la sua protagonista, l’attrice Frances McDormand.
All’uscita del libro Nomadland (2017) della giornalista Jessica Bruder – un’inchiesta sulla vita degli americani “nomadi” durata più di tre anni e quindicimila miglia di guida su un camper, da costa a costa, dal Messico al confine canadese – Frances McDormand comprò i diritti per la realizzazione di un film che affidò a Chloé Zhao di cui aveva apprezzato i precedenti lavori e in particolare il film The Rider (2017), storia di un giovane cowboy della tribù dei Lakota che vede infrangersi il suo sogno a causa di un incidente.
In un’intervista sul Venerdì di Repubblica del 9/4/21 Cloé Zhao così racconta: “Francis non mi ha soltanto scelto, ma mi ha aiutato con la sceneggiatura e ha coinvolto nel progetto alcuni suoi amici, come David Strathairm – unico attore professionista oltre McDormand – che interpreta un altro bastonato dalla vita”.
Fern, il personaggio-guida del film, è una sessantenne che dopo la morte del marito e la perdita del lavoro è costretta ad abbandonare la casa in cui aveva felicemente vissuto e la sua cittadina, Empire nel Nevada, come migliaia di altre vittime della grande recessione del 2008 e della crisi dei mutui subprime. Si compra un van, non certo di prima mano, che battezza “Vanguard” e arreda con le cose a lei più care e si mette sulla strada, lasciando il resto dei suoi pochi beni in un deposito.
Lavora saltuariamente percorrendo migliaia di chilometri all’anno, spostandosi da uno stato all’altro. Nel suo viaggio incontra persone come lei “nomadi”: vivono di lavori precari e si portano addosso storie dure, vite difficili che a volte sono disposte a raccontare attorno ad un fuoco, in uno dei tanti luoghi dove sostano e si scambiano notizie e oggetti creando relazioni di aiuto reciproco.
Nell’impianto del film è da sottolineare l’accurato lavoro di scrittura e di montaggio di Chloé Zhao per assimilare e armonizzare la storia di Fern, personaggio di fantasia, alle storie vere delle/i nomadi che il film vuole raccontare. Ecco Linda May che recita se stessa affiancando Fern come compagna di lavori precari. Anche lei si è ritrovata sulla strada, dopo una vita trascorsa a lavorare, con una pensione che non le permette la sopravvivenza. Oppure Swankie che insegue il suo ultimo desiderio compiendo un viaggio alla ricerca della bellezza e del contatto con una natura che sente generosa e miracolosa; oppure Bob Wells, un predicatore, per il quale il viaggio è una missione, un mettersi al servizio degli altri bisognosi come incessante ricerca di rincontro con il figlio suicida, per mantenerne viva la memoria.
Lo sguardo della regista si sofferma con frequenti primi piani su questa umanità sofferente, ma anche piena di energia, di forza e di dignità; un’umanità buttata fuori dalle crepe, dai buchi del capitalismo che in una paurosa contraddizione continua a produrre beni e creare bisogni, ma come un mostro distruttivo, è incapace di soddisfare quelli primari: una casa, il lavoro, la salute.
È un film che racconta dello smarrimento delle persone, del non sentirsi parte di un qualcosa, del non avere radici. Sentimenti che la regista stessa conosce bene e qui il racconto si fa personale, sulla propria pelle. Nata a Pechino, ha studiato a Londra e a New York, dove vive, ma preferisce i grandi orizzonti che la fotografia del film riproduce splendidamente, i grandi spazi di pianura del Sud Dakota delle comunità degli indiani Sioux, dove ha vissuto per parecchio tempo, trovando un contatto con la natura che mai prima aveva vissuto.
I paesaggi attraversati da Fern nel suo viaggio, raccontano questo bisogno, suo e delle/i nomadi. Dal Nevada alle Badlands del Sud Dakota, dal Nebraska all’Arizona fino ad arrivare all’oceano in California e giocare con le onde o abbracciare le millenarie sequoie di S. Bernardino, il viaggio diventa una necessità, un ritrovarsi, un ricongiungersi con il sé, con i pezzi della sua vita: labambina audace e determinata di un tempo, la vita vissuta felicemente con Bo e la sua perdita. Un ritornare al proprio passato per poi definitivamente lasciarlo andare per buttarsi nel presente, in
quella vita nomade che ormai è la sua.
Un’indimenticabile ritratto di donna in cammino per necessità ma non solo. Voglia di libertà, di orizzonti più ampi, senza confini né limiti, fuori dai disastri della società dei consumi, dell’apparenza e dei falsi bisogni.
Come i suoi paesaggi aridi e pietrosi il film si mostra essenziale nei dialoghi, scarni, e forte nelle emozioni poco raccontate: uno sguardo, un gesto, un atteggiamento bastano.
Tutto questo la regista me lo ha trasmesso intensamente insieme al rispetto e all’empatia per quel mondo e i suoi personaggi.
Nella riunione di VD3 di domenica 18 aprile ho consentito con la visione di Lia Cigarini sulla politica della differenza come politica unica, di donne e uomini, con la mediazione – che il femminismo ha rafforzato con la relazione tra la madre e la figlia – che la madre esercita con il mondo degli uomini. Spero di avere capito bene.
In effetti le donne hanno padri fratelli mariti e figli (maschi) per cui sono naturalmente in legami profondi con i maschi. Trasmettere questo sapere e competenza e disinvoltura alle figlie è frutto da tramandare. Consaputo possibilmente, come il femminismo permette.
Nella attuale cultura occidentale e forse mondiale in cui i maschi, con la ideologia della uguaglianza o almeno della parità, intendono annullare la differenza sessuale (non sto a specificare come si riduca a essa ideologia della uguaglianza la pluralità delle differenze: ultima loro tecnica per annullare l’unica differenza materiale, genere e specie, che ci riguarda) un bell’esempio ieri ce lo ha offerto la nostra politica casereccia, in cui il padre di un ragazzo, presunto stupratore con gruppo, lo difende attaccando insieme la ragazza vittima.
Niente so. C’è un video, e c’è una avvocata della vittima che lo avrà visto, a difenderla.
Ma vorrei porre la questione sul piano di parità e differenza.
La ragazza partecipa a una festa con altri amici. Questi a un certo punto “sforzano” un rapporto sessuale di gruppo nei suoi confronti.
Tesi difensiva dei maschi: erano tutti insieme, amici, uguali, il rapporto sessuale non è violenza, c’è accordo.
Tesi accusa: la differenza esiste, amici in uguaglianza fino al punto in cui comincia la violenza.
Voglio vedere come la bravissima avvocata, non troppo femminista, si servirà dell’argomento uguaglianza/differenza.
In effetti, alle magnifiche (senza ironia) argomentazioni di Lia, Rinalda Carati ha opposto, nel suo intervento, che sussistono contraddizioni reali: in una politica unica della differenza che ancora è tutt’altro che governante grazie alla mediazione della madre.
Per altre mie esperienze personali sono d’accordo con Rinalda.
Anche se d’altra parte so, nel mio rapporto con figli maschi, che quella mediazione – in parte! – funziona.
Affermare che è il momento, per le donne, di farsi avanti, di entrare ‘di peso’ in tutte le questioni che riguardano il vivere e la società può sembrare un azzardo, specie nei tempi difficili che ci impone la pandemia. Eppure ogni giorno noto avvenimenti dove mi sembra che questa direzione sia già tracciata e in parte operante. Sempre più donne, spesso giovani donne, occupano posizioni di grande rilievo e di potere nelle istituzioni pubbliche e private, nella produzione di beni e servizi, nella ricerca medica, quella tecnologica e nei media. Possono davvero influire su come orientare il futuro.
Questa avanzata delle donne così significativa non dovrebbe sorprendere più di tanto. È il risultato di ciò che il movimento femminista ha avviato a partire dagli anni ’70: una presa di coscienza femminile che ha portato sia a nuovi comportamenti nel rapporto uomo-donna, sia a importanti leggi volte non tanto a dare diritti, ma a togliere pesanti divieti patriarcali (il divieto di controllare le gravidanze con gli anticoncezionali o di rifiutare una maternità indesiderata, il potere indiscusso del pater familias, l’impossibilità di sciogliere il legame matrimoniale, l’adulterio considerato reato solo per le donne, l’omicidio e la violenza verso donne legalizzati… e altro ancora).
Questo ha portato le giovani di allora a volere l’autonomia economica – da qui l’entrata massiccia nel mondo del lavoro – e a desiderare di dire la propria sui destini della società.
Un fatto così eclatante poteva forse non riverberarsi sulle figlie che, oltre alla grande relativizzazione dell’autoritarismo paterno, hanno trovato davanti a sé esempi di madri che hanno affermato l’indipendenza e si sono poste verso il femminile in maniera valorizzante (a fronte di una lunga storia dove il più delle volte tra madre e figlia c’era svalorizzazione e conflitto)?
Ecco, io penso che oggi siamo a questo punto, con una presenza femminile – di giovani e meno giovani – fortemente determinate a non accettare più di essere invisibili o assenti nella dimensione sociale/extra familiare. In tutto ciò favorite, le più giovani, anche dall’alta scolarizzazione e dai risultati brillanti, più brillanti di quelli dei maschi. Perché le donne sanno – consapevolmente o meno – che lo studio/la conoscenza è una potente arma di riscatto. Non a caso tanto è stato fatto e ancora si fa nel mondo per vietare alle donne di andare a scuola!
Si pone però una questione: cosa portiamo nella società? Emerge un punto di vista femminile di fronte ai drammatici problemi che il presente ci consegna (disuguaglianze mondiali, guerre, crisi climatica, ecc.)?
Qui il mio ottimismo rischia di farsi più incerto, forse perché la cronaca, specie quella che ci mostra il modo di procedere delle donne impegnate nella politica istituzionale, ci offre uno spettacolo desolante di battaglie per essere ‘in quota’, di incapacità a mettersi insieme per contare, di scarso o nullo riferimento ai contenuti che il movimento femminista ha finora elaborato.
Tuttavia, nonostante questo sentimento un po’ debilitante, come dicevo ritengo che oggi sia proprio il momento di farsi avanti e far valere quel patrimonio di conoscenze che abbiamo accumulato e che ogni giorno arricchiamo attraverso la nostra esperienza e il confronto tra donne.
Ci sono due questioni – tra le tante sulle quali abbiamo cose molto importanti da dire e da realizzare – che desidero qui sottolineare. Una riguarda il lavoro, l’altra il concetto/l’idea di parità.
Per quanto riguarda il lavoro, se per qualche aspetto la pandemia fa temere trappole e pericolosi arretramenti per le donne, per altri si sta rivelando come un momento politico molto interessante. Mai come ora si è parlato di lavori indispensabili che le donne svolgono: nella sanità, nell’istruzione, nei servizi alla persona, nella distribuzione. Nello stesso tempo, il lavoro trasferito nelle case con lo smart working ha svelare l’intreccio che c’è tra lavoro per il mercato-retribuito, e lavoro domestico-familiare. E, cosa ancora più importante, ha mostrato l’imprescindibile funzione di ‘perno’ che le donne svolgono nel tenere insieme questi due mondi.
Proprio perché le due facce del lavoro – quello per il mercato e quello domestico-familiare, genericamente definito ‘di cura’ – e l’iniqua ripartizione tra uomini e donne sono diventati così evidenti, oggi si presenta l’occasione di mettere in discussione la storica divisione del lavoro su base sessuale.
Questa esperienza femminile del lavoro (esperienza del ‘dentro’ e del ‘fuori’ per usare un’espressione antica) non va vista come uno svantaggio, ma come la fonte di un punto di vista potente che rimette in ordine le cose. Per dirla con Ina Praetorius:“Ci consente di pensare all’economia in una prospettiva post-patriarcale, annullando la bipartizione tra sfere alte e basse, primarie e secondarie” (Penelope a Davos. Idee femministe per un’economia globale, Quaderni di Via Dogana, Milano 2011).
Come sostenevamo già 10 anni fa nel Manifesto “Immagina che il lavoro” della Libreria delle donne, vogliamo/possiamo cambiare la definizione stessa di lavoro: lavoro non è solo quello per il mercato. Il lavoro è molto di più. È tutto il lavoro necessario per vivere.
Portare avanti questo concetto vuol dire sottolineare come il nesso vita-lavoro riguardi tutti, uomini e donne. Non si tratta di ‘conciliazione’, dove il soggetto implicito è sempre lei, la donna e il quadro di riferimento economico e organizzativo rimane immutato. La prospettiva è quella di un ’change’ profondo, è la chiamata in causa precisa e circostanziata degli uomini e del costrutto socio-economico pensato esclusivamente in chiave maschile.
Se il lavoro è una specie di cartina di tornasole dove il punto di vista femminile può emergere con grande nettezza e portare cambiamenti di grandi dimensioni, c’è una questione ancora in parte dominante oggi che invece porta confusione e rischia adi annullare proprio il punto di vista delle donne. È la questione della “parità di genere”. È Il mantra della parità, il linguaggio della parità.
Perché le donne, soprattutto quelle impegnate nella politica e nei media, ma anche in gran parte le giovani, inquadrano desideri, richieste, conquiste di libertà femminile come conquiste di parità? Perché resta fisso nella mente il punto di riferimento maschile come obiettivo da raggiungere? Dove va a finire l’irriducibile differenza di essere di sesso femminile e l’esperienza storica che non è solo di sottomissione, ma è anche sapere, conoscenza, appunto quel punto di vista che per secoli è stato assente o silenziato?
Mi sono data due spiegazioni che spesso interagiscono tra loro.
La prima è che si tratti di una povertà di linguaggio. A questo riguardo ho in mente soprattutto le giovani, la maggior parte ignare di ciò che il femminismo ha elaborato finora e sensibili al linguaggio sintetico-semplificato-sloganistico dei mass media. Il che non vuol dire, necessariamente, che aspirino ad essere come gli uomini/fare come gli uomini. In realtà il più delle volte vogliono realizzarsi, fare un lavoro che piace, costruire una vita armoniosa e non subire discriminazioni perché donne. In un certo senso, e lo dico con tenerezza, non hanno le parole per dirlo visto che nella pratica non sono affatto mimetiche e raramente hanno come ideale i coetanei maschi.
La seconda spiegazione, che attribuisco maggiormente alle donne impegnate nella politica e nei media, è che l’arroccamento intorno alla “parità di genere” in realtà vuol dire tacitare il conflitto tra i sessi, che invece c’è, e delegare alle leggi il compito del cambiamento. L’azione in questo caso si focalizza infatti prevalentemente su interventi normativi parificatori, cioè sul produrre leggi che eliminerebbero la distanza tra uomini e donne in termini di diritti. Rimuovendo nel medesimo tempo la differenza sessuale come se fosse un elemento ininfluente, marginale, privo di conseguenze.
Ci sarebbe piuttosto da chiedersi perché le norme a tutela delle donne, che in Italia non mancano (dalla Costituzione, ai diritti civili, alle leggi di parità e pari opportunità) abbiano così poca efficacia, non vengono applicate e sono poco utilizzate dalle donne stesse.
Il fatto è, ed è noto, che le leggi non bastano e arrivano quasi sempre dopo, cioè ratificano qualcosa che già si sta installando nella società. In più, nel caso di noi donne, la legge fa i conti con un sedimentato materiale e culturale millenario rispetto al quale solo la presa di coscienza di che cosa significa e quali sono le conseguenze della gerarchia sessuale che si è imposta nel mondo potrà davvero imprimere quel cambiamento di libertà a cui le donne aspirano.
Resta aperta dunque la questione del “come” farsi avanti – in termini di pratica politica e di contenuti – rispetto alla quale penso che (anche) il femminismo storico abbia molto da dire a da far sapere.
Il potere, ci ha ricordato Dominijanni, tende a consolidarsi e a cercare di occupare tutta la scena mentre l’autorità consiste nel produrre una trasformazione continua di sé e dell’altra/o in modo relazionale, quindi è mutevole e quasi invisibile.
Quali possono essere i modi per mostrare le pratiche di autorità perché non si creda che tutto il vivente sia occupato dal potere e perché cresca autorità femminile nel mondo?
Innanzi tutto ho imparato a riconoscere i passaggi che rendono possibili alcuni miei successi e trovare forme contestuali per raccontarli. Il mio desiderio è legato al fare al meglio quello che è necessario sia fatto da me, mettendo in gioco quello che so fare e sviluppando quello che potrei fare. Si rafforza l’impegno e le mediazioni per realizzare quel progetto condiviso perché lo considero parte del progetto più grande del cambio di civiltà. Lo penso come occasione perché le relazioni che via via si intrecciano facciano crescere la mia libertà generativa e quella di altre coinvolte (o anche altri). Oso proporre ma non impongo a chi lavora con me quello che ritengo più opportuno, motivo le mie proposte e cerco soprattutto condivisione e possibilità per ciascuna di dare il meglio di sé. Sto indietro se l’altra è più adatta, non cerco che appaia tutto quello che faccio per la buona riuscita. In questa fase sono importanti i riconoscimenti verbali e scritti, duali e nel gruppo di lavoro, offerti e ricevuti, in cui nominiamo ciò che ciascuna vede del contributo dell’altra. Quando il progetto è realizzato rimane la ricchezza della relazione e rimane aperta la possibilità di proporci l’una all’altra nuove occasioni.
Quando un’altra (o un altro) mi fa complimenti per la buona riuscita, racconto i passaggi che l’hanno resa possibile perché non creda sia frutto di straordinarie doti personali ma veda cammini percorribili. Graziella Bernabò mi è stata maestra di consapevolezza con i suoi racconti sui modi sempre attenti e relazionali con cui lei ha creato le biografie di Antonia Pozzi ed Elsa Morante e i molti incontri prima e dopo su queste due scrittrici.
Se una si rivolge a me per una pratica di scrittura in relazione è perché interessa a entrambe che il testo riesca a dire il nuovo che lei cerca di dire e che venga reso pubblico. In questi casi offro le mie osservazioni, prima e durante la scrittura, sia su ciò che risuona in me e su ciò che mi è oscuro, sia su come è espresso, incrociando il tutto con le mie esperienze di vita. La premessa è sempre: io sarò sincera, tu chiedi se non ti convinco ma poi sei libera di trasformare il testo in modo che corrisponda alla tua verità.
E questo è ciò che cerco anche quando mi confronto su quello che sto scrivendo.
Il modo con cui rendere visibile la scrittura in relazione varia: dalla doppia firma ai ringraziamenti con una frase precisa nei libri, a una nota, a un inciso nel testo, a un discorso in pubblico, a un riconoscimento in un piccolo gruppo o temporaneamente tra noi due, forme che rendono viva e visibile la circolarità del dono di origine materna (Genevieve Vaughan) e aperta la possibilità di nuovi scambi anche con altre, facendo crescere, in questo caso, l’autorità autoriale femminile.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 “La politica delle donne è politica“, 18 aprile 2021
A dire la verità, io per tutta la vita mi sono tenuta alla larga dalla politica istituzionale, anche quando mi è capitato di ricevere offerte al riguardo. La sentivo respingente per la macchinosità, le forme codificate fin nel linguaggio, i rituali… Neppure amavo seguirla sui giornali, annoiata dal continuo teatro monosex. Solo da poco si è risvegliato in me un interesse a seguirla, da quando, soprattutto sulla scena internazionale, sono comparse ai massimi vertici donne che sembrano puntare più sull’autorità che sul potere.
È un cambiamento inaspettato che apre a molte questioni da interrogare e approfondire sul piano teorico e politico, e che ripropone pressantemente un’interlocuzione con gli uomini: siamo, infatti, in una transizione di civiltà in cui tutto si muove e si evolve rapidamente.
Gli elementi in gioco sono: la politica, il potere, l’autorità. È necessario riprenderli in mano e distinguerli, uscire dalle identificazioni e dalle confusioni, per trovare altre combinazioni possibili che aprano a effetti di libertà e non di dominio.
Per quella mia sensazione respingente ho trovato una spiegazione nelle parole di Diana Sartori quando argomenta che con la modernità si è affermata una visione artificiale della politica e intende con questo lo Stato come macchina artificiale, regolata da tecniche di potere. Maschile. Citando Hannah Arendt, Sartori dice che la quintessenza della condizione umana è la terra, la nostra natura terrestre, ed è la negazione di questa condizione, il desiderio di “evadere dalla prigione terrestre” che porta a sostituirla con qualcosa di “artificiale”, perché così, essendo fatta da noi umani, è più controllabile e dominabile. Questa è per Diana Sartori, in Indizi terrestri, la matrice di quel modo di pensare la politica e il potere identificandoli e riducendo sia l’una che l’altro alla logica mezzi-fini dell’agire strumentale e del dominio.
Mi sembra che oggi l’identificazione tra politica e potere sia diventata un campo di battaglia, la cui posta in gioco è quella di sciogliersi da un abbraccio mortifero per andare verso qualcos’altro che è tutto da costruire. Per lo meno a considerare le vicende del più grande partito del centro sinistra italiano che su questa questione ha visto prima le dimissioni del segretario che “si vergognava del suo partito che da 20 giorni si occupava solo di poltrone”; e poi il discorso di apertura del nuovo segretario che ha affermato: “se diventiamo il partito del potere moriamo”, e ha chiesto di diventare un partito aperto.
Quanto sia mortifero esaurire la politica nella lotta per il potere e la distribuzione delle cariche è questione che riguarda – o almeno dovrebbe riguardare – anche le donne di quel partito. Nel dibattito seguito alla mancanza di ministre PD nel governo Draghi, da più parti sono infatti arrivate critiche che riguardavano proprio l’avere “la stessa vocazione governista tipica dei maschi” (Gad Lerner, Le lacrime delle donne PD, “il Fatto Quotidiano”, 17 Febbraio 2021 ) oppure lo stare “aggrappate come ostriche” alle correnti. (Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi, Una rivolta già (troppo) vista, “DeA | Donne e Altri”, 19 Febbraio 2021 ). Anche nello scontro successivo tra Debora Serracchiani e Marianna Madia per il ruolo di Capogruppo alla Camera, si è riproposta la questione, e in modo ancora più grave, se accettiamo la lettura di Nadia Urbinati che vede le donne diventare “segnaposti” delle fazioni guidate da uomini (La faida Madia-Serracchiani ci dice poco sulle donne ma molto su cos’è il PD, “Domani”, 29 marzo 2021 – ).
La domanda da porci e da porre alle donne che vogliono giocarsi su quel terreno è: perché accontentarsi di fare le replicanti dei politici maschi quando a portata di mano c’è la scommessa più grande di aprire strade fino a ieri impensate in quei territori? Di cambiare l’idea stessa di politica e di potere? E subito dopo chiederci: come rendere praticabile questa scommessa?
Intrecciata con questa, l’altra questione che attraversa la vita associata è quella dell’autorità, o meglio della sua mancanza e della sua confusione con il potere. Hannah Arendt dice che l’autorità è “scomparsa dal mondo moderno” e in effetti vari intellettuali che oggi parlano della sua crisi continuano a pensarla solo intrecciata con il potere. Marramao, per esempio, ha fatto come diagnosi del presente “La ‘crisi di autorità’ di una élite che, incapace di essere ‘dirigente’, si è ormai ridotta a pura dominatrice e detentrice della ‘forza coercitiva’” (Gli effetti violenti di un potere privo di autorità, “il manifesto”, 21 gennaio 2021 ). Ma il fenomeno nuovo è che anche “qualche maschio – come nota Alberto Leiss – persino tra quelli che sono immersi nella logica e nel linguaggio dell’informazione e della politica istituzionale, si accorge di quanto pesi in ciò che accade la dialettica dei sessi, e in particolare la crisi dell’autorità specificamente maschile di cui siamo tutti e tutte spettatori e spettatrici”. (Uomini che se ne accorgono, “il manifesto”, 26 gennaio 2021).
È questo il punto: la crisi riguarda l’autorità maschile. Storicamente per gli uomini autorità e potere si confermano reciprocamente e l’autorità ha assunto una forma gerarchica che poggia sulla non libertà di chi vi è sottoposto. Il modello è stato il pater familias. Io, avendo avuto un padre autoritario, lo so bene e ne porto ancora le cicatrici. Ora però quell’autorità gerarchica si è disfatta. Come scrive Marcel Gauchet in La fine del dominio maschile,si è liquefatta la figura paterna che “era il punto nevralgico del dispositivo, avendo il compito di garantire l’articolazione tra la cellula familiare e l’organismo sociale” (p. 29).
Secondo Arendt – e io sono d’accordo con lei – gli esseri umani hanno bisogno dell’autorità, le comunità hanno bisogno di autorità. Penso che oggi la pandemia abbia accentuato questo bisogno. Dobbiamo poterci fidare di chi si occupa di scienza e di medicina. Attualmente il riferirsi alla comunità scientifica è diventato parte integrante delle scelte politiche del governo. La ricerca di autorità è ipotizzabile come movente anche in scelte politiche recenti quali Draghi come presidente del consiglio e Enrico Letta alla guida del PD. Molto hanno pesato il prestigio e il credito di entrambi. Ma queste scelte rischiano di essere illusorie o di conservare l’esistente se non si avvia una profonda e radicale trasformazione della vita politica.
Sulla politica e sulla distinzione tra autorità e potere molto si è pensato e praticato nel femminismo della differenza, a partire da una scelta di fondo che è stata quella della distanza dal potere. Scelta che ci è stata spesso rimproverata e che oggi sembra da rimettere in discussione. Io penso che non va rinnegate, ma ripensata al presente, secondo quanto dice Luisa Muraro, nel volume di Diotima Potere e politica non sono la stessa cosa: la distanza si esprime oggi nell’indipendenza simbolica dal potere. E aggiunge: “a questa non si arriva senza il lavoro della presa di coscienza e senza la pratica del partire da sé. Che vuol dire: mettendo fine alla cieca identificazione di sé con il centro di gravitazione di tutto e mettendo al centro lo scambio tra sé e le-gli altri” (p. 10)
Questa presa di coscienza è indispensabile e, se guardiamo alla scena politica internazionale, ci sono segni che si stia diffondendo, perché ci sorprende positivamente il fatto che alcune donne ai vertici del potere mettano al centro lo scambio con le altre e gli altri, come risulta dall’intervista a Christine Lagarde pubblicata da Io Donna (Christine Lagarde: “Ho le doti delle donne: sono paziente e inclusiva”, di Alison Smale and Jack Ewing, 3 gennaio 2021 – ).
Dunque quella scelta fatta ormai cinquant’anni fa ha portato guadagni significativi che si possono rigiocare nel presente per la trasformazione della vita pubblica. Dell’autorità, infatti, il femminismo della differenza, in questi decenni, ha elaborato non solo l’idea, ma anche le pratiche politiche. La pensa come una qualità della relazione che si gioca in un rapporto diretto, costruito sulla fiducia e la stima. Io stessa da molto tempo mi muovo nel mondo consigliandomi con un’altra di cui mi fido, riconoscendo ciò che di meglio ha l’altra, e a mia volta accettando di essere di supporto per il desiderio di un’altra.
Proprio perché c’è autorità oggi è possibile tenerla in combinazione con il potere in un gioco consapevole.
Anche il potere c’è. Non è possibile espungerlo dalle nostre vite, per come sono strutturate le nostre società. È il caso invece di prendere coscienza del potere che si detiene, almeno per la posizione che si occupa nella vita associata. Io ho fatto l’insegnante per tutta la vita e so bene che l’insegnante ha a disposizione una certa dose di potere, può bocciare o promuovere, per esempio. Dalle relazioni di potere non sono certo escluse le associazioni volontarie o i luoghi delle donne. Come redattrice di Via Dogana so che ho il potere di pubblicare o rifiutare un articolo.
In ogni situazione sociale in cui ci troviamo possiamo agire prendendo la strada del potere connaturato alla funzione – e così facendo si perpetua la struttura esistente –, oppure aprirsi alla politica, così come l’hanno pensata e praticata le donne, intesa come trasformazione di sé e del reale. Si può agire a partire da sé e nello scambio con altre e altri in qualunque luogo ci si trovi a essere, che sia una scuola di periferia, un’università, un’azienda, un’associazione di volontariato, un partito, il consiglio comunale o il consiglio dei ministri. Come ho potuto sperimentare nel movimento di autoriforma, che ho contribuito a creare, significa anche aprire conflitti su ciò che non va, costruendo reti allargate di scambi a livello nazionale.
Proprio da queste esperienze di pratiche condivise nella scuola e nell’università, è scaturito il massimo di autorità con il minimo di potere. E forse non è un caso perché l’insegnamento è il contesto in cui è più forte il bisogno di autorità.
Vuol dire che non ci sono due scene, una per l’autorità e una per il potere, una buona e l’altra cattiva, ma una sola scena, quella pubblica, in cui autorità e potere stanno insieme in una combinazione sbilanciata, sempre variabile, con un punto di leva che permette il gioco.
Nella mia esperienza il punto di leva è stato esserci con la mia soggettività. Per una donna, quindi, si tratta di portare nel luogo dell’esercizio del potere, piccolo o grande che sia, l’essere donne, l’essere quella donna lì, con le proprie modalità e il proprio desiderio. Questa mossa apre a un’alchimia in cui si fa spazio per la libertà, la propria e quella di chi condivide la situazione: può essere un piccolo gruppo come è una classe scolastica oppure gruppi e situazioni molto più ampie, fino a un intero popolo. Io l’ho verificato di persona un gran numero di volte nelle mie classi e nell’autoriforma, ma lo vedo anche in donne che gestiscono la vita pubblica. Se guardiamo in quest’ottica l’arcinoto esempio della gestione della pandemia in Nuova Zelanda, notiamo subito che la presidente Jacinda Ardern si è presa la libertà di dire e mettere in atto quello che lei riteneva un buon modo di affrontarla e questo ha permesso alla popolazione di aderire consapevolmente alla sua proposta. Un altro esempio di combinazione sbilanciata dalla parte dell’autorità è quello della ministra del lavoro del governo spagnolo, Yolanda Diaz, che in poco più di un anno ha portato a casa notevoli risultati, l’ultimo riguarda i rider che sono diventati in Spagna ufficialmente lavoratori dipendenti. Il giornalista, Luca Tancredi Barone, parla di lei con ammirazione e della sua gestione annota: “Sempre con fermezza e con il sorriso, senza mai una parola fuori posto, senza che nessuno dei negoziatori, né dalla parte dei sindacati, né della confindustria, si alzi mai dal tavolo delle trattative”. (In Spagna i rider diventano ufficialmente dipendenti, “il manifesto”, 12 marzo 2021).
Penso che il criterio del massimo di autorità con il minimo di potere possa essere accolto anche dagli uomini. Non solo da quelli che insegnano, come è già successo nell’autoriforma gentile, ma anche da uomini impegnati nella vita pubblica, proprio perché qualcosa sta veramente cambiando. E, come si sa, i fatti di natura simbolica possono mutare molto rapidamente.
Marcel Gauchet parla della fine del dominio maschile come di una “rivoluzione tranquilla” in cui anche “i presunti perdenti hanno guadagnato” e sostiene che “la verità è che questa fine ha rappresentato la liberazione di un fardello anche per loro” (p. 49). In effetti analizza come nella modernità, a differenza di altre epoche, la dimensione del pubblico sia diventata il tratto distintivo della maschilità e che sia “un ideale particolarmente esigente, visto che nella ricerca del bene comune o nel compimento della missione loro affidata chiede ai titolari di tali funzioni di astrarsi il più possibile da se stessi”.
Penso quindi che uscire dalla serialità burocratica e dalla ripetizione, tornare ad esserci con la propria soggettività e parzialità, con le proprie caratteristiche umane, può essere liberante e avvincente per uomini che hanno a cuore il mondo.
Mi azzardo a dire che ho intravisto qualcosa di questa alchimia nel presidente del consiglio Giuseppe Conte nel passaggio dal primo al suo secondo governo. Sotto la pressione della pandemia ha perso parecchi dei suoi tratti di esercizio burocratico e notarile del potere e ha messo in gioco più se stesso e questo gli ha fatto acquistare maggior credito, anche ai miei occhi.
In passato a una politica contestuale che partisse da sé e fosse trasformativa attraverso le relazioni sono state rivolte le accuse di essere impolitica o prepolitica. Ora invece vedo in atto una trasformazione dell’idea stessa di politica nella direzione presa dalle donne cinquanta anni fa.
Un segnale importante di questo processo viene da una storica, Silvia Salvatici, quando, parlando della Conferenza di Pechino (1995), sostiene che l’empowerment femminile “non voleva dire portare semplicemente le donne nei luoghi costituiti del potere. Ma portare il potere nei luoghi delle donne: associazionismo, società civile, reti. Il primo tipo di empowerment è un cambiamento importante, ma non è ancora quella trasformazione dell’idea di politica che è storicamente il valore più profondo dell’impegno civile e pubblico delle donne” (intervista in È stato il decennio del #Metoo. Ma le donne riusciranno a cambiare il potere? di Elena Tebano, 27esimaora.corriere.it, 5 marzo 2021 – ).
Forse anche innescato dalle restrizioni della pandemia, nella società c’è un risveglio e cresce il desiderio di nuove forme della politica e della democrazia. Ne sono esempi il “sindacato di strada” proposto da Landini, oppure l’ampio dibattito sulle pagine del manifesto dall’inizio dell’anno attorno alla parola “Isocrazia”, intesa come “capacità e potenza di cui dispongono egualmente tutti i cittadini” (Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga, Se la politica è impotente, i corpi intermedi possono rianimarla, “il manifesto”, 19 dicembre 2020). Oppure il numero speciale dell’Espresso di fine marzo titolato L’altra politica, in cui l’editorialista, Marco Damilano, sostiene, con il supporto di Zerocalcare, che è politica quella della società che si auto-organizza nei quartieri periferici ad opera di associazioni e comitati. È l’Altra Politica.
Annie Ernaux di recente ha affermato che la fine della pandemia “porterà a una resa dei conti nella nostra società” (intervista di Massimiliano Virgilio, Fanpage, 19 febbraio 2021). Siamo alle soglie di qualcosa, non sappiamo cosa accadrà e tanto meno lo possiamo controllare. Molte questioni sono aperte ed è un buon momento per giocarsi la carta migliore: un’idea di politica che arriva fino alla singolarità e che è effettivamente trasformativa della società.
Riferimenti bibliografici:
– Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 2017.
– Luisa Muraro, Introduzione di una idea, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009, pp. 5-13.
– Diana Sartori, Indizi terrestri, in Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009, pp. 15-51.
– Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile, Vita e Pensiero, Milano 2019.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 “La politica delle donne è politica“, 18 aprile 2021
A differenza dell’amica di Foscolo caduta nobilmente da cavallo io sono caduta a causa di un marciapiede dissestato di Milano. Spero di essere rimasta lucida e di poter contribuire alla discussione di oggi. Partirò con tre citazioni di passaggi che sono a mio parere fondamentali nella storia della politica della differenza.
Il primo è di Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel (1970): “la differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo?”
Il secondo è un’affermazione del gruppo del Martedì della Camera del Lavoro di Brescia in un testo pubblicato nel Sottosopra intitolato Filo di felicità (1989). Cito: “troviamo difficile analizzare come nasca effettivamente la nostra forza. La sua fonte è femminile, questo è sicuro ma è generico, oltre che oramai risaputo. Noi non abbiamo rivendicazioni o richieste da avanzare nei confronti del sindacato. Noi vogliamo essere il sindacato di donne e uomini, il sindacato che tiene presente la differenza sessuale a tutti i livelli. Se si accetta di ridurre la differenza sessuale a un semplice calcolo matematico, a un riequilibrio di presenza, si indebolisce la possibilità di mantenere aperto un conflitto che è politico”.
Il terzo, infine, è contenuto nel primo numero della seconda serie di Via Dogana cartaceo (1991) con il titolo La politica è la politica delle donne. Cito: “ora ci muove una nuova scommessa: mettere fine al dualismo per cui la politica delle donne sarebbe una politica accanto a un’altra, detta maschile o neutra, e dare luogo a una vera politica della differenza sessuale”.
Ci sono più modi per intenderla. È sicuramente sbagliato il modo della spartizione del condominio accanto agli uomini, alle loro condizioni e cioè all’inserimento di cui parlava Carla Lonzi.
Dove è lo sbaglio? Noi stesse abbiamo detto: i sessi sono due, il mondo è uno. L’errore forse è stato nella teorizzazione della parzialità. È stato giusto avanzare l’idea di parzialità per criticare l’universalismo maschile che cancellava, con la differenza sessuale, l’esistenza stessa delle donne. Ma poi questo concetto è stato applicato all’essere donna e alla politica delle donne presentandola come qualcosa di parziale. E questo è sbagliato.
Per concludere: la politica della differenza sessuale non è quella che pensa e organizza il reciproco limitarsi di donne e uomini, ma quella che pensa e organizza liberamente la realtà sociale in cui ci sono donne e uomini.
Si è parlato molto in questi ultimi anni, direi più intensamente a partire dalla crisi del 2008, della morte e del lutto della politica.
Io vorrei sottolineare con forza che la politica in crisi è quella maschile. Dire questo non solo libera lo sguardo sulla politica che è quella delle donne, ma anche sull’insufficienza della risposta che hanno dato gli uomini. Che non hanno saputo partecipare al conflitto tra i sessi con la lucidità che era divenuta indispensabile. La stragrande maggioranza si è chiusa in un narcisismo sempre più sfrenato. È da lì, dagli anni ’70, che la politica maschile ha cominciato a disgregarsi e a perdere la lingua ricca della politica che produceva cultura rendendo così più colti tutti quelli che partecipavano alla lotta politica. Mentre sottolineo la ricchezza della lingua della politica della differenza che dall’inizio degli anni ’70 ha prodotto narrativa femminile dalla quale ha preso poi suggestioni e nutrimento così come dalla relazione con artiste, storiche, scienziate, insomma un nutrimento reciproco.
Abbiamo guadagnato con la pratica politica quello che andavamo creando man mano, ad esempio i luoghi delle donne, eccetera, e abbiamo fatto anche guadagni teorici. Tre esempi: il primo riguarda la relazione tra soggetto e oggetto, si è capito che la loro separazione è artificiosa e che fissare gli obiettivi prima di essersi messe alla prova è ingannevole. Secondo, abbiamo capito anche che il desiderio nel fondo non ha un oggetto. Il desiderio è l’essenza più vitale dell’essere umano. Il terzo esempio riguarda le leggi. Si crede spesso erroneamente di risolvere problemi della vita soggettiva e sessuale con una legge. In questa materia la legge non fa presa: il diritto non si invera. Anzi si fa confusione. Questo sapere ci ha suggerito un’idea di fondo: non si può omogeneizzare le persone con leggi uguali per tutti. Questo suona come un paradosso, è in realtà un tenere conto della singolarità personale (non dico di più per motivi di necessaria brevità).
Solo pochissimi uomini si sono confrontati con il pensiero e la pratica politica delle donne. Penso al Gruppo Identità e differenza (di Spinea) messo in piedi da Adriana Sbrogiò che per venti anni ha fatto degli incontri misti a Asolo e Torriglia. Poi il Gruppo di Pinerolo (Torino) e quello di Viareggio e infine Maschile Plurale.
Faccio un esempio attualissimo di sordità totale di alcuni uomini rispetto alla politica della differenza: Enrico Letta, segretario del PD, per risolvere il problema che il suo partito non aveva indicato delle donne per le cariche di ministro, ha dichiarato che avrebbe dato più spazio alle donne indicandone una per la carica di presidente del gruppo parlamentare e altre come sottosegretarie. Perché, se no, avremmo fatto un’ulteriore brutta figura in Europa. Al che un ceto politico femminile che sembra non sappia nulla delle lotte delle donne, del femminismo, salvo le quote quando ci sono incarichi in vista, davanti alla miseria di questa argomentazione di Letta non ha avuto una reazione significativa e c’è stata solo una bega tra loro donne.
Durante la pandemia molti hanno parlato di un necessario cambio di civiltà – anche se non pensano alla libertà femminile e rimuovono il conflitto tra i sessi – per due ragioni: il disordine ecologico del pianeta Terra e l’ingiustizia nella ridistribuzione della ricchezza. In sostanza si può dire che il capitalismo ha stravinto con la tecnologia ma ha creato delle insopportabili disuguaglianze. Io propongo che sia possibile indicare i primi passi di una strada che solo la politica della differenza, con la pratica del partire da sé e della relazione, può mettere in atto, coinvolgendo degli uomini che sanno che il partito e molte delle istituzioni della politica maschile sono identitarie e non in sintonia con la realtà di oggi.
Comunque già dagli anni ’90 la politica della differenza parlava, chiedeva un cambiamento di civiltà. Scrivevo in un testo del 1997 intitolato Un conflitto esplicito: “questo passaggio di civiltà ha come protagonista un sesso sconosciuto poiché la differenza femminile è fuori dalle attuali categorie interpretanti … l’uguaglianza delimita un campo di valori e di obiettivi da raggiungere: la parità nel salario, nelle carriere, nei diritti, eccetera. La differenza no. Mi dà solo delle leve per capire e fendere l’ordine simbolico: il partire da sé e la relazione invece che l’organizzazione e la rappresentanza. Però ho la sensazione alcune volte … che la differenza pur essendo esperienza profonda di ciascuna donna, si sottrae alla cattura delle interpretazioni. Io credo perché c’è reticenza ad assumerla e agirla nel mondo. Farne un fatto politico non di interiorità”.
Questo pensavamo allora. Adesso aggiungo che l’affermazione di Carla Lonzi è diventata una profezia: abbiamo approfittato come donne della differenza.
Un’inchiesta della rivista Internazionale n. 1399 del 5/11 marzo 2021 riporta che le ragazze traggono forza dal gruppo di amiche con le quali si raccontano esperienze, emozioni, giudizi su quello che succede nel mondo. Cioè fanno autocoscienza. E soprattutto citano le loro madri come modelli di comportamento. Sono libere.
Anche una recente inchiesta pubblicata dal Corriere della Sera mette in luce i buoni rapporti tra figlie e madri. D’altra parte, io stessa ho presente che nel mio gruppo di autocoscienza mentre con il racconto delle nostre esperienze anche le più intime si decostruiva il patriarcato, sentivo affiorare un sentimento diverso rispetto a mia madre.
Questo vuole dire che si è creato un simbolico delle donne: il “tra donne” è diventata la struttura simbolica che dà forza, così come la genealogia femminile, cioè un rapporto di fiducia con una donna venuta al mondo prima di te che può sostenere il tuo desiderio.
Infine, la relazione materna come figura di mediazione tra donne. E io aggiungo come mediazione con gli uomini. E possibile mediazione degli uomini con le donne.
Infatti mentre ragionavo sui temi di questa introduzione mi è venuto in mente che con un amico, Dino Leon, un giurista di valore, c’è stato uno scambio di scritti sulla politica della differenza. Una volta mi è arrivata una lettera che iniziava così: “penso che qualcosa (non so quanto) possa passare anche al figlio maschio. La madre insegna a parlare anche a lui”.
Guarda caso quasi tutti gli uomini che si sono sbilanciati verso la politica della differenza, per esempio Marcel Gauchet, Colin Crouch e Francesco Pacifico, indicano la mediazione della relazione materna nei rapporti tra donne e uomini. Durante il Me-too anche un importante cantante italiano di cui non ricordo il nome in una intervista al Corriere ha detto: se hai un sano rapporto con la madre rispetti le donne.
Qui, in queste semplici parole, io vedo un principio di mediazione per una politica di donne e uomini che metta fine all’umiliante, fuorviante e ossessiva richiesta di parità da parte delle politiche di professione. Ma vedo anche un’ambizione più alta. Che la politica della differenza di donne e uomini possa indicare i primi passi di una strada che affronti il disordine ecologico del pianeta Terra e che metta fine alle crescenti ingiustizie sociali.
Domenica 18 aprile 2021, ore 10.00-13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 18 aprile 2021”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
Questi ultimi anni ci hanno mostrato le forme diverse della forza trasformativa della politica delle donne. Abbiamo visto nel 2017 la Women’s March che è stata il primo passo per togliere credito a Trump. Abbiamo visto il #metoo cambiare la visione della società sulle molestie sessuali. Abbiamo visto le lotte contro l’emergenza climatica nate dall’iniziativa di Greta Thunberg che hanno coinvolto milioni di ragazze e ragazzi in tutto il mondo… Per parlare solo di eventi con risonanza mondiale, che hanno sullo sfondo la diffusione del femminismo e la partecipazione sempre maggiore delle donne alla vita pubblica, a cominciare dal mondo del lavoro.
La politica delle donne è politica per tutte e per tutti. E in mezzo alle presenti minacce per la vita sul pianeta Terra, apre strade fino a ieri impensate. Dove le donne sono arrivate a ricoprire posizioni istituzionali di primo piano, le abbiamo viste gestire la crisi Covid-19 meglio dei loro omologhi in altri paesi. Perché? Quelle donne hanno saputo esercitare autorità, più che potere. Il massimo di autorità con il minimo di potere è un criterio scaturito dall’esperienza viva della gestione della vita associata. Vogliamo oggi riprenderlo e approfondirlo perché sia orientante per donne e uomini impegnati nella vita pubblica.
Avviano la discussione Lia Cigarini, Vita Cosentino e Silvia Baratella
Domenica 7 febbraio 2021, ore 10-13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 7 febbraio 2021”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
La pandemia ha innescato sviluppi irreversibili e conflitti che chiedono un affinamento del pensiero e delle pratiche. Ci vuole anche discernimento, ci sono cambiamenti sbagliati, come quello di cancellare la differenza per paura delle discriminazioni. L’esperienza di quest’ultimo anno ci ha fatto capire la necessità di allargare lo sguardo mantenendo fermo l’essenziale. È ormai chiaro che la visione frammentata del mondo ereditata dalla cultura della specializzazione non corrisponde alla realtà. D’altra parte, e secondo noi non per caso, in ogni ambito della società molte donne, da protagoniste, hanno mostrato un agire imprevisto nel quale sono leggibili i segni di un nuovo futuro. L’esposizione a una situazione mai vissuta prima ha fatto scoprire cose inaspettate non solo fuori ma anche dentro di sé. Ed è proprio da qui che possiamo rilanciare la pratica politica: ancorarsi alla propria verità soggettiva restando in relazione con altre e altri per capire come potenziare la fiducia, con chi cercare nuove mediazioni, quali mosse intraprendere per allargare la politica delle relazioni, come evitare gli schieramenti, come trovare altre forme di presenza pur nella distanza.
Introducono Anna Maria Piussi, Giuliana Giulietti e Traudel Sattler.
Care amiche, quanta confusione in questi giorni. Spero di strapparvi un sorriso anti-depressione dicendo che “preferivo” la situazione ignorante del lockdown di primavera.
Ripenso spesso a quei mesi perché li ho vissuti prendendomi cura (con l’aiuto di Alberto, ma del tutto priva degli altri piccoli aiuti che nella quotidianità precedente – che mi rifiuto di chiamare normalità – mi sollevavano, almeno per qualche ora ogni tanto, da alcune incombenze) della mia mamma novantaseienne, inevitabilmente esposta al bombardamento mediatico sulla brutta fine di tante persone anziane, spaventatissima e, proprio per questo, più richiestiva, più bisognosa, più fragile. È stata in qualche modo una esperienza estrema, che mi ha portata quasi al limite delle mie risorse.
Lì in quella fatica che in qualche momento mi è sembrata senza speranza ho incontrato dentro di me la necessità di distinguere vita e sopravvivenza. La mia amatissima Rosetta Stella mi aveva indirizzata in questo senso, quando diceva, lei lo diceva benissimo, io lo riprendo come riesco, che la sopravvivenza è il contrario della vita. Mi sembra utile da tenere a mente. Intanto perché aiuta a tenere insieme i due estremi di ciò che viviamo nella Pandemia, da una parte l’isolamento e la solitudine, dall’altra l’essere lì tutti quanti insieme in questo passaggio. Le regole che ci vengono indicate attengono la sopravvivenza, mi pare. Individuale, della specie? Non lo so.
La vita invece chiede impegno soggettivo, e rischia ogni attimo di passare in secondo piano, forse perché vita e morte si toccano, è proprio quasi impossibile pensare l’una senza l’altra. Eppure il mondo in cui siamo ha fatto della morte un gran rimosso fino a “ieri”, per poi esibirla nella pandemia.
Si parla moltissimo di razionalità scientifica, di oggettività, della necessità di affidarsi a quel livello di indicazioni. Da un lato capisco, dall’altro provo disagio in proposito: come se mi si chiedesse di spegnermi… Poi mi verrà detto quando “riaccendermi”, ma come sarò diventata in questo “dopo”?
Così molto banalmente cerco di interrogarmi su quello che faccio e di orientare su questa distinzione le scelte quotidiane. È una specie di pratica della Pandemia, mi esercito a cercare dove finisce “vita” e comincia “sopravvivenza”. Cerco di fermarmi su quel crinale, ascoltando la paura e il desiderio, e cercando di confrontare il mio sentire con quello di chi ancora mi sopporta.
Ho ascoltato con grandissimo interesse l’introduzione di Ida Dominijanni all’ultima riunione di Via Dogana, mi è sembrata molto bella: ha segnalato diverse questioni, tutte importanti, che mostrano come molto di quanto detto e trovato nella ricerca del femminismo italiano del quale mi sento parte stiano diventando più visibili nella situazione attuale.
Le parole di Ida a me non sono sembrate un “ricapitolare”. Mi hanno fatto pensare: come possono essere rigiocate, rilanciate quella ricchezza di pensiero e di pratiche?
Segnalo solo – tra le tante cose – quella che a me interessa di più: forse perché mi pare la più ambigua. Come si legano e si slegano tra loro “libertà relazionale”, “spoliticizzazione”, “questione del desiderio” (e dunque dell’erotismo o al contrario della depressione)? Mi sembrerebbe utile, e mi piacerebbe, lavorare sulla trasgressione, questione che – mi pare – attraversa tutte le altre, ma “diversamente” per ognuna. Trasgredire mi sembra molto difficile, in un mondo di narrazioni che rimasticano e digeriscono di tutto, riportando ogni cosa alla normalità, e alla norma. Difficile, ma erotico. Servono anche altre parole, sul cui senso contendere? A me piace molto nominarmi “alterata” (comprende anche ascoltare i sentimenti di indignazione, quando li provo), e mi piace “femminismo della libertà”.
Dove ho sperimentato la libertà in questi periodi di confinamento? Le ordinanze del governo hanno definito via via i comportamenti da tenere. Ho visto obbedienza e ho visto opposizione e protesta. Tra questi due atteggiamenti c’è stata una terza strada. È quella che nel movimento delle donne è stata chiamata pratica delle relazioni.
La libertà è stata resa possibile dallo scambio con le altre. Ma che cosa ha significato in questo anno così particolare in cui il governo ha definito in modo preciso gli atti, i tempi e gli spazi di noi tutti? Mi sono trovata a ragionare con altre e altri – più donne che uomini – per capire in quali situazioni e perché questi provvedimenti fossero sensati e quando risultassero non necessari, al limite superflui, per la salute di tutti.
Sottolineo che non si è trattato di un giudizio individuale. Per questo ritorno sul fatto simbolico che mi sono sentita libera proprio perché mi sono confrontata con altre e altri su quel che era necessario o meno fare. Non contro il governo, ma neppure semplicemente ossequienti. Questo, in situazioni molto precise, ha comportato anche il disobbedire ad alcune regole palesemente inutili o peggio contraddittorie per la salute nostra e altrui.
Si sa che si impara sempre dalle situazioni nuove e questa lo è stata decisamente. Ma non mi aspettavo di imparare che in una situazione di pericolo collettivo mi potevo fidare di alcune amiche e di altre no. Certo non delle amiche che sostenevano bisognasse obbedire sempre e comunque alle disposizioni del governo né a quelle che ritenevano tali regole espressione di strategie di potere. Ho capito che potevo aprire un confronto su quali regole seguire e perché con chi sa ragionare a partire dalle conoscenze limitate che abbiamo avuto a disposizione e contemporaneamente sa dare ascolto e tenere conto dei segnali che il nostro corpo offre. Il lato inconscio del corpo.
Nella politica delle donne parliamo molto di fiducia, ma fiducia è una parola complessa con molti strati di significato. Nel caso che sto descrivendo mi sono fidata di chi aveva una certa indipendenza interiore sia dalle regole governative sia dalle scelte fatte dalla stampa e dai social. Pur tenendo conto di tali regole e tali scelte. Certo, come diceva Elisabetta Cibelli in una discussione di Diotima, fare politica presuppone una apertura di fiducia. Con le mie parole: la scommessa di creare legami di fiducia con chi non conosciamo e con chi è su una strada diversa dalla nostra. È come se fare politica ci rimettesse in sintonia con la prima apertura fiduciosa al mondo. Rinnovasse un inizio. E tuttavia, come ho cercato di far vedere, non è priva di contraddizioni nel farsi dell’esperienza.
Ida Dominijanni osservava nel suo intervento del 13 dicembre che nella politica delle donne la libertà ha a che fare con il desiderio e che il desiderio è sottotono in questo periodo. Osservava anche che alcuni luoghi delle donne vengono tenuti aperti per incontri via video come la Libreria delle donne di Milano. A questo aggiungo di mio che non solo alcuni luoghi di donne mantengono aperto lo spazio di scambio tra donne, ma molti ne stanno nascendo. Questi, se pure nei limiti di uno scambio via video – e accompagnati di frequente dalla pratica della scrittura -, creano le condizioni materiali per un discorso vivo, che è la prima sorgente perché prenda forma il desiderio. Il desiderio del desiderio è già desiderio.
Già al primo lockdown ho avuto la forte sensazione, dapprima soltanto istintiva, che dall’inedita esperienza del distanziamento fisico e della mancanza avrei potuto guadagnare più di ciò che avrei potuto perdere.
Credo che l’origine di quella mia istintiva certezza sia da rintracciare in una scelta: l’atto, anche amorevolmente concepito ma soprattutto politicamente orientato, che ho compiuto circa due anni fa. Non avevo esperienza con la pratica dell’affidamento né con la libertà femminile, però ho potuto leggere ascoltare e cercare di dare un nome al mio desiderio errante, e durante il distanziamento fisico ho fatto un corso di formazione accelerato. Sono una ragazza degli anni ottanta, incline a pensare che sia semplice realizzare i propri desideri. So d’esser riuscita a affrontare l’incontro ravvicinato con la vulnerabilità, con la mancanza di relazioni, con l’accettazione dell’interdipendenza umana, soltanto affidandomi a due donne dentro l’orizzonte della libertà relazionale.
Attraversando l’esperienza della pandemia, tutto il di più che mi viene oggi è cominciato nel giorno in cui ho capito con certezza che avrei dovuto fare un “all in”, avrei dovuto investire tutta me stessa puntando sul convincimento che la donna davanti a me non poteva desiderare altro che il mio bene, seppure magari un bene al primo sguardo incomprensibile, non visibile. Come quando ho pensato di essere libera nel piccolo angolo di gestione della pagina facebook dell’associazione di cui faccio parte tanto da credere di non poter accettare intromissioni in quello spazio. Il silenzio parlante che l’altra ha concesso al mio sguardo miope – che guardava solo alla difficoltà, alla fatica del confronto con tutte e non alla sua proposta di pensiero e scrittura collettiva – mi ha riportata alla necessaria mediazione generando per me nuova gioia. Di parole che arrivano e di silenzi parlanti ce ne possono essere molti, ciò che ha conferito e conferisce consistenza a quei silenzi e a quelle parole è l’incrollabile riconoscimento nella relazione di fiducia.
Affidarmi per me significa questo: ciò che l’altra mi dice o mi mostra ha un significato che mi appartiene; ciò che l’altra mi permette di sapere o di scoprire è se e quanto il mio desiderio mi corrisponda davvero.
È stato difficile fare i conti con quel vincolo, con l’accettazione dell’apparente limite che deriva dal considerare l’altra misura della propria libertà. Tanto più che la quotidianità del mondo come lo conoscevo mi mostrava altro.
In questo tempo però è arrivata la conferma della potenza simbolica che quell’investimento riesce a generare. Oggi affronto le indecisioni anche quando il desiderio si deprime, o quando lo sguardo cede alla mestizia che a volte ci circonda. Quelle relazioni sono fonte di una forza capace di rilanciare i desideri, miei e di altre, e rimetterli in circolo tra molte.
Una consapevolezza tanto chiara e rischiarata mi ha più volte messa di fronte a una domanda precisa: come fare perché la pratica dell’affidamento sia agita in modo da sprigionare tutta la sua portata di cambiamento? La risposta per me di maggior valore è: mostrarla. Mostrare la forza delle relazioni di affidamento tra donne è uno dei migliori investimenti per il futuro della politica.
Quando è scattato il primo lockdown io e alcune amiche stavamo lavorando sui testi di “La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe”. Il nostro scambio si è così bruscamente interrotto. Ci eravamo ripromesse di restare in contatto ma questo non è accaduto. Il disorientamento di quei giorni, lo sconvolgimento della nostra quotidianità, la tristezza e la paura ci hanno di fatto allontanate.
Ma forse, mi sono detta in seguito, non è stata soltanto la pandemia a bloccarci ma qualcosa di più profondo che era già in atto, quel silenziamento del desiderio di cui ha parlato Ida Dominijanni nella sua relazione e che è uno dei temi affrontati in La carta coperta e di cui si è parlato anche in libreria in occasione della presentazione del libro (30 novembre 2019). È chiaro che lo sforzo emotivo, e non volontaristico, cui Ida ci invita per rilanciare il desiderio, nessuna di noi può farlo da sola ma in relazione con le altre. E questa è una bella sfida. Perché il virus continua a circolare e ancora una volta siamo confinate e ancora si contano i morti. La tecnologia può aiutarci e l’incontro Zoom organizzato dalla redazione di Via Dogana 3 lo ha dimostrato. Certamente non è come pensare in presenza ma a ben vedere, rubo l’espressione a Ida Dominijanni, i corpi parlano, si sentono e contano anche dietro uno schermo. L’ho capito dalla gioia che ho provato rivedendo i volti di amiche che non vedevo da mesi, nell’udire le loro voci, nell’ascoltare le loro parole, nei tanti “ciao” che ci siamo scambiate. La pandemia è un evento che ciascuna di noi ha vissuto, patito, elaborato a proprio modo e che ha preso un grande posto dentro di noi, nelle nostre emozioni e sensazioni, nel nostro sentire. C’è una narrazione ufficiale della pandemia portata avanti dal governo, dalle istituzioni regionali e dai media che non solo produce confusione ma che non corrisponde a quello che io provo e vivo in questa vicenda di cui non si vede la fine. Una narrazione che secondo me va contrastata mettendo al mondo altre narrazioni a partire dal nostro sentire e dalla nostra esperienza. Per me è difficile tradurre in parole le tante e discordanti emozioni e sensazioni che il Covid-19 ha mosso e muove dentro di me. Ogni volta che ci provo viene fuori un balbettio faticoso e che assomiglia allo sforzo delle creature piccole quando imparano a parlare. Uno sforzo che impegna e tiene insieme il corpo e la mente. E forse il punto è proprio questo, che bisogna di nuovo imparare a parlare mettendoci di nuovo all’ascolto, in una realtà completamente sconvolta, del nostro inconscio, del nostro sentire, del nostro desiderio. Lo scambio tra noi può ripartire da qui e mentre scrivo mi rendo conto di avere riagguantato il filo di quelle riflessioni sui temi della Carta coperta interrotte da un accadimento imprevisto e da un desiderio assopito. In modo confuso e balbettante, senz’altro, ma sento che qui c’è per me una verità. La pandemia ha scatenato anche nel femminismo molti conflitti, lo ricordava Ida, tra due diverse interpretazioni del lockdown e, dunque, della libertà. Tra chi, come la sottoscritta, lo ha inteso come un atto di autoconfinamento, come una forma di protezione della vita, la mia e quella delle altre e degli altri e chi invece lo ha interpretato come un atto di obbedienza al governo, come una imposizione autoritaria lesiva della libertà individuale e collettiva. Un conflitto così aspro che alcune relazioni si sono spezzate. Che cosa ci è successo? – mi chiedo. E questo è un fatto che non può essere rimosso. Ma va elaborato, portato alla luce, compreso.
La nostra cultura occidentale ci ha abituato a pensare l’essere umano come il dominatore sicuro e inarrestabile che si muove al centro del mondo. I continui progressi fatti nel campo tecnologico e scientifico hanno contribuito a instillare l’idea delle potenzialità infinite di utilizzare la terra con tutte le sue risorse per il nostro sviluppo: quello che ancora non sappiamo o non si può fare oggi, lo si farà domani, è solo questione di tempo, e la padronanza sul mondo sarà una linea in costante ascesa. Il mondo ci appartiene: chi può al pari di noi rivendicare un tale concetto?
Ma in realtà siamo noi che apparteniamo al mondo, così come gli elementi che costituiscono la terra e che condividiamo con gli altri esseri viventi, anche con quei microrganismi invisibili, i virus, che possono parassitare le nostre cellule, alterarne gravemente le funzioni, e diffondersi da una persona all’altra in maniera rapidissima, cambiando tutto: le nostre vite individuali e l’assetto della società in cui viviamo.
Sono proprio le società occidentali più avanzate (Usa Uk Eu) quelle dove, più che altrove, il virus Covid 19 sta portando effetti devastanti e grande disorientamento. Esse si sono fatte cogliere di sorpresa dal virus, non solo dal punto di vista organizzativo (ma chi se non queste società, con i loro alti standard sanitari, avrebbero dovuto sapere cosa fare?), ma anche dal punto di vista esistenziale: non sono state in grado di percepire la vulnerabilità dell’essere umano di fronte alla propria appartenenza alla sfera biologica, quasi accecate da una presunzione di superiorità e invincibilità.
Ancora oggi non si sa esattamente quale siano le risposte più efficaci da dare: si alternano misure restrittive ad allentamenti per rispettare le “libertà individuali”, per salvare l’economia e continuare con i nostri abituali stili di vita. Ci sembra che le restrizioni costituiscano delle incomprensibili “dittature sanitarie”.
Abbiamo dimenticato che noi siamo da sempre condizionati naturalmente dal nostro corpo: lo sappiamo bene a livello individuale quando i ci ammaliamo anche in modo lieve; vorremmo poter correre come sempre, ma non possiamo, dobbiamo fermarci, perché abbiamo una incapacità funzionale.
Le ragioni del corpo umano, e soprattutto le relazioni tra la nostra salute individuale e l’assetto della società tutta, improvvisamente oggi si sono imposte con prepotenza. Ma nella società occidentale debolezze, fragilità, imperfezioni e malattie sono state accuratamente rimosse dalla percezione collettiva, per dare spazio all’immagine di un uomo moderno, sempre efficiente, sano, produttivo, positivo, quasi invincibile. Anche la gravidanza che rivoluziona il corpo della donna in una evoluzione fuori dal suo controllo personale, viene un po’ nascosta nei suoi aspetti più fisici e debilitanti: le limitazioni che comporta vengono percepite come debolezze personali e comunque di genere esclusivamente femminile, menomazioni compatite in uno stato d’eccezione “fuori” dalla regola comune.
Che dire dell’invecchiamento? nella nostra cultura occidentale gli anziani godono di visibilità solo in quanto “giovanili”, attivi ed allegri, sportivi e consumatori, meglio se ancora produttivi, cioè solo nella misura in cui possono confermare l’immagine di positività e di potenzialità quasi infinite del genere umano nella nostra società. Improvvisamente ora ci accorgiamo che con l’invecchiamento convivono spesso fragilità, debolezza, solitudine, e scopriamo che la vulnerabilità può appartenere anche ad altri gruppi di persone, affette da fattori di rischio che li rendono fragili. E che potenzialmente tutti siamo vulnerabili di fronte ad un virus patogeno.
Questa pandemia potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per una riflessione oltre che personale, generale della nostra cultura: una occasione per utilizzare al meglio tutte le nostre conoscenze e potenzialità di società occidentali a sviluppo avanzato, in modo da saperci adattare e riorganizzare di fronte alle possibili sfide del mondo esterno, non ultima la grossa sfida dell’emergenza climatica.
Nel mio breve intervento alla redazione aperta Via Dogana 3 del 13 dicembre, su piattaforma Zoom, ho detto «la mancanza alza il desiderio». Che cosa volevo dire? Prima di tutto che la vita, con tutti i suoi imprevisti, compreso il nostro confinamento forzato dovuto al Covid-19, affina i nostri desideri portandoli in alto, a volte fino a Dio. Questo me lo ha fatto pensare anche il recente scritto di Stefania Giannotti dal titolo “Il Dio delle donne” è di nuovo in libreria, pubblicato sul sito il 19 novembre 2020.
Infatti la mancanza ci scuote sempre, è un renderci conto, un incanalare le difficoltà e il dolore in un “oltre” capace di aprire grandi desideri che ho trovato espressi soprattutto nelle mistiche.
Per quanto mi riguarda la mancanza a cui mi hanno sottoposta le malattie, la vecchiaia e ora il Covid-19 mi ha condotta a cercare l’essenzialità del vivere. In questo caso non mi piace parlare di limiti perché, in quanto donna, nella vita di limiti ne ho dovuti subire anche troppi dalla cultura maschile dominante. Vivere nell’essenzialità è altra cosa: essa ci aiuta a non attaccarci alle cose, alle abitudini, a scoprire nuove possibilità e a contare su quest’ultime. Era dal 2013 che non avevo più messo piede nella Libreria in Via Calvi a Milano perché abito in un’altra città. Purtroppo, dopo quell’anno, sono stata sempre più impedita a camminare e a viaggiare. Il virus pandemico che vieta gli assembramenti e le riunioni mi ha aperto le porte della redazione aperta VD3 in digitale. Sono molti anni che grazie al computer io faccio molte cose, dal mantenere relazioni via mail, al fare la spesa al supermercato in quanto, ora come ora, non riesco a camminare più di cinquanta metri con le stampelle.
Quando ho saputo che la redazione aperta VD3 sarebbe stata fatta in digitale su piattaforma zoom, la mia felicità è stata grandissima e sono grata alle amiche della Libreria che si sono adoperate perché ciò si realizzasse. Certo, non condivido che la scuola si faccia in digitale, in questo caso la presenza fisica è indispensabile.
Ho detto che la mancanza può portare fino a Dio, ma in questo caso cambia il simbolico: non più l’onnipotente, ma il vero povero Cristo senza dimora che nasce in una mangiatoia, in una stalla trovata lungo la strada, mentre noi rimaniamo attaccati a tante cose al punto che la loro mancanza ci terrorizza, e alla liberazione dell’inutile preferiamo la tristezza di un consumismo da cui, malgrado tutto, non riusciamo a staccarci.
La mancanza ha a che fare con l’anima e con la differenza di essere donna. È cosa diversa dalla rinuncia e dal sacrificio. In definitiva, il senso di mancanza ci conduce al risveglio del desiderio, al bisogno di relazioni autentiche e libere, perché, come ha detto Ida Dominijanni nella sua relazione di apertura, «la libertà è relazionale».
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Quando Vita Cosentino, che ringrazio per la fiducia, mi ha chiesto se ero disponibile per un intervento introduttivo a questo incontro di Via Dogana, ho provato sgomento al pensiero di dover parlare di libertà; mi è venuto in aiuto il titolo dell’incontro “libertà in tempo di pandemia”. Ecco, quello che cercherò di dire sulla libertà deriva innanzitutto da come ho vissuto le limitazioni imposte dalla pandemia e poi dalle riflessioni che ne sono scaturite.
È un po’ deludente ammettere che ci voleva questa pandemia per fare emergere consapevolezze solitamente tenute in ombra.
Il virus Covid 19 ha inferto un duro colpo alla nostra presunzione, sbattendoci in faccia i limiti della nostra condizione umana e creando una situazione in cui ci è stata imposta una serie di limitazioni pesanti da accettare.
Penso alle reazioni, alcune scomposte, di chi ha vissuto queste giornate come violazione della propria libertà, addirittura come dittatura sanitaria. Dopo tutto, la pandemia ci ha portato a riconoscere quella che è la condizione naturale, normale, quotidiana di tutti noi esseri umani: quella di essere limitati, fragili, vulnerabili. Ho comunque l’impressione che di fronte a questo stato di limite c’è una particolare insofferenza maschile.
La pandemia ha anche evidenziato che siamo tutti/e interdipendenti, sia nel danneggiarci sia nell’aiutarci. Io posso continuare a vivere, anche se recluso in casa, perché ci sono tanti uomini e tante donne che me lo consentono continuando a fare il loro lavoro; ma c’è pure quell’interrelazione per cui uomini e donne possono diventare pericolosi per un possibile contagio, e se qualcuno/a si infetta e si ammala, prima o poi potrebbe capitare anche a me di ammalarmi per causa sua. Insomma gli/le altri/e possono essere sia fonte di limitazioni sia possibilità di superamento dei limiti.
Queste consapevolezze provocano immediatamente una riflessione sulla libertà e sul suo esercizio. In che misura le limitazioni e le interrelazioni sono un ostacolo, un impedimento della libertà?
Se penso alla libertà assoluta, come vaneggiano alcuni, i limiti mi dicono che essa non esiste; se penso che posso liberarmi dai limiti da me solo, facendo appello a un titanico volontarismo, rischio di finire nella disperazione. Un altro modo di pensare è quello di riconoscere di avere bisogno di altri e di altre perché mi possono aiutare, che questo aiuto può avvenire anche se non me ne accorgo. Si tratta però di prenderne coscienza e di provare gratitudine; il passo ulteriore è che, umilmente, conscio dei miei limiti, sia io a prendere l’iniziativa di chiedere aiuto ad altri e altre. È grazie al loro aiuto se conquisto spazi di libertà che prima non avevo.
La libertà è garantita e ampliata dal fatto che ci siano donne e uomini che scelgono di occuparsi delle e degli altri.
La cultura individualistica, ormai tanto diffusa, induce a considerare gli altri/e come un limite alla propria libertà. Ne è una traccia la convinzione che la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro/a. Per me non è così. Io penso invece che la mia libertà inizia dove inizia quella dell’altro/a. Cerco di spiegarmi.
Se io tollero l’esistenza di condizioni di vita in cui un altro/a non può essere libero/a, accetto di fatto che in quelle condizioni, fino a quando continueranno ad esistere, potrei trovarmi anch’io. Questo significa in pratica accettare di poter non essere libero.
In un mondo in cui milioni di esseri umani vivono nella mancanza di diritti fondamentali, non posso sentirmi libero perché al momento io non vivo quella situazione. E solo se mi capitasse di viverla capirei di non essere libero? Io, noi, siamo dei privilegiati. Essere dei privilegiati non è condizione di libertà, va piuttosto inteso come una precarietà favorevole, che una giusta ribellione degli svantaggiati e degli esclusi potrebbe farci perdere collocandoci in una situazione di minore libertà.
(Per inciso, con riferimento alla pandemia: se accetto che il vaccino non venga garantito a tutti, perché dovrebbe essere garantito a me? Solo se tutti sono liberi di accedere, anch’io ho la garanzia di essere libero di poterlo avere).
Non posso sentirmi libero se non c’è garanzia di libertà per tutti.
Un’altra riflessione. Le mie incapacità e insufficienze (comprese quelle temporanee che provengono da una malattia, da un contagio), fino a quando rimangono e non riesco a superarle, sono una limitazione della mia libertà, non so e non posso fare cose che altri sanno e possono fare. Posso però arrivare là dove, se fossi libero da quelle incapacità, vorrei arrivare, se incontro nell’altro/a chi mi aiuta a venirne fuori. Davvero inizia la mia libertà se l’altro/a sceglie con la sua libertà di venirmi incontro.
Lo stesso discorso vale nel caso di un’incapacità a vivere ed esprimere più pienamente la mia umanità, magari perché impedito da egoismo e individualismo, poco sensibile alla solidarietà. L‘incontro con qualcuno, più sovente è con qualcuna, che mi fa dono della sua attenzione, della sua sensibilità e generosità, può portarmi a sciogliere quei nodi e quei condizionamenti che mi rendono un po’ chiuso agli altri/e.
C’è un aspetto del tema libertà sul quale mi soffermo perché l’ho vissuto come esperienza proprio in questo tempo di pandemia: la mia libertà può fare esistere la tua, se so autolimitare la mia.
Io non ho vissuto il lockdown come un attentato alla libertà, ma come una limitazione accettata consapevolmente, quindi un’autolimitazione, per garantire il diritto alla salute e alla vita, oltre che a me, anche agli altri/e. È un’ulteriore conferma della nostra natura relazionale, di quanto dipendiamo gli uni dagli altri sia per farci del bene sia per farci del male. Anche fare del male è espressione di libertà, ma la si potrebbe limitare col pensiero che l’altro/a a sua volta potrebbe usare la sua libertà per fare del male a me.
Ritengo, dunque, che a volte l’autolimitazione è necessaria, se non vogliamo danneggiare nessuno, prima di tutti noi stessi.
Però la convinzione che, in questo tempo di pandemia, la libertà (ad es. di non essere infettati) sarebbe più garantita grazie a un’autolimitazione che ognuno sa fare della sua, non è convinzione sufficiente per vivere relazioni rispettose della reciproca libertà. Perché è una convinzione che si regge su principi quali la dignità, il valore di ogni essere umano, il riconoscimento reciproco dei diritti, tutte cose per altro affermate in dichiarazioni universali e in costituzione, che solo l’illusione di noi uomini può ritenere sufficienti a creare relazioni dove è riconosciuta e rispettata la libertà.
Non è così, la storia ce lo ricorda continuamente. Dobbiamo riconoscere i limiti pesanti della razionalità che alla ricerca di un ordine universale perde di vista le possibilità conoscitive dell’esperienza.
E l’esperienza dice che quella dinamica per cui fai agli altri/e quello che desideri che gli altri/e facciano a te, per attivarsi necessita che entrino in campo altre dimensioni dell’essere umano, che vanno oltre i principi e i diritti, dimensioni come quelle della compassione, dell’empatia, della tenerezza che si traducono poi nella cura, che in definitiva è un’espressione dell’amore.
Qui, però, devo anche fare i conti con le mie incapacità di uomo.
Sono più facilmente portato a fare riferimento a principi, a ricorrere a razionalizzazioni piuttosto che cimentarmi con pratiche politiche che mi renderebbero più capace di empatia. E queste pratiche politiche si apprendono proprio praticando le relazioni.
È vivendo le relazioni che imparo a praticare il principio del fare agli altri/e quello che desidero venga fatto a me, che acquisto quella sensibilità che mi fa capace di andare oltre alla razionalità.
È drammatico che ci accorgiamo della sofferenza degli altri/e quando soffriamo a nostra volta e ci aspettiamo ansiosamente che qualcuno/a si occupi di noi, ci dia attenzione e cura.
Dunque, l’esercizio della propria libertà condiziona ed è condizionato dalla libertà degli altri/e perché c’è una forte interrelazione tra tutti.
Mi sono posto l’interrogativo di come riesco a vivere le relazioni che condizionano.
Subisco con fastidio, quasi volendo scrollarmele di dosso, quelle che mi danno l’impressione di non portarmi niente ma di chiedermi invece tempo e spazio.
Accetto come dato di fatto, quasi con indifferenza, le relazioni con le persone dal cui servizio dipende la mia sopravvivenza e la possibilità di una qualità di vita, ad esempio con tutti i soggetti di mestieri e professioni che in fase di lockdown hanno continuato a lavorare (soprattutto medici e infermieri, donne e uomini naturalmente). Ha prevalso in me l’atteggiamento del dare per scontato piuttosto che una consapevole gratitudine.
Riflettendo, però, ho pensato che tutte queste relazioni, sia quelle subite sia quelle indifferenti, possono essere accolte invece come occasione di scambio di vita, di umanità. In tutte viene chiamata in gioco la mia libertà nella scelta di pensarmi più unito e solidale.
Avverto una carenza di libertà quando, pur disponibile a chi mi cerca, sono invece restio a cercare gli altri. È la cultura dell’autosufficienza (più maschile che femminile) che mi fa ritenere libero, mentre invece mi preclude l’apertura all’altro/a che amplierebbe i confini oltre i quali non c’è perdita ma guadagno.
Uno dei motivi per cui non ho sofferto particolarmente il lockdown è il fatto che più di tanto non ho patito la riduzione di relazioni; un po’ di solitudine e di isolamento non mi hanno disturbato; anche perché tendo ad essere piuttosto selettivo nelle relazioni e a soppesare tempi e spazi. C’è un’enorme differenza tra me e Adriana mia moglie. Mi accorgo di essere insofferente al tempo che lei dedica alle relazioni, vuoi con lunghe telefonate, vuoi con altrettanto lunghi colloqui in presenza. C’è in lei meno strumentalità nelle relazioni e sicuramente più cura, più amore e più libertà nel mantenerle e praticarle.
Queste riflessioni mi confermano che, quando sostengo ad esempio che la pratica delle relazioni è il modo innovativo di fare politica, di fatto sul tema relazioni ho un approccio un po’ intellettualistico, sorretto da principi e buone intenzioni, ma con scarsa pratica vitale, per cui libertà, solidarietà e cura sono forti convinzioni, ma sono poco e faticosamente praticate.
L’epidemia, con i conseguenti fenomeni economici e sociali, secondo me, ha inferto un altro colpo all’identità maschile, mostrandone una fragilità che si esprime anche con la depressione e la violenza, soprattutto verso le donne. Invece si è fatto avanti un soggetto femminile più libero, più sicuro di sé, più capace di fare fronte al disagio sociale.
Questa libertà femminile ha costretto ancora una volta noi uomini a relativizzarci rispetto alla pretesa di considerarci misura e regolamentazione di tutto, e di voler esercitare il potere per costruire un nostro ordine. Il relativizzarmi non lo vivo come una riduzione della libertà maschile, ma come possibilità per noi uomini di dare spazio ad altre dimensioni di sé.
La necessità di ridurre i contatti con l’esterno, soprattutto in regime di lockdown, mi ha posto in condizioni di dare più attenzione alla mia interiorità. Sollecitato anche da un confronto più continuo e inevitabile con Adriana, ho riflettuto più profondamente sul mio desiderio, che non è quello normalmente attribuito al maschio, ma quello che nasce dalla mia esigenza di vivere in pace con me e in armonia con gli altri/e e mi spinge verso un modo di stare al mondo in relazione con uomini e donne con libertà, in modo autonomo e non eterodiretto, consapevole della mia differenza maschile senza perdere me stesso, riuscendo a riconoscere e dialogare con la diversità dell’altro e con la differenza dell’altra.
Mi sono sentito autorizzato a introdurre il mio desiderio nella storia non dagli uomini, che anzi mi davano possibilità di essere visibile solo trovando collocazione nel loro ordine maschile, ma dalle donne che, sentendosi inadatte a quell’ordine, trovavano modi di esprimersi che creavano spazi in cui anche gli uomini, incominciando ad affacciarsi, sgretolavano le barriere del loro mondo.
Dunque posso pensarmi e progettarmi come il mio desiderio, libero da condizionamenti culturali di tipo patriarcale, mi spinge a essere.
Sono libero se mi sento libero, e mi sento libero quando posso vivere secondo il mio desiderio di pace e armonia con gli altri e le altre anche in questo tempo di pandemia e di restrizioni faticose da sopportare.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Voglio vedere in questo periodo del positivo: la libertà che le donne hanno agito ha portato e porterà a mutamenti sostanziali anche nella gestione della cosa pubblica. La pandemia ha reso evidente quello che in altri tempi in molti potevano fingere di non vedere.Perfino i media se ne sono accorti: alla fine del primo lockdown la rivista economica Forbes (una per tutte) ha titolato Cosa hanno in comune i paesi con le migliori risposte al Coronavirus? Le donne leader. Invece, negli stati occidentali, dove la pandemia dilaga, abbiamo al potere la concezione patriarcale dell’uomo solo al comando.
La risposta del leader maschio – uomo duro – è stata quella di minimizzare o negare la gravità della diffusione del contagio, ostentare sicurezza e fatalismo, da Bolsonaro a Putin, a Trump che, con spavalderia, è riuscito a ridicolizzare il virus. Oppure è stata quella di avere avuto comportamenti contraddittori, passando dall’immunità di gregge ai ripetuti lockdown, come il britannico Johnson. Il prossimo presidente statunitense Biden sembra voglia comportarsi diversamente, come ha già dimostrato durante la campagna elettorale: prendere molto sul serio la situazione. È quello che ha fatto sì che i paesi guidati da donne, molto diversi tra loro per condizioni geo-sociali e culturali, si siano distinti per l’efficacia nel contenere gli impatti del coronavirus.L’emergenza in cui siamo ha reso ancora più evidente la crisi dell’autorità gerarchica maschile che non funziona più: voce grossa, imposizioni, tentennamenti, passi indietro; mostrare i muscoli o negare l’innegabile, usare un linguaggio bellico o nascondersi dietro il cinismo non ha risolto la pandemia. Nella tragicità della situazione alcuni comportamenti maschili rasentano spesso il ridicolo. Nell’agire delle prime ministre, al contrario, sta emergendo un altro tipo di autorità. Quello che il pensiero politico delle donne ha elaborato (con Arendt): un’autorità che si scioglie dall’abbraccio del potere e, come vediamo da queste esperienze, che si coniuga con la libertà.Mi spiego con esempi tratti dalle cronache di questi giorni.Se analizziamo i comportamenti delle leadership femminili, pur con posizioni politiche diverse, (l’islandese Katrín Jakobsdóttir e Erna Solberg, norvegese, la finlandese Sanna Marin e Tsai IngWen di Taiwan, la danese Mette Frederiksen e Jacinda Ardern della Nuova Zelanda) troviamo che ci sono modalità simili nella gestione della pandemia. Approcci adeguati alle condizioni dei singoli paesi, ma che hanno in comune la presa d’atto fin dall’inizio che la questione è seria, da non negare né sottovalutare e se occorrono misure restrittive impopolari, contemporaneamente occorre rassicurare la popolazione e farla partecipe dello sforzo che si richiede, instaurando una comunicazione di fiducia. Le restrizioni, se ben spiegate, possono ricevere molto più seguito di norme puramente imposte.Queste donne hanno agito con autorità e prendendosi la loro libertà, riuscendo a costruire una narrazione che ha coinvolto la popolazione spingendola a collaborare.Per esempio hanno usato un linguaggio, consapevole dei limiti e delle difficoltà, che trasmettesse calma e sicurezza, molto diverso dal linguaggio urlato e volto alla prevaricazione di certi altri leader politici.È di qualche giorno fa la cancelliera tedesca Angela Merkel che tocca le emozioni sue e di chi l’ascolta, per chiedere maggior attenzione nell’evitare i contatti in occasione delle festività, ripetendo: «Mi dispiace, sono dispiaciuta nel mio cuore». I video sono pubblicati in rete.Per trovare una comunicazione empatica e di fiducia, la neozelandese Ardern si è resa disponibile a dirette face-book da casa, in veste non ufficiale. Comprendiamo come con orgoglio abbia dichiarato di aver creato un Team dei cinque milioni.Un’altra invenzione è stata pensare alle giovani creature non solo come pacchi da tenere a casa o mandare a scuola seguendo l’andamento di grafici e sondaggi. La premier conservatrice norvegese Erna Solberg dedica la sua attenzione anche ai piccoli, partecipando ad apposite conferenze stampa per rispondere a domande e curiosità, per rassicurarli nelle loro paure, aiutarli a superare le ansie e le difficoltà di questo periodo. Spiegazioni chiare e semplici che hanno prodotto benefici sullo stato psichico delle creature, ma anche dei loro genitori.E l’islandese Sanna Marin? Per raggiungere le generazioni più giovani poco avvezze a leggere i giornali o seguire la televisione si è rivolta a “influencer” sui social media per comunicare con loro.Con questi gesti di libertà queste leader si sganciano dal potere, agiscono la loro autorità mostrando che è possibile far nascere qualcosa di nuovo: hanno fatto cose che altri non hanno mai fatto. Il New York Times che non nomina né l’autorità né il potere, però scrive: «Per le donne potrebbe essere meno costoso in termini politici [operare come hanno operato] perché non devono violare nessuna norma percepita di genere per adottare politiche delicate o conservatrici». In altre parole hanno la consapevolezza che possono agire, nel mondo politico non pensato da loro, la propria autorità unita alla libertà. Hanno seguito quello che in quel momento sentivano come necessario, senza sottostare a ciò che è già prestabilito o a vincoli gerarchici. Questo ci può far pensare che agire con libertà possa essere positivo per affrontare anche altre emergenze come quella climatica o ambientale. E Jacinda Ardern ce ne fornisce subito una prova. Ai primi di dicembre, legandola alla pandemia, ha fatto approvare dal suo parlamento una dichiarazione di emergenza climatica per intraprendere azioni urgenti al fine di ridurre i gas serra e raggiungere entro il 2030 il 100% di energia proveniente da fonti rinnovabili. Ha detto: «La ripresa economica post COVID-19 rappresenta un’opportunità unica per la generazione di rimodellare il sistema energetico della Nuova Zelanda per renderlo più rinnovabile, più veloce, conveniente e sicuro».Faccio una citazione, un po’ più lontana nel tempo. Nel 2014, l’ex presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf si è trovata a guidare il suo paese durante la diffusione del virus ebola: «Non vedo nessuna contraddizione nell’essere empatici e umani ed essere buoni leader. Non è debolezza, è forza». In particolare allora aveva dovuto prendere una decisione molto difficile nei confronti della popolazione, cioè quella di cremare i corpi dei defunti per limitare la diffusione del virus, pratica però non ammessa nella tradizione buddista praticata dalla maggioranza delle persone nel paese. «Queste decisioni devono arrivare da compassione e comprensione per poter guadagnare il supporto del pubblico».In Italia la situazione mostra aspetti contradditori e domina l’incertezza.È vero che dopo il primo lockdown qualcosa è cambiato. Quel senso di solidarietà che, pur rimanendo distanti ci faceva sentire vicine, con forme esteriori come i canti dai balconi, ma anche con azioni concrete di aiuto ai più fragili, sembra essersi smarrito. In questi mesi molti hanno lavorato per “mettere in sicurezza” i locali, permettere la fruizione di mostre e musei, assistere agli spettacoli, perché la scuola potesse essere di nuovo frequentata senza timore per la salute propria e altrui.Aperture e chiusure si susseguono: l’economia ha ripreso il primato sulla vita e sulla società.Ora chi è nel commercio, chi opera nella ristorazione e nel settore alberghiero, nello spettacolo e nella cultura in generale, studenti e insegnanti protestano perché le norme cui devono sottostare, sono poco chiare, decise dall’oggi al domani. La mancanza di cooperazione tra istituzioni sta portando a tanti livelli di opposizione alle norme imposte dal governo a cui si aggiunge la non numerosa ma rumorosa protesta di chi rifiuta ogni regola, in nome di una libertà individuale per niente attenta agli altri e alle altre. Prevale ancora, forse per comodo, una concezione gerarchica dell’autorità: o si ubbidisce o si disubbidisce a regole che sono piegate a interessi personali in un gioco perverso che mette a repentaglio la vita.I rappresentanti delle istituzioni periferiche entrano in contrasto con i poteri centrali. Un mostrare i muscoli che favorisce il diffondersi della sfiducia, l’emergere di singoli interessi, il venir meno della gratitudine per coloro che si stanno ancora spendendo per tutte e tutti noi. Vediamo in questi giorni il presidente della Regione Lombardia, che impone regole rigidissime che poi invita a non rispettare.I media enfatizzano comportamenti negativi (assembramenti, fughe di massa dalle città, manifestazioni no-mask) che generano in parte della popolazione ansia e paura.È il racconto però di una parte di realtà. Le persone sono in genere più responsabili di quanto si racconti: c’è molta attenzione nel seguire le norme del distanziamento, della sanificazione… per proteggere e proteggersi. Inoltre non è mai smessa in questi mesi l’attività di associazioni di uomini e donne, giovani o meno che alleviano i disagi di chi non ha più lavoro o che comunque fa fatica a sostenersi. Anzi nuove iniziative si aggiungono a quelle già collaudate. Un esempio: recentemente ha preso il via a Milano un progetto già presente in altre città, il Sabato-Salvacibo, contro lo spreco alimentare; raccogliendo il non venduto dai mercati cittadini, si confezionano e distribuiscono pacchi di beni indispensabili a chi per la pandemia non ha più un reddito. Si agisce nell’immediato per venire incontro alle difficoltà di sopravvivenza, ma si mette in circolo anche un’azione virtuosa che va nell’ordine dell’economia circolare e della difesa dell’ambiente.In altri paesi le leader hanno operato in modo chiaro, perché hanno agito la loro autorità nella relazione concreta, quella che dà misura, ottenendo dalla popolazione adesione e appoggio per debellare il virus.Da noi vediamo che gran parte della classe dirigente è divisa, più attenta ai giochi di potere e alla facile popolarità guadagnata nelle piazze. La Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha dovuto ricordare che «l’attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni e Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza». Possiamo però vedere due atteggiamenti che escono dalla logica della contrapposizione: uno è cercare, con un lungo lavorio, di mediare fra interessi diversi come fa il capo del governo, l’altro è di esporsi, come fa il ministro della salute, con autorevole fermezza, dicendo le cose come stanno, e che le misure prese segnano la necessità di non sottovalutare quello che sta accadendo.E in futuro cosa si preannuncia? Si parla di vaccinazione: renderla obbligatoria o affidarsi al senso di responsabilità? C’è la libertà di non vaccinarsi, ma anche il dovere di non danneggiare chi è vicino… Ancora una volta: quale libertà?Il modello gerarchico patriarcale si basa sulla riproposizione di dettami, controlli, sanzioni che denotano una crisi di autorità e favoriscono la ribellione. Nella situazione in cui siamo, la trasgressione fine a se stessa è un fattore che impedisce la nostra stessa libertà. Le restrizioni nel movimento provocano disagi fisici e psichici, personali e sociali, ma abbiamo visto che il movimento fisico di chi ha contratto, anche in forma lieve il virus, ha provocato focolai che hanno messo in crisi il sistema sanitario. La libertà è un’esperienza che non deriva dalla trasgressione di regole imposte, ma ha un carattere relazionale e intraumano, essere gli uni per gli altri la possibilità di un nuovo inizio.
Intervento audio di Ida Dominijanni
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Domenica 13 dicembre 2020, ore 10.00 – 13.30
L’incontro si svolgerà online attraverso un collegamento su Zoom. Per prenotarvi scrivete a: info@libreriadelledonne.it (indicando nell’oggetto: “Prenotazione ViaDogana3 – 13 dicembre 2020”). La sera prima riceverete il link per partecipare.
Una nuova ondata di pandemia sta dilagando in Occidente, spesso accompagnata da una rivendicazione del diritto alla libertà personale che si esprime con raduni no mask o con la trasgressione di qualunque norma anticovid.
L’unica democrazia occidentale in cui questo non succede è la Nuova Zelanda. La presidente Jacinda Ardern ci sta dando una lezione su come gestire la crisi: ha puntato sulla fiducia e sulla responsabilità, ha fatto circolare autorità creando il “team dei cinque milioni”, cioè ha fatto sentire alla popolazione tutta di essere impegnata a contrastare la pandemia. C’entra che è una donna?
Negli ultimi decenni, senza tanto gridare e senza tanto rivendicare, le donne si sono conquistate la loro libertà. Oggi ci sono e pensano e parlano.
In Italia, mentre a marzo era emerso un “sentire comune” e un senso di riconoscenza nei confronti del personale sanitario, ora serpeggiano sfiducia, rabbia e un individualismo che contrappone categorie, fasce di età, interessi economici in nome della libertà. Che cosa è successo?
In questione, secondo noi, è la concezione stessa della libertà e la sua traduzione in pratica politica: dalla versione classica dell’individualismo liberale, al suo aggiornamento neoliberista, alla torsione operata dal sovranismo trumpiano.
In tempo di pandemia, vogliamo reinterrogarci sulla libertà, a partire dal fatto che il movimento delle donne l’ha ridefinita come “libertà relazionale”, trasformativa di un agire individuale e collettivo e capace di fare i conti con la necessità.
Introducono Ida Dominijanni, Marco Cazzaniga, Marina Santini.
Le serie televisive stanno prendendo sempre più spazio. Sono dei film che hanno durata più lunga e permettono uno svolgimento, in alcuni casi, travolgente. C’è chi in questi tempi di vacanze forzate va a letto alle 3 di mattina per avere visto tutti gli episodi concentrati in una sola visione. Registe di grande bravura, registi, attori e attrici trovano da anni, come sappiamo, modalità di impiego della loro creatività proprio nelle serie. Per non parlare dei prestiti letterari e delle sceneggiature di cui si avvalgono. Fra quelle italiane L’amica geniale è stata un serie bellissima tratta dai romanzi di Elena Ferrante.
The Marvelous Mrs Meisel ovvero La favolosa signora Meisel è la serie scritta, prodotta e diretta da Amy Stewart Palladino con la collaborazione del marito D. Palladino. La sua creatrice è nota per altre serie famose come Una mamma per amica.
Mrs Meisel è la più divertente intelligente e femminista (senza pesi ideologici) serie che abbia visto.
La quarta stagione è già prevista, ma per ora non è entrata in produzione causa Covid. In Italia sono state distribuite tre stagioni quindi 24 episodi di 57’. Il sito di streaming che la trasmette è Amazon Video Prime.
Le protagoniste sono le donne. Prima fra tutte c’è Mrs Meisel, Midge, alla nascita Miriam. Casalinga dell’upper class, laureata in letteratura russa, non ha ancora 30 anni, un marito e due figli; non lavora e segue il marito che quando smonta dall’ufficio si esibisce in un locale alternativo come cabarettista.
Lo humor è quello ebraico, il witz è quello del ridersi addosso comprendendo la famiglia le tradizioni la propria storia, fra malinconia e sarcasmo. Midge però è dotata di suo. Quando il marito fallisce in una serata e non sentendosi più all’altezza della moglie la lascia per la segretaria, lei, dopo avere visto la sua vita felice rivoltarsi a 360°, una sera alticcia sale sullo stesso palco del Gaslight e squaderna tutto il suo humor dissacrante. Ha successo, tanto che addirittura l’arrestano, ma attira l’attenzione di Susie Meyerson, una spigolosa butch sempre in abiti maschili, che paga la cauzione, la tira fuori di galera e si offre di diventare la sua manager.
Comincia così la nuova vita di Mrs Meisel e di Susie. Siamo nel 1958 e Mrs Meisel, sempre inappuntabile con tacchi, abito elegante, soprabito, guanti e cappellino, insieme alla manager Susie inizia la sua carriera di comedian, di comica.
Una storia appassionante che mi ha coinvolto fino all’80° episodio della terza stagione.
La relazione fra le due donne è straordinaria, molto divertente, piena di battute e di situazioni strane, verosimile e vincente perché arriveranno fino alla meta, anche se tutto è ancora da capire dopo la terza stagione.
Le recensioni dedicate alla serie, tutte molto positive, depotenziano la centralità del rapporto fra le due, che la loro autrice ha invece messo al centro della narrazione. Questa relazione é il luogo di spiegazione di tutto quello che avviene, non solo la premonizione della coppia butch-femmes non ancora cosciente di esserlo, prima di Stonewall.
C’è un progetto di riuscita sociale che le unisce ma anche la spinta alla creazione di un linguaggio che fa parlare per la prima volta le vite delle donne. L’aveva detto Carolyn G. Heilbrun. Le poetesse americane negli anni ’60 fanno parlare senza reticenze la vita delle donne. È l’autocoscienza, il consciousness raising che per la prima volta esce allo scoperto. Mrs Meisel e Susie le danno parola, divertendo, rovesciando l’idea che solo gli uomini fanno ridere.
Mi hanno fatto venire in mente una grande italiana autrice e interprete dell’esistenza femminile, Franca Valeri.
In La favolosa Mrs Meisel senza melodramma, senza alzare cartelli, rivendicare diritti, il femminismo prende parola attraverso quella strana coppia, nell’intesa che le tiene insieme. Il motto che sancisce il patto è “Tit up”. Ogni volta che Midge sale in scena le due compagne ripetono la frase benaugurante “Tit up”, “petto in fuori”, quindi “coraggio”.
Mrs Meisel forse nasce dalla stessa ispirazione di Lucy, interpretata da Lucille Ball, nella serie Lucy e io che uscì dal 1951 al 1957. Lei è una casalinga pasticciona e divertente che mi divertiva un mondo quando ero bambina. La trasmettevano anche in Italia sull’unica televisione che allora esistesse, la RAI a canale unico in bianco e nero. L’adoravo perché di traverso ci vedevo mia madre che guardandola in controluce era altrettanto comica, nonostante fosse una mamma italiana molto seria con molte idee geniali.
Mrs Meisel però decide che il suo teatro non sarà più solo la casa, e con questo passo laterale la sua creatrice ci offre l’occasione di pensare.
C’è una differenza che prende le distanze dalle fiction sull’emancipazione femminile, anche dirette da donne. Giornaliste in erba toccano il cielo con un dito per avere ottenuto la sedia a un tavolo di redazione, diretto dalla solita signora spietata con i tacchi a spillo, a modello dell’imperitura direttrice di Il Diavolo veste Prada.
In Mrs Meisel il sottotesto include tutte: oltre la scena fissa del racconto, c’è il desiderio di parlare di sé, di mettere in scena la soggettività femminile, c’è la ricerca di un linguaggio che spiazza, con lo humor, sottratto agli stereotipi sulle donne, ma anche alle modalità maschili di esprimersi, un linguaggio che cambia nella ricerca di comunicazione e invita tutte a parteciparvi.